storia economica sintesi

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1 http://unict.myblog.it LA STORIA ECONOMICA L’OGGETTO La storia economica studia gli avvenimenti economici e la politica economica dei diversi Paesi nel breve e nel lungo periodo. Nel breve studia le tecniche e l’organizzazione della produzione, la quantità di risorse disponibili o la distribuzione per sesso e per età della popolazione. Nel lungo esamina le trasformazioni della struttura economica (Sistemi Economici, le problematiche dello sviluppo, i trends). Studia i diversi fenomeni sia sotto l’aspetto statico (riproduzione semplice) che l’aspetto dinamico (riproduzione allargata). Definendo il concetto di sistema economico come l’organizzazione economica complessiva esistente in una determinata area geografica: nella riproduzione semplice il sistema si riproduce sempre uguale a se stesso e manca di qualsiasi forma di Surplus; mentre nella riproduzione allargata il sistema è in grado di produrre l’accumulazione necessaria a creare una diversa combinazione delle risorse disponibili e l’innovazione dei prodotti e dei processi di fabbricazione. POSTULATI : L’analisi storico economica deve tenere conto, oltre che dei fatti, delle peculiarità mentali, sociali e culturali dell’uomo a livello individuale e collettivo. Inoltre è necessaria l’adozione di un paradigma interpretativo che permetta di classificare gli avvenimenti considerati secondo un ordine logico. Ecco che storia economica ed economia si giustappongono e si integrano in modo speculare. IL METODO Definizione : è il processo di razionalizzazione di una scienza o di una dottrina allo scopo di determinare le uniformità o le leggi che ne regolano l’oggetto studiato. L’economia nacque, come scienza organica, tra la fine 1700 e gli inizi del 1800 in Inghilterra fase di ottimismo grazie alla Prima Rivoluzione Industriale. Smith, Ricardo e Malthus furono i fondatori della “Scuola Classica”. Essa adoperò il metodo logico–deduttivo che si fondava su un postulato dato e sulla conseguente scoperta di leggi che governavano il corretto funzionamento economico dell’ordinamento sociale. La filosofia giusnaturalistica (esistenza di una generale armonia tra gli interessi umani e fiducia nel funzionamento del sistema libero concorrenziale) fece rifiutare ai classici ogni forma di intervento dello Stato nella vita economica; l’equilibrio economico era garantito dal mercato attraverso il meccanismo dei prezzi e dal gioco della domanda e dell’offerta. Questo tipo di dottrina spinse l’Inghilterra sulla via del capitalismo industriale. La dottrina classica si diffuse anche in Francia nel 1789 con J. B. Say secondo il quale le leggi dell’economia sono insite nella natura delle cose; non occorre decretarle ma scoprirle; esse governano legislatori e principi e non possono essere violate. Le dottrine classiche in Germania furono decisamente avversate. Tra il 1843 e il 1900 venne a crearsi una nuova scuola di pensiero, la “Scuola Storica”; che può essere considerata la fondatrice della Storia Economica. Questa differenza di idee era dovuta al fatto che all’indomani del Congresso di Vienna la Germania era divisa in molti stati con strutture assai diverse tra loro che condussero ad una sorta di conservatorismo che attribuiva all’azione di ogni singolo Stato la tutela della propria identità nazionale. Rosher, Hildebrand e Knies, esponenti della prima scuola storica, adoperarono il metodo induttivo cioè l’osservazione sistematica dei fatti per pervenire ad una sintesi dell’attività umana; l’economia aveva il compito di individuare le leggi e regolarità, ma negava a queste il carattere di universalità perché legate a determinate contingenze storiche ed a specifiche condizioni geografiche, ambientali e costituzionali; sono temporalmente definite e spazialmente delimitate. Nel 1840, List, definì la teoria degli stadi dello sviluppo classificando la struttura professionale di ciascuna popolazione in base al livello di civiltà raggiunto: cacciatrice, pastorale, agricola - manifatturiera e agricola – http://unict.myblog.it 1 1 http://unict.forumattivo.com

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LA STORIA ECONOMICA L’OGGETTO La storia economica studia gli avvenimenti economici e la politica economica dei diversi Paesi nel breve e nel lungo periodo. Nel breve studia le tecniche e l’organizzazione della produzione, la quantità di risorse disponibili o la distribuzione per sesso e per età della popolazione. Nel lungo esamina le trasformazioni della struttura economica (Sistemi Economici, le problematiche dello sviluppo, i trends). Studia i diversi fenomeni sia sotto l’aspetto statico (riproduzione semplice) che l’aspetto dinamico (riproduzione allargata). Definendo il concetto di sistema economico come l’organizzazione economica complessiva esistente in una determinata area geografica: nella riproduzione semplice il sistema si riproduce sempre uguale a se stesso e manca di qualsiasi forma di Surplus; mentre nella riproduzione allargata il sistema è in grado di produrre l’accumulazione necessaria a creare una diversa combinazione delle risorse disponibili e l’innovazione dei prodotti e dei processi di fabbricazione. POSTULATI: L’analisi storico economica deve tenere conto, oltre che dei fatti, delle peculiarità mentali, sociali e culturali dell’uomo a livello individuale e collettivo. Inoltre è necessaria l’adozione di un paradigma interpretativo che permetta di classificare gli avvenimenti considerati secondo un ordine logico.

Ecco che storia economica ed economia si giustappongono e si integrano in modo speculare. IL METODO Definizione: è il processo di razionalizzazione di una scienza o di una dottrina allo scopo di determinare le uniformità o le leggi che ne regolano l’oggetto studiato. L’economia nacque, come scienza organica, tra la fine 1700 e gli inizi del 1800 in Inghilterra fase di ottimismo grazie alla Prima Rivoluzione Industriale. Smith, Ricardo e Malthus furono i fondatori della “Scuola Classica”. Essa adoperò il metodo logico–deduttivo che si fondava su un postulato dato e sulla conseguente scoperta di leggi che governavano il corretto funzionamento economico dell’ordinamento sociale. La filosofia giusnaturalistica (esistenza di una generale armonia tra gli interessi umani e fiducia nel funzionamento del sistema libero concorrenziale) fece rifiutare ai classici ogni forma di intervento dello Stato nella vita economica; l’equilibrio economico era garantito dal mercato attraverso il meccanismo dei prezzi e dal gioco della domanda e dell’offerta. Questo tipo di dottrina spinse l’Inghilterra sulla via del capitalismo industriale. La dottrina classica si diffuse anche in Francia nel 1789 con J. B. Say secondo il quale le leggi dell’economia sono insite nella natura delle cose; non occorre decretarle ma scoprirle; esse governano legislatori e principi e non possono essere violate. Le dottrine classiche in Germania furono decisamente avversate. Tra il 1843 e il 1900 venne a crearsi una nuova scuola di pensiero, la “Scuola Storica”; che può essere considerata la fondatrice della Storia Economica. Questa differenza di idee era dovuta al fatto che all’indomani del Congresso di Vienna la Germania era divisa in molti stati con strutture assai diverse tra loro che condussero ad una sorta di conservatorismo che attribuiva all’azione di ogni singolo Stato la tutela della propria identità nazionale. Rosher, Hildebrand e Knies, esponenti della prima scuola storica, adoperarono il metodo induttivo cioè l’osservazione sistematica dei fatti per pervenire ad una sintesi dell’attività umana; l’economia aveva il compito di individuare le leggi e regolarità, ma negava a queste il carattere di universalità perché legate a determinate contingenze storiche ed a specifiche condizioni geografiche, ambientali e costituzionali; sono temporalmente definite e spazialmente delimitate. Nel 1840, List, definì la teoria degli stadi dello sviluppo classificando la struttura professionale di ciascuna popolazione in base al livello di civiltà raggiunto: cacciatrice, pastorale, agricola - manifatturiera e agricola –

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industriale - commerciale. Quest’ultimo stadio poteva essere raggiunto da una nazione ricca di risorse naturali e di capitale umano ed a mezzo dell’intervento dello Stato volto al coordinamento intersettoriale e alla protezione dell’industria nascente. Nel 1860 Hildebrand elaborò una periodizzazione della crescita in rapporto agli scambi economici, peculiari della transizione da un’economia naturale ad una monetaria e da quest’ultima alla diffusione dell’economia creditizia quale si andava affermando in Inghilterra, paese più ricco del mondo. L’applicazione del metodo induttivo e della teoria degli stadi vennero ulteriormente approfondite da Schmoller e Bucher che diedero vita alla “Nuova Scuola Storica”, che avviò il processo di affermazione della storia economica come disciplina autonoma e l’intervento dello Stato nell’economia. Il diffondersi dell’industrializzazione ed il miglioramento dello standard of life, sollevarono enormi critiche nei confronti del nascente capitalismo e della scuola classica inglese. Il recupero dell’ideologia liberista si ebbe nel 1870 ad opera degli economisti marginalisti (denominati Neo – Classici). Essi a differenza dei classici privilegiavano l’analisi della domanda rispetto a quella dell’offerta ed elaborarono sofisticate teorie grazie a modelli matematici. Durante il 1800 l’affermazione della statistica, come scienza sistematica di osservazione dei fenomeni sociali, permise agli studiosi la costruzione di serie storiche delle variabili economiche. Schmoller fece una distinzione tra leggi morali e leggi naturali e riconobbe la complementarità tra metodo induttivo e metodo deduttivo. Leggi morali: operano in una realtà mutevole quale è la società e giungono a conclusioni relative. Leggi naturali : peculiari della fisica, giungono a conclusione di carattere universale. La scuola storica (tedesca) riteneva le leggi morali proprie dell’economia; la scuola marginalista valutava, invece, le leggi economiche simili a quelle fisiche. La scuola storica elaborò gli strumenti concettuali, il metodo di ricerca e le categorie analitiche mentre la scuola classica elaborò una teoria. Nel 1875 anche in Italia si costituì un gruppo di economisti socialisti della cattedra. Agli inizi del 900 la dottrina “istituzionalista” americana poteva considerarsi una diretta filiazione della “nuova scuola tedesca”. Fino alla prima guerra mondiale sia l’approccio storicistico che quello marginalistico offrirono una valida interpretazione del funzionamento dell’economia. Negli anni successivi la nascita della macroeconomia keynesiana ed il recupero della teoria neo-classica fecero sopire il prestigio dello stile intellettuale tedesco; ma ormai la storia economica vantava di un a propria autonomia scientifica e didattica. Negli anni ‘20 e ’30 storici economisti ed economici collaborarono dando vita a delle teorie sui cicli economici. Dopo la seconda guerra mondiale la storia economica divenne il supporto irrinunciabile allo studio dell’economia del sottosviluppo. In particolare venne rielaborata in chiave moderna la teoria degli stadi dello sviluppo che prese il nome di “sistema mondo”(Wallerstein). La new economic history ha recuperato l’approccio neo-classico attraverso la costruzione di modelli matematici. L’INTERDISCIPLINARITA’ La storia economica ha un legame interdisciplinare con le seguenti materie: Economia: attraverso la quale si individuano leggi di ampia portata per fornire alla storia economica i criteri teorici necessari alla scelta, alla coordinazione ed all’apprezzamento dei fatti, delle condizioni e degli istituti che ne costituiscono la materia. Sono quindi due materie complementari. Statistica: fornisce serie molteplici e più o meno complesse di dati , quantitativi e qualitativi, su: prezzi, corsi dei titoli, produzioni, salari. Demografia: connaturata alla storia economica per l’interdipendenza tra popolazione ed attività economica. Teoria di Malthus 1798: espose la relazione tra popolazione e risorse alimentari nella fase sella proto-industrializzazione, intravedendo la crescita della prima in progressione geometrica e delle seconde in progressione aritmetica. Si accorse che l’eccessivo aumento demografico portava all’aumento della mortalità, in quanto la crescita della domanda comportava l’innalzamento dei prezzi delle derrate agricole. Egli, nel 1803, per ovviare a questo problema, propose il ricorso alla restrizione morale; secondo la quale i lavoratori non dovevano contrarre matrimonio finché non fossero stati in grado di mantenere se stessi e la famiglia. Geografia: in quanto lo studio dell’uomo quale agente economico dei suoi eventi vitali non può essere avulso dall’ambiente nel quale egli opera. La geografia esamina i rapporti esistenti tra i comportamenti delle collettività passate e presenti e l’ambiente che è la risultante di quel comportamento.

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Sociologia: d’ausilio nel determinare l’agire dei gruppi o delle classi all’interno del processo storico ed i comportamenti che ne costituiscono la dinamica. Kula: la storia economica è la scienza che studia gli aspetti economici della vita sociale nelle differenti società e culture. Si occupa delle ricerche intese a fissare le “uniformità” che si manifestano nelle azioni socio-economiche e dei fattori sociali che le determinano.

I SISTEMI ECONOMICI LE ORIGINI Definizione: Sistema economico è l’insieme delle forme istituzionali, dei rapporti giuridici o consuetudinari, delle strutture sociali e delle modalità di organizzazione della produzione che regolano l’attività economica dell’uomo. Il processo storico di sviluppo ha determinato dalle originarie formazioni comunitarie, tributarie e schiavistiche ai più complessi sistemi feudale, mercantile, capitalistico e collettivistico. Dobb: nella realtà non si riscontrano sistemi “puri”, poiché in ciascuno di essi sono presenti elementi caratteristici sia dei periodi precedenti che di quelli successivi; un’organizzazione produttiva dominante coesiste sempre con un’altra subordinata o periferica. -Formazione Comunitaria: fondata sulla proprietà collettiva della terra e sul lavoro articolato su base individuale-familiare e su base comune: clan e villaggio. Non esistono forme di scambio. (es: Africa di oggi). -Formazione Tributaria : la casta dominante monopolizzava la terra e percepiva un contributo dai contadini, che erano organizzati in comunità. Produzione di surplus in pochi casi (Cina, Egitto) e nel lungo periodo. -Formazione Schiavistica (Feudale): può considerarsi una formazione periferica a quella tributaria, dove vi è una combinazione del lavoro libero con quello coatto (imposto per legge). Il surplus si venne a creare grazie al lavoro degli schiavi ma le possibilità di esportazione furono limitate a causa dalla dipendenza dalla manodopera esterna. Quando le invasioni barbariche ne causeranno la distruzione, dalle sue macerie nascerà una nuova formazione tributaria: il feudalesimo. L’ECONOMIA MEDIEVALE Il sistema economico feudale dell’Europa centro occidentale, nell’arco di tempo 700-800, è stato definito come una organizzazione della produzione fondata sulla combinazione di terra signorile e lavoro servile, finalizzata all’uso dei beni prodotti. Rispetto alla formazione precedente esso rappresentò un accelerato processo di ruralizzazione dell’economia, basato sulla cessione della terra dal sovrano > feudatario > vassalli > signore > gleba. Questi ultimi erano tenuti a prestazioni lavorative a favore del signore sulla pars dominicale del feudo (corvees), oltre al pagamento in natura di un censo per l’uso delle terre da essi coltivate e nelle quali abitavano (pars massaricia). L’assenza di un mercato non comportava la creazione di alcun surplus. Fino al 900 il feudalesimo si configurò come un’economia chiusa, basata sull’autoconsumo, sugli scambi in natura e sull’assenza di mercati monetarizzati (sistema a riproduzione semplice). A partire dal 1100 cominciarono a manifestarsi i primi mutamenti; con la cessazione delle invasioni barbariche, la popolazione entrò in una notevole fase di crescita, grazie allo sviluppo dell’agricoltura, che durerà fino al 1300, quando la peste la ridurrà drasticamente. L’aumento della popolazione causò il migliore sfruttamento delle tecniche produttive che conseguentemente spinse alla colonizzazione di nuove terre; ciò generò surplus. L’innovazione in campo agricolo incrementò la produttività dei contadini cosicché il signore cedette ad essi il lavoro di tutte le terre ottenendo in cambio un prodotto maggiore di quello ottenuto con le corvees. Il comune interesse del signore ed dei contadini alla formazione dell’eccedenza fu alla base della trasformazione della rendita in natura in rendita monetaria, grazie anche alla crescita ed allo sviluppo delle economie urbane. Le città erano parte integrante, ma non dominante del sistema feudale. I feudatari

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riscuotevano tributi in moneta per proteggere le città e gli scambi, i quali tributi venivano riutilizzati per acquistare i beni degli stessi mercanti. La condizione di vita dei servi e dei contadini andò però peggiorando a causa dei più sempre alti tributi da pagare: abbandono delle terre e fuga verso le città. Ciò comporto un notevole calo della produzione e soffocò qualsiasi elemento reale di novità. Senza dubbio, ciò che più ricondusse il sistema feudale alla sua staticità economica fu la mancanza di braccia e la caduta della produzione successive alla peste del 1347. LA TRANSIZIONE AL CAPITALISMO. IL MERCANTILISMO Il mercantilismo si basava sul commercio su grandi distanze e sull’acquisizione di profitti monopolistici derivanti dalla differenza dei costi e dei valori d’uso dei prodotti tra le diverse aree geografiche. Esso si diffuse in Europa occidentale tra la fine del 1400 (grandi scoperte geografiche) e la fine del 1770 (quando la Riv. Ind. decreto l’avvio del capitalismo). Si trattava di un sistema mercantile-tributario le cui premesse furono la ripresa del ciclo economico di periodo, la costituzione degli Stati nazionali, la colonizzazione che seguì le grandi scoperte geografiche. La costituzione degli Stati, intensificando l’attività economica, aveva infatti permesso sia di combattere il feudalesimo che l’universalismo della Chiesa. La Chiesa venne indebolita dalla riforma protestante che vedeva il lavoro, la parsimonia e l’operosità valori fondamentali nella vita terrena e strumenti di elevazione per quella ultraterrena. Vennero rivisti i principi di giusto prezzo ed usura: il divieto di quest’ultima fu superato con l’eccezione del danno emergente, subito dal mutuante per la mora al rimborso, e del lucro cessante, sopportato dallo stesso per la perdita di opportunità di guadagno del denaro dato in prestito; per quanto al primo, esso era rapportato alla stima comune del bene e non si allontanava eccessivamente dal suo costo di produzione, in quanto doveva essere sufficiente al mantenimento del produttore e della sua famiglia. La Chiesa successivamente giustificò i guadagni perché essi permettevano, oltre al mantenimento del mercante e del suo nucleo familiare, di recare beneficio alla nazione. Furono le grandi scoperte geografiche e i consistenti traffici che crearono uno stretto legame tra Stato e commercianti ed avviarono verso la sua massima espansione il mercantilismo. I traffici con l’Africa, l’India e il Nuovo mondo fecero cambiare le rotte dell’economia internazionale, in particolar modo grazie all’importazione di nuovi prodotti, in particolare i metalli preziosi. Tra il 1500 e il 1600 vi fu un eccezionale rialzo dei prezzi a causa dei metalli preziosi che condusse mercanti e statisti ad identificare la ricchezza nel possesso di oro ed argento. I governi mirarono all’intensificazione dell’esportazione, alla colonizzazione di nuovi territori ed alla creazione di barriere protezionistiche. SPAGNA: privilegiò la tesaurizzazione dei metalli preziosi e stabilì che i beni venduti all’estero fossero remunerati in moneta e quelli acquistati scambiati con prodotti nazionali (Bullionismo). INGHILTERRA: diede un forte impulso alla marina mercantile (Compagnia delle Indie orientali britanniche) per incrementare le proprie riserve di metalli preziosi. Con l’atto di navigazione del 1651 sancì il monopolio dei trasporti con le colonie soggette alla sua dominazione e proibì alle navi straniere di importare prodotti che non provenissero dai loro paesi di origine. FRANCIA: Colbert con l’emanazione di 150 “regolamenti di fabbrica” favorì una produzione di qualità ai massimi livelli e incentivò la nascita di grandi società commerciali (Compagnia del Levante, Compagnia delle indie orientali ed occidentali); inoltre venne attuata una politica fortemente protezionistica favorendo l’importazione dei prodotti francesi. OLANDA: concesse la piena libertà di esportazione dei capitali in quanto godeva di un’affidabile moneta e di un’efficiente Borsa (la più importante fino al 1700). La sua decadenza è stata attribuita all’assenza di investimenti produttivi, in quanto i cittadini vivevano di rendita, ma anche dalla sempre maggiore affermazione dell’Inghilterra e della Francia. L’analisi dei mercantilisti fu assai carente in quanto essi confusero la ricchezza con la moneta non comprendendo che la sovrabbondanza di questa causava l’aumento dei prezzi dei beni prodotti rendendoli poco competitivi sui mercati nazionali a vantaggio di quelli esteri. Il concetto di ricchezza cominciò a mutare in Inghilterra (Mun e Tucker l’attribuirono alla produzione destinata all’esportazione ed alla quantità di lavoro contenuta nelle merci vendute all’estero) ed in Francia (Quesnay e Turgot ritennero l’agricoltura l’unico settore in grado di creare surplus). IL CAPITALISMO INDUSTRIALE E LA NASCITA DELL’ECONOMIA POLITICA

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Definizione: Il capitalismo è un sistema economico caratterizzato dalla formazione e dall’impiego produttivo del capitale, dalla divisione internazionale e libertà del lavoro e fondato sull’impresa, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sull’economia di mercato. Nascita delle Banche (elemento molto importante per il Capitalismo) in seguito alle necessità legate all’afflusso dei metalli preziosi, alla continua svalutazione della moneta ed alla salvaguardia e facilitazione dei pagamenti internazionali. La progressiva accumulazione di capitale e il diffondersi delle banche spinsero il mercante ad allargare la propria azione alla sfera della produzione, prima domestica e poi manifatturiera. Alla figura del maestro subentrò quella del mercante. Il Putting – out segnò l’inserimento del mercante nell’ambito della produzione. Con il Putting – out il mercante acquistava la materia prima (lana grezza Inglese) che rivendeva al tessitore (paesi bassi) il quale ne faceva curare la filatura e la tessitura alle famiglie contadine. Questo sistema avvantaggiava l’imprenditore che, oltre a realizzare un guadagno già all’atto della cessione della lana, non era più tenuto a ricomprarla. Il Putting – out rappresentò un esempio di divisione internazionale del lavoro: gli allevatori inglesi vendevano la lana ai mercanti fiamminghi, che la davano fuori (to put out) ai filatori ed ai tessitori per la trasformazione in panno. Questo, quando non era sottoposto il loco alle fasi finali della lavorazione, era venduto ai mercanti italiani che ne affidavano la finitura a maestri particolarmente esperti e poi lo smerciavano nelle città musulmane bagnate dal Mediterraneo. Inghilterra nacque il Domestic system che altro non era che un’organizzazione domiciliare della produzione, dove l’imprenditore inglese era proprietario della materia prima e degli stessi strumenti della produzione. Gli operai/artigiani non erano sottoposti alla rigida disciplina, quale sarà quella della fabbrica, poiché essi potavano assimilarsi a dei salariati a contratto. Tra il 1500 ed il 1600 nacque un’altra organizzazione, il Factory system (sistema della manifattura) con l’accentramento dei telai, prima presso le abitazioni dei capitalisti, poi in appositi edifici (manifatturiere). Esempi di manifatturiere artigianali furono le tappezzerie Gobelins in Francia e le cartiere, gli arsenale e le fabbriche di armi in Russia, con il reclutamento di manodopera non qualificata ne salariata. In questa fase di proto-industrializzazione si ha una produzione artigianale non finalizzata al consumo di massa. Quando nella seconda metà del 1700 la rivoluzione industriale decretò la proprietà privata dei mezzi di produzione, la diffusione della meccanizzazione e del rapporto salariale e l’ampliamento del mercato, la transizione dalla proto-fabbrica alla fabbrica poteva considerarsi conclusa e la nascita del capitalismo industriale avviata. In Francia, l’edito di Turgot del 1776 fu l’affermazione della libertà come principio e valore della emancipazione e della condotta dell’uomo che caratterizzò lo spirito, la cultura e l’ideologia dell’Europa e a questo principio s’ispirò il capitalismo attraverso la libera concorrenza, il rifiuto dell’intervento dello Stato nell’economia, la tutela della proprietà privata, l’uso non vincolato dei fattori di produzione. La “scuola classica” si occuperà di dare forma compiuta e riferimento teorico al capitalismo come sistema economico. Essa riconobbe pienamente il principio dell’ordine naturale, secondo il quale il mondo è governato da leggi non modificabili, create da Dio per la felicità degli uomini. Il motto laissez faire – laissez passer divenne il vessillo della scuola classico contro il mercantilismo. La legge degli sbocchi di Say, il quale diede sistemazione organica all’opera di Smith e la diffuse in Francia, permette di sintetizzare gli automatismi del capitalismo. Secondo Say l’offerta crea sempre la propria domanda in quanto c’è una corrispondenza tra redditi spesi e redditi percepiti. Egli attribuì la responsabilità delle crisi all’insufficiente produzione delle nazioni povere. A differenza dei fisiocratici, Smith riteneva che la fonte della ricchezza era nel lavoro produttivo (capace di generare surplus), il cui grado di produttività era determinato dall’aumento della divisione del lavoro stesso connesso alla diffusione della meccanizzazione ed al continuo ampliamento degli scambi. Decenni dopo Ricardo con la teoria dei costi comparati, dimostrò che due nazioni, con differente produttività del lavoro, potevano scambiare i loro prodotti con reciproco vantaggio se ciascuna si fosse specializzata nella produzione del bene il cui costo relativo risultava minore. Questa situazione si volgeva del tutto favorevole all’Inghilterra la quale esportava prodotti agricoli e importava prodotti industriali che, per il loro contenuto tecnologico, avevano un valore elevato. IL MARXISMO E LE ECONOMIE SOCIALISTE

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La critica marxiana all’economia classica poggia sulla teoria del valore – lavoro elaboratala Smith e da Ricardo, teoria sulla quale Marx sviluppo la tesi della transizione al socialismo attraverso lo sfruttamento della classe operaia, la creazione del plusvalore, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, le crisi di sovrapproduzione. Teoria di Smith : osservò che ciascun bene possiede un valore d’uso (commisurato alla sua qualità di soddisfare bisogni soggettivi degli individui) e un valore di scambio (rappresentato dalla sua capacità di acquistare altri beni sul mercato). Esistono merci che hanno un elevato valore d’uso ed un basso valore di scambio (acqua) e viceversa (diamanti). Smith focalizzò la sua attenzione sul valore di scambio, perché interessato alle cose che producono ricchezza. Egli fece una differenza tra valore di scambio nella società precapitalista e capitalista. Nella società precapitalista il valore di scambio corrisponde alla quantità di lavoro necessario alla produzione di un bene, in quanto vi era un’identità tra lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione; in questo caso il lavoro comandato corrisponde al lavoro contenuto e non c’è nessun surplus. Nella società capitalista il valore di scambio non coincide più con il lavoro impiegato in un bene, perché esso dovrà remunerare anche altri due fattori della produzione: terra e capitale. Il valore dipende dal “potere di disporre del lavoro” ancor più che dalla sua quantità e questo potere è esercitato dal capitale, che può impiegare uomini industri ai quali fornire materie prime e mezzi di sussistenza, al fine di ricavare una eccedenza dalla “vendita del loro lavoro”; quindi il lavoro comandato risulta maggiore di quello contenuto e viene a crearsi il surplus. Teoria di Ricardo: formulò una diversa teoria del valore-lavoro ed escluse la rendita quale componente del valore di scambio, perché essa non rappresentava un reddito originario ma derivato. Egli dimostrò che il lavoro è la fonte del valore sia nelle società precapitalista che in quelle industrializzate. Egli infatti assimilò il capitale al lavoro accumulato nel tempo e incorporato nei mezzi di produzione, negli impianti o nella costruzione di opifici; questo lavoro indiretto sommato al lavoro diretto, prestato dall’operaio nel processo di fabbricazione, è la misura del valore di scambio di una merce. Il valore di scambio delle derrate agricole, secondo Ricardo, è dato dal prezzo di mercato, a sua volta determinato dal costo più elevato del prodotto ottenuto nel terreno meno fertile, la cui messa a coltura era divenuta indispensabile per adeguare l’offerta al livello della domanda. Premettendo che, l’individuazione del valore di un bene sta nel lavoro in esso contenuto, Marx costruì l’analisi del capitalismo e della sua transizione al socialismo. Nella teoria Marxista vi è una trasformazione del metodo dialettico di Hegel (la natura umana è mutabile in quanto subisce le trasformazioni della storia) dalla filosofia all’economia, che prende il nome di materialismo dialettico. Per Marx ogni forma di produzione è caratterizzata da determinati rapporti sociali e regolamentata da una sovrastruttura (politica, istituzionale, giuridica, ideologica e psicologica) strettamente correlata e dipendente. Marx sostiene che scopo dell’economia è lo studio dei rapporti sociali di produzione i quali permettono il massimo utilizzo delle forze produttive, fino al punto da diventare inadeguati all’espansione del sistema; questa contraddizione porterà al mutamento della sovrastruttura attraverso una rivoluzione politica che integra la precedente, crea una struttura adeguata al nuovo ordine economico e permette alle forze produttive di trovare il loro ambito naturale.(*) Marx ritiene che il capitalismo sia solo una fase storica dell’intero processo di sviluppo, perché caratterizzata da una contraddizione fondamentale: da un lato esso era organizzato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, dall’altro, i suoi processi di produzione richiedevano rapporti sociali di tipo cooperativo, adeguati alle nuove forze produttive disponibili. Questa dicotomia tra capitale e lavoro si sarebbe manifestata con la lotta di classe e con il passaggio ad una società socialista, caratterizzata dalla proprietà collettiva dei mezzi e dalla socializzazione dei rapporti di produzione. Attraverso lo sfruttamento della classe operaia, da parte dei detentori del capitale, il valore di scambio del lavoro è inferiore al prodotto del lavoro, sfruttamento che Marx sintetizzò nella Teoria del Plusvalore. Il Plusvalore è appunto la differenza tra il valore di uso e il valore di scambio della forza lavoro; è in sostanza la conseguenza della proprietà privata dei mezzi di produzione e del sistema di lavoro salariato, ossia la divisione in classi della società tra i detentori di capitale ed il proletariato. (*) Questo processo verrà accelerato, secondo Marx, dalla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e dalle crisi di sovrapproduzione.

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Marx elaborò un indice dello sfruttamento dell’operaio che chiamò, saggio di plusvalore (Plusv / valore del capitale variabile [salari]); poiché il capitalista non potrà sfruttare l’operaio oltre un certo tempo, egli aumenterà la produzione tramite l’introduzione della meccanizzazione. Si tenderà così ad accrescere la composizione organica del capitale (capitale costante[materie prime, ammodernamenti degli impianti] / capitale variabile). Un indice del plusvalore ottenuto dall’utilizzo del capitale totale è il saggio di profitto (Plusv / capitale fisso + capitale variabile). La interrelazione tra queste variabili consente di esporre la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e l’origine delle crisi di sovrapproduzione. Correlazione tra meccanismo della caduta tendenziale del saggio di profitto ed il verificarsi di crisi di sovrapproduzione: il maggiore impiego di capitale fisso ampliava, da un lato, la scala di produzione ed accresceva, dall’altro, l’esercito industriale di riserva, ossia i disoccupati (per cui, cresceva l’offerta, ma si riduceva la domanda). La storia ci dimostra però che le previsioni Marxiste non si vennero a verificare in quanto l’affermazione dei sindacati, la diffusione del welfare state e di adeguate legislazioni sociali hanno tutelato lo status e le condizioni del lavoro. Inoltre grazie all’enorme potenziale produttivo del capitalismo, i governi hanno potuto traslare parte del reddito a soggetti, quali anziani, disoccupati o estranei al circuito produttivo. I regimi socialisti si instaurarono in Paesi (Russia e Cina) dove la struttura economica era ancora feudale. CRISI E RINASCITA DEL CAPITALISMO In Inghilterra, in seguito alla grave carestia che falcidiò il potere di acquisto dei paesi importatori dopo le guerre napoleoniche (riconversione delle industrie) ed in particolare tra il 1816-1817 (carestia): estrema gravità della recessione caratterizzata dalla sovrabbondanza di merci invendute e dalla crescente disoccupazione. Intensità e durata della recessione: prova evidente dell’inadeguatezza degli automatismi del mercato per il riequilibrio spontaneo, mettendo in discussione uno dei capisaldi su cui poggiava il regime libero concorrenziale: Legge sugli sbocchi, la quale prevedeva che tutto il reddito percepito dall’impiego dei fattori della produzione fosse speso, escludendo quindi ogni forma di tesaurizzazione. Inghilterra, nei periodi critici: iscrizione di un numero notevole di indigenti nelle liste parrocchiali, al fine di garantirsi un sussidio. Questi motivi spinsero Malthus (prete anglicano, fautore della scuola classica) allo studio delle cause della sovrapproduzione in Inghilterra, anticipando il lavoro di Keynes di 115 anni. Secondo Malthus la crisi di sovrapproduzione fu dovuta all’investimento in macchinari, i quali provocavano un aumento dell’offerta sul mercato senza un corrispondente aumento della domanda. Questo squilibrio, originato dalla crescente trasformazione del reddito in capitale poteva essere superato attraverso il consumo alimentato dai lavoratori improduttivi: domestici, impiegati, militari, coloro i quali offrivano solo servizi e dovevano quindi ricevere dai “ricchi” la remunerazione alle prestazioni rese. Perciò, Malthus individuò nella rendita la fonte del consumo improduttivo e difese, al contrario di Ricardo, il ruolo sociale ed economico di questi ultimi all’interno del sistema capitalistico. Egli ritiene che la domanda effettiva, ossia necessaria ad assorbire l’offerta dei beni prodotti, poteva essere sostenuta anche con quelle attività (riparazione delle strade, attuazione di lavori pubblici) i cui risultati non vengono venduti sul mercato, ma che permettono di ridurre il capitale da utilizzare nei lavori produttivi. Il periodo di tempo compreso tra il 1873 (periodo della “grande depressione” caratterizzata dalla contemporanea caduta dei profitti, dell’occupazione, del commercio internazionale e dei prezzi agricoli) e il 1929 (“grande crollo” della borsa di Wall Street) sembrava decretare le previsioni marxiane sulla fine del capitalismo, l’economia non aveva fatto grandi progressi in materia, o meglio, aveva esplorato campi diversi di ricerca: Dopo il 1870 gli studiosi marginalisti spostarono l’analisi economica su problemi di teoria pura, tralasciando qualsiasi implicazione storica sulla formazione e distribuzione della ricchezza in relazione alle diverse classi sociali; questo perché tra la fine del 1800 ed il 1914 l’economia mondiale ebbe un notevole sviluppo grazie al rafforzarsi dei mercati e grazie alla stabilità del sistema monetario internazionale (gold standard = passaggio da bimetallismo al monometallismo). Ignorarono però certi fenomeni quali la concentrazione delle imprese attraverso cartelli, trust e la sindacalizzazione dei lavoratori. Alla fine della I guerra mondiale la grave situazione debitoria degli Stati per le spese belliche e la distruzione di buona parte dell’apparato produttivo si sommarono alla sovrapproduzione conseguente, nel 1921, alla riconversione dell’industria a scopi di pace.

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La riduzione della domanda, causata dal soddisfacimento dei bisogni più urgenti, corrispose ad un ampliamento dell’offerta dovuto agli “effetti normali” del capitalismo. Questi effetti si fecero risentire particolarmente negli Stati Uniti, non a caso negli anni ’20 e ’30 furono elaborate le teorie della concorrenza imperfetta e della concorrenza monopolistica e gli economisti cominciarono ad attribuire il persistere della disoccupazione ed il protrarsi degli squilibri che ostacolavano il corretto funzionamento del mercato alle concentrazioni d’impresa ed all’azione dei sindacati. Per ovviare a ciò, all’inizio degli anni ’30, venne intrapreso un nuovo percorso (New deal) che vedeva l’attuazione di vasti programmi di lavori pubblici per lenire la disoccupazione; questi programmi erano ispirati a scopi umanitari e pragmatici. Essi avviarono una presa di coscienza del ruolo che lo Stato avrebbe potuto svolgere per migliorare le condizioni di vita della collettività. Le dottrine economiche che affermavano gli automatismi del mercato erano state smentite dalla crisi del 1929. Keynes sosteneva che condizione necessaria all’equilibrio economico è l’uguaglianza tra risparmio ed investimento che si determina attraverso le variazioni del reddito, coerentemente con le diverse premesse metodologiche che caratterizzano le due impostazioni. Scopo della sua analisi era l’individuazione all’interno di una società capitalistica avanzata, delle cause che perturbano l’economia e dei meccanismi in grado, nel breve periodo, di ristabilire le condizioni di equilibrio che solo eccezionalmente corrispondevano al livelli di pieno impiego. Keynes si può considerare il fondatore della moderna macroeconomia (interesse verso i comportamenti dei singoli soggetti nella loro qualità di produttori per il mercato o di consumatori). Premessa della sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta è che il reddito complessivo è uguale alla spesa globale in consumi correnti ed investimenti e che il volume dell’occupazione è determinato dal livello del reddito; quando quest’ultimo aumenta, il risparmio cresce sia in valore assoluto che percentualmente (propensione media al risparmio); la spesa in consumo, invece, pur incrementandosi in termini assoluti tende ad assorbire una quota decrescente del reddito (propensione media al consumo). Quindi per raggiungere l’equilibrio tra risparmio ed investimento, ad un livello di attività economica di pieno impiego, saranno indispensabili sempre nuove occasioni di investimento. Il volume di quest’ultimo sarà determinato dal saggio di rendimento che gli imprenditori intendono di ottenere, ossia dell’efficienza marginale del capitale, in raffronto al saggio di interesse che essi devono pagare per acquisire la quantità di moneta necessaria agli impieghi e, soprattutto dalle loro aspettative di ricavi futuri, che rappresentano la motivazione psicologica della decisione stessa di intervenire; nel caso di aspettative negative prevale la preferenza per la liquidità. Negli USA, nei primi anni ’30, a causa della preferenza per la liquidità e della tesaurizzazione si ebbe una riduzione degli investimenti e, quindi, della spesa complessiva; di conseguenza, contrazione del reddito e dell’occupazione. Questo processo di riduzione della ricchezza, che andrà avanti fino a quando l’uguaglianza tra investimento e risparmio sarà ripristinata, può essere interrotto, secondo Keynes, dall’intervento dello Stato, che attraverso la spesa pubblica, può effettuare gli investimenti necessari ad aumentare il reddito e ad avviare un circuito inverso al precedente (aumentare la domanda senza aumentare l’offerta e senza generare concorrenza con l’industria privata). L’investimento ha effetti moltiplicativi sul reddito (nel senso che questo aumenta più che proporzionalmente rispetto a quanto si investe). Per il procacciamento di quanto necessario per affrontare la spesa pubblica: a) ricorso al prestito (deficit spending); b) ricorso all’espansione monetaria. La Teoria generale mutò completamente l’impostazione tradizionale del meccanismo economico e decreto la fine della Legge degli sbocchi di Say, in quanto dimostrò che non sempre tutto il reddito è speso; quando vi è una perturbazione economica entrano i gioco anche i fattori psicologici che frenano la domanda ed aumentano il risparmio. Tra gli anni ’50 e gli anni ’70, con apposite politiche fiscali e monetarie, restrittive o espansive dell’investimento: maggiore stabilità nello sviluppo dei paesi industrializzati. Negli anni ’70: ulteriore evoluzione delle politiche economiche per contrastare una nuova recessione dovuta all’aumento del costo del petrolio, con connotazioni diverse dalle precedenti (problema della stagflazione). Stagflazione (inflazione con stagnazione): a causa dell’aumento dei costi delle materie prime ed in particolare del petrolio, per il conseguente adeguamento di salari e stipendi alle variazioni del costo della vita.

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In tutte le nazioni ricche, comunque, lo sviluppo del welfare state ha funzionato a ammortizzatore delle tendenze sociali e la lotta all’inflazione, nonostante il suo elevato costo in termini di riduzione del prodotto e dell’occupazione, poteva ritenersi superata nella seconda metà degli anni ’80.

I CICLI ECONOMICI ONDE LUNGHE E ONDE BREVI NELL’ATTIVITA’ ECONOMICA La dinamica del capitalismo è stata caratterizzata da alcune tendenze secolari, Trend, quali: - progressivo aumento degli addetti all’industria, e poi, successivo aumento degli addetti nel terziario; - progressivo aumento della produzione globale dal 1820 (eccetto Giappone ed Italia); - progressivo aumento dei prezzi. Nonostante la progressiva espansione del capitalismo, ai trend si sono sovrapposte delle variazioni del ritmo di sviluppo di carattere ciclico. Nel 1862 il medico parigino Juglar si accorse che, attraverso l’andamento dei saggi di interesse in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, si verificavano onde brevi (o cicli maggiori) dell’attività economica, della durata media di otto anni, contraddistinte da una fase di prosperità, da una crisi e da una conseguente recessione. Nel 1923 Kitchin individuò l’esistenza, in Inghilterra e negli Stati Uniti, di cicli minori (o ipocicli) della durata media di tre anni e mezzo; questo attraverso l’analisi dell’andamento dei prezzi all’ingrosso e dei saggi di interesse. Nel 1926 l’economista russo Kodrat’ev dimostrò, mediante serie statistiche sull’andamento dei prezzi e della produzione, relative alla Gran Bretagna, alla Francia, agli Stati Uniti e la Germania, la periodicità di onde lunghe (o cicli di lungo periodo) nell’attività economica della durata media di cinquant’anni. Le onde di lungo periodo furono studiate anche da Imbert accorgendosi che al termine di ogni fase di recessione sono disponibili, sul mercato, fattori della produzione inutilizzati, che saranno in parte impiegati nelle imprese più dinamiche per aumentare la produzione, senza che ciò causi il contemporaneo aumento dei salari e dei prezzi. Nel 1930 Kuznets individuò degli ipercicli o secondary movements della durata media di vent’anni. Questi si ponevano al centro tra le onde brevi di Juglar e quelle lunghe di Kodrat’ev. I CICLI ECONOMICI Crisi intense ed estese intorno al 1816-17, al 1873 e nel 1929. (1) Fasi di rialzo dei prezzi si ebbero dal 1789 al 1814, dal 1850-73 e dal 1897 al 1920. (2) Fasi di ribasso dal 1815-49 (a), dal 1874-96 (b), 1921-39 (c). (1) Secondo Schumpeter i cicli lunghi di Kodrat’ev corrispondono alle successive rivoluzioni industriali che hanno dominato il processo di sviluppo capitalistico e che hanno trovato nell’innovazione la loro spinta propulsiva. Tre rivoluzioni industriali, tre cicli lunghi. (2) (a) Depressione 1815-49 fu successiva al blocco continentale ed alla Restaurazione. Causata dalla continua discesa dei prezzi agricoli che negli anni precedenti (1816-17 carestia e guerre) erano stati molto elevati, dalla messa a coltura di nuove terre e dalla riduzione della produzione di oro. In questa situazione l’unico paese a sviluppo capitalistico fu l’Inghilterra, la quale non trovando mercati di sblocco alle proprie esportazioni, soffrì di una grave crisi di sovrapproduzione. (b) Depressione 1874-96 ebbe inizio dopo la guerra di secessione degli Stati Uniti, quella franco-prussiana ed altri conflitti. Si innestò a causa della forte riduzione del costo dei trasporti, che permise agli USA di esportare i propri prodotti agricoli in Europa, dove risultavano più competitivi rispetto a quelli locali. La depressione non toccò allo stesso modo tutte le nazioni, USA e Germania accelerarono il loro sviluppo proprio in quegli anni.

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(c) Depressione 1921-39 si ebbe all’indomani della I guerra mondiale. Essa fu il riflesso della riconversione dell’economia di pace, dei tentativi di stabilire ordine nei mercati monetari e, soprattutto, di una latente sovrapproduzione che si manifestò con la crisi del 1929. I cicli brevi e gli ipocicli si inseriscono nelle fasi di espansione e di depressone delle onde lunghe. Tre cicli Kitchin formano un ciclo Juglar e sei di questi ultimi un Kodrat’ev. RECENTI INTERPRETAZIONI DELLE FLUTTUAZIONI ECONOMICHE Nel corso degli anni ’70 del Novecento, la crisi petrolifera, la stagflazione, il rallentamento del ritmo di sviluppo dei paesi industrializzati hanno rinnovato l’interesse per lo studio dei cicli economici. Mandel ha individuato una quarta onda lunga iniziata nel 1940 e originata dalla rivoluzione “elettronica” e dallo sfruttamento dell’energia nucleare. La fase ascendente di questa fluttuazione sarebbe terminata alla fine degli anni ’60. Maddison sostiene che non esistono elementi sufficienti a provare l’esistenza di onde lunghe nell’attività economica. Si tratta invece di comprendere quali fattori di disturbo hanno generato rallentamenti nella velocità di crescita del capitalismo, a partire dal 1820, e quali sono stati i mutamenti della struttura economica. A suo giudizio, dopo il 1973 (crisi petrolifera), si è aperta una nuova fase del capitalismo, in considerazione dei cambiamenti che si sono avuti nella bilancia del potere economico mondiale, nel sistema internazionale (con la fine degli accordi di Bretton Woods), nella gestione della politica keynesiana della domanda da parte dei diversi governi, nelle aspettative del mercato del lavoro e nella conseguente esplosione della spirale prezzi-salari.

