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Note del corso di TEOLOGIA FONDAMENTALE II La trasmissione della divina rivelazione. Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero (NB: Le note si riferiscono a vecchie lezioni e vanno unite agli schemi delle lezioni e a quanto detto in classe). Pontificio Ateneo S. Anselmo Piazza Cavalieri di Malta 5 – 00153 Roma – tel. 0657911

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Note del corso di

TEOLOGIA FONDAMENTALE II

La trasmissione della divina rivelazione.

Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero

(NB: Le note si riferiscono a vecchie lezioni e vanno unite agli schemi delle lezioni e a quanto detto in classe).

Pontificio Ateneo S. Anselmo Piazza Cavalieri di Malta 5 – 00153 Roma – tel. 0657911

Sigle CF K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Alba 1977. DTF R. LATOURELLE - R. FISICHELLA, ed., Dizionario di Teologia Fondamentale,

Assisi 1990. NS K. RAHNER, Nuovi Saggi, Roma 1968-1984. ST K. RAHNER, Saggi teologici, Roma 1965. SM Sacramentum Mundi, trad. it., Brescia 1977.

Indice INTRODUZIONE ............................................................................................................................................................1

1. NOVITÀ E TEMI PRINCIPALI DI DV 7-13............................................................................................................1

1.1 UNITÀ DI SCRITTURA, TRADIZIONE E MAGISTERO.....................................................................................................2

2. LA SCRITTURA ..........................................................................................................................................................3

2.1 ISPIRAZIONE DELLA SCRITTURA................................................................................................................................4 2.1.1 Spiegazione teologica dell’ispirazione ............................................................................................................5

2.2 INTERPRETAZIONE E ATTUALIZZAZIONE DELLA SCRITTURA......................................................................................6 2.2.1 DV 12 sul senso letterale e spirituale ..............................................................................................................6 2.2.2 DV 21-26 sull’attualizzazione della Scrittura..................................................................................................8

3. LA TRADIZIONE........................................................................................................................................................9

3.1 LA TRADIZIONE CRISTIANA: SOGGETTI, PROCESSO ED OGGETTO ...............................................................................9 3.2 CRITERI PER RICONOSCERE LA TRADIZIONE NELLE TRADIZIONI ..............................................................................11 3.3 DOTTRINA CRISTIANA E DOGMI...............................................................................................................................11

3.3.1 La visione di K. Rahner..................................................................................................................................14

4. IL MAGISTERO ........................................................................................................................................................19

4.1 STORIA DEL TEMINE ‘MAGISTERO’ ..........................................................................................................................20 4.2 FONDAMENTO DELL’AUTORITÀ DEL MAGISTERO ....................................................................................................20

4.2.1 Il fondamento cristologico del magistero ......................................................................................................21 4.3 MAGISTERO E TOTALITÀ DELLA CHIESA .................................................................................................................22

4.3.1 Le decisioni magisteriali ................................................................................................................................23 4.3.2 Magistero e contenuto della fede ...................................................................................................................23

4.4 L’AUTORITÀ SUPREMA DELLA CHIESA....................................................................................................................24 4.4.1 Il Papa e il collegio episcopale......................................................................................................................24

4.5 FORME DI ESERCIZIO E OGGETTO DEL MAGISTERO ..................................................................................................26 4.5.1 Le “note teologiche”......................................................................................................................................26

4.6 CONSIDERAZIONI SUL MAGISTERO AUTENTICO NON INFALLIBILE............................................................................26 4.7 CONSIDERAZIONI SUL MAGISTERO INFALLIBILE ......................................................................................................27 4.8 MAGISTERO E TEOLOGIA.........................................................................................................................................27

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE ..................................................................................................................................29

Introduzione

Dopo aver trattato nel primo corso il Mistero e l’evento della rivelazione e della sua economia (‘verbis gestisque’), e la risposta a questa rivelazione nella fede, proseguiamo ora nel nostro studio guardando alla sua trasmissione attraverso la Tradizione e la Scrittura ispirata, che sono oggetto, ambedue, dell’interpretazione da parte del magistero della Chiesa.

1. Novità e temi principali di DV 7-131

– DV 7 sviluppa significativamente la formulazione del Concilio di Trento sul ruolo degli Apostoli.

Essi furono ‘dona divina comunicantes’, in quanto ebbero una esperienza viva di Gesù e trasmisero questa realtà (il ‘deposito’) alla Chiesa con la predicazione, esempi e istituzioni. Si supera cioè una visione eminentemente dottrinale e didattica del ‘deposito’ e della sua comunicazione introducendo elementi vitali e reali.

Da notare poi anche il fatto che questo ‘deposito’ – costituito da tradizione e sacra scrittura – offre un mezzo adatto ma limitato affinché la Chiesa peregrinante contempli l’opera rivelatrice di Dio.

Infine viene messo in evidenza come il Vangelo che gli Apostoli trasmisero viene ora trasmesso dai Vescovi in modo da conservarlo, proteggerlo, interpretarlo e renderlo sempre vivo ed attuale nelle chiese.

– DV 8 indica la dimensione complessa e composita del depositum fidei che non può ridursi solo ad un elemento, per importante che sia. Esso pertanto comprende sicuramente la Scrittura, ma anche tutto un insieme di elementi che parlano di vita religiosa vissuta: insegnamento e guida pratica, forme liturgiche e comunitarie. Per quest’ultimo motivo il problema della trasmissione non è solo un problema di preservazione dell’ortodossia ma anche di preservazione della vita, dei valori dello spirito che la comunità della nuova alleanza ha ricevuto.

La comprensione poi delle parole e delle cose trasmesse cresce e si sviluppa continuamente sia per azione dello Spirito animatore sia per l’opera di riflessione sulla propria vita spirituale da parte dei credenti e sia per la predicazione e l’insegnamento di coloro che hanno ‘un carisma certo di verità’.

Non che ogni cosa nella Chiesa cresca e si sviluppi sempre in modo positivo, perciò, altrove, il Concilio parla della sua necessità di continua riforma (UR 6).

– DV 9 afferma l’unità e l’interrelazione della testimonianza della Scrittura e di quella della Tradizione. Sia la componente scritta del ‘deposito’ che quella vitale e comunitaria hanno la stessa sorgente – il Vangelo, per Trento (DS 1501), Gesù Cristo per DV 7) –, lo stesso fine o scopo – il dialogo d’amore tra Dio e la Chiesa odierna (DV 8) e il riflesso del suo volto in un modo adatto agli uomini d’oggi nel loro pellegrinaggio terreno (DV 7). Esse poi interagiscono nel senso che si interpretano a vicenda e ognuna contribuisce all’attualizzazione dell’altra; in questo modo, e solo in questo modo, la Chiesa può comprendere con certezza ciò che Dio ha rivelato di sé e del suo piano salvifico. Tutto questo gioco di mutue e incessanti interazioni fa si che il ‘deposito’ non sia una realtà statica ma dinamica.

Si noti che qui viene evidenziato un limite della parola biblica: il testo da solo non da alcuna certezza sul contenuto della rivelazione, visto che tale certezza appartiene piuttosto alla vita tramandata.

– DV 10 afferma in modo conciso il ruolo autorevole del magistero ecclesiale che, ad ogni modo, è posto in chiara subordinazione alla componente scritta e vitale del ‘deposito’. Esso, infatti, non sostituisce né la sorgete originaria – Gesù Cristo – né ciò che ci è stato trasmesso a proposito della sua rivelazione, ma ha essenzialmente il compito di rendere testimonianza a Dio e al suo Figlio. Più in particolare, esso non ha tanto un compito ‘creativo’ ma di interpretazione (difesa e attualizzazione) di quanto è stato affidato alla Chiesa. Esso è l’istanza superiore che ha il compito di valutare quanto viene proposto da altri interpreti della rivelazione e decidere se tali proposte sono omogenee con il ‘deposito’, cioè, se sono giuste interpretazioni della vita di fede della Chiesa. In altre parole, si può dire anche che il magistero 1 Cf. U. BETTI, La rivelazione divina nella Chiesa, Roma 1970, 213-253; J. WICKS, «Il deposito della fede», in R. FISICHELLA, ed., Gesù Rivelatore, Brescia 1988, 110-117; J. WICKS, Scrittura Tradizione Magistero, I, Dispense PUG, Roma 19935, 62-67.

agisce nel capo delle tradizioni mutevoli, in quanto non muta il deposito in quanto tale ma valuta dove poter introdurre in esso opportuni cambiamenti per adattarlo alle nuove situazioni di insegnamento, culto e procedure ecclesiastiche2.

Si noti il riferimento a ‘tutto il popolo di Dio’ come al depositario e alla fondazione pneumatologica del magistero.

– DV 11 ripropone l’insegnamento tradizionale sull’ispirazione di tutta la Sacra Scrittura ma lo fa senza soffermarsi a descrivere il modo in cui opera il carisma di cui beneficia l’autore sacro.

Si nota anche uno spostamento di interesse dal tema dell’inerranza a quello della verità salvifica della Scrittura. Quest’ultimo è il vero scopo della Scrittura (2 Tim 3,16s).

– DV 12 nota che se è vero che ciò che gli autori umani della Scrittura intesero e vollero comunicare esprime effettivamente la verità che Dio intese comunicare, è vero anche che questa verità salvifica è proposta in modo analogo3, secondo i generi letterari del tempo, secondo la cultura dello scrittore, secondo i modi di comprendere il mondo e i rapporti umani di allora. Questi sono, pertanto, altrettanti fattori di cui bisogna tener conto quando si ricerca del senso ‘letterale’ del testo.

Accanto alla ricerca del senso ‘letterale’ esiste anche una legittima interpretazione teologica dei testi e una lettura ‘nello Spirito’ – che gli ha ispirati e garantisce la loro verità salvifica. Per una tale lettura bisogna però tenere in considerazione: a) il contenuto e l’unità di fondo di tutta la Scrittura canonica (‘analogia Scripturae’ che deriva dalla analogia fidei); b) la viva Tradizione di tutta la Chiesa che crea quell’ambiente vitale che solo permette la giusta interpretazione; c) l’analogia della fede che implica un nesso tra i vari misteri cristiani.

Per concludere notiamo come la DV non esaurisca tutto il Vat. II e che pertanto uno non troverà in essa molti richiami a quella fecondità benefica per tutta l’umanità che Giovanni XXIII richiedeva all’inizio del Concilio4. Certamente in essa c’è il proposito di stimolare una più vitale fede, speranza e carità in tutto il mondo (DV 1), oppure si afferma che le Scritture sono una miniera di saggezza per la vita umana (DV 15), ma, in definitiva, essa non supera mai un certo ecclesiocentrismo e non evidenzia mai come il ‘deposito’ contenga in se stesso la capacità di migliorare la vita umana nel suo complesso. A ciò supplirà GS che nel Cap. II sullo sviluppo culturale (nn. 53-62) richiamerà il ruolo rilevante del Vangelo su tutte le culture particolari (GS 58) e mostrerà come la formazione cristiana non ha mirato sempre a liberare queste sue potenzialità (GS 62). Questo sarà in particolare il compito dei teologi che trova il suo spazio di intervento nella distinzione fatta da Giovanni XXIII tra il ‘deposito’ e i diversi modi di esprimerlo e comunicarlo ad una data epoca.

