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STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 11 II SEMESTRE A.A. 2017-2018

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STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 11

II SEMESTRE

A.A. 2017-2018

George Sorel, Riflessioni sulla violenza:

«Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si figurano le

loro future azioni sotto forma di immagini di battaglie per assicurare il

trionfo della loro causa. Io proponevo di chiamar ‘miti’ tali costruzioni,

la cui comprensione è di così alta importanza per lo storico: in questo

senso, lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica

di Marx sono miti. Come esempi notevoli di miti ho dato quelli costruiti

dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Rivoluzione, dai

mazziniani; ciò che volevo mostrare è che non bisogna cercare di

analizzare un tale sistema di immagini allo stesso modo che si scompone

una cosa nei suoi elementi; e che, invece, bisogna prenderli nel loro

insieme, come energie storiche; e guardarsi, soprattutto, dal confrontare

i fatti compiuti con le rappresentazioni fantastiche formatesi prima

dell’azione».

George Sorel, Riflessioni sulla violenza:

Un mito non troverebbe possibilità di essere

rifiutato, poiché esso è, nell’insieme,

identico alle convinzioni di un gruppo, ed è

l’espressione di queste convinzioni in

linguaggio di movimento, e quindi, per

conseguenza, non è scomponibile in parti, le

quali si possano applicare su di un piano di

descrizioni storiche.

George Sorel, Riflessioni sulla viiolenza:

il socialismo è diventato una preparazione delle masse impiegate dalla

grande industria, le quali vogliono sopprimere lo Stato e la società; da

ora in avanti il modo in cui gli uomini si adopereranno per godere la

felicità futura non sarà più oggetto di ricerca; tutto si riduce

all’apprendistato rivoluzionario del proletariato. Disgraziatamente Marx

non aveva sotto gli occhi i fatti che ci sono divenuti familiari; noi

sappiamo meglio di lui ciò che sono gli scioperi, perché abbiamo potuto

osservare conflitti economici considerevoli per estensione e durata; il

mito dello sciopero generale è divenuto popolare ed ha fatto solida presa

nei cervelli; in fatto di violenza noi abbiamo delle idee che Marx non

avrebbe potuto formarsi facilmente; noi dunque possiamo completare la

sua dottrina, invece di commentare i suoi testi come per tanto tempo

hanno fatto dei malfortunati discepoli.

George Sorel, Riflessioni sulla violenza:

Oggi la fiducia dei socialisti è più grande che mai da quando

il mito dello sciopero generale domina tutto il movimento

realmente operaio. Un insuccesso non può provare niente

contro il socialismo dopo che esso è divenuto un lavoro di

preparazione; se viene sconfitto, ciò vuol dire che la

preparazione è stata insufficiente; bisogna rimettersi

all’opera con più coraggio, più insistenza, più fiducia che

mai; la pratica del lavoro ha insegnato agli operai che è

mediante un paziente apprendistato che si può divenire un

vero compagno; ed è anche la sola maniera per divenire un

vero rivoluzionario…

George Sorel, Riflessioni sulla violenza:

Sappiamo che lo sciopero generale è proprio ciò che ho

detto: il mito nel quale si racchiude tutto intero il socialismo,

cioè a dire una organizzazione di immagini capaci di evocare

istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle

diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo

contro la società moderna. Gli scioperi hanno fatto nascere

nel proletariato i sentimenti più nobili, più profondi e più

stimolanti all’azione che esso possiede; lo sciopero generle li

raggruppa tutti in un quadro d’insieme e, con il loro

raccostamento, dona a ciascuno di essi la su

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Per Marx le “ideologie” sono tutt’altro che illusioni e apparenza; sono una

realtà oggettiva ed operante, ma non sono la molla della storia, ecco tutto. […]

Marx afferma esplicitamente che gli uomini prendono coscienza dei loro

compiti nel terreno ideologico, delle superstrutture, il che non è piccola

affermazione di “realtà”. […]Questo argomento del valore concreto delle

superstrutture in Marx dovrebbe essere bene studiato. Ricordare il concetto di

Sorel del “blocco storico”. Se gli uomini prendono coscienza del loro compito

nel terreno delle superstrutture, ciò significa che tra struttura e superstrutture c’è

un nesso necessario e vitale, così come nel corpo umano tra la pelle e lo

scheletro: si direbbe uno sproposito se si affermasse che l’uomo si mantiene

eretto sulla pelle e non sullo scheletro, e tuttavia ciò non significa che la pelle

sia una cosa apparente e illusoria, tanto è vero che non è molto gradevole la

situazione dell’uomo scorticato».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Il lavoratore medio opera praticamente, ma non ha una chiara

coscienza teorica di questo suo operare-conoscere il mondo; la sua

coscienza teorica anzi può essere “storicamente” in contrasto col suo

operare. Egli cioè avrà due coscienze teoriche, una implicita nel suo

operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella

trasformazione pratica del mondo, e una “esplicita”, superficiale, che

ha ereditato dal passato. La posizione pratico-teorica, in tale caso,

non può non diventare “politica” cioè quistione di “egemonia”. La

coscienza di essere parte della forza egemonica (cioè la coscienza

politica) è la prima fase di una ulteriore e progressiva autocoscienza,

cioè di unificazione della pratica e della teoria».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Evidentemente è impossibile una “statistica” dei modi di pensare e

delle singole opinioni individuali, che dia un quadro organico e

sistematico: non rimane che la revisione della letteratura più diffusa e

più popolare combinata con lo studio e la critica delle correnti

ideologiche precedenti, ognuna delle quali “può” aver lasciato un

sedimento, variamente combinatosi con quelli precedenti e susseguenti.

In questo stesso ordine di osservazioni si inserisce un criterio più

generale: i mutamenti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle

opinioni, non avvengono per “esplosioni” rapide e generalizzate,

avvengono per lo più per “combinazioni successive” secondo “formule”

disparatissime. […] nella sfera della cultura i diversi strati ideologici si

combinano variamente e ciò che è diventato “ferravecchio” nella città è

ancora “utensile” in provincia»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Ogni strato sociale ha il suo “senso comune” che è in fondo la

concezione della vita e la morale più diffusa. Ogni corrente

filosofica lascia una sedimentazione di “senso comune”: è questo

il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è

qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente,

arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate

nel costume. Il “senso comune” è il folklore della “filosofia” e sta

di mezzo tra il “folklore” vero e proprio (cioè come è inteso) e la

filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il “senso

comune” crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita

di un certo tempo e luogo».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Poiché “pare”, per uno strano capovolgimento delle prospettive,

che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evoluzione

dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita

“scientifica” solo se e in quanto abilita astrattamente a

“prevedere” l’avvenire della società. Quindi la ricerca delle cause

essenziali, anzi della “causa prima”, della “causa delle cause”. Ma

le “Tesi su Feuerbach” avevano già criticato anticipatamente

questa concezione semplicistica. In realtà si può prevedere

“scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di

essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in

continuo movimento».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Il materialismo storico è il

coronamento di tutto questo movimento

di riforma intellettuale e morale, nella

sua dialettica cultura popolare – alta

cultura. Corrisponde alla Riforma +

Rivoluzione francese, universalità +

politica»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi

puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e

oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo».

«Si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-

massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro: si

trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della

scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi

storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una

filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato

mondialmente»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Ho notato altra volta che in una determinata società

nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si

intendano organizzazione e partito in senso largo e non

formale. In questa molteplicità di società particolari, di

carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario,

una o più prevalgono relativamente o assolutamente,

costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale

sul resto della popolazione (o società civile), base dello

Stato inteso strettamente come apparato governativo-

coercitivo».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

Stato =

società politica + società civile,

egemonia corazzata di coercizione

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

Lo Stato «di solito è inteso come Società politica (o

dittatura, o apparato coercitivo per conformare la

massa popolare secondo i tipo di produzione e

l’economia di un momento dato) e non come un

equilibrio della Società politica con la Società civile

(o egemonia di un gruppo sociale sull’intiera società

nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così

dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole,

ecc.»

Antonio Gramsci, La quistione meridionale:

«Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve

spogliarsi di ogni residuo corporativo, di ogni pregiudizio o

incrostazione sindacalista. (…) Occorre, per conquistarsi la fiducia e il

consenso dei contadini e di alcune categorie semiproletarie della città,

superare alcuni pregiudizi e vincere certi egoismi. (…) Il metallurgico, il

falegname, l’edile ecc. devono non solo pensare come proletari e non

più come metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un

passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe che

tende a dirigere i contadini e gli intellettuali (…). Se non si ottiene ciò, il

proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in Italia

rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la

direzione borghese, danno allo Stato la possibilità di resistere all’impeto

proletario e di fiaccarlo».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:

«Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto

passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse,

è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano

“partito”, vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una

sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a

prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area sociale,

determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici,

anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni

intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un

piano “universale” e creando così l’egemonia di un gruppo sociale

fondamentale su una serie di gruppi subordinati».

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 12

II SEMESTRE

A.A. 2017-2018

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Bisognerà forse (…) prendere in considerazione la

sorprendente possibilità che l'interesse del diritto a

monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola

non si spieghi con l'intenzione di salvaguardare i fini

giuridici, ma piuttosto con quella di salvaguardare il

diritto stesso. E che la violenza, quando non è in

possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti

per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa

persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del

diritto.