LA RIVOLUZIONE URBANA

ORIGINI E CARATTERI DELLE CITTA’ DELL’EUROPA MEDIOEVALE Il sorgere o risorgere delle città nell’Europa del 1000-1200 segnò una svolta nella storia della civiltà europea. Le città avevano prosperato ed erano proliferate nel mondo greco-romano, ma la decadenza dell’impero segnò anche la loro decadenza e le invasioni germaniche ne decretarono la morte. Con al caduta dell’impero l’Europa del Nord migliorò lentamente. Ai tempi di Roma vi erano stati due mondi separati: il mondo mediterraneo e il mondo nordico. Nel 600 il mondo mediterraneo si spacco in due, e la parte europea si legò più strettamente al subcontinente. Sotto l’egida di un comune credo religioso emerse l’Europa. Era un’Europa povera e primitiva, fatta di tanti microrganismi rurali (curtes) largamente autosufficienti, la cui autarchia era in parte conseguenza della decadenza del commercio ed in parte anche causa. Lo stato delle arti, il commercio, l’istruzione, l’uso della moneta erano ridotti a livelli minimi se non addirittura scomparsi. Il legno andava a sostituirsi alla pietra come materiale da costruzione. Con l’avvento dei Carolingi (747) il circolo vizioso che aveva funestato la vita dell’Europa dai tempi della caduta dell’Impero Romano sembrò finalmente rompersi e si verificò una certa ripresa, incentrata sull’agricoltura. Furono progressi modesti legati unicamente all’Europa del Nord in quanto l’Europa meridionale era soffocata dalla pressione degli Arabi. Sul mare del Nord, il commercio con la Scandinavia e l’Inghilterra fece nascere due centri Quentovic e Durstede. Questa ripresa fu però fermata dalla seconda ondata di invasioni barbariche, tra la fine del 800 e l’inizio del 900, che attaccarono l’Europa da Nord (Normanni e Vichinghi), da Sud (Arabi) e da Oriente (Magiari). Nel 955, il re di Germania Ottone riuscì però a distruggere l’esercito magiaro nella battaglia di Lechfeld mettendo fine alle scorribande; conseguentemente cessarono le incursioni normanne; fu allora che in Europa cominciarono a svilupparsi nuove città. Il sistema curtense fu sostituito da un sistema economico basato sulle città, gli scambi e il lavoro libero. Perenne cercò di formulare una teoria generale che servisse a spiegare il sorgere delle città nelle varie parti d’Europa. Secondo ciò era spiegabile attraverso la teoria del portus che si espande fino a conglobare l’originale

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nucleo fortificato feudale e a costruire la nuova unità urbana (questo vale però solo per i Paesi Bassi e per la Francia settentrionale). Secondo Ennen, invece, si possono distinguere nell’Europa occidentale tre zone in cui il processo di urbanizzazione assunse forme diverse:

a) l’Italia, la Francia meridionale e la Spagna, dove in fondo le città, per quanto decadute, continuarono ad esistere nei secoli dell’Alto Medioevo;

b) l’Inghilterra, Francia del Nord, Paesi Bassi, Svizzera, Renania, Germania meridionale e l’Austria, dove Roma aveva creato delle città, ma ogni forma di vita cittadina scomparve nei secoli dell’Alto Medioevo.

c) La Germania del nord e la Scandinavia dove l’influenza di Roma non penetrò mai e non erano mai sorti nuclei urbani di qualsiasi tipo o natura.

L’unità non va cercata nelle forme che variano da luogo a luogo, ma nella sostanza dell’evoluzione. Alla base del fenomeno cittadino vi fu un massiccio movimento migratorio. La gente si spostò dalla campagna alla città per ragioni di repulsione e per ragioni di attrazione (il push e il pull dei demografi anglosassoni). C’è da considerare che la tendenza economica nel mondo rurale dal 900 al 1200 non era per niente in peggioramento; al contrario la situazione andava migliorando grazie ad una serie di innovazioni tecnologiche, investimenti e riorganizzazione della proprietà. La città entrò in gioco, come elemento di rottura, come luogo in cui emigrare per tentare fortune nuove. La città medievale non è un organo di un organo più vasto, ma è un organismo a se stante, fieramente autonomo, e in netta opposizione con il mondo circostante. Vi furono delle differenze sostanziali nello sviluppo delle città italiane rispetto a quelle oltralpe. Fuori dall’Italia la borghesia abitava nelle città mentre i nobili nei castelli che popolavano le campagne; nell’Italia centrale e settentrionale i nobili fiutarono la direzione in cui spiravano i venti e numerosi nobili si spostarono nelle città, dove si costruirono dimore turrite che ricordavano i loro castelli rurali e che diedero alla città italiana un aspetto feudale che manca alle città d’oltralpe. Tra nobili inurbati e gli altri abitanti della città non corsero però mai buoni rapporti. L’amministrazione cittadina era di solito affidata al vescovo, ma con il tempo i borghesi acquisirono ricchezze, riuscirono a mettere fuori gioco i nobili e tolsero l’amministrazione dalle mani del vescovo. Certi comuni acquistarono tanta forza da partire all’attacco dei territori circostanti, finendo col creare veri e propri Stai territoriali autonomi e sovrani. La gente della città dell’Europa centrale, circondata da un mondo ostile, avvertì la necessità dell’unione e della collaborazione reciproca. Là dove il mondo feudale circostante è troppo potente per le sue forze (Germania) la città resta sulla difensiva, nella sicurezza delle sue mura; là dove la città si sviluppa economicamente al punto tale da travolgere gli equilibri del mondo feudale (Italia) la città si espande alla conquista della regione. La rivoluzione urbana dei secoli 1000 -1200 fu il preludio e creò i presupposti della Rivoluzione industriale del 1800.

LA POPOLAZIONE

Attorno all’anno Mille l’Europa non contava più di 30/35 milioni di abitanti. Tra la metà del 900 e gli inizi del 1300 la popolazione aumento, triplicandosi in Germania, Francia ed Inghilterra e raddoppiando in Italia. Tra il 1330 e il 1340 la popolazione europea poteva contare di 80 milioni di abitanti. Nel 1348 scoppiò una pandemia di peste che in meno di tre anni eliminò 25 milioni di persone. Alla fine del 400 la popolazione doveva aggirarsi ancora tra gli 80 milioni di abitanti. Nel 1600 sui 105 milioni, nel 1700 sui 115 milioni. Della popolazione europea di quel periodo due tratti vanno messi in rilievo: la popolazione rimase sempre di tipo “giovane” (grazie all’alta fertilità) e ridotta (a causa di un’alta mortalità). Nuzialità e fertilità: una percentuale non trascurabile della popolazione adulta non si sposava e che parte di coloro che si sposavano lo facevano in tarda età. Vari elementi culturali favorirono questa tendenza che facilitò una certa natalità illegittima, al quale fu però più che compensata dalla riduzione della natalità legittima. La fertilità dell’Europa si collocò sempre nella fascia degli alti livelli. Mortalità: è opportuno fare una distinzione tra mortalità ordinaria e mortalità catastrofica. Negli anni normali la mortalità era molto elevata. La componente maggiore della mortalità ordinaria era data dalla mortalità infantile (numero dei morti nel primo anno di vita rapportato al numero dei nati vivi) e dalla mortalità degli

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adolescenti (numero dei fanciulli che morivano in età da 1 a 5 o 10 anni rapportato al numero dei fanciulli viventi dello stesso gruppo d’età). L’alta mortalità dei giovani era un indice della povertà della popolazione e delle dure condizioni in cui viveva. La mortalità catastrofica al era invece generata da guerre, carestie ed epidemie. La guerra era l’elemento che scaturiva carestie (in seguito ai saccheggi di raccolti, bestiame e impianti agricoli) e le epidemie, le quali spesso erano le involontarie conseguenze delle condizioni igenico-sanitarie degli eserciti (lo scienziato Zinsser ha illustrato il fatto che gli eserciti servirono più che a far la guerra a disseminare epidemie di tifo, peste e sifilide). Le epidemie furono l’elemento che più contribuì alla frequenza e all’intensità della mortalità catastrofica, ed in particolare quelle di peste furono le più luttuose. Perché? Oltre che ad aumentare, tra il 1000 e il 1300 la popolazione europea andò sempre più concentrandosi nelle città, dove le condizioni igienico-sanitarie erano pessime (acqua non sempre potabile, animali mischiati agli uomini, rifiuti ovunque, lavarsi d’inverno voleva dire rischiare una polmonite) e, inoltre, l’intensificarsi delle comunicazioni e delle relazioni commerciali aumentavano le possibilità di contagio. Verso i primi del Trecento vennero a crearsi i presupposti per una tragedia ecologica: Yersinia pestis. Con la pandemia del 1347-51 la peste si stabilì in Europa in forma endemica. La peste è una malattia tipica dei roditori (ratti,scoiattoli) scoperta da Yersin. Quando una pulce passava da un animale infetto ad un uomo, al momento di succhiargli il sangue lo contagiava. A sua volta il microbo poteva passare da uomo a uomo attraverso l’aria, in tal caso il tasso di letalità era del 100%. Il ruolo delle carestie e delle epidemie nella dinamica di lungo periodo della popolazione non può venir misurato sulla sola base di mortalità generale. Molto dipende dalla distribuzione per età dei decessi, ma anche dal fatto che durante un’epidemia/carestia non solo aumentavano i morti ma in aggiunta diminuivano le nascite. Tra il 1300 e il 1700 la popolazione europea si mantenne in uno stato di quasi equilibrio. Questo equilibrio ebbe conseguenze decisive sul piano economico: l’Europa non seguì il destino dell’Asia e la popolazione non fu bloccata nel suo sviluppo da una soffocante pressione demografica; ciò non fu merito della razionalità europea, ma di condizioni che facilitarono l’opera dei microbi.

LA STORIA DELLA TECNOLOGIA

LO SVILUPPO TECNOLOGICO: 1000 – 1700 Il mondo greco e soprattutto il mondo romano pur altamente creativi in altri campi dell’attività umana, rimasero inerti nel campo tecnologico. Questo “fallimento” del mondo classico sarebbe imputabile all’abbondanza della mano d’opera di quei tempi e al tipo di cultura e di interessi prevalenti nella società. Il progresso tecnologico nel mondo classico era visto come possibile apportatore di più o meno dubbi vantaggi materiali, ma anche temuto come possibile fonte di pericolosi turbamenti politici, sociali ed ecologici. Col Medioevo nell’Europa occidentale le cose cambiarono drasticamente. I maggiori progressi tecnologici dal 500 al 1000 furono:

1) 500 – Diffusione del mulino ad acqua (già conosciuto dai romani); 2) 600 – Diffusione nell’Europa settentrionale dell’aratro pesante (di derivazione slava); 3) 700 – Diffusione della rotazione agraria triennale; 4) 800 – Diffusione dell’uso del ferro di cavallo (dai celti), del basto per cavalli (dalla Cina),

dell’attacco a tandem per gli animali da traino. Riguardo tutte queste scoperte bisogna fare tre osservazioni:

- Non furono innovazioni vere e proprie, gli europei non dimostrarono una capacità inventiva, ma quanto una notevole capacità di assimilazione ;

- Tutte le innovazioni si riferivano all’attività agricola, le varie innovazioni si potenziarono vicendevolmente;

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- Talune delle innovazioni in questione permisero un più efficiente sfruttamento energetico del cavallo. La sostituzione del cavallo al bue significò un ricorso a un tipo di capitale più costoso, ma più efficiente.

Uno dei fatti più importanti del Medioevo europeo fu la diffusione del mulino ad acqua. I signori feudali proibirono ai contadini di macinare il grano in casa, stabilendo il monopolio della macinazione del grano che venne ad aumentare il loro credito, mentre contemporaneamente aumentava il carico fiscale dei servi. Dal 500 al 600 l’economia europea si sviluppo in senso manifatturiero ed i mulini ad acqua non solo aumentarono di numero ma furono sempre più adatti alle più diverse produzioni (preparare il malto per la produzione della birra, per follare il panno). Nel 1150 la forza motrice derivata dall’energia idraulica venne applicata alla lavorazione del ferro, azionare seghe per legname, alla lavorazione della carta. Tra le innovazioni principali: 1050 telaio verticale, 1100 bussola, 1200 innovazioni nella navigazione mediterranea (perfezionamento della bussola, l’adozione della clessidra, la redazione di carte nautiche, tavole di martellio, adozione del timone di poppa sulla linea centrale della nave), 1250 ruota per filare e strumenti chirurgici, 1300 occhiali (ai tempi di Dante la gente doveva avere la sensazione di vivere in un mondo ricco di innovazioni tecnologiche), 1300 i primi orologi e armi da fuoco. Nel 1400 la nave a vela oceanica (combinazione della vela quadra nordica con quella triangolare latina) favorì una maggiore rapidità dei trasporti e una diminuzione dei costi relativi, inoltre si ebbero anche progressi nel campo della navigazione oceanica (conoscenza dei venti, calcolo della latitudine), queste furono una delle condizioni che resero possibile l’espansione oceanica dell’Europa la quale mutò il corso della storia. L’invenzione di Gutenberg aprì una nuova era: come la nave a vela aprì agli Europei nuovi orizzonti geografici così l’invenzione della stampa a caratteri mobili aprì agli Europei nuovi orizzonti e opportunità nel campo dell’istruzione e della cultura. Uno dei caratteri di originalità nello sviluppo tecnologico dell’Occidente fu il crescente accento posto sull’aspetto meccanico. Il caso dell’orologio meccanico è particolarmente significativo. L’uomo prima per misurare il tempo faceva uso delle mediane, delle clessidre e di barre di materiale combustibile debitamente graduate. Nel 1350 il medico Giovanni de’Dondi produsse il primo orologio meccanico che indicava automaticamente i giorni, i mesi, gli anni e le rivoluzioni dei pianeti. L’orologio si diffuse molto velocemente perché l’acqua ghiacciava nelle clessidre durante gli inverni e le nubi rendevano troppo sovente inutili le meridiane. Comunque questi orologi erano sempre poco affidabili e necessitavano di correzioni fatte da appositi “governatori d’orologi”, i quali regolavano la lancetta dell’ora facendo riferimento alla mediana o alla clessidra. Pur dando una lettura approssimativa l’europeo decise di utilizzare l’orologio proprio perché si stava sviluppando una mentalità meccanica. Un elemento caratteristico della mentalità medievale fu l’ abbandono dell’animismo che aveva caratterizzato il concetto della natura nutrito dai classici. Il tema dominante di questa mentalità è quello di un’armonia tra uomo e natura, rapporto che presupponeva però nella natura le forze inviolabili cui l’uomo doveva fatalmente sottomettersi. All’Animismo dei classici e degli orientali si sostituì il culto dei santi, i quali erano uomini che si davano di continuo da fare per dominare le forze avverse della natura. Dominare la natura non era un peccato, era un miracolo e credere nei miracoli è il primo paso per renderli possibili. L’attitudine ricettiva dell’Europa, la sostituzione dell’animismo naturale con il culto dei santi e con la fede nel miracolo, il sorgere e la diffusione di una mentalità meccanicistica, non sono “spiegazioni” ma solo temi di una più vasta e complicata “problematica”. Il progresso tecnologico del Medioevo e del Rinascimento fu fatto di continui miglioramenti e successivi perfezionamenti, frutti di una pratica artigianale che per quanto ammirabile non fu mai né dotta né sistematica. Risultato sostanziale di tutto questo complesso movimento di innovazioni fu progressivo aumento di produttività (del ferro, dei libri, nel campo della navigazione); fondamentalmente ala base della maggior parte delle innovazioni stava sempre la necessità di sfruttare in maniera più efficiente le scarse disponibilità di energia. LA DIFFUSIOINE DELLE TECNICHE

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Dal 1100 al 1400 gli italiani furono all’avanguardia non solo nel progresso economico ma anche in quello tecnologico. Dal 1500 al 1600 il primato passo agli Inglesi e agli Olandesi. Questo perché le innovazioni tecnologiche ebbero una loro diffusione sul territorio europeo. Nel 1607 Zonca pubblicò numerosi disegni dei macchinari più vari; le informazioni tecniche sui mulini da seta erano considerate segreto di Stato e qualsiasi tentativo di violare questo segreto era punibile con la pena di morte. Nel 1716 un certo Lombe riuscì a portare a termine una vera e propria operazione di spionaggio industriale, riuscendo a replicare i meccanismi. Attraverso i secoli e fino ad epoca recentissima le tecniche non si diffusero praticamente mai mediante l’informazione scritta. Il mezzo prevalente di diffusione fu la migrazione dei tecnici. Nell’Europa pre-industriale la propagazione delle innovazioni tecnologiche avvenne soprattutto con la migrazione di individui che decidevano di emigrare. In questo casi si possono distinguere forze di repulsione e forze di attrazione. Dalla parte delle “spinte” stava la fame, la peste, le guerre, le tasse, la difficoltà d’impiego, l’intolleranza politico e/o religiosa. Governi e amministrazioni erano perfettamente coscienti di questa situazione tanto i decreti che proibivano l’emigrazione di mano d’opera specializzata non si contano nel Medioevo come nel 1500 e nel 1600. La capacità dello Stato pre-industriale di controllare i movimenti delle presone era estremamente limitata. Gli elementi di “attrazione” che potevano calamitare mano d’opera potevano essere la presenza di opportunità di lavoro e/o la pace e/o la tolleranza religiosa. Nella Francia di Colbert, per poter disporre di manodopera specializzata di altre aree: dagli incentivi (per le manifatture seriche) ai rapimenti e ai sequestri di persona (per il comparto del ferro). I tentativi francesi, come quelli di altri paesi, fallirono in quanto l’introduzione e l’applicazione di nuove tecnologie non sono un fatto tecnologico; sono un fatto socio-culturale e quindi come disse Witsen, tutto di pende dalla “disposizione mentale”.

IMPRESE, CREDITO E MONETA

Nel corso del 1000-1400 si verificò un notevole sviluppo di tecniche di affari: l’organizzazione delle fiere e delle compensazioni di fiera, lo sviluppo della lettera di scambio, la comparsa e la diffusione di manuali di mercatura, l’evoluzione di nuovi tipi di contabilità, lo chèque, la girata, le assicurazioni, nuovi tipi di società quali la colleganza e la commenda. Tutto questo fu sviluppato nell’area mediterranea dal 1100 al 1400. Bisogna sottolineare l’importanza che queste innovazioni ebbero nell’attivare il risparmio contribuendo in maniera decisiva a sostenere l’espansione dell’economia europea nei secoli medievali.

REDDITI, PRODUZIONE E CONSUMI: 1000 – 1500

L’ESPANSIONE NEL PERIODO 1000 – 1300 I vari elementi considerati precedentemente giocarono a favore dell’espansione economica. Dall’inizio del secolo fino al 1250 lo sviluppo dell’Europa fu all’insegna di una frontiera in continua espansione, la risorsa naturale per eccellenza, la terra, era abbondantemente disponibile. Inoltre negli ultimi secoli la gente si era arroccata non dove le terre erano più fertili ma dove le posizioni erano più facilmente difendibili. Man mano che la popolazione aumentò e condizioni relativamente più sicure prevalsero, si misero a cultura nuove terre nella maggior parte dei casi migliori di quelle già coltivate. L’effetto dell’espansione della frontiera fu quindi duplice. La colonizzazione interna si accompagnò a un complesso movimento di espansione su più direttrici: A Occidente si sviluppò la Riconquista della Penisola Iberica da parte dei Cristiani a danno dei Musulmani; nel corso del 1200 l’intera penisola fu lentamente riconquistata.

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Sul fronte meridionale i Normanni posero fine alla dominazione araba in Sicilia tra il 1061 e il 1091 mentre una serie di attacchi passati alla storia sotto il nome di Crociate vennero sferrati dall’Europa contro i territori musulmani del Medio Oriente tra il 1000 e il 1100. Temporaneamente vittorioso l’Occidente riuscì ad impiantare una serie di principati in punti strategici del Mediterraneo orientale. Sul fronte orientale si sviluppò l’espansione tedesca (teutoni) nei territori slavi. Il Drang nach Osten cominciò tra il 919 e il 932 attivando un vasto movimento espansivo lungo tutto il corso dell’Elba; alla fine del 1100 la frontiera era avanzata di cento chilometri. Le perdite demografiche causate dalla peste nel 1348 ridussero l’impeto dell’espansione. Il significato economico del Drang nach Osten stava nel colonizzare le terre slave in quanto erano coltivate in modo ancora primitivo e quindi ancora di ottima qualità. I coloni teutonici mossero nei nuovi territori importando l’aratro pesante e un tipo di ascia pesante e , inoltre, importarono tecniche minerarie e metallurgiche ignote alle popolazioni locali. Tutto ciò contribuì alla formazione di un surplus agricolo nell’Europa orientale, allo sviluppo del commercio nel Baltico (esportazioni di grano in Inghilterra e nelle Fiandre), lo sviluppo della Lega anseatica e lo sviluppo di attività minerarie e metallurgiche nell’Europa orientale. Fino alla rivoluzione industriale l’agricoltura rimase il settore di base di tutta l’economia europea e lo sviluppo tra il 1000 e il 1100 risulterebbe incomprensibile se non si ammettesse un notevole aumento della produzione agricola. Ma, tra il 1000 e 1300, furono le città a dare il tono alla grande ripresa. I settori di guida dello sviluppo che si verificò dopo il 1000 furono: - il commercio internazionale; - le manifatture tessili; - il settore delle costruzioni edili; - il settore finanziario; Il grosso del commercio internazionale restò incentrato su: prodotti alimentari, prodotti tessili e spezie. Come vi erano i settori di guida, vi erano anche le aree trainanti. Le regioni d’Europa all’avanguardia dello sviluppo economico medievale furono l’Italia centro-settentrionale e i Paesi Bassi meridionali. L’Italia trasse vantaggio da tradizioni classiche di vita cittadina e soprattutto dalla vicinanza dei due imperi bizantino e arabo che fino al 1100 erano assai più sviluppati dell’Europa. I Paesi Bassi meridionali capitalizzarono sullo sviluppo economico che la regione aveva sperimentato durante la cosiddetta Rinascenza carolingia. Entrambe trassero vantaggio dalle rispettive posizioni geografiche: l’Italia come ponte tra l’Europa, il Nord Africa e il Vicino Oriente; i Paesi Bassi meridionali come snodo di strade e di rotte tra il Mare del Nord e le coste atlantiche della Francia e della Spagna. Nei Paesi Bassi si sviluppò presto una importante attività manifatturiera di pannilani che si avvantaggiava della vicinanza del mercato inglese dove si produceva e largamente si esportava la più pregiata lana d’Europa. Nell’Italia settentrionale lo sviluppo fu meno marcatamente incentrato sull’attività manifatturiera e più equilibratamente distribuito tra attività commerciali, manifatturiere, amatoriali e finanziarie. Punti di forza dello sviluppo furono in un primo tempo le repubbliche marinare di Pisa, Venezia e Genova. Le fonti di vita principali per i veneziani furono la pesca, la raccolta e la macinazione del sale e un’attività di trasporto e commerciale in parte per mare e in misura ben maggiore lungo i canali della laguna e lungo i fiumi che sboccavano in esse. Pisa e poi Genova strinsero sempre più i contatti con il Nord Africa, il Medio Oriente e la Sicilia mentre si rendevano sempre più conto delle opportunità offerte dal polo manifatturiero dei Paesi Bassi. Presto ci si accorse però che conveniva stabilire un luogo intermedio di scambio; questo luogo fu individuato nelle città di Troyes, Bar, Provins e Lagny dove si teneva la fiera de Champagne che serviva da centro di raccolta, di scambi e da stanza di compensazione. Lo sviluppo di Firenze fu relativamente tardo. Solo verso la fine del 1100 i mercanti fiorentini si distaccarono da Firenze e da Pisa e si avventurarono su mercati più lontani (nel 1250 si trovano mercanti fiorentini un po’ dovunque). L’asse Paesi Bassi meridionali – Italia settentrionale convogliava il maggior complesso di flussi commerciali tra il 1100 e il 1200. Verso l’Est era importante l’asse Paesi Bassi – Colonia. I mercanti fiamminghi dovevano limitarsi a portare i loro panni a Colonia, dove venivano prelevati da mercanti tedeschi e austriaci che provvedevano a diffondere il prodotto nell’Europa centrale e anche ad Oriente. La Germania ricopriva questo ruolo grazie alle sue elevate disponibilità economiche, originate dallo sfruttamento delle miniere d’argento presenti nelle sue regioni. Contemporaneamente si verificò un aumento della produzione di tessuti di lana più grossolani grazie all’avvento del mulino ad acqua nella follatura del panno e l’adozione della filatura a ruota. In Italia i progressi

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dell’industria laniera durante il 1200 furono più notevoli che altrove. I mercanti fiorentini cominciarono ad importare pannilana fiamminghi grezzi i quali venivano sottoposti alla tintura e all’affinamento in Firenze, strappando così ai Fiamminghi parte del valore aggiunto del prodotto finito. La corporazione che raggruppava i commercianti di panni fiamminghi e quelli che si occupavano dell’affinamento era chiamata l’Arte di Calmala. Mercanti senesi e fiorentini accumularono grandi ricchezze per la funzione di intermediari svolta per conto della Santa Sede nella riscossione di oboli, o di quanto ad essa dovuto a qualunque titolo, in ogni parte d’Europa. Le ricchezze dei mercanti fiorentini vennero utilizzate per effettuare operazioni bancarie, soprattutto prestiti a Principi, ottenendo, in cambio, non soltanto la promessa di restituzione del capitale con gli interessi, ma anche licenze di esportazione della lana. Pare che una delle ragioni del successo fiorentino fosse data non solo dall’utilizzo dell’eccezionale lana inglese ma anche dalla meccanizzazione mediante l’uso del mulino ad acqua nella follatura del panno; anche se il prodotto non era della stessa qualità di quello prodotto tradizionalmente, comportava un costo decisamente inferiore, da qui il suo successo sul mercato internazionale. Intanto si erano sviluppati il commercio e la produzione della seta e del cotone e, anche in questi settori, l’Italia fu all’avanguardia. L’industria del cotone nell’Italia del Nord del 1100 era una imitazione, sia nei prodotti che nelle tecniche di produzione, di più antiche manifatturiere islamiche. Ai primi del 1500 era la seta ad occupare un ruolo predominate, seguita dal cotone e per ultima la lana. A Lucca la produzione della seta si sviluppò nel 1200 e per tutto il secolo mantenne il primato. Nel 1320 però la situazione politica interna di Lucca si fece infuocata e molti artigiani decisero di abbandonare la città rifugiandosi nelle città di Venezia, Firenze, Genova e Bologna. Questa massiccia migrazione di artigiani esperti nella lavorazione della seta fu la causa principale della diffusione dell’industria serica in Italia dove la manifattura della seta divenne una delle fonti principali di ricchezza del paese e tale rimase per tutto il 1400 e gli inizi del 1500 fin quando questa attività si sviluppo in Francia e in Inghilterra. Nella Penisola Iberica la Catalogna si distinse per un eccezionale sviluppo commerciale, marinaro e bancario. L’attività marinara consistette soprattutto nel trasporto di grano, spezie e fibre tessili. Inoltre la Catalogna tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300 questa nazione organizzo un impero oltremare che comprendeva anche Sardegna e Sicilia. Non vi è dubbio che nel 1100 e il 1200 il Meridione d’Europa, grazie soprattutto all’attività degli Italiani, fosse la parte d’Europa dove lo sviluppo economico era più intenso. Anche nel Nord non mancarono interessanti progressi grazie soprattutto all’attività dei Tedeschi. La punta di diamante dell’espansione tedesca nel Mar Baltico fu la città di Lubecca. Nel corso del 1200 si formarono associazioni (Hanse) e unioni tra diverse città della Germania settentrionale, tra queste emerse Lubecca che mantenne una posizione di predominio per tutto il periodo di vita della Lega anseatica. Questo perchè la tecnologia della navigazione marittima non permetteva allora la circumnavigazione della penisola danese, per cui gli scambi tra il Baltico e il Mar del Nord avvenivano principalmente via terra; le merci che provenivano dal Baltico venivano scaricate ad Amburgo, trasportate via terra a Lubecca e qui imbarcate ancora su navi che le portavano ai paesi del Baltico orientale. Questa posizione chiave fece la fortuna di Amburgo e Lubecca, le quali nel 1241 raggiunsero un accordo per difendere con le armi la strada che le collegava. Nel 1250 la Germania riuscì a sostituirsi all’Inghilterra nel commercio con la Norvegia. In Inghilterra nel 1200 la follatura dei pannilana venne meccanizzata mediante l’uso del mulino; questo fenomeno determinò lo spostamento geografico dell’industria dal Sud Est del paese verso l’Ovest dove c’era maggior abbondanza di corsi d’acqua. Verso la fine del 1200 venne costruito il “ponte del diavolo”, un avvenimento considerevole per l’Europa intera; il ponte rese possibile il trasporto di merci dalla pianura padana al territorio zurighese e renano e divenne una delle vie più intensamente battute in Europa.

Nella prima metà del Trecento era avvenuto un sostanziale miglioramento nel tenore di vita.

LA TENDENZA ECONOMICA NEL PERIODO 1300 – 1500 Nel corso del 1200 alcune strozzature avevano cominciato a manifestarsi. A partire dal 1250 in diverse aree dell’Europa il rapporto medio semente – prodotto cominciò a diminuire; con la popolazione che continuava a crescere mentre le terre buone cominciavano a divenire relativamente scarse, la legge della domanda e dell’offerta dovette spingere al rialzo le rendite e al ribasso i salari. Si prevedeva l’avvento di una apocalisse che avvenne sotto forma di una spaventosa pandemia di peste. Al di fuori del settore agricolo i disastri si susseguirono ai disastri.

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Nel 1300 Firenze era la piazza finanziaria più rilevante d’Europa e il fiorino era il mezzo di pagamento più apprezzato ed usato in Europa e fuori d’Europa. Dopo il 1330 la città subì un declino irrefrenabile dovuto all’indebitamento causato dalle spese sostenute per le diverse guerre affrontate. La rovina del sistema finanziario fiorentino fu dovuta al combinarsi del crollo dei titoli del debito pubblico, della bancarotta inglese e dei prelievi napoletani. Conseguenze della bancarotta delle compagnie fiorentine: distruzione di ricchezza anche per i risparmiatori, drastica contrazione del credito e danni alle attività mercantili e manifatturiere. Dopo il 1346 Firenze non è più quello che era stata e che aveva rappresentato tra il 1250 e il 1300. Questa crisi però non ebbe ripercussioni notevoli nelle altre primarie piazze europee in quanto il sistema economico non era ancora strettamente integrato. Il 1300 e il 1400 non videro tempi tranquilli neppure per i Paesi Bassi in quanto la prosperità di questa area sollecitò antagonismi e concorrenze da più parti: gli italiani tagliarono la strada del Mediterraneo ai fiamminghi, gli inglesi quella dell’Inghilterra, Colonia bloccò la loro strada renana, Lubecca e la Hansa teutonica chiusero loro il Baltico. Nel 1290 circa gli Italiani inaugurarono regolari linee di trasporto marittimo tra il Mediterraneo e il Mar del Nord circumnavigando la Penisola Iberica, grazie alle scoperte nel campo della navigazione marittima. Queste nuove rotte andarono a colpire la via terrestre che univa l’Italia alle Fiandre passando per le terre di Champagne. Nello stesso periodo anche la Catalogna e la Castiglia furono attraversate da crisi finanziarie e la seconda da cicli di guerre con il Portogallo e guerre interne. Nel 1337 scoppiò un conflitto tra Inghilterra e Francia, “la Guerra dei Cent’anni”, che si combatte in territorio francese e le devastazioni che arrecò all’economia francese furono incredibili. Tutti questi disastri Europei furono contornati dalla pandemia di peste nel 1348-51; il periodo 1300-1450 fu definito dagli storici come uno dei periodi più neri dell’economia europea. Vi furono però talune aree privilegiate in cui si verificò un notevole sviluppo: la Hansa toccò l’apice della potenza nel 1300, per la Lombardia fu un periodo di innegabile sviluppo, il Portogallo entrò in una fase di espansione geografica che si concluse con la formazione di un impero di dimensioni mondiali. Il fatto fondamentale del 1300 – 1500 è che le epidemie di peste sgravarono l’Europa di quella pressione demografica che s’era andata cumulando e s’era fatta sempre più sentire nel 1250. Nel settore agricolo terre marginali occupate in periodo di pressione demografica furono abbandonate quando la popolazione diminuì; il risultato fu un aumento della produttività del lavoro agricolo e una redistribuzione del reddito. Prima della peste i lavoratori erano abbondanti mentre il capitale era relativamente scarso, dopo la pandemia i lavoratori potevano fare la voce grossa, i salari aumentarono e con essi le condizioni di vita migliorarono sensibilmente. La serie di disastri che aveva messo a soqquadro l’intera Europa si esaurì verso la fine Quattrocento. La guerra dei Cent’anni terminò nel 1453 e i decenni che seguirono videro la Francia ricostruire la propria economia, lo stesso valse per i regni di Castiglia e Aragona. I Portoghesi continuarono la loro espansione. La Germania entrava in uno stato di eccezionale sviluppo grazie ai suoi giacimenti di argento e rame e vide la nascita di importanti famiglie di banchieri e mercanti. I sistemi di contabilità rimanevano però arretrati rispetto alle compagnie italiane.

IL RIBALTAMENTO DELL’EQUILIBRIO MONDIALE E INTRA – EUROPEO: 1500 – 1700

EUROPA SOTTOSVILUPPATA O EUROPA SVILUPPATA?

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Non c’è dubbio che dalla caduta dell’Impero Romano sino agli inizi del Duecento l’Europa fu un’area sottosviluppata rispetto ai Bizantini, gli Arabi ed i Cinesi. Gli stessi Europei erano consci della loro inferiorità culturale, economica e tecnologica. Nel corso del Duecento i mercanti veneziani dimostrarono di aver sviluppato tecniche d’affari superiori a quelle tradizionali in uso a Bisanzio, e i mercanti bizantini dovettero cedere il passo ai nuovi aggressivi concorrenti. Tra il 1300 e il 1400 le esportazioni di merce europea andarono aumentando e, in certi casi manifestarono la superiorità tecnologica dell’Occidente (esempio ne è l’orologio). Il galeone armato fu l’espressione più drammatica di questa superiorità tecnologica – economica. L’EUROPA E I SUOI RAPPORTI CON IL RESTO DEL MONDO La conseguenza più spettacolare della supremazia acquisita dall’Europa in campo tecnico furono le esplorazioni geografiche e la successiva espansione economica, militare e politica dell’Europa. L’Europa del 1200 era militarmente incapace, solo per un caso di coincidenze non venne attaccata dalle potenze orientali. La sua debolezza era marcata dalla progressiva erosione dei suoi territori orientali: i Turchi invasero Costantinopoli, la Bosnia – Erzegovina, il Negroponte e l’Albania. Ma nel momento in cui i Turchi sembravano prossimi a colpire il cuore dell’Europa si verificò un cambiamento improvviso e rivoluzionario: aggirando il blocco turco, alcuni paesi europei si lanciarono all’offensiva sugli oceani in ondate successive. In poco più di un secolo Portoghesi e Spagnoli prima, Olandesi e Inglesi più tardi, gettarono le basi della supremazia europea su scala mondiale. Il galeone armato creato tra il 1400 e il 1500 distrusse completamente la navigazione araba. Contemporaneamente la Russia europea iniziava la sua espansione trans – steppiana verso Oriente. Quest’ultima non fu rapida come quella transoceanica in quanto la superiorità tecnologica per terra non era sviluppata come quella per mare. L’avanzata russa divenne inesorabile dopo il 1650 quando la tecnica europea riuscì a sviluppare armi da fuoco più mobili a tiro rapido. Fu quindi la fulminea espansione transoceanica che ebbe conseguenze economiche profonde: la scoperta di giacimenti d’argento in Bolivia e Messico. L’estrazione del metallo fu resa più efficiente grazie all’adozione del mercurio nel processo produttivo (metodo di estrazione italiano), esso riduceva i costi e consentiva di sfruttare al meglio tutti i giacimenti; inoltre vennero scoperte miniere di mercurio sfruttate grazie al lavoro coatto degli indios. Per oltre un secolo, dagli inizi del 1500, le leggendarie Flotas de Indias spagnole trasportarono in Europa una massa imponente di argento. Il 25% fu trasferito in Europa come reddito della Corona e speso per le Crociate cristiane; l’altro 75% arrivò in Europa come domanda effettiva di beni di consumo e di beni capitali (vino, olio, armi, sandali, cappelli, sapone, mobili, gioielli, vetro) da parte degli emigrati e di servizi commerciali e di trasporto relativi al trasferimento dei beni in questione. Per quanto l’offerta era elastica, l’aumento della domanda si tradusse in un aumento della produzione, ma nel settore agricolo, dove l’aumento della produzione era limitato, questo aumento di domanda provocò un aumento dei prezzi. Il periodo 1500 – 1620 è stato etichettato dagli storici economici come il periodo della “Rivoluzione dei prezzi”. L’aumento della disponibilità di oro e argento significò quindi aumento della liquidità internazionale il che favorì lo sviluppo degli scambi. Gli Europei trovarono in Oriente prodotti che ebbero subito largo esito in Europa, mentre nessun prodotto europeo riuscì a trovare un esito analogo in Oriente. Con i loro galeoni gli Europei spazzarono via la flotta araba e si impossessarono delle loro rotte di scambio. Il commercio intercontinentale nel 1500 e 1600 consistette essenzialmente in una cospicua corrente d’argento che muoveva verso Oriente prima dalle Americhe verso l’Europa e poi dall’Europa verso l’Estremo Oriente e di una corrispondente corrente di merci che fluivano in direzione opposta: prodotti asiatici diretti all’Europa e prodotti europei diretti alle Americhe. Questo tipo di commercio unilaterale spaventò l’Europa in quanto era ancorata al credo mercantilistico. Soltanto alla fine del 1700 gli Europei, ed in particolare gli Inglesi, riuscirono ad esportare in Cina l’oppio indiano causando un progressivo e rovinoso deterioramento della bilancia commerciale cinese. Le esplorazioni geografiche arricchirono gli Europei di conoscenze circa nuovi prodotti : gli Spagnoli si interessarono vivamente alla farmacopea e alle pratiche terapeutiche attraverso la scoperta di nuove piante ed

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erbe nelle Indie Occidentali; sempre nelle Americhe gli Europei impararono a conoscere e a usare il tabacco (importazioni crescenti grazie all’uso molto diffuso), il cacao (prodotto costoso il cui consumo rimase per molto tempo limitato a gruppi aristocratici o snobisti; indi per cui si sviluppò un intenso contrabbando che ebbe come centro Amsterdam), il pomodoro, il mais e la patata (gli ultimi due contribuirono a risolvere il problema delle carestie a partire dal 1700 influendo sull’aumento della popolazione europea); dall’Oriente vennero importati, oltre alle spezie e la seta, caffé, tè e porcellana. La notevole espansione dell’importazione di tè, caffé, e cacao in Europa fu un fenomeno del 1700: per addolcire queste bevande veniva solitamente utilizzato il miele in quanto lo zucchero era un bene molto raro. Nel 1580 vennero scoperte in Brasile immense piantagioni di canna da zucchero coltivate dagli schiavi acquistati sulle coste dell’Africa occidentale in cambio di tessile, armi da fuoco, polvere da sparo, alcolici e perline di vetro (fu una storia miserabilmente triste). Il commercio transoceanico fu una grande scuola pratica di imprenditorialità, non solo per coloro che andavano per mare, ma anche per i mercanti, gli assicuratori, i costruttori che in una maniera o nell’altra operarono in relazione a commercio d’oltremare. Una delle conseguenze economiche più significative del 1500 e 1600 fu l’accumulazione di ricchezza che esso permise in taluni Paesi europei. Altrettanto importante fu la formazione di un prezioso e robusto “capitale umano”, cioè lo sviluppo e la diffusione di una mentalità, di uno spirito e di una capacità imprenditoriale in strati più larghi della popolazione. LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA Alla base di una rivoluzione culturale vi furono fatti quali la scoperta di nuovi mondi e di nuovi prodotti, la prova della sfericità della terra, l’invenzione della stampa, il perfezionamento delle armi da fuoco, lo sviluppo delle costruzioni navali e della navigazione. Gli Europei cominciarono a guardare ottimisticamente avanti, proiettati nel futuro e volti alla ricerca del nuovo. Il 1600 vide svolgersi una violenta battaglia intellettuale tra gli “antichi” e i “moderni”. L’età di Galileo, Newton, Huygens e Leeuwenhoek marcò la vittoria dei “moderni”, del metodo sperimentale e dell’applicazione delle matematiche nella spiegazione della realtà. Fece parte di questi sviluppi una decisa tendenza verso la misurazione quantitativistica: cercare di dare un’espressione quantitativa ai fenomeni che si volevano descrivere. Una delle caratteristiche fondamentali della Rivoluzione scientifica del 1600 fu quella di distogliere la speculazione umana da problemi irrisolvibili e assurdi e indirizzarla invece verso problemi che potevano avere una risposta. Sul piano delle relazioni umane si preparò il terreno alla tolleranza dell’Illuminismo. Sul piano tecnologico si basò sempre più sulla sperimentazione per la soluzione dei problemi concreti dell’economia e della società. Nel Medioevo scienza e tecnica erano rimaste due cose distinte e separate: la scienza era filosofia e la tecnica era l’ars degli artigiani. Il Rinascimento, con il suo culto per i valori classici accentuò questa dicotomia. I moderni combatterono per rivalutare l’opera tecnica degli artigiani e sottolinearono la necessità di collaborazione tra scienziati ed artigiani. Il protestantesimo, con la sua bibliolatria, fu un poderoso fattore di diffusione dell’alfabetismo. Nei paesi della Riforma il numero degli artigiani che sapevano leggere e scrivere aumentò notevolmente nel corso del 1600, ciò comportò il progressivo abbandono di atteggiamenti consuetudinari e tradizionalistici a favore di atteggiamenti razionali e sperimentali. LA CRISI DEL LEGNO Nei secoli il legname aveva rappresentato il combustibile per eccellenza e il materiale di base per le costruzioni edili, navali, per la fabbricazione di mobili e la maggior parte dei pezzi delle macchine. A partire dal 1100 e 1200, soprattutto nell’area mediterranea, il legname aveva cominciato a scarseggiare e nell’attività edile lo si andò sostituendo con il mattone, con la pietra o con il marmo. Nel corso del 1500 l’aumento della popolazione, l’espansione della navigazione oceanica e delle costruzioni navali, lo sviluppo della metallurgia e il conseguente aumento del consumo del carbone di legna per la fusione dei metalli provocarono in Europa un rapidissimo consumo del legname. Nel 1600 l’Italia entrò in un periodo di declino economico e la domanda di legname ristagnò. Ma nell’Europa del Nord il prezzo del legname continuò a crescere contemporaneamente a quello del carbone di legna. La crisi del legno scoppiò nel 1630, ed intorno al 1670 l’Inghilterra cominciò ad importare cannoni dalla Svezia. Questa crisi avrebbe potuto rappresentare una strozzatura per le aree dell’Europa che erano in fase di sviluppo, invece, analizzando gli sviluppi inglesi la crisi servì a spingere l’Europa nord – occidentale sulla via della Rivoluzione industriale.

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IL RIBALTAMENTO DEGLI EQUILIBRI ECONOMICI IN EUROPA: 1500 – 1700 Il Cinquecento, “el siglo de oro”: secolo felice soltanto per l’Inghilterra, la Spagna, il Portogallo, l’Olanda ed anche la Francia (tranne l’ultimo trentennio, a causa delle guerre di religione), ma non per l’Italia, i Paesi Bassi meridionali o la Germania (ad eccezione della sola Amburgo). Il Seicento, “secolo critico”: secolo nefasto per la Germania (“Guerra dei Trent’anni”), la Turchia, la Spagna e l’Italia, ma secolo felice, salvo brevi periodi, per l’Olanda, l’Inghilterra e la Svezia e, tra il 1660 ed il 1690, anche per la Francia. Le aree decisamente più sviluppate tra la fine del 1400 ed il 1500: l’area mediterranea, in particolare l’Italia centro-settentrionale nel 1400 e la Spagna nel 1500 grazie all’afflusso dei tesori americani. Nel 1600: spostamento del baricentro dell’economia europea nel Mare del Nord. IL DECLINO ECONOMICO DELLA SPAGNA Alla metà del Quattrocento la Spagna non esisteva. Esisteva la Penisola Iberica divisa in quattro reami: la Corona di Castiglia, la Corona di Aragona, il Regno di Portogallo e il Regno di Navarra. L’orografia della penisola non ha contribuito alla nascita di una fiorente agricoltura in quando composta da un altopiano poco fertile chiamato meseta. La naturale povertà del Paese era accentuata dalla qualità del capitale umano. L’afflusso massiccio di materiali preziosi dalle Americhe e l’espansione della domanda effettiva in cui tale afflusso si tradusse avrebbero potuto stimolare un notevole sviluppo economico, ma la domanda non è sufficiente per attuare lo sviluppo. Il fallimento della Spagna fu dovuto alle strozzature nell’apparato produttivo (mancanza di lavoro specializzato, le scale di valori sfavorevoli all’attività artigianale e mercantile, l’aumento delle corporazioni e la loro politica restrittiva). Proprio per queste strozzature l’aumento dell’offerta fu ben lungi dal corrispondere all’aumento della domanda, i prezzi rialzarono e la larga parte della domanda si riversò sui prodotti e servizi stranieri. La Spagna tra il 1548 e il 1555 oscillò tra contrastanti politiche economiche di liberismo e di protezionismo e, quando prevalse il protezionismo, gli esportatori si videro costretti a scegliere la via del contrabbando. Nel 1570 la Spagna dipendeva largamente dalla Francia per importazioni di grani, tele, drappi, carta, libri, oggetti di falegnameria e altro che riesportava poi in gran parte dalle colonie americane. La mentalità spagnola considerava le importazioni come motivo di orgoglio anziché come una possibile minaccia per le manifatture del Paese. Con simili idee circolanti nel Paese nel 1659 alla Pace dei Pirenei la Francia ottenne di poter introdurre liberamente i propri prodotti e nel 1667 lo stesso valse per l’Inghilterra; da allora non ci fu più bisogno del contrabbando. Tramite le importazioni, sia legali che di contrabbando, la domanda effettiva spagnola alimentata dal metallo americano finì col sollecitare lo sviluppo economico dell’Olanda, dell’Inghilterra e di altri Paesi europei. Inoltre la Spagna impantanata in guerre senza fine, spese i proventi dell’imposizione fiscale e i tesori delle Indie prima ancora di percepirli; questo la costrinse a chiedere prestiti ai banchieri tedeschi, genovesi ed infine ebrei portoghesi. Nel corso del 1600 l’afflusso dei metalli preziosi dalle Americhe diminuì e le ragioni furono:

- un ristagno nella produzione mineraria nelle colonie americane (dubbio); - l’indipendenza delle colonie grazie alla produzione in loco di ciò che prima importavano dalla Spagna; - il successo dei contrabbandieri olandesi, francesi e inglesi (il più importante).

La principale fonte di benessere spagnolo venne ad inaridirsi, intanto però un secolo di artificiosa prosperità aveva spinto molti ad abbandonare le campagne per le città. La Spagna del 1700 mancò di imprenditori ed artigiani ma ebbe sovrabbondanza di burocrati, preti e poeti…il Paese sprofondò in una tragica decadenza.