Vediamo ora di sintetizzare e unificare in una visione sistematica alcuni punti emersi dall’analisi della DV.

1.1 Unità di Scrittura, Tradizione e magistero

S., T. e M. sono il fondamento della dottrina e della vita della Chiesa in quanto, unitamente, trasmettono la Rivelazione divina.

Ora: a) la trasmissione e i mezzi di trasmissione sono determinati dalla natura di ciò che si trasmette; b) la R. è l’autocomunicazione di Dio stesso e non una comunicazione di informazioni su Dio e mira a instaurare una comunione tra Dio e uomo, a rendere l’uomo partecipe alla vita trinitaria. Essa poi avviene in parole e in opere ed in modo storico – combinando assieme passato, presente e futuro – (Cf. DV 2-6).

Pertanto, ne segue che abbiamo a che fare con la trasmissione di una realtà vitale, che avviene in modo vitale e che non può ridursi alla mera trasmissione o comunicazione oggettiva di una ‘res’ (ciò vale sia per il tempo apostolico che per quello post-apostolico).

2 Cf. anche (caso Lefebvre), Insegnamenti di Paolo VI, XIV, 815. 3 Il Concilio Lateranense IV (DS 800.804) evidenzia come ogni somiglianza tra Dio e noi va pensata come superara da una ancor più grande diseguaglianza. 4 Cf. l’allocuzione inaugurale Gaudet Mater Ecclesia.

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Da quanto detto consegue anche che:

1) Si può avere un ‘progresso’ in ciò che è stato affidato dagli Ap. alla Chiesa post-apostolica: infatti il “deposito”5 viene compreso sempre meglio man mano che si viene a contatto con nuove situazioni storiche, e ciò sempre grazie all’azione dello Spirito Santo che ininterrottamente agisce nella trasmissione apostolica, prima, ed ecclesiale, poi, animando la riflessione dei credenti e assistendo l’insegnamento e la predicazione del Magistero (Cf. DV 8). A tal proposito notiamo anche che:

– È tutta la Chiesa che è ‘attiva’ nel processo di trasmissione e non solo il magistero (Cf. DV 10). Questa è una conseguenza della ecclesiologia della LG che evidenzia come la Chiesa debba essere intesa come il popolo di Dio in cammino verso la realizzazione del Regno (LG 5) e non debba essere ristretta al solo magistero. Da questa affermazione della LG consegue poi che anche ciò che ci viene trasmesso dalla Chiesa a riguardo di Dio e del suo disegno – tramite la triade formata da S., T. e M. – deve essere considerato come una realtà vera ma provvisoria (DV 7 e 8), visto che la Chiesa non è la realtà ultima e definitiva. – La Chiesa non trasmette solo semplici verità ma ciò che essa stessa è e crede, tramite la dottrina, la vita e il culto. Solo nella globalità, nell’insieme di tale trasmissione la Scrittura – anch’essa trasmessa e il cui canone fu fissato anche grazie a ciò che di trasmesso era a lei estraneo – diviene parola di Dio sempre attuale (DV 8).

2) In questa visione che considera la trasmissione della rivelazione in modo vitale, S. e T. sono strettamente unite (‘unità nella diversità’ visto che unità non vuol dire identità) e interdipendenti, in quanto scaturiscono dalla stessa ‘divina sorgente’ e tendono allo stesso fine (DV 9).

– La Scrittura diviene vera parola di Dio attualizzata, solo nel contesto vitale di tutta la trasmissione rivelativa (DV 8). Da sola non basta per dare certezza sul contenuto rivelato (DV 9), in quanto la rivelazione è qualcosa di vitale che si trasmette vitalmente nelle comunità caratterizzate dalla successione apostolica. – La Scrittura, in quanto è parola fissata in un testo, ha un carattere di normatività, di controllo, sullo ‘sviluppo’ della Tradizione. – Il Vat. II, comunque, non prende posizione (perché la supera?) tra la teoria manualistica delle ‘due fonti’ e quella della ‘sufficienza materiale della Scrittura’ della teologia storica. Secondo la prima (P. Lennerz) la Tradizione comunica delle verità di fede non contenute nella Scrittura ed è pertanto una fonte parallela, e in parte anche materialmente diversa, dalla Scrittura. La seconda, invece (Prof. Geiselmann), rifiuta questa bipartizione ed evidenzia come la Scrittura, da sola, sia il fondamento di tutte le dottrine di fede. La Tradizione viva, quindi, trasmette ed interpreta in ogni epoca quel contenuto materiale che anche la Scrittura contiene a suo modo.

3) Il magistero entra in tale processo di trasmissione vitale in quanto cura che il ‘deposito’ venga trasmesso in modo integro, e che ogni ‘progresso’ avvenga in modo omogeneo e ad esso adatto. Esso è dunque la servizio della Rivelazione contenuta in tale deposito e non è ad essa superiore.

In questo compito esso è poi assistito dalla Spirito Santo (2 Tm 1,6ss) che, notiamolo esplicitamente, è il ‘contesto’ in cui avviene tutto questo processo di trasmissione, in quanto ispira la Scrittura e anima la Tradizione.

2. La Scrittura

5 “deposito apostolico” = quella fede e quelle forme di vita lasciate in eredità dagli Ap. e dai loro collaboratori alle Chiese fondate durante la loro proclamazione del Vangelo. Oppure, similmente: insieme di libri ispirati, tradizioni e altri mezzi di formazione nella fede e santità lasciate in eredità dagli Ap. e …

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Trattando il tema della Scrittura in un contesto di Teologia fondamentale va evidenziato innanzitutto il suo legame con la Tradizione e il magistero, cosa che abbiamo fatto esplicitamente nei paragrafi precedenti. Ora rivolgiamo la nostra attenzione a due altri temi che trovano abitualmente spazio all’interno di un tale corso: il problema dell’ispirazione e quello della interpretazione della Scrittura.

2.1 Ispirazione della Scrittura

Alla Scrittura (AT e NT) è riconosciuto un carattere normativo che le proviene dal suo carattere ‘sacro’ e ‘divino’ che, a sua volta, discende dal fatto che è stata sempre ritenuta scritta per ispirazione dello Spirito Santo e, quindi, di avere, in qualche modo, ‘Dio per autore’.

Tutto questo era sicuramente un dato scontato per Israele (Cf. Es 34, 1.27) e per la Chiesa primitiva ( 2 Tm 3, 14-17; 2Pt 1, 20ss). In quest’ultima, in particolare, essere ‘autore sacro’ era un carisma (un carisma di comunicazione) tra gli altri carismi al servizio della comunità e, quindi, dono dello Spirito Santo (Cf. 1 Cor 12, 4.8-11 e Ef 4, 7.11-12 dove tra i vari ‘carismatici’ compaiono anche gli evangelisti).

Scontate erano pure queste affermazioni per la Chiesa dell’epoca patristica che faceva una lettura spirituale di tutta la Bibbia in quanto opera di un solo autore: lo Spirito che tutto ha ispirato ‘per noi e per la nostra salvezza’.

Problemi nascono invece nella seconda metà del XIX sec., quando l’esegesi compiuta con il MSC mette in evidenza il carattere composito (con varie fonti o tradizioni) dei libri biblici e, quindi, il loro forte carattere ‘umano’. Da qui scaturisce tutta una serie di pronunciamenti magisteriali che evidenziano l’evoluzione storica del problema:

– Vat. I, Costituzione dogmatica ‘Dei Filius’ (1870): rifiuto della tesi della ‘approvazione ecclesiastica susseguente’; rifiuto della tesi della ‘assistenza negativa’. Riprendendo i Concili di Firenze e di Trento afferma Dio come ‘vero autore’, senza però specificare e precisare in che modo Egli lo sia. – Enciclica ‘Provvidentissimus Deus’ di Leone XIII (1893): rifiuto della tesi di Newman che limitava l’ispirazione al messaggio propriamente religioso (fede e morale). Afferma per contro che tutta l’attività dell’autore sacro è sotto l’azione di Dio e che, quindi, ogni errore è escluso dalla scrittura (si era in un contesto di lotta con l’illuminismo moderno). Da anche una descrizione dell’operazione dello Spirito ispirante (schema ‘leoniano’): Dio illumina l’intelletto, muove la volontà e assiste nell’azione. – Enciclica ‘Spiritus Paraclitus’ di Benedetto XV (1920): si ribadisce la verità assoluta della Scrittura e si rifiuta nuovamente la tesi di Newman. La relazione tra Dio e l’autore umano viene evidenziata identificando Dio con la causa principale e l’uomo con la causa strumentale (esempio di Dio come artista e uomo come strumento, mezzo per la realizzazione di un opera d’arte): si ripete, quindi, lo schema ‘leoniano’. Seguendo S. Girolamo (1500° anniversario della sua morte), si dice però anche che i singoli autori umani ‘prestarono liberamente la loro opera a Dio ispirante’. – Enciclica ‘Divino afflante Spiritu’ di Pio XII (1943): qui si hanno le prime novità sostanziali in quanto si sottolinea il fatto che gli autori umani hanno mantenuto la loro libertà e autonomia e che, pertanto, è necessario far uso degli strumenti dell’indagine letteraria (generi letterari). Per il resto si ripete insegnamento precedente sul carattere strumentale dell’azione umana (schema ‘leoniano’) e sull’inerranza. – Documento della Pontificia Commissione Biblica (1964): si riprende Pio XII e si invita a investigare i diversi generi letterari. Nell’interpretare il Vangelo l’esegeta deve poi tenere in debita considerazione i tre stadi attraverso cui l’insegnamento di Gesù è giunto fino a noi: il Gesù storico espose il suo insegnamento oralmente adattandosi alla mentalità degli uditori; gli Apostoli predicarono il kerigma con modalità adatte al loro fine specifico e alla mentalità degli uditori; gli autori sacri scelsero il materiale a loro disposizione e fecero una sintesi guardando ai bisogni delle singole chiese. – Vat. II, DV 11 (1965): scompare ogni accenno allo schema ‘leoniano’ e si sottolinea come l’autore umano sia vero autore. L’inerranza della Scrittura viene espressa dicendo che essa è verità certa per la nostra salvezza.

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2.1.1 Spiegazione teologica dell’ispirazione

Secondo K. Rahner6 la Chiesa di tutti i tempi è il segno escatologicamente irreversibile del volgersi definitivo di Dio verso il mondo in Gesù Cristo (segno senza il quale Gesù Cristo stesso non potrebbe essere visto come il Salvatore assoluto). Essa è però legata, nella fede e nella vita, in modo ineliminabile e obbligante alla chiesa primitiva che si è oggettivata anche in documenti scritti.

Partendo da tali premesse si può secondo il nostro A. giungere a capire ciò che realmente significa ispirazione e canone obbligante, in quanto la Scrittura emerge come quella entità che appartiene in modo essenziale alla Chiesa intesa come presenza escatologicamente irreversibile di Gesù Cristo nella storia. È questo legame con Cristo che spiega l’obbligatorietà e l’essere ‘ispirata’.