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):Per quanto possa sembrare a prima vista paradossale, si può definire, in certe condizioni,

come violenza anche un contegno assunto nell'esercizio di un diritto. E precisamente questo

contegno, ove sia attivo, potrà dirsi violenza, quando esercita un diritto che gli compete per

rovesciare l’ordinamento giuridico in virtù del quale esso gli è conferito; ove sia passivo,

potrà essere definito allo stesso modo, se rappresenta un ricatto nel senso delle considerazioni

precedenti. Testimonia quindi solo di una contraddizione oggettiva nelle situazione giuridica.

e non già di una contraddizione logica nel diritto che esso si opponga, in certe condizioni, con

la violenza alla violenza degli scioperanti. Poiché nello sciopero lo Stato teme, più di ogni

altra cosa, quella funzione della violenza che questa indagine si propone appunto di

determinare come unico fondamento sicuro della sua critica. Poiché se la violenza, come

sembra a prima vista, fosse semplicemente il mezzo di assicurarsi direttamente di quella cosa

qualunque a cui si mira. essa potrebbe assolvere al suo scopo solo come violenza di rapina. E

sarebbe affatto inetta a fondare o modificare rapporti in modo relativamente stabile. Ma lo

sciopero mostra che essa può farlo, che essa è in grado di fondare e modificare rapporti

giuridici, per quanto il sentimento di giustizia possa restarne offeso…

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Ogni violenza (Gewalt) è, come mezzo,

potere che pone o che conserva il diritto. Se

non pretende a nessuno di questi due

attributi rinuncia da sé a ogni validità. Ma

ne consegue che ogni violenza come mezzo

partecipa, anche nel caso piú favorevole,

alla problematicità del diritto in generale.

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Poiché il diritto positivo, dove è consapevole delle sue radici, pretenderà

senz’altro di riconoscere e di promuovere l'interesse dell'umanità nella

persona di ogni singolo. Esso vede questo interesse nell'esposizione e nella

conservazione di un ordine stabilito dal destino. E anche se quest'ordine

(che il diritto afferma a ragione di custodire) non può sfuggire alla critica

resta tuttavia impotente, nei suoi confronti, ogni contestazione che si affacci

solo in nome di una «libertà» informe, senza essere in grado di definire

quell'ordine superiore di libertà. E tanto più impotente se non impugna

l'ordinamento giuridico stesso in tutte le sue parti, ma singole leggi o

consuetudini giuridiche, che poi, del resto, il diritto prende sotto la custodia

del suo potere che consiste in ciò che c’è un solo destino e che proprio ciò

che esiste e soprattutto ciò che minaccia, appartiene irrevocabilmente al suo

ordinamento. Poiché il potere che conserva il diritto è quello che

minaccia…

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

La funzione della violenza nella creazione giuridica è (…) duplice

nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che

viene instaurato come diritto, come scopo, con la violenza come

mezzo, pure – nell’atto di insediare come diritto lo scopo

perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in

senso stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto,

in quanto insedia come diritto, col nome di potere (Macht), non

già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma

intimamente e necessariamente legato ad essa. Creazione di diritto

è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata

manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità

divina, potere il principio di ogni diritto mitico.

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Lungi dall’aprirci una sfera più pura, la manifestazione mitica della

violenza immediata si rivela profondamente identica ad ogni potere

giuridico, e trasforma il sospetto della sua problematicità nella certezza

della perniciosità della sua funzione storica, che si tratta quindi di

distruggere. E questo compito pone, in ultima istanza, ancora una volta

il problema di una violenza pura immediata, che possa arrestare il corso

della mitica. Come in tutti i campi al mito Dio, così, alla violenza

mitica, si oppone quella divina, che ne costituisce l’antitesi in ogni

punto. Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se

quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza

mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe,

questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue…

W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):

Il sangue è il simbolo della nuda vita. La dissoluzione

della violenza giuridica risale quindi (…) alla

colpevolezza della nuda vita naturale, che affida il

vivente, innocente e infelice, al castigo, che ‘espia’ la sua

colpa – e purga anche il colpevole, non però da una

colpa, ma dal diritto. Poiché con la nuda vita cessa l

dominio del diritto sul vivente. La violenza mitica è

violenza sanguinosa sulla nuda vita in nome della

violenza: la pura violenza divina sopra ogni vita in nome

del vivente.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 13

II SEMESTRE

A.A. 2017-2018

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Il metodo dialettico è la predominanza metodologica

della totalità sui momenti particolari. (…) La totalità

concreta è la categoria autentica della realtà. (…) La

considerazione della genesi della intellegibilità di un

oggetto a partire dalla sua funzione nella totalità

determinata (…) fa della concezione dialettica della

totalità la sola che comprenda la realtà come divenire

sociale.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla

scienza borghese non è il predominio delle motivazioni

economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di

vista della totalità. La categoria della totalità, il dominio

determinante e onnilaterale dell’intero sulle parti è

l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel

riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base

di una scienza interamente nuova…

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Il dominio della categoria della totalità è il veicolo del

principio rivoluzionario della scienza. E’ solo in Marx che

la dialettica hegeliana è diventata, secondo l’espressione di

Herzen, un’algebra della rivoluzione. Ma essa non lo è

diventata semplicemente per il rovesciamento

materialistico. Piuttosto il principio rivoluzionario della

dialettica hegeliana ha potuto manifestarsi in e per questo

rovesciamento perché è stata salvata l’essenza del metodo,

cioè il punto di vista della totalità (…) inteso come unità

del pensiero e della storia.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Il metodo dialettico di Marx mira alla conoscenza

della società come totalità. Per il marxismo non

c’è dunque in ultima analisi una scienza

giuridica, una economia politica, una storia, ecc.

autonome: c’è una sola scienza, storia e

dialettica, unica e unitaria dello sviluppo della

società come totalità. (…) Totalità tanto come

oggetto posto che come soggetto ponente.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

L’empirismo crede di poter trovare un fatto importante

in ogni dato, in ogni statistica, in ogni factum brutum

della vita economica. Ed esso non si rende conto che

l’enumerazione più semplice, la catalogazione di “fatti”

più scarna di commenti è già un’ “interpretazione”; che

già fin d’ora i fatti sono appresi a partire da una teoria,

secondo un metodo; che sono stati strappati alla

connessione vitale in cui originariamente erano inseriti e

sono stati introdotti nel contesto di una teoria.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Il marxismo ha perso la capacità di vedere la totalità della

società come totalità storica concreta, di intendere le forme

reificate come processi tra uomini di portare positivamente

alla coscienza e trasformare in prassi il senso immanente

dell’evoluzione che si manifesta negativamente nelle

contraddizioni della forma astratta della esistenza. Se in tale

ideologia il principio dell’uomo come valore, come ideale,

come imperativo morale, ecc. ha un ruolo sempre più

importante (…), questo non è che un sintomo della ricaduta

nella immediatezza borghese reificata.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

In opposizione all’accettazione dogmatica di una

realtà semplicemente data ed estranea al soggetto,

nasce l’esigenza di comprendere, a partire dal

soggetto-oggetto identico, ogni dato come

prodotto di questo soggetto-oggetto, ogni dualità

come caso particolare derivato da questa unità

primitiva. Ora questa unità e attività.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Solo l’unità del soggetto e dell’oggetto, del pensiero e

dell’essere che la prassi ha intrapreso a provare e a

dimostrare, trova realmente il luogo della sua realizzazione

e del suo sostrato nella unità tra la genesi delle

determinazioni pensate e la storia del divenire della realtà.

Tale unità può tuttavia essere compresa come unità a

condizione che non solo il luogo metodologico della

soluzione possibile sia indicato nella storia, ma anche che

il noi – soggetto della storia – e la cui azione è la storia

reale – possa essere concretamente mostrato.

G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:

Nella misura in cui la coscienza viene riferita all’intero della

società, si riconoscono quelle idee, sentimenti, ecc. che gli

uomini avrebbero avuto in una determinata situazione di vita,

se fossero stati in grado di cogliere pienamente questa

situazione, e gli interessi da essa emergenti, sia in rapporto

all’agire immediato, sia in rapporto alla struttura – conforme

a questi interessi – dell’intera società… Ora, la coscienza di

classe è la reazione razionalmente adeguata che viene in

questo modo attribuita di diritto a una determinata posizione

tipica nel processo di produzione.

G. Lukàcs, Prefazione a Storia e coscienza

di classe (1967):

Il proletariato come soggetto-oggetto identico

della storia dell’umanità non è quindi una

realizzazione materialistica che sia in grado di

superare le costruzioni intellettuali idealistiche: si

tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di

Hegel, di una costruzione che intende

oggettivamente oltrepassare il maestro stesso

nell’audacia con cui si eleva con il pensiero al di

sopra di qualsiasi realtà.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 15

II SEMESTRE

A.A. 2017-2018

La Scuola di Francoforte:

Max Horkheimer

Theodor W. Adorno

Herbert Marcuse

Erich Fromm

Walter Benjamin

Max Horkheimer, Crepuscolo (1926-31):

«Non so in che misura i metafisici abbiano

ragione, forse da qualche parte esiste

davvero un sistema o un frammento

metafisico particolarmente calzante, so però

che di solito i metafisici sono solo

scarsamente impressionati da ciò che

tormenta gli uomini»

Max Horkheimer, L’Istituto per la ricerca

sociale e la sua rivista (1932):

Le indagini sugli ambiti di realtà e sui livelli di astrazione più diversi

che [la formula «ricerca sociale»] sta qui a indicare, trovano la loro

istanza unitaria nel doveroso intento di fornire un contributo alla

teoria della società contemporanea nel suo complesso. Questo

principio unificatore (…) distingue la ricerca sociale (…) tanto dalla

mera descrizione dei fatti, quanto da costruzioni estranee all’empiria.