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IL DECLINO ECONOMICO DELL’ITALIA A partire dal 1300, con la decadenza dell’ordinamento democratico comunale e l’instaurarsi delle Signorie si ebbe un grande periodo di prosperità, ma subentrò un deciso deterioramento sociale tra le masse. Tra il 1494 e il 1538 il Paese divenne campo di battaglia di un conflitto internazionale che coinvolse Spagnoli, Francesi e Germanici; con la guerra vennero le carestie, le epidemie, le distruzioni del capitale e le interruzioni dei traffici. Verso il 1550 tornò la pace e grazie al capitale umano, ricco di laboriosità ed intraprendenza, Bergamo (produzione di panni), Firenze (produzione di lana) e Venezia furono le città portavoce di questa energica ricostruzione economica. La ricostruzione riprese però vecchie strutture secondo direttrici tradizionali: l’ordinamento corporativo si rafforzò; il numero delle corporazioni artigiane crebbe a dismisura irrigidendo la struttura produttiva del Paese. Nel frattempo i Paesi Bassi settentrionali e l’Inghilterra svilupparono le loro attività manifatturiere e amatoriali, aiutando l’affermazione dei loro prodotti sul mercato internazionale. Fino ai primi del 1600 l’esuberante domanda internazionale poteva mantenere i produttori italiani efficienti, meno efficienti e marginali. Tra il 1618 e il 1638 una serie di guerre capovolsero la situazione economica internazionale (1618 scoppio Guerra dei 30 anni; 1623 scoppio Guerra turco - persiana), comportando una notevole contrazione nella liquidità: per i produttori marginali non ci fu più posto e l’Italia era ormai uno di questi. Inoltre nel 1630-31 si diffuse la peste che comportò una drastica riduzione della popolazione e un notevole rialzo dei prezzi. I prodotti italiani non furono eliminati solo sui mercati esteri ma anche sugli stessi mercati della penisola, ciò provocò un drastico crollo della produzione e massicci fenomeni di disinvestimento nei settori manifatturiero e dei servizi. Questo avvenne perché la concorrenza inglese, olandese e francese aveva prezzi molto più contenuti. I capi italiani erano troppo cari a causa della loro qualità e delle elevate spese di produzione. L’elevato costo delle spese di produzione era dovuto ad una pressione fiscale troppo elevata ed eccessivo controllo delle corporazioni, causa dell’obsolescenza dei metodi produttivi e dell’alto costo del lavoro. Le conseguenze di tutte queste circostanze sull’economia italiana furono:

- il drastico declino delle esportazioni che si protrasse per decenni via via aggravandosi; - un prolungato decesso di disinvestimenti manifatturieri, amatoriali e bancari; - la tendenza delle manifatture a spostarsi dai grossi centri urbani ai piccoli centri rurali sviluppando

quella che oggi sarebbe detta economia sommersa; Quest’ultimo fenomeno era a sua volta conseguenza delle seguenti circostanze: - il costo del lavoro era meno alto nei centri minori che nei maggiori; - nei centri minori si sperava fosse più facile sfuggire ai controlli fiscali; - nei centri minori si sperava fosse più facile sfuggire ai controlli restrittivi delle corporazioni.

Al contrario delle manifatturiere d’oltralpe, quelle italiane venivano perseguitate dalle corporazioni, rimanendo così prigioniere del passato. La mentalità italiana era troppo provinciale e presuntuosa. Ciò si accompagnava a un ritardo tecnologico e organizzativo che rifletteva tutti gli elementi fin qui citati. Tra il 1500 e il 1600 ebbero gran voga le Compagnie commerciali, tra le quali la Compagnia Inglese delle Indie Orientali (1600), la Compagnia olandese (1602), la Compagnia Francese delle Indie e la Compagnia danese delle Indie. Alcuni imprenditori genovesi tentarono la stessa impresa e nel 1647 veniva fondata la Compagnia Genovese delle Indie Orientali: non si trovavano a Genova cantieri che sapessero costruire navi adatte per la navigazione oceanica (le navi furono commissionate presso i cantieri Texel in Olanda) e non esistevano marinai capaci di operare con queste navi nelle difficili navigazioni oceaniche (si ricorse all’ingaggio di un equipaggio olandese). Sciolti questi nodi che dimostravano l’arretratezza italiana, le navi salparono da Genova il 3 marzo 1648 ma le potenze europee, timorose di una possibile concorrente, le catturarono per mano di una flotta olandese che le condusse come preda a Batavia. I genovesi nel campo finanziario non ebbero rivali: dal 1550 al 1640 salassarono in maniera estrema il monarca spagnolo e tali furono i profitti che questo periodo passò alla storia come “il secolo dei Genovesi”. Il caposaldo del sistema creditizio genovese fu rappresentato dalle “fiere di scambio” che possono considerarsi la più antica stanza di compensazione internazionale. Nel 1630 la tesoreria spagnola, sempre in ritardo con i pagamenti e in rischio di bancarotta, non interessò più i genovesi che lasciarono il campo agli ebrei portoghesi. A partire dalla fine del 1500 anche l’economia del Regno di Napoli mostrò una grave stagnazione e quindi un pesante declino di natura fiscale alimentato dagli onerosi costi che

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l’amministrazione sostenne cercando di modernizzare le strutture dello Stato. L’attività di scambio alla fine del 1600 era incentrata sulle importazioni di manufatti e sulle esportazioni di prodotti agricoli, materie prime e semilavorati. L’affermazione del predominio economico della nobiltà su quello della borghesia, l’accentuazione delle discriminazioni e la perdita di prestigio delle più importanti scuole di medicina fecero dell’ Italia il paese sottosviluppato d’Europa. IL “MIRACOLO” OLANDESE Nel corso del 1000-1400 i Paesi Bassi meridionali furono i protagonisti di uno sviluppo economico e civile eccezionale, secondi solo al polo italiano: le manifatture tessili delle Fiandre provvidero largamente al consumo dei migliori pannilana nell’Europa settentrionale e centrale. Lo sviluppo dei Paesi Bassi settentrionali nel corso del 1000-1400 fu più lento ma anch’esso consistente e si fondo sulle attività agricole, di allevamento, sulla pesca e il commercio con i territori del mar Baltico. Durante il medioevo diverse città dei Paesi Bassi settentrionali erano entrati a far parte della Lega anseatica. Il commercio con il Baltico rimase sempre la più importante branca delle attività terziarie e venne praticato, fino alla fine del 1200 circa, utilizzando gli scali di Amburgo e Lubecca, con trasporti, per un tratto, per via terra; poi, a partire dal 1300, grazie ai sensibili miglioramenti della navigazione, effettuato interamente per via mare, circumnavigando la penisola dello Jutland (evitando, così i costosissimi trasbordi ad Amburgo e Lubecca). Il transito dello stretto del Sund era sottoposto al pagamento di dazi, una della fonti più importanti per la storia del commercio di quelle regioni. Nel 1500 la città di Anversa (Paesi Bassi meridionali) era il centro internazionale della finanza e del commercio di merci pregiate, mentre Amsterdam (Paesi Bassi settentrionali) era il centro principale per il commercio internazionale di granaglie e legnami. Sullo sfondo di una evoluta attività commerciale e manifatturiera stava anche un’agricoltura che era tra le più evolute del tempo; questi erano i presupposti del miracolo olandese del 1600. Il Paese che nel 1557 si sollevò contro l’imperialismo spagnolo e che poi assunse al ruolo di paese economicamente più dinamico d’Europa era un Paese dalle solide basi economiche e con notevoli potenzialità. Con la rivolta contro la Spagna e la lunga guerra che ne derivò venne la rovina dei Paesi Bassi meridionali: i mulini vennero ridotti in cenere, gravi danni furono arrecati ai centri di produzione tessile e il centro finanziario di Anversa venne saccheggiato. Dalla pace del 1609 le Province Unite settentrionali emersero con l’indipendenza politica e la libertà religiosa; l’economia del nuovo Stato era vitale nonostante i quarant’anni di guerre alle spalle; fu un trionfo politico, economica e militare. Le ragioni di questo miracolo sono diverse…….. Il danno maggiore che fecero gli spagnoli fu quello di causare la fuga di “capitale umano” dai Paesi Bassi meridionali, arricchendo involontariamente il proprio nemico. I profughi delle province meridionali (Valloni) si diressero un po’ dappertutto: Inghilterra, in Germania, in Svezia ma ovviamente soprattutto nei Paesi Bassi settentrionali. Tra i valloni c’erano artigiani, marinai, mercanti, finanzieri, professionisti che apportarono al Paese d’elezione capacità artigianali, conoscenze commerciali e spirito imprenditoriale. Per le Province meridionali fu un pauroso salasso; per quelle settentrionali un tonificante poderoso. Grazie a questa iniezione di vitalità e alle opportunità che favorivano i Paesi Bassi settentrionali entrarono nell’epoca dell’oro. Amsterdam divenne un emporio internazionale e le attività commerciali facilitarono la nascita della Borsa: gli Olandesi si trovavano in ogni angolo del mondo, nel Nord America fondarono Nuova Amsterdam più tardi chiamata New York. Essi furono grandi nell’industria come nella navigazione e nel commercio, nella pittura come nella filosofia e nella scienza; Leida si affermava come il più importante centro d’Europa per lo studio della medicina. La vita e la prosperità dei Paesi Bassi settentrionali nella loro età dell’oro continuarono a dipendere dalla libertà dei mari e dalla efficienza della loro flotta (militare e mercantile) sia qualitativamente che quantitativamente. Il settore più dinamico fu senza dubbio quello del commercio internazionale che può essere distinto in due settori caratterizzati da diverse tecniche di affari e di navigazione: il commercio a grande distanza con le Indie orientali e quelle occidentali e il commercio nel Mar del Nord e nel Mar Baltico (branca di gran lunga preminente nel commercio d’oltremare dell’Olanda). L’agricoltura divenne una delle più avanzate d’Europa grazie alle progredite tecniche di canalizzazione, d’irrigazione e di rotazione dei raccolti. Quanto alle manifatturiere, tra il 1560 e il 1660, conobbero uno sviluppo straordinario infatti venivano importate materie prime che lavoravano e riesportavano (zucchero, cannoni e vino). Riuscirono a rompere la strozzatura rappresentata dal vincolo energetico sfruttando su larga scala due fonti di energia inanimata: la torba (enorme massa di energia utilizzata per il riscaldamento domestico e per scopi

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industriali) e l’energia del vento (sui mari con l’impiego sempre più massiccio della vela, per terra mediante l’utilizzo del mulino a vento). I loro prodotti erano venduti in tutto il mondo perché avevano prezzi molto bassi, grazie ai bassi costi che implicava la loro produzione, o alla riduzione degli standard qualitativi (es: pannilana di qualità inferiore ma dai colori vivaci; riduzione dei costi operativi nei trasporti marittimi riducendo lo spazio destinato agli alloggi dei marinai).

OLANDA = PAESE PUNTO DI RIFERIMENTO IN EUROPA. LO SVILUPPO DELL’INGHILTERRA Sul finire del 1400 l’Inghilterra era un paese arretrato rispetto alla maggior parte del continente sia dal punto di vista tecnologico che dal punto di vista economica. Il 50% del suo commercio era controllato da mercanti stranieri (10-20% Anseatica, 30-40% Italiani). L’Inghilterra produceva comunque la migliore lana in Europa. Lana e pannilana rappresentarono il grosso delle esportazioni inglesi negli ultimi secoli del Medioevo. Nel 1200 viene adottato il mulino ad acqua per la follatura dei panni. Dal 1300 l’Inghilterra passò dallo stadio tipico del Paese sottosviluppato che esporta soprattutto materia prima locale allo stadio più evoluto di Paese che esporta oltre che la materia prima locale anche manufatti basati sulla materia prima stessa. I prodotti inglesi venivano tradizionalmente trasportati negli empori dei Paesi Bassi meridionali e di qui distribuiti nelle varie parti del continente. Nel 1500, a causa della drastica contrazione della produzione di panni-lana italiani (per effetto della guerra) la domanda dei mercanti tedeschi si spostò su quelli inglesi, disponibili nel mercato di Anversa; da qui l’inizio di un’epoca d’oro per le esportazioni inglesi favorite dal progressivo deterioramento della sterlina. Lo sviluppo economico inglese nel periodo 1500-50 si basò prevalentemente sulla creazione e la prosperità dell’asse Londra – Anversa, in quanto il Mar Baltico era sotto il controllo degli Olandesi e i territori della renania controllati dai mercanti anseatici. Tra il 1550 e il 1564 gli esportatori di pannilana inglese ebbero delle difficoltà dovute alla ripresa dell’industria tessile italiana, alla guerra nei Paesi Bassi (rovina di Anversa) e alla rivalutazione della sterlina. Il “malanno” fu rimediato grazie al notevole sviluppo di diverse attività artigianali per la produzione di ferro, piombo, armi, vetro, seta, nuovo tipo di panni-lana. Il periodo 1550-1650 fu caratterizzato dal fatto che l’Inghilterra entrò in una nuova fase del suo sviluppo economico dovuto, soprattutto, a tre fattori:

1) al commercio oceanico e alla pirateria: importanza dei capitali cumulati con la pirateria nella creazione della Compagnia delle Indie Orientali e nella fondazione delle prime colonie in America;

2) alla politica economica del governo: politica mercantilistico – protettivistica favorevole all’immigrazione di forze di lavoro che proteggeva gli immigrati dalle ostilità dei lavoratori inglesi che ne temevano la concorrenza; imposizione di dazi all’importazione di manifatture straniere e di prodotti considerati di lusso che causavano l’esportazione di numerario; Atti di Navigazione del 1651 (tutte le importazioni inglesi dovevano essere trasportate su navi inglesi o del paese esportatore e le merci provenienti da paesi extra-europei dovevano essere trasportate solo su navi inglesi), del 1660 (tutto il traffico costiero doveva essere riservato alle navi inglesi = capitano e ¾ dell’equipaggio inglese) e del 1662 (limitava l’uso di navi costruite fuori d’Inghilterra e di navi di proprietà di stranieri). Tra il 1652 e il 1688 la consistenza della marina mercantile inglese e l’industria delle costruzioni navali aumentarono considerevolmente;

3) l’apporto degli immigranti: Valloni e Ugonotti affluirono sempre più numerosi in Inghilterra, dopo il 1550, apportando enormi migliorie al sistema produttivo (new drapery, industria del vetro e orologiera).

Due tratti della società inglese del tempo colpiscono facilmente: una straordinaria capacità di ricezione naturale e di capacità di reagire con decisione alle difficoltà del momento, traendone addirittura spunti per nuovi sviluppi e nuovi vantaggi. La ricezione naturale nasce dal fatto che l‘inglese era abituato viaggiare e a mandare i giovani a studiare presso le università estere. Nella capacità di reagire si possono individuare due episodi:

- costruzione dei cannoni di ferro anziché di bronzo (poco rintracciabile in Inghilterra e molto più costoso);

- utilizzo del carbon coke al posto del legname (che comunque veniva importato dai Paesi Scandinavi).

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Con l’utilizzo del ferro e del carbone e con la creazione di prototipi delle fabbriche, ma anche con l’espansione davvero notevole del settore commerciale (con riferimento particolare al commercio internazionale): creazione di importanti premesse per la rivoluzione industriale.

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LA GRAN BRETAGNA. IL PAESE GUIDA

ORIGINE E SVILUPPO DELLA SCOCIETA’ TECNOLOGICA (1750 – 1870) GLI ASPETTI ECONOMICI DELL’ANCIEN REGIME Tra il 1500 e il 1700 l’Europa era un mosaico costituito da molte economie diversificate che conservavano più o meno intatti i connotati dell’ancien régime. La base della ricchezza era costituita dall’agricoltura la quale oltre a fornire derrate alimentari e materie prime, assolveva il compito di procurare introiti considerevoli alle classi dirigenti, che in cambio offrivano la loro protezione. L’antitesi della campagna feudale era rappresentata dalla città medievale che traeva le proprie fonti di sussistenza dallo sfruttamento di opportunità di scambi commerciali o dalla produzione “industriale” organizzata in corporazioni. Le strutture socio-economiche dell’Europa pre-industriale erano caratterizzate da una profonda disuguaglianza tra le classi; da una sproporzione tra l’industria produttrice dei beni di consumo e quella dei mezzi di produzione; dall’insufficienza dei trasporti; dall’esistenza di barriere che erano ostacolo di commercio; dalla demografia del 1700, caratterizzata da alti saggi di natalità e mortalità; e da unità familiari di ampie dimensioni. Il paese destinato agli sviluppi più straordinarie rivoluzionari rimaneva l’Inghilterra. Rimasto alla periferia sino al 1500 si era risvegliato grazie all’importazione di artigiani stranieri come Valloni e Ugonotti cacciati dall’intolleranza dei loro paesi, alla decadenza dei mercati italiani e alla distruzione della Spagna. LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Tra il 1750 e il 1870 l’Inghilterra forgiò quell’insieme di mutamenti delle strutture produttive noto col nome di rivoluzione industriale. Il fenomeno significò quel complesso di fatti che contribuirono a trasformare l’Inghilterra da paese agricolo, a bassa densità di popolazione, povera e relativamente arretrata, a sede della prima società in grado di produrre con tale abbondanza da scongiurare la povertà cronica per lungo tempo appannaggio inevitabile della condizione umana: essa non va identificata con l’ingresso della macchina nel sistema produttivo, è piuttosto una separazione tra i due principali fattori della produzione: capitale e lavoro. I PRESUPPOSTI DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Fohlen un duplice ordine di fattori: Endogeni: ossia quelli che rientrano proprio nell’industrializzazione, come la tecnica, gli investimenti, l’accumulazione del capitale e lo spirito di iniziativa; Esogeni: ossia appartenenti ad altri settori economici, come la rivoluzione demografica, la rivoluzione agraria, la rivoluzione dei trasporti, lo sviluppo dell’istruzione, il ruolo dello stato. LA RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA Fino al 1750 la popolazione fu pressoché stazionaria, a causa delle ricorrenti epidemie e carestie, data l’influenza diretta dell’andamento dei raccolti in un’economia dominata dall’agricoltura. Dal 1750 in poi una serie di buoni raccolti comportarono un diffuso miglioramento delle condizioni di vita e l’abbassamento dell’età al matrimonio (un maggior numero di figli sembrò un mezzo per arricchirsi, potendo impiegare un maggior numero di braccia). All’incremento demografico si accompagnò un movimento di urbanizzazione sotto la spinta di due forze: di espulsione dalla campagna e di attrazione delle città: è stato quindi lo sviluppo delle sussistenze a favorire l’aumento della popolazione che è indipendente dal fenomeno dell’industrializzazione. LA RIVOLUZIONE AGRARIA L’assetto della proprietà terriera era caratterizzato da una numerosa classe di piccoli proprietarie di affittuari strettamente legati alla terra, miranti tutti a soddisfacimento dei bisogni della propria famiglia (regime di autoconsumo); e da un regime agrario comunitario, l’unico modo per consentire la sopravvivenza agli addetti all’agricoltura. Sopravviveva il sistema dell’open field (sfruttamento della terra secondo regole comuni) basato sulla rotazione triennale che comportava la presenza del maggese (riposo della terra) ogni tre anni. L’aumento della popolazione significava aumento della domanda di derrate agricole, ciò non consentiva più rilasciare larghe porzioni di terreni incolti; né la dispersione dei fondi per gli sprechi di tempo e di capitai richiesti per la loro coltivazione. L’enclosure (recinzioni) fu l’operazione che consentì, legalmente, la chiusura dei open field,

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previamente divise e appoderate. Il movimento prese l’avvio dai grandi proprietari, che miravano ad accrescere la produzione, spingendo i rendimenti e mettendo a cultura sempre nuove terre. Date le difficoltà di sostenere le spese di recinzione da parte dei contadini, molti furono costretti a vendere la propria particella di cui approfittarono i grandi proprietari, che accrescendo la dimensione dell’azienda agraria e il passaggio in altre mani consentirono nuovi metodi di coltura: l’abbandono del sistema dei tre campi e l’adozione della rotazione continua (metodo di Norfolk), l’introduzione della rapa nella rotazione che consentiva al terreno di azotarsi. L’allevamento del bestiame da brado si trasformò in tabulare consentendo il miglioramento delle razze e la raccolta del letame. La piccola industria domestica, diffusa nelle campagne, fu abbandonata e la manodopera prese altre direzioni. RIVOLUZIONE DEI TRASPORTI La politica stradale era affidata alle parrocchie, ma data la palese inferiorità nel settore alla fine del 1700 il Parlamento votò le turnpike bills, con le quali si permise a privati la costruzione di strade e di esigere un pedaggio dagli utenti, andando loro incontro con esenzioni fiscali e sovvenzioni. Questi ammodernamenti permisero all’agricoltura di trovare nuovi mercati, alle città la possibilità di approvvigionarsi senza timore di carestie future, agli industriali di concentrare le loro imprese dal momento che la fornitura di carbone e materie prime sarebbe diventata più regolare e a buon mercato, senza dire la riduzione del costo e del tempo del viaggio per i passeggeri. Al di là di questi fattori non bisogna trascurare il ruolo giocato dalla mentalità e dai comportamenti dell’uomo, dal suo spirito scientifico e l’assunzione dei rischi, ossia l’introduzione di invenzioni e innovazioni. RUOLO DELLE INVENZIONI La caratteristica fondamentale della rivoluzione industriale va ricercata in due fatti:

- lo scambio del prodotto; - la divisione del lavoro, la cui evoluzione è palese passando attraverso i quattro stadi ipotizzati da Marx:

Industria domestica, Industria a domicilio, Manifattura, Grande industria. Tutto ciò fu reso possibile grazie ad una serie di invenzioni e innovazioni. IL SETTORE TESSILE Il fattore economico e tecnico scatenante fu rappresentato dalla crescente importazione di cotone in quanto l’offerta era più elastica della lana e per sua natura era più adatto alla meccanizzazione. Le due grandi invenzioni che rivoluzionarono il campo della filatura furono la giannetta filatrice (spinning jenny) di Hargraves (1765) e il telaio ad acqua (water frame) di Arkwright (1768), le quali segnarono il passaggio dal lavoro domestico alla manifattura. Nel 1779 Crompton invento il filatoio intermittente (mule-jenny), si trattava di un incrocio tra la jenny, che dava un filo sottile ma delicato, e il water frame che dava un filo grosso ma resistente. I successi raggiunti nel settore della filatura fecero aumentare la domanda di tessitori che a sua volta fece aumentare i loro salari a scapito della bontà del lavoro; il che incoraggiò i datori di lavoro ad usare più macchinari e a ridurre il numero dei tessitori impiegati. La nuova situazione spinse Cartwright (1785) a brevettare un nuovo telaio meccanico (power loom) che poteva sostituire il lavoro di tre tessitori, grazie all’uso della macchina a vapore. La domanda di macchinari sempre più complessi fece aumentare la domanda di ferro che stimolò lo sviluppo dell’industria chimica (costruzione di nuove fornaci) e l’industria del ferro stesso. LA SIDERURGIA Non a caso il settore siderurgico fu il secondo motore della rivoluzione industriale. Il metallo veniva utilizzato per la costruzione dei telai, delle macchine a vapore e delle attrezzature agricole. Il settore fu stimolato da due fattori: l’esaurimento progressivo dei boschi e l’alto prezzo del metallo a causa della crescente domanda. All’inizio del 1700 si provvedeva alla produzione del ferro tramite il puddellaggio, processo lungo, costoso e con grandi perdite di materiale. Nel 1708 Darby produsse il ferro mescolando il minerale con il carbone. Nel 1783 Cort inventò una nuova tecnica: la combinazione del puddellaggio con la laminazione, che riduceva i tempi di lavorazione di 15 volte con la possibilità di avere una gamma illimitata di sagome. L’abbandono delle tecniche tradizionali comportò: a) un risparmio di combustibile; b) un’economia di metallo, giacché precedentemente metà della ghisa veniva perduta nelle scorie; c) l’adattamento allo sviluppo, ossia la possibilità di assecondare una domanda crescente nell’industria, nelle costruzioni e nei trasporti. LA MACCHINA A VAPORE

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La scoperta di Watt (1764) può considerarsi la tappa finale della rivoluzione. Dapprima limitata alle pompe (engine fire) per l’estrazione dell’acqua dalle miniere, dopo il brevetto del 1781 divenne una macchina motrice svincolata dalla dipendenza dell’energia idraulica. Quest’invenzione offriva all’imprenditore la possibilità di ubicarsi dove preferiva, al contrario della ruota che necessitava dei corsi d’acqua, quindi la modifica della geografia industriale del paese; favorì la concentrazione delle imprese perché il costo elevato degli impianti portò all’associazione di capitali e diede vita a nuove forme di organizzazione del lavoro; consentì lo sviluppo della ferrovia che avvicinò i centri di produzione da quelli di consumo. I RISULTATI E I COSTI DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Riduzione dei costi, aumento della produttività, produzione di massa avevano messo a disposizione della popolazione in crescita una grande quantità di beni a fronte dei quali il prezzo da pagare fu molto alto. Alle prime generazioni di operai, soprattutto quelli di origine artigiana e contadina, più che un inutile alleato la macchina apparve un nemico da combattere. Di qui un diffuso malcontento spesso degenerato in manifestazioni violente di protesta (luddismo) con distruzioni di macchine e diffuse astensioni dal lavoro. La miseria già nascosta nelle campagne veniva alla ribalta delle città e diventava più visibile; la trasformazione operatasi dal 1790 al 1840 spinse la vita operaia in direzione di un innegabile miglioramento dell’alimentazione, grazie ai progressi delle tecniche agricole e all’aumento della produzione. Come non si può negare un peggioramento delle condizioni abitative dovute al grande afflusso nelle città accompagnato da una crisi di civiltà. DAL PROTEZIONISMO AL LIBERO SCAMBIO (1815-1846) La fine delle guerre napoleoniche e l’apertura dei mari segnarono la caduta delle esportazioni inglesi; di qui il ristagno della produzione, la caduta dei profitti, la riduzione dei salari e l’aumento della disoccupazione. I prezzi precipitarono e la prosperità dell’agricoltura ebbe fine. La violenta caduta dei prezzi del grano tra il 1812 e il 1814 aveva indotto alla nascita della legge protettiva corn law che fu bocciata dagli economisti. Nel 1822 una legge più morbida sancì l’adozione della scala mobile ossia l’adozione di dazi protettivi man mano che il prezzo del grano scendeva. La crisi del 1836-37 e il dilagare della miseria innescarono una campagna di stampa a favore dell’abolizione delle leggi sul grano, additando l’ostacolo più grave nel protezionismo granario. Nel 1845 i cattivi raccolti nonché la carestia di patate in Irlanda spinsero all’abolizione delle leggi protezionistiche. Era evidente che l’Inghilterra da paese agricolo si era trasformato in paese industriale e commerciale; alla fine del 1800 il 75% delle sussistenze sarà importato dall’estero. LA PROSPERITA’ VITTORIANA (1850-1870) In questi anni l’equilibrio demografico e sociale vide il superamento del numero degli abitanti delle città rispetto a quello delle campagne. L’intervento dello Stato nell’economia doveva essere ridotto al minimo e ciascuno era chiamato a sviluppare senza ostacoli le proprie capacità e i propri talenti. Alla ripresa verificatasi in questi anni, alla quale non fu estranea le scoperta delle miniere di oro della California (1848) e dell’Australia (1851), dove gli inglesi erano spinti ad investire, viene dato i nome di prosperità vittoriana. I fattori del successo vanno ricercati nella rivoluzione delle ferrovie e della navigazione (gli scafi in ferro segnarono il tramonto della vela). La mancanza delle banques d’affaires e la necessità dell’autofinanziamento diedero slancio allo sviluppo delle banche. Anche l’agricoltura grazie alla completa meccanizzazione e allo sviluppo dei concimi chimici fu caratterizzata da alti rendimenti. UN PIONIERE ALLE STRETTE (1870-1914) LA PRIMA CRISI INTERNAZIONALE E I FATTORI DI TRASFORMAZIONE DELL’ESPANSIONE DEL CAPITALISMO Il periodo che copre l’ultimo trentennio del 1800 e il primo decennio del 1900 segnò il culmine del capitalismo. Il paese risentì di una notevole emigrazione della popolazione affiancata da una caduta del tasso di natalità rispetto a quello di mortalità: transizione demografica. Il sistema economico di questi anni conquistò il mondo attraverso la sua espansione imperialista. Elementi caratterizzanti sono importanti istituzioni come banche , società, borse e soprattutto la generalizzazione del tallone-aureo. Il fatto nuovo fu l’ingresso dell’elettricità sulla scena economica che innescò la seconda rivoluzione industriale. Tuttavia gli anni dal 1873 al 1896, corrispondenti alla fase discendente del ciclo economico, furono caratterizzati da una generalizzata discesa dei prezzi con un’alternanza di crisi e impennate di prosperità.

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IL RALLENTAMENTO DELLA CRESCITA (1880-1905) Avendo lasciato a distanza gli altri paesi la Gran Bretagna poteva contare sull’esportazione dei suoi prodotti nel mondo intero e costruire la sua ricchezza sul commercio internazionale; non solo con l’esportazione di prodotti manufatti, bensì di capitali. Essa era tra i maggiori prestatori di denaro a Stati Uniti e America latina. Fino al 1880 mantenne il primato mondiale nella produzione industriale (carbone e ferro) ma nel 1890 fu sorpassata dagli USA nella produzione d’acciaio. Cominciano ad intravedersi segni di stanchezza in particolare nelle vecchie industrie (carbone); ciò è dovuto oltre che alla tendenza generale al ribasso dei prezzi sull’onda lunga 1873-96, al diffuso malessere nel settore agricolo incapace di sostenere la concorrenza internazionale. Dal 1896 la Gran Bretagna s’imbatté nella concorrenza di paesi nuovi, come Stati Uniti e Germania, rivali che avevano creato una propria industria. La perdita di certi mercati, vuoi per l’innalzamento di barriere doganali, vuoi per la creazione di una propria industria, da parte di quei paesi, spinse la Gran Bretagna alla ricerca di nuovi sbocchi e di materie prime in quelli che non avevano la possibilità di rifiutarsi al suo commercio. Si spiega così la nascita di un neo-colonialismo che vide un gran numero di paesi nominalmente indipendenti entrare nell’orbita politica e soprattutto economica delle grandi potenze, dai quali acquistavano certe loro produzioni che esse stesse incoraggiavano e dirigevano. LA RIPRESA Anche la Gran Bretagna partecipò alla vigorosa ripresa dovuta alla seconda rivoluzione industriale. Il 1906 segnò un nuovo corso. La questione doganale fu il tema principale della campagna elettorale seguita alla caduta del Parlamento: i liberali si elessero paladini del libero scambio; gli unionisti sposarono le tesi protezionistiche di Chamberlain; sul fronte del movimento operaio si realizzò il partito politico del Labour Party. La ripresa che andò avanti fino al 1913 toccò principalmente i settori dell’industria e non quello dell’agricoltura che rimase stazionario. Comunque il tasso annuo di crescita rimase inferiore a quello degli anni della prosperità vittoriana a causa probabilmente del “fallimento imprenditoriale” della Gran Bretagna. La forza economica battuta sul piano industriale si difese su quello commerciale grazie alla sua flotta mercantile. Il Regno Unito era ancora il grande distributore di capitali e la sua moneta era lo strumento indispensabile agli scambi internazionali, conservava il suo ruolo di mediatrice. L’ECONOMIA INGLESE TRA LE DUE GUERRE (1914-1940) L’ECONOMIA DI GUERRA Alla vigilia della prima guerra mondiale l’economia aveva assunto dimensioni mondiali e, pertanto, gli ostacoli al commercio internazionale crescevano in proporzione; una parte del mondo sfruttava l’altra creando profondi antagonismi. Lo scoppio del primo conflitto sarà un rivelatore delle debolezze nascoste in questo sistema. E se il capitalismo sopravvisse il prezzo pagato fu alto: scomparsa del liberalismo a favore del dirigismo statale. Fino a quel momento esisteva un equilibrio europeo quale l’aveva definito il Congresso di Vienna e su cui la Gran Bretagna vegliava gelosamente. La Germania per prima lo ruppe a suo vantaggio ed il tessuto degli scambi internazionali fu completamente distrutto avendo la guerra scatenato i nazionalismi più esasperati. Il capitalismo fino a quel momento simbolo del progresso era sul banco degli accusati: il responsabile diretto o indiretto della guerra che aveva distrutto l’Europa. Sul piano monetario la guerra ebbe due conseguenze:

- all’interno innescò un pericoloso processo inflazionistico che determinò un forte aumento dei prezzi e mise in moto una redistribuzione dei redditi tra i due estremi: lo schiacciamento dei redditi fissi e l’apparizione di fortune scandalose;

- sul fronte internazionale comportò la completa disorganizzazione del sistema e significò la fine del tallone – oro.

GLI ANNI DIFFICILI (1919 - 1930) In Gran Bretagna la demografia non subì gravi perdite durante la prima guerra mondiale. Gli apparati produttivi, benché invecchiati, furono presto ricostruiti. I profitti realizzati dalle imprese e i buoni salari degli ultimi anni fecero lievitare la circolazione monetaria e stimolarono i consumi; ma i prezzi aumentarono più in

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fretta. Il peggioramento della bilancia dei pagamenti e l’abbandono del tallone-oro, nel 1919, imposero una politica di deflazione che causò una notevole riduzione della produzione industriale e una brusca impennata della disoccupazione. A questo punto l’evoluzione dell’economia inglese si distacca da quella degli altri paesi che ebbero invece una certa ripresa. Responsabile di tutto ciò fu ritenuta la politica monetaria, sicché il cancelliere Churchill pensò di ripristinare la convertibilità in oro della sterlina (Gold bullion act 1925). Le conseguenze furono positive e negative: riportando la sterlina al tasso di cambio antecedente alla guerra, significava sopravvalutarla, con la conseguenza, all’interno, di una riduzione del potere d’acquisto e, all’esterno, di un freno alle esportazioni inglesi. DALLA CRISI AL RISANAMENTO (1930 - 1939) Lo scoppio della crisi di Wall Street ebbe ripercussioni gravissime su un’economia non ancora perfettamente ristabilita e ruotante attorno al commercio internazionale. La rivalutazione della sterlina aveva impedito alla Gran Bretagna di partecipare al processo di espansione che avevano conosciuto gli altri paesi dal 1926 al 1929. La scelta di quella politica sacrificava la produzione industriale al fine di conservare alla piazza di Londra il ruolo finanziario mondiale. La situazione interna andò degenerando e la disoccupazione salì. La situazione peggiorò a partire dal 1931 con l’apparire del disavanzo della bilancia, prodotto dal calo delle vendite di servizi, diretta conseguenza del rallentamento dell’attività economica mondiale e del calo degli interessi dei capitali esportati, il cui flusso non compensava il saldo negativo della bilancia commerciale. La profonda crisi finanziaria innescò una parallela crisi politica. Il nuovo governo di Unione Nazionale riguardò il pareggio del bilancio e successivamente fu costretto a sospendere la convertibilità in oro della sterlina. La decisione della sospendere il tallone-oro comportò un brusco abbassamento del corso della sterlina; l’arresto dei capitali che fino al 1931 si erano diretti su Londra e il ritiro di quelli esteri. All’interno, conseguenze favorevoli si ebbero sull’equilibrio della bilancia dei pagamenti, grazie alla ripresa delle esportazioni. Sta di fatto che la Gran Bretagna fu il primo paese ad uscire dalla crisi. LA GRAN BRETAGNA TRA GUERRA E RICOSTRUZIONE (1940 - 1960) LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA Gli anni di guerra non furono solo anni di devastazione economica, si beneficiò dei progressi della tecnica e di nuove scoperte scientifiche in molte industrie di grande potenzialità per il futuro sviluppo. L’Inghilterra riuscì con poche spese per la riparazione a riportare in attività gran parte del capitale produttivo. LA RICOSTRUZIONE Uscito vittorioso dalla guerra , il Regno Unito, a parte le perdite subite e gli enormi sforzi compiuti, aveva al suo attivo un livello di produzione industriale a agricola più elevato che nel 1939, una moneta ancora solida e una inflazione contenuta. Oltre alla politica di occupazione e alla creazione del Welfare State, si propose la nazionalizzazione di alcune industrie più importanti, specie quelle a più forte intensità di capitale. Vennero nazionalizzate la Banca d’Inghilterra, l’industria del carbone, l’elettricità, il gas e le ferrovie. Sul piano internazionale sembrava aver perduto ogni influenza tranne che in Medio Oriente, tuttavia la sua flotta tornò ad essere la più attiva del mondo. IL WELFARE STATE Con la seconda guerra mondiale lo Stato assumerà un ruolo nuovo. Il Welfare State esprime questa nuova vocazione sociale, che vuole essere la risposta politica ed ideologica delle democrazie al socialismo e al corporativismo. Sta ad indicare una concezione interventista dello Stato che garantisce ad ogni individuo il godimento dei diritti sociali riconosciuti dalla comunità a tutti i suoi membri: diritto alla vita, al lavoro, alla salute, all’educazione, alla casa…..al benessere. In Inghilterra il movimento di riforma prese l’avvio dall’ascesa al potere del Labour Party. Il Welfare State mirava ad una redistribuzione della ricchezza allo scopo di

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assicurare ai più poveri di che vivere, a tutti la sicurezza e l’uguaglianza delle fortune, a danno delle classi più agiate.

L’ALTERNATIVA FRANCESE AL “MODELLO” INGLESE DI INDUSTRIALIZZAZIONE, OVVERO LA CRESCITA

ECONOMICA TRA SETTE E OTTOCENTO

DALLA “RIVOLUZIONE” ALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (1789 - 1870) LA FRANCIA PRERIVOLUZIONARIA Nel corso del 1700 la Francia era riuscita ad impiantare una proto-industrializzazione “manifattura sparsa a domicilio”. Accanto a queste forme predominanti non mancavano vere e proprie manifatture dotate dalla corona di numerosi privilegi: monopolio di vendita, esenzioni fiscali e soprattutto sovvenzioni, prestiti e premi all’esportazione (es: tappezzerie Gobelins, vetreria S. Gobain). Alla vigilia della Rivoluzione la Francia partecipava al commercio mondiale con una quarto delle esportazioni. Alla grande espansione commerciale non corrispondeva un analogo sviluppo dell’attività creditizia paragonabile a quello olandese o inglese. La terra, ancora nel 1700, rappresentava il mezzo più sicuro per arricchirsi. Lo scoppio della Rivoluzione del 1789 colse la società francese in pieno assetto feudale. La sua origine economica è da ricercarsi nello squilibrio delle forze in agricoltura a favore di una cospicua aristocrazia terriera. LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA RIVOLUZIONE; IL BLOCCO CONTINENTALE La Rivoluzione ebbe il merito di instaurare la totale libertà del lavoro, facendo cadere ogni regolamento e controllo, condizione essenziale e preliminare al manifestarsi di qualsiasi iniziativa del capitalismo industriale. Nelle campagne l’aggressione al sistema feudale comportò delle conquiste di grande livello: la liberazione del suolo e degli uomini, l‘abolizione di ogni tipo di “peso” e la piena proprietà della terra. Al contrario cambiò poco la struttura economica in quanto il consumo, la produzione e la popolazione ruotava attorno all’agricoltura. In materia di commercio dopo una ventata di libertà si tornò al protezionismo al fine di tutelare un’industria appena nascente. Inoltre Napoleone, con l’intento di distruggere l’economia inglese, nel 1806 emanò il blocco continentale per il quale nessun prodotto di nessun paese europeo poteva essere importato da o esportato in Gran Bretagna (non ebbe molto effetto in quanto i maggiori rapporti commerciali inglesi erano rivolti all’America). Dopo le guerre napoleoniche, perdute le colonie, la Francia vide decimata la sua flotta militare, mentre quella mercantile consisteva di soli velieri. L’agricoltura rimaneva legata ai vecchi schemi e ad un’industria domestica sparsa per le campagne; mentre le manifatture, con i loro prodotti di qualità, avevano perduto gran parte della clientela. I MOTIVI DEL RITARDO FRANCESE A parte la notevole differenza nella disponibilità di risorse naturali rispetto alla Gran Bretagna, lo sviluppo economico della Francia fu frenato da una serie complessa di fattori. Essa non aveva conosciuto la “rivoluzione

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demografica” né la rivoluzione agricola (enclosure), nell’ultimo quarto di secolo mostrava una finanza statale in una situazione disastrosa e la situazione politica non era migliore viste le guerre napoleoniche. Di fronte alla caduta dei profitti e alla riduzione della rendita verificatasi in agricoltura (dovuti alla riduzione degli sbocchi e ai cattivi raccolti), gli interessati chiesero l’aiuto dello Stato che, nel 1815, concesse l’adozione della scala mobile (sistema di dazi protettivi che aumentavano non appena il prezzo dei prodotti interni accennava a scendere). Altri tentarono la via della sperimentazione del progresso agronomico al fine di abbassare i costi di produzione. I campo industriale si imbocco la via del protezionismo con l’adozione di alte tariffe all’importazione; si avviò un rapido processo di meccanizzazione degli impianti grazie alla macchina a vapore; si seguì la strada della concentrazione sia tecnica che economica. LE BASI DEL “DECOLLO” DELL’ECONOMIA E LA NASCITA DEL L’INDUSTRIA MODERNA Dal 1850 si verificò un’accelerazione del ritmo di sviluppo spiegabile grazie alla combinazione di diversi fattori. Primo tra tutti la nascita della ferrovia che permise l’abbassamento dei costi e dei tempi di percorrenza nonché l’allargamento del mercato interno. L’agricoltura subì una grande trasformazione: ad un’agricoltura di sussistenza e di autoconsumo si sostituì una agricoltura commercializzata: nacquero i grandi magazzini. La nuova politica intrapresa da Napoleone III anziché combattere la potenza inglese, stipulò nel 1860 uno storico trattato commerciale. Il cambiamento più importante si ebbe nella nuova organizzazione del credito: aumento dello sconto di effetti commerciali e la nascita di nuovi stabilimenti di credito. Apparirono le grandi banche di deposito che tra il 1852 e il 1870 facilitarono l’aumento della produzione che triplicò. L’EVOLUZIONE DELLA CRESCITA (1871 – 1914) LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA FRANCO – PRUSSIANA Il decollo fu bruscamente interrotto intorno al 1870 a causa di due fatti concomitanti: sul piano esterno la guerra franco-prussiana e su quello interno dalla guerra civile (la Comune). Il conflitto causò poche perdite umane e , anche dal punto di vista economico strutturale, non dette luogo a profondi cambiamenti. Le conseguenze scaturite dal trattato di Francofone (10 maggio 1871) furono di natura territoriale e finanziaria. La Francia fu amputata dell’Alsazia (ottimo centro tessile) e della Lorena (bacini carboniferi e industria di sale) subendo quindi una perdita di materie prime agricole (un’ampia regione agricola) e industriali. Inoltre la Francia fu sottoposta al pagamento di un’indennità che, anche se arrecò enormi conseguenze sull’economia, fu pagata in tempo dai francesi grazie alla immediata sottoscrizione di titoli del debito pubblico al 5%. La Francia, che in quel periodo godeva di un ottima economia, vide migliorare le esportazioni grazie agli acquisti della Germania che in quel periodo attraversava la depressione. In conclusione l’economia francese realizzò un’eccedenza nella bilancia commerciale che stimolò l’economia. LA GRANDE DEPRESSIONE (1882 - 1896) Per ogni paese l’esistenza di un debito pubblico troppo pesante, specie in periodo di ribasso dei prezzi, è sempre paralizzante. Così in Francia, gran parte delle entrate fiscali, anziché essere orientate verso investimenti produttivi, fu sterilizzata per il pagamento degli interessi e per l’ammortamento del debito. In agricoltura il valore della produzione diminuì. Di fronte alla crisi molti paesi trasformarono l’agricoltura (Danimarca e Olanda abbandonarono la coltura dei cereali e preferirono dedicarsi all’allevamento) cosa che non fece la Francia la quale preferì trovare il riparo nella protezione e nei metodi tradizionali. Anche sul piano industriale seguì la via del protezionismo. In definitiva, il ristagno dell’agricoltura e della popolazione significò un rallentamento del ritmo di sviluppo dell’industria. Per quanto riguarda il settore risparmio-investimento riuscì a risparmiare e a progredire lentamente grazie all’organizzazione capillare delle banche locali e regionali e allo sviluppo delle casse di risparmio; detti risparmi finanziavano lo sviluppo di altri paesi. VERSO LA SECONDA INDUSTRIALIZZAZIONE (1895 -1914) Nel breve tempo la ricetta Mèline ebbe effetti positivi. In agricoltura evitò la catastrofe, perché i dazi protettivi ridussero le importazioni sia in volume che in valore con miglioramento della bilancia commerciale. Dal punto di vista industriale il protezionismo, dopo un breve periodo di incertezza, non impedì l’aumento degli scambi

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internazionali. Fu soprattutto grazie alla ripresa del dinamismo industriale dovuto all’applicazione dell’energia elettrica che l’aumento dei profitti legato all’aumento dei prezzi favorì la crescita degli investimenti. Alla vigilia del primo conflitto mondiale le distanze tra Francia, Germania e Inghilterra si erano accorciate. L’ECONOMIA FRANCESE TRA LE DUE GUERRE (1914 - 1940) TRA GUERRA E RICONVERSIONE La gravità delle perdite demografiche inflitte ad un paese il cui tasso di natalità era il più basso d’Europa ed in cui, già prima della guerra, la popolazione era anziana, fu chiaramente avvertita dai francesi. Le conseguenze del conflitto turbarono l’attività economica in quanto il finanziamento della guerra aveva reso necessario il ritiro degli investimenti francesi all’estero; dall’altro la rivoluzione bolscevica aveva ingoiato quelli collocati in Russia. La necessità di ricostruire le attrezzature e il ritardo con cui si provvide a soddisfare la domanda di beni di consumo stimolarono lo sviluppo dell’industria dei beni di produzione il cui indice aumento fino al 1920. Durante la prima metà del 1921 la depressione fu severa e solo nel secondo semestre la Borsa si riprese e la produzione industriale cominciò a progredire; il paese però non poggiava ancora su basi stabili. LA CALMA PRIMA DELLA TEMPESTA: LA CRISI DELL’ECONOMIA FRANCESE (1926 -1935) La crisi francese era soprattutto una crisi di fiducia e al Presidente della Repubblica la persona giusta sembrò Poincaré. Bastarono la sua presenza e l’annuncio di una politica di stabilizzazione, che restituiva alla Francia il regime di Gold exchange standard , a far rientrare i capitali che erano fuggiti ad abbassare il corso della sterlina del 18%, nonché a scommettere sul rialzo del franco, per cui alla Banca di Francia affluirono oro e divise. La concorrenza dei prodotti inglesi, più competitivi, scatenò una recrudescenza del protezionismo con drastiche riduzioni degli scambi. Sta di fatto che fino alla fine del 1929 la produzione aumentò per poi diminuire del 47% fino al 1932. La situazione si aggravò nel 1933 quando, anziché allinearsi a Gran Bretagna e Stati Uniti nell’abbandono del tallone – oro e svalutare, cercò di migliorare la situazione del bilancio statale puntando sul ritocco delle imposte e sulla riduzione del trattamento dei funzionari. La stabilizzazione del franco, che in realtà si era svalutato rispetto alle altre monete, aveva stimolato le esportazioni scoraggiato le importazioni determinando un afflusso di oro; per questo motivo il paese entrò tardi nella depressione ma vi resterà fino al 1938. A partire dal 1933 la disoccupazione toccò l’intera classe dei salariati. LO STATO DI FRONTE ALLA CRISI (1936 - 1939) Il regime era in crisi ed era incapace di riformarsi; gli operai diedero vita a scioperi generalizzati. L’atmosfera quasi rivoluzionaria si stemperò con gli “accordi di Matignon” che aumentarono i salari, ridussero le ore lavorative, introdussero un congedo pagato di due settimane e alla generalizzazione della contrattazione collettiva. Né le misure adottate per il rilancio della produzione, né la svalutazione del franco, nel 1936, diedero grandi risultati. L’aumento dei costi derivante dagli accordi di Matignon ostacolarono lo sviluppo della produzione che invece era sollecitata dal cresciuto potere di acquisto dei lavoratori. Per stimolare l’attività economica lo Stato s’impegnò nel riarmo ed elaborò un piano triennale che assicurava alle imprese lo sbocco dei propri prodotti. La ripresa ci fu, nuovi capitali affluirono in Francia, la bilancia dei pagamenti tornò in equilibrio ma purtroppo era l’ultimo anno di pace.

