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STUDI E DOCUMENTI MUSSOLINI E LE FORZE ARMATE * La politica militare del fascismo fu sempre strettamente subor- dinata alle esigenze prima della conquista e poi della conservazione del potere. S’intende che questa non è una caratteristica esclusiva del fa- scismo, chè ogni partito vede anche la politica militare in funzione dei suoi interessi di classe. Ciò che tuttavia colpisce nel fascismo è l’inca- pacità di elaborare una politica militare che andasse oltre le esigenze più immediate della politica interna e della propaganda; è il divario crescente con gli anni tra una politica estera di grandezza e una pre- parazione militare del tutto inadeguata. Per una politica militare rea- listica e lungimirante non bastano parate e propaganda, e nemmeno stanziamenti, ma occorrono programmi concreti; e invece il fascismo non si curò mai di precisare l’indirizzo dell’espansione italiana (Medi- terraneo, Balcani, Europa continentale?), né gli obiettivi della prepa- razione bellica (difesa sulle Alpi od offensiva oltremare? protezione del traffico navale o conquista del dominio dei mari?), né il settore in cui esercitare il massimo sforzo (per terra, per mare?), né un orien- tamento di massima nella risoluzione dei problemi dell’esercito (ferma breve o lunga, precedenza agli organici od al materiale, forza bilan- ciata alta o ridotta?), della marina e dell’aeronautica; e via dicendo. In concreto, la politica militare del fascismo è fatta di scelte spesso improvvisate e contraddittorie, il cui minimo comune denominatore è sempre e soltanto la conservazione del potere di un partito e di un uomo — il tutto avvolto in molta propaganda e molta retorica, fino al momento del crollo dinanzi alla realtà della guerra. In questo mio studio, tuttavia, non intendo affrontare l’analisi della politica militare del fascismo in tutta la sua complessità, tanto più che l’argomento è praticamente inesplorato. Mi propongo soltanto di met- terne in rilievo alcuni elementi, e particolarmente il tipo di rapporti che correvano tra Mussolini e gli alti comandi delle forze armate italiane; si tratta di uno degli aspetti più significativi della politica militare del fascismo e pertanto può servire a caratterizzarla in scorcio ’. * Riproduciamo con lievi modifiche la relazione presentata da Giorgio Rochat al Colloquio su «La guerra nel Mediterraneo», organizzato a Parigi dall’8 all’l l aprile 1969 dal Comité d’histoire de la deuxième guerre mondiale. 1 Le fonti di questo studio sono di tre tipi diversi. Innanzi tutto le ricerche suffi- cientemente sistematiche da me condotte sulla politica militare italiana dal 1919 al

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  • STUDI E DOCUMENTI

    MUSSOLINI E LE FORZE ARMATE *

    La politica militare del fascismo fu sempre strettamente subordinata alle esigenze prima della conquista e poi della conservazione del potere. S’intende che questa non è una caratteristica esclusiva del fascismo, chè ogni partito vede anche la politica militare in funzione dei suoi interessi di classe. Ciò che tuttavia colpisce nel fascismo è l’incapacità di elaborare una politica militare che andasse oltre le esigenze più immediate della politica interna e della propaganda; è il divario crescente con gli anni tra una politica estera di grandezza e una preparazione militare del tutto inadeguata. Per una politica militare realistica e lungimirante non bastano parate e propaganda, e nemmeno stanziamenti, ma occorrono programmi concreti; e invece il fascismo non si curò mai di precisare l’indirizzo dell’espansione italiana (Medi- terraneo, Balcani, Europa continentale?), né gli obiettivi della preparazione bellica (difesa sulle Alpi od offensiva oltremare? protezione del traffico navale o conquista del dominio dei mari?), né il settore in cui esercitare il massimo sforzo (per terra, per mare?), né un orientamento di massima nella risoluzione dei problemi dell’esercito (ferma breve o lunga, precedenza agli organici od al materiale, forza bilanciata alta o ridotta?), della marina e dell’aeronautica; e via dicendo. In concreto, la politica militare del fascismo è fatta di scelte spesso improvvisate e contraddittorie, il cui minimo comune denominatore è sempre e soltanto la conservazione del potere di un partito e di un uomo — il tutto avvolto in molta propaganda e molta retorica, fino al momento del crollo dinanzi alla realtà della guerra.

    In questo mio studio, tuttavia, non intendo affrontare l’analisi della politica militare del fascismo in tutta la sua complessità, tanto più che l’argomento è praticamente inesplorato. Mi propongo soltanto di metterne in rilievo alcuni elementi, e particolarmente il tipo di rapporti che correvano tra Mussolini e gli alti comandi delle forze armate italiane; si tratta di uno degli aspetti più significativi della politica militare del fascismo e pertanto può servire a caratterizzarla in scorcio ’.

    * Riproduciamo con lievi modifiche la relazione presentata da Giorgio Rochat al Colloquio su «La guerra nel Mediterraneo», organizzato a Parigi dall’8 all’l l aprile 1969 dal Comité d’histoire de la deuxième guerre mondiale.1 Le fonti di questo studio sono di tre tipi diversi. Innanzi tutto le ricerche sufficientemente sistematiche da me condotte sulla politica militare italiana dal 1919 al

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    I. L’alleanza tra fascismo e militari

    Negli anni del primo dopoguerra in cui lotta per la conquista del potere, il fascismo non ha un programma militare da difendere (benché si rivolga soprattutto agli ambienti di ex-combattenti), ma si limita ad insistere sulla necessità di valorizzare la vittoria del 1918, espandere le frontiere e tutelare gli interessi e i destini d’Italia. In un momento in cui fervono le discussioni sull’ordinamento dell’esercito, il fascismo non prende posizione; cerca invece l’appoggio degli ufficiali nelle lotte civili assumendo un’ostentata difesa dei loro sentimenti e dei loro stipendi. Scrive Mussolini nel 1921:

    Bisogna dare agli ufficiali il modo di vivere decentemente. L’impongono ragioni alte di giustizia e anche d’opportunità e saggezza politica. Gli ufficiali dell’esercito hanno nelle mani l’ordine pubblico2.

    La campagna culmina nell’estate-autunno 1922 con una lunga serie di rumorose dichiarazioni di amore per l’esercito, cui si ricordano le benemerenze patriottiche del fascismo, allo scopo di preparare il terreno al colpo di stato. Questa politica ha pieno successo nei giorni della marcia su Roma, in cui i capi delle forze armate appoggiano il fascismo in modo non evidente, ma decisivo, consigliando al re di evitare la prova di forza. L’alleanza tra fascismo e capi militari (solennemente suggellata dall’ingresso di Diaz e Thaon di Revel nel primo governo Mussolini) nasce così sulla base di un accordo politico e non su un programma militare; i fascisti infatti sono pronti a concedere ai militari tutto ciò che chiedono pur di averne l’appoggio indispensabile per la conquista del potere. Già in questa subordinazione della politica militare alle esigenze del momento si può intravedere il successivo sviluppo della preparazione bellica nel regime.

