surreale sicula

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Surreale Sicula Potabile - Anno 7! - n° √π - Dicembre 2012 Inserto Reading

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RACCONTI FINALISTI DEL CONCORSO SURREALE SICULA

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Page 1: SURREALE SICULA

SurrealeSiculaP o t a b i l e - A n n o 7 ! - n ° √ π - D i c e m b r e 2 0 1 2

I n s e r t o R e a d i n g

Page 2: SURREALE SICULA

Direttore Mauro Mondello

CaporedattoreGiuseppe Cassone

Redazione

Antonino Giorgianni Isidora Scaglione

Rita Lorena Paone Santo Gringeri

Igor Cosimo Mento Cettina Casella

Giuseppe CassoneEmanuela Sciarrone

Tonino Cannuni

Progetto Grafico Nunzio Gringeri

Paolo Pino Daniele D’Agostino

Editore e StampaAss. Centopassi ArciVia XXI Ottobre 419

98040 Torregrotta (Me)

Stampa flyeralarm SrL

Viale Druso 265, 39100 Bolzano

Contatti facebook: settentrionale siculawww.youtube.com/user/SettentrionaleSicula

[email protected] http://settentrionalesicula.blogspot.com

infoline: 340 72 09 610

“Registrazione n. 11 del 05/12/2011 presso il Tribunale di Messina”.

A . A . A . C E R C A S I S P O N S O Rco l l a b o ra to r i , i nv i at i , g i o r n a l i s t i , gra f i c i , fo to gra f i , p e r i l p ro g e t to

SettentrionaleSicula

È partita la campagna tesseramenti ARCI per l’anno 2013.

Chi fosse interessato e volesse avere maggiori informazioni:

[email protected]. 340 7209610

Page 3: SURREALE SICULA

Inser to Reading “Mi innamoro di un sasso, c’è una bolla verde che mi insegue. Il giaciglio mi inghiotte, forse sono alto 10 metri.”

“Psichedelia” - Elio e Le Storie Tese

L’editoriale

Direttore Mauro Mondello

CaporedattoreGiuseppe Cassone

Redazione

Antonino Giorgianni Isidora Scaglione

Rita Lorena Paone Santo Gringeri

Igor Cosimo Mento Cettina Casella

Giuseppe CassoneEmanuela Sciarrone

Tonino Cannuni

Progetto Grafico Nunzio Gringeri

Paolo Pino Daniele D’Agostino

Editore e StampaAss. Centopassi ArciVia XXI Ottobre 419

98040 Torregrotta (Me)

Stampa flyeralarm SrL

Viale Druso 265, 39100 Bolzano

Contatti facebook: settentrionale siculawww.youtube.com/user/SettentrionaleSicula

[email protected] http://settentrionalesicula.blogspot.com

infoline: 340 72 09 610

“Registrazione n. 11 del 05/12/2011 presso il Tribunale di Messina”.

Miguel de Cervantes Saavedra fu ricoverato a Messina dopo la battaglia di Lepanto, qui vi fu l’inizio del cavaliere surreale, qui nacquero i mulini a vento, qui nacque la visione di un uomo.Capire dove l’indifferenza di Dio (atei inclusi) coinci-da con quella che è la fantasia dello scrittore, questo è il progetto del concorso, oltre ad un nostro deside-rio lancinante ed ossessivo di rendere protagonista la nostra terra, che d’illustri pensatori è figlia e madre.Il progetto ha accolto racconti provenienti da ogni luogo, religione, stirpe, gruppo sanguigno, camera da letto, cesso, universo parallelo e perpendicolare; li abbiamo letti tutti, oltre 80 racconti provenienti dal mondo intiero e li abbiamo giudicati in modo matematicamente coerente, ma, non es-sendo dei computer (ahimè o per fortuna!), abbiamo agito in una selezione comparata dei migliori punteggi pesan-doli in modo assolutamente freddo ed imparziale tenen-do sempre a mente che l’oggetto principale del concorso è la surrealtà naturale e pura, senza costruzioni forzate.Il surreale in sé è il vero protagonista di questa edizione, il mondo capovolto, o meglio, il mondo in ogni direzione: la virgola che d’un tratto diventa un clitoride, il fiore che ti sputa in faccia, i bambini che sequestrano gli zingari, gli arcobaleni che nascono dalle bocche dei defunti, arro-tini senza bombole a gas, finti aerei che si schiantano sui grattacieli (perché quest’ultimo non mi sembra surreale?).Ecco, ci siamo ricordati anche di Cervantes, il proscenio dell’al-lucinazione più fine. Noi, governatori di un’isola reale e irreale, più di quella promessa a Sancho Panza, ricordiamo noi stessi.Non vi nego che alcuni racconti mi hanno convinto che l’arte non è per tutti. Il giglio ombroso che nasce dal lai-dume è annaffiato da pochi, poiché scrittura e poesia sono esclusiva epifania dei santi impazziti che ricordano all’uomo di cosa è capace. Più leggi e più la povertà di-venta ricchezza e noi vogliamo benessere per tutti. A voi la conoscenza, la più dolce, poiché le zanzare fanno l’or-gia soltanto attorno a chi indossa diamanti sporchi di sangue, mentre la cultura è linda per sua stessa natura.Che vi piaccia o no: iniziate a perdere tempo, uscite le spade, il voto moderato non esiste, “restate umani”, leggete e incazza-tevi. “Il pesce è annegato” diceva Tommi; ecco, non siate pesci.

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Vincitore Assoluto - Cat. under 30

Tu, biancodi Anastasia Makryashina

Vuoi che rimanga con te?___________________________Una stanza bianca, tutta bianca, due metri quadrati, il soffitto molto alto, altissimo, come se la stanza si radrizzasse da un lato, come se l’ampiezza fosse l’altezza. Il parallelepipedo di gesso, vuoto, senza finestre, senza il lampadario a meta’ del soffitto, che se ci fosse sarebbe come un coltello ficcato nel formaggio; il parallelepipedo senza mobili e senza storia. Libera nella sua irregolarita’, quasi imponderabile, una stanza della vacuita’. Il contrario del moto perpetuo. Perfino i pensieri si gelano in questo spazio privo della temperatura e del tempo. Sul pavimento sono sparsi dei quadri. Oltrepasso la soglia, e pesto una faccia deturpata dall’angoscia, un altro passo e pesto la mano femminile di porcellana, posso quasi sentire rompersi le dita, faccio un passo indietro e i miei piedi affondano nel surrealismo cubico. Sulle mura ci sono gli altri quadri. Cercando di raggiungere con la mano l’interruttore fuori dalla stanza e’ come se emergessi per un attimo da sottacqua. Trovato l’interruttore accendo 4 piccole lampadine - una in ogni angolo della stanza sul pavimento – e mi tuffo in quella bianca massa densa. Eccole, queste immagini. Ora si puo’ guardare attentamente. Avendo paura di fare un passo, mi guardo intorno. Sembra che le immagini avvolgano il mio corpo come tentacoli, stringendo la camera e me al buco nero, fino al punto di densità assoluta, capace di mangiare tutti noi, ognuno di noi e tutti insieme, cosi’ che nessuno ci avrebbe ritrovato mai. Da sinistra uno sguardo scuro palpa la mia faccia. L’immagine sulla parete opposta si scioglie, lasciando al bianco aloni grigi. La camera assorbe, succhia, la sala si alimenta del mondo, dei movimenti e dei pensieri. Appoggiata al muro, alzo la testa. C’e una pittura anche sul soffitto. Allontano queste immagini da me e mi siedo. La pittura sul soffitto mi schiaccia, ha dipinto la terra friabile nera. Ha dei colori ad olio in bianco e nero, con macchie quasi trasparenti di color rosa e verde, con piccole barre colorate. Ci vuole circa un quarto del soffitto, proprio nel mezzo, ma i suoi lati sono leggermente storti rispetto ai bordi di quella piccola stanza, inizio a sentire le vertigini. La sensazione è la stessa, come il ronzio delle luci al neon - non te ne accorgi in un primo momento, e poi inizi ad impazzire.

Quasi senza pensarci, sto seduta in questa stanza, e l’ultima cosa che sento e’ come poco a poco questo mondo pazzo mi assorbe. Questo è il mio posto, un luogo progettato solo per me. Non

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voglio andare via. Non riesco a muovermi per tre giorni. Temo l’immagine sul soffitto, accarezzo la mano di porcellana ormai rotta, mi dispiace tanto per lei, non volevo farle del male, sto cercando di convincere questa faccia ansiosa di fare un piccolo sorriso. Ma in questa stanza, tutto è così coerente, così calmo. Sono diventata una parte di essa, io non rubo ulterior spazio. La camera e’ come l’acqua, è aumentata per un volume pari al mio, seduta lì, appoggiata, incollata al muro. Io quasi non riesco a vedere niente perché le luci mi abbagliano. Non ho chiuso gli occhi in tutti questi tre giorni: la terra viva, fertile sul soffitto mi spaventa, devo stare in allerta. Non voglio andare via da qui, mi sento bene qui, e’ caldo e tranquillo, non sono piu preoccupata per il suono, non sono preoccupata per il colore e per il costante movimento, silenzio… silenzio…silenzio... Mi sembra già che la mia paura, il panico e il mio benessere sono diventati una cosa sola, un sentimento, o forse un nodo all’interno della stanza, un grumo nel cibo, che è un po ‘più difficile da digerire, sono già inseparabili, sono quasi inesistenti, così mi sono abituata a loro. Mi sembra che se qualcuno ora vuole trovare la forza di farmi uscire da qui, sarei morta dissanguata - mi avrebbero spogliato tutta la pelle per tirarmi fuori dal muro.