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DAL II DOPOGUERRA ALLA V REPUBBLICA: RICOSTRUZIONE E SVILUPPO ECONOMICO (1945 - 1958) LA RICOSTRUZIONE La Francia si classifica tra i paesi occidentali con i migliori risultati nel ripristinare il capitale distrutto e gettare le basi di nuove strutture. Come primo atto il governo pose riordinamento dei prezzi e dei salari bloccati alla fine del 1939. Sulle prime le imprese, grazie al risparmio forzato accumulato negli anni di guerra, poterono sopportare l’incremento dei costi, ma quando salari e prezzi aumentarono gli equilibri si rovinarono. De Gaulle nel 1945 stese un programma che prevedeva la nazionalizzazione delle principali fonti di energia (gas, carbone, elettricità), la Banca di Francia e altre quattro grandi banche. Nel 1949 la produzione industriale aumentò e il piano che doveva essere una misura d’emergenza divenne un’istituzione permanente. Esso non mirava tanto allo scopo di controllare la produzione quanto di orientarla:

- piano Monnet (1947-53) prevedeva la ricostruzione dell’apparato produttivo di base e il ristabilimento delle infrastrutture (carbone, elettricità, acciaio, trattori, ferrovie, ponti), concentrando tutte le risorse su questi investimenti, fatti dallo Stato in quanto si trattava di settori nazionalizzati. Aumento della produzione del 50%;

- secondo Piano (1954-57) prevedeva la ricerca scientifica, il finanziamento della modernizzazione e l’aumento della produttività, cercando di ammortizzare lo sviluppo tra l’interno e l’estero;

- terzo Piano (1958-61) cercò di coprire tutta l’economia compreso il settore privato. I problemi da affrontare riguardavano: la distribuzione, per l’adattamento della Francia alla CEE; l’agricoltura necessitava uno slancio; il decentramento industriale; la politica dei redditi e la partecipazione delle organizzazioni operaie alle decisioni della pianificazione economica.

Una robusta classe imprenditoriale, sia pubblica che privata, assicurò alla Francia potenza e competitività.

GERMANIA: NASCITA E SVILUPPO DI UNA POTENZA INDUSTRIALE

LE TAPPE VERSO L’UNIFICAZIONE ECONOMICA (1800 - 1848) L’ECONOMIA DEGLI STATI TEDESCHI AI PRIMI DELL’OTTOCENTO Ai primi dell’Ottocento la Germania lo sviluppo economico era condizionato dal frazionamento politico ed economica del suo territorio, che raggiunse un’unità politica soltanto nel 1871. Questo lungo processo di unificazione fu agevolato dagli effetti della rivoluzione francese e dalle successive conseguenze delle guerre e conquiste napoleoniche, che apportarono nuove idee e consentirono l’eliminazione di diverse dinastie. Nelle campagne la vita era segnata dalla persistenza di istituzioni arcaiche complesse e diversificate: nella zona orientale prevalevano i grandi possessi terrieri, scarsamente popolati e condotti per lo più da servi per conto dei proprietari; nella parte occidentale (a sinistra dell’Elba) le imprese agrarie risultavano più frazionate. In alcune regioni quali la Sassonia, l’Alta Slesia e le province renane, operavano alcune industrie tradizionali organizzate nella forma dell’artigianato e dell’industria a domicilio per conto di mercanti imprenditori. La società viveva di una produzione volta all’autoconsumo. Questo grave ritardo che caratterizza lo sviluppo economico degli Stati tedeschi era influenzato dal frazionamento politico: ogni Stato rimaneva separato dagli altri attraverso un complesso sistema di barriere doganali, che ostacolavano gli scambi e creavano un infinità di piccoli mercati locali. La Prussia per prima senti l’esigenza di avviare un processo di unificazione commerciale. L’UNIFICAZIONE DOGANALE E L’AMPLIAMENTO DEL MERCATO: LO ZOLLVEREIN In Prussia il problema principale era dovuto alle dogane interne che impedivano l’approvvigionamento dei beni e la circolazione dei prodotti. Nel 1818 venne introdotta un’unica tariffa doganale destinata ad agevolare l’introduzione nel paese di materie prime, di manufatti e di prodotti coloniali. L’iniziativa della Prussia venne accolta da altri piccoli Stati e da qui l’avvio di una politica di reciproche agevolazioni. Per evitare danni alle

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industrie nascenti si adotto una politica di protezione proposta dal giovane studioso List. A distanza di tre lustri (15 anni) la politica intrapresa dalla Prussia otteneva il meritato successo con la nascita dell’Unione doganale (Zollverein) che entrata in vigore nel 1834 riuscì ad inglobare gran parte degli Stati tedeschi. Nonostante ciò l’economia tedesca rimaneva sempre indietro rispetto a quella francese ed inglese a causa al problema della protezione dell’industria nascente. Il protezionismo, auspicato dal List, andava limitato alle industrie nascenti, le quali una volta divenute adulte avrebbero dovuto competere ad armi pari con quelle degli altri paesi in un regime internazionale di libero scambio. Nel 1842 scadeva l’accordo dell’Unione doganale e si perseguì su un sistema di barriere doganali che garantisse un liberismo interno e un regime protezionistico all’esterno. GLI AVVENIMENTI DEL 1848 E L’EGEMONIA DELLA PRUSSIA Nel 1848 anche la Germania veniva scossa dal vento rivoluzionario. Nel 1849 il nuovo Parlamento, formatosi sulla spinta dell’ondata rivoluzionaria, redigeva a Francoforte una Costituzione nella quale sembrava assumere una valenza prioritaria l’unificazione economica del paese, ma essa, a seguito del fallimento dei moti, non riuscì ad avere pratica attuazione. Eppure i moti ebbero molte conseguenze sul piano economico e sociale. Era opportuno che materie prime, merci e prodotti giungessero nei vari mercati ed alle nascenti industrie di trasformazione in modo rapido e sicuro garantendo approvvigionamenti continui e costanti. Di qui l’importanza dei sistemi di trasporto e delle vie di comunicazione. Si attuò una politica di costruzioni, formando una rete viaria e la nascita della ferrovia: negli Stati minori fu lo Stato ad assumere gli oneri più gravosi, mentre in altri stati, soprattutto in Prussia, un ruolo importante venne svolto dall’iniziativa privata, alla quale lo Stato si impegnò a garantire un minimo di reddito. In tal modo la Prussia si poneva al vertice nel continente europeo non solo per lo sviluppo della rete ferroviaria ma anche per il vantaggio che tale rete consentiva di spostarsi da una parte all’altra della Germania. Nel momento in cui l’economia tedesca si avviava ad assumere un ritmo di sviluppo più intenso, i contrasti tra la Prussia e l’Austria divennero insanabili. La Prussia riuscì ad avere partita vinta non solo sul piano economico, escludendo l’Austria dai trattati commerciali stipulati con i vari paesi europei, anche a nome di quegli Stati del Sud che vicini ad essa si erano mostrati sino all’ultimo restii ad entrare nella sua orbita, ma anche su quello politico, che peraltro sarebbe stato poi sanzionato con la sconfitta del suo tradizionale avversario nella guerra del 1866. L’ECONOMIA E L’AVVIO ALLO SVILUPPO (1849 - 1870) LE TRASFORMAZIONI IN AGRICOLTURA Significativi per l’agricoltura furono gli editi emanati in Prussia tra il 1807 e il 1811, i quali non sanzionavano soltanto la libertà personale dei contadini da ogni e qualsiasi costrizione signorile cui da secoli essi erano stati sottoposti ed avevano passivamente subito, ma anche quella della terra, il cui possesso e godimento non furono più appannaggio quasi esclusivo delle classi nobiliari. La complessità del processo di trasformazione agraria in questi anni trovò le sue ragioni nella duplice configurazione dell’economia agricola in Germania: da una parte le regioni orientali dominate dalle grandi imprese agricole gestite dagli Junkers, che rappresentavano un modello avanzato di agricoltura protesa verso il mercato; dall’altra, le regioni occidentali e meridionali, dove esistevano piccole e medie imprese assai diversificate ed assimilabili a quelle prevalenti nel mondo rurale francese. Dal 1850 fino al 1865 la situazione cambiò e vide l’agricoltura tedesca colmare il grande divario con la Francia grazie all’aumento demografico, la maggiore facilità delle comunicazioni e la consistente richiesta di nuove terre da destinare alla coltura sia estensiva che intensiva. Sin dai primi del 1800 i sistemi di coltura si erano basati sul sistema dei tre campi, ma grazie all’agronomo Thaer venne a svilupparsi il sistema della rotazione nei campi e il sistema stabulare nell’allevamento delle pecore e dei bovini. Grazie all’aiuto della scienza agronomica si ebbero molti miglioramenti anche nelle operazioni tecniche e negli strumenti agricoli. Un sostegno al progresso agricolo venne dagli organi governativi che agevolarono la nascita di istituti agrari, corsi di economia presso le università, ma anche dai proprietari fondiari prussiani, gli Junkers, che introdussero importanti iniziative volte ad aumentare la produzione e la produttività dei terreni.

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LO SVILUPPO DELL’INDUSTRIA E LA QUESTIONE SOCIALE Agli inizi del 1850 le condizioni economiche della Germania erano più che favorevoli, grazie al corso dell’Unione doganale, al sistema di comunicazione ed al mercato di scambi. Ad agevolare questa fase di decollo c’erano le grandi disponibilità di carbone provenienti dal bacino della Ruhr dell’Alta Slesia. Significativo il ruolo dello Stato soprattutto in Prussia dove vennero aboliti i severi controlli sull’attività estrattiva; nei casi in cui lo Stato non intervenne, supplì l’intervento privato con finanziamenti e tecnici provenienti dall’estero. Se il settore tessile rappresentava ancora un comparto industriale particolarmente importante nel panorama economico tra il 1850 ed il 1870, tuttavia si andavano definendo comparti decisamente nuovi collegati con l’industria pesante: carbone e ferro costituirono i fattori principali dello sviluppo accelerato del paese e gli consentirono di formare un robusto apparato produttivo, che avrebbe influenzato positivamente altri settori ad esso connessi. Nel 1871 la Germania risultava il secondo produttore mondiale di carbone grazie a nuovi metodi (Bessemer 1856, Siemens 1864). L’avviato processo di industrializzazione finì per incidere sulle condizioni dei ceti economicamente più deboli. Nel 1830 la questione sociale veniva affrontata con l’emanazione di una serie di provvedimenti che non ebbero molto successo, di qui la nascita e lo sviluppo di movimenti che si posero come obiettivo l’aiuto della classe operaia: Raiffeisen e Delitzsch fautori di banche destinate ad operare nei centri urbani e ad aiutare gli operai e piccoli artigiani. La complessa tematica fu sviluppata dai cosiddetti “socialisti della cattedra” (Wagner, Brentano e Schmoller). Wagner era il più deciso nella critica del liberismo economico ed un fautore convinto dell’intervento statale, quale necessario correttivo ai conflitti tra le varie classi, in quanto riteneva che l’azione individuale fosse del tutto incapace a risolvere i problemi di interesse collettivo. Di qui la proposta di una serie di una serie di interventi legislativi intesi a regolare i salari, gli orari di lavoro, il sistema creditizio, il commercio e il settore cooperativo. IL RUOLO DEL TERZIARIO: FERROVIE, BANCHE E COMMERCIO La mancanza di una visione organica nella politica ferroviaria non impedì lo sviluppo della rete, semmai provocò una miriade di iniziative a livello periferico, che vide collocarsi in prima linea i entri urbani, interessati ad avere un autonomo sistema ferroviario. Dopo il 1848 la situazione vide affiancarsi, accanto l’intervento privato, l’intervento statale, soprattutto in Prussia, che si concretizzò nella costruzione dell’Ostbahn (Ferrovia orientale). Tra il 1850 e il 1870 le richieste provenienti dal settore ferroviario fecero sviluppare l’industria tedesca. Si ottennero ottimi risultati in breve tempo grazie al regime protezionistico attuato dallo Zollverein e nel sistema tariffario che mirò da una parte ad agevolare l’importazione di materie prime e dall’altra a scoraggiare quella di prodotti finiti. Il binomio ferrovie – industria pesante consentì alla Germania di sviluppare una sorta di industrializzazione alla rovescia: partendo dagli stadi terminali della produzione riuscì ad estendersi alle attività di base differenziandosi dal modello sperimentato dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Le azioni ferroviarie emesse in quegli anni per finanziare le costruzioni diedero vita ad un vivace mercato azionario e favorirono il notevole aumento delle società per azioni. Tra queste un ruolo importante ai fini del processo di sviluppo economico - industriale del paese fu svolto dalle banche. Nel 1853 venne fondata la Banca per il commercio e l’industria e nel 1856 la Società di sconto il cui modello di gestione del credito prevedeva che nella loro attività si potessero impegnare i propri depositi non solo per la produzione in genere, ma anche nella costruzione di nuove società e nella partecipazione alla loro gestione attraverso i propri rappresentanti. Il potenziamento delle vie di comunicazione e la formazione di un moderno sistema creditizio servirono a vivacizzare i commerci tra le due zone del paese, est e ovest, sviluppando il commercio interno e realizzando così gli obiettivi preposti dall’Unione doganale. L’UNIFICAZIONE POLITICA E L’ACCELERATO PROCESSO DI INDUSTRIALIZZAZIONE (1871 - 1914) LA DINAMICA ED I FATTORI DELLA CRESCITA ECONOMICA La caduta del II Impero sotto i colpi della nuova e insospettata potenza prussiana ed il lento declino dell’economia inglese sembravano dare vantaggio alla Germania ed agli Stati Uniti. In realtà per la Germania,

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unificata con la pace di Versailles nel 1871, la guerra vittoriosa aveva assunto un significato particolare: l’annessione dell’Alsazia (fiorente per l’attività tessile) e della Lorena (giacimenti di minerali di ferro) e una consistente indennità di guerra. Il periodo tra il 1870 ed il 1914 fu sicuramente caratterizzato da una notevole crescita economica la cui dinamica si articolò in tre fasi:

- una prima intorno agli anni ’70 caratterizzata dall’unificazione politica e dalla costituzione dell’impero, caratterizzata da una forte febbre speculativa che porterà alla seconda fase;

- una seconda, dal 1873 al 1896, che comprende un periodo di crisi e ristagno fino agli anni ’80 e quindi una consistente ripresa grazie all’aumento della popolazione (inurbamento), ad un consistente sviluppo agricolo (dovuto alla maggiore produttività dei terreni) e al sostegno del sistema creditizio (Reichsbank, organizzata in società per azioni e sotto il controllo dello Stato);

- una terza, più lineare, che si conclude alle soglie del primo conflitto mondiale e segna l’ingresso, accanto ai tradizionali comparti industriali, di altri più innovativi e moderni che daranno alla Germania un indiscusso primato europeo.

IL PROCESSO DI INDUSTRIALIZZAZIONE E LO SVILUPPO DI NUOVI SETTORI: ELETTRICITA’ E CHIMICA Lo sviluppo industriale della Germania nella terza fase (1896 - 1914) tendeva a privilegiare le industrie di beni di investimento (settore siderurgico e meccanico) rispetto a quelle di beni di consumo, quindi ad accrescere e potenziare ulteriormente lo sviluppo industriale in senso capitalistico. Ciò fu possibile grazie allo sviluppo della chimica e dell’elettricità. Nell’ambito di questo modello di sviluppo industriale un ruolo strategico fu svolto dal binomio carbone – ferro. La disponibilità di carbone agevolò lo sviluppo dell’industria siderurgica nell’estrazione del ferro. Il settore fu aiutato anche dall’annessione della Lorena e dall’utilizzo del nuovo processo di fusione Gilchrist-Thomas che portò al raddoppio della produzione d’acciaio e del ferro. Sostenuta dalla siderurgia l’industria meccanica fu in grado di soddisfare sia la domanda interna che quella estera. Un ulteriore impulso alla siderurgia venne dal settore cantieristico, infatti, avvenne la conversione dalla vela al vapore. L’industria tessile confermava il suo primato dell’industria cotoniera, la produzione della seta risultava stabile mentre la lana e il lino andava perdendo mercato. Nell’industria chimica i vari processi di base interessarono in primo luogo la produzione commerciale di materie coloranti sintetiche. Si svilupparono le industrie del prodotti medicinali, da materiale fotografico, di fibre artificiali, delle prime materie plastiche e di nuove forme di esplosivi. Ma il settore che segnava la maggiore e più rapida crescita a partire dal 1870 era quello elettrico. Inizialmente interessata all’esercizio delle comunicazioni via cavo e del telegrafo, l’industria passò successivamente alla produzione dell’energia per uso domestico ed industriale ed ebbe fra i maggiori suoi protagonisti Siemens e Rathenau. Il motore elettrico andò sostituendo le macchine a vapore che risultavano più costose. L’EVOLUZIONE STRUTTURALE DELL’INDUSTRIA: CARTELLI E KONZERN Ai primi del ‘900 la Germania non più sotto l’inflessibile guida di Bismarck, ma dominata dalle mire più ambiziose di Guglielmo II (1888 - 1918) poteva ritenersi una grande potenza europea. Con il progresso industriale si andò affermando un processo di concentrazione tecnica e finanziaria con lo scopo di conquistare nuovi mercati attraverso una migliore razionalizzazione dei processi (produrre di più a costi minori). Lo stimolo al processo di concentrazione fu dato dalla prolungata diminuzione dei prezzi tra il 1873 ed il 1896, che costrinse i produttori a seguire la via della costituzione dei Cartelli e dei sindacati industriali, Konzern. Cartelli : rappresentavano un’unione contrattuale di imprese, che conservarono la loro indipendenza giuridica ed economica, ma si accordavano tra di loro per regolare il mercato sia nell’acquisto delle materie prime, sia nella vendita di prodotti finiti. Non intendevano abolire la concorrenza ma regolarla dividendosi in modo equo i vari mercati. Konzern: erano costituiti da grandi imprese, che miravano ad estendere la propria attività ai vari stadi della produzione e potevano assumere la forma di concentrazione verticale o orizzontale. Contrariamente ai cartelli essi non miravano a regolare i prezzi di mercato, quanto a realizzare economie nella produzione.

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Nel primo decennio del ‘900, mentre l’accresciuta importanza dei cartelli, li portava a controllare gran parte dei settori industriali (carta, miniere, acciaio, cemento, vetro), lo sviluppo progressivo dei Konzern spinse alla concentrazione della grande industria, che si avviò ad organizzarsi in grandi stabilimenti, ove trasferì un numero crescente di operai. ALLA CONQUISTA DEI MERCATI ESTERI: IMPERIALISMO E DUMPING Il consistente sviluppo economico, soprattutto industriale, spinse la Germania ad avviare una politica imperialistica. Nel 1890 Bismarck era costretto a dimettersi, anche a seguito dei contrasti insorti con Guglielmo II soprattutto perché quest’ultimo mirava all’espansione del paese; di qui il rafforzamento dell’esercito e la costruzione di una potente marina da guerra. La politica commerciale protezionistica fu convertita in una più aperta: con l’applicazione generalizzata della clausola della nazione più favorita si consentì alle nazioni che stipulavano un trattato con la Germania di usufruire automaticamente delle concessioni più favorevoli già accordate alle altre; le grandi concentrazioni industriali attuarono un sistema di prezzi multipli, nel senso che nel mercato interno, grazie ai dazi protettivi, potevano mantenere i prezzi a livelli piuttosto elevati, pur in presenza di costi di produzione decrescenti, mentre nei mercati internazionali li abbassarono notevolmente, compensando la perdita virtuale con i sovrapprofitti accumulati nelle vendite interne. In tal modo le grandi imprese riuscirono a vendere sottocosto per conquistare i mercati (dumping). Nella ricerca di nuove zone di influenza economica la Germania si scontrò con la Gran Bretagna, ma nonostante ciò non riuscì a soddisfare le sue mire espansionistiche. Nel 1914 vi era quindi un evidente squilibrio tra la potenza economica tedesca ed il ruolo che essa svolgeva nell’ambito dei grandi paesi imperialisti, questa situazione condusse all’esasperazione delle tensioni internazionali ed allo scoppio della I guerra mondiale. GUERRA E PACE: ALLA RICERCA DI NUOVI EQUILIBRI (1915 - 1945) L’ECONOMIA NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE E LE CONSEGUENZE DEL CONFLITTO La guerra dichiarata dall’Impero austro-ungarico al piccolo Regno serbo poteva risolversi a loro avviso in una limitata spedizione punitiva ed in via teorica tutto ciò sembrava abbastanza logico. Ben presto, però, si trovarono coinvolti diversi paesi europei: la Russia solidale con la Serbia; la Germania in aiuto all’Austria - Ungheria; Francia e Gran Bretagna insieme a contrastare tale alleanza, il Giappone e successivamente l’Italia e gli Stati Uniti a fianco degli alleati e contro gli Imperi centrali. L’equilibrio raggiunto da Bismarck venne a mancare per mano di Guglielmo II le cui iniziative agevolarono la creazione di due blocchi: Russia, Francia e Gran Bretagna da una parte, Germania, Italia e Austria – Ungheria dall’altra. Con lo scoppio della guerra la vita economica era destinata a cambiare: nel 1914 sotto la guida di Rathenau venne applicato un programma di mobilitazione che prevedeva la facoltà di requisire la produzione interna e gli stocks acquisiti all’estero e uno stretto controllo nell’utilizzo di vari materiali, dando la preferenza agli usi per scopi strategici. Con lo scoppio della guerra i prezzi lievitarono a causa dell’aumento dei consumi da parte dei mobilitati distolti dall’attività produttiva, dalle maggiori difficoltà ed i più alti costi dei trasporti e dal consistente processo inflattivo. Con la conclusione del conflitto nel 1918 si costituì la nuova Repubblica di Weimar che dovette retrocedere l’Alsazia e la Lorena alla Francia, provvedere ad una smilitarizzazione pressoché totale del paese e, inoltre, fu imposto ad essa un’indennità di guerra a titolo di riparazione. IL DRAMMA DELL’IPERINFLAZIONE ED I TENTATIVI DI RIPRESA Già agli inizi del 1920 l’economia mondiale era colpita da una grave crisi che trovava la sua principale ragione in una rapida discesa dei prezzi iniziata nel settore dei cereali e poi allargatasi ad alcuni metalli, ai prodotti dell’industria tessile, ai noli marittimi e quindi a gran parte dei settori produttivi. Disastrosa era la situazione nei paesi dell’Europa orientale nonostante gli aiuti americani attivati nel 1919 attraverso l’American Relief Administration (A.R.A.). Tali aiuti servirono poco in quanto costituiti da generi alimentari anziché da materie prime. Eppure grazie alla ripresa delle industrie manifatturiere la situazione sembrava migliorare. Il progressivo deterioramento fu causato dalla politica dei paesi vincitori, che temendo la concorrenza dei prodotti tedeschi, si opposero per il loro utilizzo in conto riparazione. Di qui scaturì una rapida rincorsa dei prezzi e una spirale inflazionistica senza freno. Successivamente la situazione fu aggravata dall’arresto della produzione nella Ruhr ed il lungo sciopero dei ferrovieri; episodi che provocarono il crollo della moneta e dell’inflazione. Nel 1923 al

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nuovo cancelliere Strasemann non restò che proclamare lo stato d’emergenza e nominare Commissario monetario Schacht il cui intervento fece risollevare l’economia. Con il suo pugno di ferro bloccò la speculazione ed i facili arricchimenti connessi con l’emissione di una moneta stampata liberamente chiamata Notgeld ; ad essa subentrò una nuova moneta il Rentenmark che con la sua stabilità infuse fiducia. Altro provvedimento fu quello del risanamento del bilancio statale e altre misure deflazionistiche quali la restrizione del credito, l’aumento del saggio di sconto e l’inasprimento delle imposte. Gli effetti positivi di questa politica di risanamento non si fecero attendere: i capitali esportati incominciarono a rientrare, mentre in campo internazionale la riconquistata fiducia consentì nel 1924 l’adozione del piano Dawes (destinato ad alleggerire il pesante fardello delle riparazioni) e il ritorno alla convertibilità. I progressi in questi anni furono rapidi e consistenti grazie agli aiuti economici degli Stati Uniti. LA CRISI DEL 1929 ED I SUOI EFFETTI La crisi del 1929, comunemente collegata al crollo a Wall Street della borsa americana, interruppe il lento processo di ripresa e sviluppo dell’economia mondiale. I paesi beneficiati dai prestiti americani non solo vedevano interrompersi tale flusso, ma erano costretti a restituirli. Tra questi la Germania era alle prese con il problema della ricostruzione. Il ritiro dei capitali esteri paralizzò l’economia del paese e costrinse il governo a varare una serie di misure di natura strettamente deflazionistica che incisero negativamente sulla produzione industriale portando ad una notevole disoccupazione. L’AVVENTO DI UN NUOVO REGIME: DIRIGISMO ECONOMICO ED AUTARCHIA La grave crisi economica, agli inizi degli anni ’30, accelerò il processo di trasformazione politica. La Repubblica di Weimar, sotto l’egida del partito socialdemocratico, nonostante fosse ispirata ai principi di libertà e di democrazia aveva lasciato i tedeschi delusi: operai, impiegati, ceto medio ed agricoltori si trovarono uniti a contrastare vivacemente con scioperi ed agitazioni la politica deflazionistica del governo ed a richiedere un processo di rinnovamento, che consentisse di migliorare le proprie condizioni. La presa del potere di Hitler e del suo partito nel 1933 sembra in effetti il “nuovo” tanto atteso. Per rimettere in moto l’inceppata macchina economica affidò la direzione della politica monetaria nelle mani di Schacht, il quale come primo obiettivo si propose di aumentare il livello della produzione attraverso una moderata inflazione creditizia, congegnata in modo che l’aumento della circolazione fosse assorbito dalle imposte e dal risparmio. Per assicurare una certa stabilità interna attivò un rigido controllo sui prezzi e sui salari, collegando poi l’aumento di questi con l’incremento della produttività. Nel coordinamento della produzione poté contare sull’appoggio non indifferente del sistema corporativo, che Hitler aveva introdotto nel 1934 dopo aver soppresso i partiti politici ed i sindacati. A causa del fortissimo debito verso l’estero ed impossibilitato a coprirlo con le esportazioni, si vide costretto a ridurre al minimo le importazioni e sostituendo, attraverso lo sviluppo del settore chimico, le tradizionali materie prime con surrogati. In sostanza l’autarchia in quegli anni ricalcava il modello di economia di guerra ed implicò una situazione di costrizione e di ferrea disciplina in quasi tutti i rapporti economici e sociali (i diritti degli operai vennero ridotti a tal punto da escludere sia ogni azione di resistenza e quindi di sciopero, sia la stessa attività sindacale). Nonostante ciò la produzione aumento e la disoccupazione scomparì. LA CORSA VERSO IL BARATRO: L’ESPANSIONISMO ECONOMICO E LA II GUERRA MONDIALE La teoria concepita da Hitler nel sua Mein Kampf per la quale la Germania, sovrappopolata, dotata di una notevole capacità produttiva, designata non solo dalla sua preparazione tecnica e scientifica, dal suo spirito di disciplina e dal modello organizzativo, ma anche dalla superiorità della razza a guidare i popoli inferiori, aveva diritto di espandersi colonialmente e di conquistare i paesi più vicini per assicurarsi spazio e risorse naturali, necessarie alla sua esistenza ed al suo futuro. La Germania cominciò così a muoversi in tale direzione e non venne ostacolata dai paesi occidentali perché timorosi nello scoppio di un’altra catastrofe. Ma quando nel 1939

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Hitler volle assoggettare la città di Danzica (Polonia) lo scoppio del conflitto fu inevitabile. I tedeschi, tra il 1939 e il 1941 invasero gran parte del territorio europeo ma fallirono nel tentativo di invadere la Gran Bretagna. Fu dall’inattesa resistenza della Gran Bretagna che dovette iniziare il declino delle truppe dell’Asse, declino accelerato dall’insuccesso delle truppe tedesche in Russia e dall’attacco degli Stati Uniti che segnò la svolta definitiva del conflitto. La Germania venne distrutta sia fisicamente che economicamente in quanto l’economia di guerra aveva innescato un processo inflazionistico che insieme alle enormi distruzioni belliche, metterà in ginocchio per diversi anni l’economia tedesca.

GLI STATI UNITI ALLA CONQUISTA DELL’ECONOMIA MONIDALE

UN’ECONOMIA IN CAMMINO (1700 - 1870)

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LE COLONIE INGLESI E LA NASCITA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA La colonizzazione inglese che si era sviluppata ai primi del 1600 lungo la costa atlantica aveva proceduto con grande lentezza. Nel corso del 1700 la popolazione crescerà grazie ad un maggiore flusso emigratorio e ad una più intensa importazione di schiavi neri destinati a popolare le colonie del Sud e a lavorare nelle grandi proprietà, che in esse si trovavano. Nel 1750 la popolazione si era quadruplicata e l’America inglese aveva acquisito una sua struttura e fisionomia: era divisa in dodici colonie, legate tra loro da stretti vincoli, quali la discendenza degli abitanti, la lingua inglese e la religione in prevalenza protestante, nonché dal patrimonio di tradizioni portate dalla madrepatria. Già in quegli anni si manifestavano delle diversità tra le colonie settentrionali e quelle meridionali dovute alle differenze ambientali e climatiche. Le colonie meridionali godendo di un clima più temperato avevano sviluppato il settore agricolo, organizzandolo in forma di grandi piantagioni destinate quasi esclusivamente alla coltivazione (manodopera nera – costo zero) di un solo prodotto (tabacco, riso, indaco, cotone, zucchero), che poi veniva in gran parte esportato. Nelle colonie centrali la proprietà si presentava di estensione ridotta e le coltivazioni principali (cereali, mais, orzo, avena, segala, frumento) servivano al consumo locale e solo in parte all’esportazione. Nelle colonie settentrionali, ove i terreni si prestavano a colture europee, prevaleva una società di piccoli proprietari agricoli e mercanti. Esse importavano dalla madrepatria grandi quantità di derrate alimentari e manufatti ed in contropartita riuscivano ad esportare legname grezzo e/o lavorato e soprattutto navi. Le colonie del Sud si trovavano invece in una situazione più favorevole nei loro scambi con la madrepatria e con le altre colonie alle quali inviavano riso, tabacco ed indaco. Da un punto di vista politico, le colonie godevano di una grande autonomia, mentre in campo economico la situazione era basata sulle teorie e pratiche mercantilistiche, le quali prevedevano che dalle colonie si dovesse trarre il massimo utile. Tra il 1750 e il 1767 i coloni si ribellarono alla legge sullo zucchero (Sugar Act) a quella sul bollo (Stamp Act) e al fatto che nel parlamento inglese non ci fosse una loro rappresentanza nonostante l’intensa attività economica che si stava sviluppando lungo le coste atlantiche. Di qui una serie di proteste e tumulti che portarono alla dichiarazione d’indipendenza (Jefferson 1776) che sanciva la nascita degli Stati Uniti dalle 13 colonie. I principi della dichiarazione erano simili a quelli della rivoluzione francese: gli uomini erano tutti uguali, dotati dal creatore di diritti umani inalienabili, quali la vita, la libertà, la ricerca della felicità; i governi erano creati dagli uomini allo scopo di garantire questi diritti e derivavano i loro poteri dal consenso dei governanti. All’indipendenza conquistata solo sulla carta seguì la guerra che la rese operativa e riconosciuta in ambito internazionale con il trattato di pace di Parigi nel 1783. Per eliminare ulteriori contrasti all’interno dell’Unione, nel 1787, nacque la Costituzione che prevedeva un Congresso con due Camere: quella dei rappresentati (eletta dal popolo di tutta l’Unione in proporzione agli abitanti degli Stati) e quella del Senato (composta da due senatori per ogni Stato prescindere dal numero degli abitanti). IL PROBLEMA DEMOGRAFICO, IL RUOLO DELL’IMMIGRAZIONE EUROPEA E L’ESPANSIONE TERRITORIALE Alla fine del 1700 la popolazione contava di 4 milioni di abitanti, un numero scarso per lo sviluppo di una regione potenzialmente assai ricca ed estesa. La situazione andò migliorando grazie all’aumento naturale della popolazione ma anche per mezzo dell’immigrazione europea. Dopo vent’anni l’incremento si fece ancora più consistente, tant’è che tra il 1830 e il 1860 la popolazione triplicò, passando a 31 milioni di abitanti alla vigilia dell’elezione di Lincon. Questi risultati furono raggiunti dal fenomeno immigratorio europeo tra il 1820 e il 1850 di cui il 53% degli immigrati provenivano dall’Inghilterra e dall’Irlanda e un’altra buona fetta dalla Germania. Accanto al notevole aumento demografico si ebbe anche una consistente espansione territoriale del paese. Tra il 1816 e il 1819 all’Unione si aggiunsero nuovi Stati e si applicò a livello politico la cosiddetta dottrina Monroe per la quale gli Stati Uniti non avrebbero tollerato l’insediamento di nuove colonie nel loro territorio da parte di nessuna potenza europea e a conferma di questa scelta si impegnavano a non intervenire nelle colonie degli Stati europei e non avrebbero preso parte alle guerre che li riguardassero. COLONIZZAZIONE E PROGRESSO AGRICOLO

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Un ruolo importante nella colonizzazione dei nuovi territori dell’Ovest e nel processo di sviluppo agricolo negli anni ’30 – ’40 fu svolto dalla massa degli immigrati europei, attratti dalla possibilità concessa dal Congresso americano di diventare proprietari nelle terre colonizzate: già dal 1785 la terra veniva venduta a prezzi molto modesti, che scomparirono con la legge Homestead Law. Suddetta legge concesse la possibilità di insediamento, contro una lieve tassa, a chiunque maggiorenne fosse cittadino degli USA o manifestasse l’intenzione di diventarlo, purché si obbligasse a coltivare il terreno per cinque anni, trascorsi i quali ne sarebbe diventato legittimo proprietario. L’agricoltura si espanse in tutti gli USA e particolarmente negli stai del Sud dove cotone e tabacco raggiunsero produzioni mondiali. La coltura del cotone si basava sull’utilizzo degli schiavi e l’aumento della produzione ne fece incrementare la richiesta tanto da costituire un grosso problema. La schiavitù abolita negli Stai del Nord, prosperava in quelli del Sud dove trovava giustificazioni in ragioni economiche, cioè nella diffusa convinzione dei ceti proprietari che a certe coltivazioni, quali quelle del cotone, dello zucchero e del tabacco, fossero adatti solo i neri, sicché questi venivano ritenuti dai loro padroni un indispensabile e prezioso bene. Gli Stati del Nord entrarono in contrasto con quelli del Sud per motivi di natura morale (ripugnanza del Nord puritano ad accettare il sistema schiavistico che ormai considerava non solo superato, ma non degno di una nazione che marciava sui binari della modernizzazione), economica (contrasto tra il Nord industriale e commerciale e il Sud agricolo), costituzionale (per la temuta interferenza dell’Unione nei diritti degli Stati) e politica (per l’equilibrio da mantenere fra gli Stati schiavisti e gli Stati liberi). Nord e Sud erano diventati due mondi assai diversi non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale e politico. LE PRIME FASI DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE Agli inizi del 1800 erano poche le attività che riuscivano a sfruttare le risorse disponibili in loco, tra queste le costruzioni navali, l’industria del legname e l’industria della molitura. Nel 1807 a causa dell’embargo del commercio con l’estero adottato da Jefferson per il timore di essere coinvolto nella guerra europea, il processo di industrializzazione subì una svolta: l’alto prezzo dei prodotti rimise in gioco la produzione locale, che sino a quel periodo non era stata molto competitiva, mentre le notevoli disponibilità di capitali, liberate dagli impieghi marittimi, si andarono spostando nell’industria tessile. Ma è dopo il 1820 che si può parlare di un processo di industrializzazione moderno che contò sull’introduzione delle macchine e sul ruolo dell’imprenditore che riesce ad utilizzare le invenzioni, promuoverle e trasformarle in innovazioni tecnologiche. Nel 1860 gli USA diventarono il secondo paese industrializzato del mondo, con in testa alla produzione l’industria tessile e a seguire gli altri settori ad essa collegati (abbigliamento e meccanica). L’industria del cotone, infatti, riunendo all’interno dei suoi stabilimenti le officine meccaniche, in quanto le modeste dimensioni del mercato non consentivano una specializzazione di tale funzione, avviò la nascita di un’industria meccanica autonoma man mano che i suoi stabilimenti si ingrandirono. Tale attività fu favorita poi dallo sviluppo dell’industria siderurgica grazie alla scoperta delle miniere di ferro e carbone. Alla crescita del mercato interno contribuirono: la politica commerciale che inizialmente fu di stampo protezionistico ma che poi nel 1846 fu sostituita dall’introduzione di una tariffa doganale; la disponibilità di risorse finanziarie provenienti dai trasporti marittimi e dal commercio di esportazione e riesportazione durante le guerre europee; un efficiente mercato del lavoro garantito dalla manodopera degli immigrati europei. IL TERZIARIO: VIE DI COMUNICAZIONE, MEZZI DI TRASPOR TO E ATTIVITA’ FINANZIARIE Alla fine del 1700 non esisteva una rete viaria ma delle semplici piste. Tra il 1790 ed il 1800 alcuni privati per assecondare lo spostamento della frontiera ad Ovest costituirono alcune società con lo scopo di costruire strade sottoposte a pagamento e l’iniziativa fu particolarmente redditizia. Forse a causa della stasi dei pedaggi i privati abbandonarono l’impresa e toccò al governo federale che portò avanti diversi progetti anche nella rete fluviale a vapore. La rivoluzione nautica degli anni ’30 (prevedeva la sostituzione del ferro al legno e quindi del vapore alla vela) fece retrocedere il settore imprimendo allo stesso tempo un impulso al settore ferroviario. Per attrezzare il paese di una rete di trasporti e di vie di comunicazione moderne ed efficienti si costituì una banca centrale (Bank of United States) della quale lo Stato doveva possedere un quinto delle azioni; fu la banca centrale a mettere in circolazione una nuova moneta, il dollaro e a fissare il rapporto argento - oro di 1 a 15 ed introdurre quindi il sistema bimetallico, che ben presto avrebbe evidenziato non pochi inconvenienti per l’impossibilità di mantenere inalterato il rapporto tra i due metalli in presenza di sensibili variazioni nel loro valore.

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LA GUERRA DI SECESSIONE (1861 - 65): L’INIZIO DELLA SVOLTA Alle soglie degli anni ’60 il Sud era in gran parte agricolo e il Nord si era urbanizzato e New York si avviava a diventare una grande metropoli. Le stesse costruzioni ferroviarie si estendevano soprattutto al Nord, mentre erano ancora scarse quelle che attraversavano il territorio meridionale. In campo commerciale il Nord andava per i dazi protettivi, mentre il Sud che aveva bisogno di importare prodotti industriali a buon mercato, li avversava. Nel settore del credito il Nord reclamava una efficiente organizzazione bancaria nazionale, alla quale si opponeva il Sud, ove i capitali erano ancora scarsi e non vedeva di buon occhio l’introduzione di un sistema accentrato. Infine il Nord si dimostrava più democratico del Sud dove il potere era concentrato nelle mani di una oligarchia schiavista. I contrasti sfociarono in un conflitto, quello della schiavitù che rappresentava la forma di una società patriarcale ormai superata. Nel 1861 si aprirono le ostilità tra gli Stati e apparve evidente la grande inferiorità del Sud, in termini di potenziale umano e economico. Conclusasi nel 1865 la guerra di secessione rappresentò una svolta significativa nella società e nell’economia americana, sia del Sud che del Nord: un’accelerazione nell’impiego delle risorse naturali, uno sviluppo della grande industria, grossi investimenti di capitali da parte delle banche, un’espansione del commercio estero. Alla fine della guerra fu il Sud ad essere colpito nel cuore della sua economia: l’agricoltura e di conseguenza i grandi proprietari di piantagioni che avevano perso improvvisamente il capitale rappresentato dagli schiavi. L’unico modo per sopravvivere e pagare i debiti e le tasse sembrò quello di spezzettare i loro possessi o porli all’asta avviando così la più grande rivoluzione della proprietà terriera della storia americana. Per ovviare alla scomparsa della schiavitù si raggiunse un compromesso, nel senso che finita la guerra i proprietari chiamarono i loro ex – schiavi per avvertirli che erano liberi e chiesero loro di restare al vecchio lavoro e, non potendo più corrispondere il salario, si misero d’accordo per dividere il raccolto. Questo tipo di sistema risulto deleterio in quanto il coltivatore perse qualsiasi interesse al raccolto non interessandosi quindi a migliorare i metodi colturali. Nel Sud la situazione dei neri andò evolvendosi fino a formare un vigoroso ceto medio rappresentato anche da uomini d’affari che riuscirono a risollevare l’economia del Sud. Quanto all’economia degli Stati del Nord, fu l’agricoltura senza dubbio a ricavare i primi benefici dalla ripresa post-bellica. Il suo sviluppo durante la guerra fu dovuto alla forte domanda dagli eserciti in guerra e successivamente dalla progressiva urbanizzazione. Durante la guerra anche l’industria aveva subito un ottimo slancio che non subì nessun rallentamento alla fine del conflitto, ma segnò anzi una tale intensificazione da consentire livelli di produttività mai raggiunti nella storia americana. UN RUOLO PRIMARIO NELL’ECONOMIA MONDIALE (1871 - 1918) POPOLAZIONE E DINAMICA DELLO SVILUPPO AGRICOLO TRA LA CRISI DEGLI ANNI ’90 E LA RIPRESA AI PRIMI DEL NOVECENTO Il rapido sviluppo dell’economia americana dopo il 1860 non si potrebbe spiegare senza il tener conto, oltre dell’espansione territoriale, del notevole aumento della popolazione che si verificò tra il 1870 e il 1914. Questa diede un enorme impulso all’agricoltura aiutata anche dall’espansione agricola nelle regioni dell’Ovest e dall’uso della meccanizzazione e dei più moderni sistemi di coltivazione grazie al progresso scientifico. Al fine di rendere più produttiva la terra vennero fondati istituti agrari indipendenti e si avviarono ricerche scientifiche. Tutto questo non riuscì ad evitare il rallentamento dell’agricoltura, dovuto a fattori economici che non interessavano le singole regioni ma l’intero paese. Nella posizione dell’agricoltore americano v’era una sorta di contraddizione: da una parte egli vendeva in regime di piena concorrenza con gli altri paesi sul mercato mondiale i propri prodotti, e dall’altra era costretto ad effettuare gli acquisti, che gli consentivano di svolgere la propria attività, in un mercato rigidamente protetto. L’unico rimedio sarebbe stato il tempestivo intervento delle autorità governative, ma proprio in questi anni i legislatori sembravano occuparsi molto più degli interessi industriali. Ai primi del 1900 la situazione si sbloccò grazie alla forte richiesta di prodotti agricoli proveniente dai centri urbani; la domanda fu così intensa che gli USA, tradizionali esportatori di cereali, furono costretti a diminuire le esportazioni.

