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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali corso di laurea in fisica Giada Rachele Mascali Tecniche avanzate di Imaging XRF a scansione per l’analisi non distruttiva di manufatti di interesse per i Beni Culturali elaborato finale Relatori: Chiar.ma Prof.ssa Francesca Rizzo Corelatore: Dott. Francesco Paolo Romano anno accademico 2014/2015

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIAfacoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali

corso di laurea in fisica

Giada Rachele Mascali

Tecniche avanzate di Imaging XRF a scansione per l’analisinon distruttiva di manufatti di interesse

per i Beni Culturali

elaborato finale

Relatori:Chiar.ma Prof.ssa Francesca RizzoCorelatore:

Dott. Francesco Paolo Romano

anno accademico 2014/2015

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Indice

Introduzione 1

1 Fluorescenza a raggi X 31.1 Interazione dei raggi X con la materia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

1.1.1 Effetto fotoelettrico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51.1.2 Scattering Compton . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61.1.3 Scattering di Rayleigh . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81.1.4 Raggi X caratteristici e fondo continuo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91.1.5 Diffrazione, Rifrazione e Riflessione dei raggi X . . . . . . . . . . . . . 12

1.2 Parametri fondamentali della fluorescenza X . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141.2.1 Intensità della fluorescenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151.2.2 Produzione della fluorescenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16

1.3 Spettrometro XRF . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181.3.1 Sorgenti: tubi a raggi X . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181.3.2 Rivelatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201.3.3 Ottica dei raggi X . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24

2 Apparato sperimentale 272.1 Tubo a raggi X e capillare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 282.2 Rivelatore SDD . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292.3 Il sistema di allineamento del campione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 302.4 Il sistema di scansione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 312.5 Procedura di scansione per l’imaging elementale 2D . . . . . . . . . . . . . . 332.6 Sensitività chimica e MDL . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34

3 Caso-studio: la ceramica Attica 363.1 Ceramica Attica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363.2 Procedura di analisi e risultati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

3.2.1 Studio del processo pittorico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 413.2.2 Studio di provenienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43

Conclusioni 46

Bibliografia 48

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Introduzione

Il presente lavoro di tesi si è svolto presso i Laboratori Nazionali del Sud dell’INFN di Catania,nell’ambito dell’attività di ricerca del gruppo LANDIS dei LNS e dell’IBAM-CNR.

Oggetto della tesi è lo sviluppo e l’utilizzo di uno scanner XRF (X–Ray Fluorescence), perl’imaging elementale non invasivo di opere d’arte e materiale archeologico. Questo strumentosi basa sul fenomeno della fluorescenza X, dovuto alla diseccitazione di un atomo tramitespecifiche transizioni all’interno della struttura elettronica dell’atomo stesso. La rivelazionedi tale radiazione caratteristica (spettro di fluorescenza) permette di identificare gli elementichimici che compongono i materiali in studio. La misura si basa sulla scansione della superficiedi un determinato campione tramite un fascio fortemente focalizzato di raggi X (qualchedecina di micron). Il risultato di detta scansione è una matrice di spettri di fluorescenza X(diverse migliaia o più) che vengono analizzati singolarmente, mediante opportune procedureanalitiche, al fine di ottenere le mappe elementali dei campioni.

Il vantaggio nell’utilizzo di una tecnica di imaging XRF sta nella possibilità di effettuareindagini completamente non distruttive. Per questo, viene ormai ampiamente applicato indiversi campi, quali la biologia, la geologia, le scienze dei materiali e l’archeometria. Tuttavia,l’interesse degli archeologi e degli storici dell’arte di mantenere l’integrità dei Beni pervenutici,ha reso questo tipo di tecniche avanzate tra le più impiegate nell’indagine dei Beni Culturali.

L’indagine mediante tecniche di spettroscopia X permette infatti di analizzare, senza pre-levare alcun frammento dal campione, le componenti – ovvero gli elementi chimici – di unmateriale, importanti per una corretta identificazione o per la ricerca di eventuali processi didegrado. Ad esempio, nel caso di oggetti dipinti, quali pitture o ceramica (quest’ultima argo-mento di questo lavoro di tesi), l’imaging della distribuzione elementale può fornire numeroseinformazioni riguardanti le fasi del processo pittorico o modifiche apportate nel corso deglianni. La tecnica permette infatti di rivelare eventuali dettagli nascosti sotto la superficie vi-sibile dell’oggetto, così come modifiche apportate dallo stesso artista (i cosiddetti pentimenti)e i possibili restauri a cui l’opera, o il manufatto, è stata sottoposta negli anni.

L’analisi di un oggetto dipinto, consente dunque di ottenere una visione profonda delprocesso creativo dell’artista o dello stato di conservazione dell’opera. Nel caso specifico delmateriale archeologico, i risultati analitici permettono studi approfonditi sulla natura deimateriali utilizzati e sulle tecnologie di manifattura che hanno portato al prodotto finito, cosìcome sulla provenienza e autenticità dei manufatti.

Inoltre, grazie ai risultati ottenuti nel corso dell’attività di analisi, gli studiosi sono ingrado di dedurre informazioni riguardanti lo sviluppo sociale, commerciale e culturale delleciviltà di provenienza delle opere e l’evoluzione culturale e tecnologica cui sono stati sottopostinel corso del tempo.

Queste tematiche sono strettamente legate alle indagini sulle ceramiche Attiche del Vsecolo a.C., sulle quali è stato effettuato uno studio presentato in questo lavoro di tesi.Le ceramiche Attiche a figure rosse e nere sono infatti da sempre argomento di grande interesseper numerosi campi di studio, non solo per il loro valore storico o estetico, ma soprattuttoper le sofisticate tecniche di lavorazione dei materiali e di cottura dei prodotti finiti impiegateall’epoca, prove dell’alto livello di specializzazione delle officine del tempo. I ceramisti, grazieall’approfondita conoscenza dei forni e delle procedure di trattamento dei materiali argillosi,

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Introduzione 2

erano in grado di ottenere manufatti le cui decorazioni erano il risultato dell’applicazione, sulcorpo ceramico iniziale, di un ulteriore strato di argilla opportunamente trattata. Questa,in seguito a diversi processi di cottura in forno, assumeva il tipico colore nero su un corpoceramico rosso. Si parla per questo di ceramiche Attiche a figure rosse e nere, e di vernice neraAttica (Attic Black Gloss o Attic BG), poichè il nero si presenta come una vernice brillantedall’aspetto vetrificato.Il rinvenimento di imitazioni di provenienza Italiota, prodotte grazie alla diffusione di talitecniche nelle colonie del tempo, ha inoltre condotto gli studiosi a volgere l’attenzione anchealle imitazioni e alle indagini necessarie a poterle distinguere dalle ceramiche autentiche.

L’attività sperimentale descritta in questo lavoro di tesi, si basa proprio sull’analisi spet-troscopica di alcuni frammenti di ceramica Attica e Italiota, realizzata grazie all’impiego delloscanner XRF.

Più nel dettaglio, il Capitolo 1 è dedicato alla descrizione della fisica dei raggi X. De-scritti i meccanismi di interazione dei raggi X con la materia, si mette in evidenza comequesti influenzino l’emissione spettrale: la radiazione di fluorescenza viene infatti indotta,per effetto fotoelettrico, su un materiale irraggiato da un fascio X primario. Vengono dunqueapprofondite le condizioni sulle quali si basa l’osservazione della fluorescenza e i parametrifondamentali che ne caratterizzano la produzione e l’intensità.Oggetto della fine del capitolo sono invece le componenti principali di uno spettrometro XRF:il tubo a raggi X, i rivelatori al silicio e le ottiche policapillari. Se ne mostrano i principi difunzionamento e alcuni dei vantaggi acquisiti grazie al loro impiego, come la focalizzazione e lamiglior resa in intensità del fascio X primario ad opera dei policapillari, rispetto ai collimatoriprecedentemente utilizzati.

Il Capitolo 2 è dedicato alla descrizione dello scanner XRF e alle condizioni operative chelo caratterizzano. Il tubo microfocus accoppiato alla lente policapillare, in grado di produrreuno spot pari a 26 µm all’energia del Rh, riesce ad eccitare tutte le righe K (più energetichedelle successive) degli elementi fino al Sb. La fluorescenza da esso indotta viene rivelata daun rivelatore SDD ad elevata risoluzione.Ciò, insieme ad un sistema di puntamento laser e ad un sistema di movimentazione XYZautomatizzato per il campione, permette di effettuare scansioni micro – e macro –XRF adelevata risoluzione spaziale, su superfici del campione fino a 20 × 20 cm2. Infine, alle moda-lità e procedure di scansione e acquisizione della fluorescenza rivelata, seguono i primi datisperimentali atti a valutare le prestazioni dell’intero apparato sperimentale.

Nel Capitolo 3 viene infine descritto lo studio, per mezzo dello scanner XRF, di alcuniframmenti di ceramica Attica e Italiota del Museo Nazionale di Taranto.Introdotta inizialmente la problematica riguardante le ceramiche Attiche e la vernice nerache ne caratterizza le decorazioni, sono poi riportati i risultati dell’analisi. Questa viene ese-guita per mezzo del software PyMca, prodotto dall’ESFR (European Synchrotron RadiationFacility), per la visualizzazione e l’analisi degli spettri di fluorescenza. In particolare, i ri-sultati ottenuti dall’analisi dei dati riguardano lo studio del processo pittorico e la differentecomposizione elementale del corpo ceramico rosso e della vernice nera.A conclusione del capitolo, vengono infine presentate le misure puntuali effettuate sia nelleregioni rosse dei frammenti, che in quelle nere. In tal modo, sono stati rivelati gli elementiin traccia presenti nei materiali costituenti la ceramica e la vernice, al fine di dimostrarecome questo sia un ottimo metodo di analisi per la distinzione tra le ceramiche Attiche e leimitazioni di provenienza Italiota.

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Capitolo 1

Fluorescenza a raggi X

La fluorescenza a raggi X, comunemente indicata con l’acronimo XRF (X-Ray Fluorescence),è un metodo d’analisi che si basa sul fenomeno della fluorescenza indotta in un bersaglioquando questo viene irraggiato con raggi X: la diseccitazione di un atomo, precedentementeeccitato da un fascio di raggi X incidente, viene accompagnata dall’emissione di una radiazionecaratteristica. La rivelazione di detta radiazione permette l’analisi elementale, tra l’altro nondistruttiva, del materiale studiato.

In questo capitolo si approfondiranno concetti e processi che caratterizzano la fisica deiraggi X. Nella prima parte verrà trattata la teoria dell’interazione dei raggi X con la materia,accennando ai meccanismi fisici che la caratterizzano. La seconda parte, invece, si concentreràsulla fisica della fluorescenza X, con riferimento soprattutto all’intensità e alla produzione,parametri fondamentali. Infine, le componenti sperimentali di uno spettrometro XRF –necessarie per lo studio della fluorescenza X – saranno argomento della terza sezione.

1.1 Interazione dei raggi X con la materiaNel processo di interazione tra un fascio di raggi X e la materia, possono entrare in giocodiversi effetti:

• l’effetto fotoelettrico, per il quale il fotone viene completamente assorbito, con la con-seguente emissione di un elettrone atomico di energia pari alla differenza tra l’energiadel fotone incidente e l’energia di legame dell’elettrone stesso;

• lo scattering inelastico, detto anche scattering incoerente o Compton, che assieme alladeflessione provoca l’aumento della lunghezza d’onda (quindi diminuisce l’energia) e uncambiamento di fase del fotone emesso;

• lo scattering elastico, detto anche scattering coerente o di Rayleigh, in cui la fase el’energia non vengono influenzate;

• la produzione di coppie, ossia la creazione di una coppia elettrone–positrone a seguitodell’interazione di un fotone di energia pari almeno a 1.022 MeV (il doppio dell’energiaa riposo di un elettrone). Tuttavia, poichè tale processo avviene per energie dei fotonisuperiori a quelle tipice del dominio dei raggi X, non verrà approfondito nel corso delpresente elaborato.

Per fotoni di energia compresa tra 1 – 50 keV, il meccanismo di interazione più probabileè l’effetto fotoelettrico. Come verrà evidenziato nel corso di questo lavoro, tale effetto èparticolarmente importante nel caso dell’emissione di fluorescenza X.

Sperimentalmente si è visto come le sezioni d’urto di questi processi di interazione sianofunzione dell’energia del fotone e del numero atomico dell’elemento costituente il bersaglio.La probabilità che avvenga l’effetto fotoelettrico, diminuisce all’aumentare dell’energia.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 4

La probabilità che avvenga uno di tali processi indipendenti può essere espressa in terminidi sezione d’urto di interazione: τ è la sezione d’urto di assorbimento fotoelettrico per atomo,mentre σR e σC sono le sezioni d’urto dello scattering Rayleigh e Compton rispettivamente.La somma di queste sezioni d’urto costituirà quindi la probabilità totale, σtot, che un fotoneinteragisca in qualche modo attraversando un mezzo assorbitore:

σtot = τ + σR + σC (1.1)

Moltiplicando tale valore per il numero di atomi per unità di volume [atoms/cm3] dell’assor-bitore, troviamo il coefficiente di assorbimento lineare, µlin:

µlin[

1cm

]= σtot

[cm2

atom

]ρ[

gcm3

] NAA

[atomsg

](1.2)

dove ρ è la densità del mezzo assorbitore edNA è il numero di Avogadro (6.023×1023 [atoms/g]atomi).

Sostituento nell’Eq.(1.2) la (1.1), risulta evidente come µlin non sia altro che il prodot-to di ρ per la somma di tre termini, detti coefficienti di assorbimento fotoelettrico, scatte-ring di Rayleigh e scattering Compton. Tale somma, a sua volta, definisce il coefficiente diassorbimento massivo, µ [cm2/g]:

µlin =(τNAA

+ σRNAA

+ σCNAA

)ρ = (µτ + µR + µC)ρ = µρ (1.3)

In Figura 1.1 sono mostrati i valori della sezione d’urto e del coefficiente di assorbimento mas-sivo, nelle loro tre componenti (l’effetto fotoelettrico e i due processi di scattering Comptone di Rayleigh), in funzione dell’energia dei fotoni incidenti.

Figura 1.1: Coefficiente di assorbimento massivo e sezione d’urto di interazione per radiazione Xincidente su un bersaglio di piombo.

Il coefficiente di assorbimento lineare, così come quello massivo, gioca un ruolo fondamen-tale nella stima dell’assorbimento di un fascio di raggi X ad opera di un materiale. Questo èinfatti espresso dalla nota legge esponenziale:

I = I0 e−µlinx = I0 e

−µρx (1.4)

dove I0 e I sono le intensità, rispettivamente, incidente e trasmessa e x è lo spessore delmateriale attraversato[cm].

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 5

Ovviamente, nel caso in cui il mezzo assorbitore fosse un composto chimico o una miscela,il coefficiente di assorbimento massivo sarà dato dalla somma dei coefficienti di assorbimentoµi di ogni elemento costituente, ognuno sommato in base al proprio peso all’interno delcomposto – ossia alla frazione dell’i-esimo elemento rispetto al numero totale n di elementipresenti nel composto – Wi:

µ =n∑i=1

Wiµi (1.5)

Tale relazione non tiene però conto dei cambiamenti della funzione d’onda dovuti alle modifi-che dell’ambiente molecolare, chimico o cristallino che apporta la formazione di un compostoin un atomo.

L’attenuazione del fascio segue un andamento esponenziale anche per fasci non paralleli,ma in tal caso è necessaria l’aggiunta di due fattori: il geometry factor (fattore geometrico),dipendente dalla geometria della sorgente del fascio e del mezzo assorbitore; e il buildup factor(fattore di incremento), che tiene conto dei fotoni secondari, prodotti in seguito allo scatteringCompton, che raggiungono il rivelatore insieme al fascio primario.

Nei seguenti paragrafi si approfondiranno quei processi di interazione che influiscono mag-giormente nell’attenuazione di un fascio di fotoni nella materia e che hanno quindi grandeimportanza nella spettrometria dei raggi X: come già detto, questi sono l’effetto fotoelettrico,lo scattering di Rayleigh e lo scattering Compton.

1.1.1 Effetto fotoelettrico

L’effetto fotoelettrico consiste nell’assorbimento di un fotone incidente su un materiale e nel-la conseguente emissione di un elettrone da uno degli atomi costituenti il materiale stesso.L’energia necessaria a rimuovere l’elettrone dalla shell di appartenenza e portarlo fuori dal-l’atomo, prende il nome di energia di legame dell’elettrone EB (binding energy). Infatti, sel’energia del fotone incidente è minore di EB, non si osserva alcuna emissione di fotoelettroni.

Figura 1.2: Schema dell’effetto fotoelettrico: un fotone X incidente provoca l’espulsione di unfotoelettrone e, come vedremo, la transizione elettronica induce emissione X caratteristica.

Per conoscere i limiti caratteristici delle spalle di assorbimento (absorption edges) – cal-colabili grazie a delle equazioni empiriche – è inoltre interessante osservare il grafico dellasezione d’urto fotoelettrica τ , rispetto all’energia dei fotoni incidenti. Questa è mostrata inFigura 1.1, in cui uno dei termini è proprio la curva del coefficiente di assorbimento fotoe-lettrico massivo. Per specifici valori di energia, si trovano delle discontinuità nei valori ditale coefficiente, e quindi della sezione d’urto di assorbimento fotoelettrico τ alla quale, comesi è visto, è proporzionale. I valori di energia indicati corrispondono proprio alle spalle diassorbimento (K–edeges, L–edges, M–edges, . . . ).