Andando per ordine, la prima cosa da notare è che la Scrittura è parte integrante di quel processo in cui la chiesa primitiva si forma quale entità normativa per il futuro, essa è cioè un momento – anche se temporalmente esteso – del formarsi della chiesa degli inizi in questa sua essenza specifica. Pertanto, si può dire che il processo in cui la chiesa apostolica perviene a se stessa in pienezza è anche il processo della formazione del canone, cioè di quegli scritti che la chiesa riconosce come oggettivazione atta a tramandarla in modo normativo per i tempi futuri. Il riconoscimento della canonicità e, quindi, dell’ispirazione di questi scritti è quindi opera dalla Chiesa – e senza dubbio anche di quella post-apostolica – ma in realtà trova il suo fondamento ultimo in Dio stesso che ha voluto costituire, mediate la croce e la resurrezione intese come evento salvifico irreversibile, quella chiesa per la quale hanno valore fondante le oggettivazioni del suo periodo iniziale. Questo modo di porre il fondamento ultimo in Dio permette poi di rispettare il dettame che proibisce di dire che la canonicità e l’ispirazione degli scritti di AT e NT sia un qualcosa che nasce dal riconoscimento successivo della Chiesa (DS 3006) e, allo stesso tempo, rispetta l’evidenza che non si può far dipendere questo riconoscimento da attestazioni esplicite risalenti ai primi portatori della rivelazione (gli apostoli).

Venendo quindi al problema dell’ispirazione, Rahner nota che Dio può essere detto autore delle scritture in molti altri modi, oltre a quello di autore letterario, senza che queste cessino di essere veramente ‘parola di Dio’. In particolare egli nota che se Dio ha voluto in modo assoluto che la Chiesa di tutti i tempi fosse segno escatologico irreversibile di salvezza, se Egli ha voluto che la Chiesa di tutti i tempi trovasse nella chiesa primitiva, in tutto ciò che le è costitutivo, una norma per il futuro, allora si può dire che egli sia anche l’autore delle scritture in quanto queste sono un elemento costitutivo di quella chiesa primitiva che deve essere norma per la chiesa dei tempi futuri che, a sua volta, deve essere segno indefettibile di salvezza per tutti i tempi. Questo modo di vedere l’ispirazione premette di evitare ogni discorso sulla ‘psicologia’ dell’ispirazione e permette di considerare gli autori umani alla pari di ogni altro autore letterario.

Per quanto riguarda il problema dell’inerranza, infine, egli nota come questo problema presenti ancora delle difficoltà a livello di comprensione e di spiegazione da parte della dottrina ecclesiale, in quanto il Concilio ha voluto lasciare aperta la questione se il ‘per la nostra salvezza’ di DV 11, riferito alla verità consegnataci da Dio, abbia un senso restrittivo oppure esplicativo. Egli nota poi che le scritture sono obbligatoriamente veritiere nella loro unità e nel loro complesso, in quanto sono la «oggettivazione della promessa salvifica vittoriosa ed invincibile fatta da Dio al mondo in Cristo»7. I singoli elementi, invece, vengono colti nel loro senso autentico solo se sono letti nel contesto di questo complesso unitario e solo così, pertanto, possono essere afferrati come ‘veri’. In questo modo, se teniamo conto di questa affermazione di base, dell’esistenza di differenti generi letterari, del condizionamento storico-culturale, del fatto che il senso vincolante cambia con l’immissione nel Canone, della analogia scripturae e della ‘gerarchia delle verità, allora si può dire che un cristiano ‘occidentale’ dei nostri tempi non dovrebbe avere problemi a ritenere senz’altro come ‘vere’, nel loro significato fondamentale e vincolante, singole proposizioni che una onesta esegesi biblica deve riconoscere come non perfettamente giuste.

6 Rimandiamo per quanto qui detto a K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede (= CF), Alba 1977, 470-479. 7 CF, 478.

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2.2 Interpretazione e attualizzazione della Scrittura

La verità vitale, salvifica, offerta dalla Bibbia si può afferrare solo con una serie di operazioni interpretative che tengono conto della sua ‘umanità storica’ e del suo essere originata dall’ispirazione dello Spirito Santo che ora continua ad operare nella Chiesa per la sua retta interpretazione e attualizzazione. Questo, in estrema sintesi, ciò che dice DV 12 (interpretazione) e DV 21-26 (attualizzazione).

2.2.1 DV 12 sul senso letterale e spirituale

Interpretare la Sacra Scrittura significa, secondo DV 12, «vedere ciò che egli ha voluto comunicarci», «ciò che a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole»: il senso letterale, umano, storico, è cioè necessario ma è solo il mezzo per giungere a questo scopo ultimo di comprensione del ‘senso divino’, spirituale. Leggere la Scrittura in questo modo significa interpretare la Bibbia nello stesso Spirito in cui è stata scritta, significa farsi docili allo Spirito nella fede per scoprire il senso spirituale profondo o, in altri termini, il mistero di salvezza contenuto nella storia sacra.

Il testo conciliare cita poi delle norme specifiche che rendono questo principio generale appena enunciato – leggere e interpretare le Scrittura nello Spirito – concreto e operante e, viceversa, il principio generale dona ad esse un significato che le eleva dal piano delle mere norme empiriche:

a) Interpretare le Scritture nello Spirito significa scoprirvi il disegno unitario di Dio. b) Interpretare le Scritture nello Spirito significa scoprirvi l’unità con la Tradizione, della quale sono espressione e nella quale soltanto è possibile entrare in quel ambiente di fede professata e vissuta che permette di ben comprendere il loro significato. c) Interpretare le Scritture nello Spirito significa scoprirvi l’armonia con la globalità della fede cristiana (analogia fidei). Questa è una sintesi delle altre due norme precedenti in quanto significa che bisogna tener conto dell’unità della Bibbia e dell’unità di Scrittura e Tradizione. Proviene da una lettura di Rm 12,6.

Come visto, DV 12 ci dice, in estrema sintesi, che deve essere ricercato nelle Scritture il senso letterale e quello spirituale. Vediamo ora più in dettaglio questi due tipi di letture.

a) Senso letterale

Questo è il senso espresso direttamente dagli autori umani ispirati, è il significato preciso dei testi così come sono stati composti dai loro autori. Ricercare questo senso è il compito principale dell’esegeta che si deve servire a tale scopo di tutti i mezzi messi a disposizione dalla ricerca letteraria e storica. In particolare, per giungere al vero senso letterale si deve tener conto delle convenzioni letterarie del tempo (generi letterari) in modo da non cadere nella lettura fondamentalista che coglie il senso letteralistico e non quello letterale propriamente inteso.

Normalmente il senso letterale è unico, come voluto dal MSC, ma questo non vale sempre e in ogni caso in quanto: a) un autore umano può volersi riferire allo stesso tempo a più livelli di realtà (p. es. il Vangelo di Giovanni); b) l’ispirazione divina può guidare l’espressione in modo da produrre ambivalenza (parole di Caifa in Gv 11,50).

Fondamentale per la ricerca del senso letterale è, come detto, il MSC. Esso sorge come reazione alla tendenza dell’esegesi antica di attribuire alla Scrittura diversi significati: un senso letterale ed uno spirituale, quest’ultimo nel medioevo (XIII sec., Agostino di Danimarca ?) si differenziò a sua volta in un senso spirituale in rapporto con la verità rivelata, con il comportamento e con il compimento finale. Il MSC oppose – i suoi inizi si possono far risalire già al XVII sec. con gli studi sul Pentateuco di R. Simon – a questi differenti significati la ricerca del significato di un dato testo biblico nelle circostanze in cui fu composto. Il suo scopo, cioè, è quello di mettere in luce, soprattutto in modo diacronico, il senso espresso

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da autori e redattori: si guarda alla genesi del testo. Esso, pertanto, è detto storico perché ricerca soprattutto di chiarire i processi storici di produzione dei libri biblici. Esso, poi, è detto critico perché opera con l’aiuto di criteri scientifici in modo da rendere accessibile al lettore moderno il significato dei testi antichi.

Il suo valore, per quanto riguarda l’esegesi, consiste nell’essere in grado di fornire un nuovo accesso alla Bibbia, mostrando che questa è una collezione di scritti che il più delle volte non sono creazioni di un unico autore ma hanno una lunga preistoria legata alla storia di Israele della Chiesa primitiva. In definitiva, esso porta ad una comprensione più esatta della Scrittura e questo si ripercuote anche sulla teologia, visto che i testi in esame non hanno solo un interesse storico ma sono anche fonti alle quali la teologia deve continuamente attingere. Il MSC indica poi alla teologia lo stretto legame esistente tra fede e rivelazione, visto che questi testi nascono all’interno di un contesto di abbandono fiducioso e di accoglienza: non c’è rivelazione senza un uomo che la accolga nella fede. Esso indica infine alla teologia la distanza permanente tra Cristo e la Chiesa.

Tra i suoi limiti ricordiamo: α) Il suo restringersi alla ricerca del solo significato del testo nelle circostanze della sua

composizione, tralasciando tutte le altre potenzialità di significato che sono emerse nel corso della storia. Da questo punto di vista il MSC dovrebbe a volte indicare almeno la direzione del pensiero espresso nel testo, visto che questo può avere una dinamicità che va oltre le circostanze storiche della sua produzione (Cf. Salmi regali).

β) Come nota Drewerman, essendo poi esso un metodo storico, mette in contatto con un passato che non c’è più e non con la presenza viva e attuale di Dio: è esperto di Dio ma non mette in contatto con Dio. Esso poi è essenzialmente razionale e quindi incapace di raggiungere il ‘profondo’ dell’uomo, che viene invece toccato dal mito, dal simbolo.

γ) Certi suoi limiti sono pure emersi con il venir meno della prospettiva storica su cui esso si fonda e il sorgere di nuovi approcci che guardano invece a dimensioni comuni a tutti gli esseri umani: psicologia, semiotica, linguistica, antropologia.

δ) Ci sono infine dei limiti legati al venir meno della fiducia nella ragione e alla conseguente riscoperta del ruolo dell’intuizione, della sensibilità della fantasia. A persone che vivono questo nuovo modo di sentire, il MSC non può apparire che troppo razionale, troppo arido e troppo poco capace di coinvolgere ‘tutto’ l’uomo.

In definitiva possiamo dire che il MSC è un metodo e che da solo non è in grado di far emergere tutta la ricchezza dei testi biblici. Esso deve essere pertanto integrato con altri metodi (sincronici) di analisi letteraria: p.es. analisi retorica, analisi narrativa, analisi semiotica…

b) Senso spirituale

Ricercare il senso spirituale è un qualcosa che si scontra con la visione delle attuali scienze del linguaggio ed ermeneutiche che hanno messo in evidenza la polisemia dei testi scritti: in un nuovo contesto il testo è illuminato in modo diverso e al suo significato si aggiungono nuove determinazioni. Per questo motivo i testi sono stati conservati: perché fossero sempre portatori di luce e di vita. Secondo l’ermeneutica filosofica – che si è rivelata uno strumento utile per una corretta esegesi storica e spirituale – questi sono i punti da tener presente nell’analisi di un testo:

α) La comprensione di un testo è un processo infinito. Questo perché nella comprensione si ha sempre una attualizzazione del testo alla situazione attuale dell’interprete. Non c’è interpretazione senza una relazione vitale con il presente: una volta scritto il testo si apre a nuovi rapporti.