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PROCESSO INDUSTRIALE, GRANDE IMPRESA E CONCENTRAZIONE ECONOMICA Nel periodo compreso fra la guerra di indipendenza e la vigilia del I conflitto mondiale gli USA si trasformarono da un paese con modesta popolazione in una nazione con il più alto reddito pro-capite del mondo e con una produzione agricola che non temeva confronto a livello mondiale. Diminuì il peso delle industrie addette alla produzione di beni di consumo e aumentò quello delle industrie che producevano beni capitali (ferro, acciaio, trasporti) che si andarono stanziando nelle regioni dei Grandi laghi, che diventarono il cuore industriale degli USA. Decisivo in questi anni fu il ruolo del carbone e del ferro ma in particolare quello del petrolio e dell’elettricità. Venne introdotto il sistema delle “parti intercambiabili” che fece risparmiare in manodopera, tecnica che si inseriva nel sistema della produzione standardizzata e recepiva in pieno i principi del “fordismo” e del “taylorismo”. Il passaggio definitivo alla produzione di massa si ebbe con la nascita della “catena di montaggio”. I successi ottenuti con l’applicazione della catena di montaggio portarono alla concentrazione delle ditte concorrenti sotto un’unica organizzazione, riducendo così i costi di produzione e controllando i prezzi; nacquero così i cartelli (pool) che alla fine approdarono al trust, un insieme di società anonime, al quale gli azionisti conferivano le proprie azioni e delegavano la gestione dei propri affari. I vantaggi del sistema, che poteva non avere limiti, come in effetti non li ebbe, erano abbastanza evidenti: l’accentramento del controllo e dell’amministrazione; l’eliminazione delle unità meno efficienti e la comune utilizzazione dei brevetti; la possibilità di espandersi con i maggiori capitali disponibili e quindi non solo competere con la concorrenza estera e di ostacolare duramente le rivendicazioni operaie, ma anche di ottenere favorevoli condizioni dalle ferrovie e di interferire con grande efficacia sulla politica nazionale dei singoli Stati. Il trust si diffuse eliminando la concorrenza selvaggia, ottenendo una maggiore efficienza aziendale e ottenendo una produzione di massa a prezzi decisamente competitivi. Ma i costi in termini sociali non furono certamente lievi e per ovviare a ciò, tra il 1880 e il 1890, molti Stati promulgarono severe leggi antitrust (Sherman Antitrust Act) alcune delle quali previdero una liquidazione di quelle concentrazioni che si erano ingrossate in modo eccessivo. Ma sciolto in uno Stato il trust si formava in un altro, così ai primi del 1900 la politica economica governativa si orientò verso un maggiore interventismo, trovando nel nuovo presidente Roosevelt il suo più convinto sostentatore, ma le leggi antitrust non riuscirono ad avere una effettiva applicazione. LA POLITICA COMMERCIALE E I PROBLEMI CREDITIZI Solo alla fine del 1800 gli USA entrarono in gran stile sulla scena mondiale e non solo per legittimare, quando e soprattutto per sostenere le loro attività economiche. Tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900 gli Usa esportavano solo materie prime; l’impressione che si ricavava, infatti, era quella di un paese sostanzialmente protezionista che, pur riuscendo ad esportare grazie ai costi competitivi dei suoi prodotti che assorbivano con facilità i dazi di entrata, chiudeva poi le sue frontiere alla spinta dei ceti industriali. Solo a partire dal 1912 la politica commerciale si avviò a diventare meno protezionistica, attivando un crescente processo di apertura alle merci estere, che avrebbe poi trovato il suo culmine nella Underwood Tariff che ridusse i dazi sulle cotonate ed oggetti in acciaio e soppresse addirittura quelli sui prodotti alimentari. Se in campo commerciale ci si avviava alla liberalizzazione degli scambi, nel settore di credito, a partire dal 1913, ci si orientò ad introdurre criteri centralizzatori con lo scopo di eliminare i non pochi abusi sino ad allora perpetrati in nome della libertà: con il Federal Reserve Act si divise il territorio degli USA in dodici distretti, in ognuno dei quali fu prevista una Federal Reserve Bank che divenne per legge la banca delle banche e venne autorizzata ad effettuare il risconto, a concedere prestiti al sistema creditizio locale, ad emettere biglietti ed a fungere da tesoreria per il fisco. La riforma rappresentava una meritata vittoria del presidente Wilson che aveva inaugurato una nuova politica orientata a conferire il controllo del credito al Governo togliendolo ai privati ed a far si che le banche riprendessero la loro originaria funzione di strumenti delle imprese e delle iniziative industriali. LA FASE DELLE RIFORME ED IL CONSOLIDAMENTO DELL’ECON OMIA NEGLI ANNI DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE

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Seguendo la tradizionale politica di isolamento gli USA allo scoppio della prima guerra mondiale si dichiararono neutrali. Nel 1913, con l’elezione di Wilson, si avviò una riforma che prevedeva la nuova tariffa doganale che apportava riduzioni nei dazi; l’introduzione di un’imposta federale e la riforma del sistema creditizio. Nel 1914 venne ingaggiata una dura lotta contro lo strapotere dei monopoli (Clayton Antitrust Act destinato a colpire le pratiche monopolistiche ritenute illecite), vennero emanate due leggi al fine di rendere meno gravoso il ricorso degli agricoltori al credito bancario. Nel 1917 si impegnava a contribuire alla ricostruzione post-bellica, ma per paura della Germania, quale possibile rivale, si decise ad intervenire al conflitto mobilitando con rapidità un’efficiente macchina bellica. GLI STATI UNITI TRA SVILUPPO, DEPRESSIONE E RIPRESA (1919 - 1945) IL BOOM E LA CRISI NEL PERIODO POST-BELLICO Con la fine della guerra gli USA si trovarono in una posizione economica molto florida. Nel commercio internazionale erano riusciti ad ottenere un ruolo di intermediari che dividevano soltanto con la Gran Bretagna. Nel mercato dei capitali New York era pronta a sostituire Londra con il dollaro destinata a diventare l’unica valuta di peso internazionale. Un ruolo significativo nel boom post-bellico fu svolto dalla forte lievitazione dei prezzi a causa del forte desiderio di ricostruire le scorte. La fase di crescita non poteva durare a lungo. La rapida discesa dei prezzi iniziò nel 1920 con i cereali per poi diventare di entità generale nel 1921, ciò a causa dell’inversione nel rapporto tra la domanda e l’offerta. Di qui una grave sovrapproduzione che finì per danneggiare soprattutto i paesi di maggiore sviluppo industriale. LA PROSPERITA’ DEGLI ANNI ’20: LUCI ED OMBRE Gli USA nel dopoguerra vivevano una importante svolta non solo in campo politico, ove si andava affermando il tradizionale isolazionismo, ma anche in quello economico con la riscoperta dei principi classici del laissez faire. Sconfitto il democratico Wilson ritornava al potere il partito repubblicano (Harding, Coolidge, Hoover) che rinunciava alla politica di apertura nazionale, inaugurando una fase di progressivo isolamento dal mondo esterno. Più che sul piano politico, la spinta al nazionalismo, avviata dai repubblicani, ebbe effetti più concreti soprattutto su quello economico. Nel 1920 le autorità federali approvarono una legge di emergenza sulle tariffe doganali, che doveva servire ad innalzare una barriera a favore dei prodotti nazionali colpiti dalla crisi dei prezzi. Questa sorta di ombrello protettivo, confermato con la successiva tariffa Smoot – Hawley (1930) ebbe la conseguenza non solo di chiudere il mercato americano ai prodotti agricoli ed industriali dei paesi europei, ma di provocare anche tariffe di ritorsione da parte degli stessi, che impedirono l’esportazione delle merci americane. La soluzione per consentire ai paesi europei i loro acquisti di materie prime e generi alimentari fu quella di concedergli prestiti, soluzione abbastanza contraddittoria. L’incoerenza della politica estera americana, severa nei rapporti commerciali ma aperta in quelli finanziari non impedì tuttavia di attuare all’interno del paese i principi del laissez faire, e cioè un ritorno alla normalità dopo l’emergenza bellica che riesumava i vecchi tempi della libertà individuale da ogni controllo governativo. Tra il 1923 ed il 1929 il reddito nazionale aumentò, la produzione industriale crebbe, le agevolazioni creditizie diffusero l’uso delle vendite rateali e quindi un consistente smercio degli articoli più costosi (automobili, elettrodomestici); finirono per spadroneggiare non solo i Trust ed i Cartelli, ma con maggior frequenza le Holding, alle quali le grandi società avevano ceduto in parte o in tutto il loro capitale. Nonostante questi progressi che facevano intravedere un futuro prospero, il problema della disoccupazione non era del tutto risolto, condizionato dagli scioperi “tecnologici” dovuti alla diffusione sempre maggiore della macchina al posto dell’uomo. Un altro aspetto negativo era il ristagno del settore agricolo, il quale, nonostante i progressi tecnologici risentiva della concorrenza dei produttori argentini e canadesi; la delicata situazione, che vedeva gli agricoltori soccombere sotto il gravoso peso dei debiti e dei conseguenti espropri, avrebbe dovuto pur suscitare qualche allarme nel mondo politico americano per le sue conseguenze economiche e sociali. L’unico intervento fu una nuova tariffa doganale sui prodotti agricoli che non fece altro che aggravare la situazione in quanto il paese in tale settore era più esportatore che importatore. Gli USA si erano dati con tanto entusiasmo a far denaro ed a spenderlo, forti della sbrigativa battuta del presidente Coolidge: “l’affare dell’America sono gli affari”. Tra la gente comune si era diffuso un profondo senso di soddisfazione e sicurezza che nel 1929 si trasformò in panico e getto il paese nella disperazione.

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L’INVERSIONE DEL CICLO: LA CRISI DI WALL STREET E LA GRANDE DEPRESSIONE Nel 1929 e negli anni successivi gli USA attraversarono la più rovinosa crisi della loro storia che arrecò alla società miseria e disagi senza precedenti. Essa si differenziò dalle precedenti perché le origini non erano dovute alla penuria quanto all’abbondanza. Fattori come una cattiva distribuzione del reddito, accentrato nelle mani di pochi ricchi e che implicava un alto livello di investimenti e di spese in oggetti di lusso; una evoluzione non positiva dei rapporti economici e finanziari con l’estero per via di alcuni provvedimenti restrittivi emanati dal presidente Hoover, per i quali gli USA avevano subito una drastica riduzione delle loro esportazioni, con gravi conseguenze sul mondo agricolo, e si erano visti non onorati i loro crediti, ivi compresi quelli di guerra; non fecero presagire l’imminenza di una grave crisi. Il crollo della Borsa fu infatti un segnale della crisi e non la sua causa e neppure il suo inizio. Gli investitori non consideravano più la solidità dell’azienda, né le sue prospettive di reddito, quanto l’acquisto del titolo per la rivendita. Questa “orgia” speculativa fu causata dalle facilitazioni creditizie concesse dal sistema della Riserva federale, in pratica dalla facilità con cui la gente comune poté accedere ai prestiti. Più importanti dei saggi d’interesse e della disponibilità di credito furono, invece, due fattori spesso sottovalutati: lo stato d’animo della gente e l’alto livello dei risparmi privati. Infatti senza la fiducia in facili possibilità di arricchirsi e senza le disponibilità di denaro il boom speculativo non si sarebbe manifestato. Nell’ottobre del 1929 si ebbe il crollo della Borsa: il corso dei titoli sino al 1932 seguì un trend discendente e l’indice Dawn – Jones si ridusse. Dalla borsa la crisi passò all’intero sistema economico americano: il reddito nazionale si ridusse del 38%, i prezzi di tutte le merci scesero del 50% e la produzione si contrasse drasticamente. Molte fabbriche furono costrette a chiudere e la disoccupazione raggiunse livelli senza precedenti. La crisi colpiva i ceti benestanti e non risparmiava la struttura finanziaria del paese, inoltre veniva meno in campo internazionale il sistema dei prestiti. Nella prima metà del 1930 si registrava un timido segno di ripresa, ma nella seconda metà la situazione peggiorò; la caduta dei prezzi frenava la fiducia degli investitori che preferirono “aspettare e vedere” piuttosto che investire. I TENTATIVI DI RIPRESA NELLA POLITICA DI ROOSEVELT E IL NEW DEAL Nel 1932 si stentava ad ammettere che l’ideologia libero-scambista e la filosofia liberale dello Stato “neutrale” in campo economico si avviarono al tramonto. Quanto mai opportuna fu la nuova presidenza di Roosevelt nel 1933, propiziata dalla sconfitta dei repubblicani e dal ritorno dei democratici al governo. Lo Stato doveva intervenire in modo più diretto nella vita economica e sociale. Roosevelt era convinto, come la maggioranza della popolazione americana, che il responsabile di tutto ciò era il capitalismo con le sue spietate leggi, secondo le quali la vittoria ed il potere, sinonimo di ricchezza, spettassero ai più forti ed astuti. Soccorrere i poveri e i bisognosi con incisivi interventi nel campo della sicurezza sociale; ristabilire il giusto equilibrio tra agricoltura ed industria; controllare le attività bancarie e finanziarie, in particolare il potere dei Trust; restaurare i rapporti economici internazionali, inaugurando una politica di buon vicinato, questi in sintesi i punti principali del programma di riforma di Roosevelt. In tale azione fu confortato dalle teorie economiche dell’inglese Keynes , il quale convinto della fine del laissez faire, vedeva nello Stato l’organo che doveva assumere funzioni regolatrici del ciclo economico, sostenere la domanda al consumo per equilibrare e rilanciare l’offerta di merci, difendere e dilatare l’occupazione per intensificare l’investimento, quale propulsore della produzione. La politica di riforme di Roosevelt, comunemente nota come New Deal , recepì in buona misura tali idee e tracciò una sorta inedita di pianificazione dell’economia, dimostrando che nell’America liberale tutto ciò era possibile. Il programma si sviluppo su questi punti:

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- nel 1933 provvedimento di svalutazione del dollaro con una serie di interventi a favore del settore industriale e dell’agricoltura;

- nel giugno del 1933 si approvò il National Industrial Recovery Act con l’idea di dover agire sui prezzi e sui salari, regolamentando i primi e stabilizzando, se non addirittura aumentando, i secondi;

- sempre nel 1933 con l’Agricultural Adjustement Act gli agricoltori, dietro pagamento di un indennizzo, furono inviati a restringere le superfici coltivate; dopo tre anni fu modificato prevedendo dei premi agli agricoltori che avessero lasciata incolta la terra o destinata alla coltura delle leguminose;

- intervento della politica del deficit spending che consentì di immettere moneta aggiuntiva nella convinzione che con l’aumento dei consumi si sarebbero stimolati gli investimenti e quindi l’economia;

- creazione della Tennessee Valley Authority, impresa avviata con il preciso intento di sfruttare le enormi risorse di uno dei grandi bacini interni del paese;

- con la nuova legge bancaria si impose non solo un rigoroso controllo, ma anche una netta separazione fra banche di deposito e banche d’affari e inoltre il dollaro non poteva più essere rimborsato in oro.

Con il New Deal gli americani scoprirono una vita più tollerabile, un maggiore legame con lo Stato, l’idea di un governo federale forte ed alleato, anziché avversario della grande impresa, una concezione più moderna di democrazia. L’ECONOMIA DI GUERRA E LA NASCITA DI UN NUOVO ORDINE INTERNAZIONALE CON GLI ACCORDI DI BRETTON WOODS La seconda guerra mondiale rappresentò per l’economia degli USA una preziosa occasione per uscire definitivamente dal tunnel di quella depressione, che il New Deal solo in parte era riuscito a superare, e come nel primo conflitto passarono da un atteggiamento di neutralità ad un intervento diretto e ad un impegno che fu particolarmente generoso e consistente. L’industria si trovò a sfruttare nel corso di questi anni il massimo della sua capacità produttiva, battendo tutti i primati di produzione. Lavoro e capitale offrirono un grosso contributo all’economia di guerra ed un leale sostegno all’iniziativa di Roosevelt di bloccare scioperi e serrate sino alla conclusione del conflitto, anche perché i lavoratori avevano ben poco di cui lamentarsi. Un altro indice della grande espansione dell’economia fu rappresentato dalle migliorate condizioni di vita della popolazione: tra il 1940 e il 1945 il reddito nazionale riuscì a raddoppiarsi. Con al conclusione del conflitto le conseguenze ricaddero principalmente sul sistema monetario, ove ormai non c’era più traccia di collaborazione tra i vari paesi. Di qui l’iniziativa di Roosevelt di promuovere nel luglio del 1944 a Bretton Woods una conferenza internazionale, alla quale parteciparono 44 rappresentanti dei vari paesi, al fine di ristabilire un certo ordine nel marasma monetario internazionale ed istituire appositi enti finanziari in grado di garantire il finanziamento della ricostruzione e lo sviluppo dei paesi più poveri. Tra le proposte: quella avanzata dall’americano White ossia di un ritorno al gold exchange standard, cioè ad un sistema ove la convertibilità dai biglietti non avvenisse in oro, ma contro il dollaro; quella avanzata dall’economista Keynes che prevedeva l’utilizzo nei pagamenti internazionali di altri mezzi liquidi di nuova creazione, i bancor. La proposta di Keynes non ebbe successo e si tornò al gold exchange standard ed il dollaro assunse un ruolo internazionale. Venne di conseguenza costruito il Fondo monetario internazionale con sede a Washington al fine di incoraggiare la cooperazione monetaria a livello internazionale, di favorire la stabilità dei cambi e contribuire all’eliminazione delle restrizioni ereditate dal periodo bellico, che ostacolavano la ripresa degli scambi. Nello stesso anno venne creata la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS), istituto di credito mobiliare che, oltre agli aiuti che poteva concedere mediante prestiti per la ricostruzione e lo sviluppo delle economie degli Stati membri toccati dagli eventi bellici, era destinata anche a promuovere investimenti e a finanziare progetti di interesse generale nell’ipotesi in cui fosse mancato l’apporto dell’iniziativa privata. A completare l’opera nel 1947, a Ginevra, veniva istituito l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (GATT) che, adottando la clausola della nazione più favorita, si proponeva appunto un’applicazione più ampia delle compensazioni multilaterali e la progressiva riduzione delle barriere doganali.

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LA RUSSIA: UN RITARDATARIO IMPAZIENTE

Russia e Giappone sono due paesi che presentano numerose analogie, ma anche profonde differenze. In entrambi l’originalità della crescita risente della persistenza di fattori ereditati dalla società feudale, con la differenza che mentre in Russia sono di ostacolo, in Giappone favoriscono lo sviluppo e soprattutto la stabilità interna. Inoltre mentre la Russia pratica una politica di occidentalizzazione, il Giappone innesta la sua modernizzazione su un tipo di civiltà tradizionale ed è geloso del suo isolamento. Ma tutte le differenze sono annullate da un tratto comune: entrambi iniziano il loro cammino verso la fine del 1800 e, nel corso del secolo successivo, raggiungono il gruppo dei paesi industrializzati. Il loro modello di industrializzazione vede lo Stato adoperarsi per fornire le condizioni iniziali necessarie allo sviluppo. La trasformazione di entrambi i paesi nasce dal fatto che occorreva ricorrere all’Occidente per organizzare il paese dal punto di vista economico, amministrativo e militare e per resistere meglio ad ogni tentativo di “colonizzazione” e preservare l’essenziale dei valori nazionali. DALLA RUSSIA ALL’UNIONE SOVIETICA. L’ECONOMIA PRESOVIETICA. L’ISOLAMENTO E LE DIFFICOLTA’ (1750 - 1917) In Russia come in Giappone lo Stato ebbe una parte significativa nell’industrializzazione del paese che realizzò in proprio le principali linee ferroviarie e altre ne promosse mediante incentivi finanziari a costruttori privati e con la mobilitazione del capitale straniero. Le costruzioni ferroviarie agirono da volano: trasporti più facili crearono nuovi e più agevoli sbocchi ai prodotti agricoli, permisero la messa a coltura di nuove e ricche terre e resero possibile lo sfruttamento delle risorse di carbone, di ferro e di petrolio, elementi essenziali ai fini dell’industrializzazione. L’EVOLUZIONE DEMOGRAFICA Alle soglie del 1700 la Russia sembrava destinata ad essere più una potenza asiatica che europea. Ad essa era impedito l’accesso al mare ma anche i rapporti diretti con l’Occidente. Nel 1700 aveva una popolazione estremamente scarsa che solo nel corso del 1800 cominciò a crescere grazie ad un incremento interamente naturale che solo nel tempo si alleggerirà, grazie ad una progressiva emigrazione. A cosa attribuire questa vera e propria esplosione demografica? Le donne mostravano una certa propensione al matrimonio, caratteristica della società russa che risaliva a quando la necessità di colonizzare vaste zone di terra libera giustificava un matrimonio diffuso e precoce. Inoltre la nuova unità che la giovane coppia veniva a formare in seno ad una famiglia, comportava il diritto ad una quota della terra che la comunità del villaggio (il mir) aveva a disposizione e che distribuiva periodicamente. Il periodo tra gli ultimi anni ’90 del 1800 fino a rivoluzione conclusa fu caratterizzato da un calo dei tassi di natalità, in parte attribuito alla tendenza a sposarsi più tardi e alla riduzione del numero dei

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matrimoni, in parte alla riduzione della mortalità infantile, in parte ancora alla riforma agraria e alla diffusione di una cultura più moderna tra la popolazione rurale. IL SETTORE AGRICOLO E L’EMANCIPAZIONE DEI CONTADINI In Russia, come in Giappone, si addossò alla campagna il prelievo fiscale volto ad assicurare il mantenimento della nobiltà e dello Stato. La servitù era la regola e il contadino era piuttosto schiavo che servo. Al contadino era permesso di lavorare un piccolo lotto di terra a discrezione del signore e non godeva di alcun diritto di proprietà. Esso doveva consentire il mantenimento della famiglia contadina ed ai servi membri di lavorare produttivamente e di assolvere altre funzioni. Lo zar Alessandro II si decise a procedere alla liberazione dei servi; consapevole della non trascurabile difficoltà, inizio dai servi della Corona e vinse la resistenza dei nobili con l’edito del 1861. Ma non era questa la riforma agraria che sarebbe servita in quanto non risolveva il problema dal punto di vista economico e sociale, in quanto la legge riesumò il mir e lo rese responsabile del pagamento delle quote di riscatto da parte dei singoli contadini, sicché questi ultimi anziché schiavi dell’antico proprietario si trovano schiavi del mir. La lentezza del processo di emancipazione (quasi due decenni) lasciò ai grandi proprietari terrieri ampi margini di tempo per adattarsi alle condizioni di lavoro salariato, per vendere e affittare parte delle loro terre e per organizzare la produzione nelle loro aziende, facendo largo uso del contratto di colonia parziaria. Nonostante questi limiti il nuovo regime gettò il seme per il progresso agricolo. MOBILITA’ E CAMBIAMENTO SOCIALE Una caratteristica che non va sottovalutata fu l’estrema mobilità della popolazione russa. Questo movimento traeva origine dai cambiamenti che si stavano verificando nella società rurale, primo fra tutti la differenziazione del ceto contadino: alcuni erano attratti dall’agricoltura pionieristica nelle terre nere; ma molti, i più poveri, cercavano lavoro come salariati nelle fabbriche, nei trasporti, nel terziario e nelle stesse aziende agricole che si andavano ammodernando. I lavoratori delle industrie erano i più istruiti rispetto al resto della popolazione; chi aveva imparato a leggere e a scrivere tendeva a disertare l’industria rurale. Pesante contraddizione era quella tra sviluppo economico e regime politico; nel senso che il governo da un lato favoriva lo sviluppo del paese e auspicava il progresso del capitalismo, dall’altro poggiava le sue basi su un’aristocrazia terriera abbarbicata al tradizionale ordine politico dal quale discendevano i privilegi di cui era detentrice. La Russia era ancora un paese in cui la nobiltà terriera e i quadri tradizionali svolgevano un ruolo determinante e la borghesia, a sua volta, giocava su due tavoli: faceva assegnamento sull’autorità dello Stato per limitare i movimenti operai e, al tempo stesso, invocava il liberalismo per strappare al governo un certo numero di concessioni. Fu contro questa borghesia urbana e campagnola che insorsero le classi “inferiori” nella rivoluzione del 1905. La rapida espansione demografica si accompagnò a importanti progressi in agricoltura che facilitarono i successivi sforzi di industrializzare del paese. IL SETTORE MANIFATTURIERO Le prime manifatture furono volute da Pietro il Grande, accordando la preferenza alla metallurgia assieme ai cantieri navali e allo sfruttamento delle miniere, utilizzando dapprima operai – servi legati all’impresa, come in agricoltura i servi erano legati alla terra. Sotto Caterina II alcune circostanze concorsero a stimolare lo sviluppo industriale: la crescita demografica e la congiunta urbanizzazione, l’abolizione di molte dogane interne e il lento arricchimento del paese. La sua politica attirò verso l’industria un certo numero di nobili sicché si registro la nascita di numerose attività produttive di dimensioni più ridotte non più al servizio dello Stato, ma aperte al servizio della società. Un altro elemento che caratterizza questo periodo è la comparsa in Russia dell’industria cotoniera per merito di due tecnici inglesi che nel 1755 fondarono nei pressi di San Pietroburgo una fabbrica di tele di cotone dove facevano lavorare operai salariati. Resta comunque il fatto che alla fine del 1700 il 96% della popolazione viveva nelle campagne. Il cammino verso l’industrializzazione manca di una tappa importante: salvo rare eccezioni gli artigiani non accettavano lavori su ordinazione ma producevano direttamente per la vendita. Le grandi manifatture create dalla Corona e dalla nobiltà ignoravano qualsiasi meccanizzazione, ed erano state create su una base feudale e servile, per cui mancò la nascita della borghesia industriale. Solo dal 1890 si può parlare di rivoluzione industriale. Uno dei caratteri originali dello sviluppo industriale in Russia, prima dell’emancipazione contadina (1861), è che esso ebbe luogo in una società semiservile e che la mano d’opera delle nuove imprese fu fornita sia dai servi, che abbandonarono le loro

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occupazioni rurali, sia da alcuni contadini autorizzati dai loro signori ad abbandonare la terra. Per questo motivo si afferma che lo sviluppo industriale ha rappresentato uno strumento di liberazione dei servi. Lo spartiacque tra la Russia moderna e la Russia tradizionale si pone nel 1861, ma nella realtà la Russia restò per altri cento anni un paese prevalentemente agricolo. Il primo colpo assestato alla fase di “prosperità” si ebbe nel 1880 a causa di un cattivo raccolto che produsse una grande carestia e la caduta della domanda di prodotti industriali. La situazione peggiorò negli anni successivi in corrispondenza della crisi mondiale del 1890-92 che a differenza di altre crisi, in cui parte della mano d’opera rimasta senza lavoro ritornava alla campagna, in questa, per la coincidenza di una grave carestia, un gran numero di contadini abbandonò la terra e si diresse verso le città dove gli stabilimenti industriali, dal canto loro, stavano riducendo il proprio personale e la durata della giornata lavorativa. Un certo numero di piccole imprese uscirono di scena e il peggioramento delle condizioni operaie ebbe come conseguenza delle reazioni violente. L’uscita dalla crisi si accompagnò a grandi scioperi, in seguito ai quali si formarono le prime associazioni operaie che spuntarono notevoli concessioni. Lo sviluppo industriale fu turbato nuovamente nel 1900-03 e le conseguenze furono diverse in quanto la crisi si produsse in un ambiente economico-sociale completamente trasformato e in cui le contraddizioni si erano accentuate. Mentre i rapporti di tipo capitalistico dominavano l’industria, il passaggio a forme moderne di organizzazione era ostacolato da una legislazione desueta e poco adatta alle necessità del nuovo secolo, sicché lo sviluppo economico si manifestava in un ambiente in cui convivevano due forme di produzione: una arcaica che deteneva ancora un peso importante e forme estreme del regime capitalistico. Per Gregory, dopo il 1885, l’economia russa nel suo complesso beneficiò di un rapido aumento di mano d’opera e capitali e quindi di uno sviluppo estensivo più che intensivo. Il ruolo più attivo da parte dello Stato fu svolto nelle ferrovie che crearono posti di lavoro e migliorarono il livello di qualificazione e la competenza tecnica. Grazie alla ferrovia gli anni tra il 1890 e il 1913 conobbero un’accelerazione dell’attività manifatturiera. DALLA RIVOLUZIONE DI OTTOBRE ALLA MORTE DI STALIN (1917 - 1953) IL COMUNISMO DI GUERRA (1917 -1921) Fino alla vigilia della prima guerra mondiale, il processo di industrializzazione fu caratterizzato da un’evoluzione abbastanza lenta. Ma la trasformazione agricola e industriale che si era avviata nella Russia zarista fu bruscamente interrotta dal primo conflitto mondiale. La mobilitazione di 15 milioni di uomini e l’interruzione dei trasporti transoceanici causarono un blocco della produzione in tutti i settori. La situazione politica divenne così seria da rovesciare il vecchio regime. Come risultato della rivoluzione del 1917 un governo provvisorio sostituì il regime imperiale; ma incapace di dominare il crescente malcontento, fu rovesciato dai bolscevichi che in suo luogo stabilirono l’Unione delle Repubbliche dei Sovieti. Le vicende del 1917 portarono le fabbriche sotto il controllo operaio, provocando l’allontanamento dei direttori, la diminuzione della produzione e della produttività. Le reazioni furono diverse, a volte si ebbero accordi conclusi tra i Comitati e la direzione su nuove basi di lavoro; a volte i datori di lavoro risposero con la guerra. Il controllo operaio era il risultato di un movimento politico di base, a carattere sindacale e di tendenza anarchica; movimento spontaneo per l’applicazione del principio della direzione operaia, ma anche reazione ostile alla centralizzazione e ad ogni forma in odore di dittatura. Nel pensiero di Lenin il controllo operaio doveva essere utilizzato come mezzo di distruzione del vecchio ordine amministrativo e, nello stesso tempo, come mezzo per riunire gli operai sotto un unico interesse. Fu l’anarchia. Il nuovo corso comportava la soppressione di ogni tipo di proprietà privata, in particolare della terra e dei fabbricati, ma anche la soppressione del mercato, elemento fondamentale dell’economia capitalista. Si cominciò con l’abolizione della proprietà della terra nelle mani dei grandi proprietari terrieri dando l’avvio a forme collettive di coltivazione. Vennero nazionalizzate le banche, il commercio estero e i principali settori industriali; in meno di un anno la circolazione dei biglietti raddoppiò con la conseguente caduta del loro potere d’acquisto, il che spiega la necessità di far ricorso a pagamenti in natura. A Trotsky il rimedio più idoneo sembrò la militarizzazione dell’organizzazione economica e del lavoro, espediente poco gradito sia all’ambiente agricolo che a quello industriale. Per sopprimere il mercato il governo aveva organizzato la requisizione dei prodotti e la loro distribuzione in base alla formula ”a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Le conseguenze furono catastrofiche e di fronte all’incepparsi dei meccanismi produttivi il governo fu costretto a rivedere i suoi programmi nella direzione di un sistema molto più liberale. LA CRISI DEL 1921 E LA NUOVA POLITICA ECONOMICA (NEP)

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Le maggiori difficoltà emersero negli scambi tra città e campagne, tra industria ed agricoltura; le prime chiedevano alle seconde materie prime e prodotti alimentari, ma non potevano fornire ciò di cui esse avevano bisogno come macchine, concimi o prodotti di consumo: era la crisi. Il crescere della miseria e del malcontento popolare rese necessaria una nuova strategia per aumentare la produzione: l’elaborazione della Nuova Politica Economica. La rivoluzione era stata una concessione alla sinistra; la NEP rappresentò una svolta a destra, giustificata dai Soviet come un respiro necessario. Vennero denazionalizzate le imprese con meno di 10 operai e autorizzata la creazione di aziende con meno di 20 salariati; concessioni furono accordate a imprese straniere e imprese statali furono affidate a capitalisti privati, mentre le grandi imprese rimasero proprietà dello Stato che intensificò il controllo. La Nuova Politica più che una nuova organizzazione aveva portato nell’industria uno spirito nuovo, nel senso di metodi di produzione volti ad una sana gestione industriale. In agricoltura i risultati furono più consistenti e nelle campagne fu ripristinata una sostanziale libertà. La NEP però mostrava un rovescio della medaglia sul piano sociale e politico. La rinascita di attività private aveva dato luogo all’apparizione dei cosiddetti nepmen: piccoli industriali, mercanti arricchiti che facevano da ponte con l’attività statale. In agricoltura i benefici andarono a favore dei contadini agiati, i quali cercarono di prendere in affitto terre supplementari o di acquisire quelle lasciate da coloro che preferivano le città ove impiegarsi come mano d’opera: aveva fatto la sua apparizione sulla scena una nuova classe sociale, quella dei kulaki. L’ideale di Lenin, lo Stato “senza classi”, fu abbandonato con la NEP, sicché si svilupparono delle stratificazioni sociali sia nelle città che nelle campagne. Con al morte di Lenin (1924) si ripropose l’alternativa: lasciare o non stabilizzare la NEP. Secondo il partito che faceva capo a Stalin, bisognava procedere ad una industrializzazione massiccia e alla ripresa delle terre mediante una collettivizzazione sistematica dell’agricoltura. La normativa calata dall’alto fece da sostituto all’imprenditorialità; con la pianificazione verrà a mancare qualsiasi forma di autonomia personale nelle decisioni economiche, elemento essenziale dell’imprenditorialità. IL PERIODO DELLA PIANIFICAZIONE (1928 - 1953) I principi e la preparazione dei piani quinquennali – I motivi di questo cambiamento vanno individuati in considerazioni di difesa nazionale, nell’urgenza di approvvigionare le città e nella necessità di orientare i prelievi fiscali verso l’industrializzazione. Per questo a partire dal 1928 l’economia sovietica è affidata a dei piani che permettono al governo di prendere grandi decisioni in tema di politica economica. Il primo piano quinquennale (1928 - 32) Dal 1929 si effettuò rapidamente la collettivizzazione forzata di un gran numero di aziende agricole e l’espropriazione sistematica e rapida di quasi tutti i contadini, ai quali si sostituirono due tipi di aziende: il sovkhoz, azienda di stato amministrata direttamente dal potere pubblico con una mano d’opera salariata; e il kolkhoz, cooperativa agricola obbligatoria nella quale dovevano rientrare tutti i contadini, organizzati in squadre di lavoro sottoposte a delle norme fisse per ogni tipo di lavoro e aventi a base della loro remunerazione la giornata di lavoro. Ogni resistenza dei kulaki fu annientata con il massacro e la deportazione in Siberia. Le risorse e il lavoro furono concentrate nell’industria di base a discapito della produzione dei beni di consumo. La conclusione del primo piano segnò la scomparsa del mercato cui si accompagnò il divieto di allontanamento degli abitanti dalla campagna. Il secondo piano quinquennale (1933 - 37) L’esperienza aveva messo a nudo i pericoli della troppa fretta nel processo di industrializzazione. Ai grandi progetti di produzione di massa e di nuove costruzioni subentrò una maggiore considerazione per le qualità e per un più efficace funzionamento dei giganteschi stabilimenti creati. I mutamenti furono due:

- la instaurazione di una politica di decentramento: le nuove fabbriche dovevano essere ubicate nelle vicinanze delle materie prime e dovevano essere di più modeste dimensioni;

- la promessa di prestare maggiore attenzione alla produzione di beni di consumo, alla costruzione di nuove abitazioni moderne e di offrire la possibilità di svaghi.

Senonché considerazioni politiche e militari costrinsero a differire questi propositi e il secondo piano, come il primo, fu caratterizzato da un’espansione febbrile di industrie pesanti, soprattutto per costruire una forza aerea e navale adeguata. Il fallimento del primo indusse i sovietici a frenare a fondo il secondo piano; la ragione del

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fallimento, secondo Polanyi, era da attribuire all’insormontabile mancanza di sapere e di capacità tecnica della popolazione. Tuttavia la produzione registro un aumento a scapito della qualità (merci difettose, deterioramento dei macchinari, sperpero dei materiali), di conseguenza i costi rimasero alti e i beni di consumo continuarono ad essere scarsi, di cattiva qualità e a prezzo elevato. Il terzo piano quinquennale (1938 - 42) Alla luce degli insuccessi causati dalla tattica veloce, adottò una politica di rallentamento e liquidò tutti gli incolpati di aver sabotato la produzione in ogni stadio e impedito la realizzazione dei piani. Il quarto piano quinquennale (1946 - 50) Ancora una volta la priorità fu accordata all’industria di base sacrificando la produzione dei beni di consumo. Pilastri della pianificazione saranno le centrali idroelettriche, le grandi acciaierie e i grandi assi di trasporto. Lo sforzo fu enorme anche perché i sovietici avevano rifiutato gli aiuti economici degli USA (Piano Marshall). Il quinto piano quinquennale (1951 - 55) La morte di Stalin (1953) e l’avvento di Kruscev diedero luogo a non poche oscillazioni: dalla proclamata volontà di concedere maggiore spazio alla produzione di beni di consumo si ritornò ad accordare priorità all’industria pesante. I mezzi di finanziamento: derivarono dall’imposizione fiscale, da prestiti facoltativi e dai profitti d’impresa. I risultati: in agricoltura a fronte di una considerevole meccanizzazione (utilizzo dei trattori), concimi, sementi e piccole attrezzature segnarono il passo e per tutto il periodo staliniano il settore agricolo rappresentò il punto debole dell’economia. Lo stesso fu per l’allevamento del bestiame dal momento che i contadini prima di entrare nei kolkhoz avevano abbattuto le proprie bestie e il trattore aveva sostituito il cavallo. Il costo dell’industrializzazione ricadde per intero sui contadini, ai quali si offrivano ben pochi beni di consumo a prezzi elevati in cambio di derrate alimentari al prezzo più basso possibile. In definitiva la realizzazione del considerevole volume di investimenti nel periodo staliniano fu pagata a caro prezzo dalla popolazione sovietica.

IL GIAPPONE: UN CASO SPETTACOLARE

DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO (1868 - 1940) LE PREMESSE Il Giappone, come la Russia, è un paese a industrializzazione tardiva, la cui industrializzazione presenta una fase iniziale di “grande slancio” per la quale è stato definito “un caso spettacolare”. La straordinaria rapidità (50 anni) con cui da un paese con strutture rigidamente feudali evolve verso forme economico-sociali si deve non ad una nuova classe sociale (la borghesia, come in Occidente), ma ad una classe che fa parte dell’impalcatura feudale, con in testa i samurai. Dal 1965 il Giappone è la terza potenza mondiale dopo USA e URSS. Intorno al 1860 le condizioni economiche del Giappone non erano molto diverse da quelle della Gran Bretagna del 1750 (lavoratori specializzati, industria manifatturiera basata sul lavoro a domicilio). Il suo inserimento nel mondo moderno si ha con la rivoluzione Meiji del 1868, che segna la fine della società feudale, come in Europa la Rivoluzione francese. Tutta la storia giapponese è permeata da un elemento: l’obbedienza al capo e quindi la relazione protettore – protetto. LA SOCIETA’ FEUDALE Alla testa era l’Imperatore con ruolo prettamente rappresentativo e religioso; seguiva lo Shogun, un capo assoluto che deteneva tutti i poteri del governo centrale, in una sorta di “feudalesimo centralizzato”. La sua legge prevedeva la “chiusura del paese”, per cui nessuno poteva lasciare l’arcipelago pena la condanna a morte; come pure vietava agli stranieri di visitare o risiedere in Giappone eccezion fatta per olandesi e cinesi che esercitavano un commercio estremamente ridotto a Nagasaki. La carica di shogun era ereditaria e la sua famiglia possedeva un quarto delle terre, mentre il resto apparteneva a un ristretto numero di signori feudali, i

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Daimyo, titolari dei 200 feudi (ban) in cui il paese era diviso. Oltre ad amministrare le terre dello shogun essi erano responsabili del potere locale; e, in cambio, godevano il privilegio di riscuotere un tributo annuo, pari al 50% del raccolto in riso, capace di assicurare il loro mantenimento e quello del seguito. Gerarchicamente dipendenti da questi erano i Samurai (guerrieri): antichi contadini, che avevano giurato fedeltà in guerra come in pace e vivevano delle consegne di riso cui i contadini erano tenuti nei confronti dei daimyo. Alla larga base della piramide si collocavano i contadini, i pescatori e gli artigiani. Ai contadini era vietato abbandonare la terra, pur non essendo servi, essi infatti proprietari del piccolo lotto che coltivavano, erano stretti in una sorta di comunità di villaggio su cui ricadeva la responsabilità della coltivazione della terra secondo il tradizionale sistema dei tre campi. I mercanti (chonin) gestivano il meccanismo degli scambi campagna – città, ottenendo denaro in cambio di riso dai daimyo. La popolazione era rimasta stazionaria per oltre 150 anni e per l’80% era rappresentata da contadini. Tuttavia all’arretratezza economica non corrisponde una società di tipo tradizionale, ma una società progredita caratterizzata da una vigorosa cultura urbana nelle grandi città come Edo, Kyoto e Osaka. LA RIVOLUZIONE MEIJI Tutto cominciò nel 1850 con una riforma religiosa: il ritorno allo shintoismo che era stato offuscato dal buddismo sotto l’influenza cinese. Di qui la credenza cieca nella natura divina dell’imperatore con il conseguente indebolimento del sistema feudale che poggiava sullo shogun. Su un altro fronte l’aumento della popolazione, la conseguente urbanizzazione e la concentrazione del riso verso le città. Dalla situazione venutasi a creare la classe emergente fu, dunque, quella dei mercanti che riuscì a realizzare lauti guadagni e, per coincidenza di interessi, si avvicinò ai samurai. Nel 1868 le truppe avversarie allo shogun si impadronirono del palazzo di Kyoto e con decreto ministeriale misero fine allo shogunato, a conferma di ciò anche la capitale si spostò a Tokio. Il nuovo governo (Meiji) era interessato più alla grandezza nazionale che al progresso sociale. Alla debolezza interna si accompagnò l’intervento esterno degli Stati Uniti che desiderosi di conquistare il mercato giapponese, imposero allo shogun l’apertura dei porti al commercio internazionale e la stipula di numerosi trattati di commercio. Sicché la sofferta apertura del governo agli occidentali portò la restaurazione del potere imperiale; lo shogun non poté fare altro che rimettere il potere nelle mani dell’imperatore. La rivoluzione Meiji mise a nudo le debolezze del sistema economico nipponico. Da un lato si prese coscienza dei profitti che si potevano trarre commercialmente con l’Occidente; dall’altro, per evitare una possibile colonizzazione occorreva armare un esercito e una flotta: bisognava creare delle industrie e esportare, onde importare ciò che era necessario all’espansione economica e trasformare l’agricoltura abolendo la feudalità. L’ABOLIZIONE DELLA FEUDALITA’ L’abolizione della feudalità fu il primo atto del nuovo governo Meiji:

- fu proclamata la libertà del lavoro e l’abolizione dei diritti feudali; caduta la distinzione tra classi tutti furono uguali di fronte alla legge;

- le terre dei signori feudali furono restituite ai contadini e le altre furono accatastate; sicché il contadino anziché versare la metà del raccolto al signore, fu obbligato a pagare allo Stato il 3% del valore della terra, in denaro, a titolo d’imposta fondiaria;

- la perdita dei privilegi da parte dei daimyo e dei samurai, ossia la soppressione dei diritti feudali, comportò il pagamento di una indennità; una sorta di pensione che fu commisurata ad un reddito pari alla metà del valore dei diritti perduti.

I risultati furono rivoluzionari: i destinatari degli indennizzi depositarono i titoli in banca e ottennero in cambio le azioni, le quali, quotate in borsa, ben presto accrebbero il potere economico dei loro possessori che si trasformarono da padroni della terra a padroni del denaro. L’aumento sostenuto della popolazione offrì all’industria nascente abbondante mano d’opera a buon mercato. Una serie di industrie nuove venne alla ribalta negli ultimi venti anni del 1800; create dallo Stato, passarono nelle mani dei privati. L’agricoltura ebbe livelli di produttività tali da realizzare i surplus necessari per dare l’avvio al processo di industrializzazione. IL MODELLO INDUSTRIALE Il decollo dell’economia fu pilotato dallo sviluppo delle ferrovie, delle costruzioni navali, dell’industria tessile (cotone e seta), del carbone e delle fonderie. Una caratteristica assai peculiare è la sopravvivenza di piccole imprese accanto alle grandi concentrazioni (zaibatsu), divise da un profondo divario in termini di produttività. Infatti, mentre le grandi imprese potettero dotarsi di maggiori attrezzature e di tecnologie avanzate, grazie alle

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maggiori possibilità di accesso ai finanziamenti; le altre dovettero accontentarsi di macchine di seconda mano, scartate dalle prime o di macchinari a buon mercato, utilizzando in modo massiccio la forza – lavoro, con enormi differenze di salari tra impresa e impresa. I maggiori salari nelle grandi imprese trovarono giustificazione nella maggiore specializzazione e nel migliore addestramento della mano d’opera e nel fatto che esse agivano in regime di monopolio. L’elasticità dell’offerta di lavoro fece mantenere l’aumento globale dei salari ad un livello più basso di quello della produttività. Le novità più importanti furono la creazione delle zaibatsu e la garanzia dell’occupazione che tolse alla manodopera ogni incentivo a combattere le innovazioni. Fu intrapresa una riforma monetaria e creditizia; e, oltre a disciplinare l’attività di emissione, fu creata nel 1882 una banca centrale (Banca del Giappone) e si emanarono norme destinate a regolare il funzionamento di un sistema bancario privato. Il principale datore di lavoro delle persone istruite fu lo Stato che, con i suoi salari di gran lunga superiori, vanificava le attrattive del settore privato. Le chiavi del successo:

- lo Stato intervenne direttamente sotto varie forme: la creazione di imprese industriali, la richiesta di prestiti esteri, un’accorta politica fiscale, una sapiente utilizzazione dell’inflazione monetaria;

- successivamente provvide all’acquisto di materiale straniero, introdusse nel paese nuove tecniche e tecnici occidentali, fece propria l’innovazione senza sottomettere il paese alla penetrazione diretta dei capitalisti stranieri;

- infine si fece in modo che il popolo giapponese non conoscesse il livello dei consumi dei paesi industrializzati e chiedesse troppo in fretta un elevamento del proprio tenore di vita.

