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linguistica

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I lettori che desiderano informazioni sui volumi

pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a:

Carocci editoreCorso Vittorio Emanuele ii, 229

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Città italiane, storie di lingue e culture

A cura di Pietro Trifone

CCarocci editore

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1a edizione, marzo 2015 © copyright 2015 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari

Finito di stampare nel marzo 2015 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

isbn 978-88-430-7522-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno

o didattico.

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Indice

Introduzione. Prospettive di storia linguistica urbana 13 di Pietro Trifone

Bibliografia 19

1. Torino 21 di Claudio Marazzini

1.1. Ai «confini d’oltramontani»: tra Francia e Italia 211.1.1. Scarsità di documenti / 1.1.2. Modesta circolazione dei modelli italiani / 1.1.3. I libri a stampa

1.2. La scelta dell’italiano 271.2.1. La svolta di Emanuele Filiberto / 1.2.2. Una corte letterata e multilingue

1.3. Italiano e francese nel Settecento 411.3.1. La scripta regionale, al livello colto e al livello popolare / 1.3.2. L’italiano a scuola e il francese in società / 1.3.3. Torino giacobina, napoleonica e post-napoleonica

1.4. L’Ottocento: da capitale a capoluogo 471.4.1. Fervore del dibattito linguistico / 1.4.2. Lo spostamento della capitale / 1.4.3. La lessicografia / 1.4.4. La nuova Torino

1.5. Dalla città operaia alla riconversione post-industriale 671.5.1. La voce della fabbrica / 1.5.2. Gli scrittori

Bibliografia 74

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2. Milano 85 di Silvia Morgana

2.1. I primi testi milanesi 852.2. L’età dei Visconti e degli Sforza 90

2.2.1. La prima diffusione dei modelli toscani / 2.2.2. Usi sovramuni-cipali. Le lettere dei mercanti / 2.2.3. Lingua della cancelleria e ten-denze culturali e linguistiche nell’età lodoviciana / 2.2.4. Stampa e varietà di usi linguistici / 2.2.5. Usi letterari e giocosi del milanese

2.3. Cinquecento e Seicento 1002.3.1. Toscanizzazione e difesa delle tradizioni linguistiche locali / 2.3.2. Riorganizzazione culturale e filotoscanismo nell’età borromai-ca / 2.3.3. Alfabetizzazione ed editoria / 2.3.4. Lingua e società nel teatro milanese di Carlo Maria Maggi / 2.3.5. Lessico lombardo e les-sico toscano

2.4. Dal Settecento all’Unità 1122.4.1. Sotto la dominazione austriaca e francese / 2.4.2. La letteratura dialettale e le polemiche sul dialetto / 2.4.3. Il dialetto nelle bosinate / 2.4.4. La lingua parlata / 2.4.5. La lingua scritta / 2.4.6. Alfabetismo e insegnamento dell’italiano / 2.4.7. Lessico lombardo e lessico to-scano / 2.4.8. Lessicografia dialettale

2.5. Milano nell’Italia unita 1292.5.1. Un cinquantennio di trasformazioni / 2.5.2. L’Expo 1906: un laboratorio di lingue e dialetti / 2.5.3. Alfabetizzazione ed editoria

2.6. Il Novecento 1362.6.1. La formazione dell’italiano “di Milano” / 2.6.2. Varietà giovanili milanesi / 2.6.3. Evoluzione del dialetto vs italiano

2.7. Conclusione 148 Bibliografia 149

3. Venezia 157 di Lorenzo Tomasin

3.1. La specificità di Venezia 1573.2. L’età del Comune 161

3.2.1. La formazione della scripta volgare / 3.2.2. Testi veneziani e ve-nezianeggianti: il contatto linguistico / 3.2.3. La dimensione lettera-ria / 3.2.4. Caratteri originali del volgare veneziano

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indice

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3.3. L’autunno del Medioevo 1683.3.1. Scritture documentarie private / 3.3.2. Scritture documentarie pubbliche / 3.3.3. Prosa e poesia volgari / 3.3.4. La scrittura esposta

3.4. Il Rinascimento 1763.4.1. L’italiano a Venezia / 3.4.2. Plurilinguismo rinascimentale / 3.4.3. La letteratura, tra classicismo e rivendicazione

3.5. Gli ultimi due secoli della Serenissima 1833.5.1. Fenomeni di (pre-)standardizzazione / 3.5.2. Dalla lingua al dia-letto, dal dialetto alla lingua / 3.5.3. Venezia e le lingue d’Europa

3.6. Dopo la Serenissima 1893.6.1. Una peculiarità letteraria / 3.6.2. Caratteri del veneziano con-temporaneo / 3.6.3. L’italiano regionale in città / 3.6.4. Sulla Venezia linguistica del xxi secolo

Bibliografia 197

4. Firenze 203 di Giovanna Frosini

4.1. La specificità di Firenze 2034.2. Il periodo pre-unitario. Il fiorentino in diacronia 205

4.2.1. Fra Duecento e Trecento / 4.2.2. Dante “arcaico” / 4.2.3. L’età di Firenze: dalla peste a Machiavelli / 4.2.4. Un fenomeno evolutivo di età moderna

4.3. Il periodo post-unitario. Dalla città alla nazione 2234.3.1. Il ruolo di Firenze capitale / 4.3.2. La pratica della lingua: il fio-rentino per l’Italia / 4.3.3. Parole e cose dell’identità fiorentina

Bibliografia 241

5. Roma 247 di Pietro Trifone

5.1. Dalle Origini al Trecento 2475.1.1. La prima testimonianza del volgare / 5.1.2. Parolacce in chiesa / 5.1.3. La letteratura del Duecento / 5.1.4. Lingua e società nel Tre-cento / 5.1.5. La lingua della Cronica di Anonimo romano / 5.1.6. Il romanesco antico o “di prima fase” / 5.1.7. Casi di metafonesi “sabina” o “ciociara” / 5.1.8. Il registro di Giovanni Cenci

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5.2. Quattrocento e Cinquecento 2615.2.1. Toscanizzazione e smeridionalizzazione / 5.2.2. Un crogiolo di genti e di idiomi / 5.2.3. La lingua cortigiana / 5.2.4. Varietà linguisti-che in un processo per «stregarie»

5.3. Dal Seicento all’Unità 2735.3.1. Il romanesco nella letteratura pre-belliana / 5.3.2. Un monumen-to plebeo: i Sonetti di Belli / 5.3.3. Differenze tra il romanesco bellia-no e quello di prima fase / 5.3.4. Le scritture non letterarie

5.4. Dall’Unità a oggi 2855.4.1. Roma-Babele / 5.4.2. Un poeta italo-romanesco: Pascarella / 5.4.3. Come si dice a Roma / 5.4.4. Lavoratrici straniere a Roma: Sang e Tania

Bibliografia 299

6. Napoli 305 di Nicola De Blasi

6.1. Due domande sulla storia linguistica e urbana 3056.1.1. Persistenza e variazione / 6.1.2. Storia linguistica e incrementi demografici

6.2. Napoli angioina 3086.2.1. Nobili, mercanti, insediamenti religiosi / 6.2.2. Il volgare nelle scritture esposte / 6.2.3. Il napoletano in letteratura

6.3. Napoli spagnola 3126.3.1. Immigrazioni e ampliamento urbano / 6.3.2. «Una nuova colo-nia» per gli spagnoli / 6.3.3. I Quartieri spagnoli come area conserva-tiva / 6.3.4. Influenze spagnole sul napoletano

6.4. Il dialetto letterario 3186.4.1. Varietà linguistiche in contatto / 6.4.2 Le parole «chiantute» della letteratura dialettale

6.5. Dopo l’Unità 3226.5.1. Salvatore Di Giacomo e le nuove stagioni del dialetto / 6.5.2. L’immagine della città e il prestigio post-unitario del napoletano / 6.5.3. La diffusione dell’italiano / 6.5.4. La conservazione del napo-letano e il profilo della città / 6.5.5. Una metropoli come il più gran-de paese del mondo / 6.5.6. La cesura storica della Grande Guerra / 6.5.7. La nuova città del Novecento

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indice

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6.6. Nel Novecento 3376.6.1. Dal palazzo microcosmo alla variabilità linguistica tra i quartie-ri / 6.6.2. Città moderna e “isole” / 6.6.3. La città in una percezione di Pasolini

6.7. Dopo il 1980 3426.7.1. Nuovi napoletani / 6.7.2. Una crisi d’immagine (anche mediati-ca) dopo il 1980 / 6.7.3. Spazi di prestigio per il napoletano

6.8. Le possibili risposte alle due domande iniziali 3486.8.1. Un rimedio contro i luoghi comuni

Bibliografia 349

7. Palermo 355 di Mari D’Agostino

7.1. Una storia di continuità e mutamenti 3557.2. Dall’Italia unita alla Costituzione (1861-1946) 365

7.2.1. La nuova immagine post-unitaria: fra urbanistica e modelli lin-guistici / 7.2.2. Quali lingue scritte per educare ed informare / 7.2.3. Palermo fascista (1922-43): il cambiamento nel paesaggio linguistico urbano / 7.2.4. Narratori e contastoria, cinema, radio e televisione: l’oralità per informare e intrattenere

7.3. Dall’istituzione della Regione Siciliana (1947) ad oggi 3907.3.1. Una città «irredimibile». Dati demografici e dati sociolingui-stici / 7.3.2. E oltre...

Bibliografia 409

Indice delle forme notevoli 413

Indice dei nomi 429

Gli autori 437

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203

[...] hanno a confessarla fiorentina

Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua

4.1 La specificità di Firenze

Il caso linguistico fiorentino mostra, è ben noto, una sua non revocabile specificità: l’italiano di oggi è pur sempre un esito – modellato, modi-ficato nei secoli – del fiorentino originario (Poggi Salani, 1992, p. 402). Se esiste sempre un ruolo modellizzante della città sul territorio (una periferia, una provincia, una regione, un’estensione più vasta: Trifone, 2012, p. 158), nel caso di Firenze il prestigio si è esteso alla nazione intera, come riferimento dell’esperienza culturale, letteraria, linguistica. Firen-ze agisce insomma non su un territorio circoscritto, ma su tutta l’Italia. Le radici di questo primato affondano in una produzione letteraria che rapidamente assume connotati di eccezionalità, per densità e per quali-tà, ma anche in un livello di alfabetizzazione e di diffusione della cultura che fra Duecento e Trecento ha pochi eguali su scala europea (Manni, 2003, pp. 18-25). La consuetudine con la pratica della scrittura volgare da parte di vari ceti sociali (dai giudici e notai ai mercanti) è indice di un forte livello di permeabilità fra dimensione letteraria e dimensione d’uso della lingua, e insieme di una coscienza e consapevolezza lingui-stico-letteraria non facilmente riscontrabile altrove: così, oltre all’adde-stramento per la scrittura professionale, riflessa nei libri di conto (su cui informano le grandi raccolte documentarie: Schiaffini, 1926; Castellani, 1952; 1982), i mercanti scrivono libri di famiglia e diari, compiendo un’o-pera «di selezione e conservazione della memoria della famiglia e per la famiglia» (in ultimo, Ricci, 2014; la citazione da p. 161), i giudici e i notai volgarizzano e copiano (Frosini, 2014a, pp. 36-42).

D’altronde, non solo per il dato culturale, ma anche per quello de-mografico ed economico, Firenze è di per sé e particolarmente un caso

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Firenzedi Giovanna Frosini

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eccezionale nella già straordinaria caratterizzazione urbana che conno-ta la situazione italiana fra xi e xiv secolo (Franceschi, Taddei, 2012): la vocazione urbana così rilevante risale indietro fino all’epoca romana (Francovich, 1976, p. 304), quando – fra ii e iii secolo – Florentia, colo-nia di origine cesariana, stretta nella conca delle colline e attraversata da un fiume riottoso, «era già una delle principali città dell’Etruria con un mercato situato al centro di strade consolari e municipali»; ma è poi in età medievale una supremazia raggiunta rapidamente nel corso del xiii secolo (anche se fino alla battaglia della Meloria, 1284, è Pisa a primeg-giare in Toscana), sostenuta dalla «vorticosa crescita della popolazione fiorentina, che, incrementata da un vasto movimento di immigrazione, raggiunge alla fine del secolo i 90000 abitanti» (ivi, p. 306), per poi superare i 100.000 (Franceschi, Taddei, 2012, p. 15), una cifra mai più toccata fino al xix secolo, dall’affermazione dei mercanti, dalla struttu-razione proto-industriale del sistema economico, dalla circolazione del fiorino d’oro, coniato dal 1252, che portò i fiorentini a essere, secondo l’espressione attribuita a Bonifacio viii, il «quinto elemento dell’uni-verso» (ivi, pp. 52-7). La «cerchia antica», da cui Fiorenza avrebbe tratto allora e sempre «e terza e nona», fu sostituita dalla prima cerchia comunale nel 1173-75, al tempo di Cacciaguida; questa accompagnò la città nel suo crescere, ma anche nel suo progressivo dividersi e scontrar-si, sempre più lontana da quell’essere «in pace, sobria e pudica» in cui l’aveva posta – nella memoria e nel mito – Dante (Par. xv).

Verso la metà degli anni Ottanta del Duecento – superata la disfatta di Montaperti del 1260, e ripristinato il potere guelfo dopo la battaglia di Benevento (1266) – si dette avvio alla costruzione della seconda cinta comunale, che si protrasse per oltre cinquanta anni, così da abbracciare per intero l’età dantesca. L’inclusione nel perimetro cittadino di una va-sta area a sud dell’Arno (Franceschi, Taddei, 2012, p. 21), l’individuazio-ne di un numero elevato (quindici) di porte, la fondazione delle gran-di chiese degli ordini mendicanti, Santa Maria Novella e Santa Croce, la progettata ricostruzione di importanti edifici come la cattedrale di Santa Reparata, marcarono questo passaggio (Cardini, 2007, pp. 50-1). La città di Arnolfo – architetto principalissimo e grande artista, regista d’eccezione della profonda trasformazione urbanistica negli anni in cui Dante cammina per le vie di Firenze – esprime il suo fulgore economico e demografico (Franceschi, Taddei, 2012, pp. 193-6). La configurazione urbana fondamentale si delinea dunque nella seconda metà del Due-

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4. firenze

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cento, e fra Duecento e primi decenni del Trecento; i successivi inter-venti (con la costruzione di imponenti “fabbriche”, il Palazzo dei Signo-ri e Orsammichele, e il riassetto dell’asse dalla cattedrale alla Signoria) ancora nel secolo seguente non avrebbero sostanzialmente intaccato questo quadro interno, così come il processo di ristrutturazione della campagna più vicina alla città, con essa fortemente osmotica. Il legame stretto e profondo con le terre fuori delle mura – terre di lavoro, luoghi di villeggiatura – è importante almeno per le grandi famiglie fin dall’età medievale, e continua ancora oggi nelle proprietà che spesso ospitano aziende agricole di caratura internazionale (Cardini, 2007, pp. 31-3, 49). La sostanziale continuità e omogeneità della situazione urbanistica che è possibile rilevare dal Medioevo al secondo Ottocento verrà modifica-ta in profondità solo negli anni di Firenze capitale: e la modifica (cfr. par. 4.3.1) comporterà con le costruzioni nuove la perdita definitiva di porzioni significative del centro storico medievale, dal fittissimo tessuto edilizio e viario. La città ottocentesca assume una veste più larga, e un aspetto più regolare nell’edilizia pubblica e privata, che era iniziato già nel Rinascimento, negli spazi ampi delle chiese segnati dal ritmo disteso della pietra serena, e con l’edificazione dei primi grandi, straordinari palazzi, vere scatole architettoniche di eleganza e armonia (palazzo Ru-cellai, palazzo Strozzi, il palazzo di Cosimo de’ Medici in via Larga, quindi palazzo Pitti). Ma Firenze continua ad apparire in una sostan-ziale, mirabile unità, in continuità con l’impianto geografico e urbano originario: quello scenario «nel quale si accampava – e si accampa an-cora – la città» (ivi, p. 17).