    L’appoggio totale e dichiarato delle forze armate, che non si incrinò neppure dopo il delitto Matteotti, aveva un valore incalcolabile per il consolidamento del regime fascista. Significava infatti l’avallo morale dei vincitori della grande guerra, con tutte le rassicuranti conseguenze che ciò aveva presso larghi strati di popolazione; e soprat-

    1925, ricerche condensate nel mio recente volume L ’esercito italiano da Vittorio Veneto a M ussolini (Bari, 1967). In secondo luogo lo spoglio della memorialistica disponibile, che però è complessivamente insufficiente, in quanto incentrata sullo scarico delle responsabilità delle sconfitte della seconda guerra mondiale, con una prospettiva quindi assai ridotta e soggettiva. In terzo luogo le ricerche archivistiche da me avviate sulla politica militare del fascismo dal 1925 al 1940, le quali però sono ancora frammentarie. Ne risulta che le tesi sostenute in questo studio non possono essere considerate definitive, ma vogliono soltanto servire ad avviare una discussione sul tema.2 II Popolo d ’Italia, 18 marzo 1921, B. Mussolini, On. Bonomi, pensate agliuffic ia li!

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    tutto metteva a disposizione dei nuovi governanti la più potente forza d’ordine allora esistente. Rovesciare il fascismo con la violenza non era possibile fino a quando aveva l’esercito a sostenerlo; è questo un elemento da tener presente anche nella valutazione della politica aven- tiniana.

    In compenso il regime assicurava ai militari quel clima di esaltazione patriottica e quel governo forte e nazionalista che essi avevano sempre richiesto. Ma soprattutto il regime assicurava ai capi militari il controllo pieno ed assoluto delle forze armate, al riparo da critiche di qualsiasi provenienza; e infatti la libertà di stampa e di discussione fu stroncata rapidamente.

    Questo punto deve essere chiarito bene, perchè è di importanza centrale. Esercito e marina erano sempre stati sottoposti ad un controllo politico poco più che formale; infatti il parlamento ed i governi liberali agivano come se il loro contributo alla difesa nazionale si esaurisse nella concessione della più grossa somma possibile. Ne risultava un ampio margine di autonomia « tecnica » per i militari, i quali erano ben soddisfatti di non avere controlli sulla ripartizione e la spesa dei crediti loro concessi. La funzione di classe delle forze armate era sufficientemente chiara a tutti, militari e politici (e tutelata anche dallo stesso tipo di ordinamento prescelto per l’esercito, che tutta sacrificava alla possibilità di intervento nelle lotte interne) perchè non fosse necessario sottolinearla con una stretta subordinazione al potere politico; anzi, la destra e gli ambienti di corte avevano sempre avuto interesse a svigorire il controllo parlamentare delle forze- armate che alla lunga avrebbe potuto diminuire la loro influenza sugli ambienti militari (caratteristica in questo senso la loro battaglia contro la sinistra democratica ex-combattentistica nel 1919-22). Pertanto lasciando carta bianca a Diaz e Thaon di Revel nella riorganizzazione delle forze armate, Mussolini si inseriva pienamente nella tradizione della destra italiana. Il suo gesto era però destinato ad avere ripercussioni più profonde di quanto si potesse allora credere perchè, se nell’Ottocento esercito e marina avevano potuto svilupparsi come corpi chiusi sottratti ad influenze esterne, la rapida evoluzione degli armamenti e della dottrina militare richiedeva invece negli anni successivi alla prima guerra mondiale un collegamento tra le forze armate ed il paese assai maggiore che per il passato. L’autonomia riconosciuta nel 1922 ai militari doveva perciò ritorcersi contro la validità della preparazione bellica italiana.

    Se ne ebbe subito una dimostrazione. Sfruttando fino in fondo la liberà d’azione concessagli, Diaz riorganizzò l’esercito sul modello prebellico, rifiutando l’esperienza della guerra, sacrificando il rinnovo dell’armamento e della dottrina alla sistemazione dei tanti ufficiali di car-

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    riera, ipotecando anche il futuro con la mole ed il costo dell’organismo militare. L’esercito rinasceva vecchio e pletorico e intanto l’aeronautica era preda di un gruppo di avventurieri capeggiati da un seguace di Mussolini, l’on. Finzi.

    II. Ruolo delle forze armate nel regime fascista

    La nascita ufficiale della politica militare del fascismo risale al 2 aprile 1925 e precisamente ad un discorso di Mussolini al Senato, accolto con entusiasmo delirante. In realtà il discorso è privo di sostanza e contiene soltanto un impasto di luoghi comuni, promesse di grandezza e tirate demagogiche; vi si cercherebbe invano un programma militare concreto. Anche le misure da cui fu seguito (la concentrazione dei ministeri militari nelle mani di Mussolini e la riorganizzazione degli alti comandi) non fecero che consolidare la prassi della separazione delle diverse sfere d’influenza, come vedremo.

    Eppure il discorso mussoliniano del 2 aprile 1925 è importante e segna realmente una svolta nella politica militare del fascismo, perchè diede inizio alla martellante campagna propagandistica sulla potenza e la grandezza militare d’Italia. Non che il fascismo non avesse, sino a quel momento, sfruttato il tema della guerra vittoriosa, dell’eroismo dei combattenti e degli immancabili destini d’Italia; ma questi erano stati solo alcuni dei tanti miti agitati negli anni della conquista e del consolidamento del potere. A partire dal 1925 il fascismo ha ormai schiacciato ogni resistenza organizzata interna e non può più sfruttare oltre un certo limite temi come l’anticomunismo e il ritorno all’ordine. Ha bisogno di nuovi miti, e li trova nell’esaltazione dell’efficienza e dello spirito delle forze armate. Dopo il 1925 il fascismo mette la divisa, diventa sempre più truce e aggressivo e sposta le sue rivendicazioni verso l’esterno. Esercito, marina ed aviazione vengono così ad assumere un ruolo di primissimo piano nella propaganda fascista, che li compensa abbondantemente del diminuito valore del loro ruolo nella politica interna, dove il regime non ha più nemici. L’alleanza tra i capi militari ed il fascismo non vien meno, anzi si consolida, ma sposta i suoi effetti dalla politica interna alla propaganda del regime.

    Il ruolo crescente delle forze armate non comporta però un loro reale potenziamento, poiché esse devono offrire soltanto un punto di partenza alla propaganda. I crediti militari concessi dal regime furono sempre alquanto contenuti, con una parziale eccezione per la marina, e comunque sempre nettamente inferiori alle esigenze di una politica di grande potenza. Ma l’elemento fondamentale di debolezza e nel medesimo tempo una caratteristica essenziale della politica militare del

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    fascismo è la organizzazione degli alti comandi italiani sulla base di una rigorosa delimitazione di sfere d’influenza indipendenti e non coordinate tra loro, né sottoposte al controllo del potere politico o dell’opinione pubblica.