Il modello di formazione del capitale è stato così descritto dagli economisti Ohkawa e Rosovsky: - Il livello dell’investimento pubblico fu in generale superiore a quello dell’investimento produttivo privato. - L’investimento nelle costruzioni ebbe un peso maggiore di quello dei beni durevoli di produzione. - Nella loro maggioranza gli investimenti furono connessi all’uso di tecniche tradizionali, senza pertanto incorporare progressi legati all’importazione di tecnologie. Sarà solo tra il 1911 e il 1917 che la formazione interna del capitale segnerà un brusco cambiamento nella sua composizione: la quota maggiore di risorse fu assorbita dagli investimenti privati in beni durevoli di produzione. Gli anni ’80 del 1800 rivelarono una notevole stabilità del modello dinamico. Successivamente il saggio di crescita conobbe una serie di movimenti ciclici. La prima onda corrisponde ai saggi di crescita sostenuti fino al 1895; un secondo ciclo ha inizio durante la guerra russo-giapponese, comprende la grande espansione corrispondente agli anni del primo conflitto mondiale e si chiude con il terzo decennio del secolo con saggi di crescita alquanto modesti. Per quanto riguarda i tipi di investimento bisogna dire che quello privato crebbe più in fretta di quello pubblico nei periodi di più rapida espansione. Il successo del Giappone risiede nella capacità di ammodernarsi senza perdere il senso della propria identità nazionale. GLI ANNI TRA LE DUE GUERRE (1914 - 1940) Gli anni compresi tra la fine della guerra russo-giapponese e la conclusione del primo conflitto mondiale rappresentano per il Giappone un periodo di rapido sviluppo. Al primo conflitto mondiale partecipò marginalmente alle operazioni militari e non ebbe danni materiali, anzi, fu stimolato a produrre succedanei dei beni d’importazione e strappo una fetta del mercato dei tessili ed altri prodotti a basso prezzo alla Cina e all’India a danno delle esportazioni di Gran Bretagna, Germania e USA. L’industria tessile, metallurgica e del carbone ebbero un notevole slancio. Il Giappone non sfuggì alla recessione mondiale del 1920-21 e alla crisi del 1929 che mise in ginocchio la sua economia; la morsa stretta intorno alla sua economia spinse alla conquista di nuovi mercati esteri. Le spese militari crebbero creando malcontento di cui se ne approfitto l’esercito prendendo in mano il potere politico. Il governo militare abbandonò il sistema aureo e propose una politica di reflazione (moderata nuova inflazione successiva ad una fase di deflazione resa necessaria o per aver spinto quest’ultima troppo in là oppure da una ripresa dell’attività economica che richiede una maggiore quantità di circolante) ottenendo una ripresa economica che porterà il paese ad una situazione di totale efficienza alla vigilia della seconda guerra mondiale.

LA CINA. LO SVILUPPO DELLE ECONOMIE DI PIANO

DALLA CINA TRADIZIONALE ALLA CINA MODERNA (1850 -1966)

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MODERNIZZAZIONE PARZIALE E ROTTURA DEGLI EQUILIBRI TRADIZIONALI Dopo l’Urss e il Canada, la Cina è il terzo paese al mondo per ampiezza territoriale: da nord a sud copre un territorio pari a quello che va da Copenhagen al Senegal. L’eterno problema dell’agricoltura cinese è sempre stato quello di controllare le acque e perciò dominare i fiumi, generalizzare l’irrigazione e il drenaggio. Alla fase di prosperità di cui la Cina ha goduto nel 1700 è seguito un periodo di crisi, responsabili in parte le pressioni esterne occidentali, ma molto di più quelle a est e a nord del paese. I tratti essenziali dell’economia cinese erano quelli tradizionali, come la schiacciante prevalenza del settore agricolo a bassa produttività e a debole meccanizzazione. Un avvio di sviluppo industriale risale al 1890, con un ritardo di 25 anni sul Giappone, e con ritmi assai più lenti e modalità diverse. I cinesi disprezzavano la civiltà occidentale alla quale si ritenevano superiori. Alla loro mentalità era estranea l’idea che il governo dovesse farsi carico di promuovere lo sviluppo industriale. Dopo il trattato di Nanchino del 1842, che segnò l’apertura dei vari porti al commercio internazionale, toccò agli occidentali prendere l’iniziativa per l’avvio di forme moderne di industrializzazione. Mentre i giapponesi diedero subito mano alla costruzione di strutture necessarie per lo sviluppo economico, in Cina furono gli stranieri ad introdurre i servizi finanziari e di trasporto necessari per lo svolgimento delle loro attività commerciali. Una nuova era ha avuto inizio a partire dal 1895 con la guerra cino-giapponese, quando il governo cessò di opporsi alla partecipazione al commercio e all’industria. Lo scoppio del primo conflitto contrasse le importazioni di prodotti cotonieri dall’occidente e stimolò la produzione cinese e quindi vide la nascita di nuovi stabilimenti. Soltanto nell’intervallo tra le due guerre si avrà l’introduzione di telai meccanici. La differenza più marcata tra lo sviluppo industriale giapponese e quello cinese sta nel fatto che in Cina fino al 1937 la maggior parte dei grandi stabilimenti industriali si trovava in mano di stranieri, laddove in Giappone era stata prevalente l’iniziativa locale. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, nei grandi centri industrializzati cominciò a crearsi la popolazione operaia che manifestò i primi segni di organizzazione sindacale e gli inizi di un moderno sistema di rapporti industriali. LE GRANDI FASI DELL’ECONOMIA DELLA CINA POPOLARE (1949) Economia e società prima del 1949 - All’indomani della rivoluzione del 1911, rovesciata la dinastia dei Manciu e caduto il potere nelle mani dei militari, si creò una nuova forza politica: il Ku-Min-Tang. Alleatosi con i comunisti, questo partito, comandato da Chang-Kai-Chek, nel 1926 occuperà gran parte del paese. Diversi furono gli scontri all’interno del paese che però porteranno nel 1949 alla proclamazione della Repubblica popolare cinese, di cui Mao-Tse-Tung assumerà la presidenza. La rivoluzione agraria - Il nuovo regime si accinse a correggere le sperequazioni del regime fondiario, dal momento che le grandi famiglie possedevano il 60% delle terre. La riforma agraria, dopo una fase di spossessamento, nel 1950, divise i proprietari terrieri in tre categorie: - i proprietari non coltivatori e coloro che si servivano di salariati furono espropriati senza alcun indennizzo e ad essi fu lasciato un appezzamento sufficiente a soddisfare le esigenze primarie (minima unità colturale); - ai coltivatori che si avvalevano di un solo salariato fu lasciato il fondo sempre che esso riuscisse a fornire i ¾ del reddito; - ai contadini senza terra fu assegnato un piccolo lotto pari alla minima unità colturale. La situazione si modificò dal punto giuridico, ma non dal punto di vista economico: l’apparizione dei “kulaki” e la proletarizzazione del piccolo contadino. A differenza della Russia, la Cina non meccanizzò l’agricoltura per evitare l’esodo rurale che avrebbe reso impossibile l’industrializzazione del paese. Nel 1952 Mao costituì sei milioni di squadre comprensive del 40% della popolazione rurale attiva che non avevano in comune né animali né attrezzi; ciascuna poteva scegliere il tipo di coltura, ma si dovevano riunire al tempo del raccolto; questa prima fase si chiamò appunto dell’aiuto reciproco temporaneo. Nella seconda fase, detta dell’aiuto reciproco permanente, le squadre misero in comune le scarse attrezzature, utilizzarono le sementi selezionate e curarono meglio la divisione del lavoro, conseguendo un miglioramento nella produttività. La terza fase previde la costituzione di cooperative in cui fu messo in comune anche la terra.

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Tutto il raccolto doveva essere consegnato allo Stato, una parte a titolo d’imposta e il resto in vendita al prezzo, molto basso, che esso fissava di autorità. Successivamente la libertà, concessa alla cooperazione, di scegliere il tipo di produzione le fu negata e fu lo Stato a sceglierla e a fornire sementi, concimi e macchinari agricoli a prezzi sufficientemente alti. In cinque anni la produzione di cereali aumentò insieme alle condizioni di vita. Finalmente nel 1958 le comuni popolari presero il controllo dell’industria rurale. Le basi dell’economia cinese - Tra il 1949 e il 1958 si realizzò una progressiva socializzazione dell’industria, in particolare di quella tessile (Shangai) e quella pesante (Mancuria), mentre la ferrovia era tutta da realizzare. Vennero nazionalizzate le imprese “capitaliste”, multate le aziende che avevano conseguito guadagni illeciti (i proventi furono destinati al finanziamento delle imprese pubbliche), il settore privato urbano cadde sotto il controllo statale e si avviò un modello di sviluppo che privilegiava l’industria pesante, lasciando a distanza la produzione agricola. Il Primo piano industriale fu varato nel 1950. L’Urss fornì alla Cina progetti, quadri per la formazione degli operai, tecnici, ingegneri e un’apertura di credito di miliardi di rubli rimborsabili con l’esportazione di prodotti agricoli e materie prime. Rispetto al 1949 la produzione industriale raddoppiò, aumento che fu direttamente proporzionale all’aumento della popolazione. Con il Secondo piano (1958 -62) fu previsto un ulteriore raddoppio dell’industria, ma esso non andò in vigore a causa dei rallentamenti, dal 1955, nella produzione dovuta all’insufficienza delle materie prime e delle consegne dei prodotti agricoli. La disoccupazione aumentò e il malcontento popolare indusse il governo a trovare un modo per progredire più in fretta ed in maniera equilibrata. DAL “GRANDE BALZO” ALLA RIVOLUZIONE CULTURALE (1957 - 1966) La mobilitazione - L’evoluzione dell’economia della Cina contemporanea è contrassegnata da due avvenimenti fondamentali: il grande balzo (1958 - 60) e la Rivoluzione culturale (1966 – 68), entrambi caratterizzati da un rallentamento della crescita. A partire dal 1958 i cinesi si allontanarono progressivamente dal modello di sviluppo sovietico per motivi politico-economici. Quando, nel 1960, l’Urss ritirò i suoi tecnici e consiglieri la Cina, costretta all’aggiustamento della politica economica, spostò gli interessi verso l’agricoltura in quanto bisognava assorbire la popolazione in rapida crescita: bisognava decentrare la produzione, incoraggiare le piccole industrie, rivalutare l’artigianato e creare dei mercati. Nei fatti il governo restò sui suoi passi nell’accordare preferenza alle industrie di base dando vita ad una vera e propria mobilitazione delle masse verso le campagne, sostituendo ai villaggi le comuni popolari. L’obiettivo di spingere al massimo le capacità produttive, senza badare ai costi né all’usura dei mezzi di produzione, portò alla chiusura di molte aziende. Il “grande balzo” si chiudeva in una maniera assai ingloriosa e se la situazione economica era drammatica quella politica non era da meno e la rottura con l’Urss porto i cinesi a rinnegare il dogma staliniano. Il cambiamento di rotta - Si rinnegò la priorità dell’industria pesante a favore di quella dei beni di consumo e avviò alla campagna la popolazione eccedentaria che si era liberata nelle città; nelle campagne dispose il ritorno alla vecchia cooperativa operante nell’ambito del villaggio e alla piccola attività individuale, che però non apportò nessun miglioramento. Sostituto da Liu-Shao-Chi alla presidenza della repubblica, Mao puntò tutto sull’ideologia e fece appello alla cosiddetta “rivoluzione culturale” invitando le masse a partecipare alla vita pubblica. Il ricorso a incentivi sul piano industriale, il miglioramento dei salari e le bonifiche innescarono una ripresa tra il 1960-65. Il Terzo piano (1966-70) diede risultati soddisfacenti.

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L’ECONOMIA ITALIANA NEI SECOLI 1800 – 1900

CRESCITA E DECOLLO DELL’ECONOMIA ITALIANA (1860 - 1918) LA POLITICA LIBERISTA ED I SUOI EFFETTI Il problema dell’industrializzazione, quale mezzo per avviare un moderno sviluppo economico, riemerge nitidamente al momento del raggiungimento dell’Unità nazionale. La decisione di adottare per la nuova unità politica la tariffa doganale del Regno di Piemonte e Sardegna, ispirata ai principi libero scambisti, che dominavano nella letteratura economica inglese ed europea, venne motivata con la necessità di dare uno sviluppo economico omogeneo a tutto il territorio nazionale, visto il successo della politica cavouriana negli Stati sardi nel decennio pre-unitario. Questa politica venne incontro agli interessi dei proprietari fondiari, i quali vedevano nel libero scambio la possibilità di ampliare i mercati di sbocco dei prodotti agricoli in cambio dell’apertura del mercato italiano ai prodotti industriali esteri. La classe dirigente dell’Italia ritenne opportuno rinviare l’avvio del processo di sviluppo industriale che avrebbe richiesto un protezionismo doganale per i rami trainanti del sistema economico. L’abbattimento delle barriere doganali fece scomparire le manifatturiere cresciute all’ombra del protezionismo, provocando stagnazione e regresso nel settore secondario italiano. La politica liberista favorì alcune attività manifatturiere dell’Italia del Nord legate all’ambiente rurale (ind. serica, lino, carta e alimentare) e migliorò l’esportazioni di seta, canapa, olio e vino. Tuttavia questi progressi non resero possibile l’accumulazione originaria dei capitali da utilizzare nell’avvio dell’industrializzazione come era avvenuto in Inghilterra, Francia e Prussia. L’inefficienza delle vie di comunicazione fu un problema fortemente sentito dai governanti italiani che approntarono un intenso programma di costruzioni ferroviarie allo scopo di avviare il processo di unificazione del mercato nazionale. I programmi vennero ostacolati dalla scarsa disponibilità di risorse finanziarie, in considerazione del fatto che il debito pubblico complessivo accumulato al momento dell’Unificazione aveva raggiunto livelli elevati. Il governo fu costretto così a collocare all’estero i titoli di debito pubblico; questa mossa ebbe due risvolti: di buono fece affluire molti capitali stranieri in Italia; di contro il valore dei titoli venne a dipendere dalle oscillazioni e dalle speculazioni della finanza internazionale, che in periodi di crisi causavano l’uscita di forti quantitativi di metalli preziosi dal territorio italiano. Di fronte a queste difficoltà finanziarie, nel 1866, venne sospesa la convertibilità dei biglietti di banca introducendo il corso forzoso. L’emissione di cartamoneta a corso forzoso, fungendo da svalutazione dei biglietti di banca rispetto all’oro, stimolò le esportazioni e frenò le importazioni. L’effetto negativo fu la perdita di credibilità internazionale dell’Italia che rese impossibile l’ottenimento di nuovi prestiti dall’estero. Si avviò così un programma che puntasse al pareggio fra entrate e spese: introduzione della tassa sul macinato, estensione dell’imposta di ricchezza mobile agli interessi del debito pubblico e con l’aumento dell’imposizione indiretta. Altro metodo per procurarsi delle entrate fu l’incameramento dei beni della manomorta ecclesiastica, cioè di quei beni della Chiesa non utilizzati per fini di culto: i beni accumulati dalla Chiesa vennero spezzettati e venduti in pubbliche aste. La scelta scambista contribuì a lasciare in ombra le differenze di sviluppo economico fra la parte centro-settentrionale e quella meridionale del paese, in quanto i vantaggi della tariffa potevano avvantaggiare solo l’agricoltura intensiva del nord e non quella estensiva del Mezzogiorno. Sarebbe stata necessaria una riforma agraria che non arrivò per paura delle rivoluzioni contadine. Nel complesso l’incremento della produzione agricola non permise il raggiungimento della “accumulazione originaria”, ma cominciò a far mutare l’economia dell’Italia del centro-nord più vicina ai vari stati europei. Durante il primo ventennio post-unitario non vi fu un avvio all’unificazione economica del paese, gli scambi rimasero stazionari a causa della carenza delle vie di comunicazioni e del potere d’acquisto troppo modesto della massa della popolazione. Il modesto sviluppo industriale risultò concentrato nelle regioni di Piemonte, Lombardia e Liguria.

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LA SVOLTA PROTEZIONISTICA I mutamenti decisivi che si manifestarono nell’economia italiana, a partire dagli anni ’80, rivelano l’affievolirsi del funzionamento del vecchio sistema di accumulazione e il sorgere di quello nuovo. Il subentrare di una crisi agraria dovuta a cause internazionali, costrinse ad una politica protezionistica la maggioranza degli Stati europei, compresa l’Italia (la rivoluzione dei trasporti aveva reso competitivi soprattutto alcuni prodotti Usa e Urss che entrarono in concorrenza con l’agricoltura europea, modificando i flussi commerciali). Nel frattempo, la denuncia all’opinione pubblica delle condizioni di sottosviluppo del Mezzogiorno e i risultati dell’inchiesta industriale misero sotto accusa la politica liberista per il disinteresse mostrato verso i problemi economici e sociali del Paese. Si costituì allora l’Associazione per il progresso degli studi economici, che si ispirò al movimento tedesco dei socialisti della cattedra e fondò, el 1875, la rivista il “Giornale degli Economisti” (Lampertico, Cossa, Luzzatti, Ricca Salerno e Cognetti). A loro volta i seguaci della scuola classica (Bastoni, Peruzzi, Martello e Ferrara) crearono in contrapposizione l’Associazione “Adamo Smith” ed il settimanale “L’Economista”. Un terzo gruppo fondò, nel 1878, la “Rassegna Settimanale” (Fianchetti e Sonnino). Il dilagante protezionismo e i forti interessi industriali indussero il governo ad approvare il 15 aprile 1878 una tariffa doganale che aumentò molti dazi sui prodotti (tessili e frumento) importati dalla Francia, ma non si pose alcun obbiettivo di industrializzazione del Paese. Alla fine del 1878 la crisi sembrava essere superata e nel 1881 il governo ritenne che fosse giunto il momento di abolire il corso forzoso, ritornando alla convertibilità della cartamoneta. Il disegno di legge prevedeva un prestito estero per ridurre la circolazione bancaria senza rischiare una massiccia esportazione di oro. La fiducia conquistata per l’abolizione del corso forzoso fece affluire in Italia capitali stranieri, che crearono un clima di ottimismo tale da spingere ad iniziative che spesso ebbero un carattere speculativo (costruzioni edilizie nelle aree urbane di Roma e Napoli). I rappresentanti dell’industria legata al mondo rurale, quando venne meno la protezione doganale assicurata dal corso forzoso e dagli scambi esteri, cominciarono a premere sul governo per avere una revisione della tariffa doganale. Nel 1887 venne varata una nuova tariffa fortemente protezionistica che non fece altro che far diminuire le esportazioni in misura superiore al calo delle importazioni. L’intervento dello Stato ebbe un ruolo fondamentale nel cambiamento della struttura economica, fece crescere gli investimenti a favore del nascente processo di industrializzazione. Il ministro delle finanze Magliani accantonò il tradizionale pareggio annuale del bilancio e puntò a finalità produttivistiche; lo Stato fu costretto ad indebitarsi. La manodopera agricola cominciò ad essere assorbita dalla fabbrica e sul mercato si vennero affermando le imprese meccanizzate condotte con criteri capitalistici ai danni delle piccole imprese artigianali. Il sistema bancario partecipò all’avvio dell’industrializzazione grazie alla nascita della banca del Credito Mobiliare e la Banca generale, sorte con compiti di investimento a lungo termine nell’industria. Negli anni novanta il sistema bancario entrò in crisi a causa di enormi scandali e venne riformato il sistema delle banche di emissione con la legge bancaria del 10 agosto 1893 che identificò nella Banca d’Italia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, gli istituti di emissione. Fra il 1894 e il 9185 vennero costituite due nuove “banche miste”, la Banca Commerciale Italiana (Milano) e il Credito Italiano (Genova), entrambe sul modello tedesco e con l’aiuto di capitali e personale tedesco. Ad esse si aggiunsero il Banco di Roma e la Società Bancaria Italiana di Milano. Il ruolo delle banche miste fu fondamentale per finanziare lo sviluppo economico di un paese afflitto da una cronica carenza di capitali. Gli effetti della crisi economica degli anni 1888-96 spinsero l’emigrazione verso l’America di contadini e braccianti e videro la comparsa dei primi tentativi di sciopero operaio (fasci siciliani). IL DECOLLO ECONOMICO A partire dal 1896 iniziò la fase ascendente dei prezzi del ciclo Kondrat’ev che raggiungerà il suo culmine nel 1920. I prezzi crescenti diedero un forte impulso agli scambi internazionali e all’aumento della produzione e del reddito in Europa, Giappone e negli Usa. L’Italia riuscì a cogliere l’occasione di inserirsi tra i paesi industrializzati in quanto si erano create le condizioni sociali, politiche ed economiche per sfruttare a pieno il nuovo ciclo espansivo dell’economia internazionale. Crescita dell’economia internazionale e industrializzazione italiana sono correlate tra loro: le esportazioni lievitarono notevolmente anche se ad un

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ritmo inferiore delle importazioni. Venivano esportati filati, tessuti, prodotti alimentari, prodotti minerari ed importate le materie prime come carbone e ferro delle quali non vi era traccia nel territorio. Al crescente disavanzo della bilancia commerciale l’Italia rimediò con le rimesse degli emigrati e con le entrate del settore turistico. Un fattore altrettanto importante per lo sviluppo economico italiano viene individuato nella politica protezionistica del quindicennio precedente che avviò la nascita dei rami industriali emergenti (siderurgia, chimica, meccanica) e completò la modernizzazione dei rami tessile e alimentare. Determinati per il decollo industriale furono sia la possibilità di reperire i capitali necessari attraverso l’accumulazione nel settore agricolo e soprattutto l’azione delle banche d’investimento, sia l’intervento statale attuato attraverso le commesse, gli anticipi e le sovvenzioni. Il fatto che la maggior parte delle attività industriali si concentrasse nell’area settentrionale, accentuò il carattere dualistico dell’economia italiana. Dal 1896 al 1913 il reddito nazionale e quello pro-capite aumentarono e oltre ad una crescita globale del prodotto lordo privato in tutti e tre i settori economici, fu considerevole la redistribuzione fra il settore agricolo (in calo) e quello industriale (in aumento). Il raddoppio della produzione industriale si realizzò con un elevato ritmo di crescita dei saggi di sviluppo nei diversi rami manifatturieri. Sul finire dell’Ottocento la produzione dell’energia idroelettrica si avviò verso una crescita di grosse proporzioni. L’industria elettrica trovò i capitali necessari al suo sviluppo grazie all’intervento della Banca Commerciale Italiana. Nel ramo tessile si riuscì finalmente ad avviare una vera produzione di fabbrica nella tessitura della seta. Più consistente fu lo sviluppo dell’industria cotoniera che, nonostante gli alti dazi protettivi, entrò in crisi nel 1907. La creazione dell’Unione filatori nel 1910 e dell’Istituto cotoniero italiano nel 1913 agevolò il risanamento che tuttavia a causa del ribasso dei prezzi vide una diminuzione della produzione. Anche nell’industria laniera vennero fati molti progressi grazie all’utilizzazione dell’energia elettrica. Il ramo manifatturiero che evidenziò una grande regolarità nel saggio di sviluppo prima e dopo la crisi fu quello alimentare, nel quale le industrie principali erano quelle dello zucchero, della birra e dei tabacchi. Il ramo alimentare sommato a quello tessile erano la posta attiva più rilevante della bilancia commerciale italiana. I rami che realizzarono i progressi più vistosi sia quantitativamente che qualitativamente furono il chimico (Pirelli), il metallurgico e il meccanico. Il ramo metallurgico si sviluppò ad un ritmo elevato con l’aiuto di una protezione doganale molto forte e dell’appoggio finanziario delle banche miste (Terni – 1884 finanziata dal Credito Mobiliare e dalla Banca generale del credito mobiliare e successivamente dalla Comit) (Società Elba – 1899 finanziata dal Credit e successivamente dal Comit). Nel 1905 l’accordo tra la Credit e la Comit porterà alla nascita della società ILVA, destinata a creare un grosso impianto siderurgico a Bagnoli. La crisi del 1907 colpì anche questo ramo vedendo il blocco dei finanziamenti delle banche e la sovrapproduzione. Il governo Giolitti si impegnò a presentare un piano di intervento per salvare le imprese, sollecitando le banche interessate a ridare il loro appoggio finanziario, ma nonostante ciò gran parte della produzione rimase invenduta. Fu così costretto a bloccare per cinque anni la realizzazione di nuovi impianti al fine di stabilizzare la produzione. L’industria meccanica, invece, non usufruiva di una particolare protezione doganale e grazie alla domanda interna riuscì a svilupparsi e ad ammodernarsi (cantieri navali Ansaldo, armi e artiglierie Breda e Tosi, macchine da scrivere Olivetti, automobili Fiat). Lo sviluppo riguardò anche il settore primario che crebbe in produttività e in produzione. Le coltivazioni di frumento, barbabietola da zucchero, mais, riso e patata furono le più incrementate. L’agricoltura continuò ad essere più sviluppata nelle aree settentrionali grazie all’introduzione di nuove tecniche, concimi e macchine agricole. Anche i successi dell’Agricoltura furono in parte dovuti all’azione dello Stato: protezione doganale, stipulazione di accordi commerciali con altri Stati, finanziamenti per opere di bonifica e il potenziamento dell’istruzione e della sperimentazione agraria. Il clima di maggiore tolleranza nei confronti della protesta sociale, instauratosi con il ritorno al potere della sinistra di Giolitti e Zanardelli, fece crescere le rivendicazioni operaie e videro la fondazione, nel 1906, della Confederazione Generale del Lavoro (CGL). Il governo stesso nel 1902 istituì l’Ufficio centrale del lavoro allo scopo di compiere studi sul settore lavorativo e preparare proposte di legislazione sociale. L’ECONOMIA DI GUERRA L’intervento italiano, nel maggio del 1915, fece crescere la speranza di superare le difficoltà economiche emerse con le recessioni del 1907 e del 1913 ed acuitesi alla vigilia della guerra. Sin dal 1914, quando scoppiò la guerra, l’Italia scelse il regime di neutralità e si adoperò a rifornire i paesi belligeranti di prodotti,

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specialmente tessili. La scelta di campo i favore di Francia e Inghilterra era quasi obbligatoria oltre che per l’obiettivo politico del completamento dell’unità nazionale, anche perché erano questi a fornire la maggior parte delle materie prime necessarie all’economia italiana. Le spinte interventistiche del movimento nazionalistico, dei gruppi dirigenziali dei rami siderurgico, meccanico ed elettrico si fecero sempre più pressanti. La prevedibile entrata in guerra indusse il governo ad emettere un prestito nazionale e ad istituire il Consorzio su valori industriali (CSVI) che avrebbe dovuto far fronte ad un eventuale crollo dei titoli industriali. La politica di Calandra, divenuto presidente del consiglio in sostituzione di Giolitti, andava spostandosi verso destra che con l’appoggio della borghesia industriale spinse l’Italia ad intervenire nel conflitto. Soltanto dopo il primo anno di guerra l’industria italiana riuscì a coprire le crescenti esigenze delle forze militari, soprattutto per merito dei Comitati regionali di mobilitazione costituiti dal governo allo scopo di mobilitare e coordinare la produzione bellica. Inoltre essi potevano dichiarare ausiliari quegli stabilimenti necessari ai fini bellici. Tali stabilimenti erano privilegiati nell’approvvigionamento delle materie prime e nell’attribuzione delle commesse e venivano assoggettati alla giurisdizione militare che poneva tutto il personale sotto la sorveglianza di soldati e carabinieri e sospendeva le conquiste sindacali. La domanda per esigenze belliche riguardò prevalentemente le imprese siderurgiche, meccaniche, elettriche, tessili e chimiche. Furono soprattutto l’ILVA, l’Ansaldo, la Breda e la Fiat che si accaparrarono la maggior parte della domanda sia in campo siderurgico che meccanico. Tutte le banche miste erano intervenute per sostenere finanziariamente la cantieristica: la Comit, il Credit, il Banco di Roma e la Banca italiana di sconto. Lo Stato fornì aiuti attraverso la protezione doganale, le commesse e le sovvenzioni allo scopo di realizzare i programmi di espansione dell’economia di guerra. Di notevole rilievo fu la crescita della produzione di energia elettrica, in particolare di quella idroelettrica. Anche l’industria chimica vide aumentare la richiesta di prodotti per uso bellico (esplosivi); l’industria della gomma (Pirelli) con il sostegno del Credit riuscì raddoppiare la percentuale media dei suoi profitti. Nel complesso il sistema industriale si rafforzò notevolmente durante la guerra con l’aiuto dello Stato, ma le trasformazioni strutturali dell’industria italiana non produssero una evoluzione verso forme di capitalismo maturo, poiché la ricchezza nazionale non aumentò ma operò un trasferimento di risorse dall’agricoltura e dalla piccola e media industria produttrice di beni di consumo verso i grandi gruppi industriali finanziati dalle banche di investimento. Infatti, l’economia di guerra in un paese povero di manodopera qualificata spinse il governo ad esonerare dal servizio militare non solo gli operai specializzati, ma anche quelli che sembravano capaci di diventarlo. Il risultato fu che la percentuale di contadini chiamati alle armi fu elevatissima, il che provocò la riduzione della produzione e fece crescere il deficit della bilancia commerciale a causa degli onerosi acquisti di prodotti agricoli, ed in particolare cereali, sui mercati americani. La scarsa produzione agricola e la difficoltà delle importazioni dei prodotti alimentari costrinsero il governo ad introdurre, nel corso del 1918, il razionamento dei generi di prima necessità. Alla fine del 1918 l’epidemia influenzale della spagnola fece tante vittime quante quelle della guerra, proprio a causa dello stato di debilitazione fisica della popolazione. Inoltre, lo sviluppo industriale e la crisi dell’agricoltura approfondirono il divario tra il Nord e il Sud del paese. Alla fine della guerra grossi e complessi problemi riguardanti la riconversione industriale, il riassetto finanziario e monetario e la crisi economica ed i conflitti sociali, si presentarono ai dirigenti politici. L’ECONOMIA ITALIANA FRA LE DUE GUERRE (1919 - 1945) IL PRIMO DECENNIO L’accresciuta dipendenza dell’industria dalla domanda pubblica e la progressiva integrazione tra industria pesante e sistema bancario con la partecipazione attiva dello Stato avevano reso possibile il vertiginoso sviluppo della grande industria ai danni dell’agricoltura e della piccole e medie imprese. Alcune industrie, durante la guerra, erano diventate così grandi da mettere in discussione i loro rapporti con le banche sostenitrici. La scalata alle banche da parte delle grandi imprese, quali la Fiat e l’Ansaldo, durò fino al 1920 quando i dirigenti delle banche si opposero al tentativo delle imprese di acquistare tutte le azioni per superare lo stato di malessere derivato dalla forte diminuzione delle commesse statali e di resistere alla inevitabile riconversione post-bellica. La maggior parte delle imprese si trovarono in grosse difficoltà a causa della penuria di materie prime, degli scarsi mercati di sbocco e del fluttuante regime dei cambi. Inoltre le eccessive emissioni di

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cartamoneta avevano prodotto una forte inflazione. Il contrasto più forte venne a crearsi fra industriai, che continuavano a chiedere incentivi e sostegni per evitare il fallimento, e agrari che chiedevano la revisione in senso liberistico delle tariffe doganali per allargare i mercati di sbocco dei prodotti agricoli. In tale contesto, un ruolo di grande rilevanza venne assunto dal movimento operaio che attraverso la CGL e l’appoggio del partito socialista mirò ad ottenere la riduzione delle ore lavorative, aumenti salariali e il riconoscimento delle Commissioni interne. La concessione, nel 1919, del decreto Visconti fece acquietare il movimento operaio, ma non portò ad una duratura pace sociale. Il governo Nitti non fu capace di mediare tra capitale e lavoro e nel 1920 venne succeduto da Giolitti, il quale aveva lo scopo di ottenere il risanamento delle finanze statali attraverso provvedimenti fiscali destinati a colpire i patrimoni ed i redditi più elevati. Al programma economico giolittiano si opposero con vigore banchieri, industriali ed agrari che riuscirono a bloccare l’attuazione di alcuni provvedimenti con il conseguente aggravamento del debito pubblico e la crescita dell’inflazione. Anche se la pressione del movimento operaio continuò a farsi sentire il partito socialista nel 1921 perse molti punti e a Giolitti succedette Bonomi che formò un governo con i popolari e i socialisti riformisti. Le incertezze del nuovo governo diedero spazio alla crescita del movimento fascista appoggiato da industriali e agrari. Dopo la caduta del governo Bonomi, 1922, il partito fascista, con la tolleranza delle forze armate e della Monarchia, organizzò la “marcia su Roma” che si concluse con il conferimento a Mussolini dell’incarico di formare il nuovo governo. La mancanza di una classe politica moderata fece emergere la forza del fascismo il quale offrì una restaurazione politica di carattere autoritario che venne notevolmente favorita dalla fase di ripresa internazionale degli scambi guidata dagli Usa. Infatti, fra il 1922 e il 1925 la connotazione più marcata della politica governativa fu il liberismo economico che ebbe come capi saldi l’alleggerimento del carico fiscale e il passaggio ai privati di alcune attività fino ad ora svolte dallo Stato. Per compensare la flessione del gettito fiscale il governo istituì l’imposta generale sull’entrata (I.G.E.) da applicare sui trasferimenti di denaro, e un’imposta sui redditi agrari, ed estese l’imposta di ricchezza mobile ai salari. Vennero privatizzate l’assicurazione sulla vita, i servizi postali e telefonici e lo scrutamento delle risorse idriche. Per attenuare gli effetti delle tariffe doganali protezionistiche, che erano state inasprite da Giolitti nel 1921, il nuovo governo stipulò trattati di commercio con altri paesi. Il successo più rilevante del governo fascista fu quello di avere eliminato entro il 1925 il disavanzo del bilancio statale. Il vantaggio più consistente per il settore industriale fu rappresentato dalla soppressione delle organizzazioni sindacali libere, che contribuirono alla crescita della produttività senza l’introduzione di nuove tecnologie. Mussolini inoltre avviò le riforme elettorale e costituzionale: nel 1923 eliminò il sistema proporzionale, introducendo una legge che consentiva ad una maggioranza del 25% la conquista dei 2/3 dei seggi parlamentari. Con una campagna elettorale svolta in un clima di violenze e intimidazioni contro gli oppositori, i fascisti ottennero il 65% dei voti. L’uccisione di Giacomo Matteotti, segretario del partito socialista, che aveva contestato la validità dei risultati elettorali, e le incertezze dell’opposizione segnarono la fine dello Stato liberale parlamentare. Infatti vennero emanate alcune leggi che trasformarono la struttura dello Stato, rafforzando il potere esecutivo e abolendo le nomine elettive delle amministrazioni locali, sostituendole con autorità di nomina governativa. Venne introdotta la pena di morte e l’organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo (OVRA). Raggiunto il pareggio del bilancio e rimesso in moto il sistema produttivo, il governo cominciò ad intravedere i pericolosi risvolti dell’aumento della liquidità e della circolazione monetaria che avevano sorretto lo sviluppo economico del triennio liberista. Venne così attuata la riforma degli istituti di emissione, nel 1926, affidando alla Banca d’Italia tutti i poteri di controllo sull’offerta di moneta, sulla liquidità bancaria e sul saggio di sconto. Era inoltre necessario rivalutare la lira per acquisire quella fiducia internazionale indispensabile per ottenere prestiti utili alla crescita dell’economia del Paese. Le misure deflazionistiche e l’effetto psicologica del discorso di Pesaro dell’agosto 1926, durante il quale Mussolini proclamò la difesa della moneta nazionale, segnò l’arresto della sua svalutazione e l’inizio di una rivalutazione che vide la stabilizzazione a fine 1927. Nonostante che il suddetto risanamento monetario venisse accompagnato dalla concessione di numerosi prestiti esteri, la deflazione e la rivalutazione della lira colpirono in particolar modo l’edilizia e le piccole imprese produttrici di beni di consumo a causa della concentrazione della domanda interna. I riflessi sociali della deflazione furono pesanti, sia per quanto riguarda la disoccupazione che triplicò, sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro aggravate da una severa disciplina di fabbrica e dall’introduzione di tecnologie basate sulla catena di montaggio. Tutto sommato si può affermare che i progressi compiuti dall’economia italiana furono abbastanza marcati dal 1922 al 1926 e si mantennero allo stesso livello nei tre ani successivi.

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Per quanto riguarda l’agricoltura il governo Mussolini, dal 1922 al 1925, condusse una politica volta a mantenere il reddito fondiario e a ridurre i costi di produzione mediante l’inasprimento dei patti agrari e le decurtazioni salariali. Quando, nel corso del 1925, il disavanzo della bilancia si aggravò anche a causa delle importazioni di grano, il governo avviò un piano di politica agraria fondato sulla difesa della granicoltura per aumentarne la produzione mediante l’elevazione del rendimento medio per ettaro. Nel 1925 venne annunziata la “battaglia del grano” che ripristinò i dazi doganali che da una parte contribuirono a far aumentare la produzione cerealicola e quindi ad una diminuzione delle importazioni e dall’altra attraverso l’aumento dei prezzi, pesò sul bilancio alimentare dei consumatori. I risultati della “battaglia”, fino al 1929, furono l’aumento della superficie coltivata, più accentuata nel Mezzogiorno che nel Nord, e la crescita della produttività, molto più rilevante nell’Italia settentrionale che nel Meridione. In complesso l’economia italiana dopo la crisi post-bellica ebbe una fase di crescita nel primo quadriennio dell’avvento del fascismo al potere, seguita da una fase di stagnazione dovuta agli effetti della rivalutazione monetaria eccessivamente elevata, voluta dal governo Mussolini. LE CONSEGUENZE DELLA CRISI DEL 1929 Il 1929 rappresentò per il regime fascista l’anno della sua “normalizzazione”. Dopo la conciliazione con la Chiesa cattolica attraverso la firma dei patti lateranensi, Mussolini indisse le elezioni che vinse grazie anche all’appoggio della Chiesa: “normalizzazione” del regime autoritario. Nel corso di quell’anno l’economia italiana sembrava avviata al superamento della crisi provocata dalla crisi provocata dalla politica deflazionistica e dalla rivalutazione della lira. Tuttavia non erano da sottovalutare le ombre che gravavano su di essa. Il saldo negativo della bilancia commerciale si era accresciuto per l’aumento delle importazioni a fronte di una diminuzione delle esportazioni, dovuto al lento adeguamento della riduzione dei salari reali che avrebbe dovuto compensare gli effetti della rivalutazione della lira. In tale contesto cominciarono a manifestarsi, a partire dal 1930, gli effetti della “grande crisi” che segnò l’inizio di una fase depressiva dell’economia internazionale. La depressione colpì pesantemente il settore industriale e in particolare i rami tessile (filati di seta e cotone) e meccanico (autovetture), che collocavano una rilevante parte della loro produzione sui mercati esteri, ma anche i rami economici che non erano legati alle esportazioni subirono ripiegamenti di un certo rilievo. Nel settore agricolo la recessione si fece sentire ancora più pesantemente, provocando la riduzione di circa il 45% del valore della produzione lorda privata. I segni più evidenti della depressione economica, tra il 1929 e il 1933, risultano sintetizzati dalle cifre relative alla diminuzione del risparmio e degli investimenti lordi e dall’aumento della disoccupazione. A causa del precedente rallentamento dello sviluppo dovuto alla rivalutazione della lira, gli effetti della crisi in Italia furono meno gravi che nel resto d’Europa. Con la svalutazione della sterlina i prestiti esteri delle banche miste si ridussero inducendo i risparmiatori a spostare i loro depositi nelle casse di risparmio e nelle casse postali. La prima banca mista ad entrare in crisi fu il Credit seguita dal Comit, ed entrambe chiesero aiuto allo Stato che istituì la Sofindit (Società finanziaria industriale italiana) la quale ricevette un prestito per acquistare le azioni del Comit e del Credit che si impegnavano a non effettuare operazioni di credito mobiliare. Era prevista inoltre la costituzione dell’Istituto Mobiliare Italiano (IMI) che avrebbe dovuto sostituire le due banche d’investimento nella concessione di crediti a medio e a lungo termine. Le condizioni dell’economia continuarono a peggiorare e il governo decise di costituire un altro ente, l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) allo scopo di eliminare la commistione fra imprese industriali e banche miste che era diventata essenziale per il sistema bancario italiano. Lo Stato si impegnò a fornire i capitali necessari per finanziare le imprese industriali in difficoltà e per sollevare le banche miste dagli immobilizzi derivanti da titoli industriali e crediti inesigibili. L’attività dell’IRI fu positiva poiché riuscì ad aiutare molte imprese industriali e a salvare le banche miste, finanziandole o assumendone la gestione diretta. Il risanamento del sistema bancario venne attuato con il decreto-legge del 12 marzo 1936 secondo il quale il controllo del sistema bancario venne affidato all’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito, organo dello Stato, guidato dal Governatore della Banca d’Italia, posto alle dipendenze di un Comitato di ministri presieduti dal capo del governo che fissava le direttive generali. La Banca d’Italia, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale del Lavoro, l’Istituto bancario S. Paolo di Torino e il Monte dei Paschi di Siena vennero dichiarati istituto di diritto pubblico; furono riconosciute banche di interesse nazionale la Comit, il Credit e il Banco di Roma. La legge bancaria diede all’intervento pubblico nel settore creditizio il compito di governare i flussi finanziari di tutto il sistema bancario destinati alle attività economiche,

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concentrando i poteri di controllo e di vigilanza nelle mani della Banca d’Italia. La recessione economica cominciò ad essere superata a partire dal 1934. LA SVOLTA AUTARCHICA La ripresa economica, che si era verificata a partire dal 1934, non consentì al governo di fare ridurre l’intervento pubblico sull’apparato economico a causa del mancato sviluppo del commercio estero e della notevole diminuzione dell’emigrazione che fece crescere il numero dei cittadini in cerca di lavoro. Ragioni di prestigio politico indussero i regime a cercare la soluzione del problema demografico ed economico nell’espansione coloniale con l’invasione dell’Etiopia nel 1935. Mussolini voleva avviare una politica economica tendente a rendere l’Italia autonoma dalle importazioni, cioè a dire una politica autarchica. A provocare questa svolta contribuì la nuova alleanza politica (Patto d’acciaio) concluso con la Germania e il Giappone i quali ritenevano necessaria l’espansione territoriale per superare la recessione economica e raggiungere il livello di sviluppo dei paesi che già possedevano aree di influenza coloniale (le potenze europee e gli Usa). La riforma del sistema bancario e la trasformazione dell’IRI da ente provvisorio a permanente nel 1937 consentirono al governo di indirizzare e controllare l’economia del Paese; i settori portanti dell’industria italiana vennero a dipendere, tramite l’IRI, dallo Stato che accentrò nelle sue mani il credito di investimento. L’Italia non fece tornare le attività imprenditoriali e del sistema creditizio nelle mani dei privati per diversi motivi: per la scelta politica di controllare l’economia allo scopo di rendersi indipendente dall’estero, l’impossibilità di un rilancio delle industrie legate all’esportazione sia per la scarsità delle riserve monetarie e la difficoltà di procurarsi crediti dall’estero durante una fase recessiva dell’economia internazionale, sia per l’inasprimento dei rapporti diplomatici con le grandi potenze economiche. Lo Stato fu soltanto il mediatore del rilancio economico attuato attraverso un’organizzazione privatistica e non riuscì ad utilizzare l’intervento pubblico per attuare il suo progetto politico ad impronta corporativa, lasciando ampia libertà alle iniziative dei grandi gruppi industriali. L’IRI non intervenne soltanto per risanare le imprese in crisi e rimetterle sul mercato, ma assunse funzioni di gestione aziendale. La scelta autarchica ancorarono il commercio estero italiano alla Germania nazista, inoltre la “battaglia del grano” e la “bonifica integrale”, insieme con la spinta alla valorizzazione delle risorse sostitutive delle materie prime importate costituirono il perno della politica autarchica del governo. Buoni risultati si ebbero nel settore siderurgico, meccanico e chimico; in crisi entrarono le industrie cotoniera, laniera e serica sia per la concorrenza delle fibre artificiali che per le restrizioni autarchiche, ma il ramo tessile, nel suo complesso, restò uno dei più importanti nel settore industriale. La tendenza di fondo, accentuatasi dopo il 1935, fu quella di far affluire gli investimenti nelle attività finanziarie e industriali piuttosto che in agricoltura, come è testimoniato dalla crescita dell’occupazione nell’agricoltura. Fra i costi sociali prodotti dalla struttura autoritaria del regime si possono annoverare il degrado delle aree rurali, l’emarginazione della cultura, le carenze nella qualificazione professionale e nell’istruzione pubblica, l’inesistenza o la mediocrità di servizi sociali collettivi, lo scarso sviluppo del sistema assistenziale e del cooperativismo. In questi anni le differenze di sviluppo fra il Nord e il Sud non fecero altro che accentuarsi, anche a causa della popolazione attiva che andava diminuendo nel Mezzogiorno. L’ECONOMIA ITALIANA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE Allo scoppio della guerra l’Italia si presentava con una struttura economica molto fragile, caratterizzata da un dualismo economico molto marcato, da un’accentuata burocratizzazione e da una preparazione militare assolutamente insufficiente. Infatti nonostante quattro anni di politica autarchica, le attività industriali dipendevano in larga misura dall’estero per le importazioni di carbone, materie prime e semilavorati controllate per la maggior parte dai potenziali nemici anche attraverso il dominio delle vie di comunicazione marittime. Tuttavia le principali correnti di commercio si erano modificate a favore della Germania. Gli armamenti oltre ad essere quantitativamente insufficienti lo erano anche qualitativamente e in accordo con la Germania, Mussolini allo scoppio della guerra dichiarò la “non belligeranza”; ma tra febbraio e marzo del 1940 decise di intervenire a fianco della Germania, rifiutando le offerte politiche ed economiche dell’Inghilterra e degli Usa e accettando l’offerta tedesca che prevedeva un rifornimento mensile di carbone, superando così l’embargo inglese. Mussolini si schierò a fianco dell’alleato nella convinzione che si trattasse di una guerra di breve durata; purtroppo la guerra durerà parecchi anni, mettendo in evidenza la debolezza economica e

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l’impreparazione militare dell’Italia. Furono le spese militari che assorbirono la maggior parte dei consumi pubblici e produssero una forte inflazione. I rifornimenti provenienti dalla Germania andarono esaurendosi mettendo in difficoltà molte fabbriche. L’agricoltura venne colpita in modo particolare dagli avvenimenti bellici, sia per la scarsa disponibilità di fertilizzanti che per il richiamo alle armi dei lavoratori agricoli. Per quanto riguarda la produzione industriale, si ebbe un andamento verso l’alto fino al 1940 per declinare rapidamente dal 1941 al 1943. Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943, e la firma dell’armistizio dell’8 settembre, iniziò per l’Italia un periodo tumultuoso durante il quale è difficile individuare gli indirizzi di politica economica. L’inflazione raggiunse livelli elevatissimi fra il 1943 ed il 1945, soprattutto nel Mezzogiorno, dove avvenne l’emissione delle AM lire da parte dell’amministrazione militare anglo-americana che scatenò un processo che provocò il rialzo dei prezzi ad un livello di circa trenta volte quello superiore a quello del 1941. Con al firma dell’armistizio, cessarono le forniture tedesche destinate ad alimentare le industrie italiane ed in particolare quelle belliche. Se a ciò si aggiunge la suddivisione in due parti del territorio nazionale, diventa facilmente spiegabile la caduta della produzione manifatturiera. Si trattò di un vero e proprio crollo economico che raggiunse il suo punto più basso nel 1945, anno della cessazione delle ostilità. L’ECONOMIA ITALIANA NEL SECONDO DOPOGUERRA LA RICOSTRUZIONE ECONOMICA I nuovi governanti dovettero affrontare i problemi relativi alla sua forma istituzionale, alla introduzione di una democrazia parlamentare ed alla scelta della via da seguire per avviare la ricostruzione della sua vita economica. Il problema istituzionale si risolse con la vittoria della repubblica. Il ritorno alla democrazia parlamentare e l’elaborazione di una carta costituzionale, che desse salde radici alla vita politica italiana, vennero invece realizzati senza provocare aspre contrapposizioni fra i partiti nati dalla Resistenza antifascista. Le incertezze sulla politica da seguire si trascinarono per un biennio, fino a quando venne costituito il governo De Gasperi del maggio del 1947, nella cui coalizione non entrarono i partiti della Sinistra. L’indirizzo politico di De Gasperi si ispirava alla dottrina liberista classica che mirava alla libertà d’azione delle imprese e alla tutela della proprietà privata. I problemi economici che richiedevano una urgente soluzione erano la caduta della produzione e della crescente disoccupazione, le quali avevano toccato il fondo nel 1945, accompagnate da una crescente emissione monetaria che aveva suscitato la preoccupazione più forte di tutte le forze politiche. Nella seconda metà del 1946 l’Italia fu attraversata da una forte inflazione causata dai molteplici eventi del dopoguerra. Il ricorso al cambio della moneta, collegato ad una imposta patrimoniale, proposto con insistenza dalle sinistre venne vanificato dalla netta opposizione dei partiti di centro-destra e, in particolare, dal partito liberale. Ciò nonostante i partiti di sinistra riuscirono ad ottenere dei risultati sul piano normativo come la “tregua salariale” che prevedeva il riconoscimento delle commissioni interne, la scala mobile, gli assegni familiari, i minimi salariali, limitazioni in materia di licenziamenti, il blocco degli affitti e la formazione di commissioni provinciali per la determinazione dell’equo canone nell’affitto di fondi rustici. Con il Ministero del tesoro, che aveva il potere decisionale sulla spesa pubblica, e con la Banca d’Italia, divenuta con la riforma bancaria del 1936 un organismo di controllo e gestione della circolazione monetaria e del sistema creditizio, nelle mani di autorevoli esponenti liberisti, può sembrare scontato l’indirizzo seguito dai provvedimenti governativi. Allo Stato, che, attraverso l’IRI, possedeva molte imprese industriali e istituti di credito, fu affidato il compito di mantenere le maestranze occupate senza dare alcun indirizzo di gestione, lasciando nei fatti tali aziende sotto l’influenza dei gruppi privati in possesso di una parte relativi pacchetti azionari. L’IRI non venne liquidato solo per la decisa opposizione delle sinistre. La linea liberista privilegiò la ricerca della redditività aziendale ed eliminò ogni controllo sulla destinazione delle risorse, senza preoccuparsi dell’accentuazione del divario economico Nord-Sud, riaffidando alle imprese private la piena disponibilità della manodopera e della gestione. Il periodo decisivo per la scelta della politica economica italiana è collocabile nei primi due mesi del 1947, quando la “tregua salariale” venne meno a causa di una nuova ondata inflazionistica, ponendo sul tappeto il problema del costo del lavoro. Di fronte al drammatico problema del contenimento dell’inflazione non si

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volle seguire la via del cambio della moneta, come era stato fatto in altri paesi europei unitamente al razionamento dei generi di consumo e l’adozione di prezzi politici per i generi di prima necessità. Si adottò, invece, la linea sostenuta dai partiti di centro-destra che puntò alla riduzione della spesa statale per consentire un maggior flusso di liquidità verso il settore privato; questo tipo di politica monetaria non riuscì a bloccare l’inflazione. La fine della collaborazione governativa con i partiti della Sinistra diede la possibilità a De Gasperi di formare un nuovo ministero democristiano con l’inserimento di esponenti dei partiti liberale, repubblicano e socialista scissionista. Il nuovo governo fu libero di seguire un indirizzo liberista ortodosso, avviando una politica deflazionistica che prese il nome di Einaudi passato dalla carica di governatore della Banca d’Italia a quella di Ministro del Bilancio. Einaudi avviò la tradizionale politica di restringimento del credito allo scopo di porre un freno all’inflazione e di stabilizzare il sistema finanziario: ricostruì il Comitato del credito che avviò la stretta creditizia obbligando le banche a versare il 25% dei depositi esistenti ed il 40% di quelli futuri alla Banca d’Italia; a tale manovra si accompagnò l’aumento del tasso di sconto. Gli effetti furono molto forti: si ridusse la circolazione monetaria, ma nel contempo si contrassero gli investimenti e la produzione e aumentò la disoccupazione. Per aiutare le imprese in difficoltà venne creato il Fondo per le Industrie Meccaniche (FIM), fu aumentato il fondo di dotazione dell’IRI, si concessero sussidi all’industria serica e mineraria e vennero concesse esenzioni fiscali e agevolazioni creditizie alle industrie da impiantare nel Mezzogiorno. La politica deflattiva non fu accompagnata da riforme strutturali e di conseguenza provocò la formazione di una disoccupazione cronica concentrata nel Mezzogiorno. Complessivamente, la stabilizzazione della lira con l’aiuto dei prestiti americani rafforzò la nuova compagine governativa di centro e divenne una delle premesse più importanti della vittoria del 18 aprile 1948. Decisivi per tale ristrutturazione furono gli aiuti del Piano Marshall che, attraverso i fondi dell’European Recovery Program (ERP) affluirono in Italia per ricostruire l’apparato industriale e finanziare gli investimenti agricoli e le opere pubbliche. Mentre la autorità statunitensi indicavano come obiettivo del piano Marshall uno sviluppo economico da avviare con una programmazione di tipo Keynesiano, il governo italiano puntava soprattutto all’equilibrio della bilancia dei pagamenti, al pareggio del bilancio statale, alla limitazione delle spese statali ed alla restrizione del credito e degli investimenti, ritenendo preminente la stabilizzazione monetaria rispetto al problema dello sviluppo economico e dell’occupazione. Assieme alle sollecitazioni statunitensi, le lotte sociali sia nelle campagne che nelle fabbriche contro la disoccupazione e a favore del miglioramento delle condizioni di vita diedero una forte spinta verso una graduale correzione in senso riformista della politica economica governativa. La decisione governativa di attuare una politica riformista si concretizzò nella riforma agraria, nell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e nel piano Ina-Case. Il governo De Gasperi, ritenendo di poter efficacemente contrastare la crescente influenza politica dei partiti di sinistra fra le masse rurali del Mezzogiorno, decise di rinunciare ad una riforma agraria generale e di avviare alcune leggi per aree comprensoriali volte all’espropriazione dei terreni scarsamente produttivi da distribuire alle famiglie contadine: la legge Sila (Calabria), la legge stralcio (Delta padano, Maremma toscana, Campania e Puglia) e la legge di riforma agraria (Sicilia) furono i provvedimenti di riforma agraria nel 1950 in quella direzione. I risultati di queste riforme si poterono apprezzare solo al Nord dove gli Enti di riforma realizzarono infrastrutture, opere irrigue e case coloniche. Le riforme nel Mezzogiorno contribuirono a cancellare i residui degli antichi privilegi di carattere feudale. Allo scopo di assecondare la formazione di un largo strato di piccola e media proprietà contadina fu varato un piano di intervento nell’Italia meridionale mediante l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno ed emanata una legge per la costituzione di istituti speciali di credito agevolato. L’azione della Cassa si limitò a creare infrastrutture (strade, ferrovie, energia elettrica e acquedotti) nella vana speranza di spostare la localizzazione degli investimenti dal Nord al Sud del Paese, tralasciando iniziative volte a migliorare il settore industriale. Un’altra iniziativa riformistica fu il piano Ina-Case che prevedeva un intervento pubblico nel ramo dell’edilizia residenziale e quindi la costruzione di alloggi a basso costo destinati ad essere affittati ai lavoratori dipendenti. Nei primi anni cinquanta la ricostruzione poteva considerarsi conclusa con notevoli ripercussioni sulla distribuzione degli investimenti, della produzione, del reddito e dell’occupazione nei tre settori economici tradizionali; si ridusse notevolmente il settore agricolo, mentre crebbero gli altri due in particolare il terziario. IL MIRACOLO ECONOMICO Dal 1953 al 1963, l’economia italiana sviluppò i livelli di crescita più elevati della sua storia. Il dato più rilevante fu l’incremento del commercio estero che risultò essere il fattore trainante del “miracoloso” decollo

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economico italiano, oltre alla stabilità monetaria ed il pareggio del bilancio statale. L’economia italiana fu caratterizzata da un alto grado di sviluppo industriale (i cui ritmi di crescita furono i più alti del mondo), accompagnato da una forte avanzata del terziario e da una graduale riduzione del settore agricolo. I rami che mostrarono lo sviluppo più rapido furono la produzione siderurgica, quella del ferro, dell’energia elettrica e soprattutto quella automobilistica. L’Italia riuscì ad entrare fra i dieci paesi più industrializzati del mondo. I fattori propulsivi di questo decollo, comuni agli altri paesi europei, furono gli aiuti economici e finanziari degli Usa, il mantenimento del valore della moneta nazionale rispetto al dollaro, il rinnovamento degli impianti e dei processi tecnologici, l’utilizzazione di fonti energetiche meno costose, nonché la diffusione di nuovi prodotti di largo consumo. Inoltre i profitti crescenti, l’assenza di inflazione e la bilancia dei pagamenti in attivo furono i connotati più originali che caratterizzarono lo sviluppo economico italiano rispetto a quello degli altri paesi europei. L’abbondanza di manodopera e l’iniziale struttura arretrata dell’economia furono determinanti nell’avvio del decollo economico poiché contribuirono a rendere debole la forza contrattuale dei sindacati e quindi basso il livello salariale. Il numero globale degli occupati diminuì in quanto l’esodo dalle campagne non fu sufficientemente compensato dalla crescita, sia pur notevole, degli altri due settori. L’ampiezza dell’offerta rese la forza lavoro a buon mercato, consentendo all’industria di produrre a bassi costi e di presentarsi sul mercato internazionale con prezzi competitivi. La crescita degli investimenti privati, accompagnata da un forte incremento delle esportazioni e da una notevole domanda interna, produsse un accelerato sviluppo economico. Si venne così a creare una tendenza alla crescita delle esportazioni e in maggior misura delle importazioni, che produsse un disavanzo della bilancia commerciale. Poiché era l’andamento della domanda internazionale a determinare lo sviluppo dell’economia italiana, esso era estremamente fragile in quanto strettamente dipendente dalle esportazioni che difficilmente avrebbero potuto continuare ad espandersi fondandosi su una produttività legata al basso costo del lavoro. L’economia italiana non avrebbe potuto mantenere a lungo l’equilibrio della propria struttura, presentando al proprio interno un alto tasso di disoccupazione, forti disuguaglianze sociali e un dualismo economico Nord-Sud che andava accentuandosi. Le aziende a partecipazione statale diventarono sempre più numerose dopo che nel 1948 fu deciso il mantenimento dell’IRI. La fondazione dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), ad opera di Enrico Mattei, e soprattutto la sua attività politica produttiva e commerciale nei rami chimico e petrolchimico rappresentarono una svolta nell’autonomia gestionale dell’impresa pubblica in Italia. Nel corso degli anni cinquanta l’IRI riuscì a cancellare la sua immagine di ente di pura assistenza alle imprese in difficoltà e a creare uno dei più forti gruppi industriali europei, rendendosi autonomo dalle grandi industrie private. In complesso, le partecipazioni statali svolsero un ruolo di supplenza e di integrazione nei confronti dell’industria privata, creando quelle infrastrutture necessarie ad una più intensa accumulazione capitalistica, alle quali l’iniziativa privata non intendeva sobbarcarsi. Il Mezzogiorno venne fortemente penalizzato durante il cosiddetto “miracolo economico” dall’imponente esodo verso il Nord e verso l’estero. Nel settore agricolo, poiché alla riforma agraria e all’alleggerimento del carico demografico non si accompagnò alcun serio tentativo di trasformazione colturale e di riorganizzazione commerciale, alla fine di un decennio di assenza di una politica agraria il valore medio della produzione per ettaro si ridusse a circa la metà di quello del settentrione. Questa situazione di crisi del Mezzogiorno non mancò di riflettersi sull’intero sistema economico. Infatti, quando si esaurì l’afflusso di lavoratori dalla campagna e il Nord si avvicinò ad una condizione di piena occupazione, la pressione della domanda sul mercato del lavoro determinò un’inversione di tendenza della dinamica salariale: i primi aumenti dei salari non trovando un’adeguata offerta di prodotti e di servizi, misero in moto una spirale inflazionistica. Nel frattempo la ricerca di nuovi equilibri politici porterà alla formazione di una coalizione di centro-sinistra, all’interno della quale si aprirà un dibattito per risolvere il dislivello economico tra Nord e Sud, l’avvio di una razionalizzazione dell’agricoltura, la riforma urbanistica e il soddisfacimento dei bisogni sociali che avrebbero potuto evitare l’impatto inflazionistico degli aumenti salariali. CARATTERI E TENDENZE DELL’ECONOMIA ITALIANA NELL’ULT IMO TRENTENNIO Per frenare la crisi economica, aggravata dalla fuga dei capitali all’estero verificatasi a causa della nazionalizzazione dell’industria elettrica con la creazione dell’Ente Nazionale per l’Energia elettrica (ENEL), il governo di centro-sinistra avviò una rigida stretta creditizia che condusse al rallentamento dell’inflazione e al pareggio della bilancia dei pagamenti, ma provocò un’improvvisa caduta della produzione industriale e degli investimenti, con conseguenze negative sull’occupazione e sui consumi. Il punto di partenza della programmazione da introdurre nella politica economica governativa va ricercato nella Nota aggiuntiva che Ugo

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La Malfa presentò nel 1962 al Parlamento; in essa si prospettavano interventi governativi, finalizzati al superamento degli squilibri settoriali e territoriali, che , attraverso il fisco, avrebbero dovuto prelevare dai redditi più alti e dai consumi di lusso i capitali necessari per stimolare gli investimenti produttivi privati e per accrescere gli investimenti pubblici. Tutto ciò sarebbe dovuto avvenire con la collaborazione dei sindacati e dei lavoratori che, al posto degli aumenti salariali, avrebbero dovuto richiedere miglioramenti ai servizi sociali. Alla Nota aggiuntiva seguì il Rapporto Saraceno del 1964 nel quale venne indicata una ripartizione, attraverso provvedimenti legislativi, della spesa statale a favore del Mezzogiorno nella misura del 45% degli investimenti pubblici e del 40% dei posti i lavoro. E’ certo che gli interventi pubblici, tramite le partecipazioni statali, si accrebbero notevolmente, ma è anche vero che vennero fatti senza alcun coordinamento e non produssero i risultati previsti dai piani quinquennali varati dal governo, lasciando immutate le distanze economiche tra il Nord e il Sud. Il meccanismo di funzionamento dell’economia non fu quindi modificato e, non appena apparvero i primi sintomi di ripresa, si continuò a puntare al potenziamento della produttività delle industrie esportatrici, abbandonando i progetti più avanzati di programmazione e di sviluppo del Mezzogiorno. Il risultato della suddetta politica economica, carica di contraddizioni ed incertezze, fu la consolidazione di un vasto settore pubblico, in mano di tre colossi, l’IRI, l’ENI e l’ENEL. Il processo di sviluppo degli anni Sessanta aveva provocato un’eccessiva concentrazione della crescita nell’area del triangolo industriale, facendo sorgere problemi sociali connessi con la lievitazione dei prezzi e dei fitti delle abitazioni, con le carenze nei trasporti e nei servizi scolastici e sanitari. Durante gli anni sessanta si verificarono anche a livello internazionale mutamenti e squilibri (svalutazione del dollaro per le spese militari in Vietnam) così rilevanti da costringere le imprese ad aumentare i prezzi per mantenere alti i profitti. In tale contesto, le lotte operaie del 1969 condotte in Italia per il rinnovo del contratto di lavoro, provocarono aumenti salariali che fecero allineare il costo del lavoro a quello dei maggiori paesi europei, dopo quasi un ventennio nel quale i livelli salariali erano stati nettamente più bassi. L’approvazione dello Statuto dei lavoratori, nel 1970, creò ulteriori tensioni sociali all’interno del sistema industriale italiano. Aumentò così l’inflazione derivata dalle crescita della domanda non controbilanciata da un’adeguata offerta. Si imboccò la via di mantenere bassi i tassi di interesse nella speranza di rendere convenienti gli investimenti produttivi. Purtroppo, nell’ottobre del 1973, lo shock provocato dall’aumento del prezzo del petrolio fece esplodere tutte le tensioni e gli squilibri che si erano creati negli ultimi cinque anni, dando il via ad una rilevante crescita dei prezzi ed annullando gli effetti della svalutazione della lira. La spinta inflazionistica (stagflazione) si accompagnò alla stagnazione economica e proseguì lungo il corso degli anni Settanta e portò il sindacato ad adottare una politica di difesa del migliorato livello salariale. Il costo del capitale divenne così elevato da scoraggiare gli investimenti; si sarebbe dovuto puntare sugli investimenti, invece si assunse come obiettivo lo sviluppo del Mezzogiorno e la difesa dell’occupazione. Nacque in questo periodo la Cassa integrazione che addossò allo Stato il mantenimento dei lavoratori alle grandi imprese in difficoltà. L’elevato costo del denaro colpì la chimica, la siderurgia, le imprese dei servizi telefonici e la FIAT perdette la sua competitività in campo internazionale. Viceversa le piccole e medie imprese riuscirono ad espandersi, in quanto contando sull’erogazione di salari più bassi ebbero bisogno di una minore quantità di capitali. Unico freno alla lievitazione della domanda fu l’aumento della pressione fiscale, dovuto al meccanismo della progressività delle aliquote delle imposte dirette combinato con la crescita dell’inflazione (fiscal drag). A partire dal 1981 il prezzo del petrolio greggio si abbassò, facendo diminuire l’inflazione a livello internazionale che inoltre riceveva una spinta dall’eccessivo aumento dei prezzi dei servizi. Soltanto dopo il 1983 si cominciò ad uscire dall’inflazione e si avviò un nuovo ciclo economico nel quale il reddito riprese a crescere, stimolato dai consumi interni in espansione a causa degli aumenti retributivi. La grande impresa, che ormai non era più la forza trainante dell’economia italiana, cominciò a risollevarsi recuperando il terreno perduto nei confronti delle piccole e medie imprese che persero il vantaggio di poter usufruire di livelli salariali più bassi. Negli anni Ottanta il capitale finanziario si espanse anche in Italia; il centro dell’attività finanziaria si spostò dal sistema bancario ad un sistema costituito da holding e società di servizi assicurativi e finanziari. La disoccupazione andò aumentando e il debito pubblico si fece sempre più pesante. La ripresa economica fu resa possibile dalla politica monetaria della Banca d’Italia che riuscì a ridurre l’inflazione e a mantenere stabili i cambi, rendendo così possibile una sviluppo del commercio tra i paesi della CE.

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L’ECONOMIA CONTEMPORANEA NELLE GRANDI AREE GEOGRAFICHE E I PROBLEMI DEL SOTTOSVILUPPO

RIPRESA E SVILUPPO DEI PAESI DELL’EUROPA OCCIDENTALE ( 1946 – 1970 ) LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DEL SECONDO CONFLITTO Con la conclusione della guerra, da una parte si intravedeva l’incombente pericolo dei partiti comunisti, che andavano man mano affermandosi con l’aiuto dell’Unione Sovietica; dall’altra in molti si rafforzava l’idea di un ritorno al sistema economico liberale, che gli anni della guerra ed i precedenti regimi autoritari nazionali – fascisti avevano in gran parte intaccato. Di qui la formazione di due blocchi: l’Unione Sovietica ed i suoi satelliti, che costituivano anche un blocco economico sancito nel 1949 con il Comecon; e le potenze occidentali che avrebbero costituito altre istituzioni economiche intese ad integrare le rispettive economie e un’alleanza militare, la NATO (North Atlantic Treaty Organisation). Nei primi mesi dalla fine della guerra la produzione industriale si riprese molto rapidamente grazie alle disponibilità di carbone e materie prime, ma nel 1947 i danni provocati dalla guerra si manifestarono in pieno: non solo le distorsioni nella struttura economica dell’Europa, ma anche le difficoltà di ritornare ai tradizionali mercati di rifornimento e di sbocco. Delicata si presentò la situazione nel settore agricolo e soprattutto in quello alimentare, ma anche nella produzione di materie prime (carbone, petrolio, acciaio, alluminio ecc.). Alla crisi produttiva si aggiunse il cosiddetto dollar gap cioè la scarsa disponibilità di questa moneta. Bisognerà attendere il 1948 per l’arrivo degli aiuti economici del Piano Marshall e la Convenzione per la cooperazione economica europea (OECE) con il compito di attuare una maggiore solidarietà economica e politica tra gli Stati del vecchio continente e coordinare il Piano. LA RICOSTRUZIONE E L’AVVIO DI NUOVE REGOLE NELLA GESTIONE DELL’ECONOMIA: NAZIONALIZZAZIONI E PROGRAMMAZIONE Nonostante la pessima situazione la ripresa economica fu abbastanza rapida e nel caso dell’Italia e della Germania fu definita “miracolosa”. Nel 1949 quasi tutti i paesi europei occidentali avevano raggiunto i livelli anteguerra. I progressi più rapidi nel 1949 si ebbero nei paesi vincitori, Francia e Gran Bretagna; dal 1955 invece Italia e Germania compirono un grande balzo in avanti. Tali progressi non si sarebbero potuti verificare se accanto al Piano Marshall non si fosse avviato un processo di riordino del sistema monetario internazionale e l’avvio di una collaborazione economica tra i vari paesi a livello mondiale. Basti ricordare gli accordi di Bretton Woods che permisero la nascita del Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS), oltre al GATT (Accordo generale sulle tariffe e sul commercio). Le strade imboccate dai governi non furono le stesse: mentre alcuni paesi ritenevano di dover preservare in tali frangenti un ordine liberale, pur in presenza di un governo in grado di rafforzare il suo intervento in ambito nazionale ed internazionale; altri, e furono la maggioranza, rivendicarono allo Stato un maggiore controllo, che venne poi a tradursi in due principali strumenti operativi: nazionalizzazioni e programmazione. In particolare la programmazione segnò un momento di particolare importanza nella vita economica e sociale di alcuni Stati in quanto non aveva mai avuto grandi tradizioni nell’Europa occidentale, anzi era ritenuta un’esclusiva dei paesi collettivistici dove, soprattutto in Unione Sovietica, aveva trovato applicazione con risultati abbastanza positivi. IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA A conclusione del conflitto non erano pochi a ritenere che la posizione politica, economica e militare dell’Europa si era particolarmente indebolita, quasi ingabbiata tra la crescente potenza sovietica e la tutela economica degli Usa. Per uscire da questa situazione era necessario migliorare le relazioni fra i paesi e ridurre al minimo le tensioni e le rivalità economiche che fino ad allora avevano reso l’Europa un insieme slegato di

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paesi indipendenti. Vennero così costituite inizialmente l’Unione economica del Belgio, Lussemburgo e dei Paesi Bassi (Benelux) nel 1948 e la Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA) nel 1951. Alla seconda, sostenuta dal ministro francese Schuman, si accordarono la Germania federale, l’Italia e i paesi del Benelux, mentre la Gran Bretagna, che aveva nazionalizzato le industrie di carbone e acciaio, non aderì. La CECA prevedeva un controllo sulle industrie del carbone e dell’acciaio dei sei paesi aderenti per i quali le decisioni prese dovevano essere considerate vincolanti ei suoi obiettivi erano: stimolare la produzione, rendere efficienti la imprese e quindi pervenire ad una progressiva diminuzione dei prezzi del carbone e dell’acciaio. Nel 1957 i paesi che avevano partecipato alla CECA si ritrovarono a Roma per firmare due trattati, che stabilivano la creazione di una Comunità europea per l’energia atomica (EURATOM) e la nascita della Comunità economica europea (CEE) o Mercato comune europeo (MEC). Il primo trattato prevedeva l’uso pacifico dell’energia atomica attraverso la creazione dei relativi impianti e centri di ricerca; il secondo la graduale liberalizzazione della circolazione di merci, capitali e manodopera fra i sei paesi partecipanti: Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia, Italia e Germania federale. Per quanto riguarda la CEE è opportuno ricordare due punti qualificanti: la graduale eliminazione dei dazi sull’importazione e delle limitazioni quantitative su tutti gli scambi tra i paesi membri; l’introduzione di una tariffa esterna comune, che doveva rappresentare la media aritmetica dei dazi applicati dai singoli Stati. A fianco della CEE veniva creata la Banca europea degli investimenti (BEI) con il compito di concedere prestiti ed effettuare investimenti nelle regioni sottosviluppate dei paesi aderenti. Nel 1959 la Gran Bretagna, i paesi scandinavi, la Svizzera, l’Austria e il Portogallo crearono l’ Associazione europea di libero scambio (EFTA) con compiti assai più limitati rispetto a quelli della CEE, in quanto non eliminava i dazi sui prodotti agricoli, non imponeva una tariffa esterna e consentiva ad ogni membro la possibilità di ritirarsi dall’adesione in qualsiasi momento. Visti gli scopi assai limitati della EFTA, nel 1972, la Gran Bretagna, l’Irlanda, la Danimarca e la Norvegia entrarono a far parte della CEE. Nel 1981 aderì la Grecia e nel 1986 Spagna e Portogallo. ECONOMIA E TRASFORMAZIONI STRUTTURALI TRA SVILUPPO E CRISI (1950 - 1968) Il progresso economico dei paesi occidentali in questi anni evidenzia due aspetti importanti: un elevato ritmo di sviluppo ed una sensibile riduzione dell’ampiezza delle fluttuazioni, nel senso che le fasi recessive, verificatesi tra gli anni ’40 e ’60, non sembrano aver segnato sostanziali inversioni di tendenza, ma semplicemente flessioni congiunturali. In tali condizioni non stupisce se nella seconda metà degli anni ’60 riaffiorasse il grave fenomeno della disoccupazione, che nel decennio precedente si era mantenuta a livelli assai modesti. L’aumento dei redditi, particolarmente accentuato nel settore industriale, creò un notevole incremento dei consumi che attivarono una sorta di rivoluzione sociale, che avrebbe influenzato abitudini, valori individuali e collettivi e le stesse condizioni dei lavoratori. GLI STATI UNITI NELL’ECONOMIA INTERNAZIONALE (1946 - 1975) L’ECONOMIA POSTBELLICA E GLI AIUTI ALLA RICOSTRUZIONE Uno degli effetti più importanti della seconda guerra mondiale fu quello di avere trasformato gli Usa da una “grande” potenza mondiale “nella” potenza mondiale. Essi riuscirono a mantenere intatte le proprie risorse, limitando di molto le perdite in vite umane. I fattori che resero indolore il passaggio da guerra a pace furono:

- la conversione attuata in tempi piuttosto rapidi dell’industria dalla produzione di guerra a quella di pace, grazie alle riduzioni fiscali, l’abolizione dei controlli e al mantenimento di un livello alto di spesa pubblica.

Il principale problema dinanzi al quale venne a trovarsi l’economia statunitense nel periodo postbellico non fu quindi la depressione, quanto il progressivo processo di inflazione monetaria: da una parte gli imprenditori che richiedevano sensibili aumenti dei prezzi, dall’altra i lavoratori che dopo anni di sacrifici affrontati durante la guerra pressavano per notevoli aumenti salariali. Nel biennio 1946-47 i numerosi scioperi nelle industrie maggiori e le forti pressioni esercitate dagli imprenditori sull’Amministrazione riuscirono a far si che i prezzi aumentassero, di qui il timore di un pericoloso processo di avvitamento dell’economia, che presto avrebbe potuto portare ad una grave crisi (aumento della disoccupazione e diminuzione della produzione). I provvedimenti tampone non si fecero attendere: da una parte si agì sulla leva fiscale, riducendo il carico in modo da stimolare la domanda dei beni di consumo; dall’altra con l’inizio della guerra di Corea, nel 1950, l’amministrazione diede il via ad un consistente aumento delle spese statali, che andarono a beneficio della

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grandi imprese industriali; un ulteriore fattore tampone fu l’imponente mole di aiuti in beni e in dollari (ERP) concessi ai paesi europei (principalmente assorbiti da Francia e Gran Bretagna). LA PROSPERITA’ DEGLIA NNI ’50 ED I PRIMI SINTOMI DEL LA CRISI Nonostante il gravoso impegno nella ricostruzione dell’economia europea, l’inizio della guerra fredda, la corsa agli armamenti con l’Unione Sovietica ed infine l’apertura delle ostilità in Corea, gli anni ’50 rappresentarono per gli Usa un periodo di grande progresso economico e sociale. Vi concorreva in modo significativo l’aumento demografico che fece aumentare le dimensioni delle grandi società che andarono sempre più utilizzando i processi di automazione. Il processo di automazione creò non poche difficoltà nell’utilizzo di manodopera operaia e andò a colpire i ceti più deboli, i gruppi minoritari e di colore. In sostanza, alla fine degli anni ’50, pur in presenza di un benessere assai diffuso, sembravano affiorare alcuni nodi: la povertà, la disoccupazione, l’inflazione ed il deterioramento delle condizioni di vita ed igieniche nelle grandi città, nodi che tuttavia non impedirono agli Usa di rimanere al centro del sistema economico internazionale. L’INDEBOLIMENTO DELL’ECONOMIA ED IL RUOLO DEL DOLLAR O Agli inizi degli anni ’60 la posizione egemonica degli Usa nel contesto internazionale subiva un lento ma continuo ridimensionamento. Il peso finanziario sostenuto per mantenere un importante ruolo politico – militare cominciava ad incidere sulla bilancia dei pagamenti. Infatti la produzione americana da leader indiscussa negli anni ’60 cominciò ad essere ostacolata da quella europea e giapponese a partire dagli anni ’70. Nonostante ciò gli Usa riuscirono a mantenersi al centro del sistema capitalistico occidentale, grazie al ruolo del dollaro nel sistema monetario internazionale, che non solo era stata utilizzata nei pagamenti tra i vari paesi, grazie alla parità fissa con l’oro, ma aveva rappresentato il principale strumento di riserva della banche centrali, che di conseguenza avevano tutto l’interesse di offrirle un’ampia azione di sostegno. La progressiva perdita di valore del dollaro negli anni ’60 fu quindi sostenuta dai paesi capitalistici, che ottennero in cambio l’impegno da parte americana di continuare ad accollarsi le spese per la difesa comune e mantenere il rango di potenza mondiale. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA ED IL RUOLO D ELLE MULTINAZIONALI Gli Usa riuscirono a svolgere sino ai primi degli anni ’70 un ruolo significativo in campo economico e finanziario, puntando in particolar modo sulla internazionalizzazione della loro economia con l’aiuto delle cosiddette “multinazionali”. Nel 1971 le varie Corporation americane possedevano ormai il 52% dello stock mondiale di investimenti “diretti” all’estero. Diversi i fattori che avevano spinto le multinazionali a spostare oltre confine parte della loro produzione: minor costo del lavoro, vicinanza ai luoghi di approvvigionamento delle materie prime, facilitazioni fiscali e la conquista di nuovi mercati. Nonostante ciò la concorrenza europea e giapponese colpì la produzione americana che, dopo gli inizi degli anni ’70, perse il suo ruolo egemonico. D’altronde successe ciò che era successo un secolo prima alla Gran Bretagna, con la differenza che quest’ultima aveva puntato unicamente sugli investimenti “indiretti” (impieghi di natura finanziaria), mentre gli Usa con le multinazionali avevano allargato la loro base produttiva, mirando soprattutto a quelli “diretti” I RAPPORTI ECONOMICI TRA L’URSS E I PAESI DELL’EST EUROPEO L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA SOVIETICO (1953 - 1980) Con al morte di Stalin si ebbe un’evoluzione del sistema sovietico che si accelerò dopo il 1965. Dopo la II guerra mondiale l’economia sovietica poteva definirsi un’economia moderna e il governo, per modernizzare l’agricoltura e ottenere rendimenti più elevati, seguì una politica di concentrazione delle aziende, sicché il numero dei kolkhoz si ridusse notevolmente. Inoltre, a partire dal 1958 sarà lasciata ai kolkhoz maggiore autonomia, permettendo loro di gestire direttamente le proprie attrezzature già nelle mani della SMT. I primi cambiamenti si intravidero alla fine del 1955 con l’elaborazione del Sesto piano che puntava su un miglioramento della produttività, attraverso la razionalizzazione dell’organizzazione e dei metodi di lavoro nonché sull’utilizzazione al meglio dei capitali esistenti. Rivelatosi troppo ambizioso venne abbandonato nel 1957 e sostituito dal 1959 da un piano settennale, che a sua volta venne integrato a un piano ventennale, abbandonato anch’esso per ritornare ai piani quinquennali. Sul piano delle istituzioni, la prima ad essere investita dalla riforma fu il Gosplan, già preposto nel 1957 alla pianificazione annuale, affiancato dal Consiglio economico di stato dell’Urss incaricato della pianificazione a lungo termine. Nel 1963, infatti, le funzioni di quest’ultimo passarono al Gosplan e al suo posto fu creato il Sovnarkhoz dell’Urss con il compito di occuparsi

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dei piani annuali. Inoltre fu creato il Gasstroi preposto alla pianificazione degli investimenti. Tutti e tre furono posti sotto il controllo del Consiglio superiore dell’economia nazionale. Nel 1965 si pervenne alla riforma della gestione delle imprese: dal sistema territoriale (del decentramento) si tornò a quello settoriale e si riconobbe alla produzione un carattere capitalistico che s’ispirava a criteri di produttività e si lasciò all’impresa la possibilità di agire sugli elementi quali impieghi, salari, nuovi investimenti e riforma del sistema dei prezzi. Ciò avvenne in modo graduale e nel 1973 la creazione di un nuovo organismo (le Unioni industriali) portò verso il principio territoriale. I contraccolpi della crisi internazionale furono assorbiti molto bene dai paesi dell’est data la minore elasticità in campo industriale e sul piano istituzionale; l’economia sovietica rimaneva anchilosata nel suo immobilismo. Da quel momento il solco tra i due mondi si approfondirà e le tensioni diverranno insostenibili quando, nel corso degli anni ’80, il presidente americano Reagan intraprenderà una potente politica di riarmo; per l’Urss significava raddoppiare l’importo da destinare alle spese militari, mentre il suo PIL era soltanto la metà di quello degli Usa; quando Breznev decise di accettare la sfida trascinò il paese nella catastrofe. Gorbaciov, arrivato al potere nel 1985, si rese subito conto della crisi e cercò di porvi riparo. Egli puntò su una riforma radicale della politica economica le cui linee fondate sulla glasnost (libertà di espressione) miravano all’intensificazione della produttività ed all’accelerazione del ritmo della crescita. La riforma di tutte le strutture economiche (perestroika) doveva consistere in una “combinazione tra centralismo democratico e autonomia amministrativa”: una vera e propria contraddizione. Gorbaciov vedeva di buon occhio il ritorno a qualcosa simile alla NEP di Lenin, in cui lo Stato avrebbe mantenuto il controllo dei settori chiave dell’economia e lasciato gli altri ad una limitata iniziativa privata. L’enorme burocrazia e la diffusa corruzione incepparono tutti i meccanismi e neutralizzarono i tentativi di riforma. Così Gorbaciov decise di ristrutturare l’economia sovietica secondo i principi di un socialismo di mercato ispirato al modello occidentale di economia mista, ma senza alcun risultato, trascinando il paese in una vera e propria catastrofe. IL COMECON: OVVERO L’INTEGRAZIONE DELLE ECONOMIE PIANIFICATE Nel 1949, in risposta alla situazione dell’OECE, l’Urss creò il COMECON (Comitato per l’Assistenza formato da Urss, Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Romania, RDT dal 1950 e Jugoslavia dal 1956) nel tentativo di dare maggiore coesione alle economie dei paesi suoi satelliti. Esso segnò la fine della cooperazione dei paesi dell’Europa orientale con la Commissione Economica per l’Europa (ECE) dell’ONU. Il Comecon costituiva la prima organizzazione che riuniva ufficialmente l’Unione sovietica e i suoi alleati in quanto il Cominform, istituito nel 1947, riuniva soltanto i partiti politici e sanciva l’alleanza diplomatica e militare. La divisione in due blocchi portò ad una polarizzazione estrema: i ricchi con i ricchi e i poveri con i poveri. Inoltre i paesi dell’OECE avevano da spartire tra loro gli aiuti del Piano Marshall mentre i paesi membri del Comecon, cioè della zona più povera e che aveva subito maggiori devastazioni belliche, dovevano per la maggior parte pagare le riparazioni di guerra all’Unione Sovietica. Inoltre non si sviluppò come in Europa occidentale, un sistema di scambi multilaterali e gran parte dei commerci sia con l’Urss che tra i consociati rimasero bilaterali. Tutte le democrazie popolari erano più o meno la riproduzione in miniatura dell’Unione Sovietica e il fatto che esse continuarono a redigere ciascuna il proprio piano portò ad uno sviluppo economico squilibrato. LE DEMOCRAZIE POPOLARI E LO SCISMA JUGOSLAVO Com’è noto il ruolo svolto dall’esercito sovietico nella sconfitta della Germania nazista portò al predominio dell’Urss nell’Europa orientale. Il paese guida che trovava nella Cecoslovacchia la seconda roccaforte politica e un discreto appoggio nella Bulgaria, avvertiva due punti deboli nell’Ungheria e soprattutto nella Polonia. Quanto all’instaurazione dei nuovi regimi politici si possono distinguere due modelli: uno “generale” e l’altro “jugoslavo”. Mentre le tappe più importanti della realizzazione degli obiettivi del cosiddetto “periodo di transizione dal capitalismo al socialismo” si possono così indicare: la riforma agraria (ovunque la classe dei proprietari terrieri fu annientata e portata rapidamente avanti la distribuzione delle terre, dietro pagamento di un prezzo pressoché trascurabile), la nazionalizzazione su vasta scala dell’industria, del sistema bancario, delle costruzioni, dei trasporti e del commercio e l’introduzione della pianificazione centralizzata (gli organismi preposti alla pianificazione trasformati in Gosplan di tipo sovietico). Fa eccezione la Jugoslavia, che si ispirò al decentramento del sistema economico e perseguì l’idea di coniugare l’autogestione con la delega nella elaborazione delle decisioni, nel senso di una progressiva limitazione del

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ruolo dello Stato a favore delle istituzioni dell’autogestione. Nel periodo 1953-56 anche la Jugoslavia spostò gli interessi verso le industrie di beni di consumo e verso l’agricoltura. Nel complesso pochi paesi poterono aderire ai piani quinquennali. Il partito jugoslavo mirava dritto alla realizzazione di cambiamenti da apportare al sistema economico per rendere effettivo il concetto di “socialismo autogestito” eliminando i salari. A giudicare dai ritmi della crescita economica, il sistema del decentramento in direzione di un’economia di mercato ha consentito risultati più che positivi; ma il paese non è sfuggito alla piaga dell’inflazione e della disoccupazione. IL DECLINO DELLE ECONOMIE SOCIALISTE Il modello staliniano di crescita estensiva, caratterizzato da un aumento regolare dell’impiego dei fattori della produzione (il lavoro e soprattutto il capitale), aveva permesso all’Urss di mettere a segno, negli anni ’30, risultati sorprendenti. Esso continuerà a dare buona prova durante la seconda guerra mondiale e nel periodo della ricostruzione. Poi perderà terreno. Ancorato all’industria di base ha mostrato di non essere più in grado di portare avanti la ristrutturazione dell’economia che avrebbe permesso la nascita di una società di consumo più complessa e capace di trarre profitto dall’evoluzione tecnologica. L’applicazione del modello sovietico ai paesi satelliti dopo il secondo dopoguerra diede risultati tangibili, ma in seguito mostrò tutta la sua debolezza. Né questi paesi avevano dimensioni sufficienti per svilupparsi in regime di autarchia conformemente al modello che era stato loro imposto; così come non comportò delle soluzioni valide la creazione del Comecon. L’egemonia politica ed economica dell’Urss su questi paesi ha giocato un ruolo assai rilevante e nel decennio 1966-75 infatti si riorganizzerà attuando una seconda ondata di riforme: riforma della pianificazione e dell’amministrazione; sostituzione degli strumenti direttivi e di controllo e coordinamento con strumenti del sistema di mercato; miglioramento dei redditi agricoli. LA DINAMICA DELL’INVESTIMENTO E IL RUOLO DEL CAPITALE NELLO SVILUPPO ECONOMICO IN GIAPPONE E IN CINA L’ESPLOSIONE DELLA CRESCITA GIAPPONESE (1945 - 75) Nel 1945 l’economia giapponese era praticamente in rovina. Il paese privato delle sue colonie in Manciuria, in Corea e a Formosa dove gli investimenti avevano assunto rilevanti proporzioni, era in preda ad una violenta inflazione. La sconfitta subita si trascinò dietro il mito dell’Imperatore; il disfacimento dell’impero coloniale comportò il rimpatrio di sei milioni di persone; la flotta mercantile fu distrutta; privata degli approvvigionamenti necessari l’industria non poté soddisfare i bisogni e l’agricoltura non fu in grado di assicurare cibo al paese. La recessione più incisiva fu quella del 1949 (recessione del Dodge) e successivamente quelle del 1954, del 1957-58 e del 1962 furono legate alle fasi negative del ciclo economico degli Usa, dal momento che quel mercato assicurava lo sbocco vitale alle esportazioni giapponesi. In agricoltura la riforma fondiaria comportò la riduzione dal 46 al 38% delle terre arabili nelle mani delle grandi imprese e interessò il 70% della popolazione agricola. Nell’industria si ebbe l’eliminazione delle zaibatsu e a partire dagli anni ’50 le grandi imprese giapponesi adottarono una strategia di diversificazione applicando sistematicamente le tecniche di gestione americane. Il sistema di pianificazione dello Stato trasse origine dalla politica dello SCAP (Supremo comando delle potenze alleate) durante l’occupazione militare e nella ricostruzione postbellica. Al fine di prevedere l’evoluzione futura dell’economia fu creata nel 1955 l’Agenzia per la pianificazione economica, che tra questa data e il 1977 mise a punto sette piani. All’inizio i risultati della pianificazione non furono esaltanti; fu dopo lo scoppio della guerra in corea che un notevole afflusso di “divise” fornì i mezzi per intraprendere una politica strutturale di pianificazione. Ancora una volta, il Giappone, pur subendo le riforme imposte dall’occupazione militare, seppe evitare i conflitti che queste avrebbero potuto innescare. Le vecchie industrie, come quelle del cotone, segnavano il passo mentre quella della siderurgia e delle costruzioni navali ebbero uno slancio in avanti. A distanza di un quindicennio dalla fine della guerra l’apparato della vita economica e sociale non solo poteva dirsi ripristinato, bensì ampliato di molto. Gli effetti della pianificazione sullo sviluppo dell’industria giapponese sono stati potenziati dalla graduale ricomposizione delle antiche zaibatsu su basi differenti. Le varie Mitsubishi, Sony e Honda erano ora espressione di nuovi raggruppamenti chiamati keiretsu. I segreti che piegano la rapidità di ripresa sono: un tipo di programmazione che consentiva stretti legami tra governo e mondo imprenditoriale; una struttura salariale completamente diversa da quella occidentale e più suscettibile di correttivi in caso di difficoltà; grande attenzione all’istruzione e alla tecnologia finalizzate allo sviluppo. Ormai il Giappone era in

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grado di aderire ai maggiori organismi internazionali: al FMI (Fondo monetario internazionale) nel 1963, all’OCSE (Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico) nel 1964 e alla BRI (Banca dei regolamenti internazionali) nel 1970. Se il Giappone ebbe una così rapida crescita fu grazie alle opportunità offerte dalle tecnologie di altre nazioni più progredite; all’innalzamento della “capacità sociale”; ma soprattutto grazie ai particolari caratteri della organizzazione politica e sociale del Giappone e del suo sistema educativo. Il Giappone si è collocato negli anni ’80 nel novero delle potenze mondiali. Tokio ha strappato a New York il primato di prima piazza finanziaria nel mondo fino al 1985 quando il ritmo di crescita dell’economia giapponese ha rallentato; da quel momento le industrie giapponesi hanno modificato la loro strategia investendo direttamente nei paesi industrializzati. L’ESTASIA VERSO L’EGEMONIA ECONOMICA MONDIALE Nel secondo dopoguerra il Giappone, sollevatosi dal disastro totale, adottò nei fatti quello stesso motto dell’era Meiji: paese ricco, esercito forte, che lo portò vincitore su Cina e Russia. Ben sei paesi che ne fanno parte: Cina (Taiwan, Hong Kong e Macao), Corea, Indonesia e Tailandia si sono messi sulla strada della crescita e dello sviluppo del Giappone e, insieme a questo, rappresentano circa un terzo dell’umanità. I loro prodotti hanno cominciato ad insediare le esportazioni giapponesi sul mercato americano e a penetrare perfino nel mercato interno del Giappone. Tuttavia la forte dipendenza dal mercato americano ha impedito ai suddetti paesi di realizzare, al pari dell’Europa, un’integrazione economica. L’Estasia e tutta l’area del Pacifico, comprendente l’Australia e la Nuova Zelanda nell’ultimo quarto del secolo sono diventati i protagonisti dell’economia mondiale. LA CINA TRA RIFORME E RIVOLUZIONE (1967 - 1980) Dal 1969 ebbe inizio una fase di stabilizzazione che innescò la crescita con modalità semplicisticamente definite “modello cinese”: priorità accordata all’agricoltura, assorbimento della manodopera rurale in attività extragricole, impianto di piccole e medie imprese industriali. La politica di riforme inaugurata da Deng Xiaoping mirante all’instaurazione di un sistema misto; ossia ispirato a numerosi principi propri delle economie di mercato occidentali ma nel contempo mirante ad aprire l’economia cinese al resto del mondo; ha fatto prendere l’avvio ad un tumultuoso boom economico conseguente alla riconversione ad usi civili dell’apparato industriale militare. I risultati sono stati l’aumento della produzione agricola (autosufficienza in campo alimentare) e l’aumento del numero dei posti di lavoro grazie al processo di liberalizzazione. In Cina si sta verificando un fatto del tutto singolare: l’instaurazione di un’economia capitalista da parte di un Partito comunista dove la liberalizzazione politica si è accompagnata al mantenimento di strutture economiche ancora molto rigide, rimaste in gran parte immutate rispetto al passato. DAL SOTTOSVILUPPO ALLO SVILUPPO SOSTENIBILE LA SCOPERTA DEL SOTTOSVILUPPO La teoria coloniale sosteneva la staticità delle popolazioni arretrate all’interno dell’intero sistema dei rapporti sociali, causata dalla tendenza all’ozio, da fattori climatici che ne determinavano l’inefficienza lavorativa e rafforzata dalle istituzioni locali e dalle credenze religiose. Solo occasionalmente si notava che la malnutrizione e, in genere, un livello di vita inferiore incidevano sulla volontà e capacità di lavorare. Negli anni ’20 e ’30 di questo secolo, l’atteggiamento ideologico e pragmatico verso il colonialismo cominciò a mutare. Nel 1941, la Carta atlantica sancì il diritto all’autodeterminazione dei popoli; due anni più tardi, alla conferenza di Hot Spring, i delegati di 45 nazioni rivelarono le condizioni di sottonutrizione che esistevano in un gran numero di Paesi e si accordarono per “cancellare o almeno schiarire” dalla demografia qualitativa le macchie nere della fame. FAO e ONU pubblicheranno i dati relativi all’alimentazione e il reddito pro-capite nei diversi paesi. LE CAUSE DEL SOTTOSVILUPPO I neo-marxisti attribuirono le origini del sottosviluppo al colonialismo, i neo-liberisti le imputavano anche a fattori geo-economici, che avevano impedito l’avvio di un processo autonomo di crescita. Le regioni arretrate subirono un processo di sviluppo a cicli, nel quale determinate aree assumevano un ruolo primario in funzione della domanda che proveniva dalle nazioni ricche: il Brasile con lo zucchero, il caffé, l’oro e i diamanti; l’Africa con i metalli preziosi, i diamanti, il mais, il caffé, il legno e l’avorio; l’Asia con il cotone , i manufatti.

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La tesi del colonialismo come causa del sottosviluppo spiegava anche il livello di denutrizione della popolazione ed il suo aumento accelerato. La fame era la conseguenza dello sfruttamento monocolturale della terra, la cui coltivazione era finalizzata, invece che al soddisfacimento dei bisogni alimentari, all’economia di esportazione e al massimo profitto. Da qui, la persistenza di malattie endemiche da carenze nutritive, il deperimento del capitale umano e la sua inefficiente capacità lavorativa, l’accentuato incremento demografico causato dalla breve vita media, che comportava una giovanissima età al matrimonio ed una elevata fecondità. Gli studiosi neo-liberisti concordavano sulle conseguenze negative del colonialismo, ma ampliavano le cause del sottosviluppo ad altri fattori. Essi rilevavano che i paesi poveri si trovano nella fascia equatoriale, tropicale e sub-tropicale, le cui condizioni climatiche avevano ridotto la varietà colturali ed impedito rese elevate. L’azione negativa del clima, che determinava altresì un processo di laterizzazione dei terreni, diminuendone progressivamente la fertilità, si rifletteva non soltanto sui bassi livelli alimentari di quelle popolazioni, ma anche sulla diffusione di molte malattie endemiche e sul maggior dispendio di energie nello svolgimento dell’attività lavorativa. Più tardi, l’esempio di Israele e la messa in valore di zone desertiche mostreranno che le cause naturali dell’arretratezza potevano essere superate, o quanto meno attenuate, grazie a tecniche che richiedevano, però, ingenti capitali. LO SVILUPPO SOSTENIBILE Negli anni ’70 la crisi petrolifera mutò il quadro dell’economia internazionale, in conseguenza dell’inversione dei termini di scambio e dell’alto grado di dipendenza dal greggio dei Paesi industrializzati e di quelli in via di sviluppo. Questi ultimi furono costretti ad indebitarsi ulteriormente per sopperire ai consistenti disavanzi delle loro bilance commerciali; mentre i primi dovettero fronteggiare i problemi della stagflazione e della disoccupazione. In questo contesto, l’interesse per il Terzo mondo perse il suo slancio iniziale, anche perché proprio diverse nazioni arretrate detenevano, di fatto, il monopolio della produzione del petrolio, estraendone circa il 70%. Non a caso, parte di questi paesi, che nel 1960 avevano costituito la Organisation of the Petroleum Exporting Countries (OPEC), registrò, in quegli anni, il reddito pro-capite più alto del mondo(Qwait, Emirati Arabi, Arabia Saudita). La contraddizione all’interno di questi paesi tra l’aumento quantitativo della ricchezza, accentrata nelle mani di esigue oligarchie o di sparuti gruppi di potere, e le generali condizioni di miseria delle popolazioni, ancora succubi dell’analfabetismo, di condizioni igenico-sanitarie al limite della sopravvivenza e di una mortalità infantile particolarmente elevata, attirò sempre più l’attenzione degli economisti sugli aspetti qualitativi della crescita e, in particolare, sui fattori non classici dello sviluppo, quali istruzione, educazione scientifica e culturale, formazione del capitale umano. Agli inizi degli anni ’80, è nato l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, che implica “la massimizzazione dei benefici netti dello sviluppo economico, sotto il vincolo del mantenimento dei servizi e della qualità delle risorse naturali nel tempo”. Ciò implica l’utilizzazione delle risorse rinnovabili a tassi uguali a quello naturale al quale esse possono rigenerarsi e l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse non rinnovabili, sotto il vincolo della sostituibilità con il progresso tecnologico. E’ stato notato che è soprattutto la pressione determinata dall’incremento demografico che ha portato, in molti paesi in via di sviluppo, ad una situazione in cui il tasso di utilizzo di risorse rinnovabili della terra e dell’acqua supera la loro capacità di rigenerazione. Il Terzo mondo vive, attualmente, quel processo di transizione demografica che ha caratterizzato, con sfasature temporali diverse, i Paesi europei della fine del 1700 ai primi decenni di questo secolo: partendo da alti tassi di fecondità e di mortalità, tipici di un’economia di ancien régime, si registra un progressivo declino della mortalità, grazie alle scoperte mediche ed al miglioramento dell’igiene. La sostenibilità dello sviluppo segnerà il futuro dell’intero pianeta e sarà misurata dalla capacità dell’uomo di salvaguardare l’ambiente per le future generazioni.

TRA CRISI E “TERZA” RIVOLUZIONE INDUSTRIALE IL MONDO DOPO IL 1973

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----------- ECONOMIA E SOCIETA’

L’ETA’ DELL’INCERTEZZA UNA NUOVA FASE ECONOMICA MONDIALE Se si accetta la teoria dei lunghi cicli economici cinquantenari elaborata dall’economista russo Kondrat’ev, questo periodo corrisponderebbe alla fase discendente della curva che ha conosciuto il suo apice appunto negli anni Sessanta. In primo luogo si è assistito a un rallentamento dei ritmi di crescita dei paesi sviluppati e si sono avute delle vere e proprie diminuzioni della produzione nel 1974-75, nel 1981-82 e nel 1991-93. In secondo luogo si è presentato il nuovo fenomeno della stagflazione: un’altissima inflazione e, nello stesso tempo la caduta della domanda e della produzione (quando invece in precedenza l’inflazione, a parte i periodi bellici, si accompagnava a u surriscaldamento dell’economia, cioè ad un eccesso di domanda). In terzo luogo è cresciuta notevolmente la disoccupazione che appare sempre meno legata all’andamento della congiuntura (anche se l’economia cresce, l’occupazione non aumenta o addirittura può diminuire). Si è assistito poi al fallimento e all’abbandono delle politiche economiche keynesiane, che non riuscivano più a controllare gli enormi disavanzi pubblici e a creare occupazione e sviluppo, sostenendo la domanda aggregata tramite la spesa dello Stato. Si sono imposte pertanto le teorie ultraliberiste ispirate dalla scuola monetarista dell’economista americano Milton Friedman secondo il quale lo Stato deve astenersi il più possibile dall’intervenire nell’economia, limitandosi a creare un clima il più possibile favorevole alla libera iniziativa delle imprese. Corollari di questa tesi sono lo smantellamento dello Stato sociale, riducendo i redditi dei lavoratori. Un ulteriore fenomeno di grande novità è stata la deindustrializzazione dei paesi sviluppati. La produzione industriale si è spostata infatti verso i paesi emergenti, dove il costo del lavoro era basso e non si doveva smantellare lo Stato sociale perché non vi era mai esistito. Parallela al restringimento dell’importanza dell’industria è stata la terziarizzazione dell’economia, ossia la dilatazione delle attività commerciali e di servizio, di carattere più o meno avanzato. Nel contempo l’occupazione agricola si è ridotta ai minimi termini, ma la produttività di questa esigua quota di agricoltori si è aumentata enormemente, forse ancor più della produttività industriale. Nonostante le incertezze, l’ultimo quarto del secolo ha visto uno spettacolare avanzamento delle tecniche, specialmente nell’elettronica; si è parlato dunque di terza rivoluzione industriale, le cui basi scientifiche e tecnologiche sono state tuttavia poste nei decenni precedenti. Ciò che non è cambiato è il predominio economico degli Usa, ma sono da considerare le due economie in ascesa, quella giapponese e quella dei paesi dell’Asia suborientale. Questo allargamento dell’area di sviluppo ha fatto individuare un’era di globalizzazione o di mondializzazione, in cui si è raggiunta la piena integrazione dell’economia mondiale. LA FINE DEL SISTEMA DI BRETTON WOODS E GLI SHOCK PETROLIFERI Prima ancora della crisi petrolifera, si ebbe una crisi valutaria originata dagli Usa, la cui bilancia commerciale e dei pagamenti era fortemente deficitaria. Si arrivò così a una netta sopravvalutazione del dollaro rispetto al suo reale valore. Nel 1971 il presidente Nixon annunciò la sospensione della convertibilità (in oro) del dollaro: segnò la fine del sistema di Bretton Woods, basato su parità di cambio fisse e legate al dollaro, a sua volta ancorato all’oro. Da questo momento i cambi delle varie monete divennero fluttuanti, dando vita alla speculazione e alla relativa instabilità. La crisi petrolifera iniziò alla fine del 1973, in seguito alla terza guerra arabo-israeliana (i paesi arabi aumentarono il prezzo del greggio da 3 a 12 dollari a barile, fino a 34 nel 1982). Le economie dei paesi importatori, anche sviluppati, furono pesantemente colpite dal repentino aumento del prezzo di un prodotto che era insieme materia prima e risorsa energetica. L’Europa occidentale e gli Usa ridussero i consumi attraverso una poderosa opera di ristrutturazione dei processi industriali, nonché con la progettazione di automobili che richiedevano un minor consumo di benzina. Poi utilizzarono le risorse petrolifere del Mare del Nord e diedero impulso alla costruzione di centrali a energia nucleare che era diventata una questione di difesa strategica.

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LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE La tecnologia informatica non è solo uno strumento di consumo e divertimento, ma si è inserita nel mondo della produzione materiale e intellettuale, nei servizi e in molti oggetti di uso quotidiano. Nel settore della telecomunicazioni si sono avuti formidabili avanzamenti, dall’utilizzazione dei cavi in fibre ottiche alla telefonia mobile. Altrettanto straordinari sono stati i progressi della biotecnologia, cioè la manipolazione e l’impiego sia di sostanze viventi (batteri, virus, funghi), sia delle stesse strutture genetiche fondamentali (geni e dna). Nella stessa organizzazione del lavoro sono stati realizzati numerosi cambiamenti: dalla fine degli anni ’60 sono stati abbandonati i sistemi tayloristici e il fordismo (catena di montaggio), a favore di metodi più flessibili, orientati alle variazioni della domanda e al maggiore coinvolgimento dei lavoratori nella responsabilità del processo produttivo (toyotismo, just intime, circoli di qualità). Nei servizi vanno ricordate le novità nella distribuzione commerciale (discount, ipermercati, vendita per corrispondenza, franchising), nonché le iniziative volte a fornire servizi al comune cittadino e alle imprese (consegna della posta, pizza ecc). Le nuove tendenze dell’organizzazione delle imprese per certi versi sono contrastanti: da una parte, per reggere le sfide della globalizzazione, si accentua l’ondata di fusioni e perciò cresce la dimensione di parecchie imprese; dall’altra vi sono indirizzi che privilegiano la downsizing (riduzione delle dimensioni), riferito in particolare al numero di dipendenti. Adottando così una struttura di horizontal corporation, che individuano un sistema organizzativo basato sulle tre strategie della creazione di nuovi prodotti, della produzione e vendita e dell’assistenza alla clientela; ciascuna funzionalità viene realizzata da una serie di equipe autonome, in linea con i criteri della flessibilità. LA RIVINCITA DEL CAPITALISMO IL DIFFICILE RITORNO AL CAPITALISMO DEI PAESI SOCIALISTI Dalla metà degli anni ’70 i ritmi di crescita dell’economia sovietica rallentarono, come del resto in Occidente, ma con ben più gravi conseguenze: mentre gl’investimenti si concentravano sempre più negli armamenti (seconda guerra fredda), il livello di vita della popolazione, già basso, peggiorò, come è dimostrato dalla mortalità infantile e dalla diminuzione del tasso di scolarizzazione. L’avvento al potere di Gorbaciov (1985) segnò una svolta anche nell’economia. Oltre alla liberalizzazione politica, progettava la trasformazione graduale della vecchia e ormai insostenibile economia pianificata in un sistema misto in cui fosse dato ampio spazio al libero mercato; accettando così lo smantellamento graduale dell’economia socialista. Era troppo tardi, l’Urss si sgretolò e la nuova Russia di Eltsin si orientò verso un immediato orientamento capitalistico, senza procedere a un sistematico e razionale rinnovamento strutturale. Fu la catastrofe, il paese si popolava di disoccupati, prostitute e di criminali, accanto a una piccola schiera di “nuovi ricchi” prodotti dal capitalismo restaurato dalla corruzione. Alla fine del secolo l’ex URSS appariva un mucchio di rovine anche se nei primi anni del 2000 la produzione ha ricominciato a crescere. La parabola degli altri stati socialisti d’Europa orientale è stata analoga, anche se molto meno drammatica, a parte i paesi sprofondati nella guerra civile (Jugoslavia) o che non avevano mai conosciuto un autentico sviluppo, come l’Albania. Nel mondo rimangono a economia socialista Cuba (schiacciata dall’embargo statunitense), che comunque dal 1995 ha accettato gli investimenti stranieri, e la Corea del Nord, in preda ad una carestia. Il Vietnam dal 1992 ha accettato il principio della proprietà. La Cina costituisce un caso a parte. Dopo la morte di Mao (1976) i suoi successori (in particolare Xiaoping) hanno abbandonato le utopie del “grande timoniere”, per promuovere la modernizzazione del paese accogliendo nell’economia molti elementi capitalistici (iniziativa privata, banche, investimenti stranieri). La via cinese al capitalismo sino agli inizi del nuovo secolo è stata complessivamente un successo, che però dovrà misurarsi con le conseguenze dell’adesione del grande paese asiatico alla WTO.

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L’UNIONE EUROPEA E ALTRE FORME DI COOPERAZIONE ECONOMICA INTERNAZIONALE La Comunità economica europea (dal novembre 1993 Unione europea) comprendeva fino al 1973 solo i sei paesi fondatori; tra il 1973 e il 1995 vi aderirono Regno Unito, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo, Finlandia, Austria e Svezia. La formazione di questo raggruppamento economico si è sviluppata non tanto sul principio del libero scambio, quanto su quello dell’unione doganale, un principio secondo il quale viene adottata una tariffa esterna comune e le merci così introdotte sono parificate a quelle degli stati membri. L’Atto unico europeo, firmato nel 1986, prevedeva uno spazio privo di frontiere interne nel quale è garantita la libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali. Dal 1° gennaio 2002 si adottò l’euro, elemento essenziale per la libera circolazione dei capitali (salvo Regno Unito, Danimarca, Grecia e Svezia). L’UE è praticamente rimasta l’unico organismo vitale di cooperazione economica. A livello mondiale è attivo il già citato GATT – dal 1995 WTO (World Trade Organization) – che con i suoi periodici e lunghi round (trattative multinazionali) mira a una progressiva riduzione delle tariffe doganali, cercando ultimamente di tener presenti anche le esigenze del Terzo Mondo. Organismo informale è invece il G7, che dal 1975 riunisce periodicamente i rappresentanti dei sette paesi più industrializzati (Usa, Giappone, Canada, Germania, Francia, Regno Unito, Italia) ai quali dal 1994 si è aggiunta la Russia, per cui si parla correntemente di G8. Organismi di cooperazione regionale sono: il NAFTA (North American Free Trade Agreement - 1994) che raccoglie Usa, Canada e Messico che intende procedere alla formazione di un’area di libero scambio; l’APEC (Asia Pacific Economic Cooperation - 1989) che comprende i paesi asiatici, le quattro tigri, la Cina, il Giappone, l’Australia, Usa, Canada e Messico. UNA SINGOLARE POTENZA INDUSTRIALE: L’ITALIA Nel 1986 l’Italia superò il Regno Unito e diventò la quinta potenza industriale del mondo, è forse questo il vero “miracolo economico italiano”. La stagione di lotte operaie iniziate nel 1969 aveva condotto ad un aumento dei salari e alla crescita del potere sindacale in fabbrica che era riuscito a imporre una solida tutela normativa e una notevole rigidità nell’impiego forza –lavoro. L’industria italiana, abituata ad un regime di bassi salari e di gestione autoritaria della manodopera, si trovo spiazzata. Inoltre all’aumento del costo del lavoro, di per sé già un fattore di inflazione, si aggiunse la crisi petrolifera. Tuttavia proprio allora l’industrializzazione italiana cominciò a uscire dal “triangolo industriale” per diffondersi su altre aree del territorio: non fu la grande industria a prendere piede ma una rete di piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare e basate sul lavoro nero o a domicilio. Intanto la grande industria si decideva a effettuare una seria ristrutturazione basata sul decentramento produttivo e l’adozione di tecnologie labour saving (risparmiatrici di lavoro). La riduzione dell’occupazione smorzò la carica rivendicativa dei sindacati e le imprese ricominciarono a prosperare. Dal 1992 furono approvate leggi finanziarie sempre più pesanti, che ridussero il reddito della massa dei cittadini, ma diminuirono anche l’inflazione e avvicinarono l’Italia ai parametri fissati per l’adesione all’euro. Molto meno positive erano le prestazioni dell’agricoltura. Il riconoscimento del fallimento delle politiche assistenziali e di sviluppo nel Mezzogiorno fu rappresentato dalla chiusura della Cassa del Mezzogiorno nel 1984. UN MONDO DIVISO TRA OPULENZA E POVERTA’ UNA NUOVA SOCIETA’ PER IL MONDO SVILUPPATO Dagli anni Settanta, nel mondo sviluppato, nonostante la grande riduzione della mortalità infantile, si assiste ad un brusco calo del tasso di natalità che negli anni ’90 si è avvicinato alla cosiddetta crescita zero. Riduzione della natalità e coppie libere sono anche l’effetto della rivoluzione sessuale che, iniziata negli anni Sessanta, ha comportato una profonda modificazione del costume e del senso morale. Sul piano demografico si deve notare il rallentamento dell’urbanesimo, o almeno delle grandi città (esclusa Tokyo), dove la qualità della vita è sensibilmente peggiorata. Infine, l’Europa ha cessato di essere terra di emigrazione ed è invece oggetto di una vasta ondata di immigrazione dal Terzo Mondo. La società del terzo millennio è una società con sempre meno operai; è cresciuta l’occupazione femminile e il tasso di scolarizzazione. Questa società “istruita” consuma molto di più rispetto al passato, perché dispone di

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più credito, ma consuma anche diversamente. Si sono verificati dei cambiamenti nella struttura del consumo: si spende proporzionalmente poco per nutrirsi, e un pò di più per l’abitazione ei trasporti, tutto il resto è consumo diretto all’acquisto degli innumerevoli beni e servizi offerti dalla società “opulenta”. In realtà le società non sono così “opulente” come appaiono e vogliono far credere: la povertà è aumentata nell’ultimo quarto del secolo; è cresciuta la disuguaglianza nel reddito, senza contare la nascita di nuovi poveri (tossicodipendenti, immigrati, disoccupati cronici ecc). TERZO MONDO E QUARTO MONDO Dal 1973, con la crisi del petrolio, ha cominciato a formarsi una nuova gerarchia del Terzo Mondo e economia di mercato:

1. paesi grandi esportatori di petrolio: avvantaggiati dallo shock petrolifero quelli meno popolosi (Arabia Saudita, Kuwait), intaccati quelli più popolosi (Nigeria, Iran, Algeria, Venezuela);

2. le “quattro tigri” del Sud-Est asiatico: Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e Singapore si sono sviluppate rapidamente tanto che non possono essere considerate facenti parte del Terzo Mondo;

3. paesi in posizione mediana: America latina, Africa Settentrionale, Asia e Brasile possono disporre di apparati produttivi ma in un contesto di diffusa povertà;

4. il “ Quarto Mondo”: dell’area della fame e della miseria globale fanno parte quasi tutta l’Africa nera (salvo il Sudafrica), alcune parti dell’America Latina (Bolivia, Paraguay, Haiti) e dell’Asia (Afghanistan e Bangladesh), sono economie stagnanti e indebitate, spesso colpite da carestie e disastri naturali.

In linea generale si può dire che nell’ultimo quarto del secolo il divario tra le economie più ricche e quelle più povere si è allargato. Tra le possibili ragioni di questi risultati poco brillanti si deve annoverare il peggioramento delle ragioni di scambio dei prodotti primari e delle materie prime, a parte il petrolio, su cui molti stati reggevano le loro economie. L’aumento poi della produzione agricola è stato insufficiente a coprire la crescita della popolazione. Si sono formate così in molti paesi economie squilibrate con agricolture inadeguate, industrie fragili e con manodopera sfruttata e priva di protezione, un terziario ipertrofico e arretrato, non di rado concentrato in miseri, enormi conglomerati urbani. L’ECONOMIA DEL XXI SECOLO Conservando certe caratteristiche di base, il capitalismo ha spaziato dal decentramento produttivo all’accentramento e poi ancora al decentramento, dalla piccola impresa alla grande e poi ancora alla piccola, dal capitalismo selvaggio allo “Stato sociale” e poi di nuovo al suo smantellamento, dalla produzione diversificata a quella in serie e poi di nuovo quella segmentata. All’inizio del secolo XXI l’economia mondiale è retta da una triarchia, in cui ciascuna delle parti detiene una particolare sfera d’influenza:

1. gli Usa, la cui influenza preponderante, economica e militare si estende su tutto il pianeta, ma che esercita tradizionalmente il controllo sul continente americano;

2. l’Unione europea, il cui peso economico si riflette sull’intero continente europeo, ma anche in Africa e Medio Oriente;

3. il Giappone, dal quale non può prescindere tutta l’economia dell’Asia. A parte questa triade esistono tre grosse incognite: - l’ex Urss e gli ex paesi socialisti;

- la Cina il cui impetuoso avvicinamento al capitalismo avviene sotto un regime non tanto dittatoriale,

quanto ancora legato al socialismo; - il Terzo Mondo o piuttosto Quarto Mondo, dove la permanenza di disoccupazione e sottoccupazione

spinge ad un’emigrazione che può diventare incontrollata. Infine vanno ricordati i rischi della globalizzazione, non tanto quella riguardante i prodotti materiali, che interessa in ogni caso l’economia reale, quanto quella dei prodotti immateriali che introduce motivi di tensione e di squilibrio per nulla conformi all’andamento dell’economia reale.

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I GRANDI TEMI

UNA SOCIETA’ ”POSTINDUSTRIALE” ? DEINDUSTRIALIZZAZIONE REALE E APPARENTE Dagli anni ’70 nelle economie avanzate si è iniziato un autentico rivolgimento: dopo due secoli di crescita il settore industriale ha perso progressivamente di peso, innanzitutto sul piano dell’occupazione. Siamo in presenza di un economia leggera, dove gli incrementi di ricchezza sono prodotti dai servizi (finanziari, di intermediazione, di comunicazione), che si basano sempre più sulla gestione e la produzione di conoscenza e sempre meno sulla transizione di prodotti fisici e materiali. Siamo veramente giunti a uno stadio della civiltà postindustriale e immateriale? Nonostante la rivoluzione informatica e la deindustrializzazione, la base dell’economia leggera rimane industriale. In molti casi alla riduzione del settore secondario nelle economie avanzate è corrisposto un aumento delle fabbriche nei paesi emergenti, sia per iniziative locali, sia per lo spostamento (decentramento) di impianti produttivi dalle vecchie potenze industriali alle aree del mondo dove il costo del lavoro è inferiore. Progettazione, elaborazione delle strategie e marketing rimangono negli stai più ricchi. GLOBALIZZAZIONE DI PRODUZIONE, MERCATI E CAPITALI (e persone) Dagli anni ’80 l’interdipendenza delle varie parti dell’economia mondiale è tale che si può parlare molto più che in passato di sistema economico mondiale. La globalizzazione è in primo luogo della produzione e dei mercati che tende ad avvantaggiare i paesi avanzati, che sono i maggiori produttori e riescono a imporre i loro modelli di consumo. Nonostante gli sforzi del WTO, Usa, Giappone e Unione europea sono ben distanti dal voler costruire un mercato globale, in quanto frappongono ancora numerose barriere all’ingresso di prodotti esteri. Molto più globale è invece diventato il mercato dei capitali e della finanza, grazie alle innovazioni tecnologiche nel campo delle telecomunicazioni a partire dagli anni ’80. L’aspetto speculativo, da sempre presente nella Borsa e nella finanza, si è ingigantito e appare quasi fonte di inesauribili ricchezze, a scapito dell’economia delle fabbriche e della vecchia società industriale. La globalizzazione riguarda anche le persone, cioè lo spostamento migratorio dal Terzo Mondo, ma anche dagli stati ex comunisti, ai paesi avanzati. LA FINE DEL WELFARE STATE E LE NUOVE DISUGUAGLIANZE Lo “Stato assistenziale” è il prodotto storico sia della società industriale, sia della risposta preventiva delle classi dirigenti ai pericoli eversivi delle teorie socialcomuniste, sia infine delle spinte riformatrici attuate dal movimento operaio e dai sindacati. Con l’avvento della nuova società dei “servizi”, la caduta del Muro di Berlino e la riduzione dell’influenza delle organizzazioni sindacali, si sta procedendo alo smantellamento dello “Stato sociale”. Dall’ultimo trentennio del secolo XX si è infatti evidenziato nella maggior parte dei paesi avanzati, anche per la progressiva erosione del sistema sociale, un crescente distacco tra ricchi e poveri. LE CONSEGUENZE DELLA NUOVA TECNOLOGIA SULLA SOCIETA’ Il clima pessimista indotto dalla crisi petrolifera e la consapevolezza che la società del benessere poteva permettersi di preoccuparsi dei disastri ambientali, ha promosso la formazione di idee come “limiti dello

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sviluppo” o “sviluppo sostenibile”, compatibile cioè con le risorse della terra e la qualità della vita dei suoi abitanti. L’ecoindustria si sta rilevando un buon affare, in termini di contributo allo sviluppo di nuovi settori e di crescita occupazionale. Maggiore resistenza alle tematiche ambientali mostrano invece, come è comprensibile, i paesi del Terzo Mondo, che si troverebbero a sopportare costi aggiuntivi che i paesi ricchi al momento della loro prima industrializzazione non hanno sostenuto. Grandi sono i rischi connessi al recentissimo progresso tecnologico a cominciare dalle biotecnologie: applicate alle piante e agli animali, sono in grado di produrre profittevoli “mostri”. Non molto incoraggianti si rivelano alcuni aspetti dell’odierna civiltà dell’IT (Information Technology): computer, internet e multimedialità esercitano una potente spinta alla riduzione della vita comunitaria e della socialità reale a favore di individualismo esasperato che in alcuni potrebbe assumere aspetti patologici. LA SOCIETA’ DEI CONSUMI DIVERSIFICATI La società postindustriale è in realtà un’enorme produttrice di beni industriali di consumo. Alla fabbricazione in serie e di massa è succeduta una produzione segmentata e orientata a soddisfare le esigenze delle varie fasce della clientela o addirittura del singolo consumatore. L’idea di Henry Ford di produrre per un vasto mercato il famoso Modello T (1908 – 1h 33m) e in un unico colore è svanita. Un segno del fatto che la stessa industria si è terziarizzata è dato dall’importanza assunta dal marketing (tecniche di commercializzazione del prodotto) nella gestione d’imprese. Persino il packaging (la confezione del prodotto) assume un valore fondamentale sia nelle capacità di attirare i consumi che nei costi di produzione (certe volte può coprire il 50%): la concorrenza si sposta dal prezzo e dalla qualità all’immagine del prodotto e chi lo produce (il logo). Per orientare la nostra “libera” scelta di consumatori vi è infine il cause-related market, cioè l’impegno da parte del fabbricante di versare una parte degli incassi di un determinato prodotto a una nobile causa. L’INFORMATICA, TECNOLOGIA FONDAMENTALE Definiamo “fondamentale” quella tecnologia che non solo è dotata di un forte carattere innovativo, ma ha anche la capacità di essere utilizzata in tutti i settori produttivi e i servizi, e di trasformarli. Con la terza rivoluzione industriale o rivoluzione informatica non si ha più a che fare con l’aspetto energetico, ma con la possibilità di elaborare, accumulare e trasmettere informazioni, una funzione altamente generica e per ciò stesso suscettibile di infinite applicazioni. L’hardware dei computer e dei sistemi che utilizzano l’informatica è sempre stato e rimane determinante, poiché sono i componenti elettronici a rendere concretamente possibile l’informatica e l’impiego del suo linguaggio binario, che altrimenti rimarrebbero appannaggio teorico di logici e matematici. Sono questi ultimi, e non tanto il software, che, accogliendo un numero sempre più grande di circuiti, consentono la costruzione di computer migliori. E l’indispensabile supporto semiconduttore del chip, il silicio è un elemento molto comune, come composto, in natura. UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE INDUSTRIALE E DEL LAVORO LA FUORIUSCITA DAL TAYLORISMO E DAL FORDISMO Benché né il taylorismo né tanto meno il fordismo avessero mai trovato universale e ortodossa applicazione nell’apparato industriale, essi rimasero fino agli anni ’70 un modello al quale aspirare. Ma fu un sistema giudicato oppressivo e criticato dal movimento operaio e dai singoli lavoratori. Già dal 1924 il gruppo di ricercatori facente capo all’americano Mayo, fondò la scuola delle relazioni umane e la prima psicologia industriale; per la prima volta veniva rilevata l’importanza del “fattore umano” nella gestione della forza lavoro, poiché Taylor considerava l’operaio poco più di un bue da addestrare. Nel 1938 Barnard, dirigente di una grande società americana, elaborò il concetto dell’impresa come “sistema cooperativo”, in cui cioè dovevano essere conciliati i fini dell’organizzazione aziendale e le motivazioni personali e individuali di chi prestava la sua opera all’interno dell’impresa.

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Nel 1954 e 1961 sorse la scuola della “crescita della personalità” o “motivazionista”: ogni essere umano ha dei bisogni, da quelli più elementari fino all’autorealizzazione, ma l’organizzazione del lavoro (taylorista) impedisce la crescita della persona e della formazione di Uomini. L’aspetto più preoccupante per gli imprenditori era che il taylorismo generava continui conflitti con le maestranze e non sembrava più garantire alti livelli di produttività ed efficienza. Negli anni ’70 furono così tentate formule di ricomposizione del lavoro frantumato e di coinvolgimento dei lavoratori nel processo produttivo: job enrichment (arricchimento delle mansioni) e la formazione di gruppi omogenei, con l’autogestione dei compiti del gruppo lavorativo. I risultati furono deludenti. IL MODELLO GIAPPONESE Mentre in Europa e negli Usa ferveva il dibattito sul taylor – fordismo ed erano effettuati timidi tentativi per il suo superamento, in Giappone era già avvenuta una vera rivoluzione organizzativa, legata allo spirito innovativo dell’ingegnere Ohno, entrato alla fine della guerra nella casa automobilistica Toyota. Alla Toyota si riusciva ad assemblare un’auto, con molto meno difetti, in 16 ore contro le 31 della General Motor americana. I principali elementi del “toyotismo” sono i seguenti:

1. il Just in time (al momento giusto), cioè la continua e perfetta simmetria tra l’offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal mercato, consentendo così la fabbricazione in piccole serie e differenziata;

2. l’ officina minima: i pezzi per l’assemblaggio devono arrivare alla postazione lavorativa solo al momento giusto; ogni spreco e ridondanza devono essere eliminati; è la produzione snella (lean production);

3. il coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni produttive: le mansioni dei lavoratori non sono fisse e predeterminate, ma godono di notevole flessibilità e intercambiabilità; i dipendenti sono stimolati a partecipare all’elaborazione delle decisioni produttive e possono perfino arrestare la catena di montaggio se individuano qualche guasto; è il principio dell’autonomazione; non esiste il One best way di fare qualcosa, come pretendeva Taylor, ma un continuo e mai finito tragitto di perfezionamento;

4. è richiesta la collaborazione dei fornitori esterni: essi devono formare una rete cooperativa e collaborativi in continuo interscambio di informazioni e aiuti con l’impresa principale;

5. l’obiettivo della qualità totale, più importante della quantità; 6. in conclusione si ha una fabbrica a sei zeri: zero stock (di magazzino), zero difetti, zero conflitto sociale,

zero tempi morti di produzione, zero tempo d’attesa per il cliente, zero cartacce. Europei e americani si resero conto che dovevano adeguarsi in un modo o nell’altro al modello giapponese. AUTOMAZIONE, FABBRICA INTEGRATA E FINE DELLA CENTRAL ITA’ DELL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO Sorse quindi negli anni ’80 l’illusione nell’industria automobilistica europea di superare in un colpo solo il fordismo, la contestazione operaia e la concorrenza giapponese attraverso il salto tecnologico dell’automazione e dell’impiego dei robot, mantenendo tuttavia la produzione grassa del fordismo. Le autovetture fabbricate si rivelarono piene di difetti e nel 1989 si intraprese una drastica rivoluzione produttiva in senso giapponese. Era la premessa della fabbrica integrata, integrazione di toyotismo e produzione snella con la più avanzata automazione. Non è più la produzione che crea il mercato, come nel sistema fordista, ma il mercato che crea la produzione. L’impresa è considerata una struttura complessa che interagisce con l’economia in generale, con il mercato, con la tecnologia, con le istituzioni giuridiche, politiche e sociali e in generale con gli stakeholders (portatori di interessi. Azionisti, clienti associazioni), da cui il diffondersi nelle aziende di codici etici. IL MITO DEL DOWNSIZING

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Nel mondo attuale si è realizzata l’idea del “piccolo è bello”, il principio della specializzazione flessibile adottata dalla piccola impresa. In Italia l’importanza delle piccole imprese, spesso organizzate in distretti industriali, è molto grande e non pare destinata ad attenuarsi. A dispetto di chi vorrebbe un mondo disseminato di produttori piccoli e flessibili, rimane peraltro il fatto che la grande impresa sul piano quantitativo e di controllo non teme rivali. DISTRETTI INDUSTRIALI E CAPITALISMO MOLECOLARE IN IT ALIA I distretti industriali sono quelle porzioni di territorio, economicamente e socialmente omogenee, caratterizzate da una piccola imprenditorialità diffusa e da una forte specializzazione produttiva. In Italia si sono diffusi a partire dagli anni Settanta e interessarono in particolare i remi dell’industria tessile-abbigliamento, mobilio e arredamento, alimentare, stoviglie e posate da cucina. Il distretto costituisce una strettissima integrazione tra famiglia, impresa, società e territorio. La famiglia è la base della forza-lavoro e la fonte dei finanziamenti. L’ambiente sociale favorisce forme di collaborazione tra le piccole imprese, tanto che si è parlato di cooperazione competitiva e di impresa-rete, un sistema produttivo frantumato e nello stesso tempo saldamente interconnesso. La concentrazione territoriale favorisce lo scambio di informazioni e l’individuazione di interessi e strategie comuni. Un’altra caratteristica è il marcato orientamento all’esportazione, tanto più accentuato quando le imprese si dedicano a soddisfare la domanda di nicchie di mercato, ossia segmenti di mercato relativamente ristretti e specializzati, ma che consentono, se si agisce con tempestività e alto livello qualitativo, di conquistare agevolmente una leadership sul piano internazionale. Nonostante la sua eccezionale flessibilità e i successi conseguiti, questo modello non è una via infallibile alla prosperità perpetua. Le piccole dimensioni e i pochi capitali disponibili ne impediscono lo sviluppo. MEDI IMPRENDITORI IN ITALIA Più ancora che le piccole imprese dei distretti, sono essenziali per l’economia industriale italiana le medie imprese. Quelle di cui ci occupiamo sono imprese dalle origini molto modeste, sorte dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta, che si sono progressivamente ampliate, attuando in alcuni casi un decentramento all’estero della produzione. Tra queste: la Beghelli, l’Aprilia, la Diesel, la Luxottica, la Safilo, la Rielo. Ciò che accomuna queste imprese operanti in settori così diversi è il loro carattere familiare, per quanto riguarda la proprietà e la gestione. E’ la famiglia, generalmente attraverso società finanziarie, che controlla saldamente il capitale, anche quando sono presenti importanti soci italiani o esteri, ma sempre in minoranza. Rigidamente familiare è poi la gestione degli affari, per ridurre al minimo la partecipazione di elementi esterni. Se la dimensione familiare costituisce da un lato un elemento determinante nell’affermazione di queste imprese consentendone lo sviluppo iniziale e fornendo il capitale umano necessario alla loro espansione, è d’altro canto considerevole il rischio insito nel permanere di strutture verticistiche che accentuano i problemi di transizione generazionale e di suddivisione nei compiti tra i membri della famiglia. GLI OPERAI, POCHI E RICERCATI Dagli anni Settanta l’importanza relativa e assoluta dell’occupazione industriale nei paesi avanzati registra un continuo calo. Per quanto attiene l’Italia, la delocalizzazione ha interessato non solo le grandi imprese, bensì le medie e le piccole comprese quelle dei famosi distretti. Negli ultimi decenni il lavoro operaio è stato giudicato dalla massa della popolazione come sempre meno attraente nei confronti di quello impiegatizio. In questi casi si è rivelato essenziale l’apporto dei lavoratori del Terzo Mondo che vanno ad occupare i posti rifiutati dagli italiani. Ma anche la nuova società postindustriale ha le sue patologie da ufficio, più raffinate e insidiose: con il termine mobbing si designano la persecuzione e le vessazioni inflitte da capi e colleghi a soggetti per qualsiasi motivo sgraditi. JOBLESS GROWTH Poiché nell’ultimo trentennio, anche in Europa, la crescita economica non si è affatto interrotta, pur avendo ridotto il suo ritmo, mentre la disoccupazione è aumentata, si parla di jobless growth, cioè sviluppo senza occupazione, il che vuol dire che un livello notevole di disoccupazione sembra essere divenuto strutturale, e non congiunturale, ossia relativo all’andamento del ciclo economico.

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La tendenza sembra quella di una sempre minore necessità di lavoratori, in ogni campo. E’ lo spettro della società dei quattro quinti, secondo la quale un quarto della popolazione sarà in grado di tenere in moto l’economia mondiale. IL LAVORO MINUSCOLO Il lavoro minuscolo è quello che si profila alla fine del ‘900: un lavoro impalpabile, precario, sfuggente, anomalo, opposto alla concretezza e alla solidità del lavoro maiuscolo taylor-fordista che ha contrassegnato tutto il secolo. Quantunque il concetto di flessibilità trovi parecchie giustificazioni sul piano economico(le imprese sarebbero più snelle, con minori costi rigidi e in grado di reagire più prontamente all’evoluzione del mercato, stimolando in ultima analisi lo sviluppo economico) e sociale (la flessibilità sarebbe un rimedio contro la disoccupazione: meglio lavorare come precari che no lavorare), dal punto di vista storico le nuove tendenze appaiono una svolta radicale rispetto a un orientamento che si era consolidato da quasi due secoli. Il progressivo sgretolamento delle rigidità, favorito dal dilatarsi della disoccupazione, crea una situazione totalmente nuova, o paradossalmente simile a quella delle origini dell’industrializzazione, quando l’operaio, totalmente privo di tutela e alla mercé del padrone, costituiva un fattore della produzione estremamente flessibile. Il lavoro minuscolo corre il pericolo di trasformarsi in una catastrofe per la dignità, il senso esistenziale e i diritti di ogni uomo che lavora o vorrebbe lavorare. NORD E SUD NEL MONDO. TRA GLOBALIZZAZIONE E SOTTOSVILUPPO I MOLTI NOMI NUOVI PER UN PROBLEMA IRRISOLTO Il termine Terzo Mondo è uno dei tanti utilizzati termini per indicare i paesi poveri, oltre a questo ne sono stati coniati altri come “paesi sottosviluppati”, dal 1966 se ne adottò uno più ottimistico “paesi in via di sviluppo” e poi un’intonazione ancora più sfumata LDC (less developed countries) “paesi meno sviluppati” Il primo criterio di misurazione del livello di sviluppo di un paese è il PNL (prodotto nazionale lordo) per abitante (o più comunemente, il PIL per abitante), molto più significativo di quello assoluto o totale. Secondo la Banca mondiale nel 1997 vi erano quattro gruppi di paesi, relativamente al PNL pro capite:

� paesi a basso reddito con 875 dollari o meno; � paesi a reddito medio basso tra 876 e 3125 dollari; � paesi a reddito medio alto tra 3126 e 9655 dollari; � paesi a reddito alto con 9656 o più.

Questa unità di misura non era perfetta perché mentre con 100 dollari in america si può comprare molto, in u altro paese più povero si può comprare di più. Quindi si è ricorso al calcolo del PPP (purchasing power parity – parità di potere d’acquisto) ma neanche questa forma è valida perché vale fino a quando i consumatori del paese arretrato si limitano a comprare i prodotti locali. Si è allora cercata una valutazione più complessiva e globale, che prendesse in considerazione, oltre che il prodotto pro capite, elementi di carattere sociale (mortalità infantile, vita media, tasso di alfabetizzazione, spese di ricerca e sviluppo, presenza di fognature e acqua potabile etc etc). Questa forma di misura prende il nome di ISU (indice di sviluppo umano), che ha peraltro modificato la graduatoria soprattutto nelle nazioni ricche: così gli Usa, il paese più prospero della terra, figura solo al quarto posto dopo Norvegia, Francia e Canada. L’incapacità di promuovere il self–sustained growth (sviluppo che si sostiene da se) è forse la principale differenza fra gli odierni paesi sottosviluppati e la maggior parte dei paesi occidentali compreso il Giappone. LA CRESCITA DELLA DISUGUAGLIANZA Alla fine del secolo il 20% della popolazione mondiale che sta in cima alla classifica dei redditi è responsabile del 86% di tutti i consumi mondiali, mentre il 20% più povero consuma solo l’1,3% di tutti i beni e servizi.

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Per quanto i fattori culturali siano importanti, è probabile che le radici del sottosviluppo siano molto più complesse e legate a cause strutturali e strettamente economiche, come l’esaurimento delle possibilità di sostituzione delle importazioni da parte della produzione locale, in particolare per i tessili, che coprono spesso quasi tutto il consumo interno. Le zone del Quarto Mondo sono inoltre colpite dal flagello dell’AIDS, una catastrofe che uccide ogni anno in Africa 2 milioni di persone, infettandone altri 4. E’ davvero arduo sostenere che in paesi con un tale livello di degradazione la globalizzazione farà bene. “NIC” E “NEC” I NIC sono i new industrialized countries, i paesi di nuova industrializzazione e si ci riferisce alle quattro tigri dell’Asia, cioè Hong Kong, Corea del Sud e Taiwan. Dagli anni ’80 hanno cominciato a imporsi i “tre tigrotti”, ossia Malesia, Indonesia e Tailandia, definiti NEC, new emerging countries (nuovi paesi emergenti). A essi possono essere aggiunte le Filippine e soprattutto la Cina. Lo sviluppo asiatico costituisce una sfida per tutti quegli autori neomarxisti e terzomondismi che hanno sempre posto in luce come una condizione di sottosviluppo sia difficilmente superabile senza una rottura radicale del modo di produzione capitalistico. LA STORIA INFINITA DELLA QUESTIONE MERIDIONALE IN IT ALIA Può sembrare incredibile che in un mondo dove persino le Filippine o la Tailandia stanno uscendo dal sottosviluppo, nella quinta potenza industriale un terzo del territorio permanga in condizioni di arretratezza rispetto alla parte avanzata del paese. Nonostante decenni di aiuti da parte della Cassa del Mezzogiorno (posta in liquidazione nel 1984) , le migliaia di miliardi erogati dalla Comunità europea il quadro economico del Sud rimane deludente: una disoccupazione mediamente doppia che nel resto del paese, che per la fascia d’età sino ai venticinque anni tocca in certe zone, come in Calabria, il 72%; una tenace preferenza per l’impiego pubblico. Persino nell’agricoltura il Nord è superiore. Vi sono dei segnali incoraggianti di cambiamento; più che il sorgere di vari parchi tecnologici da Catania a Cagliari, va segnalata la nascita di oasi di sviluppo dove le agevolazioni pubbliche hanno permesso non solo l’arrivo di investimenti esterni o stranieri, ma la diffusione di un’imprenditorialità locale dotata di notevole dinamismo. Si potrebbe sperare che queste oasi si trasformino in qualcosa simile ai distretti dell’Italia centrosettentrionale, sempre che si riesca a sconfiggere la criminalità organizzata.

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