Su un dittico, distinto in fase pre-unitaria, medievale, e fase post-unitaria, si articola la presente trattazione, che cerca di individuare in sintesi alcuni elementi che appaiono rilevanti per la storia linguistica della città di Firenze, la dinamica evolutiva della sua lingua, e il rappor-to fra fiorentino e lingua nazionale dopo l’Unità d’Italia.

4.2 Il periodo pre-unitario.

Il fiorentino in diacronia

Negli anni Ottanta del secolo xiii si può porre dunque un primo di-scrimine nell’articolazione di un discorso storico, che trova una serie di significative corrispondenze: Firenze diventa una capitale mondiale

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figura 4.1 Firenze nel Trecento

Fonte: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Tempi 3 (Libri del Biadaiolo), f. 58.

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dell’economia, progressivamente al centro di un’imponente rete inter-nazionale di scambi, all’avanguardia nelle transazioni finanziarie e nel sistema del credito; esercita una forte attrazione immigratoria sulle gen-ti del contado; ha uno dei tassi di alfabetizzazione più alti dell’intero Occidente prima del xx secolo (Luzzatto, Pedullà, 2010, p. 294; Manni, 2013, pp. 13-5), per cui sapevano leggere e scrivere i due terzi degli uomi-ni, con una percentuale appena più bassa per le donne; si viene definen-do una civiltà letteraria insieme potentemente recettiva e propulsiva, di cui si può eleggere a simbolo da un lato la progettazione e realizzazione del grande canzoniere volgare Vaticano latino 3793, compiuto proba-bilmente mentre Dante è ancora in città, e che è il massimo collettore della poesia pre-stilnovista (Avalle, 1985; 1992; ora Ceccherini, 2014), e dall’altro appunto la prima diffusione dello Stilnovo, non meno del formarsi di una profonda cultura del volgarizzare. Poco più di mezzo secolo separa l’apparizione del primo documento scritto in volgare fio-rentino (1211: Castellani, 1980, vol. ii, pp. 73-140) da Cavalcanti, che è come dire il più grande poeta lirico del Duecento; il balzo che la lingua fiorentina (la «lingua bambina» di cui parlava Parodi) compie in quei pochi decenni ha davvero del prodigioso: dalle minute registrazioni contabili conservate nel manoscritto della Biblioteca Laurenziana alle poesie del «primo amico» passa lo spazio di tre generazioni.

A questi livelli (storico, economico, culturale, letterario) di scarto ne corrisponde un altro, più propriamente linguistico: perché «una certa differenza di tono» fra fiorentino arcaico e fiorentino antico si coglie intorno al 1275, data assunta da Castellani (1982, p. xiii) come discriminante nella scansione temporale. Dunque, i decenni estremi del secolo xiii vedono il raggiungimento e la stabilizzazione di un nuovo assetto linguistico complessivo, che nel periodo successivo (al-meno fino a dopo la peste di metà Trecento) si definirà come “aureo”. Nei primi trenta anni del xiv secolo Firenze vive consapevolmente il suo apogeo: Giotto viene nominato nel 1334 architetto della cattedra-le, sovrintendente alle mura e alle fortificazioni, e inizia, nell’ultimo intervallo della sua vita, la costruzione del campanile, nuovo asse verti-cale della città. Verrà poi, in altra età, il volume della cupola di Brunel-leschi, a completare la costruzione, a riequilibrare le masse e i profili, così «ampla da coprire con sua ombra tutti e popoli toscani», come scrisse Leon Battista Alberti. Il passaggio dal fiorentino arcaico al fio-rentino classico costituisce – in una fase che pure presenta tempi assai

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concentrati – il primo momento rilevante e apprezzabile in un per-corso di variabilità interna dell’idioma fiorentino che non mancherà di ripresentarsi nei secoli successivi: così che una fisionomia articolata e altamente dinamica del sistema linguistico e il forte rilievo della va-riabile diacronica appaiono come immediatamente rilevanti e persino caratterizzanti nella storia del volgare di Firenze.

4.2.1. fra duecento e trecento

Di questo primo passaggio tipologico si possono indicare schemati-camente alcuni elementi formali. Sono tratti del tipo arcaico, che ten-dono a modificarsi e a concludersi fra gli ultimi anni del Duecento e i primi del Trecento, i seguenti fenomeni:

il dittongo ie nelle forme verbali iera, ierano (si riducono a era, erano);i dittonghi discendenti ai, ei, oi (si riducono alla prima componente: meità>metà, preite>prete);la forma ogne (passa a ogni);il futuro e condizionale del vb. essere con tema in er: serò, serei (passano a sarò, sarei);i futuri e condizionali della 2a classe in forma intera: averò, averei (tendono alla sincope: avrò, avrei);nelle preposizioni articolate, si ha il rispetto della cosiddetta “legge Castel-lani”, per cui si trova l scempia davanti a parola cominciante per consonante o per vocale atona, l doppia davanti a vocale tonica («il tipo moderno, con l doppia in ogni posizione, si diffonde a Firenze solo nelle generazioni nate dopo il 1280»: Castellani, 2009, pp. 924-48, alle pp. 932-3);le desinenze di 1a pers. pl. del presente indicativo escono in -emo, -imo (avemo, sentimo: sono sostituite da -iamo per analogia col congiuntivo);le desinenze di 3a pers. sing. del perfetto indicativo debole, in verbi delle classi diverse dalla prima, escono in -eo, -io (perdeo, sentio: passano a -é, -ì);la desinenza etimologica di 2a pers. sing. del presente indicativo della 1a classe, e del presente congiuntivo delle altre classi è in -e (ma tende a scomparire as-similandosi a -i: tu ame>tu ami, che tu abbie>che tu abbi) (il quadro di questi fenomeni è ripreso da Manni, 2013, pp. 21-2, e cfr. Castellani, 1952).

Si vedano come esempi della documentazione duecentesca: il movi-mento di apertura del primo testo noto di città, i Frammenti d’un libro di conti di banchieri fiorentini del 1211 (ms. Edili 67 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze; da Castellani, 1982, p. 23, con l’analisi linguistica di Castellani, 1980, vol. ii, pp. 104-40):

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4. firenze

209

(1) 1. MCCxi. Aldobra(n)dino Petri (e) Buonessegnia Falkoni no dio(no) dare katuno i(n) tuto lib. lii p(er) livre diciotto d’i(m)p(eriali) mezani, a rrascio(ne) di tre(n)ta (e) ci(n)que m(eno) terza, ke de(m)mo loro tredici dì a(n)zi k. luglio; (e) dio(no) pagare <per |__ giugnio> tredici dì a(n)zi k. luglio; se più sta(n)no, a iiii d. lib. il mese qua(n)to fosse nostra volo(n)tade. Tt. Alb(er)to Baldovini (e) Quitieri Alb(er)ti di Porte del Duomo

con l’uso del grafema <k> per la velare sorda, e del segno <q> per g di fronte a u semiconsonantica (Quitieri), mentre la sibilante palata-le sonora è espressa con <sci> in rrascio(ne) (ragione, a ragione di) ‘al prezzo, al tasso di’; il dittongo uo presente anche nei nomi propri che hanno buono come primo elemento (Buonessegnia, in cui è notevole pure la e intertonica); e ancora no pronome per ‘ci’, ‘a noi’, e la 3a pl. del presente indicativo di dovere dio(no); e quello del volgarizzamento del Trattato della Dilezione di Albertano da Brescia come si legge nel codice ii iv 111 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, copiato dal maestro Fantino da San Friano e datato al 1275 (Castellani, 2012): esempio illustre e venerando di scrittura “intermedia”, non prosa pra-tica, non prosa “d’arte”, ma scrittura media, e di traduzione, in cui si apprezzano elementi fondamentali del fiorentino arcaico:

|10(1)| [1] Incominciasi lo libro del’amore (e) dela dilectione di Dio etdel proximo et dell’altre cose et dela forma del’onesta vita.libro primo d’albertano.[2] [.j.] Lo cominciamento del mio tractato sia nel nome di Dio, dal qua-le ve(n)gnono tutti li beni et dal quale è ogne dato optimo et ongnedono p(er)fetto, ke discende dal padre dei lumi. [3] Di quanto amore e di qua(n)ta dilectione la mia caritade di padre ami la tua subiectione di filio, a pena lo ti potrei dire o cola mia lingua in alcuna guisa manifestare. [4] Volen-do dunque io Albertano te Vi(n)centio mio filliuolo i(n)formare di buoni costumi e del’amore e dela dilectione di Dio (e) del proximo e d’altre cose e dela forma del’onesta vita amaestra[r]ti, primierame(n)te credo che due cose specialme(n)te ti siano mistiere: ciò èe doctrina et parlamento, p(er)ciò che prima dei appre(n)dere et poscia parlare. [5] Che sì come disse (Iesu) fil(ius) Syrac: «Inna(n)çi ke tu giudichi, apparechia giustitia, et ançi ke fa-velli impre(n)di». [6] Et Salamone disse: «Ki prima favella k’elli inprenda, affrettasi di venire in derisione et |10(2)| in dispregio». [7] Prima dunque odi la doctrina, poscia coll’animo la ’(m)pre(n)di et poi nela me(n)te la ri-tieni; che coll’anima vivemo, coll’animo appre(n)demo, cola me(n)te rite-nemo. [8] Dunque dei udire la doctrina, acciò c’abbie la scientia; perciò sì

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come disse Salamone: «Chi ama la doctrina, ama la scientia, ma chi à inn odio li gastigame(n)ti è matto»

dove si noteranno ancora l’impiego del grafema <k> in vari conte-sti; la forma dell’indefinito ogne; le desinenze verbali dell’indicativo (vivemo, appre(n)demo, ritenemo) e del congiuntivo (abbie), l’osser-vanza della “legge Castellani” (dela dilectione, dela forma, del’amore, del’onesta vita; dell’altre cose, coll’anima). Il confronto è volutamente fra testi di natura, contenuto e livello stilistico diverso, separati da una sessantina di anni, in realtà da decenni decisivi per l’intensificarsi della pratica della scrittura, la moltiplicazione dei testi, lo schiudersi della dimensione letteraria.

Il fiorentino classico – risultante anche dall’evoluzione dei feno-meni precedenti – si caratterizza almeno fino all’epoca della peste di metà Trecento sulla base di una serie di tratti fono-morfologici, fra cui i principali (la «formula del fiorentino») sono così individuati da Ca-stellani (1952, pp. 21-2):

il dittongamento di e aperta tonica, o aperta tonica in sillaba libera (anche dopo cons.+r): piede, fuoco; priega, truova;l’anafonesi (ossia passaggio di e tonica >i dinanzi a n palatale, l palatale, n velare; passaggio di o tonica >u dinanzi a n+g): tigna, famiglia, lingua, vinco; fungo;l’evoluzione spiccata di e atona >i (ritorno, medico);l’evoluzione di ar intertonico e postonico >er in qualunque posizione (ame-rò, Lazzero);l’esito r+iod > iod (gennaio).Una trattazione più estesa si può leggere in Manni, 2013, pp. 22-6, specie in riferimento alla morfologia verbale. In essa è particolarmente evidente e se-gno della «vivacità innovativa fiorentina della seconda metà del Duecento» (Baldelli, 1996, p. 8) la polimorfia della 3a pers. pl. del perfetto indicativo: nei perfetti deboli alle desinenze primitive -aro, -ero, -iro (e alla forma fuoro, furo) si affiancano le desinenze analogiche -arono, -erono, -irono (e fuorono, furono); nei perfetti forti accanto alla etimologica -ero si hanno forme in -ono e anche in -oro.Si possono poi richiamare:l’esito an in sanza; la -e finale in dimane, stamane; il comune esito toscano /ggj/ di -gl- in tegghia, Tegghiaio, mugghiare, Fegghine, ecc.; il mantenimento di e tonica in iato nelle forme del congiuntivo dea, stea (ma dieno, stieno alla 3a pl.); la desinenza etimologica in -a della 1a pers. sing. dell’imperfetto indicati-vo; la 2a pers. sing. del presente indicativo sè.

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4.2.2. dante “arcaico”

La scansione diacronica del fiorentino nella sua prima fase implica su-bito una proiezione all’indietro della formazione linguistica di Dante, delle strutture del suo volgare, costituite negli anni dell’infanzia e del-la giovinezza dell’autore, e dunque saldamente ancorate al Duecento (Manni, 2013, p. 93). La fiorentinità originaria e fondamentale della Commedia difficilmente potrà essere revocata in dubbio: la «con-gruenza media fra le strutture fonetiche e grammaticali della lingua documentaria fiorentina, presumibilmente assai vicina al sistema della lingua fiorentina del tempo, e quelle della lingua di Dante appare esse-re assai forte, e tenderà ad aumentare dalla lirica giovanile alle opere in prosa e alla Commedia», certamente la più fiorentina tra le opere dan-tesche nella struttura fonetica, morfologica e sintattica, e nel lessico fondamentale (Baldelli, 1996, p. 8). La rilevazione riguarderà semmai la fisionomia articolata ed evolutiva della lingua in questi decenni di svolta della fine del Duecento, quale si riverbera in un’opera scritta in-teramente fuori di Firenze, necessariamente lontana dal contatto vivo con la lingua di città. La variabilità linguistica non appartiene dunque soltanto alla dinamica sperimentale di un poeta alla continua ricerca di uno strumento espressivo capace di dar fondo al reale, ma è inevitabile e necessaria conseguenza della compresenza di diverse fasi storiche del-la sua lingua d’origine (cfr. Nencioni, 1989, p. 192).