    III. Gli alti comandi

    Descriviamo innanzi tutto l’organizzazione degli alti comandi che fu in vigore dal maggio 1925 (con un ritocco nel 1927) alla guerra mondiale. Il criterio fondamentale fu la riunione, all’interno di ognuna delle tre forze armate, di tutti i poteri nelle mani di un solo uomo, il capo di stato maggiore (che fino ad allora aveva avuto posizione assai variabile, in genere di preminenza più relativa che assoluta). A costui furono subordinati anche gli organi collegiali tecnici, tutti ridotti a funzioni consultive. Questa concentrazione di poteri rispondeva in larga parte alle aspirazioni dei militari stessi, che nella creazione di un comandante unico ed autorevole avevano sempre visto una garanzia di autonomia dalle autorità politiche; questo almeno per l’esercito, chè l’aeronautica era allora ai primi passi mentre la marina era piuttosto retta dall’equilibrio di tre cariche (ministro, capo di stato maggiore, comandante della flotta) e quindi non tutta favorevole alla riforma. La concentrazione dei poteri rispondeva d’altronde alla dottrina gerarchica del fascismo, contrario alle responsabilità collettive, nonché, aggiungiamo, alla tecnica mussoliniana di personalizzare i rapporti di dipendenza.

    I tre capi di stato maggiore trovavano un limite al loro potere soltanto nella persona del ministro da cui ognuno di essi dipendeva. Questa persona non era altri che Mussolini, che fu ministro della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica (mantenendo separate le tre amministrazioni) dal 1925 al 1929 e dal 1933 al 1943, ostentando un attivo interesse per i tre dicasteri anche nel periodo in cui ne lasciò ad altri la responsabilità. Naturalmente Mussolini non aveva il tempo di seguire personalmente tutti e tre i ministeri che si aggiungevano alle tante sue cariche; con un decreto del 1925 e più ancora con la prassi, egli lasciò ai sottosegretari il grosso delle sue attribuzioni, riservandosi la decisione solo nelle questioni più gravi o più chiassose. Tra i sottosegretari del 1925-29 ed i ministri del 1929-33 non ci sono quindi sostanziali differenze di attribuzioni o importanza; gli uni e gli altri si vennero a trovare nella medesima situazione dinanzi a Mussolini e dinanzi ai rispettivi capi di stato maggiore.

    Senonchè la dipendenza del capo di stato maggiore dal ministro o dal sottosegretario non aveva più il significato che aveva avuto sotto i governi liberali. I ministri fascisti non traevano la loro autorità dalla

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    delega del parlamento, ossia da un potere esterno e superiore alle forze armate, ma unicamente dalla fiducia del dittatore; poiché anche il capo di stato maggiore era scelto e mantenuto in carica solo dalla fiducia del dittatore, non poteva più accettare una subordinazione al ministro, tanto più dopo l’ampliamento dei suoi poteri che nel 1925 ne fece il vero comandante della sua forza armata (e infatti capo di stato maggiore per l’esercito fu allora Badoglio, uno dei comandanti più illustri, mentre il sottosegretario da cui avrebbe dovuto dipendere fu Cavallero, uno dei più giovani generali). Con la scomparsa del parlamento come forza politica, il dualismo tra autorità tecnica e autorità politica all’interno di ogni forza armata non aveva più ragione d’essere. Si noti infatti che fino a quando esercito e marina erano stati compresi nella sfera d’influenza esclusiva del re (fino alla fine dell’Ottocento), il rispettivo ministro ne era stato l’unico comandante; il capo di stato maggiore aveva visto aumentare le sue attribuzioni (inizialmente di studio in limitati campi), fino a diventare la somma autorità tecnica, soltanto quando il parlamento aveva preteso di estendere la sua autorità anche sulle forze armate, invero con scarso successo.

    In definitiva dal 1925 in poi le attribuzioni del capo di stato maggiore tendono a confondersi e sovrapporsi a quelle del ministro o sottosegretario. Mussolini ed i militari però preferirono evitare riforme costituzionali o amministrative che avrebbero leso interessi e tradizioni di categoria, e cercarono una soluzione di compromesso sul piano delle persone. In un primo periodo, dal 1925 al 1929, l’esercito e la marina ebbero un sottosegretario scelto rispettivamente tra i generali e gli ammiragli più giovani e bassi in grado, con un ruolo quindi chiaramente subordinato ad un capo di stato maggiore scelto invece tra gli esponenti più autorevoli delle forze armate. Questa soluzione non evitò contrasti anche violenti, perchè il sottosegretario era più frequentemente e direttamente in contatto con Mussolini e poteva quindi influenzarlo in suo favore; Cavallero, ad esempio, riuscì in pratica a mettere in disparte Badoglio, di tanto più autorevole. Nel 1929 fu allora tentano un rovesciamento: Mussolini lasciò i ministeri della Guerra e della Marina a militari sufficientemente autorevoli per potersi imporre ai rispettivi capi di stato maggiore. Anche questa soluzione si dimostrò insoddisfacente, perchè il contrasto era nelle cose; lo stato maggiore dell’esercito ed il ministero della Guerra, ad esempio, erano due organi estremamente complessi ma di struttura sostanzialmente simile, costruiti in modo che quasi ogni organo dell’uno trovasse nell’altro il suo doppione, senza che fossero chiaramente delimitate le rispettive competenze di studio, controllo, esecuzione. Si può ben capire quale ostacolo trovasse in questa situazione l’azione di comando del capo di stato maggiore e del ministro o sottosegretario! Dal 1933-

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    perciò Mussolini riassunse i tre dicasteri, mentre le cariche di capo di stato maggiore e di sottosegretario furono affidate ad una medesima persona, che avrebbe dovuto dare impulso unitario ai due organismi mantenuti separati. Incidentalmente questa riforma servì anche ad eliminare Balbo dall’Aeronautica, di cui era stato sottosegretario e poi ministro diventandone il padrone assoluto, fino a fare ombra a Mussolini; una simile concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo poteva avvenire solo per i suoi meriti politici ed era comunque impensabile per l’esercito e la marina, di tanto più forti per tradizione e peso politico e gelosi della loro autonomia.

    L’abbinamento delle cariche di capo di stato maggiore e di sotto- segretario sanciva in modo anche esteriormente evidente un dato di fatto che risaliva al 1925; ognuna delle tre forze armate aveva un rapporto diretto e personale con Mussolini e solo con lui. Il re, la Camera, il Senato erano ormai ridotti a funzioni poco più che decorative, l’opinione pubblica e la stampa erano regolate dagli uffici fascisti, le critiche di qualsiasi genere, anche tecniche, vietate, i contatti col mondo politico puramente formali: le forze armate vivevano in un totale isolamento, del tutto paghe della dipendenza da Mussolini e dei riconoscimenti continui e rumorosi, ma vuoti, loro tributati dalla propaganda del regime. Era la situazione che i militari avevano sognato sempre: si può capire la sincerità della loro adesione al fascismo e della loro devozione per Mussolini.

    Chi poi avesse dubitato della serietà della politica fascista, si tranquillizzava subito osservando che la più alta carica militare, quella di capo di stato maggiore generale, fu affidata per quindici anni consecutivi (1925-40) a Badoglio, esponente della migliore tradizione militare italiana e capo riconosciuto dell’esercito. Non era facile capire dall’esterno che Badoglio non aveva alcun potere e che proprio per questo Mussolini, che faceva ruotare ogni 3-4 anni gli altri capi militari, poteva mantenerlo così a lungo in carica, come garante della serietà della politica fascista verso le forze armate!

