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STUDI E DOCUMENTI DELIO CANTIMORI E LA STORIOGRAFIA MARXISTA IN ITALIA Per gli storici italiani che, nell’impostazione generale del metodo e nel- l’oggetto della ricerca storica si richiamano al marxismo o militano, strictu sensu, nelle file del movimento operaio, gli anni del secondo dopoguerra sono stati ricchi di difficoltà e di inquietudini nella doppia direzione della riflessione teorica e dell’impegno pratico che ha presieduto allo svolgimento dell’indagine storiografica1. La restaurazione dei principi fondamentali della democrazia liberale, seguita alla sconfitta del nazifascismo sul piano interno ed europeo, ha tro- vato la cultura storica italiana dominata dalle posizioni idealistiche di Bene- detto Croce. Al di là della ricca produzione dello storico napoletano, queste si sono sviluppate per il tramite di una solida rete di organizzazione cul- turale (dall’Università all’attività editoriale di Laterza, a riviste e giornali), che indusse a porre in termini nuovi (tanto politico-culturali quanto isti- tuzionale-operativi) l’opera di confronto e di contestazione avviata dalla nuova cultura ispirata al marxismo. I compiti che si posero agli studiosi, vecchi e giovani, organici (come si disse spesso, in quegli anni, con accezione gramsciana) al movimento operaio furono: 1) contestare, sino a capovolgerla, l’egemonia idealista in generale (e crociana in particolare) esercitata da Croce per oltre mezzo seco- lo, quasi a guisa di tirannide dello spirito e dell’intelligenza (come si arriverà, spesso, a dire senza lo scrupolo di sottolineare in limine la chiave umori- stica con cui solamente può essere accolta tale affermazione). Alle prospet- tive di rottura dell’ordine capitalistico, apertesi al movimento operaio con la fine del fascismo, pareva dovesse corrispondere, al livello delle sovrastrut- ture, la conquista di proporzionali quote di potere sul piano della cultura storica; 2) definire all’interno della nuova «egemonia» (il marxismo), e dal1 1 Un documento, apparentemente solo personale e privato, dei tentativi e delle spe- ranze di questo periodo sono le note contenute in G. Bosio, Giornale di un orga- nizzatore di cultura, Milano, Avanti!, 1962. Un testo più disteso, in cui l’obiettivo di individuare — secondo l’espressione di G. Lukàcs — « nel punto di vista di classe del proletariato un punto dal quale la totalità sociale diviene visibile » viene esplicitamente manifestato e riproposto, è la relazione che lo stesso Bosio presentò al convegno sto- rico promosso da Mondo Operaio in occasione del 70° anniversario della fondazione del PSI (Firenze 18-20 gennaio 1965) dal titolo Iniziative e correnti negli studi di storia del movimento operaio 1954-1962. Cfr. gli atti del convegno in II movimento operaio e socialista. Bilancio storiografico e problemi storici, Milano, Edizioni del Gallo, 1965, pp. 17-52.

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STUDI E DOCUMENTI

DELIO CANTIMORI E LA STORIOGRAFIA MARXISTAIN ITALIA

Per gli storici italiani che, nell’impostazione generale del metodo e nel­l ’oggetto della ricerca storica si richiamano al marxismo o militano, strictu sensu, nelle file del movimento operaio, gli anni del secondo dopoguerra sono stati ricchi di difficoltà e di inquietudini nella doppia direzione della riflessione teorica e dell’impegno pratico che ha presieduto allo svolgimento dell’indagine storiografica1.

La restaurazione dei principi fondamentali della democrazia liberale, seguita alla sconfitta del nazifascismo sul piano interno ed europeo, ha tro­vato la cultura storica italiana dominata dalle posizioni idealistiche di Bene­detto Croce. Al di là della ricca produzione dello storico napoletano, queste si sono sviluppate per il tramite di una solida rete di organizzazione cul­turale (dall’Università all’attività editoriale di Laterza, a riviste e giornali), che indusse a porre in termini nuovi (tanto politico-culturali quanto isti- tuzionale-operativi) l ’opera di confronto e di contestazione avviata dalla nuova cultura ispirata al marxismo.

I compiti che si posero agli studiosi, vecchi e giovani, organici (come si disse spesso, in quegli anni, con accezione gramsciana) al movimento operaio furono: 1) contestare, sino a capovolgerla, l ’egemonia idealista in generale (e crociana in particolare) esercitata da Croce per oltre mezzo seco­lo, quasi a guisa di tirannide dello spirito e dell’intelligenza (come si arriverà, spesso, a dire senza lo scrupolo di sottolineare in limine la chiave umori­stica con cui solamente può essere accolta tale affermazione). Alle prospet­tive di rottura dell’ordine capitalistico, apertesi al movimento operaio con la fine del fascismo, pareva dovesse corrispondere, al livello delle sovrastrut­ture, la conquista di proporzionali quote di potere sul piano della cultura storica; 2) definire all’interno della nuova «egemonia» (il marxismo), e dal 1

1 Un documento, apparentemente solo personale e privato, dei tentativi e delle spe­ranze di questo periodo sono le note contenute in G. Bosio, Giornale di un orga­nizzatore di cultura, Milano, Avanti!, 1962. Un testo più disteso, in cui l’obiettivo di individuare — secondo l’espressione di G. Lukàcs — « nel punto di vista di classe del proletariato un punto dal quale la totalità sociale diviene visibile » viene esplicitamente manifestato e riproposto, è la relazione che lo stesso Bosio presentò al convegno sto­rico promosso da Mondo Operaio in occasione del 70° anniversario della fondazione del PSI (Firenze 18-20 gennaio 1965) dal titolo Iniziative e correnti negli studi di storia del movimento operaio 1954-1962. Cfr. gli atti del convegno in II movimento operaio e socialista. Bilancio storiografico e problemi storici, Milano, Edizioni del Gallo, 1965, pp. 17-52.

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suo punto di vista, il rapporto tra conoscenza storica e conoscenza in gene­rale (cioè tra storia e filosofia, storia e scienza, storia e politica ecc.).

Si veniva delineando, in una parola, il problema della fondazione di una metodologia generale della storiografia marxista che, se aveva trovato, a si­nistra, un’elaborazione nel revisionismo tedesco degli anni a cavaliere tra il XIX e il XX secolo, era, peraltro, alla radice del dibattito promosso dallo storicismo in Germania, proprio in quel periodo con Dilthey, Meinecke, Weber ecc. 2 sul metodo delle scienze sociali.

Per chi, nell’analisi, muove dall’ambito del marxismo, il rapporto tra materialismo dialettico e materialismo storico definisce il quadro in cui si colloca il problema della posizione della conoscenza storica.

Cesare Luporini ha, mi pare esattamente, osservato che per tutte le forme che sono coinvolte dall’atto della conoscenza « la pratica non sol­tanto sta... all’inizio o alla fine di ogni processo conoscitivo, come suo con­dizionamento e sua meta », ma che « esso ne è anche, in definitiva, l’ultimo criterio di verità » 3.

Le stesse considerazioni valgono per il tipo di conoscenza che emerge dall’indagine storica.

L’immanente identità di storia e filosofia, la riduzione della filosofia all’ideologia e — se non si vuole lasciare mutilo il rapporto — alla politica4 rappresentano nient’altro che il corollario, sviluppato da Gramsci, del pensiero marxiano sul valore e il significato della conoscenza storica.

La distinzione di ideologia e filosofia non viene, peraltro, annullata, bensì serbata in una misura che può essere apprezzata « non qualitativa­mente », « ma solo per gradi (quantitativa) ». Le ideologie, infatti, saranno « la vera filosofia, perchè esse risulteranno essere quelle volgarizzazioni filo­sofiche che portano le masse all’azione concreta, alla trasformazione della realtà » 5.

Il limite di mera erudizione, cioè libresco-astratto, che tradisce la no­zione crociana di storia, viene — secondo Gramsci — superato dalla identi­ficazione di storia e politica. « Se il politico è uno storico (non solo nel senso che fa storia, ma nel senso che operando nel presente interpreta il passato) lo storico è un politico e in questo senso (che del resto appare anche nel Croce) la storia è sempre storia contemporanea, cioè politica... » 6.

2 Cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, Einaudi, 1956; A. Negri, Saggi sullo storicismo tedesco, Milano, 1959; F. D iaz, Storicismi e storicità, Firenze, Parenti, 1956.3 Cfr. C. Luporini, La consapevolezza storica del marxismo, in Società, 1955, n. 13, p. 416. Sul « criterio della pratica nella teoria della conoscenza » hanno scritto pagine efficaci Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo, Roma, 1953, pp. 125 sg., Mao T se-Dun in Scritti scelti, vol. I, Roma, 1954 (in particolare A proposito della pratica, pp. 411 e sg.) e G. D ella Volpe, Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967.4 Cfr. A. G ramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, 1949, p. 217.5 Cfr. A. G ramsci, Il materialismo storico, cit. p. 217.6 Cfr. A. G ramsci, Il materialismo storico, cit. pp. 217-18.

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Cantimori e la storiografia marxista 5

Al centro della complessa ricerca degli storici di formazione gramsciana è il problema relativo al come contemperare la natura obiettiva del giudizio storico con la sua funzione dichiaratamente politica. Nel quadro dell’iden­tità tra storia e politica, come preservare, cioè, il rigore filologico-conosci- tivo, e, quindi, il carattere di scienza della storiografìa dalla strumentalità pubblicistica e propagandistica?

Il fondamento avalutativo, che deve presiedere alla ricerca storiografica, e la concezione generale del mondo (col relativo impegno pratico-politico che ne consegue) cui lo storico non si può sottrarre, furono Yexperimentum crucis generale della nuova cultura « egemonica » (o — meglio — poten­zialmente tale, nella misura in cui il proletariato sembrava dovesse assumere la direzione del vecchio Stato liberale borghese).

Il problema storico dei marxisti italiani si rivelò, in definitiva, un pro­blema di definizione metodologica.

Anche limitata a questi temi, la complessità della riflessione richiesta (che, naturalmente, andava tradotta nel lavoro concreto), è estremamente rilevante, ed attesta lo sforzo compiuto dagli storici di sinistra per mettersi all’altezza del ruolo e delle funzioni dettate dalla incombente trasformazione rivoluzionaria della società e dello Stato. Occorre, però, osservare, che, iso­lata nei termini suddetti, la questione è più « facile » di quanto non si sia disposti ad immaginare.

I presupposti del discorso finora fatto sono: 1) che la storiografia etico­politica, o idealistica, o crociana che dir si voglia, possa essere data per de­finitivamente liquidata sulla base degli appunti critici di Gramsci o degli approfondimenti dei suoi seguaci. Non si tiene, evidentemente, conto, del fatto che oltre le inaccettabili conclusioni crociane del 1896-1897 7, occorre esaminare l ’incidenza reale avuta dalla storiografia economico-giuridica, dal lavoro di post-crociani come Maturi, Morandi, Chabod, Venturi, ecc. sino a Romeo. Di quanti, cioè, « venuta meno... o sul punto di cessare, la fase creativa dell’interpretazione liberale della storia d’Italia unitaria e post », si dedicano all’opera di « non consentire che i suoi risultati andassero di­spersi nell’urto con le rozze costruzioni ispirate allo spirito di partito, ma ve­nissero, invece, trasferite nel patrimonio degli acquisti fondamentali della cultura italiana » 8; 2) che all’interno del blocco storico di cultura e politica (previsto da Lenin come partitarietà della cultura in fasi cruciali, e cioè transitoriamente) quale verrà teorizzato da Zhdanov, sia possibile far luogo al momento della conoscenza storica (o della cultura in generale) come mo­

7 Cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 1927; B. Croce, Mate­rialismo storico ed economia marxistica, Bari, Laterza, 1946. Per un’analisi interna rigo­rosa e per una valutazione critica del pensiero crociano su questo problema cfr. E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, Torino, Einaudi, 1962, e F. Chabod, Croce storico, in Rivista Storica Italiana, 1952, pp. 473-530.8 Cfr. R. Romeo, Walter Maturi storico della storiografia, in Rassegna Storica del Risorgimento, 1961, n. IV, p. 288.

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mento autonomo (rapporto intellettuali-politici). Lasciando da parte, in que­sta sede, l’analisi del molto o del poco peso che hanno avuto negli storici italiani di formazione marxista i problemi su accennati, è giusto dire che in Cantimori hanno avuto un’eco sempre meno marginale, sino a diventare — almeno per alcuni anni — il fulcro della sua meditazione di storico, estre­mamente guardingo e intransigente nell’apprezzamento di tutti i problemi di metodologia, tanto della storia quanto della filosofia e dell’economia.

Fu questo senso avaro della diffidenza, della vigilanza rigorosa, consa­pevole delle insidie che travagliano l’opera dello storico (le « interferenze allotrie ») con la tentazione permanente di deformare, inavvertitamente, le fonti, di fraintendere l’ordine e il significato dei dati selezionandoli con in­conscia parzialità, a lasciare senza conseguenze e a non indurre in una crisi di silenzio (come fu il caso di molti suoi colleghi e giovani allievi militanti nel movimento operaio) il rozzo attacco mosso dall’Istituto di Storia del­l’Accademia delle Scienze dell’URSS contro 1’ « oggettivismo storico ». Ten­denza che, secondo l’avviso dell’Accademia sovietica, portava al « raffor­zamento dell’influsso dell’ideologia borghese »: come per esempio nella ri­valutazione operata da Tarie della guerra di Crimea come guerra difensiva. Il massimo Istituto di storia sovietica arrivò — com’è noto — a chiedere l’intervento diretto del Comitato centrale del partito e la « convocazione, da esso fatta, di uno speciale convegno di storici, per dare un colpo a queste idee revisioniste e fare cessare i tentennamenti di un gruppo di storici » 9.

Chi come Gastone Manacorda visse questa vicenda in veste ufficiale, e da responsabile di fronte alla cultura marxistica italiana (nella sua qualità di direttore di Società), ha dato atto a Cantimori della coerenza e, di con­seguenza, della superiorità del suo metodo storiografico.

Fra gli studiosi che si gettarono di peso nella mischia politico-culturale del dopoguerra in preda ad un entusiasmo misto di passione rivoluzionaria e di riflessione critica, e gli studiosi che dal processo di sviluppo della so­cietà italiana si estraniarono, tenendosi rispettosamente in disparte, Canti­mori ebbe una posizione particolare. La quale,

se non fu soltanto sua, certo in lui fu esemplare: partecipò a quelle di­spute servendosi degli strumenti che aveva affinato nei suoi studi, applicandoli con « distacco » critico ad una materia scottante, mostrando, insomma, coi fatti che cosa significhi il concetto che l ’attività intellettuale (e quella dello storico che ne è un caso particolare, ma cospicuo per il contatto frequente, inevitabile con le attività politiche, religiose, filosofiche ) debba essere tanto più « distac­cata » quanto più « impegnata », concetto che ritorna più volte sotto la sua penna 10.

9 Cfr. Contro Voggettivismo nella scienza storica, in Voprosy Istorij, dicembre 1948, n. 12. La traduzione italiana fu pubblicata in Società, 1949, n. 1, p. 109.10 Cfr. G. Manacorda, recensione a Studi di Storia, in Studi Storici, 1959, n. 1, pp. 159-160 (ora in Storiografia e socialismo, Padova, 1967, p. 185).