Essa aspira a una conoscenza dell’intero corso della società e

presuppone, perciò, che sotto la caotica superficie degli eventi sia

data conoscere una struttura di potenze attive afferrabili per via

concettuale. Per la ricerca sociale la storia non è la manifestazione

del semplice arbitrio, bensì una dinamica retta da leggi: la sua

conoscenza è pertanto una scienza…

Max Horkheimer, L’Istituto per la ricerca

sociale e la sua rivista (1932):

Nel collegarsi ai risultati provvisori delle singole discipline, si distingue

però dalla riflessione filosofica tra l’altro anche perché cerca di fare un

uso fecondo, per i propri scopi, di pensieri che possono ancora

contenere in sé dei problemi non chiariti da un punto di vista logico.

(…) Ciò non implica, tuttavia, che un esame delle cosiddette questioni

filosofiche e di quelle legate a una visione del mondo esuli dal suo

ambito di interesse: l’elemento decisivo nella scelta dei suoi oggetti non

è l’appartenenza a una determinata disciplina, ma l’importanza per la

teoria della società.

Nonostante abbiano entrambi di mira il problema della società, la

ricerca sociale non coincide nemmeno con la sociologia come scienza

specialistica, perché rinviene gli oggetti della propria indagine anche in

ambiti non sociologici…

Max Horkheimer, L’Istituto per la ricerca

sociale e la sua rivista (1932):

Nel collegarsi ai risultati provvisori delle singole discipline, si distingue

però dalla riflessione filosofica tra l’altro anche perché cerca di fare un

uso fecondo, per i propri scopi, di pensieri che possono ancora

contenere in sé dei problemi non chiariti da un punto di vista logico.

(…) Ciò non implica, tuttavia, che un esame delle cosiddette questioni

filosofiche e di quelle legate a una visione del mondo esuli dal suo

ambito di interesse: l’elemento decisivo nella scelta dei suoi oggetti non

è l’appartenenza a una determinata disciplina, ma l’importanza per la

teoria della società.

Nonostante abbiano entrambi di mira il problema della società, la

ricerca sociale non coincide nemmeno con la sociologia come scienza

specialistica, perché rinviene gli oggetti della propria indagine anche in

ambiti non sociologici…

Max Horkheimer, L’Istituto per la ricerca

sociale e la sua rivista (1932):

Tra i problemi specifici della ricerca sociale spicca la questione del

nesso tra i singoli ambiti culturali, della loro dipendenza reciproca, delle

leggi che regolano il loro cambiamento. Uno dei compiti più penetranti

per risolvere tale questione consiste nel dare forma a una psicologia

sociale all’altezza dei bisogni della storia. Promuoverla sarà uno dei

compiti peculiari della rivista…

La ricerca sociale si distingue da tutte le imprese intellettuali improntate

alla massima generalità o alla massima ampiezza dello sguardo per il

fatto di mirare alla realtà umana del presente. Non eviterà il ricorso a

concetti riassuntivi e a presupposti teoretici di ogni sorta ma, al

contrario di ampie correnti della metafisica contemporanea, le sue

categorie non escluderanno l’ulteriore chiarimento e la legittima

confutazione da parte della ricerca empirica.

Max Horkheimer, Teoria tradizionale e

teoria critica:

L’obiettivo della teoria tradizionale è sempre stato la

formulazione di principi generali internamente coerenti

che descrivessero il mondo. Sebbene scopo della teoria

tradizionale sia stato sempre la pura conoscenza, più che

l’azione, nella misura in cui essa consente di prevedere e

controllare teoricamente processi naturali e sociali nel

loro complesso, tradisce il riferimento ad un nesso di

azione che ha come fine il dominio tecnologico sia della

natura fisica che di determinati processi economici e

sociali.

Max Horkheimer, Teoria tradizionale e

teoria critica:

La teoria critica si rifiuta di feticizzare la conoscenza

come qualcosa di separato e superiore all’azione. Così

facendo, essa si sottrae all’errore fondamentale della

teoria tradizionale: mentre questa si è estraniata dalla

prassi sociale come sua origine, credendo di poter

fondare il proprio metodo esclusivamente su criteri

conoscitivi immanenti, la teoria, intesa nel senso della

critica, rimane costantemente consapevole del proprio

nesso costitutivo.

Max Horkheimer, Teoria tradizionale e

teoria critica:

Adottando tale prospettiva, la teoria critica diviene in grado

di riconoscere che l’ideale della libertà dell’intellettuale è un

mito: la ricerca scientifica disinteressata è impossibile in una

società in cui gli uomini non sono ancora autonomi; il

ricercatore è sempre parte dell’oggetto che intende studiare, e

dato che la società che studia non è ancora il frutto di una

scelta libera e razionale dell’uomo lo scienziato non può

evitare di partecipare a quell’eteronomia. La sua percezione è

necessariamente mediata dalle categorie sociali al di sopra

delle quali non si può sollevare.

Max Horkheimer, Teoria tradizionale e

teoria critica:

Per quanto in definitiva faccia parte della

società, il ricercatore diviene così capace di

sollevarsi al di sopra di essa. Effettivamente

il suo dovere è quello di individuare quelle

forze e tendenze negative della società

che rinviano a una realtà diversa.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Per cultura affermativa intenderemo quella cultura che, proprio dell’epoca

borghese, ha portato, nel corso del suo sviluppo, a fare del mondo

dell’anima e dello spirito un regno autonomo di valori, a staccarlo dalla

civiltà materiale per innalzarlo al di sopra di questa. Il suo tratto più

caratteristico è l’affermazione che c’è un mondo di valore superiore ed

eternamente migliore, il quale è impegnativo per tutti e va approvato

incondizionatamente. Questo mondo è essenzialmente diverso dal mondo

effettivo della lotta quotidiana per l’esistenza, e tuttavia ogni individuo può

realizzarlo per sé «dall’interno», senza cambiare quel mondo fattuale.

Soltanto in questa cultura le attività e gli oggetti cultuali assumono questa

dignità che si innalza al di sopra della vita di tutti i giorni: la loro recezione

diventa un atto di solennità e di elevazione…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Nella cultura dell’anima hanno trovato accesso, sotto una forma

falsa, quelle forze e quei bisogni che non hanno trovato posto

nell’esistenza quotidiana. L’ideale della cultura ha accolto in sé

l’aspirazione ad una vita più felice: all’umanità, alla bontà, alla gioia,

alla verità e alla solidarietà. Ma questi valori portano tutti il segno

affermativo di appartenere ad un mondo più alto, più puro, non

quotidiano. Essi vengono interiorizzati come doveri della singola

anima (e così l’anima dovrebbe portare a compimento ciò che viene

costantemente tradito nell’esistenza esterna dell’Intero), oppure

rappresentati come oggetti dell’arte (e così la loro realtà viene

assegnata ad una sfera che per sua essenza non è quella della vita

effettiva)…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Alla miseria dell’individuo isolato [la cultura affermativa]

risponde con un umanitarismo universale, alla miseria fisica con la

bellezza dell’anima, alla schiavitù esterna con la libertà interiore,

all’egoismo brutale con il regno della virtù e del dovere. Se

all’epoca dell’ascesa combattiva della nuova società tutte queste

idee avevano un carattere progressivo, che andava oltre lo stadio

raggiunto dall’organizzazione dell’esistenza, ora invece esse

servono, in misura crescente e di pari passo con il consolidarsi del

dominio della borghesia, al compito di tenere a freno le masse

insoddisfatte, e assumono la funzione di una mera autoesaltazione

giustificatoria: esse nascondono la mutilazione fisica e psichica

dell’individuo…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Interiorizzando ciò che è bello e privo di scopo e

facendone, assieme alla qualità della validità

universale e vincolante e della bellezza sublime, i

valori culturali della borghesia, si costruisce nella

cultura un regno di apparente unità e di apparente

libertà, in cui i rapporti antagonistici che reggono

l’esistenza devono essere inquadrati e pacificati.