β) Interpretare significa dialogare con il testo. Tale dialogo si può suddividere in tre fasi correlate: 1. È il testo che per primo ci interroga mediante la tradizione: io mi aspetto già una risposta dal

testo, non mi pongo nudo davanti a lui, ho già delle aspettative, ho già una pre-comprensione che si determina in pre-giudizi. Il testo ha già fatto sentire i suoi effetti sull’interprete e quindi questi si trova già in rapporto con esso (Wirkungsgeschichte). Pertanto siamo alla presenza di

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un circolo ermeneutico che è un qualcosa di ontologico, cioè di ineliminabile, nel processo della conoscenza.

2. L’interprete risponde a questi appelli e da interrogato diviene interrogante. 3. Le domande dell’interprete mirano a ricostruire la domanda originaria di cui il testo sarebbe

la risposta, al di là delle stesse intenzioni consapevoli dell’autore. γ) A questa visione corrisponde una ermeneutica biblica che :(a) non guarda solo alla ‘intentio

auctoris’, ma al sovrappiù di senso presente nel testo – ‘intentio Dei’ (DV 12); (b) considera l’attualizzazione parte integrante dell’interpretazione del testo biblico (DV 21-26); (c) si caratterizza per il suo situarsi consapevole nella tradizione vivente della Chiesa, la cui prima preoccupazione è la fedeltà alla rivelazione attestata nella Bibbia e che ha raggiunto il suo culmine in Cristo – questa è la sua pre-comprensione (DV 9 e 12); (d) considera il contatto interpretativo con la Parola come un dialogo, un colloquio tra Padre e figli, tra amici (DV 2.21.25).

Per quanto riguarda l’ermeneutica biblica, poi, aggiungiamo che per essa non ogni significato è

attribuibile ad un testo, ma solo ciò che non è eterogeneo rispetto al senso espresso dagli autori umani ispirati. Un tale senso non eterogeneo al senso ‘primario’ è detto senso spirituale e corrisponde al senso dei testi quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito (= nella luce della fede) nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta – cioè nel contesto storico radicalmente nuovo della vita nello Spirito. A tal proposito facciamo le seguenti specificazioni:

α) Talvolta il senso spirituale, così inteso, coincide con il senso letterale. Questo è il caso abituale del NT.

β) Il senso spirituale deve avere sempre dei rapporti con il senso letterale, altrimenti non si potrebbe parlare di ‘compimento’ delle Scritture.

γ) Il senso spirituale è diverso dalla interpretazione soggettiva dettata dalla immaginazione o dalla speculazione intellettuale. Esso deve scaturire mettendo in rapporto il testo con l’evento pasquale e la sua fecondità universale.

Per giungere alla vera interpretazione spirituale ci sono dei mezzi ben precisi indicati anche da DV 12. Come già detto precedentemente, un modo più concreto di parlare di interpretazione spirituale e dire che:

α) Bisogna guardare all’intero Canone delle Scritture. Nella Bibbia infatti è presente un unico disegno di Dio che va dalla profezia e dalla promessa (AT) al compimento (NT).

β) Bisogna tener conto della viva tradizione. Questa da il contesto che fa entrare nella giusta affinità vitale l’interprete e il testo:

• Contesto dei Padri. Questi hanno saputo trarre dalla Scrittura gli orientamenti fondamentali che hanno dato vita alla tradizione dottrinale. Come pure un ricco insegnamento utile all’istruzione e al nutrimento spirituale dei fedeli del loro tempo – hanno cioè tratto un ulteriore significato dai testi, visto che per loro un esegesi era completa solo se faceva emergere il significato che un testo aveva per gli uomini di quel tempo e in quella determinata situazione.

• Contesto liturgico centrato sulla Pasqua e sulla Incarnazione. • Contesto del credo cristiano che dà i tratti fondamentali di Dio che ogni pagina della Scrittura

testimonia. Contesto che aiuta quindi a trovare in quest’ultima un senso più profondo di Dio e una conoscenza più chiara della via che fa entrare nel piano salvifico di Dio.

2.2.2 DV 21-26 sull’attualizzazione della Scrittura

In sintesi: – DV 21: La vita della Chiesa dipende dalla Parola e dall’Eucaristia, soprattutto unite nella liturgia.

Questo è il contesto dell’attualizzazione. – DV 23: Due livelli di studio della Bibbia: ricerca esegetica eseguita da esegeti e attualizzazione

eseguita dai pastori. La prima è in funzione della seconda.

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– DV 25 e 26: Si richiama nuovamente l’unità tra studio (esegesi) e attività di ministero (attualizzazione).

3. La Tradizione

Quando si parla di ‘tradizione’ la prima distinzione da fare è tra il contenuto trasmesso (il traditum o traditio obiectiva), il processo di trasmissione e di ricezione (l’actus tradendi et recipiendi o traditio activa) e i soggetti della tradizione (i tradentes o traditio subiectiva). La teologia fondamentale si occupa della relazione fondamentale che intercorre tra questi tre aspetti e dei criteri di interpretazione della tradizione, mentre lascia lo studio dei singoli particolari aspetti ad altre discipline teologiche quali l’esegesi, la dogmatica e la storia della chiesa.

Inizieremo pertanto guardando al fenomeno della tradizione nella sua fondamentale unità pur nella diversità dei vari momenti sopra indicati, poi passeremo ai criteri per riconoscere la tradizione nelle tradizioni. Per finire prederemo in esame un elemento particolare all’interno della tradizione che riveste particolare importanza per la teologia: la dottrina cristiana e i dogmi.

3.1 La tradizione cristiana: soggetti, processo ed oggetto8

Il processo cristiano della tradizione inizia con Gesù stesso che ripropone la ‘legge e i profeti’, anche se interpretandoli criticamente alla luce della volontà di Dio (Mt 5, 17-48; 15, 1-20; Mc 7, 5-13). Più avanti, oltre alla tradizione veterotestamentaria interpretata in rapporto a Gesù, diviene pure fondante la testimonianza resa dagli apostoli allo stesso Gesù che viene, inizialmente, trasmessa oralmente e poi fissata negli scritti del NT. Anche in questa fase, come evidenziano gli scritti di Paolo, non manca un atteggiamento critico nei confronti di ciò che si riceve – in questo caso le tradizioni giudaiche (Gal 2, 5-6)9 – alla luce della vera conoscenza di Gesù Cristo (Fil 3, 8-11).

Notiamo qui come il ‘trasmettitore’, la ‘trasmissione’ e il ‘trasmesso’ siano strettamente uniti: si trasmette con l’intera propria esistenza una realtà precedente che si è ‘incarnata’, in modo ‘nuovo’, nella propria vita. Questa ‘novità’ deriva dal fatto che la tradizione avviene come una ininterrotta interpretazione in rapporto a nuove situazioni ed avvenimenti e ha il suo fondamento ultimo non nella sola necessità dell’esposizione di rimanere sempre attuale ma nel fatto che il Signore vive ed è presente in ogni tempo e, pertanto, vuole anche essere testimoniato in ogni tempo in modo ad esso adatto.

L’allontanamento dalle origini provoca in seguito l’accentuazione dell’autorità dei primi testimoni e della ininterrotta catena dei trasmettitori come garanzia della fedele conservazione del kerigma: i vescovi diventano successori degli apostoli e autentici trasmettitori. Ciò che essi trasmettono non è però legittimato ‘formalmente’ ma dal fatto che concorda contenutisticamente con la dottrina degli apostoli e delle chiese di fondazione apostolica e con la Scrittura (‘regula fidei’). Il contenuto, pertanto, subisce un allargamento e accanto al kerigma si pone ora anche l’interpretazione ecclesiale delle Scritture come garanzia della ‘retta’ interpretazione. Accanto all’apostolicità compare poi, con i primi concili ecumenici, anche il criterio della cattolicità come proprietà essenziale della vera tradizione.

In generale si può dire che fino a tutto il periodo patristico la tradizione non è nient’altro che «la globalità del mistero cristiano, che viene tramandato lungo il corso dei secoli»10. Esso include l’AT e la sua interpretazione cristiana, la novità e singolarità di Gesù Cristo come sua origine e specificità, l’interpretazione del messaggio e del mistero di Cristo fatta dagli apostoli, dai padri e dai concili sotto l’azione dello Spirito Santo. In definitiva la tradizione viene quindi qui vista come «una mediazione

8 Cf. H.J. POTTMEYER, «Tradizione», in DTF, 1341-1349; R. FISICHELLA, La rivelazione: evento e credibilità, Bologna 1985, 111-128. 9 Paolo non è solo ‘testimone’ ma anche ‘trasmettitore’ di ciò che ha ricevuto dai primi testimoni a riguardo dell’ultima cena e della risurrezione di Gesù (1 Cor 11, 23-25), della professione di fede (Rm 1, 1-4) e degli inni della comunità (Fil 2, 5-11). 10 R. FISICHELLA, La rivelazione, 113.

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specifica e propria della rivelazione stessa»11 e solo dopo la nascita del canone delle scritture verrà a indicare ciò che della rivelazione viene trasmesso in modo non ispirato, come le Scritture, ma secondo le normali leggi storiche.

In epoca successiva accanto alla tradizione apostolica originaria vengono assunti come ispirati e vincolati anche definizioni e usi ecclesiastici successivi. Inoltre si impone sempre più la tendenza a legittimare la tradizione in modo formale attraverso l’antichità e l’autorità ecclesiastica e non più guardando alla concordanza materiale con il kerigma apostolico. A questo tentativo che rischia di immunizzare la tradizione da ogni critica che si richiami alla origine apostolica si oppongono umanisti e riformatori.

Sotto la spinta del movimento riformatore il concilio di Trento affronta il tema della tradizione con maggior senso critico e formula la sua visione nel Decreto ‘de libris sacris et de traditionibus recipiendis’ del 1546. Leggiamo:

Il sacrosanto concilio… ha sempre ben presente di dover conservare nella chiesa, una volta tolti di mezzo gli errori, la stessa purezza del vangelo, che, promesso un tempo dai profeti nelle sante Scritture, il Signore nostro Gesù Cristo, figlio di Dio, prima annunciò con la sua bocca, poi comandò che venisse predicato a ogni creatura [Cf. Mc 16,15] dai suoi apostoli, quale fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale. E poiché il sinodo sa che questa verità e normativa è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte che, raccolte dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo, o dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, trasmesse quasi di mano in mano, sono giunte fino a noi, seguendo l’esempio dei padri della vera fede, con eguale pietà e venerazione accoglie e venera tutti i libri, sia dell’antico che del nuovo Testamento, essendo Dio autore di entrambi, e così pure le tradizioni stesse, inerenti alla fede e ai costumi, poiché le ritiene dettate dalla bocca dello stesso Cristo o dallo Spirito Santo, e conservate nella chiesa cattolica in forza di una successione mai interrotta (DS 1501).