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Cantimori e la storiografia marxista 7

Ma ancora più importante mi sembra l ’osservazione di Manacorda che individua nel lavoro isolato e polemico di Cantimori un significato quasi emblematico e storicamente più valido della posizione che suoi colleghi e allievi tentarono di elaborare in alternativa o meglio in superamento (nel­l’accezione hegeliano-gramsciana) del suo metodo critico-filologico. Metodo che accoglieva la lezione della scuola omodeiana e si nutriva, altresì, di di­retti contatti con la scienza storica universitaria tedesca.

... i suoi scritti — nota G. Manacorda — erano sempre intesi a riportare le questioni sul terreno, che è proprio dello storico, dell’esatta informazione, del­l’accertamento, della distinzione, ed a rifuggire dal generico-polemico, e perciò serbano un ’impronta inconfondibile e si rivelano, oggi (dopo non molti anni, ma in una atmosfera spirituale ahi quanto diversa da quella), più duraturi di tante costruzioni ideologiche che allora videro la luce 11.

La notazione di Manacorda coglie il nucleo essenziale della posizione storiografica di Cantimori e della sua appassionata attività di studioso e di polemista quale balza fuori — per il primo decennio del dopoguerra — dal ricco materiale di recensioni, spunti critici, prefazioni e mises au point rac­colti nel volume einaudiano Studi di storia.

Nella riflessione cantimoriana il momento della ricerca filologica as­sume indubbiamente il valore di presupposto del sistema di metodologia storiografica da lui elaborato.

Il ricorso al termine metodologia richiede, a questo punto, un’ulteriore precisazione, per la ricchezza delle implicazioni che esso reca in sé. Tra gli strumenti di lavoro di cui lo studioso di problemi storici non può essere sprovvisto, il posto occupato dalla metodologia si colloca al lato degli altri criteri di interpretazione indispensabili per affrontare una ricerca, come la filosofia, la concezione del mondo o l ’ideologia. E ’ pur vero che non manca fra gli storici chi attribuisce ad essa un peso decisivo (affermandone l’inevi- tabilità come mezzo di consapevolezza critica, di difesa dalle impuntature del « furibondo cavallo ideologico ») e chi, al contrario, resta ad essa indif­ferente 12. Si tratta, dunque, di definire, da una parte, il diverso impiego e la esatta rilevanza che volta a volta si dà al termine metodologia. Esso « può non essere esclusivamente identico a trattazione sistematica di tecni­che o di una tecnica, o ad elaborazione tendenzialmente completa di pre­supposti logici di una disciplina », in quanto « interesse o unità metodolo­gica possono anche essere intesi come interessi e utilità derivanti dalla co­municazione, attraverso la lettura, d ’un certo modo, di una certa pratica (o prassi, ma forse è meglio dire praticaccia) di lavoro, di studio, di let­tura... » 13.

11 Ibid., p. 186.12 Cfr. la prefazione di D elio Cantimori a Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, p. XII, e, passim, H. R. Carr, Sei lezioni di storia, Torino, Einaudi, 1967.13 Cfr. D. Cantimori, prefazione a Studi di storia, cit., p. XII.

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Ad ogni buon conto Cantimori ironizza sui discorsi, ricorrenti dieci anni fa con maggiore frequenza di oggi nella cultura di sinistra, sull’origi­nalità e superiorità del metodo marxista di approccio storiografico. A suo avviso, infatti, ha senso parlare solo di « un modo (non un metodo!) di avvicinarsi ai testi che si studiano, ai fatti politici e culturali che si vogliono esaminare »14.

D ’altra parte, occorre tener conto adeguatamente del fatto che alla ra­dice di ogni ricerca storica presiede un fondamento ideologico-interpreta- tivo, una scelta cioè di natura politica, filosofica o ideologica che vale a qualificarla oggettivamente (a prescindere dal grado di consapevolezza dello storico). « ... Nessuno studioso di cose storiche — scrive Cantimori — può fare a meno di criteri di interpretazione o addirittura di una filosofia, o concezione del mondo o ideologia »15.

Vedremo nello svolgimento ulteriore di questa nota l’incidenza che un tale presupposto (la prefazione citata è del gennaio 1959) ha avuto nel contesto del discorso storiografico cantimoriano, il senso di aporia, di perplessità, quasi di contraddizione, che finisce con l’assumere.

Dal momento che nelle pagine successive si vuole osservare anche un certo ordine cronologico che corrisponde, poi, al tentativo di documentare il travaglio sincero sia di uno studioso come Cantimori sia di una intera tendenza storiografica nello stadio di passaggio da un lavoro negativo (di contestazione e di polemica) a uno sforzo di creazione positiva (di chiari­mento, cioè, dei presupposti metodologici generali e insieme di costruzione storiografica reale), mi sembra opportuno individuare e sottolineare le fasi salienti dello svolgimento del pensiero cantimoriano.

L’atteggiamento assunto dallo storico ravennate nei confronti della tra­dizione storiografica idealistica sin dalle prime recensioni-bilancio su riviste ufficiali del movimento operaio (come i periodici Rinascita e Società) segna un punto fermo. Rivela un’originale attitudine scientifico-culturale diretta a utilizzare le maggiori conquiste della cultura e della civiltà borghese criti­camente, senza cioè i complessi tipici delle false culture egemoniche, che proprio nella loro riluttanza (e incapacità) a recepire i risultati più cospicui della scienza del passato, e della società che si vuole antagonisticamente superare, denunciano l’immaturità e l’astrattezza dei loro esperimenti di rivolta.

Cantimori ritiene di non dovere giudicare nè il metodo nè l ’azione di rinnovamento culturale e morale del movimento nel quale l’opera di Omodeo s’inserisce, « perché di quegli uomini noi siamo i figli, intellet­

14 Ibid., p. XVI.is Ibid., pp. XI-XII.

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tualmente parlando »16. In questo atteggiamento non c’è solo l ’affettuoso tributo di una generazione di studiosi che nel magistero di Croce e di Omodeo hanno visto un esempio eccezionale di dignità etico-politica e di rigore scientifico (in uno dei momenti più oscuri per l ’attività culturale, dominata spesso dall’imperativo del ruer e in servitium), ma in una certa misura l’eco stessa della lezione marxiana e gramsciana 17.

È fuori dei limiti di questa nota l’analisi della funzione che Marx (nel- l’Ideologia tedesca) ed Engels (nel Ludwig Feuerbach) assegnano alla filo­logia nel quadro del materialismo storico. Che questo non spieghi « la prassi partendo dall’idea, ma spiega la formazione delle idee partendo dalla prassi materiale » e che il marxismo, altresì, si preoccupi di far parlare « i fatti concepiti nel loro proprio nesso e non in un nesso fantastico », cioè di rimanere « costantemente sul terreno reale storico », non ricercando come « la concezione idealistica della storia, in ogni periodo, una categoria », vale a definire una prospettiva e un metodo di lavoro che andrebbero consi­derati con maggiore approfondimento di quanto normalmente non si faccia quando ci si appaga di questi stimolanti ma vaghi frammenti.

Anche se Cantimori mostra, nelle sue Approssimazioni marxiste (pp. 139- 253 di Studi di Storia), di rifarsi al metodo marx-engelsiano (che ritiene di

16 Cfr. D. Cantimori, Commemorazione di Adolfo Omodeo, in Annali della Scuola Normale di Pisa, 1947, fase. I l i ; ora in Studi di storia, cit., p. 59.17 È la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca, dell’economia classica inglese, e della letteratura e pratica politica francese, dal marxismo — secondo Gramsci — ridotti a « momento sintetico unitario » attraverso il concetto di imma­nenza, « che dalla sua forma speculativa, offerta dalla filosofia classica tedesca, è stato tradotto in forma storicistica con l’aiuto della politica francese e dell’economia classica inglese » (cfr. Il materialismo storico, cit., p. 90).

L’insistenza di Gramsci sul problema del «rovesciamento» dell’hegelismo e del crocia­nesimo (alle « tre fonti» del marxismo classico egli sostituisce — come ha notato N. Matteucci in Antonio Gramsci e la filosofia della prassi, Milano, 1951, pp. 13-14 — « due fonti » autoctone, cioè la filosofia idealistica nella versione di Croce e la valoriz­zazione — in termini di attualità — dell’esperienza politica sulle basi della « moralità » di Machiavelli), e, più in generale, quella sulle « traduzioni » nazionali dei grandi movi­menti storici, muove dalla convinzione che « la fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung ». In questa opera è più uti­le valersi non tanto del procedimento delle condanne senz’appello o di rifiuti radicali (« si condanna in blocco il passato quando non si riesce a differenziarsene o almeno le differenziazioni sono di carattere secondario e si esauriscono quindi nell’entusiasmo de­clamatorio », Passato e Presente, pp. 34, 63, 131) quanto della risoluzione della tra­dizione attraverso il recupero in una visione comprensiva, la più ampia possibile, delle ragioni dell’avversario, del suo punto di vista, che se può essere interamente respinto (« talvolta è avversario tutto il pensiero passato ») in qualche caso « può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata, sia pure come un momento subordinato, nella propria costruzione » (cfr. Il materialismo storico, cit., pp. 75 sgg.).

Sulle questioni legate alla « traducibilità » di un pensiero o di una cultura in un certo linguaggio (e, più precisamente, sulla « traduzione del marxismo in italiano », cioè at­traverso l’adozione del linguaggio speculativo del crocianesimo) cfr. E. Agazzi, Filosofia della prassi e filosofia dello spirito, pp. 215-216, in La città futura, Milano, 1959 e, per un’interpretazione diversa, cfr. la relazione di E. G arin, Gramsci nella cultura italiana, in Studi gramsciani, Roma, 1958, pp. 408 e sg., e La cultura e la scuola nella società italiana, Torino, 1960, p. 19.

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poter conciliare con la tradizione della storiografia idealistica italiana e tede­sca), il lettore non ha soverchie difficoltà ad intendere che la scuola crociana- omodeiana è la fonte principale su cui si fonda nelle sue polemiche. E da essa, prevalentemente, trae quel modello di serietà degli studi che s’industria instancabilmente di proporre agli storici di sinistra come una esperienza da far propria, integrandola ai nuovi contenuti messi in luce dal marxismo.

L’ideale dell’onestà scientifica, della ricerca filologica, del lavoro con­creto, che Omodeo rivendica (da buon scolaro di Columba) come mo­mento principale della ricerca storica in polemica con Maliandi e Barba- gallo 18 e con le deformazioni formalistiche dello storicismo, (che erano « de­duzioni di carattere pubblicistico e politico spicciolo da una dottrina filo­sofica »), è accolto da Cantimori senza esitazioni, con appassionato entu­siasmo.

Per il momento, la lezione dell’Omodeo possiamo coglierla soprattutto attra­verso un ammonimento, che forse potrà sembrare generico, alla onestà degli studi — al di sopra di preoccupazioni politiche e confessionali — un ammonimento alla chiarezza metodologica, alla vigilanza critica contro gli idoli polemici e gli spauracchi del futuro, e soprattutto al lavoro, al lavoro filologico, modesto e faticoso: senza altre ambizioni che quella di fare il meglio possibile il lavoro che siamo chiamati a fare » 19.

Più esplicito e più ricco diventa il richiamo alla cautela critica nelle lezioni universitarie tenute per un corso di filosofia della storia del 1946- 1947. In questa occasione esorta gli studiosi,

a quella diffidenza che è necessaria anzitutto verso se stessi e verso gli stessi nostri strumenti di lavoro, dal libro all’.insegnante, in ogni lavoro scientifico, in ogni indagine rivolta non alla persuasione, alla convinzione, all’influenza peda­gogica, al sermone o alla profezia, ma, come c’insegnano il Croce e l’Omodeo, alla ricerca del vero, e che forse è più necessaria ancora nell’indagine storiografica, per evitare le interferenze di carattere pseudo-filosofico, cioè delle concezioni generali del mondo, o di carattere politico, moralistico, delle convinzioni religiose o delle varie escogitazioni pubblicistiche che amano le grandi visioni generali (o ge­neriche)...20

Le note formule del Droysen, « intendere indagando », « comprendere mediante la ricerca, il confronto, l ’analisi », servono a Cantimori in quanto esprimono, in compiute sintesi, la sua insistenza per il distacco che — anche secondo l’insegnamento dei Judgements on History and Historians di J. Burckhardt — il ricercatore (critico anzitutto verso se stesso) deve con­servare nei confronti della materia oggetto di studio.

18 Cfr. Giornale critico della filosofia italiana, III, 1922, p. 419.19 D. Cantimori, Commemorazione di Adolfo Omodeo, cit., pp. 61, 75.20 D. Cantimori, Interpretazioni tedesche di Marx nel periodo 1929-1945, in Studi di Storia, cit., p. 141.

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Cantimori e la storiografia marxista 11

Il principio del disinteresse, la rivendicazione dello sforzo di imparzia­lità, che negli studi storici va mantenuto fermo per rendere possibile l ’ope­razione dello storicizzare (ben altra cosa evidentemente dal relativizzare-, così come il distacco storico non è disinteressamento né freddo tecnicismo filologico), sono, nell’accentuazione particolare del momento della astratta erudizione, del minuzioso rigore formalistico, la denuncia estenuante (non di rado) dei limiti della tendenza opposta: fondata sull’interpretazione ideo­logica tendenziosa, su particolari concezioni filosofiche, cioè sull’indagine intesa come messaggio e profezia, e quindi come attività retorica.

Nel primo decennio dopo la guerra non è mancata la teorizzazione aper­ta della storiografia di parte, della « tendenziosità consapevole della storio­grafia », che, in quanto influenzata da assiomi ideologici, alla cui radice sono ben qualificati interessi politico-sociali, finisce fatalmente per perdere l ’equi­librio tra analisi e interpretazione. Ogni storia, essendo, pertanto, storia di parte, per lo storico si dà un solo modo per affermare la sua libertà e auto­nomia: quello di essere consapevolmente di parte, programmaticamente tendenzioso.

D ’altra parte, la dimestichezza di Cantimori con gli studi germanici e, in particolare misura, con l ’opera e la vicenda personale di Weber lo ren­dono sensibilmente avvertito dei pericoli che la storiografia e la scienza « a tesi », al servizio di grandi idealità, recano in sé per quanto concerne la salvaguardia dell’autenticità degli studi.

Contro il tumulto delle « interferenze allotrie », che insidiano il carat­tere aperto della ricerca piegandola al calcolo di preoccupazioni immediate di propaganda politica, Cantimori è persuaso che « non c’è nessuna « deci­sione », « persuasione », « testimonianza », che possa sostituirle, e che da esse non tragga la vera forza di passare all’operosità, utile non solo alla salvezza propria, ma agli uomini e alla società umana »21.

Non manca, pertanto, di attirare l’attenzione degli storici italiani (e, particolarmente, di quelli che sembrano porsi in posizione antitetica, di netta negazione della scuola idealistica, cioè i marxisti) sull’importanza dell’esercizio dell’intelletto razionale, della preparazione tecnica, della cul­tura e dell’erudizione « al di sopra di ogni pathos pseudoscientifico e pseudo- religioso ». L ’unico messaggio che il paese, come Stato e come società civile, può ragionevolmente attendersi dalla scienza non è il pronunciamento a favore di questa fede o di quella ideologia, sulla giustezza, cioè, di certe scelte e decisioni particolari o di fondo, in quanto si tratta di ragioni pra­tiche, spesso dettate da turbamenti e passioni anche elevate, che si muo­vono, però, su un piano diverso da quello dell’astrazione scientifica e ra­zionale.