Dante è uomo del Duecento, è prima uomo della città, nel dramma-tico scontrarsi delle sue forze interne: «per lui e per gli uomini dell’età sua in gran parte d’Italia la nazionalità municipale è irrevocabile» (Dio-nisotti, 1973, p. 1378); è poi e insieme, nella dinamica della personale evoluzione politica, uomo dell’Impero, delle grandi istituzioni sovrana-zionali (Nencioni, 1989, p. 178; Dante Alighieri, 2013, pp. xix-lxxxvi). La lingua che «suona fiorentina o toscana alle anime che lo ascoltano» (Dionisotti, 1973, p. 1378), senza possibilità di equivoci affermata e pro-clamata, è la lingua di una città, ma viene scritta nella grande opera lontano da quella città, e proiettata su un orizzonte diverso e più largo di ascoltatori e di lettori. La linfa vitale fiorentina, che aveva formato e nutrito la sua esperienza diretta negli ultimi decenni del Duecento, si arresta prima della scrittura; rimane lingua materna, della memoria, della consuetudine personale, della tradizione poetica costituita, dei libri che si potevano ricordare e leggere, dei contatti brevi con gli amici che dalla città potevano raggiungerlo: non più del contesto quotidia-

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no. La lingua in esilio, il fiorentino “fuori d’Arno”, sentito e usato in tutta la sua straordinaria potenzialità, nella ricchezza e nella varietà dei suoi molteplici livelli, si unisce alla lingua dell’esilio, a ciò che Dante riprende con libertà e «spregiudicata recettività» (Nencioni, 1989), temperato dal filtro di una precedente consacrazione letteraria che sempre viene richiesta ai vocaboli non fiorentini (Migliorini, 1960, pp. 190-1). Parallelo e corrispondente al rapporto fra dimensione politica cittadina e sovra-nazionale è il rapporto fra volgare d’origine e volgari esterni, specificamente italiano-settentrionali, e parimenti importan-ti le conseguenze che ne derivano (Nencioni, 1989) sulle possibili in-fluenze dei secondi sul primo, per uno che «per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando è andato» (Conv. iiii 4).

La realtà effettiva e dimostrabile dello scarto fra fase arcaica e fase antica del fiorentino difficilmente può non aver lasciato un segno in Dante, così sensibile alla dimensione temporale della variazione delle lingue (dve i ix 6-8, Conv. iv 9; Nencioni, 1989, p. 197). Questa con-sapevolezza della diacronia è ben espressa in Par. xvi 32-33, a proposito della lingua dell’avo Cacciaguida:

così con voce più dolce e soave,ma non con questa moderna favella

«Moderna favella» è espressione tipicamente dantesca (stando alle risultanze del corpus tlio, è attestata oltre che in Dante nei commenti dell’Ottimo, che propone come possibilità di spiegazione: «a dare ad intendere, che gli antichi nostri ebbono non del tutto il nostro idio-mate», e di Francesco da Buti); ed è certo da vedere nel quadro degli altri esempi di moderno (che è peraltro parola poco presente in italiano antico: cfr. tlio s.v. e corpus tlio) nella Commedia: ecco allora «l’uso moderno» di Purg. xxvi 113 (la poesia moderna, la maniera moder-na, la nuova poesia, ossia la poesia di Guinizzelli, contrapposta all’uso antico di Guittone); su cui si innesta il passaggio successivo da Gui-nizzelli a Cavalcanti (e oltre) in Purg. xi 97-99, preceduto in campo artistico da quello fra Cimabue e Giotto, coevo questi a Dante e «al-ter oculus» nella “mutazione” della pittura nuova (94-96). A indivi-duare i limiti della «moderna favella», che vale dunque ‘linguaggio moderno, di oggi, non arcaico’ può contribuire il passo di Conv. iv 9: «Onde vedemo che nelle cittadi l’Italia [...] da cinquanta anni in qua

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molti vocaboli essere spenti e nati e variati». Dante individua dunque nella seconda metà del Duecento un periodo di variazione linguistica, non solo a livello lessicale (vocaboli spenti e nati) ma anche fonetico-morfologico (variati). E questo corrisponde per l’appunto all’arco cronologico più sensibile nella costituzione ed evoluzione del sistema linguistico fiorentino, col passaggio dalla fase arcaica alla fase antica: «moderna favella» si potrà dunque leggere come un riferimento ai fenomeni di mutamento linguistico che Dante cominciava a cogliere anche nel fiorentino del suo tempo.

Come esemplificazione dell’arcaismo di Dante (già rilevato da Mi-gliorini, 1960, p. 191, citando Parodi, La rima e i vocaboli in rima nella Divina Commedia), la tab. 4.1 dà conto di una serie di fenomeni che alle soglie del Trecento si possono considerare ormai definitivamente conclusi o in via di conclusione. Nelle citazioni si fa riferimento al te-sto Petrocchi (cfr. Dante Alighieri, 1966-67, poi 1994) della Comme-dia, pur sapendo che il problema dell’assetto linguistico del poema è apertissimo, ora più che mai (cito per ultimi – dopo Dantis Alagherii, 2001, a cura di Sanguineti, Serianni, 2007; Dante Alighieri, 2007 e 2011, curati da Inglese; Trovato et al., 2007; Tonello, Trovato, 2013). Sembra ancora giustificato riferirsi a un’edizione che per la veste for-male si fonda sul ms. Trivulziano 1080, sostanzialmente fiorentino, datato 1337, come a quella di un testimone per geografia e cronologia non troppo distante dall’autore; pur con la consapevolezza da un lato dei limiti insiti in una forte semplificazione della storia della tradizio-ne, e dall’altro dei processi di normalizzazione e uniformazione che spesso sottostanno al testo Petrocchi, costituito in anni in cui molti studi di lingua non erano stati ancora realizzati, né esisteva un formi-dabile strumento di indagine come il tlio, da cui si traggono qui an-che riscontri statistici e riferimenti ad altre opere di Dante (cfr. anche Manni, 2013, pp. 98-100).

Si notino in particolare i casi delle desinenze. Essi testimoniano una aperta propensione di Dante verso elementi di retroguardia: agli inizi del Trecento il primo tipo di ciascuna coppia aveva lasciato il posto al secondo, o era ormai in pieno regresso. Dante registra dunque con grandissima sensibilità la variazione linguistica interna, non cancellan-do la soluzione più antica, che è quella con la quale è cresciuto. Alla luce di quanto si è detto, si potrà forse ripensare il concetto stesso di ar-caismo nella Commedia, quale è acquisito agli studi: “arcaismo” si po-

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tabella 4.1 Variazione linguistica nella Commedia

Tratto arcaico (duecentesco) Tratto antico (trecentesco) Dante, Commedia ecc.

Futuro e condizionale in -er-: serò, serei ecc.

Passaggio -er->-ar-: serò>sarò, serei>sarei ecc.Il fiorentino è l’unico dialetto toscano in cui alla fine del secolo xiii le forme sarò, sarai ecc. ab-biano soppiantato quelle originarie.

Gli esiti sono stati unifor-mati nell’edizione Petroc-chi in: sarò, sarei, saremo, saranno. C’è oscillazione per sarà/serà nel Fiore: 79 occ. di sarà contro 5 di serà (serà si trova anche come variante a Purg. xxxiii 37 nei codd. Ashburnham 828 [Ash] e Filippino 4 20 [Fi]).

omnem>ogne. Passaggio ogne>ogni. Nei manoscritti si ha oscil-lazione fra i due tipi, peral-tro mai attestati in rima, ma prevale ogne.

Presenza del dittongo nelle forme iera, ierano.

Scomparsa del dittongo: iera>era, ierano>erano.

Iera ha 3 occorrenze nel Fiore, a fronte di oltre 540 casi di era; sempre erano, mai ierano.

Forma non sincopata nei futuri e condizionali della 2a classe: averò, averei.

Si ha la sincope del-la vocale: averò>avrò, averei>avrei (ma le forme sincopate non diventano esclusive).

Averò ha un esempio nel Convivio, averei un esempio nella Vita Nuova e uno nella Commedia (Inf. iii 56); per il resto, sempre avrò, avrei.

Desinenze di 1a pl. del pres. indic. dei verbi della 2a e 3a classe: -emo, -imo: avemo, perdemo, sentimo.-iamo è costante per la 1a classe fin dalle prime atte-stazioni reperibili (non an-teriori peraltro al terzultimo decennio del Duecento).

Desinenza unica -iamo per analogia col congiunti-vo: avemo>abbiamo, per-demo>perdiamo, senti-mo>sentiamo (impor-tantissima innovazione fiorentina della fine del Duecento).

Alternanza -emo (solemo-Purg. xxii 123r – la lettera r indica i casi in rima –, ve-demo Par. xx 134r, volemo Par. xx 138r) e -iamo (cono-sciamo Par. xx 135, diciamo Par. iv 114, repetiam Purg. xx 103) (-iamo è desinenza meno frequente, e non assi-curata dalla rima).

Desinenze di 3a sing. del perf. indic. di tipo debole nelle classi diverse dalla 1a: -eo, -io: perdeo, sentio.

Sostituzione con le desi-nenze -é, -ì: perdeo>perdé, sentio>sentì (e anche la desinenza -ette, soprattut-to per il vb. ricevere).

-eo, -io allato a -é, -ì (poteo Purg. xx 138r, appario Purg. ii 22r) (poté Inf. xxxiii 75, apparì Purg. iii 58).Anche forme in -ette.

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Tratto arcaico (duecentesco) Tratto antico (trecentesco) Dante, Commedia ecc.

Desinenze di 3a pl. del perf. indic. di tipo debole: -aro, -ero, -iro: amaro, perdero, sentiro; e fuoro.

Si affiancano le desinen-ze -arono, -erono, -iro-no: amarono, perderono, sentirono (per analogia col pres. indic.); fuorono, furono (ma le forme pri-mitive si protraggono un po’ di più nel sec. xiv).

-aro, -ero, -iro accanto ai più rari -arono, -irono (sem-pre fuori rima -aron, -iron) (addrizzaro Par. xxxiii 43r, potero Inf. xxii 128, sa-liro Par. xxv 128r) (ammi-raron Par. ii 17, udiron Inf. xxix 99).Alternanza nelle forme del perfetto di essere: cfr. Inf. iii 38-39: «che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro».

Desinenza di 2a sing. del pres. indic. dei verbi della 1a classe: -e< -as: tu ame e de-sinenza di 2a sing. del pres. cong. dei verbi della 2a, 3a, 4a classe: -e: che tu abbie, che tu facce, che tu parte.

Passaggio alla desinenza -i per assimilazione alle altre classi: tu ame>tu ami; che tu abbie>che tu abbi, che tu facce>che tu facci, che tu parte>che tu parti. Per il pres. cong. si trova anche la desinenza -a.

Pres. indic.: -e alterna con -i, con documentazione in rima (pense Inf. v 111r, pensi Inf. xii 31r) ecc. Pres. cong.: -e accanto a -i (diche Inf. xxv 6r, credi Inf. vii 117r) e anche -a (goda Inf. viii 57r).

Desinenza di 1a sing. del-l’imperf. cong. (-e<-em: che io potesse).

Passaggio alla desinenza -i, in analogia con la 2a sing.: che io potesse>che io potessi.

Si trova -e allato a -i (io fos-se Purg. xvii 46r, io udissi Purg. xvii 79r).L’importanza delle forme in -e era già sottolineata da Parodi.

Forma dipo (<de post) accanto a dopo, doppo (forse *(mo)do post).

Scomparsa della forma dipo, sostituita da dopo (doppo resta come forma popolare).

Nessun esempio di dipo; sempre dopo come nor-malizzazione dell’editore: Purg. xviii 89r, xxvi 17r. Dipo è recuperato dal ms. Urbinate lat. 366 nell’e-diz. Dantis Alagherii, 2001, in Inf. viii 58; è at-testato dai codici dell’an-tica vulgata ad esempio in Purg. vii 115.

tabella 4.1 (segue)

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trà usare in senso oggettivo, ma forse molto meno in senso soggettivo (ossia: i fenomeni che troviamo nella Commedia e che noi imputiamo di arcaismo sono in effetti i fenomeni a cui Dante era abituato nell’uso vivo della lingua); la lingua della Commedia – nella sua fondamentale componente fiorentina – va riportata all’indietro, all’ultimo scorcio del Duecento (cfr. anche Mengaldo, 2001, p. 281).

4.2.3. l’età di firenze: dalla peste a machiavelli

La tradizionale correlazione della terna Dante-Petrarca-Boccaccio as-sunta a simbolo stesso della lingua di Firenze sullo sfondo del pieno Trecento non deve trarre in inganno: essa risulta infatti troppo spes-so astrattamente proiettata su una dimensione più letteraria che rea-le, così che la fiorentinità assoluta e icastica delle “tre corone” appare più un portato della tradizione successiva che un dato storico concre-to. Invece, Dante trascorre in esilio un ventennio decisivo; Petrarca è lontano da Firenze, fra la corte angioina, la curia avignonese, i signori dell’Italia settentrionale, estraneo al municipalismo fiorentino, astrat-to come la sua lingua (Dionisotti, 1973, p. 1382); e Boccaccio, che si forma letterariamente a Napoli, torna a Firenze solo all’inizio degli anni Quaranta (Bruni, Dotti, 1990, p. 716). Altri segni vanno cerca-

Tratto arcaico (duecentesco) Tratto antico (trecentesco) Dante, Commedia ecc.

Tipo diece. Tipo dieci (si afferma alla metà del secolo).

Alcuni casi di diece (com-provati dalla sede rimica: Inf. xxv 33r, xxix 118r, Par. vi 138r); ma altrove Petroc-chi uniforma le oscillazioni dei mss. in dieci (cfr. ad es. Inf. xviii 9).Dantis Alagheriis (2001) riflette diece del cod. Urbi-nate lat. 366.

Preposizioni articolate: ti-po dell’oro, ma dela casa, del’amico secondo la “legge Castellani”.

Generalizzazione del tipo con ll: dell’oro, della casa, dell’amico.

La “legge Castellani” è veri-ficabile in due casi in rima: ne la /via (:vela :cela) Purg. xvii 5r, ne lo /punto (:cielo :candelo) Par. xi 13r.

tabella 4.1 (segue)

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ti in città: fra questi, il costituirsi – fra quarto e quinto decennio del secolo – di un ambiente di scrittori, professionisti, intellettuali che si conoscono, che conoscono l’uno i libri dell’altro (Arrigo Simintendi, Andrea Lancia, che frequenta la biblioteca di Giovanni Villani): essi formano la cerchia fiorentina di Dante, che legge e commenta la Com-media secondo una linea interpretativa tipicamente e propriamente, tecnicamente fiorentina. Il recupero dei classici a Firenze in questi decenni del Trecento nasce anche dall’esigenza di riappropriarsi della classicità per poter leggere Dante: ha dunque un orizzonte propria-mente esegetico, e specificamente dantesco. Questo importa la grande rilevanza che assume la stagione del volgarizzare: essa si configura non come sparsa e occasionale attività di travaso, ma come organica civiltà dei volgarizzamenti. Alberto della Piagentina, Zucchero Bencivenni, Filippo Ceffi sono gli artefici del rinnovato contatto con gli autori, che può assumere le vesti di una attività plurilingue (si traduce dal latino, si traduce dal francese): segno di una singolare e straordinaria attenzione che a Firenze si riserva al volgare, e che contribuisce a definire le strut-ture di una lingua nel pieno della sua espressione (Luzzatto, Pedullà, 2010, pp. 292-5; Frosini, 2014a, pp. 58-63).

Ma la terribile pestilenza di metà secolo (la “morte nera” raccontata nel Decameron) spezza una società, disperde la sua popolazione, pro-voca conseguenze anche linguistiche di grande rilievo, ormai molto studiate e ben note (Franceschi, Taddei, 2012, pp. 26-8). Una serie com-plessa di fattori storici e sociali (la crisi demografica e il conseguente ripopolamento dovuto in buona parte all’immigrazione di ceti umili provenienti dal contado occidentale e meridionale, la crisi economica delle grandi compagnie mercantili e bancarie, l’importanza dell’asse commerciale Firenze-Pisa, pur nelle alterne e diverse condizioni e for-tune) si lega a motivi dipendenti dal naturale, libero cambiamento della lingua: e determina un rapido e profondo evolversi del volgare fioren-tino, che entra in una fase distinta della sua storia, fase che si è definita “argentea”, e che, riverberandosi puntualmente anche a livello letterario nelle grandi esperienze della corte laurenziana (Lorenzo stesso, Poli-ziano), giunge dalla seconda metà del Trecento a comprendere i primi decenni del Cinquecento (Machiavelli e oltre). Dunque anche il fioren-tino, al pari di tutti gli altri volgari, va incontro a processi di ibridazione, precipuamente con un significativo contingente di innovazioni tosca-no-occidentali, manifesta una mobilità che vede il convergere e il vario

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disporsi di spinte interne ed esterne, in un gioco certamente complesso di assestamenti con i caratteri precedenti della lingua. Questa ondata innovativa si fa strada nella fonetica e nella morfologia, stabilendovisi a volte per sempre (il caso in questo senso forse più illustre è l’afferma-zione della 1a persona dell’imperfetto indicativo in -o: ero per era, anda-vo per andava); ma sarà anche – nelle linee generali, ad esempio, della morfologia verbale – respinta dalla successiva ondata normalizzatrice cinquecentesca, pur rimanendo vitale, fino ai giorni nostri, nel toscano popolare (si pensi a forme come venghi, venghino del congiuntivo).

Dal pieno Trecento al primo Cinquecento Firenze viene progressi-vamente assumendo e consolidando una «duplice funzione sovramu-nicipale, recettiva ed espansiva» (Nencioni, 1989, p. 197): assorbe e metabolizza tratti esterni, perlopiù “di contado”; espande al contempo la propria influenza, politica, militare, culturale (dopo le più vicine Pi-stoia e Prato, la svolta importante è nel 1406 l’annessione di Pisa). Si configura dunque come uno Stato regionale (dal quale rimarrà esclusa Siena fino a Cosimo i, e poi sempre Lucca), e a questa nuova dimensio-ne corrispondono differenti caratteri della sua lingua, e una complessa politica culturale, largamente rivolta all’esterno. Nell’“età di Firenze” si assiste a un potente ri-orientamento della cultura cittadina verso la classicità: classicità latina e greca, nell’operosa condotta dei suoi grandi cancellieri fra studio degli autori e attività civile (sempre fondamentale il panorama di Garin, 1988), e quindi nel recupero di Platone avviato sotto Cosimo il Vecchio; classicità volgare, che culmina nell’età di Lo-renzo col pieno recupero della tradizione mai sopita in città (passata semmai attraverso la civiltà volgare degli artisti di primo Quattrocen-to), recupero che si manifesta in opere come il commento di Cristo-foro Landino alla Commedia (1481) o l’allestimento della Raccolta Aragonese (1476-77) da parte di Poliziano per Federigo d’Aragona, emblematico sigillo di una affermazione non meno linguistica che po-litica (Nencioni, 1983, p. 213; Sabatini, 2014; ricostruzione generale in De Robertis, 1988). Ma le due classicità convivono, e l’una non ostaco-la ma alimenta l’altra, come è plasticamente visibile nel fiorire ancora delle traduzioni (Frosini, 2014a, pp. 63-72).

Nella piena consapevolezza delle ricadute politiche e diplomatiche che poteva avere il prestigio della lingua fiorentina, nella duplice ma unitaria e corrispondente declinazione di lingua d’uso e di lingua lette-raria, si muove l’azione di Lorenzo e degli intellettuali della sua cerchia,

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della sua casa (una messa a punto in Frosini, 1996); con lo stesso sen-timento di una lingua viva e intera che giunge – attraversando l’età di Gerolamo Savonarola e di Pier Soderini – fino a Machiavelli, stringe in unità le strutture fonetiche e morfologiche e sintattiche degli scritti di Machiavelli segretario e di Machiavelli autore, intreccia con profonda corrispondenza le carte della cancelleria scritte ora da Niccolò ora dal suo coadiutore Buonaccorsi, e depositate nel medesimo o in confinanti registri, e le lettere sue e di Biagio, così convintamente attivo anche nella copia delle opere dell’amico. In questo senso, la forza espansiva del fiorentino, la sua permeabilità a tratti evolutivi interni ed esterni, la solida e incontrovertibile affermazione della tradizione letteraria ne fanno uno strumento funzionale; e si mantiene e si ribadisce il ruolo centrale e catalizzatore di Firenze nell’attività politica, civile, culturale, linguistica, secondo quel sentimento e quell’orizzonte così propria-mente “repubblicano” in cui i fiorentini ancora si riconoscevano (cfr., su un più ampio arco cronologico, Fenzi, 2008). Le ripetute cadute dei Medici, i profondi sconvolgimenti politici, militari, sociali, la precarie-tà istituzionale dei decenni fra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, la crisi risolutiva del sistema dei municipi e delle signo-rie, ridimensionano il ruolo della Toscana e di Firenze in specie. Firen-ze non è più in grado di svolgere un ruolo animatore e trainante né a livello letterario né a livello linguistico: la proposta di Machiavelli – di fare della lingua contemporanea la lingua nazionale – non può aver corso fuori della città e della sua area. Altre città – in particolare Vene-zia – subentrano come centro propulsivo, anche in virtù del primato editoriale che agisce su dimensione nazionale ed europea (Dionisotti, 1973, p. 1388; Sabatini, 2014, pp. 12-3). Con il principato di Cosimo i, il suo volere «regolar la volgar lingua fiorentina», come disse Bernardo Davanzati nell’orazione funebre, si apre definitivamente un’altra epo-ca: essa passa attraverso il processo di intromissione e di non scontata ma discussa accettazione a Firenze della norma bembiana, e supera la possibilità di una separazione fra fiorentino classico e fiorentino vivo, che si sanò infine a favore del primo elemento nelle scritture ma non, naturalmente, nel parlato (Nencioni, 1983, pp. 211-25).

Fenomeni della lingua di Machiavelli Nella bibliografia si allineano, intorno al fondamentale Manni (1979), i contributi di Folena (1952; 1953) e Ghinassi (1957), e l’esame di singoli autori e opere (Lorenzo:

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Zanato, 1986; Alessandra Macinghi Strozzi: Trifone, 1989; Matteo Franco: Franco, 1990, e cfr. anche Frosini, 2009a; Leon Battista Alber-ti: Alberti, 1996); la definizione di fiorentino “argenteo” risale a un ben noto saggio di Arrigo Castellani, Italiano e fiorentino argenteo del 1967 (poi in Castellani, 1980, vol. i, pp. 17-35).

Quadri descrittivi del fiorentino quattro-cinquecentesco si posso-no trovare nei saggi, nelle edizioni e nei commenti citati; preferisco qui riportare in sintesi alcuni esempi dalle carte autografe di Machia-velli, rimandando per approfondimenti e specificazioni alla versione più estesa del lavoro (Frosini, 2014c; si sottintende il rimando a Manni, 1979, oltre che a Franco, 1990).

Riduzione del dittongo dopo cons. + r: si delinea nelle carte di Ma-chiavelli un quadro distintivo piuttosto chiaro, per cui al tipo truovo con conservazione del dittongo (saldo ancora fino al secondo/terzo quarto del Cinquecento) si oppone il tipo breve, ormai monottonga-to, conformemente all’andamento generale del periodo. Evoluzione del nesso -ski- in -sti- in stiere, le stiene, Stiatta Uberti ecc.; e il tipo diaccio per ghiaccio, ad esempio i sangui diacciati: si tratta di forme sconosciu-te al fiorentino prequattrocentesco, ancora piuttosto rare nel secondo Quattrocento e caratterizzate in senso rusticale; non così, evidente-mente, nell’età di Machiavelli, in cui queste forme sono penetrate nel fiorentino di città, e non esitano a essere impiegate in opere di elevato impegno, come le Istorie fiorentine e l’Arte della guerra. Significativa la metatesi attestata in rispiarmo (nome e verbo), forma di lunga soprav-vivenza, oltre la normalizzazione cinquecentesca, nel toscano popolare. Nella morfologia nominale il plurale in -e dei sostantivi della 3a classe (le deliberatione, le gente vostre), e degli aggettivi della 2a classe (500 lancie fra(n)zese); la palatalizzazione di -(l)li> -gli: tucti quegli cittadini, 2000 cavagli ecc., e naturalmente Machiavegli; per l’articolo si ha una distribu-zione diacronica assai netta: nel periodo 1497/1514-17 prevalgono el/e, ossia le forme di importazione (occidentale e meridionale), che si erano gradualmente diffuse a Firenze nel corso del Quattrocento, rimanendo tuttavia fino al pieno secolo nettamente minoritarie; poi la situazione cambia, in modo molto deciso, e negli autografi dell’Arte della guerra, nella Favola (1519-20), nelle Istorie fiorentine (1522-25) i tipi classici il/i sono assolutamente dominanti. Il sistema dei possessivi costituisce un caso interessante: delle due possibilità eversive rispetto alla tradizione, il sistema di mie, tuo, suo invariabili e di mia, tua, sua pl. masch. e femm.,

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Machiavelli sembra cogliere solo la seconda (ecco allora i casi di le cose mia, e soldati sua ecc., sempre però con forte concorrenza interna). Il set-tore della morfologia verbale è certo quello più compatto e importan-te: nelle scritture autografe si ritrovano praticamente tutte le categorie morfo-verbali già individuate come proprie del sistema fiorentino “ar-genteo”, categorie che formano un insieme così potentemente innovati-vo rispetto alla tradizione trecentesca da conferire al volgare cittadino del Quattro-Cinquecento la sua propria specificità. Si registrano così il tipo sete per siete e il tipo missi (e messi) per misi; il futuro e condizionale arò, arei per avrò, avrei; il tipo – anch’esso di provenienza occidentale – fussi per fossi. Quanto alle desinenze, si possono notare: la 1a pers. sing. dell’imperf. indic. in -o, per analogia col pres. indic.: io mi p(er)suadevo, io dicevo ecc.; la 3a pers. sing., e 3a pers. pl. del congiuntivo presente in i, -ino: vadi, habbi, facci; tenghino, habbino, vadino. E ancora: la 3a pers. pl. del presente indic.: -ono per la 1a classe, -ano per le altre classi (et li huomini non mutono le loro fantasie, ma(n)tengano); e nell’imperfetto: andavono, havevono; largamente presenti le desinenze della 3a pers. pl. -orono, -orno nei perfetti deboli dei verbi della 1a classe (con estensione alla 3a, 4a classe e al verbo essere), e -ono nei perfetti forti, così da disegna-re anche in Machiavelli un quadro di rilevante polimorfia (Salvi, Renzi, 2010, pp. 1443-4): consiglorono, approvorno, furno; feciono, vollono ecc. E così poi la fitta serie delle congiunzioni, preposizioni, avverbi, per i quali influenze esterne e fenomeni di evoluzione interna al fiorentino determinano un assetto profondamente diverso rispetto a quello classi-co: manco, fuora, drento, drieto/dreto, indreto, e così via.

Machiavelli, che assume il volgare fiorentino “argenteo” nella sua pienezza, e nella ricchezza della sua variabilità e articolazione interna, nei suoni, nelle forme, nei diversi e più vari registri del lessico, lui che amava la patria sua «più dell’anima», può essere preso come esempio di un punto notevolissimo di variazione interna del sistema linguisti-co, quale – per estensione, profondità, pervasività delle strutture – non sarà più raggiunto nei secoli successivi.

4.2.4. un fenomeno evolutivo di età moderna

Un tratto evolutivo che accompagna la storia moderna del fiorentino, e che marcatamente lo connota anche nell’uso contemporaneo (esempi in Giannelli, 2000; Poggi Salani et al., 2012), è il monottongamento di uo in o: di valore così netto da essere richiamato fin dal titolo del Nòvo

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1. Rapida la diffusione del monottongo del fiorentino popolare anche nei territo-ri del Granducato (cfr. Castellani, 2009, p. 286 n 102), ancora oggi ben apprezzabile.

vocabolario della lingua italiana di Giorgini e Broglio, appunto detto secondo l’uso di Firenze (1870-97).

Il dittongo uo in continuazione di ŏ tonica in sillaba libera è (in pa-rallelo col dittongo ie) l’esito normale a Firenze in epoca antica (fuoco, nuovo, come fiera, piede). Esclusi casi particolari (come omo, vole per uomo, vuole), documentati anche in epoca antica e dovuti probabil-mente all’influsso dei dialetti vicini (in particolare del pisano per omo, omini); e lasciate da parte le tendenze alla riduzione del dittongo nei contesti specifici che si determinano dopo suoni palatali (figliolo invece di figliuolo, gioco invece di giuoco: attestata a Firenze fino dai più antichi documenti in volgare, e divenuta comune tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento), e dopo la sequenza di consonante+r (il caso del passaggio di priega a prega, e di truovo a trovo, che si è già visto), rimane da considerare il fenomeno della riduzione del dittongo negli altri casi, e in altri contesti fonetici (e allora bono, foco, novo, ova, e così via: Castella-ni, 2009, pp. 247-86). Ampi spogli di scritture fiorentine non letterarie e non latineggianti (carteggi, ricordanze, repertori nomenclatori, testi teatrali ecc.), condotti da Arrigo Castellani (ivi, pp. 247-86) e anticipati da Teresa Poggi Salani (1992, pp. 434-6), ci permettono ora di seguire l’evoluzione di questo fenomeno dal Quattrocento in avanti, arrivando a concludere che «esso è diventato d’uso generale nel fiorentino popola-re durante il secolo xviii» (Castellani, 2009, p. 280): intorno alla metà del Settecento si può situare dunque la generalizzazione del monotton-go presso le classi popolari di Firenze, e lo stabilirsi di una significativa tendenza anche presso le classi medie, dove tuttavia non manca una resi-stenza, che è invece – come ci aspettiamo – assai più forte nelle classi ac-culturate1. Questo fenomeno specifico, che tocca però un punto fonda-mentale del sistema fonetico fiorentino, permette di verificare anche la divaricazione crescente tra lingua corrente e lingua colta che si stabilisce in città dal tardo Cinquecento in poi: quando l’accettazione sostanzia-le della norma classica propugnata da Bembo da parte delle classi colte provoca un allontanamento via via più sensibile dall’uso vivo non con-trollato. Si determina così da un lato il respingimento delle caratteristi-che evolutive del fiorentino “argenteo” al livello della lingua spontanea e popolare e la loro sostanziale estromissione dal circuito delle scrittu-re; dall’altro, in un quadro di tendenza generale e di lunga prospezione

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temporale, l’acuirsi della variabilità interna del «parlato medio» della borghesia fiorentina. Essa diviene storicamente significativa soprattutto se ci spostiamo al secolo xix, quando – com’è noto – il parlato “medio” venne assunto come riferimento dell’operazione linguistica manzonia-na, culminata nell’edizione “quarantana” dei Promessi Sposi, e proiettata dunque su scala nazionale. Le oscillazioni attestate nel percorso reda-zionale del romanzo (per esempio dimanda/domanda, giovane/giovine, giungere/giugnere, sacrificio/sacrifizio, o quelle morfologiche come egli/lui, ella/lei) trovano una larga controprova nella variabilità sincronica documentata nelle scritture che meglio riflettono il fiorentino medio (Serianni, 1986), quell’«uso moderno parlato» a cui lo scrittore guar-dava (Dardi, 2008). Nel caso emblematico di uo/o l’oscillazione che si rileva nel romanzo e nelle altre opere di Manzoni altro non è che il riflesso della naturale incoerenza del parlato borghese fiorentino, che per stratificazione e storia risente appunto delle divergenti tendenze di conservazione e innovazione. La stessa variabilità è stata acutamente vista (Serianni, 1986, pp. 7-8) nel Giorgini-Broglio, che è il primo vo-cabolario sincronico redatto in Italia, e che dunque dell’uso reale riflet-te oscillazioni e disformità. Il Giorgini-Broglio, che raccoglie ciò che a Firenze veniva ritenuto italiano (Poggi Salani, 1992, p. 441), esibisce come si è detto il monottongo fin dal titolo (oggetto, si sa, di reprimen-de successive: Ascoli, 1975, p. 6); titolo che viene replicato da Policarpo Petrocchi nel Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana (1887-91), programmaticamente «più sbilanciato in direzione “popolare”» (Pog-gi Salani, 1992, p. 441), ma vòlto anche a registrare in seconda fascia la lingua «fuori d’uso» (Manni, 2001).

4.3 Il periodo post-unitario. Dalla città alla nazione

4.3.1. il ruolo di firenze capitale

Il periodo in cui Firenze è capitale d’Italia, provvisorio e breve, è com-preso fra il 1865 (la designazione è del 15 settembre 1864) e il 1871: una fase importante nella storia della città per il repentino cambiamento di funzione, per quanto Firenze sia stata solo una capitale di transizione fra Torino e Roma.

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2. Questi i dati sugli abitanti di Firenze: (1864) 116.367, (1865) 146.441 (+ 25%), (1870) 194.001, (1871) 182.714, (1872) 166.464 (+ 43% rispetto a dieci anni prima); cfr. Insolera (2005, p. 443).

Il nuovo ruolo crea le condizioni per rompere un assetto urbano che sembrava definito, e che era sostanzialmente stabile e immutato dall’e-tà antica (Francovich, 1976, p. 303). La forte spinta demografica che si registra nel corso del secolo (in particolare, nel periodo compreso fra 1864 e 1872 si ha un aumento della popolazione del 43%)2 e la necessaria evoluzione funzionale di molte aree della città richiedono grandi pro-getti di intervento urbanistico: essi precedono in realtà di poco il tra-sferimento della capitale, ma procedono poi con grande lentezza, così che Firenze può essere considerata come «l’ultimo esempio delle gran-di trasformazioni urbane europee che caratterizzano il ventennio tra il 1848 e il 1870» (Insolera, 2005, p. 442). A Firenze il primo problema fu anzitutto di creare le aree di nuova e futura edificabilità, e la soluzione fu analoga a quella individuata da Haussmann a Parigi: la demolizione – realizzata in realtà negli anni Ottanta – di vaste aree abitate nel cen-tro, con la distruzione dell’intero tessuto urbano antico della zona di Mercato Vecchio, la realizzazione di un’ampia piazza centrale (la piazza Vittorio Emanuele, ora piazza della Repubblica), che si disse riscattata dal «secolare squallore», quindi di una maglia a scacchiera in progres-sivo allontamento dal centro in cui costruire nuovi edifici “signorili” (un esempio per tutti, piazza D’Azeglio); perciò, l’abbattimento delle mura cittadine, la creazione dei viali intorno al primo nucleo dell’inse-diamento e del viale dei Colli, che rende possibile anche la realizzazione di spazi aperti aggettanti sulla città (l’attuale piazzale Michelangelo). Il piano di ristrutturazione urbana generale (detto Piano di ampliamento) fu approvato dal consiglio comunale del 18 febbraio 1865, e vide l’inter-vento fondamentale di Giuseppe Poggi; in qualche modo, il caso di Fi-renze finì per costituire un esempio delle trasformazioni post-unitarie, caratterizzate da pesanti interventi sul centro antico e dalla demolizione delle cinte murarie (Insolera, 2005, p. 444; Cardini, 2007, pp. 131-4). La città cambia volto, e chiude un ciclo plurisecolare di sostanziale immo-bilismo: la topografia complessa e nuova dei ministeri, delle caserme, di tutti gli edifici riadattati in modo da poter accogliere i deputati del Par-lamento, i burocrati e gli impiegati dello Stato, influisce notevolmente sul tessuto urbano: Palazzo Vecchio diventava la sede della Camera dei Deputati e del ministero degli Esteri; ancora in pieno centro, la chiesa

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di San Firenze ospitava il ministero della Pubblica Istruzione, e poco lontano il quartiere attorno alla nuova piazza D’Azeglio, moderna e al-berata, accoglieva le principali ambasciate. Non mancarono conseguen-ze negative, come le speculazioni, il caro-fitti, la crisi degli alloggi, di cui risentì soprattutto la popolazione stanziale.

In città affluiscono dunque deputati, professionisti, burocrati, im-piegati di altre regioni, che sono tenuti a un uso ufficiale dell’italiano, e al tempo stesso hanno modo di entrare in contatto con la lingua viva di Firenze. Nel passaggio dal Granducato allo Stato unitario la città neces-sariamente si sprovincializza, e si trova proiettata su un diverso orizzon-te: si delinea in progressione un ambiente culturale di élite (fra musei e laboratori, Archivio di Stato e Istituto di Studi Superiori, accademie e associazioni) assai mosso e vivace, per quanto non privo di disomo-geneità e di contrasti, causati anche dall’arrivo in città di studiosi non fiorentini, di diversa formazione e di diverso atteggiamento ideologico rispetto alle classi intellettuali cittadine. Fra questi, Pasquale Villari, Michele Amari, ma anche Paolo Mantegazza, antropologo e fisiologo, che fu amico e interlocutore di un altro forestiero trapiantato a Firenze, Pellegrino Artusi, così sensibile alla dimensione scientifica e non tra-scurabile protagonista – per quanto nel silenzio e nell’ombra – della vita culturale (Moretti, 2012). Per un breve tempo, fra gli anni Settanta e Ottanta, insegna in città l’abate Antonio Stoppani, autore di quel Bel Paese che per molti versi – a cominciare dallo straordinario successo editoriale – si accosta all’artusiana Scienza in cucina: «opere di gran peso nel modesto numero degli inventari della nuova Italia allora com-pilati [...]; entrambi squilibrati nella loro composizione materiale, ma aspiranti a dimensione di nazionalità» (ivi, p. 248).

A uno sguardo più generale, tuttavia, la situazione culturale soffre di varie contraddizioni e limitazioni. Certo, ci è stato insegnato (Castel-lani, 2009, pp. 117-38, e il punto sulla questione in Serianni, 1990, pp. 15-26) che la competenza linguistica non necessariamente passa per la scuola; ma bisogna riconoscere che la Toscana del tempo non è nel suo insieme particolarmente colta (Ricuperati, 1982, pp. 1001-2), e che Firen-ze capitale non appare al passo coi centri maggiori d’Italia. Una notevo-le carenza di strutture scolastiche che garantissero l’alfabetizzazione di base (in città esistevano ancora soltanto le stesse quattro scuole elemen-tari maschili che erano state aperte in età granducale, e solo per le ra-gazze di buona famiglia erano aperti prestigiosi educandati, come quello

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della Santissima Annunziata e delle Montalve) si oppone al programma di Manzoni e dei manzoniani, che vede nella scuola e nei maestri (nelle maestre) toscani una via primaria della diffusione del modello linguisti-co; peraltro, il trasferimento della capitale era stato promosso e approva-to da Massimo D’Azeglio proprio in virtù della tradizionale centralità linguistica di Firenze, allorché tutte le condizioni auspicate da Manzoni sembrava potessero realizzarsi e i due fuochi dell’ellisse, politico e lin-guistico, riunirsi in uno solo. La stagione di Firenze capitale, in questo quadro di luci e di ombre, è anche quella delle manifestazioni solenni, dal valore simbolico e patriottico: il centenario dantesco del 1865, che culminò con l’inaugurazione della statua dedicata al poeta in piazza San-ta Croce, alla presenza del re, in cui l’intreccio tra dimensione nazionale e dimensione locale fu davvero molto forte; la traslazione delle ceneri di Ugo Foscolo nella stessa chiesa di Santa Croce, vero Pantheon dell’I-talia unita, avvenuta nel 1871. Il prestigio di Firenze sembra anche figu-ratamente racchiuso fra questi due grandi eventi culturali e patriottici, nel segno dei due grandi scrittori così legati alla città. E non mancarono frutti duraturi: la fondazione della Biblioteca Nazionale (1861), dell’Isti-tuto di Studi Superiori (1859, poi Università degli Studi dal 1924), della Società Dantesca Italiana (1888); il fiorire degli studi scientifici, letterari, linguistici, filologici, storici; lo sviluppo dell’arte tipografica (Salvatore Landi in via Santa Caterina stampa per Hoepli, e crea e impone il libro italiano della tecnica e della tecnologia; e sarà non per niente il tipografo di Artusi), la crescita dell’editoria con le grandi case di rilevanza nazio-nale per la diffusione degli studi alti e della tradizione classica, ma anche particolarmente attive nel settore scolastico (Bemporad, Sansoni, Salani, Olschki, e ancora Vallecchi, Giunti), con i Le Monnier e i Barbèra che costituiscono un canone patriottico, fondato sulla pubblicazione dei te-sti classici e sull’editoria per la scuola; la ricchissima attività lessicografica (Poggi Salani, 1992, pp. 439-42). Anche nel periodo fra Ottocento e No-vecento il ruolo di Firenze dipende insomma «dal polimorfismo della città, dalla sua multanime fisionomia, dalla sua complessa e fortemente differenziata stratificazione sociale» (Tellini, 2010, p. 73).

4.3.2. la pratica della lingua: il fiorentino per l’italia

In una città indubbiamente amata e frequentata dagli stranieri (il cui li-vello di internazionalità può essere indicato ad esempio dai quattordici periodici in lingua francese e dai cinque in lingua inglese che vengono

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pubblicati fra il 1864 e il 1872), in cui risiedono per periodi più o meno lunghi grandi scrittori come Capuana, Verga, De Amicis, permane in ogni caso il sentimento di una specificità in fatto di lingua: rimane ine-quivocabile «il marcato riflesso di un’esperienza linguistica che ravvisa nell’uso quotidiano [...] una continuità storica con i riconosciuti testi di lingua di un passato illustre» (Poggi Salani, 1992, p. 437). Il senso di una vittoriosa e solida continuità; la forza della tradizione coniugata all’uso spontaneo; la rivendicazione di una preminenza, di un primato fondato sul ruolo dei classici: tutto contribuisce a far intendere e pro-porre il fiorentino vivo coniugato alla lingua della tradizione letteraria «come concreto fondamento per una lingua nazionale» (ivi, p. 438). L’impulso che veniva dalle posizioni teoriche di Manzoni e dal suo grande libro, le condizioni stesse dell’apprendimento linguistico che non poteva – con un cammino invero assai faticoso – che essere vinco-lato alla scuola, per la quale i manzoniani si adoperarono moltissimo in termini di produzione editoriale di prodotti didattici assai efficaci, la diffusione di opere come Pinocchio, Cuore, Il Bel Paese, La Scienza in cucina, hanno costituito le vie della diffusione del fiorentino moderno fuori di Toscana (ivi, pp. 438-9; Serianni, 1990, pp. 86-7; Castellani, 2009, pp. 148-57). Un ruolo importante e specifico ha avuto la produ-zione di manuali, antologie, libri di testo e di lettura per le scuole (le opere di Ida Baccini e di Emma Perodi, i libri di lettura e i prontuari di Collodi, come la celebre serie dei Giannettini, e di Luigi Bertelli [Vam-ba], e quindi anche di De Amicis: Polimeni, 2012; Prada, 2012-13), e quella dei vocabolari, a cominciare dal fortunatissimo Nòvo dizionàrio scolàstico della lingua italiana dell’u∫o e fuori d’u∫o del pistoiese (di montagna) Policarpo Petrocchi, stampato per la prima volta dagli edi-tori Treves di Milano nel 1892, e oggetto di innumerevoli ristampe: «per oltre mezzo secolo, “il Petrocchi” ha educato linguisticamente l’I-talia, entrando in modo massiccio nelle scuole e nelle case» (Manni, 2001, citazione a p. 15; anche Serianni, 1990, pp. 72-5; Poggi Salani, 1992, pp. 438-9; Castellani, 2009, pp. 151-5; complessivamente, sull’in-segnamento dell’italiano a scuola, Polimeni, 2011). “Il Petrocchi” è in effetti il documento lessicografico più rappresentativo di una tendenza di fondo, che tenta di conciliare il riferimento alla lingua dell’uso con le sopravvivenze della lingua della tradizione letteraria: un principio, una regola di fondamentale consonanza fra prospettiva sincronica e prospettiva diacronica che ebbe fortuna, e che vedremo affiorare an-

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che in uno scrittore non professionista ma fra i più letti, fiorentino non d’origine ma di elezione, come Pellegrino Artusi.

Perciò, nonostante le discussioni linguistiche e l’opposizione anche accesa alle idee manzoniane, «il modello tosco-fiorentino conquista una posizione molto solida nell’Italia postunitaria, e non solo grazie alla sua sostanziale accettazione da parte della lessicografia»: in so-stanza, si diffonde una fondamentale «identificazione tra uso vivo toscano e lingua italiana tout court – tutt’altro che pacifica in età preu-nitaria» (Serianni, 1990, p. 83).

Fiorentini e non fiorentini Esemplare è il caso di due autori che hanno prodotto testi significativi per la costituzione di un italiano scritto e par-lato unitario, fondato sul modello di Firenze: Carlo Collodi, un fioren-tino-fiorentino che con Pinocchio (1881-83) offre al pubblico dei giovani lettori e delle loro famiglie un libro scritto in una lingua immediata, vici-na al parlato, soprattutto per quanto attiene alla fraseologia; Pellegrino Artusi, un non fiorentino fiorentinizzato, che ha relegato il nativo dia-letto romagnolo a un uso privatissimo ed episodico. L’autore della Scien-za in cucina (prima edizione 1891) rappresenta bene un accostamento meditato, consapevole e umile al fiorentino, ed è sensibile tanto alle voci di piazza e del mercato, quanto ai richiami di una ricca e aggiornata bi-blioteca (Frosini, 2009c): il popolo e gli artigiani davanti agli occhi, dalle finestre di piazza D’Azeglio, i libri alle spalle, nelle stanze del suo appar-tamento di un’elegante borghesia. La fondamentale opzione di Artusi è per il fiorentino dell’uso contemporaneo, significativamente temperato dalla componente letteraria, che risultava sia dalla quotidiana frequenta-zione dei classici e delle grammatiche, sia da un certo tipo di letteratura fiorentina di stampo espressivistico (per esempio la produzione teatrale sei-settecentesca). Ne risulta un fiorentino di tono medio, in cui emerge una componente lessicale fortemente marcata, e infatti così feconda di corrispondenze con Pinocchio; una lingua che Artusi ritrova depositata nel Rigutini-Fanfani (Vocabolario italiano della lingua parlata compilato da Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani, G. Barbèra Editore, Firenze 1876, 2a ediz. emendata, acquistata da Artusi nel 1881: il vocabolario fonda-mentale per leggere la Scienza in cucina, come hanno testimoniato studi recenti di Frosini, 2009c e Capatti, per il quale cfr. Artusi, 2010), o anche nelle opere di Carena (edizione posseduta da Artusi: Vocabolario italiano domestico di Giacinto Carena, Quarta Edizione Napoletana con molte

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aggiunte, Giuseppe Marghieri-C. Boutteaux e M. Aubry coeditori, Na-poli 1859), così che lessicografia della lingua parlata e lessicografia della tecnica collaborano alla realizzazione della lingua scorrevole e accatti-vante della Scienza, alla costruzione di una lingua amorevolmente perse-guita, che è poi entrata nelle case degli italiani e delle italiane non di rado come uno dei pochissimi libri di lettura e di pratica.

La scelta impone un’assunzione in toto, ossia include la variabilità interna del sistema linguistico, come nel caso sensibile – e già ricorda-to – dell’alternanza dittongo/monottongo uo/o. In linea generale, si rileva nella Scienza la presenza regolare del dittongo uo (buono, cuoco, cuore, fuoco, nuovo, suolo ‘strato’, uomo, uomini, uopo, uovo, uova, le voci del verbo cuocere), secondo un principio di conservazione ben diffu-so nella borghesia fiorentina ottocentesca, e solo parzialmente scalfi-to dall’«ondata tardosettecentesca di o» (Serianni, 1986, p. 10). La resistenza del dittongo ai piani medio-alti della popolazione si unisce senz’altro qui al gusto letterariamente educato di Artusi; e si delinea in questo modo un quadro almeno parzialmente diverso da quello rappre-sentato (fin dal titolo) nel già ricordato Nòvo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze di Giorgini-Broglio, quel «dizionario toscano vale a dire italiano» secondo la definizione di Manzoni, dove pure i dittonghi superstiti non sono affatto trascurabili, ma alcune voci presentano solo la forma monottongata (tra queste bono, novo, omo, ovo). Nella Scienza si trova invece persino ricuopra (423, ma: ricopra 230), certo un residuo libresco, vero aulicismo nella lingua di Artusi (si noti tuttavia che cuoprire/scuoprire sono allotropi di coprire/scoprire an-che in Pinocchio). L’unico caso che sembra fare eccezione (un’eccezione piuttosto vistosa) è torlo, torli (ma poco usato, perché solitamente sono preferiti rosso, rossi d’uovo: su questo e su tutta la questione cfr. Frosini, 2011, pp. 23-4). Insomma, una situazione di oscillazione sincronica, do-vuta all’uso reale e vivo, con le sue variabili di ceto sociale, di funzione comunicativa, di mezzo espressivo; così anche in Pinocchio si hanno le coppie bono/buono; figliolo/figliuolo; gioco/giuoco; omo/uomo, e invece core e ovo (Collodi, 1983, pp. 168-70; Serianni, 1986, pp. 8-14).

Per dare la misura della sensibilità linguistica di Artusi per ciò che poteva essere sentito da uno “straniero” come proprio del fiorentino e del toscano, si può ricorrere alla Spiegazione di voci che essendo del volgare toscano non tutti intenderebbero, premessa alla Scienza fin dalla prima edizione (pp. ix-xi: Artusi, 2011) e poi sempre mantenuta: una

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sorta di vademecum linguistico, di glossario atto a chiarire alcuni ter-mini fondamentali, prima di iniziare la navigazione nelle cento e cento ricette. Se ne riportano qui alcuni esempi:

Bietola. Erba comune per uso di cucina, a foglie grandi lanceolate, conosciuta in alcuni luoghi col nome di erbe o erbette.Caldana. Quella stanzetta sopra la volta del forno, dove i fornai tengono a lievitare il pane.Carnesecca. Pancetta del maiale salata.Costoletta. Braciuola colla costola, di vitella di latte, d’agnello, di castrato e simili.Cotoletta. Parola francese di uso comune per indicare un pezzo di carne ma-gra, ordinariamente di vitella di latte, non più grande della palma di una mano, battuta e stiacciata, panata e dorata.Fagiuoli sgranati. Fagiuoli quasi giunti a maturazione e levati freschi dal baccello.Frattagliaio. Venditore di frattaglie.Frattaglie. Tutte le interiora e le cose minute dell’animale macellato.Lardatoio. Arnese di cucina per lo più di ottone in forma di grosso punteruo-lo per steccare la carne con lardone o presciutto.Lardo. Strutto di maiale che serve a varii usi, ma più che altro per friggere. (A Napoli nzogna).Odori o mazzetto guarnito. Erbaggi odorosi come carota, sedano, prezzemo-lo, bassilico, ecc. Il mazzetto si lega con un filo.Pietra. Rognone, arnione.Spianatoia. Asse di abete larga e levigata sopra la quale si lavorano le paste. In alcuni luoghi, fuori della Toscana, si chiama impropriamente tagliere; ma il tagliere è quell’arnese di legno, grosso, quadrilatero e col manico, sul quale si batte la carne, si trita il battuto, ecc.Staccio. Lo staccio da passar sughi o carne pestata è di crino nero doppio e molto più rado degli stacci comuni.

Una testimonianza che si può affiancare, per quanto la scelta di Artusi sia più controllata e selezionata, a quella del teramano Fedele Roma-ni, citata da Teresa Poggi Salani (1992, p. 443), che nei Toscanismi del 1898 menzionava diaccio e querce sing., le gente e guasi e gastigo, te sogg., dassi e stassi imperf. cong., albero ‘pioppo’ (così sempre in Toscana, dal testamento volgare di Boccaccio ai giorni nostri: Frosini, 2014b), anno ‘l’anno scorso’ ecc.

L’aspetto più interessante – tornando ad Artusi – è in effetti quello lessicale e fraseologico. Una prima schedatura del lessico sia genera-

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le sia specifico dell’ambito gastronomico (Frosini, 2009b, pp. 89-91), rivela una larga consonanza e sovrapposizione con quello di Collodi (studiato in Collodi, 1983, pp. lxvi-lxxix): si tratta di una vera cir-colarità di usi fra Pinocchio e la Scienza, così vicini cronologicamente, linguisticamente così in sintonia, due libri eccezionali, ciascuno per la sua parte, fra i pochi e veri best-sellers e long-sellers dell’editoria italiana, anche se – così pare – i due autori non si incrociarono mai. Fra i ricor-renti avvezzarsi, campare, canzonare, garbare, infreddatura, rimeritare, tocco, uscio, e così via, credo sia il caso di soffermarsi su ciocca, ciocchetta e ciocchettina: «ciocca d’uva» in Pinocchio, «alcune ciocchette di ra-merino», «qualche ciocchettina di salvia» nella Scienza. Si tratta in Artusi di un uso estensivo di ciocca ‘rametto’, largamente presente nel pistoiese più che nel fiorentino, e che proviene da ciocca d’uva, espres-sione unica a Pistoia e dintorni per ‘grappolo’. Non escluderei che l’im-piego di ciocca, più specifico in Collodi, più generalizzato in Artusi e nelle forme del diminutivo, sia derivato dall’uso originario dell’area limitrofa a Pistoia (anzi, più esattamente della zona fra Pistoia e Lucca) da cui provenivano la madre di Carlo Lorenzini (da Collodi, appunto) e Marietta, la cuoca Maria Sabatini (da Massa e Cozzile). Si sarebbe dunque qui in presenza non solo di un pistoiesismo, ma di un tratto as-solutamente vivo e ripreso per così dire “in diretta” dell’uso domestico, del lessico familiare di casa Artusi (anche Ornella Castellani Pollidori ritiene ciocca d’uva in Pinocchio un’espressione d’origine pistoiese e fa-miliare per Collodi, pur non potendo escludere che si sentisse anche a Firenze). Quanto alle locuzioni, uno studio di Lucilla Pizzoli (1998) ha mostrato la vitalità di molte espressioni presenti in Pinocchio (ve-dere doppio, fior di quattrini, rimettere al mondo, dall’oggi al domani, chi s’è visto s’è visto, venire l’acquolina in bocca, più largo che lungo, non spiccicare parola, un sacco e una sporta ecc.), la cui fortuna nell’italiano comune contemporaneo sembra essere stata garantita proprio dal libro di Collodi; altri casi si possono individuare in Artusi, come importarne un fico, o rincalzare i cavoli, per quanto meno fortunato del collodiano entrarci come i cavoli a merenda, ma con solidi riscontri nel Rigutini-Fanfani e nel Giorgini-Broglio (Frosini, 2010, pp. 86-7).

Le voci di dentro La casa di Artusi in piazza D’Azeglio ci regala anche un esempio di uso vivo e non letterariamente mediato della lingua da parte di scriventi semicolti, ossia di persone alfabetizzate che tuttavia

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3. Archivio Comunale di Forlimpopoli, presso Casa Artusi: sei cartoline postali e lettere comprese fra l’8 luglio 1901 e il 20 settembre 1909 (Marietta ad Artusi); ventiquattro cartoline e lettere nel periodo 24 luglio 1901-14 agosto 1909 (Ruffilli ad Artusi).

non hanno un rapporto facile e continuo con la scrittura, che non sono letterati né di cultura particolarmente alta (per quanto collocati su posizioni ben distinte). Sono scriventi che si esprimono in quello che è stato definito “italiano popolare”, che ammette al suo interno diversi gradi e una certa variabilità, pur presentando sempre fenomeni di incoerenza con la norma linguistica e una permeabilità più o meno vistosa ai fatti dell’oralità (D’Achille, 1994; Serianni, 2004, pp. 51-65; Fresu, 2014, pp. 209-17; Magro, 2014, pp. 137-53). Si tratta di due pic-coli epistolari che conservano la corrispondenza fra Marietta Sabatini di Massa e Cozzile e Francesco Ruffilli di Forlimpopoli, cuochi, dome-stici, collaboratori, col riverito signore Artusi, nei mesi dell’estate in cui il padrone si allontanava da casa per la villeggiatura ma voleva essere puntualmente informato su tutto3. Le voci di quella casa rivelano che vi si faceva uso di un fiorentino quotidiano comune, sostanzialmente innato per Marietta (anche se il suo volgare d’origine è propriamente quello di un paese della Val di Nievole, più vicino a Pistoia che a Lucca, ma che già risente di influenze toscano-occidentali), acquisito – e con non poche difficoltà, incertezze ed esitazioni, dovute anche a un livello culturale assai inferiore – per Ruffilli. Si presentano dunque qui come testimonianze solo parzialmente mediate dell’uso della lingua (pur es-sendo centrale il rapporto con l’oralità, si tratta sempre di una espressio-ne scritta), esemplari nella loro stessa differenziazione d’origine geogra-fica, per un momento in cui a Firenze giungono a risiedere molti non fiorentini, e la lingua della città mostra senz’altro un notevole influsso sulla lingua della comunicazione nazionale (Poggi Salani, 1992, p. 438).

Alcune cartoline di Marietta sono vere e proprie relazioni di viag-gio ad Artusi, nei periodi in cui la governante rientrava al paese e si recava anche ai Bagni di Montecatini per le acque benefiche:

Pregiatissimo Sigre ArtusiFirenze 8 Luglio 1901Dirrà che son morta: ma | invece son viva, è sono | giunta qui questa mattina | sana e salva. E’ Lei come | stà, come se la passa [?] io | sarei ritornata qui sabato, | ma giunta ai Bagni, non | mi vollero far partire per=|chè assistessi alla grande

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4. La parte che segue il segno convenzionale di “cancelletto” è scritta nel margine sinistro. La «festa per Verdi» è la commemorazione del grande musicista, che era scomparso il 27 gennaio 1901; la conferenza fu tenuta da Enrico Panzacchi (1840-1904), poeta, critico d’arte e musicale, oratore e prosatore, amico di Olido Guerrini e Giosue Carducci. I testi che qui si presentano sono trascritti in modo fedele agli ori-ginali, senza alcuna normalizzazione grafica, nemmeno per ciò che riguarda la pun-teggiatura. Qualche nota o dubbio di lettura o integrazione sono inseriti fra parentesi quadre. Le sbarrette verticali indicano il passaggio di rigo.

festa | per Verdi, è per verità mi | sono divertita, perchè hò | potuto assistere à tutto com=|preso il teatro ieri sera. | Il più che mi sia piaciu=|to e stato la conferenza di | Pansacchi, quante volte mi | auguravo ci fosse [fosso nel ms.] Lei pure. Tranne questi due giorni | non mi sono mai mossa da | casa mia, e sempre assediata | da visite, che ne ero davvero sec=|cata. Mi scriva e mi dia sue # | # notizie la saluto. Marietta. (Archivio Comunale di Forlimpopoli, n. 1579)4.

Un testo di gran piglio, in cui si noterà l’attacco, davvero significativo, articolato su due membri sintattici simmetrici, replicati dall’endiadi fi-nale (sana e salva), e scanditi internamente dalle due forme apocopate (son morta, son viva), a loro volta in perfetta corrispondenza: elementi che danno tutta l’impressione di uno scritto ritmato e sciolto, in cui già emerge la forza e la determinazione dell’autrice (sulle caratteristiche strutturali delle lettere familiari, a cui anche le lettere presenti corri-spondono, cfr. in ultimo Magro, 2014, pp. 107-35). C’è indubbiamente in Marietta una certa consapevolezza culturale: già alfabetizzata quan-do giunse a servizio a Firenze, ebbe modo di arricchirsi della consue-tudine con Artusi e della sua biblioteca, leggendo con lui e per lui, per anni, fino all’ultima opera, l’Eneide, quando sostituì con la sua voce gli occhi stanchi e offuscati del padrone (Frosini, 2009c, pp. 312-3).

E ancora, qualche settimana dopo:

Pregiatissmo Sigre ArtusiFirenze 15 Agosto 1901.[...] Ora vengo a fargli la spie=|gazione del mio viaggio,.Da Cutigliano a San Marcel=|lo, stiedi benissimo perchè | su quel legnietto eravamo | solo in due, essendo montata | una giovinetta in fondo | al paese, e non soffrii ne | meno caldo, perchè spirava [ms.: spiravo] un | venticello piacevolissimo, ma | giunta a S. Marcello alle ore | dodici e 40 minuti dovei | attendere più di mezzora | perchè ripartii al tocco e 20 | e come gia gli dissi era=|vamo in 5 e tutti ben=| grossi sur un piccolo legno | come quello che

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5. Il viaggio di ritorno a Firenze parte da Cutigliano, sulla montagna pistoiese, dove Marietta aveva accompagnato e lasciato Artusi (per coteste strade) per la villeg-giatura estiva. Le Tagliatelle col presciutto sono in effetti presenti nella Scienza fin dalla prima edizione (44): davvero una cucina domestica, provata e riprovata, che dalla casa trascorre nel libro, da Firenze a tutta l’Italia.

si venne | noi costassù. Si figuri | quando arrivò la vettura | alla posta ove io attendevo, | parvi in dovina, vi pontai | sopra subito e me ne | presi il primo posto, ma | quando vidi che doveva | montare tutta quella gen=|te mi sgo-mentai, e dissi; | dove la vogliono [ms.: voglione] mettere, | cosa vole eravamo 3 sul sedi=|le dietro, giunti a Pra=|cchia le ripeto non sentivo | più le mie ossa, e poi | ferma da pertutto i paesi.Il treno a Pracchia | parte alle ore 3 ed io arriv=|ai 10 minuti prima. | e arrivai a Firenze alle | cinque e 30 minuti tutto il | viaggio andò benissimo, | e non soffrii caldo.Ieri qui sera un caldo sof=|focante, ed oggi pure, ma | mentre scrivo, sono le tre, | viene una bella scossa | di acque, cheta, cheta che | ritengo faccia venire più | caldo. Io ripeto tiro a | sistemare tutto,.Oggi ho fatto le tagliatelle | col prosciutto, e come erano | buone, e Lei come stà, | ci penso molto, e mi | dispiacque di lasciarlo solo, | gli raccomando di aversi | riguardo, e fare molto | adagio per coteste strade, | io stò in pena, a tale riguardo. | [...] (Archivio Comunale di Forlimpopoli, n. 1581)5.

Di tono diverso gli scritti di Francesco Ruffilli, su cui gravò il compito di provvedere materialmente alle spedizioni delle copie della Scienza, nonché la gestione della manutenzione più pesante della casa. Ed eccolo qua, il cuoco, correre affaccendato per Firenze nella canicola agostana:

Firenze 8 Agosto 1907.Preggmo. Signor PadroneSono per dirle che Domeni-|ca vidi uno di quei scrivani del | Landi, e gli domandai quando | potevano essere pronti un po di | copie del suo libro, lui mi | disse che forse alla fine della | settimana. Gli dirrò che qui | in casa ce muratori che fanno | dei lavori, giu al pozzo nero | che mettano dei tubi per sfia-|to, come pure trombai, insom-|ma è tutto un su è giu, | che vanno sul tetto di continuo, | ed io ierisera dopo andato via | i manifatori andai dal Landi | ma era gia chiusa la stamperia, | allora oggi a mezzogiorno nel | tempo che i manifattori vanno | a mangiare, sono ritornato dal | Landi, con una bella solata, | e o trovato un scrivano e | il rilegatore dove mi anno | detto che per domani sono | pronte duegento copie per | lei; e che per Sabato mil-|le per il Sig. Bemporad.

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Dunque io o detto che scrivo | subito a lei, e che senza un | aviso non le stiano portare, | che se lei crede di dare un aviso | di spedizione, io qui non o | nessuna cartolina di richie[s]te | di libri, fuori di quelle che | sa lei, dunque lei farrà | come crede (Archivio Comunale di Forlimpopoli, n. 1555).

O riferire al padrone delle sere d’estate:

Firenze 30 Luglio 1908.Preggmo. Sign. PadroneOh riccevuto la sua | cartolina e sento con piacere | che stanno tutti bene, io pure | non ce male, solo le dirrò che | e un caldo soffocante che non | si rispira da nessuna parte; | andare a dormire il giorno e lo=|stesso che andare a fare un bagno.il meglio che si stia è la sera | o la notte che si sta li seduti | sul portone con Rossi e i[l] portiere | e cameriere Emilio degli Uzielli | che si a il corraggio di fare | anche le due dopo mezzanotte, | così si sta in guardia di questi | tanti ladri che ci sono (Archivio Comunale di Forlimpopoli, n. 1564).

Qualche annotazione linguistica su queste scritture (anche con rife-rimenti alle altre che dei due domestici ci sono arrivate: per più am-pia documentazione e indicazioni bibliografiche cfr. Frosini, 2012, pp. 81-6): per la grafia, si notano i problemi – consueti nella scrittura dei semicolti (Antonelli, 2008, pp. 178-210) – di separazione o al contrario agglutinazione delle parole rispetto alla catena fonica, con conseguen-ze sull’uso del tutto irregolare dei segni diacritici (al quale si somma il disordine interpuntivo). In ambito fonetico, il fenomeno più interes-sante – anche in prospettiva sociolinguistica – è quello della presenza/assenza del dittongo uo. Qui la situazione appare sbilanciata: Marietta usa con una certa regolarità il dittongo, e poche sono le scrizioni mo-nottongate che affiorano, mentre nel caso di Ruffilli sono preponde-ranti le attestazioni di o, soprattutto nella forma novo, in quella che è una formula fissa di resoconto al padrone: «Qui in casa sua nulla di novo» ecc. E tuttavia, anche in Francesco si nota la resistenza del dit-tongo in alcuni casi (buono, cuoco, uomo ecc.), esempi obiettivamente da non sottovalutare, che mostrano come il modello della lingua cor-retta prema anche su uno scrivente di livello decisamente non alto. La lingua scritta di Ruffilli conserva alcune tracce della sua provenienza non toscana, visibili anzitutto nelle incertezze nell’uso delle consonan-ti doppie, che derivano da una originaria debolezza e che provocano una serie di raddoppiamenti incongrui: preggiattissimo in alcune in-

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titolazioni, riccevuto e simili. Tuttavia, questi casi sono limitati: per la saldezza delle vocali finali e interne, per il generale quadro delle conso-nanti, si può dire che Ruffilli scriva in un toscano semi-colto, diastrati-camente connotato verso il basso, con circoscritte emergenze dialettali. Nella morfologia, si segnalano alcune forme verbali, proprie del tosca-no popolare: nelle lettere di Marietta troviamo le forme del perfetto Assistiedi e stiedi, la forma intera dell’infinito bevere; ma anche un do-vei di tono cólto, da italiano scritto formale; nella corrispondenza di Ruffilli vari casi di desinenza -ano per -ono nella 3a pers. pl. del presente indicativo nei verbi della 2a, 3a e 4a classe: dicano, spendano, mettano, chiedano, devano e così via: che è desinenza di antica tradizione, dif-fusasi nel fiorentino dal xv secolo e poi rimasta nel toscano di livello popolare. E ancora: non sintendino nessuno per la 3a pl. pres. indic., in un passo davvero notevole, che vale la pena di leggere per intero:

Io avevo pensato nel Righi | che mi avesse dato un aiuto, | ma per mia disgra-zia, Venerdi | passato e arrivato tre America-|ne, e dice per quanto puo capi-|re che ci stiano un Mese; deve | essere un bel lavorare, non ca-|piscano nulla Litaliano, in-|somma non sintendino nessuno | lui dice ridano, ed io rido, se man-|giano bene, sino mangio io (Archivio Comunale di Forlimpopoli, n. 1568, 11 agosto 1909).

Numerosi i fatti della sintassi che richiamano l’oralità: tra questi, la dislocazione a sinistra: «Mio nipote non lo trovai tanto male come mi si diceva»; e ancora più forte l’anacoluto: «ed io mi fanno mangiare dalla bile» nelle scritture di Marietta; gli accordi ad sensum: «Gli dir-rò che qui in casa ce muratori», «In quanto ai libri cuasi tutti i giorni ce spedizioni, ora purre faccio un assegno per Abruzzo» scrive Ruffilli; dove come connettivo molteplice, polivalente: «Oh riccevuto con pia-cere la sua cartolina, dove non risposi alla sua del 4 corrente», «dal Lan-di andai io avisarli che venissero a prendere quei fogli timbrati, dove li anno gia ritirati» ancora Ruffilli. Davvero ricchi e interessanti il lessi-co e la fraseologia: Marietta arriva mezza sfaccolata (sfaccolata, che vale ‘stanca’, ‘distrutta dalla stanchezza’, sarà probabilmente da integrare in sf[i]accolata, tenendo conto del riscontro offerto dal Vocabolario italia-no della lingua parlata di Rigutini-Fanfani: sfiaccolato «che cammina come se fosse stanco e sfinito di forze, piegando qua e là la persona [...] Voce familiare», e così ancora nel pistoiese contemporaneo: sfiaccolato agg. ‘stanco’, ‘sfinito’; cfr. Gori, Lucarelli, Giacomelli, 1984, s.v.); e dice

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vi pontai sulla carrozza, usando una parola, pontare, che vale ‘spinge-re (facendo forza su un punto)’: parola del fondo antico della lingua, registrata dalla Crusca, e usata da Dante (Inf. xxxii 3: «S’io avessi le rime aspre e chiocce, / come si converrebbe al tristo buco / sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce») e da Boccaccio (Decameron iii viii 68, novella di Ferondo: «e egli stesso a pontar col capo nel coperchio dello avello»), a testimonianza della straordinaria storia dell’italiano e della ricchezza del patrimonio popolare. Negli scritti di Ruffilli si va dagli inverniciatori al polverume prodotto nella stanza dei forastie-ri, alla Ginevra ammalata di palmonita, all’ingrulire, presente anche nel già ricordato Vocabolario Rigutini-Fanfani: dove si mescolano de-formazioni lessicali proprie di un livello culturale basso (palmonita) a esiti popolari (inverniciatori, ingrulire). Ma il punto massimo di questo involontario stravolgimento della lingua si trova probabilmente nella chiusura di numerose cartoline e lettere di Ruffilli, dove, al posto del normale: «Altro non mi rimane che salutarlo distintamente», usato anche da Marietta, ecco emergere un inopinato: «altro non mi rimane salutarlo indistintamente», testimonianza dunque di un uso realmen-te esistente, per quanto straniante, che si ritroverà fin nel pezzo cine-matografico della dettatura della lettera di Totò a Peppino De Filippo (Totò, Peppino e la malafemmina, Italia, Camillo Mastrocinque, 1956).

4.3.3. parole e cose dell’identità fiorentina

Si può dire che Firenze capitale è un primo laboratorio della lingua comune post-unitaria per ciò che in essa porta di sostanziale: la stabi-lità delle strutture fono-morfologiche di base fiorentina e toscana (fra cui notevoli la riduzione del dittongo uo dopo palatale, e la 1a pers. dell’imperf. indic. in -o anziché in -a); la stabilità dei costrutti sintattici fondamentali (pur con oscillazioni, ad esempio nel caso della posizio-ne dei clitici), cui si unisce l’idea di una sintassi non troppo separata dall’andamento colloquiale (Castellani, 2009, pp. 158-9); soprattutto l’apporto della componente lessicale, elemento questo che potrà pe-raltro apparire piuttosto limitativo che estensivo, come sottolineato anche da De Mauro nella Storia linguistica dell’Italia unita (1984, p. 192 n. 37, i ed. 1963), specie se messo in relazione con l’assai più scarsa incidenza sulla lingua letteraria (Serianni, 1990, pp. 109-15). In effetti, l’impatto del fiorentino post-unitario sulla lingua nazionale sembra es-sere stato notevole soprattutto per le frasi idiomatiche, i modi di dire,

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le espressioni vivaci, entrate a far parte dell’italiano comune fra Otto e Novecento: basta e avanza, contento come una pasqua, mandare a quel paese, perbene agg., per filo e per segno, restare a mani vuote, riprendere fiato, rimanere senza fiato, venire la pelle d’oca ecc. (oltre ai casi già visti in relazione al tramite collodiano; larga esemplificazione e disamina in Castellani, 2009, pp. 159-61). Tuttavia, non si può non rilevare come per singoli termini la forma fiorentina e toscana sia «uscita sconfitta ogni volta che si è trovata a fronteggiare geosinonimi più compatta-mente diffusi nel resto d’Italia (e non ignoti, del resto, alla stessa To-scana)»: così per anello contro ditale, infreddatura contro raffreddore, il tocco contro l’una, levarsi contro alzarsi (Serianni, 1990, pp. 88-9); e anche il costrutto noi si fa (o noi si faceva) per noi facciamo/noi fa-cevamo continua a essere avvertito da molti come un fiorentinismo e toscanismo (in fase di espansione da Firenze alla Toscana: Calamai, 2010, p. 1509) connotato.

Lo studio sistematico del lessico, ora favorito dagli strumenti di con-sultazione e interrogazione elettronica (cfr. infra), permetterà di riflet-tere complessivamente sul contributo – o sul mancato contributo (cfr. Dionisotti, 1967, p. 123, che opponeva l’eccellenza dell’istruzione uni-versitaria alla limitatezza e al provincialismo della dimensione linguisti-ca) – del fiorentino post-unitario alla lingua nazionale: per capire cosa si insinui nel varco fra fiorentino e italiano che nelle parole di Manzoni sembrava non esserci, da una tendenza a zero – ancora rispecchiata nella diffusa e tipica percezione della continuità sostanziale tra fiorentino e italiano – a un divario che si potrà cercare di quantificare. Senza dimen-ticare, al tempo stesso, quello che scriveva Ghinassi nella prefazione alla ristampa anastatica del Nòvo vocabolario di Giorgini e Broglio: che «nel giro di un cinquantennio o poco più, tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento all’incirca, si arrivò di fatto, attraver-so un profondo mutamento strutturale [...] dal “toscano” aristocratico e antieconomico dei puristi e dei classicisti del primo Ottocento [...] all’italiano sufficientemente funzionale e relativamente spedito e disin-volto dei tempi nostri» (in Giorgini, Broglio, 1979, p. 27), per vie che si erano nel frattempo largamente percorse, relative per esempio – come si diceva – all’educazione linguistica attraverso la scuola. Un panora-ma, insomma, fatto di luci e di ombre, ma legato necessariamente alla specifica situazione della Toscana (in cui manca l’opposizione lingua-dialetto nei termini consueti: Giannelli, 2000; Calamai, 2010) e ancora

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6. Il Vocabolario è nato nel 1994 presso l’Accademia della Crusca su impulso di Giovanni Nencioni, ed è giunto finora alla realizzazione di circa un settimo delle 7.000 schede lessicografiche stimate; una prima pubblicazione anche cartacea è Pog-gi Salani et al.(2012; l’Introduzione, pp. 5-12, è di Neri Binazzi).

di più alla storia dell’italiano, fondato sul fiorentino classico, e dunque con esso coincidente in larghi settori strutturali.

Specularmente, si tratterà di valutare il peso della componente idio-matica, che identifica (al di là dei caratteri fonetici, il più evidente dei quali è la cosiddetta “gorgia toscana”, ovvero la spirantizzazione delle consonanti occlusive e delle affricate palatoalveolari: Calamai, 2010, p. 1507) il fiorentino d’oggi in quanto tale: è il compito che si prefigge – dalla parte appunto del fiorentino – un’impresa lessicografica qua-le il Vocabolario del fiorentino contemporaneo6, che indaga l’area dove non c’è sovrapposizione – o c’è solo parzialmente – fra il lessico italia-no (il lessico che i vocabolari dell’uso registrano) e il lessico fiorentino. Di solito si identifica questa area con quella più espressiva e colorita, ossia si definisce la specificità fiorentina in termini di «marcatezza sti-listica» e la si colloca diastraticamente presso le classi più popolari. In realtà, è possibile individuare anche una sezione ampia di lessico che pur essendo locale non è in alcun modo connotabile come espressiva o scherzosa, o marcata in senso diafasico, ma che attiene alle normali esi-genze e agli ambiti consueti della comunicazione e della lingua d’uso (cfr. Poggi Salani et al., 2012, pp. 5-7), ossia consiste in varianti del luo-go attinenti a settori in cui tutta la tradizione linguistica della penisola mostra una particolare abbondanza geosinonimica (per il secondo Ot-tocento il problema è ben discusso in Polimeni, 2014). Un problema aggiuntivo semmai sarà distinguere ciò che è specificamente fiorentino da ciò che può essere più latamente toscano (per i fatti di fonetica e morfologia cfr. in ultimo Calamai, 2010, p. 1508), ma a questo appunto mira la ricerca dialettologica, quale è quella consegnata alla pluriennale raccolta dell’Atlante lessicale toscano (ora alt-Web: http://serverdbt.ilc.cnr.it/altweb/), fondato e diretto da Gabriella Giacomelli, e più recentemente alla Lingua delle Città LinCi, che fra le trentuno città oggetto d’indagine interroga anche Firenze e quasi tutta la Toscana (Nesi, Poggi Salani, 2013; Nesi, 2013).

Dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo trascelgo una minima rappresentanza di parole ed espressioni che appartengono al lessico fiorentino ma non sono propri (o non con quel significato) del resto

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7. Di questo problema si sono occupati – variamente discutendolo – Migliorini, De Mauro, Malato, Tesi, individuando percentuali che oscillano fra il 6, il 15, il 56%. Bisognerà, credo, riflettere sul fatto che non è tanto la prima attestazione in sé che conta, quanto l’effettiva promozione dell’uso; e in questo senso la forza propulsiva della Commedia sulla lingua non ha eguali.

d’Italia, e che certamente attengono a livelli diversificati di espressivi-tà, a cominciare dal grado zero di: acquaio ‘lavello della cucina’, cannel-la ‘rubinetto’, rigovernare ‘lavare i piatti’; poi, più connotabili: dare di balta al/il cervello ‘ammattire’, ‘andare fuor di testa’, bracare ‘curiosare, intromettersi nei fatti altrui’, bruzzico (a b.) ‘il crepuscolo della mattina e della sera’, calìa ‘chi non si accontenta facilmente, specialmente per il cibo’, crostino ‘persona noiosa e lamentosa’, intinto ‘molto bagnato (detto di persona)’, pallottoloso ‘persona noiosa e cavillosa’, peritar-si ‘farsi degli scrupoli, vergognarsi’, trovarsi al perso ‘vedersi perduti’, pinzare ‘pungere’ (detto degli insetti), riscontro ‘corrente d’aria’. Per il lessico gastronomico: bistecca ‘fetta di carne con l’osso’, civaie ‘legu-mi secchi e cereali’, cocomero ‘anguria’, lampredotto ‘particolare tipo di trippa, che viene mangiato come imbottitura di panino’, migliaccio ‘castagnaccio’, ribollita ‘minestra di pane, con cavolo nero e fagioli’, e poi popone ‘melone’ (fin dal Libro di spese per la mensa dei Priori del 1344-45 le testimonianze antiche indicano il significato di Cucumis melo e non quello di Cucumis flexuosus ‘popone serpentino’: Frosini, 1993, pp. 132-3). I dati sono confortati dalle risultanze di Nesi, Poggi Salani (2013), come si vede da questo piccolo campione: (130) cocómero prevale nettamente su anguria, (131) popóne su melóne; (54) acquaio su lavandino, lavello; bistecca si contrappone a (119) braciòla, braciolina ‘fetta sottile di carne senz’osso’; e (141) le ‘erbe aromatiche da cucina’ sono sempre e soltanto gli odori, come in Artusi.

Questo accade in un contesto complesso, perché oggi il patrimonio lessicale comune «non sembra prevedere [...] la promozione di voci fiorentine nell’italiano “neostandard”» (Poggi Salani et al., 2012, p. 8), così che ci troviamo insomma in una situazione opposta rispetto a quella della fase antica e costitutiva della lingua, quando un solo autore fiorentino, Dante, poteva immettere nel lessico – dove sono rimaste fino al nucleo fondamentale dell’italiano contemporaneo – una per-centuale notevole di parole nuove7. Le ragioni di questo obiettivo de-cadere della spinta propulsiva sono varie e molteplici, certo legate a un ridimensionamento del peso culturale, editoriale, economico della cit-

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tà via via nei decenni post-unitari; credo che qualche eccezione si possa fare per la lingua della gastronomia, perché la ribollita è nota anche fuori di Firenze (nel Gradit di De Mauro, 1999-2000, è chiosata come ‘specialità toscana’, e datata al 1960), e addirittura un celebre cuoco ha riportato alla ribalta – adottandola come nome del proprio locale, ap-punto nel senso di una riscoperta della tradizione – una parola antica come cibrèo (‘intingolo preparato con interiora di pollo, spezie e uova’ nella tradizione culinaria; in veste antica civeio ‘sorta di salsa’ nel Libro dei Priori: Frosini, 1993, p. 166, quindi Parenti, 2010).

Si tratterà insomma, continuando a indagare, di tentare di capire – dopo il Medioevo, dopo l’Umanesimo – cosa ha dato ancora, cosa può dare Firenze all’Italia e all’italiano.

Bibliografia

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città italiane, storie di lingue e culture

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Robbio di San Raffaele B., 42Rohlfs G., 374-6Romani F., 230Rosi F., 340Rosmini A., 49Rosso di Grinzane G., 44Rousseau J.-J., 183Ruffilli F., 232, 234-5Russo D., 405Rustichello da Pisa, 165Ruzante (A. Beolco, detto il), 180

Sabatini M., 231-3, 235Sacchi G., 126Salamon M., 170Salemme V., 346 Salviati L., 102Sammartino della Verdura G. B., 365Sansovino F., 39, 185Sanudo M., 181 Savelli B., 271Savonarola G., 219Scarpa T., 191Schipa M., 324Sciascia L., 405Segneri P., 104Servillo T., 346 Sforza Ascanio, 96Sforza Bianca Maria, 95Sforza Francesco, 88Siani A., 346Simintendi A., 217Simonetta C., 95Sisto iv, 266eSoave F., 124Soderini P., 219Solaro della Margarita C., 46Sovente M., 347Spada F., 295Stagnino B., 25Stendhal (pseud. di H. Beyle), 114

Stoppani A., 135, 225Strozzi E., 39Strozzi G., 104

Tanzi F., 95Tassoni A., 39Terranova C., 406Thaon di Revel I. I., 46Tiepolo I., 171Tolomei C., 267Tommaso Francesco di Savoia, 40Torrentino L., 26Tortora E., 389Totò (pseud. di A. De Curtis), 237,

326Trilussa (pseud. di C. A. Salustri),

287-8Trissino G. G., 266-7Troiano Stinca J., 316Troisi M., 326Troya V., 51, 55

Uberti Fazio degli, 90Umberto i di Savoia, 326

Vacca G., 58Valeri D., 191Valeriano P., 267Valla L., 266Veglione P., 164Veneziani M. T., 145Venier M., 182Verasis Asinari di Castiglione I., 63Vercellana R., 62Verga G., 227 Verri A., 113-4, 120Verri T., 119Verucci V., 264-6Vigo L., 369Villani G., 217

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indice dei nomi

435

Villari P., 225Visconti Brizio, 91Vittorio Amedeo i di Savoia, 38Vittorio Emanuele ii di Savoia, 62Vittorio Emanuele iii di Savoia, 326Voltaire (pseud. di F.-M. Arouet), 183

Zalli C., 53, 59Zanzotto A., 190-1Zeno A., 184-5Zorzi B., 165Zucchello P., 170Zucchetto C., 40

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mari d’agostino insegna Linguistica italiana all’Università di Pa-lermo. Si occupa, anche attraverso ricerche empiriche, del rapporto fra linguaggi e realtà sociale. Negli ultimi anni si è interessata particolar-mente di sociolinguistica urbana e di diritti linguistici della popolazio-ne migrante. Fra i suoi libri: La piazza e l’altare. Momenti della politica linguistica della Chiesa siciliana. Secoli xvi-xviii (1988), Sociolinguistica dell’Italia contemporanea (2012) e, in collaborazione con altri membri del gruppo di ricerca, alcuni volumi del progetto dell’Atlante lingui-stico della Sicilia (Per una sociolinguistica spaziale, 1995, I rilevamenti socionazionali, 2005, Costruendo i dati, 2006). Ha co-curato gli Atti dell’Associazione di Storia della lingua (Storia della lingua e dialetto-logia, vii Convegno) e dell’Associazione Italiana linguistica applicata (Lingue e culture in contatto e Varietà dei contesti di apprendimento lin-guistico, rispettivamente x e xiii Convegno).

nicola de blasi insegna Storia della lingua italiana all’Università di Napoli “Federico ii”. Si occupa di storia linguistica italiana, di storia di parole e di edizioni di testi (gliommero di Sannazaro, raccolte di F. Russo e S. Di Giacomo). Fra i suoi libri: Profilo linguistico della Cam-pania (20092), Parole nella storia quotidiana (2009), Geografia e storia dell’italiano regionale (2014). Ha curato l’edizione critica del Teatro di Eduardo De Filippo (2000-07, con P. Quarenghi). Ha ideato e curato l’opera I Dialetti italiani. Storia, struttura uso (2002, con M. Cortelaz-zo, G. Clivio, C. Marcato). Per Carocci ha pubblicato Storia linguistica di Napoli (2012).

giovanna frosini insegna Storia della lingua italiana all’Università per Stranieri di Siena. Si è occupata di poesia italiana delle Origini,

Gli autori

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volgarizzamenti, epistolografia, e di storia del linguaggio gastronomi-co. Fra i suoi libri: l’edizione delle Lettere di Matteo Franco (1990), Il cibo e i Signori (1993), Storia di Barlaam e Josaphas secondo il ms. 89 della Bibl. Trivulziana di Milano (2009) e Il Trattato della Dilezione d’Albertano da Brescia nel cod. ii iv 111 della bncf, secondo l’edizio-ne allestita da Arrigo Castellani (2012, con P. Larson). Per Carocci ha collaborato di recente alla Storia dell’italiano scritto, curata da G. Antonelli, M. Motolese, L. Tomasin, redigendo il saggio sui Volgariz-zamenti (vol. ii, Prosa letteraria, 2014).

claudio marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca e socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino, insegna Storia della lingua italiana all’Università del Piemonte Orientale. Fra i suoi li-bri: La lingua italiana. Profilo storico (20023), L’ordine delle parole. Sto-ria di vocabolari italiani (2009), Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia (2013); e per Carocci: Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull’italiano (1999); Il perfetto parlare. La retorica in Italia da Dante a Internet (2001), Le fiabe (2004), Storia linguistica di Torino (2012), Da Dante alle lingue del Web. Otto secoli di dibattiti sull’italiano (2013).

silvia morgana insegna Storia della lingua italiana all’Università di Milano ed è Accademica della Crusca. Si è occupata di vari aspetti del-la lingua letteraria, della lingua scientifica e dei media, di lessicografia, delle tradizioni linguistiche regionali. Fra i suoi libri: Capitoli di storia linguistica italiana (2003), Mosaico italiano (2011); e per Carocci: La lingua italiana e i mass media (2003, con I. Bonomi, A. Masini), Breve storia della lingua italiana (2009), Elementi di linguistica italiana (2010, nuova ed., con I. Bonomi et al.), Storia linguistica di Milano (2012).

lorenzo tomasin insegna Filologia romanza e Storia della lingua italiana a Losanna. Si è occupato di temi posti tra filologia, dialettolo-gia, storia linguistica e storia letteraria. Fra i suoi libri: Il volgare e la leg-ge (2001), Testi padovani del Trecento (2004), Classica e odierna. Studi sulla lingua di Carducci (2007), Storia linguistica di Venezia (2010) e Italiano. Storia di una parola (2011). È tra i curatori e tra gli autori della Storia dell’italiano scritto pubblicata da Carocci (2014).

pietro trifone insegna Storia della lingua italiana all’Università di Roma “Tor Vergata”. Ha svolto ricerche sui rapporti tra la comu-

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gli autori

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nicazione linguistica e gli altri aspetti della realtà sociale italiana. Fra i suoi libri: Storia della lingua italiana (1993-94, curata con L. Serian-ni), Rinascimento dal basso. Il nuovo spazio del volgare tra Quattro e Cinquecento (2006), Malalingua. L’italiano scorretto da Dante a oggi (2007). Con Carocci ha collaborato in veste di autore (Storia linguisti-ca di Roma, 2008; L’italiano nel mondo, 2012, con C. Giovanardi), di curatore (Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, 2006) e di direttore della serie “La lingua delle città italiane”.

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