    IV. Il capo di stato maggiore generale

    La carica di capo di stato maggiore generale fu istituita nel 1925, nel quadro del riordinamento degli alti comandi, perchè l’esperienza bellica e lo sviluppo dei mezzi tecnici rendevano evidente la necessità di un coordinamento delle tre forze armate. Dare al capo di stato maggiore generale effettivi poteri di comando sulle tre forze armate significava però rompere troppe tradizioni di autonomia e troppi interessi di corpo (per lo stesso motivo non furono fusi i tre dicasteri militari); Badoglio ebbe perciò poteri unicamente consultivi, ancora

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    ridotti nella pratica. Con la riforma del 1925, infatti, il capo di stato maggiore generale aveva il comando diretto dell’esercito (prendendo il posto del soppresso capo di stato maggiore dell’esercito); a questi compiti, che già dovevano assorbire tutto il suo tempo, aggiungeva vaghe funzioni di coordinamento verso marina ed aeronautica, che logicamente avrebbero visto ogni suo gesto come dettato dagli interessi settoriali dell’esercito. Il suo ruolo era quindi sostanzialmente decorativo e la riforma, come tante altre del fascismo, era puramente di facciata; né Badoglio era intenzionato a prendere sul serio i suoi compiti di coordinamento, come risulta, ad esempio, da una sua intervista:

    Il capo di stato maggiore generale, per essere alla testa della massa prevalente delle forze armate della nazione — e cioè dell’esercito — deve essere munito della facoltà di impartire le direttive necessarie alla coordinazione armonica delle altre forze, sia del mare come dell’aria. Ho detto direttive, perchè un’azione specifica di comando sulle altre branche della difesa da un posto tanto in alto non può essere realizzata in concreto. Questa specie di Giove che governa dalla cima dell’Olimpo le azioni di terra, di mare e del cielo, finirebbe in pratica per perdere da tanta altezza la visione di quanto accade di fatto nelle superfici da lui dominate. Stiamo dunque al sodo 3.

    Nel 1927, in seguito a violenti contrasti di competenza tra Badoglio e Cavallero, Mussolini ripristinò la carica di capo di stato maggiore dell’esercito con comando effettivo sulle forze di terra, lasciando al capo di stato maggiore generale (sempre Badoglio) solo le funzioni di coordinamento tra le forze armate con il ruolo di « consulente tecnico del capo del governo ». Si trattava, in sostanza, di una liquidazione di Badoglio condotta in modo da salvargli la faccia, perchè si riduceva il suo compito praticamente a zero pur lasciandogli il rango di massimo esponente delle forze armate. Così poco gli dava da fare la sua carica, che qualche tempo dopo egli accettava il posto di governatore generale della Libia senza rinunciare al titolo di capo di stato maggiore generale; così scriveva in merito a Mussolini;

    Non trovo nessuna difficoltà ad esercitare questo mandato pur non rimanendo a Roma. La questione essenziale è ora la compilazione dei piani di guerra, e questa parte può essere svolta per corrispondenza coi capi di stato maggiore ed integrata da qualche riunione da farsi a Roma quando io verrei per licenza o per motivi di servizio4.

    Dal 1929 al 1933 le forze armate fruirono perciò soltanto di un

    3 Corriere della Sera, 6 maggio 1925, Le funzioni del capo di stato maggiore generale.4 Archivio Centrale dello Stato (citato ACS), Segreteria particolare del Duce, carteggio riservato, busta 389/R, fase. Badoglio, lettera di Badoglio a Mussolini, 12 settembre 1926.

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    coordinamento per corrispondenza, ovvero furono lasciate a sé stesse anche ufficialmente. Né la situazione mutò con il ritorno a Roma di Badoglio, anzi la sua cauta opposizione all’impresa etiopica allora in gestazione fece sì che nel 1934-35 egli fosse praticamente messo in disparte. Il suo ruolo di « consulente tecnico » di capo del governo lo lasciava privo di autorità e financo di lavoro se Mussolini rifiutava i suoi consigli; così l’impresa etiopica fu preparata dal ministro delle Colonie (De Bono) e dal capo di stato maggiore dell’esercito, tagliando fuori Badoglio5. Né questi era uomo da impuntarsi e minacciare dimissioni; anche dopo il suo ritorno dall'Etiopia, al culmine del successo e della popolarità, Badoglio non cercò di aumentare il suo potere di capo militare, preferendo svolgere missioni di rappresentanza in Italia e all’estero ed accettare altri impegnativi e lucrosi incarichi, come la direzione del Consiglio delle Ricerche.

    Lo spoglio della corrispondenza e dei promemoria dell’ufficio di Badoglio negli anni 1936-39 6 lascia un senso di sgomento: sembra impossibile che il più alto esponente delle forze armate italiane avesse tempo e interesse per le questioncelle riportate nel carteggio e così poco contatto con i reali problemi della preparazione militare. Già l’ufficio di Badoglio era estremamente ridotto: un colonnello di statomaggiore capo-ufficio, un ufficiale superiore d’aeronautica ed uno di marina, appena sufficienti per compiti di segreteria e rappresentanza, non certo per studi o ispezioni. E infatti si occupavano soltanto di ottenere che gli addetti militari compiessero regolari visite di cortesiaa Badoglio, di riportare pettegolezzi sul costo delle divise degli impiegati statali e voci sulle prossime nomine agli alti comandi dell’esercito, di segnalare all’ufficio censura le pubblicazioni ostili al loro capo. Le poche notizie sull’efficienza delle truppe che essi fornivano a Badoglio si riferiscono all’aspetto dei reparti partecipanti ad una parata per le vie di Roma: un po’ poco per un capo di stato maggiore generale! Del resto, l’unica volta che Badoglio tentò di avere informazioni sulla situazione politica internazionale rivolgendosi direttamente a Ciano, gli fu risposto che tutto ciò che poteva interessargli gli era già statocomunicato da Mussolini7!

    Il ruolo di Badoglio come capo di stato maggiore generale, in definitiva, era quello di uno specchietto per le allodole: vedendo 3

    3 ACS, Fondo Badoglio, buste 3 e 4.6 ACS, Fondo Badoglio, buste 5, 8 e 10.7 ACS, Fondo Badoglio, busta 5, fase. 10, telespresso di Anfuso, capogabinetto del ministero degli Esteri, al col. Gandin, capo-ufficio di Badoglio, in data 6 febbraio 1939, in cui si dice che il ministro non ha nulla da dire a Badoglio sulle conversazioni avute con Chamberlain e Halifax, « dato che S. E. il Capo di Stato Maggiore Generale è stato informato personalmente dal Duce di quanto poteva interessarlo in merito a dette conversazioni ».

  • l’asciutta figura del maresciallo tra le rutilanti uniformi del seguito di Mussolini, il grosso pubblico e gli ufficiali bandivano i dubbi che insorgevano suH’efficienza delle forze armate fasciste.

    V. I rapporti tra Mussolini ed i capi delle forze armate

    Già si è detto che la caratteristica principale degli ordinamenti militari nel regime fascista è la completa e diretta dipendenza da Mussolini delle tre forze armate, ognuna indipendentemente dall’altra. Per modificare questo rapporto di subordinazione assoluta ci vollero tre anni di continue rovinose sconfitte; ma fino al 1940 nulla poteva intaccare o limitare l’autorità del dittatore, sorretta dalla censura e dalla mancanza di libertà di parola. È quindi del massimo interesse definire l’atteggiamento di Mussolini verso le forze armate; la nostra conclusione in merito è che egli subordinava la politica militare italiana al mantenimento della sua posizione personale di capo, come il fascismo in genere la subordinava alla conservazione del regime; e che il successo del duce (e del regime) erano sempre cercati a breve scadenza, avendo di mira il momentaneo trionfo di folla e di propaganda e non mai la reale preparazione militare del paese. La sistemazione degli alti comandi era appunto in funzione di questa politica personalistica, poiché lasciava a Mussolini il ruolo di capo unico e insostituibile, senza che alcuno potesse sottrargli un po’ di pubblicità; che l’efficienza militare risultasse in definitiva compromessa, non era elemento preso in considerazione.

    La fonte più ricca ed interessante sui rapporti tra Mussolini ed i capi militari è costituita dal carteggio della Segreteria particolare del Duce, attualmente depositato presso l’Archivio centrale dello Stato in Roma8. I fascicoli personali dei più noti esponenti delle forze armate contengono un po’ di tutto: corrispondenza ufficiale e privata col dittatore, lettere anonime e denunce di colleghi, rapporti di polizia, pubblicazioni e dati biografici. Se ne deduce che Mussolini mirò sempre a dare ai suoi rapporti con i militari (e non solo con essi) un carattere personale, rivolgendosi agli uomini e non alle cariche e graduando la fiducia accordata in base alla devozione ed al consenso tributatigli. Egli soleva scegliere i suoi collaboratori non per le loro- idee o capacità, ma per la loro idoneità ad inserirsi nella sua politica di potere personale; lasciava infatti loro una grande libertà d’azione (limitandosi in fondo a suggellare le decisioni più spettacolari), ma

    8 Desidero esprimere la mia riconoscenza ai dott. Costanzo Casucci, Paola Carucci Battistig e Margherita Piacenza dell’Archivio centrale dello Stato di Roma, che hanno facilitato in ogni modo le mie ricerche nelle carte della Segreteria particolare del Duce.

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    esigeva che fosse riconosciuto e rafforzato il suo ruolo di capo infallibile e insostituibile. Si sviluppava così un tipo di rapporti fideistici, di cui possono dare un esempio le parole con cui il gen. Valle, sostituito dopo aver diretto per sei anni l’aeronautica, chiedeva un nuovo comando:

    Qualsiasi incarico, purché io abbia, ancora, la possibilità di andare a rapporto da Lui, sentirNe la voce, riceverNe ordini, informarLo con la forza della mia devozione di quanto ritengo debba essere da Lui conosciuto, così come ho fatto per sei anni9.

    E in un’altra occasione:

    La benevolenza del Duce è precipuo scopo della mia vita: se mancasse, nulla più avrebbe valore 10 11.

    Il corrispettivo concreto di questa devozione personale era il mantenimento in carica (che, si è già detto, dipendeva solo da Mussolini), nonché onori, ricompense e promozioni. I maggiori successi in questo campo li ebbe Badoglio, capo di stato maggiore generale nel 1925, maresciallo nel 1926, marchese nel 1928, governatore della Libia e collare dell’Annunziata nel 1929. Ecco le condizioni da lui poste per l ’accettazione della nomina in Libia:

    Riepilogo anche le questioni che riguardano esclusivamente la mia persona e che V. E. ha avuto la bontà di approvare, ben conoscendo le mie condizioni di famiglia:

    1. Io rinuncerei alla indennità speciale (lire 50.000) che V. E. mi ha concesso come Capo di Stato Maggiore Generale.

    2. Per poter tenere la carica con quel decoro che impone il mio grado, mi sarà corrisposto lo stipendio che io avevo come ambasciatore al Brasile.

    3. Poiché è nota la generosità di V. E. nel premiare tutti i suoi fedeli collaboratori, io mi sono permesso di rivolgermi a V. E. perchè mi proponesse a S. M. il Re per la concessione di un titolo nobiliare estensibile ai figli, e riferentesi alla mia azione sul Sabotino.

    Sarei gratissimo a V. E. se mi volesse confermare quanto io ho l’onore di scriverLe in questa lettera.

    Come ho detto ieri a voce, V. E. può contare ora e sempre sulla mia più completa e assoluta devozione. Pietro Badoglio, Maresciallo d’Italiau.

    Gli altri generali non erano da meno: basti citare il gen. Gazzera, considerato esponente della rigida tradizione piemontese in contrapposizione polemica all’arrivismo fascista, che si assicurò due promo

    9 ACS, Segret. part. Duce, cart, ris., busta 278/R, fase. Valle, lettera di Valle a Suardo, presidente del Senato, 14 novembre 1939.10 Ibid., lettera di Valle a Sebastiani, segretario particolare del Duce, 16 maggio 1940.11 Lettera di Badoglio a Mussolini, 12 settembre 1926, cit.

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    zioni nei quattro anni in cui resse il ministero della Guerra, giungendo velocemente al culmine della gerarchia. Divenne poi norma che il conto fosse pagato al momento della rimozione dalla carica; tra i tanti casi di gratifiche, decorazioni e titoli nobiliari, ricordiamo le richieste del gen. Guzzoni, che era stato sottosegretario alla Guerra e sottocapo di stato maggiore dell’esercito nei sei mesi più neri del conflitto mondiale. Le richieste erano tre: una fotografia di Mussolini con dedica, la promozione per merito di guerra a generale d’armata a vita e la nomina a senatore 12 !

    Il rapporto di devozione era però unilaterale, perchè Mussolini non rinunciava ad alcuna possibilità di controllare, anzi di spiare i suoi diretti collaboratori. I fascicoli della Segreteria particolare del Duce sono a questo riguardo istruttivi: la polizia trasmetteva a Mussolini rapporti sulle voci dei circoli militari, resoconti di conversazioni carpiti da informatori insospettabili, trascrizioni di colloqui telefonici, notizie su amanti e truffe, tutto quanto insomma potesse screditare o sminuire i più diretti collaboratori del capo del governo e queste pratiche erano scrupolosamente postillate e conservate; le lettere anonime, invece, Mussolini le dava in visione agli accusati invitandoli a scolparsi. Ma soprattutto egli favoriva la delazione, o quanto meno la mancanza di rispetto e lealtà tra i suoi collaboratori, ognuno dei quali era incoraggiato, in caso di contrasti, a ricorrere a Mussolini alle spalle di colleghi e superiori. I responsabili delle forze armate venivano così a godere di una grande autonomia d’azione finché erano in carica, ma sapevano che i loro colleghi e subordinati trescavano alle loro spalle con Mussolini, il quale badava soprattutto che nessuno dei suoi collaboratori acquistasse tanto potere e prestigio da fargli ombra.