21 Cfr. M. W eber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, 1966, introduzio­ne di Cantimori (ora in Studi di storia, cit., p. 102); e la recensione di E. Ragionieri in Belfagor, 1949, n. 2, pp. 243-247.

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Il messaggio più serio e utile che l’intellettuale può dare è la « comunicazione del significato intrinseco del sapere, della conoscenza, della « istruzione », per chi voglia rimanere fedele alla tradizione del grande pensiero razionale e rivoluzio­nario: dell’indagine senza limiti, dell’analisi fredda e chiara nella ricerca del vero, del lavoro disinteressato e preciso, consapevole nella sua rinuncia ad uscire da se stesso, della propria serietà, del proprio intrinseco significato di operosità quo­tidiana » 22.

Cantimori riconosce, esplicitamente, nella lezione weberiana sulla « for­ma pura e astratta » del lavoro scientifico un sintomo e, insieme, un risul­tato di quella « estenuazione... puramente metodologica della grande tra­dizione della ricerca scientifica e razionale » 23.

Il suo modello, al di là di una conoscenza e di un sapere puro (in quan­to meramente extraempirico), non si apre ad alcun contenuto, a nessuna ri­sposta 24. Il pensiero di Marx, Engels e Lenin, che pure affondava profon­damente le radici nella storia del pensiero razionale, viene da Weber respin­to. Così facendo lo scrittore tedesco imprigiona la sua capacità di compren­sione storica e sociale nella torre d’avorio della logicità formale, dello spe- cialismo fine a se stesso25.

Occorre, altresì, osservare che Cantimori non vede alcuna incompa­tibilità tra l’esercizio programmatico della cautela e della diffidenza critica, e il sistema dei valori (concezione del mondo, religione, ecc.) che sono parte integrante della personalità e della cultura dello studioso.

Più che ad un’impossibile rinuncia a queste convinzioni, filosofie o fedi (operazione, questa, per altro, razionalmente imperseguibile nella misura in cui non è possibile mutilare l ’unità degli interessi e della problematica del­l’uomo) lo sforzo auspicato tende a distinguere tra i diversi livelli e momenti

22 Ibid., p. 99-100.23 Ibid., p. 99.24 Cfr. J. M. Vincent, La méthodologie de Max Weber, in Les Temps Modernes, 1967, n. 251, pp. 1826-1849; L. Colletti, Il marxismo come sociologia, in Società, 1959, n. 4, pp. 663-671; F. Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Bari, 1965; e di recente, l’Introduzione di P. Rossi (pp. 9-43) a M. W eber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, 1966.25 È bene, a questo proposito, richiamare l’attenzione sulla forzatura del testo canti- moriano compiuta da Manacorda, quando scorge nel riferimento a Weber, contenuto in alcune frasi della prefazione, l’intenzione di Cantimori di « limitarne [si riferisce qui alla critica del preconcetto antimarxista weberiano: nota mia] la portata dichiarando in sostanza che, su una questione di tanto peso, egli non sottoscrive più il suo punto di vista di dieci anni fa » (cfr. recensione a Studi di Storia in Studi Storici, cit., pp. 158- 168). Si tratta di un’interpretazione che difficilmente si può dire trovi riscontro nel testo. In effetti, Cantimori si limita ad avvertire il lettore sullo schematismo, sul­l’impressione « distratta e tendenzialmente dogmatica e superficiale » che può oggi su­scitare, in presenza dei lavori di Pietro Rossi, la sua osservazione circa la riserva anti­marxista di Weber. Manifesta, cioè, il rammarico di dover ripresentare tale e quale uno scritto di undici anni fa, al quale non ha potuto dedicare un esauriente lavoro di revisione e di aggiornamento in maniera da particolareggiare la nota critica del 1948 coll’ « articolarla meglio e renderla meno schematica ». Comunque, seppure in forma du­bitativa, aggiunge subito di essere convinto che « come indicazione di linea di ricerca possa forse avere ancora qualche interesse », p. XVII).

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dell’attività intellettuale e a stabilire tra essi una scala di precedenze.Il limite della ricerca storiografica è connaturato alla sua essenza, al suo

carattere di attività di indagine. Ma si tratta di

un limite che costituisce la sua forza, la sua energia specifica; consapevolezza che la ricerca storiografica non può accettare nè di fatto nè di diritto alcun dato, se non dopo una accurata analisi e valutazione critica della sua qualità, della sua veridicità, della sua coerenza interna, ecc.; consapevolezza che la ricerca sto­riografica è legata all’empiria dei fatti e dei dati accertati e soppesati, che essa è filologia, nel senso che il momento filologico non può essere mai trascurato dallo storico 26.

Se l’analisi del pensiero storiografico di Weber rende possibile a Can­timori l’indicazione di uno schema preciso (storicamente concreto e com­piuto) di riferimento, è, tuttavia, la lezione dell’esperienza idealistica ita­liana che egli ha sempre presente quando, superando la fase dell’elaborazione astratta, si sforza di proporre costruzioni storiografiche significative.

Le pagine in cui analizza e commenta la produzione storiografica di Adolfo Omodeo sono, indubbiamente, il documento più esplicito dell’ap­prezzamento che egli riserva al maestro (insieme al Croce) della scuola idealistica italiana. Chi scorra la silloge di Studi di storia avverte chiara­mente come l’influenza di Omodeo su Cantimori non si sia limitata all’im­postazione di una linea metodologica, alla sola riaffermazione cioè di un metodo di lavoro, ma copra — talvolta esplicitamente — un arco di impli­cazioni più vasto e sorprendente trattandosi (nel caso di Cantimori) di uno scrittore militante nello schieramento di classe. Da una parte, infatti, c’è la ripresa del tenace invito omodeiano agli storici del suo tempo (gli anni ’20) al lavoro concreto di ricerca, all’onestà scientifica;

Il lavoro dello storico è un duro dissodamento e dà l’affanno non meno dello zappare, a chi non vi sia avvezzo. Ma senza questa dura fatica, senza questa tormentosa analisi di documenti, senza questa esigenza critica di tutto chiarire a se stesso, non si costruisce nulla di solido... Senza calcoli tediosi e scrupoli tecnici l’architetto non può costruire, a meno che non sia uno scenografo. Così anche lo storico 27.

Ma il consenso non si arresta all’accentuazione delle parti in cui Omo­deo esorta al lavoro faticoso, di biblioteca o di archivio, contro la ten­denza a trattare di storia della storiografia (« così facilmente degenerante in filosofia della storia »). Ma giunge a cogliere in questa passione per la ricerca concreta « il centro di risoluzione delle antinomie dello storicismo stesso, nel pensiero e nell’opera dello storico »28.

26 D. Cantimori, Interpretazioni tedesche di Marx, cit., p. 142.27 D. Cantimori, Commemorazione di Adolfo Omodeo, cit., p. 69 (il brano di Omo­deo citato è tratto da un articolo sul Giornale critico della filosofia italiana, 1922, p. 419).28 Ibid., p. 71.

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Su questa importante concessione (che costituisce l’« assoluzione » della storiografia idealistica dal suo difetto fondamentale) è, peraltro, vero che Cantimori non ritornerà per meglio approfondirla e svolgerla oltre l ’indica­zione contenuta di sfuggita nel testo citato. Anzi, nella conclusione della Commemorazione, tenuta alla Scuola Normale di Pisa il 28 aprile e ripetuta al Circolo di cultura di Roma un mese dopo), la lezione dell’Omodeo viene individuata nel gran conto in cui egli ebbe la filologia: cioè in

un ammonimento... alla onestà degli studi — al di sopra di preoccupazioni politiche e confessionali —, un ammonimento alla chiarezza metodologica, alla vigilanza critica contro gli idoli polemici e gli spauracchi del futuro, e soprattutto al lavoro, al lavoro filologico, modesto e faticoso: senza altre ambizioni che quella di fare il meglio possibile il lavoro che siamo chiamati a fare 29.

Circa un anno più tardi, recensendo II senso della storia, traccerà un bi­lancio critico della storiografia liberale che è, forse, malgrado la brevità e la sede, una delle note in cui più lucidamente sono esposti i limiti di fondo che si riscontrano nella produzione degli storici di ispirazione etico-poli­tica 30.

La polemica antiideologica, che circola nella recensione, muove dal pre­supposto di quel rigore freddamente erudito, di quella tecnica della ricerca filologica accurata che Cantimori aveva accolto come il nucleo essenziale della posizione omodeiana nel dibattito con Barbagallo, Maliandi ecc.

Anche in questa occasione Cantimori sfugge al problema cruciale di ogni metodologia: il rapporto filologia-ideologia, il momento dell’accerta­mento erudito col momento dell’analisi e dell’interpretazione: il passaggio, cioè, dalla fase della ricerca, in cui si raccoglie e definisce il materiale docu­mentario, alla fase della selezione, della costruzione e dell’ordinamento in base a criteri che non possono essere avulsi nè nettamente distinti dai prin­cipi informatori di dottrine generali e dal peso di condizionamenti esterni e di passioni, che formano l ’unità del processo storico reale a livello degli individui singoli non meno che della società.

Il rimprovero che Cantimori rivolge a Croce ed Omodeo (di trascurare l ’esame e il controllo dei risultati raggiunti, di non preoccuparsi di verifi­care la completezza delle ricerche e il rigore delle notizie raccolte, per concentrare l ’attenzione sulle questioni di metodologia generale, sulla ri­spondenza o meno dei criteri assunti a quelli della crociana teoria filosofica

29 Ibid., p. 75.30 Recensione ad A. Omodeo, Il senso della storia, Torino, 1948, in Rinascita, 1948,. n. 11 (ora in Studi di Storia, cit., pp. 76-81). Cfr. anche il bel Ricordo di Delio Can­timori di W. Kaegi, in Rivista Storica Italiana, 1967, fase. IV, p. 895, in cui è messo bene in evidenza, con signorile garbo e maestria, il gentilianesimo di Cantimori sia come intellettuale che aderisce al fascismo sia dopo la conversione al comuniSmo. Si vedano anche E. G arin, Delio Cantimori, in Belfagor, 1967, n. 6, pp. 623-660, e, so­prattutto, passim, G. M iccoli, Delio Cantimori, in Nuova Rivista Storica, 1967, fase. V-VI, pp. 531-620.

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della storia idealistica o liberale) trae origine, in buona sostanza, dall’este­nuazione metodologica in cui Cantimori finisce spesso per perdersi nella sua tenace difesa dell’istanza pura, oggettiva della storiografia.

A liberali e marxisti, che si soffermano a discutere soprattutto i presup­posti da cui chi scrive prende le mosse più che le opere stesse, e condizio­nano l’apprezzamento positivo alla corrispondenza o meno della posizione ideologica generale dell’autore al movimento di idee e al sistema di valori di cui sono esponenti, Cantimori non sa opporre una soluzione effettiva­mente alternativa. Oltre una proposta di lettura criticamente più diligente ed articolata, capace, cioè, di indicare sia i nessi con le idee generali sia di affrontare il terreno della verifica delle fonti, egli non riesce a fondare una metodologia nuova, eludendo praticamente quello che era il punto centrale di tutta la sua riflessione.

Si può facilmente concordare sul rilievo per cui a Croce e a Omodeo non « interessava in prima linea di fare un esame o un controllo dei risul­tati via via raggiunti dagli studiosi, sulla validità o meno, sulla importanza maggiore o minore, delle ricostruzioni storiche, delle ricerche su nuove serie di materiali... »31. Nè, d’altra parte, si davano soverchiamente cura di « con­trapporre o aggiungere alle ricerche e alle indagini, alle ricostruzioni sto­riche, altre ricerche, altri dati, notizie accertate, a fondamento dei propri giudizi conclusivi »32, poiché premeva soprattutto l ’interesse per le questioni generali di natura metodologica.

Ma si può davvero, d’altro canto, concepire una storiografia (o meglio una storia della storiografia) priva di un intreccio politico-ideologico, di riferimenti sostanziali a principi di ordine generale che interferiscono o fini­scono con il coinvolgere l’azione stessa del giudizio storico? Una volta esau­rito l’accertamento filologico, e valutatane la completezza e lo scrupolo, non si pone forse il problema di precisare in che misura i criteri metodologici impiegati per la comprensione e la ricostruzione di un certo fenomeno sto­rico si sono palesati i più sicuri e capaci strumenti di analisi?

... potrà mai lo storico — s’è chiesto opportunamente Furio Diaz — stabilire questo nesso fra il testo preso in esame e le idee, le dottrine, le azioni che in esso non casualisticamente si riflettono, senza aver egli stesso un indirizzo, un orientamento, un palato per valutare l ’efficacia, la consistenza, la rilevanza sto­rica di quelle idee e di quelle dottrine — che è già un giudizio filosofico-sto- rico, o, direbbe Gramsci, storico-ideologico-politico? 33

31 Ibid., p. 77.32 Ibid., p. 77.33 II saggio di F. D iaz, La storiografia di indirizzo marxista in Italia negli ultimi quin­dici anni, in Rivista critica di storia della filosofìa, a. XVI, 1961, fase. I l i , p. 338, è quan­to di meglio sia apparso in Italia fino a questo momento su Cantimori e la storiografia di origine marxista. Ricca di osservazioni intelligenti, svolte in un quadro organico di giu­dizi sull’intera produzione metodologica di Cantimori, è anche la recensione di I nnocen­zo Cervelli a D. Cantimori, Conversando di storia, Bari, Laterza, 1967, in Belfagor, a..

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Anche un autore come Marx, il cui pensiero è sempre « volto a qualifi­cazioni, definizioni specifiche... e sempre alieno da affermazioni generali di principio, valide in assoluto, o tendenti ad essere valide in assoluto », « storicizzante cioè critico, un processo di definizione e di qualificazione, di specificazione storica »M, reca nei suoi lavori ( dal Manifesto al Capitale, da Per la critica dell’economia politica alla Sacra famiglia, dall’Ideologia tedesca alle 11 tesi su Feuerbach) un’impronta profondamente ideologica derivante dall’accettazione di un preciso criterio scientifico.

Solo per celia — a suo avviso — si potrebbe ricondurre nelle aride cate­gorie della empiria storica e della filologia opere come queste che sono la espressione di una scelta di fondo interamente e razionalmente consumata. E se esse prestano il fianco a obiezioni è la linea dell’impostazione ideolo­gica che viene ad essere oggetto di polemica piuttosto che la completezza della documentazione e dei fatti e il carattere scientifico del metodo.

La filologia, dunque, rischia, nel discorso di Cantimori, di essere dav­vero prospettata come momento esauriente ed assoluto. L’inevitabilità del ricorso a criteri d ’interpretazione in un modo o nell’altro emergenti da una concezione del mondo sembra, sempre più, perdere ogni consapevolezza e ridursi ad un’infeconda dichiarazione di principio, senza incidenza pratica effettiva.

Nello sforzo di contrapporre alla storiografia di tendenza un modello di ricerca storica fondata sull’imparzialità, Cantimori non riesce a sfug­gire all’insidia dell’esasperazione formalistica, intesa come esercizio di una erudizione tecnicamente raffinatissima, ma fine a se stessa e senza prospet­tive di reale comprensione storiografica.

Si tratta, peraltro, del limite che egli aveva già individuato in Weber. Lo scrittore tedesco nella sua appassionata foga polemica contro gli storici ridottisi al rango di profeti e di missionari non si era fermato in tempo ed era incorso nel pericolo di « ridurre la ricerca storica al rigore formale del­l’accertamento, di soffocarla nello specialismo e di ridurre l’etica professio­nale dello storico ad una sorta di chiuso sacerdozio di Clio »35.