La cultura approva e tiene celate le nuove

condizioni sociali di vita…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):

Persino la felicità diventa nella cultura affermativa un mezzo per inquadrarsi meglio e

accontentarsi di poco. L’arte, mostrando la bellezza come una presenza reale, acquieta la

rivolta della nostalgia. Insieme con le altre sfere culturali essa ha contribuito alla grande

realizzazione educativa di questa cultura, quella cioè di diciplinare l’individuo liberato,

per il quale la nuova libertà aveva portato con sé una nuova forma di schiavitù, in modo

tale da fargli sopportare l’illibertà dell’esistenza sociale. Il contrasto palese tra le

possibilità di una vita più ricca, dischiuse proprio con l’aiuto del pensiero moderno, e la

povertà della configurazione fattuale della vita ha continamente costretto questo

pensiero a interiorizzare le proprie rivendicazioni, a eludere le proprie conseguenze. C’è

voluta un’educazione secolare per rendere tollerabile quel grande shock che si riproduce

ogni giorno: da una parte la predica continua sulla inalienabilità, libertà, grandezza e

dignità della persona, sulla magnificenza e autonomia della ragione, sulla bontà

dell’humanitas e di quell’amore per gli uomini e di quella giustizia che non fanno

distinzione; dall’altra l’umiliazione della più grande parte dell’umanità, l’irrazionalità

della vita sociale, la vittoria del mercato di lavoro sull’humanitas, del profitto sull’amore

per gli uomini…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

La cultura affermativa è stata la forma storica, in cui sono

stati custoditi i bisogni umani che andavano al di là della

riproduzione materiale dell’esistenza; per questo verso, vale

per la cultura affermativa quello che vale anche per la forma

di realtà sociale in cui essa rientra: il diritto è anche dalla sua

parte. E’ vero che ha tolto ai “rapporti esterni” il peso della

responsabilità per la “destinazione dell’uomo”, rendendo

stabile la loro ingiustizia; ma vi ha anche contrapposto

l’immagine di un ordine migliore, la cui realizzazione è

affidata, come un compito all’ordine presente.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

L’immagine è distorta, e questa distorsione ha falsato tutti i valori culturali

della borghesia. Eppure è un’immagine di felicità: c’è un frammento di

beatitudine terrena nelle opere della grande arte borghese, anche quando

esse dipingono il cielo. L’individuo gode la bellezza, la bontà, lo splendore

e la pace, la gioia vittoriosa; anzi gode persino il dolore e la pena, la

crudeltà e il crimine. Egli vive una liberazione, e così l’individuo

comprende e trova comprensione e risposta ai suoi impulsi e alle sue

esigenze. Ha luogo una rottura privata della reificazione. Nell’arte non

occorre conformarsi alle leggi della realtà. Ciò che qui importa è l’uomo,

non la sua professione o la sua posizione. Il dolore è dolore, e la gioia la

gioia. Il mondo appare di nuovo come ciò che esso è dietro la forma della

merce: un paesaggio è realmente un paesaggio, un uomo è realmente un

uomo e una cosa realmente una cosa…

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

Nella misura in cui la cultura ha dato forma alle

nostalgie e agli impulsi appagabili, ma di fatto

inappagati degli uomini, essa perderà il proprio

oggetto… La bellezza si incarnerà diversamente,

quando non dovrà più essere rappresentata come

apparenza reale, ma dovrà esprimere la realtà e la

gioia che si trarrà da essa.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

La situazione cambia non appena una mobilitazione soltanto

parziale (che lascia di riserva la vita privata dell’individuo) non

basti più a mantenere in piedi la forma esistente del processo di

lavoro, e occorra invece una «mobilitazione totale», per mezzo

della quale l’individuo venga sottomesso in tutte le sfere della sua

esistenza, alla disciplina dello Stato autoritario. Qui la borghesia

entra in conflitto con la sua stessa cultura. La mobilitazione totale

nell’epoca del capitalismo monopolistico non è più conciliabile

con quei momenti progressivi della cultura imperniati sull’idea

della personalità. Ha inizio così l’autosoppressione della cultura

affermativa.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

La cultura affermativa aveva superato gli antagonismi sociali in un’astratta

universalità interiore; come persone, nella libertà e dignità della loro anima,

tutti gli uomini hanno lo stesso valore; in alto, al di sopra dei contrasti

fattuali, si eleva il regno della solidarietà culturale. Questa astratta

comunità interiore (astratta perché lascia sussistere i contrasti reali) si

capovolge, nell’ultimo periodo della cultura affermativa, in una comunità

esteriore altrettanto astratta. L’individuo viene posto in una falsa comunità

(razza, stirpe, sangue e terra). Ma questa esteriorizzazione ha la stessa

funzione dell’interiorizzazione: rinuncia e integrazione nell’ordine

esistente, resi sopportabili dall’apparenza reale della soddisfazione. Che gli

individui liberati ormai da quattrocento anni marcino così bene nelle

colonne dello Stato autoritario, è un risultato a cui ha contribuito non poco

la cultura affermativa...

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

(…) L’individuo ripieno di anima cede più facilmente, si piega

più umilmente al destino, ubbidisce meglio all’autorità. Dopo

tutto, mantiene per sé tutta quanta la ricchezza dell’anima e può

trasfigurarsi tragicamente ed eroicamente. Ciò che è stato

seminato da Lutero in poi, cioè l’intensa educazione alla libertà

interiore, dà i suoi più bei frutti ora che la libertà interiore

sopprime se stessa risolvendosi in illibertà esteriore. (…) Le

feste e le celebrazioni dello Stato autoritario, le sue parate e

tutta la sua fisionomia, i discorsi dei suoi capi, anch’essi

parlano all’anima. Essi si rivolgono al cuore, anche se non

pensano che al potere.

Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :

Noi viviamo in un periodo storico in cui tutto dipende da una enorme mobilitazione e

concentrazione di tutte le forze disponibili. A che serve questa mobilitazione e concentrazione

delle forze? Ciò che Ernst Jünger indica ancora come salvataggio della «totalità della nostra

vita», come creazione di un mondo eroico del lavoro e simili, si rivela in seguito sempre più

come trasformazione di tutta quanta l’esistenza a servizio degli interessi economici più forti.

E’ sulla base di questi che sono determinate anche le esigenze di una nuova cultura. La

necessaria intensificazione e generalizzazione della disciplina di lavoro fanno apparire come

tempo sprecato l’attività rivolta agli «ideli di una scienza obiettiva e di un’arte la cui esistenza

sia fine a se stessa»; esse rendono desiderabile alleggerirsi, in questo campo, di una parte del

bagaglio. (…) Se prima l’elevazione nella cultura doveva dare soddisfazione al desiderio

personale di felicità, ora invece la felicità del singolo deve sparire nella grandezza del popolo.

Se prima la cultura aveva acquitato nell’apparenza reale la pretesa di felicità, deve ora

insegnare all’individuo che non gli è nemmeno permesso di avanzare per sé una pretesa del

genere: «Il criterio dato risiede nella condotta di vita del lavoratore. Non si tratta di migliorare

questa condotta, ma di darle un senso supremo, decisivo». Anche qui l’«elevazione» dovrebbe

sostituire il cambiamento. Così questo smantellamento della cultura è l’espressione della

massima acutizzazione di tendenze che erano già da tempo alla base della cultura

affermativa…

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Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 16

II SEMESTRE

A.A. 2017-2018

Herbert Marcuse, Prefazione a Cultura e società:

Una cosa (…) non era incerta per l’autore di

questi saggi e per i suoi amici dell’Istituto: il

riconoscimento del fatto che lo stato fascista era

la società fascista, che il potere totalitario e la

ragione totalitaria provenivano dalla struttura

della società esistente, che era allora sul punto di

lasciarsi alle spalle il suo passato liberale e di

annettersi la sua negazione storica.

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo

nella concezione totalitaria dello Stato (1934):…L’esistenziale in quanto tale viene dispensato da ogni razionalizzazione e da ogni

inquadramento normativo che lo trascendano; esso è a se stesso norma assoluta e non è

accessibile a nessuna critica e giustificazione razionale. In questo senso gli stati di cose e

le relazioni politiche vengono ora definiti come i rapporti «che decidono» dell’esistenza

nel senso più pregnante, E, all’interno dei rapporti politici, tutte le relazioni sono a loro

volta orientate al verificarsi del «caso estremo»: alla decisione sullo «stato di

eccezione», su guerra e pace. Il vero depositario del potere politico si definisce al di là di

ogni legalità o legittimità: «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»; la sovranità si

fonda sul potere effettivo di prendere questa decisione (decisionismo). La relazione

politica per eccellenza è la «relazione di amico-nemico»; il suo caso estremo è a sua

volta la guerra, che va fino all’eliminazione fisica del nemico. Non c’è nessuna relazione

sociale che in caso estremo non si capovolga in una relazione politica: dietro a tutti i

rapporti economici, sociali, religiosi, culturali c’è la politicizzazione totale. Non c’è

nessuna sfera dell’esistenza privata o pubblica, nessuna istanza giuridica e razionale che

si possa opporre a questa politicizzazione…

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo

nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

La totalità sociale, intesa come realtà autonoma e primaria rispetto

agli individui diventa, semplicemente in grazia del suo carattere di

totalità, anche un valore autonomo e primario: la totalità è, in

quanto totalità, il vero e l’autentico. Qui non viene posta la

questione se ogni totalità non debba prima di tutto legittimarsi di

fronte agli individui, e in che misura le loro possibilità e necessità

siano in essa superate e conservate. Spostando la totalità all’inizio

anziché alla fine, si sbarra la via alla critica teorica e pratica della

società, che porta appunto a questa totalità. La totalità viene

mistificata in maniera programmatica

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo

nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

L’attivizzazione e la politicizzazione totale strappano ampi strati

sociali alla neutralità che li paralizzava, e creano nuove forme di

lotta politica e nuovi metodi di organizzazione politica su tutto un

fronte che ha una larghezza e profondità finora sconosciute. Viene

abolita la separazione di Stato e società, che il XIX secolo nel suo

liberalismo aveva cercato di metter ein atto: lo Stato fa sua l’opera

di integrazione politica della società. E in seguito

all’esistenzializzazione e totalizzazione della politica, lo Stato

diventa anche il portatore delle possibilità autentiche

dell’esistenza stessa. Non è lo Stato che deve rispondere all’uomo,

ma l’uomo che deve rispondere allo Stato: l’uomo è alla mercè

dello Stato.