    Si capisce quindi l’importanza che i periodici « cambi della guardia » avevano nella politica di Mussolini, come mezzo per eliminare chi gli stava intorno senza doverne dare ragione neanche all’interessato. Le lettere inviate in queste occasioni ai licenziati, con un preavviso di poche ore sulla stampa, sono costruite secondo formule fisse e non accennano mai alle cause del provvedimento. Eccone un esempio:

    Caro Bonzani,per le ragioni della politica, Ella lascia il sottosegretariato all’Aeronautica.Ho bene presente quanto Ella ha fatto in questi trenta mesi e quanto

    l’Ala Italiana le deve.Ella ha benemeritato dell’Aviazione Italiana.Voglia credere alla mia amicizia cordiale e inalterabile. Mussolini13.

    12 ACS, Segret. part. Duce, cart, ris., busta W /R, fase. Guzzoni, Appunto per il Duce, 25 maggio 1941. Guzzoni fu nominato generale d’armata (non a vita) e consigliere della Camera dei fasci e corporazioni.13 ACS, Segret. part. Duce, cart, ris., busta 278/R, fase. Bonzani, lettera di Mussolini a Bonzani, 5 novembre 1926.

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    Un’altra formula di congedo:

    Ritengo, caro Gazzera, che Ella sarà d’accordo con me nel considerare che di quando in quando la rotazione degli uomini è necessaria, a loro stessi e per la situazione generale [ .. .] 14.

    Oppure:

    Caro Baistrocchi,dopo quattro anni durante i quali mi avete dato una collaborazione intel

    ligente e quotidiana, ritengo che non vi stupirete se vi annuncio la mia decisione di promuovere il cambio della guardia al Sottosegretariato alla Guerra. Dopo le grandi fatiche della preparazione africana — logistica — un po’ di sosta è necessaria e un po’ di riposo lo avete ampiamente meritato [ . . .] I5 16.

    Non è più esauriente la lettera di licenziamento rivolta a Balbo, che pure era uno dei massimi gerarchi:

    Caro Balbo,per ragioni di ordine generale e particolare che tu perfettamente compren

    di, sono venuto nella determinazione di riassumere tutti i Ministeri M ilitari

    Questi bruschi esoneri segnavano la disgrazia immediata del silurato. Esemplare la lettera di Mussolini a Balbo, scritta pochi giorni dopo quella affettuosa sopra citata:

    Caro Balbo,nella tua visita di congedo del giorno 7 mi dicesti che mi lasciavi un

    totale di 3125 apparecchi. Tale numero figura anche nel quaderno delle consegne da te e da Valle firmato. H o proceduto alla necessaria discriminazione e ne consegue che tale numero si riduce a quello di 911 apparecchi, efficienti dal punto di vista bellico, alla data odierna. Aggiungo subito che considero tale situazione come soddisfacente.

    Cordiali saluti. M ussolin i17.

    Questa lettera è molto interessante. Nelle mani di Mussolini era un’arma con cui ricattare l’ambizioso gerarca se costui non si fosse rassegnato a rientrare nell’ombra; in questo caso la lettera prometteva clemenza (« considero tale situazione come soddisfacente »). Ma la lettera rivela anche che Mussolini disponeva di un suo servizio di informazioni nell’aeronautica, alle spalle dell’amico e ministro, perchè

    14 ACS, Segret. part. Duce, cart, ris., busta 271/R, fase. Gazzera, lettera di Mussolini a Gazzera, 21 luglio 1933.15 ACS, Segret. part. Duce, cart, ris., busta 13 bis/R, fase. F. Baistrocchi, lettera di Mussolini a Baistrocchi, 7 ottobre 1936.16 ACS, Segret. part. Duce, cart, ris., busta 362/R, fase. Balbo, lettera di Mussolini a Balbo, datata 31 ottobre 1933 ma spedita il 5 novembre.17 ACS, Segret. part. Duce, cart, ris., busta 278/R, fase. Balbo, lettera di Mussolini a Balbo, 12 novembre 1933.

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    la cifra di 911 aerei efficienti, vera o falsa che fosse, non poteva certo essere saltata fuori in pochi giorni ma doveva essere già stata preparata. La lettera infine attesta che scarso peso avesse l’efficienza reale dell’aviazione per Mussolini: una riduzione del 70 per cento nel numero degli aerei efficienti era accolta senza batter ciglio e utilizzata solo per colpire un rivale, non per mettere ordine nell’aviazione.

    Gli altri capi militari ricevettero un trattamento meno apertamente ricattatorio che Balbo, ma non dissimile nella sostanza. A molti di costoro Mussolini concesse larghi onori al momento del licenziamento, ma quasi nessuno ebbe più incarichi di responsabilità nelle forze armate; furono anzi lasciati in balia delle vendette del successore, che poteva addebitare loro tutte le insufficienze immaginabili documentandole a Mussolini con grande copiosità (ma nulla trapelava fino all’opinione pubblica, rassicurata dalla propaganda). I titoli nobiliari e le somme in danaro generosamente concessi all’atto del congedo assumono perciò il significato dispregiativo di buonuscita non meritata, quasi il prezzo del silenzio e della complicità del silurato negli anni successivi.

    VI. La preparazione militare

    Le conseguenze di questa organizzazione degli alti comandi sulla preparazione bellica furono assai gravi. Non vogliamo però sostenere la tesi, cara agli ambienti militari, che Mussolini fosse il solo responsabile di tutto quello che non funzionò nelle forze armate, in pace ed in guerra. Diciamo invece che tutti i comandi responsabili manifestarono sempre, negli atti e nelle dichiarazioni, una adesione incondizionata alla politica ed al regime fascista; se qualcuno ebbe dei dubbi, li tenne per sè, ma si trattò comunque di poca cosa, perchè nessun comandante si dimise o fu liquidato per la sua opposizione alla politica del regime. Ci furono indubbiamente vari episodi di resistenza passiva alle direttive bellicose di Mussolini (il caso più noto è l’atteggiamento di Badoglio nel 1934-35 e nel 1939-40), ma questi larvati dissensi si accompagnavano a manifestazioni di solidarietà e fiducia e rientravano regolarmente se appena il dittatore mostrava di insistere. In realtà i militari alla vigilia della seconda guerra mondiale erano legati mani e piedi al carro di Mussolini: dopo aver avallato per 15-20 anni la propaganda bellicosa del regime e l’esaltazione della potenza delle forze armate italiane, non potevano certo denunciare con la convinzione necessaria i limiti della preparazione bellica loro affidata. Si limitavano perciò a farli presente a Mussolini (che già ben li conosceva, non fosse che per il gioco di informazioni organizzato alle spalle dei capi responsabili), pronti a rinnovargli la loro fiducia

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    quando egli, forte del prestigio acquistato e del ruolo indiscusso di capo, giudicava di potere ugualmente procedere.

    Del resto non si vede perchè i militari dovessero (e come potessero) lamentarsi troppo di una preparazione che essi avevano orientato e diretto senza opposizioni. La rigida separazione tra le forze armate, un atteggiamento di distacco verso il paese, il cauto conservatorismo delle alte gerarchie, una certa riluttanza ad accogliere le novità tecniche e politiche, tutto ciò era tradizionale nei militari italiani (e in quelli stranieri: si pensi alla Francia), né può essere imputato unicamente al regime fascista — il quale invece va accusato di aver lasciato troppa autonomia ai militari, permettendo loro di esasperare i difetti sopra accennati, e di aver contribuito con la sua chiassosa, ottimistica e unilaterale propaganda a frastornarli fino a perdere il senso del reale. Anche uno scettico come Badoglio finiva col persuadersi che l’abilità di Mussolini avrebbe in definitiva permesso di passare sopra alle deficienze delle forze armate; tanto più facili ad illudersi dovevano essere i più giovani ufficiali, né l’opinione pubblica poteva avere l’importanza che ebbe in Francia, ad esempio, nell’imporre il riarmo del 1936-39.