La prima cosa da notare a proposito di questo testo è il suo riferirsi al vangelo come alla fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale. In questo modo Trento supera il dilemma tra Scrittura e Tradizione evidenziando come la rivelazione non abbia la sua fonte in nessuna delle due in quanto ambedue non sono altro che oggettivazioni di un qualcosa che sta più a monte: il Vangelo, in altri termini, l’evento Cristo salvatore.

In secondo luogo assistiamo ad una riduzione critica delle tradizioni vincolanti che, per essere tali, devono riguardare la fede e i costumi e risalire agli apostoli.

Il concilio infine non va la di là di un semplice accostamento esterno delle due mediazioni del vangelo e non dice nulla a proposito della sufficienza materiale della scrittura, anche se il suo parlare al plurale di ‘tradizioni’ può lasciar supporre che pensi ad una distinzione materiale dalla scrittura e non solo ad una modale o ermeneutica (secondo la quale la tradizione è necessaria solo per rettamente interpretare la scrittura). Quello che comunque viene definito è l’insufficienza modale della scrittura che non può essere interpretata rettamente da alcuno –in campo di fede e morale –in modo contrastante con l’unanime consenso dei Padri o con quello a cui la chiesa si attiene (DS 1507).

Nel periodo successivo a Trento si impone una lettura del testo conciliare che legge il passo in cui si dice che il vangelo è contenuto (e) nella scrittura e nella tradizione (et-et) come se significasse ‘in parte’ nella scrittura e ‘in parte’ nella tradizione (partim-partim). Da ciò trae origine la distinzione materiale tra scrittura e tradizione e la, relativa, teoria delle due fonti della rivelazione12. Per contro c’è chi oppone a questa teoria dell’insufficienza materiale della scrittura quella della sua sufficenza13: la tradizione integra la scrittura solo per ciò che riguarda la sua retta interpretazione (e, “materialmente” per quanto riguarda gli usi ed i costumi della Chiesa).

Dal fatto che Trento aveva definito la chiesa come unica realtà in grado di interpretare rettamente la scrittura trae poi anche origine il monopolio interpretativo del magistero ecclesiastico e, di conseguenza,

11 R. FISICHELLA, La rivelazione, 114. 12 Questa teoria ha il suo maggior esponente in H. Lennerz. Vedi p. es. H. LENNERZ, «Sine scripto traditiones», Gregorianum 40(1959)624-635. 13 Cf. J.R. GEISELMANN, Die heilige Schrift und die tradition, Freiburg 1962.

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il fatto che esso si consideri e venga considerato sempre di più come l’unico trasmettitore della tradizione.

Queste questioni controverse riguardanti i rapporti tra Scrittura e Tradizione trovano una loro risposta soddisfacente solo nella Dei Verbum del Vat. II. Il concilio a tal proposito prosegue nella linea indicata da Trento quando individuava nel Vangelo l’unica fonte di ogni verità salutare (DV 7 la indica, più esattamente, in Gesù Cristo)) e dichiara che la tradizione e la scrittura «scaturiscono dalla stessa divina sorgente» e «formano in certo qual modo una cosa sola», esse sono due realtà «strettamente tra loro congiunte e comunicanti» (DV 9).

In altre parole il concilio supera le controversie precedenti indicando la fonte comune da cui tradizione e scritture hanno origine: il Vangelo, Gesù Cristo, la parola di Dio. E ciò fa si che si possa dire che nella chiesa «non esistono due fonti… ma solo l’imperscrutabile parola di Dio che, pur legata a forme e maniere umane, rimane sempre trascendente ed espressione del mistero più grande»14.

Il concilio quindi non affronta direttamente il problema della sufficienza materiale della Scrittura e rinuncia a definire il contenuto oggettivo della tradizione, ma supera tale questione andando ‘oltre’ la Scrittura e la Tradizione. Qualcuno però ha notato che DV lascia trasparire un rapporto puramente modale o ermeneutico tra Tradizione e Scrittura. Infatti la Scrittura è parola di Dio in quanto parola ispirata, mentre la tradizione trasmette la parola di Dio, la conserva e la espone (DV 9): la tradizione cioè sembra riguardare solo la retta interpretazione attualizzante delle Scritture15. Come nota poi ancora Pottmeyer16, certi passi che parrebbero indicare un contenuto particolare e specifico della sola tradizione possono venir letti in senso modale: la tradizione fa conoscere il canone delle scritture non perché abbia delle conoscenze extra, ma perché guardando al loro contenuto ha riconosciuto quello che era da considerare ‘canonico’; la chiesa poi «attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura» (DV 9) nel senso che la tradizione è necessaria per una retta interpretazione e attualizzazione.

Per quanto riguarda il rapporto esistente tra i vali elementi che compongono il fenomeno della tradizione, va notato infine che quanto detto da DV a tal proposito deriva quasi logicamente dal modo in cui il concilio ha trattato della rivelazione (DV 2-6) e della chiesa (in particolare LG 5): come la rivelazione non è più la mera comunicazione di singole verità così anche la tradizione cessa di esser vista in questo modo e diviene la «presenza vivificante» della parola di Dio; come la rivelazione non è più semplice ‘istruzione’ ma avviene con eventi e parole, così anche la tradizione avviene «nella dottrina, nella vita e nel culto della chiesa» (DV 8); come tutta la chiesa è il popolo di Dio in cammino verso la perfezione del regno (Cf. LG 5) così anche «tutto il popolo santo, unito ai suoi pastori» (DV 10) trasmette la tradizione in modo attivo (Cf. DV 8).

3.2 Criteri per riconoscere la Tradizione nelle tradizioni [Vedi G. O’COLLINS, Teologia fondamentale, Brescia 1982, 19842, 260-280. Stesso contenuto anche in: ID., «Criteri per l’interpretazione delle tradizioni», in R. LATOURELLE - G. O’COLLINS, ed., Problemi e prospettive di teologia fondamentale, Brescia 1980, 397-411].

3.3 Dottrina cristiana e dogmi

14 R. FISICHELLA, La rivelazione, 126. 15 In realtà DV 9 parla della sacra scrittura come “locutio Dei” e non come “verbum dei”. E DV 10 ribadisce che scrittura e tradizione sono insieme un solo deposito della parola di Dio (“verbum Dei”). In altre parole, DV cerca di evitare che il termine “parola di Dio” venga connesso alla sola scrittura (cf. A. VANHOYE, «La parola di Dio nella vita della Chiesa», in La rivista del clero italiano 4(2000)245-247). 16 Cf. H.J. POTTMEYER, «Tradizione», in DTF, 1346.

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La dottrina cristiana, in generale, e i dogmi17, in particolare, sono un elemento all’interno della Tradizione e, quindi, sono parte integrante di quell’unico ‘depositum fidei’ che non è scritto solo in lettere morte ma anche nei cuori dei fedeli stessi.

In questa prospettiva si vede come anche la dottrina e i dogmi saranno da considerare, alla pari della Tradizione, come una realtà ‘viva’ e non solo come un semplice blocco di scritti da trasmettere inalterato in ogni sua componente. Una volta definita, cioè, una dottrina (in ambedue i sensi) si inserisce per sempre nella Tradizione che progredisce entrando nella vita comunitaria della Chiesa, di modo che la verità che attesta viene penetrata sempre più profondamente.

Dopo questa osservazione di carattere generale facciamo alcune sottolineature più specifiche:

a) Ogni dottrina sarà necessariamente storica nella sua formulazione18. Infatti: 1) Il significato del linguaggio nasce dall’uso (istituzionale) attuale che se ne fa e, quindi, la verità normativa dei dogmi è da comprendere secondo l’uso linguistico del tempo in cui furono formulati; 2) La formulazione dottrinale può essere a volte una risposta a un problema particolare sorto in un contesto culturale pure particolare e, quindi, la formulazione può essere incompleta (è la risposta a quella domanda) anche se non falsa e risentire sicuramente delle concezioni culturali di quell’epoca storica; 3) Ciò che Dio è e ciò che egli opera trascende l’intelligenza umana e la sua capacità espressiva e, quindi, c’è sempre spazio per un successivo approfondimento e per una migliore comprensione.

Per questi motivi si può e si deve anzi dire che le enunciazioni della dottrina, pur restando vere e normative, possono diventare antiquate, insignificanti se non addirittura fuorvianti, per una cultura e un tempo differenti dalla loro formulazione e, quindi, profondamente inadeguate a raggiungere lo scopo che si prefiggono: mettere in contatto con l’eterna parola di Dio. In consonanza con quanto DV 8 dice sul progresso della Tradizione, anche la dottrina andrà, pertanto, talvolta ripensata, riformulata in modo da avere però sempre il medesimo senso19, e rivissuta all’interno delle varie culture umane.

b) Allo sviluppo e al progresso della dottrina, alla pari della Tradizione, contribuisce la totalità dei fedeli (DV 8). Essi infatti, per azione dello Spirito che scrive nei loro cuori (2 Cor 3,3), non possono ingannarsi quando, in virtù del soprannaturale senso della fede, esprimono unanime consenso in cose riguardanti fede e costumi (LG 12). Essi sono dotati come di un senso interiore, che chiamiamo ‘sensus fidei’20, che, sotto la guida del magistero, li porta ad aderire indeffettibilmente alla vera fede, a penetrarla più a fondo e ad applicarla più perfettamente alla vita (LG 12; ME 2) – come è avvenuto, per esempio, nel dogma dell’Assunzione di Maria del 1950.

Il magistero, però, pur essendo vincolato (come la teologia) al ‘sensus fidei’ a causa del fatto che in esso è presente in ogni epoca la parola di Dio, non è un semplice ratificatore del consenso già espresso dalla totalità dei fedeli. Al magistero spetta, infatti, per istituzione divina e grazie sempre all’azione dello Spirito, l’ufficio di insegnare autoritativamente e può quindi (a) esigere il consenso su certi punti prevenendo i fedeli, nonché (b) appianare i dissensi interni ai fedeli indicando cosa è da credere.

Da quanto fin qui detto, emerge come la dottrina presenti due proprietà che sembrano a prima vista antitetiche: a) la verità rivelata insegnata dalla Chiesa è universalmente valida e immutabile nella sostanza (p.es. ME 5); b) la verità rivelata insegnata dalla Chiesa, affinché possa raggiungere il suo scopo di mettere in contatto con la eterna parola di Dio e di far si che lo spirito e la vita nascano dalla lettera, deve riproporre il suo insegnamento in modo che sia sempre rettamente compreso e vissuto dagli uomini di ogni epoca e cultura. Ciò richiederà quindi un progresso, ma nel far questo la Chiesa (soggetto trascendete lo spazio e il tempo e che da, perciò, continuità all’intero processo) non aggiungerà nulla di

17 Con tale espressione intendiamo quella dottrina nella quale la Chiesa propone in modo definitivo e obbligante (= componente giuridico-disciplinare oltre che dottrinale) una verità come rivelata. 18 Cf. per esempio il n. 5 della Dichiarazione della CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, «Mysterium Ecclesiae» (=ME), AAS 65(1973)396-408. 19 Cf. ME 5. 20 Sul ‘sensus fidelium’ vedi L. SARTORI, «Il ‘sensus fidelium’ del popolo di Dio e il concorso dei laici nelle determinazioni dottrinali», Studi Ecumenici 6(1988)33-57.