Ma nessuno sta cercando di portarmi via da qui. A volte guardano, sorridono misteriosamente e chiedono: “lo senti?” - e poi scompaiono. Stranamente, non possono sapere nulla di quello che sento, anche adesso non sento quasi niente, solo la terra che sta cominciando a sgretolarsi dal soffitto. Ha gia coperto tre centimetri di pavimento, cade sopra la mia testa, ma io non presto attenzione a questo - la mia paura e la mia tranquilita’ sono così grandi e così insignificanti allo stesso tempo che assorbono tutta la mia attenzione. Arrivano sempre meno persone, mi guardano piu tristi e misteriosi di prima, ma io non li vedo piu’, forse non esistono affatto. Dopo tutto, la camera non ha vie di uscita, forse la gente è solo nella mia fantasia arrugginita, forse .... Silenzio, silenzio, silenzio… solo grumi di terra che cadono dal soffitto. E fruscio.

- No, no, NO, NO, NO! Non mi toccate, non riesco a respirare, terra, terra, ho paura... paura, paura .... No, non mi toccate ... avete distrutto tutto .... Avete rotto l’aria, perché ... perché ... perché ... non potete, voi calpestate la mia terra, lasciate le tracce dei vostri stivali sporchi… I vostri visi terribili… I visi ... non sono di qua, non sono dipinti, sono vivi ... mutano… mutano… sono vivi. No, non mi toccate. Le mie spalle, vedete come sanguino ... Fa male, fa male ... il dolore .... Non riuscite a vedere che la terra è diventata tutta rossa? Tutti i muri sono imbrattati di schizzi di sangue e tutto e’ distrutto: suoni, luci, colori, aria ... Non mi toccate!Io non esco, non andrò via, lasciatemi in pace, lasciatemi qui, se vado via morirò...

- Ciao. Hai sentito di quella strana ragazza nella stanza numero cinque... Ha paura del colore rosso, e dice di non avere piu le spalle... Ha davvero le spalle tutte graffiate. Cosa le e’ successo? Oggi di nuovo tossisce terra. Sono andato e l’ho vista seduta in un angolo che accarezzava il muro, parla col muro e gli sussurra qualcosa. Poi l’ho ascoltata attentamente, e lei diceva “bianco, bianco,

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L’autrice si raccontaNon sono (purtroppo) una scrittrice vera; neanche sono un'artista, anche se vorrei esserlo. Ho cominciato a scrivere a 17 anni. Avevo scritto dei racconti brevi e poi, per tre anni, ho lavorato come giornalista per un giornale russo online occupandomi dei problemi sociali. Dopodiche' mi sono convinta che il giornalismo in Russia non esiste, oppure e' troppo pericoloso, quindi mi sono licenziata e poi nel tempo ho anche smesso di scrivere.

Tuttavia, ogni tanto mi viene voglia di ricominciare e riprendere in mano la penna, perchè scrive-re cose buone è la cosa piu' bella del mondo. Forse per questo ho deciso di partecipare a questo concorso... Poi le cose surreali, o meglio assurde, mi piacciono un sacco. Direi che l'assurdo fa parte della tradizione letteraria russa, perchè storicamente noi russi abbiamo sempre vissuto nell'assurdità.

bianco ...”. Guardavo il suo letto tutto coperto di macchie nere, l’ho esaminato da vicino e ho capito che quello era veramente terra. Humus. Se avessi una casa in compagna, metterei questo nel mio orto.

- bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco,....

Silenzio. Si sente solo il suono dei nuovi fiori che crescono velocemente con un fruscio e sussurrio.

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Vincitore Cat. over 30

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Happy endI condannati a morte erano quattro, ognuno seduto sulla propria sedia elettrica, attorno ad un tavolo quadrato di cristallo nero riflettente. Io ero uno di loro.Mentre andava la sigla, guardai in faccia i miei compagni e lessi sui loro volti la muta domanda che mi attanagliava da ore: “Perché proprio io?”. Certo non avevo mai nascosto la mia avversione per il premier, certo facevo parte di un club di scrittori sovversivi, certo mi ero sempre rifiutato di cantare l’inno di Mameli ogni giorno come prescriveva il regolamento… ma la morte cazzo, LA MORTE! Mi sembrava davvero una punizione eccessiva.

Aprendo una parentesi, da quando la pena di morte era stata reintrodotta in Italia, veniva grassamente dileggiato chi si mostrava così “antico” da chiamarla col suo nome. Adesso era per tutti graziosamente “Happy end”, veniva eseguita in diretta TV, animava talk show e dibattiti e faceva il 300% di share.

Nonostante la pillola esilarante che ci avevano somministrato prima di entrare in studio, il cuore batteva all’impazzata e il terrore riusciva a farsi strada dietro i nostri sorrisi stirati. Una checca sgargiante e compassionevole sculettò leggera a tergerci il sudore e a sistemarci i capelli, mentre l’algido regista faceva portare qualche pianta di crisantemi a ravvivare il set. Due telecamere si accesero in sinc ed il pubblico, costituito per lo più da famigliole fameliche, esalò il primo timido applauso. Qualcuno aveva posato davanti a me il riso-e-latte della nonna che avevo chiesto come ultimo desiderio e dovevo solo aspettare il ciack per prendere in mano il cucchiaio e affondarlo in quel biancore che mi ballava davanti, dietro un sipario di lacrime.Perché cazzo stavo piangendo? Non potevo invece ribellarmi, urlare tutto il mio disgusto per quella macabra messinscena, fare una piazzata memorabile e andarmene sbattendo la porta? Già, ma era esattamente quello che tutti si aspettavano per aumentare gli ascolti! Se mi fossi dato la briga di girare intorno lo sguardo, avrei notato fior di poliziotti e militari acquattati contro le pareti e pronti ad intervenire. Senza contare che, in caso d’insubordinazione grave la pena di morte, pardon l’”Happy end” si sarebbe tramandata al più vicino dei miei parenti.

“Pronti?…. Azione!”. Ronzano le telecamere e ronza il fine presentatore nel suo solenne saluto ai telespettatori. Ingollo senza alzare il capo il mio riso-e-latte, lascio che un’accorata velina miasciughi la bocca con un tovagliolo di seta e mi appresto a soffiare le ultime parole della mia vita

di Verdiana Maggiorelli (letto da Francesca Piccolo, foto a destra)

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terrena dentro un microfono a palla che il fine presentatore tiene davanti alle mie labbra.Lo guardo, scuoto la testa, vorrei dire “Brutti porci bastardi…” e invece chiedo “Perché, perché, perché?” dentro un fiotto di lacrime e singhiozzi che mi fanno accasciare sul tavolo, con la testa tra le mani. Ma la telecamera è già passata al secondo condannato e sento la sua voce roboare commossa: “Viva la libertà, viva l’amore, viva il coraggio di morire. Qui, ora, per tutti voi!”. (Perché non ci ho pensato io? Senti che applausi!) Un militare palestrato passa a stringere grosse cinghie di cuoio attorno ai nostri corpi e in contemporanea parte il Dies irae di Mozart. Tra il pubblico qualcuno tossisce, qualcuno singhiozza, una bambina emette un gridolino di eccitazione.Mi appendo alla musica come ad un salvagente e per un attimo mi sento Braveheart immolato per la salvezza del suo popolo. Ma le mie mani tremano vigliaccamente.Ad un gesto del fine presentatore, un altro militare prestante abbassa una grossa leva e… arriva la scarica. La sento percorrere ogni vena, sfrigolare in ogni cavità, scoppiare incandescente in ogni cellula. Il corpo intero sussulta impazzito sulla sedia, mani e piedi irrigiditi in uno spasmo, i capelli bruciacchiati esalano odor d’inferno. Urlo con tutto il fiato che ho in gola e percepisco la telecamera zoomare sulle mie tonsille.I miei compagni, invece, non fanno una piega. Dopo qualche salto sulle rispettive sedie giacciono nella tranquilla immobilità della morte, il capo reclinato sul petto.Solo io sono vivo!“Bastaaaaaaa, finitemi sporchi…“ una serie di bip copre le mie disperate ingiurie.

“Sono gli inconvenienti della diretta – si scusa con il pubblico il fine presentatore, mentre i tecnici si muovono come formiche a verificare l’impianto.L’operazione si ripete e questa volta la scarica è talmente potente che lancia in aria la mia sedia elettrica ed io ricado, strettamente avvinghiato a lei, con la guancia sul pavimento. Sono tutto una piaga, ma ancora vivo.“Fa male?” flauta la vocina di una bimba a pochi centimetri dalla mia testa: si trascina dietro un orrido orsetto di peluche, che posa con grazia accanto al mio corpo martoriato. Non rispondo, certamente è stata mandata dalla produzione per rendere più spettacolare la mia agonia.“Perché non chiami la tua mamma?” continua il piccolo mostro. Questa, invece, mi sembra un’ottima idea. “Madre”, sussurro guardando in alto. E all’improvviso mi accorgo che sopra la mia testa non c’è più il soffitto, ma un cielo aperto accecante di luce. “Madre!” ripeto in un’estasi di sorriso…Lentamente incomincio a salire, pervaso d’una frescura mai provata, ebbro di gioia, abbandonando sul pavimento lercio il mio corpo bruciacchiato.Sono qualcosa che somiglia vagamente ad un lenzuolo sottile, che si srotola velocemente nell’aria per poi distendersi in orizzontale, lasciando tutte le sue pieghe. E una volta disteso, un’energia

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L’autrice Verdiana Maggiorelli, nata a Domodossola, milanese d’adozione, vive sulle colline piacentine dove coltiva le sue passioni: scrittura, teatro, psicologia, filosofie orientali.Ha lavorato come redattrice alla Fratelli Fabbri Editori, come giornalista free-lance e come copywriter alla Young & Rubicam e nelle più importanti agenzie pubblicitarie internazionali. Come copywriter ha vinto 11 premi per altrettanti spot pubblicitari. Come giornalista ha partecipato al Social Forum di Firenze del 2002 ed ha scritto molti articoli di “costume” su riviste specializzate. Nel ’99 ha fondato a Milano la Zenzero, agenzia di pubblicità e comunicazione.Dal 2006 scrive poesie e racconti, ha vinto qualche premio letterario e pubblica su antologie e riviste del settore.

misteriosa tira di corsa i quattro angoli, assottigliandomi sempre di più, finché ogni parvenza di forma dissolve.

Allora è questa la morte! Un levarsi dal corpo ed espandersi all’infinito, fino a diventare particelle infinitesimali che si fondono con quelle dell’aria, della terra, degli alberi, dei fiumi, delle montagne, dell’universo. Forse in ognuna brilla un barlume di coscienza. Forse qualcuna parteciperà ad un coito e nascerà un nuovo essere umano. Forse quell’energia misteriosa, che certamente non è fuori, ma dentro ad ogni particella, quell’energia che dà forma e anima ogni cosa… forse quella è dio. E sono io. E’ davvero un “Happy end”: non avevano sbagliato di molto laggiù, nella loro inconsapevole ottusità. Ma della vita dopo la morte non si parla in TV, non interessa a nessuno. Ora infatti stanno intervistando i parenti dei condannati, zoomando sulle lacrime, gli abbracci, le parole di cordoglio. Parteciperanno tutti al prossimo talk-show, rilasceranno autografi, diventeranno star per un giorno. La spettacolarizzazione del dolore fa sempre buone percentuali di share.

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IQCamminava a testa alta, uno squarcio profondo mezzo mignolo sul petto nudo, sembrava una nuova bandiera turca. Da un tetto una ragazza lanciava monete da 100 lire tagliate a metà grazie a uno stelo di rosa. L’uomo aveva lasciato dietro il suo incedere una densa scia di sangue che, miscelandosi con l’asfalto di Via De Loix, sembrava quasi parte della segnaletica orizzontale. Teneva la camicia stretta nella mano destra e il piccolo coltello ancora aperto nell’altra, così avanzava. Erano le sette e sette della settima sera, pochi passanti ma molte macchine in compenso. Un ragazzo dal viso giudeo venendogli incontro gli urlò in faccia qualcosa d’incomprensibile in una lingua non sua, appuntandogli sul capezzolo già lacerato dal taglio una spilla a forma di cuore con l’effigie di un sorridente Hitler. Non aveva i baffetti il ragazzo giudeo. Il capezzolo nazionalsocialista pulsava rinnovando il vecchio sangue ormai rappreso sul ventre capitalista. Dell’altro capezzolo non c’erano più segni tranne un piccolo lembo di pelle più scuro lasciato pendere come un amo. Avvicinandosi alla vetrina di un negozio d’animali, l’uomo attirò l’attenzione dei mici che giocavano con le strisce di giornali e quattro palle di gomma. Ogni palla aveva inciso un nome a caratteri rimborsabili: Ringo – John – Gorge – Paul. Iniziò a battere sul vetro, lasciando piccole impronte digitali rossicce. Dopo qualche secondo passato a ticchettare sulvetro sempre più insistentemente, avvolse il coltello nella camicia e gettò in sospensione ilmalloppo in un cestino porta rifiuti. “Il Taglio estivo è un buco in un mano”, ammoniva una delle strisce di carta in bocca al gattino nero. Uno degli altri mici, il più coraggioso, lasciò il gruppetto e si spiaccicò contro la vetrina, aveva dei bellissimi occhietti azzurri e centotrentasei motivi per fare ciò. Il nostro uomo entrò nel negozio.

- Quanto costa un gattino?- Dipende… - donna, trentacinque anni, bella e invadente.- Quello con gli occhi azzurri e la pallina Ringo?- Tutti hanno gli occhi azzurri appena nati. Quale pallina?- Ma avranno già un paio di mesi?!- I mici in vetrina sono nati domani.- Capisco…- Hanno già tutti i vaccini e costano veramente poco. Non sono deliziosi?- Quanto poco?- Merda schifosa!- E io che sanguino!?- Stanno andando a ruba, signore. Visto che oggi sono di ottimo umore gliene voglio regalare uno.- Ma veramente io non ho soldi con me, la pallina Ringo invece…

di Kokino Pezzimmedda

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- Mi faccia vedere la rotula del suo ginocchio destro.- Ho solo quello sinistro.- Prenda il suo fottuto gatto e si tolga dai coglioni prima che resusciti mia madre!

Felice come il gattino, uscì veloce con in mano il gattino, stringendo per la gola il gattino, gattino, gattino gattino; gli altri mici erano tutti contro il vetro, rivolti verso la strada. Il suo aveva il pelo liscio e morbidissimo, gli occhi azzurri e un brevetto da pilota.

- Gattino, gattino mio dagli occhietti grandi grandi. Niente pallina Ringo.

All’incrocio con il Vicolo Torino sostava un’altra signora, anziana e con fare sospetto. La strangolò facendole scendere giù per la gola il suo micio dal gradevole pelo, ma prima di abbandonarglielo dentro l’esofago staccò alla bestia gli occhi con le dita. Adesso aveva in mano i due fantastici occhietti azzurri, poteva sì inoltrarsi nel vicolo già scuro. A destra e a sinistra c’erano delle saracinesche abbassate, alcune carcasse d’automobili, una strana macchina meccanica arrugginita e tre pozzanghere. Mentre masticava la sua stessa lingua per non cedere alla tentazione di urlare quanto appena fatto, l’uomo si chinò sulla pozza d’acqua per sciacquarsi il petto ma inavvertitamente si lasciò uscire fuori un polmone rugoso e nero, che con un tonfo da circo cadde nell’acqua sporca. Ansimando, la lingua penzoloni e il sangue sul mento come un sadico Papà Natale, cercò un bastone o qualcosa per recuperare il suo polmone da quella lurida pozza, ma non trovando niente s’indirizzò verso il cadavere della vecchia. Tre giorni prima aveva sostenuto un test per conoscere il suo quoziente intellettivo. Dopo averla trascinata per una decina di metri all’interno del vicolo, grazie agli ingranaggi dentati della macchina arrugginita, riuscì a staccare facilmente la magra gamba osteoporotica dal corpo della nonnina morta. Tenendola dalla caviglia, industriatosi a mantenerla rigida colpendone ripetutamente l’articolazione, riuscì ad avvicinare il polmone ormai inzuppato d’acqua. Lo lasciò asciugare sul cofano di una vecchia R4 rossa, mentre maldestramente, ma con reale impegno, cercava di ricongiungere la gamba al corpo della vecchia, legandone nuovamente i tendini, i nervi e anche qualche filamento di pelle. La vecchia era viva, la vecchia era morta. All’improvviso sentì un tenue miagolio, debole ma chiarissimo; era il petto della vecchiaccia!, sì proprio lei… la stronza si era pappata il suo piccolo amico dal pelo liscio senza batter ciglio, come era stato possibile? Prima con calci, poi per evitare di ferire il gattino, con l’aiuto dei denti, ruppe e squarciò lo sterno della signora, infilò dentro una mano e cercò il suo micio. Non si sentiva più miagolare, ma all’altezza dello stomaco toccò qualcosa di morbido e spugnoso.Chiudendo dolcemente le dita della mano tirò fuori dalla gola il braccio lordo e, budella, cose mollicce e merda da colite mal curata, estrasse il suo gatto.

- Ma… ma… hai ancora i tuoi occhietti belli! Noooo…i tuoi furbi occhietti azzurri, micio mio,

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micino… micetto di merda, tu non sei il mio piccolo gattino, micio cattivo sei!

Scaraventandolo in fondo al vicolo con un calcio ben piazzato a centro pali, si rialzò.“Sono uno sciocco ad andare in giro con un quoziente intellettivo così!” - pensò l’uomo uscendo dal vicolo. La grande Piazza 20 Gennaio riposava e un albero si sforzava ancora di crescere.esta

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NovantaEsattamente alle 7:00 del mattino suona la sveglia, mi alzo, infilo le ciabatte e prendo la vestaglia piegata nel puff al lato del comodino, vicino la parte dove sono solito dormire. Vado in bagno. Il rituale è sempre lo stesso, dopo la doccia mi rado accuratamente la barba, applico il dopobarba e pettino i capelli. Indosso il vestito preparato la sera precedente è appeso al lato dello specchio lungo il corridoio che separa il bagno dalla camera da letto, senza fretta, annodo la cravatta. Osservo per un attimo la portadocumenti vicino l’ingresso ma, invece di prenderla e uscire, come ogni mattina, torno verso la camera da letto, senza entrare, controllo dall’uscio della porta.Lei è lì, ancora, saldamente, legata.Non avevo mai valutato l’idea di uccidere qualcuno ma, questa volta, ho adottato i seguenti metodi, secondo il seguente ordine:1. Accoltellamento;2. Soffocamento;3. Annegamento;4. Combustione;5. Smembramento;Anche il punto 5 ha fallito. I pezzi restano vivi e pulsanti. Valuto che l’idea di fare un porto d’armi, comprare una pistola e provare un ulteriore metodo n° 6 diventa assolutamente irrilevante a questo punto.Nelle settimane immediatamente successive alla cattura avevo notato che solo dormirci a fianco poteva impedire il suo rimpicciolimento e quindi, adottando questo metodo, seppur terribile, mi dava garanzia di trovarla ancora legata il giorno successivo. Uno degli aspetti peggiori di questo obbligo non è tanto il continuo sibilare, che rende difficile pensare e impossibile dormire, quanto il continuo getto di inchiostro nero che, nei momenti di maggior ansia sul da farsi, viene rilasciato in quantità ancora maggiore al normale. La connessione psichica mi stupisce ancora, anche se non dovrei, dato che Lei è mia. A seguito del metodo n°5 mi è venuta un’ultima idea per riuscire nel mio intento:6. Ingerimento.Lo smembramento mi ha fatto capire che Lei può essere divisa in 2 parti ovvero quelle visibili da fuori: testa e tentacoli. Visto l’intento di ingerirli, ho deciso che cuore e sacca dell’inchiostro verranno separate ugualmente per evitare possibili intossicazioni o overdose. Dati i rischi che sto andando a correre ho deciso di tenere un diario in cui ometterò di tratteggiare i suoi contorni e

di Olga Bavusotto

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i suoi confini, il dubbio che definirLa la farebbe sparire è troppo alto, ma non dubito che con un poco di attenzione si possa capire a cosa mi riferisco. Il fatto stesso però che chi leggerà possa fare delle supposizioni sulla questione non mi farà sentire completamente folle, spero.La prima parte che decido di mangiare sono i tentacoli, ricordano quelli dei polpi a parte il colore viola e il fatto che è dalle “ventose”che proviene quel suono fastidioso che mi paralizza. Ho un’ottima ricetta per loro.

INSALATA DI TENTACOLI PREZZEMOLATAIngredienti: 2 spicchi d’Aglio | 2 foglie di Alloro |1 Carota | 2 Chiodi di garofano | 800 gr. Tentacoli | 1 costola di Sedano.Per condire: 1 spicchio d’Aglio | il succo di ½ Limone | 4 cucchiai d’ Olio | Pepe nero macinato a piacere |1 bel ciuffo di Prezzemolo | Sale q.b.

Mettete sul fuoco una pentola con dell’acqua, le verdure mondate e intere (carota e sedano), l’alloro, il sale e i chiodi di garofano. Una volta puliti i tentacoli, non appena l’acqua bollirà, immergeteli. Coprite con un coperchio la pentola; lasciatelo cuocere per circa 30-35 minuti (circa 20 minuti per ogni 500 gr di tentacolo), e comunque verificatene la cottura prima di spegnere il fuoco. A cottura

avvenuta, togliete i tentacoli dalla pentola, e ponetelo su di un tagliere, dove li farete a pezzetti. Ponete i pezzetti in una ciotola e conditeli con olio, il succo di limone, il sale, il pepe, l’aglio schiacciato

e il prezzemolo tritato. Infine servite l’insalata di tentacoli prezzemolata guarnendo il piatto da portata con delle fettine di limone.

Dopo averLa mangiata, durante la digestione mi è venuto un gran sonno, non so se il motivo sia che queste notti non ho proprio chiuso occhio o che i nuovi ricordi di vita stanno affiorando in me e mi riempiono la mente, ma decido che sdraiarmi mi farà bene.Al risveglio molte cose nell’arredamento sono cambiate, il bello è che ricordo perfettamente perchè un determinato oggetto è lì e dove l’ho preso. Il mio passato è cambiato. Ci sono riuscito! Tutte quelle volte in cui ho preso una decisione sotto Suo consiglio non esistono più e al loro posto, finalmente, quello che avrei sempre voluto davvero. Ero partito per quei viaggi che mi ero sempre prefissato di fare: a 18 anni accettai quel biglietto per Londra e lavorai in un ristorante di Italiani per 3 mesi; A 20 feci quell’InterRail e andai in Spagna, Portogallo e Marocco; A 26 mi ero fissato con Kerouak e London così decisi di intraprendere un “on the road” per gli USA seguendo le orme dei miei eroi, così riuscii a superare la mia fase “Beat-generation”; Intorno ai 30 cominciò la mia fase mistica e puntai ad Oriente. Tra tutte le meraviglie dei miei nuovi ricordi una ricetta mi stuzzica la mente...

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TESTA IN CARTOCCIO ALLA MESSICANAIngredienti: Una Testa intera | sale | Peperoncino | Olio | 1 testa di Aglio | 1 rametto di Rosmarino |1 rametto di Finocchiella selvaticaPer condire: fagioli rossi

Spaccare la testa a metà, lasciarla marinare negli ingredienti per un’ora, senza scolarla avvolgerla nella carta stagnola, infornarla in una buca nel terreno che avrete già riempito per ¼ di braci

ardenti, nascondere completamente la testa sotto le ceneri restanti. La cottura durerà 6 ore. Uscire la testa da sotto le braci. La pietanza con la cottura assumerà un colore viola acceso e gli occhi saranno

diventati completamente neri. Tagliare a pezzetti, togliendo quelle parti che non vanno mangiate. Servire accompagnando il tutto con un con contorno di fagioli rossi.

Appena sveglio, accanto al cuore e alla sacca d’inchiostro, il diploma di laurea incorniciato non è più in Economia Bancaria, Finanziaria e Assicurativa ma in Scienze della Comunicazione. La scelta, anzi, la mia ferma imposizione, ha fatto parecchio incazzare i miei genitori, che avevano ragione, mi avevano già sistemato ancora prima che scegliessi l’indirizzo e so, per esperienza personale, che prima ero molto più tranquillo economicamente. Ho deciso di diventare un giornalista free-lance, sono sempre in giro alla ricerca di qualcosa da scrivere e la certezze non esistono.Non me ne frega un cazzo, per l’appunto.Mi sento vivo e amo quello che faccio, ora, sembra moralistico e abbastanza utopistico dire che i soldi non servono, certo che servono...ma pensate a quante persone conoscete che si sono spaccate la schiena per una vita intera e adesso non hanno neanche una pensione decente. Sono eroi, ma lo rifarebbero? Io, ho avuto una seconda possibilità. Io, non ero un eroe neanche con uno stipendio fisso. Io, mangerò il Suo cuore...

CUORE INFARINATO CON PATATE E CIPOLLEIngredienti: 500 gr. di Cuore a fettine | 5 Patate medie | 2 Cipolle bianche | Farina | Olio d’oliva | Sale | Pepe | Salvia | Peperoncino

Rosolate la cipolla in poco olio ; aggiungete le patate tagliate a tocchettini e fatele rosolare; unitevi il sale, la salvia, il peperoncino ed il pepe, e fate cuocere a fuoco vivo. Nel frattempo passate le fettine

di cuore prima nell’olio e poi nella farina (precedentemente salata) ed adagiatele sulle patate. Fate cuocere a fuoco medio per 10 minuti e poi abbassate la fiamma al minimo, per altri 20 minuti. Non muovete le fettine di cuore una volta messe nel tegame. Non appena ultimata la cottura, fate

riposare a fuoco spento e a coperchio chiuso per 5 minuti, servite caldo.

Al mio risveglio, nel letto, non c’è Lei ma Martina. Non posso crederci. I suoi capelli mori dai riflessi rossi sono la prima cosa che vedo, le ciocche ondulate cadono dal bordo del cuscino e la sento

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respirare tranquilla, ritmicamente perfetta, sta dormendo. Alzo un pò il lenzuolo, cerco di fissare nella mia memoria la linea del suo corpo. Non l’ho mai accusata di volermi privare delle mie libertà, non ci siamo fatti male, non più del sopportabile almeno, non sono scappato da lei, l’ho sposata, è nata Alba, mia figlia...Sono le 7.00 del mattino, mi alzo anche se non suona nessuna sveglia, non infilo le ciabatte, non prendo la vestaglia, non so nemmeno dove sia tra l’altro. Non vado in bagno. Corro per il corridoio e mi precipito, cercando inutilmente di non far rumore, verso l’uscio della porta. Il cuore sta per scoppiarmi nel petto. Aspetto che si calmi; guardo all’interno della camera.Alba è lì, ancora, dolcemente addormentata.Il suo profilo, le sue mani, i suoi capelli mori dai riflessi rossi, la sua bocca si muove impercettibilmente nel sonno. É questo quello che non volevo? Non volevo figli? Non volevo questa vita? È questo a cui avrei rinunciato per colpa Sua?Ho deciso di non proseguire con la ricetta degli Spaghetti al nero d’inchiostro che avevo in progetto, ho deciso che quel sacchetto lo terrò con me, che di Lei, la Paura, in minima parte, ne avrò sempre bisogno. Non posso permettermi di non aver paura che succeda qualcosa a loro due. Non posso permettermi di non aver paura quando Alba farà tardi con gli amici la notte. Voglio aver paura se un giorno Martina si farà più bella del solito, quella paura mi porterà a chiederle se lo starà facendo per me. Devo aver paura che un giorno i miei genitori possano non esserci più e, quando mando i miei articoli in redazione, devo continuare a sentire quella fitta allo stomaco che mi fa correggere mille volte i miei pezzi.Vivevo con i suoi tentacoli stretti intorno al mio collo e ai miei sogni più grandi, che per quanto possano sembrare poco ambiziosi, sotto i suoi sibili erano montagne impossibili da scalare. Per tutta quella che è stata la mia vita, se lo è stata, Lei era lì, con me, a ricordarmi i rischi, e i giudizi degli altri. Mi ha pietrificato, spezzato, messo in ginocchio, reso cieco, mi ha accoltellato, affogato, soffocato, mi ha bruciato e fatto a pezzi, quando ho capito che mi avrebbe mangiato vivo ho solo reagito di conseguenza. Tutti voi dovreste.

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Anch’io amoLa guardo. Giorno e sera. E’ la creatura più amabile che conosca. Anche lei mi guarda, mi accarezza con le sue dita delicate ritraendole subito dopo: il suo è un amore che mi tiene sulle spine, che fugge. E’ pur sempre amore, però.So che, almeno una volta al giorno, mi pensa, e questa consapevolezza mi rende felice. Lo so perchè è lei stessa a dirmelo, a dirlo agli altri.Vi confesso un segreto: è stata lei a scegliermi tra tanti. Io non ho avuto alcuna parte se non quella di essere suo, sin dal primo istante.Da quel giorno, fino ad oggi, i miei lineamenti sono cambiati. Anch’io, com’è naturale che sia, invecchio, mi consumo, ho bisogno di una fonte di energia per mantenermi vivo. E in questo non siamo molto diversi. In questi sette anni anche lei è cambiata. Le noto quelle rughe ai lati degli occhi quando sorride e i capelli hanno cambiato spesso lunghezza.Ogni tanto mi sussurra qualche parola. L’ascolto sempre, e tengo a mente ogni frase, ogni sillaba, ogni virgola, per potergliela suggerire al nostro prossimo incontro ed invitarla a continuare, ancora.Sapeste quante notti abbiamo trascorso insieme! Occhi negli occhi, sempre vicini! Sentire il suo tocco mi rende vivo! In quei momenti mi abbandono a lei completamente, mi confido, le racconto di posti lontani, le mostro immagini, dipinti, foto, parlo anche un’altra lingua se lo desidera.E’ un amore che mi rende schiavo.Qualche volta mi è capitato, per la stanchezza, di addormentarmi per primo. Mi rendo conto che lei è troppo per me; troppo vivace, troppo veloce, troppo frizzante ed io invece, a fatica le sto dietro, mi spengo. Si, la sento mentre, rimproverandomi, mi dice che preferirebbe un altro a me, che ormai mi considera una vecchia conquista. La prima volta, a quelle parole, ho creduto che mi mancasse qualcosa, come se per lei non fossi mai completo. Ed ho provato a cambiare, ad aggiornarmi, ad essere ‘al passo coi tempi’, ad offrirmi di chiarire i suoi dubbi, ad essere la sua guida, il suo punto di riferimento. E così, migliorando, sono rinato e lo devo solo a lei, che dopotutto siede ancora lì, di fronte a me.Ah, quanti ricordi, quante lacrime, quanti silenzi potrei raccontare! Ma non ne ho il tempo. Sono malato.Il mio è un male di quelli che ti uccidono dentro, che s’insinuano di nascosto, senza avvertire, quando senti di dare il massimo, quando vinci, quando sei al cento per cento. E’ un male che ti disegna un punto interrogativo sulla faccia, che ti fa chiudere gli occhi e riaprirli, che ti lascia pochi momenti di lucidità.

di Donatella La Falce

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La vedo mentre prova a curarmi. Mi ha già dato una di quelle pillole, quelle bombe antivirus che se non paghi tanto, ti somministrano soltanto a piccole dosi. Per un po’ è riuscita ad alleviare il mio dolore, anche se la malattia mi ha segnato per sempre. Sono ogni giorno più stanco ed ho bisogno di riposare in momenti imprevisti.Piange. Ecco, mi ama, lo sapevo, l’ho sempre saputo.I dottori dicono che non ci sono speranze, che dentro, il male, ha già percorso tutte le vie principali. Avrei bisogno di un trapianto urgente, ma non c’è nessuna traccia di un donatore. Quelli come me sono destinati a morire.Fai in fretta, tesoro, raccogli tutto! Porta con te ogni stralcio della mia memoria! Mantieni vivo il mio ricordo! Toccami ancora!Vivo per un’ultima settimana, ma ho la consapevolezza di morire tra le sue braccia, di riscaldarla fino al mio ultimo respiro.Vorrei scriverle delle parole d’addio, per starle accanto e consolarla anche solo per un attimo, dopo la mia morte, ma non posso, sono bloccato. Le direi: ‘Tesoro mio,non affliggerti.La vita, per quelli come me, segue un programma tutto suo. Sappi solo che grazie a te ho vissuto in una realtà diversa; ho conosciuto il tormento dell’essere abbandonati e la gioia di ritrovarsi. Mi hai riempito di te, di noi.Ti chiedo solo di compiere per me un ultimo gesto: donami agli altri! Donami a qualcuno che come me conosce la tenerezza, che adesso lotta, che conserva le sue ultime energie, che aspetta. Il mio sarebbe un sacrificio di un amante per un altro amante.Fallo per me. Amore mio.Il tuo computer,HP nx 7400.”

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Il dio delle moscheAlle 10 del mattino i figli schizzoidi di padri schizzoidi del XXI secolo ,di ogni dove ,credo e stato sociale dopo aver bevuto ,sballato,ballato e fatto sesso a cavallo dei due secoli ,adesso si ritrovavano su un materasso con tutti i vestiti,macinati e scoppiati, senza sogni,incubi e identità,inghiottiti e fatti schiavi nel regno di Morfeo Gonzo fece un solo sbadiglio ,imito’ per un istante Gesù cristo in croce e ando’ a prepararsi il caffe’.Gonzo contava i giorni,mica gli anni e celava dentro di se il conteggio dei secondi. Scostò per un istante le tende della finestra e vide il solito cartellone al muro del palazzo di fronte,che diceva e avrebbe sempre detto “Seme di morte nascondiglio di uomini avidiPoeti affamati bambini sanguinanti.Nulla ottenuto di reale bisogno.Uomo schizoide del XXI° secolo.” e ogni volta che leggeva la frase diceva “Sacrosanta ragione” e la spia sull’indicatore del buon umore schizzava subito sul verde lime.Gonzo si diresse in bagno e dopo aver defecato e ripulitosi decise di farsi un giro per le vie meno frequentate del paese.La giornata divento’ subito interessante quando Gonzo vide un ragazzino di 13 anni che maneggiava un portafogli gonfio di lucenti baiocchi,svoltare in una viuzza abbandonata e tradita dai raggi del sole.,si guardò bene intorno per assicurarsi che nessun occhio l’avrebbe visto e capì subito che la situazione gli era favorevole.Seguì il ragazzino canticchiando a bassa voce “povero bastardello dove ti sei andato a cacciare” e avvicinatogli se ne approfittò della sua forza per afferrare con una mano il collo del ragazzino mentre con l’altra gli strappò vià il portafogli dalle mani e con tono minaccioso gli disse “Esci da quest’incubo se la vita al cuor ti sta,”. Dopo che il ragazzino fu sganciato dagli arti di Gonzo a debita distanza gli rispose “ brutto figlio di puttana ,tanto l’avevo rubato quel portafogli e quando mi farò più grande e tu un vecchio rincoglionito verrò a darti la caccia”Per tanti anni il ragazzino fattosi uomo si imbatteva giornalmente in un cartellone attaccato ad una parete di un grande palazzo che diceva” Sangue tortura filo spinatoPira funebre dei politicanti.Innocenti stuprati col fuoco del napalm.Uomo schizoide del XXI° secolo. Ogni volta che leggeva la frase diceva fra se e se “Perfect” finchè un giorno mentre fuggiva per la strada tenendo un portafogli tra le mani si imbattè in un uomo di mezz’età con la testa rivolta verso la parete di un palazzo che stava leggendo una frase impressa e lessero simultaneamente“Zampa di gatto artiglio di ferro.Neurochirurghi gridano di più .Alla finestra velenosa della paranoia.Uomo schizoide del XXI° secolo.”Per tutti i capodanni a venire le nuove generazioni furono intrise di ogni male,donatogli come augurio di buon anno dall’uomo schizzoide del XXI secolo e il suo raggio d’azione anno per anno

di Felice Lizio

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crebbe a dismisura finchè anche egli,illudendosi di poter governare per sempre il processo di combinazioni neuroelettriche delle generazioni ,alla fine del XXI secolo cadde in una battaglia da lui stesso iniziata,combattuta e persa . Il RE CREMISI aveva già creato l’uomo schizzoide del XXII secolo.Ma questa è un’altra storia.

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CeraQuel pomeriggio mi rese testimone e oggetto della metamorfosi.

Si raccontava a bassa voce di lui in paese, era un tipo strano, uno di quei tipi di cui si sa poco, con un passato burrascoso e su cui si possono tessere tante trame di fantasia e destini furiosi.Tutto ciò che è sconosciuto e nascosto affascina, attraggono irrefrenabili il tormento e le rughe del passato inespresse, quelle che non sono visibili a occhio nudo ma chiuse in un bugigattolo nella zona antica e ormai spopolata della città.Avevo quattordici anni quando il suo sguardo si posò su di me per la prima volta, non sapevo chi fosse ma quello sguardo mi stupì tanto che ancora oggi ne sento il colpo. Era un tizio strano, solitario, di bell’aspetto anche se trascurato. Di mestiere faceva lo scultore ed era andato via dal paese molto tempo prima, si diceva che si fosse trasferito in Turchia.Si diceva che alzasse troppo il gomito, che non ci stesse troppo con la testa (lo testimoniavano la barba e i capelli incolti) e che sarebbe certamente morto presto per la vita sfrontata che conduceva. Aveva dimenticato le sue radici, niente religione, niente Dei, nessuna donna con cui condividesse più di qualche ora nei bordelli. Prima di lui il padre, da cui aveva ereditato il talento per la scultura, era morto in circostanze misteriose, si diceva, e che da allora il figlio fosse impazzito per voler sfuggire alla realtà che lo opprimeva. Faceva solo qualche sporadica apparizione, a volte tornava per rimettere in ordine l’antico studio e gli antichi lavori che intanto avevano accolto erbacce e la polvere degli anni.Non mi importava nulla di quello che la gente raccontava, aumentava solo la mia voglia di saperne di più, i suoi occhi freddi mi avevano autorizzata a farlo .Quel pomeriggio d’estate sentii che era tornato. Non so perché ma lo sapevo. Decisi di avventurarmi in compagnia del mio cane, Togo, che avevo adottato tempo prima. Togo era nato con un occhio grande di un freddo azzurro contornato di nero e uno marrone più piccolo, per questo forse lo avevano abbandonato. Si dice che chi nasce con gli occhi di diverso colore sia impossessato dal demonio, quindi meglio sbarazzarsene in fretta.Una volta giunta in quella vecchia via sentii un odore forte, sembrava cera bruciata. Seguì quell’odore che proveniva da una casetta piccola, il cancelletto dell’ingresso era aperto e un grosso masso posto accanto impediva che si chiudesse. Più in là un enorme tronco d’albero giaceva sdraiato e accostato al muro della casa, probabilmente dimenticato, o qualcuno non aveva avuto il tempo di dargli vita. Adesso aveva assunto l’aspetto di una panchina, qualcuno lo utilizzava per riposare all’ombra.

di Maria Clotilde Randazzo

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Tutto mi trasmetteva un senso di oblio, faceva molto caldo e l’odore dell’asfalto si mescolava a quello della cera. Gli anziani del quartiere erano seduti in cerchio aspettando chissà cosa e uno di loro con dei grossi baffi grigi mi consigliò di ripararmi al fresco, ma io lo ascoltai a malapena. Mi avvicinai a quel cancello, lui era lì, squagliava la sua cera in un pentolino su un piccolo fornello a gas, poi la cospargeva su una figura di polistirolo che aveva l’aspetto di un corpo femminile, perfettamente distinguibile anche nei genitali. Si voltò e ci guardò, il cane mi scappò di mano e andò ad annusare l’odorosa sostanza che bruciava , si rese conto che non era nulla di commestibile e andò a sdraiarsi al fresco, in fondo alla stanza. Lui prese una ciotola, la riempì d’acqua e la porse al cane che scodinzolò soddisfatto.Era molto serio, mi guardò di rado, di soppiatto, mentre continuava il suo lavoro. Sentii un’atmosfera familiare, mi sembrò che la mia presenza non lo turbasse né lo scomponesse, anzi, era come se mi stesse aspettando. Mi stava aspettando da molti anni, da quel momento in cui decise che avrei avuto un ruolo nella sua strana vita. Con quello sguardo quell’uomo mi aveva messa al mondo tanti anni prima e io per lui da quel momento in poi avrei rappresentato la porta di casa.Ferma su quell’ingresso diedi uno sguardo veloce intorno, strette finestre in alto permettevano alla luce di filtrare, così tante piccole teste spuntavano nella penombra. Quando la vista si abituò a quel buio scorsi bottiglie di gesso, volti di pietra, mani e varie parti anatomiche di diverso materiale, grosse chiavi, tanti schizzi appesi alle pareti.Mi fece cenno di sedermi, notai per la prima volta il suo corpo semi nudo e osservai che mi attraeva. Fumava, cospargeva quel corpo di cera, lavorava i particolari con le mani, in quell’attimo desiderai di essere quella cera.Quell’uomo era entrato nella mia vita in silenzio, mi aveva accolta in silenzio, in silenzio lo osservai ammirata. Non mi faceva nessuna paura.Finalmente parlò: - Ti ho vista molto tempo fa, avrai avuto quattordici anni. In quel momento decisi che un giorno ti avrei baciata. Ti sto spaventando? –Io risposi: - No, affatto. Posso tornare anche domani?-Non servì un domani perchè in quel momento io decisi la mia vita , decisi di diventare materia da plasmare e avvenne la metamorfosi. Decisi di intraprendere lunghi viaggi, di vedere il mondo e che lui sarebbe stato il motore costante, lo avrei cercato e seguìto anche in capo al mondo.Gli dissi i miei pensieri, ma lui sapeva tutto di me, io quasi nulla di lui ma mi bastò.Divenni materia e mi squagliai insieme alla cera, tra le sue mani. Sentii un enorme flusso di energia, la forza della materia pervase il mio corpo. Tra le sue mani divenni cera, la mia pelle bianca e poi liquida, calda, mentre intanto la scultura che si trovava a pochi passi da me, assunse la mia forma, il mio profilo, sentii i miei piedi deboli e impastati , ma lui mi tenne stretta per non cadere. Il sudore si mescolò al piacere mentre i suoi polsi e le sue dita calcavano e cavalcavano la mia pelle che non fu più carne. Mi sentii viva e materia immobile insieme, uno strano rombo nelle orecchie non mi permise di sentire altro che le setole dure del pennello. Vidi tutte le mie vite precedenti, quelle che avrei vissuto, i treni che avrei aspettato e che avrei perso. Accettai così il regalo che

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mi stava facendo e lo scrissi nella memoria come una mappa, perché da quando uscii da quella stanza con i miei piedi di carne il mio destino avrei dovuto solo seguirlo.Alle mie spalle lasciai la mia immagine impressa nella cera, rifinita, definita come il tocco che visitò ogni angolo del mio corpo. Surreale fu il mio tempo che si fermò, surreale la consistenza del mio essere che si trasformò in materia d’arte e poi ritornò di ossa, surreale il filo con cui attraverso la sua condusse il viaggio nella mia mente.Andai via stravolta con la certezza che lo avrei rincontrato con indosso il mio vestito giallo. Lui dietro di me si sarebbe sempre assicurato che io prendessi quel treno, che vedessi il mondo e quello che poteva offrirmi, come era avvenuto nel mio sogno.Non capii cosa fosse accaduto esattamente e rifletterci non mi avrebbe dato risposte. Il mio petto batteva ancora, i mie passi risuonavano ancora sul terriccio, sentivo ancora il forte caldo e sembrava che le lancette del tempo non si fossero mai spostate. Poco prima avevo creduto di essere stata la sua scultura, che però era lì, dietro di me, come uno specchio raffigurava la mia immagine più che mai viva. Aveva i miei occhi, la mia bocca carnosa e nonostante fosse di cera i suoi nervi erano tesi, come in uno slancio di passione. Sembrava che avesse trasfuso il mio sangue che ora scorreva sotto quella cera facendola pulsare di vitalità. Era la prova della mia visita lì, e in un certo senso sarei rimasta lì per sempre perché lui lo aveva deciso e io lo avevo scelto.Togo si svegliò dal suo sonnellino, e mi seguì con il suo strano occhio blu che avrebbe sempre colmato l’assenza di chi me lo aveva lasciato e di chi gli aveva dato il nome.

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Al di là del muro“Una strada sterrata che si allunga incurvandosi verso l’orizzonte: ecco che cosa ho visto e continuo a vedere. Nemmeno è tanto chiaro il suo limite perché da lì si innalza il cielo nero della sera graffiato dalle nubi rossastre del riverbero. A fiancheggiare il mio cammino, parallelo alla strada, si alza un muro che corre anch’esso lontano, verso il confuso orizzonte. Mentre passavo le mani per la prima volta su quell’intonaco, friabile anche al solo sibilare del vento, mi sono chiesto quale razza di demiurgo fatalista lo abbia eretto, se per diletto o se per raggiungere un fine racchiuso nella sua mente, che mi sarà noto passo dopo passo. Forse. L’aria che sto respirando qui è complice di un senso di claustrofobia sempre crescente che schiaccia le mie spalle fino a farmele incurvare. Il muro non sembra essere così spesso e alto da impedirmi di udire i suoni al di là di esso: il vociare di gente al passeggio, lo sciabordio delle acque contro i sostegni in legno di un molo, il rombo del motore di un auto vecchia almeno dieci anni, ma soprattutto il rumore di passi. Numerosi passi che potevano appartenere ad un numero elevato di piedi o calzature di ogni tipo e forma; provando a concentrami su ogni singolo calpestio, posso cercare ciò che desidero: vedere quello che c’è al di là del muro. Ci fosse una porta, un cancello o almeno una stretta feritoia o se avessi una vanga per scavarmi un tunnel che ci passi di sotto. O una mazza da muratore. O magari un paio di ali… Ah, illuso. La fantasia e i pensieri stanno correndo troppo e proprio per questo il fato, gravido del suo cinico sarcasmo, mi punirà inesorabilmente. Non mi rimane altro che continuare questo cammino fino alla fine ignota della strada, con le orecchie sempre tese verso il suono della libertà, al di là del muro ”

Il messaggio che hai letto prima di questo non l’ho scritto io, anche perché la calligrafia è molto più elegante della mia. L’ho trovato qui, in questo esatto punto, e ho deciso di lasciarci anche il mio messaggio.Come ci sono arrivato qui, così come il tizio del messaggio prima, se lo potrebbe chiedere lo sventurato dopo di me che, per passare il tempo, si è messo a leggere il mio resoconto su questo foglio di carta che i governativi mi hanno gentilmente fornito. Tuttavia tu, che sei arrivato a leggere tutto ciò, conosci già la risposta perché sarai qui per il mio stesso motivo: una condanna. Una condanna che mi porta a scrivere per non impazzire, per non farmi ammazzare dal desiderio di vedere oltre questo fottuto muro. Foglio di carta…

Chi voglio prendere in giro? E’ un rotolo di carta igienica, non essendoci altro con cui pulirmi dopo

di Pietro Rossetti

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aver defecato il pranzo e la cena che mani misteriose mi fanno trovare lungo il cammino a degli orari precisi, ovvero quando il muro non proietta più l’ombra sul terreno. Così a mezzogiorno, quando il sole decide di accarezzarmi il volto con le sue dita roventi, e, verso quelle che dovrebbero essere le dieci di sera, vedo il vassoio a mezzo metro esatto di distanza dal muro. Non importa se decido di fermarmi per due ore in un punto o se vado a passo più spedito del solito. Quel lucente vassoio di alluminio è sempre lì, con sopra tantipiccoli contenitori contenenti un pasto addirittura più abbondante della miseria a cui ero abituato prima di questa prigionia. E’ questo che mi fa venire il sospetto che ci possano essere dei passaggi in questo lungo muro, perché non so spiegarmi come possano portarmi il cibo ad orari così precisi senza farsi vedere. Rombi di auto in avvicinamento o passi umani li sento solo al di là del muro, non al di qua. Il vasto al di qua.Una distesa brulla, grigia e talvolta color cacca di uccello, che sembra essere senza fine come il muro che sto seguendo non da giorni, ma ormai da settimane. Non lo definirei comunque un terreno sterile, ogni tanto vedo degli alberi le cui chiome proiettano ombre che mi consentono di mangiare e riposarmi al fresco. L’unico attimo distensivo che posso permettermi in questa lunga marcia senza fine e, se la giornata è fortunata, mi capita pure un albero di frutta. Ieri, ad esempio, ho beccato un albero carico di loti. Certo, potrei fermarmi in uno di questi punti fino all’ultimo dei miei giorni, ma non posso: so che quelli, gli uominidel governo, mi spiano. Per forza, come possono sapere dove portarmi da mangiare? Ci devono essere delle telecamere, perché a quei voyeur governativi piacciono le telecamere, così come tutte quelle immagini che arrivano sui loro schermi a cinquanta pollici nei loro grandi salotti e le guardano con bicchieri ricolmi di spumanti di deliziose uve bianche, di quelle che luccicano nei vigneti sotto il sole della Toscana, mentre una mignotta d’alto bordo fa sfogare, con le sue labbra rigonfie di botulino, tutta la loro libido già eccitata dallavisione dei condannati, come il sottoscritto, che vagano come pazzi seguendo una parete senza fine. E pensare che si fanno portatori di una certa morale cristiana. Oh sì, si vedeva quel giudice in tribunale, con quel crocifisso brillante posto sul suo copricapo conico da magistrato, che era uno tutto casa e chiesa.

Anche l’arredamento della sala delle udienze parlava da solo con tutte quelle pareti piene di Cristi, Madonne e padri Pii che arrivavano a coprire addirittura la scritta in caratteri cubitali “La legge è uguale per tutti”. Uguale per chi non si sa, visto che un misconosciuto santo era posizionato sopra il “per tutti”. Oh, non ho niente contro la religione e Dio, per carità degli dei, ma non ho mai sopportato quest’ostentazione ai limiti dell’umana ragione, come se ogni atto fosse legittimato da quei santi raffigurati nelle icone. E legittimato si sentì lo stesso giudice che aveva sentenziato: “La condanna è l’esilio al muro. “ Ora sono qui, finalmente lontano da quei folli, a fare, pensare e dire ciò che veramente voglio. Se solo coloro che fossero al di là del muro smettessero di camminare, di parlare, di vivere, finalmente ogni mio pensiero potrebbe essere libero dal desiderio di vedere

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cosa c’è oltre. Sono un povero illuso.

Sono andato di matto oggi. Ho preso a pugni il muro, spinto dall’esasperazione, riuscendo a malapena a scorticare l’intonaco, oltre che le nocche delle mani. Assieme alla polvere si era sollevato un odore penetrante di muffa tale da farmi rimettere la pastina al pomodoro che mi avevano portato per il pranzo. I mattoni rossastri sotto l’intonaco sono di quelli pieni, se provassi a scavarli anche con dei mezzi di fortuna, di cui nemmeno dispongo, morirei prima di poter riuscire a respirare l’aria che c’è al di là. Mentre rimuginavo, con la faccia sulla poltiglia giallastra buttata fuori dal mio stomaco, mi colse per un momento il pensiero di togliermi la vita, solo per finire di far godere quei maiali che mi stanno osservando. Tirai un altro pugno, stavolta verso il terreno. Il suicidio era parte del loro gioco, qualcuno ci avrebbe sicuramente guadagnato dei soldi per una scommessa. Chissà a quanto è quotata la morte per inedia... Devo continuare a camminare, ci deve essere una via d’uscita. Deve.Sono passate tre settimane, credo. Come vedi non ho appuntato alcuna data, anche perché non ho alcun modo di annotare il passare dei giorni su un supporto mobile e non posso sprecare ulteriore carta igienica. Mi posso pure scordare di segnarli sul muro, come fanno i carcerati nelle loro prigioni a quattro mura, e camminando per circa otto ore al giorno è impensabile segnarci su il conto dei giorni, dato che tra una data e l’altra passano svariati chilometri, perciò non posso ritornare indietro a controllare nel caso mi fossi dimenticato. Sì, inizio ad avere una certa alienazione nei confronti del tempo. Una settimana fa, per miracolo, ha piovuto e, proprio per non farmi godere quel tripudio di acqua fresca gocciolante sul miocorpo stremato dal caldo, mi sono buscato la febbre. Manco a dirlo, mi sono trovato delle coperte, un ricambio e della tachipirina assieme al vassoio con la cena. Non vogliono proprio lasciarmi morire. Anche per questo preferisco non annotare nulla, visto che tra il delirio della febbre e le lunghe dormite che mi sono concesso per attendere che i medicinali facessero effetto, saranno passati dei giorni. Tre, due, una settimana, chi può dirlo? Solo i governativi.

Mi sono sempre ritenuto un tipo abbastanza solitario, non per misantropia o per spirito di eremitaggio, ma perché io stesso non faccio una bella impressione alle persone. Non sto qui a scriverne i motivi, lo spazio è molto limitato, tuttavia era mia abitudine scambiare quattro chiacchiere con qualcuno quasi ogni giorno, compreso quel figlio di puttana che, per la sua denuncia, mi ha fatto finire qui. Ora sento di essere veramente solo. Scrivere sta iniziando a diventare inutile, sta svanendo quella sensazione di comunicare con qualcuno attraverso questo pezzo di carta igienica di qualità discount. A causa di questa solitudine, che dura da settimane, inizio ad avere le allucinazioni come il sentire delle voci, non quelle che ci sono al di là del muro, ma come se fossero al di qua. Eppure non c’è nessuno. Nemmeno un animale che sia un cane, un gatto… Ogni tanto si vede uno stormo di uccelli volare a centinaia di metri di distanza ma non è per niente di compagnia. Il non poter parlare con una persona fisica mi conduce così ad uno stato

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allucinatorio, forse dovuto anche ad una breve ricaduta di febbre. Tuttavia, la bottiglia quasi vuota di bourbon del 1994 che tengo nella tasca interna dell’eskimo mi fa sperare che la schizofrenia da alienazione è ancora lontana. O al suo principio. Il sole stava scivolando verso oriente quando vidi una figura seduta su una montagnola di mattoni, gli stessi che compongono questo maledetto muro. Poteva essere sopra i settant’anni d’età, anche se mi veniva difficile stabilirlo con quei capelli ingrigiti pettinati all’indietro né potevo contare le rughe sul suo viso come se fossero gli aneli concentrici di un tronco di legno. Poi mi concentrai sulla sua barba incolta, sul suo sguardo verso l’infinito nulla che sta al di qua del muro e la sensazione di averlo già visto da qualche parte si stava insinuando nella mia mente. Appurato che non era possibile, perché morto quando io ancora andavo asilo, quel tizio assomigliava dannatamente a Charles Bukowski, solo più vecchio.Alle sue spalle il muro presentava un buco, da cui il sosia doveva aver preso quei mattoni su cui poggiava il sedere, e mi illusi che dietro ci fosse una via d’uscita. Con sommaria disperazione, ma non più di tanto, vidi che non era un buco vero e proprio. C’erano altri mattoni in quella cavità. Quanto diavolo è spesso questo muro?“Un altro stronzetto che viene e che va.” disse il sosia di Bukowski in un italiano che, se non fosse per un lieve accento siciliano, sarebbe stato perfetto. Non era lui quindi. O sì? Solo che non volevo che si riproducesse, in quell’allucinazione, uno di quei dialoghi immaginari con scrittori o personaggi famosi del passato che certi intellettualoidi di mia conoscenza amano scrivere con quel naso arricciato tipico di chi sente sempre puzza intorno, tanto per dimostrare di saperla lunga rispetto al resto della plebaglia.

“O che magari si ferma a scambiare quattro chiacchiere. “ risposi allungando il collo verso la bottiglia che teneva in mano, ansioso di voler bere qualcosa di diverso rispetto all’acqua. “E che vorrebbe bere un goccio. “ Il vecchio prima fissò la bottiglia, poi me la passò senza emettere alcun suono lamentoso. Continuava a digrignare i denti mentre facevo scivolare in gola quel liquore scuro, facendomi quasi pentire di averglielo chiesto. Io odio i liquori.“Da quanto tempo sei qui?”“Il tempo di aver tirato giù il contenuto di questa bottiglia.”“E come hai fatto ad averla?”“Come hai fatto ad averla?” mi fece eco storpiando la voce con l’intenzione evidente di0 deridermi. “E come ci danno da mangiare? E come ci danno i ricambi? Oh, devono essere gentili per non farci rimanere con una sgommata marrone sul fondo delle nostre mutande fino alla fine dei nostri giorni.” Tirò giù un altro sorso e continuò: “E perché non ci portano anche una bella donna? Sai, a quest’età mi sono stancato di tirarmelo fuori e strigliarmelo come un ragazzino del liceo.” Dalla sua concitazione potevo dedurre che ne aveva visti altri prima di me che gli avevano posto le stesse domande. Ignoro però quanto le sue risposte fossero frutto di una mente stabile e i suoi occhi semichiusi di certo non mi aiutavano a capire quanto fosse in sé. Quella bottiglia, per quanto mi riguarda, poteva averla consumata in una giornata. Così, anche se avevo paura di una sua

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reazione aggressiva, gli feci non una domanda qualsiasi, ma la domanda.

“Hai mai scoperto cosa c’è al di là di muro?”Il naso di Bukowski si fece così rosso da sembrare ancora più grosso. Le sue labbra si dischiusero mostrando una fila di denti ingialliti dalla nicotina e li spalancò, mostrando un’espressione luciferina simile ad una delle tante foto dello scrittore che avevo visto. Sembrava pronto a sputarmi addosso una valanga di insulti, invece si mise a ridere, se quella commistione di versi animaleschi si poteva definire risata. Quando spense quell’eccesso di risa con un altro sorso di quel bourbon invecchiato, riprese a parlare.

“Sempre uguali, voi stronzetti che passate. Sempre che vi chiedete cosa ci sia al di là del muro. C’è quello che si sente, amico, e al sottoscritto non gliene è mai importato niente. Niente.”“E allora perché hai provato a scavarci? Anche tu hai la stessa curiosità di noi stronzetti.”Si rimise a ridere con quei versi insopportabili e a quel giro rischiò di cadere dalla montagnola di mattoni su cui sedeva.“La verità è che non ve ne è mai fregato niente della libertà.”“Libertà? Ma che stai dicendo?”“Quella che hai alle tue spalle. Tutti voi pronti a rincorrere quello che c’è dietro ad un muro, attratti da quello che sentite ma non potete vedere e mai riuscirete a farlo. Avete la libertà sotto il naso ed invece, come tante farfalline notturne, preferite svolazzare senza alcun motivo attorno ad una lampada. Magari sarete uccisi da una bella scossetta elettrica. Così pensi che ci sia la libertà al di là del muro? Certo, ci possono essere cosce lunghe, birre pregiate, carni arrosto succulente, automobili di lusso… E quasi moriresti, pur di cercare di vedere queste e tutte le altre cose che ci sono al di là del muro.”“Ma qui dietro c’è solo un deserto!” sbottai , stanco della sua morale anticonformistica. Stavo iniziando a pensare che a parlare non fosse Bukowski, ma l’alcol che gli circolava nel corpo.“Un deserto, appunto, e nessun cazzo di muro da inseguire fino a farti insanguinare le piante dei piedi. Ora sparisci farfallina, mi stai rovinando il panorama.”“Ma aspetta”Mi scagliò la bottiglia con poco più di cinque dita di bourbon dal fondo.“Ti ho detto che il tuo bel faccino sta guastando il mio panorama. Sparisci.”Raccolsi la bottiglia e me ne andai, lasciandolo solo a contemplare l’infinito deserto in compagnia della sigaretta che si era accesso dopo essersi liberato del bourbon.Per quanto sia stato irritante e nevrotico, Bukowski (o il suo sosia o la mia allucinazione) ha ragione. Non c’è alcun motivo di sperare di trovare una via d’uscita tra i mattoni. Questo muro potrebbe avere una forma ad anello ed io, come gli altri fessi che mi hanno preceduto e mi seguiranno, sto girando in tondo, facendo la figura di quelle bestie che stanno nelle gabbie aperte degli zoo sotto lo sguardo di pingui visitatori. Tutti quei rumori, quei suoni, che fanno intendere che al di là del

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muro ci sia la vita in tutto il suo gioioso tripudio, possono essere stati registrati ed emessi da dei megafoni nascosti. Poco importa se non c’è un suono che si ripeta e che sveli quest’inganno. Ho deciso quindi di affrontare il nulla che si trova alla mia sinistra, al di qua del muro. Prima o poi un deserto finisce, no? Negli ultimi tre giorni ho raccolto e conservato come ho potuto gli avanzi dei pasti, mi serviranno per questa traversata, specialmente l’acqua.E anche le ultime gocce di bourbon rimaste per i momenti più disperati, ovviamente. Forse troverò la morte, ma se rimango qui, in questa continua ricerca di un varco che non esiste e che è la vera essenza di questa prigione di libertà, la troverò di certo. Sfiderò l’ignoto e se i miei occhi finiranno lo stesso in pasto ai corvi, che sia almeno lontano dalle telecamere dei governativi. Questo quindi è l’ultimo messaggio che lascio: nel mio ultimo viaggio al di qua del muro non ne scriverò altri, anche perché non ci sarà nessuno a fornirmi la carta igienica. Arrivato a questo punto ho capito che la vera prigione , la vera condanna comminatami, è la curiosità di sapere cosa ci possa essere dopo un limite che non potremmo mai travalicare, se non al costo di impazzire mentre ci proviamo invano. Addio.

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MetamorfosiAveva dato la sua parola. Non che fosse di straordinario valore: più volte aveva promesso, ripromesso e disatteso. Ma ormai il credito che la società gli aveva concesso stava per terminare, afflosciando la borsa ormai logora della sua credibilità. Come uscirne, era il suo unico pensiero. L’ansia da prestazione gli gonfiava le vene del collo e le tempie gli pulsavano, a ricordargli che era vivo, ma a rischio. Poi si risolse: aveva letto da qualche parte – non ricordava più dove che, se non poteva cambiare le condizioni esterne, poteva invece agire su se stesso. E allora si decise: via le sigarette senza alcun compromesso (fanculo Zeno Cosini, pensò, non mi faccio nemmeno l’ultima sigaretta), via l’aperitivo serale col bis di prosecco (o tris di negroni nei giorni di rabbia), pizza e focaccia senza la birra d’ordinanza; non contento, costrinse la famiglia ad abiurare il cloruro di sodio e, nelle giornate di massimo delirio, guardava con sospetto il capretto nel forno: ma le capre non erano ghiotte di sale?

Il suo matrimonio, passato indenne attraverso prove durissime, crollò infine davanti a un piatto di pasta integrale e fave in brodo: Pina, sua moglie, donna delicatissima e di indole che definire docile fu – fino a quel giorno - passibile di arresto per eccesso di eufemismo, lo guardò dapprima con uno sguardo quasigelidoprossimoaldisgusto, poi si alzò lentamente, afferrò i lembi della tovaglia e – magia - tirandola con sapienza sopra la propria testa, riuscì a sparecchiare in faccia al(l’ex) marito i due piatti colmi di lava favina, ustionandogli il viso e il non più smisurato orgoglio.

Gregor -questo il nome del nostro eroe: il padre aveva letto un solo libro di Kafka, anzi aveva letto un solo libro e basta - rimase così solo, con i suoi pochissimi effetti personali shakerati in fretta e furia dentro lo zaino verde vomito, orgogliosamente esibito come souvenir al ritorno dalla leva nel dicembre del 1993 e ora unico depositario dei suoi averi.

Di anni ne erano passati ben 18, da allora, ma Gregor ricordava ancora nitidamente e con commozione i bei momenti passati in caserma e - soprattutto - le ore passate a fare la guardia al nulla durante un’operazione, fortemente voluta dall’allora ministro della difesa e che di importante aveva soltanto la pretenziosa denominazione.

Non era però momento di nostalgie varie: essere privo di una casa, di una moglie e del

di Antonio Pino

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fondamentale sacco in garage non l’avrebbe distolto dall’obiettivo supremo. Mise così lo zaino in spalla e si avviò verso la stazione ferroviaria. Era la vigilia di Natale del 2011. La neve aveva, come ogni anno, ammantato Torregrotta, vestendola a festa. I Torresi sciamavano per le strade del centro, sulle loro slitte trainate dagli elefanti nani, alla ricerca del regalo dell’ultima ora. Gregor, un omone di centonovanta per centotrenta (cm per kg), sparì quel giorno e nessuno ne senti la mancanza.

I mondiali del 2016 non furono uguali agli altri. Non per la solita banalità “ogni gara fa storia a sé, figuriamoci un intero evento sportivo”, come recitava da vinile rotto e ultra graffiato Giorgio, il rompicoglioni del Bar Dotto. Semplicemente perché , per la prima volta in tanti anni, un Torrese era riuscito a smentire l’abusata locuzione latina nemo propheta in patria. E soprattutto perché il profeta patriota fu chi nessuno si sarebbe mai aspettato, rendendo quella sera di luglio la data più memorabile dalla notte in cui, con un blitz degno della migliore guerriglia zapatista, gli abitanti del rione Grotta tutti si erano impadroniti del centro del potere torrese, trasferendo poi il Palazzo del Governo nella propria contrada: Gregor era tornato.

All’altezza degli addominali, la tartaruga aveva deciso finalmente di girarsi e mostrare la parte nobile del carapace, certo; il viso era tirato così come il resto dell’ agile e insospettata muscolatura, sicuramente; dal suo incedere era sparita quella inconfondibile claudicanza – neologismo da lui ispirato - che gli era valsa il soprannome di Sciacallu (dal tardo torrese Sciancatu, poi storpiato… ovviamente), e anche questo faceva di lui oggi un’altra persona, senza ombra di dubbio; ma che fosse Gregor lo testimoniavano gli occhi a globo, ingigantiti dalla conquistata magrezza e scintillanti di fozia (folle idiozia) oggi come allora, incontrovertibilmente.

Era tornato. Non si avevano notizie di lui da quasi cinque anni, tanto che i più lo piangevano –ipocritamente - come morto. Ed era tornato per diventare protagonista, come aveva promesso: sbaragliando gli avversari, uno a uno, dal più potente al più tecnico, dal più scaltro al più veloce. Gregor in trionfo, la Mayor’s Arena gonfia di orgoglio per la scoperta di un campione indigeno, Torregrotta tronfia per il ritorno di un figlio –creduto irrimediabilmente perso - e che sarebbe divenuto invece emblema della superiorità torrese nel mondo; e tutto questo nell’anno dei Mondiali da paese organizzatore, per di più.

Fuori dall’Arena, elefanti nani e giraffe pigmee pascolavano, indifferenti alla Storia, mentre un pennacchio di fumo bianco si levava da un cratere della Maddalena, quasi a voler salutare l’elezione del nuovo eroe torrese. Sulle tribune dell’Arena, una enorme cupola geodetica la cui costruzione aveva richiesto un tempo superiore a quello necessario per la Sagrada Familia, era stata registrata la presenza di numerose personalità del mondo della politica e dello sport. Tra i tanti, Sautyn, il giovane canguro di Alessandro Del Piero, presente anch’egli; poco più in là, l’uccellino che aveva

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sempre accompagnato il Pinturicchio prima dell’avvento dell’aitante marsupiale, con sulle spalle Sebastian Giovinco; l’ex presidente degli Stati Uniti d’America Bill Clinton, che aveva allietato l’apertura della finale con la sua maestria al sax; l’ex tycoon ed ex premier del Belpaese, uomo noto per la sua statura morale; accanto a questi, il neo eletto sindaco di Torregrotta. Elezioni anch’esse memorabili: dopo la prima tornata per titoli ed esami terminata con un no contest, un estenuante ballottaggio, tenutosi con la nuova legge elettorale e concluso dopo ventiquattro ore ininterrotte di partite a carte. Pari e patta a briscola, scopa, tressette, scala 40, asso pigliatutto, ramino, pinnacolo, ammazzasette, decisivo si rivelò il rubamazzo, in cui il pur valido candidato della Infondoadestra Radicale cedette di schianto al rappresentante dell’area Inbassoasinistra Riformista.

E poi cantanti, campioni del passato, ex sindaci e presidenti dello sconsiglio vari. Tutti lì osannanti Gregor, il bruco divenuto farfalla, l’esempio vivente della potenza della volontà. Dopo anni di lontananza e lustri di mutismo, venne il momento di dare la parola al vincitore. Lo speaker Tony Bennet gli diede la parola e Torregrotta rimase col fiato sospeso: cosa avrebbe dichiarato l’ex scemo del villaggio? Sarebbe stato rancoroso? O avrebbe dimostrato il leggendario aplomb torrese, invidiato oltremanica, l’atavico savoir faire che rosicar faceva i cugini d’oltralpe, l’innato chiminifuttiammia davanti al quale arrossivano a Palermo e provincia?

Gregor parlò: “Amici, Torresi, compatrioti, prestatemi orecchio: sono venuto a seppellire il vecchio Gregor, non a lodare il nuovo. Ma il nuovo, emerso dalle tenebre del primo, è comunque qui per farvi una promessa: a Sidney 2020 sventolerà nuovamente la bandiera torrese. Ringrazio tutti quelli che mi sono stati vicini, saluto il mio amico Nick, senza il cui sostegno non sarei qui ora e...arrivederci a presto”.

Detto questo, il nuovo campione mondiale di mmoffaosuddatu lanciò a mo’ di saluto il suo grido di guerra, elaborato anni prima sulla scorta delle sue auliche letture di Zagor: un rutto di rare lunghezza e bellezza. E fu in quel momento che una risata, volgare e grassa, lo seppellì.

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