In prima approssimazione, il coefficiente di assorbimento fotoelettrico massivo, µτ , puòcosì essere calcolato a partire dall’equazione di Walter [1], che tiene conto delle spalle di

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 6

assorbimento, con E l’energia del fotone incidente:

µτ = τN0

A=

30.3Z3.94

AE3 per E > EK

0.978Z4.30

AE3 per EL1 < E < EK

0.78Z3.94

AE3 per EM1 < E < EL3

(1.6)

Questo salto di continuità in corrispondenza di una spalla di assorbimento (il cosiddettojump) viene descritto dall’absorption jump factor [2], nel caso della K-edges, dato da:

SK = µτk,max

µτk,min(1.7)

ossia il rapporto tra la µτ corrispondente al limite superiore della spalla di assorbimento K equella del limite inferiore.

1.1.2 Scattering Compton

Lo scattering Compton (anelastico o incoerente) consiste nell’interazione di un fotone con unelettrone libero. In prima approssimazione, si può considerare tale il caso di un elettrone cheviene a trovarsi nella shell più esterna dell’atomo sul quale incidono fotoni ad alta energia.

Figura 1.3: Schema di uno scattering Compton: un fotone X incidente provoca l’espulsione di unelettrone e l’emissione di un fotone X di minore energia.

È dunque possibile trascurare la debole energia di legame dell’elettrone, poichè il momentotrasferitogli dal fotone supera ampiamente il momento dell’elettrone stesso allo stato legato.Grazie alla conservazione di energia e impulso, si avrà:

hν = hν0

1 + γ(1− cos θ) con γ = hν0

mec2 (1.8)

T = hν0 − hν = hν0γ(1− cos θ)

1 + γ(1− cos θ) , tanϕ = 11 + γ

cot(θ

2

)(1.9)

dove hν0 e hν sono le energie dei fotoni, rispettivamente, incidente e scatterato, θ è l’angolodi scattering del fotone – ossia la direzione di propagazione del fotone scatterato rispetto aquello incidente –, c è la velocità della luce, h la costante di Planck ed me la massa a riposodell’elettrone; T e ϕ sono invece l’energia cinetica e l’angolo di scattering dell’elettrone dirinculo.

Nel caso sperimentale, in uno spettro della fluorescenza X il picco corrispondente alloscattering Compton ha una forma più larga rispetto alle righe di fluorescenza (la cosiddettaspalla Compton). Infatti, a causa dei moti relativi degli elettroni coinvolti nell’interazione,si osserva un allargamento Doppler. Inoltre, nella fluorescenza a raggi X, l’angolo θ non èdiscreto, ma si osserva uno scattering entro una piccola serie di angoli. L’allargamento delpicco viene quindi espresso da una relazione del tipo:

∆Θ = 4βλ sin(θ

2

)(1.10)

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 7

con β = v/c, per un moto random di elettroni con velocità v.Per un fascio di fotoni non polarizzato, che incide su elettroni liberi in moto casuale, la

sezione d’urto differenziale di Klein-Nishina – definita come il rapporto tra il numero di fotoniscatterati in una certa direzione e il numero di fotoni incidenti – è data da:

dσKNdΩ = r2

e

2

(hν

hν0

)2 (hν0

hν+ hν

hν0− sin2θ

)(1.11)

dove re è il raggio dell’elettrone. Sostituendo nell’Eq.(1.11) la (1.8), troviamo la dipendenzadella sezione d’urto differenziale dall’angolo di scattering θ:

dσKNdΩ = r2

e

21 + cos2θ

[1 + γ(1− cos θ)]2

(1 + γ2(1− cos θ)2

(1 + cos2θ)[1 + γ(1− cos θ)]

)(1.12)

È inoltre facile verificare come per energie molto basse, hν0 << mec2, l’espressione del-

la sezione d’urto differenziale si riduca a quella classica di Thompson, per la radiazioneelettromagnetica incidente su un elettrone:

dσThdΩ = r2

e

2 (1 + cos2θ) (1.13)

La sezione d’urto totale per effetto Compton σKN costituisce dunque la probabilità diinterazione Compton di un fotone incidente su un materiale al centimetro quadro:

σKN =∫ π

0

dσKNdΩ 2π sin θ dθ

= 2πr2e

1 + γ

γ2

[2(γ + 1)1 + 2γ −

ln(1 + 2γ)γ

]+ ln(1 + 2γ)

2γ − 1 + 3γ(1 + 2γ)2

(1.14)

Anche in tal caso, alle basse energie tale relazione si riduce alla sezione d’urto di Thompson,mentre per energie molto elevate, hν0 >> mec

2, l’Eq.(1.14) diventa:

σKN = πr2e

(ln 2γ + 1

2

)(1.15)

La teoria di Klein-Nishina, secondo la quale gli elettroni del target si assumono comeliberi e a riposo, in alcuni casi non può essere applicata direttamente. È questo il caso dellebasse energie incidenti – per le quali non è facile scalzare gli elettroni, dato che non tutti sonolegati solo debolmente agli atomi – o delle alte energie, dove esiste la possibilità che vengaemesso anche un secondo fotone (doppio effetto Compton).La sezione d’urto di collisione Compton totale per atomo, σC , introduce così le correzionidovute agli elettroni legati applicando la cosiddetta funzione di scattering incoerente S(p,Z),e può essere calcolata come:

σC = 12r

2e

∫ 1

−12π

1[1 + γ(1− cos θ)]2

[1 + cos2 θ + γ2(1− cos θ)2

1 + γ(1− cos θ)

]ZS(p, Z)

d(cosθ) (1.16)

dove p = sin(θ/2)/λ è il momento trasferito e λ è la lunghezza d’onda del fotone [Å]. I valoridella funzione S(p, Z) e della sezione d’urto di collisione inelastica σC furono calcolati daHubbell, ma negli ultimi anni è stata teorizzata da Szalóki una più agevole combinazione difunzioni analitiche, che fa uso di alcuni parametri e valori critici dati dall’autore stesso pertutti gli elementi con 1 < Z < 100 e qualche valore di p. (1)

In conclusione, è importante accennare anche alla probabilità di osservare scatteringCompton nel caso di un fascio incidente polarizzato. Questa può essere descritta dalla sezione

1Anche il margine di errore, rispetto ai valori tabulati da Hubbell, rientra nell’1%.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 8

d’urto differenziale (dσKN/dΩ)pp per una radiazione polarizzata planarmente (pp), che incidesu elettroni orientati in maniera casuale. Derivata anch’essa dalla teoria di Klein-Nishina,rappresenta la probabilità che un fotone, incidente su un target contenente 1elettr/cm2, ven-ga deviato di un angolo θ – all’interno di un angolo solido dΩ – e in un piano orientato di unangolo β rispetto al piano contenente il fascio incidente:(

dσKNdΩ

)pp

= r2e

2

(hν

hν0

)2(hν0

hν+ hν

hν0− 2 sin2θ cos2β

)(1.17)

Tale sezione d’urto ha un massimo per β = 90, ossia nella condizione in cui il fotone el’elettrone vengono deviati a 90 rispetto alla direzione della radiazione incidente.

1.1.3 Scattering di Rayleigh

Lo scattering di Rayleigh (elastico o coerente) è un processo in cui i fotoni incidenti vengonoscatterati dagli elettroni atomici legati di un target e a seguito del quale non si osservaeccitazione o ionizzazione dell’atomo, quindi nessuna perdita di energia da parte del fotone.

Figura 1.4: Schema di uno scattering di Rayleigh: un fotone X incidente viene deviato dall’elettroneatomico senza alcuna perdita in energia.

Pertanto, il fotone deviato non subisce alcun cambiamento di frequenza e la sua fase èdefinita da una precisa relazione tra onda incidente ed emessa. L’intensità della radiazioneemessa viene determinata dalla somma delle ampiezze della radiazione coerente scatteratada ogni elettrone dell’atomo. È quindi importante sottolineare che la coerenza dell’onda simantiene solo per gli Z elettroni di ogni atomo. L’interferenza è dunque sempre costrutti-va, purchè il cambiamento di fase, maggiore del diametro dell’atomo, sia minore di mezzalunghezza d’onda:

4πλra sin

2

)< 1 (1.18)

dove ra è il raggio atomico effettivo.Lo scattering di Rayleigh avviene soprattutto alle basse energie e per materiali con elevato

Z, nella stessa regione in cui gli effetti dovuti agli elettroni legati influenzano la sezione d’urtodi scattering Compton. La sezione d’urto differenziale di scattering di Rayleigh per radiazionenon polarizzata è data da:

dσRdΩ = 1

2 r2e (1 + cos2θ) |F (p, Z)|2 (1.19)

in cui F (p, Z) è il fattore di forma atomico:

F (p, Z) =∫ ∞

0ρ(r)4πr sin [(2π/λ)rs]

(2π/λ)rs dr (1.20)

dove ρ(r) è la densità totale, r è la distanza dal nucleo ed s = 2 sin(θ/2). Tale fattore è statocalcolato per elementi con Z < 26 usando la distribuzione elettronica di Hartree, mentre perquelli con Z > 26 è stata utilizzata la distribuzione di Thomas–Fermi. Esso tiene conto delledifferenze di fase tra le onde scatterate dagli Z elettroni atomici del target: è massimo per i

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 9

fotoni scatterati in avanti – poichè in tal caso non si osserva alcun cambiamento di fase – edè proporzionale a Z2. I valori del fattore di forma sono comunque riscontrabili in letteratura.

Alle elevate energie, lo scattering di Rayleigh è confinato entro piccoli angoli, mentre allebasse energie – soprattutto per materiali con elevato Z – la distribuzione angolare è moltopiù ampia. Un semplice criterio per valutare l’allargamento angolare è dato da:

θR = 2 arcsin(

0.0133Z1/3

E(MeV )

)(1.21)

dove θR è la metà dell’angolo di apertura di un cono contenente il 75% dei fotoni scatterati:per i fotoni che proseguono lungo la direzione del fascio incidente, |F (p, Z)|2 = Z2, quindi loscattering di Rayleigh assume ordini di grandezza apprezzabili e deve essere tenuto in contoper molti esperimenti di scattering di raggi X o γ.

La sezione d’urto totale per atomo dello scattering di Rayleigh, σR, può essere calcolatagrazie a:

σR = 12 r

2e

∫ 1

−1(1 + cos2θ)|F (p, Z)|2 2π d(cos θ) = 3

8 σTh∫ 1

−1(1 + cos2θ)|F (p, Z)|2 d(cos θ) (1.22)

con σTh la sezione d’urto di scattering Thompson.Anche per lo scattering coerente, Hubbell nel suo lavoro presentò i valori di F (p, Z) e della

sezione d’urto totale, mentre recentemente Szalóki ha proposto degli espedienti per calcolarlofissando diversi parametri, come i valori critici di p per tutti gli elementi con 1 < Z < 100 eper valori del momento trasferito 0 < p < 15 Å−1. (2)

Come già fatto per lo scattering Compton, anche nel caso dello scattering di Rayleigh èpossibile calcolare la sezione d’urto nel caso di un fascio polarizzato (pp):(

dσRdΩ

)pp

= dσThdΩ F 2(p, Z) = r2

e (1− sin2θ cos2ϕ)F 2(p, Z) (1.23)

con dσTh/dΩ la sezione d’urto differenziale di scattering Thompson (il caso classico).

1.1.4 Raggi X caratteristici e fondo continuo

Emissione di raggi X caratteristici

L’emissione di raggi X caratteristici è dovuta alle transizioni elettroniche tra due livelli ener-getici permessi degli atomi presenti in un materiale, usato come bersaglio. Tale fenomeno èuna conseguenza dell’espulsione – a seguito del bombardamento con elettroni o fotoni – diun elettrone appartenente ad una delle shells atomiche più interne.

Nel caso della radiazione elettromagnetica (X o γ), la ionizzazione è data dall’effettofotoelettrico: un fotone che incide su un atomo ne provoca l’emissione fotoelettrica di unelettrone, lasciando l’atomo stesso in uno stato eccitato (Par. 1.1.1). La lacuna così rimastanella shell viene colmata da un elettrone proveniente dalle shells più esterne, riportando in talmodo l’atomo allo stato stabile (il cosiddetto ground state), con la conseguente emissione dienergia sottoforma di un fotone X detto di fluorescenza (o per induzione di transizioni Augero di Coster-Kronig, che verranno descritte successivamente nel Par. 1.2.2).

In Figura 1.5 sono mostrati i livelli energetici più vicini al nucleo coinvolti nelle transizionielettroniche che inducono la fluorescenza X. Come si vede, gli elettroni della shell K sonoquelli maggiormente legati all’atomo e quindi più coinvolti nel dominio energetico di interesseper la tecnica XRF.

Ovviamente, l’energia del fotone di fluorescenza emesso sarà data dalla differenza tra duevalori di energia, corrispondenti ad ognuna delle due shells atomiche coinvolte: per questo,

2In questo caso la deviazione media tra i dati tabulati e quelli calcolati da Szalóki è minore del 2%.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 10

Figura 1.5: Diagramma parziale dei livelli energetici e delle transizioni elettroniche che producono iraggi X caratteristici.

si dicono raggi X caratteristici. Se tali termini sono E1 ed E2, la frequenza della riga emessasarà data dalla relazione:

ν = E1 − E2

h(1.24)

La Tabella 1.1 mostra le più comuni notazioni utilizzate per la fluorescenza X. Quella diSiegbahn tiene conto delle righe spettrali. Nella riga Kα1, ad esempio, K rappresenta la shellin cui avviene la transizione per riempire la lacuna, α rappresenta la shell di provenienzadell’elettrone e, infine, 1 tiene conto della subshell appartenente alla shell di provenienzacoinvolta nella transizione. La IUPAC invece richiama le shells coinvolte nel processo diemissione della fluorescenza. Ad esempio, K − L3 indica che la transizione avviene tra lashell L e la K, mentre il numero rappresenta ancora una volta la subshell della shell diprovenienza dell’elettrone.

L1 L2 L3 M1 M2 M3 M4 M5 N1 N2 N3 N4 N5 O4/5

L3 L1 Lα2 Lα1 Lβ6 Lβ2 Lβ2 Lβ5

L2 L ν Lβ1 L γ1 L γ6

L1 Lβ4 Lβ3 L γ2 L γ3

K Kα2 Kα1 Kβ3 Kβ1 Kβ5 Kβ5 Kβ2 Kβ2 Kβ4 Kβ4

Tabella 1.1: Nomenclatura delle righe dei raggi X.

L’analisi della fluorescenza X si basa proprio sull’attribuzione delle righe di fluorescenzaad atomi specifici. La definizione di una nomenclatura, per i livelli energetici e le righe deiraggi X, è quindi importante affinchè si possa differenziare la fluorescenza.

Una generica espressione, che mette in relazione la lunghezza d’onda di una riga caratte-ristica dei raggi X con il numero atomico dell’elemento corrispondente, è data dalla legge diMoseley:

= k(Z − σ)2 (1.25)

dove k è una costante data per ogni determinata serie spettrale e σ è una costante che tieneconto dello screening, per correggere il termine di repulsione dovuto agli altri elettroni piùinterni nell’atomo.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 11

Tale legge è molto importante per la descrizione degli spettri dei raggi X. Si possono trovaretabulate le energie e le lunghezze d’onda delle principali righe di emissione – per le serie K,L ed M – con le loro intensità relative approssimate. Queste, sono state definite tramitele intensità dei picchi delle righe spettrali o calcolando l’area al di sotto delle distribuzionidi intensità. Infatti, l’intensità delle righe non è costante poichè, non solo dipende dallaprobabilità di transizione degli elettroni, ma anche dalla composizione del campione.

Inoltre, poichè le lacune create hanno una certa vita media, i livelli atomici coinvolti(Eq.(1.24)) e le righe caratteristiche sono caratterizzati dalla cosiddetta larghezza naturale diriga, data dalla somma delle larghezze dei livelli atomici coinvolti nelle transizioni. (3)

Si è accennato all’inizio al fatto che l’emissione di radiazione caratteristica non è l’unicoprocesso attraverso il quale un atomo eccitato può tornare allo stato stabile. La diseccitazionepuò infatti avvenire anche per emissione di uno degli elettroni atomici da uno stato menolegato. Tale transizione viene detta effetto Auger e, di solito, la probabilità che avvenga èmaggiore per gli elementi con Z piccolo e aumenta al diminuire della differenza di energia tragli stati energetici coinvolti.

Inoltre, un atomo eccitato manca già di un elettrone (ad es., nella shell K ) e, nel momentoin cui viene emesso anche un elettrone Auger (ad es., dalla shell L), si trova in uno statodoppiamente ionizzato. L’atomo può quindi tornare allo stato stabile tramite un ulterioreeffetto Auger, con emissione di un elettrone dalla shell M. Può altrimenti avvenire un singolo,o doppio, salto elettronico con la conseguente emissione di una riga caratteristica, o di righesatelliti. Le righe satellite dei raggi X sono delle righe di emissione molto deboli e quasi nonhanno alcuna conseguenza nella spettrometria dei raggi X. Queste infatti non compaiono neidiagrammi dei livelli energetici (per questo sono anche dette nondiagram lines) e, in analogiacon i picchi satelliti degli spettri ottici, si suppone che siano originati a partire dalla doppiao molteplice ionizzazione di un atomo.