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella

concezione totalitaria dello Stato (1934):

Kant era convinto che ci fossero dei diritti «inalienabili» degli uomini, a cui

«l’uomo non può rinunziare, nemmeno se vuole». (…) Kant aveva legato

l’uomo al dovere che questi dà a se stesso, alla libera autodeterminazione in

quanto unica legge fondamentale; l’esistenzialismo sopprime questa legge

fondamentale e vincola l’uomo «al Führer e al movimento che a questi si è

votato in maniera incondizionata» (Heidegger). Altra era stata la fede di

Hegel: «Ciò che nella vita è vero, grande e divino, lo è grazie all’idea…

Tutto ciò che tiene insieme la vita umana, che ha un valore e come tale

viene considerato, è di natura spirituale, e questo regno dello spirito esiste

soltanto grazie alla coscienza della verità e del diritto e alla comprensione

delle idee». Oggi l’esistenzialismo la sa più lunga: «Le regole del vostro

essere non siano dottrine e “idee”. Il Führer in persona, ed egli soltanto, è la

realtà tedesca odierna e futura e la sua legge» (Heidegger).

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella

concezione totalitaria dello Stato (1934):

(…) L’esistenzialismo, che una volta si considerava

l’erede dell’idealismo tedesco, ha rigettato la massima

eredità spirituale della storia tedesca. Non con la morte

di Hegel, ma soltanto adesso ha luogo la «caduta dei

Titani» della filosofia classica tedesca. Allora le sue

conquiste più importanti erano state salvate e accolte

nella teoria scientifica della società, nella critica

dell’economia politica. Incerto è oggi il destino del

movimento operaio, in cui si era conservata l’eredità di

questa filosofia.

Herbert Marcuse, Ragione e rivoluzione:

«La teoria conserverà la verità anche

se la prassi rivoluzionaria devierà

dalla sua giusta via. La prassi segue

la verità e non viceversa. »

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Lezione n. 16

II SEMESTRE

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H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):

«La ragione è la categoria fondamentale del pensiero filosofico, l’unica

per mezzo della quale questo si mantiene legato al destino dell’umanità.

La filosofia voleva investigare le ragioni ultime e più universali

dell’essere. Sotto la denominazione di ragione essa ha pensato l’idea di

un essere autentico, in cui siano unificate tutte le opposizioni di

importanza decisiva (tra soggetto e oggetto, essenza e fenomeno,

pensiero ed essere). A questa idea di connetteva la convinzione che

l’essente non fosse già razionale in modo immediato, ma dovesse ancora

essere addotto a ragione… Essendo il mondo in quanto dato legato al

pensiero razionale, anzi dipendendone nel suo essere, ogni cosa che

contraddiceva la ragione, che non era razionale, era considerata

qualcosa da superare. La ragione era così eretta a istanza critica»

H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):

Il concetto di ideologia ha un senso soltanto se rimane legato

all’interesse della teoria ad un cambiamento della struttura sociale. Non

è né un concetto sociologico, né filosofico, ma un concetto politico.

Esso tratta una dottrina non in rapporto al condizionamento sociale di

ogni verità o in rapporto ad una verità assoluta, ma esclusivamente in

rapporto a quell’interesse. Innumerevoli dottrine filosofiche non sono

altro che mere ideologie, le quali, nelle loro illusioni su stati di cose

socialmente rilevanti, si lasciano docilmente inquadrare nel generale

apparato del dominio. La filosofia idealistica della ragione non è tra

queste, e non lo è proprio nella misura in cui (…) ha saputo vedere

alcuni punti di importanza decisiva della società borghese: l’Io astratto,

la ragione astratta, la libertà astratta. Per questo verso è una coscienza

giusta.

H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):

Se ragione significa dare alla vita una forma che

corrisponda alla libera decisione degli uomini

come soggetti di conoscenza, allora la ragione

pone ormai l’esigenza di creare

un’organizzazione sociale in cui gli individui

regolino in comune la propria vita secondo i loro

bisogni. In questa società, in cui la ragione fosse

realizzata, sarebbe superata anche la filosofia.

Herbert Marcuse:

Di per sé la scientificità non è mai una garanzia per la

verità, e tantomeno in una situazione come quella

odierna, n cui la verità è in stretta opposizione ai fatti

e si trova anzi celata dietro ai fatti. E non è la

prevedibilità scientifica che possa afferrarne il

carattere futuro…

Senza la fantasia, ogni conoscenza filosofica rimane

sempre e soltanto legata al presente o al passato e

tagliata fuori dal futuro, che è il solo a congiungere la

filosofia con la storia reale dell’umanità.

Max Horkheimer, Materialismo e

metafisica:

«Elevare il lavoro a concetto supremo

dell’attività umana significa professare

un’ideologia ascetica. (…) Mantenendo

questo concetto generale i socialisti si

fanno portatori della propaganda

capitalistica»

Herbert Marcuse, Per la critica

dell’edonismo :

«La realtà della felicità è la realtà della

libertà come autodeterminazione

dell’umanità liberata nella sua lotta comune

con la natura.

(…) Nella loro forma complessiva (…) la

felicità e la ragione, coincidono»

Herbert Marcuse, Per la critica

dell’edonismo :

«Nella misura in cui l’illibertà è già presente nei bisogni

e non nella loro gratificazione, essi devono essere i primi

a essere liberati – non con un’azione educativa o di

rinnovamento morale dell’uomo, ma con un processo

politico ed economico che comprende la possibilità per

la comunità di disporre dei mezzi di produzione, il

riorientamento del processo produttivo verso i bisogni e i

desideri dell’intera società, l’accorciamento della

giornata lavorativa e l’attiva partecipazione degli

individui alla gestione della comunità. »

M. Horkheimer, Storia e psicologia:In ogni caso le azioni degli uomini non sono solo determinate

dalla loro tendenza fisica all’autoconservazione, e neppure

dall’immediato istinto sessuale, ma ad esempio anche dal bisogno

di usare le proprie forze aggressive, e inoltre dal bisogno che la

propria persona sia riconosciuta e confermata, dal bisogno di

ottenere sicurezza all’interno di una collettività, e da altri impulsi

ancora. La psicologia moderna (Freud) ha mostrato come tali

esigenze si distinguano dalla fame per il fatto che quest’ultima

richiede una soddisfazione più diretta e costante, mentre quelle

sono in larga misura differibili, modellabili, e suscettibili di

soddisfazione fantastica.

Erich Fromm:

Né l’apparato esterno del potere, né gli interessi

razionali, sarebbero sufficienti a garantire il

funzionamento della società se non subentrassero

le tensioni libidinali dell’essere umano. Sono le

forze libidinali a costituire, per così dire, il

cemento senza il quale la società non rimarrebbe

unita, e a contribuire alla creazione delle grandi

ideologie sociali in ogni sfera cultuale.

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Lezione n. 17

II SEMESTRE

A.A. 2017-2018

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

1. Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere,

ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli

assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in

bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un

sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse

trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo,

che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la

mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può

immaginare della filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato

«materialismo storico». Esso può farcela senz’altro con chiunque se

prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e

brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

2. «Una delle caratteristiche più notevoli dell’animo umano, - scrive Lotze, - è,

fra tanto egoismo nei particolari, la generale mancanza di invidia del presente

verso il principio futuro». La riflessione porta a concludere che l’idea di felicità

che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta

per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che potrebbe suscitare la nostra

invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato, fra persone a cui avremmo

potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto farci dono di sé. Nell’idea di

felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l’idea di redenzione. Lo stesso

vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato

reca con sé un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa

segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A

noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una

debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si

lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

6. Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come

propriamente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso

balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di

fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al

soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il

patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo

stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In

ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo

che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come

redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il

dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato

dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli

vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

8. La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di

emergenza» in cui vivamo è la regola. Dobbiamo giungere a un

concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di

fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di

emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro

il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i

suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una

legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono

«ancora» possibile nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico.

Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea

di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un

angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo

sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.

L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al

passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola

catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia

ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e

ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è

impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più

chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a

cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al

cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta.

Paul Klee, Angelus Novus

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

14. La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il

tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di «attualità»

(Jetztzeit). Così, per Robespierre, la Roma antica era un passato

carico di attualità, che egli faceva schizzare dalla continuità della

storia. La Rivoluzione francese s’intendeva come una Roma

ritornata. Essa richiamava l’antica Roma esattamente come la

moda richiama in vita un costume d’altri tempi. LA moda ha il

senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato.

Essa è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in

un’arena dove comanda la classe dominante. Lo stesso balzo,

sotto il cielo libero della storia, è quello dialettico, come Marx ha

inteso la rivoluzione.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

L’illuminismo, nel senso più ampio di

pensiero in continuo progresso, ha

perseguito da sempre l’obiettivo di

togliere agli uomini la paura e di

renderli padroni. Ma la terra

interamente illuminata splende all’

insegna di trionfale sventura.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Il programma dell’illuminismo era di liberare il mondo

dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di

rovesciare l’immaginazione con la scienza. (…) D’ora in

poi la materia dev’essere dominata al di fuori di ogni

illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti,

di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del

calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo,

sospetto. E quando l’illuminismo può svilupparsi

indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più

freno.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per

toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza

spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che

aumentare. Ciò deriva dal fatto che l’Illuminismo

riconosce se stesso anche nei miti. Quali che siano i miti

a cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in

questo conflitto, argomenti. rendono omaggio al

principio della razionalità analitica che essi

rimproverano all’illuminismo. L’illuminismo è

totalitario.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Gli uomini si distanziano col pensiero dalla

natura per averla di fronte nella posizione in cui

dominarla. Come la cosa, lo strumento materiale,

che si mantiene identico in situazioni diverse, e

separa così il mondo – caotico, multiforme e

disparato – da ciò che è noto, uno ed identico, il

concetto è lo strumento ideale, che si apprende a

tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Gli uomini pagano l’accrescimento del loro

potere con l’estraneazione da ciò su cui lo

esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose

come il dittatore agli uomini: che conosce in

quanto è in grado di manipolarli. Lo scienziato

conosce le cose in quanto è in grado di farle. Così

il loro in-sé diventa per-lui. Nella trasformazione

l’essenza delle cose si rivela ogni volta come la

stessa: come sostrato del dominio.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento

spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il

Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo,

e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.

Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io

in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è

sempre stata congiunta alla cieca decisione di

conservarlo.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

L’industria culturale tende a presentarsi come un insieme di proposizioni

protocollari e a diventare, proprio in questo modo, il profeta

inconfutabile dell’esistente. Essa si apre la strada, con straordinaria

abilità, fra la Scilla del falso identificabile e denunciabile e la Cariddi

della verità manifesta, riproducendo tale e quale il fenomeno che

occlude, col suo spessore, la conoscenza e insediando senz’altro come

ideale la sua superficie onnipresente e compatta. L’ideologia si scinde

nella fotografia della realtà bruta e nella nuda menzogna del suo

significato, che non è formulata esplicitamente, ma suggerita e

inculcata. A dimostrazione della divinità del reale ci si limita a ripeterlo

cinicamente all’infinito. Questa prova fotologica non è stringente, ma è

schiacciante. Chi, di fronte alla potenza della monotonia, dubita ancora

è un pazzo

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) La specie umana, comprese le sue macchine, i suoi prodotti chimici, le

sue forze organizzative (…), è, in quest’epoca, le dernier cri

dell’adattamento. Non solo gli uomini hanno superato i loro predecessori

diretti, ma li hanno estirpati così radicalmente come di rado una specie più

recente ha fatto con la specie anteriore, non eccettuati i sauri carnivori.

Di fronte a ciò sembra quasi un capriccio voler costruire la storia

universale, come ha fatto Hegel, in funzione di categorie come libertà e

giustizia. Esse derivano, infatti, dagli individui marginali, da quelli che,

considerati dal punto di vista del corso complessivo, non significano nulla,

se non in quanto contribuiscono a introdurre condizioni sociali transitorie in

cui si producono, in quantità particolarmente grandi, macchine e prodotti

chimici per il rafforzamento della specie e la sottomissione delle altre.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Dal punto di vista di questa storia seria tutte le idee, i tabù, le

religioni, le fedi politiche, interessano solo nella misura in cui,

sorte da casi molteplici, aumentano o diminuiscono le possibilità

naturali della specie umana sulla terra o nell’universo. La

liberazione dei borghesi dall’ingiustizia del passato feudale e

assolutistico è servita, attraverso il liberalismo, a scatenare la

produzione meccanica, come l’emancipazione della donna finisce

nel suo addestramento come arma speciale. Lo spirito, e tutto ciò

che vi è di buono, è . nella sua origine e nella sua esistenza –

irretito senza scampo in questo orrore. Il siero che il medico

somministra al bambino malato , è dovuto all’aggressione a una

creatura inerme.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) La funzione storica della cultura è tutta nel suo effetto

di ritorno su questa organizzazione, che essa potenzia e

sviluppa ulteriormente. Onde il pensiero autentico, che se

ne libera, la ragione nella sua forma pura, assume tratti di

follia, rilevati da sempre dagli autoctoni. (…) La parte

svolta dalla ragione è quella di uno strumento di

adattamento, e non di un sedativo della volontà, come

potrebbe sembrare dall’uso che ne ha fatto a volte

l’individuo. La sua astuzia consiste nel fare, degli uomini,

belve di raggio sempre più vasto, e non nel produrre

l’identità di soggetto e oggetto…

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Pur avendo osservato da molti anni che nell’attività

scientifica moderna le grandi invenzioni si pagano con una

crescente decadenza della cultura teoretica, credevamo pur

sempre di poter seguire la falsariga dell’organizzazione

scientifica, nel senso che il nostro contributo si sarebbe

limitato essenzialmente alla critica o alla continuazione di

dottrine particolari. Esso avrebbe dovuto attenersi, almeno

nell’ordinamento tematico, alle discipline tradizionali:

sociologia, psicologia e gnoseologia. I frammenti raccolti in

questo volume mostrano che abbiamo dovuto rinunciare a

quella fiducia.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Se l’attento studio ed esame della tradizione scientifica (…) è un

momento indispensabile della conoscenza, è entrata d’altra parte in crisi,

nel presente sfacelo della civiltà borghese, non solo l’organizzazione,

ma il senso stesso della scienza. Ciò che i fascisti di ferro ipocritamente

lodano e i docili esperti di umanità ingenuamente eseguono,

l’autodistruzione incessante dell’illuminismo, costringe il pensiero a

vietarsi fin l’ultimo candore verso le consuetudini e le tendenze dello

spirito del tempo. Se la vita pubblica ha raggiunto uno stadio dove il

pensiero si trasforma inevitabilmente in merce e la lingua in

imbonimento della medesima, il tentativo di mettere a nudo questa

depravazione deve rifiutare obbedienza alle esigenze linguistiche e

teoretiche attuali, prima che le loro conseguenze storiche universali lo

rendano del tutto impossibile

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) In contrasto con i suoi amministratori, la filosofia

rappresenta – fra le altre cose – il pensiero che non

capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non

si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente

non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli

interessi materiali, ma anche con la strapotenza della

suggestione. La filosofia non è sintesi, base o

coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla

suggestione, la decisione della libertà intellettuale e

reale.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

La divisione del lavoro, come si è formata sotto il dominio, non viene

per questo ignorata. La filosofia non fa che penetrare la menzogna per

cui sarebbe inevitabile. Non lasciandosi ipnotizzare dalla strapotenza, le

tiene dietro in tutti gli angoli del meccanismo sociale, che – per prima

cosa – non deve essere rovesciato né diretto ad altri fini, ma compreso al

di fuori dell’incantesimo che esercita. [La filosofia] non riconosce

norme o fini astratti, che si presterebbero ad applicazione in contrasto

coi fini e con le norme vigenti. La sua libertà dalla suggestione

dell’esistente consiste proprio in ciò che essa accetta – senza starci

troppo a pensare – gli ideali borghesi: quelli che sono ancora proclamati

– e sia pure in forma alterata – dagli esponenti dell’attuale stato di cose,

o quelli che sono ancora riconoscibili come significato oggettivo delle

istituzioni, tecniche e culturali, a dispetto di ogni manipolazione.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Essa crede che la divisione del lavoro esiste per gli uomini e che il

progresso conduce alla libertà: e proprio per questo entra facilmente in

conflitto con la divisione del lavoro e col progresso. Essa presta una voce

alla contraddizione di credenza e realtà e si attiene così strettamente al

fenomeno temporalmente condizionato. Per essa il massacro su scala

colossale non conta, come per il giornale, più della liquidazione di alcuni

ricoverati. Essa non antepone l’intrigo dell’uomo politico che si mette

d’accordo coi fascisti a un modesto linciaggio, i turbini di réclame

dell’industria cinematografica all’intimo annuncio di un cimitero. Non ha

nessuna particolare inclinazione per ciò che è «grande». Essa è ad un tempo

estranea all’esistente e capace di comprenderlo intimamente. La sua voce

appartiene all’oggetto, ma senza che questo lo voglia; è la voce della

contraddizione, che, senza di essa, non si farebbe udire, ma trionferebbe

muta.

Theodor W. Adorno

La filosofia che una volta sembrò

superata, si mantiene in vita perché è

stato mancato il momento della sua

realizzazione.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 18

II SEMESTRE

A.A. 2017-2018

Herbert Marcuse

Reason and Revolution: Hegel and the Rise of Social Theory,

Boston, 1941;

Eros e civilisation. A Philosophical Inquiry into Freud, Boston,

1955;

Soviet Marxism: A Critical Analysis, New York, 1958;

One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced

Industrial Society, Boston, 1964;

An Essay on Liberation, Boston, 1969;

Counter-revolution and revolt, Boston, 1972;

The Aesthetic Dimension: Toward a Critique of Marxist

Aesthetics, 1977;

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

Qualsiasi siano le implicazioni dell’originale concezione greca del

Logos come essenza dell’essere, a partire dalla canonizzazione della

logica aristotelica il termine si confonde con l’idea della ragione che

ordina, classifica e domina. E questo concetto della ragione viene a

trovarsi in antagonismo sempre maggiore con quelle facoltà e attitudini

che sono più ricettive che produttive, che tendono più alla soddisfazione

che alla trascendenza – che rimangono strettamente dipendenti dal

principio di piacere. (…) Ragione significa assicurare per mezzo di una

trasformazione e uno sfruttamento sempre più efficaci della natura, la

soddisfazione delle potenzialità umane. Ma nel processo, il fine sembra

passare in seconda linea davanti ai mezzi: il tempo dedicato al lavoro

alienato assorbe i tempo per i bisogni individuali – e determina i bisogni

stessi.

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

Durante tutta la storia della civiltà che ci è nota, le restrizioni istintuali

imposte dalla penuria sono state intensificate dalle restrizioni imposte

dalla distribuzione gerarchica della penuria e del lavoro; gli interessi del

dominio imposero repressioni addizionali all’organizzazione degli istinti

sotto il principio della realtà. Il principio del piacere fu detronizzato non

soltanto perché esso militava contro il progresso della civiltà, ma anche

perché militava contro una civiltà il cui progresso perpetua la

dominazione e la fatica del lavoro. Freud sembra prendere atto di questo

fatto quando paragona l’atteggiamento della civiltà verso la sessualità a

quello di una tribù o di una parte della popolazione «che abbia

conquistato il sopravvento e sfrutti gli altri a proprio vantaggio. La

paura di una ribellione degli oppressi diventa in questo caso motivo di

regolamenti ancora più rigidi».

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

Introducendo il termine di repressione addizionale, abbiamo centrato la

discussione sulle istituzioni e sui rapporti che costituiscono il «corpo» sociale

del principio della realtà. Questi non rappresentano semplicemente le

manifestazioni esterne mutevoli di un principio della realtà che rimane

inalterato, ma alterano effettivamente il principio della realtà medesimo. Di

conseguenza, nel nostro tentativo di mettere in luce la portata e i limiti della

repressività che domina nella civiltà contemporanea, dovremo descriverla nei

termini dello specifico principio della realtà che ha governato le origini e la

crescita di questa civiltà. Gli abbiamo dato il nome di principio di prestazione

per dare rilievo al fatto che sotto il suo dominio la società si stratifica secondo

le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri. E’

chiaro che esso non è l’unico principio storico della realtà: altri modi di

organizzazione sociale non soltanto hanno prevalso in culture primitive, ma

sono anche sopravvissuti fin nei tempi moderni.

Herbert Marcuse, Teoria degli istinti e libertà (1957)

I mezzi di soddisfazione dei bisogni conquistati a un determinato

livello di civiltà sono, al pari degli stessi bisogni e facoltà

dell’uomo, realtà storicamente date, presenti nelle forze produttive

materiali e spirituali e nelle possibilità del loro uso. Una civiltà

può usare queste possibilità nell’interesse della soddisfazione

individuale dei bisogni e allora essa è orientata verso la libertà. In

condizioni ottimali, il dominio si riduce alla divisione razionale

del lavoro e dell’attività: libertà e felicità si identificano. Oppure

la soddisfazione individuale è essa stessa assoggettata a un

bisogno sociale, il quale limita e devia queste possibilità; allora il

bisogno sociale e il bisogno individuale divergono: la civiltà è di

carattere autoritario.

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

Quanto più vicina è la possibilità reale di liberare l’individuo dalle

costrizioni giustificate a suo tempo dalla penuria e dalla immaturità, tanto

più grande diventa il bisogno di mantenere e di organizzare razionalmente

queste costrizioni per evitare che l’ordine del potere istituito si dissolva. La

civiltà deve difendersi contro lo spettro di un mondo che potrebbe essere

libero. Se la società non può usare la propria produttività sempre crescente

per ridurre la repressione (perché un tale uso sconvolgerebbe la gerarchia

dello status quo), la produttività deve essere rivolta contro l’individuo,

diventa esso stesso uno strumento di controllo universale. Il totalitarismo si

diffonde nella tarda civiltà industriale dovunque gli interessi del potere

prevalgano sulla produttività, bloccando e facendo divergere le sue

potenzialità. La gente deve essere tenuta in uno stadio di mobilitazione

permanente, interna ed esterna…

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

L’arte è forse il più visibile «ritorno del represso», non soltanto sul

piano individuale ma anche su quello storico e della specie.

L’immaginazione artistica dà forma al «ricordo inconscio» della

liberazione che fallì, della promessa che fu tradita. Sotto il

dominio del principio di prestazione, l’arte oppone alla

repressione istituzionalizzata l’ «immagine dell’uomo come

soggetto libero. Ma in condizioni di non-libertà, l’arte può

sostenere l’immagine della libertà soltanto nella negazione della

non-libertà» (Adorno). Da quando si destò la coscienza della

libertà, non esiste opera d’arte genuina che non riveli questo

contenuto archetipico: la negazione della non-libertà.

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

Pure, entro i limiti della forma estetica, l’arte ha espresso,

anche se in maniera ambivalente, il ritorno della repressa

immagine della liberazione: l’arte fu opposizione. Nella fase

attuale, nel periodo della mobilitazione totale, sembra che

perfino quest’opposizione estremamente ambivalente non sia

più vitale. L’arte sopravvive soltanto dove essa annulla se

stessa, dove salva la propria sostanza negando la sua forma

tradizionale, e quindi negando la riconciliazione: dove

diventa surrealista e atonale. In tutti gli altri casi, l’arte segue

il destino d tutte le comunicazioni umane genuine: essa si

estingue.

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

Il Grande Rifiuto è la protesta contro la repressione superflua, la lotta per la

forma definitiva di libertà – «vivere senza angoscia» (Adorno) Ma

quest’idea poté venir formulata impunemente soltanto nel linguaggio

dell’arte. Nel contesto pluralistico della teoria politica e persino della

filosofia, essa fu criticata quasi universalmente e condannata come

utopistica.

Il fatto di relegare possibilità reali nella terra di nessuno dell’utopia, è esso

stesso un elemento essenziale dell’ideologia del principio di prestazione. Se

la costruzione di uno sviluppo istintuale non repressivo è orientata non

verso il passato substorico, ma verso il presente storico e la civiltà matura,

il concetto stesso di utopia perde il suo significato. La negazione del

principio di prestazione sorge non contro, ma col progresso della razionalità

cosciente; essa presuppone la maturità massima della civiltà.

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

Se Prometeo è l’eroe civilizzatore della fatica, della produttività e del progresso

per mezzo della repressione, i simboli di un altro principio di realtà vanno

cercati al polo opposto. Orfeo e Narciso (come Dioniso al quale essi sono

affini: l’antagonista del dio che sanziona la logica del dominio, il regno della

ragione) sono gli esponenti di una realtà molto diversa. Non sono diventati gli

eroi civilizzatori del mondo occidentale – la loro è una immagine di gioia e di

compimento: la voce che non comanda, ma canta; il gesto che offre e riceve;

l’azione che è pace e che conclude il lavoro di conquista; la liberazione dal

tempo, che unisce l’uomo al dio, l’uomo alla natura. (…) Le immagini di Orfeo

e Narciso riconciliano Eros e Thanatos. Esse rievocano l’esperienza di un

mondo che non va dominato e controllato, ma liberato – una libertà che

scioglierà i freni alle forze di Eros, che ora sono legate nelle forme represse e

pietrificate dell’uomo e della natura. Queste forme non sono concepite come

distruzione, ma come pace, non come terrore, ma come bellezza…

Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955)

L’esperienza orfica e narcisistica del mondo nega ciò che il mondo

del principio di prestazione sostiene. L’opposizione tra uomo e

natura, soggetto e oggetto, è superata. L’esistere è inteso come

soddisfazione che unisce uomo e natura, in modo che la

realizzazione dell’uomo sia allo stesso tempo la realizzazione, senza

violenza, della natura. (…) Le immagini orfico-narcisistiche sono le

immagini del Grande Rifiuto: del rifiuto di accettare la separazione

dall’oggetto (o soggetto) libidico. Questo rifiuto mira alla liberazione

– alla riunione di ciò che era stato separato. Orfeo è l’archetipo del

poeta come liberatore e creatore: egli istituisce nel mondo un ordine

più alto – un ordine senza repressione. Nella sua persona l’arte, la

libertà e la cultura sono eternamente unite…

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964)

Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà

prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico.

In verità, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione

dell’individualità nel corso della meccanizzazione di attività

socialmente necessarie ma faticose; della concentrazione di imprese

individuali in società per azioni più efficaci e più produttive; della

regolazione della libera concorrenza tra soggetti economici non

egualmente attrezzati; della limitazione di prerogative e sovranità

nazionali che impediscono l’organizzazione internazionale delle

risorse. Che questo ordine tecnologico comporti pure un

coordinamento politico ed intellettuale è uno sviluppo che si può

rimpiangere, ma che è tuttavia promettente…

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964)

Nella misura in cui la libertà dal bisogno, sostanza concreta di ogni libertà, sta

diventando una possibilità reale, le libertà correlate ad uno stato di minor

produttività vanno perdendo il contenuto di un tempo. L’indipendenza del

pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della

loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio

capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è

organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi

e le sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito

di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo. Sotto questo

aspetto, il fatto che la capacità di soddisfare i bisogni in misura crescente sia

assicurata da un sistema autoritario o da uno non autoritario sembra fare poca

differenza. In presenza di un livello di vita via via più elevato, il non

conformarsi al sistema sembra essere socialmente inutile, tanto più quando la

cosa comporta tangibili svantaggi economici e politici e pone in pericolo il

fluido operare dell’insieme…

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964)

I processi tecnologici di meccanizzazione e di unificazione potrebbero liberare

l’energia di molti individui, facendola confluire in un regno ancora inesplorato di

libertà al di là della necessità. La stessa struttura dell’esistenza umana ne sarebbe

modificata; l’individuo verrebbe liberato dal lavoro di un mondo che gli impone

bisogni e possibilità a lui estranei. L’individuo sarebbe libero di esercitare la sua

autonomia in una vita che sarebbe ormai veramente sua. Se fosse possibile

organizzare e dirigere l’apparato produttivo verso la soddisfazione dei bisogni

vitali, il controllo di esso potrebbe benissimo venire accentrato; tale controllo non

sarebbe d’ostacolo all’autonomia individuale, ma la renderebbe possibile.

Questo obiettivo è pienamente alla portata della società industriale avanzata,

rappresentando esso il «fine» della razionalità tecnologica. Nella realtà sembra

però operare la tendenza contraria: l’apparato impone le sue esigenze economiche

e politiche, in vista della difesa e dell’espansione, sul tempo di lavoro come sul

tempo libero, sulla cultura materiale come su quella intellettuale…

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964)

In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la

società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Il termine

«totalitario», infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione

politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione

economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la

manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude

per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del

sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio

partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di

produzione e distribuzione, sistema che può essere benissimo

compatibile con un «pluralismo» di partiti, di giornali, di «poteri

controbilanciatisi», ecc.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 19

II SEMESTRE

A.A. 2017-2018

Hannah Arendt

The Origins of Totalitarianism (1951)

The Human Condition (1958)

Between Past and Future (1961)

Eichmann in Jerusalem: A Report on the

Banality of Evil (1963)

On Revolution (1963)

On Violence (1970)

The Life of the Mind (1978)

Hannah Arendt, The Origins of

Totalitarianism

Il terrore totale è (…) facilmente scambiato per un sintomo

di governo tirannico perché il regime totalitario nella sua fase

iniziale deve comportarsi come una tirannide e radere al

suolo i limiti posti dalle leggi umane. Ma esso non lascia

dietro di sé l’illegalità arbitraria e non infierisce per imporre

la volontà tirannica o il potere dispotico di un individuo su

tutti gli altri e, men che meno, l’anarchia di una guerra di

tutti contro tutti. Sostituisce ai limiti e ai canali di

comunicazione fra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene

così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità in un

unico uomo di dimensioni gigantesche…

Hannah Arendt, The Origins of

Totalitarianism

Abolire i confini delle leggi fra gli individui, come fa la

tirannide, significa annullare le libertà umane, distruggere la

libertà come realtà politica vivente; poiché lo spazio fra gli

individui, com’è circoscritto dalle leggi, è lo spazio vivo

della libertà. Il terrore totale usa questo vecchio strumento

della tirannide, ma distrugge allo stesso tempo quel deserto,

senza leggi e senza barriere, dominato dalla reciproca

diffidenza, che è propriamente la tirannide. Questo deserto

non era, certo, uno spazio vivo di libertà, ma lasciava ancora

un po’ di posto ai movimenti timorosi e alle caute azioni dei

suoi abitanti…

Hannah Arendt, The Origins of

Totalitarianism

Premendo gli uomini uno contro l’altro, il terrore totale

distrugge lo spazio fra di essi; se confrontato con questo

vincolo di ferro, persino il deserto della tirannide,

essendo ancora una specie di spazio, appare come una

garanzia di libertà. Il regime totalitario non si distingue

dunque dalle altre forme di governo perché riduce o

abolisce determinate libertà, o sradica l’amore per la

libertà dal cuore degli uomini, ma perché distrugge il

presupposto di ogni libertà, la possibilità di movimento,

che non esiste senza spazio…

Hannah Arendt, The Human

Condition

Lavoro

Opera

Azione e discorso

Hannah Arendt, The Human

Condition

Lo spazio pubblico o spazio dell’apparenza «si

forma ovunque gli uomini condividano le

modalità dell’azione e del discorso, e quindi

anticipa e precede ogni costituzione formale della

sfera pubblica e delle varie forme di governo, le

varie forme cioè in cui la sfera pubblica può

essere organizzata».

Hannah Arendt, The Human

Condition

…Una vita spesa nell’esperienza

privata, di “ciò che è proprio” (idion),

fuori dal mondo comune, è idiota per

definizione

Hannah Arendt, The Human

Condition

La peculiarità dello spazio pubblico è che

diversamente dagli spazi che sono opera delle

nostre mani, non sopravvive alla realtà del

movimento che lo crea, ma scompare non solo

con la scomparsa degli uomini – come nelle

grandi catastrofi, quando il corpo politico di un

popolo viene distrutto – ma con la scomparsa e la

fine delle loro stesse azioni.

Hannah Arendt, The Human

Condition

«Il potere è ciò che mantiene in vita la

sfera pubblica, lo spazio potenziale

dell’apparire tra uomini che agiscono e

parlano»

Hannah Arendt, The Origins of

TotalitarianismLa questione dei diritti umani si intrecciò ben presto inestricabilmente con quella

dell’emancipazione nazionale; solo la sovranità del popolo, del proprio popolo, sembrò capace di

garantirli. Poiché, fin dai tempi della rivoluzione francese, l’umanità era concepita come una

famiglia di nazioni, si stabilì a poco a poco che il popolo, e non l’individuo, era l’immagine

dell’uomo. La portata di tale identificazione dei diritti umani coi diritti dei popoli nel sistema

europeo degli stati nazionali venne in luce soltanto quando apparve una schiera crescente di

persone e di gruppi etnici i cui diritti elementari erano tanto poco salvaguardati nel cuore

dell’Europa quanto lo sarebbero stati nelle regioni selvagge dell’Africa. Dopotutto, i diritti

dell’uomo erano stati definiti inalienabili perché si presumeva che fossero indipendenti dai governi;

ma ora si scoprì che, appena gli individui perdevano la protezione del loro governo ed erano

costretti a contare sul minimo di diritti che dovevano avere acquistato con la nascita, non trovavano

nessuna autorità disposta a garantirlo. O quando, come nel caso delle minoranze, un organismo

internazionale si incaricava di questa tutela, andava incontro a un palese insuccesso ancor prima di

attuare completamente le sue misure; non solo i governi si opponevano più o meno apertamente a

tale menomazione della loro sovranità, ma i gruppi allogeni, restii ad accettare una tutela non

nazionale, diffidavano di una protezione limitata ai meri diritti umani («linguistici, religiosi ed

etnici») e preferivano ricorrere, come i tedeschi e gli ungheresi, alla difesa della «madrepatria» o,

come gli ebrei, alla solidarietà internazionale…

Hannah Arendt, The Origins of

TotalitarianismLa disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati

della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte

alla legge e della libertà di opinione (formule intese a risolvere i problemi

nell’ambito di determinate comunità), ma nel non appartenere più ad alcuna

comunità di sorta, nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge, che nessuno

desidera più neppure opprimerli. (…) La privazione dei diritti umani si manifesta

soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e

alle azioni un effetto. Qualcosa di molto più essenziale della libertà e della giustizia,

che sono diritti dei cittadini, è in gioco quando l’appartenenza alla comunità in cui

si è nati non è più una cosa naturale e la non appartenenza non è più oggetto di

scelta, quando si è posti in una situazione in cui, a meno che non si commetta un

delitto, il trattamento subito non dipende da quel che si fa o non si fa. Questa

situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. Esse sono prive,

non del diritto alla libertà, ma del diritto all’azione; non del diritto a pensare

qualunque cosa loro piaccia, ma del diritto all’opinione…

Hannah Arendt, The Origins of

TotalitarianismCi siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (e ciò

significa vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie

azioni e opinioni) solo quando sono comparsi milioni di individui

che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della

nuova organizzazione globale del mondo. (…) Quindi, non la

perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e

capace di garantire qualsiasi diritto è stata la sventura che si è

abbattuta su un numero crescente di persone. L’individuo può

perdere tutti i cosiddetti diritti umani senza perdere la sua qualità

essenziale di uomo, la sua dignità umana. Soltanto la perdita di

una comunità politica lo esclude dalla umanità.

Hannah Arendt, The Origins of

TotalitarianismL’uomo del XX secolo si è emancipato dalla natura come quello del XVIII dalla

storia. Storia e natura ci sono diventate altrettanto estranee, nel senso che

l’essenza dell’uomo non può piú essere compresa con le loro categorie.

D’altronde, l’umanità che per il XVIII secolo non era, in termini kantiani, piú di

un’idea regolativa, è oggi diventata un fatto inevitabile. La nuova situazione, in

cui l’«umanità» ha in effetti assunto il ruolo precedentemente attribuito alla

natura o alla storia, implica in tale contesto che il diritto ad avere diritti, o il

diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe esser garantito

dall’umanità stessa. Non è affatto certo che questo sia possibile. Perché,

nonostante i benintenzionati tentativi umanitari di ottenere nuove dichiarazioni

dei diritti umani dalle organizzazioni internazionali, bisogna ricordare che

questa idea trascende l’attuale sfera del diritto internazionale, che opera tuttora

mediante trattati e accordi fra stati sovrani; e una sfera al di sopra delle nazioni

per il momento non esiste…