    Sono poi certamente da imputarsi ai militari gli errori di impostazione nella preparazione bellica, come ad esempio la rigida separazione tra marina ed aeronautica. Se gli ammiragli avessero realmente creduto nel 1920-30 alla necessità della collaborazione dell’aeronautica per il dominio del mare, non ne avrebbero mai ceduto il controllo. Pari- menti non è possibile addossare a Mussolini la responsabilità della rinuncia a costruire portaerei: il duce non fece che reclamizzare la decisione dei suoi collaboratori più prossimi. In realtà l’avvento di un regime autoritario e la chiusura del dibattito, anche esclusivamente tecnico, sui problemi militari permisero appunto alle alte gerarchie di stroncare la combattiva minoranza di ufficiali di marina e d’aviazione che, con molte esagerazioni ma anche con molto acume, chiedevano un ripensamento radicale della politica navale italiana. La splendida flotta da guerra che nel 1940 solcava i mari italiani, l’unico tra gli strumenti di guerra approntati che non sfigurasse dinanzi agli avversari, era stata concepita secondo idee vecchie di venti-trenta anni, che sarebbe improprio definire superate, ma che non erano nemmeno abbastanza precorritrici da permettere alla marina di combattere la seconda guerra mondiale con i mezzi più idonei. Da un punto di vista tecnico, le navi italiane non avevano nulla da invidiare a quelle nemiche per modernità di tutti gli impianti di concezione tradizionale, dai motori alle artiglierie; erano invece inferiori in tutto quello che concerneva lo sfruttamento bellico dei progressi delle industrie d’avanguardia, dalle comunicazioni all’aeronautica. Questo handicap era conseguenza della mancanza di un libero dibattito e di una sufficiente

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  • circolazione di idee: i tecnici della marina avevano perfezionato mirabilmente le navi della prima guerra mondiale, ma non avevano tenuto abbastanza conto degli sviluppi della ricerca scientifica, proprio per difetti organizzativi riconducibili alla natura autoritaria degli organismi militari e del regime fascista. La flotta italiana all’inizio della guerra era di livello più che buono, spesso eccellente, ma in nessun campo geniale o precorritrice; né durante la guerra doveva rivelare elementi di superiorità sul nemico, se non nel settore dei mezzi d ’assalto, in cui l’improvvisazione fu possibile.

    Era invece responsabilità precisa del governo e del regime la mancanza di direttive strategico-politiche per lo sviluppo della marina, che infatti lavorò sul presupposto di una guerra contro la Francia ma non contro l’Inghilterra. La costruzione delle grosse corazzate, ad esempio, aveva un senso solo in previsione di una guerra contro un nemico di forza pari o di poco superiore, non certo per il caso di una guerra con la Germania contro le democrazie occidentali; e lo stesso genere di critiche si potrebbe muovere a molti altri tipi di navi da guerra italiane. In effetti non solo Mussolini non dava direttive precise per la preparazione delle forze armate, ma prescindeva completamente dalle loro possibilità nel decidere la politica estera nazionale; l’ingresso in guerra nel giugno 1940 ne è la prova.

    Se si possono muovere appunti così gravi alla preparazione della marina, che pure fece sempre la sua parte con serietà e dignità in tutta la guerra, cosa non bisognerebbe dire per l’esercito e l’aviazione, di tanto inferiori sotto tutti i punti di vista! Il discorso è fin troppo facile, ci preme di più sottolineare un altro aspetto della preparazione a livello dei maggiori comandi: l’assenza di piani di guerra, una lacuna così enorme che pare incredibile.

    È certo che ognuna delle tre forze armate aveva i suoi piani di mobilitazione, che tenevano conto di diverse ipotesi ed erano presumibilmente comunicati, nelle linee essenziali, agli altri comandi ed al governo. È anche probabile che Badoglio si sia occupato di coordinare in qualche modo questi piani: per lo meno, è il minimo che ci si possa attendere da un capo di stato maggiore generale. Ma tutti questi erano piani di mobilitazione stabiliti a tavolino, seguendo ipotesi logiche ma teoriche e non le indicazioni della realtà; un piano di guerra invece dovrebbe essere elaborato secondo direttive tempestive del governo e continuamente adattato ai mutamenti della situazione internazionale, tanto più dinanzi a rovesciamenti di alleanze rapidi come nel 1935-39. Nulla del genere fu mai predisposto in Italia, nemmeno nei mesi di non-belligeranza in cui le ipotesi di guerra si restringevano sempre più chiaramente.

    E del resto chi avrebbe potuto preparare un piano di guerra, se

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    Mussolini lo avesse improvvisamente richiesto? Non Badoglio, malgrado il suo incarico di coordinatore, perchè non aveva i poteri né i mezzi necessari (il suo ufficio contava, ripetiamo, solo tre ufficiali superiori!). Non lo stesso Mussolini, perchè, malgrado accentrasse ogni potere in campo militare, non disponeva di un suo ufficio o stato maggiore personale, preferendo agire d’iniziativa e personalmente, secondo le sollecitazioni più disparate e casuali. Non la Commissione suprema di difesa (teoricamente la sede più idonea, in quanto radunava i principali ministri ed i capi militari) perchè era un organo pletorico (due dozzine di membri), con una sua segreteria ma senza uffici veri e propri, confinato in compiti burocratico-organizzativi; sin dal 1925 Mussolini le aveva poi negato ogni responsabilità in campo strategico, affermando che « i piani strategici o li fa uno solo o non li fa nessuno » 18. Non un comitato dei capi di stato maggiore, perchè un organo del genere non esistette mai in Italia. Gli unici organi in grado di approntare piani operativi, in definitiva, erano gli stati maggiori delle singole forze armate, i quali non potevano possedere la visione d’insieme né la tempestività necessarie, né mai avrebbero potuto estendere la loro autorità sulle altre forze armate. Fu così che l’Italia entrò in guerra, volontariamente e scegliendo anche il momento, senza un piano operativo: la marina, ad esempio, non aveva neppure preparato un attacco a Malta. E così scarsa era la coordinazione tra le diverse istanze, che il 35 per cento delle navi mercantili italiane (1.200.000 tonnellate) fu tagliato fuori dai porti amici e quindi subito perduto, perchè Mussolini si ricordò di dare loro il preavviso di guerra imminente solo tre giorni prima di dichiararla.

    VII. Gli alti comandi nel 1940

    Vorrei ora tratteggiare per sommi capi, come conclusione, l’organizzazione di comando che funzionò nei primi mesi di guerra e che costituisce il degno suggello di venti anni di politica militare fascista 19.

    Comandante supremo delle forze operanti (per delega del re, che dovette accettare assai malvolentieri di essere messo completamente in disparte) e dell’organizzazione militare territoriale (come ministro della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica), nonché capo del governo e responsabile di alcuni altri dicasteri era Mussolini, che riuniva nelle sue mani anche formalmente ogni potere. Oltre alla direzione politica della guerra egli assicurò effettivamente il comando delle forze armate,

    18 A tti parlamentari, Discussioni della Camera, 5 giugno 1925, p. 4230.19 Cfr. particolarmente F. Rossi, Mussolini e lo Stato Maggiore, Roma, 1951, e Q. Armellini, Diario di guerra. Nove mesi al Comando Supremo, Milano, 1956.

  • anche se non con la continuità necessaria; particolarmente nei primi mesi di guerra, tutte le decisioni di qualche rilievo dovevano essergli sottoposte. Eppure Mussolini non disponeva di un suo stato maggiore personale, che potesse raccogliere e coordinare le informazioni e poi elaborare e trasmettere le sue decisioni; come in tempo di pace, egli ascoltava tutti i comandi, da quelli delle singole forze armate a quello di Badoglio, più i ministeri militari e si lasciava influenzare dall’uno o dall’altro senza alcuna continuità. Avveniva anche che i sottosegretari dei dicasteri militari, che per ragioni di ufficio avevano con lui un contatto più diretto e regolare, potessero di fatto scavalcare i comandanti responsabili. Insomma, l’azione di Mussolini, già personalmente portato ai cambiamenti di direzione, fu ancora indebolita dalla mancanza di un’organizzazione di comando adeguata.

    In teoria, tutta l’attività militare di Mussolini avrebbe dovuto passare attraverso lo stato maggiore di Badoglio, che avrebbe avuto in mano la situazione, orientato il capo politico e tradotto le sue direttive di massima in ordini operativi. In pratica Badoglio fu subito messo in disparte, ridotto ad una specie di saggio oracolo cui si sottoponevano le questioni per un consiglio raramente seguito. Il vecchio maresciallo si adattò a questa situazione di tutto riposo, consolandosi con la convinzione che senza la sua resistenza passiva le cose sarebbero andate ancora peggio. Tutto ciò non aveva alcun senso: sotto Cavallerò (il suo successore nel 1941-42) lo stato maggiore generale assunse un peso maggiore (anche se non mai preponderante) nella direzione della guerra, con effetti benefici. Probabilmente Badoglio credeva che la guerra sarebbe stata breve, anzi che fosse già stata decisa sui campi di battaglia francesi; un comando anche formale che lo tenesse sulla cresta dell’onda, era tutto ciò che egli si augurava. E difatti il suo stato maggiore bellico era ridottissimo: una ventina di ufficiali, sufficienti per tenere il maresciallo aggiornato, non per permettergli di intervenire realmente nella condotta delle operazioni.

    Quanto fosse considerato lo stato maggiore generale, appare chiaro dalla nomina di Soddu a sottocapo di Badoglio. Costui aveva fatto tutta la sua carriera negli uffici del ministero, di cui era in quel momento sottosegretario; era quindi più che gravato di lavoro per suo conto. Ottenne tuttavia da Mussolini di aggiungere alla sua carica anche quella di sottocapo di stato maggior generale, con l’intesa che sarebbe rimasta (per il momento almeno) puramente onorifica, come del resto fu. Le maggiori cariche di comando venivano così distribuite secondo una politica di corte ai favoriti del dittatore, senza alcun riguardo al lavoro da compiere!

    In definitiva, il comando effettivo delle forze armate nei primi mesi di guerra fu suddiviso tra quattro comandi, o meglio tra quattro

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    persone, perchè la maggior parte di costoro aveva un doppio incarico. L’amm. Cavagnari diresse la marina, di cui era contemporaneamente sottosegretario e capo di stato maggiore, mentre il gen. Pricolo ebbe la stessa autorità e posizione verso l’aeronautica. L’esercito fu invece diviso tra il sottosegretario Soddu ed il capo di stato maggiore Graziani, cui subentrò di fatto il suo vice Roatta; infatti Graziani fu inviato a fine giugno a comandare le forze armate dell’Africa settentrionale, pur conservando formalmente il titolo di capo di stato maggiore dell’esercito (siamo sempre nella politica di corte!) con tutte le spiacevoli conseguenze immaginabili nei rapporti di dipendenza gerarchica.

    La direzione di questi quattro comandi spettava a Badoglio, che non ne aveva il potere né l’autorità, ed a Mussolini, che non ne aveva la capacità né la costanza; né l’uno né l’altro, poi, disponevano dei mezzi tecnici necessari, cioè di uno stato maggiore adeguatamente attrezzato. I quattro comandi rimasero di fatto autonomi, salvo momentanee intese. Ognuno di essi tendeva poi ad accentrare in sè tutti i poteri che fosse possibile sottrarre alle unità dipendenti; furono perciò costituiti comandi interforze solo per i settori più lontani e venne in genere limitata l’autorità di tutti i comandanti. Le operazioni navali, ad esempio, erano dirette da Roma, che lasciava ai comandanti in mare un margine ristrettissimo di autonomia; se poi una nave da guerra in navigazione aveva bisogno dell’appoggio aereo, doveva richiederlo a Supermarina (la centrale di comando della marina, a Roma) che, senza avere notizie sulla disponibilità delle forze aeree, girava la richiesta a Superaereo (centrale di comando dell’aviazione, sempre a Roma), che a sua volta, senza avere un quadro completo della situazione navale, trasmetteva l’ordine alle basi da cui partivano le squadriglie ritenute disponibili. Nel migliore dei casi, questo giro vizioso richiedeva alcune ore in pura perdita, specie se l’operazione non era stata prevista.

    Non fu d’altra parte costituita un’Intendenza generale, che accentrasse e coordinasse tutti i rifornimenti del paese alle forze armate; questi compiti furono divisi tra sei organi diversi: i tre ministeri per la produzione e la distribuzione alle truppe territoriali, i tre stati maggiori per la distribuzione alle truppe mobilitate. Una reale unificazione di comandi avrebbe urtato troppi interessi burocratici.

    E si potrebbe continuare a citare altri incredibili casi di disorganizzazione negli alti comandi. Ci preme di più ricordare che la situazione descritta non era frutto del caso né della follia di un uomo, ma della ventennale politica militare del fascismo. L’inesistenza di un Comando Supremo ed il frazionamento delle responsabilità di comando erano dovute, più che alle gelosie dei generali (per altro assai nutrite),

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    al desiderio di Mussolini che nessuno potesse mettere in ombra la sua azione personale; per rendere evidente l’eccezionaiità della sua posizione di capo militare e politico, egli giungeva a rifiutare di avere al fianco consiglieri tecnici anche per gli incontri con Hitler, che invece si presentava circondato dai suoi collaboratori militari. Ma ancora una volta ripetiamo che l’ambizione e la mancanza di misura di un uomo non avevano fatto che esasperare i difetti preesistenti. Che le cause autentiche della irrazionale sistemazione degli alti comandi italiani in guerra vadano cercate nella politica militare del fascismo e nella politica dei militari nel regime, abbiamo tentato di indicare in •queste pagine.

    G iorgio Rochat