Emissione di radiazione continua

L’emissione continua di raggi X è una conseguenza della perdita di energia degli elettroni(4), che attraversano il campo coulombiano di un nucleo in un materiale. L’energia persadagli elettroni, fortemente decelerati dalle diverse collisioni con gli atomi del campione, vienedunque emessa sotto forma di fotoni: è il cosiddetto processo di bremsstrahlung. Infatti, adenergie di pochi MeV risulta ininfluente ma, al crescere dell’energia, può diventare il maggioreresponsabile della perdita di energia per gli elettroni. Tale fenomeno trova in effetti confermanella teoria classica dell’elettromagnetismo, secondo la quale il moto di una particella caricaaccelerata è sempre accompagnato dall’emissione di radiazione.Lo spettro continuo così generato è caratterizzato da un limite inferiore di lunghezza d’ondaλmin, corrispondente all’energia massima degli elettroni incidenti [3]:

λmin = hc

eV0(1.26)

dove h è la costante di Planck, c è la velocità della luce, e è la carica dell’elettrone e V0 è ilpotenziale applicato al tubo. Tale relazione è detta legge di Duane-Hunt.

La probabilità di irradiare l’energia dissipata è proporzionale al quadrato della caricadella particella e del numero atomico del materiale del bersaglio, oltre che all’energia cineticadell’elettrone, nel nostro caso, ma è inversamente proporzionale alla massa a riposo dellacarica stessa (5). Lo spettro continuo dei raggi X è quindi caratterizzato da:

3L’incertezza sulla larghezza dei livelli va dal 3% al 10% per la shell K, dall’ 8% al 30% per le subshells Lmentre, riguardo alle larghezze naturali di riga, dal 3% al 10% per le righe Kα1,2. In entrambi i casi, gli errorimaggiori incidono sugli elementi con più basso Z.

4Nel caso della fluorescenza X ma, in generale, anche di altre particelle cariche ad alta energia come protonio particelle-α.

5I protoni o le particelle pesanti irradiano meno poichè hanno una massa maggiore di quella degli elettroni.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 12

• un limite inferiore di lunghezze d’onda, λmin (vedi Eq.(1.26)), al di sotto del quale nonsi osserva alcuna radiazione;

• una lunghezza d’onda di intensità massima, λmax ≈ 1.5λmin, in cui la relazione conλmin dipende in parte dalla tensione, dalla forma d’onda della tensione e da Z ;

• una certa proporzionalità tra l’intensità totale e la radice della tensione, insieme alnumero atomico del materiale del bersaglio.

Lo studio dell’emissione continua di raggi X è fondamentale per la spettrometria a raggi X(XRS), poichè la distribuzione spettrale dell’intensità di un tubo a raggi X permette di appli-care la dovute correzioni alle matrici matematiche nell’analisi quantitativa della fluorescenzaa raggi X (XRF). Infatti, non è semplice effettuare un fit delle righe caratteristiche nel mo-mento in cui nello spettro è presente anche il fondo. Allo stesso modo, non è banale teorizzarelo spettro continuo di bremsstrahlung per un campione costituito da più elementi, anche sesono state riformulate le relazioni classiche affinchè si tenga conto dell’auto–assorbimento (ilcosiddetto self–absorption) dei raggi X e del backscattering degli elettroni. (6)

1.1.5 Diffrazione, Rifrazione e Riflessione dei raggi X

La propagazione dei raggi X in un mezzo può essere descritta dagli stessi concetti utilizzatiper lo studio dell’ottica della luce ordinaria: un fascio di raggi X monocromatico, incidendosu un reticolo cristallino, viene diffratto in direzioni definite. Il fenomeno della diffrazione diraggi X può essere anche interpretato come una riflessione del fascio incidente da parte deipiani interni di un cristallo: si tratta della riflessione di Bragg.

Figura 1.6: Riflessione di raggi X da parte di un reticolo cristallino: riflessione di Bragg

Come mostrato in Figura 1.6, calcolando la differenza di cammino tra due raggi coerenti,Bragg trovò la condizione affinchè avvenisse la riflessione, ossia la legge di Bragg:

nλ = 2d sin θn (1.27)

dove n è l’ordine della riflessione, d è lo spacing tra due piani reticolari e θn è l’angolo diriflessione (per l’ordine n) – o angolo di Bragg – ossia l’angolo tra il piano di riflessione delcristallo e il fascio incidente o riflesso. La riflessione del primo ordine (n = 1) di solito è lapiù intensa, infatti l’intensità della riflessione diminuisce all’aumentare dell’ordine n.

Tuttavia, la legge di Bragg proposta nell’Eq.(1.27) è solo una prima approssimazione.Deviazioni da tale legge non poterono essere osservate finchè non si trovarono dei metodisperimentali che producessero più accurate misure sulle lunghezze d’onda dei raggi X. Infatti,l’indice di rifrazione dei raggi X è solo di poco minore dell’unità. La correzione dovuta alla

6È stato sviluppato un modello teorico di spettro continuo di raggi X generato con campioni multielementalie di spessore finito.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 13

rifrazione viene così apportata attribuendo un diverso valore dn alla costante d del reticoloper ogni ordine di riflessione n:

nλ = 2d(

1− 4d2

n2δ

λ2

)sin θn (1.28)

in cui δ = 1 − n′, con n′ indice di rifrazione per i raggi X, tiene conto dell’assorbimento diradiazioni di piccola lunghezza d’onda (λ < 1 Å). δ è infatti un numero positivo piccolo,dell’ordine di 10−5 per gli elementi pesanti e 10−6 per elementi leggeri, per λ = 1 Å, ed èproporzionale a λ2. Lo studio della propagazione ottica della luce si basa infatti sull’evidenzache ogni materiale può essere descritto in termini di un indice di rifrazione, strettamente legatoalle sue proprietà dielettriche. Si ha infatti n′ = √εr, in cui εr altro non è che la costantedielettrica relativa del mezzo stesso, un numero complesso, quindi l’indice di rifrazione puòessere scritto come n′ = 1− δ, dove δ = α+ iβ con α e β dati da:

α = 2πNe2

me ω2 f′ , β = 2πNe2

me ω2 f” (1.29)

Tali costanti presentano f ′ ed f”, parti rispettivamente reale e immaginaria del fattore discattering, la frequenza ω dei raggi X, il numero di atomi per unità di volume N , la massaa riposo e la carica dell’elettrone, me ed e. Per un atomo polielettronico, f ′ è dato dallasomma dei fattori di scattering di tutti gli elettroni. Tuttavia, per energie molto al di sottodel limite di assorbimento, gli elettroni corrispondenti contribuiscono in maniera minore alfattore di scattering atomico, mentre per energie molto al di sopra di tale limite, gli elettronicontribuiscono per una unità. (7)Essendo dunque δ un numero positivo, quando un fascio di raggi X incide su una superficiecon un angolo radente abbastanza grande, nell’aria si ha una riflessione totale, poichè unmateriale allo stato solido è otticamente più sottile dell’aria. Stando infatti alla legge di Snellper un sistema costituito da uno strato interposto tra due mezzi con indici di rifrazione n1

ed n2, rispettivamente per il mezzo attraversato dal fascio incidente e per quello in cui passail fascio rifratto, la relazione tra gli angoli è data da:

sin θ1

sin θ2= n1

n2(1.30)

con θ1 l’angolo di incidenza e θ2 l’angolo di rifrazione, entrambi misurati rispetto alla normaleal piano di incidenza (θ1 = π − θ). Considerando allora θ2 = 90 (quindi rifrazione nulla) en1 = 1 (indice dell’aria) troviamo:

sin θ1 = cos θc ≈ 1− θ2c

2 = n2 (1.31)

Purchè non si osservi assorbimento, si può così ricavare θc, ossia l’angolo critico di riflessionetotale, definito da:

sin θc =√

2δ ∝ 1E

(1.32)

dove E è l’energia del raggio X incidente.Per λ = 0.1 nm, il valore di tale angolo critico è dell’ordine di 10−3 rad, per elementi leggeri,e 5× 10−3 rad, per elementi pesanti, aumentando proporzionalmente alla lunghezza d’onda.

È così che, per un mezzo contenente solo un elemento, si può calcolare l’indice di rifrazionen′ come:

n′ = 1− δ = 1− Nλ2

2πe2

mec2 F (0) (1.33)

7Per energie assai superiori al limite K, il fattore di scattering sarà uguale al numero atomico, mentre avràuna resonance structure per energie vicine al limite di assorbimento.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 14

dove N è il numero di atomi per unità di volume ed F (0) è il fattore di scattering atomicoper un angolo di scattering nullo. Non considerando la riflessione totale (quindi non tenendoconto di F (0) nell’Eq.(1.33)), e per valori di λ compresi tra 0.005 Å e 124 Å, l’indice dirifrazione tende all’unità: ciò spiega le basse capacità di riflessione e rifrazione dei raggi X inogni tipo di materiale. L’Eq.(1.33) dimostra, infatti, la dipendenza dell’indice di rifrazionedalla lunghezza d’onda: tale fenomeno è detto dispersione.La dispersione anomala dell’onda comporta che la quantità δ/λ2, dell’Eq.(1.28), vari legger-mente al variare della lunghezza d’onda. La variazione diventa importante nel momento incui ci si trova nelle vicinanze dei limiti di assorbimento dei costituenti del cristallo. Tenendoconto della teoria della dispersione anomala, è dunque possibile dividere tale quantità δ/λ2

in una parte normale (δ/λ2)n, e una parte anomala (δ/λ2)a, così da derivarne una nuovaespressione della legge di Bragg (8):

nλ = 2d[1− 4d2

n2

λ2

)n− 4d2

n2

λ2

)a

]sin θn (1.34)

Questa, combinata con la forma approssimata della legge di Bragg (Eq.(1.27)), diventa:

λ = 2d[1− 4d2

n2

λ2

)n

]sin(θnn

)− 4d2

n2

λ2

)aλ (1.35)

La teoria della dispersione anomala è stata applicata da Sparks, per spiegare lo scatteringinelastico indipendente dall’angolo e causato da elementi con energia del limite di assorbimen-to appena al di sopra dell’energia dei raggi X incidenti. Si era infatti trovato che l’intensitàdella radiazione scatterata è dipendente dalla vicinanza di queste due energie. Inoltre, l’ener-gia dei picchi inelastici è spostata rispetto all’energia incidente a causa dell’energia di legamedella shell più saldamente legata, dalla quale potrebbero essere fotoemessi elettroni ad operadella radiazione incidente.

1.2 Parametri fondamentali della fluorescenza XNella prima sezione del capitolo, si è parlato del tipo di emissione osservabile in seguito albombardamento di un target da parte di raggi X, spiegando come la fluorescenza X sia indottacome conseguenza della ionizzazione di un atomo che, tornando al suo stato stabile, emettefotoni X caratteristici. Dall’analisi di questi ultimi si può risalire agli atomi dai quali sonostati emessi e quindi alla composizione elementale del bersaglio utilizzato.

Nello studio della fluorescenza a raggi X le righe spettrali caratteristiche vengono dunqueanalizzate per poter determinare la concentrazione degli elementi in cui viene indotta lafluorescenza.Tuttavia, questa può essere prodotta anche ad opera della stessa radiazione caratteristica: siparla in tal caso di fluorescenza primaria, secondaria e terziaria. La prima è quella descrittasinora, risultato di un fascio di fotoni X di eccitazione che induce la produzione di radiazionecaratteristica da parte di un elemento. La fluorescenza secondaria si osserva invece quan-do quella primaria induce a sua volta la radiazione caratteristica di un altro elemento delcampione. Infine, la fluorescenza terziaria viene allo stesso modo indotta dalla fluorescenzasecondaria su un terzo elemento.

La relazione teorica tra l’intensità della fluorescenza primaria e la concentrazione elemen-tale del campione ad essa associato, venne studiata inizialmente a metà degli anni ’50 ed è allabase dell’approccio sui parametri fondamentali per la calibrazione della XRF. Ad oggi, esisteuna derivazione semplificata [2] della tradizionale relazione tra le due grandezze, che era datadall’equazione di Sherman [4]. Si tratta di una nuova formulazione che sfrutta una geometria

8Il termine correttivo, (δ/λ2)a, può essere determinato sperimentalmente.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 15

semplificata tra gli strumenti di misura e il campione, eliminando così alcuni dei dettagli ma-tematici presenti nella relazione originaria. Si considera infatti una radiazione di eccitazionecostituita da un fascio di raggi X, monocromatico e parallelo, incidente perpendicolarmenteal campione, con il rivelatore posto parallelamente alla sorgente.

Il problema può essere affrontato in diversi step: innanzitutto esaminando nel dettagliosia l’attenuazione del fascio incidente e l’assorbimento dei fotoni X da parte di un determinatoelemento i del campione, che l’attenuazione dell’intensità della riga di fluorescenza – prodottaa seguito dell’assorbimento – nel suo cammino a ritroso verso il rivelatore; e, in secondoluogo, studiando i meccanismi di produzione della fluorescenza ad opera di tale elemento,considerando ad esempio la riga Kα in particolare.

1.2.1 Intensità della fluorescenza

L’intensità della radiazione incidente viene attenuata nel suo cammino all’interno del cam-pione a causa dell’interazione con il materiale stesso. Come mostrato nel Par. 1.1, taleattenuazione viene descritta dalla legge esponenziale (1.4), in cui termini fontamentali sonola lunghezza del cammino all’interno del materiale x e il coefficiente di assorbimento massivoµ, per una energia di eccitazione E0 e una densità ρ del campione.

La frazione di intensità della radiazione assorbita è data dunque da dI = µρ dx. Diquesta, a sua volta, solo una parte viene assorbita dall’elemento i presente nel campione,data dal prodotto della concentrazione ci dell’elemento per il rapporto tra il coefficiente diassorbimento massivo dell’elemento e dell’intero campione, µi/µ. Ne consegue che l’intensitàdella radiazione incidente assorbita, ad opera del solo elemento i, si trova moltiplicando talefrazione per l’Eq.(1.4), che esprimeva invece l’assorbimento ad opera dell’intero campione:

dI(i) = I0

[ci

(µiµ

)](µρ dx) e−µρx = I0 (ciµiρ dx) e−µρx (1.36)

Tale assorbimento, come si vedrà in dettaglio nel Par. 1.2.2 successivo, porta alla produ-zione della radiazione di fluorescenza caratteristica dell’elemento i considerato.Tuttavia, anche questa verrà attenuata nell’attraversare nuovamente lo spessore, raggiuntodurante il suo cammino, fino al rivelatore. Di conseguenza, la frazione di intensità dellafluorescenza trasmessa rispetto a quella iniziale dI(i) è data da

dI(Ei,i) = dI(i) e−µEiρx (1.37)

per una radiazione di fluorescenza di energia Ei, con cammino di lunghezza x e per la qualeil coefficiente di assorbimento massivo è µEi .

Considerando inoltre l’emissione su tutto l’angolo solido (4π) della radiazione di fluore-scenza, solo una frazione di questa verrà raccolta dal rivelatore, data da Ω/4π, in cui Ω èl’angolo solido coperto dal rivelatore. Di conseguenza, il contributo dell’intensità della fluo-rescenza primaria dI(Ei,i) dell’elemento i è dato dal prodotto dell’Eq.(1.37), per la frazionedi angolo solido rivelata e per un fattore µiQ = σF,i, relativo alla produzione della fluore-scenza, descritta nel paragrafo successivo. Integrando la grandezza x per uno spessore D delcampione, si trova dunque:

Ii = (I0ciµiQ)(Ω/4π)µ+ µEi

[1− e−(µ+µEi )ρD

](1.38)

Dalla somma dei due coefficienti di assorbimento massivo, relativi alla radiazione incidenteed emessa, è possibile definire il cosiddetto coefficiente di assorbimento massivo effettivo µ*,che tiene conto anche della lunghezza del cammino percorso delle due radiazioni all’internodel materiale costituente il campione. Allo stesso modo, può definirsi anche µ∗lin, legato alprimo dalla relazione già vista per i coefficienti non effettivi. Nel caso in cui la geometria

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 16

dell’apparato sperimentale sia diversa da quella semplificata descritta, questi sono esprimibilidalla relazione:

µ∗lin = µ∗ ρ =

∑j

(µj

cos θA+ µEi,j

cos θD

)wj

ρ =∑j

(µj

cos θA+ µEi,j

cos θD

)ρj (1.39)

con θA e θD gli angoli compresi tra la normale al campione e gli assi di incidenza e rivelazio-ne, rispettivamente. L’assorbimento della radiazione di eccitazione da parte degli j elementiviene espresso da µj , mentre l’assorbimento della radiazione di fluorescenza prodotta dell’e-lemento i – sempre per opera dell’elemento j – tramite µEi,j . Naturalmente, la densità localedell’elemento i nel campione, ρi, è invece data dal prodotto del valore percentuale del suopeso, wi, e la densità totale del campione ρ: ρi = ρwi.Considerando tale coefficiente, l’equazione di Sherman semplificata potrà essere espressacome:

Ii = I0ci σF,i Ω

4π[1− e−µ∗ρD]

µ∗(1.40)

Ad ogni riga di fluorescenza i è quindi associata una equazione come la (1.38): ne risultaun sistema di equazioni accoppiate tramite il coefficiente di attenuazione lineare, risolvibilerispetto alla densità locale degli elementi contenuti nel campione.

Un’importante limitazione della XRF è proprio il range di elementi rivelabili, dipendentedall’apparato sperimentale (il tubo a raggi X, la radiazione di sincrotrone, la camera a vuoto,l’ottica per i raggi X utilizzata, . . . ), che complica l’analisi soprattutto degli elementi leggeri.Gli elementi non rivelabili costituiscono così la cosiddetta dark matrix (matrice oscura), chein alcuni casi può essere vicino al 100% del campione.