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nuovo al Vangelo, ma semplicemente annuncerà la novità di Cristo in una maniera ogni volta nuova (DH 1).

Abbiamo quindi una verità permanente che per essere effettivamente tale (cioè permanete) deve farsi sempre attuale (per ogni epoca e cultura) e, viceversa, abbiamo una verità attuale che per essere veramente tale (cioè vera) deve essere anche permanente: una proprietà della dottrina implica l’altra e non c’è l’una senza l’altra. Vediamo ora un po’ meglio questi due aspetti della ‘permanenza’ e della attualità’.

a) Valore permanente della dottrina

Come abbiamo già avuto modo di dire, è fondamentale quando si parla di ‘valore permanente’ distinguere tra contenuto, sempre valido, e forma espressiva che, essendo, storica dovrà essere sempre di nuovo riattualizzata. Ciò è indubbiamente vero, ma va anche tenuto presente che negli enunciati fondamentali non si può avere una netta separazione tra contenuto e forma, in quanto il linguaggio lì usato non è solo un rivestimento esterno ma l’incarnazione di una verità. Esso (il linguaggio) è a volte il frutto di un lungo processo di purificazione e di trasformazione che ha portato la Chiesa a creare il linguaggio adatto al proprio messaggio. In questo modo, questo fa ora parte della Tradizione della Chiesa e, attraverso di essa, della eredità storica dell’umanità21.

Pertanto, viene comunemente fatto notare che la verità rivelata rimane sempre la stessa non solo nella sostanza ma anche negli enunciati fondamentali. Queste parole fondamentali della fede sono cioè non rivedibili e devono essere assimilate e spiegate sempre più profondamente tramite varie forme di evangelizzazione – questo è anche il compito di un lavoro teologico22.

b) Interpretazione attualizzante della dottrina

L’interpretazione attualizzante è quella interpretazione che, in generale, non aggiunge niente di nuovo al Vangelo ma lo annuncia in un modo ogni volta nuovo. Più in particolare: – Per quanto riguarda il suo fine ultimo: 1) Essa mira a far si che ogni interpretazione conduca dalla parola esteriore alla realtà (salvifica) stessa di Dio, alla sua eterna parola. 2) Essa deve essere in grado di trasmettere questa realtà salvifica, mediata dalla dottrina, in maniera viva, attraente e stimolante per gli uomini di ogni epoca e cultura. – Il processo di interpretazione per essere corretto deve tener conto che: 1) La dottrina va sempre interpretata nella totalità dell’A e NT, e secondo l’analogia della fede: il dogma è memoria anche se, allo stesso tempo, esso vuole mediare la salvezza effettiva qui e ora, ed essere pure una anticipazione del compimento finale del mondo e dell’uomo. I dogmi in senso stretto vanno poi sempre integrati nella totalità della dottrina e della vita ecclesiale, e nell’insieme di tutti i dogmi (nexsus mysteriorum) tenendo conto anche della ‘gerarchia delle verità’ in rapporto al mistero di Cristo. 2) Il magistero non è solamente il ‘notaio supremo’ che ratifica e rende definitivo il processo di interpretazione della Chiesa, ma ha anche il compito di stimolarlo, accompagnarlo e dirigerlo fino alla ‘convalida’ finale. Ciò mira a dar ‘certezza’ e orientazione ai fedeli nella grande varietà di opinioni. – Ci sono poi dei criteri per distinguere l’attualizzazione dalla falsificazione: 1) L’interpretazione attualizzante è fatta nella e attraverso la vita ecclesiale nella sua totalità. Ogni carisma profetico, di singoli o di gruppi, trova sempre il suo fondamento e norma nella predicazione, nell’insegnamento e nella vita della Chiesa, e si rivolge al bene e allo sviluppo di tutta la comunità dei credenti e non di una sua sola parte. 2) Criterio cristologico: Cristo deve rimanere sempre il punto di partenza, il centro e la misura di ogni interpretazione. A tal fine assume necessariamente tutta la sua importanza il criterio dell’apostolicità – la Chiesa è legata in modo permanente alla eredità degli apostoli e quindi il rinnovamento va fatto sempre attraverso la memoria viva di questa eredità – e il criterio della cattolicità

21 Si noti che l’aver attinto a determinati sistemi filosofici non implica necessariamente che il linguaggio usato sia anche legato a quei dati sistemi in quanto esso è stato oggetto di purificazione e di trasformazione. 22 Cf. CTI, «L’interpretazione dei dogmi», La Civiltà Cattolica, 2(1990)170s.

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– ci deve essere un accordo all’interno della comunione della Chiesa. 3) Criterio antropologico: l’uomo e i segni dei tempi non sono la misura della fede, ma devono essere il punto di riferimento imprescindibile di ogni vera interpretazione attualizzante della dottrina cristiana. [4) Criterio liturgico: ci deve essere congruità con il mistero della fede attualizzato nella liturgia. 5) Criterio della coerenza intrinseca della Tradizione: tutta la Tradizione è animata dall’unico Spirito e ha per centro Cristo].

3.3.1 La visione di K. Rahner

Dopo questa esposizione sintetica ed essenziale dell’insegnamento corrente sulla questione dei dogmi (e/o dottrina) e della loro interpretazione, vediamo ora su tale problema il parere di un teologo ‘significativo’ che, pur essendo fondamentalmente ‘classico’, introduce degli elementi di novità rispetto alla precedente tradizione scolastica che si concentrava prevalentemente sulle ‘proposizioni’. Al fine di caratterizzare subito il pensiero del nostro A. a tal riguardo, ci sembra opportuno iniziare proponendo schematicamente l’analogia che egli fa tra la conoscenza della rivelazione – e la sua espressione – e la conoscenza d’amore di un giovane innamorato che ripropone, in termini più coloriti, ciò che egli ha evidenziato nella breve introduzione epistemologica data all’inizio del Corso Fondamentale. Nel caso della conoscenza d’amore, nota Rahner, inizialmente abbiamo a che fare con una conoscenza che è la stessa esperienza amorosa e, grazie proprio a questa esperienza, l’innamorato «“sa” di questo amore molto di più di quello che può “dire”»23. Solo successivamente egli può

tentare di dire, lentamente e a saggi, cominciando mille volte da capo, ciò che sa del suo amore, ciò che in modo più semplice ma pieno già sapeva con il solo possedere coscientemente la realtà, per giungere finalmente ad una “conoscenza” espressa in proposizioni riflesse. In questo caso non solo si evolvono e derivano logicamente nuove proposizioni da altre precedenti, ma in uno sforzo indefinito, solo asintoticamente efficace, se ne formulano delle nuove su una conoscenza già sempre posseduta24.

Va notato poi che questo tentativo di esprimere la realtà sperimentata non è senza effetto sulla realtà stessa, non è un qualcosa che si affianchi alla realtà senza interagire con essa. Infatti, nel tentativo di esprimersi,

l’amore comprende sempre più se stesso, dice qualcosa “su” se stesso, afferra con maggior chiarezza la propria essenza, si ordina, intende meglio quale debba essere l’obiettivo del suo agire, si specchia con evidenza sempre maggiore nella sua essenza, va sempre più coscientemente verso la meta, quale essa è già da sempre25.

C’è quindi un mutuo condizionamento tra due aspetti della medesima esperienza – la quale ha una storia – e ogni aspetto vive dell’altro. La conoscenza riflessa attinge ad una conoscenza originaria che ha colto la realtà e senza questo contatto vitale s’inaridirebbe. La conoscenza originaria si arricchisce, si comprende in modo diverso tramite la conoscenza riflessa e, senza di essa, si offuscherebbe. Non si dà l’una senza l’altra. Lasciando questa analogia per ritornare al nostro problema, si vede come Rahner insiste qui sul fatto che la conoscenza originaria della rivelazione sia una conoscenza esperienziale, irriflessa, sia una conoscenza che nasce dal contatto diretto con la realtà della rivelazione divina presa nella sua unità storico-trascendentale26.

Tutto ciò valeva senza dubbio per dei portatori originari della rivelazione come gli apostoli, che ebbero un’esperienza unica ed irripetibile di Cristo – anche se sempre grazie alla loro trascendentalità soprannaturalmente elevata o “lume della fede”. Un’esperienza viva che era anteriore ad ogni proposizione di fede ed era all’opera, come sfondo di comprensione, anche quando si aveva a che fare

23 ST, 302. 24 ST, 302. 25 ST, 303. 26 Cf. ST, 305, nota 7.

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con una parola «proferita dal Signore»27. Come nel caso dell’innamorato, il tentativo di esprimere, di esplicare, questa esperienza non avveniva solo tramite un processo logico che facesse passare da una proposizione all’altra, ma era radicato in questa conoscenza originaria, in questo «possesso spirituale, globale e irriflesso di tutta la realtà»28, ne era una sua, anche se sempre incompleta, esplicitazione. Pertanto si può dire che la proposizione esplicita si caratterizza contemporaneamente come qualcosa di più e di meno della conoscenza originaria da cui deriva:

È qualcosa di più, perché, essendo formulata in modo riflesso, chiarisce il possesso spirituale, semplice ed originario della realtà. È nello stesso tempo qualcosa di meno, perché esprime sempre riflessivamente solo una parte di ciò che già si possedeva spiritualmente in antecedenza29.

Il fatto poi che queste proposizioni non esprimano la totalità di quanto contenuto nella conoscenza originaria non significa che debbano considerarsi come false. Esse, invece,

sono “adeguatamente vere”, in quanto non dicono alcunché di falso. Chi le volesse chiamare “mezze false”, perché non esprimono tutta la realtà intesa nelle sue singole parti, eliminerebbe la differenza assoluta esistente tra verità ed errore. Chi invece pensasse che tali proposizioni di fede, perché del tutto vere, esprimono la realtà intesa in maniera in sé adeguata ed esauriente, eleverebbe falsamente la verità umana all’altezza della scienza semplice e comprensiva, che Dio ha di se stesso e di ciò che da lui ha origine30.

Per quanto sopra si può pertanto dire, in primo luogo, che le proposizioni “rivelate”, le proposizioni della fede che noi consideriamo come rivelazione originaria, sono formulazioni vere ma sempre inadeguate della realtà divina, in quanto, pur esprimendo esattamente tale realtà, non la coprono totalmente. In secondo luogo, tali proposizioni sono da considerarsi già da sempre, «in un certo senso, “teologia”, cioè esplicitazione e deduzione dai dati più originari della rivelazione»31 ad opera della riflessione umana. In terzo luogo, infine, guardando a questo sforzo della conoscenza originaria che tende ad esplicitare e a dire a se stessa sempre meglio ciò che in altro modo già sa, si può vedere una prima evoluzione del dogma, evoluzione che «per gli apostoli si attua non solo mediante l’esplicitazione logica di proposizioni, ma anche mediante l’autoesplicitazione viva del possesso spirituale della realtà stessa»32.

Questa esplicitazione in proposizioni, poi, non è un qualcosa di secondario ed esterno al possesso di quella realtà che chiamiamo “rivelazione”, ma ogni esplicitazione «consolida, illumina l’esperienza originaria, la fa ritornare sempre più in se stessa, convertendosi in elemento interno ed essenziale di questa stessa esperienza viva»33. In questo modo si può dire che l’uomo conosce senza dubbio di più di quello che riesce a formulare in una conoscenza riflessa ed esplicita, ma ciononostante quello che viene esplicitato si può dire che sia veramente la realtà delle cose formulata mediante una riflessione teologica e utilizzabile per una successiva riflessione teologica. È evidente a questo punto – data la costante inadeguatezza delle proposizioni e dato che questa esplicitazione influisce sul possesso stesso della realtà della rivelazione – che quella evoluzione dogmatica cui accennavamo sopra non si ferma al tempo apostolico ma continua in ogni tempo34. Ed anche in questo caso, per Rahner, non si può parlare di una evoluzione che avvenga solo tramite la connessione logica tra elemento implicito ed esplicito delle “proposizioni di fede”, ma è un’evoluzione che parte dal contatto esperienziale con la realtà di cui si parla. Infatti,

gli apostoli non trasmisero in eredità solo delle proposizioni sulla loro esperienza, ma il loro Spirito, lo Spirito santo di Dio, la vera realtà quindi di ciò che hanno sperimentato in Cristo. Con la loro parola è conservata ed è

27 ST, 305s. 28 ST, 307. 29 ST, 307s. 30 ST, 269. 31 ST, 307. Cf. anche ST, 154-156. Nella Scrittura, nota Rahner, abbiamo degli enunciati umani in cui «viene oggettivata, in una normatività pura, l’esperienza primigenia dello Spirito e la sua escatologia promessa nel Cristo. Raffrontata a questa esperienza originaria, la Scrittura è già teologia, sia pure normativa e sebbene, come ovvio, tale esperienza originaria non avvenga mai prescindendo completamente da una oggettivazione concettuale categoriale» (NS, IV, 154s). 32 ST, 307. 33 ST, 306. 34 Cf. ST, 269-270, 274-275.

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presente anche la loro esperienza. Spirito e parola danno insieme la possibilità, permanente ed efficace, di un’esperienza, che fondamentalmente è identica a quella degli apostoli35.

Inoltre, noi non abbiamo ereditato solo proposizioni morte, ma l’esperienza viva: lo Spirito Santo del Signore che è sempre nella Chiesa, il senso e l’istinto della fede, la capacità prodotta dallo Spirito di distinguere ciò che è vero o falso nel campo della fede, ciò che, formulato in proposizioni, è conforme o no alla vitalità indivisa della verità posseduta in assoluta semplicità36.

Il progresso, quindi, avviene anche oggi tramite «la connessione tra ciò che è implicito nel possesso irriflesso, vivo e cosciente di tutta la realtà e ciò che si esplicita sempre in maniera parziale in proposizioni»37. O, in altre parole, abbiamo «un’evoluzione progressiva del deposito originario della fede sotto un influsso positivo del lume della fede donata alla Chiesa»38. Pur restando vero quanto sopra affermato, è però anche del tutto evidente che la nostra situazione non è semplicemente quella apostolica: noi non abbiamo la loro unica esperienza storica fondativa. Pertanto dobbiamo continuamente far riferimento ad essi e a quanto hanno sperimentato nel corso della loro vita. La nostra esperienza, cioè, «ha una radice storica e non potrebbe mai restare viva, se fosse privata del suo nesso con gli apostoli mediante la parola, i sacramenti e la trasmissione dei poteri gerarchici»39. E, quindi, ci dovrà essere necessariamente una forte relazione – di grado maggiore a quella che ci poteva essere nel tempo apostolico – con le esplicitazioni anteriori dell’esperienza originaria, già formulate in proposizioni.

In altre parole, bisogna tener presente del fatto che la rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo apostolo40 e che pertanto le proposizioni dogmatiche debbono essere “contenute” in qualche modo nelle proposizioni precedenti fondanti la fede cristiana41. Infatti è certamente vero che la “chiusura” della rivelazione non consiste nel fatto che si è ormai in possesso di «una specie di catechismo definitivo, che, restando fisso, sia solo ripetutamente interpretato, spiegato e commentato»42: la rivelazione è essenzialmente un evento che con Gesù Cristo giunge alla sua realtà definitiva, insuperabile e ineliminabile43. Però, il fatto che la “chiusura” si riferisca essenzialmente al fatto che si è giunti alla pienezza della realtà della fede, non toglie nulla al fatto che tale “chiusura” parli anche di un permanere nella pienezza della fede in questa realtà44. Inoltre, se le nuove proposizioni non esplicitassero un qualcosa già contenuto in qualche modo in quelle precedenti, bisognerebbe concludere che si è avuta una nuova rivelazione nata dal contatto con questa pienezza della realtà o che la rivelazione orale non è necessaria per giungere alla determinazione della realtà della rivelazione. Ambedue le possibilità sono escluse dalla dottrina comune45.

Rahner, quindi, mette qui in evidenza come anche nel periodo post-apostolico l’evoluzione del dogma avviene ancora mantenendo un contatto immediato, irriflesso con tutta la verità, con tutta quella pienezza delle realtà a cui le proposizioni della rivelazione si riferiscono. Ma ciò non significa che le “nuove” proposizioni derivino «da una coscienza o subcoscienza religiosa a priori, che si espliciterebbe a se stessa in proposizioni dogmatiche»46. Infatti, il contatto con la realtà rivelata avviene solamente dopo l’incontro con le esplicitazioni anteriori già formulate in proposizioni e nelle quali, l’eventuale nuova esplicitazione, deve essere in qualche modo contenuta (virtualmente o formalmente47).

Per comprendere poi come questa evoluzione sia al tempo stesso una nuova esplicitazione della realtà della rivelazione e un non allontanamento ed un abbandono di quanto già espresso nelle 35 ST, 309. 36 ST, 310. 37 ST, 310. 38 ST, 283. 39 ST, 310. 40 Cf. ST, 276. 41 Cf. ST, 289. 42 ST, 276. 43 Cf. ST, 277-279. 44 Cf. ST, 291. 45 Cf. ST, 291. 46 ST, 305, nota 7. 47 Cf. ST, 292-300.

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proposizioni precedenti, bisogna tener conto che per Rahner le proposizioni umane normali (cioè non matematiche, geometriche e logico-formali) hanno «la natura di una finestra, che si apre per mirare la realtà, non di un involucro dal contenuto chiaramente determinato»48. In questo tipo di proposizioni cioè, viene detto molto di più di quel minimo richiesto perché la proposizione non sia falsa: per esempio la proposizione “questa è mia madre” non comunica solo il dato biologico (il minimo senza il quale la proposizione è falsa), ma molti altri dati particolari riguardanti la maternità e che ogni uomo – avendo noi tutti un’esperienza di questa realtà – può intendere come effettivamente comunicati da chi parla49. Pertanto, si può intendere come comunicato da chi parla anche tutto ciò che si conosce guardando la realtà evocata da tali proposizioni e anche se tale conoscenza non viene esplicitamente affermata. Viceversa, le proposizioni, successivamente formate guardando alla realtà indicata, possono ritenersi dette da chi precedentemente ha dischiuso tale realtà implicita nelle sue proposizioni50. Quanto fin qui detto ci permette di fare alcune osservazioni e sottolineature. a) La prima cosa da osservare è la chiarezza con cui emerge qui il primato del carattere esperienziale della rivelazione e il fatto conseguente che la conoscenza riflessa, tematica, sia un qualcosa di secondario – anche se necessario – che riesce ad esprimerla solo in parte. Nota infatti Rahner, «c’è anche nel campo della conoscenza, che approfondisce la rivelazione, un’“esperienza concreta”, una conoscenza, integrata da mille osservazioni afferrate solo “istintivamente”, che non si lascia esporre in una serie di formule sillogistiche o lo permette solo difficilmente»51.

In questa prospettiva esperienziale si capisce anche come sia possibile affermare la pienezza, la normatività, l’esemplarità della conoscenza della realtà della rivelazione da parte dei “profeti” (includendo anche gli apostoli e la comunità primitiva cristiana) senza cadere in una posizione antistorica che tolga ogni spazio ad un ulteriore progresso. Nota infatti Rahner, nel caso dei “profeti” «non si “sapeva” molto, se per “sapere” si intende quella forma di conoscenza che si acquista con l’aiuto di un sistema concettuale riflesso e complicato […] Però si sapeva tutto, perché si era appresa in maniera viva la realtà totale dell’azione salvifica di Dio e in essa si viveva spiritualmente»52. In particolare egli nota poi come

un’espressione maggiore e riflessa di ciò, che si possiede spiritualmente, si paga quasi sempre, di fatto e in concreto anche se non per necessità fondamentale ed essenziale, con una perdita parziale della comunione spontanea, “ingenua” in senso buono, con la realtà della fede, che si possiede sempre pienamente. Perciò la coscienza della fede più complicata e differenziata con la sua rispettiva teologia non si deve ritenere “migliore” della fede sobria del periodo apostolico53.

Se ci si fermasse qui si potrebbe pensare che ci si indirizza verso posizioni simili a quelle “moderniste”. Si potrebbe infatti dire, per esempio, che non c’è progresso della rivelazione in quanto tale, poiché, in quelle esperienze avute dai “profeti”, la realtà della rivelazione disponibile a tutti si è esplicitata in modo unico e irripetibile. Esse quindi formano un punto insuperabile a cui tutte le altre esperienze rivelative devono guardare per comprendersi rettamente. Queste ultime, poi, sarebbero delle rivelazioni che non si potrebbero dire derivate da quelle fondanti ma, al più, da queste stimolate e giudicate. Si potrebbe, poi, anche argomentare a favore di una conoscenza “intuitiva” della fede rispetto alla conoscenza teologica e dire, che dove si presuppone che possa essere degno di fede solo ciò che fosse provato teologicamente come derivato apoditticamente dalle proposizioni originarie della rivelazione, qui «la realtà superiore e più ampia della conoscenza di fede sarebbe abbandonata a qualcosa di inferiore e di secondario, alla teologia “scientifica”, che certo costituisce anche un elemento della conoscenza di fede, ma non ne

48 ST, 312. 49 Cf. ST, 312s. 50 Cf. ST, 314. 51 ST, 289. 52 ST, 308. 53 ST, 308.

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rappresenta affatto l’essenza adeguata»54. Come pure si potrebbe, conseguentemente, attribuire un certo vantaggio alla fede popolare rispetto alla teologia scientifica e dire che

la fede popolare, per quanto capace di assumere le forme più imprevedibili e di cadere vittima di qualsiasi depravazione, come mostra la storia delle religioni, non essendo tanto arbitrariamente pilotata [come la teologia, impresa umana libera e, quindi, storicamente condizionata], è più vicina a quella fonte originarissima della religiosità genuina e della fede reale, che è costituita dall’autocomunicazione di Dio data ovunque in forma di offerta55.

b) Accanto al “primato” dell’esperienza troviamo qui espressi anche i punti fondamentali di una concezione “proposizionale” della rivelazione come era stata elaborata dalla tradizione scolastica recente.

Si ribadisce che le proposizioni originarie della rivelazione, pur non esaurendo tutta la realtà, sono vere. Si mette in luce come i dogmi debbano venir dedotti logicamente dalle proposizioni fondanti la fede. E come solo ciò che è in esse “implicito” può essere riconosciuto dalla Chiesa – che gode dell’assistenza dello Spirito – come proposizione di fede e non pura speculazione teologica. Inoltre, si ricorda incessantemente che la rivelazione è necessariamente legata alle parole del messaggio che ci giunge dall’esterno, in quanto noi possiamo sapere qualcosa di sicuro riguardo ad essa solo mediante ciò che la Chiesa ci dice e mediante la fede che ha origine dall’ascolto56. In altre parole, viene qui affermato tutto ciò che certo “modernismo” rifiutava e da cui cercava di allontanarsi negando che le proposizioni fondanti la fede potessero essere viste come il “primo capitolo” della teologia da cui fondare logicamente tutto il resto della costruzione o che esse potessero avere un valore veritativo “scientifico” o essere propriamente considerate come rivelazione.

c) Unendo quanto asserito nelle due note precedenti, si arriva a quella sintesi che costituisce l’essenza della proposta di Rahner presente in quanto sopra delineato57.

Egli infatti ci mostra come la rivelazione sia essenzialmente una realtà immediatamente presente in ogni tempo e a ogni uomo (il soggetto principale, parlando di dogmi, è comunque la Chiesa nella sua globalità) e non solo un’insieme di proposizioni riguardanti il passato remoto e il futuro. Allo stesso tempo però ci mostra come noi non possiamo sapere qualcosa di sicuro su questa realtà senza queste proposizioni e come le “nuove” proposizioni che nascono dal contatto con questa realtà debbano essere contenute, in qualche modo, in quelle precedenti legate ai “profeti”.

Queste “nuove” proposizioni”, nate dalla riflessione umana ma in contatto con la realtà della rivelazione mediata dal messaggio cristiano e proponentesi come esplicitazione di quanto contenuto in quest’ultimo, sono poi da considerarsi come realmente comunicate formalmente da Dio stesso58 e non come mera speculazione teologica – sempre che siano state accettate dalla Chiesa come espressione di quella realtà della rivelazione che solo lei, nella sua globalità, possiede in pienezza59. Esse sono, pertanto, “parola di Dio” per noi, ora; sono la sua rivelazione storica, categoriale che ci media in modo giusto la sua rivelazione trascendentale. Ciò è possibile, poi, perché i “profeti” dicono la loro esperienza di fede veramente sotto la “guida” di Dio stesso e, quindi, è da presupporre che «Dio quando parla abbraccia in se in antecedenza tutte le virtualità delle sue parole e per mezzo del suo Spirito stimola, guida e protegge tutte le loro articolazioni» e, inoltre, che «l’uomo può sempre comunicare formalmente più di quanto può dire formalmente»60.

In questo modo si può parlare di un progresso della rivelazione e non solo di un progresso della teologia, cioè della nostra comprensione di essa – come sostiene Tyrrell. Progresso che tuttavia non va inteso nel senso di una conoscenza quantitativamente maggiore, ma nel senso che la stessa realtà e verità viene vista in modo diverso e sotto prospettive diverse. Si tratta di «un mutamento nell’identica realtà»61.

54 ST, 287. 55 NS, X, 249s. 56 Cf. particolarmente ST, 279s, 323s. 57 Cf. anche quanto lo stesso Rahner dice in ST, 283. 58 Cf. ST, 280, 320s. 59 Cf. ST, 279, 324s. 60 ST, 321. 61 ST, 272.

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E di un mutamento che avviene senza l’abbandono del modo di vedere e delle prospettive precedenti: queste «si trasformano conservandosi»62. La “conoscenza” di questa realtà era infatti già piena per i “profeti”, anche se questa pienezza era esperienziale, vitale e irriflessa. Noi, mancando di quella loro unica esperienza storica, dobbiamo raggiungere questa pienezza in altro modo: «Dio ha dato ad ogni epoca il suo tipo di coscienza della fede»63. Pertanto, se è vero che il processo di formazione di “nuove” proposizioni di fede avviene connettendo due elementi: la coscienza viva della realtà e la riflessione teologica. È vero anche che non ci deve essere opposizione tra questi due, in quanto, per noi ora, «la coscienza viva, crescente e in certo modo istintiva della fede, non può pensare di potersi sottrarre, perché più chiaroveggente, alla teologia seria, che lavora con metodo storico e razionale procedendo passo passo con circospezione»; però neanche la teologia «che si serve di deduzioni razionali e concettuali e d’investigazioni storiche, può pensare che possa esistere nella coscienza della fede della Chiesa solo ciò di cui ha già provato chiaramente l’esistenza con i suoi strumenti»; poi solo «la Chiesa garantisce che ambedue hanno proceduto rettamente nel caso concreto, quando si sa in possesso della verità precisamente nella “nuova” proposizione e lo dichiara espressamente e in maniera obbligatoria per la coscienza della fede dei singoli membri»64. Ciò che permette a Rahner di giungere a questa visione è il fatto che egli cessa di considerare l’assistenza dello Spirito e la luce della fede come un qualcosa di esterno al processo evolutivo che, in modo solo negativo, impedisca l’insorgere d’errori. Per lui si tratta di una vera è propria presenza all’interno del processo che guida in modo positivo. Più esattamente, è vero che il lume della fede e l’impulso dello Spirito non sono un “oggetto” che può essere colto in sé a prescindere dall’oggetto della fede che illuminano e che permettono di cogliere come tale. È vero che esse sono un a priori necessario affinché l’azione storica di Dio possa essere percepita come tale e che, pertanto, possono essere colte solo a partire da un “dopo”. Però, è vero anche che tale Spirito non è solo il principio mediante il quale si coglie l’oggetto della fede ma è lo stesso oggetto, in quanto, essendo «Spirito del Padre e del Figlio, Spirito del Crocifisso e del Glorificato, Spirito della Chiesa e pegno della vita eterna, Spirito della giustificazione, della santità e della liberazione dal peccato e dalla morte, è indivisibilmente la realtà stessa che si crede»65. Quindi, è vero anche che, essendo la presenza dello Spirito il principio mediante il quale egli stesso è appreso come oggetto, tale assistenza dello Spirito (lume della fede) «abbia un’efficacia di cui in qualche misura si è consci»66. Anche se ciò non significa che tutti possano facilmente tematizzarla in modo riflesso e a prescindere dal contatto con la rivelazione orale esterna. In ogni caso, comunque, si tratta di una realtà che è presente e della quale non possiamo dire che è sottratta ad ogni nostra esperienza.

4. Il magistero

Questa parola indica attualmente sia il ruolo e l’autorità docente della gerarchia sia l’insieme stesso di quelle persone che nella chiesa cattolica hanno questo compito di insegnamento, cioè il papa e i vescovi. Questo però non è stato sempre il significato attribuito a tale temine. Iniziamo pertanto con il guardare alla sua storia per cercare di mettere in luce i vari aspetti contenuti implicitamente in esso e che ci danno una prima idea dell’argomento e dei problemi in questione.

62 ST, 272. 63 ST, 309. 64 ST, 324s. 65 ST, 282. 66 ST, 282.

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4.1 Storia del temine ‘magistero’67

Il termine Magisterium indica inizialmente la posizione e l’autorità di chi è capo, magister. Applicato a Cristo e ai pastori della chiesa esso indicava pertanto il potere e l’autorità a loro conferita in vista della salvezza del popolo a loro affidato. Tale uso del temine si trova sia negli scritti dei Padri sia anche nel periodo medievale dove magister viene ad indicare il capo di una corporazione e magisterium la carica di magister e la dignità ad essa connessa. Anche Tommaso d’Aquino, che pur conosce altri usi del termine, lo usa per indicare un’autorità che decide e giudica68.

Visto il significato iniziale di autorità e quasi normale che il temine sia stato anche applicato al ruolo del insegnamento. Numerosi sono i testi che evidenziano l’uso in questo senso, tra gli altri, ne fanno uso Agostino, Massimo di Torino, Gregorio Magno, Pier Damiani e Abelardo. S. Tommaso, poi, anche se non si può dire che sia l’unico, compie una netta distinzione tra il magistero pastorale, proprio del ‘prelato’ che ha giurisdizione, e il magistero del dottore che ha puro valore scientifico69.

Oltre che essere applicato alla funzione di insegnamento il termine venne anche usato per indicare il contenuto dell’insegnamento, la dottrina. Tale uso compare, per esempio, in Cipriano, in Leone Magno, in Ruperto di Deutz e in Guglielmo di Auvergne.

Tenuto conto che il temine indicava una posizione di autorità e che esso è stato quasi subito applicato al campo dell’insegnamento, è ovvio che si possano trovare anche degli usi che, avvicinandosi al significato attuale del temine, indichino il possesso di una autorità in campo dottrinale. In particolare è con Alessandro III (XII sec.) che si può datare la presa di coscienza nuova di una autorità dottrinale del papa70, sviluppo che si precisa poi nella ecclesiologia della Controriforma, nelle discussioni con i giansenisti e con i protestanti, e contro le critiche illuministiche. Nel 1561 Melchior Cano diceva: «Ecclesia in credendo errare non potest: non solum Ecclesia universalis id est collectio fidelium hunc veritatis spiritum semper habent, sed eundem habent etiam Ecclesiae principes et pastores» (De locis theol., IV, 4). E venti anni dopo Bellarmino argomentava: «Se l’episcopato intero si ingannasse, si ingannerebbe anche tutta la chiesa poiché il popolo cristiano e tenuto a seguire i suoi pastori» (Controv., 4, III, 14). Su questa linea si parlerà poi, dall’inizio del XVIII sec., di chiesa docente e di chiesa discente, e di infallibilità attiva per la prima e passiva per la seconda. Terminologia questa che diverrà comune nei catechismi di inizio XIX secolo. In altre parole, non si arriva qui a quel corpo gerarchico che oggi indichiamo con il termine ‘il magistero’, ma tale termine indica la funzione di insegnamento della ‘chiesa’ che di fronte agli uomini rappresenta l’autorità di Dio. Dove sul modo di intendere il termine ‘chiesa’ in questo contesto influisce il fatto che fin dall’antichità la chiesa di Roma è stata vista come ‘mater e magistra’ e che lungo i secoli si è riconosciuto che i pastori personalizzano il carisma ecclesiale e che, in qualità di ministri, ‘esercitano’ il magistero di Cristo e del suo Spirito.

Tra questa accezione del temine ‘magistero’ e quella attuale il passo e breve. L’uso però del termine per indicare un ‘corpo di pastori che esercitano con autorità la funzione di insegnamento’ non si afferma che nel XIX sec.: inizia con Gregorio XVI e Pio IX e diviene comune sotto Pio XII. Uso questo che è stato introdotto soprattutto per opera dei canonisti di inizio secolo che, con la seconda edizione del Lehrbuch des Kirchenrechts (Bonn 1823) di F. Walter, iniziano a parlare di una divisione tripartita dei ‘poteri’ della chiesa che contempla una potestas magisterii, accanto a una postestas ministerii sive ordinis e a una potestas iurisdictionis sive ecclesiastica in specie.

4.2 Fondamento dell’autorità del magistero

Il sintetico escursus storico del termine ