sturzo -i discorsi politici vol. ii pag 224-445

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Da gran tempo giornali e opinione pubblica hanno diretto -gli strali. della censura e del sarcasmo contro il parlamento; ed è stata così rara una voce di difesa, da non averne il ricordo da gran pezzo. Sarà un po' l'indole e l'educazione italiana, che non sa arrivare a dar valore di simbolo alle istituzioni demo- cratiche; sarà anche la giovinezza della nostra costituzione e del nostro regno; sarà il borghesismo delle nostre forme rappresen- tative e il procacciantismo degli uomini che ne sono esponenti; sarà la mancanza di contatto nazionale fra il centro e la peri- feria così regionalisticamente diversa; sarà lo spirito individua- lista della nostra razza, che ci fa preferire il deputato alla ca- mera; certo si è che in Italia si è dato sempre assai scarso va- lore al parlamento e alla sua funzione. Si credeva che col suf- fragio universale la camera dei deputati avesse almeno acquista- to una espressione più larga e più adesiva all'anima del po- polo; ma è mancata quella rispondenza fiduciosa che viene da un'attività politica e legislativa che polarizzi il pensiero e la volontà della nazione. Gli avvenimenti sorpresero quasi sempre la camera nata dal suffragio universale: la neutralità, la guerra e le sue fasi, la pa- ce e i suoi travagli, la legislazione economica e tributaria, le agitazioni politiche, la crisi delle istituzioni, non divennero mai alla camera crogiuolo di passioni politiche, non ebbero mai il tormento delle grandi elaborazioni; voci scialbe e atteggiamenti indecisi ed equivoci rappresentarono dentro la vita che tu- multuava di fuori. Nessuna legge di notevole importanza socia- le, tributaria, economica, scolastica, giuridica è stata discussa dal 1913 ad oggi; un decennio di enorme povertà parlamentare in mezzo a un cumulo di fermenti politici e di rivolgimenti so- ciali; e i dibattiti che si sono svolti alla camera non han crea- to nel paese stati d'animo da poter essere rilevati. Il la degli av- venimenti è sempre venuto da altre fonti del nostro pensiero politico, sociale e religioso, meno che dal parlamento, tranne il tragico momento di Caporetto quando di balzo e istintiva- mente tutte le forze vive del paese furono per la difesa della patria.

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Da gran tempo giornali e opinione pubblica hanno diretto -gli strali. della censura e del sarcasmo contro il parlamento; ed è stata così rara una voce di difesa, da non averne il ricordo da gran pezzo. Sarà un po' l'indole e l'educazione italiana, che non sa arrivare a dar valore di simbolo alle istituzioni demo- cratiche; sarà anche la giovinezza della nostra costituzione e del nostro regno; sarà il borghesismo delle nostre forme rappresen- tative e il procacciantismo degli uomini che ne sono esponenti; sarà la mancanza di contatto nazionale fra il centro e la peri- feria così regionalisticamente diversa; sarà lo spirito individua- lista della nostra razza, che ci fa preferire il deputato alla ca- mera; certo si è che in Italia si è dato sempre assai scarso va- lore al parlamento e alla sua funzione. Si credeva che col suf- fragio universale la camera dei deputati avesse almeno acquista- to una espressione più larga e più adesiva all'anima del po- polo; ma è mancata quella rispondenza fiduciosa che viene da un'attività politica e legislativa che polarizzi il pensiero e la volontà della nazione.

Gli avvenimenti sorpresero quasi sempre la camera nata dal suffragio universale: la neutralità, la guerra e le sue fasi, la pa- ce e i suoi travagli, la legislazione economica e tributaria, le agitazioni politiche, la crisi delle istituzioni, non divennero mai alla camera crogiuolo di passioni politiche, non ebbero mai il tormento delle grandi elaborazioni; voci scialbe e atteggiamenti indecisi ed equivoci rappresentarono lì dentro la vita che tu- multuava di fuori. Nessuna legge di notevole importanza socia- le, tributaria, economica, scolastica, giuridica è stata discussa dal 1913 ad oggi; un decennio di enorme povertà parlamentare in mezzo a un cumulo di fermenti politici e di rivolgimenti so- ciali; e i dibattiti che si sono svolti alla camera non han crea- to nel paese stati d'animo da poter essere rilevati. Il la degli av- venimenti è sempre venuto da altre fonti del nostro pensiero politico, sociale e religioso, meno che dal parlamento, tranne il tragico momento di Caporetto quando di balzo e istintiva- mente tutte le forze vive del paese furono per la difesa della patria.

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Tutto ciò ha un fondamento reale di crisi, che è sentita nella coscienza del nostro popolo, e che determina gli stati d'a- nimo di sfiducia, di disagio, di insoddisfazione, p e r h o di av- versione, quando intrawede altra forza che può elevare ad an- tagonista di quella parlamentare, ieri D'Annunzio, oggi Musso- lini. Questa critica ho fatto nei miei discorsi dell'ultimo trien- nio, ed oggi la posso ripetere con altri argomenti, dandovi la sensibilità degli avvenimenti presenti, per arrivare alla conclusio- ne che il difetto del nostro istituto parlamentare non è solo nella camera dei deputati, nella sua formazione rappresentati- va, e nella sua funzionalità politica, ma è il vizio organico so- stanziale del parlamentarismo soverchiante in uno stato accen- tratore e burocratico. E quando Mussolini chiama questa came- ra sorda e grigia e la svaluta col suo gesto, ha ferito una rap- presentanza ma ha colpito l'effetto e non la causa.

Strano fenomeno! Da tre anni tutta la stampa italiana (me- no la nostra e qualche isolata voce di studioso) combatte un'ac- canita campagn? contro la proporzionale elettorale, accusandola quale causa del decadimento della camera dei deputati; si è di- menticato che di tale decadimento parlavano giornali, uomini politici e studiosi prima dell'introduzione della proporzionale e prima ancora del suffragio universale; lo stato di disagio e di urto fra coscienza nazionale e rappresentanza parlamentare ha più di quarant'anni, e si è andato sempre acuendo, perché pochi uomini rappresentativi ha avuto in questo periodo i l no- stro paese, principale Francesco Crispi con tutti i suoi difetti; e il trasformismo iniziato da Depretis è stato un metodo parla- mentarista di adattamento e di equilibrio, che ha corroso le fi- bre nazionali, ha confuso la funzione dei partiti, ha attenuato le passioni politiche ed ha ridotto la vitalità della vita pubblica al giuoco delle clientele.

I1 periodo è segnato dalla democrazia, che ha tentato di do- mare prima, di assorbire poi, infine di scompaginare la corrente proletaria; essa, vero strumento borghese, servì assai bene alla incipiente industria italiana, anche e specialmente a quella pa- rassita, a carico e a spese dell'agricoltura e delle classi medie; e nel suo giuoco politico pose sul medesimo piano le due forze del capitale industriale e del lavoro industriale, awantaggiando

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il primo con la protezione e l'altro con i salari, ambedue as- salendo per diverse vie lo stato in un'azione di pompaggio del denaro 'della campagna e dei risparmi non bene affidati, né allo stato come contributo d'imposte, né alle banche come mezzo di deposito e d'impiego. Era il momento della trasformazione e dello sviluppo della nostra economia giovane e incerta, e le crisi ne soffocavano l'inizio; la classe più intelligente e fat- tiva prese naturalmente il dominio e la direttiva della vita pub- blica e fu l'industriale che governò per interposta persona.

Quando gli organi di tale classe fanno la voce grossa contro l'accentramento statale, contro i monopoli, contro il prevalere del socialismò e si scandalizzano della debolezza dello stato ver- so le pretese della classe operaia, dobbiamo dubitare della loro sincerità e della loro obiettività, poiché ciò rispondeva a tutta

la loro politica economica espressa dalla democrazia; e dobbia- mo domandarci quale altro piano nasconde questa loro conver- sione al liberismo, alla sburocratizzazione statale, allo smantel- lamento della vecchia costruzione democratica, d'abbandono dei monopoli dietro i quali sono stati annidati tanti interessi. I commercianti degli zolfi, dei citrati e dello zucchero, ricor- sero al medesimo sistema e ne ebbero favori; ma la vera agri- coltura fu assente dallo stato democratico e parlamentare; diede occasione alla larga letteratura sui patti agrari, specialmente del Mezzogiorno, dall'inchiesta Jacini in poi; vide in molte plaghe depauperarsi la campagna con l'emigrazione contadina; e con- tinuò a sentire la politica come espressione di vita provinciale, ove il feudo elettorale del collegio uninominale, i buoni rapporti con la prefettura e i carabinieri, la preminenza amministrativa all'ombra del proprio campanile, rappresentavano la somma del- la sapienza politica di equilibrio fra l'agente delle imposte e lo sfruttamento del lavoratore, che diedero i tristi bagliori dei fasci del '93 e delle agitazioni del '98.

Questa posizione politica e questa struttura economica di due Italie senza nesso interno, insieme all'improwisazione ret- torica degli estremisti radicali, fecero degenerare l'istituto par- lamentare, creando il parlamentarismo con una funzione iper- trofica alla camera dei deputati a danno degli altri organi sta- tali, mentre la centralizzazione burocratica dello stato italiane

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nelle funzioni amministrative ed economiche, nel periodo del crescente benessere del paese dopo le crisi dell'ultimo venten- nio del secolo scorso, determina la degenerazione della stessa burocrazia da organo tecnico di esecuzione in organo di mono- polio statale.

Una salda catena legava alla stessa sorte il parlamentarismo democratico, la burocrazia amministrativa e il sistema elettora- le del feudo politico: la degenerazione del costume elettorale era causa delle maggioranze personalistiche; queste dovevano vivere dei favori del governo, il quale aumentava le sue compe- tenze nel campo amministrativo ed economico per potere avere la maggiore ingerenza nella vita del paese. La qual cosa faceva divenire più numerosa e più potente la burocrazia, che a sua volta elaborava nuove e più impensate proposte di accentramen- to amministrativo e di monopoli economici, impedendo le li- bere attività e le autonomie degli enti locali, creando enti ed istituti, inventando comitati e consorzi, giunte, consigli, com- missioni, commissariati, improvvisando una legislazione econo- mica statale, detta poi della economia associata o del socialismo di stato, come termine di un sistema perfettamente democratico.

Alcuno può domandare a questo punto come mai in tutto sì lungo e interessante periodo della nostra vita pubblica, il se- nato, cioè l'altra e alta camera, che ha funzioni di equilibrio, di correzione di indirizzo, di integrazione politica, non .ha mai esercitato un potere e un'influenza pari a quella della camera dei deputati; anzi non ha mai modificato indirizzi politici ge- nerali, non ha segnato efficacemente alcuna via nello sviluppo della vita pubblica del nostro paese. Non intendo qui parlare della opportuna correzione di leggi, cosa che ha fatto quando il governo non si è decisamente opposto, owero quando ha re- putato opportuno attenuare a mezzo del senato le esagerazioni o la imprevidenza della camera dei deputati; intendo invece par- lare del suo reale influsso sulle direttive generali, sia attraverso la legislazione, sia attraverso il governo. Questa posizione di penombra in determinati momenti è stato un vero accorgimen- to politico, per evitare conflitti fra le due camere; ma sostan- zialmente è stata una disintegrazione delle funzioni del senato nel sistema bicamerale italiano che mano mano si è andata ope-

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rando, sia per il politicantismo dei deputati, ai quali il governo era strettamente legato, sia per l'attenuarsi della prima tradizio- ne, quando ancora era più sentito il potere regio dal quale il senato emanava, potere regio che per l'antica disciplina monar- chica dèl Piemonte e per le benemerenze italiane della casa Sa- voia nel risorgimento, dava al senato una notevole influenza morale. Ma l'azione governativa lo tolse da questa aura storica, invase indirettamente il potere regio formando le liste dei se- natori sotto esigenze di vicende politiche, aumentò il numero dei funzionari e degli ex deputati senatori (cioè gli elementi co- munque legati al sistema parlamentarista-burocratico); fece co- sì scomparire quasi la ragione prima del nostro senato di no- mina regia.

'IÈ questo l'errore fondamentale della nostra costituzione: un senato che non si rinnova, che attraverso la nomina regia può divenire un organo in mano del governo, e che per il numero illimitato non ha la totale garanzia dell'autonomia del corpo deliberante. Il suo contatto col paese non esiste, e quindi non può avere la forza di elemento direttivo alla pari deila camera dei deputati; e nessun governo ha mai cercato appoggio al se- nato nelle fasi difficili della camera che in 74 anni di costitu- zione ha fatto 66 crisi di gabinetto. Gli elementi naturali su cui dovrebbe poggiare il senato che rappresenta ~rincipalmente le funzioni di conservazione, nel giuoco della politica, sono i corpi costituiti, le camere locali, i consigli ~rovinciali, i municipi, le università, le corporazioni e le classi, la magistratura e l'esercito, tutti elementi di vita organica e raggruppata, sì da fare rispon- denza e contrappeso alla caratteristica individuale della camera dei deputati, rappresentante la volontà dei cittadini come sin- goli. Invece il sistema atomico è acuito dalla nostra costituzione

liberale, nella quale il cittadino elettore crea la camera dei de- putati; questa crea il governo il quale si rifà per suo vantaggio il cittadino elettore; i valori sono invertiti e attraverso la ela- borazione dei collegi, il governo si è sempre fatta la camera dei deputati; e attraverso il re, il governo si è formato sempre il senato. Così si spiega la storia del nostro parlamentarismo, dall'awento della sinistra storica ad oggi, dominato principal-

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mente da due uomini: Depretis e Giolitti, che furono i veri pa- droni del parlamento italiano.

Il suffragio universale dato di sorpresa al 1912, era voluto dai partiti proletari che allora combattevano insieme ai radi- cali (oggi demosociali) e ai repubblicani, come mezzo risolutivo della deformazione parlamentare; perché, si pensava, avrebbe staccato il corpo elettorale dall'influsso governativo, per il fatto stesso che il corpo elettorale diveniva la totalità dei cittadini capaci, e quindi sarebbero scomparse le consorterie affaristiche e le clientele personali, sia le industriali del nord che le agrarie e professioniste del sud, perché i partiti di massa avrebbero ac- quistato maggiore forza politica.

I1 primo esperimento elettorale dopo tale riforma, nel 1913, è vero, diede un maggior numero di posti ai socialisti, ma la- sciò intatta la figurazione della camera, con i difetti della pre- cedente, democratica e giolittiana, senza nuovi orientamenti, con una più decisa corrente verso il centralismo di stato.

La persistenza del collegio uninominale costringeva il cor- po elettorale alla valutazione personalistica del candidato, e manteneva, specie nel Mezzogiorno che per più di trent'anni aveva dato la massa di manovra ad ogni governo, la maggiore influenza ai proconsoli (chiamo così i deputati ministeriali più autorevoli del luogo) e ai prefetti attraverso l'esercizio del po- tere amministrativo e di polizia, la quale in molti luoghi non sdegnava l'aiuto interessato della mafia e della camorra.

L'entrata in guerra, decisa fuori della camera, diede il se- gno di quel che fosse questo organo così formato nei momenti più gravi e più decisivi: non ebbe né fede a dir di sì, né co- raggio a dir di no; subì e sottolineò con un discorso retorico, tanto per la platea, il più grande awenimento politico dalla unità in poi, e con ciò esaurì il suo compito. Onde, quando do- po la guerra, ripresa la vita costituzionale, si volle ridare al cor- .

po elettorale la sua voce, non fu possibile più concepire come esistente e vivo il vecchio legame di camera-governo-cittadino elettore, rotto da un fatto nazionale; era necessario ridare la

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libertà di espressione e la forza di coesione al paese nella nuo- va coscienza elettorale a suffragio universale con la formazione dei partiti a base nazionale. Così venne logica e imperiosa la proporzionale, come completamento organico del voto personale esteso a tutti e come valorizzazione di tutte le correnti vive del paese. Agitata da un pezzo, tale riforma, introdotta in paesi a largo respiro democratico, si presentò come il mezzo decisivo a correggere l'atomismo politico, e ad inalveare in correnti respon- sabili e chiare l'amorfa coscienza elettorale, rendendo organica la risultante della volontà nazionale espressa col voto. Il largo collegio interprovinciale o regionale rispondeva alle tradizioni e ai bisogni della nostra vita locale così varia di interessi e di temperamenti, mentre l'organizzazione dei partiti riduceva tali forze locali ad unità direttiva e programmatica nazionale.

Oggi è comune credenza che sia da attribuirsi al fraziona- mento dei partiti e alla mancanza di un partito forte di maggio- ranza, le ditficoltà di vita e di azione della camera dei deputati; né è facile dimostrare che le 66 crisi di gabinetto in 74 anni di costituzione a i devono alla inconsistenza e al tormento parlri- mentare in genere, quali siano i sistemi elettorali in vigore; e che le crisi Nitti del '20, Giolitti del '21 e Facta dell'ottobre '22 sono maturate nel paese fuori della camera dei deputati; e che le due crisi Bonomi del febbraio e di Facta del luglio scorso appartengono al rango della maggior parte delle crisi italiane dal '48 ad oggi per scontento di gruppi o d i persone, per politica debole e incerta, per bisogno di mutar uomini ritenuti incapa- ci. La proporzionale non c'entra; essa invece è servita, in tre anni e con due elezioni, a dare un contenuto e una discussione programmatica alla vita politica e alle correnti di pensiero; e a far iniziare l'opera di individuazione e di responsabilità dei partiti, 6n ieri personalistici e incompleti, a dare ai partiti stes- ai un contenuto sostanziale e non solamente formale; e a ob- bligarli a chiarire le loro posizioni, ideali e pratiche.

Ora, mentre tutti i partiti vecchi e nuovi, nel forte crogio- lo proporzionalista, tendevano a identificarsi e a chiarirsi, non escluso il piccolo nucleo liberale di destra e il nazionalista, la de- mocrazia liberale: invece, che, avendo in mano il potere, non ave- va più un unico contenuto progammatico, si trovò fra socialisti e

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\\ popolari a dover precisare propositi e indirizzi, mentre la spinta fascista si faceva forte al di fuori e premeva sulle vecchie posi- zi'oni. Era naturale che le forti oscillazioni politiche e i con- trasti della camera dessero una vivace irrequietezza alla demo- crazia dominata da uomini più che da idee, sì da scomporla e ricomporla più volte in due, uno o quattro gruppi, oltre l'ap- pendice riformista; ed era ancora più naturale, come ad ogni figlio di Eva, di trovare negli altri la causa del proprio malanno; la causa erano i popolari, troppo esigenti, gente nuova, con idee e propositi diversi e con spirito awerso; e la colpa ultima era la proporzionale. Travaglio interno di uomini, vedute partico- lari, interessi elettorali, arrivismi ministeriali, al di fuori di ogni seria e sentita idealità, erano purtroppo in giuoco; e sfuggiva la linea programmatica nell'adattamento contingente e pragma- tista, fatto di espedienti e di combinazioni, per le quali lo stato ei svuotava di contenuto e di autorità e si riempiva di affari e di interessi.

Se la proporzionale, come io credo, è servita a disintegrare i vecchi partiti personalistici; a dare il clima adatto allo svol- gersi dei nuovi partiti; a creare una coscienza politica a classi e categorie fin ieri assenti dall'arringo della vita pubblica; a contenere entro i limiti della propria ~otenzialità i grandi par- titi, senza il prepotere artificioso di maggioranze schiaccianti; a portare nel parlamento e nel governo, a contatto, le forze fatte di idee; a dare infine la legittima voce alle minoranze; ha avato una vera e salutare influenza nello svolgersi della nostra vita politica, e ha giovato a formare l'inizio organico alla più larga partecipazione del popolo agli organismi dello stato.

L'awenire ci dirà se la lotta alla proporzionale, fatta di pregiudizi, (e purtroppo è da rilevare che questi pregiudizi han- no fatto presa sul movimento fascista, che ieri era proporziona- lista .e auspicava il collegio nazionale ed oggi lo combatte), l'av- venire ci dirà se la lotta alla proporzionale non significherà un regresso politico nella formazione di una coscienza nazionale, nello sviluppo organico dei partiti, nella lotta contro il centra- lismo statale.

I1 giusto desiderio di avere una maggioranza omogenea alla

camera, mai si è awerato e mai si potrà awerare, qualunque sia

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il sistema elettorale, se la unificazione spirituale ed economica non avviene prima nel paese; e quando questa si è ottenuta, la camera ne avrà la naturale ripercussione, senza artifici e sen- za compromessi, anche in regime proporzionale.

Noi anche oggi, restiamo proporzionalisti, non legati ad una semplice forma, ma allo spirito e alla sostanza della vita par- lamentare.

L'equivoco fondamentale della polemica sta .nel fatto che nonostante la svalutazione della camera dei deputati, questa ri- mane l'organo preponderante della vita politica. Z di vitale im- portanza che il parlamento poggi sull'equilibrio delle due ca- mere; e che queste siano l'una l'espressione completa del cor- po elettorale, come singoli, nei raggruppamenti dei partiti poli- tici creati dalle correnti vive di pensiero e di interessi; e l'altra, cioè il senato, espressione in maggioranza dei gruppi organici del paese a sistema elettorale periodico di secondo grado, e con la partecipazione di senatori di nomina regia. Corpi liberi e monarchia debbono avere insieme una naturale convergenza di voce; perché C O E ~ la camera alta abbia pari autorità di quella eletta dal popolo, e formino insieme un potere indipendente dalla influenza del governo; il quale non possa più poggiare escIusivamente sull'azione e reazione della camera dei deputati e del corpo elettorale, ma sia esponente del parlamento intero nella sua funzione politica e amministrativa di potere esecutivo.

Così precisato l'equilibrio ~arlamentare, non può dirsi ri- soluto il problema della funzionalità legislativa, specialmente nel periodo così denso di problemi, così pressato dall'urgenza delle soluzioni, così caotico per tutta la supercostruzione bellica e postbellica del nostro sistema statale. Le camere inoltre non possono nella pratica arrivare a fissare la tecnica delle leggi, ma debbono dare la linea ~oli t ica e la direttiva giuridica, spe- cialmente in quelle leggi ove la tecnica soverchia la ragione po- litica o almeno vi dà forma concreta e definitiva. Per questa

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ragione come più sono aumentate le competenze dello stato, amministratore, industriale, agricoltore, commerciante, assicura- tore, pedagogo, monopolista, è aumentata l'influenza legisla- tiva della burocrazia, ed è divenuto prepotente il bisogno del governo a sostituirsi al parlamento. L'esercizio dei poteri legislativi da parte del governo è ormai un fatto normalizzato, prinia della guerra dai pieni poteri del maggio '15, poi dall'a- buso dei decreti legge nel periodo post-bellico, nel quale si son fatti valere anche i poteri avuti dall'inizio della guerra; e infine oggi colla nuova delegazione dei poteri tributari e amministra- tivi dati dall'attuale governo.

Durante la guerra, attraverso i pieni poteri, diretti a scopo militare e politico per la difesa dello stato e per la condotta della guerra, si insinuarono leggi ed istituti alieni dai fini voluti dalla suddetta legge. In quel periodo caotico è da indulgere assai ai governanti se si fecero prender la mano dai burocrati, dagli affaristi e dai socializzatori dello stato. Dopo la guerra, come l'economia italiana, specialmente bancario-industriale, credette potersi gonfiare al pari della celebre rana della favola, così an- che lo stato credette suo compito divenir tutto e regolar tutto, e i decreti-legge fioccavano a centinaia; ma non fu creato il (c novus ordo », furono invece sperperati dei miliardi, fabbri- cando sull'arena una congerie di nuovi enti e continuando un'e- conomia nuovissima, inaugurata durante la guerra, dove a farlo a posta mancavano due termini sostanziali: « la produzione e il risparmio ». Oggi tutto è cadente, i decreti-legge restano co- me ruderi ove posa la crittogama burocratica.

I nuovi pieni poteri dati al governo potranno servire a spazzare quanto artificiosamente si è costruito; ma, perché la vita si normalizzi, e lo stato ripigli le sue caratteristiche, occor- re il piano e la tecnica a ricostruire saldamente sopra un siste- ma giuridico; altrimenti la confusione dei poteri non gioverà, come non è giovato in questo ultimo settennio, e varrà ad au- mentare la forza di un potere irresponsabile, dietro il quale sta annidata la più ingorda speculazione parassitaria.

Per questo, nella ricostruzione della nostra vita parlamen- tare, è giuocoforza creare in Italia, con vera funzione di corpi tecnici elettivi e con poteri delegati di legislazione pratica e di

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consigli nazionali), che noi popolari da tempo sosteniamo per.' i primi, non come semplice espressione consultiva e come este- riore esplicazione di attività funzionale dei ministeri, ma come corpi responsabili di elaborazione tecnica legislativa su quello che il parlamento decide in massima e con vedute politiche. Pa- recchi hanno il torto di preoccuparsi che vi siano in grado così elcvato per le loro funzioni consigli elettivi del lavoro, dell'eco- nomia nazionale, dei comuni, della beneficenza e dell'istruzio- .

ne; e temono che o il' potere legislativo o quello esecutivo ne restino offesi; e non si accorgono che oggi l'uno e l'altro po- tere dipendono ormai, nella tecnica e nella funzionalità, da or- gani e da persone estranee e spesso irresponsabili.

E non basta: il problema istituzionale è legato al problema del decentramento organico e amministrativo. Oggi lo stato è tutto e i1 resto è nulla; ciò crea il disquilibrio della vita nazio- nale. A parte la smobilitazione dell'economia privata, di cui lo -stato è oggi partecipe e tutore, lo stato accentra nel campo dei lavori pubblici, dell'agricoltura, del commercio, della scuola, del lavoro e nell'attività delle provincie e dei comuni molti compiti che spettano o po5sono essere utilmente disimpegnati dagli enti locali; occorre perciò dare una maggiore perequa- zione alle pubbliche spese tra le varie regioni d'Italia, una più sentita responsabilità amministrativa, una più elevata parteci- pazione di potere alle forze locali; e una più viva rispondenza e rapidità di flusso e riflusso tra bisogni collettivi e servizi pub- blici. Per questo è invocato il decentramento amministrativo, e per questo noi sosteniamo la costituzione della regione, ente che possa ridare ragione organica di vita alle nostre più vive aspirazioni localistiche e alle esigenze amministrative delle va- rie parti d'Italia, senza per questo ledere le funzioni statali, non solo quelle strettamente finanziarie e giuridiche, ma anche quelle di vigilanza, di integrazione e di iniziativa ammi- nistrativa; la cui espressione nazionale tecnica verrà data dai consigli superiori, che formeranno la sintesi e il coronamento della vita locale.

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Questo è stato da quattro anni un piano squisitamente popo- h r e : fu precisato a chiare note e con linee di massima nel nostro programma del gennaio 1919, è stato riaffermato alla camera dal gruppo popolare; nei congressi di Napoli e di Ve- nezia venne chiarito in alcuni particolari, come le autonomie comunali, la riforma del senato in rapporto alì'organizzazione di classe, la istituzione delle camere di agricoltura, la costitu- zione della regione; è stato più volte ridiscusso dal nostro con- siglio .nazionale a proposito della riforma della burocrazia; è stato da me illustrato nei tre discorsi di Milano del 1920, di Roma del 1921 e di Firenze del 1922; ed ha un nesso e uno sviluppo inscindibili, basandosi su ragioni storiche, politiche e psicologiche del nostro paese.

Se il governo di Mussolini, che oggi ha avuto, più ampi di prima, i pieni poteri che la legge Bonomi del 13 agosto 1921 già concedeva, e dei quali non seppero usare i precedenti mini- stri, non procede alla riforma dello stato con un piano di mas- sima ben chiaro, e con queste linee fondamentali, cioè: - smo-

-

bilitare quello clie di amministrativo e di economico non spet- ta allo stato, e decentrare agli organi statali periferici quello che ha caratteristica locale e può nel luogo esaurirsi sotto la re- sponsabilità dei propri funzionari; passare agli enti locali quel- lo che è loro naturale funzione, e che lo stato ha fin oggi usur- pato, e all'uopo creare la regione, organo naturale di decentra- mento; - anche il governo di Mussolini non risolverà intera- mente e radicalmente il problema dell'organizzazione statale. Anzi v i sarà il pericolo, che si crei una notevole confusione di organi e di poteri; e che la reazione di interessi offesi e di ser- vizi paralizzati possa far ritornare allo stato quel che oggi si smobilita, ribadendo così il centralismo di stato, che dovrebbe essere definitivamente condannato.

. E strano dover constatare che anche oggi, in tanto rapido sowertimento della vita pubblica, in nome della nazione si fac- cia la lotta alla regione, e in nome dello stato si faccia lotta al- l'autonomia locale. Chi pensa così, non conosce i problemi e si basa sii vieti pregiudizi che hanno danneggiato la nostra vita pubblica. Lo stato e la nazione nulla hanno da temere dalle autonomie locali e dall'istituzione della regione; lc stato resta

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integralmente l'organo politico e la nazione tiene subordinate alla sua ragion d'essere tutte le forze locali. L'autonomia invo- cata è solo amministrativa, perché l'attività locale ha le sue ra- gioni economiche e morali insopprimibili. Ciò risponde al no- stro spirito italiano, insieme locale e nazionale, particolarista e universale, regionalista e unitario. Né è a credere che il gover- no si indebolisca, che anzi non sarà mai così forte come quando avrà tolto da sé l'inutile sforzo di occuparsi di interessi locali e particolari, tentando equilibri fra regioni e regioni, secondari. do il procacciantismo elettorale dei deputati, turbando legitti- me aspirazioni per intrighi politici; e potrà con più tempo e sicurezza dedicarsi alle funzioni nazionali politiche e finanziarie da tutelare e da promuovere.

Questo quadro ricostruttivo dovrebbe entrare nelle linee e nei piani del nuovo governo. Si dice che la rivoluzione fascista oggi continua, che lo stato democratico sarà trasformato in stato fascista. Ecco che il primo problema nel quale ci s'imbatte è proprio il problema istituzionale e costituzionale. La monar- chia ha legalizzato la marcia su Roma, dando a f i l~ss~l i r i i il man- dato di comporre il ministero; il parlamento ha riconosciuto il '

fatto compiuto, anche sotto la sferza dei due discorsi ai deputati ed ai senatori, ed ha dato i pieni poteri amministrativi e finan- ziari: è l'inizio del rivolgimento, sia pure nella sua legalizzazio- ne formale.

Il paese sarà chiamato, credo non molto tardi, per manife- stare nella forma legale che potrebbe avere la caratteristica di plebiscito, la sua volontà su quel che avrà fatto o promesso que- sto governo che vorrei chiamare comitato di salute pubblica. Qui ricomincia un nuovo ciclo: la riforma elettorale oggi invo- cata come riforma sostanziale non potrà modificare lo spirito pubblico e la prova delle elezioni servirà a darci la conoscenza di fatto, se il paese avrà potuto liberamente e completamente esprimere la sua volontà. Ammesso che questo avvenga, se l'or- ganamento statale sarà domani lo stesso che oggi; se il senato non acquisterà completa autorità politica alla pari della camera dei deputati; se i consigli superiori non saranno corpi elettivi rivestiti di autorità, formati di competenze tecniche; se la bu- rocrazia (che il fascismo può turbare e paralizzare ma non sop-

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primere, o al più potrà crearne altra più spiccia, ma ancora me- no responsabile e più incompetente) se la burocrazia, dico, non ritorna alle sue vere funzioni tecniche; se non si decentra e non si ricrea la vita locale, la nuova camera dei deputati (con o senza proporzionale) sarà anch'essa equivoca, irrequieta, sover- cliiante; farà allo stesso modo le crisi; non vi saranno più quat- tro democrazie, ma M potraniio essere quattro fascismi; i popo- lari potranno non essere più cento, e vi potranno anche essere cento nazionalisti, i socialisti potranno ritornare quanti erano prima del 1913; ma quando il fascino del duce verrà ad essere attenuato e il governo dovrà fare i suoi conti con la camera dei deputati, si potrà anche riparlare altra volta del regolamento Son- nino, vi potrà essere di nuovo anche l'ostruzionismo, un altro Piero Lucca griderà il famoso Parli Paniuno! owero un altro Bissolati griderà morte al re!; la camera del futuro sarebbe la stessa camera del passato, ed il parlamentarismo italiano, de- mocratico o no, resterebbe ancora a pesare sulla nostra vita pubblica chissà per quanti anni.

Molti oggi credono che il disquilibrio costituzionale da me esposto sia stato causato principalmente dalla mancanza di un governo forte; e quindi le speranze di rinnovamento dello spi- n to pubblico si sono notevolmente ridestate coll'awento di Mus- solini che ha mostrato di aver mano forte, volontà decisa e me- todi spicci.

Certo il valore degli uomini ha una grande efficacia anche a rianimare forme superate e a destare energie sopite; anzi gli istituti anche perfetti poco valgono senza veri uomini di go- verno; mentre questi hanno maggiore e più duratura efficacia di azione con mezzi o strumenti adatti anziché con quelli di- sadatti.

Chi pertanto crede risolto il problema con l'avere morti- ficato il parlamento e ingrandita la potenza del governo, sì da poter sembrare dittatoriale, erra nella valutazione di quel che

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oggi è transeunte e straordinario, nel periodo di rivolgimento d i metodi e di poteri, di quello che da questo rivolgimento deve rinnovarsi e ricostruirai per normalizzare la nostra vita pub- blica.

Non affermo con ciò che fosse necessario il metodo adot- tato per la conquista del potere, intendo limitarne la portata alia ragione trasformatrice e risolutiva deu'attuale forma st- raor- dinaria di governo. Perché sarebbe enorme equivoco costitu- zionale quello di volere, come soluzioni delle nostre crisi pas- sate, un governo avulso dalle rappresentanze camerali, la cui ragion d'essere verrebbe riportata a forme esteriori di rappre- sentanza, la cui voce sarebbe limitata espressione di direttive e di voti, segnando così una rinunzia alle nostre libertà costitu- zionali e un ritorno ai governi paterni ed illuminati del secolo XVIII, nella completa indipendenza dal popolo che insieme al sovrano è l'autorità e forma la base della nostra costituzione.

Questo non è, né certo può essere, nelle direttive di Musso- lini, il quale dopo l'anno dell'esercizio dei pieni poteri, non potrà fare a meno di -ma cumerr che eia espressione del paese, che dia al governo autorità, e che torni a legiferare come è suo diritto. Quelli che pensano diversamente non sono degni del no- me italiano, non conoscono quale prezioso hene sia la libertà,

come sa chi per lei vita rifiuta.

Il dubbio, purtroppo, che si manifesta ancora assillante, è nella possibilità di ritorno all'ordine e alla legalità, e che si possa superare il periodo di rivolgimento senza che siano toc-

cate le libertà costituzionali, e che possano essere garentiti i corpi elettorali dalle forme di coazione collettiva. Qui sta l'aspro e duro compito del governo, sia in confronto ad avversari decisi che in confronto ai propri amici. Lo spirito di violenza, che ha animato per due anni e più l'azione fascista, non può facil- mente e docilmente inalvearsi nella legalità senza lasciare de- gli strascichi notevoli; e bisogna rilevare che lo spirito di di- sciplina che hanno mostrato le squadre ai loro capi e al duce è stato rilevante, sia pure nella contraddizione per il disprezzo della legge scritta dello stato italiano e l'ossequio alla legge

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disciplinare della organizzazione propria, anzi piix che altro al volere indiscusso dell'uomo che li guida e domina.

Oggi quest'uomo è il governo, e le due leggi, l'italiana e la fascista, debbono identificarsi e consolidarsi; quale delle due leggi ne dovrà scapitare? Siccome il fine del partito fascista è un &e nazionale, dovrebbe prevalere la legge italiana a quella fascista, specialmente quando l'identificazione delle due leggi non sarà possibile, come avviene nell'esercizio della violenza contro persone e contro istituti. Ed ecco lo sforzo del governo a trovare la soluzione. Oggi leggiamo che lo squadrismo, sele- zionato, diverrà corpo statale, pur rimanendo corpo fascista. L'esperimento sarà assai difficile; esso rappresenta la volontà, già in azione, a normalizzare lo stato di fatto. Quel che ancora ci fa dubitare è la possibilità del tentativo di inserire nell'or- dinamento statale istituti e forme non perfettamente omogenee, per poter così trasformare il vecchio stato a struttura liberale in nuovo stato fascista..Per di più, vi è una nostra irriducibilitg mentale a concepire lo stato fascista come nuova ragione poli- tica. Per quanto non di rado le .teorie servano a dare una spie- gazione ai fatti compiuti, che possono essere determinati da al- tre ragioni, che poi restano superate; non può negarsi che sono le teorie e le idee, anche solo intuite, quelle che presiedono alle grandi trasfortnazioni storiche. Oggi la concezione dello stato fascista non supera il metodo; e la sostanza del rivolgimento oc- corre cercarla altrove: nella coscienza dello spirito pubblico, il quale ha sentito e sente il problema della crisi presente, non come organamento statale, ma specialmente e prevalentemente attraverso il problema economico e finanziario. Proprio così: tutto il movimento socialista bolscevizzante e il periodo di lotta con i popolari prima e di reazione fascista poi, tutto lo sforzo del dopo guerra nel periodo di inflazione economica prima, con Orlando e Nitti, e di collasso dopo, con Giolitti e Bonomi; tutto il favore verso l'azione fascista, prima e dopo I'awento di Mus- solini, hanno un fondamento economico e finanziario: e attra- verso questo prisma sono state vedute tutte le fasi e tutti i feno- meni politici e parlamentari, interni ed esteri, ed è stato vis- suto il tormento sociale e istituzionale del nostro paese nel dopo guerra.

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Per questo il problema costituzionale nella linea ampia e complessa come l'abbiamo tracciato noi popolari, non è stato mai in tutta la sua portata sintetica sentito dall'opinione pub- blica italiana, né ha potuto avere notevole valorizzazione in par- lamento, si da crearvi attorno una corrente decisa. E non è stato bene compreso dalla coscienza politica del paese che i problemi economici e finanziari non possono essere valutati e risoluti, come per sé stanti, senza che insieme fossero affrontati i pro- blemi dell'ordine e della costituzione e senza arrivare alla ra- gione fondamentale della nostra organizzazione pubblica,.

Mussolini è venuto al governo circondato da un'aura di lar- ga fiducia e di vivaci speranze; ed è la sua volontà decisa a superare ogni ostacolo e a rivalutare nella forza della sua per- sona quella deIl'istituto che dirige; ma sarebbe vera ingenuità credere che i tre termini, cioè ricostruzione statale, rinnovazio- ne economica e ristabilimento delle libertà e dell'ordine, pos- sano divenire atto per un semplice .sforzo di volontà, come ope- ra di bacchetta magica; il miracolismo è un errore di prospet- tiva enorme e dannoso; non UeliBono crederti né i fascisti che sono in primo piano all'azione, né le masse che stanno nella aspettazione, né gli uomini politici e di parte che creano la pubblica opinione. I fatti diranno quanta opera metteranno gli

'uomini e quanta forza avranno gli eventi, perché il travaglio del nostro paese sbocchi nel periodo della pacifica e legale rico- struzione; è obbligo di ciascun italiano che non vive di odii e di esaltazione, che non ha mire bieche, che non fa il disfattista di professione, concorrere con disciplina al ripristino dell'or- dine, alla trasformazione dei nostri istituti politici e alla riva- lutazione delle nostre forze economiche. L'elemento c o n d i v o , che ancora predomina in alcune plaghe, segue il ritmo delle cause prossime; e la violenza localistica non si smorza facil- mente, perché di tanti odii e gelosie è fatta per noi italiani la vita

di quei che un muro ed una fossa serra;

ed oggi ancora il moto di quei che han vinto si propaga h o a remoti angoli di provincia, con la forza di una legge fisica, e crea gli eroi della sesta giornata.

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E da sperare che la tragica catena di odii e di morte sia epezzata; che non si seminino ancora altri germi di futuri con- flitti; e che l'atmosfera di libertà, in cui prosperano tutte le forze civili, non sia turbata da tentativi di rivincite né da spirito d i sopraffazione. La speranza che sarà superato questo residuo di violenza, non ci deve venir meno; il disperare e il mancar d i fiducia è il peggior degli stati d'animo di un uomo o di un popolo, perché allora cessa l'azione elaboratrice, reattiva e risa- natrice; e questo nessun italiano pensa che possa avvenire in

.Jtalia. Tanto più che nel nostro paese, per quella civiltà b'imil- lenaria, che sempre si rinnova, vi sono tante forze accumulate nel nostro spirito e nell'intimo della nostra razza, che non è lecito mai disperare. Oggi di fronte a vecchie volontà deboli e oscillanti vi sono volontà sicure e giovani, che ad ogni costo tendono a superare la crisi, a vincere il travaglio e a sollevare l e sorti del nostro paese. Questo atto di fiducia in noi stessi è necessario, perché altrimenti sarebbe inutile domandare che lo .stato italiano venga riformato per meglio rispondere alle nuove esigenze; sarebbe impossibile potere affrontare i problemi eco- nomici e finanziari che ci affaticano; dovremmo pensare che l'attuale fase politica avrebbe uno sbocco ancora tormentoso e difficile, e che il periodo di ricostruzione sarebbe purtroppo lon- tano. Noi non solo ci rifiutiamo a pensare così, noi aggiungiamo =n altro sforzo ideale e volitivo, operiamo ed opereremo come .se la ricostruzione fosse in atto, come se il tentativo dell'attuale governo, sbocchi o no in uno stato idealmente diverso che essi chiamano stato fascista, fosse il tentativo che attraverso le for- me convulsive possa sboccare nella nuova costruzione statale.

A ragione oggi il problema economico e finanziario preme 'l'opinione pubblica; esso è immanente ed ha i lati insolubili. Ad esso è legata gran parte della sorie dell'Europa, e per 1'Ita- lia la vita stessa della nazione. Esso è stato aggravato nel for- iunoso dopoguerra; oggi il clima politico del nostro paese ne

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sforza la soluzione, una soluzione, qualsiasi soluzione, e quindi vi subordina, nel senso semplice e qualche volta semplicista del- la massa, ogni altro problema. Lo stesso problema della libertà, della costituzionalità, non ha nella pubblica opinione un valore' attuale, e non pochi oggi sembrano perfìno voler fare getto d i queste preziose e vitali conquiste per superare il problema in- combente centrale. Senza abbandonarci a forme di esasperazio- ne, senza forzature anticostituzionali, guardiamo il problema in faccia e facciamocene un concetto esatto.

Anzitutto, il problema è quello del bilancio dello stato. Si deve arrivare al pareggio. Due le vie: economie e tributi; lo ammettono tutti, ed è una frase semplice; I1 difficile sta nel realizzare anzitutto le economie; ma è più difficile avere in ciì, una direttiva politica e una valutazione amministrativa. I car- dini posti dalla legge dell'agosto '21 sulla semplificazione della burocrazia, han fruttato poco; oggi quel lavoro è spazzato via e si comincia daccapo. Quali le direttive rimesse in primo pia- no? Bisogna distinguere il residuo delle spese di guerra e del dopo p e r r o ; primz MeOu, poi De evi e Paratore ire dibposero una buona parte di liquidazione; rimasero varie questioni fuori bilancio ancora oscillanti, molte missioni e spese non bene ri- viste nei ministeri della guerra e della marina, e parte ancora della cessione o vendita del materiale residuato, ove il saccheg-. gio è stato enorme e non cessa neppure adesso. Tutto ciò pu& dirsi stralcio e liquidazione che toglierà un peso ancora note- vole e darà altre entrate; comunque non resta che una direttiva di risanamento rapida e seria. Gli organi statali sono impari ai ciò; ma con mano ferma si arriverà a chiudere un conto pe- sante, e a valutare in d e e t i v o il passivo dello stato.

La riforma della burocrazia centrale e periferica ha più un carattere di semplificazione di servizi e di decentramento, che quello puro d i economie. Il governo, sotto l'assillo della pub- blica opinione e per l'impegno che ha preso, deve arrivare a. pratici e seri risultati. I nostri criteri in proposito sono chiari: non ho l'impressione che siano chiari quelli del governo; in un punto si conviene, nello smobilizzo di enti, consorzi, unioni e simili, creati attorno allo stato, parassiti di esso, senza respon- sabilità e con confusione di funzioni e con turbamento deIl'eco-

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nomia statale. Però non basta distruggere, se non si hanno i criteri della distinzione tra funzioni statali e funzioni locali, tra ragione politica e amministrazione, tra economia pubblica ed economia privata. E qui non possiamo tacere la preoccupa- zione che abbiamo per la confusione che diversi fanno anche oggi fra stato e nazione e diventano statolatri, perché così cre- dono di difendere la nazione; la quale vive di tutto il complesso dei suoi organi, nella distinzione delle funzioni e nella gerar- .

chia dei fini, entro lo stato, che ha in sé i diritti di sovranità e le ragioni supreme della vita nazionale. Guai se la riforma amministrativa rimane come .un rimaneggiamento di organi sta- tali, e ripete l'errore di altri accentramenti e di altra burocra- tizzazione: le economie saranno dubbie, ma la rifoma sarà asso- lutamente mancata.

Le principali fonti delle economie sui bilanci, oltre i lavori pubblici, sono le ferrovie e le poste. Per questi servizi è sorto subito il problema della concessione ad imprese private; e la discussione e gli studi continuano. Però, a parte ogni conside- razione di merito, sarebbe stoltezza oggi fermare i lavori per il riordinamento economico di tali aziende e l'introduzione di economie per diminuire il passivo alterato da ipertrofie, da in- fluenze politiche e da falsi criteri amministrativi, per portare così il passivo al vero e reale effettivo; affinché l'impresa pri- vata non speculi a danno dello stato sui margini di una errata amministrazione.

Inoltre, prima di decidere tale passaggio, a parte la valuta- zione squisitamente politica di alcuni servizi, come i servizi principali di telegrafo e di posta, s'impone la necessità di valii- tare il rapporto fra le condizioni economiche del paese oggi e la prospettiva dello svilupo di produzione domani, per non ca- dere nell'errore di vincolare e cristallizzare i servizi pubblici con scopo puramente redditizio, come avverrebbe per molte ferrovie. Infine, è da affrontare definitivamente il problema del- la coordinazione economica e tecnica di tutti i servizi di tra- sporto, i ferroviari, gli automobilistici, i mercantili e gli aero- nautici, per un necessario risultato di sintesi. Tanto più è di& cile operare ciò oggi, in quanto il mercato della moneta è oscil- lante e instabile e v i si ripercuotono in modo straordinario le

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fasi della politica internazionale. Per industrie quali le telefo- niche e le ferroviarie, che hanno l'estero come mercato obbli- gatorio, almeno in parte notevole, la valutazione oro per affari del genere sarebbe un presupposto necessario alla contrattazio- ne con l'industria privata; ma in questo senso il problema ac- quista una portata così larga e una direttiva così vasta, che non può esser risolto nel particolare studio dell'azienda ferroviaria o telefonica, ma investe insieme questioni di economia generale e di politica monetaria.

Tutto ciò esige tempo: il dissesto di un paese come il no- stro si può superare solo se tanto l'economia privata nazionale che l'economia privata estera constatino e apprezzino gli ele- menti di fiducia e di serietà nell'amministrazione dello stato; non quando nella fretta di abbattere e di improvvisare si dà campo alle speculazioni impure e ai tentativi di accaparramento. Si è detto che in un anno le economie debbano arrivare a circa due miliardi; ciascuno se lo augura, e per quanto può, deve contribuire al risanamento del bilancio.

Nessilno però deve credere c-e ci6 possa avvenire sul serio senza una forte direttiva politica che, all'infuori dello stesso campo stretto della riforma amministrativa e burocratica, impri- ma sicurezza al governo, gli dia la forza, lo ambienti nel ripri- stino dell'ordine, lo circondi della simpatia che dà la libera adesione o la libera. critica, perché possa affrontare quella som- ma di intricati interessi che gravitano sullo stato e che vi fa- ranno forte resistenza. Non è il nodo gordiano che si taglia con la spada; è la valutazione oggettiva delia forza delle idee e della volontà, che arriva a risolvere i più intricati problemi.

Ma dove la direttiva politica è ancora più visibile, non solo come sostanza amministrativa, ma come espressione delle cor- renti e degli interessi generali, è nella riforma tributaria. Se le economie daranno due miliardi, i tributi dovranno dare al- meno tre miliardi per arrivare a tentare il pareggio: hoc opus, hic Zubor!

Gli agrari vorranno che paghino gli industriali, questi fan-

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no la campagna perché siano colpiti gli agrari; gli uni e gli altri preferiscono che siano colpiti i consumatori, e questi di rimbalzo insist,ono contro i produttori. La direttiva tributaria che colpisca i margini, pur troppo ristretti, della produzione e del consumo, sarà quella che con ogni prudenza dovrà trionfare. Però mentre la riforma Meda resta sempre >l sistema più razio- nale ed equo dei tributi diretti, si impone la revisione cata- stale, con metodi rapidi, per perequare realmente lo sforzo della contribuzione diretta e coordingrvi razionalmente i tri- buti locali, il cui progetto già pronto. è degno di ogni consi- derazione.

Il tentativo di aumentare le tasse sui consumi non potrà essere effettuato su larga scala, per gli alti costi della vita; solo potrà reggere un parziale ripilstino del dazio sul grano, date le condizioni migliorate dei cambi. L'imposta sui salari renderà poco e si ripercuoterà sulle industrie. Ora, se il governo inten- de fermarsi sopra un ragionevole equilibrio fiscale, avrà di sicu- ro il consenso di tutte le classi; ma se crede di poter accentuare le forme di tassazione indiretta sperando di difendere il capi- tale, creerà un turbamento economico, che si ripercuoterà an- che nelle condizioni politiche del paese.

I1 problema del bilancio è problema di economia nazionale. Sopprimere una spesa è facile, ma se questa spesa' servirà a com- pletare un'opera redditizia, quale l a bonifica, che sarà all'agri- coltura fonte di produzione e al fisco aumento di imposta, la spesa risparmiata è un danno. Se per esempio si sopprimesse la spesa per la lotta antimalarica, che salva ogni anno centinaia di migliaia di lavoratori dalla morbilità e dalla mortalità, a parte ogni considerazione di solidarietà umana, si sopprimereb- be un capitale che frutta al paese. Né certe spese è possibile sopprimere, ma solo far meglio rendere, come quelle per la rico- struzione materiale e produttiva delle terre liberate e redente, non solo per dovere patrio, ma anche per interesse di economia generale. E se la pressione tributària sull'agricoltura sarà così forte da assorbire i margini al risparmio destinato al reimpiego, questa si intisicherà a danno della produzione e del lavoro, ma anche a danno del gettito delle imposte. Tutto ciò serve a chia- rire come lo stato nelle sue direttive economiche e fiscali non

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può né deve inaridire le sorgenti della produzione, né rendere deboli le forme del lavoro.

La guerra ha reso povera la nostra Iialia; le sue riccliezae non esistono che nella valutazione interna; la bilancia commer- ciale è passiva; i debiti pesano su tutta l'economia nazionale; occorrono anni intensi di lavoro, di ordine, di sacrifici enormi, per riportare il paese alla sua efficienza naturale e al suo reale sviluppo. Però in Italia vi è una ricchezza, una grande ricchez- za (che è anche morale),, quella delle braccia dei suoi figli lavo- ratori. Oggi sembra, dico sembra perché non è, almeno non deve essere, che si valuti assai più la forza del capitale che quella del lavoro; che si.crei perciò un contrasto all'inverso come rea- zione del contrasto economico post-bellico esasperato dalla lotta di classe. Noi abbiamo fiducia nel lavoratore italiano, nella sua forza di organizzazione, di produzione, di risparmio e di espan- sione; noi abbiamo fiducia nel lavoratore italiano, che nei gior- ni della guerra e del pericolo è stato il baluardo con il proprio petto contrG la pressione dell'esercito nemico. La deviazione bolscevizzante non ha toccato, in gran parte della massa ope- raia, né i.sentimenti di moralità domestica e religiosa, né quelli di nazionalità, né quelli di amore e sacrificio al lavoro. Il no- stro lavoratore ha l'animo plasmabile a sane idealità, e deve essere elevato, più che nelle sue condizioni economiche, nella sua funzione civile. Per questo noi invochiamo la fine della se- minagione dell'odio e della vendetta, e auspichiamo una politi- ca sociale equilibrata e serena.

I1 movimento sindacale e cooperativo, che tenta la migliore valorizzazione economica e tecnica del lavoro, la spinta alla tu- tela e formazione della piccola proprietà, il moto favorevole alla trasformazione, ove possibile, del salariato in partecipante alla produzione, sono e restano punti di conquista operaia, an- che nel facile diniego e nella inconscia reazione; perché la for- za del lavoro, come tutte le vive forze della natura, se compressa risorge, se spinta reagisce, se mortificata ritorna. Ai lavoratori è legata in gran parte la sorte dell'agricoltura, che in Italia è ancora la ricchezza più sicura, quella che solidamente produce e che paga senza nulla avere dallo stato, quella che ricomincia a creare il piccolo risparmio e a rifare la nuova economia. È da

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augurare che agricoltori e lavoratori si diano la mano per il -

rifacimento del nostro paese, e si difendano insieme dal tenta- tivo di isolamento politico e di oppressione tributaria, che altre forze, politicamente più attrezzate e più trafficanti, possono insi- nuare attorno all'azione governativa e legislativa.

A questa sono connessi i tre più importanti problemi di politica economica: l'azione bancaria per lo sviluppo delle in- dustrie redditizie e non parassite, il regime doganale, la stabi- lizzazione monetaria. Tutte le riforme tributarie e le economie statali, la rivalutazione delle forze del lavoro e lo sviluppo del- l'agricoltura, gravitano attorno a questi tre problemi, che in gran parte dipendono dall'azione statale.

Ieri avevamo la preoccupazione di un governo tardigrado e insensibile a questi problemi; oggi abbiamo l'impressione di persone impreparate che hanno fretta; in Italia sono pochi i tecnici, al di fuori delle rappresentanze degli interessi privati, e oggi molti di essi han perduto autorità e credito. Lo sforzo sarà quindi più arduo e più meritorio di fronte al paese, che aspetta di sentirsi salvato dalla crisi che preme da o b i parte.

Oggi più che mai ogni politica interna ed economica è su- bordinata alla politica estera: gli italiani ne han fatta poca e male, ed è un nostro torto. Il nuovo ministero ha fatto bene a dare alla politica estera maggiore importanza.

I1 problema economico per noi soverchia gli altri problemi. Le riparazioni e i debiti entrano nel nostro giuoco in prima linea, formano un unico problema, inscindibile. I1 primo a par- lare così è stato Paratore, ma non ebbe fortuna; meglio ancora

. e più chiaramente Mussolini. Il partito popolare italiano già da più di un anno è andato insistendo su questo ordine di idee con memoriali e con affermazioni; fu accusato di gemanoma, ed anche nostri amici francesi ci ebbero in sospetto, quando abbiamo sostenuto una politica di risanamento economico del- l'Europa, i cui rimbalzi si sentono assai più da noi, che siamo

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i più poveri dell'lntesa. Se l'Italia potesse arrivare al compenso fra crediti tedeschi e debiti anglo-americani, pur nulla pren- dendo di riparazioni, avrebbe tale sollievo e creerebbe tale fi- ducia all'estero, da avere il primo sano inizio della sua rinascita economica.

Ma non basta: l'Italia deve comprendere che nella ricostru- zione dell'economia dell'oriente europeo essa ha un interesse chiaro e preciso: quello di poter entrare nel sistema economico degli stati danubiani, rivalutando così il bacino adriatico. Non abbiamo vantaggio alcuno ad acutizzare i nostri rapporti con la Jugoslavia, né utilità a fare una politica equivoca con la Pic- cola Intesa; sì bene ad influire per la formazione di una eco- nomia degli stati successori, che possa ricreare il mercato nostro con loro in una larga zona doganale. A questa visione econo- mica devonsi coordinare le varie questioni politiche, che po- tranno oggi avere la soluzione intermedia dei trattati già fir- mati, ma si avvantaggeranno di uno spirito d i cointeresse che farà superare anche antipatie di razze.

Altro punto di politica nostra è il Levante, ove bisogna ave- re il coraggio di rinunziare a pretese economico-territoriali, qua- li il « tripartito » che desta antipatie, né potrà giovarci in realtà, perché non abbiam capitale da esportare; invece dobbiamo riprendere i nostri traffici con il Levante, ed aumentare la no- stra influenza culturale e religiosa; dobbiamo sostenere le no- stre colonie con politica ferma perché insieme si ottenga il ri- -

spetto, necessario *fra i popoli levantini che disprezzano il de- bole e l'infido, ma stimano il forte e sicuro; se, come per l'Italia, non han da temere né mandati (contro i quali bisogna ripren- dere la libertà di indirizzo politico) né. pretese territoriali in Asia, né soverchiamenti politici nella Turchia europea.

Certo che il perno della futura politica pacifica in Europa è l'atteggiamento francese in occidente e quello turco in oriente. L'Intesa è in una situazione tragica: se cede alle pretese francesi nella Ruhr, può determinare un terribile triangolo Germania- Russia-Turchia; e se sforza la situazione turca, può riaccendere la guerra nell'estremo balcanico, con evidente ripercussione europea. L'incognita nell'un caso e nell'altro è la politica della Francia, che certo non si assumerà la responsabilità di una nuova guerra.

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L'Italia, nelle difficili ore europee non può, per la nostra salvezza, assumere atteggiamenti bellici: essa è pacifista e deve rimanere tale. Questa corrente di ~ubblica opinione la salverà da avventure e da incognite terribili. Perciò ha il dovere di man- tenere la sua politica estera nel campo economico, e di assicu- rare agli allogeni dentro i nostri confini una politica seria e di rispetto, che non sollevi, nei difficili momenti di guerre e di urti, futuri pericoli di irridentismi dannosi per la patria nostra.

Forse la funzione futura di questa Italia, che nulla ha avuto dalla guerra, né colonie, né mandati, né riparazioni reali ed effettive, anzi ha avuto le più doloranti umiliazioni per Fiume e la Dalmazia, sarà domani quella di non essere più l'ultima delle grandi potenze militariste e imperialiste, ma la prima delle altre potenze europee, con una funzione di equilibrio e di paci- ficazione che ne solleverà le sorti nel nostro continente e nel mondo americano. Dico nel mondo americano, perché noi oggi dobbiamo fare sul serio verso l'America una politica degna del nome italiano. Non è solo la politica di emigrazione, che noi dobbiamo sempre più valorizzare nel migliorare i nostri organi consolari e le opere di assistenza e di protezione dell'emigrante; non è solo la politica economica, che valga ad attirare capitale americano nel migliore sviluppo delle nostre industrie e dei la- vori pubblici; ma è politica generale di indirizzo, che riconcilii l'America allJEuropa, che ne sostenga le direttive pacifiste, che tenti la rivalutazione del nostro mercato, che riprenda la funzione di contatti culturali. E non solo nel Nord America, ma anche nel Sud America: che ha e avrà una funzione impor- tantissima nel risorgimento europeo, come un ritorno di forze che la madre ripete nell'unione più salda con i figli lontani.

Queste linee di politica estera perfettamente italiane, so- stenute sempre dai popolari, per essere bene attuate devono esser seguite con costanza e con accorgimento. Invece è stato un torto della consulta la mancanza di organicità e di conti- nuità; è da augurare che oggi palazzo Chigi (ove il ministero si è trasferito) acquisti la nomea di riprendere una linea poli- tica, che, per variar di ministeri e per cambiare di correnti e di partiti, rimanga sicura e immutata. La politica estera non può essere politica di un partito, è politica di nn popolo, è al di

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sopra delle oscillazioni interne, è concezione di politica della nazione. I partiti manifesteranno le loro vedute, che poi si inca- nalano nell'alveo della storia della nostra politica e nel cro- giolo della nostra diplomazia; e la risultante non può essere altra che la logica conseguenza delle premesse storiche della nostra azione. Oggi più che ieri, la vita economica interna è satura di problemi esteri e il ministero degli esteri deve avere a ciò l'attrezzatura necessaria, come organo di elaborazione e di continuità politica ed economica, nelle immancabili interferenze della nostra economia con quella internazionale.

I problemi dell'emigrazione e quelli coloniali sono per noi problemi esteri, così occorre guardarli; perciò è dannoso un ministero delle colonie autonomo, che non può fare ammini- strazione perché c'è poco da amministrare, e bastano i gover- natorati con un controllo centrale; e non deve fare politica, per- ché questa spetta al ministero degli esteri. Così è dannoso un commissariato autonomo per l'emigrazione, ed è bene che ri- tomi nel rango degli organi dipendenti dal ministero stesso (pur con propria attrezzatura tecnica per l'assistenza degli emi- granti), per la giusta valorizzazione degli italiani all'estero, che, pur vivendo lontani, sono figli d'Italia e debbono sempre poter fare onore alla madre patria.

Tracciate così le linee della ricostruzione amministrativa. finanziaria economica e politica delllItalia, è superfluo riaf- fermare quel che abbiamo discusso, cioè che occorrono un go- verno e un istituto parlamentare che abbiano la fiducia del

paese; però questa larga fiducia non può essere effettiva, né la ricostruzione basata su fondamento saldo e reale, senza la uni- ficazione e la vivificazione della coscienza nazionale nei suoi

valori morali e nella efficienza delle forze spirituali.

Questa non è stata ancora raggiunta; la stessa guerra ci ha uniti di fronte al nemico, ma sembra abbia acutizzato i dissensi

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interni; il movimento nazionale, il travaglio dei partiti, lo stesso disordine pubblico nelle sue fasi anarcoidi, segnano un moto interno di revisione e un tentativo di unificazione ancora

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incerto e confuso. Tutto il lungo dissidio fra stato e chiesa in Italia ci portò

alla lotta contro il papato, al tentativo di protestantizzazione, al laicismo scolastico, alla poca valorizzazione delle missioni estere, cui furono contrapposte le scuole laiche, al concentra- mento e trasformazione delle opere pie, a l tentativo di leggi sul- la del matrimonio civile e del divorzio, all'asten- sione dei cattolici nella vita politica, al periodo bruniano, alla preponderanza massonica nei ministeri, all'articolo 15 del patto di Londra. Ci vollero cinquanta anni di attesa e di sofferenze, la politica mite e prudente dei papi, la guerra mondiale, e infine anche la costituzione del partito popolare, per togliere all'opi- nione pubblica l'impressione che cattolicismo e nazione italiana fossero antitetici, e che la lotta anticlencale, che aveva profonda- mente diviso il nostro popolo, fosse il clima adatto a sviluppare i valori nazionali del nostro paese.

Proprio questa lotta fece sviluppare in Italia più forte che altrove un socialismo materialista anticristiano e antinazionale. Perché, mentre nel campo educativo la scuola cristiana era ban- dita, e quindi non esercitava sull'animo della gioventù popo- lana il suo benefico influsso morale, sul terreno politico ed eco- nomico il socialismo non fu contrastato da nessuna corrente vali- da e forte che potesse attirare la fiducia del popolo. L'unico ten- tativo fu quello della democrazia critiana, la quale venne meno sia per mancanza di ambientazione politica, sia per difetto di sicura impostazione religiosa, ma più che altro per l'avver- sione del conservatorismo clericaleggiante, che, come oggi ri-

torna ad opporsi alle tendenze sociali del partito ~ o ~ o l a r e , così ieri mal tollerava la difesa del lavoratore in nome del principio cristiano.

La discussione sulla teoria della (t libera chiesa in libero stato » di Cavour, e cc sulle parallele » di Giolitti, risorge ogni volta che si cerca un orientamento morale della vita nazionale. A parte le condizioni specialissime dellYItalia in confronto al papato, la cui forza morale non può essere subordinata a visioni

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politiche e particolari nella universalità della sua missione, gli stati formati da maggioranze cattoliche, come ancora è il mondo latino, europeo e americano, non possono pretendere di avere una chiesa, con caratteristiche nazionali, asservita a sé come strumento di dominio; né possono sopportare la lotta contro la chiesa, cioè con una forza morale autonoma qual è la cattolica, senza profondamente veder turbati i gangli della vita nazionale come awenne in Italia ed in Francia; debbono invece aver rap- porti con una chiesa libera nella sua alta missione spirituale e nella sua funzione educativa e morale, regolando d'intesa pro- blemi misti nelle caratteristiche giuridiche ed economiche; e, senza che venga lesa l'autonomia ecclesiastica, contribuiscano al migliore svolgimento della vita statale. E questo che oggi si sen- te come una nuova atmosfera che circonda il nostro paese? B l'inizio fortunato di una rivalutazione nel campo della cultura, della scuola e del giure, come pure dei valori della chiesa catto- lica? Noi lo auspichiamo, perché non invano i cattolici d'Italia amanno, dal '48 in poi, nei periodi duri di persecuzione, di oscuro avvenire, lottato e pregato; non invano, dopo cinquanta anni, i popolari avranno nella vita pubblica formato a tali pro- blemi l'ambientazione necessaria, lavorando modestamente ma con convinzione sincera, e curando che ciò rispondesse comple- tamente agli interessi morali dell'Italia.

Certo, di questa nuova atmosfera (che auguriamo le passio- ni umane e gli interessi particolaristici e di setta e i pregiudizi di cultura e di tendenza politica non valgano a turbare), il paese ha tutto da avvantaggiamene, specialmente attraverso la realizza- zione della libertà scolastica, h oggi manomessa, e della possi- bilità di una maggiore diffusione delle opere pie di assistenza e di beneficenza, ispirate a criteri cristiani e al rispetto reli- gioso. Però a un patto: che nessuno pensi di monopolizzare la chiesa a scopo politico ed economico, a difesa di interessi di classi e di dominio di partiti. Ciò palche volta è stato rimpro- verato a noi; ma noi fin dal sorgere cercammo, e il Vaticano e i vescovi più volte cercarono, di chiarire le posizioni, ricono- scendo per noi la nessuna dipendenza e la più perfetta auto- nomia; e noi ci siam sempre guardati dal parlare in nome della religione, pur parlando della religione, come ogni cittadino e

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ogni credente sa e deve fare. Ma quello che diciamo per noi, lo ripetiamo anche agli altri, specialmente alle classi dirigenti e abbienti, che tollerarono (e spesso aiutarono) i movimenti proletari anticristiani e antinazionali, almeno nel passato; ma che invece pretesero che la chiesa combattesse e sconfessa8se quel movimento proletario che non è da oggi, e che oggi, senza confondersi col partito popolare italiano, trae origini dalla me- desima scuola cristiano-sociale, che ha in tutto il mondo civile i suoi studiosi, i suoi organizzatori e proseliti, con il medesimo diritto di cittadinanza e di rispetto. Peggio sarebbe che qual- cuno pretendesse operare in modo che la chiesa sembrasse al- leata a tendenze politiche ed economiche; neppure l'apparenza oggi potrà esservi in Italia nei riguardi del papato, e per la sua alta posizione spirituale e perché indipendente dagli inte- ressi di stato, che un tempo lo potevano legare a combinazioni politiche per la tutela dello stato pontificio. Non sarà difficile però determinare nel popolo stati d'animo di turbamento e di sospetto, come nel passato, attraverso atteggiamenti particolari- stici di cattolici e di clericaleggianti, come awenne in Francia, dopo il consiglio autorevole di Leone XIII al ralliement, sì da creare l'ambiente adatto allo sviluppo dell'anticlericalismo po- litico. Questo awertimento vale per gli altri, ma vale anche per noi, perché in Italia non dobbiamo affatto perdere quello che in tanti anni si è acquistato, anzi dobbiamo consolidarlo: cioè lo spirito di fiducia e di benevolenza verso la chiesa, anche da parte di coloro, che sono purtroppo molti, che non sono cre- denti né religiosi, ma che valutano largamente lo spirito reli- gioso nelle nostre famiglie i le vitalità spirituali del nostro pae- se; e sanno che questo spirito giova assai allo sviluppo morale della nazione.

Gioverà all'unificazione morale dell'Italia il tentativo del- l'unità sindacale? E sarà possibile? Guardo la questione dal lato morale: purtroppo non reputo possibile il tentativo, perché il nostro ambiente dà un forte clima politico anche alle questioni economiche; e la solidarietà è difficile sul terreno economico, quando il sentimento di prevalenza e di dominio (che è spirito

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politico) fraziona la nostra massa operaia. Tanto più che in Ita- lia (per la modesta cultura di gran parte dei ceti operai) i capi e gli organizzatori operai vengono spesso dagli altri ceti bor- ghesi, professionisti ed impiegatizi, ove il senso di clientela e l'individualismo dominante sono assai sviluppati. Alla buona educazione sindacale potrà contribuire molto lo stato con i l ri- conoscimento giuridico delle classi e le loro rappresentanze di- rette nei consigli centrali e locali; e con lo sviluppo dell'istru- zione professionale, operaia, industriale e agricola, quale -è ne- cessario tanto per gli operai che restano in Italia quanto per quelli che vanno all'estero. -

Una unità sindacale che prescinda dalle concezioni econo- miche e politiche è un non senso; la difficoltà centrale sta ne1 dogma della lotta di classe e nello spirito dell'intemazionale; dico dogma, tale è la cieca fede dei socialisti puri. Appena il movimento socialista si attenua nel *i-iformismo e si confonde nel pragmatismo politico, allora il fondamento pregiudiziale per- de la caratteristica di dogma e rimane uoa pura valutazione eco- nomica. Quando questo stato d'animo sarà diffuso (e non lo è), la discussione sarà possibile.

La concezione spiritualista della vita di fronte alla conce- zione materialista, divide gli operai bianchi dagli altri: essi fon- dano la loro azione sulla scuola cristiano-sociale. Questo atteg-

, giamento ieri era chiamato confessionalismo, e metteva i nostri sindacati al bando; Oggi la bamera è stata superata, benché non si sia ancora ottenuta la parità di posizioni nella vita organizza- tiva, anche per la ostilità dei datori di lavoro. Il passo fatto è notevole; però si esclude; per le pregiudiziali programmatiche, la possibilità di fusione e di confusione. Quando lo spirito di

3 violenza e di dominio dei sindacati fascisti (dovuto alla satura- zione politica del momento) andrà ad attenuarsi, allora la clas- se operaia si troverà con maggiore libertà (sia pure nei propri organismi confederali specifici) sopra un terreno di tecnica eco- nomica, che può determinare i contatti e attenuare le sfiducie e le diadenze.

L'idea nazionale oggi va superando anche nel campo o p e raio quella internazionalista; però resta ancora la diffidenza in molti che lo spirito nazionale sia spirito della classe dominante,

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contraria alle aspirazioni sindacali dei lavoratori. Occorre supe- rare questo pregiudizio, che fa purtroppo ancora valutare Mo- sca e la terza internazionale, nonostante gli orrori della trage- dia russa.

Sarà un nuovo indirizzo educativo delle masv, un nuovo orientamento politico, e più che altro l'esperienza pratica che farà valutare il popolo lavoratore armonicamente con tutte le altre classi, al di fuori di privilegi e di oppressioni; che potrà servire a rifare uno spirito unitario nazionale, non a quelli come noi, che mai si venne meno a questo sentimento che fu gelosa- mente coltivato e ispirato nella nostra concezione cristiana, ma a coloro chc lo negavano ieri nell'infatuazione mitica dell'av- vento proletario internazionale.

Qualcuno ci accusa di fare anclie noi dell'internazionalismo, ed è accusa fuori posto. I1 nostro movimento internazionale, sia quello politico, sia quello economico e sindacale, non nega la patria né la nazione; la riafferma e la valorizza come unità viva nella famiglia dei popoli, e nella interferenza di interessi, di aspirazioni e di cultura.

Ho voluto notare le 'difficoltà operanti contro e le altre forze operanti a favore dell'unità sindacale, perché lo spirito pubblico si orienti verso una maggiore considerazione del pro- blema della classe lavoratrice, che è la maggioranza degli ita- liani, che ne è la forza di lavoro e di espansione, e che deve essere cementata, non solo nella formazione culturale e nella educazione civile ed etico-religiosa, ma anche nella solidarietà del lavoro.

* t

Un'altra classe, oltre l'operaia, è chiamata a contribuire all'unificazione della coscienza nazionale nei suoi valori morali e nella efficienza delle forze spirituali; ed è la classe media, dei professionisti, dei tecnici, dei piccoli e medi produttori, degli impiegati, dei cittadini. Essi, di fronte all'atomismo economico - estranei alle lotte fra capitale e lavoro, - han risentito più che altri le difficoltà della vita, han cercato appoggio o in nuclei po- litici o in forze sindacali, polarizzandosi qualche volta verso il movimento socialista, spinti dalla speranza di poter superare

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l'aspro contrasto economico della lotta quotidiana. Essi subisco- no più fortemente che altre classi il naturale e rapido sposta- mento di ricchezze da molte in poche mani, che avviene nelle guerre, in tutte le guerre,, e che continua per buon tratto dopo le guerre, crepdo di rimbalzo il collasso economico dei ceti me- di, specialmente in nazioni relativamente povere, come la nostra.

Ebbene, i ceti medi - sotto l'assillo, aspro e duro, della loro crisi economica - acquistano, per la loro cultura e la loro esperienza produttiva, per il modesto tenor di vita e lo spirito di risparmio, una potenzialità costruttiva superiore alla loro po- tenzialità economica. Essi danno la maggior parte dei loro uo- mini alla cultura, alla tecnica, all'amministrazione, all'industria e all'agricoltura direttiva, alle professioni liberali, al governo, a tutti i centri più vitali e più delicati del nostro congegno nazio- nale e statale. Questi ceti medi sono quelli che rinnovano le classi dominanti, che rilevano le correnti di educazione e di attività, sui quali si deve contare per l'avvenire del nostro paese; a questi ceti occorre dare una forza politica, che è mancata fin oggi, per- ché divisa fre 14 graxìde i~diistria da un lato e r'oiganiszazione del lavoro manuale dall'altro. Forza politica che viene da una sana concezione della vita nazionale, da una formazione cultu- rale salda e severa, da una educazione del carattere robusto e forte, da una valorizzazione economica autonoma, non sfrutta- trice, non parassitaria, ma neppure obliata e offesa dall'indirizzo generale della politica.

La spinta economica, nel disagio presente, - secondata dal- l'opera equilibrata del governo, dalla rigida amministrazione del- l'erario dello stato e dei comuni - desterà energie nuove; men- tre la spinta politica delle correnti rinnovatrici - fra le quali non è secondo ad alcuno il partito popolare italiano, che nei ceti medi ha trovato sempre largo consenso e lo spirito vivace della nuova gioventù studiosa - potrà dare al paese un notevole con- tributo per la elevazione dei valori morali della nostra patria.

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Ecco il cammino che sta davanti anche a noi popolari nel difficile momento. Dico nel difficile momento, non solo perché molti, e non solamente dei nostri, sono turbati ancora dagli av- venimenti politici che sorpresero il paese, ma anche perché non pochi di campo diverso, anche se non awersi, credono che il compito dei popolari (se mai, bontà loro, ce ne assegnino uno ,

nella storia d'Italia) sia ormai terminato con l'awento dei fa- . scisti, oppure sia assai limitato e subordinato a un'azione di pura manovra e di discreta valutazione, come ai tempi delle alleanze clerico-moderate e ai patti gentiloniani di caratteristica eletto- rale. La differenza notevole fra quelle posizioni puramente am- ministrative ed elettorali dei cattolici di allora, e la consistenza e le finalità del partito popolare italiano, sta in questo che allora non esisteva un partito politico dei cattolici, per le ragioni già note, e quindi le posizioni prese allora erano di pura difesa dei principi e degli istituti religiosi e pii, di fronte alia politica an- ticlericale o laica. I1 partito popolare italiano è invece un par- tito politico, ha la sua base prevalente nelle classi medie e di cultura e nelle classi lavoratrici, ha carattere interclassista e sin- tetico, ha un programma, non solo sociale basato sulla demo- crazia cristiana, ma un programma amministrativo, tributario e istituzionale; ha quindi una sua ragion d'essere e una sua vita- lità: oggi è centro, domani sarà minoranza, potrà anche avere la direttiva della maggioranza. Nessuno può oggi ipotecare l'av- venire, né noi né gli altri. Ecco il ~ e r c h é della sua autonomia di partito e le ragioni della sua esistenza.

Questo programma e questa autonomia di partito evidente- mente ci creano la lotta degli awersari e la fiducia' degli amici, e ci impongono obblighi di disciplina e di rielaborazione del nostro pensiero in confronto agli awenimenti; ma ci danno an- che il diritto di pretendere di essere rispettati con le nostre idee e per le nostre idee. Nessuno può negare che noi abbiamo sempre - e oggi più che mai - piegato le esigenze di organizzazione alle superiori esigenze della vita nazionale; e chi dice diverso :ha il torto di non conoscerci e di combatterci per partito preso.

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A quegli amici - pieni di zelo ardente e di fede nel par- tito -- che hanno più volte accusato i dirigenti e i parlamentari di transigere dalle nostre direttive, debbo dire molto lealmente che - a parte la valutazione di errori, di che è intessuta tutta la vita umana, e che spesso hanno tanto la faccia dell'errore quanto quella della ragione, secondo il punto dal quale si guar- da - nessun nostro organo direttivo e responsabile è venuto meno alla disciplina e alla fede nel partito, nella sua equazione con il bene nazionale per il quale è sorto. Se il nostro gruppo parlamentare spesso non ha potuto far valere alla camera la nostra concezione statale e i nostri postulati sociali ed econo- mici, ciò fu perché, divenuto a un tratto grande di cento de- putati, dovette assumere il ruolo di collaboratore necessario ed incomodo insieme. Se nel 1919-20 il nostro gruppo rinunziava a questo ruolo, la marea bolscevizzante avrebbe soverchiato i governi e precipitato il paese nell'anarchia; se rinunziava nel 1921-22, la camera non avrebbe più potuto funzionare, e le ri- percussioni sarebbero state assai gravi.

L'accusa di estreiuibmo che alcuni, anche ingenui, del campo nostro, ci fanno, e il rimprovero di avere prima combattuto il socialismo e poi tentato (essi dicono) la collaborazione; prima awersato il fascismo e poi accettata la collaborazione; è l'accusa di coloro che non han vissuto intimamente il terribile dopo- guerra italiano, e non comprendono che il gruppo parlamentare nostro ha dovuto inserire nella vita politica italiana tutta una nuova concezione e una nuova azione direttiva, per forza di pe- netrazione pacifica; e senza l'arma del potere dei democratici, partecipare al potere; senza l'arma del monopolio socialista, rom- perne il monopolio; senza l'arma della violenza fascista, resi- stere all'offensiva, pur aiutando la trasformazione politica del paese.

Tutto ciò ha ferito interessi e preminenze (ecco una colpa che ci attribuiscono le clientele politiche, quella di voler do- minare: e ci rinfacciano il veto a Giolitti); ha valorizzato cor- renti sindacali (ecco altra colpa, detta bolscevismo nero o dema- gogia, che ha culminato per loro nel lodo Bianchi); ha dato peso all'azione parlamentare per un richiamo ai valori etici dello vita contro le violenze delle squadre armate (ecco spuntare l'ac-

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ciisa di un collaborazionismo con i socialisti, che la direzione del partito escluse e il gruppo non sanzionò mai). Anche l'ade- sione data dal gruppo parlamentare col voto e con uomini al governo Mussolini, con il proposito di contribuire alla pacifica- zione interna, al ripristino dell'ordine e delle libertà costituzio- naii, è giudicato come un passaggio a destra, nel senso di rinun- zia al nostro programma e alla nostra azione sociale.

No: noi siamo e restiamo popolari e il nostro motto libertas resta come nostra insegna, e il nostro programma, culturale, so- ciale, economico, amministrativo politico, è la nostra mèta.

Errore è il credere che un partito esaurisca le sue forze nel- l'attività parlamentare o governativa. Quell'attività è una parte, la più visibile, la più rilevante, la più difficile e scabrosa, la più insidiosa, ma non è l'unica, e in determinate circostanze non è neppure la prevalente. Se pensassimo così, saremmo allo stesso livello della democrazia borghese che non aveva dietro di sé un partito, ma le clientele.

Un partito è per le idee che agita, per gli interessi morali e materiali che tutela, per l'azione informatrice che crea; e que- sto è al centro e alla periferia, nella vita politica e in quella economica, nella propaganda che sviluppa, nelle battaglie che combatte. E noi le nostre battaglie le dobbiamo segnare, non co- me inutili sforzi, ma come vere conquiste, anche quando non sembra vicino il giorno della vittoria. Così segniamo per noi la campagna della lotta allo stato accentratore e monopolistico co- me battaglia nostra, la prima. Quando era in auge il socialismo di stato, la nostra voce era la sola a echeggiare; la stampa fa- ceva il silenzio attorno a noi, ma il paese sentiva la novità e ci seguiva. Se oggi si arriverà allo smantellamento, ricordiamoci e gloriamoci che siamo stati noi i pionieri. Così per le libertà or- ganiche e le autonomie; oggi i fascisti negano le autonomie, non le sconoscono; la battaglia continua, e verrà il momento del trionfo; anche se altri ne avrà il merito, che importa? la

'

prima medaglia è la nostra. Con decreto-legge, forse fra giorni verrà l'esame di stato. Due mesi fa, a l congresso di Napoli, un fascista che credeva di averne l'anima e invece parlava con la vecchia voce dei democratici e dei socialisti, negava l'esame di stato; oggi l'esame di stato verrà. Chi potrà mai negarci il me-

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rito della battaglia? Noi plaudiamo al ministro Gentile, ma ri- cordiamo la crisi ministeriale del febbraio scorso, ove si rag- giunse con la democrazia il patto sull'esame di stato, sulle linee del progetto Anile, di quellSAnile che lo sostenne al nostro con- gresso di Napoli nel 1920.

Le battaglie per le leggi agrarie oggi sembrano ~erdute , tut- te; dallo spezzamento del latifondo alla costituzione degli arbi- trati agricoli, dalla costituzione delle camere regionali di agri- coltura alla definizione degli usi civici e alla regolamentazione dei patti agrari. Ma, per noi, la battaglia continua; le ragioni oggettive, reali, vere, profonde del rinnovamento agrario lo im- pongono.

Potrei continuare a ricordare la nostra azione per la rifor- ma mineraria e delle assicurazioni sociali, per la registrazione dalle associazioni sindacali e la riforma del consiglio superiore del lavoro (già in corso di realizzazione), per la legge sull'im- piego privato, per il catechismo nelle scuole, per la proporzio- nzle amministrativa, per la formazione della regione.

Chi ha fede muove le montagne: chi ha fede fa proseliti: chi ha fede vince le battaglie.

Oggi, però, tutto è e deve essere coordinato a quel program- ma sintetico di ricostruzione, al quale noi diamo il nostro con- tributo dal nostro posto di combattimento e di lavoro. Se noi possiamo concorrere efficacemente a superare lo stadio rivolu- zionario e di disordine, a far sentire la forza delle più alte e superiori direttive morali e nazionali, a far ritornare il paese nella legalità e nell'esercizio incontrastato delle libertà costitu- zionali, anche quelli che dubitano, per amore o per pregiudizio, della nostra linea di condotta, troveranno che la nostra funzione politica l'abbiamo compiuta. Questo è possibile quando anche noi, nei più difficili momenti, abbiamo fede nei destini della patria nostra. Al disopra di ogni bene terreno e di ogni affetto umano, noi amiamo la patria nostra e la vogliamo risorta. Per questo abbiamo la forza del lavoro e l'impeto della lotta; per -

questo pieghiamo alla disciplina degli eventi; per questo coope- riamo con ogni zelo e sacrificio al bene comune; per questo sen- tiamo i1 dovere, per vocazione e per convinzione, di essere noi, popolari, al nostro posto per il bene d'Italia.

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I L M E Z Z O G I O R N O

E L A P O L I T I C A I T A L I A N A

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I1 discorso fu tenuto a Napoli, ne& Galleria Principe di Napoli, i.! 18 gennaio 1923, a un mese di distanza da quello di Torino, per riuffermme la posizione ricostruttiva del pensiero popolore, e per dure fiduciu al popolo meridionale che, nel suo complesso, non aveva partecipato all'avuentwa fascista.

I l discorso servì a reimpostare il problema del Mezzogiorno, problema sempre d i attualità perché nrai risolto fino ad oggi.

Ricorreva, in quel giorno, il quarto anniversaria della fondazione deL partito.

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Nel programma del partito popolare italiano, fu messa, co- me affermazione fondamentale nel piano politico (la prima volta in Italia) « la risoluzione nazionale del problema del Mezzogior- no 1). Così. è detto al capo V; e nel primo congresso nazionale tenuto a Bologna nel giugno del 1919 fu riaffermato che il pro- blema del Mezzogiorno è di carattere « nazionale )). Questa im- postazione data da noi a nome di un partito - e non più come opinione personale, alla ripresa dell'attività politica del dopo- guerra, - passò ad altri partiti, che in varie forme fecero an- ch'essi simili affermazioni, benché non le avessero inserite nel loro programma; da ultimo anche il fascismo, che sembrava escludere affermazioni credute particolariste come questa, ha sen- tito che al programma del Mezzogiorno deve darsi portata na- zionale.

Però, mentre tale impostazione risponde ad una realtà pro- fonda - che da noi meridionali è certo più sentita e meglio in- tuita - non ha avuto h oggi che una semplice espressione este- riore e teorica, e ciò per la mancanza di una comprensione po- litica del problema medesimo, si da poter creare un orienta- mento sintetico e convergente di tutti quei problemi diversi, tecnici, finanziari, economici e morali, che in una frase signifi- cativa e centrale vengono detti questione meridionale D.

Premetto che per Mezzogiorno intendiamo non solo quello continentale dall'dbruzzo alla Calabria, ma anche le isole di

' Sicilia e Sardegna. 'È naturale che così vasta regione, anzi agglo- merato di regioni, abbia molti problemi da risolvere e da agitare.

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Ma la convergenza di tante condizioni omogenee o simili, la con- nessione di interessi e di economie, la simultaneità e univocità di cause e di effetti - pur nel vario e diverso ritmo di ogni singola parte - la ragione economica e il suo sviluppo politico, che li assomma e li proietta nella visuale nazionale, fanno dei

i i

tanti problemi un problema solo, formidabile e premente alla ,

coscienza pubblica. Quando noi diciamo che la questione del Mezzogiorno è un

problema « nazionale », intendiamo ciò sotto doppio aspetto : in quanto gli effetti del problema si ripercuotono in tutta la nazione, e in quanto è dovere nazionale risolverlo nella sua intera portata. Ora non sarà ciò possibiIe, se noi che siamo figli del Mezzogiorno e che nella politica nazionale diamo molto della nostra attività e dei nostri sentimenti, non ci formiamo una co- scienza del problema nella sua portata sintetica e nella sua ra- gione politica, e non contribuiamo a formare la coscienza pub- blica, perché possa irradiarsi e diventare fonte e forza motrice di altre energie, locali e statali, economiche e morali di tutta Ia nazione.

I1 partito popolare italiano si è prefisso questo compito fin dal suo inizio, ne volle prendere impegno segnandolo nelle sue tavole programmatiche; e la sua azione e quella dei propri uomini al governo non è stata priva di utili effetti, come le varie affermazioni alla camera non furono sterili e vane. Ed oggi, prendendo occasione dal quarto anniversario della coatitu- zione del partito, in questa metropoli del Mezzogiorno - clie ne ha tutti i fascini e che ne incentra tante energie - intendo riaffermare il programma del risorgimento meridionale, quale è nella sua natura complessa e nella sua ragione nazionale, par- lando sul tema « Il Mezzogiorno e la politica italiana ». Alla pre- senza di tante rappresentanze, venute dalle regioni più lontane, e di questa calda folla di vario sentire politico ma di un sol palpito per le nostre terre, a nome del partito popolare italiano, intendo ripetere, in questo giorno, per noi fausto e pieno di speranze, quanto nell'aprile del 1920 il nostro secondo congresso qui a Napoli volle dimostrare di solidarietà e di comprensione dei nostri mali, ma con un piano più maturo dall'esperienza e più sicuro nelle linee ricostruttive, e con una volontà ferma e

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decisa di lavorare e cooperare alla soluzione per l'interesse e il bene della patria nostra. Questa patria, che non è solamente geografica né solamente politica, dalle Alpi al Lilibeo è tutta una unità inscindibile, ed è tutta in un travaglio morale, poli- tico ed economico, per risolvere la sua crisi (della quale parte notevolissima è il Mezzogiorno) e riprendere il suo cammino glorioso di civiltà e di progresso. .

Stando e vivendo fuori dell'ambiente meridionale, - nel contatto con studiosi, uomini politici, economisti, finanzieri, per- sone dedite agli affari, giornalisti di qualche cultura e burocra- ti 'di discreta levatura - si ha l'impressione che il maggior numero di costoro consideri il problema meridionale anzitutto come un effetto della indole, dei costumi, dell'indirizzo cultura- le, della mancanza di iniziativa e di coraggio da parte degli abitanti di queste belle e disgraziate regioni; in secondo luogo come una questione di lavori pubblici, specialmente locali, ai quali lo stato già prowede con una certa specialità di metodi e con concorsi più larghi che per altre regioni, intervenendo anche di là da una equa misura per quelle condizioni speciali che veramente esistono, ma che spesso gli uomini politici del Mezzogiorno esagerano, per abitudine retorica e a scopo di facili clientele elettorali. Così la figura del meridionale è caratteriz- zata, nella opinione di molti, come quello che non fa, né sa fare quanto dovrebbe, per superare le difficoltà del proprio am- biente, e pitocca dallo stato aiuti e favori, non sempre propor- zionati o completamente utili, né sinceramente disinteressati.

Sì, è vero, vi sono problemi speciali, come quello degli agru- mi e degli zolfi in Sicilia, quelli del terremoto a Messina, in Ca- labria, nella Marsica, la malaria, le arvicole, le frane in molte re- gioni, i porti di Bari, Palermo e' Napoli, le bonifiche a Caserta, Salemo, Cosenza e Cagliari: ma in p a l i regioni non vi sono problemi locali di varia natura e di urgente soluzione?

Ogni provincia italiana, si può dire, ha il suo bene e il suo male; forse per questo si è mai parlato in Italia, come di que- stione permanente e immanente di politica generale, di una que- stione piemontese o ligure o lombarda o toscana o romagnola?

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'I più benevoli, quelli che han viaggiato (son pochi gli italiani che viaggiano a scopo di studio e di politica oggettiva) hanno, .sì, una impressione generica di vari problemi, come quelli della viabilità, dei trasporti, del latifondo, della pubblica sicurezza nelle campagne, e così via; ma per lo più deformati da precon- =tetti di kn letteratura romantica che ci diffama, oppure da in-

* comprensione degli stati d'animo della nostra popolazione; sen- -titi attraverso la coloritura sentimentale della nostra conversa- zione imaginosa e superficiale, che spesso fa deviare anche gli .etudiosi nelle loro inchieste ed analisi dei nostri mali.

Del resto è facile, in una conoscenza affrettata, misurare le :nuove cose apprese col metro delle cose già conosciute in altri ambienti, e non comprenderle nella loro ragion d'essere e nel loro profondo significato, onde viene eliso qualsiasi sforzo pra- tico da una dualità di modi di valutare e di apprezzare le stesse cose, clie determinano due vere posizioni diverse fra il Mezzo- giorno e il resto delllItalia. Pochi sono quelli che fuori della no- stra terra conoscono il nostro problema, e non tutti sono in gra- do di far valere la loro esperienza. D'altra parte, bisopci con- venire che la falsa impostazione politica della questione è do- w t a a noi; siamo abituati oramai a domandare al governo, più .che allo stato, ogni aiuto, ogni intervento diretto o indiretto, buono o cattivo, efficace o inutile, possibile o impossibile; e ciò senza che vi corrisponda, da parte nostra, una forma di attività, di preparazione risolutiva, di cooperazione efficace, di imposta- zione realistica e di solidarietà politica delle nostre forze. Onde è purtroppo doloroso dover constatare che da trent'anni che si parla apertamente di questione meridionale (prima se ne par- lava sottovoce), non si è riusciti a rimuovere una sola delle cause fondamentali della nostra inferiorità; solo si è ottenuto (bontà degli eventi) quel tanto di azione statale quanto se ne sarebbe ottenuta senza parlare di questione meridionale, ma solo soste- nendo (come si fa in ogni regione) quei particolari interessi O

quelle necessarie prowidenze che rispondono a determinati pro- blemi concreti. Chi mai si sarebbe opposto alla costruzione delle Calahro-Lucane, se venivano proposte con la stessa semplicità con cui si parlò della Cuneo-Ventimiglia o della Ovada-Genova? E quando si pensò alle bonifiche emiliane forse ei fece la stessa

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impostazione dell'eterno acquedotto pugliese? Del porto di Sa- vona si fece meno rumore e più fatti che non di quello di Bari; e il porto di Palermo, già in costruzione, è insidiato assai più che non sia quello industriale di Venezia.

-

Nessuno potrà affermare che, senza agitare la questione me- ridionale - come una paurosa e complessa tragedia di un po- polo, - non si sarebbero ottenuti allo stesso modo quei prowe- dimenti e molti altri, nella più o meno equa e razionale distri- buzione dei lavori pubblici. E mentre la letteratura sulla que- stione meridionale è larga e vasta (come raccolta di dati e stu- dio di elementi), la impostazione politica del problema è stata tentata solo sporadicamente e senza efficacia da vari uomini no- atri di qua e di là dal faro. Ma sono state voci isolate, inascol- tate, alle quali ha fatto seguito la facile lamentela e la inefficace protesta, quasi mai un'azione concorde e forte; e tutti i prov- vedimenti adottati dallo stato hanno avuto una particolare im- portanza per curare qualche fenomeno del male, ma non affron- tavano in pieno le causali del male.

Per arrivare a un risultato sicuro, occorre anzitutto rifare il nostro orientamento, superare la formula dualistica che mette in antitesi Mezzogiorno e governo, anzi Mezzogiorno e stato, come due entità diverse e in contrasto, come se noi meridionali non fossimo elementi e forze costitutive dello stesso governo e dello stato italiano.. Anzi occorre fare un passo ancora più de- cisivo. Occorre superare il nostro stato psicologico che ci mette in condizioni di inferiorità, perché nell'accentuare questo con- trasto e nel riportarlo alle condizioni diverse con le altre regioni d'Italia (specialmente del nord), sembra che si attenda un auai- lio esterno, lontano, invocato, invece di crearci noi un program- ma politico della questione meridionale, da divenire nostra con- vinzione, nostra formula, nostra forza (al disopra dei partiti po- litici che ci dividono) e farlo divenire, con la efficacia delle mi- noranze convinte, pensiero generale degli italiani.

E possibile ciò? Ci saranno questi uomini, questi partiti, questo (( club intellettuale che creerà nel Mezzogiorno la sua nucva coscienza e la sua nuova forza?

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Chi guarda la storia del Mezzogiorno nel periodo del risor- gimento italiano e la funzione intellettuale e'politica avuta nel movimento di un secolo di travaglio spirituale e politico, non si rende conto come sia potuto avvenire che - appena unifi- cato il nostro paese e superato lo sforzo nazionale nel compi- mento dell'unità - gli uomini politici del Mezzogiorno e della Sicilia non seppero né intuire le cause iniziali e profonde della crisi dell'ex-regno, né prevenirne gli effetti, né approntarne i rimedi. Ed io li voglio scagionare subito, quei valentuomini che diedero alla causa nazionale l'appassionato entusiasmo e il più elevato sacrificio di ogni interesse, di che è capace il cuore di un meridionale. Le cause erano immanenti e più forti della stes- sa volontà umana; ma bisogna anche convenire che molti di essi non conobbero i problemi economici generali e non ne in- tuirono le interferenze di interessi internazionali: e ciò per vari fattori, quali l'educazione intellettualistica e teorica, la tradizio- ne professionista urbana o terriero-feudale dei signori di pro- vincia, che furono le sole classi che, nel difficile e stentato con- tatto di popolazioni isolate, vissero la vita politica del tempo. Inoltre, nel Mezzogiorno non vi erano ebrei che, come classe banchiera traficante internazionale, avessero intessuto la trama dei nuovi commerci e delle industrie incipienti, con quella abi- lità che viene dall'assenza di passione politica e morale, che forma il distintivo della razza, la quale si insinua in tutti i meandri del bene e del male traendo vantaggiosi profitti. La preparazione intellettuale dei meridionali era prevalentemente giuridica e l'indirizzo di cultura era teorico; i tentativi di studi pratici, economici, amministrativi, tecnici, si svolgevano con sem- plice ritmo locale, e non potevano influenzare il resto dell'Italia, che già viveva una sua vita, più accelerata, specialmente nel campo pratico e tecnico, ,orientandosi quasi tutta verso la Lom- bardia ed il Piemonte.

Due Italie venivano unite insieme, una del nord e l'altra del sud, per sforzo spirituale e politico delle classi intellettuali, per reazione contro il governo assoluto - che da noi era dive-

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nuto un malgoverno, appoggiato alla polizia e sostenuto da ple- bi misere, fiduciose e turbolente insieme - e per quell'istinto collettivo verso l'unificazione considerata mezzo di salvezza nella trasformazione della grande economia, che determinò le. aspira- zioni democratiche del secolo XIX, creò i moti nazionali dei popoli, e dalle Americhe, liberate dalla soggezione coloniale europea, passò nel vecchio nostro continente e vinse la grande battaglia nella quale la nuova borghesia fu la trionfatrice.

11 Mezzogiorno non aveva una ,vera borghesia, ceto interme- dio, autonomo, trafficante, audace; la pressione feudale era stata assai forte, anche dopo l'abolizione delle feudalità. I comuni li- beri, che avevano formato nell'agro attorno all'abitato i medi pro- prietari, erano ben pochi per costituire una classe nuova intra- prendente, verso cui polarizzare altre forze, specialmente quella del lavoro. I centri urbani erano il campo dei professionisti, e questi fecero la politica; i centri rurali, per lo più agglomerati, vissero del loro campanile e della loro terra. 11 linguaggio delle due Italie non si-fuse nell'anima delle diverse popolazioni. I ((piemontesi » (così erano chiamati tutti i burocrati mandati a <( colonizzare » il Mezzogiorno) ebbero l'aria di conquistatori a buon mercato; non conobbero, compatirono e oppressero. L'ele- mento nostrano s'irrigidi; un solo merito ebbe: superò il par- ticolarismo regionale per sacrificarne anche i buoni effetti al- l'idea nazionale unitaria, e il concetto di patria prevalse sopra tutte le ragioni e, i risentimenti locali; anzi, per timore che si potesse dubitare di questo lealismo politico, non si tentò mai di far prevalere interessi speciali del Mezzogiorno, come se po- tessero essere guardati quali antitetici agli interessi nazionali. Nobile il sentimento che univa la nostra gente alla patria una; ma errore pratico quel timore che non ebbero altre regioni più sicure e più forti, dove non si prospettò mai il particolarismo come un pericolo o come un torto verso la nazione. 11 nuovo regime aderì più facilmente al nord che al sud, non per mag- giore o minore sentimento patrio, ma per la maggiore conver- genza di interessi, la più facile solidarietà morale, il più rapido ritmo di vita, che si orientava in gran parte verso il Settentrione. Il resto dell'Italia centrale gravitava verso Roma; le crisi spi- rit~iali ed economiche di Roma preparavano la Roma burocra-

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tica, la Roma dei buzncrri, la Roma dell'edilizia nuova e dei traffici politici, e, per un pezzo, fecero vivere due Rome, centro di speranze e di trepidazioni a tutti gli italiani. Ma mentre l'alta Italia moralmente si unificava, attirando a sé le forze del centro - per cui Milano fu detta la capitale morale - e men- tre Roma si sforzava a superare la sua crisi interna, il sud rimaneva fuori dal nuovo ritmo, come una zona in stasi morale, in crisi economica, in turbamento politico. Era stata soffocata la resistenza calahrese con i suoi briganti, le rivolte di Palermo domate; l'introduzione delle leggi del regno sardo dovea essere per i nostri padri la vera unificazione spirituale (errore che oggi col medesimo spirito si rinnova per le Venezie Giulia e Tri- dentina); e quando, dopo sedici anni di dubbi, di amarezze e di speranze, arrivò la sinietra al potere, agevolata dal retoricismo meridionale, essi credettero che quello fosse il momento della nuova trasformzzione politica, del Mezzogiorno per arrivare a l livello delle altre regioni.

n colera rivelò all'Italia meravigliata la parte coperta e

oscura di Napoii belia, come la crisi zolfifera rivelò il « ca- ruso siciliano; i terremoti fecero conoscere le Calabrie prima

che Reggio, Messina e la Marsica fossero distrutte; l'emigrazione, come esodo di popolo abbattuto economicamente, impressionò ed allarmò governo e nazione; i fasci siciliani del '93 e le in- chieste - celebri dei nomi di Iacini, Sonnino, Franchetti, d i San Giuliano - mostrarono il grado di inferiorità economica e sociale della gande agricoltura e del latifondo; Zanardelli corse alla scoperta della Basilicata; così, dal '76 al '902, eventi tragici e volontà di uomini politici fecero spuntare le legisla- zioni del Mezzogiorno; ma non venne per questo la unificazione spirituale; anzi fu accentuata la distanza dualistica fra Mezzo- giorno e governo, fra sud e nord.

L'avvento della sinistra con la partecipazione del Mezzogior-- no aveva aggravato la concezione parlamentarista e la sua gra: vitazione sulle masse elettorali, non ancora emancipate dalla influenza persondistica e di campanile. La necessità del giuoco parlamentare, divenuto quindi vero metodo di governo, detta « trasformismo », fece largamente sfruttare i difetti di sentimen-

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talismo, le condizioni di povertà economica, la impreparazione tecnica e politica del nostro Mezzogiorno.

Giorni fa, nel discorso tenuto a Torino, analizzando la crisi del parlamento, ho rilevato come una delle cause fondamentali di ciò sia stato il dualismo delle diverse condizioni econoAche e politiche dell'Italia. Benché il problema venisse, in quel d&- scorso, guardato da un altro angolo visuale, pure non saprei me-- gli0 farlo con altre parole, e gli uditori mi perdoneranno se qui cito me stesso.

Dopo avere accennato in quel discorso al decadimento della. camera, argomento oggi all'ordine del giorno; dopo aver ricor- dato che di tale 'decadimento parlavano uomini politici e uo- mini di studio da molti anni, e che lo stato di disagio e d i urto fra parlamento e coscienza nazionale ha più di quarant'an-- ni, aggiungevo testualmente :

« Il periodo è segnato dalla democrazia, che ha tentato di domare prima, di assorbire poi, infine di scompaginare la cor- rente proletaria; essa, vero strumento borghese, servì assai bene: alla incipiente industria italiana, anche e specialmente a quella. parassita, a carico e a spese dell'agricoltura e delle classi medie; e nel su? giuoco politico pose, sul medesimo piano, le due forze del capitale industriale e del lavoro industriale, avvantaggiando, il primo con la protezione e l'altro con i salari, ambedue assa- lenti per diverse vie lo stato in un'azione di pompaggio del da-- naro della campagna e dei risparmi, non bene affidato allo stato. come contributo d'imposte, né alle banche come mezzo di de- posito e di impiego. Era il momento della trasformazione e dello; sviluppo della nostra economia giovane e incerta, e le crisi ne soffocavano l'inizio: la classe più intelligente e fattiva prese na- turalmente il dominio e la direttiva della vita pubblica, e fu la industriale che governò per interposta persona.

. . (t I commercianti degli zolfi, dei citrati, dello zucchero ri-

corsero al medesimo sistema e ne ebbero favori; ma la vera agricoltura fu assente dallo stato democratico e parlamentare; diede occasione alla larga letteratura sui patti agrari, special-- niente del Mezzogiorno dalla inchiesta Iacini in poi; vide in molte plaghe depauperarsi la campagna con l'emigrazione con--

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tadina; e continuò a sentire la politica come espressione di vita provinciale, ove il feudo elettorale del collegio uninominale, i buoni rapporti con la prefettura e i carabinieri, le preminenze amministrative, all'ombra del proprio campanile, rappresenta- vano la somma della sapienza politica di equilibrio fra l'agente delle imposte e lo sfruttamento del lavoratore, che diedero i tristi bagliori dei fasci del '93 e delle agitazioni del '98.

« Questa posizione politica e questa struttura economica di due Italie, senza nesso interno, insieme alla improwisazione retorica degli estremisti radicali, fecero degenerare l'istituto par- lamentare, creando il parlamentarismo.

. . « Una salda catena legava alla stessa sorte il parlamenta-

rismo democratico, l a burocrazia amministrativa e il sistema elettorale del feudo politico. La degenerazione del costume elet- torale era causa delle maggioranze personalistiche; queste do- vevano vivere dei favori del governo, il quale aumentava le sue competenze nel campo amministrativo ed economico per pote- re avere la maggiore ingerenza nella vita del. pa- &e C.

Orbene, in questo pervertimento della vita politica parla- mentare, proprio i1 Mezzogiorno e la questione meridionale figu- rano come (( alibi per una politica economica a favore dclle industrie dell'alta e media Italia, e servono come base parla- mentaristica ai governi trasformistici di Depretis e di Giolitti, i quali seppero penetrare ancora di più, e meglio dei precedenti governi, nelle divisioni locali delle nostre regioni, dominare con .i favori e con le minacce. L'elemento estremo del Mezzogiorno, da ~mbriani a Bovio, faceva della politica retorico-idealista; lo stesso Colaianni, che diede valido contributo allo studio dei pro- blemi meridionali, non seppe superare i forti pregiudizi delle sue origini anticlericali e repubblicane; e I'anticlericalismo me- ridionale servì assai bene al giuoco politico. Di tradizione ta- nucciana, giurisdizionalista e statale, l'anticlericalismo prese fa- cilmente le classi intellettuali e gli spiriti estremi, che in gran parte erano lontani dal pensiero e dalla pratica cristiana. Esso fu legato, nella cultura e nella concezione statale, allo spirito unitario e nazionale; cosa che coprì la merce avariata delle competizioni campanilistiche, dalla tolleranza alla mafia ed alla

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camorra, alle clientele locali prepotenti e malversatrici; che il governo centrale, con sapienza antica di dominazioni spagn* lesche, seppe tollerare e favorire, e, a volte, anche, perché no?, minacciare, per il disinteressato scopo di avere le maggioranze sicure alla camera dei deputati, anche in provvedimenti che, senza dirlo, ferivano interessi vitali del Mezzogiorno. E moltis- simi votarono quelle leggi in buona fede; non ne penetrarono lo spirito, non ne previdero gli effetti, non ne conobbero la strut- tura, non ne valutarono la portata economica e la ragione po- litica.

Il dominio era ed è purtroppo in mano all'alta banca, e questa non vi è stata mai nel Mezzogiorno; il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia sono enti pubblici, che hanno un compito ben circoscritto e giustamente al di fuori di giuochi di specu- lazioni e di impieghi aleatori, ed hanno, non certo a loro van- taggio, la funzione di istituti di emissione, che ne limita ancora di più la vitalità e lo sviluppo e ne burocratizza la organizza- zione. Comunque, l'azione di tali istituti è ben localizzata e poco influisce sul resto della economia nazionale e dell'orien- tamento statale. L'alta banca e l'alta finanza erano altrove, nella loro sede più naturale: influivano sulla vita politica - in quan- to è espressione e spesso conseguenza del fenomeno economico - e ne determinavano lo sviluppo, in quanto la politica può, a sua volta, creare e sviluppare il fenomeno economico.

A questo punto sarà bene osservare che noi meridionali non possiamo negare la nostra ammirazione e anche la nostra approvazione al superbo tentativo dell'alta e media Italia per la propria trasformazione fatta dopo l'unificazione; anzi dob- biamo riconoscere che è stato questo uno dei più importanti fattori del superamento della crisi economica, che si abbatté sull'Italia, proprio dopo raggiunta la sua unità e dopo compiuto il periodo di assestamento giuridico-politico del nuovo regno. Dico ciò anche perché nessuno mi fraintenda nell'analisi che vado tentando, come se io, che sono unitario italianamente e anche unitario nella espressione del mio partito politico, voglia insistere sul'dissidio fra Nord e Sud, concezione oramai sor- passata.

Dicevo, adunque, che la pressione della finanza bancaria

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ed industriale sul governo e sull'indirizzo statale, non poteva riferirsi a problemi meridionali, se non per coordinazione di- retta o indiretta, e quindi la valutazione politica di tali pro- blemi veniva a mancare nel peso della bilancia degli affari.

Le stesse industrie, a tipo domestico e artigiano, - che prima del 1860 avevano nel Mezzogiorno promettente sviluppo, non inferiore a quello del Nord, quale la seta, la lana e il co- tone - non potevano attirare l'attenzione dei finanzieri, perché vennero meno col cader delle linee doganali interne e non po- terono tentare la loro trasformazione industriale, perché lon- tane dal mercato generale. La stessa marina mercantile napole- tana e siciliana - che primeggiava in confronto alle altre - con l'unificazione perdette la sua posizione; la Sicilia rimase an- cora per parecchio tempo nel tentativo di trasformazione, e certo ne ebbe vantaggio, finché anche questa industria non si coordinò con quella ligure.

I1 Mezzogiorno fu perciò considerato esclusivamente agri- colo; di un'agricoltura arretrata, di poco rendimento, meno l e zcne vesuviane o etnee o della conca d'oro, le litoranee adria- tiche e tirrene. Agricoltura del latifondo abbandonato dal pro- prietario, agricoltura di rapina del gabellotto e del subaffittua-, rio, agricoltura aflitta dal brigantaggio di campagna, dalla ma- fia, dall'abigeato, dalla malaria e dallo sboscamento. Chi avreb- be affidato i capitali a un t d e Mezzogiorno senza istruzione e senza volontà, i cui mezzi fìnanziari non potevano rispondere al ritmo rigoglioso e orgoglioso della economia moderna? In- tervenga lo stato e faccia quel che può; faccia strade, faccia scuo- le, faccia acquedotti, porti un po' di civiltà; e poi il mondo fi- nanziario accorrerà in aiuto del Mezzogiorno.

Questo è stato il grande errore di impostazione della « que- stione meridionale e il processo storico e legislativo fino allo scoppio della guerra. Ma la guerra rivelò un Mezzogiorno an- cora povero e ingenuo nei suoi figli, ma così robusto moral- mente, così sano spiritualmente, così pieno di energia e di re- sistenza fisica - pur sulle creste fredde di montagne nevose, alle quali non era abituato - così devoto al sacrificio per la patria,. da far pensare anche agli estranei che il Mezzogiorno non puì, essere guardato come una colonia economica, o come campo

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di sfruttamento politico, o come regione povera e frusta, alla quale lo stato fa la concessione di particolare benevolenza. No, il Mezzogiorno è vivo come un'entità integrante la vita stessa nazionale, come una forza reale da sviluppare nella sintesi del- le forze italiane; il suo travaglio economico e morale è il tra- vaglio della intera nazione.

Poiché il fenomeno che abbiamo descritto è stato fin ieri costante; e poiché l'istinto economico, se vi fossero stati muta- menti sostanziali nelle correnti generali in rapporto al nostro problema, li avrebbe rivelati subito; è necessario renderci esat- to conto delle ragioni sostanziali che, direi quasi, giustificano il fatto economico che si è svolto dal '60 al '915, senza per questo giustificare il fatto politico, al quale tutt'al più si daranno, co- me dicono i giudici, delle attenuanti.

La lotta insinuata fra Nord e Sud non è, né può essere guar- data come una lotta di egemonia politica ed economica; anche perché il Sud non può dirsi che abbia lottato; ha mormorato, ha protestato, ha scritto libri ed opuscoli, ha fatto discorsi; manca in tutto ciò la sostanza e il terreno della lotta. C'è stato invece un naturale assorbimento di forze; dico « naturale », per- ché non saprei altrimenti d e h i r e questa azione di flusso eco- nomico verso il Nord. Infatti, tutto lo sviluppo della ecopomia europea, dall'epoca napoleonica in poi - sotto l'influenza della trasformazione della industria piccola e domestica in grande in- dustria manifatturiera, dopo l'apertura di grandi traffici e la invenzione di mezzi rapidi e potenti di comunicazione - prima nella concezione liberista di marca inglese, e poi nel regime pro- tezionista - superato il eri odo di assestamento europeo con l'unificazione italiana' e la costituzione dell'impero germanico, nella pace che seguì la guerra del '70, lo sviluppo economico industriale e l'attività commerciale era di fatto centro-europeo. L'Italia, con il suo porto di Genova e l'hinterland lombardo, con le nuove comunicazioni rapide con la Francia, la Svizzera e

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la Germania; l'Austria-Ungheria con Trieste e Fiume e il vasto hinterland commerciale dell'ex-impero, formavano i campi di attrazione e trasformazione industriale e commerciale, verso cui dovea gravitare gran parte della economia del nostro paese. Era quindi naturale che in alta Italia si intensificassero i trasporti, che la rete ferroviaria fosse più densa, che le industrie fiorisse- ro e che la popolazione, già favorita dalle migliori condizioni del suolo e dell'abitato, in un ritmo più accelerato del giro del danari, potesse con minori difficoltà (che del resto non fu- rono poche) superare la crisi del nuovo regno - nell'abbatti- mento di vecchie bamere e nella trasformazione dell'antico ar- tigianato - conquistare una competenza tecnica, vincere nella lotta e divenire i forti industriali, i commercianti audaci, i fi- nanzieri coraggiosi della nuova Italia. Sventura volle che alle iniziative sane si unissero quelle non sane, le parassite, e che queste divenissero centro di speculazioni politiche attorno al governo che mancava di una visione complessiva esatta, sia nel- la valutazione delle nostre materie prime, sia nella coordinazio- ne di una politica economica nostrana con la politica estera. Qui sta il perno della crisi meridionale. Nel rigoglio di queste nuove forze e nel bisogno di protezione e di danaro, l'economia del Nord, cioè tutta l'economia industriale dellPItalia, non pote- va che rivolgersi al governo e alle banche, e, a mezzo di queste, esercitare Ia funzione (naturale anclr'essa) di assorbire le energie minori, di utilizzare a proprio vantaggio altre forze, di orien- tare a sé il resto del proprio mondo; e come si comprava con i migliori salari la connivenza » (non sempre nel senso buono) delle classi lavoratrici, orientate verso il socialismo, così si wn- quistava con i « premi politici 1) (dico così per pudico eufemi- smo) il consenso di « sfruttamento » (senza fini cattivi, anzi spes- so senza averne la coscienza), dico, di sfruttamento delle ener- gie e delle condizioni del Mezzogiorno. Non vi fu perciò lotta egemonica, ma lento assorbimento, depauperamento, disintegra- zione, irrigidimento nel campo dell'amministrazione locale e del- la ripercussione politico-parlamentare, nel campo dello sviluppo industriale ed agricolo. Le forze del Mezzogiorno perdettero o meglio non acquistarono mai l'iniziativa politica - non ostan- te avessero avuto uomini validi al governo da Bonghi a Gian-

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turco - e non ostante che per alcun tempo meridionali fossero a capo del governo, sopra tutti Crispi, che, pure tra grandi difetti e awersioni, ebbe almeno una concezione meridionale che fu insieme italiana: Infatti, voi avete il diritto di domandarmi: c'era una concezione economico-politica meridionale che potes- se coesistere con lo sviluppo industriale dell'alta Italia, svilup- po naturale, e perciò non sopprimibile né coercibile, al quale opportunamente, logicamente, si volsero le altre forze politiche e finanziarie del paese?

A questa domanda, che è la centrale del problema, e come critica storica pel passato e come costruzione per l'avvenire, mi sforzerò di dare una risposta chiara e, spero, decisiva, per la migliore comprensione della « questione meridionale D.

Come l'alta Italia ha una zona naturale di commercio e di comunicazioni che s'irradia nell'Europa centrale, specialmen- te del nord e dell'est, ed ha il suo sbocco a Genova - ed è bastata l'apertura delle Alpi prima e la triplice alleanza poi, a creare tino allo scoppio della guerra una economia che avesse centro Milano - e in séguito alla guerra abbiamo meglio conosciuto il valore economico di Trieste e Fiume in rapporto al bacino danubiano; così il Mezzogiorno continentale e le isole hanno la loro zona nel Mediterraneo, e sono non solo il ponte gettato dalla natura fra le varie parti del continente europeo in rapporto alle coste africane ed asiatiche, ma il centro eco- nomico e civile più adatto allo sviluppo di forze produttive e commerciali e punto di interferenza degli scambi. Il Mediter- raneo fu sempre il bacino più trafficato dell'Europa; e la civiltà di vari millenni dimostra che sempre il Mediterraneo ha una sua economia che non può venir meno, perché basata su neces- sità naturali. Anche quando il commercio con le Americhe aprì altri sbocchi all'attività umana e spostò le correnti europee; an- che quando la formazione dei grandi stati del centro Europa variò il punto di riferhuento e di convergenza degli interessi del mondo civile; anche quando la rapidità dei trasporti, a mezzo delle macchine a vapore per terra e per mare, modifici5 enormemente il ritmo dei traffici; con le naturali oscillazioni

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dei nuovi fattori di vita economica e politica, il Mediterraneo rimase un baricentro di attività produttiva che congiungeva 1'Eu- ropa allJAfrica del Nord e all'Asia h o ai Carpazi. E il taglio dell'istmo di Suez fu il passo gigantesco che servì a riattivare i commerci di mare con le Indie h o all'estremo Oriente, senza il lungo giro delle coste oceaniche dell'Africa.

Francia e Inghilterra - panda l'Italia nuova e unita po- teva ben pensare che era suo principale interesse e diritto la riconquista del Mediterraneo - si awidero che una terribile concorrente sorgeva nelle acque del sud, e la politica di insidie e di sorprese fu un piano che a vicenda, e con diverse mire, coltivarono a danno dell'Italia. Il punto di principale riferimen- to era la costa africana; e mentre la Francia teneva l'Algeria e l'Inghilterra insidiava l'Egitto, l'Italia poteva aspirare alla Tu- nisia, che, per ragioni di clima, di vicinanza, di cultura, di fer- tilità e di sviluppo politico, il nostro paese aveva ben diritto di avere: non solo come terra di colonizzazione demografica (co- sa che già aweniva dai primi anni del regno), ma anche come zona di influenza politica; però la buona occasione fu lasciata sfuggire per la celebre politica delle « mani nette n. Oggi, i 130 mila italiani di Sicilia clie abitano la Tunisia e che con i loro sforzi ne han fatto un centro economico di prim'ordine, hanno l u minaccia di essere naturalizzati francesi, e vedono già impe- dito e contrastato il loro sviluppo morale, la loro attività eco- nomica, il loro commercio con la madre patria.

La Tripolitania e la Cirenaica, divenute nostre colonie - e fu atto di savia politica - sono state per un decennio tenute come feudo della burocrazia, come campo perfino di penetrazio- ne massonica, in uno stato di incertezza coloniale, specialmen- te nei rapporti con la Senussia e senza serio. tentativo di co- lonizzazione. Il problema portuale della Cirenaica è fonda- mentale. quanto quello della proprietà fondiaria e della Mabi- lità. Lo sforzo politico italiano deve essere quello di creare spe- cialmente in Cirenaica uno sbocco permanente al flusso emigra- torio e al commercio, che dovrebbero, attraverso la nostra co- lonia, congiungersi all'Africa centrale. Putroppo, nel trattato di Londra la nostra politica coloniale poteva essere rivalutata, ma non si ebbe alcuna visione sintetica; la rettifica dei c o n h i re-

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\ i stò una frase insignificante; e anche oggi l'Inghilterra tergiver-

sa per la linea orientale e il Giubaland; occorreva una precisa'

1 impostazione di interessi, di sbocchi commerciali e di sicurezza d i confini, la cui mancanza sinora ha reso vani i sacrifici com- piuti.

L'Egitto finalmente ha tolto da sé il protettorato inglese; campo di espansione economica e culturale italiana, è trascu- rato per paura dell'hghilterra; e mentre una savia politica ver- so gli arabi di Libia potrebbe far convergere a noi molti inte- ressi arabi dell'Asia e dell'Egitto, non è affatto curato il pro- blema nella sua caratteristica di politica generale, che investe tanta parte dei nostri interessi.

Crispi sognò l'impero africano, pensò che 1'Abissinia potes- se essere italiana; s'illuse, e non fu compreso nella parte rea- listica della sua politica; l'errore di Rudinì dopo Adua fu gran- de; oggi le colonie del mar Rosso vivacchiano; e la nostra aspi- razione su Gibuti fu compromessa da Sonnino nelle conversa- zioni interpretative del patto di Londra. Forse egli non poté vincere la resistenza francese, non può dirsi che non apprezzas- se il valore coloniale di Gibuti.

Era opportuno fare in Asia Minore una politica di manda- ti e di occupazioni economiche, destando verso di noi i sospet- ti turchi, per quell'accordo tripartito non utile strumento di in- certa espansione capitalista? Era necessario l'accordo con Veni- zelos che tradiva le aspirazioni dell'blbania e annullava venti anni di politica italiana fio-albanese? Era ossi bile un'intesa commerciale ed economica con l'Albania, invece del sogno di occupazione o di protettorato o simili, infranto a Vallona? SO. no domande, alle quali la nostra storia darà una risposta, che fin da ora io credo sarà negativa; ma le quali indicano che nel Mediterraneo c'è da fare una politica, non analitica, partico- laristica, del momento, ma coordinata, sintetica, a lunga sca- denza.

Dopo la guerra l'Italia si è incantata nell'e~isodio fiumano nell'alto Adriatico, episodio sentimentale e doloroso, ma che poteva avere, in un quadro generale, una soluzione migliore di quella data oggi con i trattati di Rapallo e di Santa Marghe- rita; e non dico dimenticò, svalutò perfino, il problema del Me-

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diterraneo, del quale è patte viva l'Adriatico, non come un lago 1

! -morto e per se stante, ma come un braccio di mare teso dal sud al nord, in una vitalità di commerci col centro continentalk.

Escludo che questa si chiami politica imperialistica, lonta- na dal pensiero e dalle convinzioni di noi popolari. Un paese che, come il nostro, ha esuberanza di forza umana e necessità di espansione, non può, senza diffamare il proprio nome, fare una politica emigratoria di lavoratori senza capitali e con scarsa pre- parazione tecnica e intellettiva e inondare i mercati mondiali - determinando le ripercussioni di concorrenza nella mano d'ope- ra e lo sfruttamento del lavoratore; - ma deve sforzarsi a di- venire centro di una economia relativa alle proprie fonti pro- duttive, e crearvi attorno una larga sfera di consensi di forze minori; non solo per correggere il fenomeno emigratorio, ma per trasformare la sua stessa potenzialità produttiva in realtà di commerci e di industrie. Questo dovea essere il programma italiano della nostra politica mediterranea, l'indirizzo costante e intelligente, nelle difficoltà perenni e insidiose della politica estera. .

Alcuni opinano che storicamente sia un errore credere che il Sud Italia possa avere una sua floridezza, e quindi divenire un notevole centro economico del bacino mediterraneo, si da determinarvi una politica realistica. Senza voler fare una discus- sione storica - che si allontanerebbe dalle linee di un discorso - credo che il tema della povertà naturale del Mezzogiorno ab- bia forzato la mano perfino ad uno studioso e profondo cono- scitore del nostro problema quale Giustino Fortunato. Nessuno nega che le condizioni fisiche demografiche ed economiche del- le regioni del sud siano difficili e siano state aggravate dalle vi- cende storiche; ma sarebbe errore conchiudere per una infe- riorità insanabile.

Quando la cultura e l'economia dalllOriente venne verso Occidente, e creò Atene, Cartagine e Roma, le colonie fenicie greche e romane svilupparono feconde energie, Siracusa diven- ne centro di attività mediterranea; il fiorire di arti e di scambi determinò un riflusso di civiltà superiore a tutte le altre plaghe italiane. E quando Roma repubblicana, prima dell'espansione

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gallica, ebbe la sua attività mediterranea e soggiogò le forze cartaginesi, la Sicilia era il centro naturale degli scambi, e fu detta il granaio di Roma, la Campania e l'Apulia necessarie zone di sviluppo economico e commerciale. Roma imperiale al- largò il suo ritmo, il Nord e il lontano Oriente divennero i suoi confini, il grano venne dalllEgitto più copioso e a miglior prez- zo, la Gallia Cisalpina divenne la zona annonaria, e il Mezzo- giorno e la Sicilia perdettero la loro funzione centrale. Feno- meno simile, nota Gino Arias, è avvenuto all'hghilterra, la quale, sotto la protezione della pace imperiale, garantita la li- bertà di scambio con le più lontane regioni dell'impero, vide decadere la sua agricoltura e riprodursi il suo latifondo.

Ma quando l'economia del Mediterraneo si sposta verso Bisanzio - nuovo centro politico di congiunzione fra l'Asia e l'Europa - e parte dell'Italia meridionale e la Sicilia dipen- dono dall'impero orientale, l'attività economica e la ripresa dei commerci (benché turbata dalla insicurezza del mare) ebbero un periodo di grande rifioritura; e Bari nell'bdriatico, Amalfi e Salerno nel Tirreno, Messina nell'Jonio poterono assurgere a città marinare di prim'ordine, avere potere e influenza poli- tica, dominare il mare prima che Genova e Venezia prendes- sero in mano la direttiva del commercio; e la Sicilia, sotto la dominazione araba normanna e sveva, rifulge di singolare splen- dore.

Giustino Fortunato, nel suo rigido esame, confrontando nel- le varie epoche le condizioni del Nord con quelle del Sud, arriva alla conclusione della superiorità delle prime sulle seconde per condizioni naturali profonde e insopprimibili. A parte la non completa valutazione storica e pur consentendo in molti rilievi economici, egli obbediva a preoccupazioni polemiche: quelle di dimostrare che la unità italiana non ha danneggiato il Mezzo- giorno (tesi che per noi è superata e dal fatto e dal valore che noi diamo all'unità nazionale, al di sopra di qualsiasi altro in- teresse), e la preoccupazione di dimostrare che a un Mezzogior- . no, naturalmente povero, occorre la solidarietà nazionale per farlo risorgere, i1 che può divenire un errore di impostazione del nostro problema. Il Mezzogiorno, non ostante le sue pover- tà naturali, la contrarietà del suo clima e la sua deficiente or-

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ganizzazione sociale e politica, ebbe periodi di floridezza; e questi coincisero con una politica mediterranea. Veramente la parola politica » nel senso moderno non è punto esatta, perché più che le linee e direttive di politica voluta e prestabilita (me- no il periodo romano), vi furono fenomeni e fatti politici sotto l'influsso delle economie predominanti. Queste crearono città come Siracusa e Agrigento, Taranto e Bari, Pesto, Capua e Bene- vento, Ama16 e Salerno, Palermo e Napoli; cioè il Mezzogiorno della costa lussureggiante o della pianura ferace, a cui faceva capo la produzione agricola e pastorizia dell'interno, e la ricchezza mercanteggiata nel Mediterraneo. I1 Mezzogiorno povero - che soffre di tutte le avversità del clima, di tutte le asprezze della terra, di tutte le speculazioni politiche e feudali di baroni, vice& e re, di tutte le oppressioni fiscali, delle incursioni barbariche, del- la rapacità straniera, che per essere difeso diventa feudo della Santa Sede - è quello che non ha potuto polarizzare la sua eco- nomia verso la costa, non ha potuto formare il ceto agrario li- bero e produttivo con l'enfiteusi, non ha potuto superare le dif- ficoltà dei trasporti e avvicinarsi al mondo che pulsa negli affa- ri e nella vita: lotta gigantesca di secoli per ogni popolo, nel flusso e riflusso della civiltà e del progresso.

Quando la economia si sposta verso il nord e i banchieri toscani e genovesi tengono il mondo europeo in pugoo; e le Americhe aprono al vecchio continente nuove attività, e il turco incalza in Oriente, il regno delle due Sicilie è un punto dello scacchiere delle grandi forze in giuoco e in lotta, che è conteso per l'equilibrio europeo e per il dominio delle famiglie reali e imperiali; ma la sua decadenza è segnata, come la decadenza greca sotto l'impero romano, e le sue forze intime si irrigidi- scono; finché, nel secolo XVIII, poté formarsi una nuova coscien- za politica, e dare un primo impulso alla valorizzazione delle sue forze, che nel secolo XIX prepararono la nostra palingenesi.

L'unità nazionale fu così la vera fona di salvezza del Mez- zogiorno, creò ad esso una coscienza civile e politica e diede una spinta nuova di fona economica. Occorreva trovare il suo centro di sviluppo e di vita, e questo centro è il Mediterraneo.

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Si domanda da parecchi se'è mai possibile, che nelle con- dizioni presenti, il Mezzogiorno possa superare le difficoltà eco- nomiche; e, sia pure favorito da un indirizzo politico preva- lentemente mediterraneo, vincere la lotta della concorrenza e passare da un'economia quasi passiva a un'economia attiva.

Ora io affermo con ogni convinzione che questo Mezzogior- no povero, con condizioni fisiche aspre e difficili, che ha una ragione di inferiorità agricola nella sua scarsa umi- dità, nelle lunghe siccità e nelle pioggie irregolari, che ha da secoli accumulato rovine con i disboscamenti, con le frane, con la malaria; questo Mezzogiorno, non bonificato e senza una co- scienza industriale, né un'attrezzatura commerciale, né una fi- nanza bancaria forte e autonoma, può risorgere; se (badisi al se) la politica che la nazione italiana, non solo i governi ma la nazione italiana, saprà fare, sarà una politica forte e razio- nale, orientata al bacino mediterraneo, cioè atta a creare al Mezzogiorno un hinterland che va dall'Africa del nord alllAl- bania, dalla Spagna allJAsia Minore; se questo significherà aper- tura di traffici, circolazione di scambi, impiego di mano d'ope- ra, colonizzazione sotto il controllo diretto della madre patria; perché tale fatto darà la spinta a creare nel Mezzogiorno un'a- vicoltura razionale e maggiore sviluppo di commerci, pari alla propria importanza produttiva.

Intendiamoci : il risorgimento meridionale non è opera mo- mentanea e di pochi anni, o che dipenda da una qualsiasi legge, o che venga fuori dalla semplice volontà di un governo; è ope- ra lunga, vasta, di salda cooperazione nazionale; e che come spin- ta, orientamento, convinzione, parta dagli stessi meridionali. Quando perciò imposto il problema' nella sua ragione fondamen- tale di politica economica ed estera, intendo riportarlo alla sua essenza, ma non credo che sia perciò risolvibile a tamburo bat- tente.

Spiego anzitutto il termine di connessione. La spinta a una grande trasformazione economica deve essere data dalla cer- tezza del vantaggio, e dalla sicurezza che sarà per quanto è pos-

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sibile duratura. Per quante leggi si facciano, non si possono su- perare queste barriere della economia; né d'altro lato era pos- sibile per il passato, e molto meno sarà possibile per l'avvenire, pretendere che lo'stato abbia mezzi adeguati a concorrere util- mente ed efficacemente alla trasformazione economica del Mez- zogiorno; né è a credere che lo stato possa impunemente vio- lare le leggi economiche, e creare d'un tratto una forza produt- tiva ove non esista.

Lo sforzo ~oli t ico deve essere, per legge naturale, pari allo sforzo economico, necessario a vincere gli ostacoli che si frap- pongono ad avere una produzione rimunerativa. Qui sta il nodo del problema; qui debbono convergere le forze autonome, quelle nazionali e quelle statali; cioè quelle morali, quelle economiche e quelle politiche.

Commette un grave errore chi nega al Mezzogiorno lo sfor- zo di superamento, limitato a modeste energie, reso difficile, da condizioni asperrime, a crearsi una agricoltura razionale (nes- suno dirà che I'agric~ltura del 1860 e &ella di oggi siano le stesse), a tentare la trasformazione dei prodotti propri. Lo sfor- zo è stato discontinuo, limitato ad alcune zone, provato da crisi fortissime, senza una vera assistenza da parte dello stato, la cui opera è stata deleteria principalmente per tre ragioni: per il re- gime doganale, per la pressione tibntaria e per la uniformità di legislazione economica. 4

Non posso che limitarmi ad alcuni accenni rapidissimi, da- to il tema vasto di questo discorso.

Uno dei criteri fondamentali che doveva dirigere la politica dello stato italiano, fin dal 1860, doveva basarsi sul fatto che il Mezzogiorno era paese naturalmente povero, di scarsa potenzia- lità economica e in condizioni non favorevoli di espansione; in- vece, si magnificò retoricamente la bontà e l'ubertà della zona dove fiorisce l'arancio, si ricordò il giardino delle Esperidi, si esaltò il bel cielo, il sole fecondo, la terra ferace.

Errore di prospettiva iniziale, che diede le prime delusioni; ma quando cominciò lo sforzo di produttività agricola, sotto il favorevole regime del trattato di commercio del 1863 stipulato con la Francia (verso la quale, in regime abbastanza libero, si orientò il Mezzogiorno); e già le migliorate condizioni dei tra-

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sporti, nella relatività di quel periodo, cominciavano a destare le prime energie, dopo tanto tempo di torpore, ecco il primo col- po grave inferto al Mezzogiorno agricolo con le tariffe doganali del 1877. Con esse si inaugura il regime protezionista - voluto anche dagli stessi meridionali, - con la convinzione che anche noi potevamo creare la nostra industria, non pensando che a creare nn'industria che vinca la concorrenza, occorre almeno pa- rità di condizioni: cosa che il Mezzogiorno non poteva ottenere, ee non altro per la distanza e i costi di trasporto. Questi ve- nivano per di più alterati dalla protezione siderurgica e dalla ripercussione sulla mano d'opera e sui consumi generali. Il cir- colo vizioso, che è legato alla protezione, fa pagar dalla stessa economia quel che si crede di vantaggio generale e che invece diviene il vantaggio di una economia privata.

Che dire poi quando l'industria protetta è anche, diretta- , mente o indirettamente, sovvenzionata o premiata? Oltre il con-

tributo che dà l'economia nazionale per la inferiorità della pro- pria produzione da smerciare all'estero (ricordiamo, noi meri- dionali, che il trattato di commercio con la Francia, rinnovato al 1881, fu denunziato nel 1887, e la guerra di tariffe che ne seguì sconvolse i nostri mercati), vi è anche il danno che ne sof- fre il contribuente, che paga le tasse allo stato, perché. questo le trasformi in premi all'industria protetta. Con questo sistema di soffocamento i meridionali credettero di poter avere un'in- dnstria con il concorso statale, mentre il regime di protezioni e di premi giovava all'industria del Nord e danneggiava il no- stro mercato.

I trattati di commercio, specialmente con l'Austria e la Ger- mania, del 1891 e 1892, giovarono in qualche modo all'agricol- tnra, ma allora l'emigrazione agricola andava prendendo grave e pernicioso sviluppo, e la crisi bancaria toglieva quella parte di risparmi che doveva essere destinata alla produzione. E pure lo sviluppo del commercio dell'olio, del vino, degli agrumi, de- gli ortaggi e frutta fresche e in conserva, crebbe notevolmente; quale mai sarebbe stata la spinta alla trasformazione agricola del Sud, se il regime doganale fosse stato meno ingiusto? Si dice che in compenso si ebbe il dazio sul grano: vecchio errore già confutato dall'on. Colaianni. E facile dimostrare che, in rappor-

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to alla popolazione meridionale, la produzione granaria del Mez- zogiorno è insufficiente al consumo locale, quindi anche il Mez- zogiorno è tributario all'estero e paga, o pagava, il suo dazio sul grano anche per le sue industrie granarie e le sue paste; per le quali è necessario lo scambio di qualità 'per le razionali mi- scele. Il dazio doganale servì allo stato come cespite d'entrata; e favori i produttori di ogni regione, anzi più il Nord che il Sud, perché il costo di produzione granaria è meno alta nel Setten- trione. Del resto, tanto l'assenza di tale dazio quanto la per- manenza dà luogo a speculazione di mugnaio o a guadagni di commercianti o a utili di latifondisti, nel gran crogiolo -che è il traffico di simili derrate.

Il sistema doganale non ebbe miglioramenti, né mutamen- to di indirizzo fino alla guerra. Nella discussione dei trattati doganali il contrasto fra economia agraria ed economia indu- striale ebbe rilievi dagli economisti e sulla stampa; qualche van- taggio particolare, ottenuto per l'agricoltura, non modificò l'in- dirizzo protezionista industriale. Dopo la guerra, l'oscillazione della Ilicnetr e il regiue proibiti;-o chc suprawisse, resero dif- ficile la ripresa commerciale specialmente dei prodotti del Mez- zogiorno. Austria, Russia e Germania, mercati della nostra agri- coltura; non hanno, e per tempo ancora non avranno, capacità di acquisto; la Francia è meglio servita della Spagna e tenta già la sua unione doganale con Tunisi; la tariffa doganale Ales- sio ha confermato e aggravato il vecchio regime protezionista, ferocemente voluto dalla pazza economia del dopo guerra da tutti gli stati e al quale regime l'Italia non poteva da .sola sot- trarsi. Oggi i trattati di commercio che si vanno stipulando po- tranno giovare al Mezzogiorno, se il Mezzogiorno saprà farsi valere.

Altro colpo forte d'economia nostra è stato dato dal siste- ma tributario. Veramente il nostro non è un sistema, ma una congerie di leggi, venute su dai più disparati criteri sovrapposti- si a leggi e a regimi precedenti (fra i quali ottimo quello delle Due Sicilie) col tentativo di una unificazione affrettata e irra- zionale. lila come i più deboli fra noi risentono di più dei colpi

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d'aria, del freddo, del caldo eccessivo e di ogni altra influenza esterna, così il Mezzogiorno, più debole, colpito da gravi disdet- te, con più limitata capacità produttiva, reggeva meno al sistema irrazionale dei nostri tributi. Sono stati raccolti con diligenza i dati statistici di sperequazione tributaria fra Nord e Sud, che servirono a sfatare il pregiudizio (che qualcuno ancora oggi man- tiene, ma credo per ignoranza) cioè che il Mezzogiorno pagasse meno del resto d'Italia; fu dimostrato ad esuberanza che paga- va di più, non solo relativamente, in quanto più povero, ma an- che assolutamente, cioè nel rapporto di parità fra tutte le regio- ni. E pensare che quando fu deliberato il nuovo catasto, fu dai più ritenuto che tale legge di perequazione fondiaria dovesse essere un atto di giustizia verso l'agricoltura del Nord, che si ri- teneva gravata molto di più di quella del Sud. E bastato che il catasto si ultimasse (cosa che ormai può servire per la descri- zione parcellare della proprietà, non mai per la riforma tribu- taria), per dimostrare tutto il contrario; tanto che Sonnino pro- pose la riduzione del 50 per cento della fondiaria erariale a favore delle provincie nostre.

I1 sistema proporzionale e non progressivo dei tributi sui terreni ha evidentemente danneggiato l'agricoltura meno ricca come quella del Mezzogiorno; per giunta i nostri terreni sono quasi tutti gravati da oneri ipotecari, sì da potersi affermare che la proprietà meridionale rurale abbia due padroni; però nel fat- to è il padrone primo - quello che coltiva e che nella maggior parte dei casi ha fatto tali debiti per coltivare e trasformare la sua terra - che è anche colpito dalla ricchezza mobile del mutuo; e senza speranza della presunta rivalsa. Ed è strano il fatto che mentre all'industria si deduce il passivo del debito, all'agricoltura non si deduce. Tutta la storia dell'imposta e della sovrimposta, col vecchio e col nuovo catasto, in rapporto al Mezzogiorno, è intessuta di errori e di danni, non riparati nemmeno oggi, anzi aggravati da una campagna furiosa, fatta dagli industriali a mezzo dei loro giornali per colpire di ric- chezza mobile l'industria agricola diretta, che era stata esenta-, ta, allo scopo di sviluppare sempre meglio le energie agricole responsabili e trasformatrici in confronto alle altre. I recenti provvedimenti De Stefani possono avere una giustificazione nel-

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le condizioni dell'erario, per quanto è a dubitare assai di una possibilità organizzativa del contributo senza gravi sperequazioni e di una reale utilità della imposta stessa; ce- che, così come viene costruita, va a colpire ancora di più la nostra agricoltura meridionale.

Chi non ricorda il danno notevole che viene' a noi per il fatto dei nostri centri rurali agglomerati e densi di popolazione agricola, quali nelle Puglie, nell'interno della Sicilia e della Sar- degna, e in quasi ,tutto l'interno del continente? Sono case di contadini che, considerate come abitazioni urbane, vengono re- golarmente colpite. E questo fenomeno demografico e sociale, imposto da condizioni fisiche, storiche e politiche, e che è argo- mento di inferiorità economica, si ripercuote in tutto il regime fiscale ed economico dello stato. I comuni sono classificati in base alla popolazione, agli effetti del dazio di consumo e delle varie tasse comunali. Questa classificazione opera in senso in- verso per i sussidi e gli aiuti finanziari dello stato, per le scuo- le, per gli acquedotti e per ogni altro provvedimento. Onde a correggere questa sperecpazionc, sono siate create leggi a favo- re, quali le leggi speciali per la Sardegna, per la Basilicata, per la Calabria, e la legge fondamentale del 1906 per tutto il Mez- zogiorno. Ma mentre la pressione tributaria e il regime dogana- le operano con costanza e normalità, le leggi di favore non sono eseguite: owero, nella loro applicazione, subiscono, e per i li- miti del bilancio e per le ulteriori difficoltà finanziarie (dalla guerra libica ad oggi), una costante diminuzione, sicché il di- squilibrio fra le regioni delle altre parti d'Italia e il nostro Mez- zogiorno rimane più che mai aggravato.

.Questo accenno vale per la terza causa di inferiorità nostra, cioè la uniformità legislativa, specialmente nel campo econo- mico. Questo errore iniziale del regno italiano è riconosciuto .da tutti, ma non è affatto rimediato.

Le leggi non sono creazione aprioristica di cervelli - sia- no pure come quello di Giove, dal quale uscì Minerva; - sono invece, e allora hanno un vero valore, un processo di realtà via-

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sute e concrete che, in un determinato momento critico, trovano la loro espressione morale, legale e la loro formula scritta. Que- sto processo dinamico della realtà economica e amministrativa dovrebbe essere lasciato all'adattamento locale: come avviene in Inghilterra, come in parte era nella vecchia Austria, come, per il sistema federativo di un tempo, aveva il suo naturale fon- damento anche nella Germania di ieri. Invece l'Italia prese per tipo la Francia, la Francia di Napoleone e la Francia repubbli- cana, dove la vita centralistica di Parigi assorbe e polarizza tut- ta la Francia, e dove la tradizione storica e l'ampio respiro eco- nomico assorbono le energie di provincia e spesso le annullano. Così le leggi scritte, stilizzate fino all'ultima virgola, i regola- menti di esecuzione sino ai più minuti dettagli, partono dal centro, dall'unità di dominio e di interessi.

In Italia, questa unità di dominio e di interessi mancava. La diversità delle sue regioni e la dualità delle zone, di qua e di là del Tevere, davano vari centri, non un centro. Roma è centro storico, morale, non economico. L'Italia non poteva tro- vare una misura unica, che creasse una metropoli per tutta la sua lunga linea dalle Alpi al Lilibeo: doveva imitare l'Inghil- terra, non la Francia, e dare il dinamismo legislativo alle sue forze varie, non la forza statica dei suoi regolamenti: come un letto di Procuste, ove o il capo o i ~ i e d i dovevano esser recisi per troppa lunghezza, o si doveva manovrare le corde della tor- tura e stirare muscoli e nervi, se, o il capo o i piedi, risultavano più corti della misura.

E la realtà, più imperiosa dei preconcetti teorici, batteva alle porte del nostro parlamento e della burocrazia, inciprigniti nel culto della uniformità formale, per essere ascoltata. Si fa- cevano le leggi: accenno a p e l l e agrarie. Lo sboscamento paz- zo del Mezzogiorno imponeva una ricostruzio?e forzata, che aves- se rinsaldate le nostre pendici appenniniche e i nostri burro- ni, se mi è lecito dire, nembrodici. La legge del 1877 fu il salvacondotto di tutto il devastamento delle foreste alte e dei densi sottoboschi. Quando si pensò al rimboscamento, si ideò una commissione di classifica, la quale dimenticò che le Alpi erano una cosa e nn'altra le montagne e le rupi del Mezzogior- no. Si parlò della zona del castagno uguale per tutta Italia; O

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geografia ignorata dalla burocrazia, come ti sei vendicata a no- stro danno!

La ricostruzione dei pascoli ebbe i sussidi dello stato, ma la legge parlava di pascoli montani e furono quelli del Nord.

La legge sulle bonifiche non ebbe seria applicazione da noi. Storia lagrimevole! La bonifica idraulica, pensata come boni- .

ficamento di zone malariche, allagate e impantanate, era prin- cipalmente fatta per gli abitati e per le zone padane. Quale enorme differenza! Ivi la pianura domina: la montagna è lon- tana chilometri e chilometri a centinaia. Si trattava di liberare la terra dall'acquitrino, di prosciugarla, di livellarla e in se- condo tempo di rimetterla a cultura. Così la legge trattò solo la bonifica idraulica. Ebbene, nel Mezzogiorno l'abitato da risa- nare era lontano, rifugiatosi da secoli sulle creste delle monta- gne o sugli aspri pendii di alti colli; l'acqua era poca e povera, stagnante per falso corso o per mancanza di buona arginatura. Guai a levar quell'acqua e impoverir quelle terre! La malaria rimaneva lo stesso e l'aridità sopraggiungeva, e per giunta, il bacino montano, non curato, creava i letti tormentosi ai fieri torrenti, che arrivando al piano distruggevano i lavori già ini- ziati. Così, per un errore tecnico e per una legge egualitaria, ne1 Mezzogiorno la bonifica è un mito ed i milioni spesi dallo stato sono andati in gran parte perduti; più di 400 malioni nel Mez- zogiorno continentale e circa dieci in Sicilia. L'anno scorso si pensò agli enti di bonifica; la lunga gestazione regolamentare fece perdere del tempo, oggi il vento delle novità li spazza via. Si comincia da capo; credo che nel nuovo testo unico delle leggi s d e bonifiche sarà incluso quanto l'esperienza di qua- rant'anni ha insegnato, cioè che le due bonifiche del Nord e del Sud sono tecnicamente ed economicamente diverse. Troppm tardi, ma sempre in tempo!

Potrei continuare, ma allora la conferenza mia diventerehm- be assai lunga, anzi lo è di già. Accenno ai problemi agricoli - e voi ne comprendete la ragione, - ma dovrei anche accen- nare ad altri problemi, compreso quello della scuola. Anzi, prin- cipale quello della scuola, la quale per una legislazione unifor- me di orari, di metodi, di criteri didattici, ha reso pochi ser- vizi al Mezzogiorno, dove le ragioni dell'analfabetismo non so-

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no nella infingardaggine delle popolazioni o nel pregiudizio po- litico e religioso, come si disse un tempo, ma nelle condizio- ni sociali ed economiche che dovevano vincersi e superarsi con

metodi speciali, come qualche volta han fatto iniziative pri- vate e da ultimo l'istituto contro l'analfabetismo. Tutta la sto- ria dell'edilizia scolastica e del regime economico degli enti sta- tali, fino alla legge Daneo-Credaro, dimostra l'errore di questa uniformità, che ha perpetuato le condizioni di inferiorità del nostro Mezzogiorno, al quale non riparò la legge del 1906.

Dovrei fare la storia del regime dei cantieri e della marina mercantile, improntata quasi esclusivamente al doppio interes- se degli armatorise dei siderurgici della media e alta Italia; cosa che si ripete oggi, attraverso i tentativi di accaparramento, di- retto e indiretto, delle energie statali ai danni del Mezzogiorno.

Uno degli errori più notevoli è quello delle tariffe dei tra- sporti ferroviari. Il Sud è per posizione geografica il più lon- tano dai centri mercantili italiani e stranieri dell'Europa; e quindi i costi dei suoi prodotti vengono naturalmente aumen- tati dai costi di trasporto. Le tariffe si mettono in rapporto ai centri di smistamento e di mercato. Così la Germania coordi- nava la sua rete al centro Amburgo, come l'Austria-Ungheria ai centri Trieste e Fiume. L'Italia meridionale ha il suo retro- terra limitato, e se i suoi porti Napoli, Bari, Messina, Catania, Palermo, Cagliari hanno un commercio mediterraneo o transo- ceanico, ciò nonostante essa non può fare a meno per i suoi prodotti dei trasporti ferroviari; la unicità delle tariffe nuoce e danneggia, ed arriva, per certi trasporti, a regime veramente proibitivo.

L'elenco dei vari rami dell'economia e dell'amministrazio- ne è molto lungo, e mi fermo: siamo tutti convinti che per 1'Ita- lia non solo la legge uniforme è un errore sostanziale, ma è anche errore la legge speciale, fatta con mentalità livellatrice e formalistica, avulsa dalla realtà pulsante e viva di coloro che sentono e operano nelle varie regioni.

B questo un torto la cui colpa è da attribuirsi specialmente ai meridionali. Quando i nostri uomini politici, i nostri indu- striali e agricoltori, i nostri burocratici sono fuori dell'ambiente e vanno a partecipare ai consessi politici o economici, mostra-

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no una grande agilità di mente, spesso prontezza di compren- sione e genialità, adattamento facile ed intuizione rapida; ma si lasciano inserire nel ritmo della politica, dell'economia e della legislazione, ispirata e metropolizzata del Nord; e quando essi prospettano incompleti, frammentari - in forma sentimen- tale e idealistica - i problemi del Sud, li isolano, li riducono a forme conc'essive e di eccezione, e invece di risolverli, li fanno complicare e alterare nel crogiolo delle leggi e dei regolamenti.

Sotto questo aspetto deve guardarsi il. problema delle spese pubbliche nel Mezzogiorno, che non sono semplici criteri di favori che lo stato elargisce, ma ragioni organiche di vita locale o mezzo e strumenti di sviluppo generale, che lo stato integra o assume a suo carico, per la rivalutazione di energie produttive.

Ma tutto ciò è impossibile se non si riforma il metodo, se l'Italia del sud non prende la sua posizione politica di saper fare e volere le sue leggi come elementi diretti della sua atti- vità e del suo pensiero, e di saperle attuare con le sue forze organiche e con la sua caratteristica regionale. Oggi si può par- lare di regione, senzz viclure il principio naziorralc c rrnitorio: ebbene, parliamone noi, che dobbiamo, meglio degli altri, co- noscere i nostri bisogni e i nostri interessi, e che dobbiamo su- perare la nostra crisi, non domandando l'elemosina dei favori governativi, ma creando la nostra coscienza politica, nell'organi- amo della nostra vitalità e nel naturale sviluppo della nostra forza.

Così rispondo affermativamente al quesito, che assilla il pensiero italiano e meridionale, se il Mezzogiorno può trasfor- marsi da un regime economico passivo a un regime attivo - si intende, nella affermazione di una ~oli t ica mediterranea; - ma a condizione che si superino le tre barriere poste dal regime do- ganale, dalla pressione tributaria, dalla legislazione uniforme e livellatrice.

Vi sono energie adeguate del Meiizogiorno per potere - sia pure con Ia linea politica così precisata nel triplice rapporto economico, tributario e amministrativo - affrontare il suo av-

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venire come centro mediterraneo? A questa domanda l'istinto mi .dice di rispondere di sì; ma prima di rispondere, occorre analizzare i fattori sostanziali di questa rinascita.

I1 primo è quello delle braccia dei nostri lavoratori meri- dionali. L'emigrazione è stata una penosa «via crucis » tanto dell'emigrante fuori patria, quanto della nostra economia e della nostra vitalità civile e domestica in patria. Una prova tragica, che noi oggi vediamo di lontano, come un grave pericolo sois passato e come un doloroso esodo di popolo in cerca di altra patria, a cui la propria era matrigna. Oggi la prova pel Mezzo- giorno può dirsi superata: molte vittime vi sono state, e di tali vittime è seminato il cammino della conquista umana; ma la prova aspra ci ha dato risultati degni di un gran popolo nel suo divenire.

L'amore alla patria, alla famiglia, al culto, alla tradizione religiosa è rimasto come un grave vincolo morale che ci lega ormai a un'altra Italia che si è formata nell'America del nord e del sud e nell'Africa settentrionale. Le rimesse degli emigranti hanno influito sulla bilancia commerciale, che la sola nostra pro- duzione non poteva colmare; coloro che son tornati in patria, han- no portato l'esperienza del mondo ed i risparmi dei loro sudori, ed hanno costituito una piccola proprietà produttrice, che ripara le perdite di quella che veniva venduta per emigrare o che era messa all'asta dal fisco e dai creditori.

Ma questo fenomeno, ieri dannoso e oggi confortevole, ha mostrato che il nostro lavoratore meridionale ha volontà, ener- gia, facilità di apprensione, forza di resistenza. Oh, perché non può in patria dimostrare quanto dimostra all'estero? E notevole questo fenomeno: trasportate il meridionale fuori del suo am- biente, mettetelo nel contrasto della vita, perché ne superi le difficoltà, toglietelo dalle impressioni scoraggianti di impotenza, e ne farete un altro uomo.

E l'ambiente nostro, che deve essere trasformato e vivifi- cato. A far ciò occorrono mezzi idonei. Il rilievo principale, che ho letto in molti libri che parlano del Mezzogiorno, è che non vi sono capitali e che il ritmo del denaro è tardo. Gli sta- tisti daranno ragione a coloro che dicono che il Mezzogiorno non ha capitali; io dico che esso non ha fede nel suo capitale,

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e quindi gli altri non hanno fede in esso, non perché di fatto non vi siano dei capitali - benché in misura inferiore alla me- dia generale per abitante italiano, - ma perché questo capitale o è messo nelle casse postali e di risparmio, owero in istituti, che sviluppano la loro attività principale fuori del Mezzogioxio e in imprese che poco ci daranno di risorse e di compensi.

E pure, al pensiero di come i nostri padri han potuto ren- dere fertili le zone costiere di Amalfi e Positano o le lave di Catania, han tentato la colonizzazione di vasti latifondi, owero han trasformato in vigneti le zone alpestri della Calabria, c'è da aver fiducia nella volontà tenace, nel risparmio fatto di sa- crifici della nostra gente, quando la speranza, anche tenue, ne alimenta le forze.

Le iniziative private, quali le nostre casse rurali e le leggi sul credito agrario fino al decreto-legge Micheli del 7 giugno 1920 - basato sui due grandi istituti del Banco di Napoli e di Si- cilia, - segnano l'inizio del nostro risorgimento agricolo, che ebbe le crisi fomiidabili della GHossera, della mosca olearia, della peronospora, della hiancorossa; e si deve a questo sforzo di denaro e di risparmi, esclusivamente nostri, se si poté vin- cere l'usura feroce e rifare in parte notevole la produttività del nostro suolo esausto, mediante una più o meno ragionevole con- cimazione.

Le due iniziative statali del consorzio zolfifero e della ca- mera agrumaria di Sicilia - che diedero palche utile risul- tato, ma che di fatto, partendo da erronei concetti economici, falsarono per via il carattere e la funzione loro con infiltrazioni politiche - oggi possono essere discreditate e tali da doversi O

trasformare o eliminare; ebbero aiuti statali, ma gran parte del capitale impiegato era dei nostri risparmi, fatti di sudori e non frutto parassita di facili impieghi ai margini dello stato.

Questa forza di risparmio e le agevolezze del credito agra- rio oggi, nella crisi economica generale, hanno limiti imposti O

insormontabili; è la condizione generale del nostro paese, che ci fa invocare, con opportune ~rudenze e precauzioni, il capi- tale straniero. Il tentativo di impianti idroelettrici, fra i quali primo e di grande importanza nazionale l'utilizzazione delle acque della Sila (il cui piano ha già avuto, oltre le agevolezze

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di legge, parte del finanziamento); il programma di bonifica- mento agrario e di irrigazione (primo e di enorme utilità quello della piana di Catania, in corso di concessione); il completa- mento della rete stradale agraria e comunale, esigono capitali ingenti; altri capitali occorrono per gl'impianti trasformatori dei prodotti agricoli, di che abbonda il Mezzogiorno. La nostra capacità ed i limiti del nostro risparmio non sono adatti a si- mili imprese; i nostri banchi, i nostri istituti di risparmio non possono affrontare l'immobilizzo del denaro; ma basta che i no- stri capitali mostrino di non rifuggire da tali imprese, per orien- tarvi fiducioso il capitale del Nord e quell'altro straniero, che ha bisogno di sfogo e di utile impiego.

Con. Lugi Laazzatti ammoniva nel 1901: « quale sarà l'av- venire del Mezzogiorno, tale sarà quello del regno, poiché se non si rialzano le sue sorti, esso impoverirà le altre parti d'Ita- lia )); però, a destare questa solidarietà, il Mezzogiorno ha la potenzialità non solo nella facoltà di risparmio ancora forte, perché la vita da noi ha meno agi ed è più vivo il senso della parsimonia, ma nell'istinto di salvezza, che oggi è più impe- rioso, perché la crisi generale opera come stimolo decisivo.

Io ho fede nelle nostre forze ingenite; però perché queste possano utilizzarsi, occorre una efficace preparazione, che sarà un'altra vigilia (come fu aspra vigilia l'emigrazione), cioè l'av- viamento della gioventù alla sua formazione tecnica.

Errore e miseria han portato una parte del ceto semibor- gliese, e anche del ceto operaio, verso l'impiego: l'istruzione secondaria di ginnasio, di scuole tecniche e anche (strano a dirsi) di scuole agrarie, han preparato una falange in cerca di posti.

Il piccolo impiego comunale di usciere, di commesso di se- greteria, l'impiego della guardia di finanza, del carabiniere, della guardia di pubblica sicurezza, l'impiego burocratico dello stato danno una fortissima percentuale di meridionali. La non suffi- ciente rimunerazione (oggi che i costi sono così alti) e lo sfolla- mento burocratico serviranno (come è capitato alla guardia re- gia, che aveva almeno 1'80 per cento di meridionali) a dare un

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colpo a questa concezione casalinga del modesto ma sicuro im- piego, ricercato anche per una pretesa elevazione sociale nel poter lasciare i ferri del mestiere e indossare una divisa. Oc- corre invece una preparazione e istruzione tecnica e professio- nale, per avere una nuova generazione che si orienti verso il mondo del lavoro utile e produttivo. Via le così dette scuole popolari tecniche; diamo al Mezzogiorno scuole professionali specializzate; facciamo veramente uomini preparati alla lotta, sia che vadano all'estero, sia che restino in patria. L'operaio italiano è preferito, non solo per l'assiduità al lavoro e la sua sobrietà (almeno in confronto con gli altri), ma per la sua facilità nell'apprendere e nell'adattarsi, e non solo perché costa meno, ma 'per il suo rendimento; onde per questo-lato le nostre indu- strie possono ben affrontare e superare la concorrenza. Ma se questo geniale lavoratore fosse tecnicamente preparato, avrebbe una potenzialità assai maggiore, e potrebbe servire all'inquadra- mento e alla guida di quelle forze, che noi abbiamo, e che non sappiamo utilizzare.

Al capitale formato dai sudati risparmi, al lavoro geniale, corretto da preparazione ed esperienza tecnica (due valori che si trovano largamente, nel Mezzogiorno, allo stato inerte) occorre aggiungere altri due elementi, perché la nostra razza si rafforzi, si tempri nella lotta e maturi essa da sé la sua risurrezione: il risanamento igienico e il rinvigorimento morale. L'inizio esiste: i comuni che hanno acquedotti oggi sono numerosi; due o tre decenni addietro, la percentuale di comuni sprovvisti di sem- plice alimentazione idrica erano moltissimi; la lotta antimala- rica mediante la chinizzazione prima della guerra procedette discretamente, e in alcune parti bene: ricordo l'opera della Cro- ce Rossa. Anche la lotta antitracomatosa e quella antituberco- lare procedono con un certo successo. Certo, la percentuale di morbilità e di mortalità è notevolmente diminuta da quella di un tempo, e le statistiche di leva militare dànno degli indici di miglioramento abbastanza confortanti. L'ospedale non è un privilegio di grande città; l'asilo infantile si è diffuso nei mi-

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nori centri, la propaganda igienica nelle scuole è tentata; voglio ricordare le scuole all'aperto del mio comune e gli asili di p. Semeria nella Basilicata.

Perché non moltiplicare simili istituzioni, invece di sciu- pare tempo, denaro, energie, nell'asprezza delle lotte locali, di carattere personalistico, senza ideali, senza grandi soddisfazioni, che vincolano ogni sana attività e contristano e rendono abbietti a sé e agli altri inutili, vittime e succubi della malavita locale, qualunque ne sia il nome specifico o storico?

L'altro elemento di forza è il rinvigorimento morale. I1 ri- spetto alla famiglia, la santità del focolare domestico, la conti- nenza nei costumi è un pregio, o era un pregio, del nostro am- biente: l'emigrazione, che spesso divide la famiglia per lunghi anni, ha recato grandi mali all'ambiente morale. La miseria aggiunge i suoi stimoli al decadimento, specialmente nella for- mazione del carattere e nella sua tempra, quando, invece di spingere alla lotta per superare le condizioni aspre della vita, trova il terreno di adattamento a degradanti mestieri o a paras- sitismi sociali. Là dove il lavoro afferra l'uomo e lo costringe allo sforzo per tutta la vita, lo redime e lo eleva moralmente: molte braccia vi sono e il lavoro produttivo purtroppo è ancora insufficiente. Bisogna proporzionare il rapporto tra braccia e la- voro; avremo tre effetti: uno morale, uno sociale, uno econo- mico, effetti salutari per il nostro avvenire.

Un problema tecnico-sociale, che, per la sua vastità, può ben dirsi un problema meridionale (benché non tocchi tutte le no- stre regioni), è quello del latifondo, e si connette alle condi- zioni economiche, demografiche, sociali e morali del nostro con- tadino. Che egli agogni a due beni, il pezzo di terra e la casetta, è noto a tutti; ne sente intera la passione, che ha fondamento domestico sano e razionale; una delle piaghe di zone come le Puglie e l'interno della Sicilia, è proprio il bracciante o il sala- riato, che vive nei centri urbani e non si interessa alla produ- zione della terra; il salario è il solo suo cespite per quei giorni lavorativi, che il nostro clima consente. Chi ricorda le inchieste

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agrarie, i salari di fame, i patti angarici, giustifica l'emigrazione. Sarebbe un torto attribuire tutta la colpa al crudele padrone o al signore assenteista o al gabellotto strozzino, di che è piena la letteratura del problema; molte delle cause del male sono state e sono tuttora naturali, economiche e politiche; l'azione de- gli uomini, però, vi ha la sua parte; e quando questi non hanno i freni sociali e morali, può degenerare h o al sopruso, h o alla violenza. Ma si sa che gli eccessi si scontano; e il non aver vo- luto o potuto iniziare una soluzione onesta e razionale del pro- hlema terriero, ha dato luogo prima all'abbandono da parte del proprietario assenteista, che ha aggravato i latifondi di ipote- che; poi all'abbandono operaio per l'emigrazione; i n h e (dopo il ritorno di molti emigranti per la guerra e la difficoltà di nuo- va emigrazione) ai tentativi legali ed illegali di occupazione e di esproprio, alla pressione economica dell'acquisto da parte di società di contadini, anche al disopra del prezzo normale. Tutto un periodo caotico, che prepara altri danni: quando, diminuite le asprezze del cambio che formano oggi barriera doganale, il prezzo del grano scenderà ancora, e la cBsi agraria sarà acuita per le difficoltà della normalizzazione del mercato e l'incapa- cità di acquisto delle nazioni vinte. Ebbene, sarebbe da folli non vedere che questo problema del latifondo è nella fase dina- mica, e deve avere un suo ciclo razionale. I tentativi legislativi sono stati criticati, perché meccanizzavano la soluzione del pro- blema e non davano i mezzi sufficienti alla soluzione. Non vengo qui a discuterne la parte tecnica; sarebbe fuori tema. Solo dico che l'iniziativa statale creava tre vantaggi: primo, quello del concorso governativo alla spesa del bonificamento agrario (case, corsi di acqua, strade), che sono necessario inizio all'awiamento risolutivo dell'immane problema; secondo, quello del credito agrario per l'acquisto dei terreni, atti a cultura intensiva e a formare la proprietà famigliare; terzo, quello della riforma del- l'enfiteusi e della creazione dell'istituto di riscatto. Oggi la rea- zione agraria spazza di un colpo questo buon inizio, per la paura che i proprietari nutrivano dell'esproprio coattivo: forma già in azione con l'opera dei combattenti, che non ha perciò tur- bato il nostro regime di proprietà e la nostra agricoltura.

I meridionali non hanno compreso che dovevano imitare i

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bonificatori romagnoli, emiliani e veneti; questi - non preoc- cupandosi molto di certe questioni giuridiche sul regime di pro- prietà - si fecero aiutare dallo stato in tutti i modi, per redi- mere i terreni dalla palude, renderli atti alla gande cultura, farne centri di abitati floridi e di colonie numerose. L'obbliga- torietà del consorzio, la possibilità di esproprio, l'alea della spesa, che cosa sono di fronte al vantaggio capitalistico della gran- de industria agricola del bonificamento? Non così i nostri miso- neisti; invece di discutere, negarono; e lo stato risparmia i de- nari che avrebbe dovuto spendere nel Sud. Se la crisi agraria verrà a battere alle nostre porte, avremo popolazioni turbolen- te, alle quali non si potrà dare il piombo invece del pane; op- pure popolazioni che di nuovo si avviano all'estero, quantun- que dure siano le sorti dell'emigrazione disorganizzata. Il pro- blema del latifondo è immanente, è di carattere economico e so- ciale, ha riflessi politici; e l'attuale ministero non può ignorarlo, o riporlo nel dimenticatoio con una frase, come ha creduto di fare l'on. De Capitani.

La soluzione del problema agrario deve contribuire a for- mare quel ceto medio economico, che è molto limitato nel Mez- zogiorno, e che è uno dei nessi connettivi più saldi della so- cietà; e che - per il fatto di non essere né troppo piccolo né abbastanza ricco - sente meglio la spinta al lavoro, alle im- prese, ai guadagni, e quindi è una forza dinamica di primo ordine, molto maggiore di quelli che possiedono troppo, che sono lontani dal tumulto della vita che lavora, privi della eb- brezza che dà il contatto con la natura, che si trasforma e si rinnova nelle sue forze produttive.

Un secolo di sforzi, dopo l'abolizione della feudalità, dopo la quotizzazione dei demani comunali, dopo la vendita del pa- trimonio ecclesiastico, con tutti gli errori commessi, è valso a formare una prima zona intermedia fra il semplice lavoratore salariato e il latifondista; ed è erroneo dire che non esista il ceto medio nell'agricoltura meridionale. Certo, in nessun po- sto, meno nelle zone litoranee (che fan così bella cortina alle asprezze dell'interno), il successo del ceto medio è alla pari di quello del Piemonte o della Liguria. Ma bisogna aggiungere che né la politica generale, né la cultura scolastica, né l'avviamento

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professionale hanno contribuito assai a questa radicale trasfor- mazione, che è tanto più diflicile nel Mezzogiorno, quanto mi- nore è il capitale circolante e quanto più contrarie sono le con- dizioni della natura, che non possono vincersi senza grande sforzo. Però questo sforzo è, e deve essere, veramente nostro: poggiato su basi tecniche, solide, di attività e di intelletto. Dico « intelletto D, perché la nostra cultura scientifica e ideologica, deve mirare, nella sua generalità, a formare una base realistica ai nostri problemi economici, tecnici e politici; perché le idee sono la prima forza, sono quelle che determinano la volontà, che creano le energie, che formano la grande sintesi dell'atti- vità umana.

La visione del nostro éssere, delle nostre deficienze, dei bi- sogni, degli interessi, delle forze insite al nostro organismo, deve essere fatta da noi, e completa. Così soltanto il Mezzogiorno sarà rivalutato con le altre regioni d'Italia, non come un ingombro pesante alla prosperità nazionale, ma come pari nelle respons'a- bilità e nell'attività al resto della patria nostra.

Un'ultima domanda: una politica del Mezzogiorno così de- scritta, che faccia centro il Mediterraneo, non ferirebbe gl'in- teressi dell'alta Italia, non potrebbe darci un fallace indirizzo in politica estera?

E un vecchio pregiudizio, non espresso certo in termini così chiari, né prospettato in un quadro sintetico, come ho creduto '

di fare oggi a Napoli; è un vecchio pregiudizio, al quale sono legati interessi colossali, per ragioni di politica internazionale non del tutto italiane, né del tutto utili all'intera compagine del nostro paese.

La risposta alla prima parte della domanda è stata da me chiaramente accennata in questo discorso, affermando che una politica del Mediterraneo può coesistere con una politica del centro e dell'oriente europeo; aggiungo che una tale politica risponde contemporaneamente e solidamente agli interessi reali

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e legittimi del Sud e del Nord, agricolo e industriale. L'alta Italia manifatturiera deve, per. necessità, gravitare verso il ba- cino danubiano, come l'alta Italia agricola dovrà, col ,tempo, ritentare la conquista dei mercati svizzeri e tedeschi. Ebbene, nessuno dei vecchi stati, che la guerra ha trasformato o distrutto, ha interessi diretti nel Mediterraneo in contrasto con noi; se la Jugoslavia tende a Salonicco, non può per questo danneg- giarci, mentre deve con la Jugoslavia farsi nellPAdriatico una politica che si coordini alle nostre esigenze. Gino Arias, scri- vendo appena dopo l'armistizio, depreca il ritorno di una poli- tica economica con la Germania e gli ex-stati austriaci, perché potrebbe a nostro danno ripetersi il tentativo di assemimento del periodo triplicista; e crede che l'agricoltura italiana ne possa fare a meno. Oggi le condizioni economiche e politiche dell'Eii- ropa centrale non consentono imperialismi economici a nostro danno; né le condizioni di rapporto fra l'Italia e la Germania d i oggi hanno qualsiasi somiglianza o proporzione con quelle di quarant'anni fa. Per giunta, la nostra capacità industriale oggi è migliorata e lo sarà del pari domani, per quella utilizzazione di forze idroelettriche, che ci daranno una benché parziale au- tonomia dalla soggezione del carbone.

Nessuno oggi, del resto, vuol rinnovare gli errori di una po- iitica siderurgica che costringa il resto dell'ltalia a intisichire. La politica del carbone e del petrolio può farsi e deve farsi dall'Italia, senza vincoli politici e militari che ne rovinerebbero l'avvenire. Quando il centro d'Europa avrà normalizzato i cam- bi, avrà raggiunto una possibile capacità di acquisto, e sarà risolto il problema delle riparazioni che oggi ci tormenta, do- . vremo trovarci con l'attrezzatura commerciale e industriale adat- ta, perché tornerà ad essere, anche meglio di prima, un futuro mercato italiano. E qui cade acconcio accennare a quel tenta- tivo di unione doganale, che nell'agosto scorso parve per un momento possibile verso l'Austria. Tale unione, se concepita co- me una soluzione del problema austriaco, che tanto interessa I'Italia, era certo un errore; però, se prospettata come un ele- mento di un piano politico futuro, sarebbe di grande importan- za, anche perché risolverebbe il problema di Trieste e di Fiu- me. Quando le condizioni monetarie lo potranno consentire, una

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unione economica e possibilmente doganale dell'Italia con la Jugoslavia, l'Austria, la Cecoslovacchia e l'Ungheria potrà inau- gurare un regime di scambi sulla base di libertà. Potrebbe sof- frirne qualche industria, ma i commerci aumenterebbero, e una nuova vita si metterebbe nel vecchio corpo della nostra economia.

Non voglio la taccia di sognatore: ogni idea nuova e vasta ha difficoltà a penetrare; la discussione sui giornali è stata no- tevole. La vecchia Intesa cade: meno l'interesse comune delle riparazioni tedesche e dei debiti e crediti, oggi il legame poli- tico fra Inghilterra e Francia e Italia è scosso; i rapporti di buon vicinato e di vitalità economica dovrebbero continuare, superando naturali contrasti. Se la Francia diverrà monopoliz- zatrice del ferro e del carbone (cosa che all'Italia non giova), deve pur aver un mercato per vendere tali materie prime. Inol- tre la Francia e l'Italia hanno interesse a non volere un'Austria legata o, peggio, unita alla Germania; e l'Italia dal suo canto ha tutta la ragione a non volere ricostruito l'ex-impero Austro- Ungarico, neppure sotto l'aspetto di unione economica danu- biana, che riereerebbc c m pig asprezza, nel bacino adriatico, le vecchie lotte economiche e politiche. L'Adriatico deve essere mare comune all'una e all'altra sponda, e deve entrare nella nuova sfera di attività economica; Tricste deve risorgere, Fiu- me non deve morire; il loro hinterland sono Jugoslavia, Un- gheria, Austria e Cecoslovacchia, e reciproco mercato è l'Italia: ponte verso ovest, sbocco di mare, forza economica superiore alla loro, nazione che non fa e non può fare imperialismi, e non può destare apprensioni ed ostilità.

Ebbene questa politica sarà la nostra, insieme a quella me- diterranea: politica puramente economica, di lavoro, di scambi, di cooperazione, di pace, di dignità verso l'estero (affrettiamoci a chiudere la vertenza di Rapallo e Santa Margherita con la Jugoslavia); in cui le due parti dell'Italia, Nord e Sud, abbiana due centri di sviluppo e di convergenza, come un insieme eco- nomico, che spunta più chiaro dalle rovine della guerra; la quale, insieme alla sicurezza dei nostri confini e al completa- mento della nostra unità, speriamo ci abbia dato la coscienza della nuova posizione ~olitica. Non certo quella di essere l'an- cella o il terzo incomodo dell'Intesa (che nulla seppe dare a

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noi del bottino di guerra, cosa che oggi ci giova nella valuta- zione morale degli altri popoli); non certo quella di puro equi- librio 'nel giuoco delle grandi forze internazionali in contrasto, come awiene oggi nelltrto dell'Inghilterra con la Francia; ma quella posizione centrale, che possa farci fare una politica di pacifica espansione mediterranea e adriatica, che valga a valo- rizzare la nostra economia e gli sforzi produttivi delle nostre industrie e dell'agricoltura. Così il Sud un'altra volta, dopo l'uni- tà morale e politica conquistata nel 1860, si ricongiunge al Nord nella unità economica, intravista, iniziata e voluta nel tormento del dopo guerra.

Mi direte che faccio della poesia. No; voglio essere una voce che risuoni e richiami ad una realtà, presente e futura, fatta di elementi concreti, come una politica lungimirante che dà la coscienza a6 un popolo. I tedeschi, dopo le vittorie napo- leoniche, ebbero le letture di Fichte come un richiamo alla coscienza del loro essere. Dal 1815 al 1870, in mezzo secolo e più, giunsero alla conquista della loro personalità politica, della loro autonomia di razza, della loro esistenza economica. Si crearo- no così l'impero nel loro paese, nel mare e nelle colonie. Dal 1870 al 1914 lo sforzo immane li portò alla guerra, e quindi alla tra- gedia. Ma la loro coscienza di popolo non viene meno. Noi, come italiani, dal punto di vista politico ed economico abbiamo la stessa storia, benché in altre proporzioni. Furono i politici e gli scrittori del Mezzogiorno che, dopo il tentativo di Murat, so- gnarono una unità italiana, monarchica o federativa, ma unità* Cinquanta ami, e la nostra unità - sforzo di una classe intel- lettuale e cittadina più che di massa - ebbe i successi roman- zeschi del Risorgimento. La coscienza unitaria del Mezzogiorno non divenne coscienza politica e coscienza economica naziona- le; deve divenirci. Ecco lo sforzo.

I partiti politici di ieri erano localistici, campanilistici, per- sonali, frazionati; il contatto limitato fra le provincie meridio-

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nali isolava la vita cittadina; Napoli, Palermo, Bari, Cagliari non erano metropoli, perché anch'esse lontane dal ritmo econo- mico, con partiti localizzati, tormentati da problemi fhahziari, assillati dalla mafia e dalla camorra, di clie si giovarono alter- nativamente i partiti locali e il governo centrale.

Oggi basta: i partiti nazionali debbono far gentire che la cerchia della vita politica è estesa dall'un campo all'altro dPIta- iia, che la solidarietà, invocata da Giustino Fortunato, non è un semplice ed assurdo altruismo di due popolazioni che ab- biano interessi, mentalità, costumi diversi, ma una convergenza di politica e di economia, in uno sforzo ristoratore della nostra vita nazionale.

Per questo noi neghiamo il diritto a ministri e a uomini politici di venire a scoprire le nostre regioni, a compatire le nostre miserie; domandiamo ai partiti e al governo di conoscere ,&n dove la politica nazionale trova la sua convergenza nello aviiuppo degli interessi locali.

Per noi popolari il problema è sintetico; comincia col ri- sanamento della nostra vita pubblica d2 egni forma di parassi- tismo locale e di oppressione governativa, che crea l'abbiezione del pulcinellismo e del girellismo, lo sfruttamento delle basse voglie di partito, e così ne esaurisce la comprensione di politica generale. Noi vogliamo cooperare a far vivere il Mezzogiorno con la sua vita e la sua figura, non avulso dai ritmo della eco- nomia e della politica nazionale, ma come parte integrante del- . . l'Italia una: una di spirito, di volontà, di interessi, di fede, di vita e di awenire. Sprezza e calpesta il Mezzogiorno, chi ne @frutta gli istinti e ne mantiene l'asservimento politico. Noi po- polari, pochi, modesti, sinceri, diciamo una parola di verità e di amore al Mezzogiorno: tutti i popolari, non solo i meridio- nali, tutti i fratelli di ogni parte d'Italia, che stasera sono .qui presenti in ispirito nel nome del nostro programma e della nostra idea.

Agli altri partiti non neghiamo il merito di avere agitato .da tanti anni questo problema, benché contemporaneamente non abbiano contribuito a formare una salda coscienza collettiva, per l'intristimento doloroso delle coalizioni e delle clientele. Ma noi popolari, arrivati da pochi anni nella vita politica, ab-

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biamo avuto il merito della nuova impostazione, che oggi, in questo giorno che ricorda la nostra costituzione di partito, riaf- fermiamo, quale corollario degli sforzi fatti - alla camera e fuori, al sud e al nord - per destare fra noi e presso gli altri una vera coscienza della questione meridionale, in quanto pro- blema nazionale e unitario.

Il socialismo meridionale non ha mai impostato il problema ne1 suo complesso; ha rilevato le condizioni sociali così depresse e il triste fenomeno del bracciantato agricolo o della disoccu- pazione urbana, e li ha sfruttati ai fini politici. Per esso colo- nie, Mediterraneo, tariffe doganali non sono che strumenti bor- ghesi: le popolazioni povere e i lavoratori stanchi di lotte e di speranze sono andati o vanno al socialismo, per un gesto di pro- testa o come per un'ultima speranza.

Il massonismo anticlericale delle nostre provincie ha allon- tanato le classi urbane e professioniste dalla fede e dalla pratica cristiana, prima in nome della nazione, poi in nome della scien- za, ed ha rotto così i rapporti morali fra le classi alte e il po- polo. Occorre che quel che il partito popolare italiano fa nel campo politico, facciano gli organizzatori nel campo sociale e dell'azione cattolica, specialmente giovanile e femminile, per rinsaldare i vincoli sociali fra le varie classi in nome delle virtù cristiane, perché è nostro male profondo l'abisso che spesso se- para le classi sociali, che si ignorano e si odiano, mentre la poli- tica spesso unisce coloro che sfruttano il popolo e se ne fanno sgabello.

Oggi, fascisti e nazionalisti si dividono l'entusiasmo e l'arri- vismo meridionale. Non discuto la conversiorre di molti demo- cratici di ieri, né dei socialisti, passati al fascismo e al naziona- lismo; ma debbe onestamente auspicare che si sollevino dalla +ione di interessi localietici e di preminenze personali, ad una larga percezione del problema meridionale e della sua dina- mica. Se una parola può venire da me al mio amato Mezzogior- no, alla mia Sicilia, lontana ma sempre presente al mio cuore, è che cessino i conflitti locali, che siano superate le competi- zioni di parte, che si dia a tutte le energie il diritto di vita e di lavoro. Non si aggiunga al vecchio tormento quello nuovo delle violenze, sicché la vita cittadina divenga intollerabile nella ri-

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surrezione di dominii proconsoleschi o di sopiti desideri di feudi politici

La vecchia democrazia è forte nel Mezzogiorno: sta in ag- guato, aspetta, si insinua nelle pieghe dei nuovi partiti, vive del suo bagaglio, del vecchio idealismo retorico, del procaccianti- smo parlamentare, dell'anticlericalismo Iocale. Essa non ha sa- puto elevarsi a forza motrice della vita del Mezzogiorno, perché non ha superato I'affarismo provinciale e non è divenuta vera- mente un partito nazionale.

Il fascismo, come metodo, dovrebbe valere ad abbattere le vecchie costruzioni e impalcature che danneggiano e inquinano. la nostra vita. Sarà da tanto? O non ripeterà l'errore di fare del Mezzogiorno il campo di speculazione politica e di clientele? non perderà qui la sua fisonomia, asservendosi alle consorterie? la gioventù nuova saprà superare le insidie delle volpi politiche e la tentazione di credersi dominatori, senza esserlo? Il pe- ricolo maggiore però sta altrove; non è una presa di possesso alla garibaldina, che muta il Mezzogiorno e lo fa rivivere; ma nessuno di noi si augura che, dietro al fascismo al potere, forte della sua gioventù, debole della sua inesperienza, si annidi- no la speculazione dell'alta banca, I'internazionalismo ebraico, la siderurgia del Nord, e si ripeta per l'avvenire lo sfruttamento del passato. Sta al Mezzogiorno - cioè a tutte le forze politi- che meridionali, nella solidarietà difficile, ma doverosa, della nostra terra e della nostra razza, tutti nell'interno dei propri partiti - che la questione meridionale venga conosciuta, sen- tita, valutata, e che si superino i vecchi e i nuovi ostacoli a risolverla.

La redenzione comincia da noi. Questo è canone fondamen- tale che noi popolari del Mezzogiorno proclamiamo, come un inizio di forza e di vitalità che deve conquistarci il dovuto po- R ~ O nella vita italiana; la redenzione comincia da noi! La nostra parola è questa: il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno! Così il resto dellBItalia riconoscerà che i1 nostro è problema nazionale e unitario, basato sostanzialmente nella chiara visione di una politica italiana mediterranea e di una valorizzazione delle no- stre forze.

Questa visione non deve esoere monopolio di partito, ma

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coscienza politica della nostra gente, che seppe i dolori e le la- crime di ieri, che visse le più splendide civiltà, che dovette pie- gare allo straniero, ma rimase, nell'animo, latina, cristiana, me- ridionale: come il retaggio di tre civiltà in una, nella esube- ranza di sentimenti e di idealismi, che splendono in Napoli bella e in Palermo ferace: come la visione di un perpetuo so- gno, come l'immagine di un futuro sperato e voluto, come 3 segno precursore del nostro risorgimento.

A questo risorgimento del Mezzogiorno noi - popolari e meridionali - vogliamo cooperarè, come ad una nuova forza sorgente per la saldezza e. grandezza della patria nostra italia- na, che riaffermi, nel futuro domani, i vecchi e i nuovi diritti nel Mediterraneo.

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LA FUNZIONE STORICA

DEL PARTITO POPOLARE ITALIANO

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Molti furono gli ostacoli frapposti alla convocarione del quarto wn- gresso nmwnale del partito popolore italiano, che fu tenuto a Torino nei- Faprile 1923. Questa relazione, t e n a ~ ~ ~ il 12 apri& dal segretmio politico, fu piutosto un discorso. M u s o l i n i , d a r t i c o l o d i dile giorni dopo, pubblicato nel Popolo d'Italia d i M i h o , lo Mni I l discorso d i un nemico, mettendo queste parole nel tifolo.

I l congresso di Torino fu in ZtuLia la prima affermazione collettiva in difesa &h libertà = contro ogni pervertimento centralizzatore in nome dello stato pnteista o dello nazione deificrrra S.

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1. - Più che una relazione dei notevoli passi della nostra sto- ria di partito dal terzo al quarto congresso, i cui dati salienti se- gnerò con il richiamo agli atti del consiglio nazionale, della dire- zione del partito e del gruppo parlamentare, credo che risponda meglio alla nostra coscienza di parte prospettare, nel quadro gene- rale della politica italiana, come è vissuta oggi da noi la realtà vi- va presente e futura del nostro partito nei suoi compiti essenziali e nella sua funzione storica, come derivanti non solo dal com- plesso del nostro programma e degli indirizzi ideali, ma anche dalla forza reale dei criterii pratici di azione e dalla posizione politica assunta ieri ed oggi e preparata per il domani.

Non voglio con questo tramutare la mia relazione in un discorso, che reputerei fuori posto in questa assemblea, sqnisi- tamente politica e deliberante. Essa oggi ha una ben grave responsabilità, pari o forse superiore a quella del primo con- gresso di Bologna, quando si consacrò l'esistenza e la realtà del nostro partito, e vi si diede chiara impostazione; che fedelmen- te abbiamo mantenuta in quattro anni di aspre vicende politi- che e di difficoltà straordinarie. Oggi la nostra assemblea ha il compito delicato, non facile e importantissimo, di riconsacrare l'unità, l'autonomia, le finalità del nostro partito, in momenti quando non mancano insidie interne ed esterne opposizioni; e quando una nuova corrente, che è divenuta potere, tende ad assorbire in sé le forze e i valori di ogni partito nazionale, come in un crogiolo, per formare una nuova classe dominante e di governo.

La mia relazione non investe il problema dei rapporti po- litici con altri partiti, né investe il problema dell'attività parla-

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mentare nel suo compito specifico; la mia relazione riguarda più da vicino e nella sua sostanza il partito nostro come espres- sione politica del pensiero democratico cristiano, e come fun- zione di forza organica e quindi specifica, e di ragione autonoma e quindi individualizzata, nell'attività politica dell'Italia di og- gi, come conseguenza di ieri e come premessa di domani; in una parola, forse troppo sonante: la funzione storica del pur- tito popolare italiano.

2. - Gli amici, che fremono d'impazienza per procedere alla discussione immediata, avranno la bontà di tollerare che questa impostazione venga fatta qui in congresso, in un'ora di eccezio- nali responsabilità per tutti in Italia; perché nessuno possa, den- tro o fuori di noi, falsare il nostro pensiero; e perché, se avrò bene e con chiarezza precisato quello della direzione del partito, l'approvazione di questa relazione, oltre che dell'ordine del gior- no che ne fa seguito, valga ad essere il documento basilare della rinnovellata attività del partito, l'atto di solenne e reciproca fidu- cia fra le varie e necessarie tendenze che vivono e possono vivere nella -uiità del pzrtito, la iiiequivocabile volontà di operare e di agire con la nostra personalità; senza bisogno di domandare a nes- suno un riconoscimento o una integrazione qualsiasi, per ~ o t 6 r credere in noi stessi e nelle ragioni ideali della nostra esistenza politica e della nostra specifica attività di partito.

Oggi è attesa in Italia la parola chiarificatrice del nostro essere di uomini politici e di organismo di parte militante nella vita italiana; e questa parola va detta nella forma più sincera e più elevata, dimostrando di saper assumere le necessarie re- sponsabilità e di saper vivefe con fede la difficile, tumultuosa ora della patria nostra, gravida di avvenimenti e di rivolgimenti, che auguriamo segnino un migliore avvenire.

3. - Ci sentiamo, ormai da vari mesi, ripetere da molte parti che il partito popolare italiano non ha più ragione di esistere, e che se vuole continuare a vivere una qualsiasi mo- desta vita politica, deve trasformarsi, rivedere i suoi orienta- menti, rintonarsi all'ambiente, modificare le sue basi; i meno

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esigenti parlano solo di revisione di posizioni; è vero, non di- cono quaii siano queste posizioni; ma a comprenderne il senso, questa frase ha un non insignificante rapporto con la vecchia ingiuria lanciata ai popolari ed alle nostre confederazioni, di bolscevichi bianchi o neri (il colore non conta), per l'attività politica ed economica nel campo sociale, che ha avuto contrasti notevoli, battaglie ideali, qua e là errori ed eccessi, insieme a sani accorgimenti e a slanci generosi e fervidi di bene.

Fin dalle prime battute è bene chiarire che noi non solo ci sentiamo di non aver finita la nostra giornata politica di po- polari, appena dopo quattro anni di vita; ma che mai come ora ci sentiamo « popolari », e reputiamo che il nostro partito ha una sua ragione profonda e storica di esistenza in Italia e una sua notevole funzione. E diciamo ciò non per un naturale senso e istinto di vita, istinto che non vuole cessare neppure quando la vita è all'occaso; ma per un convincimento profondo e per un'affermazione sintetica della realtà vissuta.

Tralascio qui ogni considerazione teorica, già illustrata ab- bondantemente in varie pubblicazioni e in molte manifestazioni chiare di pensiero e di realtà; non ho ragione di dilungarmi in ricordi storici, che sentiamo come vibrazioni di vita dentro di noi; solo mi permetto fugacemente un accenno alle ragioni e alla natura della nostra esistenza di partito, per poi riferirla al clima politico nel quale oggi viviamo.

4. - Anzitutto la nostra costituzione di partito coincise, e fu effetto e causa insieme, con la partecipazione completa senza riserve politiche e senza sottintesi antinazionali, dei cattolici ita- liani alla vita del nostro paese, dalla quale eravamo stati avulsi per posizioni religiose e storiche, che ebbero il loro ciclo, il loro crescendo e la loro attenuazione in più di un cinquantennio di lotte religiose, morali e politiche.

Le cause più o meno remote furono il sorgere della demo- crazia cristiana prima, l'attenuazione del non expedit poi e la possibilità della partecipazione di uomini cattolici al parlamen- to, che formò una prima schiera di deputati ben preparati alla vita pubblica e in gran parte al di fuori di compromessi pre- giudizievoli, nonostan)e l'episodio gentiloniano. Poscia la guerra italiana unì neUa difesa della patria uomini religiosi ed uomini

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politici, la cui più significativa espressione fu l'assunzione nel ministero Boselli di Filippo Meda, primo ministro di parte cat- tolica dall'unificazione italiana in poi; a breve distanza seguì Cesare Nava, come sottosegretario.

Cogliere il momento nella sua maturazione, proprio l'indo- mani dell'armistizio (il mio discorso a Milano, che preludiava il partito, è del novembre 1918, a quattordici giorni di distanza da Vittorio Veneto, e la prima riunione a Roma fu tenuta il 22 dello stesso mese, mentre l'appello veniva pubblicato nel gen- naio seguente), voleva dire saper valutare il fenomeno nuovo nella sua incidenza storica, e fare un atto coraggioso, il quale dava alla patria nostra il frutto di lunghe speranze, sanava nella espressione politica interna un dissidio civico, nella fiducia che venisse presto il momento che anche il dissidio religioso, che ne era stata la causa sostanziale, se non completa e assoluta, po- tSsse in un giorno essere risolto, senza più l'ingombro di un atteggiamento politico che, anche nella sua negazione, potesse essere giudicato fazioso e antinazionale.

Oggi (e non è la prima volta in Italia) che si riprende con più insistenza e con meno pregiudizi (benché in una for- ma un po' grossolana) l'esame dei rapporti fra chiesa e stato, l'ostacolo dei cattolici cosiddetti antinazioriali non esiste più; e una gran parte di merito, o meglio la cagione politica imme- diata, è proprio la costituzione e l'esistenza del partito popolare italiano.

5. - Perché il nostro partito fu detto « aconfesoionale n? perché non si chiamò addirittura « partito cattolico » ? Ecco l'er- rore primordiale! Così qualcuno va ripetendo, come a richie- dere di sanare una lacuna, o meglio, correggere un errore.

La risposta mi è molto facile: rileggo quel che in propo- sito dissi nella mia relazione al primo congresso del partito te- nuto a Bologna, ove fu sanzionata la natura, lo spirito e l'or- ganizzazione « ~ o ~ o l a r e », e lo trovo di una attualità così viva,' che non posso sottrarmi alla tentazione di rileggerlo in questa assemblea :

E superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cat- tolico: i due termini sono antitetici; il cattolicismo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall'inizio

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abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, e abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione.

« Sarebbe illogico dedurre da ciò che noi cadiamo nell'er- . rore del liberalismo, che reputa la religione un semplice aifare di coscienza, e cerca quindi nello stato laico un principio etico informatore della morale pubblica; anzi è questo che noi com- battiamo, quando cerchiamo nella religione lo spirito vivifica- tore di tutta la vita individuale e collettiva; ma non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamenti di chiesa, né ab- biamo il diritto di parlare in nome della chiesa, né possiamo essere emanazione e dipendenza di organismi ecclesiastici, né possiamo awalorare deIla forza della chiesa la nostra azione politica, sia in parlamento che fuori del parlamento, nell'orga- nizzazione e nella tattica del partito, nelle diverse attività e nelle forti battaglie, che solo in nome nostro dobbiamo e possiamo combattere, sul medesimo terreno degli altri partiti con noi in contrasto.

« Con questo noi non vogliamo disconoscere il passato di *ella azione elettorale, che dal 1874 in poi le organizz,azioni cattoliche italiane, sotto diversi nomi, con adattamenti locali e con limiti imposti nel campo elettorale politico, poterono tentare e svolgere: non solo sotto il concetto di difesa dei principi reli- giosi, contrastati da una politica anticlericale, che imperversava come politica nazionale, che temeva l'influenza della chiesa e del papato nella vita italiana; ma anche con una formazione iniziale pratica, di un contenuto sociale e amministrativo che è servito a maturare un vero e vaeto programma di riforme po- litiche, quale è stato formulato oggi dal partito popolare italia- no. E si deve anche riconoscere che l'aspro e difficile cammino, - compiuto in quarant'anni di tentativi e di sforzi nella vita pub- blica italiana dalle organizzazioni cattoliche, senza la vera figura di un partito politico, in condizioni impari e con tutte le diffi- denze e i pregiudizi antipatriottici, creati da una scuola anticle- ricale, - è valso a far rivalutare, nella coscienza di tutti, il do- vere morale di partecipare alla vita ~ubblica della nazione, senza restrizioni, per portarvi quello spirito cristiano di riforme eco-

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nomiche e politiche che possano contrastare al materialismo e al laicismo di che è imbevuta la società presente: la quale socie- tà ne ha fatto così triste esperimento in cinque anni di cataclisma, e ne vede gli effetti in quella conferenza di Parigi, che si sperò invano dovesse segnare il trionfo di principi morali e spi- rituali nel mondo.

« Oggi era maturo un atto che, senza costituire una ribel- lione, fosse invece l'affermazione nel campo politico della con- quista della propria personalità, e , potesse chiamare a raccolta quanti, senza nulla attenuare delle proprie convinzioni religiose da un lato, e senza menomazioni esterne nell'esercizio della vita civica e politica dall'altro, potessero convenire in un programma e in un pensiero politico non di semplice difesa ma di costru- zione, non solo negativo ma positivo, non religioso ma sociale.

« Così, nell'appello lanciato ai liberi e forti, i. promotori han- no inteso chiamare non solo quelli che hanno militato iin oggi e militano ancora nelle organizzazioni cattoliche o nelle leghe sociali cristiane e in qualsiasi altra forma di associazione eco- riomica o religiosa (le quali hanno finalmente visto valorizzato nel campo politico quel contenuto ideale e pratico che era ra- gione e forma della loro attività); ma anche coloro che, non militando nelle unioni di azione cattolica, sia pure per diffidenze o per pregiudizi diffusi e non controllati nell'ambiente nel quale sono vissuti, consentono e mentalmente e praticamente al pro- gramma e alle finalità del partito popolare, e trovano nel campo politico la polarizzazione naturale delle proprie tendenze e delle proprie convinzioni.

« Agli uni e agli altri, già entrati fidenti nel partito e oggi uniti in questa prima grande ?ffermazione nazionale, io dico che con la loro adesione, essi cementano quella unità politica che deve essere fatta di convergenze ideali, di animosa fattività, di spirito di lotta e di ferrea disciplina D.

Così dicevo a Bologna, nel 1919. Da allora, quante volte i giornali liberali, democratici, socialisti, cioè tutti i nostri av- versari di ieri, ci accusarono di essere alla dipendenza del Va- ticano? Quante volte predissero le sconfessioni ecclesiastiche, che essi desideravano a nostro danno a scopo puramente par- lamentare o elettorale? Venuti i fascisti, sono cambiate le po-

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sizioni ma non è cambiata la tattica. Costoro dicono che fi- no a ieri il partito popolare rappresentava gli interessi della chiesa in un ambiente politico anticlericaleggiante e laico; og-' gi non occorre, perché il fascismo, che è governo, assume esso questa posizione di tutela degli interessi religiosi, con l'aggiunta in meglio che ha sgombrato, se non distrutto, la vecchia con- cezione anticlericale; e quindi è superfluo che esista un partito a tinte cattoliche come il popolare, il quale anzi può essere un ingombro inopportuno per le relazioni fra chiesa e stato.

Tanto la posizione dei demoliberali verso di noi, quanto quel- la dei fascisti, ha dato varie volte occasione a spiegazioni uffi- ciose o ad interventi diretti del Vaticano per far comprendere che la santa sede è estranea al dibattito politico dei partiti ita- liani; che essa, per la sua missione religiosa e universale, non può né intende assumere atteggiamento di partito, né avallarne l'azione; e a proposito del clero che si occupa di organizzazioni politiche, ha rinnovato per l'Italia le antiche istruzioni date per gli altri stati europei, non volendo né implicare la gerarchia quando una propria azione diretta non s'imponga per la neces- saria difesa della religione e della morale; né d'altra parte to- gliere àIla vita civica delle nazioni l'opportuno influsso e con- tributo di uomini ecclesiastici, che possono anche far del bene alla patria loro.

Prevenendo questo giusto, equilibrato e sapiente contegno della chiesa, il nostro partito volle al suo nascere dichiararsi « aconfessionale D, brutta e impropria parola, ma parola corren- te, per significare la propria autonomia ' e responsabilità orga- nizzativa e politica, senza re tendere né di rappresentare la chie- sa, né di monopolizzarne gli interessi religiosi nella vita poli- tica del paese.

Oggi è sorto un altro partito che guarda i ~roblerni religiosi con lo stesso nostro modo di sentire? Se è così, non avremo che da congratularcene; allo stesso modo (e certo con maggiore soddi- sfazione per la nostra coscienza di credenti) come ci compiacem- mo, quando il partito democratico un giorno divenne proporzio- nalista e fu con noi nella battaglia ~arlamentare per la riforma della legge elettorale politica; come ci compiacemmo quando i fascisti divennero favorevoli alla libertà d'insegnamento; come

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ci compiaceremo, quando essi diverranno favorevoli alla costitu- zione dell'ente regione; e così per tutti gli altri postulati del nostro programma.

6. - Ci si fa osservare, anzi ci si ripete con la insistenza di una vecchia canzone, che per l'atteggiamento assunto dal fa- scismo verso la chiesa, il nostro partito viene svuotato del suo contenuto principale; e quindi, come partito che ha portato i cattolici nella vita pubblica italiana, ha già adempiuto al suo compito storico nazionale, e non ha più ragione d'essere, almeno come espressione politica dei cattolici italiani. Se così fosse ve- ramente, noi non solo non avremmo a dolercene, ma sarebbe stata ben gloriosa e utile la nostra giornata politica e la nostra fun- zione nazionale.

Ora, a parte che ancora molto cammino deve farsi per una parziale risoluzione di un problema così vasto e difficile nella sua ragione politica; ben più complessa è la funzione del par- tito popolare italiano, in tutta la vita del nostro paese. E per soffermarci al problema dei rapporti fra stato e chiesa e all'ispi- razioce e al contcnU:o cristiano dc! nostro programma, noi dal- l'intimo della nostra anima diamo una risposta assolutamente negativa alla domanda se il compito del partito popolare italiano sia esaurito, e lasciamo che I'afiermazione awersaria sia pretesto e scusa a quei clericaletti senza convinzioni, che ieri vennero a noi e oggi se ne vanno, ripetendo inconsciamente che già è ve- nuto meno il compito religioso dei popolari nella vita pubblica italiana.

In proposito credo opportuno fare tre affermazioni precise: a) primo: come non abbiamo mai fatto credere né affer-

mato che solamente il partito popolare rappresenti la coscienza cattolica degli italiani, né mai abbiamo parlato in nome della chiesa, anzi ci siamo affermati perciò « aconfessionali », così non intendiamo che altri in Italia, nemmeno i fascisti, possano assumere tale caratteristica politica e tale rappresentanza diret- ta. Ciascun partito deve assumere quella posizione che meglio rispecchi la coscienza nazionale, che è nella sua enorme mag- gioranza religiosa e cattolica. Quindi, noi auspichiamo che in riguardo tutti i partiti sentano il problema religioso e cattolico italiano come lo sentono i popolari.

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b) secondo: purtroppo non crediamo che in una nazione moderna le questioni religiose ed i rapporti fra chiesa e stato si esauriscano in una sola vertenza e in una sola soluzione; sono problemi immanenti e dinamici, una soluzione crea un altro pro- blema; e l'avvicendamento dei partiti spesso polarizza la lotta anche su vertenze a fondo religioso, quali il divorzio, la scuola laica, la beneficenza statizzata, l'esistenza delle corporazioni re- ligiose, la giurisdizione laica sul clero e simili. Così in Francia, nel Belgio, in Austria, in Germania, in Inghilterra, nelle Ame- riche, in ogni stato. Così oggi è e domani sarà in Italia; ogni partito ha il suo posto di lavoro e di combattimento, e cerca, per far adottare la propria tesi, avere quanti più alleati è pos- sibile, ed elabora il proprio pensiero per farlo divenire coscien- za pubblica.

C ) terzo: per questa elaborazione del pensiero di politica religiosa ed ecclesiastica e per questa tendenza a penetrare nella coscienza pubblica, occorre avere un organismo politico, qual è il nostro partito, che abbia la sua base in un programma ispi- rato alle dottrine e alla filosofia cristiana; che abbia quella che nel congresso di Bologna fu detta a anima cristiana del partito » e, per essere più precisi, che segua cc l'etica morale cristiana » anche nell'azione del partito: come valutazione dei costumi in- dividuali e collettivi, come scelta di mezzi e come criteri fina- listici della nostra azione pubblica; e quindi come fondamento dei rapporti sociali e del giure, nel criterio di giustizia cri- stiana e nella concezione della cc funzione etica dello stato 1).

Posto ciò, senza volere per nulla attenuare la concezione di politica ecclesiastica dell'attuale governo, che auguriamo .col cuore possa portare del bene alla patria nostra, e preparare, se non risolvere, il problema dei rapporti pubblici tra lo stato e la chiesa cattolica romana, non possiamo trovare identità di vedute e uguaglianza di posizioni, fra la nostra filosofia ed etica cristiana ed i nostri presupposti programmatici, sui quali è co- struito il nostro partito (come sono costruiti i partiti a fondo cattolico in Europa e in America); e i presupposti programma- tici e teorici degli altri partiti, anche i più filo-cattolici, come furono fino a ieri i nazionalisti. Quei cattolici, che così facil- mente passano alle bandiere degli altri partiti, oggi come ieri

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scindono, nella realtà politica, la loro coscienza e la loro sin- tesi etica e sociale in un momentaneo atteggiamento esteriore. Noi abbiamo ben più grave compito nella vita politica di tutti gli stati civili: realizzare entro la vita pubblica e con l'esercizio delle attività civili e politiche, il programma nostro in antitesi al liberalismo laico, al materialismo socialista, allo stato pantei- sta e alla nazione deificata, che formano nel loro complesso la grande eresia che abbiamo ereditato dal secolo XIX e che gigan- teggia negli spasimi del dopoguerra.

7. - Questi accenni mi dànno lo spunto a precisare un'altra nostra caratteristica specifica che, oggi come ieri, si dà il di- ritto all'esistenza come popolari: ed è la « nostra scuola socia- le ». Come per il fatto della nostra entrata nella vita politica nazionale ci differenziammo da altri cattolici, ieri ben pochi, che questa non sentivano per un tradizionalismo clericale, ovvero per una concezione legittimista, l'uno e l'altro svntimento già sorpassati; così per il fatto del nostro programma cristiano-so- ciale, ci differenziamo anche da quei cattolici che hanno un orientamento puramente conservatore in economia e nelle atti- vità sociali reazionario.

Nel campo della vita politica militante è un po' difficile di trovare e di identificare tali cattolici; nel campo dei puri rap- porti economici ve ne sono di più; e, in fìne, al di fuori di ogni ritmo politico ed economico, ve ne sono degli altri, che formano una massa grigia e inerte e facilmente spostabile. Da costoro siamo o positivamente o negativamente differenziabili e differenziati; ma poiché tutti costoro non sono e non formano un nucleo politico ben definito, restano ai margini di ogni mo- vimento, generale o parziale, sol che abbia accenni conservatori o tentativi reazionari. Così, strano a dirsi, questo elemento cle- ricaleggiante, mentre in religione stava agli antipodi del libera- iismo di ieri, in politica ed in economia ne formava spesso una forte combinazione elettorale.

Fra questi sono vari, molti o pochi non so, io credo p~cbis- simi, che desidererebbero un buon partito cosiddetto clericale, ricco di adattamenti localistici amministrativi ed elettorali, sen-

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za responsabilità diretta di governo né aspirazioni tanto audaci; un partito clericale che tenesse in freno le masse operaie con il concorso della religione; contrastasse, anche con la forza, ogni aspirazione popolare; e facesse da puntello, per gli utili servizi, a quel partito dominante, che si compiacesse di tenere iin certo equilibrio fra politica e religione.

Noi non siamo di questo parere; abbiamo scelta una via aspra, abbiamo affrontato le nostre battaglie, abbiamo cercato di avvicinare le masse lavoratrici alle classi borghesi professio- niste e capitalistiche, non nel concetto di dominio, ma nel ten- tativo di portare una parola di giustizia nella valutazione sociale etica ed economica del lavoro.

I tre partiti di masse siamo i popolari, i socialisti ed i fa- scisti. C'è qualcuno che possa affermare che noi nel campo so- ciale abbiamo l'identica veduta degli altri due partiti? Con i socialisti no: la concezione materialista della vita, il principio della lotta di classe e il termine della dittatura economica e politica di una sola classe ci differenziano sostanzialmente dai socialisti. Ma neanche è possibile la confusione con à fascisti. Questi, e lo hanno ammesso, han preso da noi il principio che la lotta di classe non è una ragione fatale assoluta, ma un epi- sodio contingente, limitato e superabile; hanno ammesso i no- stri postulati della collaborazione di classe nell'economia, e della ragione superiore della nazione e dello stato, come sintesi po- litica anche delle forze economiche e sindacali; però diverso è in loro il concetto di eticità da quello che deriva dal cristiane- simo e che dà il fondamento ai rapporti di giustizia e di carità. La qual cosa per noi, non solo è spiritualmente sostanziale, ma ci dà una ragione specifica di esistenza politica, perché dà la struttura etica alla nostra concezione economico-sociale, e quindi alle lotte da noi impostate, alle soluzioni pratiche da noi volute, al finalismo sociale di tutta la nostra azione politica.

Su questo terreno ci diamo la mano con il movimento sin- dacale e cooperativo bianco o sociale cristiano, che è lo stesso, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, ovunque sia un qual- siasi risveglio sociale ispirato dal cristianesimo, e con quella parte di movimento cattolico sociale che tiene alle medesime ispirazioni e ai criteri direttivi della medesima scuola.

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Anzi, così spesso sono gli stessi uomini i dirigenti degli uni e degli altri organismi, che nella pubblica opinione si com- prende assai bene che i popolari sono l'espressione politica dei cattolici sociali, mentre le leghe e le cooperative bianche ne sono l'espressione economica e sindacale; mentre d'altra parte il movimento puramente cattolico è la espressione etica e reli- giosa dei cattolici in genere.

Quando si dice che gli awersari fanno spesso delle notevoli confusioni sui nostri atteggiamenti e sulle nostre posizioni di po- polari, e non comprendono la divisione delle responsabilità fra popolari, cattolici e sindacalisti bianchi, si dice una cosa per- fettamente vera per l'interno delle singole organizzazioni, che sono non solo distinte, ma autonome e con precisa responsabilità direttiva e pubblica. Ma quando gli awersari vedono che nes- suno di noi, per il fatto che è popolare, intende veder scissa la propria coscienza dall'attività morale e religiosa alla quale si onora appartenere, né ha rinunziato a cooperare per quel che può, direttamente o indirettamente, al movimento sociale econo- mico e sindacale, 6 chiaro che !a sintesi di politica sociale non soltanto è formata nella nostra coscienza, ma è visibile, valutabi- le, sincera e realistica al di fuori; e nessuna sottigliezza formale la può scindere nell'apprezzamento del pubblico.

La nostra personalità è così non solo precisata, ma talmente completa, che un'attenuazione o una confusione in qualsiasi cam- po di attività, la falserebbe, e toglierebbe la forza della nostra propaganda, la ragione della nostra organizzazione, la possibili- tà del proselitismo popolare, le finalità del nostro programma sociale.

8. - Altra differenza sostanziale tra noi e tutti i partiti po- litici operanti in Italia, e quindi tra noi e il fascismo, è nella con- cezione dello stato. Siamo sorti a combattere lo stato laico e lo stato panteista del liberalismo e della democrazia; combattiamo anche lo stato quale primo etico, e il concetto assoluto della nazione panteista o deificata che è lo stesso. Per noi lo stato è la società organizzata politicamente per raggiungere i fini specifici; esso non sopprime, non annulla, non crea i diritti na- turali dell'uomo, della famiglia, della classe, dei comuni, della religione; soltanto li riconosce, li tutela, li coordina, nei limiti

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della propria funzione politica. Per noi lo stato non è il primo etico, non crea l'etica: la traduce in legge e le dà forza sociale. Per noi lo stato non è la libertà, non è al di sopra della libertà: la riconosce e ne coordina e limita l'uso, ~ e r c h é non degeneri in licenza. Per noi lo stato non è religione: la rispetta, ne tu- tela l'uso dei diritti esterni e pubblici. Per noi la nazione non è un ente spirituale .assorbente la vita dei singoli: è il com- plesso storico di un popolo uno, che agisce nella solidarietà della sua attività, e che sviluppa le sue energie negli organismi nei quali ogni nazione civile è ordinata. Tutto ciò parte da una concezione teorica ben distinta, da una filosofia inconfondibile e differenziata, da una valutazione oggettiva della realtà storica; e crea la corrente politica che vi si approssimi, che vi si awi- cini, che operi in conseguenza, che lotti cadendo o vincendo, secondo i momenti storici del divenire umano.

Tutto ciò è nostra convinzione, che diviene atto politico, che crea il partito con tutte le sue interferenze e che ci obbliga a non lasciare il nostro posto di combattimento.

Chi pensa, fra di noi, che i popolari abbiano compiuta la loro ora, pur restando attaccato alla nostra iìlosofia, alla nostra etica, alla nostra concezione sociale, alla nostra ispirazione cri- stiana, o afferma un assurdo o combatte con le ombre, cioè com- batte solo il (('nome del partito, lo statuto del partito, la parte formalistica della nostra organizzazione », non mai la sostanza reale e permanente della nostra vita politica.

Eppure anche il nome, l'organizzazione, la parte formale hanno il loro diritto, quando rappresentano il pensiero, la con- tinuità dell'azione, lo spirito unitario, la forza realizzata e con- creta, lo slancio della attività e del sacrificio; quando hanno una storia intima, vissuta, realistica: e questo per noi è il partito popolare italiano.

9. - Sento dirmi subito: nessuno pensa di confondere il partito popolare con altri partiti, neppure col fascismo; solo s'in- tende rivedere la sua posizione politica, e inquadrarla nel nuo- vo spirito nazionale che si è affermato in Italia con l'avvento

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del fascismo; e quindi s'intende, con atto solenne, che solo il congresso può fare, ripudiare quel sinistrismo antinazionale, che l'ha inficiato fin sul suo primo sorgere, aderire cordialmente al

novus ordo apparso in Italia e divenuto stato fascista. Ho voluto adottare una formula che è l'accusa comune dei

nostri avversari politici di qualunque tinta e colore, come se fosse qui dentro assunta da una corrente speciale del congresso; però tengo a dire che non credo che ci sia alcuno che la possa formulare, almeno con parole così taglienti e recise. Suppongo però che parecchi possono, attenuando la forma, domandare che si valuti la sostanza.

Non intendo entrare nella questione di un atteggiamento politico e di una tattica parlamentare o elettorale; intendo man- tenermi nella sostanza della polemica antipopolare.

L'atteggiamento sinistroide e anti-nazionale ci è stato rim- proverato :

a) per la nostra azione sociale e per la sua naturale ri- percussione nel parlamento; in modo speciale per le questioni agrarie da noi agitrte;

b) per il tentativo parlamentare di collaborazione coi so- cialisti;

C) per l'atteggiamento di opposizione prima della marcia su Roma, e di critica dopo, in confronto al fascismo;

6) per una politica internazionaje pacifista, interpretata come tiepidamente nazionale.

Ci sono diversi dei nostri che, in confronto a queste precise accuse, sentono il disagio spirituale di appartenere ad un partito così diffamato e s'intiepidiscono o addirittura ne escono, foglie morte d'autunno, senza umore vitale che li leghi alla pianta.

La risposta investe la nostra attività di partito in tutti i suoi quattro anni, ma specialmente l'ultimo anno da Venezia a Torino; farò accenni brevi, quali mi sono consentiti dai limiti della relazione.

a) Nel campo sociate.

10. - L'azione sociale del partito popolare, come esplica- eione ufliciale dei suoi organi: congressi di Bologna, Napoli e

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Venezia, consiglio nazionale, direzione del partito e gruppo par- lamentare, a .guardarla oggi a mente fredda e con lo spirito cri- tico, non offre argomenti a revisioni di sostanza, né dà luogo a rilievi oggettivi di deviazione, né giustifica l'accusa di dema- gogismo.

Qualcuno, anche nel nostro campo, fece riserve' per la legge delle otto ore del lavoro che anche noi sostenemmo; ma a parte l'organamento tecnico della legge, sul quale è lecito discutere, oggi anche i critici più malevoli non dicono che, sulle otto ore, popolari e socialisti erano uniti a scopi demagogici e per con- correnza sul terreno sociale; ci ha pensato a disilluderli l'attuale governo con il recente decreto-legge. Anche la questione del- l'impiego privato diede luogo ad osservazioni; ma oggi lo stesso ministero ha prorogato il precedente decreto, e la legge è stata promessa. Non si dirà che la questione sociale varia di signi- ficato, se varia la marca di fabbrica politica! Così continueremo -

lo stesso le nostre campagne per le assicurazioni sociali, per il consiglio superiore del lavoro, per la migliore tutela igienica, morale e sociale del lavoratore, per ogni opera di previdenza e di assistenza dell'operaio dentro e fuori della patria nostra, e per ogni altro istituto di carattere sociale.

La questione dei salari e del caroviveri ha tenuto agitata la massa operaia in molte parti d'Italia per tutti gli anni dopo la guerra. I bianchi han curato di tutelare gli interessi legittimi dei lavoratori; il partito popolarè localmente e nelle vertenze generali ha portato ausilio, appoggio morale e politico. Ci sono stati eccessi da parte delle organizzazioni bianche o da parte di sezioni popolari e di uomini politici?

In questa sede di congresso si giudica delle direttive e della azione degli organi responsabili, e non degli episodi locali ov- vero della azione di organizzazioni autonome. Dobbiamo dire che siamo sempre stati in rapporto con i dirigenti delle confedera- zioni bianche per contenere nella legalità, nel senso cristiano, nel giusto equilibrio economico, le gravi agitazioni che perva- sero le masse lavoratrici dopo la guerra. Lo scopo di immuniz- zare le masse stesse dalla propaganda bolscevica fu sempre per- seguito. Vi furono difetti, deviazioni, momenti difficili, azioni riprovevoli; mai come direttive generali, ma solo come episodi

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locali, più o meno contenuti nei limiti di una lotta che ha le sue fasi e le sue diflicoltà, sì che è più facile giudica're dal di fuori e a distanza, che nelle angustie dell'azione pratica e della pressione collettiva. Mai perciò abbiamo giustificato errori e colpe, ma abbiamo portato quel senso di equilibrio che li fa valutare nell'ambiente e nella cornice propria, senza farli assur- gere a indirizzi generali, che mai esistettero.

Uno degli episodi più notevoli che ci rimproverano, e che è stato rilevato anche dai nostri, è quel voto all'ordine del gior- no Reina, che i deputati popolari nel dicembre 1919 diedero in maggioranza, per l'avviamento alla socidizzazione dei mezzi di produzione. Ricordino gli amici che l'on. Meda, nel fare te dichiarazioni a nome del gruppo parlamentare, precisò la por- tata del voto entro i limiti di un concetto socialmente e cristia- namente ortodosso. A simile indirizzo fu sempre ispirata l'azio- ne parlamentare dei nostri amici: e nel votare le leggi econo- miche e agrarie mai venimmo meno, pur nel vario apprezzamen- to pratico, a l sano criterio di giustizia sociale e di equa valuta- zione economica. L'episodio fu esaurito; pur dissentendo, come feci, dalla opportunità di quel voto, non ho a rilevarne nessuna conseguenza politica o parlamentare.

11. - Ma l'accusa più notevole è nel campo agrario. Ri- cordo che questa fu affrontata largamente al congresso di Napoli ove, in confronto alla tendenza estremista che rimase in note- vole minoranza, veme m a chiarificazione teorica, che anche oggi regge a qualsiasi critica: cioè tendenza a favorire l'incre- mento e la costituzione della piccola proprietà; a -trasformare il salariato in partecipante all'azienda; a precisare la funzione eociale della grande proprietà. 'E tutta la storia antica e nuova del nostro movimento sociale-cristiano.

Nell'azione parlamentare gli appunti furono contro tre ini- ziative: la prima quella degli escomi o disdette; la seconda quella della regolclmentazione dei patti agrari; la 'terza quella della colonizzazione del latifondo.

La questione delle disdette o escomi fu imposta come una legislazione straordinaria del dopoguerra, in conseguenza dei decreti di guerra; apprezzamento sociale e politico di un feno- meno economico straordinario, e in parte pari a quello delle

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abitazioni cittadine. Personalmente io sostenni un graduale ma deciso smobilizzo della terra, come lo sostenni per le case; per- ché la funzione economica del regime di libertà avrebbe dato, secondo me, meno scosse, anche nel campo del lavoro, che non il prolungare di troppo il regime vincolativo. Di fronte ai vin- colisti esagerati prevalse una soluzione intermedia con la legge Micheli, sostenuta dall'on. Merlin quale relatore e applicata con discreta temperanza prima da Micheli e poi da Mauri. Quest'ul- timo fu accusato di avere assai più largheggiato coi contadini richiedenti il mantenimento del vincolo. La questione fu ridotta a cinque o sei provincie, ed ebbe conseguenze limitate. La cam- pagna vincolista del 1922, ripresa da varie parti, fu fermata a tempo, e, dico io, opportunamente; i nostri amici confederali ne ebbero un notevole disappunto, che per un momento li pose in parziale dissenso con la segreteria politica; ma con una azio- ne locale, più o meno bene riuscita, si superò il punto morto del regime vincolistico delle terre.

Questa questione non avrebbe dovuto avere una grave ri- percussione politica, se non veniva unita con quella del regime dei patti agrari, per il quale si tendeva dai popolari (d'intesa cogli organi della confederazione bianca) a introdurre per legge tre disposizioni di massima: il principio del contratto agrario poliennale, quello della giusta causa nella risoluzione dei con- tratti, e l'arbitrato per le vertenze collettive con la giurisdizione speciale. Quest'ultima era stata creata durante la guerra e venne ampliata ed estesa con decreti-legge successivi.

Pur convenendo nelle difficoltà di organizzazione tecnica di simili disposizioni legislative e pur preferendo, come partito po- litico, che ciò venga demandato alle future camere regionali di agricoltura, per le valutazioni localistiche dell'economia rurale, nessuno crede che si tratti di demagogismo quando si parla di contratti agrari poliennali o di risoluzione di essi per giusta causa o di arbitrato obbligatorio. Sulla giurisdizione speciale si possono avere opinioni diverse; però bisogna convenire che le

commissioni mandamentali e istituite per decreto, in molti posti funzionarono utilmente a vantaggio dell'agricoltura; e l'atto iconoclasta dell'on. De Capitani fu una piccola soddisfa-

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zione data agli agrari, con un gesto che per la sua improvvisa-

zione peccava purtroppo di demagogia al rovescio (1). Infine la questione della colonizzazione del latifondo ci die-

de un rifiorire di accuse, anche per la formula adottata, che l'esproprio potrà dichiararsi ai fini sociali. E I'agrarismo conser- vatore ha applaudito a De Capitani, che dichiarò che la legge votata dalla camera'dei deputati dovrà essere bocciata dal se- nato. Convengo con molti che la legge approvata abbia delle im- perfezioni; aggiungo, che di leggi perfette non ve ne sono, specialmente nel campo dell'economia; sostengo che fece bene il partito popolare ad agitare la questione del latifondo, e farà bene a continuare a studiarla, ad agitarla e a sostenerla. Così solo potrà continuare a far sì che una legge venga, anche migliore di quella votata dai deputati, e far sì che il problema meridio- nale agrario si awii alla sua soluzione. .

Dicono alcuni dei nostri oppositori: gli indirizzi agrari del partito popolare, sono teoricamente sostenibili e oggettivamente equilibrati, ma in molti dettagli le soluzioni proposte sono o sbagliate o inopportune o irritanti.

Rispondo: chi non affronta i problemi non sbaglia nei det- tagli ma, quel che è peggio, sbaglia nella sostanza; chi poi affronta problemi scabrosi, irrita gli oppositori, e più che gli oppositori, gli interessati; e l'opportunità invocata è spesso un giudizio a posteriori.

La questione agraria ha agitato l'Italia, e l'agiterà per un pezzo; perché è la più generale, la più interessante alla produ- zione, la più assorbente per il lavoro; e oggi la più tormentata dall'eccesso di popolazione che non può emigrare. Non si sop- prime né con la dittatura politica, né con le violenze agrarie, né con la negazione teorica.

Mentre noi oggi dobbiamo rivedere il concreto delle nostre battaglie agrarie, non possiamo non affermare che le camere re- gionali di agricoltura, il del latifondo e quello dei patti agrari sono immanenti, e tali che debbono presto o tardi risolversi nella loro integrità. L'esperienza del passato ci gioverà

(1) I1 governo fascista in seguito rimediò in paAe all'atto inconsulto dell'on. De Capitani.

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nella impostazione pratica dei problemi per le battaglie future. Così rispondo alla prima critica all'azione popolare nel cam-

po sociale e agrario, sia politico che parlamentare. Non ho ac- cennato all'episodio della occupazione delle terre, perché nei passati congressi e nei miei discorsi, dal 1919 in poi, ebbi a chiarire il mio pensiero senza reticenze e con efficacia; e spetta esclusivamente al gruppo popolare la iniziativa se nella legge sul latifondo venne escluso definitivamente l'istituto dell'occu- pazione temporanea delle terre, perché anti-economico e nella sua struttura anche anti-giuridico.

b) Nel campo parlamentare.

12. - La seconda accusa è il cosiddetto tentativo parlamen- tare di collaborazione con i socialisti.

Dire che questo tentativo non sia mai esistito è contraddire a un assiorna, prestabilito e sicuro nella coscienza degli avversari.

Gli stessi senatori popolari, nella loro lettera al segretario politico del partito popolare, mentre convennero che non vi fu questo tentativo, non si poterono sottrarre dal dire che almeno vi fu la parvenza; tale era in quel momento l'opinione pubbli- ca, tanto che un membro del direttori0 del gruppo, che ne segui i passi, in una recente intervista par che insinui cautamente, se non il fatto, certo almeno la tendenza.

L'interessante pubblicazione del .dott. Giuseppe Petrocchi (1) mette in chiaro con evidenza di documentazioni e di fatti la ' posizione presa dai popolari nel '21 e nel '22 circa la questione collaborazionista, e ne descrive l'ambiente e il clima politico attorno al quale si è battagliato.

Se ci è stato un partito in Italia, che ha vigorosamente e razionalmente affrontato il movimento socialista, è stato proprio il nostro, e dal punto di vista teorico ed etico, e dal punto di vista politico ed economico. Questo non vuol dire che parecchi postulati sociali non possono essere comuni a vari partiti e quin- di a noi e ai socialisti, come il postulato delle otto ore di lavoro,

(1) G. PETBOCCHI, Colu<borazionismo e ricostruzione popolme, Fermri, Roma.

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quello dell'istituzione del consiglio superiore del lavoro, quello . delle assicurazioni sociali o la tutela delle donne e dei fanciulli

nel lavoro. La nostra posizione politica contro il socialismo e contro il

governo liberale-democratico che al socialismo cedeva, fu presa al sorgere del partito e fu confermata al congresso di Bologna del 1919 con l'ordine del giorno Grandi. La resistenza popolare agli scioperi generali postelegrafonico e ferroviario del gennaio e febbraio 1920, fu fatta quasi esclusivamente dalle organizza- zioni bianche appoggiate politicamente dal partito popolare; e la nostra uscita dal primo ministero Nitti, nel marzo successivo, fu dovuta alla condotta del governo in quegli scioperi.

, La nostra ferma posizione nel dicembre 1919 impedì il ten- tativo demo-socialista della costituente. Alla camera le battaglie popolari erano con i socialisti, quando tutti gli altri gruppi sta- vano fermi a vedere i contrasti, ovvero disertavano il loro posto.

L'unico partito che durante l'occupazione delle fabbriche non aderì alla tattica di Giolitti, né alla proposta del controllo delle fabbriche, ma sostenne il postdaio cristiano-sociale del- l'azionariato e del partecipazionismo, affermato già nel congresso di Napoli dell'aprile 1920, fu il nostro. Tutta l'impostazione no- stra deila battaglia elettorale politica del 1921 fu antibolecevica e insieme contro il partito liberale-democratico, in quanto que- ste due forze tendevano, sia pure nell'equivoco bloccardo, a un viaibile riawicinamento, preannunziato da Giolitti nella relazio- ne e discorso della corona all'inizio della XXVI legislatura.

Così fu posto nel 1921 il problema collaborazionista dai li- berali democratici anche per l'esito delle elezioni politiche, mol- to diverse da quelle che i promotori dello scioglimento della ca- mera speravano.

Noi affrontammo il problema collaborazionista per conto no- stro al congresso di Venezia; e precisammo i limiti della colla- borazione come avevamo fatto sempre, cioè mettendo le idee, i programmi, gli indirizzi prima che le persone e i partiti. A ri- leggerle oggi, nulla vi è da modificare a quelle decisioni così limpide e chiare, come direttive politiche del nostro partito; e Ia direzione del partito, in tutti i suoi atti, nel vario e contin- gente mutar della vita politica, specialmente sul problema colla-

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borazionista, vi si è attenuta con ogni diligenza, e ha limpi- damente precisate le posizioni dei popolari in confronto ai so- cialisti negli ordini del giorno del giugno e del luglio 1922, con una visione concreta e come una direttiva ideale insormon- tabile e insormontata.

Gli episodi di due o tre provincie, dove. alcuni uomini poli- tici, o leghe bianche, o amministrazioni popolari, favorirono e accettarono intese transitorie con socialisti, furono dalla stampa fatti passare per preludi collaborazionisti. Ma tanto la confede- razione italiana dei lavoratori per la parte sindacale, quanto la direzione del partito per la parte politica tolsero ai fatti pu- ramente locali e contingenti qualsiasi significato politico e pre- stabilito, e non diedero mai alcuna approvazione.

Quel che ha contribuito enormemente a far credere a un tentativo collaborazionista coi socialisti, è stata la stampa awer- sa, che raccoglieva due effetti politici molto tangibili: quello di gettare il sospetto antinazionale sul partito popolare, e quindi tentare di scinderne la compagine o indebolirne l'azione; e l'al- tra di polarizzare contro i popolari le ire fasciste, che già si esercitavano in prevalenza contro i socialisti.

La stranezza dell'atteggiamento di tale stampa era la se- guente: quando si parlava di collaborazione dei socialisti e dei democratici insieme con la esclusione dei popolari, allora l'al- leanza era auspicata o almeno minacciata con compiacenza, e non veniva qualificata come antinazionale, anzi era gabellata come l'avvicinamento delle masse alla nazione; quando invece era proposta, mai dai nostri giornali né dai nostri organi poli- tici, ma sempre dalla stessa fonte avversaria fra socialisti, po- polari e parte della democrazia, allora la coloritura antinazio- nale feriva direttamente il nostro partito.

La verità era ed è ben altra: la posizione dei popolari, par- tito necessario al funzionamento dei ministeri di coalizione, era incomoda ai democratici liberali, che essendo stati al governo da trenta anni, volevano essere anche dopo la guerra i padroni e i profittaton dello stato; e quindi la loro mira era quella di eli- minare o almeno di ridurre i popolari, e perciò il loro gioco era quello di favorire ora i socialisti e ora i fascisti, a danno del gruppo loro necessariamente alleato, ma come terzo inco- modo.

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Così si spiega tutta la difficile posizione nostra, che si può riassumere da parte dei governi Giolitti, Bonomi e Facta a no- stro riguardo con la celebre frase: « nec cum te nec sine te vivere valeo n.

Sarebbe molto strano che, se un tentativo collaborazionista vi fosse stato da parte nostra, o fosse stato coltivato come spe- ciale orientamento degli organi responsabili, il venirlo a negare nel nostro congresso, sarebbe un atto di pusillanimità e di in- sincerità, dico meglio, di vigliaccheria, che ci dovrebbe meritare il vostro e l'altrui disprezzo. E vero, vi furono amici nostri che valutarono come necessaria e a non lontana scadenza una colla- borazione di democratici, popolari e socialisti, come è in Germa- nia oggi e come fu in Belgio durante la guerra; valutazione oggettiva, rispettabile e certo da loro auspicata nell'interesse ge- nerale. Questa opinione non fu mai del partito come organismo responsabile e come direttiva pratica; né mai influì sulle nostre decisioni. L'opinione era discutibile, tanto che nessuno in Italia si formalizzò che Giolitti l'abbia messa nel piÌi natevale docu- mento parlamentare.

L'accusa fallace, ripetuta con accanimento, a puro scopo di denigrazione come un atto di tradimento patrio, non tocca né il partito come tale, e neppure quei pochi nostri amici che cre- dettero a una prosima realtà collaborazionista coi socialisti di destra.

C) Riguardo al fascismo.

13. - La terza accusa è stata ed è la seguente: i popolari hanno avversato il fascismo prima che questo fosse amvato al potere; dopo han fatto delle riserve, pur partecipando al gover- no; oggi sono dei tiepidi collaboratori, con uno sguardo al pas- sato che non torna.

I popolari dissentirono dal movimento fascista quale ci ap- parve sotto Giolitti (prima non aveva un carattere preciso e un contorno politico ben definito), per l'esercizio della violenza e per l'organizzazione delle squadre armate, e ciò per criteri di etica generale e per la concezione dello stato, unico detentore della potestà coercitiva. E pur riconoscendo (come nei miei di-

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scorsi a Roma nel maggio '21 e a Firenze nel gennaio '22) il tentativo nazionale, e caratterizzandolo come un movimento di massa (e per ciò sulla-medesima linea politica del popolarismo e del socialismo), non potevamo ammettere un movimento che fosse al di fuori del terreno costituzionale, sul quale noi opera- vamo. Posizione chiara, legittima, fuori discussione in tutto il campo nostro, salvo qualche leggera sfumatura di maggiore o minore simpatia, che dipendeva dal colore locale del movimento, contro l'insopportabile ed esosa dittatura bolscevica e la ineffi- cace azione statale.

Dopo l'avvento del fascismo, le dichiarazioni del nostro gruppo alla camera, e il mio discorso a Torino il 20 dicembre scorso, precisarono la nostra posizione, che poi il consiglio na- zionale del 7 febbraio scorso ratificò.

E legittimo che un partito, che muove da premesse politiche ed etiche differenti, che ha postulati propri non accettati nello spirito e nella sostanza da altri partiti, che usa metodi pura- mente legali e costituzionali e dissente da metodi illegali e vio- lenti, che ha una sua storia, una sua tradizione, un suo conte- nuto, una sua personalità, abbia un sur> modo di vedere e di va- lutare la posizione dei vari partiti concorrenti o antagonisti, e quindi di riferire o no ad essi la propria posizione e la propria tattica.

Così abbiamo fatto ieri col partito democratico-liberale, da tanti anni al governo, così facciamo con questo, valutando og- gettivamente e serenamente la convergenza o la divergenza, sen- za per questo cadere sotto le categorie a ~ o l u t e dell'on. Celesia della patria e dell'antipatria: anche ieri il liberale s'identificava colla patria, ed oggi è detronizzato dal fascista. Non tentiamo metodi monopolistici, che sono sempre ingiusti e irrazionali.

La guerriglia locale, che ha imperversato prima della marcia su ~ i m a , e che ha avuto dei notevoli strascichi dopo, ha tur- bato moltissime delle posizioni popolari, sia amministrative che sindacali, ha abbattuto uomini nostri, ha perseguitato organizza- tori, ha tormentato famiglie, disseminando odii e fomentando rancori.

E questo uno dei punti più delicati della situazione che vi accenno, per lo stato d'animo dei nostri amici; e quindi non è

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facile valutare adeguatamente il fatto politico e il valore nazio- nale dell'awento fascista, quando si è in condizioni di tormento e di lotta sopraffattrice.

È vero che il capo del governo, e altri in suo nome, ha in- sistito sul richiamo alla disciplina e alla legalità; è quefita una manifestazione della quale abbiamo preso atto e della sincerità della quale non abbiamo ragione di dubitare. L'effetto non è dap- pertutto uguale, ma ha una spiegazione psicologica: il senso cioè di dominio che ha naturalmente un partito dopo avere operata la sua rivoluzione; il senso di dominio, che i più intelligenti e i più equilibrati frenano e correggono col nuovo esercizio della legalità, ieri negata in confronto al governo debole e awersario, oggi affermata in nome del governo proprio e forte.

Per gli altri che non sanno frenarsi, nel tormentoso divenire locale del partito fascista occorre tutta l'autorità del governo centrale, a mezzo degli organi legittimi dello stato per l'esercizio completo della legalità e il ritorno all'ordine.

Noi, partito a base e ispirazione cristiana, che ha la sua azione strettamente legata alla legalità e alla costituzionalità, anche nel tentativo della più larga riforma statale, aggiungiamo un più profondo senso spirituale che non sia l'esercizio coarci- tivo dello stato, cioè il senso di frateUanza umana e di amore del prossimo; e in nome di questo elevato principio, invochia- mo la pacificazione interna e il rispetto alla personalità umana e alla libertà civile, sia pure nel vario e necessario atteggiamento dei partiti politici.

Questo modo di valutare la situazione, non può essere ele- vato ad atto di accusa contro di noi, come tiepidi, dubbiosi, anzi subdoli estimatori del nuovo ordine di cose; e perciò come au- spicanti al ritorno del passato dei partiti liberali democratici O

ad un awento del socialismo. Ciò è falso; noi sappiamo bene apprezzare lo sforzo del governo attuale per una rivalutazione dello spirito nazionale, per l'attuazione di una riforma statale in gran parte ispirata ai nostri criteri, per un nuovo orientamento economico che abbattendo il socialismo di stato riporti al loro ritmo naturale le libere forze produttive, per la riforma scola- stica e per un maggior rispetto alla vita religiosa e.morale del nostro popolo. Ma ogni valutazione degna di uomini liberi è

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fatta nella libertà del giudizio e della critica, senza servilismo e senza adulazioni, senza infingimenti e senza dedizioni.

Un partito che ha le sue idee, il suo programma e i suoi indirizzi, riporta a questa guida il programma, le idee e giudizi degli altri; ne valuta le ragioni, e ne cerca la risultante.

Oggi non lieve turbamento, che deve essere superato e che noi auspichiamo sia presto superato, produce in noi la. campa- gna contro il concetto e il valore di libertà. Noi popolari abbia- mo sventolato il programma di libertà contro il governo demo- cratico-liberale e contro l'oppressione socialista; nel '19 per no- stro stemma fu scelto lo scudo crociato con la parola libertas; nel '21 la triplice libertà, morale, organica, economica, fu so- stenuta come meta della nostra battaglia elettorale. Sulle libertà politiche è fondato il nostro regime costituzionale e la vita dei partiti politici; la libertà, dallJAmerica civile alla civile Europa, è la base della vita pubblica.

Sembrò strano ai liberali che i popolari parlassero in Italia di libertà nel 1919 quando vi era licenza; ebbene noi vogliamo la libertà, ma neghiamo.la licenza, che si traduce in disordine, anarchia, violenza. La libertà è diritto, è ordine e legalità, è disciplina interiore.

Speriamo che l'intesa su questo terreno sia possibile e seria fra tutti i partiti; e che il governo fascista, pur nelle più ardite riforme, si ispiri alla tradizione più sana del nostro risorgimento e al rispetto della nostra costituzione.

d) Nel campo internazionale.

14. - Ultima accusa: Pinternazionulismo pacifista. È un'ac- cusa fatta sì e no, nelle polemiche vivaci, che qualche volta influisce su alcuni dei nostri, perché ci dipingono tiepidi pa- trioti e filo-internazionalisti. E siccome oggi l'internazionalismo è in ribasso, e crescono le azioni dei nazionalisti (non più come partito), anzi degli imperialisti, ogni criterio di movimento in- ternazionale è sospetto e svalutato.

É superfluo dire noi che per le nostre idee internazionali non neghiamo la patria e la nazione; e che noi ci sentiamo patrioti più e meglio degli altri, anche quando proseguiamo un

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ideale di concordie internazionali. Noi neghiamo la concezione della nazione-impero, concezione egocentrica, esasperante e al di fuori della realtà, come l'ebbero ieri i tedeschi e oggi non

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pochi francesi, e neghiamo che l'Italia possa orientare su questa concezione la sua attività politica.

Noi siamo di tendenza internazionale nella questione della ricostruzione europea; perché è impossibile, senza una conver- genza internazionale di forze e di attività, senza una valutazione economica realistica dei debiti e dei crediti, senza il risorgimen- to economico degli stati vinti, avere pace e benessere in Europa e quindi risolvere i più gravi problemi italiani, specialmente economici e finanziari.

Infine noi tendiamo verso forme più larghe di internazio- nalismo, che sono nel divenire umano, come una necessità di unificazione e di universalità. Nel medio evo la città o il comu- ne era la patria vera di ciascuno; si combatteva fra città e cit- tà, come fra nemici, finché l'una cadeva e si assoggettava al do- minio dell'altra; allora l'economia era artigiana, cittadina, ni-

rale; e la patria si chiamava Firelize o Siena, Pisa o Genova, Saluno o Torino. Quando l'economia si sviluppò, la patria s'in- grandì: lo stato monarchico si sovrappose ai baroni del sud o ai comuni del nord. La patria si chiamò Piemonte o Liguria, Sicilia o Venezia. Così nel resto d'Europa. Quindi si unificarono, queste monarchie e questi ducati, in centri più vasti; la patria si chiamò la Francia o la Spagna prima,'la Germania e l'Italia dopo. Si spostò anche il termine di riferimento: prima della rivoluzione francese era il re, dopo fu il popolo; così vennero le nazioni, concezione democratica e liberale, che oggi vive nella nostra coscienza. Domani può attenuarsi la barriera nazionale in un interesse e in una vita internazionale? Vi ostano la lingua, la razza, il costume; ma queste barriere non sono insormontabili; i piccoli staterelli creati dalla guerra, sentiranno la necessità di coalizioni economiche, di intese intellettuali, di difese politiche; e più i commerci e le industrie si troveranno sul medesimo pia- no di attività tecnica e di interesse economico, più esasperanti sa-. ranno le esigenze di vita, e più forte sarà l'istinto di trovare in più larghi territori e*in più fervidi scambi e in più intimi con- tatti la nuova realtà dei popoli.

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La vita è 'dinamismo, e nessuna forza vi si disperde; la pic- cola patria di ieri non è perduta nella grande patria di oggi; il fiorentino e il senese, il torinese o iI genovese sono italiani, ma non hanno perduto usi, costumi, sentimenti patrii: li hanno coordinati ed elevati in un tutto nazionale.

La storia ha le sue leggi; non si perde nulla, e la nuova attività migliora la valutazione della precedente sfera di azione; e la larghezza dei ccmhi tende a rendere più nobili i sentimenti di fratellanza.

Questa visione, legittima per una corrente nazionale, dà il significato della nostra tendenza internazionale che è un più ele- vato, un più sincero, un più saldo sentimento patrio. E corri- sponde all'indole italiana che è la più tendenzialmente univer- sale, per la sua tradizione, per la sua cultura, per l'equilibrio del temperamento, per l'esercizio della universalità cattolica della re ligione, per la temperanza del diritto, per l'abbondanza della sua popolazione, che deve alimentare colle sue forze le patrie altrui, restando nell'anima e nel cuore insieme italiana e universale.

E una concezione realistica la nostra, che ci fa più forte- mente nazionali in questo nostro internazionalismo.

15. - Questa chiara posizione programmatica e storica del partito popolare italiano, come corrente e come realtà politica, ci dispensa dal discutere quel che alcuni re tendo no: una pura e semplice adesione alla concezione teorica che affiora in Italia con l'awento del fascismo al potere.

Qui però occorre che io faccia una chiara distinzione, anche per coloro che vogliono elevare un problema tattico », qual è quello del collaborazionismo o meno col governo, ad un proble- ma « ideologico » e quindi ad un caso di coscienza.

In varie manifestazioni giornalistiche e in qualche ordine del giorno di sezioni popolari ho notato affermazioni come que- sta: « I popolari non possono collaborare coi fascisti perché le teorie fasciste sono antitetiche al popolarismo e sostanzialmente antitetiche e anticristiane N.

Questa formula può adattarsi a tatti i partiti awersi a noi:

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al liberalismo prima, contro il quale combatterono i nostri padri cattolici in nome del « sillabo » ; ai democratici, poi; ai socialisti, con maggior ragione degli uni e degli altri; e a quanti partiti presenti e futuri pulluleranno dalla concezione laica o materia- lista o monista e panteista della filosofia anticristiana o sempli- cemente areligiosa.

Chi non vede in questo stato d'animo, che per alcuni sarà anche uno stato di coscienza, un errore fondamentale, pari a quello che ebbero molti cattolici e legittimisti del '48 e del '60 in Italia, che non vollero entrare nell'ordinamento costituzionale, perché le libertà politiche avevano in quel momento una carat- teristica antireligiosa? Bisogna leggere le polemiche del tempo, fra cattolici-liberali e cattolici legittimisti o assolutisti o papali, come si chiamavano, per rendersi conto del loro tormento.

Oggi noi non ripeteremo l'errore, perché Einserzione dei cattolici nella vita nazionale è avvenuta; e la partecipazione alla vita politica ci obbliga ad avere contatti, e perfino alleanze, con coloro (come poi abbiamo fatto con i liberali-democratici) che n r p o o i presiippnnti o le conclusioni politiche ed etiche del nostro partito. Anche nel Belgio durante la guerra i cattolici si unirono con i socialisti, come oggi in Germania il centro è al governo insieme con i maggioritari e con i democratici. Nes- suno per questo rinunzia ai suoi presupposti teorici; valuta solo quale in un determinato momento storico possa essere la coinci- denza di postulati pratici, che può fare unire i partiti per una risultante politica.

Ecco il sistema iniziato da noi, con i quattro punti del pri- mo ministero Nitti del giugno 1919, e i nove punti della crisi successiva nel marzo 1920, e così via h o ad oggi; cioè la base programmatica dell'attività politica, colla collaborazione diretta o indiretta con altri partiti.

Detto ciò, mi preme precisare che la nostra posizione di par- tito rimane perciò nella propria figura, senza bisogno di avaG lare una cambiale in bianco a nessuno, né nell'ordine teorico né nell'ordine pratico, ma anche senza creare falsi casi di coscienza, per non ripetere l'errore di quelli che determinarono il distacco per cinquant'anni della vita politica italiana dall'influenza del nostro pensiero etico-sociale e della nostra attività pubblica.

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Dobbiamo convenire che siamo in un periodo rivoluziona- rio: questo ci spiega molte cose, e ci dà il senso delle nostre responsabilità gravissime per il presente e per l'awenire.

A coloro che biasimano la direzione del partito che ha tol- lerato o consentito o approvato alleanze amministrative con fa- scisti e liberali, io rispondo che l'intransigenza elettorale è uno tattica. Fu voluta dai nostri congressi, come un mezzo vivace e arduo per costruire e imporre la nostra personalità; e questa norma .generale è stata rispettata nella maggior parte dei casi fino a ieri. Oggi ha avuto notevoli attenuazioni, anzitutto nella speranza di concorrere in periodo di turbamento alla pacifica- zione degli animi; in secondo luogo a tutelare interessi morali amministrativi locali; infine a far rispettare la nostra personalità di partito, che in molti luoghi non avrebbe avuto altro mezzo di espressione e di resistenza. Invece la tattica intransigente è rimasta salda ove ogni attenuazione poteva sembrare dedizione, e raggiungere quindi l'effetto opposto.

Errori locali molti o pochi? Ancora non è dato rilevarlo; è così vertiginosa la vita attuale, molto cade e molto rinasce,

orno e la condizione degli enti locali è turbata e minacciata il g: dopo che si crede sistemata e sicura.

Lo stesso è a dirsi per le leghe e per i sindacati. Offensiva di assorbimento, assicurazioni di rispetto variano ogni giorno, in un turbine di movimenti superficiali, contradditori, travol- genti. Cosa sarà domani?

16. - Per noi è esigenza assoluta e dovere assoluto conser- vare la nostra personalità e il nostro patrimonio ideale nel cam- po politico, più che conservare le nostre posizioni materiali. Però abbiamo il dovere di coordinare l'azione pratica e contingente agli interessi generali e alla vita della nazione, perché il paese non solo non cada nell'anarchia, ma ritorni nell'ordine e affronti i più gravi problemi politici, .economici e finanziari per la vita stessa della nazione.

Difficile perciò il nostro compito, pieno di responsabilità, sospettato e combattuto più o meno aspramente. Perché possa essere adempiuto bene (e l'awenire apprezzerà questo sforzo di devoti figli della patria), ci vogliono tre condizioni: unità, disci- plina, sacrificio.

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Le parole così enunziate sono di per sé vive e sentite, tali che non occorre illustrazione. Solo credo opportuno alcuni chia- rimenti molto precisi.

Unità non vuol dire che si debba sopprimere la diversità di vedute e di correnti; vuol dire che questa diversità non tenti di divenire elemento di azione fuori degli organi del partito e di trasmodare in contrasti irriducibili. All'uopo il congresso deve servire di chiarificazione a far superare il disagio fra la conce- zione teorica e l'attività pratica; fra la posizione mentale e la possibilità realistica; fra il sentimento e il risentimento per le difficoltà locali e la valutazione degli interessi generali.

Ci saranno coloro che dissentiranno dalla risultante con- gressuale e quindi dalla direttiva pratica del partito? '& neces- sità che vi siano, se non sono automi e se non hanno rinunziato a pensare. Però fino a che il dissenso non tocchi la coscienza (non mi rivolgo ai tornacontisti: io non ne conosco, e quindi credo non ce ne siano in questa aula) e fino a che resti nel campo della realtà pratica, coloro che sono rimasti in minoranza pie- gheranno ai i-olcri dcl coogresse e degli crgani Vel partito. Gli altri o usciranno da sé o saranno pregati d'andarsene. Ecco co- me sorge il problema della disciplina. Questa sarà sentita e ac- cettata, perciò non sarà né dura né costrittiva; ma dovrà anche poter essere prudente ed eliminatrice ad un tempo.

n sacrificio per la patria non si fa a parole; un partito, che sta al suo posto di combattimento, perché crede che i suoi postulati programmatici e la sua azione politica sono utili alla patria, adempie ad un obbligo civico e per noi anche ad un obbligo cristiano. E quest'ohbligo è sentito da noi, non come un piccolo e trascurabile dovere, ma come uno dei più alti do- veri perché la patria è uno dei più alti affetti. C'è corrispon- denza insopprimibile fra il termine affetto e il termine dovere, eenza necessità di sanzioni né precisione di comandi.

17. - Nel difficile momento che si attraversa, chi potrà mai dire che non vi siano state deficienze, imprevidenze, perplessità, dubbi? chi può presumere di avere sempre fatto bene? chi piii credere che farà sempre bene? Ciononostante, è mio dovere do- mandare oggi a voi una espressione di fiducia per la direzione che rappresento e per il suo consiglio nazionale, come un vi-

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sibile atto di solidarietà che lega oggi il partito, radunato in congresso, a tutto il passato di quattro anni di vita e di attività politica popolare.

Questo passato si vuole quasi cancellare, perché qualcuno teme ci sia rinfacciato; qualche altro, perché crede che meriti revisione; altri, infine, ~ e r c h é dubitano della vitalità di quanto abbiamo detto, scritto e fatto in questi quattro anni.

Come i popoli vivono per la loro storia, e sarebbe antipa- triottico dire che la vera, la grande Italia comincia da oggi, così anche i partiti vivono per la loro storia; e mentre noi, ricerchia- mo la nostra derivazione spirituale politica dal pensiero dei neo- guelfi del risorgimento, e la tradizione sociale della democrazia cristiana, non rinunziamo a quattro anni di lotta, di lavoro, di attività, alle pagine storiche che abbiamo scritte nella vita ita-

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liana. Ma questo ci deve far vedere bene il nostro avvenire; per questo dobbiamo riaffermare le ragioni della nostra esistenza, e le finalità della nostra attività. Torino segna, tra il passato e l'avvenire, il rinnovellato patto e la rafforzata sintesi di co- scienza cristiana e politica italiana.

Torino è bene scelta: fattrice del nostro risorgimento ita- liano, segnò la prima caduta di formule passate dell'assolutismo e fu la cellula-forza della nostra unità nazionale. ,

Oggi occorre d'Italia l'unità morale, direttiva nella lotta fra la borghesia e il proletariato, fra le fazioni dei partiti e i tormenti della crisi politica ed economica del dopoguerra. Noi vogliamo cooperare a che l'unità morale degli italiani si rifaccia sulla base intangibile delle libertà costituzionali e delle auto- nomie locali; nello sviluppo delle attività economiche, ove le classi sociali trovino interessi di convergenza e collaborazione morale; nella sintesi della vita nazionale, che è insieme sintesi statale di ordine, di autorità, di rispetto all'interno e all'estero; ed è sintesi cristiana e morale nello sviluppo culturale etico e religioso delle forze della nazione.

A questo vogliamo cooperare, popolari di ieri e di oggi, li- beri e forti (1).

(1) Ecco l'ordine del giorno, che a nome della direzione del partito fn presentato al congresso, come conclusione di questa eeposizioue:

t I1 quarto congresso nazionale del partito popolare italiano Approvando la relazione del segretario politico e l'opera della direzione;

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Conferma di nuovo e con rinnovellata fede, anche dopo gli ultimi aweni- menti politici, il carattere democratico-cristiano, lo spirito, la sostanza e i termini del programma, l'autonomia dell'organizzazione, la ragione specifi- ca dell'esistenza e le alte finalità etiche, politiche ed economiche del par- tito popolare italiano, operante nella vita del paese, come forza rispondente alle esigenze nazionali e alle ragioni costituzionali di stato moderno; Riafferm la volontà della sua fondamentale battaglia, iniziata neU7atto co- stitutivo e bandita nell'appello del 18 gennaio 1919 per la libertà neli'eser- cizio dei diritti naturali - personali, familiari, culturali, scolastici, religiosi - e organici della società; e contro ogni pervertimento centralizzatore in nome dello stato panteista o della nazione deificata; Richiama la propria organizzazione alla più rigida disciplina, contro ogni deviazione teorica e pratica e contro ogni tentativo di confusione e di sva- lutazione della propria personalità, sì da scindere le forze e attentare alla unità del partito; Esprime la propria solidarietà con coloro che sanno soffrire nel sacrificio per l'idea e per la pacificazione interna, e Invoca, pel bene dell'Italia, il rispetto della personali,tà umana e lo spirito di fratellanza cristiana, pnr nel vario atteggiamento dei partiti, specialmente oggi che ai valori religiosi si tende a dare quella cittadinanza che era stata negata dalla concezione laica e dall'odio settario; Affenna la più salda fiducia, anche per l'opera e la cooperazione costante ed elevata dei popolari, nelle sorti della nostra patria n.

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L'APPELLO DELLA DIREZIONE

DEI, PARTITO POPOLARE ITALIANO

PER LE E1,EZIONI POLITICHE DEL 6 APRILE 1924

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Don Sturzo, dimessosi da segretario politico, era r i m o membro dello dùezwne del partito popolare italiano, e nel gennaio 1924 ebbe I'incarico di redigere l'appello elettorale e organizzare la campagna per le elezioni deG l'aprile successivo.

Fu questo L'ultimo atto politico di don Sturzo, prima di lasciare L'Italia

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AI POPOLARI D'ITALIA

Le elezioni generali, indette pel 6 aprile, impongono a tutti i partiti chiarezza di posizioni politiche e precise affermazioni programmatiche.

Il nuovo metodo elettorale, che i popolari hanno combattu- to e non cesseranno di combattere, mette in condizioni di in- feriorità i partiti autonomi di fronte alla lista governativa, che può dirsi eletta prima ancora che venga dato il responso delle urne; e altera il vero risultato della volontà popolare in modo che la XXVII legislatura non potrà considerarsi che come una parentesi nella vita costituzionale d'Italia dal 18443 ad oggi.

Ciò non pertanto il partito popolare italiano partecipa a e elezioni generali con lista propria nazionale, perché vuole con- tribuire a fare ritornare la vita pubblica alla sua normalità co- stituzionale, e opporsi a ogni attentato contro l'istituto parla- mentare e contro le libertà politiche della nazione. La posizione di minoranza della nuova assemblea legislativa darà agli eletti della lista popolare carattere di maggiore autonomia e funzione di controllo; ma non ci esonera, di fronte a noi stessi, dal ten- dere a rappresentare più efficamente le correnti che a noi fan- no capo e dall'agitare le nostre idee, perché diventino elementi direttivi di governo. Il nostro programma politico rimane iden- tico oggi come nel 1919, nella sua caratteristica democratica e nella sua aspirazione cristiana, nella sua finalità patriottica e nella sua visione di solidarietà intemzwnale.

La bandiera allora spiegata per la libertà, l'insegna allora

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assunta: « Lo scudo crociato con il motto Libertas » sono oggi l a nostra bandiera e la nostra insegna.

La lotta contro lo stato accentratore e panteista, iniziata col primo appello ai « liberi e forti n, è la lotta nostra ancora

.-oggi, che si moltiplicano i tentativi di centralizzazione e di in- tervenzionismo statale, che invadono e turbano ogni attività in-

.dividuale e collettiva. Lo stato, da noi allora invocato organico e popolare, contem-

pera la sua autorità con la libertà, il suo potere centrale con 'le autonomie locali, il suo tine sociale con le organizzazioni di -classi, il suo compito direttivo e integrativo con le libere ini- ziative.

La sua autorità, da noi sempre sostenuta, è basata sulle li- Ibertà civili e sulla legge uguale per tutti e resa effettiva dai con- .sensi *orali del paese.

Affinché ritornino l'ordine e la pace nel viver civile, questa autorità vogliamo reintegrata di fronte all'illegalismo e alla vio-

:lenza, esercitate in nome e sotto l'insegna dei partiti. E perché riiessuno attenti all'autorità dello stato, solo l'esercito si deve ri- -conoscere come unica forza militare, dalla quale debbono dipen- -dere le milizie volontarie e ogni altra organizzazione armata, - e solo il re loro legittimo capo.

Il nostro sentimento religioso, mentre ci fa lieti di quanto, ;anche da awersari, anche con altro spirito, viene a vantaggio -della fede cattolica, altrettanto ci fa rigidi contro ogni tentativo .di asservimento morale che in nome della religione, cercata a ipuntello di partiti Q di classi, possa essere compiuto a danno dei -diritti del popolo e delle libertà della chiesa. E nell'invocare 4'aholizione dei placet e degli exequatur, nel volere autonoma --l'amministrazione del patrimonio ecclesiastico e una legge che .ristabilisca la personalità giuridica delle corporazioni religiose, -non domandiamo privilegi per il clero, ma l'abolizione di vin- a coli che derivano da perniciose lotte fra stato e chiesa.

La politica estera è da noi intesa in piena rispondenza alla .dignità e agli interessi della nostra nazione, politica di espansio- -ne pacifica e di commerci, di emigrazione e di valorizzazione CO-

:loniale; politica lontana da egoismi nazionalisti e da utopistici internaziondismi di classe; diretta al risanamento europeo, alla

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maggiore efficienza della società delle nazioni e alla pacificazio- ne dei popoli. La libertà della scuola, iniziata coll'esame di stato, deve essere completata; la beneficenza privata e pubblica ga- rentita contro ogni violazione dei suoi scopi morali e religiosi e del rispetto alla volontà dei testatori; restituita e integrata l'autonomia dei comuni e delle provincie; riconosciuto l'ente regione nella unità statale. Il risanamento finanziario è da noi voluto senza ~ r i v i l e ~ i , e con giusta distribuzione dei tributi a tutte le classi.

Noi domandiamo la creazione dei consigli elettivi della eco- nomia e del lavoro, alla periferia ed al centro, sulla base della organizzazione di classe riconosciuta e resa libera da coazione politica.

L'agricoltura deve essere favorita come la principale fonte di ricchezza nazionale e come mezzo del risorgimento del Mez- zogiorno; e la politica doganale deve tendere al regime liberi- sta, limitando la protezione ai fini strettamente fiscali o di ca- rattere transitorio, che non danneggiano la produzione e i com- merci agricoli.

Noi riprendiamo la nostra battaglia per le camere regionali di agricoltura, la trasformazione del latifondo e la regolamen- tazione dei patti agrari.

Cinque anni di lavoro e di attività del partito popolare italiano, in mezzo a gravi ed incessanti difficoltà, hanno tempra- to molte coscienze ed hanno determinato correnti vive nel pen- siero politico del nostro paese.

I1 fascismo ha cercato di assimilare alcuni postulati del po- polarismo, ma vi ha contraddetto col suo spirito antidemocra- tico. La esperienza del potere di fronte alla realtà ha fatto tut- tavia superare ai dirigenti molti pregiudizi e preconcetti, e la soluzione adriatica è un effetto di questo senso realistico che si sviluppa; lo sbocco elettorale potrà condurre sulla via della costituzionalità, la sola via che può far ritornare l'Italia alla sua unità morale. Pertanto sentiamo il dovere di ripetere, non solo ai nostri amici, ma anche a coloro che hanno oggi il go- verno del paese, che l'Italia non può né deve smentire le sue origini democratiche, e deve mettersi in condizioni di far valu- tare a l l ' in~rno e all'estero la forza delle supreme leggi morali

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e i principi della fraternità cristiana fra gli uomini e fra i popoli.

La fiducia nel nostro paese non ci viene meno; perché su- perati i fenomeni del dopo guerra, vinto l'illegalismo boleceviz- zante, rifatta una nuova coscienza politica attraverso debolezze di partiti e tentativi rivoluzionari, l'Italia troverà sicuramente nel regime rappresentativo il mezzo idoneo e legittimo dell'or- dine e del progresso.

Popolari, per il bene d'Italia, invocando ed esigendo libertà di propaganda e di voto, tutti concordi al nostro posto.

Roma, 26 gennaio 1924.

La direzione del partito

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A P P E N D I C E

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I PROBLEMI DELLA VITA NAZIONALE DEI CATTOLICI ITALIANI

(Caltagirone, 1905)

l1 discorso fu letto da don Sturzo, al circolo di lettura di: Caltagirone il 24 dicembre 1905, pochi mesi dopo la sua nomi-- na a prosindaco d i quella città e la sua elezione a consigliere provinciale di Catania. Dedicatosi fin &l 1899 alla vita m u n t . cipale italiana, da vari anni sedeva nel consiglio dell'associa- zione nazionale dei comuni, del quale fu poi nominato vice- presidente. Faceva anche parte del consiglio direttivo deU'unio- ne elettorale cattolica italiana. Già da tempo egli aveua l'idea d i farsi promotore dell'intervento dei cattolici nella vita polt tica del paese, trovardo che la politica italiana s o f i v a delln mancanza dell'apporto morale e sociale del pensiero cristiano.

Il discorso, noiwstante certa asprezza giovanile d i critica, serve o chiarire i precedenti personali d i chi, poco più d i tre- dici anni dopo, doveva portare a compimento la fortunata im- presa di creare 11 partito popolare italiano.

Tutto il complesso di fatti, di documenti, di discussioni, di proposte, attinenti all'organizzazione dei cattolici italiani e che più da vicino ci riguardano, in ragione di tempo ha contribuito, a mettere in una luce più netta i diversi problemi della vita na- zionale dei cattolici italiani, e ne ha reso più evidente la portata e più urgente la soluzione; sì che stimo necessario riassumerli in un esame oggettivo e sereno, richiamando su di essi l'atten- zione di quanti al faticoso sorgere del partito democratico cri- stiano han dedicato forze generose di pensiero e di vita.

Non pretendo, certo, di portare in mezzo al dibattito pre- sente una parola decisiva (e com'è mai possibile?), né di pre- sentare soluzioni certe e sicure, ne tampoco per qualsiasi ragione autorevoli: io intendo (se mi è possibile riuscirvi) riassumere in sintesi lo stato di fatto e la mentalità presente, esaminarne le condizioni, penetrare il significato psicologico dei fatti e discu- tere i problemi che da essi derivano nell'intento di portare un certo contributo di idee, che può dar luogo a una più larga e più sicura discussione.

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Se questa sintesi fosse scampagnata dal continuo svolgersi, anclie tumultuario e impreveduto, dei fatti, avrebbe un valore molto limitato, anzi potrebbe cadere nel gioco degli idealismi aprioristici; ma invece essa, nel riassumere e commentare i fatti precedenti, deve seguire l'imporsi dei nuovi fatti, deve penetrar- ne i problemi concreti, deve palpitare di vita vissuta, svolgen- tesi nell'incalzare degli awenimenti.

Forse non a tutti sembrerà conveniente che si affrontino questioni credute ancora immature per lo spirito pubblico ita- liano, o per lo meno sulle quali debba sentirsi una parola di autorità, più che una libera discussione, almeno da parte dei cattolici. Senza discutere una simile opinione, che pel suo verso potrà anche essere rispettabile, io ritengo che ogni fatto storico si prepara con la formazione del pensiero, come ogni legge vie- ne imposta più dai fatti e dalle convinzioni che dalle ragioni di semplice autorità. Anche l'enunciazione esplicita del dogma fu preparata dalla discussione contro gli eretici, fecondata di fede vissuta e di cariìà operosa; - è quindi preparat~ria a ogni soluzione la discussione dei problemi, quando anche non spetti che solo ad un'autorità, qual essa sia, il giudicare e il decidere.

Le soluzioni storiche impongono la discussione che diviene vita: e io sento la necessità di tali discussioni, che non riducono la vita ad astratto filosofare, ma che applicano le teorie alla vita, e a quella vita che, per un fatto complessivo e naturale di tutti noi, che ne viviamo tanta parte, chiamiamo oggi na- zionale.

Un'analisi dell'attuale situazione dei cattolici in Italia è molto difficile e riesce incompleta; sono tante e così vive le pres- a n e sul nostro spirito, determinate da un cumulo di awenimenti in parte impreveduti, che non si riesce facilmente a metterei in uno stato di osservazione storica, senza provare i sussulti della vita vissuta. Onde questi abbozzi, queste specie di fotografie btantanee di un cavallo che corre, non ci possono dare tutta

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intera la figura, ma solo l'ultima mossa, della quale abbiamo cercato di precisare i caratteri obbiettivi.

Tant'è, siamo, o almeno crediamo di essere, in un momento decisivo per la vita nostra nel campo politico e civile; e una rassegna del passato prossimo s'impone al pensiero; tanto più quanto il presente momento, più che di attività nuove, è di rac- coglimento, di riflessione, di aspettativa e di speranze. E il mo- mento, dunque, di ricercare noi e le nostre fatiche, e di collazio- nare (passi la brutta parola burocratica) i protocolli del passato.

Quando in Italia la enciclica Remm Novarum cominciò a penetrare nella coscienza dei cattolici, e non fu subito, e a de- stare un nuovo fermento di vita, la parola e il programma di democrazia cristiana chiamava studiosi e lavoratori a ideali più determinati in ordine alla questione sociale, e creava una fa- lange di forze nuove, che per necessità di vita vennero a con- trasto con elementi conservatori, tradizionali, che avevano ser- bato in Italia e in certo modo esteso i sentimenti religiosi e aveano cercato di formare un'organizzazione nazionale delle for- ze cattoliche in Italia, raggruppate principalmente nell'opera dei congressi.

Ed è tutta storia vissuta da noi, quella che dal 1897-98 ar- riva fino alla tentata fusione delle giovani e vecchie forze dei cattolici d'Italia nel 1902, al mutamento ministeriale (chiamia- molo così) di ~aganuzzi in Grosoli, al trionfo della tendenza democratica al congresso di Bologna (1903), alla forte resistenza dei conservatori nel consiglio direttivo e nel comitato perma- nente generale fino alla circolare e alla caduta di Grosoli (1904), al movimento autonomista e delle giovani schiere e alla scon- fessione susseguente, e infine alla attenuazione del non expedit, all'enciclica di Pio X sul movimento cattolico e al tentativo pre- sente di una nuova e più larga organizzazione dei cattolici ita- liani (1905).

Tutta questa storia di otto anni (basta accennarla, tanto è nota nelle sue fasi esteriori e nelle sue ragioni intime) ci si pre- senta oggi sotto due aspetti: come una lotta di due tendenze diverse e anche opposte nel campo delle idee e della organizza- zione; e come un lavorio di trasformazione psicologica e am- bientale dei cattolici italiani; ed è l'una e l'altra cosa insieme.

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La lotta e l'urto delle tendenze a molti è sembrato un fe- nomeno dovuto alle imprudenze, alle intemperanze giovanili, un fatto personalistico di semplice carattere morale; a determinare il quale han contribuito vaghezza di novità pericolose, oltre che in materia sociale anche in quella religiosa, scientifica e storica, e spirito critico-razionalistico, che da oltr'alpe è piovuto a noi a infestare le nostre belle contrade. E ciò potrà avere anche un'apparenza di vero; però quelli che così dicono non han con- siderato che anche tali fenomeni, ridotti alla vera e reale entità, senza le esagerazioni polemiche, non avrebbero potuto essere le cause proporzionate di un movimento generale in Italia, di nuo- ve forze esplicantisi nella vita e in tutti i rami della vita, se non vi avesse corrisposto un pensiero vero, reale, profondo, che supera le accidentalità e le modalità delle cose e penetra l'in- timo essere della vita.

Ii cozzo e I ' u ~ o delle due tendenze, qualsiasi il modo, do- veva awenire, perché v i erano di fatto e si affermavano queste due tendenze; e i beghini dell'armonia e dell'unione dei catto- liei (per quanto necessaria nella vitalità religiosaj tendono a sop- primere la vita, perché vogliono sopprimere - cosa impossibile - la discussione, la opinione, il sistema, la tendenza diversa.

Che se la storia della chiesa, anche nel puro campo reli- gioso, ci fa assistere allo svolgersi grandioso delle vive correnti teologiche e teo-filosofiche, all'affermarsi di sistemi pratici e al cadere di vecchie forme, dando corso alle nuove, è antiscien- tifico e antistorico pretendere che, mentre il mondo cammina, i cattolici restino a vivere una vita e ad avere una concezione di essa, forse adatta ad altri tempi o per lo meno che poteva essere la ultima espressione della potenzialità di quei tempi, e non mai rispondente ai tempi, alle forme, al progresso naturale dei nuovi; e come quella vita poté segnare un progresso sulla precedente, così oggi nel progredire e nello svolgersi di altre forme umane, nell'impiantarsi di altre questioni, nell'attuarsi e concretarsi di altre guise sociali, s'impongono allo spirito dei cattolici altre e più adatte forme di vitalità. L'affermarsi della v a l e , come tutte le efficienze umane, avrà anche esso i suoi lati manchevoli insieme ai suoi pregi; i vantaggi di un'idea, in- sieme, e quelli di persone che ad attuarla si adoprano, e gli

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svantaggi che il concreto dell'azione porta con sé nel tumulto della discussione e della vita.

L'avvicinarsi di queste due tendenze nel contatto di idee, di opere, di organismi, doveva produrre, come in tutte le cose uma- ne, simpatie, urti, resistenze, trasformazioni. Se non fosse così, la personalità umana, con i suoi pregi e i suoi difetti, scompa- rirebbe insieme con la vita. Ebbene, questi contatti, urti, trasfor- mazioni, riforme, affermazioni, cadute, formano la storia di otto anni di movimento democratico cristiano, che ci sembra così lunga come se fosse di più di mezzo secolo.

E oggi non rimpiangiamo il passato, né noi né i conserva- tori; c'è qualche cosa che è caduto e che dovea cadere, c'è qualche cosa che è rimasto, e che è bene sia rimasto; ma sopra- tutto ci stanno esperienza di vita, forze allenate, vitalità nuove, realtà più sentite, difficoltà superate, pensiero più maturo; e più che, altro la grande trasformazione che si è andata operando in questi pochi anni nello spirito, nella cultura, nella orientazione dei cattolici in Italia.

Se il movimento democratico cristiano, come sembra ad al- cuni pessimisti (e lo siamo un po' tutti, nei momenti di sconfor- to), avesse compiuto il suo ciclo, e non dovesse più nulla tentare nel campo della vita sociale e politica in Italia, esso avrebbe già avuta una funzione importantissima nello sviluppo del movi- mento dei cattolici in Italia: quella, cioè, di avere prodotta o almeno di essere stato l'esponente più visibile della trasforma- zione del pensiero e dell'atteggiamento dei cattolici italiani ver- so la vita moderna e i problemi che da essa sorgono ad agitare la coscienza umana. Che se oggi si parla di reazione, e c'è, essa non può essere se non accidentale, limitata anche nei suoi sforzi, e tale che determina naturalmente gli elementi di rimbalzo, e di controreazione che si produce negli spiriti, la quale selezio- na, in un'opera intima e spesso invisibile, la vitalità, e la slan- cia al suo destino.

Questa trasformazione non è à tutti visibile né sembra ge- nerale, anzi fra dubbi, incertezze, manchevolezze (e com'è pos- sibile non ve ne siano?) par che abbia perduto la forza del- l'assimilazione e l'energia dello sviluppo. E pure non è così: essa è vitale e forte. Nel campo sociale (è già una conquista)

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son penetrati lo spirito e le idee che Leone XIII assommò, come precisandole, con la enciclica Rerum Novarum, la quale volle es- sere ed è quella faccia di idee e di criteri sociali, che riguarda e prospetta le idee e i criteri religiosi e cristiani in ordine al- l'attuale crisi operaia: idee e criteri che egli bandi, come pa- rola geniale perenne della chiesa, a cattolici militanti e non militanti, a popoli e a governanti, a poveri e a ricchi, a tutti, perché tutti richiamava, dal tumulto dell'agitarsi di plebi in- composte, alle sublimi considerazioni del diritto cristiano. Sven- turatamente la parola di Leone XTII divenne e fu appresa come esplicazione particolare di vita, neppure di tutti i cattolici, e bandiera di un programma specifico, nel campo civile e poli- tico; per cui dovette lo stesso Leone XIII, nella Graves de com- m.uni, restringere e precisare meglio i termini religiosi del pro- blema sociale, dentro i. quali termini credettero doversi orga- nizzare i cattolici. Anche questa forma fittizia dovea venir me- no; essa servì a far conoscere e amare un documento, dal quale si inizia, come concreta guisa di tempi, l'interessamento della chiesa. per l'attuale questione sociale.

Per virtù del movimento democratico cristiano è penetrato il convincimento, oramai generale, che i cattolici, più che ap- partarsi in forme proprie, sentano con tutti gli altri partiti mo- derni la vita nelle sue svariate forme, per assimilarla e trasfor- marla; e il moderno, più che sfiducia e ripulsa, desta il bisogno della critica, del contatto, della riforma. E il senso di riforma, di miglioramento, di revisione della vita, è divenuto generale nella cultura dei cattolici, la cui mentalità si va evolvendo, in- sieme all'acuirsi del bisogno di un ritorno intero alla vita cri- stiana e di una trasformazione reale in senso cristiano di tutto l'agitarsi del pensiero e dell'attività moderna, senza le superco- struzioni di epoche precedenti e gli'ostacoli di elementi fittizi e privi di vita.

A tale slancio di pensiero nuovo facevano contrasto le forme viete che riunivano le forze dei cattolici militanti; fortunati e dolorosi eventi fecero scomparire quelle forme e quelle for- mule, già moralmente cadute da un pezzo dall'animo dei cat- tolici riformisti. Che se i rottami ingombrano ancora la strada,

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e concezioni negative ancora predominano, lo spirito è libero, e nel rifarsi da capo non è possibile tornare indietro.

In tutto questo lavorio, ora lento ora affrettato, in questi precipitati eventi e in questo sollevarsi e riaffermarsi della co- scienza nuova, molte speranze sono cadute, molte disillusioni han colpito l'anima entusiasta precorritrice di eventi; ma nel faticoso ascendere della vita molto si è conquistato, anche quan- do ai temeva un ritorno, anche quando la reazione si mostrava più forte, e le crisi scotevano vecchi edifici e nuove speranze.

Così tutti gli eventi umani, quando mostrano che si va indietro, spingono l'umanità in avanti, nel suo cammino fatto di dolorose esperienze, di prove ardite, di lotte impari, di scon- fitte angosciose e di impreveduti trionfi.

Solo oggi, dopo tanto oscillare, dopo una serie di eventi or lieti or tristi, dopo avere percorso la faticosa via del pro- gresso sempre alla coda del movimento, facendo anche la fun- zione di resistenza anziché di spinta, solo oggi possiamo dire di avere la possibilità di porre anche per noi il problema nazionale, come una sintesi di tutti i problemi del vivere civile, dal politi- co al religioso, dall'economico al sociale, dall'educativo allo scien- tifico, in ordine alla vitalità presente e al progresso della civiltà.

Ad alcuni sembrerà strano che io nel problema nazionale, come in una sintesi, includa anche il problema religioso, e tro- verà per lo meno poco preciso il mio dire: per costoro sento il dovere di spiegare la posizione mentale che io assumo, e che risponde al carattere reale del movimento.

Quando si parla di vita nazionale, cioè quella vita che un popolo, uno di nome, di razza, di organismo, vive e produce ed evolve, si deve parlare di tutte le manifestazioni della vita, quali nel fatto esteriore, rispondente all'interiore movimento degli in- dividui e della società, si esplicano e si sviluppano; e della loro realtà, estensione e intensità, Così anche il problema religioso, il massimo nell'ordine delle esigenze spirituali, fa parte di tutta un'agglomerazione organica di popoli, ed è trattato nella kisura delle sue manifestazioni e nella posizione del suo svolgimento.

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Ora, quando affermo che i cattolici debbono anch'essi, come un nucleo di uomini di un ideale e di una vitalità speci- fica, proporsi il problema nazionale, che fra gli altri pro- blemi involve in sintesi anche il religioso, io suppongo i catto- lici come tali, non come una congregazione religiosa, che pro- p u p a da sé un tenore di vita spirituale, né come l'autorità re- ligiosa che guida la società dei fedeli, né come la turba dei fe- deli che partecipa attivamente e passivamente alle elevazioni e ai combattimenti di vita spirituale, né come un partito clericale che difende i diritti storici della chiesa, in quanto vitalità uma- na di diverso ordine e di ragione concreta, specifica; ma come una ragione di vita civile informata a i principi cristiani nella morale pubblica, nella ragione sociologica, nello sviluppo del pensiero fecondatore, nel concreto della vita politica.

Questa concezione è diversa da quella avuta da mezzo se- colo a questa parte, quando la ragione così detta clericale faceva i cattolici sostenitori di diritti regi, di tradizioni ecclesiastico- civili, di regimi politico-castali, e li poneva contro le rivuluzio=i liberali, che nello affermarsi di un potere laico assoluto, traente origine dalla presente sovranità popolare, assommava in sè la guerra contro lo spirito della chiesa per abbatterne le forme.

Oggi, compiuta la rivoluzione, assodati i nuovi regimi, dato l'aire alle nuove formule politiche, sviluppato il carattere co- stituzionale della vita esteriore, il tipo clericale nel vecchio ed esteso senso della parola è scomparso: gli avanzi son pochi o ridotti all'impotenza; o per lo meno non può avere sviluppo una qualsiasi reviviscenza clericale nel suo tipo storico. Non è scom- parsa però la tendenza larvata, la minuta concezione tradizio- nale, la visione piccola di una vita che ha perduto la sua ra-

. gione; la quale è ingrandita, ingigantita anche dalla confusione dei principi di vita religiosa con le forme storiche esterne e accidentali di essa.

È chiaro che la ragione religiosa, come movente logico e come finalità ultima, rimane integra nel concetto di ogni attività esteriore personale o collettiva di cattolici, anche nella esplica- eione della vita civile; ma essa non è più legata. a ragioni sto- riche e solo si aderge con il motto assunto da Pio X: i n s k r a r e omnia in Christo; è e sarà il motto di tutti quelli che militano

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nella chiesa con la fede viva, con l'animo vinto dalla grazia, ciascuna secondo la misura di partecipazione avuta dallo Spi- rito: I'eaegeta che dal suo studio penetra i segreti delle sacre carte vale quanto l'umile fra Galdino, che raccoglie le noci mendicando alle porte degli operai di un villaggio, e lascia a loro la benedizione e l'augurio del francescano.

Ma la vitalità nazionale, alla quale fu estranea, nel suo agi- tarsi organico, la forza dei cattolici (antichi e nuovi), e lo spi- rito della vita pubblica, basato sulla laicizzazione delle forme esterne per arrivare a scristianizzare le interne, non può assu- mere la guisa di una lotta religiosa, di una contesa per la fede, di una guerra di religioni: essa è e resta civile nella sua carat- teristica e nella sua finalità immediata, e chi vuole operare in essa, nella guisa presente, deve assumere questa posizione neces- saria, imposta dalla natura deli'timbito di vita e dalle caratteri- stiche del pensiero presente.

In essa vita ogni tendenza dello spirito, ogni elaborazione di programma, ogni fede politica avranno quella rappresentan- za morale che la forza del pensiero stesso, la unione degli uo- mini che vi aderiscono, la combattività delle forze che neces- sariamente si sprigionano da essa unione, vanno determinando.

Così, cattolici o socialisti, liberali o anarchici, moderati o progressisti, tutti si mettono sul terreno comune della vita na- zionale, e vi lottano con le armi moderne della propaganda, del- la etampa, dell'organizzazione, della scuola, delle amministrazio- ni, della politica.

Ora, io stimo che sia giunto il momento (tardi forse, all'uo- p, ma non mai tardi per l'inizio di essi) che i cattolici, stac- candosi dalle forme di una concezione pura clericale, che del passato storico formava un'insegna di vita e del presente una posizione antagonistica di lotta - e sviliippandosi dalla conce- zione univoca della religione, che non solo era primo logico e ultimo finale, ma insegna di vita civile e ragione anch'essa an- tagonistica di lotta - si mettano a paro degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione o come armata permanente delle autorità religiose, che scendono in guer- ra guerreggiata, ma come rappresentanti di una tendenza popo- Iwe nazionale nello sviluppo del viver civile, che vuolsi impre-

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gnato, animato da quei principi morali e sociali che derivano dalla civiltà cristiana, come informatrice perenne e dinamica della coscienza privata e pubblica.

E la potenzialità della vita cattolica italiana a trasformarsi in partito nazionale è andata maturando attraverso stenti, dif- ficoltà, dubbi, incertezze, avversioni: al congresso di Bologna si cominciò a credere possibile in Italia la creazione di un partito cattolico nazionale, e il prudente e deciso contegno di Grosoli fece 'sperare che, in un awenire non lontano, con la graduale conquista della personalità vera di partito, si fosse potuto dai cattolici (pur chiusi nell'ordinamento dell'opera dei congressi) vivere una vita civile e politica collettiva, anche durante il re- gime del non expedit.

E da quando la lettera circolare del cardinal Merry del Val sciolse il comitato generale dell'opera dei congressi, si andò com- piendo una vera trasformazione nella psiche dei cattolici: le nostre forze militanti, nello sfasciarsi del vecchio organismo e nel veder sostanzialmente limitata l'attività delle associadoni cattoliche al movimento religioso, cominciarono a riacquistare la coscienza chiara dell'ibridismo costituzionale dell'organizza- zione dell'opera dei congressi, e la conseguente impossibilità di raggiungere in essa una posizione qualsiasi di partito nazionale.

La elaborazione lenta e pertinace, tentata dai migliori uo- mini di parte cattolica messi alla direzione dell'opera dei con- gressi, verso una personalità propria dei cattolici militanti, coz- zava fortemente, non solo con le tendenze della parte conserva- trice e refrattaria, che formava l'elemento tradizionale dell'or- ganismo dei comitati parrocchiali e diocesani, ma con la respon- sabilità e disciplina ecclesiastica, di che fu circondata un'opera laica, sorta con fini e con criteri veramente d'azione religiosa.

Questa responsabilità diretta della chiesa, riguardo un'opera laica civile e sociale, o doveva far entrare papa e vescovi (inter- venienti in una guisa visibile e col carattere dell'autorità) nel- I'iimhito delle lotte, delle discussioni e delle passioni umane, e ciò non semplicemente come guida, norma, dottrina, ma come partito, come fazione belligerante - una specie di rinnovato medio evo con i poteri misti di pastorale e di spada; - O

doveva impedire che l'opera laica civile e sociale costituita sotto

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la responsabilità diretta della chiesa avesse nelle sue attività varcato i limiti d'un campo puramente religioso.

La prima ipotesi era ed è impossibile oggi, e sarebbe di gra- ve danno alla cliiesa, che non lia certo la missione storica che ebbe nel medio evo, né partecipa direttamente o in forma emi- nente e internazionale al regime dei popoli cristiani; - la se- conda ipotesi quindi veniva come conseguenza logica, e fu im- posta in Italia, non solo per una serie di fatti storici legati ai più vivi interessi religiosi, ma anche per le condizioni stesse del pontificato romano che, spoglio, con gli altri principi d'Italia, dell'antico potere, non avrebbe potuto atteggiarsi a semplice pre- tendente politico, né avrebbe potuto avviare direttamente un'a- zione nazionale dei cattolici, senza gravi ripercussioni nello spi- rito stesso della religione della gran massa del popolo italiano.

Questo mostrarono di non intendere gli uomini di centro del nostro partito quando, sorta a vigoroso impulso la demo- crazia cristiana, buona e decisa a fronteggiare i socialisti sul ter- reno sociale e politico, vollero circoscriverne l'azione incorpo- randola néll'opera dei congressi, affidata sempre più da vicino ai vescovi, al vicai-io del papa, alla congregazione degli affari ec- clesiastici straordinari, entrando così, non solo (ed era necessa- rio) come dottrina morale e religiosa, ma anche come organiz- zazione laica nel reparto degli affari ecclesiastici.

Allora le preoccupazioni dei borghesi, dei ricchi, dei le- gittimisti, dei padroni, dei conservatori, tutti più o meno cri- stiani e figli della chiesa, si riversarono contro la democrazia cristiana, e crearono attorno a parroci, a vescovi, non solo i1 senso della diffidenza, ma il timore che questo movimento celere e alacre nel campo sociale, promosso in nome della chiesa, avreb- be allontanato dalla religione molti che bene o male erano so- stenitori del culto, non raramente protettori dei diritti delle chiese, amici irifluenti del ceto ecclesiastico, buoni e anche, se si vuole, pii cristiani; e le autorità ecclesiastiche con prudente ri- serbo (quando non credettero addirittura di levarsi di tra i pie- di quegl'incomodi agitatori) impedivano il movimento democra- tico cristiano, evitavano così di esser dascinate nel tumulto delle passioni popolari, che ora assumevano il carattere di attrito fra capitale e lavoro, ora la guisa d'una lotta amministrativa, e ora

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l'effervescenza di ripicchi anticlericali Lo stesso awenne in altro campo dal congresso di Bologna

in poi. Invero, il complesso dei fatti compiuti, cioè della storia della rivoluzione italiana e del presente assetto nazionale, per noi cattolici non è una semplice constatazione di fatto, o un pun- to di partenza per l'avvenire, o un naturale presupposto politico, o un ideale raggiunto; per noi, dopo più di quarant'anni, rima- ne ancora una pregiudiziale da risolvere.

Mi spiego: tagliati fuori dalla vita nazionale dal 1848, a pigliare una data decisiva, fallito il neoguelfismo, rimasta senza séguito, senza significato, amorfa e personale la partecipazione di alcuni alla vita parlamentare (il più notevole fra tutti, il si- ciliano Vito D'Ondes Reggio), e poscia trasmutato in autorevole non expedit il volontario non eletti né elettori di don Margotti, i cattolici non solo non parteciparono allo svolgersi dei fatti nazionali né positivamente né negativamente, ma furono begli assenteisti, i quali sentivano nella loro coscienza forte il rim- b&o delle sètte anticristiane, delle nuove leggi antireligiose, del- la nuova civiltà portata in nome di una Iaicizzazione e scristia- nizzazione generale della vita dei popoli; e alla condanna mo- rale e psicologica del male enorme fatto alla religione, legarono la condanna di nuove forme civili, di nuove aspirazioni e ideali nazionali, di nuovo flusso di vita che pervase la così detta terza Italia.

Questo stato psico-morale dei cattolici italiani non è pas- sato nella loro coscienza come una riprovazione storica contem- poranea, che non tocca il presente (come in tante nazioni), ma è rimasto duraturo e vivo con la questione romana aperta il 20 settembre 1870, la quale sintetizza in sé i fatti antireligiosi e 1 fatti politici della rivoluzione italiana. Di questa posizione credettero awantaggiarsi i legittimisti, i borbonici, i credenti nella forma monarchica di diritto divino, tutta roba da museo, che assunse allora l'etichetta cattolica, perché dalla rivendica- zione sempre viva dei diritti del papato potevano 'avere vita i diritti morti delle dinastie di antichi re e principi italiani.

E quando invece apparve per prima la democrazia cristia- na, che assunse guise di partito popolare cattolico italiano, i conservatori cattolici e i liberali c'interrogarono sulla pregiudi-

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ziale; e la pregiudiziale tornò a esser sentita fra una discussione e l'altra, nel riapparire del partito cattolico italiano affermatosi a Bologna.

Però il problema non era facile a essere affrontato, e sem- brava ancora immaturo l'ambiente; due ostacoli ci si paravano: il timore (non interamente ingiustificato) che nell'accettare il presente stato di cose e la storia dei fatti compiuti, pur senza assumere responsabilità, si sarebbe recato pregiudizio alla riven- dicazione di quella libertà e indipendenza che il papa reclama e che gli son necessarie per l'esercizio del suo alto ministero, e il timore che si sarebbe creduto alla ratifica di alcuni fatti che non presentano una sana figura morale, e di quegli intendi- menti delle sètte anticristiane che presiedettero alla formazione della nuova Italia.

Intanto, questa pregiudiziale continuava a incombere come cappa di piombo sui cattolici organizzati, non ostante che sin- golarmente fosse stata dalla gran maggioranza risolta in senso nazionale; ma le franche affermazioni del convegno dei giovani lombardi a Varese, l'atteggiamento dei giovani democratici cri- stiani di tutta Italia, le polemiche giornalistiche sui martiri di Belfiore e sulle feste de11'8 agosto a Bologna e la decisione dei cattolici bolognesi di partecipare in corpo all'inauprazione d'un monumento patriottico mostravano che oramai si era ma- turi a uscire ufficialmente da una posizione incomoda ed equi- voca, mentre le nuove discussioni sul carattere delle rivendica- zioni pontificie mettevano in luce nuove facce del difficile pro- blema, staccandolo decisamente dal campo dei diritti storici.

E proprio questa pregiudiziale doveva essere il tallone di Achille del conte Grosoli. Egli credette possibile autorevolmente, in nome di quell'associazione cui era affidata la direzione di tutte le forze cattoliche organizzate, sgombrare il terreno dal rottame di vecchie concezioni e mettere liberamente i cattolici sul terreno delle patrie conquiste, dopo avere non meno espli- citamente affermato che, a base della vitalità pubblica dei cat- tolici italiani, sta il diritto del pontefice alla libertà e indipen- denza, e come limite all'attività pubblica la osservanza allora intera del non expedit.

Però, per la seconda volta, in modo rumoroso e con effetti

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gravissimi, si riscontrava l'antinomia inevitabile tra partito cat- tolico laico nazionale di carattere sociale e civile e le posizioni e le funzioni dirette della gerarchia ecclesiastica, specialmente del papa.

La dichiarazione Grosoli infatti, necessaria per un partito cattolico nazionale, oltre che urtava i pochi fossili borbonici e lorenesi, urtava il sentimento di coloro che, pur non pensando u rivendicazioni legittimiste, continuano in buona fede, per tra- dizione ed educazione, ad accomunare l'opera deleteria delle sètte con le condizioni storiche delllItalia; urtava non poche case di principi spodestati e qualche corte di re e d'imperatori, non esclusa la vecchia Austria; urtava le diverse sfumature dei clericali francesi e spagnoli, che tuttora premono nell'opinione delle sfere ecclesiastiche; urtava infine, e soprattutto, la posi- zione presa dal papato dal 1870, il quale non può, diciamo così, ratificare, anche negativamente, alcuna delle cause storiche che condussero al presente stato, quando ancora manca la soluzione della questione romana o anche un modus vivendi, senza pregiu- dizio, non dei diritti, ma di quella linea di condotta che il pa- pato segue nell'attuale conflitto.

E poiché la dichiarazione del conte Grosoli non poteva sem- plicemente assumere i caratteri di un fatto libero, limitato al- l'atteggiamento dei cattolici, o, meglio, di quei cattolici che for- mavano la base costituzionale della presidenza Grosoli, ma si doveva costituzionalmente e moralmente far risalire all'autorità ecclesiastica suprema, questa intervenne recisamente per non ri- manere esposta a delle possibili ripercussioni, sia nel campo re- ligioso, che in quello diplomatico, rinnovando sotto certi aspetti quello che successe nel 1902 per la democrazia cristianq.

Il male di questa condizione antinomica (che diverrebbe enorme, se si dovesse formare un partito cattolico parlamentare sulla base dell'opera dei congressi, perché sul pontefice, sotto la brutta veste di pretendente politico, ricadrebbe la responsa- bilità perfino di ogni qualsiasi interpellanza; - come nei sin- goli comuni diviene insostenibile la posizione dei vescovi e degli arcipreti, che direttamente si mettono a capo dei partiti cat- tolici municipali) il male, dico, di questa condizione antinomica non è né dell'autorità ecclesiastica, che deve salvaguardare que-

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gl'interessi più alti che saltano fuori dal quotidiano regime ec- clesiastico, né deli'organizzazione civile dei cattolici, che non possono, perché tali, veder limitata l'attività cittadina e sociale, a cili sono legati molteplici interessi, senza che venga meno e si esaurisca la stessa attività dei cattolici, che spesso arriva a confondersi con quella dei conservatori liberali: - è il fenome- no triste d'Italia e di Francia. La colpa, invece, è stato l'ibridi- smo della tendenza religiosa concretizzata nelle associazioni cat- toliche, e, principalmente, I'ibridismo enorme che aveva la vec- chia opera dei congressi, la quale, sorta con modesti caratteri religiosi, per appoggiare e rendere meno isolata (specialmente nell'alta Italia) l'opera dei parroci e dei vescovi, attorno ai quali si formarono i comitati parrocchiali e diocesani, in uno sforzo di espansione necessaria o di invasione esagerata, cercò di unificare tutte le forze cattoliche preesistenti, e pedino le confraternite, assorbendo il movimento universitario, che intri- sti; invadendo anche la società della gioventù cattolica, che re- sistette energicamentc; ottenendo nel suo seno rappresentanze della società scientifica, di quella dei pellegrinaggi e della stam- pa cattolica, e circoscrivendo nel secbndo gruppo tutta l'azione democratica cristiana con i suoi circoli e fasci, le sue unioni pro- fessionali e le sue cooperative, e fissando una sezione generale pel movimento amministrativo, che rimase sempre locale e auto- nomo.

In tutto questo lavorio di unificazione e di espansione, se i cattolici assursero a potenzialità organizzata, un po' figurativa nei quadri, ma realissima nell'esercito delle masse, rimase a base dell'opera il carattere non solo religioso, come vita di tutto il movimento cattolico, ma ecclesiastico, come carattere dell'or- ganizzazione stessa; e si arrivò sino a richiedere l'intervento dell'autorità suprema, del papa, prima -per averne approvazioni e incoraggiamenti (e ne diedero Pio IX e Leone XIII), poscia per averne delle credenziali per superare le diffidenze dei vesco- vi, e si ebbero anche queste; indi per avere una forza reale nell'opera di unificazione di fronte alla gioventù cattolica, alle confraternite, e si ottenne l'appoggio. Infine, sorto il conflitto fra progressisti e conservatori, fra democratici e non democrati- ci, il clamore delle contese passò il campo della organizzazione

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e arrivò ai principi religioso-sociali, all'urto delle persone, al cozzo dei programmi, e l'autorità intervenne ad assicurare la pu- rezza delle credenze e dei principi morali e la regolarità della disciplina ecclesiastica (Graves de communi, 1901). E vedendo che neppure ciò poteva ridare la calma e l'ordine alle file dei cattolici, che si sforzavano di trascinare l'autorità ecclesiastica nel forte del dibattito per strapparle una sconfessione e una condanna, limitò la portata dell'opera ai caratteri ieligioso-socia- li e ne assunse l'alta responsabilità (27 gennaio 1902).

Così si spiega, storicamente e logicamente insieme, la in- comoda posizione della Santa Sede nella formazione di un par- tito cattolico in Italia.

La quale posizione, anche dopo i fatti del 1 W , si ripete adesso: l'attenuazione del non expedit, o il tentativo di una rior- ganizzazione di forze cattoliche, si ripresenta a molti come un tentativo di coalizione clericale, anzi clerico-moderata, una ope- cie di ritorno storico della reazione del secolo scorso alle intem- peranze e invadenze della rivoluzione francese e freno alle suc- cessive.

Noi escludiamo tutto ciò dall'ascensione della nostra vita- lità, e ci domandiamo ancora: è possibile che la potenzialiti dei cattolici si svolga in Italia nella guisa di un partito naziomk?

IL

Prima di rispondere a questa domanda, occorre mettere in chiaro i termini della questione: e quindi risolvere anzitutto la pregiudizide nazionale.

Il passo di Grosoli nell'affermare la nazionalità italiana, sal- vo i diritti della Santa Sede, come prodotto di una coscienza già in formazione e come risultante di molte affermazioni consimili; l'attenuazione del vincolo deI non exp&&, con la politica del caso per caso e la susseguente entrata di alcuni cattolici alla camera dei deputati; e, più che altro, l'autorevole ed esplicita dichiarazione del pontefice Pio X nell'enciclica Il fermo pro-

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posito 1) (I), sono l'esponente della situazione e mostrano che già si è maturi ad affrontare la pregiudiziale nuzionale.

Essa, per quel che riguarda l'unità della nazione, è ormai ristretta alla sola questione romana.

Il resto delle questioni storiche non ci preoccupa più che. non ci preoccupa, per esempio, se il diritto su Napoli fosse degli Aragonesi o degli Svevi; se i Borboni fossero legittimi o no; insomma, la questione, dal punto di vista del diritto, è sfumata: il fatto l'ha soppressa, come tutti i fatti storici precedenti. Un popolo non ha il dovere di studiare la casistica delle guerre e delle conquiste, per giudicare sulla legittimità di esse o meno; la fedeltà ha il limite nella potenzialità della resistenza; il di- ritto storico delle famiglie reali ha il valore che su loro riflette il bene di un regno o di un popolo. Oggi l'ideale della vita pub- blica costitutiva di regni è quello che ha animato la Svezia e la Norvegia, che senza guerre scindono i loro destini che una

'

forza innaturale o la necessità della difesa aveva unito, e ciò, solo con protocolli e con discussioni, senza diritti di preten- denti o legami di sovranità, senza bagliori di armi o intervents di chiese sanzionanti i1 diritto divino di quei re.

Ma la storia della rivoluzione è onesta o disonesta? Questa domanda si può estendere a tutta la storia; e la ri-

sposta sarà identica.

(1) «,,.Quei diritti civili sono parecchi e di vano genere, fino a quello. di partecipare direttamente alla vita pubblica del paese, rappresentando il popolo nelle aule legislative. Ragioni gravissime ci dissuadono, Venerabili Fratelli, dallo scostarci da quella norma gii decretata dal Nostro Antecessore. di 8. m, Pio IX, e eeguìta poi dall'altro Nostro Antecessore Leone XIII, du- rante il ano diuturno pontificato, secondo la quale, rimane in genere vie- tata in Italia la partecipazione dei cattolici al potere legislativo. Senonché, altre ragioni, parimenti gravissime, tratte da1 supremo bene della Società, che ad ogni costo deve salvarsi, possono richiedere che nei casi particolari si dispensi dalla legge, specialmente quando voi, Venerabili Fratelli, ne ri- conosciate la stretta necessità pel bene delle anime e dei supremi interessi della Chiesa e ne facciate domanda.

w Ora la possibilità di questa benigna concessione Nostra, induce il do- vere nei cattolici tutti, di prepararsi prndentemente e seriamente alla vita poiitica quando vi fossero chiamati. Onde importa assai, che quella stessa attività già lodevolmente spiegata dai cattolici per prepararsi con una buona organiezazione elettorale alla vita amministrativa dei Comuni e dei Consigli provinciali, si e s t e d altresì a prepararsi convenientemente ed organizzarsi per la vita politica, come fu opportunamente raccomandato con la circoh dei 3 dicembre 1904 della Presidenza generale delle Opere economiche in Italia D. Così Pio X, nella enciclica dell'll giugno 1905.

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Noi oggi possiamo affermare che fu un bene l'unità della patria, che fu un bene che per essa si fosse lottato; e che però, nel perseguire questo ideale, molti generosi ebbero slanci di virtù, molti ingannarono e fecero male. Il patrimonio che oggi abbiamo può essere inquinato, rovinato anclie dalle ipoteche di un passato dilapidatore; ma ci ha dato una vita, e l'affermiamo, questa vita, col nostro intervento. A coloro che possono rinfac- ciarci lo scadere dei costumi, la lotta alla chiesa, il trionfo del liberalismo, la propaganda sovversiva, rispondiamo che l'I- talia, divisa in sette stati, avrebbe subito anclie peggio, co- me la Francia, anzi come l'Austria; ove a riprova dei fatti go- verna Francesco Giiiseppe di Asburgo dal 1848, cioè dalla più formidabile e retorica rivoluzione italiana; quel Francesco Giu- seppe che tenne testa alle rivoluzioni e che poscia vi si dovette aobbarcare. Anche lì c'è tutto quel male che si attribuisce al- l'Italia una, e che sarebbe stato anche nell'Italia divisa, e anche (forse peggio, per natura1 reazione) negli stati pontifici.

Resta adunque solo la pregiudiziale della questione romana. Essa viene posta in questi termini:

a) è possibile un partito laico cattolico, che si disinteres- si, come partito, della questione romana?

b) e se è possibile, fìno a che punto esso può prescinder- ne, senza mancare ai suoi doveri?

C) e se un qualsiasi fatto concreto determina un conflitto o lo acutizza, fra lo stato italiano e la chiesa romana, quale può essere il punto di interferenza fra il partito cattolico e i due poteri?

Prima però di esaminare i termini della pregiudiziale, bi- sogna assodare il valore pratico, concreto, presente della que- stione romana in rapporto alla nazione italiana.

ii sommo pontefice, come capo della chiesa cattolica, non può rinunziare alla sua ingenita libertà e indipendenza: essa è ta l cosa che diviene nel concreto il fatto stesso religioso, e praticamente e storicamente essa dà origine a quelle fasi storiche che si riducono, semplicizzando, o alle persecuzioni delle ca- tacombe, o all'autorità morale della decadenza dell'impero ro- mano, o all'autorità paterna su Roma per consenso di popolo, o al potere internazionale del medio evo, o alla potestà politica

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.deU'evo moderno; sempre o libero o perseguitato, mai il papa fu servo, se non a patto di perdere la sua potenzialità morale e la sua stessa autorità.

Oggi la libertà, quella certa libertà religiosa che si con- sente in uno stato neutro, e che moralmente è acquisita una tregua di lotte sfibranti, è necessità riconoscere che esiste: man- ca l'elemento giuridico che sanzioni la libertà di fatto, e la ren- da intera nell'ambito di vita religiosa che si esplica e si mani- festa. al di fuori. Fatto giuridico che tolga a un potere laico, non la possibilità (cosa che non fece neppure il potere tempo- rale) della violazione del diritto alla libertà, ma la figura giu- ridica, la ragione o meglio il pretesto legale, che sanzioni, inve- ce, la violenza e I'arbitrio di qualsiasi atto in contrario.

Precisata in questi limiti la natura essenziale dei diritti della Santa Sede, nessuno ignora che il fatto storico preme fin troppo, oggi, da non consentire altro che un modus vivendi, una ragione equivoca, nella quale questi due poteri convivendo non s'incontrino, né si riconoscano, né si urtino, né si coalizzino: fin che una vera evoluzione storica sciolga il problema che, sorto dalle persecuzioni rivollizionarie e maturato aU'ombra di un edit- to di tolleranza, trovi, attraverso nuovi tempi, una forma di vita pubblica.

Tutto ciò, si dirà, tende a rafforzare lo stato italiano e a indebolire la chiesa. Preoccupazione fallace di uomini senza fede: tutto ciò è il corso naturaie degli eventi. Nessuna afferma- zione e nessuna negazione può spostare il fatto da questi ter- mini e crearne un altro: nessuna persuasione subbiettiva porta a nn termine concreto, possibile, maturo; le vecchie concezioni clericali non hanno altra arma che una protesta, un lamento, nn insulto; né altra posizione che I'assenteismo e l'aspettare.

Oh! l'aspettare! Anche noi aspettiamo, non il francese o il tedesco che rimetta la Santa Sede in trono a Roma (nessuno.in Vaticano penserebbe ciò, e il papa rifiuterebbe soccorsi incomo- d i e posizioni belligeranti); aspettiamo invece che da nuovi tem- pi sorga la nuova orientazione della nazione verso la chiesa: la chiesa come virtù vivificante, non come pretendente politico; co- me forza unificante, non come energia che dispaia; ragione giuri- dica di altre garanzie che non siano un potere civile, o una difesa-

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militare, o una vigilanza sbirresca che faccia la ronda al Va- ticano.

E così diverso il pensiero contemporaneo, che non si può oggi concepire un papa che governi da sé, che abbia il suo par- lamento e i suoi soldati, in cui nome si batta moneta o si puni- sca un delinquente: e la mentalità è il prodotto dei fatti con- creti e produce le leggi e la storia. Si sarebbe concepito un po- tere temporale sotto l'impero romano, anche dal più ortodosso dei cattolici del tempo?

Con ciò non ho dato la soluzione del problema (e come avrei potuto?), ma invece ho dato i contorni di quel che è oggi la questione.

Essa è insolubile e dallo stato e da un partito, sia pur cat- tolico; ma sono il papa e gli eventi che la porteranno alla so- luzione. chiaro che uno statu quo, una specie di armistizio, una impregiudicata posizione di sosta, che non implichi rinun- zie, che non pregiudichi diritti, ma che dia alla chiesa una li- bertà di mosse e allo stato una serenità di lavoro necessaria è la prova di fainco della coeeistenz= dei dire poteri, col: a~tago- nistici ma solo indipendenti, dei quali nessuno abbia l'animo alla lotta, alla sopraffazione nel senso politico, e ciascuno senta i doveri della neutralità nei rispettivi campi, civili e religioso.

Questo stato reciprocamente pacifico non è possibile in pae- - si a sistemi costituzionali, ove forze, oggi positive domani nega-

tive, si contenderanno la vita; donde deriva la tendenza a inva- dere il campo religioso, a penetrare nel santuario della chiesa e: anche a colpirne il capo. La lotta detta anticlericale, - che non è altro che lotta anticristiana e che non risparmierebbe il più ideale dei governi pontifici, - potrà accendersi ed acuirsi: avrà, certo, i suoi quarti d'ora: invaderà scuole, cattedre, stampa, vita civile : soffierà nelle passioni patriottiche : invaderà l'organismo sociale. Tale lotta, che non è e non .sarà mai fase nuova nella vita dei popoli, oggi, nelle forme costituzionali, dà altra spinta, sia pure negativa, alla formazione di un partito di cattolici, che nell'attrito della vita pubblica difenda i diritti del popolo alla vita religiosa e che nei municipi, nelle provincie, nelle opere pie, nelle scuole, nei parlamenti combatta vigorosamente le sopraffa- zioni anticlericali. Tale partito, in Italia, messo a paro degli altrt

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nel terreno della vita nazionale, non potrà spingerei più in là di ogni partito di cattolici in ogni altra nazione e divenire l'e- sponente di una ragione politica e territoriale del romano pon- tefice; della quale ragione, come partito e nel concreto della vita della nazione, si dovrà disinteressare, dal punto di vista di un complesso di rivendicazioni concrete e tassative. Ed è oppor- tuno che il non expedit venga meno nel momento in cui le au- torità civili dell91talia mantengono alquanto sereni i rapporti con il romano pontefice, e che la politica ecclesiastica sembra meno decisa nel ritorno al passato, perché l'entrata dei cattolici nella vita pubblica non rappresenti una slanciata di soldati a invadere il campo di un ,avversario politico per sgominarlo, ma un intervento opportuno, e quasi direi necessario, al naturale evolversi della vita italiana.

Si dirà che così il problema della questione romana non è stato risolto: certo è cosi, ma chi pretende risolverlo avrà un bell'affannarsi: i castelli di carta sempre vengono meno. O de- gli umani antiveder bugiardo D, esclameranno i posteri, quando avranno esaminato quel che si pensa da molti in ordine a tale importante questione, dopo che gli eventi avranno dato i1 loro responso.

Qualunque possano essere i criteri presenti, le mire, le fi- nalità, favorevoli o avverse, e del resto tutte vaghe, imprecise e indeterminate, la questione romana, anche nella ipotesi (la più razionale) della formazione di un partito cattolico che, come partito politico, se ne disinteressi, rimarrà per i cattolici di qualsiasi tendenza, anzi per gl'italiani tutti, favorevoli e awer- sari, come un necessario punto di arrivo di un cammino a noi ignoto; come un necessario svolgimento di una potenzialità in- sita nell'anima italiana; come un necessario punto di partenza di nuova grandezza morale, nell'Europa dell'awenire.

Oggi noi non possiamo fare più la questione del potere tem- porale, cosi e semplicemente come un ritorno al passato, allo stesso modo che non la potevano fare i cattolici del secolo XIV, quando la trasformazione del diritto internazionale europeo an- dò creando il diritto pubblico civile, nella distinzione dei due poteri e del diritto religioso della chiesa da quei diritti e poteri che la chiesa ebbe, come centro di vita civile e politica euro-

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pea, h o alla cattività di Avipone e allo scisma di occidente; e pure anche allora la società progrediva e la chiesa si rinvi- goriva, spogliandosi del bagaglio dei diritti medievali, che nelle forme concrete non rispondevano più ai bisogni dei tempi.

Si awerta poi che quando noi diciamo che il partito na- zionale dei cattolici prescinde dalla questione romana, s'inten- dono due cose: che esso non la pone come un primo politico nella sua azione, sicché esso debba andare in parlamento ed en- trare nella vita pubblica con un programma da conseguire, fra cui il ritorno del potere temporale: non sarà mai possibile che un partito politico, e peggio il cattolico, possa risolvere con un'azione diplomatica o un atteggiamento parlamentare la que- stione romana, di cui il papa non solo è l'unico giudice compe- tente, ma anche l'unica forza attiva di una soluzione che mille fattori dovranno maturare.

E quando dico dovranno maturare, non ho fatto un sempli- ce atto di fede, che mi guarderei bene dal fare con una specie di senso profetico: ho semplicemente argomentato come uno sta- tista che vede le ragioni dei fatti e ne intuisce il corso. Nessuno potrà prescindere dalla questione romana nel senso che si possa far dimenticare, che possa cadere da sé rimanendo insoluta, che possano perpetuarsi le presenti condizioni del pontefice in in- finito: non lo credono né i moderati che vorrebbero una con- ciliazione colla base dello statu quo, né i socialisti che vorreb- bero una completa abolizione dell'ente chiesa, né i clericali che sognano il ritorno al passato. Nessuno che pensi che la sto- ria di venti secoli abbia sancito che le sorti d'Italia non posso- no scompagnarsi dal papato, può ritenere che l'Italia risolverà la questione romana sopprimendola.

Essa risorgerà sempre: lo stato di calma, il forte attrito, l'urto, la tacita intesa, un modus vivendi, un aperto contrasto saranno le fasi che si ripeteranno, colpa di uomini e di eventi; ma tali fasi faranno ricordare che esiste una questione la cui soluzione sarà maturata nella coscienza italiana.

'E chiaro che un qualsiasi partito nazionale di cattolici avrà il diritto e il dovere di intervenire negli atteggiamenti che il governo piglia verso la chiesa, come interviene nelle altre na- zioni, sostenendo quei ~r incipi e quei diritti della religione e

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dell'anima cristiana del popolo, che formano la caratteristica dei partiti cattolici moderni in tutte le nazioni, senza essere mai un partito clericale, cioè un'emanazione di chiesa.

E ribadisco questo concetto, già espresso, con la considera- zione che altrimenti un partito nazionale parlamentare di cat- tolici non potrebbe sussistere, né il papa vorrebbe affatto le ri- percussioni di una attività laica, civile, politica, ispirata sia pu- re a principi religiosi; né un tale partito potrebbe rappresen- tare mai il potere ecclesiastico, di cui esso diverrebbe una spe- cie di gerente responsabile.

In questi termini, che rispondono al comune sentire dei cat- tolici, oltre che alla logica, la pregiudiziale delle condizioni pon- tificie è superata senza che né il diritto, sia pure il tradizionale esterno oltre il puro religioso, venga pregiudicato, e senza che esso diritto possa implicare una posizione antagonistica dei cat- tolici alla vita nazionale e una posizione di combattimento con- tro la unità della patria per un ritorno a l passato. .

Un'altra pregiudiziale bisogna risolvere, perché si possano delineare i caratteri del partito nazionale dei cattolici.

Quale posizione assumerà tale partito verso la monarchia italiana?

Ci fu un tempo che, sottovoce e come di contrabbando, ser- peggiava nelle file dei cattolici una simpatia, non più che una simpatia, per una repubblica italiana, anzi per una federazione repubblicana: anche questo un sogno, di che i facili soluzionisti dei problemi storici si sono sempre pasciuti nelle lunghe discus- sioni politiche ricreative. Oggi, per tendenza o simpatia perso- nale, ce ne sono molti, fra i giovani, cui l'ideale repubblicano piace parecchio; ma da un sentimento platonico non si esce. Non si vorrebbe, e sarebbe sommo errore, che i cattolici facesse- ro del repubblicanesimo in Italia: il che vorrebbe dire che non si farebbe niente: oggi, nei regimi parlamentari, svanisce la ragione politica come forza dinamica del pensiero, per suben- trarvi altre forze; e la posizione dei partiti in Italia è questa: o aderiscono alla monarchia, e ne fanno un caposaldo di pro- gramma come i liberali; o ne prescindono senza sottintesi di

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ideali repubblicani, come i moderni radicali; o ne prescindono per avversarla, come i' socialisti. Noi non abbiamo nessuna ra- gione di aderire alla monarchia. Per noi non è il simbolo di un passato, né una forza per l'avvenire; per noi, re o presidente, non rappresenta che la somma dei poteri dello stato, non mai l'ideale della potenza militare o i fasti d'una casa cui siano le- gate le sorti d'Italia. Solo accettiamo il fatto compiuto, nel sen- so che nessuna ragione di fatto c'invoglia a mutare quello che è l'ordinamento attuale. Noi, con la monarchia di oggi, trovia- mo sintetizzata l'unità della nazione e la rappresentazione del- l'autorità assommata in un trono; e auguriamo che nessuna rea- zione militare, nessun ideale imperialista, nessuna pretesa di af- fermare diritti antagonistici al popolo induca la monarchia a mettersi in urto con la nazione.

Quindi il partito nazionale cattolico non ha adesioni precon- cette, non repugnanze sistematiche; risolve la sua posizione col- la seguente formula: prescinderne. senza sottintesi politici, so- stenerne il valore costituzionale senza feticicmi dinastici, com- batterne, quando occorra, le tendenze megalomani e imperiali- ste, senza attaccarne il principio.

Insomma, il partito cattolico, come non è una emanazione chiesastica nel senso clericale della-parola, non è né può essere un'emanazione monarchica nel senso che vi dànno i liberali; la difesa dell'altare è la difesa della religione; e la difesa del trono è la difesa del principio di autorità: né l'altare né il trono sono coefficienti organici del partito cattolico, ragioni costituzio- nali dell'organismo di una vita libera, costituzionale, popolare.

Così, sciolti i lacci delle precedenti preoccupazioni, risol- te le due pregiudiziali che venivano necessariamente a ingom- brare il terreno che è stato occupato da quarantacinque anni sul cammino dei cattolici, si arriva a metter le basi, con una carat- teristica naturale, al partito nazionale dei cattolici italiani.

Ma quale programma avrà mai questo partito cattolico na- zionale? sarà forse il contenuto religioso e morale del program- ma, che unirà tutti i cattolici di buona volontà sul terreno della

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lotta della vita pubblica? oppure vi sarà un contenuto specifi- co, che concreterà le aspirazioni dei cattolici italiani in una formula programmatica?

Non è un problema nuovo, questo, per i cattolici italiani ed esteri; anzi è il problema che travaglia vivamente il nostro pensiero e che, insoluto, mina la compagine della nostra esi- stenza di partito.

Però, più che un carattere definitivo, il problema piglia in sé un carattere relativo alla vita che si svolge; quindi non si può risolvere in un senso assoluto, indipendentemente dai ca- ratteri comuni di un dato tempo e di un dato luogo. Certo che, quando la forza di una lotta virulenta contro i cattolici in terra protestante, destò la vitalità del centro germanico, gli uomini che risposero all'appello di lotta non poterono avere un contenuto politico ed economico come base di programma, ma un contenuto principalmente religioso, nella difesa di quei di- ritti che sono i diritti della coscienza e della vita. Questo, s'in- tende, non escludeva il contenuto economico e politico che può sbocciare vivo dal senso cristiano, come un contenuto di giusti- zia, di moralità, di prosperità, di bene.

Ma, nella elaborazione di questo contenuto, le formole si estendono, i problemi divengono complessi, le posizioni si spo- stano, le tendenze si manifestano anche in senso opposto, pur restando entro la traiettoria degli ideali morali e religiosi. Così è awenuto in Germania. In Austria però si è svolto un processo differente: la ragione economico-sociale è apparsa con un piano tattico e logico; in essa uomini religiosi e di fede romana hanno trovato una soluzione di indole cristiana, e si sono presentati alla vita con un programma specifico nell'ordine sociale, ani- mato da vitalità religiose.

Questo secondo processo mi sembra sia il più confacente oggi in Italia; quivi la lotta antireligiosa si è confusa con tutto l'evolversi della civiltà presente, quale essa sia. Il criterio laico è predominante, non più come un movente di lotta per la con- quista di una ragione politica già ottenuta, ma come stasi di un

di lotta già superata. Quale sarà per essere la posizione che verso i problemi religiosi assumerà il governo italiano, sia pure in una recrudescenza massonico-anticlericale, non commo-

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verà mai la coscienza nazionale, di sé sicura, perché la ragione politica di essa è venuta meno: e oramai lo specchietto anti- clericale di una fosca visione del ritorno al potere temporale e alla teocrazia non regge alla critica dei fatti quotidiani, che for- mano il substrato della coscienza moderna.

La possibile lotta anticlericale e l'urto antireligioso sarà un episodio di un espediente politico o l'esplosione di un odio O

l'opportunismo di una puntata contro la formazione del nostro partito; non mai una ragione che specifichi l'andamento pre- sente della nazione italiana nella conquista di una libertà, di una indipendenza dal fattore religioso, come volere nazionale.

Una lotta antireligiosa si svolgerebbe nello stesso modo e avrebbe lo stesso significato in Francia, come in Austria, come nel Belgio; così in Italia. In tal caso, tutte le forze dei cattofici, non come partito organico, ma come fedeli, si unirebbero insie- me. Siano essi moderati, liberali, progressisti e, se si vuole, gli spiriti liberi dai pregiudizi del (( libero pensero n, tutti sarebbero alla difesa del diritto reiigioeo delle coscienze, come awenne quando fu presentato il progetto di legge sul divorzio; e in tale lotta i cattolici assumerebbero, non tanto una semplice posa poli- tica, quanto una necessaria e doverosa difesa del diritto, del giusto, delle convinzioni loro e dei cattolici d'Italia. Le dissen- sioni sui metodi potranno aver presa nei casi particolari; ma al- lora le vitalità e gl'ideali religiosi accomuneranno tutti gli uo- mini di bnona vobnt&.

Noi intanto diamo così un carattere religioso al partito, in quanto che esso rappresenta un elemento di resistenza legittima all'urto degli awersari, non mai come ragione confessionalistica, come monopolio di vitalità religiose, come 'camarilla di affari ecclesiatici, come difesa autentica della chiesa, nella funzione di nuovi patrizi di Roma e patroni della santa romana chiesa.

'E perciò che non possiamo fame una bandiera del conte- nuto religioso delle nostre idee di vita civile e sociale, determi- nando un reggimento di forze ed elevando questi reggimenti a partito: tanti cattolici che sarebbero contro di noi, avrebbero il gioco di un astio politico, che urterebbe le loro convinzioni religiose, che scinderebbe l'animo italiano e creerebbe di nuovo l'antagonismo clericale anche nel seno dei convinti cattolici.

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Per tale ragione noi ameremmo che il titolo di cattolici (così caro alle convinzioni religiose degli italiani) non fregiasse il nostro partito e i nostri istituti. Che se urta anche al nostro senso estetico leggere in cima alle insegne delle nostre banche o deIle nostre società di assicurazione e dei nostri giornali il titolo di cattolici, urta anche, e più che urta confonde i termini, il vedere che domani un partito politico o amministrativo assu- ma la ragione di cattolico. L'uso invalso anche nel campo av- verso, come in parte ha fatto cadere il nome di clericale, così ha sostituito quello, che io vorrei così sacro, di cattolici. In Fran- cia si chiamano associazione liberale, in Austria cristiani sociali, in Svizzera conservatori; noi speravamo che il nome e il con- tenuto della democrazia cristiana fosse passato come insegna di un partito militante, ma anche questa parola si volle, per istinto che non si può evitare, far passare dal campo sociale a quello religioso, e poscia, mantenendo il suo contenuto, è rimasta a si- gnificare una frazione di cattolici più che un programma di vita.

Ma, a parte la questione del nome (ci sarebbe da bizan- tineggiare parecchio), la questione è vitale per la elaborazione

di un programma specifico del partito nazionale cattolico. Attualmente le tendenze della vita pubblica italiana, nella

grande varietà delle facce del partito liberale, si raggruppano in conservatori e socialisti; e si attraversa un periodo speciale, nel quale la politica si è spostata, orientandosi verso il popolo, che diviene centro d'irradiazione; e, in generale, un saliente benessere economico, in un disquilibrio finanziario, acuisce i problemi della vita e determina le lotte politiche.

Non ripeto quel che ho detto in altre mie conferenze: l'in- dividualismo perde a vista d'occhio: la ragione sociale diviene meno incomposta; il pensiero si matura verso forme più orga- niche.

I cattolici italiani non possono sfuggire a questa situazione, né crearne un'altra; essi devono affrontarla: o sinceramente conservatori, o sinceramente democratici: una condizione ibri- da toglie consistenza di partito, e confonde la personalità nostra con quella dei conservatori liberali, staccando i pochi coraggiosi che vogliono spingere il partito sul cammino delle progredienti democrazie.

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Questa situazione indecisa e tendente verso i conservatori è stata assunta in molte parti, dove i cattolici sono penetrati nei municipi e hanno affermato una vita elettorale propria; e questa tendenza è stata più che mai manifesta nell'eritrare tumultuoso e impreciso dei cattolici nella vita politica, con l'at- tenuazione del non expedit, nel novembre scorso.

E proprio i primi che, come cattolici, hanno preso posto alla camera, sono stati alcuni conservatori cattolici, dei quali l'esponente più significativo e più noto è l'on. O. Camaggia.

T3 questa la constatazione di un fatto, che riassume una si- tuazione creata già da tempo in Italia, contro la quale lavorò la giovine scuola dei democratici cristiani, che invece assumono posizione politicamente diversa, benché concorde nella difesa religiosa.

A me, democratico autentico, convinto, e non dell'ultima ora, è inutile chiedere quale delle due tendenze politiche, nel senso comune della parola, io creda che risponda meglio agli ideali di quella rigenerazione della socieià in Cristo, che E I'aspira- zione prima e ultima di tutto il nostro precorrere, agire, lottare.

E chiaro che io stimo monca, inopportuna, che contrasta ai fatti, che rimorchia la chiesa al carro dei liberali, la posizione di un partito cattolico conservatore; e che io credo necessario un contenuto democratico del programma dei cattolici nella for- mazione di un partito nazionale.

Efa il fatto nora si può contraddire, conviene studiarlo. C'è chi opina che, lanciato un partito cattolico nell'attrito

dei fatti concreti, determina esso a se stesso il suo programma: questa specie di automatismo programmatico può avere un va- lore dinamico nella elaborazione di un pensiero vissuto e nella concretizzazione specifica di una formula: se però manca il pen- siero vissuto e manca la formula collettiva, resteranno le ten- denze personali, che saranno sottoposte al gioco degli eventi, alla forza viva delle persone, al concreto delle lotte.

No, così si andrebbe a finire come in Francia, dove la pre- giudiziale politica ha rovinato I'awenire dei cattolici, e i ralliés crearono la forza e la debolezza dei melinisti e prepararono la lotta religiosa senza un vigore di resistenza, senza un contenuto cosciente di vita politica.

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Noi serviremmo in tal caso i conservatori liberali, la cui preponderanza numerica e momentanea (non programmatica e - ideale) determinerebbe la reazione dei sopraffatti, radicali e so- cialisti, e ci farebbe trovare impreparati ed esposti (senza gli aiuti dei conservatori liberali) a una lotta religiosa che ci stan- cherebbe ed esaurirebbe.

Da soli, specificatamente diversi dai liberali e dai socialisti, 1iberi.nelle mosse, ora a destra e ora a manca, con un program- ma consono, iniziale, concreto e basato sopra elementi di vita democratica: così ci conviene entrare nella vita politica. Non la monarchia, non il conservatorismo, non il socialismo rifor- mista ci potranno attirare nella loro orbita: noi saremo sempre, e necessariamente, democratici e cattolici.

La necessità della democrazia del nostro programma? Oggi io non la saprei più dimostrare, la sento come un istinto; è la vita del pensiero nostro: i conservatori sono dei fossili, per noi, siano pure dei cattolici: non possiamo assumerne alcuna respon- sabilità.

Ci si dirà: ciò scinderà le forze cattoliche. Se è così, che avvenga. Non sazi certo un male quello che necessariamente deriva da ragioni logiche e storiche, e che risponde alla realtà del progresso umano.

Due forze contrarie che si elidono arrestano il movimento e paralizzano la vita. Tutto lo sforzo enorme dei cattolici ita- liani è stato concentrato nell'affermazione di un principio so- ciale democratico, che comprende tutte le forze sociali della vita presente e le riprova al fuoco del cristianesimo per purifi- carle dalle scorie egoistiche, dalle infiltrazioni materialistiche, dal tufo socialista o liberista.

Nell'affermazione di un programma specifico sociale, il par- tito cattolico diviene partito vitale, assurge alla ~otenzialità di partito moderno combattente, che ha vie precise e finalità con- crete.

iE: logico adunque affermare che il neo-partito cattolico dovrà avere un contenuto necessariamente democratico-sociale, ispirato ai principii cristiani: fuori di questi termini, non avrà mai il diritto a una vita propria: esso diverrà un'appendice del partito moderato.

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Se mi è lecito, compio questa analisi con un augurio: è quello che nessuno più della democrazia cristiana faccia un'in- segna di povere e minute iniziative, che nessuno più sfrutti questo nome in battaglie vuote di senso, che nessuno la pre- senti come una ragione antagonistica alle forme vuote della no- stra organizzazione.

Essa, la democrazia cristiana, è un ideale e un program- ma che va divenendo, anche senza il nome, evoluzione di idee, convinzione di coscienze, speranza di vita; essa non può essere una designazione concreta di forze cattoliche, ma una aspira- zione collettiva, sia ancora vaga e indistinta.

Resti in questo stato ideale, impalpabile, ispiratrice di con- cezioni pratiche in tutti i rami del nostro agire: economia, mu- nicipalismo, nazionalismo, politica; e sarà l'insegna di un par- tito autonomo, libero, forte, che si avventuri nelle lotte della vita nazionale.

Involuta, difficile la via del bene, la concretizzazione degli ideali. Mentre tutto l'andare sociale ci sforza alla vita, questa ci si appalesa e ci si rivela a gradi; si riaseufide aochc, C ci FS- va dei suoi lumi, e ritorna vivace a splendere come il sole dopo la tempesta.

N O T A

AZ testo di questo discorso, che abbiamo restituito alla sua forma originale, faceva séguito uno nota dell'autore, che ci pioce riprodurre, non soltanto per wro curiosità. Eccola:

Avevo scritto questa conferenza, quando sono venuti fuori gli schemi degli statuti delle tre unioni generali delle organizza- zioni cattoliche. L'assenza di un programma o di una nota spe- cifica programmatica e il rafforzamento dell'idea confessionale mostra come non sia nata nella mente dei triumviri l'idea della costruzione di un partito nazionale. Non so se i rilievi che in proposito la stampa ha fatto, e che han pure fatto le associa- zioni cattoliche invitate al referendum, saranno tenuti in consi- derazione.

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IÈ certo che il fatto non depone in senso favorevole alla concezione del partito cattolico, che io ho cercato di abbozzare, e dei criteri acònfessionali e democratici di esso partito.

Però non credo che quel che di esse unioni sarà per essere, possa preoccupare troppo le nostre tendenze: l'unione delle for- ze cattoliche, sia nelle società economiche, sia in quelle eletto- rali (non credo che il resto sarà cosa concreta), subisce la forza del pensiero e della propaganda, e non viceversa.

IÈ quindi il valore della nostra propaganda (più che un'or- ganizzazione a parte e in campo chiuso) che deve arrivare alla coscienza, al pensiero dei cattolici; e siamo noi la maggior parte di quelli che si muovono in Italia nel campo dei cattolici; e quando il nostro pensiero sarà penetrato nell'animo dei più e reso profondamente vitale, avremo conseguito la trasformazione del partito.

C'è quindi da lavorare, da lottare, da continuare nel nostro stesso campo quella trasformazione che dal 1898 segna l'inizio di una nuova fase, la quale, attraverso gli episodi, non si è chiusa; ed anche - oso dirlo, contro la sfiducia di coloro che guardano la vita nella cerchia stretta dei piccoli fatti - è pro- gredita e di molto.

Certo, pochi avrebbero pensato che la formula ingombrante dei congressi sarebbe caduta dopo il congresso di Bologna; ed io sono sicuro che ogni altra formula conservatrice non riuscirà che a essere un ingombro da togliere, non mai un ostacolo che paralizza la vita.

L'ideale del partito nazionale dei cattolici resta integro CO-

me l'aspirazione più legittima e necessaria alla vitalità dei cat- tolici militanti, e i l programma democratico-cristiano l'unico ideale che non può essere sostituito da nessun altro.

L'influenza di questo ideale non può essere elusa da abbozzi o da tentativi che non riscuotono la fiducia dei più: il cam- mino, intralciato, non potrà che subire ritardi, ma non sarà arrestato.

Del resto nessuno pensa che il progresso sia un'ascensione per linea retta; sarebbe l'errore peggiore, che ci porterebbe a l suicidio.

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I PROBLEMI DEL DOPOGUERRA (Milano, 1918)

L'uttiuità d i don Sturzo durante la guerra era ben cono- sciuta a Milano, dove si era recato più volte sia per l'&socio- zione nazionale &i comuni italiani, sia per l'opera dell'assi- .

stenza religiosa e civile agli orfani d i guerra, da lui fondata insieme con il principe don Luigi Boncompagni, sia per lazio- ne cattolica durante il periodo del suo segretarinto.

Appena conchiuso l'armistizio, fu invitato da quel circolo d i cultura a tenere u n discorso sui problemi del dopoguerra; discorso tenuto il 17 novembre 1918, che diede luogo a u n séguito giornalistico di lettere e interviste, e che si conchiuse con una prima riunioire d i amici a Roma, nella quule si concrs tò l'idea della fondazione del partito.

Questo discorso è anche interessante per l'accenno discreto alla soluzione della questione romaiur. Il card. Ferrari, d i cui don Sturzo solet~a essere ospite, e lo era i n quella occasione, o che evoun pressnziato i! discorso, gli d o m d ì > se qirell'w- cenno era stato comunque fatto d'intesa con la Segreteria d i stato. Alla risposta negativa d i don Sturzo, Sua Eminenza sog- giunse: Andate subito a Roma, e parlatene con chi d i dovere.

Ancora non è spenta l'eco del plauso, degli inni, degli entu- siasmi per la immensa vittoria nostra, per la vittoria immensa degli alleati: ancora echeggiano, dal piano alle valli e alle mon- tagne che seppero il tuono. dei cannoni e le fiamme e il fuoco e i vapori mortiferi e videro stragi e morti, i cantici della gioia. Suonano ancora le campane delle nostre chiese e ripetono al- l'Altissimo, nei fremiti della commozione, il ringraziamento fe- dele di un popolo, che vide le sue sorti elevate nel trionfo di una vittoria oltre il prevedere umano, oltre le speranze nutrité di costante fiducia nella causa di giustizia, nella difesa del diritto e della civiltà, nel raggiungimento delle aspirazioni dei popoli.

Rapida come il fulmine, vasta come la tempesta, awolgen- te come l'uragano, venne la vittoria, premio alla costanza, virtù di nomini, ragione di eventi, alta disposizione di provvidenza; - e abbiam visto Lucifero cader dal cielo come una folgore,

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quando il tedesco, nel culmine delle sue speranze, dopo aver quasi raggiunto Parigi e carpito il trionfo, cedeva, cedeva, bel disfacimento di una forza titanica, immane: quello che peccò di superbia, di fronte al mondo e di fronte a Dio.

I1 cammino segnato ai popoli ha una nuova impreveduta orientazione dai fattori accumulatisi ed esplicatisi nel giro di pochi giorni: nei quali la storia compie cicli immensi, nel tu- multo di popoli, nel cader di regni, nel sorger di nazioni; men- tre ai valori spirituali la vita oggi vissuta dà fasci di luce nova, nei bagliori di sanguigni tramonti.

possibile raccogliere il pensiero, ancora pieno di spasmo- dica tensione, e proiettarlo sul futuro che ci attende, non come spettatori passivi e inerti, ma come fattori di opera, nel gigan- tesco risorgere della patria all'alito benefico della pace, nel: progresso delle sue forze, pur nella crisi degli eventi, che gli uomini tentano di correggere e guidare, mentre si sprigionano energie novelle, dalle latebre della terra percossa, dal profondo ignoto dell'anjma umana, dall'abisso della coscienza collettiva?

Una sintesi parziale ha il valore dell'oggi; domani può cader come nebbia al sole, evanescente e leggera; un program- ma formulato ancora sotto l'incubo degli eventi, può divenire un vaniloquio sterile, quando la realtà incombe con la sua for- za tiranna; ma vi sono veri immutabili e profondi, che domi- nano gli eventi, e che illuminanò le coscienze; occorre river- berare sugli umani eventi e sulle coscienze umane questi veri, perché una guida pratica sia a noi segnata anche nel tumulto .

dei trionfi e delle crisi. A questi veri ispirerò il mio dire nel parlare di programmi

del dopoguerra oggi che la guerra è finita, e che nuovo cam- mino è aperto ai popoli nelle trepide ore della pace che sorge.

LA GRANDE PALINGENESI

Un fenomeno notevole si presenta ai nostri occhi come quel- lo che attira l'attenzione di popoli e di governanti, sia delle nazioni già in guerra sia delle altre neutrali: il suolo della vec- chia Europa è percorso da profonde trasformazioni, delle quali

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conosciamo la superficie turbata e impura. 'E naturale che il ribollimento di plebi prima si senta in p e g l i stati che han subito la sorte amara della guerra, la cui fine non è stata loro propizia. La Russia, nella dissoluzione del tradimento, fermentò il bolscevismo, come un prodotto legittimo di una tirannia cen- trale e oligarchica, morale ed economica, di una massa ancora incolta e primitiva. Sembrò solo reazione popolare contro i tormenti di una guerra non sentita dal popolo e fu insieme rottura di ogni vincolo sociale, nel delirio di un socialismo anarchico, al quale ignara folla tende come rimedio violento e sommario ai mali voluti e creati da una casta dominatrice e ag- gravati da una tragica guerra.

Circa due anni di rivoluzione caotica, nell'inseguirsi di even- ti e di tumulti, di sedizioni e di stragi, nella applicazione di as- surdi principi e di false teorie, hanno condotto la Russia alla dissoluzione statale e alla crisi morale e politica; mentre bi- sogno di appoggi internazionali e di giustificazione morale, ten- denza di proselitismo e ragioni di parte, rendono i russi propa- gatori delle agitazioni bolsceviche presso popoli neutrali e bel- ligeranti.

L'abdicazione dello czar di Bulgaria e la caduta dell'im- pero austro-ungarico sono effetti della guerra; pari alla fuga del kaiser e alle deposizioni dei re teutonici, vero crepuscolo degli dei, nella rovina di ordinamenti tradizionali di poteri quasi as- soluti, colpiti dalla nèmesi della stona.

Ma più che semplice condanna di uonioi, colpevoli più O

meno direttamente della guerra scatenata sul mondo, è la folla dei popoli che fermenta, nell'esplodere di forze intime, agitate dall'angoscia e dalla miseria, quando il velo della illusione è caduto, e si vede nuda la realtà amara e tragica, tra le rovine accu- mulate, la incertezza del presente, l'oscurità dell'ivvenire.

Quella coscienza collettiva addormentata o costretta a ta- , cere, che sopravvive nelle generazioni che si inseguono, e che

ha per base la razza, la storia, la lingua, la religione, si risve- glia all'urto formidabile degli.awenimenti, e crea uno stato di animo nuovo, diffuso e valido, che tentale sorti della vita con la forza indomita e fatale del destino. Così risorge la Polonia, torna italiana la Dalmazia, si ridestano i cecoslovacchi della

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Boemia, perfino la Jugoslavia tenta una grande esistenza: ru- teni e lituani, ucraini e rumeni levano la voce compressa della razza, rivivono le antiche vicende patrie e creano le nuove sorti di popoli affrancati.

La rivoluzione francese, seguita dalle guerre napoleoniche, preparò il rinnovarsi dell'occidente europeo sulla base di li- bertà invocate di fronte ai poteri assoluti e alle caste domina- trici; allora le scosse di popoli e le agitazioni di plebi diedero il quarantotto, la base costituzionale penetrò nei regni e s'im- pose. Nei grandi rivolgimenti nazionali e politici prevalsero an- cora le concezioni imperialistiche e il sovrapporsi di popoli e di razze; le nazioni armate maturarono il predominio della forza; il 1871 preparò la grande guerra.

Perché dovevano ancora essemi, nell'Europa civile, nazioni subordinate e popoli oppressi? perché i tedeschi dovevano mar- toriare la Polonia? e gli inglesi perché opprimere l'Irlanda? perché la Boemia e 1'Erzegovina essere trattate come poderi da trasferirsi all'Austria per mene diplomatiche? e il. turco fino a ieri comandava in Bulgaria e in Grecia, e l'Austria fino ad oggi ha tenuto soggette Trento e Trieste, e l'Alsazia e la Lorena vennero per guerra strappate alla madre patria?

C'è da disperare delle magnifiche sorti e progressive del se- colo XIX, nell'amarezza leopardiana del disinganno; c'è da di- . . sperare della virtù dèlle grandi nazioni se fino ad oggi il turco regna a Costantinopoli, e fino a ieri teneva la Terra Santa, e mie- teva le vittime in Armenia, come annuale raccolta di spighe umane, cribrate dall'odio di razza.

Nuova era di popoli, come quella, della rivoluzione fran- cese, nuova concezione statale oggi segue la guerra, nuovo fiotto di vitalità democratica; i popoli dicono la loro parola, finché, nell'acquietarsi di violente passioni scatenate fra le masse, si 'rassodi un ordinamento che diventa sintesi concreta dei valori maturati nella catastrofica vigilia delle armi.

Le popolazioni vincitrici avranno minori scosse politiche e minori agitazioni di piazza, quanto più forti e radicati sono gli ordinamenti e più salda la disciplina nazionale, e quanto mi- nore influenza vi si esercita dal di fuori; ma il rivolgimento psicologico nella coscienza popolare avviene egualmente e inten-

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so ancora di più, quanto più profonde sono le stigmate dei do- lori di guerra e delle sofferenze del dopoguerra, e quanto più debole è la compagine economica e morale di un popolo.

Nessuna nazione, presto o tardi, sfuggirà alla grande palinge- nesi: tali scosse ha patito e patirà ancora il corpo so'ciale vivente ed evolventesi; e la rivalutazione morale, più che per riflessa volontà, viene fatta nella elaborazione istintiva delle coscienze singole e collettive, al contatto della realtà dinamica della vita.

Non è semplice questione di forma di governo, se monar- chica o repubblicana, se oligarchica con l'apparenza democra- tica o largamente popolare, sia pure in' regime monarchico: tali forme risponderanno allo stato d'animo dei diversi popoli, nelle crisi interne, nelle quali gli eventi, così rapidamente precipitati, han determinato gli elementi concreti e formali dei propri ordi- namenti. La questione è intima, nel crollo di tutte le vecchie concezioni imperialistiche delle cosi dette grandi potenze, e nello. spostamento di attività, ricchezze e 'influenze anche col- lettive e statali, dal19Europa d'America del Nord; e nel riflusso di forze nuove che dall'hnerico +"lei; sul vccchio continente europeo, come a ringiovanirlo - novello Faust, - al tocco delle ingenue energie di popoli forti, che han saputo -tendere alla più larga conquista della libertà e al più notevole sviluppo della democrazia politica e sociale.

I quattordici punti di Wilson, che ricordano tanta parte del- la nota pontificia del primo agosto del 1917, contengono gli ele- menti palingenetici per l'avvenire dei popoli; e ie precipitate ri- forme, nella convulsione della grande sconfitta dei popoli cen- trali, fa spazzare quegli ordinamenti che nelle tradizioni di potenza e di forza, ripetevano la vecchia par6la di predominio-

Fra poco i governi si riuniranno a discutere della pace e del disarmo. Mentre non è possibile e non sarebbe giusto invo- care una pietà di debolezza e, imprevidenti, alimentare speranze di riscosse nei popoli nemici; mentre è equo e doveroso far sentire il peso dei delitti che hanno provocato e compiuto co- loro che la guerra prepararono e vollero; non deve dimenticarsi che i popoli debbono vivere ed evolversi, chè Dio fece sanabi- li le nazioni, e che nel nuovo ordine tutti i popoli debbono avere la giusta parte di restaurazione e di progresso.

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Nell'incertezza dei partiti liberali e democratici in cerca del punto di partenza di un programma valido nel rivolgimento sociale che preme, i socialisti oggi vedono cadere in frantu- mi gl'ideali e i congegni della società borghese, che dalle rivo-

- luzioni del secolo scorso riuscì dominatrice, affermando la conce- zione liberale della società: e oggi credono che il loro avvento, o per lo meno un riordinamento sociale-politico da loro ispirato, sia prossimo come conclusione della guerra mondiale, come logica deduzione degli eventi maturati, come bisogno psicologico del popolo, che vuole la sensazione pratica che il passato sanguigno e fumante sia per sempre scomparso.

Certo la grande internazionale rossa ha ora elementi nuovi, creati dagli avvenimenti di guerra e dalle politiche convulsioni; e niente da meravigliarsi se dalla Germania, oggi in mano ai

.socialisti (certo migliori e più evoluti dei bolscevichi russi e quindi più temibili) non venga il. Carlo Marx del secolo vente- simo, cui i socialisti italiani e francesi (a non parlare dei socia- listi dei regni neutrali) facciano omaggio di adorazione, come al messia e redentore delle classi operaie; e dopo il fallimento della internazionale che non seppe e non potS impedire la guerra, non solo, ma che divise anche politicamente i socialisti delle nazioni combattenti, meno in parte gl'italiani, sotto le proprie bandiere naziònali, non si tenti una coalizione immane fra tutte le forze proletarie socialiste per carpire il potere alla borghesia e far crollare il resto degli ordinamenti attuali, modificando le condizioni politiche ed economiche degli-stati.

Vigile su tante catastrofi e trasformazioni, secondando il bene, eccitando, guidando: illuminando, sta la chiesa di Dio, che può anch'essa essere agitata e combattuta da forze umane, mai doma e vinta, sempre forte e pronta alle lotte, nelle alterne vicende che creano la storia delle grandezze e delle miserie uma- ne. Essa sola ha bandito da venti secoli un verbo universale che è verità e amore; e lo ripete attraverso la vita e le agitazioni dei popoli. Anche oggi, nelle convulsioni delle nazioni vinte, nelle gioie e nelle crisi delle nazioni vincitrici, sentiremo la voce della verità e dell'amore realizzarsi nella nostra coscienza e pro- spettarsi al di fuori negli eventi, anche indipendentemente dallo stesso organismo della chiesa nel campo politico e sociale, se

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sapremo maturarla, questa voce, con o,@ cura assidua, e attra- verso dolori e sacrifici, come a novella missione; questa voce che, varia e adatta ai tempi, si trasforma nelle contingenze pur essendo una e perenne nella sostanza immortale.

Così le due concezioni, la spiritualista e la materialista, . nelle convulioni dell'oggi, polarizzeranno le energie umane di- sorientate e in crisi, preparando le guise esteriori nel nuovo più largo conflitto morale-

Sarà bene quindi raccogliere in sintesi gli elementi vitali e significativi di questo conflitto, i simboli e le ragioni della lotta, alimentare le forze di resistenza e orientarne le finalità nel campo vitale degli stati e dei popoli.

STATO MODERRO E LIBERTA'

Farà meraviglia certo, a spiriti superficiali e ai liberali dello stampo classica, s e ~ t i r e che oggi i11 problema più significativo e l'elemento di contrasto si basa sopra una ragione di libertà. E non è certo di una libertà formale ed esteriore che intendo parlare, ma di una libertà intima e sostanziale, che pervade e informa tutto il corpo sociale.

Col crollo della Germania si è rivelato nella sua profonda crisi l'assurdo pratico della concezione panteistica dello stato, che tutto sottopone aila sua forza, il mondo interno ed esterno, l'uomo e- la sua ragione dlessere,'le forze sociali e i rapporti umani; nella deificazione di una forza e di un potere asso- luto, sostituito alle grandi ragioni di giustizia e alle grandi fina- lità dello spirito.

Tale concezione panteista è penetrata, dove più dove meno, in tutte le nazioni civili a base liberale e democratica e nel pensiero prevalente della filosofia del diritto pubblico; e quelle che hanno maggiormente contrastato le finalità religiose della chiesa, hanno ~ostituito, nella negazione di ogni problema spiri- tuale collettivo, una nuova religione laica, quella dello stato so- vrano assoluto, forza dominatrice e vincolatrice, norma e legge morale, potere incoercibile, sintesi unica di volontà collettiva.

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evidente che doveva trovarsi una ragione ultima di que- sto potere dello stato; e mancando al laicismo politico la viso- ne di Dio, ha trovato nella parola popolo la giustificazione di un potere, che oggi il popolo rivendica, poiché ne sente i vincoli, che in gran parte addebita al dominio della classe borghese; confondendo così quel che natura pone da quel che è attua- zione pratica attraverso la realtà della vita, e quel che è elemen- to di elaborazione e di specificazione nel dinamismo sociale.

Certo, il complesso della vita economica e politica di una nazione moderna è così denso di relazioni e di sviluppi, ha tali enormi compiti nel progredire delle ragioni sociali, che nuovi vincoli crea, mentre nuovi utili servizi presta; onde nuovi organismi e più sviluppati si impongono, leggi più complicate e ordinamenti molteplici si creano, pari al ritmo della vita mol- tiplicantesi come onde che si accavallano e si dissolvono nella tempesta dell'attività collettiva. Però, mentre ogni nuovo svilup- po di vita crea vincoli di relazione, tende per questo alla liberazione di miserie e di deficienze morali o intellettuali, politiche o economiche, secondo la natura specifica di cia- eciin movimento; cosi nel giusto ritmo della vita sociale mantenere l'equilibrio tra lo sviluppo della personalità indivi- duale e quello della ragione collettiva, perché ogni vincolo porti una elevazione, e ogni elevazione conquisti una libertà. Non vorrei essere oscuro: l'elemento famigliare dà il più luminoso esempio al mio dire: l'uomo che si unisce ad una donna nel sacro vincolo della società matrimoniale perde una parte della sua libertà individuale e accetta le leggi e i patti coniugali ai fini specifici: ma insieme passa in una condizione di liberazione dalle ragioni di inferiorità quale era per lui la vita del celibe (nel senso naturale della parola, a parte ogni concezione di abnegazione cristiana), ottenendo l'aiuto della donna ai fini na- turali, nel mutuo amore, nella Niazione, per la continuità della specie. E tale liberazione ed insieme elevazione determina in lui, con i nuovi doveri e diritti, l'acquisto di libertà sociali, cioè la possibilità di conquistare i tini della nuova società con atti di propria volontà e sotto la propria ragione personale.

Della stessa libertà, in ordine spiritualmente più elevato, parlava san Paolo quando, predicando il cristianesimo, mentre

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annunziava la legge di Cristo, che è abnegazione e mortifica- zione di sensi, che è giustizia e rispetto alllaItrui personalità, proclamava la liberazione da una società inferiore, la società del peccato, e annunziava la libertà dei figliuoli di Dio: una li- bertà psicologica rinnovatrice e vivificatrice, nel vincolo di nuo- va società cui si appartiene liberamente, la società cristiana. Così è in tutto lo sviluppo della vita sociale, da quella dome- stica a quella nazionale, da queste a tutte le forme di libere unioni: la ragione sociale è insita all'uomo, come ragione spe- cifica della sua esistenza; e ogni novello vincolo che egli accetta o persegue per la sua elevazione e il suo miglioramento (e per- ciò rispondente alle sue ha l i t à naturali) è nuovo ausilio a su- perare se stesso e le proprie deficienze, e nuovo mezzo per la liberazione da mali che si fuggono per beni che si vogliono rag- giungere: è insomma un elemento di libertà organica.

Ma quando l'organismo, perdendo le sue fhalità liberatrici, si trasmuta in tirannia personale e collettiva, in forza di inerzia, in elemento di contrasti ai più elevati sviluppi, in ragione di predominio, ir mezzo 6i sopraffazione: In una parola quando

a è rotto l'equilibrio tra la ragione sociale, che è vincolo, e la libe- razione subbiettiva, che è il raggiungimento del bene personale inteso e goduto: allora alla libertà diviene antagonistico il vin- colo sociale, che per ciò stesso deve essere ridotto all'equilibrio owero spezzato e infranto.

Ebbene, questo disquilibrio fra il vincolo statale e la li- bertà individuale, nel godimento e raggiungimento dei beni co- muni, oggi c'è ed è grande; ed è acuito da tutte le crisi che son precedute, ed è reso visibile e forte dai fenomeni della guerra, ed ha la sua ragion d'essere nella concezione statale assoluta e panteistica. C'è l'inversione dei termini: mentre il vincolo so- ciale deve servire alla elevazione personale di ciascun associato, nella concezione statale liberale lo stato diviene come fine ulti- mo di ogni attività degli associati, legge a se stesso, principio di ogni altra ragione collettiva.

'$ naturale che ciò avvenga: ~ o i c h é non si riconosce social- mente il vero principio assoluto, che è Dio; e non si cerca il fon- damento morale del vivere umano in una legge eterna, e non ~i

'rispetta la ragione finalistica ultima dell'uomo.

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LA LIBERTA' RELIGIOSA

Il disquilibrio pertanto fra la ragione di vincolo e il prin- cipio di libertà è una conseguenza naturale: ed è naturale che si debba invocare che tale disquilibrio si corregga, prima fra tutte, per le libertà che caratterizzano presso le razze latine la ragione del contrasto, la libertà refigwsa e la libertà d'insegna- mento.

T3 il perno fondamentale del dualismo: di fronte a un organismo assoluto panteista, si mette una ragione psicologica spiritualista: e di fronte ad un assoluto concettuale, che è lo stato, si eleva la forza di un assoluto sostanziale, che è Dio.

Non tutti arrivano a intuire nella sua realtà il contrasto che agita menti e coscienze e che turba la vita umana, da &an- do in nome della libertà si sostituì la ragione liberatrice di ogni deficienza e manchevolezza, con l'organismo statale, mezzo e non fine; molti vedono nelle apparenze la tolleranza religiosa e anche la libertà, come concessione statale a una parte di cit- tadini, che può così soddisfare ai bisogni spirituali della pro- pria anima, secondo la fede che professa. Non è un regime di tolleranza che si invoca, nel non riconoscimento ufficiale di ogni principio religioso; ma un regime di libertà, nel riconoscimento delle alte ragioni morali e sociali della religione, la cui esplica- zione non può dipendere dalla volontà di governi, che non crea- no diritti, ma li riconoscono: né possono limitare quel che è al disopra della ragione specifica della società statale.

Questo principio urta con tutta una tradizione laica, che ha voluto ridurre la religione a semplice fatto individuale-e di co- scienza, a rapporto interno, che nel ripercuotersi al di fuori nel campo sociale, resta soggetto, come qualsiasi altro fenomeno svolgentesi nella società, ai poteri dello stato sovrano.

Oggi, al cader di governi quali il russo e il tedesco, che avevano concepito la religione come un mezzo di governo, di cui si servivano nella ortodossia e nel luteranismo per la sogge- zione politica dei popoli; oggi al cader dell'Austria, che falsa- mente fu ritenuta da alcuni il baluardo della chiesa cattolica (ripetendo quel che di essa fu detto, quando lottava contro il

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mussulmano nelle gloriose guerre dei secoli XVI e XVII) e che in- vece tentava e continuava lo assemimento della chiesa larvato di privilegi e di rispetto (ultimo tentativo, dopo il veto per la nomina del card. Rampolla a sommo pontefice, l'internamento del vescovo di Trento); oggi, dico, viene 'attenuato uno dei pro- blemi più gravi dei rapporti fra stato e chiesa, dopo i periodi

- della riforma e del giurisdizionalismo, dai quali la chiesa veniva : -

I

. concepita come puntello di troni e forza di doniinio, e accerchia- ta da tentacoli in un amplesso, che voleva dire protezione ed era servitù.

Ma la liberazione ancora deve raggiungere la sua mèta: non sono scomparsi i nostri giuristi italiani, che tuttora mantengopo inviolati e inviolabili i diritti politici dello stato sulla chiesa, appoggiandosi a vecchi presupposti gurisdizionali di regimi con- cordatarii, ed assoggettando la proprietà e i benefizi ecclesia- stici, vincolando nomine, regolando confraternite, impedendo la costituzione di ordini religiosi, non consentendo lasciti pii, legi- ferando in materia come assoluto dominatore del soggetto reli- gioso, indipe=dectrme~tr, al. dicopra della chiesa. Non i: cessata la persecuzione legale in Francia, che, denunziando il concor- dato, volle impedire la legale esistenza della chiesa, non volle ufficialmente riconoscere il capo, infieri contro ordini religiosi e gerarchia, indemaniò beni, ridusse le chiese a cinematografi e magazzini, in una foga violenta di distruzione, alla vigilia triste del conflitto mondiale, che della Francia tendeva alla rovina.

Oggi dall'bmerica viene un fiotto di libertà, che, se non è il completo riconoscimento giurigico della posizione della chie- sa nella wcietà, e non è neppure la posizione storica avuta nel medio evo e nei primi secoli dell'evo moderno; è sempre una li- bertà che ammette tutte le conseguenze legittime di un principio morale e religioso, riconosciuto come basilare, come essenziale nell'ordinamento degli stati.

Certo che noi, vecchia Europa, abbiarqo una storia che non s i cancella; istituti civili e religiosi, innestati nel tronco seco- lare e vivo della chiesa, sussistono anche là dove la riforma anglicana e luterana credeva spazzare il papismo, là dove l'or- todoksia assiderava ogni attività cattolica e ne reprimeva ogni manifestazione, là dove il giurisdizionalismo sopravviveva con

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gli istituti dei placet e degli exequatur; e questa storia ci dice che in tutte le forme di esteriore compressione e limitazione della chiesa e nella sovrapposizione del potere politico, soprav- vive una virtù energetica, incoercibile come le acque del fiume che non si può arginare, come la forza della terra che germina nell'aridità e fra le rupi, come la luce del sole che penetra le nubi e vince le tempeste. Ma non per nulla oggi la storia arriva ad una svolta tragica e dinamica; non per nulla i popoli affrontano i vecchi ordinamenti e ne cancellano le orme; anche oggi i giuristi debbono rivedere i loro postulati, e nell'invocato regime di libertà far la sua parte alla chiesa.

Per noi in Italia c'è ancora un problema vivo, che risorge ,ad ogni nuovo atteggiamento della storia con la forza di un fato: il problema del romano pontefice. Gloria e fortuna itali- ca, la sua permanenza a Roma, anche dopo il 1870, ha segnato un periodo nuovo nei fasti della umanità. Quanti pregiudizi son caduti da allora ad oggi! Si credeva, e molti lo temevano, altri l'auspicavano, che, con la caduta del potere temporale, la chiesa cattolica e specialmente il pontificato romano, centro e simbolo di unità dovessero subire la loro fine. Pio IX era per essi l'ultimo papa. Dopo i trionfi mondiali di Leone XIII, arbitro di popoli, mèta di pellegrini, oggetto degli inni del mondo; dopo l'affetto con cui cattolici e non cattolici circondarono Pio X, padre e pastore dei fedeli; dopo l'omaggio reso alla pietà e alla cura di Benedetto XV per lenire i mali della guerra e per auspicare la pace dei popoli, nessuno oggi, dopo quarantotto anni di pon- ~tificato romano, senza l'onore e il peso di uno stato terreno, pensa che possa cadere, e che sia un ingombro alla vita della nazione, tale indefettibile istituzione.

La terribiIe prova della guerra ha mostrato che può conce- pirsi e rispettarsi un'autorità così elevata e grande, anche entro uno stato belligerante, senza temerne scosse e traversie. Clero e cattolici han potuto servire la patria, viverne i dolori e le gioie, dalle trincee agli ospedali, dalle chiese alle città, dal parlamento al ministero, senza venir meno all'ossequio di figli devoti alla chiesa.

Eppure han sentito dolorare l'animo loro, quando han vi- eto che proprio al pontefice romano il governo del proprio

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paese faceva un trattamento di diffidenza, quando nel patto di Londra firmava l'articolo 15, come a parare una offesa e a riser- varsi un diritto da imporre alla coscienza cattolica di tutte le nazioni.

Esiste ancora un problema, non certo politicamente lo stes- ,

so di quello che poteva essere il 21 settembre del 1870; un pro- blema religioso, spoglio delle sovrapposizioni storiche e psicologi- che, reso più spirituale dal tempo e dall'atteggiamento concilian- te e paterno del sommo pontefice, che anche ieri parlava con vivo affetto dell'Italia e dei suoi diritti storici su Trento e Trieste, e che solo dall'Italia aspetta, nell'amore dei suoi figli (come disse il segretario di stato), il riconoscimento pratico del diritto della libertà e indipendenza religiosa della chiesa.

Ebbene, questo problema oggi la guerra lo ha posto in for- ma nuova : cadono vecchi regni, ancora legati diplomaticamente alla santa sede; scompare quell'dustria del veto al conclave del 1903; non esiste più la Francia concordataria, quella che po- geva ancora sfruttare all'occasione il problema della questione romana contro unJItalia che ricordasse Tunisi e il Mediterraneo; è finita quella Germania di Bismark, che l'Italia sollecitò nella triplice alleanza, per una base solida che avesse garantito even- tuali rivendicazioni. Tutta quella Europa insomma che, tra il segreto diplomatico e le mene di gabinetto, nel farsi e disfarsi di alleanze ufficiali e di intese amichevoli, tramava ai danni dei diversi stati e a vantaggio ciascuno dei yxoprio, nella ricerca di LUI equilibrio instabile, e che fece pensare ad uomini di stato italiani, scioccamente, che il papa potesse essere in tale trame-, nio pari ad un qualsiasi pretendente politico; quella Europa, già trasformata in parte negli ultimi anni, oggi è caduta; e si sentono ancora i passi della fuga del kaiser, le vaganti ombre dei re scoronati in cerca di rifugio. Così passa la gloria del mondo!

Il problema della chiesa rimane più ~~iritualizzato nella concezione pubblica, più sentito dai cattolici del mondo, più vi- cino ai criterii di libertà, oggi invocata dai ~opol i ; e noi ita- liani dobbiamo augurarci che nelle sorti future si riconosca in- sieme alle benemerenze del romano ~ontificato, la supernaziona- lità della sua posizione e la necessità di una effettiva indipen- denza riconosciuta dal inondo.

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È nostro compito di italiani e di cattolici, far cessare la falsa tendenza di rappresentare il pontefice come nemico d'Ita- lia: è la vecchia borghesia, che non sa superare i pregiudizi creati nel periodo del risorgimento e che confonde la conce- zione politica di uno stato - allora garanzia giuridica e poli- tica di libertà per il pontefice - con l'essenza del principio reli- gioso della indipendenza pontificia. E più che mai oggi, quando i vecchi presidii umani, così compromessi, son caduti sotto il maglio della storia, spetta ai popoli il compito di rifarsi una coscienza morale, per rivalutare nella sua realtà l'essenza del problema della libertà religiosa.

Ed è proprio il momento, oggi: non è stato detto invano che nella marea che monta, i liberali e i massoni, esponenti poli- tici della borghesia clie tramonta, cercheranno di dare un diver- sivo alle plebi, scatenando la canea anticlericale, come a pa- rare, rossa bandiera da circo, le furie del toro eccitato e fu- rente.

Può essere che il giuoco, come altra volta, riesca; e che la chiesa venga dipinta alle masse come l'alleata del potere as- soluto, come la difesa degli ordinamenti tramontati, come la garanzia delle classi dominatrici; e nella tumultuante follia del- la distruzione del presente, non* sia anch'essa risparmiata.

Oggi, ogni previsione non regge; ma certo si è che, a parte la prova delle crisi gravi e spasmodiche, la rivalutazione dei valori morali e religiosi della società, nella più larga tendenza finalistica, si impone alla coscienza pubblica come un vero pro- blema di libertà.

LA LIBERTA' D'INSEGNAMENTO

E non è il solo; il problema della libertà di insegnamento è pari, e in certo senso più sentito e più forte: attinge alla profonda concezione famigliare e alla tutela delle coscienze gio- vanili. Anche contro di essa si aderge lo stato moderno: lo stato laico latino, lo stato di prima della guerra. Ciò avviene per doppia conseguenza; una logica: dalla concezione paiiteista dello stato, sorge e deriva il concetto dello stato unico educa-

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tore e insegnante, che deve a sua immagine e somiglianza creare i cittadini; l'altro concetto, politico: la difesa che lo stato laico opera contro l'influenza religiosa, che esso si rappresenta come potere nemico, nella gelosia di un predominio morale che non gli spetta.

Tutta la nostra legislazione scolastica sull'insegnamento pubblico e privato è tendenziosa: mira a sopprimere o ridur- re all'impotenza le iniziative private, e a imporre un tipo unico, uniforme, meccanico di insegnamenti e di programmi, e a centralizzare ogni attività locale e individuale. l3 andato per- duto così il contatto effettivo, educativo, morale della scuola col popolo; si è creato un ambiente professionale e di carriera nell'insegnante; si è eliminato l'elemento religioso come estra- neo e ostile; si è spinta la tendenza più che allo studio alla conquista del diploma, come un qualsiasi passaporto per la vita civile ed economica, indipendentemente dalla formazione spiri- tuale e intellettiva della gioventù studiosa.

L'errore fondamentale deriva anche da una presunzione che lo stato gia e possa csscrc ur qwid per se rtziltr, ~hdipendente dagli uomini che ne informano le istituzioni e che costituiscono la maggioranza di fatto nella vitalità di un governo.

Nella Germania in genere, e 'specialmente in Prussia, eaponen- te dello stato era il militarismo, casta di ~redominio, concezione antidemocratica d i forza, contro la quale ha combattuto l'In- tesa, ha mosso in speciale tenzone l'America del Nord; nessuno dei liberali italiani oggi dirà che il militarismo prussiano aveva il diritto assoluto di foggiare le anime tedesche a quella conce- zione della Germania uber alles, che ha scatenato la guerra. Do- mani anche da noi potrà essere predominante nel governo il partito socialista, quello che ieri, anche dopo la vittoria gridava evviva Lenin ed evviva la Russia; e neppure i liberali statolatri, quelli che han compressa e annullata la libertà di iysegnamento, vorranno che le nostre scuole divengano monopolio socialista. È troppo evidente l'argomento, per non poter rimproverare a questi stessi liberali, governanti di ieri e di oggi, dalla legge Casati in poi, di essersi asserviti alla sètta in materia di inse-

e. gnamento, e di avere voluto creare un monopolio intollerabile e assurdo, dalle scuole elementari semistatizzate, alle secondarie

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assoluto dominio governativo, alle universitarie, ove p e r h o l'istituto della libera docenza è ridotto a una larva di libertà, mentre non è dato a nessuno che non abbia la marca governa- tiva di potere insegnare, si chiami Socrate o sia un novello Pla- tone.

Ebbene oggi, al confronto di un assurdo politico creato in Europa, splende l'esempio americano che alla libertà vera di insegnamento dà il fidente rispetto di governi e di partiti; e non si preoccupa, come vanamente sognano i liberali e i de- mocratici della razza latina, della concorrenza o della preva- lenza della chiesa nel campo dell'istruzione, conoscendo quale valore educativo immenso abbia la religione nel plasmare i1 cuore del fanciullo e nel far crescere le nuove generazioni agli ideali della virtù e del bene, e al soffio vivificante dell'amor di patria congiunto all'arnor di Dio.

Mai come oggi, dopo tanti sacrifici di sangue, dopo tanta unione di spiriti, cementata dal vivo soffio religioso, durante quattro anni di guerra; mai come oggi, che segna il crollo delle idee liberali del secolo scorso che informarono la società europea fino a ieri; mai come oggi, che i popoli non sognano ma esi- gono radicali riforme politico-sociali, la libertà di insegnamento appare come matura nei destini della patria nostra, come atto di pacificazione spirituale, come elemento di nuova forza mo- rale per i grandi destini d'Italia. E oggi viene affermata non so10 dai cattolici, come ragione ed elemento di coscienza e di fede, ma da quanti han visto fallire una scuola ufficiale, che nel suo ordinamento e nelle sue finalità è divenuta formula bu- rocratica, mezzo di guadagnare un diploma, oppressa da catene centralistiche, nel dominio della incompetenza, elevata a ragio- ne di stato.

TIRANNIA BUROCRATICA

Già altre formule cadono e altre libertà sono mature per la conquista: una delle cause del fallimento della pubblica istni- zione è stata la centralizzazione burocratica e monopolistica, e ciò indipendentemente dalle ragioni ideali e di coscienza; che

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muovono i cattolici a proclamarla e volerla. Ebbene, questo feno- meno di centralizzazione statale e di burocratizzazione della vita nazionale si ripercuote in tutti i campi. della attività sociale, è divenuto l'assurdo sperimentale opprimente della vita politica moderna.

La guerra ha per necessità di cose accentuata questa ten- denza statale; ma come il paradosso fa rilevare meglio l'errore ammantato di verità, come la caricatura svela meglio il difetto, così nell'eccesso della congestione, oggi, dopo la guerra, si va ride- stando più forte la coscienza di una libertà organica delle forze statali, di una revisione dei centralismi necessari, di un de- centramento amministrativo, a larghissima base, di un rispetto fatto di fiducia e di speranze all'esplicarsi delle forze indivi- duali e della iniziativa privata. Questa, dal campo economico al campo intellettuale, dall'attività tecnica allo sviluppo ammini- strativo del paese, deve poter rendere grandi servigi, se; lanciata nell'agone delle libere forze, trova la molla del progresso nella coscienza, che possa raggiungere il fine senza vincoli esagerati e senza ostacoii iirhitrariamenie imposti.

Chiunque pensa quale sciupio e perdita di energie occorre, nell'attrito quotidiano intinito di ruote stridenti e di pesanti in- granaggi creati dalla mania regolamentatrice della nostra vita pubblica, quale spezzettamento di competenze e di uffici per la pratica più semplice e più insignificante; come si renda ogni giorno più stanca la macchina statale, mentre il mondo è in corsa, nel tumulto delle energie frementi, nel ritmo di una vita che trascorre moltiplicata da sempre nuovi crescenti punti di relazione, che a loro volta moltiplicano i rim- ],alzi del pensiero e degli affari, per quanti sono individui che cercano o tentano le sorti del proprio miglioramento, dalle offi- cine ai campi, dai commerci alle industrie, dalle scuole ai comi- zi, alle assemblee, alle borse, alle società, ad ogni manifestazione di attività umana; chiunque considera la realtà e la confronta con il regno degli schemi e delle circolari, nell'addensarsi di carta scritta, vede che il distacco è simile a un regno di sogno e di ombre e di morte che intende regolare la vita che pulsa e che freme.

Gli esempi della mobilitazione agraria e della mobilitazione

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civile durante la guerra sono là a provare la impossibilità pra- tica di regolare la vita nazionale attraverso formule centralizza- trici e livellatrici; la realtà si ribella con la propria forza incoer- cibile, e reclama i suoi diritti a chiunque la voglia costringere al martirio del letto di Procuste.

Decentriamq, si grida da molti, liberiamo la vita da vincoli assurdi, rendiamo la libertà ai commerci e alle amministrazioni, semplifichiamo la burocrazia, elemento di coordinazione non ti- ranno predominio sopra qualsiasi attività statale nella inerzia di ordinamenti fossilizzati e nell'ipertrofia dei centri ordinatori.

Ma contro questo grido di liberazione, che parte dai chia- roveggenti, vi sono due tendenze del pari dannose, la statolatra e la socialista e che forse prevarranno, se la parte sana del paese non sa vincere la battaglia.

I socialisti tendono ad una organizzazione di socialismo di stato, e tutti gli sforzi fatti durante la guerra per monopolizzare a vantaggio delle proprie organizzazioni i vari prowedimenti statali riguardo i consumi e la mano d'opera della mobilitazione industriale; e tutti gli sforzi che si van facendo per fissare i l monopolio statale-socialista per i problemi della smobilitazione operaia e della emigrazione, sono indici visibili di una tendenza a rafforzare l'accentramento burocratico di stato a vantaggio di una organizzazione di parte. Già tutta la costruzione del consi- glio e dell'ufficio del lavoro, tutto il piano delle assicurazioni operaie e agricole contro gli infortuni, le malattie e la disoccu- pazione, risentono insieme del formalismo burocratico centralizza- to e dell'asservimento statale al partito socialista, come forza unica degli elementi operai, che attraverso la monopolizzazione

politica di stato tendono a creare il proprio predominio nella vita pubblica sociale.

Come la massoneria e il liberalismo anticlericale hanno la roccaforte nel ministero della pubblica istruzione, così i socia- listi hanno conquistato largamente le posizioni dei ministeri dei lavori pubblici e dell'agricoltura, industria e lavoro, sfruttan- done le crescenti e invadenti funzioni.

I1 centralismo di stato si traduce in forme di tirannia di partiti e di organismi extra-statali, operanti all'ombra propi-

zia della burocrazia, che pervade le fibre del corpo sociale come

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un bacillo, che attenua le forze e toglie le energie libere e ope- ranti.

Pur ieri l'on. Cabrini, in una lettera diretta all'on. Orlando, denunziava la frenesia che ha invaso la burocrazia dei ministeri, per accaparrarsi e indemaniarsi quelle funzioni transitorie e coercitive assunte dailo stato durante la guerra. Ciascuna dire- zione o divisione tende ad accrescere funzioni e attività, dive- nendo onnisciente e onniprevidente; arrogandosi la infallibilità pratica e la autorità assoluta di regolare le sorti dei miseri mor- tali, che non debbono avere più né cervello per giudicare, né volontà per agire nel nuovo mostruoso falansterw, a cui si m01 ridurre l'attività e la vita statale.

DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO

'1È evidente che il passaggio dallo stato di guerra a quello di pace porta gravi cc~apiti S o stztc?, e ==a cece9saria gradua- zione nel ritorno a regimi di libertà più. evoluta e più rispon- dente ai bisogni collettivi; ma occorre avere un programma da attuare gradualmente, un programma pratico e di larghe vedu- te. Il decentramento amministrativo in cima: insieme alla orga- nicità e autonomia degli enti locali e al riconoscimento giuridico delle classi organizzate.

'& un programma vecchio e nuovo; vecchio, perché ritorna alle origini dello stato moderno atomico e liberale, che ha do- vuto dichiarare il fallimento, ricorrendo per legge di compensi agli estremi del centralismo e della buroeratizzazione; ma è nuo- vo perché, rivalutato al lume dei fenomeni dell'oggi, si presenta come un progresso in avanti nella società vasta e molteplice, che la stessa guerra ha rifatta, lanciandola verso nuovi orizzonti.

Certo la palingenesi operata in questi quattro anni è im- mensa: come nel campo delle industrie ha mostrato a noi ita- liani la soggezione all'estero e la necessità di affrancarci; come ha mostrato la necessità di produrre ancora di più grano e di intensificare la agricoltura tesoreggiando le nostre energie; come la guerra ha provato la necessità di tenere salda la famiglia (i

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divorzisti e i neomaltusiani oggi sono degli sconfitti); come la guerra ha provato all'Italia il dovere E: l'interesse di farsi una marina mercantile pari alle nostre gloriose tradizioni marinare, se vogliamo sul serio possedere i mari e rifarci una nuova eco- nomia produttrice; così ci ha ripresentato i problemi del decen- tramento amministrativo, delle libertà comunali e della orga- nizzazione di classe, non come terreno sterile di lotte nomina- listiche e di sovrapposizioni politiche, non come mezzo a governi e a partiti di predominio volgare, non come formula asfissiante per la vacuità delle lotte elettorali; ma come mezzi di vitalità nuova, come ambiente adatto allo sviluppo di sane energie, come novella ragione di attività sociale, per tutte quelle riforme eco- nomiche e produttrici, che debbono risolvere la crisi fortissima del dopoguerra.

Durante la guerra, quante prove si sono avute della necessità di tali riforme! Come ad ogni passo si riproduce il problema, visto e sentito da quanti seguono l'alternarsi di provvedimenti e l'esplicarsi di nuove esigenze! Si sono dovute abolire formule 43 alleggerire regolanienti, nel campo della vita comunale, e si sono chiamate le organizzazioni operaie a nuove rappresentanze e a partecipare a organismi di interesse statale nel campo del lavoro. Ma spesso, per ogni nuova esigenza di stato si è ricorso a nuovi organi decentrati, sicché la moltiplicazione di enti e di comitati ha reso così confusa e intralciata la vitalità locale, che occorrerebbe la guida del perfetto cittadino, per potersi orien- tare nella selva selvaggia degli ordinamenti locali. Ebbene tutto ciò è riprova che bisogna ricostituire l'organismo fondamentale, l'ossatura della nazione.

ORGANIZZAZIONE DI CLASSE ED AUTONOMIA COMUNALE

La natura ci insegna insieme la semplicità e la comples- sità degli organismi; essa abborre da qualsiasi forza inutiliz- zata o da qualsiasi sperpero di energie; tutto è coordinato a finalità organiche. Così deve essere la società. Come il primo nucleo fondamentale, dato dalla natura, è la famiglia, che deve

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rimanere integra e forza basilare della società, e che deve pre- dominare nella nuova organizzazione sociale, così la classe orga- nizzata sulla base del lavoro umano - retaggio e forza e vita, che eleva e nobilita, che rifà le intime energie spirituali e mo- rali dell'individuo, - deve avere il suo pieno riconoscimento nella libertà dell'associazione e nella unità sindacale delle forze operaie, senza monopolio di partiti.

Sembra in questo quarto d'ora dopo la guerra, nelle convul- sioni delle masse, che solo la tendenza socialista rappresenti e re- goli le ragioni del lavoro degli operai organizzati, e si assida asso- luta signora delle sorti dei popoli. Può essere che tale forza ab- bia la prevalenza politica oggi o domani, nell'avvicendarsi dei partiti nel terreno elettorale con mezzi legittimi, o anche ille- gittimi; ma non deve prevalere il pregiudizio, né permanere l'equivoco che l'organismo di classe rappresenti il passato delle corporazioni fossilizzate, soppresse per rivendicare la libertà di lavoro; mentre oggi si tollerano o si blandiscono le camere del lavoro secondo il fluttuare di eventi; contrastando quel ricono- arimento giuridico che affranchi le stesse masse dall'amervimento ad una parte politica preponderante.

Più che di fenomeno politico, si tratta di ragione organico- sociale, che noi rivendichiamo oggi, che proprio alle masse e sotto la ragione di lavoro si fa appello alla riforma sociale, nella futura società delle nazioni. Il riconoscimento giuridico della organizzazione di classe darà un assetto organico al movimento del lavoro, orienterà alle forme e ragioni tecnico-economiche le associazioni operaie, toglierà una condizione di disparità e di lotta fra le diverse tendenze proletarie; e darà modo al raz'ionale decentramento dello stato nella politica del lavoro.

Dalle classi salendo agli enti locali si ripresenta in tutta la sua interezza il comune, non certo il comune politico del me- dio evo, ma il comune amministrativo moderno, centro di atti- vità e di vita locale per se stante, autonoma e coordinata insie- me, espressione delle classi organizzate e delle famiglie raccolte attorno al campanile e alla torre civica.

In mezzo a tutte le deficienze, parte inevitabili, parte do- vute ad assiderante centralizzazione e parte per difetto di uo- mini e di organismi locali, durante la guerra i comuni han po-

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tuto e saputo rispondere ai loro molteplici compiti, nel quoti- diano contatto con il pubblico, nell'assillante problema del gior- no per giorno. Quante formalità si sono superate, abbattendole senza che le vigili oche del potere politico e del controllo ammi- nistrativo potessero opporsi, anch'esse assorbite dalla imponenza dei fenomeni della rapida e doverosa provvidenza civica.

La guerra certo ha dato la sensazione che occorre migliore organizzazione di servizi, una unione di forze locali più vasta da far capo a comuni capoluoghi o a provincie per un più utile scambio di energie e attività; ma ha fatto comprendere ancora di più che la vita degli enti locali deve essere alimentata da una reale libertà amministrativa, da una più rapida e vivace organizzazione, da un senso più profondo e reale di responsa- bilità; deve essere elevata al disopra di ripercussioni politiche, che creano l'asservimento della vita locale, e fanno il comune campo chiuso di lotte sterili, il mezzo di predominio governa- tivo, sfruttando tutte le passioni della misera vita

di quei che un muro ed una fossa serra.

Il contenuto della riforma amministrativa e quindi finan- ziaria degli enti locali non è semplicemente negativo, è alta- mente positivo e ricostruttivo; e mentre una commissione reale ne affronta lo studio, è da fare augurio che cessi la preoccupa- zione che il governo possa essere spogliato dei poteri quasi asso- luti, e quindi della influenza decisiva che oggi esercita nella vita locale: e mentre inneggiamo alla unione di Trento, Trieste e Fiume alla nostra Italia, ricordiamo che gli ordinamenti di quei comuni in forma autonoma alimentarono e custodirono, sotto il ferreo giogo austriaco, la italianità dei nostri fratelli all'ombra del palazzo di città, come sacra unione morale con le vecchie città italiane, e nel comune quei nostri fratelli mantennero glo- riose le loro sorti attraverso i secoli.

RIFORME COSTITUZIONALI

Questo programma di libertà potrà essere attuato dalla bor- ghesia liberale dominante? è da essa sentito come naturale por- tato della evoluzione, formatasi nell'intimo delle nostre coscien- ze e nell'esplicarsi dei bisogni collettivi? e saranno adatti gli

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organi elettivi attuali a tradurlo in atto, o almeno a iniziarlo nel complesso dei ~rowedimenti che oggi impone il passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace?

Certamente, i problemi urgenti e immediati assorbono buona parte della attività di governanti e di organismi centrali e loca- li, e può a molti sembrare inopportuna logomachia quella di volere imporre problemi ideali nell'assillante e tumultuante do- poguerra. Forse continuerà nella nostra vita nazionale il sistema del caso per caso, senza indirizzi ideali, senza mète sicure e lon- tane; e sarà un errore che si sconterà presto, e gravemente.

Tutti riconosciamo che i problemi gravissimi del momento assorbono il complesso di energie direttive ed esecutive; ma nessuno può mettere iii dubbio che anche nella scelta dei mezzi e nello studio dei provvedimenti immediati dovrà esservi una direttiva lungimirante e ideale, che coordini e crei il movimento di larga e vasta riforma.

Lo stesso problema della emigrazione nel dopoguerra, della smobilitazione operaia, dell'aumento delle forze produttive agra- rie e industriali del paeue, il proLlerua delle torre incolte, !ci ri- forma tributaria, la orientazione delle attività commerciali, non possono essere guardati se non attraverso pochi e saldi elementi programmatici, che guidino con sicurezza la nazione ai suoi de- stini. E non può affatto trascurarsi il complesso dei punti pro- spettati or ora al lume di una sostanziale rivendicazione di li- bertà, che noi vogliamo non nella licenza bolscevica, ma nello sviluppo della vita organica. t '

Tale sviluppo non sarà possibile, se la stessa rappresentanza politica non tenta coraggiosamente la propria riforma. Abbiamo bisogno, tutti i partiti e tutte le correnti del paese, di avere la sensazione di una salda riorganizzazione delle forze sociali, così logorate e svalutate nel periodo della grande guerra. Non voglia fanciullesca di distruggere il giocattolo che ci ha divertito, per conoscere quel che c'è dentro e poi buttarlo fra i rottami di casa; ma è necessità di rinsaldare le forze organiche del pae- se. Da tempo i pochi e i più illuminati han sostenuto la rappre- sentanza proporzionale, come espressione reale ed efficiente della volontà popolare; altri si sono accontentati del collegio plurino- minale a larga base, con la rappresentanza della minoranza. Lo

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spirito che pervade queste invocate riforme, che i cattolici da un lato e i socialisti dall'altro da gran tempo sostengono con- tro l'atomismo del collegio uninominale, espressione di maggio- ranze locali, spesso fittizie, irose e pettegole, nelle quali s'in- canaglisce la piccola vita paesana; lo spirito, dico, che pervade queste riforme, risponde al bisogno di avvicinare alla realtà vis- suta la rappresentanza del paese. Per questo s'invoca anche la riforma del senato parzialmente elettivo di secondo grado, a numero limitato, con la facoltà di nomina del proprio presi- dente: perché valga a essere organo vitale e controbilanciante della politica della camera dei deputati, nel dinamismo delle forze rappresentative e vitali del paese.

Sono riforme che si invocano oggi, come quando nel 1848 si domandavano le libertà costituzionali, pur nello stesso periodo in cui si affrontavano, sotto la pressione della idea liberale predominante e sotto la direttiva di quel programma, le grandi riforme economiche e politiche, attuate per convinzione di sta- tisti e per volontà di popoli.

Non è la borghesia dominante nel gioco dei partiti par- lamentari che desideri e invochi piccoli ritocchi all'elettorato o che da buon cavaliere prometta il voto alle donne nei piccoli e vivaci ambienti femministi, che oggi si muove; oggi è la co- scienza popolare che fermenta in cerca di orientazione. Dopo quattro anni nei quali il parlamento ha mostrato di essere im- pari al suo compito, ed ha creato i poteri assoluti non solo per le ragioni di guerra, ma in vista di arrivare a ottenere rapida- mente la più piccola riforma e la più opportuna leggina; dopo quattro anni di insinceri raggruppamenti di partiti borghesi, che han cercato invano di avere fuori del parlamento una ripercus- sione qualsiasi nella coscienza del popolo per le loro logomachie e per i loro caratteristici atteggiamenti; mentre l'anima collettiva tendeva ansiosa e convergeva gigante verso i nostri confini con- trastati dal nemico, e si moltiplicava nelle opere di resistenza, an- che per impedire che insana propaganda o facile stanchezza ren- dessero noi pari alla Russia nella dissoluzione nazionale; oggi il parlamento deve cercare di rifarsi l'organismo e la forza vi- tale, al contatto, novello Anteo, con la madre terra, con il po- polo, e ritornare a guidare le sorti della nazione. Guai se la

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piazza da un lato, se i fascisti dall'altro, nel rinfocolare di pas- sioni, superano la ragione e la vita organico-parlamentare: l'in- versione dei poteri vorrebbe dire la rivoluzione, con le conse- guenze di una dissoluzione di forze nell'anarchismo di tragiche ore.

Ma i rivolgimenti organico-politici prescindono dalle condi- zioni e dagli stati d'animo di una folla agitata da capipopulo, avvengono solo quando sono maturi, con la forza di un fato; og;gi si sente il brivido dei rivolgimenti: ad essi occorre impri- mere le direttive di un pensiero forte e maturo, e questo è c6m- pito dei dirigenti, dei responsabili, degli organizzatori.

AZIONE E PENSIERO

Però a questi rivolgimenti ideali molto contribuiscono pen- satori e studiosi, coloro che anche senza saperlo o senza volerle intenzionalmente, creano o rilevano dai fatti le grandi correnti di pensiero, che fermentano l'azione.

Quando si riannoda il potere e lo sviluppo enorme tedesco alla filosofia kantiana, quando la politica militarista prussiana è simboleggiata dal Treischke, non si fa della sintesi fantastica per comodo delle unificazioni ideali, delle quali abbiamo biso- gno per appoggiare le nostre categorie mentali: si fa insieme della sintesi reale e vivente. I1 popolo è intuitivamente logico, e la legge ferrea dei fatti è insieme legge ferrea delle idee. La ripercussione dell'azione sul pensiero collettivo è identica nel- l'ordine delle cause, benché specificamente diversa nell'or- dine degli effetti, a quella unità spirituale che c'è in noi tra il nostro pensiero e la nostra azione individuale. La somma collettiva delle ripercussioni tra pensiero e azione dà un risul- tato specifico, dinamico, pari alla forza logica e alla convergenza reale dei bisogni sentiti.

Per questo i valori ideali sono immense leve alla vita dei popoli: per questo il programma di Wilson ha potuto avere un'ora di ripercussione nella coscienza delle nazioni, anche pres-

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so i popoli nemici e in guerra, ed è divenuto l'esponente di uno stato di animo collettivo.

La teoria del materialismo storico cade insieme alla costru- zione panteistica dello stato; tutte e due concezioni tedesche che hanno impregnato istituti, tendenze e partiti del loro malvagio influsso: e si ripercuotono oggi i principi di libertà e di giustizia nel fondo delle coscienze, nel valore del pensiero, come realtà vive e balzanti ne1 concreto degli eventi, come mèta di attività e di sacrifici, come riflusso di energie e di valori.

Non sono spente e non cadono invano le forze del pensiero; ad esse facciamo appello in questi difficili momenti, come lo abbiamo fatto durante la guerra, nella quale ci hanno assistiti la fiducia del trionfo del diritto, la ragione di giustizia e di civiltà, la valutazione delle aspirazioni dei popoli e della liber- tà delle nazionalità oppresse, anche quando gli eventi guerre- schi erano a noi favorevoli, e tutti i materialiati della vita, con a capo i socialisti, ci assillavano col pessimismo della loro piccola anima.

Oggi questi valori morali dobbiamo realizzarli in noi, cia- scuna nazione secondo le condizioni particolari interne, secondo la propria potenzialità e forza, secondo la propria missione.

Non può l'Italia dimenticare oggi la grande missione che essa ha nel mondo e che deve realizzare in se stessa, per averne le forze vive propagatrici; sede del diritto, fonte della storia vivente. per oltre due millenni, centro del pensiero vivo del mon- do, questa umile Italia, con forze finanziarie e con influenze politiche limitate, è entrata non invano nell'agone delle grandi nazioni, non invano è a fianco di quelle potenze che decidono delle sorti del mondo.

Ma se forze e ricchezze sono in copia nelle mani dell11n- ghilterra e degli Stati Uniti, e se la Francia esce salva e grande dalla prova del ferro e del fuoco, l'Italia rivalorizza le proprie energie spirituali al lume della realtà vissuta dai popoli nelle an- gosce e nei sacrifici della guerra, neri-come museo di beliezze naturali e artistiche, ma come stona vivente e centro fatale del pensiero del mondo.

Qui convergeranno popoli e regni in cerca di fede e di ve- rità, a Roma, nome fatidico millenario, dove un pensiero non

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fossilizzato ma vivente, al disopra delle umane lotte penetra nelle coscienze anche quando non ne sentono il tocco mistico e diretto; qui, affrancate dalle servitù politiche di molti secoli, le nuove nazioni rifaranno la loro cultura al tocco delle bellezze della fede, della natura e dell'arte, insieme sposate; qui le onde del Mediterraneo, mare storico per eccellenza, grande tramite di civiltà e di ricchezza, incontreranno i loro flussi rinnovellanti.

E la nostra gente che di tali tesori ideali è come custode e altrice non può non rifarsi la vita di pensiero alimentata da tante bellezze, nell'innato senso dell'equilibrio italico, nella vir- tù di una tradizione gloriosa, nella libertà di istituzioni adegua- te, nello sviluppo di mezzi sufficienti, perché' sia ripresa la via del progresso nelle pacifiche sorti dei popoli.

A questa nostra futura Italia dedichiamo anche noi le no- stre piccole e modeste forze, quando tanti e tanti nostri fratelli le han dato il sangue e la vita nelle tragiche ore di una enorme guerra; quando il risveglio dei nuovi ideali e delle nuove ten- denze ci deve rendere convinti di un dovere che non cessa sol perché la lotta cnionta a cessata, ma che ci chiama alle lotte del pensiero, alle lotte civili e politiche, con la stessa voce sua- dente della madre che fa appello alle virtù dei figli.

E noi con lo stesso amore rispondiamo all'appello, se l'Ita- lia, il cui nome oggi desta ancora i fremiti della vittoria, se l'Italia in cima dei nostri affetti ci trova preparati a contri-

buire in ogni campo ai suoi grandi rinnovellati destini.

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IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ

E LA CRISI ITALIANA (Parigi, 1925)

Don Sturzo lasciò ~ o m a per Londra il 25 ottobre 1924, con la speranza nel cuore di un non lontano ritorno; perciò nei primi mesi d i assenza ntantenne un rigoroso riserbo. Se non che, dopo l'esito della denunzia di Giuseppe Donati con- tro il generale De Bono, fatta al senato che decise riunito in alta corte, e dopo le dichiarazioni d i Mussolini nel gennaio 1925, comprese di trovarsi già i n esilio. Accettò, pertanto, l'in- vito del Comité national d'études sociale8 et politiques d i Pa- rigi; e nellu séance du lundi 30 mars 1925, tenuta nella gran sala della corte di cassazione sotto la presidenza d i M. Lmnau- de, lesse iuur conferenza dal titolo: L'état actuel de l'esprit public en Italie et le problème de la liberté politique. Quindi presero la parola, dopo un breve discorso del presidente, i signori Hazard, Bonglé, Benjamin C r e m i e u e allri del pub- blico politico parigino che affollava la sala, ai quali infine ri- spose l'oratore.

La conferenza fu pubblicata fra gli atti &l Comité natio- nal d'études, poi da La Démocratie Chrétienne d i Marc San- gnier; e in italiano da Piero Gobetti, col titolo: La libertà i n Italia (Torino, 192.5).

1. - Una premessa: parlando all'estero della politica del mio paese, e per giunta in momenti, nei quali la lotta dei par- titi si agita con grande asprezza e su antagonismi decisivi, non iutendo portare in altri ambienti querimonie e dissidi interni, né invocare appoggi e aiuti. Io sono animato da ben altri sen- timenti, e parto da una visione complessiva e sintetica della po- litica degli stati.

La politica interna dei paesi civili, secondo la maggiore o minore importanza di essi, ha inevitabili ripercussioni nella po- litica generale dei popoli, e influisce sulle caratteristiche e sulle

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correnti della politica internazionale. Questo fenomeno non è nuovo; fu riconosciuto e discusso quando, per arginare le cor- renti liberali, gli stati europei, riuniti nella santa 'alleanza, vol- lero dare p e r h o ai più piccoli stati e ducati un indirizzo unico nel regime assolutista e di polizia; temendo, come awenne, che le riscosse dei popoli potessero propagarsi da un capo all'altro come le onde sonore. E la stessa preoccupazione fece per qual- che tempo, dopo la grande guerra, prendere sul serio la possi- bilità del cosidetto cordone sanitario attorno alla Russia, per evitare il propagarsi verso occidente dei tentativi e della pro- paganda bolscevizzante.

Dato il muto aspetto della vita dei popoli da un secolo ad oggi, la rapidità sempre crescente delle comunicazioni, lo svi- luppo sempre più intenso degli scambi, le forme di libertà e le esigenze del mondo moderno, è più che evidente che le in- terferenze politiche internazionali sono enormemente aumentate di intensità e di qualità.

Oggi l'Italia è guardata dall'estero come il terreno di una esperienza, che può avere i oiioi sviluppi dentro e fuori d d no- stro paese. I1 fenomeno del fascismo non è ristretto a un sem- plice mutamento di governo in forma goliardica e per il con- trasto fra la senilità demo-giolittiana e la giovinezza degli arditi di guerra e degl'imberbi del dopoguerra; esso pervade istituti e leggi, informa criteri di moralità pubblica e indirizzi di po- litica; ha pertanto, in se stesso, una ragione di esprimersi e di farsi valutare anche all'estero. Gli stessi fascisti han pensato per- h o a una intesa internazionale fra le correnti affini.

Senza cadere nel grottesco, si può parlare del fascismo, non come elemento che passi la frontiera nella sua caratteristica spe- ciale; ma come corrente la quale, nel suo linguaggio, manifesta il fondo unico con altre correnti simili e analoghe, che fanno par- te di un più vasto fenomeno che il dopoguerra ha prodotto e valorizzato.

Partendo da questa premessa, nei limiti di uno studio ob- biettivo, io parlerò sul ~roblema della libertà e la crisi italiana.

2. - Due immani ~roblemi lasciava la guerra ai popoli del mondo civile che vi avevano partecipato con tutte le forze: quel- lo della pace fra le nazioni e l'altro della ricostruzione econo-

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mica. Ma si vide tosto apparire un intruso, con una prepotenza insospettata: il problema della vita interna degli stati sotto un maggiore sviluppo di democrazia, di autonomismo e di libertà.

I popoli vinti assumono la repubblica come regime e la più larga applicazione del suffragio universale esteso alle donne e rappresentato proporzionalmente; la Russia, non vincitrice né vinta, dopo proclamati i sovieti, tenta le vie del comunismo e cerca propagandarle all'estero facendo aspri esperimenti in Un- gheria, in Baviera e nella Polonia, e cercando simpatie nelle nazioni della intesa. L'Inghilterra abolisce il voto plurimo, esten- de il voto alle donne, dà una soluzione possibilista d 'Ir landa che si agita, facendone uno stato libero, e arriva per un certo tempo ad un governo laburista; l'Italia fronteggia la propagan- da bolscevica, applicando al già concesso suffragio universale la rappresentanza proporzionale e attuando leggi sociali ed agra- rie; la Francia resiste più saldamente, perché ha già una de- mocrazia che ha superato altre lotte contro la reazione, e per- ché per un certo tempo funziona ancora l'union sacrée sul ter- reno dell'integra applicazione dei trattati; ma non può infine non inchinarsi alle correnti generali, accettando in maggioranza il cartello della sinistra. Fenomeni analoghi e sviluppi democra- tici si notano anche nei piccoli stati, da2 Belgio agli Stati Baltici.

Un secolo prima, dopo la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, la pace volgeva verso la cosiddetta restaurazione; un secolo dopo, la pace, che ancora deve seguire la grande guer- ra, si volge verso la democrazia, come a cercare un nuovo pia- no di sicurezza e di realtà.

Mentre non può dirsi che la pace sia completamente rista- bilita e assicurata, né che la economia sia ricostruita, la vita interna degli stati soffre delle grandi oscillazioni che vengono dal formarsi e deformarsi di correnti politiche e di problemi di regime, che sciupano uomini e partiti, come per tentare e tro- vare nuove forme necessarie ad assicurare la pace e far prospe- rare le economie.

Tra le nazioni belligeranti quelle che non soffrono oggi di queste agitazioni interne sono gli Stati Uniti d'America; ma essi non soffrono di nessuno dei grandi problemi imposti dalla guer- sa, né pelle della pace, né quello della economia. L'America

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del Nord non ha nel suo interno problemi di sicurezza o di con- fini, conflitti di popoli, movimenti autonomistici, regioni di- strutte, né altre interferenze che turbano la comune vita e I'am- ministrazione di un grande stato; essa ha problemi economici da risolvere, non per mancanza, ma per eccesso di oro e di materia- le benessere. Il ritmo della sua attività è stato normalizzato ap- pena finita la guerra, e il suo sviluppo eccessivo creerà, è vero, nuovi problemi speciali, all'inteino e all'estero; ma per altre ragioni, non come conseguenza del grande logorio di uomini, di beni e di istituti, quale è stato nel vecchio mondo: per ciò l'America del Nord oggi non ha problemi di regime, né con- vulsioni di politica interna come da noi.

Sembra che il dissesto creato da guerre generali, lo sposta- mento di ricchezze in poche mani, lo sperpero dei risparmi, lo squilibrio morale, si ripercuotono tanto più facilmente nell'or- dinamento inteilio degli stati, quanto minore è la resistenza in- tima del governo, e quanto più debole è la classe dirigente che detiene il potere.

Le diEcoltà dell'assestamanto internazionale fra i popoli, che è detto pace, e quelle per rifare la somma dei beni perduti, per i l nuovo sviluppo economico delle nazioni, non possono essere superate, senza che si superi contemporaneamente il turhamen- to interno che la guerra ha creato.

A volere trovare una ragione di ciò, si deve credere che, avendo la guerra abbattuto, dove più dove meno, gli organismi sociali e logoratone gli uomini dirigenti, si ricomincia nella coscienza collettiva a cercare l'ubi comistam, la forza intima propultrice sociale, in nuove forme organiche e in nuove forze vitali.

E poiché, proprio quello che cadeva nella guerra contro gli imperi centrali, era il residuo di assolutismo, tenuto su coll'im- palcatura imperiale, e quel che trionfava, più o meno wilsonia- namente, era la democrazia anglo-sassone e latina, era naturale che il nuovo primo orientamento fosse quello che, comunque, aveva reso possibile la vittoria dalla nostra parte.

Si è presentata così, sotto nuovo aspetto, la fase della revi- sione periodica della legittimità del potere statale, della più o meno larga partecipazione popolare ad esso, della consistenza

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morale e giuridica delle nazioni, dell'autonomia di razze e po-

poli diversi conviventi in un unico territorio, tutto quel grovi- glio politico che trova tappe di equilibrio, ma non mai un com- pleto e perfetto assestamento.

3. - Ma un problema riproposto non vuol dire un proble- ma risolto. Vi è tal nesso fra i tre problemi, quello della pace internazionale, quello della economia e quello delle singole po- litiche interne, che credo non sia possibile che vengano scissi.

Ogni nazione ha i suoi fenomeni, secondo le cause prossi- me e remote dei quali sono effetti, e quindi in ogni nazione ci sarà diversità di caratteristiche, di fasi e di sviluppi; ma nes- suna nazione può riproporre il problema del proprio ordina- mento, come se fosse avulso dal complesso della vita internazio- nale e dai rapporti con la pace e della economia generale, qua- lora voglia conseguire maggiori vantaggi nell'azione dei popoli, i quali, dopo aver combattuto sui campi di battaglia, combat- tono sul terreno della diplomazia e dell'accaparramento delle fonti di ricchezza.

La tendenza positiva delle masse, assetate di pace, verso un movimento di maggiore partecipazione alla vita pubblica, che le affrancasse dal dominio del passato responsabile della .

guerra; l'avvento dei governi popolari dopo quelli oligarchici; il soverchiamento di partiti e di classi dirigenti, dove la resi- stenza è stata vana, mentre segnava l'orientamento democratico et ultra nello sconvolgimento della guerra, destava, per neces- sità di contrasto, le altre forze reagenti; e riapriva, per ciò stes- so, una discussione teorica e pratica sopra una più ampia distesa di interessi e di indirizzi.

Per giunta, ogni movimento di masse, in un primo tempo, tende ad abbattere più che a costruire, sperpera il residuo di beni che crede maltenuto dai profittatori di ogni guerra, scuote i cardini secolari, sui quali si credono ben piantate le società. Se poi si aggiunge il grido di rivolta, se si alimenta l'odio di classe, se si combatte ogni autorità, in quanto rappresenta anche un eccesso di dominio; ecco che a resistere e a riprendere il do- minio risorgono le forze dette conservatrici, che allo spirito de- mocratico e al principio di libertà attribuiscono le cause del -malcontento, delle turbolenze e dei sommovimenti.

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La pace non può essere che frutto dello stato forte, il quale per essere tale deve ritornare alle sue origini di stato autocra- tico; la economia per rifarsi deve comprimere le aspirazioni del lavoro e ridurle a servizio della produzione capitalistica. Certo, va pure messo in discussione l'ordinamento interno e il regime dei popoli; ma non verso una democrazia parlamentari- stica, o verso una conquista proletaria: sì bene verso una con- cezione nazionalista, conservatrice, oligarchica. Questo il pen- siero, più che conservatore, di reazione.

Così i due movimenti interni, antagonistici, irriducibili, ri- pigliano il loro giuoco, non più come prima della guerra, sopra un piano di politica interna, chiusa fra gli assiti dei partiti bor- ghesi e provinciali, o incarnati nelle correnti puramente ideali- ste, ma sopra un piano di sviluppo internazionale, al quale si estendono oggi i più intensi rapporti della vita dei popoli.

I termini di lotta possono essere proposti retoricamente ed enfaticamente, fuori però del terreno della realtà. Da un lato, i pacifisti alla Wilson: democrazia pura, pace perpetua, disarmo assolnto, internazionrle proletzria, abbracciamento di genti, di razze, di nazioni; Saturno ritorna, nella visione irenica dei po- poli aflrancati. Dall'altro lato: lo stato nazionale, unico Dio, armato e forte, protetto da ferrei trattati, da valide alleanze, da tariffe proibitive, governato da classi privilegiate, appoggiato al capitalismo pronto a preparare nuovi tormenti bellici per terra, per mare e per aria, perché non vede al di là delle frontiere che nemici e avversari, e al di qua la sua nuova stragrande potenza.

La realtà supera questi termini e ne impone altri meno esa- gerati e più prementi: la pace è frutto di stati psicologici dei popoli e di accordi internazionali, e l'economia è prodotto di sforzi e di equilibrio che supera le barriere interne; l'una e l'altra poggiano sulla sicurezza degli stati e sullo sviluppo delle loro forze. Quali, nel clima storico attuale, le condizioni comu- ni dei popoli, perché questi elementi di pace e di ecopomia si realizzino? la democrazia, la libertà, l'internazionalismo? owe- ro l'oligarchia, il paternalismo, il nazionalismo?

Cento anni di storia non valgono l'esperienza del presente, perché ogni presente realizza i dati del passato e li trasforma nella sua contingenza; ma dopo cento anni di esperienza, che

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ogni nazione ha fatto per sé, il problema rivive con le carat- teristiche dell'oggi, e torna a imporsi alla coscienza collettiva.

Strano! Sembra un non senso, ma è così: la dittatura russa, il fascismo italiano, il pronunciamento spagnuolo, il nazionali- smo tedesco, il neonazionalismo francese, l'ultra-conservatorismo inglese dei die hards, il panserbismo, il pancechismo, il pampo- lonismo (senza inoltrarmi nei Balcani che hanno una loro fiso- nomia), tutti hanno ripreso a discutere il problema della libertà, sia come principio dello stato democratico, sia come diritto di partiti e di frazioni, o di razze conviventi nelle nuove compagi- ni nazionali, e ciò nel senso completo, storico e politico, della parola; come un problema che l'Europa deve rivedere nella sua sostanza e nei suoi sviluppi. Lo « stupido » secolo XIX non è per costoro una semplice frase letteraria, è invece il punto di par- tenza per una dura palinodia politica.

4. - Esaminiamo sotto questa luce il fenomeno italiano: altri farebbe bene a esaminare i fenomeni di altri stati, e trar- ne elementi per una completa sintesi politica.

Sarò obbiettivo: cercherò di superare ogni asperità di par- te: non nutro rancori né personali né politici: e spero che il mio sforzo venga apprezzato da amici e da avversari.

Il fasciemo italiano è figlio della guerra; esso ha tentato d i ambientarsi alle fasi del dopoguerra, superandosi ad ogni tap- pa, e ritrovandosi ad ogni superamento. A chi voglia penetrarne le psicologia, si presenta una difficoltà gravissima, quella della interpretazione ideologica.

Nel 1919 si ha un fascismo demagogico, socialistoide, anti- clericale, repubblicaneggiante, proporzionalista, semi-nazionali- sta: basta leggere il programma originario, per averne un'idea adeguata. Era il clima ambientale di irrequietezza, di arditismo, di sovietismo, che i promotori sentivano e rappresentavano; ma il loro seguito era scarso: le forze operaie si erano orientate parte nel aocialismo, rafforzato dai dolori della guerra, e parte

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nel nascente popolarismo, che politicamente esprimeva il pen- siero democratico cristiano. Non vi era posto per il fascismo, che non attirava le masse e creava diffidenze nel mondo della bor- ghesia capitalistica; la quale per paura vestiva allora gli abi- ti democratici. Era il tempo quando i liberali di destra, alla Salandra e alla Sarocchi, intitolavano il loro gruppo parlamen- tare liberale democratico, ed erano invece conservatori della più pura marca.

il colpo di D'Annunzio su Fiume fa enorme impressione nel campo dei nazionalisti e dei reduci di guerra. il fascismo è su- perato dall'arditismo; e conviene che ~ussol in i vi si accosti con discrezione, lasciando il posto di prima figura al poeta. Il fasci- smo resta in incubazione nel centro lombardo, attorno a l gior- nale Il Popolo d'Italia, orientandosi lentamente verso il mondo capitalistico. 'È la crisalide!

In quel. periodo i socialfeti continuano la loro campagna di scioperi e la loro organizzazione di leghe e di cooperative, con la mira di arrivare dalla dittatura economica alla dittatura po- litica del proletariato. Sul terreno cconodco-socisle e sul ter- reno degli scioperi politici del 1919-20 il contrasto acuto è fra socialisti e popolari, che si riverbera nelle frequenti contese di questi due partiti nell'aula parlamentare. La borghesia indu- striale in un primo tempo appoggia le pretese socialiste nel cam- po agrario, per una serie di assicurazione sulla vita delle indii- strie, e quindi contrasta fortemente i popolari, terzo incomodo per Cina politica di diversivi. I governi di Nitti e di Giolitti se- condano la manovra filo-socialista, che allora non spiace nep- pure al fascismo; fino a che gli avvenimenti e le agitazioni non sboccano nella occupazione delle fabbriche nell'agosto-settem- bre del 1920.

Questo episodio, che commosse la opinione pubblica europea e clie segnò l'inizio del tramonto della ultra-potenza socialista, non è ancora illustrato bene, sì da rilevarne tutta la portata po- litica. Lo strano si è che all'estero si attribuisce a Mussolini il merito di aver saputo superare così trista fase di lotta economi- ca; niente di meno esatto; Mussolini fu favorevole alla occupa- zione delle fabbriche; egli era ancora in quel tempo il vecchio socialista, e vewo la più pura demagogia egli era orientato: la

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sua era demagogia nazionale », mentre quella socialista era de- magogia con l'aggettivo (( internazionale D.

Giuoco di parole? Il partito di masse che si oppose alla occupazione delle fab-

briche e al disegno di legge sul controllo operaio, fu il partito po- polare, e creò un notevole aperto dissenso con Giolitti con il qua- le collaborava: i termini di quel contrasto oggi non interessa- no che allo storico; ma la realtà del fatto interessa alla visione completa del fenomeno presente.

Giolitti giocò abilmente nella difficile circostanza, non solo per la sua esperienza di vecchia volpe, ma perché gli stessi di- rigenti socialisti volevano trovar modo di uscire da un impasto, al quale erano stati costretti dalla propaganda comunista e dalla impulsività degli operai.' Essi perciò secondarono, nella sostanza se non nelle apparenze, la manovra giolittiana, accettando la pro- messa di una legge sul controllo delle fabbriche, ed evitando opportunamente la repressione sanguinosa. Così il tipico com- promesso alla italiana fece superare una fase pericolosissima del movimento del proletariato.

5. - L'occupazione delle terre, che precedette di un anno quella delle fabbriche, non aveva gli stessi pericoli né ebbe la medesima ripercussione; anzi fu favorita da decreti-legge e dal- l'azione del gov,erno e indirettamente dagl'industriali, i quali avevano la necessità di diminuire la manodopera, facendo ritor- nare ai campi quelli che la guerra chiamò alle officine, per la cosiddetta m.obilitazione industriale. I partiti di massa natural- mente si giovarono di questo movimento, che, del resto, faceva capo alle associazioni dei combattenti, i quali valorizzavano i de- creti di occupazione delle terre come un adempimento della pro- messa fatta ai soldati in trincea dal governo di Salandra, col famoso motto: la terra ai contadini!

Su questo punto i popolari, accusati come i più vivaci agi- tatori delle masse contadine, richiedevano e promovevano leg- gi organiche, quali quelle sul latifondo meridionale e centrale e quelle degli arbitrati agricoli; leggi awersate dai latifondisti e agrari, i quali, quando l'occupazione delle fabbriche destò le gravi apprensioni degl'indnstriali, trovarono un punto di ap- poggio morale e politico alla loro resistenza.

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Fu in quel momento, quando la paura del passato pericolo da parte degli industriali e la lotta degli agrari contro le leghe e le cooperative dei contadhi, aveva ridestato in loro una co- scienza di classe, che il governo di Giolitti favorì il moto della borghesia per i blocchi detti nazionali, nelle elezioni ammini- strative del '20; nei quali blocchi i fascisti trovarono finalmente la possibilità della loro iniziale affermazione goliardica e politica.

E questo il momento tipico della organizzazione delle squa- dre armate: l'arditismo dannunziano si esaurisce con i colpi d i cannone su Nume, che preludiano il trattato di Rapallo; e i giovani reduci, quelli che non avevano trovato più, dopo la smo- bilitazione, le antiche occupazioni domestiche e di lavoro; quel- li che sentivano passionalmente e bellicamente la politica; quel- li che, chiusi gli sbocchi normali di emigrazione, cercavano un nuovo moto alla loro giovane vita, costituirono le squadre ar- mate: goliardi ed ex-soldati, giovani che non avevano fatta la guerra ma ne sentivano gl'impulsi, idealisti e profittatori uniti insieme cercarono uno scopo alla loro attività e un bersaglio al loro impeto.

Quale? chi armò i fascisti? chi diede loro il denaro neces- sario? chi ne fece insieme una milizia e un partito?

Un lato del fenomeno è caratterizzato dalla lotta agraria nella Va1 Padana, ricca di campi ubertosi, tecnicamente evolu- ta, popolatissima più di ogni altra regione, dove il dominio rosso era divenuto insopportabile e da anni pesava sull'agricoltura come un servaggio. La riscossa è segnata dagl'incendi alle coope- rative e dagli assalti alle leghe; è lotta di classe, nella quale i fascisti sono dalla parte dei padroni e dei grossi fittavoli. Lo stesso, sotto altra forma, avviene in Toscana, nell'umbria e nelle Marche, regioni sacre alla mezzadria, la quale veniva compro- messa da una forte tendenza contadina per la trasformazione in affittanza. Qui erano coinvolti nell'offensiva degli agrari an- che i popolari, che sostenevano le tesi del diritto di prelazione contadina nella compra-vendita dei fondi e le facilitazioni giu- ridiche ed economiche per la costituzione della piccola proprietà coltivatrice.

Nelle città il fenomeno di reazione, sempre economico, pre- se fisonomia politica e amministrativa: ivi si concentrarono gli

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sforzi della borghesia liberale e conservatrice, per togliere dalle mani dei socialisti comuni e provincie, opere pie ed enti morali, nei quali si faceva anche una politica di classe, e si aggravava la mano sui contribuenti per le spese di gestione, non di rado aumentate da pretese sindacali, che allora sembravano esagerate, e non poche volte erano per lo meno sproporzionate.

In tutti questi movimenti del dopoguerra, la borghesia mal comprese che una grande trasformazione si operava; la quale non poteva non essere squilibratrice, defatigante e qualche vol- ta tumultuaria. Cadeva la bardatura di guerra, man mano che riprendeva la vita normale e il suo ritmo economico; la lira, Pastenuta durante la guerra dalla unicità di fronte economico fra gli stati, lasciata al suo naturale peso, correva a prendere il SUO posto, perdendo per via, con notevoli sbalzi, fino a me- tà, poi a tre quarti, poi a quattro quinti del suo valore; e in compenso aumentava l'inflazione cartacea, a sostenere il com- mercio che rinasceva e la industria che si riprendeva. Gli ope- rai domandavano l'aumento nei salari e scioperavano; era ciò indice che era venuta meno la potenza di acquisto di una mo- neta che non rispondeva 'al valore delle merci; gl'impiegati fa- cevano lo stesso; soffrivano di una improvvisa ristrettezza di mezzi, che si ripercoteva sulle aziende private, sulle ammini- strazioni pubbliche e sullo stato; i quali dalla loro parte dove- vano aumentare Ie proprie entrate premendo sui consumatori e bui contribuenti. I contadini non trovavano convenienza nei salari e nel gettito del loro prodotto, e domandavano l'abolizio- ne della mezzadria o addirittura la terra.

In questo periodo di passaggi da un'economia che cadeva a un'altra che doveva assestarsi, molti errori furono fatti da ogni categoria di cittadini; ed era naturale che al momento eco- nomico si aggiungesse il disquilibrio della psicologia collettiva; che eccitava a lotte acute e qualche volta cruente, nelle quali il fascismo aveva spesso facile vittoria su città inermi e su folle impaurite.

6. - Ma il movimento, così alimentato, doveva avere uno sbocco. La borghesia reclamava le elezioni generali, come un mezzo di esprimere il nuovo stato d'animo del paese; e Giolitti, pensando di incanalare nella vita politica e rappresentativa la

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nuova forza che si manifestava illegale e armata, e sperando in- sieme di portare i socialisti sul terreno della collaborazione par- lamentare dopo averne agevolato la divisione dai comunisti; i lo~ché (segreto pensiero) di ridurre i popolari ad un numero più discreto e di diminuirne la forza e le esigenze, affrontò le elezioni del maggio '21.

L'esito fu contrario alle sue previsioni: i socialisti torna- rono un po' diminuiti, ma forti e decisi a mantenersi ancora fuori della collaborazione borghese; i popolari aumentarono da 99 a 107, e i fascisti, venuti in 35 alla camera dei deputati, non rinunziarono alla loro organizzazione armata, anzi la inten- sificarono, provandosi con maggiore energia nel duello contro i socialisti e i comunisti, nella guerriglia contro i popolari.

Giolitti, come fu sempre suo costume, declinò la battaglia, che non si sentiva di affrontare; ma lasciò la eredità di un fe- norneno, che egli aveva contribuito a sviluppare, .ingrandire e darvi una caratteristica. Infatti il fascismo, sotto di lui, fu ar- mato e organizzato militarmente, fu portato alla ribalta parla- meiiiale; e &iiiagoaicu, aniic!eLica!e, evcip!isioide, rei;Ubb!i- caneggiante, passò a integrare i blocchi liberali, conservatori e nazionalisti; e cominciò a profilarsi quella venatura di filo-cat- tolicismo, che i fascisti dovevano poi domandare in prestito ai nazionalisti francesi, anche a quelli beii noti per il loro ateismo intellettuale ed estetismo pornografico.

7. - Lo sviluppo di questa seconda fase sino all'ottobre '22, attraverso i ministeri Bonomi e Facta; non è che una conseguen- za delle seguenti premesse: - più sono incerti e scissi i socialisti, e più incalzano i

fascisti; - più il governo è debole fra la legge e l'arbitrio, fra la libertà e la reazione, e più guadagnano terreno le forze extra e antistatali; - più si involve la democrazia parlamentare, e più diviene audace la corrente conservatrice e nazionalista.

Vi è un giuoco e una posta, in questo arrovellamento- di passioni: la posta è la compressione delle correnti di massa po- polari e democratiche; e il giuoco si sviluppa, in ultima analisi, attorno all'istituto parlamentare, per la presa di possesso e la trasformazione del potere esecutivo.

Quando si occuparono le fabbriche, Giolitti trattò con i

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capi e, promettendo la legge di controllo, ne ottenne il volon- tario sgombro senza colpo ferire. Credeva egli di aver risolto così il problema morale e psicologico, sollevatosi nella coscien- za del popolo? No: Giolitti aveva solo spostato i termini della questione, e risolto un problema di polizia: ma aveva creato un precedente morale, giuridico e politico, che non poteva non fermentare nella coscienza collettiva.

Che faceva Facta, luogotenente di Giolitti, dopo le occupa- zioni di municipi e di città da parte dei fascisti? Seguiva la stessa politica. Trattava con i capi e prometteva la testa di un prefetto, come a Bologna (è inutile dire che furono salvate le apparenze), owero lo scioglimento di un consiglio comunale, co- me a Milano, o perfino l'abolizione del commissariato centrale e di quelli speciali delle terre redente, come il ritiro dei titolari, senatori Salata, Credaro e Moscone, come per il caso dell'occu- pazione di Bolzano e di Trento.

Quali le conseguenze? La marcia su Roma e la presa di possesso del governo statale. Anche qui soccorre gli avvenimenti la stessa tattica, quella di girare b posizioni e accettare i fatti compiuti. Infatti il re incarica Mussolini di costituire il nuovo ministero; e benché questa volta l'incarico fosse dato a distan- za, per telegrafo da Roma a Milano, le altre formalità furono tutte adempiute, compreso il giuramento di fedeltà allo statuto e alle leggi da parte del duce », e la presa di possesso del mi- nistero con la tradizionale consegna dalle mani di Facta.

L'occupazione di Fiume produce il trattato di Rapallo; l'occupazione delle terre produce il decreto-legge di conces-

eione ; l'occupazione delle fabbriche produce il disegno di legge

siil controllo operaio; l'occupazione delle città, e poi di Roma, produce infine un

decreto reale, che investe dell'autorità governativa il capo e il condottiero.

In tre anni, dal 1919 al 1922, la classe dirigente tutto ha tollerato quel che di illegale e violento awepiva, sia in nome del nazionalismo, sia in nome del eocialismo, sia in nome del fascismo. I1 fenomeno, così sintetizzato, si mostra ben più pro- fondo di quel che non possa apparire il fascismo, come sembrò

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ad alcuni; cioè un movimento giovanile goliardico, reso forte dal fascino di un nome e dall'appoggio del capitalismo; la sua intima realtà si collega a movimenti psicologici e politici, che debbono spiegarci ancora la situazione presente della vita italiana.

8. - Infatti, viene spontanea la domanda, non solo al fore- stiero, ma anche a un italiano, anche a coloro che si occupa- no di politica, come mai tutta la classe dirigente, o almeno quel- la che da quasi mezzo secolo teneva in mano il potere dello stato ed era prevalente in tutte le appartenenze della vita civile ed economica del paese, come mai si sia lasciata spodestare da un deciso nucleo di giovani; al quale non solo non ha saputo resistere, ma, proprio quando minava le basi del potere, ha dato denari, armi, favori e plausi; e dopo la presa di possesso, li ha seguiti per un buon tratto, quasi per due anni, con i plausi e i voti, con l'ausilio morale e finanziario?

Io credo che un gran torto ha avuto la classe dirigente ita- liana, dopo che esaurì il dibattito fra destra e sinistra storica, quello di avere annullate le differenze dei partiti fra le correnti conservatrici e liberali e le nuove forze democratiche, e di ave- re, mediante il trasformismo di I)epretis prima, e il possibi- lismo giolittiano dopo, stemperate le forze di resistenza, attenua- ti i caratteri e ridotte al nulla le responsabilità di ciascuno delle proprie tendenze e della propria fede politica.

Non ci sono state di fronte due concezioni borghesi, non c'è stata l'altalena dei partiti ben definiti; c'è stata una borghe sia amorfa, espressa da gruppi personalistici e localistici, pron- ta a cedere tutto, pur di conservare il potere e di sviluppare in- tomo allo stato una politica economica protezionista e specu- latrice, per industrie povere e parassite; una borghesia costret- ta a contrarre la sua posizione politica ora con i blocchi cosid- detti popolari facendo dell'anticlericalismo e del filo-socialismo; ora con i .nazionalisti e con i clericali di Gentiloni, facendo del conservatorismo e dell'antisocialismo; ora con gli stessi sociali- sti, favorendoli nelle posizioni monopolistiche del movimento cooperativo e del lavoro, contro le organizzazioni democratico- cristiane.

Quando scoppia la grande guerra, la crisi latente della clas- M dirigente italiana si fa manifesta. Il neutralismo possibilista

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e di adattamento di marca giolittiana è superato insieme ai 300 deputati che lasciarono i loro biglietti di omaggio al vecchio statista. Le giornate radiose di maggio, alle quali si appella Sa- landra, superano il parlamento della vecchia borghesia libera- le. La compagine di coloro che tenevano il potere da mezzo se- colo è rotta, e il loro mito è d'un tratto infranto. Le conseguen- ze sono notevoli, ma non si vedono bene durante la guerra; nella quale la momentanea saldatura della vecchia classe dirigente con il paese fu fatta solo dopo Caporetto; e Orlando allora non rap- presentò una maggioranza parlamentare, ma la nazione intera, che si riprende, reagisce, risorge e supera con la resistenza sul Piave e con Vittorio Veneto, le quali sono glorie pure del popolo italiano al disopra di partiti, di classi e di tendenze, riunito in un palpito unico: la patria da salvare e la guerra da vincere.

Nitti, dopo la guerra, vuole rappresentare un momento di unione tra la borghesia radicale e il socialismo sindacale; ma non riesce a dominare la situazione turbata dalle agitazioni eco- nomiche e dalle disdette diplomatiche nella conferenza della pace, né sa apprezzare il nuovo apporto del popolarismo, un partito ed una corrente interclassista e democratica cristiana, che di un tratto si era piazzato in parlamento con cento depu- tati. Con il ritorno di Giolitti, auspicato da ex-neutralisti e da nazionalisti, non si riesce a dare vitalità alla vecchia classe po- litica, che crede di poter ritornare verso un parlamentarismo trasformista, e invece inconsciamente va incontro alla reazione, liquidandosi completamente sotto i succes'sivi governi.

Sicché, quando Mussolini, con la posa del domatore, nella prima seduta dopo la presa di possesso del governo, parlò alla camera dei deputati e la chiamò « aula grigia e sorda e disse che poteva fame « il bivacco delle sue camice nere », e che « sta- va ad essa vivere due giorni o due anni », nessun uomo rappre- sentativo del mondo liberale democratico si alzò, come testimo- nio di un passato, che pure ebbe le sue glorie e le sue fortune, a levare la sua voce di protesta e a rivendicare il corpo elettivo che veniva duramente offeso. Le parole del popolare De Gasperi, che avanzò le riserve del suo partito, caddero nel vuoto insieme con quelle del leader socialista. Forse quel silenzio significò che i liberali democratici riconoscevano la parte presa a favore del

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nuovo fortunato partito; e inchinandosi al fato, aprivano il pas- so, accettando l'insulto.

Quei giorni, in un articolo di giornale chiamai Facta il Ro- molo Augustolo della democrazia liberale.

9. - Le fasi successive del processo di disintegrazione e di reintegrazione della vita politica italiana sono segnate .molto chiaramente. Quella che io chiamo la vecchia classe dirigente, prosegue nella sua dedizione senza limiti, fino a consentire al partito dominante la costituzione di una milizia di parte per tenere il paese soggetto con la forza, e la legge elettorale del luglio '23, con la quale veniva messa nelle mani del capo del potere esecutivo una camera da lui creata e a lui dipendente; rendendo così impossibile il giuoco dei partiti, togliendo alla rappresentanza popolare la sua autonomia, e al re il mezzo leg- gittimo di esercitare le sue funzioni sovrane nel dissenso tra governo e parlamento: owero nel contrasto tra camera e paese.

Questo passo fatale, che ha immobilizzato le forze costitu- zionali ed ha reso impotenti i partiti, diede l'ubbriacatura alla f ~ z i o ~ e dominznte, che U-ò P dello etnimento della legge eletto- rale e della forza della sua milizia, a foggiarsi una stragrande maggioranza parlamentare. Ad essa aderirono gli stessi uomini della vecchia classe dirigente, quasi tutti; Giolitti, è vero, volle rimaner solitario, aderente però al governo, ma non dipendente da esso.

Eppure il paese, costretto sotto una pressione governativa, che supera di gran runga quelle esercitate da Depretis e Gio- litti, nelle elezioni del 6 aprile '24, arrivò a dare tre milioni di voti alle opposizioni, di f ~ n t e a quattro milioni e mezzo di voti dati alle candidature fasciste. Napoleone I11 fu più fortunato!

È che in Italia - oltre il partito socialista che, quantunque stremato, manteneva la sua posizione antiborghese - si era. di già ridestata una coscienza politica di libertà e una nuova cor- rente di democrazia, che iniziava la riscossa.

I primi ad alzare la bandiera furono i popolari nel celebre congresso di Torino nell'aprile '23, che per la nuova Italia po- litica che sta formandosi rimane una data fatidica. Dopo cinque mesi di dominio fascista, quando ancora non mancava qualche speranza per la cosidetta inserzione delle forze sane del fascismo

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nella costituzione, il partito che minori responsabilità aveva della situazione, rivendicava per tutti il diritto della libertà.

L'esito fu il distacco dal governo. Nel luglio '23 segue il gruppo già detto della democrazia italiana con a capo Amen- dola; nel gennaio '24 si distacca la democrazia sociale di Ce- sarò; e dopo il delitto Matteotti, che commosse tutto il mondo civile, queste opposizioni costituzionali, unite ai socialisti, pro- mossero la secessione dalla camera, detta dell'Aventino.

Ultimi nell'arringo e con diversi caratteri, sono stati i com- battenti con il voto d'Assisi, i liberali dopo il congresso di Li- vorno e, dopo che il governo ha iniziato la politica chiamata forte, cioè la politica della violazione delle libertà di stampa, di associazione e di riunione, in danno degli oppositori del go- verno sotto i l pretesto dell'interesse nazionale, finalmente uo- mini come Giolitti, Salandra e Orlando, decidono anch'essi il passaggio all'opposizione, primo gesto di nobiltà dopo due anni di silenziosa dedizione.

A questo gesto si diede l'interpretazione che attorno ad essi si potessero concentrare le nuove correnti di democrazia, che maturano le nuove sorti d'Italia. Non era possibile: il vecchio mondo conservatore-liberale e quello dell'industrie protette e dell'« agrarismo anti-sociale » stanno ancora col fascismo e con Mussolini. Quelli che costituiscono la nuova forza oggi si pre- parano e si allenano sull'Aventino. I liberali del nuovo partito di recente costituzione, affermatosi a Livorno, debbono maturare nel duro travaglio interno la loro nuova anima antifascista, scontando così l'appoggio dato fino a ieri al governo, e la poca sensibilità mostrata per questione morale, specialmente dopo il delitto Matteotti; essi non hanno ancora in mano la fiaccola della libertà, per poterla agitare, segnando al paese la sua nuova vita.

10. - Non pochi, specialmente all'estero, credono che non sia esatta la formulazione teorica nella quale io inquadro il fenomeno fascista, in quanto lo reputo una manifestazione della reazione, svoltasi nel clima storico e nelle speciali condizioni

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ambientali dell'Italia; essi pensano che si tratti solo di una sia pure eccezionale formazione di partito che tende, con metodi rapidi e più sicuri, al risanamento di una crisi politica esclusi- vamente nostra.

« Ad ogni male il suo rimedio - essi dicono - e un rime- dio, sia pure un po' drastico, è il fascismo; che le opposizioni hanno il torto di non riconoscere come tale, ma che di fatto ha recato del bene alllItalia: il fenomeno eccezionale si esaurisce proprio col fatto stesso del ritorno del paese alla sua norma- lità ». Continuano questi benevoli osservatori: « Tutte le frasi reboanti ed enfatiche con le quali il fascismo afferma la sua realtà assoluta, non sono che fenomeni verbali, che sogliono ac- compagnare ogni movimento vittorioso, e si esauriscono con esso. Quando la lotta fra le parti in contesa sarà esaurita, con il facile trionfo dell'attuale partito al potere, l'Italia per ciò stesso avrà superata la sua crisi e ritornerà nel normale sviluppo di ogni stato moderno D.

Questo modo di prospettare l'attuale situazione italiana, ha -m Iato aaaai siigge.iSva per co!uro che, cmtro c p i e i i d e n r ~ di fatti, sperano 'ancora che il fascismo sbocchi nella normalità co- stituziopale. Di queste illusioni è piena la storia politica dei po. poli; e quindi non meraviglia che anche uomini esimi sotto ogni aspetto vi possano cadere. Ma una osservazione pregiudiziale f a crollare il fondamento delle loro speranze: è infatti ammis- sibile che uno sforzo politico, caratterizzato da una preconcetta violazione delle libertà civili e politiche, che tende a sottoporre al potere esecutivo, sia quello legislativo che quello giudiziario; che una deformazione etico-psicologica, che ammette come legit- tima la violenza privata e giustifica i delitti di parte per « fini nazionali »; che un partito che mantiene la sua autorità e il suo predominio con una speciale milizia armata; insomma che un misto di fazione e di autocrazia, di oligarchia e di dittatura, sbocchi, da sé, come processo logico e storico, per sua intima forza, in un sistema di legalità, di moralità, di libertà?

Ma in quale fase della storia dei popoli è ciò awenuto? A stare alla storia degli stati moderni, anche i governi assoluti, più paternalistici e più legalitarii, che avevano a loro vantaggio eecolari tradizioni, rispetto, forze convergenti, non ebbero mai

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MO sbocco verso la libertà, senza che agitazioni di popolo o fati di guerra non avessero spinto gli uomini responsabili a mu- tare gli antichi regimi.

Per giunta, qui ci troviamo in una involuzione di istituti e di criteri etico-politici, che fa venir meno qualsivoglia equili- brio statale. I regimi assoluti erano tali nel complesso di leggi e di istituti, che facevano capo ad una monarchia detta di di- ritto divino e appoggiata a classi privilegiate. Però in Italia esi- stono ancora una monarchia costituzionale, uno statuto, un par- lamento. La pretesa rivoluzione non li ha abbattuti, ma vi si è sovrapposta, in una ibrida coesistenza di ragione di stato e di ragione di.parte. Si proclamano i diritti della rivoluzione senza definirli; si invocano privilegi contro i codici senza precisarli; si privano i cittadini dei loro diritti senza alcuna legge, creando una dualità, tra i sudditi di un potere dittàtoriale che non ha base legale, e i privilegiati di una conquista che non è mai esi- stita.

Le milizie di parte del medio evo erano contrastate da altre milizie di parte: le fazioni dei comuni e dei principi feudali avevano ciascuna torri e caatella; era l'esercizio della forza là dove veniva meno il diritto; ma gli avversari erano su parità di terreno, potevano misurarsi ed equilibrarsi; invece qui esiste una milizia che fiancheggia un partito armato contro gli altri partiti inermi. Si possono minacciare le « quadrate legioni » ad ogni stormir di foglia.

Nel fare questi paragoni è lungi da me il pensiero di un ritorno all'uso della forza privata in pieno secolo XX. L'anacro- nismo non è la storia.

11. - « Sarà vero - mi sento rispondere da più parti - ma le due camere hanno approvato e approvano anche oggi: il re sanziona; il fondamento formale del regime è salvo, anche se la sostanza del regime sia in disquilibrio. Data. l'eccezionalità del caso, basta solo l'elemento formale. Altrimenti ad una rivo- luzione di destra (quella conservatore-fascista) dovrebbe seguire altra rivoluzione di sinistra (demo-socialista); e l'Italia subireb- be chissà quanto tempo i tormenti delle agitazioni politiche D.

Rispondo: della camera dei deputati del '22 ho già parla- to; fa parte del quadro della crisi della classe dirigente: la ca-

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mera attuale è talmente troppo fascista, che il governo pensa di disfarsene con altra legge elettorale a sistema uninominale, già approvato in questi ultimi mesi.

Del senato parlai nel mio discorso di Torino del dicembre '22, due mesi dopo. la marcia su Roma, svolgendo la mia vecchia tesi della trasformazione in elettivo. Il senato vitalizio non ha mai dato voti di sfiducia ad un governo. Plaudì Nitti, che ebbe voti pletorici, blandì Bonomi, sostenne Facta; lo stesso avviene oggi per Mussolini. Anzi oggi in senato vi è un gruppo di oppo- sitori autorevoli, che non ebbe nessun governo del dopo guerra.

Io ho sempre pensato che la perpetuità di nomina, anziché accrescere l'indipendenza di un senato di fronte al potere ese- cutivo, l'attenua; è uno strano ma costante fenomeno psicolo- gico: le camere rappresentative quanto più diminuiscono o an- nullano i rapporti con i propri corpi elettorali, tanto più sono attratti e assorbiti dalla forza del governo.

Del resto, noi italiani ci accontentiamo per ora che il senato faccia riserve, brontoli, affermi i diritti della costituzione, di- s c ~ t a . gli atti del gcyeme, e f'mzioni come da vecchio testimo- nio di famiglia decaduta a guardare i blasoni del nostro statuto.

nostro sovrano è costituzionale e rispetta il suo carattere simbolico. Quando in Francia il presidente della repubblica acceunò a partecipare alla vita dei partiti, fu sollevata la que- stione costituzionale, e tutti sanno come fu risolta. Noi non vo- gliamo che si discuta la monarchia, perché l'istituto monarchico, nel cadere di istituti e di forme, e nel mutare di classi dirigenti e di indirizzi politici, è ancora la garanzia che ci rimane salda. Noi abbiamo ferma fiducia che la monarchia di Savoia non rinnegherà mai il giuramento di Carlo Alberto, che su questo punto il fascismo troverà un ostacolo insormontabile.

Fissati così i punti formali, è bene che si sappia che nessun partito di quelli riuniti nell'opposizione aventiniana vuole ten- tare una controrivoluzione, né procedere a quel che oggi s'in- tende per azione diretta. I popolari, oltre che per ragioni poli- tiche, non vi aderirebbero per ragioni etiche; ma anche gli altri partiti riconoscono che la vita italiana non può e non deve su- bire altre scosse rivoluzionarie, e che l'attuale fase politica non comporta uno sbocco violento.

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Oggi il fascismo è isolato politicamente; l'opera delle oppo- sizioni mira a disintegrarlo sul terreno morale con la propa- ganda e con l'azione legale, che ogni partito ha il diritto di eser- citare in confronto a qualsiasi governo e partito.

Non spetta a me discutere la tattica aventiniana: è un fatto; la scissione dei rappresentanti del popolo non è sopra il sem- plice terreno parlamentare, ma nella concezione del regime fa- scista e nei suoi pratici sviluppi. La sostanza supera la forma, e impone di portare il problema alla più larga discussione del paese.

12. - Insistono però i difensori dell'attuale stato di cose: « I1 governo fascista ha fatto del bene al paese e altro potrà farne; occorre perciò sostenerlo fino a che il suo compito non sarà esaurito ». La risposta è complessa; però ad uno spirito libero riesce facile. Questi dirà: Amo la libertà più della ricchezza; amo la libertà più dei piaceri; amo la libertà più del potere; amo la libertà più della vita n. Ecco la mia prima risposta.

Ma ne do una seconda. La storia potrà distinguere, meglio che non facciamo noi oggi, di quali dei beni che sono stati rea- lizzati in questi due anni è causa il governo eccezionale, e quali invece sono stati conseguenze di premesse poste da altri, ovvero sono attuati per lo sforzo del nostro popolo risparmiatore e la- borioso, o perché sono state superate le fasi economiche, che turbavano la nostra vita nel dopo guerra. Ma anche la storia dirà di quanti mali politici ed economici è stato cagione un re- gime di eccezione.

L'innaturale di questo ragionamento si è il volere con la forza comprimere la spinta che viene dal basso, dal popolo, dai partiti, a modificare lo stato presente in altro reputato migliore. Chi può elevarsi a giudice? Ogni popolo, anche se ha raggiunto un alto grado di benessere, tende sempre a svolgere i suoi isti- tuti, a sviluppare le sue forze, a lottare per un bene sempre cercato e mai raggiunto. Chi ha il diritto a dire: férmati? Chi disse l'hic manelimus optime? Non esiste un hic; passa il tem- po e noi con esso; non esiste un manebimus, perché il mondo sempre cammina e non si ferma mai; non esiste l'optime, perché sono sempre bom mixtn malis.

Lasciate, e non potete impedirlo, che mentre alcuni credono

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che sia merito del pugno di ferro del capo, della forza della milizia di parte, della pressione di una fazione, che le ferrovie vadano bene, che gli operai lavorino, che il paese produca, che la fìnanza si assesti; lasciate che altri pensino che l'Italia è un paese di razza inferiore, una terra indisciplinata, dove oc- corre la sferza, la minaccia, la privazione della libertà per met- tere un po' d'ordine e un po' di regola. No, no: è troppo m e schino e ingiusto questo ragionamento, che ho visto fatto su giornali inglesi, e al quale ho risposto, sul Times, che 77 anni di costituzione e 65 anni di unità nazionale e l'aver superato ben altre crisi, compresa la grande guerra, dànno diritto all'Ita- lia di essere stimata pari alle attuali nazioni civili, compresi i piccoli stati, dal Belgio alla Svizzera, che sono degni di go- vernarsi da loro, senza la sferza di un potere autocratico, senza il governo di polizia e senza la milizia di parte. .

R problema italiano è Een diverso, e non può essere impo- stato nei termini di una pura svalutazione del nostro paese, in confronto con gli altri paesi civili; qui è la lotta tra democrazia e remiiirie, che ofioretu &p= !a gterrr, riprende gli piriti uma- ni e fa riaprire, non solo da noi (da noi solo in modo più grave), bensì in tutta l'Europa del secolo XX, un dibattito politico che si credeva già chiuso nel secolo XIX.

13. - 2 in sostanza un problema di libertà. I secoli XVIII e XIX maturarono in tutti i popoli civili una profonda evolu- zione, svilupparono il costituzionalismo, l'autogoverno, il par- lamentarismo, affermarono le libertà politiche; ma la conquista della libertà in singolare, spirito e anima della vita morale ci- vile e politica, non fu compiuta allora, non è compiuta oggi. Il processo di ogni conquista sociale è lungo e difficile: ha le sue soste, le sue involuzioni, i suoi rapidi e imprevisti sviluppi.

Voi, in Francia, nel secolo XIX, avete avuto regni, imperi, la comune, la repubblica; dal suffragio ristretto siete passati a quello universale; non sono mancate né le oligarchie di gruppi

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e i colpi di stato, né le persecuzioni a cittadini rei di pensare in modo diverso della classe dominante. La prima libertà poli- tica fu affogata nel ,sangue, e fece orrore non solo a coloro che la temevano e l'odiavano, ma a quelli stessi che l'amavano e l'invocavano. Anche oggi che una legge, la quale limita ai cittadi- ni le loro libertà religiose,-viene richiamata al suo primo rigore di rappresaglia, i cattolici francesi possono ben dire che per loro non c'è la libertà comune, bensì un regime di eccezione imposto dall'arbitrio fatto legge.

La verità si è che nel secolo XIX, a limitare la libertà come spirito e come costume, come equilibrio fra cittadini e come possibilità reale del giuoco dinamico delle forze politiche, è atata concepita una nuova divinità, ora detta stato, ora detta nazione; ad essa sono stati dati tutti gli attributi di forza, di diritto, di etica; il potere esecutivo e le oligarchie dominanti sono i suoi sacerdoti; e quel termine assoluto, che l'uomo cerca in se stesso quando più non crede in Dio, la collettività l'ha cercato nello stato, e ne ha fatto il nuovo Moloch della civiltà moderna.

E questo Moloch, sia pure salvando certe forme esteriori e la struttura del regime costituzionale, ha divorato la libertà nel- la sua vera' e profonda realtà: ha lasciato, larve senz'anima, dove più dove meno, le libertà formali della vita politica, ri- portando in sua vece le oligarchie e le dittature che aveva ab- battuto.

La libertà è come la verità: si conquista; e quando si è con- quistata, per conservarla si riconquista; e quando mutano gli eventi e si evolvono gl'istituti, per adattarla si riconquista. % un perenne giuoco dinamico, come la vita, nel quale perdono quei popoli che non l'hanno mai apprezzata abbastanza per difen- derla, e non ne hanno saputo usare per non perderla. Perché usare della libertà vuol dire non consentire né la dittatura, né la licenza; nell'un caso e nell'altro la libertà non esiste: non tanto per il fatto materiale del dominio di un uomo o di una plebe; ma assai più per il fatto sostanziale che è mancata la forza morale al popolo di mantenersi in libertà, per non pex- mettere che il dittatore o la plebe ne violino la personalità col-

lettiva.

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Segnò bene il Giusti questo concetto in versi celebri, sinte- tizzando la parola classica popolo :

O popol vero, o d'opre e di costume Specchio a tutte le plebi in tutti i tempi, Lévati in alto e lascia al bastardume

Gli stolti esempi. Tu modesto, tu pio, tu solo nato Libero, tra licenza e tirannia, AZ volgo in furia e al volgo impastoiato

Segni la via.

14. - Questo equilibrio sociale di un popolo libero tra li- cenza e tirannia non può awenire che in un progressivo svilup- po di tutte le libertà, verso lo spirito della libertà. E un errore affermare che la libertà si sia conquistata con la rivoluzione francese e che prima di allora non esistesse;. tutto il cammino umano dalla barbarie alla civiltà è stato uno sforzo di libera- zione dai vincoli di ingiusta soggezione o di perfida schiavitù; ma chi parL di una libertà dei fig!i~o!i di Dio ed ilevh I'ilomo all'eguaglianza della vita spirituale, fu quel Vangelo di Gesù Cristo, che non conobbe ebrei o gentili, padroni o semi, schiavi o liberi, e che chiamò l'uomo ad adorare Dio in spirito e verità. Egli solo rivendicò interamente la personalità umana, 6ase della vera libertà.

La conquista dello stato moderno fu quella del regime rap- presentativo e democratico, il quale demanda come esigenza di vi- ta alcune forme di libertà sociali, che ne rendono effettiva la fun- zione; cioè libertà di stampa, di riunione e di associazione. Que- sto passo notevole nella vita dei popoli, che elevava il suddito a cittadino, toglieva alla libertà sociale la caratteristica di pri- vilegio di classe o di casta o arbitrio di dominanti, e la faceva divenire legge uguale e legge propria, metteva sopra uno stesso livello di importanza morale e politica, tanto la libertà che: l'au- torità, i due termini necessari della vita sociale, e tentava di evitarne i contrasti con organismi di compensazione. La divi- sione dei poteri nel soggetto e nella funzionalità doveva servire a garantire il cittadino dal facile abuso del potere raccolto e confuso nelle mani di pochi o di un solo. La eguaglianza di

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tutti di fronte alla legge doveva servire a moralizzare tanto l'esercizio della autorità che l'esercizio della libertà.

Concezione superba della vita collettiva, maturata attraver- so secoli di civiltà cristiana, ispirata a un'etica perenne: l'egua- glianza degli uomini nella loro natura; l'eguaglianza dei doveri morali di fronte alla propria coscienza; la partecipazione dei cittadini alla vita del proprio paese; la subordinazione alla leg- ge e a coloro che la legge rappresentano, nella espressione di un'autorità, che da Dio discende come legge perenne e inviola- bile di natura, non per il vantaggio personale di chi ne è inve- stito, ma al bene sociale al quale è diretto e per il quale solamente esiste. I

L'errore di fare della società civile un semplice atto contrat- tuale volontario; di fare dell'autorità una pura delega di poteri, di fare della libertà un assoluto individuale, fecero deviare la concezione moderna dello stato in una costruzione formalistica. Per rimbalzo, a ripararne il vuoto, e poter quindi reggersi e svi- lupparsi, lo stato fu elevato all'assoluto di un mito. Dal re, po- tere detto di diritto divino e intangibile più di Dio, parum de Deo nihil de principe, si passò allo stato vera divinità; in esso hegelianamente si confusero autorità e libertà, diritto e forza, etica e arbitrio; e la ragion di stato del vecchio cesarismo dei re, passò nel cosidetto fine nazionale del nuovo cesarismo dello stato. Nessun limite alle leggi, nessun limite al potere: I'indivi- duo un tempo suddito del re, oggi può arrivare a divenire schia- vo dello stato; allora non aveva la clamide e la corona regale di popolo sovrano; ma purtroppo spesso il popolo sovrano deve reclamare contro lo stato la sua libertà di semplice cittadino.

15. - Ma che è mai questa libertà della quale io parlo? Non è certo Ia libertà di fare indifferentemente il bene e il male. I1 male in quanto tale va represso e punito. Vi sono i codici, vi è la magistratura; i codici possono essere perfezio- nati, la magistratura deve essere autorevole e libera. 'E essa li- bera in tutti gli stati moderni? Vi è ancora nei processi, spe- cialmente p e l l i politici, la tolleranza di un intervento diretto o indiretto del potere esecutivo? Vi è ancora negli stati mo- derni una polizia giudiziaria che dipende dal governo centrale e limita perciò la stessa funzione del magistrato? Vi è ancora

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una tolleranza pubblica per la passionalità morbosa, morale e politica, che fa assolvere anche i rei confessi? Ebbene, qui non vi è libertà: manca nell'ordinamento la perfetta autonomia del potere giudiziario; e manca negl'individui l'educazione della li- bertà e di quell'auto-controllo di sé, che non fa degenerare l'eser- cizio delle proprie facoltà in abuso e in licenza.

Non basta: l'organizzazione dello stato burocratico e ac- centratore impedisce ogni libero svolgimento delle forze inge- nite delle popolazioni e degli organismi, limita le iniziative per- sonali, tende a fare uniforme la vita e a soffocarla con regola- menti pedanti e vessatori, invade industrie, commerci, scuole, chiese, beneficenza, lavoro, comuni e provincie. I1 Piemonte pre- se dalla Francia questo male e lo estese allJItalia nascente, il prussianismo lo impose a tutta la Germania federata. Lo stato burocratico si è sovrapposto allo stato libero, e ne ha fatto un organismo centralizzato, preludiando al socialismo di stato.

Non basta: - la borghesia conquistò il potere delle vec- chie classi aristocraticlie e si diede l'ordinamento di libertà, ma xivn tenne fede ai s ~ o i stessi principii; la canqiiista della libertà di associazione delle forze del lavoro fu contrastata per oltre mezzo secolo, come rivoluzionaria; i partiti di opposizio- ne furono perseguitati .come faziosi; la scuola fu monopoliz- zata e la chiesa fu compressa, in nome di un'altra religione: lo stato laico.

« Lo stato si difende! D, gridava la borghesia al potere, con- tro il socialismo o contro il clericalismo; ma lo stato da essa difeso non era diverso dal partito al potere; gli altri partiti erano per essa I'anti-stato.

L'evoluzione naturale dei partiti sul terreno della libertà è un'affermazione delle minoranze che tendono ad arrivare; non mai delle maggioranze che sono arrivate.

« Lo stato si difende! D, si torna a ripetere, « perché lo stato deve essere forte; lo stato in balia dei partiti è uno state

. debole n. Si può rispondere che l'esercizio della libertà non ha mai

indebolito ma ha sempre rafforzato lo stato, perché attraverso la libertà si aumentano i consensi cittadini. Gli stati più liberi, come l'America del Nord e la Gran Bretagna, sono stati forti,

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non deboli. In essi il concetto della libertà, attraverso ben lun- go e interrotto esercizio, presuppone nei cittadini il controllo di sé, l'auto-limitazione, il rispetto della tradizione. La legge è dinamica non statica, ma la tradizione ne lega le vicende e ne assicura le vitalità. Il regolamento è vivo, non semplicemente formalistico, e quindi spesso è incompleto o inesistente; cia- scuno sente di partecipare ad una vita collettiva, della quale è parte e della quale in nessun momento si sente avulso. I po- teri dello stato sentono e fanno sentire la loro autorità; ma raramente ne abusano, in confronto al cittadino. Il principio di fiducia reciproca dei cittadini e dello stato è pregiudiziale ad ogni attività. I latini invece hanno la pregiudiziale della sfi- ducia: lo stato diffida del cittadino, e il cittadino dello stato; e perciò gridano ancora, coloro che sono ancora al potere: « lo stato si difende! D. No; lo stato non ha contro di sé i cittadini nel libero esercizio del loro diritto, perché lo stato sono i citta- dini; lo stato non è altro che la stessa società in quanto politi- camente organizzata, e non è un ente esterno e per sé stante fuori dei cittadini. Lo stato, o meglio i poteri dello stato, deb- bono difendere la legge, contro coloro che la violano; debbono difendere gli ordinamenti statali contro coloro che li infrango- no; ma non possono violare le libertà dei cittadini, quando essi esercitano i loro diritti sol perché una nuova corrente soprag- giunge a prendere il posto di quella che ieri aveva trionfato.

16. - I,a libertà è cosi alto dono della vita umana, che pur- troppo ognuno vuole per sé e nega agli altri. Lo sforzo della società, sforzo perenne e progressivo, è quello di equilibrare la libertà di ciascuno in unico e vero regime di libertà.

Si dice che della libertà si abusa: è vero; ma quale è quel dono di Dio dato agli uomini, del quale gli uomini non abusano? Si abusa dell'intelletto, si abusa della forza, si abusa dell'auto- rità, si abusa delle ricchezze, si abusa della vita. Però sunt certi denique fines, diceva il poeta latino. La natura stessa ha posto i confini che non impunemente si superano. Ogni abuso

individuale porta con sé il rimorso, la rovina, la morte; ogni abuso collettivo si sconta sempre nella vita dei popoli. Non per questo i beni che la natura elargisce sono in sé condannevoli,

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e debbono sottrarsi al giusto godimento e alle razionali esi- genze delle creature.

Ho sentito dire più volte, e credo l'avrete sentito dire più volte voi stessi, essere meglio che il popolo lavoratore non sia istruito, che non abbia troppo libertà, che sia mantenuto in stretti limiti economici; altrimenti esce dal suo ruolo di sogge- zione e aspira a comandare.

Forse non dicevano così le classi aristocratiche e privile- giate del feudalismo e dell'assolutismo .in confronto alla bor- ghesia nascente? E la borghesia, oggi che è strapotente, potreb- be a cuor leggero contendere al popolo lavoratore la cultura, la libertà, l'agiatezza?

Ma coloro che troppo posseggono, sono sempre presi dalla paura di perdere; e coloro che tengono in mano il potere, dalla paura di essere soppiantati. « Non vedete, essi dicono, che oggi il popolo aumenta le sue esigenze, e va appresso alla fola del co- munismo? ». In Francia, in Inghilterra, in Italia varie cate- gorie di persone sono addirittura prese dalla paura del comu- nismo, o bolscevismo; sembra che lo sentano aUe spalle.

Difatti, vi sono correnti nella classe lavoratrice che oggi si illudono al mito del comunismo. Ma io domando: se il comuni- smo è una fola, perché averne paura? e se invece può dive- nire una realtà, non sarà certo la reazione a impedirlo; che anzi ne' accelererebbe il processo. Non dicevano forse la stessa cosa gli assolutisti della santa alleanza contro i r e g i e parlamentari e le correnti liberali? e le carceri allora rigurgitavano di im- putati politici. - Non dicevano lo stesso gli autocrati russi? e la Siberia era piena di deportati.

Invece, è a notarsi una piccola differenza: oggi I'awento di socialisti a posti di governo, non desta paure, come quelle di un tempo. La Francia ha avuto Briand e Millerand; l'Italia Bissolati e Bonomi, e non è stata colpa della borghesia, se Tu- rati non è diventato ministro. In Inghilterra Mac Donald ha governato per circa un anno, e non è detto che egli o altri del suo partito non torneranno al potere. Ebert è stato capo dello stato in Germania, e molti altri socialisti al governo; e così in altri stati europei.

O la borghesia si è adattata all'awento degIi uomini del

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socialismo, o essi si sono imborghesiti: la verità è che il regi- me di libertà è un crogiolo, ove le forze dissidenti si purificano e si assimilano, e arrivano così a penetrare nella vita perenne e sostanziale della società.

Questo awiene perché la struttura economica di questi pae- si è talmente sviluppata, che miti comunisti o socialisti non pos- sono attecchire, senza trasformarsi e perdere quel virus anti- sociale e quella posizione anti-storica che essi avevano origina- riamente. I1 socialismo di Carlo Marx non è certo quello di Ebert; né Millerand ha nulla a che vedere con Blanc.

Forse, dalle mie parole, qualcuno penserà che io sia del parere che non bisogna combattere il socialismo e il comunismo. Ma sì che bisogna combatterli, per quel che hanno di antiso- ciale e di anti~eli~ioso, ma sul terreno della libertà, non su quello della reazione; contrapponendo propaganda, associazione, stampa, ed eliminando o favorendo la eliminazione di quelle cause morali ed economiche, che fanno sviluppare i germi del- l'odio di classe.

I1 bolscevismo russo, il fascismo italiano, il militarismo spa- p u o l o hanno scelto invece il terreno della reazione e dell'asso- lutismo; altri partiti vi tendono in altri paesi; ma la gran mag- gioranza dei popoli civili ancora mantiene fede, almeno nelle forme esterne, al principio di libertà. Ebbene, questo principio deve penetrare lo spirito delle istituzioni e deve animare le vi- cende della lotta politica: ecco il segreto dell'awenire.

Ma la lotta è, esiste dacché ci sono uomini sulla terra, esi- sterà fino a che uomini abiteranno la terra.

L'errore di ogni movimento rivoluzionario è quello di pro- mettere, dopo raggiunto I'awento a cui aspira, il regno di Sa- turno, l'Eldorado, la felicità. .O vani sogni mortali! Ogni bene conseguito eccita a volerne altri; ogni sistema attuato mostra le deficienze della stessa limitatezza umana; e la spinta verso il meglio è il pungolo esterno, che la natura ha posto in noi, per- ché la nostra ricerca non abbia termine, e la nostra manche- volezza ci richiami a beni più alti e ad aspirazioni più elevate; sempre verso Dio.

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17. - Ma la lotta si rinnova a ogni conquista sociale; è questa legge di progresso. C'è però un rapporto sostanziale nelle strutture e nei metodi della vita collettiva, e quindi nei modi come la lotta sociale si svolge.

Oggi, dopo la guerra, la struttura economica dei popoli su- bisce uno spostamento non lieve; e l'accumulo della ricchezza in poche mani, la crisi della finanza degli stati, il depaupera- mento delle singole economie, nel convulso riprendere della vita dei popoli, nell'assestarsi delle relazioni delle nazioni, accelera il processo delle grandi crisi. Gli enormi cartelli, i trusts colos- sali, il regno di determinate materie prime, la così detta strut- tura verticale delle industrie dominano le forze economiche e le politiche; il lavoro, attratto nel ferreo complesso di questa industria, cerca di salvare la propria autonomia e personalità nei grandi sindacati operai. Cento anni di lotta e di sviluppo hanno fatto passare la grande industria da individualista, sul piano deiia libera concorrenza, a sociaie, sul piano delle imprese e delle grandi coalizioni; e hanno fatto passare l'ope- raio, dall'individualistico contratto di sfruttamento, al movi- mento sindacale collettivo.

Sotto questa immensa spinta, gli stati nel loro complesso politico non possono restare chiusi nel regime modesto e inti- mo dei vecchi stati nazionali; sentono più vivi e più prementi i contatti internazionali e più forti le interferenze economiche e politiche. La struttura economica dell'industrialismo e del sin- dacalismo penetra lo stato e ne tenta la trasformazione per ot- tenerne il predominio. Le altre forze sociali, l'agricoltura, il ceto medio, il professionalismo, l'artigianato, cercano di evitare le spire del colosso che si avanza e gridano contro i dazi pro- tettori, contro gli alti consumi, contro i privilegi tributari, con- tro i monopoli economici e morali. Questo è un nuovo aspetto della lotta sociale; nella quale socialisti e comunisti, quando in- eistono sui loro vecchi teoremi, diventano anacronistici, e solo rappresentano. una delle forze in contrasto, là dove hanno mo- nopolizzato gran parte dei sindacati operai; sul quale terreno

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solo i cristiano-sociali o cattolico-sociali hanno saputo contende- re loro un predominio sempre crescente.

Chi volesse ora negare la spinta e la evoluzione politico- sociale verso altra struttura, non solo dello stato ma degli stati, sarebbe cieco, quanto lo erano i nobili attorno a Luigi XVI, quando non comprendevano che gli stati generali esprimevano una evoluzione in atto e non erano gli agitatori a crearla seni- plicemente come frutto della loro volontà o delle loro ideologie. Costoro rappresentavano stati d'animo maturati attraverso lun- ghi periodi di compressione e di disordine, di guerre e di dis- sesti; ma la allora nascente grande industria e lo sviluppo dei commerci esigevano la caduta dei privilegi di classe, delle bar- riere doganali interne, delle limitazioni vincolative della pro- prietà, delle manomorte, delle feudalità, delle corporazioni. E queste eigenze si estendevano al di là dei confini francesi per il nuovo tipo di struttura economica e politica, che veniva in- staurato, in rispondenza alla nuova vita che pulsava. Chi si op- pose, presto o tardi ne subì il danno anche al di là di ogni previsione.

Ho detto degli stati e non dello stato, perché le interfe- renze e le interdipendenze statali vanno sempre ad aumentare e mai a diminuire.

La Società delle nazioni e l'ufficio internazionale del lavoro potevano sembrare, a spiriti superficiali, dei posticci, delle su- perfetazioni, delle ideologie di teorici. Non mi riferisco, s'in- tende, a questa o ad altra forma concreta di organizzazione, ma allo spirito per cui è sorta e agli scopi per i quali si va sempre più affermando.

Le grandi agglomerazioni federative o interstatali, quale gli Stati Uniti d'America e l'Impero Britannico (e chissà, domani, il Sud America), rispondono nel loro immane sviluppo e nel grande accumulo di ricchezze alla tendenza dei grandi trusts economici, e delle grandi internazionali del lavoro. I confini de- gli stati non sono una barriera, segnano solo una divisione di quel che costituisce le unità di una più grande famiglia sempre in sviluppo. La Società delle nazioni potrà rappresentare una nuova solidarietà umana, nel contrasto dei grandi interessi dei popoli; certo va divenendo sempre più una camera di compen-

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sazione di molti, se non di tutti, gli egoismi e di tutte le que- stioni che travagliano il mondo; di sicuro è il germe di un nuo- vo nucleo di aggmppamenti di interessi e di forze. Non vi sa- ranno più guerre? Non è detto: ma se il protocollo di Ginevra è caduto, lo spirito che lo animava ha grande base nell'aspira- zione comune alla pace.

Ebbene, di fronte al grande quadro della vita di oggi torna assillante la domanda: - Questa notevole evoluzione sociale, questa possibile struttura economica in sviluppo, questo nuovo orientamento dei popoli civili, questo tentativo di solidarietà.in- ternazionale, che racchiudono gli elementi di una futura palin- genesi, accelerata dagli sconvolgimenti della guerra e del dopo guerra, comportano, anzi esigono, regime politico di libertà, o tendono verso le autocrazie e le reazioni?

Ecco il problema! Chi spassionatamente considera gli ele- menti del problema, e anzitutto il giuoco delle grandi forze mo- rali ed economiche, non può concepire una ~oli t ica antitetica, sia come sintesi collettiva, sia come espressione sociale.

NeU'aesu!iiL&iììo, nc! p u ~ r = & s ~ ~ ~ , nel-la reazione era la for- za agrario-feudale che predominava; le altre forze erano nascenti o non esistevano. Oggi, quale forza può dominare da sola? Il tentativo di far dominare solamente il lavoro, porta al sovietismo russo: cioè, a una grande industria che non è indu-ria, a un commercio che non è commercio. Finché la Russia non supera questa concezione particolarista'e unilaterale, resta fuori dal ciclo delle nazioni d'occidente e dallo sviluppo della nostra ci- viltà.

Può I'agricoltura da sola instaurare un suo regime e for- marsi una sua compagine politica? e chi può mai pensar ciò se non in sogno?

Sarà allora la sola grande industria a prendere il dominio del mondo? Vi tende, di certo, per la sua immensa costruzione di fone, ma creano ostacoli al suo monopolio tanto le grandi organizzazioni operaie sindacali, quanto gl'interessi degli altri ceti estranei, che sono nel fatto la maggioranza della popolazio- ne in ogni stato, anche il più industrializzato. E fra le stesse industrie ci sono interessi antitetici insopprimibili.

Non resta che la politica 'dell'equilibrio di tutte le fone so-

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ciali. Ma questa è la politica della libertà; come potrebbero al- trimenti le grandi forze giocare fra loro ed equilibrarsi?

B strano: il problema così posto - libertà o reazione - è agitato più nei paesi poveri e tormentati dalle crisi, che negli altri, dove si maturano le nuove sorti umane. Il mondo anglo- americano dopo Ia guerra ha quasi il monopolio della ricchezza e dell'attività dei paesi civili; esso è basato sul regime di li- bertà, e però, con vari adattamenti alla propria indole, si man- tiene in tutto vigore e sviluppo. Questo mondo anglo-americano predomina e sembra che abbia una grande missione di civiltà, come un tempo l'ebbe il mondo latino. Gli altri popoli, che hanno una personalità storica, sono anche essi in grande mag- gioranza per la libertà, perché ne sentono la necessità per la loro stessa esistenza

Di fronte a questo immenso movimento dei due mondi ci- vili, gli sforzi di certi uomini del nostro Mediterraneo, di fog- giarsi una politica anti-storica fatta di reazione cieca e di na- zionalismo decadente, mi ricordano i versi del Giusti:

Né il Rogrcntin di Modena. vi manca, . . . . . . . . . . . . . Che,

Roghi e mannaie macchinando, vuole, Con derise polemiche indigeste, Sguaiato Giosuè di Casa d'Este,

Fermare il sole.

18. - Ma non è possibile fermare il sole, e non sarà fer- mato neppure in Italia. Questo sentono, io credo, gli stessi fa- scisti più intelligenti e meno partigiani; ma la passione politica, I'asperità della lotta, le difficoltà di tener un potere senza base morale e giuridica, li fa tenaci nel metodo scelto di compres- sione e di oppressione. Recentemente 1'011. Federzoni, per giu- stificare la reazione che imperversa, si è appigliato all'infelice frase dello stato di necessità. Anche Bethmann Hollweg, quando i tedeschi aggredirono il Belgio, vittima della violazione di un diritto internazionale, si appellò d a necessità che non ha legge. Se la libertà e il diritto sono violabili sotto il pretesto della ne-

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eessità, non esistono più: l'arbitrio diventa legge, la forza sop- pianta la libertà.

Per noi, l'attuale battaglia per la libertà è come un secondo Risorgimento: ha le sue fasi e le sue difficoltà, e avrà il suo .epilogo; non sappiamo quando né come, ma abbiamo fede che lo avrà: non può mancare, e l'epilogo sarà la riconquista della libertà.

Gli italiani, nel primo Risorgimento, più che la grande battaglia per la libertà, sentirono potente quella per l'unità e quella per l'indipendenza: la libertà fu concomitante necessaria a raggiungere quelle grandi aspirazioni nazionali. Fu voluta, e -non sempre efficacemente, da una élite della classe borghese e professionista.

I termini che diedero la spinta, erano l'abolizione delle frontiere fra le varie parti d'Italia, preludiata dal tentativo del- l'unione doganale, 'l'unità di moneta e di misure, l'abolizione della manomorta per un maggiore sviluppo della proprietà non vincolata. Spinta economica che si legava alle rappresentanze e alle libertà politiche, che ana classe limitata e censita conqui- stava quasi esclusivamente per sé. La libertà, come educazione .di masse, come spirito di istituzioni, non fu sentita che da pochi; il conservatorismo di destra la rivendicò contro la chiesa, come fanno oggi i laicisti in Francia; ma la monopolizzò in confronto ad ogni altra attività nazionale. Eevoluzione della massa verso 'la libertà non è stata completa né uguale in tutto il paese.

Ma oggi che un governo di fazione ci priva perfino delle .garanzie esterne e legali dell'esercizio dei diritti politici, e ar- ,riva a lasciare impunite le violazioni contro le libertà civili fondamentali. degli individui, si sente tutta l'efficacia del bene perduto e mai completamente posseduto; se ne rivive la sintesi vitale nella coscienza del popolo; e si svolgono gli animi alla riconquista completa della libertà: e questo io chiamo, non con parola enfatica, ma con visione storica: il nostro secondo Ri- sorgimento!

Per fortuna delllItalia, in questo largo movimento, princi- palmente morale, nel quale sono uniti tanti partiti diversi per concezioni teoriche e per metodi pratici, non sono sorti contrasti 'con l a chiesa cattolica, come oggi sciaguratamente avviene in

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Francia e come awenne da noi nel primo Risorgimento. Allora, ragioni teoriche affermate contro o con la chiesa e ragioni po- litiche internazionali fecero deviare il movimento che si era ini- ziato al grido di: Viva Pio ZX!

Oggi la chiesa si è elevata talmente al disopra della poli- tica, non solo nelle sue condizioni esterne, ma, che è più, nella coscienza degli italiani, che la battaglia attuale si può combat- tere hinc et inde dalle due parti in lotta, restando la chiesa al di fuori, nel suo alto magistero e nel suo perenne influsso mo- rale. E i tentativi dei fascisti e dei filofascisti, di accomunare la loro causa con quella della chiesa, sono ben elusi dalla franca posizione dei popolari, per la libertà e la democrazia, vigili

. anche a denunziare ogni indebito sfruttamento. Una cosa dobbiamo desiderare e volere, e i cattolici come

tali debbono promuovere con ogni sforzo, che gli insegnamenti religiosi sui rapporti tra libertà e autorità, che la valutazione dei fini superni dell'iiomo ai quali vanno coordinati quelli pu- ramente terreni, che l'insegnamento evangelico dell'amore di Dio e del prossimo, base di vita sociale, penetrino nello spirito degl'istituti politici e vivifichino lo sviliippo della nostra civiltà, che è sostanzialmente, nonostante le deviazioni, civiltà cristia- na. Se la libertà, conquistata dagli uomini nelle forme e con lo spirito degli ultimi secoli, non si ispirerà alla essenza del cristianesimo, che rivendicò esso solo nella storia la personalità umana, base di vera libertà; se la libertà non si impregna di vera religiosità, purtroppo vien meno nella sua stessa essenza, come spesso è awenuto, lasciando il posto all'egoismo delle oli- garchie o all'anarchismo delle masse.

Io auguro alla mia patria che coloro i quali oggi esercitano il potere arrivino a convincersi, che un paese moderno non può vivere né prosperare senza la libertà; e che quindi sappiano rinunziare a un monopolio di potere, che non può non riuscire dannoso, anche se apparentemente può sembrare utile.

Ma se questo augurio è disperso dal vento della reazione, io penso che l'ardua prova potrà riuscire vantaggiosa, se le op- posizioni, rinunziando come hanno fatto a qualsiasi azione di- retta, sapranno nell'angustia della lotta conquistare lo spirito di libertà per sé e per gli altri; affiché domani non venga un

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monopolio sostituito con un altro monopolio, una dittatura con un'altra; se le opposizioni sapranno destare nel paese la fiducia che la libertà che s'invoca non sarà disuguaglianza di legge, non sarà arbitrio, non sarà licenza, non sarà sovrapposizione di clas- se, non sarà disordine. Così potrà essere compiuta la riconquista morale della libertà insieme con la sua riconquista politica.

Se tarda questa riconquista a realizzarsi, il nostro cuore ne soffrirà ma la nostra speranza non verrà mai meno.

La storia dei popoli non si scrive in un momento; ma è fatta di grandi sacrifici, di grandi attese, e di grandi lotte.

Oggi, che nell'Europa, e non solo in Italia, è stata ripigliata per diverse ragioni e sotto diversi nomi, principalmente sul ter- reno politico, la lotta pro o contro la libertà, noi scriviamo una pagina di vita, se riaffermiamo, nei momenti delle maggiori di- sdette, la nostra fede per la Libertà.

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Questo libro è in vendita presso la sede del Comitato Esecutivo delle Onoranze

a Luigi Sturzo

ROMA via delle Botteghe Oscure, 46

Novembre 1951

ISTITUTO GRAFICO TIBERINCF

Roma - via Gaeta, 14

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