1.2.2 Produzione della fluorescenza

La probabilità di emissione di fluorescenza X caratteristica può essere descritta dalla sezioned’urto di produzione della fluorescenza, σF . Questa è definita come il prodotto tra il coeffi-ciente di assorbimento fotoelettrico massivo µτ e il fattore di eccitazione (excitation factor)Q, dato a sua volta dal prodotto di tre termini:

σF = Qµτ con Q = jgω (1.41)

in cui j absorption jump ratio, ω resa di fluorescenza (fluorescence yield) e g probabilità ditransizione, verranno descritti nel seguito.

Si è già parlato della sezione d’urto di assorbimento fotoelettrico τ , così come del coef-ficiente di assorbimento fotoelettrico massivo µτ , nel Par. 1.1.1. Riguardo invece al fattoredi eccitazione, questo è il termine che – insieme al numero di fotoni assorbiti dal materiale,Eq.(1.36) – determina la fluorescenza di una determinata riga di un elemento i. Q è infattiassociato a tre diversi processi atomici, ognuno caratterizzato da una certa probabilità:

• che un elettrone venga emesso da una shell piuttosto che da un’altra;

• di emissione di una determinata riga, ossia che la transizione elettronica avvenga dauna certa shell, o subshell, invece che dalle altre;

• che si osservi una transizione radiativa, cioè che venga emessa radiazione caratteristicapiuttosto che un elettrone Auger.

Si consideri dunque l’emissione di una riga di fluorescenza Kα caratteristica, da parte diun elemento i presente con una concentrazione ci sulla superficie del campione.

Il primo termine è così la probabilità che, a seguito dell’assorbimento fotoelettrico, un elet-trone venga emesso dalla shell K piuttosto che dalla shell L o M. Questa è data dall’absorptionjump ratio della shell K, jK :

jK = SK − 1SK

(1.42)

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 17

in cui SK è il jump factor della shell K definito, nell’Eq.(1.7) del Par. 1.1.1, come il rapportotra i coefficienti di assorbimento fotoelettrico µτ corrispondenti al limite superiore e inferioredella spalla di assorbimento K (K–edges).

Il secondo fattore di Q è la probabilità di transizione, gij . Si tratta della probabilità cheuna lacuna presente nella shell i sia riempita a seguito della transizione di un elettrone diuna shell j, infatti

∑j gij = 1, ossia la probabilità che venga emessa una riga Kα invece di

un’altra delle righe K:

gKα = I(Kα)

[I(Kα) + I(Kβ)] = I(Kα1+Kα2)

[I(Kα1+Kα2) + I(Kβ1+Kβ2)] (1.43)

in cui le I sono le intensità delle righe spettrali evidenziate tra parentesi.La probabilità di transizione è dunque regolata dalla meccanica quantistica, ed è respon-

sabile soprattutto dell’intensità di emissione delle righe caratteristiche. Per le serie K varialeggermente al variare del numero atomico.

La terza probabilità riguarda infine la cosiddetta resa di fluorescenza. È un concetto chesi basa sul fatto che la lacuna presente in una determinata shell potrebbe essere riempitaattraverso transizioni non radiative. Questa è infatti un’importante conseguenza dell’effettoAuger: il numero di raggi X caratteristici emessi da un atomo diventa così minore di quantoci si aspetti. La resa di fluorescenza è proprio la probabilità che una lacuna presente in unashell atomica sia riempita tramite una transizione di tipo radiativo. Per le shell atomiche K,è abbastanza lineare ed è data dalla relazione

ωK = IKnK

(1.44)

dove IK è il numero totale di fotoni X caratteristici della shell K emessi da un campione ednK è il numero di lacune nella shell K primaria.

La definizione della resa di fluorescenza per le shells atomiche più alte (ossia successivealla shell K ) è più complicata, poichè queste hanno più di una subshell e quindi la mediadella resa di fluorescenza dipende dal modo in cui la shell è ionizzata, ovvero da quale dellesubshells presenta una lacuna. Inoltre, in queste possono avvenire le cosiddette transizionidi Coster-Kronig, ossia delle transizioni non radiative che hanno luogo tra le subshells di unastessa shell atomica, caratterizzate dallo stesso numero quantico principale.In assenza di questo tipo di transizioni, si può calcolare la resa di fluorescenza della i-esimasubshell di una data shell X (con X = L, M, ...) tramite la relazione

ωXi = IXinXi

(1.45)

così da poterne ricavare una media sull’intera shell X, definita come:

ωX =k∑i=1

NXi ω

Xi con NX

i = nXi∑ki=1 n

Xi

(1.46)

con NXi il numero relativo di lacune primarie nella subshell i della shell X,

∑ki=1 N

Xi = 1.

Le sommatorie presenti nelle equazioni sono ovviamente estese a tutte le k subshells dellashell X. Bisogna inoltre tener presente che l’Eq.(1.46) è valida solo in assenza di transizionidi Coster-Kronig. Infatti, la media della resa di fluorescenza ωX non è una proprietà fonda-mentale dell’atomo ma, come abbiamo visto, dipende da ωXi e NX

i , caratteristiche del metodoutilizzato per ionizzare l’atomo.

Nel caso in cui avvengano invece delle transizioni di Coster-Kronig, che modificano ladistribuzione delle lacune primarie tramite trasferimento della ionizzazione da una subshell

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 18

ad un’altra di minor energia, la media della resa di fluorescenza può essere calcolata in duemodi diversi.

Nel primo, si considera tale media come combinazione lineare delle rese di fluorescenzadelle subshells con una distribuzione di lacune modificata dalle transizioni di Coster-Kronig:

ωX =k∑i=1

V Xi ω

Xi ,

k∑i=1

V Xi > 1 (1.47)

dove V Xi può essere espresso dal termine NX

i , che tiene conto del numero relativo di lacunenella i-esima subshell della shell X, e da un valore fXij che consideri la probabilità di sposta-mento di una lacuna da una subshell Xi ad un’altra più elevata Xj a causa delle transizionidi Coster-Kronig:

V X1 = NX

1 , V X2 = NX

2 + fX12 NX1 , V X

3 = NX3 + fX23 N

X2 + (fX13 + fX12 f

X23)NX

1 (1.48)

Nel secondo possibile approccio, si può invece considerare la combinazione lineare deinumeri relativi di lacune primarie, NX

i , e il numero totale di raggi X caratteristici relativialla lacuna primaria della i-esima subshell, νXi :

ωX =k∑i=1

NXi ν

Xi (1.49)

Vediamo come sia possibile ricavare la relazione tra i coefficienti νXi e le rese di fluorescenzadelle subshells, ωXi , confrontando le due equazioni (1.47) e (1.49).

Tenendo conto adesso anche della resa dell’effetto Auger aXi – oltre che della resa difluorescenza, ωXi , e delle probabilità di avere una transizione di Coster-Kronig, fXij – questidevono rispettare la seguente relazione:

ωXi + aXi +k∑i=1

fXij = 1 con aX =k∑i=1

V Xi a

Xi (1.50)

in cui aX è la media sulla resa Auger.Tuttavia, sebbene in teoria la resa di fluorescenza della shell K possa essere calcolata, in

pratica vengono applicati i dati sperimentali o delle equazioni semiempiriche. (9)

1.3 Spettrometro XRFUno spettrometro XRF consiste di una sorgente a raggi X, un sistema per la focalizzazionedel fascio, una struttura che sostenga il campione e un sistema di rivelazione [3]. Le prime duecomponenti definiranno le proprietà spettrali del fascio primario, il supporto per il campionene permetterà un più accurato controllo della posizione rispetto al fascio e il sistema dirivelazione misurerà invece la radiazione di fluorescenza indotta dal fascio primario. Puòessere inoltre utilizzato un sistema di monitoraggio per mezzo di un microscopio che identifichila parte del campione da analizzare. Solitamente la spettroscopia di fluorescenza può infattiessere eseguita in diversi modi: analisi per punto, scansione lineare e scansione di aree.

1.3.1 Sorgenti: tubi a raggi X

Un tubo a raggi X è costituito da una camera a vuoto, al cui interno elettroni di elevataenergia bombardano un anodo di un determinato materiale (come vedremo nel Cap.2, il no-stro apparato è costituito da un anodo di Rodio). Gli atomi costituenti l’anodo deviano gli

9Queste ultime forniscono risultati corretti entro un piccolo margine d’errore per gli elementi con numeroatomico Z compreso tra 23 e 57, e meno accurati per valori di Z fuori da tale intervallo.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 19

elettroni incidenti tramite processi di scattering, producendo il tipico spettro continuo dellaradiazione di bremsstrahlung, dovuta alla decelerazione degli elettroni, che nella collisioneperdono parte della loro energia. D’altra parte, gli elettroni possono anche provocare l’ecci-tazione degli atomi dell’anodo, che emetteranno radiazione caratteristica a seguito del lororitorno allo stato stabile. Nella Figura 1.7 vengono presentati gli spettri di un tubo a raggiX, per diverse tensioni di accelerazione del fascio di elettroni incidente in un anodo di Rodio.

Figura 1.7: Spettri di un tubo a raggi X con anodo di Rh, per diverse tensioni di accelerazione.

La forma dello spettro del bremsstrahlung dipende quindi principalmente dalla tensionedi accelerazione: il massimo dello spettro si sposta all’aumentare dell’energia di accelerazionee varia così il rapporto tra la radiazione caratteristica e quella di bremsstrahlung. Infatti,nel momento in cui gli elettroni incidenti hanno abbastanza energia da produrre una lacunanelle shells più interne di un atomo, è allora che si osserva la radiazione caratteristica.

Gli spettri presenti in Figura 1.7 mostrano come per un energia maggiore di 20 keVvengano prodotte righe K caratteristiche (le righe L non vengono mostrate nel grafico),essendo 23.22 keV la spalla di assorbimento della shell K del Rh.

La potenza totale irradiata da un tubo a raggi X può essere espressa, per ogni possibilemateriale dell’anodo, in funzione del suo numero atomico Z :

P [kW ] = CZIU2 (1.51)

con I [A] la corrente anodica, U [kV] la tensione di accelerazione e una costante C ≈ 10−6

[kV−1]. L’efficenza di un tubo a raggi X si mantiene in un range dell’ordine di 0.1 – 1%,portando ad elevate dissipazioni di energia termica da parte dell’anodo.

Un caso particolare di tubi a raggi X sono i tubi microfocus, utilizzati nelle modernetecniche di analisi della fluorescenza X [5]. Questi permettono la produzione di fasci primarimaggiormente focalizzati e intensi rispetto ai tradizionali tubi a raggi X.

L’utilizzo combinato di tubi a raggi X microfocus e delle lenti policapillari focalizzanti –delle quali di vedranno le caratteristiche in dettaglio nel Par. 1.3.3 – permette di ottenerefasci molto intensi e di dimensioni fino a qualche decina di µm. Questo tipo di ottiche possiedeun angolo di accettanza molto piccolo che, nel caso venisse associato ad un tradizionale tuboa raggi X, riuscirebbe comunque a raccogliere solo una piccolissima parte della radiazioneprimaria emessa dalla finestra del tubo. I tubi microfocus sono dotati invece di un conodi emissione della radiazione confrontabile con le dimensioni della superficie in entrata delpolicapillare, permettendo così la produzione di fasci di elevata intensità, oltre che altamentefocalizzati.

Una lente policapillare ottimizzata per una sorgente di 10 –20 µm di dimensione, che foca-lizza la radiazione in uno spot focale dello stesso ordine di grandezza, è chiamata mini-lente.Così, la radiazione emessa dal tubo X microfocus – già con una piccola dimensione dello spot– viene catturata dalla mini-lente, entro il suo cono di accettanza, e focalizzata in uno spot di

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 20

dimensioni su scala micrometrica. Il guadagno sta nel fatto che i fasci di raggi X così focaliz-zati hanno una intensità assai maggiore di quelli ottenuti dagli schemi tradizionali, oltretuttosprovvisti di un apparato focalizzante ma solo di un sistema di collimatori con pinhole. Ilmotivo sta nel fatto che una sorgente con brillanza elevata si ottiene nel momento in cui l’in-tensità totale del fascio viene emessa da uno spot focale di piccolissime dimensioni, ma cheriesce comunque a catturare effettivamente una quantità relativamente grande di radiazione,attraverso un cono di accettanza del sistema ottico comparabile a quello di emissione del tuboa raggi X.

La potenza del fascio di elettroni decelerato dall’anodo viene infatti descritta, con alcuneapprossimazioni, dalla relazione:

P [W ] = CD[mm] (1.52)

con D il diametro del fascio di elettroni e C ∼ 103 W/mm un coefficiente costante.Questa è direttamente connessa alla brillanza del fascio prodotto, data da:

p[Wmm2

]= 4CπD [mm] (1.53)

Come si vede, la brillanza, al contrario della potenza, è inversamente proporzionale allamisura del fascio di elettroni: al diminuire di un certo fattore della dimensione della sorgente,la brillanza aumenta così come la potenza diminuisce di quello stesso fattore.

Si realizzano così delle sorgenti compatte di raggi X per applicazioni nel campo dell’analisielementale.

1.3.2 Rivelatori

La rivelazione dei raggi X si basa sull’interazione dei raggi X con il materiale del rivelatore. Idispositivi più comunemente usati per la XRF sono i rivelatori a semiconduttore. Un raggioX incidente nel materiale semiconduttore, con energia Ef , produce un elettrone di elevataenergia il quale crea un certo numero di coppie elettrone –lacuna dato da:

ncoppie = Efε

(1.54)

dove ε è l’energia media necessaria per la produzione delle coppie. Queste coppie vengonopoi separate dal campo elettrico presente tra il catodo e l’anodo – costituenti gli elettrodi delrilevatore e in mezzo ai quali si trova il materiale semiconduttore, come mostrato in Figura 1.8– e raccolte da questi ultimi, creando così un segnale elettrico. A questo punto, l’elettronicadel rivelatore provvederà a dare una forma e ad amplificare il segnale, che diventerà unimpulso di tensione stabile. Essendo l’ampiezza di tale impulso proporzionale all’energia delfotone X incidente, ciò renderà possibile la rivelazione della dispersione di energia.

Figura 1.8: Schema tecnico di un rivelatore a semiconduttore.

Un problema importante per questo tipo di rivelatori risiede nel fatto che il semicondut-tore utilizzato dovrebbe avere elevata resistività, affinchè il numero di coppie separate dallaradiazione rivelata sia maggiore del numero di cariche libere presenti nella regione sensibile,ossia in modo che l’impulso di tensione rivelato abbia ampiezza superiore al rumore di fondo.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 21

A tale scopo, viene sfruttata la resistività (5× 105ohm× cm) del silicio, la quale è comunqueancora troppo bassa affinchè le cariche separate siano superiori alle cariche libere presenti inun cristallo di dimensioni utilizzabili.

Per questo motivo vengono applicate le proprietà delle giunzioni p –n, costituite dallagiunzione tra un semiconduttore drogato p e uno n. A causa delle diverse concentrazioni,nella zona attorno alla superficie di contatto tra i due semiconduttori drogati, gli elettronidella parte n (dove si trovano in abbondanza e sono detti donori) tenderanno a diffondersinella parte p (dove sono invece abbondanti le lacune, dette accettori) e, viceversa, le lacunedella parte p diffonderanno nella parte n. Si stabilirà così una barriera di potenziale di segnotale da impedire un ulteriore passaggio di cariche attraverso la giunzione, con il risultatodi creare una regione, detta regione di svuotamento o di carica spaziale (depletion zone), incui non ci sono cariche libere e con un eccesso di ioni negativi (donori) nella zona p e diioni positivi (accettori) nella zona n: in pratica, a causa dell’elevata resistività creatasi, taleregione si comporterà come un isolante. Applicando poi una differenza di potenziale dellostesso segno di quella già spontaneamente stabilitasi lungo la giunzione, si esalterà l’effettodescritto allargando la regione di svuotamento, la quale costituirà proprio la regione sensibiledel rivelatore a giunzione: si dice che così la giunzione è stata polarizzata inversamente.

Essendo che la tensione rivelata è inversamente proporzionale alla capacità della giunzione,si cerca di fare in modo che i moderni rivelatori abbiano delle regioni di svuotamento semprepiù ampie e con piccoli contatti. In effetti, per ottenere un buon contatto su scala atomica,la giunzione viene costruita a partire da un unico pezzo di materiale semiconduttore, le cuiestremità opposte vengono drogate una di tipo n e una p, in modo da ottenere una superficiedi separazione il più sottile possibile (si sono raggiunti valori anche intorno al micron).

Efficienza e risoluzione di un rivelatore

Un rivelatore è caratterizzato da due parametri fondamentali: efficienza e risoluzione.L’efficienza di un apparato rivelatore viene a sua volta stimata a partire dalla sua efficienza

intrinseca, dalla geometria dell’apparato e dalla quantità di energia che la radiazione incidentevi deposita.

Considerato che non tutte le radiazioni o le particelle che vi interagiscono sono in gradodi fornire un segnale misurabile, un rivelatore ha una sua efficienza intrinseca ηint, data da:

ηint = n fotoni rivelati

n fotoni incidenti(1.55)

e, in generale, dipendente dal tipo di particelle o di radiazione, dall’energia della particella edal tipo e volume del rivelatore.

L’efficienza o accettanza geometrica ηgeom, è invece data da:

ηgeom = n fotoni incidenti nel rivelatore

n fotoni emessi dalla sorgente(1.56)

Tiene conto del fatto che, nonostante una sorgente puntiforme possa emettere isotropicamentein tutto l’angolo solido, solo una frazione della radiazione emessa interagirà con il rivelatore,a causa dell’angolo solido entro cui questo vede la sorgente.

Un ulteriore fattore di valutazione delle prestazioni di un rivelatore è infine l’efficienza difotopicco, ηphoto, che caratterizza la frazione di fotoni interagenti nel rivelatore che depositanointeramente la loro energia nel materiale.

L’efficienza di rivelazione totale η è quindi data dal prodotto delle grandezze appenadescritte:

η = ηint · ηgeom · ηphoto (1.57)

e sarà utile per correggere i dati misurati e valutare così le quantità originali.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 22

La natura statistica del fenomeno, fa sì che ogni riga di fluorescenza rivelata presenti unpicco allargato, descrivibile da una distribuzione Gaussiana:

G(E) = N0

σ√

2πe−

(E−Ec)2

2σ2 (1.58)

con N0 l’area del picco netto, Ec il centroide del picco e σ la deviazione standard gaussiana,dalla quale si ricava la larghezza a metà altezza del picco FWHM = 2.35σ (10). Teoricamente,considerando solo la larghezza naturale di righa, la FWHM (Full Width at Half Maximum)dovrebbe essere pari a pochi eV, invece sperimentalmente si trovano valori dell’ordine di130 –160 eV. Ciò avviene perchè, oltre alla larghezza naturale, le righe di fluorescenza posso-no presentare un ulteriore allargamento dovuto alle caratteristiche del rivelatore. Per questo,la deviazione standard tiene conto di quei fattori che concorrono all’allargamento delle ri-ghe caratteristiche: il rumore dovuto all’elettronica del rivelatore, σel, e il rumore statisticoσstat. Quest’ultimo viene calcolato considerando le fluttuazioni statistiche nel processo diproduzione delle coppie.

Il tipo di casualità degli eventi fa dunque pensare che questi siano meglio descrivibilidalla statistica di Poisson, secondo la quale la deviazione standard non è altro che

√N , in

cui N è il numero degli eventi misurati. Tuttavia, non è detto che l’energia depositata dalleparticelle nel rivelatore venga interamente utilizzata per creare le coppie elettrone –lacuna,ma parte dell’energia può essere spesa per l’eccitazione degli atomi senza che essi venganoionizzati. Per questo, si considera ε come l’energia mediamente utilizzata per produrre unacoppia, considerando anche le eccitazioni (Eq.(1.54)), e non il potenziale di ionizzazione I,con il quale si produrrebbero un maggior numero di coppie, essendo I < ε.Una correzione importante è poi apportata dal fattore di Fano, il quale tiene conto del casoin cui la radiazione incidente perda tutta la propria energia all’interno del rivelatore, cosicchèsi avrà un valore fissato dell’energia depositata e la produzione di coppie ne dipenderà diret-tamente. Statisticamente ciò si traduce nel fatto che i vari processi di interazione non sonodel tutto indipendenti e, di conseguenza, la statistica di Poisson non risulta più applicabile.Il fattore di Fano F tiene proprio conto della frazione di energia della radiazione incidenteche non è convertita in informazione rivelabile. Stando a questo, si trova che lo statisticalnoise è dato da:

σstat =√Fncoppie =

√F

(hν

ε

)(1.59)

Da qui, si arriva all’altra importante caratteristica di un rivelatore cui abbiamo accennato:la risoluzione in energia. Questa, infatti, è legata alla capacità di distinguere radiazioni chedepositano nel rivelatore energie simili tra loro, le quali righe spettrali sono quindi adiacenti edifficilmente distinguibili, soprattutto se presentano allargamento eccessivo. Utilizzando unasorgente monoenergetica e graficando la funzione di risposta, la risoluzione è definita come

R = FWHM

E0(1.60)

una grandezza adimensionale, normalmente scritta in percentuale, essendo stimata a partiredalla larghezza a metà altezza e dal centroide del picco, FWHM e E0.

La risposta di un rivelatore può anche essere soggetta a fluttuazioni statistiche o a rumoricasuali della strumentazione. Il primo è intrinseco in quanto, come già detto, la produzione deiportatori di carica è soggetta a fluttuazioni anche a parità di energia depositata. Una stimadella fluttuazione intrinseca viene ancora effettuata assumendo che la formazione di ciascunportatore di carica sia un processo poissoniano, la cui deviazione standard porta ad unarisoluzione limite – dovuta solo ad effetti statistici – pari a RN = 2.35/

√N . Tuttavia, oltre

all’allargamento descritto, la risposta di un rivelatore per raggi X può fornirci degli spettri

10Tale stima è valida solo per una σ che sia deviazione standard di una distribuzione gaussiana.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 23

Figura 1.9: Funzione di risposta di un rivelatore a semiconduttore per raggi X

nei quali alle righe caratteristiche si aggiungono altre strutture corrispondenti a determinatiprocessi di interazione, come mostrato in Figura 1.9:

• Photo peak: Quando il fotone incidente interagisce con il cristallo, viene prodotto unraggio X caratteristico a seguito dell’effetto fotoelettrico (vedi c) in Figura 1.9).

• Escape peak: Tuttavia, se tale fotone X non viene riassorbito, riuscendo quindi asfuggire al rivelatore, si riduce l’impulso di tensione portando così alla rivelazione di unfotone di energia pari a hν − Eatom, in cui Eatom è l’energia della riga di fluorescenzadegli atomi costituenti il cristallo del rivelatore. Ad esempio, per i rivelatori al siliciotale energia è uguale alla riga di fluorescenza Kα del silicio a 1.74 keV (vedi d)).

• Pile –up peak: Se due fotoni raggiungono il rivelatore in un intervallo di tempo minoredella risoluzione tra una coppia di impulsi, ossia in un tempo entro il quale l’elettronicadel rivelatore non è in grado di discriminare i due eventi, allora si rivelerà un picco datodalla somma delle energie dei due fotoni.

• Tail: Un fotone interagente nella zona del rivelatore prossima ai contatti frontali, o ailati del cristallo, crea una nuvola carica che non è detto si trovi totalmente all’internodel rivelatore (vedi b) in Figura 1.9). I portatori di carica possono così ricombinarsiall’esterno del volume sensibile del cristallo e, tale mancanza di cariche ricombinate,modifica la forma della Gaussiana che descrive la riga di fluorescenza, la quale assumeun coda (tail) asimmetrica nella zona delle basse energie. Qualora attorno alla primainterazione si avesse una nuvola di cariche simmetrica, l’energia minima del fotonecostituente tale coda sarebbe data da metà dell’energia della riga di fluorescenza.

• Shelf: Il fotone incidente può perdere energia soprattutto in due modi. Quando laprima interazione avviene nei contatti frontali, possono raggiungere la regione di rive-lazione sia fotoelettroni di elevata energia che elettroni Auger (vedi a) in Figura 1.9).D’altra parte, se invece la prima interazione avviene direttamente nella zona di rivelazio-ne, i fotoelettroni di elevata energia o gli elettroni Auger possono sfuggire dal rivelatore,riducendo così l’energia rivelata dei fotoni.

Esistono diversi tipi di rivelatori a giunzione, ottenuti con tecniche differenti ma, comedicevamo, i più utilizzati sono i rivelatori al silicio e, in particolare per la XRF, gli SSD(Silicon Drift Detector) dei quali parleremo più ampiamente nel prossimo capitolo.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 24

1.3.3 Ottica dei raggi X

Come visto nel Par. 1.1.5, l’indice di rifrazione per i raggi X differisce dall’unità di unaquantità dell’ordine di 10−5. Ciò rende difficile focalizzare un raggio X sfruttando la classicarifrazione. La necessità di focalizzare la radiazione emessa con grande divergenza dai tubiX, ha così portato all’utilizzo di tecniche di analisi della fluorescenza X basate sul fenomenodella riflessione totale. Si tratta di una nuova branca dell’ottica dei raggi X, basata neltrasporto della radiazione all’interno di capillari di vetro cavi tramite appunto riflessionetotale, ampiamente descritta nel Par. 1.1.5. A tal proposito, le ottiche per raggi X ad oggipiù utilizzate sono le lenti policapillari, descritte nel seguito.

Le ottiche policapillari consistono di migliaia di fasci di capillari di vetro cavi, che per-mettono la raccolta da una sorgente puntiforme e la focalizzazione della radiazione. Infatti,come mostrato in Figura 1.10, si possono sfruttare due tipi di ottica policapillare:

• le lenti, che raccolgono la radiazione proveniente da una sorgente e la focalizzano in unpunto;

• le semilenti, che possono raccogliere la radiazione proveniente da una sorgente punti-forme trasportandola in fasci paralleli (collecting mode).

Figura 1.10: Lenti e Semilenti policapillari

Le ottiche policapillari sono inoltre caratterizzate da due parametri: il fattore di guadagno(o gain factor) G e la misura dello spot, ossia il punto in cui viene focalizzata la radiazione,nel piano focale σ.

Il gain factor G è la misura dell’aumento del flusso prodotto da un policapillare rispetto aquello prodotto utilizzando un collimatore. È definito come il rapporto tra il flusso di fotoninel punto focale trasmesso con un policapillare e quello ottenuto con un piccolo pinhole.

La spot size σ è data invece dal diametro del punto focale o di accettanza, dove la di-stribuzione dell’intensità gaussiana ha raggiunto il valore 1/e del massimo. Essa può essereconvertita nella FWHM (Full Width Halm Maximum) tramite la seguente relazione:

FWHM = 2√

2 ln(2)σ (1.61)

La grandezza dello spot non cambia considerevolmente se ci si mantiene nella regione dellalarghezza focale, poichè dipende dalla geometria della lente (vedi Figura 1.10).

Essendo l’angolo di riflessione totale dipendente dall’energia, ne saranno dipendenti ancheil guadagno e la misura dello spot della lente policapillare. La relazione tra la misura dellospot, il fattore di guadagno e la trasmissione T è data da:

T ∝ σ2G (1.62)

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 25

in cui la trasmissione è definita dalla frazione di radiazione che incide all’entrata dell’otticapolicapillare rispetto alla radiazione totale trasportata verso il fuoco. Essa comprende ancheinformazioni sulla posizione, in quanto è proporzionale a quantità dipendenti dall’energiacome lo sono la misura dello spot e il fattore di guadagno.

Trasmissione

La trasmissione di una lente policapillare presenta un massimo e diminuisce sia alle energiepiù basse che per quelle più elevate. Quest’ultimo caso può essere spiegato dal fatto che unaumento di energia porta alla diminuzione dell’accettanza, a causa del decremento dell’angolodi riflessione totale. In più, la differente curvatura dei capillari influisce sulla trasmissione (ilcosiddetto shading effect). La diminuzione della trasmissione alle basse energie può inveceessere dovuta alla diminuzione della riflettività in tali regioni di energia.

Lo shading effect (o effetto ombra), cui abbiamo accennato, è un fenomeno derivante dalfatto che un capillare curvo cattura meno radiazione rispetto ad uno retto (Figura 1.11).Ne consegue che nei capillari più esterni della lente tale effetto sarà più accentuato, poichèhanno curvatura maggiore rispetto a quelli vicini al centro della lente. I capillari delle ottichepolicapillari hanno quindi curvature dipendenti dalla posizione.

Figura 1.11: Cattura della radiazione da parte di un capillare curvo rispetto ad un capillare retto,dovuto allo shading effect.

Il grado di cattura γc, considerando d ed R rispettivamente diametro e curvatura delcapillare, e θc l’angolo critico di riflessione totale (vedi Par. 1.1.5), è espresso come:

1 > γc = Rθ2c

2d (1.63)

Tale relazione dimostra come, maggiore è la curvatura del capillare, minore sarà la trasmis-sione massima.

Tuttavia, l’effetto ombra non è l’unico fenomeno utile a valutare la trasmissione. Lafluorescenza X in riflessione totale sfrutta infatti le riflessioni multiple all’interno delle ottichepolicapillari che, come già detto, sono costituite da capillari curvi. Inoltre, sebbene un fotoneincidente su una superficie può soltanto essere riflesso di un angolo θ ≤ θc, si osserva che,tramite riflessioni multiple su delle superfici curve, si possono invece raggiungere degli angolidi curvatura φ >> θc. Infatti, anche l’angolo di accettanza dei policapillari è maggiorerispetto a quello dei monocapillari. Possiamo allora definire l’indice di riflessione multiplacome:

R0 ≈ e−φβδ−3/2 ∝ e−φE

2µ(E) (1.64)

in cui la proporzionalità è data dal fatto che δ ∝ E−2 e β ∝ E−1µ(E).Nel range di energia in cui il coefficiente di attenuazione per unità di massa µ è dominatodal coefficiente di assorbimento fotoelettrico µτ – il che significa all’interno dei limiti diassorbimento – la riflettività aumenta, a causa della relazione µτ (E) ∝ 1/E3 (vedi Eq.(1.6)).Per energie più elevate, invece, prevale il termine E2 della relazione (1.64) e di conseguenzala riflettività decresce.

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Capitolo 1. Fluorescenza a raggi X 26

Misura massima dello spot

La misura dello spot per una lente monocapillare retta ideale, con diametro d e distanzafocale f2, può essere espressa dalla relazione:

σ ≈ d+ 2θcf2 (1.65)

trascurando effetti di assorbimento, illuminazione e divergenza.Per quanto riguarda i policapillari, sebbene questi siano composti da migliaia di fasci di

monocapillari, utilizzando l’Eq.(1.65) per un calcolo veloce è comunque possibile trovare lamisura dello spot entro l’esatto ordine di grandezza. Qualora invece se ne volesse fare unastima in funzione dell’energia della radiazione trasportata, considerando le Eq.(1.65) e (1.32),si trova:

σ(E) = σ0 + σ1

E(1.66)

con σ0 e σ1 dei parametri liberi.Ancora una volta, la curvatura dei capillari influenza il fenomeno: il cammino dei fotoni neicapillari più esterni della lente è relativamente più lungo rispetto a quello nei capillari, menocurvati, al centro della lente. Per questo si avrà maggior assorbimento nei primi, portandoalla decrescita della misura dello spot per le basse energie. Tale effetto è più pronunciato perle lenti piene e per le semilenti con capillari esterni molto curvati. In questo caso non puòessere utilizzata l’Eq.(1.66), ma per la descrizione del fenomeno bisogna trovare una funzionedi picco.

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Capitolo 2

Apparato sperimentale

Le misure in fluorescenza X vengono condotte con apparati sperimentali chiamati spettro-metri. I componenti principali di uno spettrometro sono: una sorgente di radiazione X cheemette il fascio primario incidente sul campione da analizzare; un collimatore con la funzionedi focalizzare il fascio sul punto di misura; un rivelatore per la rivelazione della radiazione Xdi fluorescenza indotta sul campione dal fascio primario.

Oggi giorno, detti strumenti vengono prodotti in dimensioni sempre più compatte, chene consentono l’utilizzo in-situ. Inoltre, grazie allo sviluppo delle ottiche policapillari – insostituzione dei comuni collimatori – è possibile operare con fasci di dimensioni micrometrichee di altissima intensità. In questo caso la tecnica XRF (o di fluorescenza X) prende il nomedi micro –XRF (o micro –fluorescenza X), proprio per indicare le piccole dimensioni dellaradiazione primaria. Per questo motivo, tale tecnica ha grande importanza in tutte quelleapplicazioni in cui è necessario operare con grande risoluzione spaziale.

In questo capitolo viene descritto l’apparato sperimentale utilizzato nel presente lavorodi tesi. Lo spettrometro presenta una speciale configurazione che ne consente l’utilizzo ancheper la scansione dei campioni in esame. In questo modo, oltre alle informazioni locali sullacomposizione elementale dei campioni investigati, è possibile ottenere le immagini della lorodistribuzione spaziale.

Figura 2.1: Scanner XRF mobile. A sinistra (a), sono mostrati il piano contenente la sorgente e ilrivelatore (1) e il sistema di movimentazione in XYZ per il campione (2); mentre a destra (b) si vedenel dettaglio l’apparato di misura: il tubo a raggi X (3), il rivelatore SDD (4), il microscopio ottico(5) e i due laser posti sotto la sorgente e il rivelatore (6).

I componenti principali dell’apparato sperimentale vengono dettagliati nei prossimi para-grafi. Questi sono:

• Un tubo a raggi X microfocus con anodo di Rh;

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Capitolo 2. Apparato sperimentale 28

• un policapilare per raggi X accoppiato al tubo avente in uscita una macchia focale paria 26 µm all’energia del Rh;

• un rivelatore SDD (Silicon Drift Detector) ad alta risoluzione energetica, per la rivela-zione della fluorescenza indotta sui campioni dalla radiazione primaria;

• un sistema di puntamento del campione mediante un doppio laser ed un microscopioottico;

• un sistema di movimentazione XYZ automatizzato, per la scansione dei campioni inesame.

2.1 Tubo a raggi X e capillareIl tubo a raggi X installato nell’apparato sperimentale utilizzato in questo lavoro di tesi (vedi(1) in Figura 2.1a) è un tubo microfocus con anodo di Rodio (Rh), con spot focale pari a50 µm × 50 µm [6]. Il tubo opera ad una potenza massima pari a 30 W e con condizionioperative massime pari a 50 KV per la tensione e 1 mA per la corrente.

Un ottica policapillare [7] è montata sulla sorgente X primaria (mostrata in Figura 2.1b(3)), consentendo di ottenere in uscita un fascio X di dimensioni micrometriche. Le caratteri-stiche geometriche della mini–lente policapillare (Figura 2.2), sono mostrate in Tabella 2.1.

Figura 2.2: Mini-lente policapillare per raggi X.

f1(mm) f2(mm) L(mm) Din(mm) Dout(mm) Dmax(mm) Φ(rad)

55 ± 0.5 10.3 ± 0.1 91.25 5.25 2.5 7 0.095

Tabella 2.1: Caratteristiche geometriche della mini-lente policapillare in Figura 2.2.

Come spiegato nel Par. 1.3.3, i parametri geometrici dell’ottica policapillare influenzano leprestazioni in termini di efficienza di trasmissione del fascio primario emesso dal tubo (fattoredi guadagno) e delle dimensioni finali del fascio. Inoltre, sia l’efficienza della trasmissione chele dimensioni finali del fascio X in uscita dal capillare, dipendono dall’energia (vedi Eq.(1.66)).

Il fattore di guadagno del capillare installato nel nostro spettrometro XRF e la dimensionedel fascio sono riportate in Tabella 2.2 in funzione dell’energia.

E (keV) 3 - 5 5 - 7.5 7.5 - 10 10 - 15 15 - 20 20 - 25 25 - 30Focus size (µm) (1) 44 44 43 37 28 26 26Intensity gain (2) 4470 8955 9753 9242 7139 3267 724

Tabella 2.2: Caratteristiche geometriche della mini-lente policapillare in Figura 2.2.

Come si può vedere, dimensioni minime dello spot, pari a 26 µm, possono raggiungersi nelrange energetico 25 –30 keV, ma con un gain di 724; mentre il più elevato guadagno, pari a9753, si ottiene per energie comprese tra 7.5 e 10 keV, per le quali però si osserva uno spot di43 µm. Dato che il tubo istallato nel nostro apparato sperimentale presenta un anodo di Rh

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Capitolo 2. Apparato sperimentale 29

con riga di emissione caratteristica a 20.2 keV, il policapillare permetterà di avere in uscitaun fascio primario di circa 26 µm, con un fattore di guadagno pari a 3267.

2.2 Rivelatore SDDNel precedente capitolo, sono state ampiamente descritte le caratteristiche di un rivelatore asemiconduttore. Considerati i vantaggi dell’utilizzo del silicio, ricordiamo tra i rivelatori piùutilizzati i Si(Li) (Li-drifted Si-detectors) – rivelatori al Silicio a deriva di Litio – e gli SDD(Silicon Drift Detector). Quest’ultimo viene utilizzato per lo scanner XRF oggetto di questolavoro di tesi, per la rivelazione della fluorescenza X caratteristica indotta sul campione dalfascio X primario.

Figura 2.3: Rivelatore SDD: Camera a drift cilindrica in silicio con amplificatore integrato.

Come mostrato in Figura 2.3, il rivelatore SDD [8] consta di una camera a drift cilindricain silicio drogato n+ (elevato drogaggio n), con elettrodi circolari. La tensione applicata aquesti ultimi separa le cariche prodotte dalla radiazione incidente e le conduce al centro dellaregione sensibile del rivelatore, dove viene raccolta da un piccolo anodo circolare, posto alcentro delle strip circolari concentriche drogate p+ (elevato grado di drogaggio p). Da qui,l’elettronica del rivelatore – dotata di un preamplificatore (FET) – provvederà a convertireil segnale di corrente in impulso. La radiazione incidente ha accesso dalla parte denominataback contact – anch’essa drogata p+ – ricoperta da strati assorbenti di SiO2 o Si3N4, cheinfluiscono significativamente sull’abbassamento dell’efficenza quantica nella regione di bassaenergia (vedi Figura 2.5). Il livello di drogaggio, insieme al trattamento termico del materiale,riduce invece la probabilità che si osservino processi di ricombinazione tra le coppie elettrone –lacuna prima che queste vengano raccolte agli elettrodi. Inoltre, il segnale legato al rumoreelettronico si mantiene molto basso, pur consentendo brevi tempi di risposta.

In particolare, il modello di SDD utilizzato nel presente lavoro di tesi ((4) in Figura 2.1b)è un VITUS H50, prodotto dalla KETEK [9], e mostrato in Figura 2.4.

Figura 2.4: Rivelatore SDD, modello VITUS H50, con area sensibile di 50 mm2: a sinistra vienepresentato coperto da una finestra in Be di 12.5 µm di spessore.

1Per questo apparato sono calcolati a partire da misure compiute per mezzo di un pinhole da 5 µm.2Ricordiamo che il gain è adimensionato, poichè dato dal rapporto tra l’intensità trasmessa dall’ottica

policapillare e quella ottenuta attraverso un collimatore con un pinhole di pari dimensioni.

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Capitolo 2. Apparato sperimentale 30

Esso è costituito da un’area sensibile di 50 mm2 e uno spessore di 450 µm. Inoltre, è dotatodi un dispositivo termoelettrico di raffreddamento Peltier, capace di raggiungere i -70C. Unafinestra di Berillio, di 12.5 µm di spessore (vedi Figura 2.4), scherma la regione sensibile delrivelatore da fotoni ottici e radiazione UV.

In Figura 2.5 viene mostrata l’efficienza quantica del rivelatore nel dominio compreso tra0.2 keV e 30 keV. Il rivelatore utilizzato presenta un’elevata risoluzione energetica, ≤ 136 eValla riga di riferimento di 5.9 keV, e permette di operare ad alti rate di conteggio (fino a 1000kcps) con un eccellente rapporto picco –rumore, P/B > 6000.

Figura 2.5: Curva di efficienza energetica del rivelatore SDD VITUS H50: dopo aver raggiunto unmassimo nel dominio delle basse energie, decresce all’aumentare dell’energia.

La risoluzione energetica del rivelatore SDD, mostrata in Figura 2.6, è misurata medianteil decadimento radiattivo di una sorgente di 55Fe.

Figura 2.6: Risoluzione energetica del rivelatore SDD VITUS H50.

La risoluzione energetica complessiva del rivelatore dipende infine, oltre che dalle caratte-ristiche del chip di silicio e dalla sua temperatura operativa, anche dal sistema di acquisizione(formazione e conversione analogico/digitale del segnale) utilizzato. Nel caso del nostro SDDè stato utilizzato un sistema di acquisizione completamente digitale.

2.3 Il sistema di allineamento del campionePer lavorare in condizioni di µ –XRF, il requisito principale è l’impiego di fasci ben focalizzati.E’ necessario pertanto che la superficie del campione in esame venga posizionata lungo il pianofocale della lente policapillare, ottenendo così la dimensione minima dello spot del fascio pri-mario. Come sarà discusso nei prossimi paragrafi, questo aspetto influenza significativamentela risoluzione spaziale delle mappe elementali ottenute.

Nel nostro apparato, la procedura sperimentale di messa a fuoco, del fascio X sulla super-ficie del campione, prevede l’utilizzo di due puntatori laser – uno posto sotto il tubo a raggiX e il secondo sotto il rivelatore – e di un microscopio ottico.

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Capitolo 2. Apparato sperimentale 31

La Figura 2.1 mostra interamente l’apparato sperimentale descritto in questo lavoro ditesi. In Figura 2.1a si trova l’insieme della testa di misura dello spettrometro contenentela sorgente X, il rivelatore (1) ed il sistema di posizionamento e movimentazione XYZ delcampione, adoperato per la scansione (2). In Figura 2.1b viene presentato nel dettagliotutto l’apparato di misura: il tubo a raggi X con ottica annessa (3), il rivelatore SDD (4), ilmicroscopio ottico (5) e i due laser (6).

Il sistema opera con una geometria a 90 tra la sorgente X e il rivelatore.Per il posizionamento della superficie del campione sul fuoco dell’ottica della sorgente

X, ci si serve della sovrapposizione dei due laser: il punto di intersezione dei due puntatoriindividua infatti la distanza focale della sorgente X e l’esatta posizione di incidenza del fascio.L’intersezione tra i laser e lo spot del fascio X viene visualizzata per mezzo di uno schermofluorescente sensibile ai raggi X, posto nello stage preparato per il campione (3). In questomodo, una volta riposizionato il campione al posto dello schermo, sarà semplice ritrovare ladistanza focale e l’esatta posizione del fascio.

Nel corso della procedura di allineamento illustrata, è importante che anche i fasci lasersiano ben focalizzati, affinchè la posizione del fuoco abbia una precisione dell’ordine del µm.Per questo, l’apparato sperimentale è inoltre fornito di un sistema di microscopia ottica inte-grata che, durante il posizionamento e la procedura di allineamento del campione, consentedi monitorare il posizionamento micrometrico dei laser e la loro messa a fuoco.

Figura 2.7: Immagine acquisita grazie al microscopio ottico: in evidenza il campione sotto esame.

La Figura 2.7 mostra, inoltre, come la presenza del microscopio permetta di ottenere un’in-formazione ottica nel visibile della regione analizzata, da associare alla scansione effettuatacon il fascio X. Nel caso, ad esempio, della scansione puntuale, può essere interessante osserva-re alcuni particolari presenti sulla superficie del campione (come crepe, granulosità, fratture,dettagli pittorici, . . . ) – spesso non visibili ad occhio nudo – per decidere quale regionesottoporre alla scansione o valutare le eventuali imperfezioni riscontrate.

2.4 Il sistema di scansioneLa configurazione sperimentale fin qui descritta consente di operare la misuramicro –XRF deicampioni in esame. Dato che lo spot del fascio sul fuoco del policapillare ha una dimensionepari a 26 µm, tale misura (che consiste nell’acquisire un spettro di fluorescenza) fornisce

3In un grafico (distanza lente/campione, intensità della fluorescenza) la distanza focale non sarà altro cheil centroide del picco, ossia il valore massimo di intensità. Abbiamo infatti spiegato che il gain dei policapillaririsiede proprio nella loro capacità di ottenere fasci ben focalizzati e intensi.

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Capitolo 2. Apparato sperimentale 32

informazioni locali. Come mostrato in Figura 2.8, una misura micro –XRF effettuata suun unico punto del campione, consente di acquisire un unico spettro, fornendoci indicazioniriguardo alla composizione elementale di quell’unico punto.

Figura 2.8: Confronto tra due spettri ottenuti dalla misura della micro –XRF di due punti delcampione mostrato a sinistra: uno relativo al vetro verde, l’altro a quello azzurro.

Nulla può essere dedotto, dalla singola misura, riguardo la composizione globale del cam-pione e riguardo la distribuzione elementale sulla sua superifice. Al fine di effettuare l’Imagingelementale, è necessario che l’analisi XRF venga ripetuta su più punti del campione, medianteuna procedura di Scanning. Questa operazione consentirà di acquisire una matrice bidimen-sionale di spettri di fluorescenza X, la cui analisi permetterà di ricostruire la mappa delladistribuzione degli elementi chimici sulla superfice del campione, della quale viene riportatoun esempio in Figura 2.9.

Figura 2.9: Mappe elementali di un campione sottoposto alla procedura di Scanning XRF.

Ne consegue che la procedura di scanning XRF necessita di un apparato che – oltre allospettrometro X – comprenda un sistema di movimentazione del campione programmabile edi alta precisione.

Pertanto, lo scanner possiede una doppia movimentazione motorizzata, che consente latraslazione sia del sistema sorgente –rivelatore, che del campione in esame [10, 11].

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Capitolo 2. Apparato sperimentale 33

Più dettagliatamente, la sorgente X e il rivelatore sono collocati su uno stage che ne permettela traslazione lungo gli assi di movimentazione manuale X, Y. Il campione può invece esseresottoposto a traslazione programmabile lungo i tre assi X, Y, Z: il piano XY è il piano verticale– posto frontalmente alla sorgente e al rivelatore – mentre lungo l’asse di movimentazione Zil campione può essere avvicinato o allontanato dalla sorgente consentendone, come abbiamovisto, il posizionamento lungo il piano focale della sorgente X.

La movimentazione del campione, a differenza del sistema sorgente –rivelatore, può es-sere programmata sfruttando un’interfaccia grafica che le consente di lavorare in manieraautomatizzata. Dunque, una volta definita la regione del campione da analizzare, median-te semplici comandi dell’interfaccia è possibile impostare i parametri della scansione XRF,programmando in tal modo l’intera misura sperimentale.

In fase di misura sarà il campione ad essere movimentato rispetto alla sorgente e alrivelatore – i quali invece rimangono fissi nella posizione valutata inizialmente – al fine diricoprire la regione del campione interessata. La superficie massima ricoperta dal sistemaautomatizzato di doppia movimentazione del campione è pari a 20 cm × 20 cm, per uno step-size minimo di 1 µm. Tuttavia, la risoluzione spaziale massima al quale è possibile lavoraredipende dalle dimensione del fascio sul campione. Pertanto, durante la scansione la sceltadello step verrà effettuata in base a quest’ultimo parametro operativo. Ciò, inoltre, spiegal’importanza di studiare campioni che abbiano una superficie piana. Infatti, una curvaturaaccentuata del campione non consente che, in fase di scansione, questo venga sempre a trovarsialla corretta distanza focale, ma verrà irraggiato da un fascio di dimensioni maggiori (appuntoleggermente sfocalizzato). Tale aspetto può introdurre una leggera distorsione nelle mappeelementali ottenute o una sensibile riduzione della risoluzione spaziale.

L’elettronica di acquisizione e la movimentazione del campione utilizzati per l’apparatodescritto, permettono inoltre un tempo di acquisizione minimo fino a 150 ms per ogni stepdi scansione.

2.5 Procedura di scansione per l’imaging elementale 2DAll’inizio del Par. 2.4, si è accennato alla matrice bidimensionale acquisita durante la scansio-ne, che ricopre l’area del campione da analizzare. Ciascun elemento di tale matrice, infatti,non è altro che lo spettro di fluorescenza acquisito nel corrispondente punto interno allaregione scansita.

Per questo, è fondamentale definire preventivamente i parametri di scansione, necessariper effettuare l’imaging 2D. In particolare, questi sono: la dimensione dell’area da analizzare(basta fissarne gli estremi, impostando gli intervalli lungo gli assi X e Y della movimentazionedel campione), il valore fisso di Z (posizione focale, individuata durante il precedente allinea-mento dei due laser), la misura dello step – che separa le singole analisi XRF costituenti lascansione – e il tempo di misura per step, ossia il tempo di acquisizione di ciascuno spettrodi fluorescenza.

Durante la scansione XRF, il campione scorre orizzontalmente lungo l’asse X di movimen-tazione, andando così a costruire la matrice di punti procedendo per righe. Lo spostamentoverticale, lungo l’asse Y automatizzato del campione, avviene invece in corrispondenza del-l’ultimo punto appartenente alla riga scansita. Gli n spettri acquisiti al termine di ciascunariga, saranno raccolti all’interno di uno stesso file e, a scansione ultimata, il numero totaledi tali file sarà pari al numero m di righe scansite. In questo modo, è possibile conservarel’informazione spaziale di ognuno degli spettri di fluorescenza, un aspetto cruciale per la ri-costruzione della distribuzione 2D degli elementi chimici presenti nel campione, che permettedi mantenere la correlazione con le informazioni nel visibile.

Pertanto, l’analisi XRF interesserà ciascun punto della matrice, per un totale di spettriacquisiti (e quindi di elementi di matrice) pari a m× n, essendo m ed n il numero di righe edi colonne.

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Capitolo 2. Apparato sperimentale 34

Variando la distanza del campione dalla sorgente, e quindi i parametri di allineamento, èpossibile effettuare due differenti modalità di scansione:

• micro –XRF: è il caso finora descritto, in cui lo spot del fascio – perfettamente focalizza-to poichè si opera in condizioni di fuoco – avrà una dimensione minima di circa 26 µm.In queste condizioni, considerando uno step-size di 50 µm per un tempo di acquisizionedi 150 ms, la scansione di un’area pari a 10 mm × 10 mm produrrà un’immagine di200 × 200 pixels in 1.5 h.

• macro –XRF: è il tipo di scansione che si ottiene operando invece fuori fuoco. In pratica,il campione viene collocato ad una distanza maggiore della distanza focale, ottenendodi conseguenza uno spot del fascio di maggiori dimensioni, fino a 500 µm. In questocaso, considerando la scansione di un’area pari a 20 cm × 20 cm – con uno step-size di500 µm e un tempo di acquisizione di 150 ms – si otterranno delle immagini di 400 ×400 pixels, in circa 6 h.

È evidente il guadagno in velocità nella macro –XRF, se si mettono a confronto le dimen-sioni delle aree scansite nei due diversi casi. In tal caso infatti, dovendo sfruttare anche unostep più grande a causa delle maggiori dimensioni dello spot, diminuiscono le dimensioni dellamatrice acquisita e sarà minore il numero di spettri raccolti. Per questo motivo, la macro –XRF viene maggiormente impiegata nei casi in cui ciò che interessa è ottenere informazioniglobali sulla distribuzione degli elementi chimici principali presenti nel campione, e non ne-cessariamente ottenere immagini ad elevata risoluzione. È naturale, infatti, che una scansionecompiuta con uno spot di 500 µm, avrà una risoluzione assai minore di una che sfrutta in-vece uno spot di 20 µm. Per questo, la macro –XRF è di grande utilità soprattutto quandosi opera su campioni di grandi dimensioni e la scansione micrometrica dell’intera superficieporterebbe a tempi di acquisizione molto lunghi, poichè il fascio ad ogni step esplorerebbeuna regione di spazio meno ampia.

Al termine della scansione, la ricostruzione e l’analisi della matrice acquisita [10, 12] verràcondotta off line adoperando il software di analisi PyMca, descritto in dettaglio nel Capitolosuccessivo.

2.6 Sensitività chimica e MDLAl termine della descrizione di tutti i componenti dello scanner XRF oggetto di questo la-voro di tesi, è importante soffermarsi su due grandezze che consentono di valutare la bontàdell’intero apparato sperimentale in termini di [1, 12]: sensitività chimica, Yi, e MinimumDetection Limit MDL, ossia il minimo livello di concentrazione rivelabile per un dato elemen-to chimico. La prima viene valutata a partire dall’intensità netta del picco di conteggio dellaXRF, Nsignal, acquisita in un tempo t da un campione contenente una concentrazione ci, iltutto per l’elemento i:

Yi = Nsignalci t

(2.1)

Il minimo limite di rivelazione tiene invece conto anche dell’intensità del fondo Nback,corrispondente al picco netto di fotoni considerato precedentemente:

MDL = 3√Nback t

Nsignalci (2.2)

con 3 generalmente espresso come k, un numero compreso tra 1 e 5 [1].Come si può dedurre dalle equazioni (2.1) e (2.2), sensitività ed MDL sono entrambe

quantità dipendenti dall’intero apparato sperimentale: al variare anche di un solo parametrodi una delle componenti sperimentali, tali grandezze vengono influenzate sensibilmente. I

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Capitolo 2. Apparato sperimentale 35

risultati sperimentali ottenuti pertanto dipenderanno dalle prestazioni del nostro apparato,in termini delle quantità espresse.

Tenendo conto della resa netta di raggi X per l’elemento considerato, σsignal = Nsignal/ci It,e la resa del fondo corrispondente a tale picco, σback = Nback/It, si può migliorare la sensitivitàdi una tecnica di emissione di raggi X tramite alcuni accorgimenti:

• diminuendo la quantità di fondo, σback;

• aumentando la resa elementale, σsignal;

• aumentando l’intensità del fascio I e/o il tempo di raccolta t.

Per stimare quantità come la sensitività chimica e il minimo limite di rivelazione – checaratterizzano le prestazioni di un apparato sperimentale – vengono utilizzati degli appositistandard di riferimento [10, 12]. In particolare, lo standard impiegato per il nostro apparato,è lo Standard Reference Material (SRM) 611 Trace elements in glass, prodotto dal NationalInstitute of Standards and Technology (NIST). Si tratta di un materiale di riferimento costi-tuito da un disco di vetro di 1 mm di spessore, contenente un ampio range di elementi ad unlivello nominale di concentrazione intorno ai 500 ppm.

I parametri operativi impostati per l’analisi XRF dello standard sono: 38 kV di tensionee 0.2 mA di corrente applicate, e l’impiego di un fascio di dimensioni pari a 40 µm. Glispettri sono inoltre stati acquisiti per 300 s, con lo standard posto a 10 mm di distanzadall’estremità in uscita del policapillare. I valori misurati per la sensitività chimica e il limiteminimo di rivelazione, per la riga K degli elementi da K (Z = 19) a Sb (Z = 51), sono mostratirispettivamente in Figura 2.10 e in Figura 2.11.

Figura 2.10: Sensitività chimica della riga K per gli elementi dal K (Z = 19) al Sb (Z = 51).

Si noti come il minimo limite di rivelazione si mantenga intorno ai 100 ppm, per gli elementichimici da K a Sb, quindi con 19 ≤ Z ≤ 51:

Figura 2.11: Minimum Detection Limit della riga K per gli elementi dal K al Sb, (19 ≤ Z ≤ 51).

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Capitolo 3

Caso-studio: la ceramica Attica

Lo scanner XRF, oggetto del presente lavoro di tesi, è stato utilizzato per l’analisi elementalee l’imaging XRF di alcuni frammenti di ceramica a vernice nera, Attica e Italiota, prodottatra il V ed il IV secolo a.C. Tali frammenti sono conservati nel Museo Archeologico Nazionaledi Taranto.

In particolare, lo studio condotto presso il laboratorio LANDIS dei Laboratori Nazionalidel Sud dell’INFN di Catania, ha avuto come fine quello di stabilire una nuova metodologiaper investigare la tecnologia di produzione dei frammenti attici, il processo pittorico e laloro provenienza. Le tecniche di produzione delle ceramiche Attiche, e della vernice nera chene caratterizza le decorazioni, costituiscono infatti un campo di grande interesse scientifico –tecnologico, oltre che artistico.

3.1 Ceramica AtticaL’interesse per le ceramiche Attiche dalle tipiche decorazioni a figure rosse e nere, che nelcorso degli anni ha coinvolto numerosi studiosi di diverse discipline, non riguarda solo illoro valore storico o puramente estetico. I particolari processi di manifattura con i qualivenivano lavorate e le tecnologie impiegate, infatti, hanno fatto sì che la ceramica Attica e latipica vernice nera che questa presenta, costituissero una pietra miliare nell’evoluzione dellaconoscenza dei materiali.

I primi studi sulla composizione e la riproduzione delle ceramiche Attiche risalgono alXVIII secolo. Furono poi Binns e Fraser, nella prima metà del XX secolo, i primi a riportarealcuni risultati degli esperimenti condotti fino a quel momento sulla natura del materiale,nonchè sulle tecniche applicate per la manifattura e i processi di cottura.

Maggiori informazioni in materia di vernice nera Attica e delle sue moderne riproduzionici vengono fornite, a partire dal 1960, da Joseph V. Noble [13]. Le copie dei manufattivengono prodotte in laboratorio (e basate su quanto scrive Noble), non per affrontare questionidi interesse puramente archeologico, ma scientifico, andando a studiare le caratteristichefisicochimiche delle vernici. Per questo, quanto da lui scritto costituisce una parte del "saperestabilito" riguardo alle vernici nere Attiche (Attic BG).

Ad oggi, questi studi hanno portato al riconoscimento della vernice Attica come un ma-teriale parzialmente vetrificato, il cui colore è dovuto alla presenza di ossidi di ferro – inparticolare magnetite – formatisi a seguito di tre fasi di cottura che coinvolgono i processidi Ossidazione, Riduzione e Ossidazione (ORO). La vernice utilizzata per le decorazioni ècomposta da colloidi di argilla, che sarebbero i responsabili della brillantezza della superficieosservabile anche prima della cottura.

Studi successivi permisero anche la caratterizzazione della colorazione delle ceramiche,che è dovuta a nanoparticelle di magnetite policristallina (< 200 nm), mentre la superficiebrillante dello smalto è costituita da uno strato vetroso di 1 –2 µm di spessore e privo dimagnetite.

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Capitolo 3. Caso-studio: la ceramica Attica 37

Tali risultati sono stati raggiunti grazie alla riproduzione fedele della vernice nera Attica,basata sull’uso di sospensioni in acqua di colloidi di argilla illitica, diversa dall’argilla usataper il corpo ceramico, e senza aggiunta di agenti disperdenti o fluidificanti.

Inizialmente si pensava infatti che gli elementi presenti nell’argilla si trovassero anche nellavernice, nella stessa o in maggior concentrazione, supponendo dunque che l’argilla usata perla vernice e per il corpo ceramico fosse la medesima. Lo stesso Noble aveva suggerito, comemetodo di analisi per la distinzione tra le ceramiche autentiche e le riproduzioni, il confrontotra le concentrazioni dei soli elementi presenti nel corpo ceramico. Tuttavia, si osservò checiò non valeva per quanto riguardava il calcio, che si trova sempre in minor quantità nellavernice rispetto al corpo ceramico.

Dalle analisi svolte sulle vernici di numerosi frammenti Attici antichi, provenienti dadiverse zone della Grecia e del Mediterraneo, è emersa una certa stabilità sia nella lorocomposizione che nella micromorfologia. Si è osservato che una micromorfologia densa euniforme della vernice è connessa al basso contenuto di ossido di calcio (CaO meno di 1.5%).Tuttavia, tale bassa concentrazione può essere ottenuta solo se l’argilla grezza ha già di persè un basso contenuto di CaO. Inoltre, si nota un aumento degli ossidi di potassio e di ferro(K2O ed FeO) e del rapporto ossido di alluminio/diossido di silicio (Al2O3/SiO2). I risultatianalitici ad oggi ottenuti hanno dunque portato all’evidenza che l’argilla utilizzata per ilcorpoceramico fosse differente da quella impiegata per la vernice invetrata.Peraltro, le argille illitiche rispondono a queste caratteristiche: quando immerse in acqua,sono chimicamente simili alla vernice originale. Si osserva, inoltre, che il potassio e il ferroaumentano naturalmente fino al 5 e 15%, e sono questi i valori medi di tali elementi – presenticome ossidi – nel materiale antico.

Sono comunque emerse diverse proprietà caratterizzanti le antiche vernici, ma non riscon-trate nelle loro riproduzioni. Un esempio è l’ampia variazione nel contenuto di calcio delleargille ricche in illite, al contrario della stabilità tipica delle vernici Attiche. In secondo luogo,si osserva una forte dipendenza delle argille dal pH e dalla temperatura ambientale, il checonduce alla supposizione che la produzione delle sospensioni di argilla costituisse un’attivitàstagionale.Se ne conclude che le cave di argilla per la produzione della vernice nera Attica dovevanosoddisfare alcuni criteri specifici: alto tenore di ferro, illitiche, con contenuto costante e bassodi CaO, prive di mica e con basso contenuto di materiale organico. La composizione delleceramiche ritrovate fa addirittura pensare che le argille provennissero tutte da uno stessoluogo e venissero poi distribuite nei diversi centri ceramisti della regione, per conservarel’originalità dei materiali grezzi.

R. E. Jones nel 1986 fornisce uno studio fisicochimico dettagliato sulla vernice nera Atticae, in particolare, sulle antiche tecniche di decorazione, chiamate tecnica della riduzione delferro (iron-reduction technique). La ceramica Attica consiste infatti di un corpo ceramicoporoso marrone –rossastro e da uno strato vetroso, anch’esso costituito da argilla, di colorenero. Si pensa che la procedura di trasformazione dello speciale strato di argilla applicatosulla superficie dei vasi in un materiale vetroso e brillante com’è la vernice attica, comprenda 3principali processi di cottura sotto le condizioni di ossidazione –riduzione –ossidazione (ORO),a temperature massime di 870 –950C. Questo metodo pare sia stato perfezionato duranteil periodo classico in Attica e si sia poi diffuso in tutti i centri di produzione della Grecia edelle sue colonie, specialmente nel sud Italia, centro di produzione delle ceramiche Italiotegià dalla fine del V secolo a.C. [14].

La prima cottura prevedeva l’ossidazione del ferro presente nello strato argilloso arric-chito appunto in ferro e potassio, così da formare ossidi e idrossidi di ferro come l’ematite(Fe2O3). Il ciclo di riduzioni, cui venivano sottoposti gli ossidi di ferro durante la secondacottura, portava invece alla trasformazione dell’ematite in magnetite (Fe3O4) o in wustite(FeO) ed ercinite (FeAl2O3), tutti minerali di colore nero. Nello stesso tempo, i minera-li di allumino-silicati, presenti in questo strato sovrapposto al corpo ceramico, formavanoun layer vetrificato. Questo avrebbe protetto i minerali ferrosi dal processo di riossidazio-

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ne attivato dall’ultima cottura, durante la quale si forma nuovamente l’ematite rossa, e dalraffreddamento finale.Tali processi spiegano dunque il colore nero della vernice delle decorazioni, dovuto ai mineralipresenti in nanoparticelle all’interno del substrato di argilla, e la lucentezza conferitagli dallavetrificazione della matrice di allumino-silicati – in cui sono incorporati tali ossidi di ferro– che fa apparire tale vernice come fosse uno smalto lucido. Analisi XRF quantitative ealle basse energie hanno reso noti i livelli composizionali medi degli ossidi nelle ceramiche,riportati in Tabella 3.1 e 3.2 [15], confermando la differenza tra l’argilla costituente il corpoceramico e quella con cui veniva prodotta la vernice nera.

BG Al2O3 [%] SiO2 [%] K2O [%] CaO [%] TiO2 [%] FeO [%] MnO [%]

Imitation 30.0 ± 2 46.1 ± 1.8 7.0 ± 1.6 1.9 ± 0.8 0.7 ± 0.1 14.2 ± 1.7 0.14 ± 0.05

Attic 31.1 ± 0.2 45.0 ± 0.7 6.9 ± 1.3 1.3 ± 0.9 0.8 ± 0.3 14.8 ± 1.2 0.1 ± 0.03

Tabella 3.1: Livelli composizionali medi (in %) delle vernici nere Attiche e di imitazione.

RS Al2O3 [%] SiO2 [%] K2O [%] CaO [%] TiO2 [%] FeO [%] MnO [%]

Imitation 17.5 ± 1.6 60.2 ± 2.0 3.1 ± 0.7 9.9 ± 2.1 1.0 ± 0.1 8.1 ± 1.1 0.10 ± 0.03

Attic 16.3 ± 1.3 56.6 ± 2.7 3.7 ± 0.9 11.3 ± 3.2 1.1 ± 0.1 10.9 ± 0.6 0.2 ± 0.01

Tabella 3.2: Livelli composizionali medi (in %) del corpo ceramico Attico e di imitazione.

Recenti ricerche [16] hanno convalidato un processo di cottura ottimale che si restringead un range di temperature 890 –910C, verificando inoltre che la migliore qualità di smaltonero attico è caratterizzato dal più basso rapporto Fe(III)/Fe(tot) (∼20%) ottenibile dallapiù fine frazione di argilla e in condizioni di intensi processi di riduzione.

Nella terminologia moderna dunque la vernice nera attica è costituita da una matrice divetro potassio –allumino –silicato, colorato per mezzo di nanocristalli di magnetite –ernicite,dai quali si ottiene il colore bluastro a causa del ferro bivalente (FeII). In altre parole sitratta di una ceramica vetrificata con un elevato contenuto di allumina (∼30%), responsabiledella sua sorprendente durevolezza. Ciò è legato all’intensità, la durata e la temperatura delprocesso di riduzione del Fe(III), infatti, se non si creano le giuste condizioni per la reazione,prevarrà il colore nero-verdastro dovuto all’ernicite –magnetite o alla presenza del Fe(III).

I diversi tentativi di riproduzione hanno portato alla conclusione che l’ideale vernice Attica(di colore blu –nero) si ottiene facendo in modo che il processo di riduzione abbia inizio aduna temperatura di 925 ± 25C. Ciò che è meno risaputo è che tale riduzione si osservamentre la temperatura scende fino a circa 825C, al di sotto della quale può cominciare lariossidazione. Inoltre la riduzione deve essere intensa, con una durata di non più di 20 –30 minuti. Il raffreddamento, durante la riduzione e la riossidazione, avviene naturalmenteall’intero di ampi forni a pietra.

Alcune considerazioni – riguardanti la resa dei lavori, i costi di produzione e l’elevataqualità dei manufatti – hanno portato inoltre a considerare la possibilità di una precotturae, successivamente, di doppie o multiple cotture delle ceramiche. Infatti, una precottura allebasse temperature (450C) si pensa migliorasse la resa della produzione, mentre una ricotturaalla temperatura massima di 950C doveva servire a correggere degli errori fatti durante laprima cottura. Infine, la ricottura a 850C veniva sicuramente sfruttata per la produzione divasi bicromatici nero –rosso corallo.

Ciò che maggiormente colpisce, e che quindi alimenta l’interesse degli studiosi, è il livellodi conoscenza che i ceramisti del periodo classico avevano raggiunto riguardo alle proprietà deimateriali utilizzati e delle possibilità che, la gestione delle temperature e dei tempi di cotturadei forni a pietra, davano per sfruttare al meglio tali proprietà. Si trattava evidentemente

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di ceramisti altamente specializzati, promotori di tecniche innovative, alcune delle quali nonancora conosciute. Ne è un esempio la temperatura massima raggiunta dal forno che, comeabbiamo visto, è ancora oggetto di accesi dibattiti, o della dimensione dei minerali di ferroall’interno dell’argilla utilizzata per la produzione della vernice nera. Infine, non è ancora datoper certo che lo stesso processo di cottura fosse suddiviso nei tre step successivi consideratidalla iron-reduction technique.

3.2 Procedura di analisi e risultatiL’attività di studio svoltasi grazie all’impiego del nostro scanner XRF, si è concentratasull’analisi di alcuni frammenti di ceramica di provenienza Attica e Italiota.

Si tratta di 26 frammenti provenienti dalla collezione al Museo Archeologico Nazionale diTaranto, di cui 3 sono attribuiti come Attici. Su questi, sono state eseguite delle specificheprocedure d’analisi composizionale e di imaging XRF, al fine di svolgere l’investigazione delprocesso pittorico e uno studio di provenienza dei frammenti.

In particolare, nel presente lavoro viene mostrata l’analisi effettuata su alcuni dei fram-menti, mostrati in Figura 3.1.

Figura 3.1: I frammenti Attici e Italioti dei quali presenteremo l’analisi elementale e l’imaging XRF.

I parametri operativi del tubo, durante l’acquisizione degli spettri di fluorescenza, consi-stono in 38 kV di tensione per 100 µA di corrente massima, mentre i parametri della scansionesono stati impostati, di volta in volta, per ognuno dei campioni analizzati. Infatti, anche itempi totali di acquisizione dipendono dalle condizioni operative della scansione, poichè que-sto tempo in realtà non è dato dal prodotto tra il numero di spettri e il tempo impiegato peracquisire ognuno di essi. Il tempo reale include circa il 20% di tempo morto, nonchè il temponecessario al rivelatore per la scrittura del file alla fine di ogni acquisizione e, infine, il temponecessario alla movimentazione dello scanner.

L’analisi dei dati acquisiti mediante lo scanner XRF è stata effettuata grazie all’impiegodi un software contenente opportuni strumenti per la visualizzazione e l’analisi degli spettridi fluorescenza X. Si tratta del software PyMca, sviluppato dal Software Group dell’EuropeanSynchrotron Radiation Facility (ESRF) [17]. Esso permette, tra le altre cose, la calibrazione inenergia dei picchi di fluorescenza, nonchè la complessa procedura di fit, al fine di determinarei conteggi dai picchi caratteristici presenti negli spettri.