XXII, 1967, n. 3, pp. 359-369. In essa, però, si sottovaluta l’importanza cruciale che nel dopoguerra ebbe — dal punto di vista dell’autonomia del movimento di classe, della sua ideologia, della sua storiografia e, in ultima analisi, della sua linea politica — la ricerca di una metodologia scientifica di tipo materialistico irriducibile alle categorie mistificatri­ci della « filosofia generale », della « concezione del mondo e della storia » di derivazione crociana (e, per questo aspetto anche gramsciana, come ha dimostrato E. Agazzi). Cfr. anche G. Bosio, Iniziative e correnti negli studi di storia del movimento operaio, cit., pp. 47-52; G. Busino, En souvenir de Delio Cantimori, in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, 1967, (tome XXIX), pp. 251-257; N. Matteucci, La cultura italiana e il marxismo dal 1945 al 1951, in Rivista di Filosofia, 1953, pp. 61-85; N. Bobbio, Poli­tica e cultura, Torino, 1955; F. Fergnani, Discussioni italiane sul marxismo, in Rivista di Filosofia, 1963, pp. 316-357.M D. Cantimori, Interpretazioni tedesche di Marx, cit. pp. 178, 190.35 Prefazione a Studi di storia, cit.

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Si è tentato da parte di alcuni studiosi di sinistra di mitigare (per così dire) la gravità del rilievo che abbiamo visto per il tramite di una duplice operazione36. Da una parte, cioè, le aporie e l’inquietudine rilevabili nella riflessione cantimoriana sono state disindividualizzate sino a coinvolgere nell’arco di tale esperienza tutta la generazione degli storici postcrociani militanti nelle file del movimento operaio. E, in effetti, nelle contraddizioni e nel tormento di Cantimori ha finito per riflettersi la complessità delle scelte degli scrittori vecchi e giovani (questi ultimi soprattutto) di fronte ai nuovi problemi determinati dall’illusione di avere ormai superato la fase della subordinazione politico-culturale all’egemonia idealistica senza avere, d ’altro canto, provveduto all’elaborazione di una linea compiutamente defi­nita ed antagonistica sia nella metodologia sia nei contenuti della ricerca culturale. D ’altra parte, in quell’assolutizzazione della verifica filologica si è scorta quasi una sorta di pendant all’entità degli impegni richiesta dall’ade­sione al marxismo e alle istanze del movimento operaio.

Indubbiamente l ’ancoraggio della filologia, indicato da Cantimori come il mezzo più sicuro per mantenere un equilibrio tra engagement politico e Y âme d’ancêtre necessaria alla ricerca scientifica, era la risposta più facile e, in una certa misura, più meccanica che si potesse dare a quanti, nella giovane scuola storiografica di sinistra, si affannavano in opere di specia­lizzazione erudita (storie di comuni socialisti, di classi sociali in alcune regioni, di congressi operai ecc.) o nella polemca ideologica più settaria e pseudoscientifica (come quando si deprezzavano apertamente autori e studi che non riecheggiavano le posizioni del movimento operaio e del­l ’ideologia rivoluzionaria). Nell’insieme, però, tali spiegazioni appaiono lar­gamente persuasive. Semmai resterebbe da vedere in quale misura a un così profondo sforzo di scrupolo e di rigore metodologico ha corrisposto la produzione storiografica di sinistra dell’ultimo decennio in Italia. Non è questa la sede per un bilancio di questo tipo e trascende, altresì, l’ambito della presente nota. Non c’è, però, dubbio che se si vuole pervenire ad una valutazione compiuta della storiografia marxista occorre muovere dalla vi­cenda della rivista Movimento operaio. Essa mi sembra esemplare in quanto documenta, da ima parte, l’eccesso di particolarismo e il senso di angustia emergente, spesso, da quelle ricerche; e, dall’altra, la presunzione di stile zhdanoviano, di superiorità ideologica di cui gli studiosi marxisti andavano fieri37.

36 Cfr. le recensioni a Studi di storia di F. D iaz su 11 Ponte, 1959, n. 11, pp. 1454- 1457; Aurelio Lepre, in Belfagor, 1959, n. 6, pp. 753-757; G. Berti, in Società, 1959, pp. 765-774; G. Manacorda, in Studi storici, cit.; C. Vasoli, in Annali dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, 1960, pp. 768-778; P. Alatri, Cantimori e la storia, in Paese Sera, 10 aprile 1959.37 Per una prima impostazione d’insieme di questa esperienza, che copre gli anni 1948-1956, cfr., oltre la relazione già citata di G. Bosio (soprattutto pp. 25-29), L [ucia- no] C [afagna] e M [aria] [Adelaide] S[alvaco], Sviluppi della storiografia mar-

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Il dibattito aperto da Saitta (nel gennaio-febbraio del 1955) mette in luce tutti questi difetti e rende possibile un inventario critico dell’intera produzione storiografica marxista. All’analisi del passato si accompagna una problematica nuova e si apre una prospettiva di sviluppo in cui vengono contradditoriamente ripresi alcuni motivi della storiografia tradizionale. Saitta (non so se di concerto con lo stesso Cantimori), in apertura della settima annata della rivista, denuncia senza mezzi termini « il carattere mas­sicciamente documentario e filologico » assunto da Movimento operaio 38.

La rivista aveva finito per cristallizzarsi in un’operazione che poteva giustificarsi solo come lavoro preparatorio, di approccio, cioè, ad « un campo di studi abbandonato da anni »: l’esigenza di « raccogliere quanto più ma­teriale fosse possibile, lo scavare in profondità entro il limite di piccoli settori geografici senza abbandonarsi ad ambiziosi desideri di sintesi pre­mature »39.

Contro un indirizzo di ricerca fine a se stesso e riluttante a misurarsi coi problemi fondamentali della cultura, della società e della storia italiana, Saitta auspica l ’allargamento della concezione storica, l ’ampliarsi dei temi oggetto d ’indagine, l’inserimento delle ricerche relative al movimento ope­raio « entro il tessuto connettivo di tutta la storia italiana e mondiale ».

Lo stesso disagio per l’inadeguatezza della chiarificazione teorica e del­l ’approfondimento del problema metodologico, che i giovani marxisti hanno nella pratica surrogato con il rituale e generico richiamo ai principi della concezione materialistica della storia, trova nell’articolo di Saitta un’eco puntuale e proporzionata, anche se da un punto di vista non marxista.

L’indicazione dei problemi è estremamente significativa: il confronto con le opere più rigorose e impegnative della storiografia etico-politica (dalla Storia della politica estera italiana di Federico Chabod al Risorgi­mento in Sicilia di Rosario Romeo), l’estensione della ricerca alla storia delle idee (non vista solo — come faceva Croce — coll’occhio del politico e dell’intellettuale, ma coll’ampiezza d ’orizzonti di F. Venturi), la medita­zione sul rapporto di fondo filologia - storia, giudizio storiografico - giu­dizio politico e, infine, l’altro connesso problema se la « concreta ricostru­zione storiografica è sempre ricostruzione di ciò che è stato... o deve consi-

xista in Italia, in Ragionamenti, 1959, n. 9, pp. 183-189, passim; S. Merli, Lavoro sto­rico e nuova coscienza di classe, L. Cortesi, Postilla con digressioni, in Dibattito sullo stalinismo, Roma, 1965; R. Mazzoletti, Movimento operaio, in AA.VV., Milano com’è, Milano, 1962, pp. 274-280, e gli interventi nel dibattito aperto da Saitta su Movi­mento Operaio (gennaio-febbraio 1955) di E. Santarelli e R. V illari (marzo-aprile 1955), L. Valiani, G. Vicario, R. Zapperi (maggio-agosto 1955), A. Saitta (Epilogo Provvisorio, settembre-ottobre 1955), lettera al direttore di L. Tassinari, A. Zanardo, R. Zapperi, R. D e Felice, P. Melograni (18 maggio 1956), D. Cantimori (gennaio- giugno 1956); e L. Bulferetti, La storiografia italiana dal Romanticismo al Neo-idea­lismo, in Questioni di storia contemporanea, Milano, 1953, pp. 116-118.38 Cfr. la rubrica Pro e contra inaugurata dal direttore A. Saitta nel 1955, n. 1.» Ibid.

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derare anche ciò che sul momento fu soffocato ma aveva una sua ragione d ’essere, come il futuro ampiamente mostrerà »40.

Era la prima volta, dopo dieci anni dalla Liberazione, che in campo mar­xista si affrontavano con tanta chiarezza temi e problemi sui quali non era possibile alcuna diversione, se effettivamente il marxismo intendeva assu­mere la funzione di cultura egemonica, di concezione del mondo in grado di superare il liberalismo come metodo e ideologia della borghesia capitalisti­ca. Sulla capacità degli storici di sinistra di fornire risposte inequivoche agli interrogativi e alle proposte di Saitta ci si aspettava di poter misurare la maturità della nuova storiografia e la sua pretesa di ereditare criticamente (in una superiore alternativa) la validità scientifica della storiografia li­berale.

E. Santarelli ha apertamente riconosciuto che « lo storico legato al mo­vimento operaio è impegnato necessariamente a risolvere i problemi della storia nazionale e non può, quindi, porsi dinanzi alla storiografia borghese se non nella posizione di erede-antagonista »41.

A prescindere dal tono e dalla fraseologia crudamente partitica di al­cuni interventi, il dibattito seguito alla lettera di Saitta ha avuto il merito di mettere in evidenza l’attitudine all’autocritica degli storici marxisti, la loro disponibilità per indagini di respiro nazionale, la consapevolezza dei limiti degli studi sul movimento operaio sino allora sperimentati. Difficile sostenere, però, che da quel dibattito (limitato, peraltro, agli interventi di studiosi non certo fra i più rappresentativi della tendenza) sia uscita una definizione adeguata della metodologia e della teoria storiografica che la giovane scuola intendeva proporre in antitesi agli schemi tradizionali.

L’efficacia del marxismo-leninismo come strumento di elaborazione di un solido metodo teorico in campo storiografico viene determinata sul­la scorta di assunti di natura politico-escatologica (il proletariato come classe egemone, la crisi della gestione capitalistica del potere ecc.) o di giudizi di fatto incontrollabili nella realtà (come per esempio la crisi della storiografia tradizionale). In effetti non poteva considerarsi niente più che una dichia­razione di fede, ciò che Santarelli scriveva in proposito: « Nel migliore dei casi [la storiografia crociana] dialettizza le sue formule, giuoca sulle sfumature, amplia la sua prospettiva, raffina la sua tecnica, utilizza sino in fondo le risorse del mestiere ».

La proposta di Santarelli e Vicario, di arricchire ed espandere il cam­po di ricerca della nuova generazione di storici mediante un approfondi­mento reale del materialismo storico e del legame « veramente organico e profondamente, politicamente articolato con la classe operaia » 42, muoveva

40 A. Saitta, Epilogo provvisorio, cit., p. 783.41 E. Santarelli, Storia del movimento operaio e storia nazionale, cit., p. 300; ma anche In margine agli studi sul movimento operaio. Per una storia d’Italia nazionale e popolare, in Rinascita, 1953, p. 686.42 E. Santarelli, Storia del movimento operaio, cit. e G. Vicario, La storia del mo-

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da una considerazione schematica della storiografia etico-politica, identificata abbastanza sbrigativamente nello studio della storia delle idee e delle sovra­strutture. Sembrava bastasse sostituire a questa tipologia di ricerche l ’og­getto delle indagini della scuola marxista (i moti del macinato, il movimento operaio torinese intorno alla Fiat, la crisi di fine secolo, il primo dopoguerra, il fascismo ecc.), perchè quest’ultima acquistasse una prospettiva nazional-po­polare e completasse lo « sganciamento » ( sino allora meramente meccanico e adialettico) dalla storiografia borghese. La quale conservava ancora ri­levanti posizioni egemoniche per via del fatto che da parte marxista si era mostrata troppa timidezza ad affrontare i grandi problemi della storia na­zionale e ci si era preoccupati più dei testi che dei temi che coinvolgevano le strutture. « Non è vero che la giovane scuola nel suo complesso è più avanti nella ricerca delle fonti che nello studio delle strutture? » 43.

Il capitolo che Romeo dedica a La società e l’economia siciliana dopo l’abolizione della feudalità in 11 Risorgimento in Sicilia non poteva cer­tamente essere acquisito, se non con arbitraria assegnazione, in ima conce­zione che identificava la storia delle idee con la storiografia idealistica. Ana­logamente non si poteva disconoscere l’importanza e l’originalità delle Pre­messe alla storia della politica estera italiana facendo leva sul fatto che essa si muoveva nel solco della più rigorosa e vivace tradizione crociana.

Quale è stata la posizione di Cantimori in questo dibattito che, malgra­do la mancata partecipazione dei più autorevoli esponenti della tendenza storiografica marxistica, finì con 1’investire direttamente e indirettamente la massa dei problemi da lui impostati sin dai primi anni del dopoguerra? Quasi polemicamente, come per affermare un dissenso di fondo dal conte­nuto dei temi oggetto di discussione, egli non interviene nella rubrica della rivista che si chiude con un ulteriore intervento del d irettore44. Nella « letterina » inviata a G. Manacorda e C. Muscetta, a commento del de­cimo Congresso internazionale di scienze storiche ( tenutosi a Roma nel set­tembre 1955), si può, però, individuare un nucleo di idee che costituiscono

vimento operaio è autentica storiografia integrale, in Movimento operaio, 1955, maggio- agosto, pp. 297-298.43 E. Santarelli, Storia del movimento operaio, cit., p. 298. Non mancherà, nel corso del dibattito, chi —■ come lo stesso Saitta — rileverà il carattere « ottimistico-agitato- rio » di questa posizione, che muoveva dall’assunzione indiscriminata della polemica contro Xoggettivismo e dello zhdanovismo storiografico. R. Villari, nel suo intervento, sposta la discussione dalla polemica « sui problemi » all’individuazione dei « temi », dei nodi storici oggettivi (« studiare e scoprire il processo storico da cui sono nati i problemi ed i rapporti di forze attuali ») come — per esempio — la questione meri­dionale. Cfr. Movimento Operaio, 1955, n. 2, « Questione contadina » nel Risorgi­mento, questione meridionale e storia d'Italia, e le osservazioni di L. Cafagna e M. L. Salvaco, op. cit., pp. 187-188.44 A. Saitta, Epilogo provvisorio, cit.

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indirettamente una risposta critica ai problemi dibattuti su Movimento operaio 45.

In prima istanza Cantimori muove dalla contestazione di un fatto che poteva sembrare di ordinaria amministrazione in quanto generalmente consi­derato come un dato non abbisognevole di ulteriori dimostrazioni. Si tratta del fondamento stesso dell’esistenza e dell’attività di una rivista come Mo­vimento operaio e degli studi sull’organizzazione contadina e operaia in Italia. A suo avviso, cioè, non ha fondamento reale la contrapposizione tra storiografia tradizionale (identificata nello storicismo crociano) e storiogra­fia nuova (o marxistica che dir si voglia) quale aveva tentato di costruire Ernesto Ragionieri recensendo gli Atti del Congresso di scienze storiche46. Analogamente — a suo avviso — è uno pseudoconcetto vero e proprio di­scorrere di storiografia ufficiale e meno ufficiale, o di prevalenza di una cor­rente etico-politica non meglio (se non genericamente) identificata all’in­terno della cultura storica italiana.

E ciò essenzialmente per tre ragioni: 1) perchè storici come Chabod, Sapori, Luzzatto, Venturi, Maturi, Spini, Momigliano ecc., non possono es­sere identificati o definiti dalla formula suddetta; 2 ) perchè il rapporto sto­riografia tradizionale-storiografia marxista trova il suo fondamento in un criterio di generazione, criterio dal quale lo storico dovrebbe astenersi in quanto non consente operazioni di effettiva distinzione critica; 3) perchè la tendenza etico-politica non dà l’impressione, in concreto, di volersi iso­lare in scuola o setta, al contrario di quanto avviene — secondo Cantimori — tra i compagni di Ragionieri, la cui irrequietezza è esclusivamente « ten­dente ad escludere e ad escludersi » 47.

Sono evidenti le implicazioni di tali argomenti che se, apparentemente, miravano a ridurre (quasi in un gioco colorato di sfumature di parole) il peso di alcune affermazioni di Ragionieri, in verità contenevano la nega­zione radicale del problema che era stato al centro della meditazione del più qualificato esponente della storiografia di sinistra: la fondazione di una metodologia marxista, di una teoria storiografica, cioè, che, pur muovendo dai presupposti del materialismo storico, fosse capace di assorbire l’eredità dello storicismo crociano e porsi come metodo radicalmente nuovo (più ricco, complesso e complessivo) di elaborazione storiografica.

45 D. Cantimori, Epiloghi congressuali, in Società, a. XI, 1955, n. 5 (ora in Studi di storia, cit., pp. 831-849).46 E. Ragionieri, La disputa storica, in II Contemporaneo, 1955, n. 38. A dire il vero la distinzione compare anche in un articolo dello stesso Cantimori su II Nuovo Corriere (Per un programma, 14 luglio 1955, e ora in Studi di storia, cit., p. 749), apparso un paio di mesi prima della pubblicazione della lettera su Società.47 D. Cantimori, Epiloghi congressuali, cit., p. 838. Ragionieri, però, non aveva man­cato, implicitamente, di riconoscere alla scuola etico-politica un’interna dialetticità quando, nell’elezione di F. Chabod a presidente del Comitato internazionale di scienze storiche, aveva colto un importante riconoscimento tributato a « uno studioso italiano di prospettive storiografiche spregiudicate, aperte... », cfr. La disputa storica, cit.

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La « letterina » di Cantimori è interamente volta a contestare che dal Congresso internazionale e dalla produzione culturale dei marxisti italiani possa ricavarsi la superiorità o peculiarità del metodo e della teoria marxi­stica ( e, in generale, della concezione materialistica della storia ) come unica vera teoria scientifica della storia, « o, se si preferisce, come la visione sto­rica del proletariato intemazionale, destinato anche in questo campo a fun­gere da affossatore della precedente scienza borghese » 48.

La vivacità della partecipazione degli storici « occidentali » alle discus­sioni del Congresso non costituisce, di per sè, un successo, in quanto « non ha modificato in nulla la situazione, non ha portato elementi nuovi, nè di informazione, nè di critica storica » 49. Nè è sufficiente essersi cimentati con la corrente storiografica tradizionale « trionfatrice del Congresso » (il grup­po delle Annales) per ritenersi soddisfatti.

Nelle sue osservazioni Cantimori si spinge oltre la negazione della realtà di un metodo storiografico marxista effettivamente operante. Più che preoccuparsi di dedicare la sua cultura e la sua esperienza alla definizione di tale metodologia scientifica (e a quest’opera era senza dubbio il più ido­neo), cerca di smorzare ogni tendenza all’assolutizzazione e all’esclusivismo, battendo l’accento particolarmente sul rapporto di continuità e di compe­netrazione esistente tra le diverse posizioni storiografiche in Italia. La sot­tolineatura dell’osmosi tra storicismo crociano e storicismo marxista si spiega proprio con l ’orientamento assunto dai suoi interessi.

Mi sembra... poco proficuo per gli studi storici continuare a coltivare per quanto riguarda l ’Italia il mito della storiografia « ufficiale » come storiografia etico-politica, e costruire così, in maniera che mi sembra subalterna, una con­trapposizione astratta tra storiografia marxista all’opposizione e all’assalto e sto­riografia « etico-politica » al potere e sulla difensiva 50.

Alcuni mesi più tardi, replicando con rabbia e, insieme, con amarezza ai cinque giovani marxisti dell’Istituto storico di Napoli (intervenuti nella rubrica Pro e Contra di Movimento operaio con una lettera molto concet­tosa e ricca di spunti), Cantimori sembra, almeno pubblicamente, chiudere i conti definitivamente con la « giovane scuola » di sinistra, che in maggio­ranza si era formata sotto la sua guida51. Nella storiografia marxista nega ci sia « qualcosa di nuovo, di autonomo, indipendente » 52 per cui si possa

48 F. D iaz, La storiografia di indirizzo marxista, cit., p. 346.49 D. Cantimori, Epiloghi congressuali, p. 840 di Studi di storia.50 Ibid., p. 839.51 Cantimori replica alla lettera di Tassinari, Zanardo, De Felice ecc. cit., in Mo­vimento operaio, 1956, nn. 1-3. Più tardi arriverà a negare questa sua funzione con­siderandola « un’affermazione gratuita e infondata » (Conversando di storia, Bari, 1967, p. 126).32 Ibid., p. 324. La polemica è rivolta all’art. di A. Caracciolo, Gli studi marxisti sull’Italia contemporanea, in L’Unità, 20 settembre 1956.

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realmente parlare di una svolta. Al di là di un « notevole progresso in parte quantitativo », rilevabile negli articoli e nei saggi di storia contem­poranea, e di un’intensificazione e ampliamento di orizzonti nel campo della ricerca non avverte alcun segno di effettiva originalità. È vero che la tema­tica affrontata coinvolge, ormai senza complessi d ’inferiorità, la stessa area dei problemi tradizionalmente investigata dai seguaci di Croce e dell’idea­lismo in genere. Ma da questo stato di cose si guarda bene dal trarre con­clusioni eccessive o affrettate: « È veramente subalterno — scrive — nel campo degli studi storici credersi ad una svolta perchè si partecipa all’at­tività degli egemoni » 53.

Dal giudizio complessivamente negativo (in quanto, cioè, le opere degli storici di sinistra non attestano una maturità e un rigore qualitativamente più elevati di quello che è il livello medio della produzione storiografica idealistica) si salvano solo i lavori di Candeloro e Berengo (il quale ultimo, in particolare, ha fornito con La società veneta alla fine del ’700 l’opera che si avvicina di più al suo ideale di storico).

Al Depretis di Carocci, pur apprezzandone l’importanza e l ’interna bel­lezza, pensa faccia difetto un’autentica novità ed indipendenza per cui possa valere a segnare una svolta. Ragionieri, Manacorda, Zangheri, Procacci ecc., non ricorrono neanche di sfuggita nell’esemplificazione per quanto si tratti di nomi cui non aveva mancato di fare esplicito riferimento in altre occa­sioni. Disamorato, stanco e insofferente (la lunga risposta ai « napoletani » contiene un’acidità, una sottigliezza umoristica e un’esegesi quasi lessicale delle loro argomentazioni che è sconcertante e insieme, non di rado, stucche­vole), lo storico ravennate ha un momento di accoratezza risentita e pate­tica. Prende la parola per l’ultima volta, dopo tanti anni di collaborazione con l’attuale generazione marxista di storici, per dichiarare: « in tutte let­tere... non mi considero corresponsabile dei loro schemi, dei loro pregiudizi, delle loro astrattezze, delle loro intolleranze, delle loro chiusure » 54.

È la rivolta dello storico maturato alla lezione della libertà degli studi di Omodeo e di Weber contro il carattere spesso ottusamente strumentale della politica culturale zhdanoviana. Innegabile il peso che, almeno a livello della cultura ufficiale di sinistra (cioè di quella che s’esprimeva nei giornali e nelle riviste del PCI e del PSI), questo indirizzo ideologico-politico ha esercitato, determinando una prospettiva di valutazione dei fatti e dei pro­cessi politico-culturali profondamente deformata da una burocratica e artifi­ciosa « ragion di partito (o di classe) ».

Per fare un esempio che, però, dà la misura di un metodo diffuso so­prattutto nelle recensioni, la lettura di Società è forse il documento più si­gnificativo di quanto profondamente sia penetrato Y ukase zhdanovista55.

« Ibid., p. 325.« Ibid., p. 326.55 Sulle posizioni della versione ufficiale sovietica del materialismo dialettico (e, addi-

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Le reazioni degli scrittori italiani furono quasi irrilevanti. È l’esperienza di un conformismo così massiccio che, in qualche misura, offre una giustifica­zione all’atteggiamento di tenace riprovazione assunto da Cantimori. Quali fossero gli elementi qualificanti dello zhdanovismo è abbastanza noto per richiamarli qui. Semmai vale la pena di ricordarne gli aspetti essenziali: 1 ) disconoscimento di ogni fondamento scientifico (e marxistico) e di ogni buona fede ad opere ed autori criticati per un errore o per una svista ( tal­volta obiettiva, isolatamente considerata) in base ad una concezione « ago- nistico-partitica » della storiografia; 2) tendenza a produrre pochissimo an­che per il timore di « non lavorare come si credeva misticamente si dovesse lavorare ».

Questo metodo di lavoro Cantimori lo illustra lucidamente, se anche con un gusto dell’ironia estremamente pungente: « totalmente da una parte, cioè di tutto facendo professione di fede; e dall’altra parte riducendo la scientificità storiografica a un estremismo esasperato di rigore filologistico formale piuttosto comico » 56.

Occorrerebbe studiare meno approssimativamente di quanto non si fac­cia in questa nota il peso realmente esercitato dalle tesi di Zhdanov sulla ca­pacità e autonomia di ricerca dei marxisti italiani. Non è sufficiente, infatti, fermarsi alla constatazione del conformismo che, sul piano del costume, la sinistra socialista italiana ha regolarmente dimostrato di fronte alle prese di posizione della politica culturale sovietica. Rimane da rispondere a inter­rogativi più gravi e ricchi di conseguenze: fino a che punto lo zhdanovismo ha recato effettivo pregiudizio allo sviluppo dell’indagine storica e al suo interno rigore scientifico, compromettendo coi suoi postulati dogmatici l ’esi­genza di autonomia, di completezza dei dati, di libertà (intesa come non as­soggettamento a una tesi prefabbricata) nelle conclusioni?

Si è trattato, cioè, di un’adesione freddamente politica, inserita nel qua­dro della lotta dei blocchi della guerra fredda, o calata più a fondo sino ad investire le radici stesse del lavoro culturale? Le suggestioni zhdanoviane che si avvertono in alcune recensioni si sono tradotte — al di là di certe forme di devozione nei più conformisti — in opere di più largo respiro ed ampiezza? Iniziative come Movimento operaio, La rivista storica del so­cialismo, Studi storici, per non parlare dei lavori di Manacorda, Candeloro, Zangheri, Caracciolo, Procacci, Ragionieri, Berengo, Carocci, Villari ecc., so-

rittura, dello zhdanovismo) si cerca di allineare lo stesso Gramsci. Cfr. E. Sereni, Gramsci e la scienza d’avanguardia, in Società, 1947, n. 2, pp. 1-30, e M. Aloisi, Gram­sci, la scienza e la natura come storia, in Società, 1950, n. 3, pp. 385-410.56 D. Cantimori, Replica al « quintetto napoletano », cit. Un esame più approfondito e meno accademico dello zdanovismo, delle sue conseguenze tra gli intellettuali di sini­stra si svolse, nel 1956, sulle colonne delVAvanti!, di Emilia, del Contemporaneo e di Nuovi Argomenti. Per una rassegna bibliografica delle posizioni cfr. S. C [aprioglio], Politica e cultura. Bibliografia, in Ragionamenti, novembre-dicembre 1955; G. Bosio, Il movimento operaio e socialista, cit., pp. 30-31.

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no concepibili all’interno di una cultura che sia stata profondamente inve­stita dal processo di strumentalizzazione teorizzato dal massimo responsa­bile della politica culturale sovietica?

L’importanza di questi problemi (qui solamente accennati) non deve farci dimenticare quelli più essenziali che Cantimori in sostanza non af­frontava, limitandosi ad una feroce ed insieme brillante operazione di stron­catura delle posizioni e delle tesi che l’ultima generazione cercava di elabo­rare proprio in risposta alle sollecitazioni stimolate inquietamente dallo sto­rico dei movimenti ereticali.

È stato Cantimori, nella prefazione alla raccolta degli Studi di storia, a riconoscere che « nessuno studioso di cose storiche può fare a meno di cri­teri d ’interpretazione o addirittura di una filosofia, o concezione del mondo o ideologia »57. Una volta accolto come inevitabile il fondamento interpre- tativo-ideologico di ogni ricerca storica (il problema del rapporto ideolo­gia-filosofia-storia) come si poteva, coerentemente, ritrarsi stufati di fronte alla consapevolezza critica ( per quanto grezza e poco affinata potesse essere ) di quanti si sforzavano di dichiarare, apertamente, non tanto l ’indirizzo politico (ormai di pubblico dominio) quanto la misura e il limite della sua rilevanza nell’ambito dell’indagine storiografica marxista, che nell’arco di dieci anni aveva conquistato una fisionomia ben precisa grazie alla pecu­liarità degli orientamenti ideologici e dei criteri interpretativi? Forse che non s’inserivano in questa linea « egemonica » le proposte ( avanzate da più parti nel corso del dibattito ospitato da Movimento operaio) di allarga­mento della tematica degli storici marxisti (il movimento operaio e conta­dino) alla problematica della storia generale condotta ovviamente da un punto di vista di classe? E meritava davvero la beffarda, sprezzante ironia di Cantimori la discussione volta ad accertare la possibilità di elaborare uno storicismo materialistico in grado di accogliere e sviluppare tutta la complessa e ricca dialettica della realtà storica? Era, infine, tanto infondata e così poco urgente l’esigenza di « fare i conti » con la storiografia idea­listica (crociana, etico-politica o post crociana che dir si voglia) da legit­timare il sospetto (esplicitamente manifestato da Cantimori) che la cor­rente storiografica « di sinistra » ( schiava di un impenitente zhdanovismo ) volesse liquidare tutti i problemi storici incapsulandoli negli schemi del me­todo marxista-leninista assunto come la più alta ed elaborata forma di com­piutezza storiografica?

A differenza di Cantimori (che si chiuderà in un atteggiamento di po­lemica meramente negativa e di vero e proprio risentimento), Furio Diaz nell’intervento di Zanardo, De Felice, Tassinari, Zapperi e Melograni (di­scepoli dell’Istituto storico di Napoli e militanti nel movimento operaio), al di là di una certa dose di ingenuità, ha individuato le radici reali della

57 Prefazione a Studi di storia, cit., pp. XI-XII.

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loro inquietudine critica: « ...la loro, più che reticenza o mascheramento era perplessità, incertezza, manifestazione in parte timida e allusiva, in parte magari ingenua e acritica, di un’esigenza che essi avvertivano, ma che non era soltanto loro » 58. Ed è quanto avevano in effetti attestato sia l’intervento di Saitta, sia l ’intero dibattito aperto sulla rivista da lui diretta.

Si trattava, cioè, per dirla ancora con le parole di Diaz, « di ricolle­gare gli studi sulla storia del movimento operaio sia alla trattazione del­l ’intera storia nazionale e mondiale, sia ad un chiarimento di presupposti di metodo e di giudizio storico » 59.

Come si è già rilevato, a Cantimori si può fare risalire il merito di aver posto con forza ed intelligenza proprio questa serie di problemi cruciali, di cui, peraltro, ha finito col disconoscere la reale importanza di fronte al ten­tativo dei suoi migliori allievi e collaboratori di svilupparli sul terreno della ricerca teorica e del lavoro storiografico concreto. Resterebbe da documen­tare (perchè il ragguaglio sulle sue posizioni fosse panoramicamente com­pleto) l ’insistenza con cui Cantimori, negli ultimi anni, è venuto esortando gli storici marxisti e no a cimentarsi con la storia generale, con temi e pro­blemi d’ampiezza universale o, comunque, tali da trascendere l’ambito ri­stretto del movimento operaio e contadino e della pura ( anche se di grande livello ) specializzazione. L’ultima sezione degli Studi di storia registra esau­rientemente questo aspetto della riflessione dello storico ravennate60.

Dopo aver per tanti anni assecondato gli studi monografici, la tendenza allo specialismo e ad « uno strano romanticismo della erudizione » ( quasi un « allenamento », un esercizio preliminare per sobbarcarsi a imprese di più vasto orizzonte ed impegno), la suggestione per le « storie generali », « enciclopedie », « introduzioni », il cui uso risale al Settecento, s’impone alla sua attenzione sino ad acquistare il valore di « seria concezione del la­voro scientifico » 61. Rifiutare ogni disciplina di studio e di preparazione generale è, a suo avviso, tipico dei giovani storici « dall’intelletto compli­cato ». I quali « promettono di eccellere nei loro studi particolari » 62 e col­lezioneranno per i loro concorsi ottimi titoli accademici, ma come insegnanti daranno prove assolutamente negative:

... sapranno uccidere per enfasi m etaforica la « scienza ufficiale », in nom e di una « cultura » tan to generica quanto viva, m agari « progressiva »; ma ignore­ranno la realtà seria e semplice, m odesta e complessa, che si com prende col la­voro disinteressato e disciplinato, e non con la caccia al concreto specifico delle curiosità pubblicate, inedite o sem inedite 63.

58 F. D iaz, La storiografia di indirizzo marxista in Italia, cit., p. 347.89 Ibid., p. 348.60 Cfr. in particolare i seguenti saggi, Per un programma (pp. 745-751), Un trattato di buona storia (pp. 745-759), Il problema della « storia generale » (pp. 800-810), Ancora sulla «storia generale» (pp. 811-829), Epiloghi congressuali (pp. 830-850).61 D. Cantimori, Un trattato di buona storia, cit., p. 754.

Ibid.Ibid.

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E continuava anticipando quel generale apprezzamento negativo che abbiamo visto nelle pagine precedenti:

Non potranno essere considerati persone serie finche mancherà loro quel tes­suto connettivo di ogni «cultura» non effimera, che è una solida istruzione; citano Gramsci, ma non hanno meditato le sue pagine sull’importanza dell’istruzione ordinata per la formazione di intellettuali seri e di scienziati di mente aperta; così promettono di darci una caricatura aggiornata e moderna, raffinata, rivolu­zionaria a parole, ma sostanzialmente anarcoide, della nostra vecchia, tu tta pro­pria e nazionale, malattia letteraria-umanistica 64.

I migliori di questi giovani avevano per proprio conto maturato « quel giustissimo criterio » di metodologia che Saitta indicava quando diceva d’essere « contro una storia del movimento operaio che consideri questo staccato e autonomo dalla storia della classe economicamente e politica- mente egemone ». « In un certo senso — aggiunge Cantimori — si po­trebbe dire che forse essi non avevano bisogno di questo ammonimento: o che per lo meno sono già molto ben preparati ad accoglierlo e farlo proprio » 65.

L’inventario delle posizioni volta a volta assunte da Cantimori ha, cre­do, messo in evidenza la linea apparentemente contraddittoria in cui si è ve­nuto sviluppando ed arricchendo il suo discorso storiografico negli ultimi quindici anni.

Se si potesse ridurre a schema la riflessione metodologica cantimo- riana, i punti essenziali della sintesi andrebbero — a mio avviso — fis­sati prevalentemente nel seguente ordine:

1) riaffermazione della funzione del momento filologico, dell’accer­tamento erudito, della vigilanza critica contro « gli idoli polemici e gli spauracchi del futuro » ( in una parola, della onestà scientifica e della chia­rezza metodologica) nei confronti dell’ideologismo (inteso come tendenzio­sità consapevole), che ha dominato la storiografia d’ispirazione marxistica nell’immediato dopoguerra.

64 Ibid., pp. 754-755. Per cogliere, ancora una volta, il brusco capovolgimento di giudizio (quasi una sorta di reazione umorale o un allentamento dell’abituale controllo critico), compiuto da Cantimori, vale la pena di osservare come il testo succitato rechi la data del 14 agosto 1955. Esattamente un mese prima ben diverse erano state le sue parole e il suo tono nei confronti dei giovani storici « di sinistra »: « ...hanno lavorato molto — scriveva — da quando il Maturi osservava che ancora non si erano cimentati in lavori d’impegno propriamente storico-politico e si erano tenuti alle questioni meto­dologiche, come accade nelle fasi di orientamento e di riorientamento ». Cfr. Per un programma, in II Nuovo Corriere, 14 luglio 1955 (ora in Studi di storia, p. 750).

Come prova della loro vitalità e maturità, Cantimori cita « le molte discussioni che hanno condotte... per liberarsi da impostazioni limitate proprio in uno dei campi che, com’era forse ovvio facessero, hanno più o meglio coltivato, forse da principio secondo la spontaneità del loro interessamento, ma poi elaborando riflessioni e criteri: quello della storia del movimento operaio » (ibid.).65 D. Cantimori, Per un programma, cit., p. 751.

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In prima istanza, cioè, il problema della conciliazione tra concezione ge­nerale del mondo e strumentalità pubblicistica e propagandistica, da una parte, e il rigore filologico-conoscitivo (per cui la storiografia si qualifica come scienza)66, dall’altra, viene risolto da Cantimori su un piano di de­finizione del metodo di lavoro, che esplicitamente si richiama alla lezione di Omodeo, di Weber e della scuola idealistica in generale.

L’accentuazione dell’aspetto metodologico (così marcata negli scritti raccolti in Studi di Storia) corrisponde in Cantimori ad una duplice esi­genza: A) da una parte realizza quel collegamento con la storiografia libe­rale che la nuova generazione marxista (preferendo Zhdanov a Gramsci) aveva trascurato, isolandosi in una presunzione di originalità e di egemonia culturale, che dalle fortune politiche (reali o auspicate) dei partiti operai sembrava obiettivamente trarre ogni titolo di legittimazione e di avallo. Cantimori si sforza di edificare sul terreno reale della situazione culturale italiana la volontà « egemonica » degli intellettuali di sinistra. Nell’idea­lismo, nella produzione storiografica limitata all’impostazione metodologica (nessun lavoro di impegno specificamente storico di Omodeo, Croce ecc., egli, infatti, sottopone ad analisi critica) della scuola crociana (e, soprat­tutto, gentiliana), Cantimori indica gl’interlocutori maggiori del marxismo. Con loro non può fare a meno di misurarsi sino in fondo chi intenda creare (non astrattamente o aprioristicamente) una nuova cultura concepita come alternativa globalmente superiore. In una certa misura, riproponendo il rapporto idealismo-marxismo (o, meglio, l ’esperienza idealistica italiana in campo storiografico e le prime prove degli storici di formazione o di ispira­zione marxistica), Cantimori anticipa una linea che con la pubblicazione dell’opera di Gramsci diventerà ufficiale.

Non mi pare, però, che oltre questa indicazione si possa seriamente andare. Diverse, se anche non opposte, (come vedremo fra poco) sono le conclusioni che Gramsci e Cantimori traggono dal confronto cultura idea- listica-cultura marxistica; B) se nel porre l ’accento sui temi generali di na­tura metodologica collega alla tradizione intellettuale italiana più solida la nuova cultura di sinistra e la àncora a tecniche e strumenti di ricerca, a cri­teri di analisi, a prospettive più ampie e precise di quanto non fosse possi­bile col ricorso ad un orientamento ideologico (forse fecondo sul terreno pratico-politico, ma aridamente schematico e livellatore su quello cultu­rale), Cantimori (come si vedrà nelle pagine successive) conduce in porto un’altra operazione ben più insidiosa: depotenzia il marxismo (o meglio i

66 Cfr. E.H. Carr, Sei lezioni di storia, cit., passim; H. Marrou, La conoscenza sto­rica, Bologna, 1968; la Discussione con gli storici sovietici, aperta dalla Rivista Storica Italiana nel 1962-1964 (cfr. in particolare gli interventi di Z.P. J achimovic, I problemi dello storicismo visti dagli storici borghesi italiani, 1962, fase. I, pp. 136-139; di P. Rossi, Ricerca storica e storiografia « scientifica », ibid., pp. 143-146; G.G. D iligen- skij, La teoria marxista-leninista e la ricerca storica concreta, 1963, fase. I l i , pp. 588- 603, e la replica di P. Rossi, Storiografia e « leggi storiche », ibid., pp. 607-614).

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contributi degli studiosi di tendenza comunque marxistica) a instrumen­tum regni della storiografia liberale, a funzione integrativa, cioè, della sto­ria dello Stato e delle classi dirigenti.

2 ) Riflessione sul rapporto filologia-ideologia, cioè tra la fase dell’accer­tamento scrupoloso, dell’individuazione del materiale documentario e la fase del suo ordinamento critico, della interpretazione e valutazione che non può prescindere dal tipo di orientamento filosofico-politico-ideologico dello storico.

Questo interrogativo, traduce, in ultima istanza, il problema delle rela­zioni cultura-politica ( o intellettuali-politici ) così frequentemente dibattuto sino ad alcuni anni fa nel movimento operaio italiano. Cantimori ha oscil­lato spesso intorno ai due elementi del rapporto, se anche il filologo mi pare abbia più frequentemente registrato successi e una intensità di parteci­pazione inconfrontabile con il livello della passione politica (o della divul­gazione propagandistica)67. Ma questa oscillazione, questa irrisolta tensione non diventa al limite infecondo esercizio, sterile inquietudine intellettuale? Mi pare si possa rispondere negativamente in quanto, con gli anni, la me­diazione e la sintesi compongono in un quadro uniforme interessi scientifici e sollecitazioni politiche, ma anche perchè si tratta « di quella vitale pro­blematica interna, senza di cui lo storico diventa pedante espositore di fatti o, all’inverso, funambolesco architetto di storie a disegno » 68.

Per sfuggire alle implicazioni contenute nel rapporto filologia-ideologia lo studioso dei movimenti ereticali ha seguito due strade diverse, nel com­plesso poco lineari e, anzi, contraddittorie, meno che nella soluzione finale che sbanda sempre da una sola parte. In un primo tempo ha indicato nel lavoro specialistico (trattazioni monografiche, storie locali, raccolte bi­bliografiche ecc.), il campo di ricerca più formativo per la giovane scuola marxista. La minuziosità filologica applicata ai dati sociali ed economici della storia del movimento operaio e contadino era come una sorta di tiro­cinio indispensabile per munirsi degli strumenti essenziali, così accortamente e magistralmente adoperati dagli storici della tendenza etico-politica, se si voleva seriamente contestarne il dominio. Le sei annate della rivista Movi­mento operaio fino al 1955 costituiscono l’espressione più organica ed esemplare di questa tendenza alla specializzazione nella ricerca dei fatti e dei documenti del movimento operaio contadino in Italia, quale era stata sollecitata da Cantimori.

All’inizio della settima annata (gennaio-febbraio 1955), e in un periodo in cui lo stesso Cantimori accennava a voler « riabilitare quella storia delle idee che gli amatori con realismo storiografico tutto, e cioè unilateralmente,

67 Cfr. la recensione di F. Diaz a Studi di storia su II Ponte, cit., p. 1454.68 Ibid., p. 1455.

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economico-politico sembrano voler considerare dall’alto in basso » 69, il di­rettore, Armando Saitta, propone di passare da « un certo tipo di ricerca filologica fine a se stessa ed avulsa da ogni problematica storiografica, cul­turale e politica » ( della quale — aggiungeva — « un po’ tutti siamo ormai stanchi » ) ad una concezione meno segnata da quel « carattere massiccia­mente documentario e filologico » proprio delle origini della rivista, in cui si palesava necessario « il raccogliere quanto più materiale fosse possibile, lo scavare in profondità entro il limite di piccoli settori geografici senza abban­donarsi ad ambiziosi desideri di sintesi premature ».

Lo specialismo filologico nel discorso di Saitta poteva essere supe­rato: 1 ) per il tramite di un ampliamento della ricerca diretta a collegare gli studi sulla storia del movimento operaio con la trattazione dell’intera storia nazionale; 2 ) chiarendo preliminarmente le premesse di ordine meto­dologico e di giudizio storico con cui questa interazione andava compiuta.

Cantimori non accoglie nessuna delle istanze avanzate da Saitta (a lui così vicino come storico) nè dal punto di vista della validità nè da quello dell’opportunità:

1 ) perchè non ritiene possibile una storia « totale », condotta da un punto di vista rivoluzionario ( marxista-leninista ). Da una parte si era « agli inizi (come spesso si tende a dimenticare) di una epoca storica, non alla fi­ne; e la storiografia, già lo disse Hegel, è come la civetta di minerva: si muo­ve nel crepuscolo della sera » 70. Dall’altra, nella fase in cui si trovavano gli studi storici sul movimento operaio in Italia in quegli anni (ancora d’inda­gine, di reperimento e di valutazione del materiale, di monografie, di tenta­tivi ecc.), non si poteva procedere senz’altro all’attuazione dell’esigenza ( « dimostrata teoricamente » ) della « storia totale », « criticando e valutan­do ogni opera concreta in quanto e per quanto la soddisfi », a meno di non voler mettere il carro davanti ai buoi;

2) perchè

un ampliamento della problematica di una tendenza o « indirizzo » di lavoro non può sorgere che da una intensificazione e da un approfondimento della spe­cializzazione e... questo non si può avere altro che ad un certo « grado » di ma­turazione, non si può ottenere con progetto di incubatrici e neppure con vere incubatrici, ma soltanto o aiutando (con lavori specializzati, artigianali o meno, non con teorizzazioni) chi lavora alla rivista e bene, tutto sommato, e proficua­mente, o producendo lavori come Candeloro, Berengo, Carocci71;

3) perchè, conoscendo direttamente gli esponenti della corrente marxi­stica, temeva che la trasformazione di Movimento operaio in rivista di storia

69 D. Cantimori, Storicismo e storiografia, in Studi di storia, cit., pp. 82-85.70 Cfr. in Movimento operaio, a. V II, n. 1-3, p. 329.71 Ibid., pp. 331-332.

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generale degli ultimi secoli sotto l’insegna del marxismo avrebbe accentuata « quella tendenza agonistica a far chiesuola ( sette, se volete ) » già notata fra i giovani dell’ultima generazione;

4) perchè fare di Movimento operaio (« rivista nata e vivente in quanto specializzata » ) una sede di raccolta di lavori scientifici su questioni e tentativi di storia « totale » significava deformarla in rivista generale di metodologia, storia delle idee ecc.

Le argomentazioni che Cantimori svolge per rendere ragione del suo doppio no alle proposte di Saitta sono forse il segno più indicativo dell’in­voluzione, in cui la logica del risentimento da una parte e del formalismo dall’altra, possono indurre anche uno scrittore estremamente lucido e pe­netrante 72.

Non è questa la sede e la circostanza più adatta per discutere i giudizi cantimoriani. Perchè chi legga abbia chiaro il valore di scelta storiografica emergente da essi occorre, però, aggiungere ancora qualche elemento al quadro delle posizioni di Cantimori qui inventariate. Nello stesso momento in cui indica agli storici marxisti la via delle ricerche specializzate, anzi li stimola all’intensificazione e all’approfondimento della specializzazione, com­pie contro di loro la rivendicazione del valore della storia delle idee con « i toni e la passione che si riscontrano in F. Venturi » 73. Denuncia fero­cemente lo « snobismo dello specialismo », gli eccessi del filologismo, i li­miti così angusti della ricerca; sottolinea ripetutamente l ’esigenza della storia generale appellandosi — a sostegno di tale istanza — a uomini come Burckhardt, Michelet, Couzet (per la cui Storia generale delle civiltà scrive la prefazione), Lucien Febvre, Toynbee e Trevor-Roper.

A Cantimori poteva sembrare sciocca la contrapposizione tra piccola storia e grande storia, poteva protestare la sua innocenza di fronte all’insi­nuazione di chi lo vedeva relegare i marxisti nel ghetto della ricerca parti­colare e minuta (situazione « subalterna »), lasciando ad altri (gli « egemo­ni ») le sintesi generali, le questioni di fondo (la « grande storia »), ma di fatto che cos’era se non un disconoscimento o una sottovalutazione del mar­xismo (della concezione materialistica della storia) il credito fatto alla pro­blematica di un Toynbee o di Trevor-Roper circa la possibilità di elaborare una storia generale? Perchè l ’incidenza delle « interferenze allotrie » nelle ri­

72 Non è, forse, un caso fortuito che la lunga replica al « quintetto napoletano » non sia stata inserita nella silloge einaudiana e non vi abbia trovato posto, inspiegabilmente il saggio su Lenin pubblicato nelle Questioni di storia contemporanea di Marzorati (1953, pp. 693-716), nè le voci apparse nell’Appendice II dell’Enciclopedia Italiana Co­muniSmo, Marx Materialismo storico ecc., nè — per quanto si tratti di un testo vecchio, ma mai raccolto — le Note sul nazionalsocialismo (pp. 1-42) apparse nelle pubblica­zioni della Scuola di scienze corporative dell’Università di Pisa ad introduzione del volume di C. Schmitt, Principii politici del nazionalsocialismo, Firenze, 1935, nè al­cune recensioni su Rinascita (a Marx, L’Ideologia tedesca, Troeltsch, Lamartine, Brevier ecc. ).73 F. D iaz, La storiografia di indirizzo marxista, cit., p. 351.

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cerche di storia universale o « totale » degli scrittori non marxisti doveva sentirsi meno che nella giovane scuola italiana da Cantimori accusata di sog­gezione allo zhdanovismo proprio per aver proposto di trasformare Movi­mento operaio in rivista di storia generale 74 ?

È in gioco, come si vede, qualcosa di più che un aspetto marginale o secondario della riflessione cantimoriana: il fondamento della sua appar­tenenza alla storiografia che individua nel marxismo-leninismo la bussola dell’orientamento generale e gli strumenti del lavoro politico-culturale.

Un conto è, infatti, l’adesione politica alle lotte del movimento operaio, alla sua strategia generale e alla sua tattica quotidiana, un altro e ben diverso discorso è accettare di essere definito, senza protestare e chiarire in maniera netta e definitiva il ruolo che intendeva coprire « uno dei più fini, dei più rigorosi storici marxisti della nostra generazione » 75.

A Cantimori — come scrittore — va dato atto della sua formale coe­renza. Nè prima nè dopo il dibattito aperto su Movimento operaio si è mai abbandonato a dichiarazioni di fede o di adesione ideologica che legit­timassero seriamente dubbi o sospetti sul suo orientamente storiografico.

Walter Maturi ha osservato 76 come l ’improvvisa decisione di Cantimori di iniziare la collaborazione a Società (a una rivista, cioè, di impostazione opposta alla sua formazione idealistica sul piano metodologico generale) rendesse necessaria la ricerca di « una saldatura fra la storia della cultura — che era stata l’oggetto del suo precedente lavoro storiografico — e la sto­ria delle concrete forze politiche sociali, condotta dal punto di vista marxi­sta — e la giustificazione teorica e metodologica di questa saldatura » 77.

Cantimori non ha raccolto questo invito a fornire una giustificazione di principio e di metodo, ma ha applicato al marxismo i sistemi e le tecniche di studio proprie della sua cultura, della cui ricchezza, rigorosità e forza gli Studi di Storia sono un’imponente testimonianza.

La sua adesione ai partiti della classe operaia non muove, dunque, — come cautamente accenna Ragionieri78 — da una seria e consapevole me­ditazione della dottrina marxiana, dalla sua globale accettazione. Ha contato molto di più, forse, « quel certo senso di insoddisfazione — messo in luce da Romeo — verso lo storicismo idealistico che è all’origine di molte conver­

74 Ibid., p. 327.75 Recensione di G. Berti a Studi di storia, cit., pp. 765-774. È solo nel corso della stizzosa e amara polemica con F. Diaz che respingerà queste attribuzioni (cfr. Conver­sando di storia, cit.), rivelando, anche in questa occasione, quel carattere di perma­nente inquietudine e di dubbio su qualunque risultato raggiunto, che Marino Berengo ha affettuosamente lumeggiato di recente (La ricerca storica di Delio Cantimori, in Rivi­sta storica italiana, 1967, fase. IV, pp. 902-943).76 W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana. Scritti in onore di B. Croce, Napoli, 1950, I, pp. 272-273.77 F. D iaz, La storiografia di indirizzo marxista, cit., p. 350.78 E. Ragionieri, La figura e l’opera dell’insigne storico, in L’Unità, 14 settembre 1966.

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sioni al marxismo di studiosi formatisi nel periodo precedente, o di giovani che allora si affacciavano alla vita degli studi; e sarebbe vano cercarne nella stessa cultura la spiegazione, quando, ancora, la produzione storiografica marxista si limitava al libro del Sereni sul Capitalismo nelle campagne ed appena cominciavano ad apparire i Quaderni del Gramsci, le riviste Società e Rinascita e qualche saggio o edizione di argomento buonarrotiano » 79.

Quanto grande sia il contributo che l’idealista Cantimori ha dato al­l’espansione, all’approfondimento, allo studio critico del marxismo non è il caso di sottolineare qui. Basterebbe fare un elenco di quanti fra i massimi esponenti della cultura storiografica italiana di sinistra furono suoi allievi o sono stati influenzati dal suo insegnamento (Berengo, De Felice, Ragio­nieri, Zanardo, Zangheri, Carocci, Della Peruta, Saitta, Vivanti, Manacorda, Villari ecc.). I suoi interventi su Società, Rinascita, Itinerari per quanto concerne la direzione degli studi sulla storia del movimento operaio e conta­dino in Italia, tradiscono, tuttavia, il limite della sua formazione gentiliana. Si prenda per esempio la sua riluttanza a favorire l’apertura di un dibattito sui principi di teoria e di metodo all’interno di un gruppo di storici che tendevano a organizzarsi in scuola, o la sua reiterata insistenza sull’oppor­tunità di migliorare, allargare ed approfondire il lavoro di ricerca speciali­stica contro la proposta di porre mano a una storia generale dell’Italia pre e post-unitaria dal punto di vista marxista.

Si trattava, in altre parole, di definire il posto che occupano gli studi sul movimento operaio nel quadro complessivo del processo storico di uni­ficazione nazionale. E in questo senso la risposta di Santarelli, Villari, De Felice, Vicario, Zanardo ecc., era, più o meno dialetticamente, conforme alla linea tracciata da Gramsci80.

Il legame degli studi locali (compresi nel concetto di specializzazione), con la storia nazionale non va, cioè, concepito come diretto a giustapporre mediante spaccati di storia locale e contributi dal basso la trama essenziale della storia d’Italia quale emerge dalla visione della storiografia tradiziona­l e 81: come storia, cioè, delle classi dirigenti, dell’apparato statuale, dei suoi

79 R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Bari, 1963, p. 10; si veda anche E. Cochra­ne e J. Tedeschi, Delio Cantimori-, historian (1904-1966), in The Journal of Modem History, 1967, n. 4, p. 442-444.80 A. G ramsci, Il Risorgimento, Torino, 1949. Si ricordi il passo: « ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe essere di un valore inesti­mabile per lo storico integrale » (p. 193). Occorre, pertanto, secondo Gramsci, studiare la storia delle classi e dei movimenti subalterni legandola a quella dello Stato, della cultura, dei gruppi dominanti — a condizione, ovviamente, che si voglia « fare storia integrale e non storia parziale ed estrinseca (storia delle forze economiche come tali, ecc.) », Il materialismo storico, cit., p. 202 —, in modo tale da « includere tutte le ripercussioni delle attività di partito, per tutta l’area dei gruppi subalterni nel loro complesso, sugli atteggiamenti dei gruppi dominanti e (nello stesso tempo) includere le ripercussioni delle attività ben più efficaci, perché sorrette dallo Stato, dei gruppi domi­nanti su quelli subalterni e sui loro partiti », Il Risorgimento, cit., p. 192.81 E. Ragionieri, Un comune socialista-. Sesto Fiorentino, Roma, 1953, prefazione, pp. 7-15.

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istituti amministrativi, politici e militari, della sua cultura. La funzione delle ricerche locali sui gruppi sociali subalterni è prospettata in maniera profon­damente diversa:

Elaborare un contenuto storico che interessa un numero assai più vasto [di quello della storiografia liberale: nota mia] di uomini e di fenomeni umani e, attraverso questo, pervenire ad una storia complessiva di tu tta la società. Perciò quegli studi di storia locale che nella ricostruzione della storia d ’Italia pongono al loro centro il movimento operaio non si giustappongono meccanicamente ad una concezione essenzialmente politico-statale della storia d ’Italia, ma preparano ed elaborano materiale per una storia nazionale di tipo diverso, la quale trovi il suo centro e il suo momento di maggiore importanza nell’attività degli uomini co­stituenti il complesso della società civ ile82.

La posizione di Cantimori (favorevole — come si è visto — al lavoro di specializzazione) finiva, invece, con rincontrarsi con quella di Rosselli83 e di Romeo, che l ’ha illustrata con estrema chiarezza laddove ha scritto: « Non si dà storia nazionale fuori del centro unificatore rappresentato dalle classi dirigenti attraverso la cui opera soltanto vengono coordinate — per azione diretta o per reazione — e acquistano significato nazionale le vicende frammentarie e locali delle classi subalterne » 84.

Si tratta di un preciso modo di intendere il peso del movimento operaio dentro la storia d’Italia ed il valore degli studi di storia locale: in funzione subordinata, cioè, al positivo morale della classe dirigente mediatrice degli aspetti e delle vicende conflittuali dell’esperimento unitario.

Probabilmente non è solo un caso che Cantimori non si sia mai posto il problema di una lettura organica dell’intera produzione storiografica di Rosario Romeo, che costituisce una vera e propria dichiarazione di guerra per ogni storico marxista. In essa non si trova traccia delle vecchie « teste di turco » della polemica del ’56 (come la « storia delle idee », cara all’idea­lismo degli epigoni di Croce e Omodeo), nè il carattere dinamico, pro­gressivo, dell’opera della borghesia liberale italiana, in un secolo di ege­monia, è fatto dipendere da un’astratta circolazione ideologica, da giudizi di valore e principi ideali trasmessi, come una bandiera da difendere, da una generazione all’altra, ma dalla costruzione di un sistema di convi­

82 E. Ragionieri, Un comune socialista, cit., p. 11. Sull’importanza degli studi di storia locale cfr. i contributi — prevalentemente in polemica colla linea di Movimento operaio — apparsi sulla rivista Emilia e, in particolare, E. Ragionieri, Considerazioni sugli studi locali (dicembre 1952); G. Scalea, Sulla storiografia del movimento ope­raio (agosto 1954); M. Spinella, Su una rassegna di storia del movimento operaio, cit.; R. Zangheri, Una grande storia (novembre 1954); I d., Gli studi storici sul mo­vimento operaio italiano dal 1944 al 1950, in Società, 1951, pp. 308-347; A. Carac­ciolo, Per una storia del movimento contadino in Italia, in Società, 1952, n. 3, pp. 469-496; L. Valiani, Questioni di storia del socialismo, Torino, 1958. E, di recente, G. Q uazza, La Resistenza italiana, Torino, 1966, pp. 120-122.83 N. Rosselli, Saggi sul Risorgimento e altri scritti, Torino, 1946, pp. 396-397.84 R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, cit., p. 64; e Storia regionale e storia nazio­nale, in Cultura moderna, dicembre 1952.

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venza sociale che poggia su una struttura determinata di leggi e di istitu­zioni economiche e politiche.

Si può discutere il fondamento della sua interpretazione del funziona­mento del meccanismo di accumulazione capitalistica8S, ritenere utile un riesame più accorto dell’uso delle statistiche, delle fonti economiche, delle inchieste e relazioni ministeriali, da lui compiuto nello « schema a tesi » di Risorgimento e capitalismo e della Breve storia della grande industria in Ita lia86. Non c’è dubbio, però, che il terreno del confronto storiografico non è più tra diverse lectio sacrae paginae (liberalismo e socialismo, Croce e Gramsci ecc.), ma su un terreno di metodo scientifico che comporta stra­tegie politiche diverse.

Le forme di sviluppo del capitalismo italiano e il tipo di organizzazione della società e dello stato che ne è derivato sono al centro delle indagini di Romeo. La ricchezza di risultati, percepibile nella storiografia degli ul­timi anni, arrecata dall’adozione — da parte di Romeo — di strumenti in gran parte nuovi, almeno in Italia — come la teoria economica, i bilanci dello stato, le serie statistiche su investimenti, consumi, prezzi e salari, la

85 In effetti, il funzionamento del modello di sviluppo capitalistico costruito da Ro­meo si fondava su una serie di assunzioni negative e, talvolta, non sempre argomentate con esattezza (come mostreranno Zangheri, Cafagna, Gerschenkron ecc.); cristallizzava categorie economico-sociali come il capitale, il processo di accumulazione ecc., presen­tandoli nella veste di leggi naturali e assolute dello sviluppo economico; liquidava come storicamente arretrata — sulla base dell’esperienza francese (e anche qui Zangheri muo- verà rilievi critici importanti) ■— l’attuazione di una rivoluzione agraria, per le sue conseguenze sull’ascesa del capitalismo nelle campagne del nord (in particolare per la contrazione del profitto, elemento fondamentale del processo di accumulazione) ecc. Si veda, di recente, R. Zangheri, Ricerca storica e ricerca economica, in Studi storici, 1966, n. 3, pp. 451-470; P. V illani, Il capitalismo agrario in Italia, ivi, pp. 471-514; Problemi storici dell’industrializzazione e dello sviluppo, Urbino, 1965.

La spregiudicatezza con cui Romeo (non meno di Emilio Sereni, il primo studioso che, alla luce della problematica marxista del processo di sviluppo capitalistico, « ha compiuto — come ha riconosciuto lo stesso Romeo — un serio sforzo di reinterpreta­zione dello sviluppo della società italiana nei primi quaranta anni dell’unità », senza avere se non scarsi continuatori) ricorre all’arma del se, mostrando le conseguenze di una politica economica diversa da quella storicamente realizzata dalla borghesia al potere, avviene all’interno di un discorso che, se s’innesta su un’esplicita fiducia nella razionalità riequilibratrice del capitalismo italiano, ed ha quindi un’ispirazione poli­tica immediata (« altamente positiva nella storiografia » da qualunque parte venga, co­me ha notato Villani), anche da un punto di vista scientifico ha le carte perfettamente in regola.86 Cfr. R. Zangheri, La mancata rivoluzione agraria nel Risorgimento e i problemi economici dell’unità, in Studi gramsciani, Roma, 1958, pp. 369-384; L. Cafagna, In­torno al « revisionismo risorgimentale » , in Società, 1956, pp. 1015-1035; A. G erschen­kron, Rosario Romeo e l’accumulazione originaria del capitale, in Rivista Storica Ita­liana, 1960, n. 1; A. Caracciolo, La formazione dell’Italia industriale, Bari, 1963; C. P etruccioli, Una interpretazione moderata della storia dell’industria italiana, in Rivi­sta storica del socialismo, 1963, n. 18; la nota critica estremamente acuta — in forma di recensione dei libri di Romeo e Caracciolo — di G. Are, in Studi storici, 1964, n. 1, pp. 169-183. Per una rassegna delle posizioni delineatesi nel dibattito provocato da Romeo cfr. E. G rendi, Rassegna delle riviste, in Movimento operaio e socialista in Liguria, 1961, pp. 75-82.

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politica fiscale, creditizia, l ’azione delle banche e degli strumenti di poli­tica monetaria ecc.), da una parte dovrebbe indurre ad ampliare la rasse­gna delle opere ispirate alla « storia delle idee » sino ad includervi, a pieno diritto, i lavori di molti marxisti della prima leva del dopoguerra (Alatri, Ragionieri, Manacorda, Della Peruta ecc.)87; dall’altra risolveva la querelle dibattuta su Movimento operaio cambiando segno, coll’aflermare la validità esclusiva della prospettiva della classe dirigente (i rapporti borghesi espres­si dal capitale) e tramutando la comprensione storica del rapporto pas­sato-presente in una sorta di giustificazionismo di lungo periodo.

Come reagire alla riqualificazione dello schema ideologico tradizionale -— attraverso il quale la storiografia moderata solennizzava la propria fun­zione di classe egemonica — , che Romeo compie con una tematica ed una tecnica di ricerca apparentemente di colore scientifico-materialistico? A quale metodo ricorrere per mostrare la proiezione politica di cui era un riflesso il giudizio di « positività storica » del capitalismo italiano dato da Romeo, accantonando le battute polemiche e identificando, con altrettanta modernità ed efficacia, il processo reale dell’accumulazione, la formazione di un mercato capitalistico unificato, l ’origine ed il consolidarsi degli squilibri settoriali e regionali ecc.?

Da Cantimori non viene alcuna risposta sulla strada da seguire. Anzi, al significato liquidatorio dell’attacco di Romeo contro tutta la corrente di studi d’ispirazione gramsciana, egli non oppone un gesto che tradisca la amarezza o il dissenso di veder giudicati con tanta severità e asprezza i suoi più giovani e migliori allievi ed amici. Ormai, conquistato da J. Burckhardt, rimira la politica con disgusto ed orrore, come un’antica pas­sione spentasi nel rimorso di averla coltivata, un tempo, con slancio ed ardore sinceri.

« L ’amara ironia, il sorriso sardonico che aveva rilevato nello stile di Burckhardt erano divenuti l ’espressione del suo atteggiamento interiore » 88.

Al giovane marxismo italiano, ormai autonomo seppur politicamente condizionato, non resta che procedere da solo e svilupparsi su se stesso,

87 In una situazione culturale nella quale la padronanza della tematica marxista dello sviluppo è limitatissima (il libro di Sereni, Il capitalismo nelle campagne vede la luce nel 1947 e sarà riconosciuto nel suo reale significato e valore in seguito alla pole­mica suscitata da Romeo, nel 1956), e mentre dal seno della storiografia moderata co­minciano a esprimersi posizioni di rinnovamento e di riforma dell’ortodossia crociana, manca alla prima generazione marxista italiana un approccio scientifico, in senso marxia­no, ai problemi affrontati. Le stesse strutture originate dal « modo di produzione » o dalla « formazione storico-sociale determinata » in questi scrittori s’incontrano meno che nella stagione più felice della storiografia economico-giuridica di Volpe, Villari, Salvemini ecc. Che, in seguito alla diffidenza insegnata da Croce per le scienze sociali ed empiriche lata sensu, « l’iniziativa negli studi storici di impostazione economica o sociale [sia] passata... ai marxisti », è vero se si fissa il termine a quo nell’interesse provocato dai saggi di Romeo su Nord e Sud. Cfr. H. Stuart H ughes, Gli studi di storia moderna italiana in America, in Rassegna storica del Risorgimento, 1958, p. 276.88 Cfr. W. Kaegi, Ricordo di Delio Cantimori, cit., p. 899.

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cumulando errori e favorendo commistioni che sono alla radice degli at­tuali orientamenti prevalenti in sede politica e culturale89.

Soprattutto non mi pare che esso utilizzasse in tutte le sue prospettive e implicazioni la domanda, rimasta completamente inevasa, posta da Saitta con forza, ma senza un’adeguata coscienza delle ripercussioni che poteva aversene su tutti i piani della riflessione teorica e della prassi materiale per il movimento di classe, in una fase cruciale come quella attraversata nel ’56:

Il Croce a lungo predicò che la storia non si scrive coi se; vogliamo dun­que tornare al se e ammettere che un’alternativa è sempre presente nella storia, nel caso specifico l’alternativa delle masse contadine tra il sanfedismo e la rivo­luzione radicale-contadina? Per quanto mi concerne, io sono per l ’alternativa, ossia per tu tto ciò che corrode il determinismo provvidenzialistico e teleologico dell’hegelianismo deteriore e ci permette di cogliere il perchè di quelle crisi ricorrenti nella storia, che la luce troppo meridiana dello storicismo crociano è costretto a spiegare solo con aberrazioni irrazionalistiche o malattie dello spi­rito; comunque non mi pare che teoricamente il problema sia stato ancora svi­scerato e chiarito in maniera esaustiva 90.

Questa teoria dell’« alternativa storica », se approfondita nei suoi nessi interni per lo studio delle forze sociali sconfitte o soffocate nel passato, e nei suoi collegamenti col presente, avrebbe potuto mettere in luce, come meritava, la gravità del « morbo hegeliano » (nella peggiore versione cro­ciana), di cui soffriva sia lo storicismo idealistico sia il marxismo italiano del secondo dopoguerra: tutto preso com’era nella spirale delle ricostru­zioni ideologiche o nella mitizzazione politica dei documenti, volta a volta ricuperati e fatti rivivere, della storia del movimento operaio e contadino, senza avvertire il pericolo — richiamato da L. Dal Pane — di « servire il grande capitalismo, credendo di servire il socialismo » 91.

Saitta dava un’indicazione di lavoro straordinariamente importante. E, in ogni modo, decisiva, per segnare, in quel momento di generale confu­sione ed impasse, un preciso spartiacque tra storiografia borghese e storio­grafia marxista in Italia, onde evitare le non remote, paradossali e cruente

89 Sull’incidenza della più grande tradizione culturale borghese italiana nella forma­zione dei marxisti, negli anni del dopoguerra, cfr. L. G eymonat, Troppo idealismo, in Il Contemporaneo, 7 aprile 1956; G. Della Volpe, Forza creativa, ivi; G. Scalia, Neocrociani, ivi; A. P izzorno, Aver coraggio, ivi, 19 maggio 1956; L. Colletti, L'uomo e la scimmia, ivi, 12 maggio 1956, ed altri apparsi sulle colonne deli.’Avanti! Si veda anche il dibattito svoltosi su Ragionamenti, Tassato e Presente, Rivista storica del socialismo, Rivista di filosofia, e gli echi in C. Cases, Marxismo e neopositivismo, Torino, 1958, e A. A sor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, 1965.90 Cfr. A. Saitta, Epilogo provvisorio, cit., p. 783.91 Cfr. L. D al Pane, Esame di coscienza, in Esperienze e studi socialisti, Firenze, 1957, p. 63. Contro il « puro sussidio di un dogma politico assunto come una rivela­zione teologica », Dal Pane richiama l’esigenza di tener conto del « comunissimo ca­none di metodo che ci avverte di giudicare rispetto alle condizioni preesistenti e con­comitanti, con la ricerca obbiettiva dei presupposti strutturali, i soli capaci di farci intendere la realtà dei processi storici al di fuori delle ideologie di cui questi si ve­stono », ivi.

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« guerre fratricide » all’interno di una comunità di storici solidamente — a prescindere da qualche smagliatura reazionaria — pacificati nel segno del­la ritrovata conversione e unità nello storicismo « crocio-gramsciano ».

Ma su questo punto la discussione fu lasciata cadere come una patata bollente, col pretesto — anche da parte dei più sensibili e coraggiosi — che « è piuttosto complesso scendere sul terreno delle innumerevoli arti- colazioni e sfumature in cui effettualmente la teoria del se e dell’« alterna­tiva storica » ha preso corpo e sostanza sottoforma di « alternativa delle in­terpretazioni storiografiche » 92.

Era una dichiarazione di resa, motivata con falsi problem i93. Oggi, più chiaramente di ieri, è, infatti, possibile intrawedere dietro di essa una volontà politica inequivocabile di troncare una discussione che avrebbe fi­nito per investire la tattica e la strategia « democratica » dei partiti di sini­stra nel dopoguerra.

L ’intervento di Saitta e l ’insistente ritornare di Cantimori sulla storia vista su scala globale (anche nel momento degli scavi e delle esplorazioni settoriali e « minori ») traducevano, più o meno inconsciamente, in termini di necessità storiografica l ’interesse pratico-politico del PCI di porre fine all’esperimento di Movimento operaio. Come ha notato Gianni Bosio (ma senza consentire su tutti gli aspetti del suo discorso)94, la rivista, rozza­mente, col suo marxismo grossier, senza curarsi delle necessarie mediazioni e della molteplicità delle connessioni che una contestazione così radicale doveva tenere presenti, col contrapporre ima storiografia « proletaria » a quella « borghese » dominante non faceva che riproporre una linea sostan­zialmente analoga a quella teorizzata dagli storici tradizionali. Essa, infatti, finiva per considerare « il movimento operaio come il prodotto dell’azione e dell’organizzazione di una classe subalterna » e tendeva, quindi, « non solo a limitarne la portata, ma addirittura a distaccarla dal tessuto della sto­ria nazionale » 95.

Posizione settaria ed estremistica che, contraddicendo al principio del recupero della tradizione storicistica illuminata e progressiva nel centro unificatore del « nazionalculturale », attaccava le basi politiche delle al­leanze « nazionalpopolari » e prospettava, di conseguenza, soluzioni e com­

92 Cfr. L C [afagna] e M.A. S[alvaco], Sviluppi della storiografia marxista in Italia, cit., p. 187.93 Gli interventi di Zangheri e Cafagna, già citati, furono una prima smentita di questa presunta difficoltà. Per il periodo più recente basta dare uno sguardo alla sto­riografìa economica e storico-economica americana, alle discussioni suscitate — per esempio —- da R.W. Fogel, A.H. Conrad e J.R. Meyer coi loro saggi sulla schiavitù e sullo sviluppo della rete ferroviaria, per rendersi conto che « l’alternativa storica » viene, oggi, addirittura misurata quantitativamente, è cioè un momento essenziale della analisi empirica, che spazza via — senza neanche bisogno di discuterli — i pregiu­dizi crociani e idealistici, in genere, sulle « possibilità » storiche mancate.94 Cfr. G. Bosio, Il movimento operaio e socialista, cit., pp. 25 sgg.95 Cfr. M. Spinella, Su una rassegna di storia del movimento operaio, in Emilia, giugno 1951. La rassegna cui Spinella si riferiva era quella di R. Zangheri, Gli studi storici sul movimento operaio italiano, in Società, 1951, n. 2, pp. 308-347.

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portamenti al di fuori della concezione « italo-marxista » dell’egemonia del­la classe operaia e della sua funzione dirigente. Merito di Gramsci, To­gliatti, Sereni e di quanti — secondo M. Spinella — incarnavano l ’esempio . del superamento di ogni subordinazione all’ideologia e alla prassi politica della borghesia capitalistica, era di aver interpretato correttamente il mo­nito di Stalin secondo cui « per quanto aspra possa essere la lotta di classe, essa non può portare alla scissione della società ».

«Una unica società, quindi, una unica nazione italiana [...] e per­tanto una unica vera storiografia del movimento operaio: quella tendente a rinnovare l ’interpretazione borghese della nostra storia » 96.

Tenendo conto di questo contesto, in ultima analisi si può dire che nella ricerca di un rapporto dialettico, di osmosi, che segnasse la continuità di una grande tradizione — nelle persone dei suoi esponenti più avanzati — come quella liberale colla corrente marxista, Cantimori rispecchiava, oggettivamente o consapevolmente (ce lo dirà, probabilmente, Giovanni Miccoli al termine della sua densa e puntuale ricerca)97, lo svolgimento della politica comunista in un momento di difficile riconferma della sua disponibilità ed apertura a collaborare con forze e partiti non organica- mente collegati al proletariato contadino ed operaio e alla sua strategia rivoluzionaria.

In generale, però, questi sforzi, tentativi, esperimenti e propositi — intensamente coltivati dietro la maschera proverbiale e posticcia di scon­trosità ed asprezza — nell’intento di ricondurre ad unità la cultura storica italiana, lacerata nel suo tessuto interno da contrasti e irrigidimenti sem­pre più incomprensibili ed ostici ad uno spirito che aveva partecipato, da protagonista, alle diverse esperienze e variazioni della storiografia e degli studi in Italia, hanno finito col precisare la natura dell’adesione di Canti­mori al marxismo. Tanto in esso quanto nel suo ideale storiografico si ri­sente più l ’eco della humiana « Ragione-strumento della costruzione di sem­pre provvisorie carte di navigazione » propria dell’inquietudine di uno stu­dioso finissimo degli smarrimenti e delle ansie del mondo ereticale europeo, che non « la ragione pianificatrice totale a priori », profondamente estra­nea alla regola di condotta (l’ars dubitaneli et confidendi, ignorandi et sciendi) dei suoi eroi perennemente sconfitti ed esuli98.

Salvatore Sechi

98 Ibid.97 Cfr. G. Miccoli, Belio Cantimori, in Nuova rivista storica, 1967, fase. V-VI, cit.98 Le citazioni in virgolato o sottolineate sono riprese da F. D iaz, op. cit. (ma E. Ga­rin) e da M. Berengo, op. cit. Sul significato del marxismo di Cantimori cfr. le notazioni di N. O. a Studi di storia, in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, 1960, tome XXII; G. Busino, En souvenir de Delio Cantimori, cit., e, di recente, Belio Cantimori, in Histoire et société en Italie, Panvierth, 1968, pp. 156-159; G. Manacorda, Ricordo di Belio Cantimori, in Studi storici, 1966, n. 3, pp. 639-643; P. Spriano, Delio Cantimori, in Rinascita, 17 settembre 1966; G. Spini, Per Belio Cantimori, in II Ponte, 1966, n. 8-9, pp. 1032-1035; E. Ragionieri, su L’Unità, cit.; E. Cochrane e J. Tedeschi, Delio Cantimori-, historian (1904-1966), cit.