La calibrazione dello spettro avviene mediante l’input dei valori di energia di almeno duepicchi noti presenti nello spettro (oppure mediante opportune sorgenti di calibrazione): resti-tuirà in risposta uno spettro in cui i canali sono sostituiti dai valori di energia corrispondenti.Diventa così possibile effettuare il riconoscimento degli elementi presenti nel materiale delcampione analizzato, selezionando la specifica riga di fluorescenza emessa.

L’importanza di utilizzare dei software sviluppati appositamente per trattare gli spettridi fluorescenza, risiede nel fatto che essi ci permettono di tener conto delle condizioni spe-

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rimentali con cui la misura è stata effettuata e della fisica alla base del fenomeno. Durantela procedura di fit, vengono infatti richiesti i parametri fondamentali del processo di misura.Questi comprendono sia i parametri operativi e il setup sperimentale degli strumenti impie-gati, che le condizioni relative ai processi fisici che si trovano alla base dell’interazione delfascio X primario con il campione e dell’induzione della fluorescenza da parte di quest’ultimo.Un esempio ne sono le caratteristiche operative della sorgente, la sua distribuzione spettralee la geometria di misura (distanze ed angoli).

Questi dati – insieme alla calibrazione e al riconoscimento degli elementi – costituirannola configurazione iniziale con la quale, di volta in volta, si potranno fittare gli spettri acquisitida uno stesso campione e rispettando i parametri operativi e il setup sperimentale iniziali.

La procedura di fit in PyMca fornisce l’area netta di ogni picco di fluorescenza, ossia ilnumero di conteggi netti sotto il picco di ogni elemento, poichè viene ovviamente sottrattoanche il fondo (Figura 3.2). Questa procedura viene solitamente seguita per l’analisi dellemisure locali sui campioni come, ad esempio, le misure di micro –fluorescenza X presentateal Par. 3.2.2, che non richiedono la scansione degli stessi campioni.

Figura 3.2: Esempio di spettro opportunamente calibrato e sottoposto alla procedura di fit (inrosso), compresa la sottrazione del fondo (in blu).

Nel caso delle misure di Imaging, queste si servono di procedure di scansione e il risultato èuna matrice di spettri. Tali matrici, a seconda dello step di scansione e dell’area scansionata,possono contenere un numero molto elevato di spettri (anche dell’ordine del milione). In talcaso, viene applicato un Tool di fit rapido (Fast XRF Fitting), che consente l’analisi di ciascu-no spettro in tempi molto ridotti. Il risultato della procedura è che, per ogni matrice, vienedeterminato in ogni punto il numero di conteggi netti di ciascun elemento chimico presente.Filtrando i dati per ciascuno di questi elementi, è dunque possibile ottenere l’immagine delladistribuzione spaziale degli elementi chimici presenti all’interno della regione analizzata.

Una volta ottenute le mappe elementali, è possibile combinare quelle di maggior interessegrazie all’impiego dell’algoritmo NNMA correlation, che si occupa appunto dalla correlazionetra gli elementi presenti nella distribuzione elementale del campione studiato.

La Non Negative Matrix Approximation viene utilizzata in diversi campi di applicazione,poichè si tratta sostanzialmente di un algoritmo che diminuisce la dimensionalità di un sistematramite fattorizzazione di dati non negativi. Nel caso specifico dell’Imaging, esso dimostracome sia possibile ottenere una rappresentazione di dati costituenti immagini, basata sulleparti dell’immagine stessa (parts based representation). Infatti, l’algoritmo estrae dal set didati – in questo caso il set di spettri, contenenti le righe spettrali dei vari elementi, e di mappeelementali – le righe e le immagini relative agli elementi interessati. Questi costituiranno unabase di autospettri e autoimmagini, corrispondenti alle righe e alle parti delle immagini incui si trovano tali elementi, che andranno poi combinati linearmente per mezzo di coefficienti

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che fungono da peso di ogni elemento all’interno della correlazione totale. Il risultato di talealgoritmo sarà dunque uno spettro, dato dalla combinazione delle sole righe di fluorescenzadegli elementi interessati, e un’immagine, data dalla combinazione dei soli pixel corrispondentialla rivelazione di quegli stessi elementi. Si capisce così anche il significato della definizione“riduzione della dimensionalità del set di dati”: vengono utilizzati solo i dati importanti perl’analisi, estraendoli dalla totalità dell’acquisizione.

Da questo si ottiene l’immagine delle distribuzioni spaziali degli elementi scelti per lacorrelazione tra quelli presenti nella regione analizzata, al fine di confrontarne i contributi.

3.2.1 Studio del processo pittorico

L’importanza dello studio del processo pittorico, risiede nel fatto che questo ci permet-te di ottenere una visione approfondita sulle fasi che hanno accompagnato il compimentodell’opera.

Tale investigazione, infatti, è in grado di fornirci informazioni riguardanti, ad esempio, lemodifiche successive apportate durante l’esecuzione dell’opera alla composizione dei soggettidipinti, i cosiddetti pentimenti. Può inoltre rivelare eventuali dettagli pittorici, nascosti sottola superficie a noi visibile dell’opera compiuta a causa della sovrapposizione di nuovi strati.

Interessante risultato è anche la possibilità di correlare gli elementi chimici, dei quali siè trovata evidenza nelle mappe elementali del campione. Ciò infatti ci permette di capirequali sono gli elementi principali che compongono il pigmento – o, nel caso specifico delleceramiche qui presentate, i materiali costituenti lo strato di vernice o il corpo ceramico – eche conferiscono un determinato colore alla regione del campione in cui esso è applicato.

L’analisi viene infatti effettuata per mezzo di scansioni µ –XRF, eseguite su ognuno deicampioni. Queste ci permettono di acquisire gli spettri di fluorescenza, grazie ai quali siotterrà l’imaging elementale dei diversi campioni. La Figura 3.3, ad esempio, mostra ilrisultato dell’analisi su un frammento di origine Italiota, databile al 440 –410 a.C. La scansioneè stata effettuata per un tempo di acquisizione di 1 s, in step di 150 µm per un’area di 173× 184 pixel, in un tempo totale di misura pari a 19 h.

Figura 3.3: Dettaglio di un frammento protoApulo, datato 440 –410 a.C.

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Invece, per il frammento protolucano del 425 –400 a.C., attribuito ad un pittore di Amy-kos, in Figura 3.4, le mappe elementali sono state acquisite in un tempo totale di 35 h, perun area scansita di 240 × 250 pixel con uno step di 100 µm e tempo di acquisizione di 1 s.

Figura 3.4: Dettaglio di un frammento protolucano, attribuito ad un pittore di Amykos o officina,datato 425 –400 a.C.

Vediamo come in entrambe le figure, soprattutto per la mappa del Fe e del Ca, siano evi-denti i pentimenti dell’artista: i profili di entrambi i volti sono stati completamente spostati.Ciò è evidente anche nella figura nel visibile del secondo volto, mentre nel primo i pentimentisono perfettamente nascosti.

In due campioni è stato inoltre possibile evidenziare alcuni dettagli poi ricoperti, durantela manifattura del vaso, da uno strato di vernice nera. Probabilmente l’artigiano aveva decisodi non includere tali dettagli nel prodotto finito. Dalla scansione di questi sono emersi nellamappa del K (Figura 3.5 e 3.6), un fiore e un’inscrizione “ANTIOP”, che potrebbe far pensaread una dedica dell’opera al mito di Antiope.

Figura 3.5: Dettaglio seminascosto di un frammento apulo, datato 410 –380 a.C.

La scansione del dettaglio del fiore è stata effettuata per un tempo reale medio di 11 h,in un’area pari a 136 × 133 pixel con uno step di 100 µm in tempi di acquisizione pari a 1 s.L’iscrizione è stata messa in evidenza da una scansione eseguita invece su un’area di 420 ×80 pixel, con un tempo di acquisizione di 1 s e uno step di 100 µm, per un tempo di scansionetotale pari a 19 h.

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Figura 3.6: Dettaglio nascosto di un frammento attico della metà del V secolo a.C.

Infine, grazie all’impiego della NNMA correlation, viene mostrata la correlazione di Fe,Ca e K nelle mappe elementali di due campioni. Come si evince in Figura 3.7 e 3.8, il ferroe il potassio sono strettamente correlati nelle regioni dove è presente lo smalto nero, mentreil calcio caratterizza solo la parte rossa della ceramica.

Figura 3.7: Volto di donna: dettaglio di un frammento apulo del 410 –380 a.C.

Ciò conferma quanto visto nella Tabella 3.1 e 3.2, in cui sono stati presentati, nel Par. 3.1,i livelli composizionali medi della ceramica. Secondo questi dati, le regioni rosse delle cera-miche sono caratterizzate da un elevato contenuto di calcio, che è invece quasi assente nelleregioni dove lo strato di vernice nera steso sul corpo ceramico è composto principalmente daferro e potassio.

Figura 3.8: Dettaglio di un frammento apulo, attribuito al pittore di Dario del 425-400 a.C.

3.2.2 Studio di provenienza

Come accennato nel Par. 3.1, durante il periodo classico (V secolo a.C.) le tecniche di pro-duzione delle ceramiche attiche e delle vernici nere tipiche delle loro decorazioni si diffuseroanche nelle colonie greche e, in particolare, nel sud Italia. Le imitazioni prodotte dai cerami-sti dell’area Mediterranea erano dunque di alto livello, grazie alla conoscenza delle tecnichesofisticate e innovative impiegate in Attica, per la lavorazione e cottura delle argille.

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Sebbene per questo sia piuttosto difficile farne una distinzione ad occhio nudo, diversi studihanno portato alla luce delle differenze nella composizione chimica e nella micromorfologiadelle ceramiche di imitazione Italiota rispetto a quelle Attiche autentiche.È infatti plausibile che, pur essendosi diffuse le tecniche di lavorazione, non venissero tuttaviaesportati anche i materiali grezzi che venivano quindi prelevati dalle cave presenti nelle regioniattigue alle colonie. Ciò spiegherebbe la presenza, nelle ceramiche Italiote, di alcuni elementinon riscontrati – o presenti in minor contenuto – in quelle Attiche.

L’obiettivo dell’attività sperimentale si focalizza dunque anche su alcune indagini atte amettere in luce delle impronte (fingerprints), che permettano di discriminare la provenienzadelle ceramiche. Tali impronte sono costituite proprio dai cosiddetti elementi in tracciapresenti nel corpo rosso e nel substrato di vernice nera. Si tratta di quegli elementi il cuicontenuto all’interno del materiale è così basso da poter essere rivelato solo per mezzo dimisure µ –XRF puntuali e con lunghi tempi di acquisizione, effettuate sia nella regione nerache in quella rossa dei diversi campioni.Lo spettro in Figura 3.9, mostra le righe caratteristiche di tali elementi, meno intense rispettoa quelle relative agli elementi presenti invece in abbondanza nella matrice del materiale.

Figura 3.9: Esempio di spettro acquisito in un punto della ceramica analizzata: in evidenza, le righecaratteristiche degli elementi in traccia (in verde), assai poco intensi rispetto alle righe corrispondentiagli elementi principali (in giallo).

Nel corso della nostra attività, le misure puntuali sono state eseguite con un tubo di 38kV di tensione e 100 µA di corrente massima, impiegando tempi di acquisizione di 300 s.

Un metodo di analisi atto a discernere la provenienza delle ceramiche, è costituito dalconfronto tra il numero di conteggi di tutti gli elementi presenti in traccia nei campioni.In particolare, gli scatter plots delle ceramiche da noi analizzate, hanno evidenziato le diffe-renti quantità di Ni e Cr nelle ceramiche Italiote e in quelle Attiche, se confrontate con glialtri elementi presenti in traccia: V, Cu, As, Ga, Zr, Y e Zn.

Figura 3.10: Scatter plots dei conteggi del Ni e del Cr rispetto ai conteggi della totalità degli elementiin traccia presenti nel campione.

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Come mostrato in Figura 3.10, il contenuto di Ni+Cr – rispetto agli altri elementi – delleceramiche Attiche si distingue in maniera evidente da quello delle ceramiche di imitazione,sia nelle regioni rosse che in quelle nere.

Infine, vista la Tabella 3.1 e 3.2, la conoscenza della composizione media di questo tipodi ceramiche, ha reso possibile il calcolo degli scatter plots per confrontare i contenuti di Nie Cr con quelli degli ossidi principali costituenti l’argilla delle ceramiche [15].

Figura 3.11: Scatter plots dei conteggi del Ni e del Cr rispetto ai conteggi della totalità degli ossidipresenti nella vernice nera del campione.

Figura 3.12: Scatter plots dei conteggi del Ni e del Cr rispetto ai conteggi della totalità degli ossidipresenti nel corpo ceramico rosso del campione.

Come mostrato in Figura 3.11 e 3.12, anche in tal caso evidenza interessante è sta-ta la diversificazione nei contenuti delle ceramiche attiche rispetto a quelle di provenienzaMediterranea.

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Conclusioni

In questo lavoro di tesi, abbiamo presentato le caratteristiche e i parametri operativi checaratterizzano le prestazioni di uno scanner XRF, sviluppato e impiegato presso il laboratorioLANDIS dei LNS –INFN e dell’IBAM–CNR di Catania, per lo studio non distruttivo di BeniCulturali.

Ne abbiamo mostrato le performance, valutando le mappe della distribuzione elementale,ottenute a seguito dell’acquisizione della fluorescenza indotta su alcuni frammenti di ceramicaAttica e Italiota.

Nell’effettuare le scansioni XRF sulla ceramica Attica – tra l’altro una delle prime oc-casioni in cui tecniche di Imaging XRF sono state applicate a questo tipo di ceramica – loscanner ha permesso di operare ad elevata risoluzione spaziale. Infatti, il fascio X da 26 µmprodotto dal tubo microfocus accoppiato al policapillare, insieme all’impiego del sistema dimovimentazione che permette spostamenti dell’ordine del micron, ha permesso di ottenere unimaging di elevata risoluzione spaziale, sebbene le superfici dei campioni fossero leggermen-te curvate. L’elevata risoluzione ha inoltre permesso di individuare dettagli nascosti sottola superficie visibile delle vernici nere delle ceramiche e i pentimenti del ceramista, evidentisoprattutto lungo il profilo di alcuni dei personaggi raffigurati.

L’imaging elementale, ottenuto a seguito delle scansioni, ha inoltre fornito risultati com-parabili con quelli derivanti dall’applicazione alle ceramiche di altre tipologie di tecniche dianalisi. Le mappe elementali mostrano infatti una netta distinzione tra l’abbondanza di Canelle figure rosse del corpo ceramico e il contenuto prevalente di Fe e K nelle zone dove èapplicato lo strato di vernice nera, in cui il Ca è invece quasi assente. Inoltre, l’applicazionedi una technica di analisi multivariata, la NNMA (Non Negative Matrix Approximation) haevidenziato la stretta correlazione tra Fe e K, completamente scorrelati dal Ca.

Le misure puntuali hanno permesso, con tempi di acquisizione più lunghi (300 secondicontro le misure dell’ordine del secondo con le quali sono acquisiti i singoli punti delle scan-sioni), di rivelare anche elementi in traccia (cioè a basso tenore) nelle ceramiche archeologicheprese in esame.L’analisi di tali elementi in traccia, e il loro confronto, ha consentito di verificare una nuo-va metodologia per la distinzione delle ceramiche Attiche da quelle di imitazione, prodottenell’Italia meridionale in epoca classica. Particolarmente efficaci, negli studi di provenienzaproposti in questo elaborato, si sono rivelati il Cr ed il Ni.

In conclusione, abbiamo dimostrato come sia possibile portare a termine delle indaginiapprofondite sui campioni in maniera non distruttiva, senza la necessità di prelevare alcunframmento di materiale.

Tuttavia, l’analisi XRF non ha permesso di approfondire lo studio sulla tecnologia di pro-duzione delle ceramiche, in quanto l’analisi elementale non consente di ricavare informazionisul contenuto mineralogico e sugli ossidi dei materiali investigati.A titolo dimostrativo, abbiamo presentato le tabelle composizionali medie, per la vernice nerae per l’ingobbio rosso delle ceramiche esaminate, ottenute tramite l’impiego di altre tecnicheanalitiche disponibili al LANDIS.

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Conclusioni 47

Si fa presente inoltre, che la determinazione dello stato di ossidazione nella vernice nera èattualmente in corso di studio, da parte del gruppo LANDIS, mediante tecniche XANES(X-Ray Absorption Near Edge Spectroscopy) presso il sincrotrone ELETTRA di Trieste.

I risultati sperimentali hanno confermato le performance dello scanner XRF. Tuttavia,l’uso di tempi di acquisizione di 1 s, per ciascuno step di misura nelle scansioni XRF, haportato a lunghi tempi di misura (fino a 35 h). Inoltre, l’area massima che è possibilericoprire con l’attuale configurazione dello scanner, è pari a 20 × 20 cm2, il che ne limital’utilizzo a campioni di piccole e medie dimensioni.

Al fine di superare le attuali limitazioni, presso il laboratorio LANDIS è già in fase diimplementazione una nuova versione del sistema a scansione XRF. Questo, tra le altre cose,prevede una modalità di scansione continua (non step by step come quella presentata in questoelaborato), senza tempi morti di acquisizione. Sarà inoltre in grado di ricoprire superfici piùampie – il travel range è di 70 × 70 cm2 – e con la possibilità di operare scansioni con tempidi acquisizione per step molto ridotti (500 micron in 20 ms).

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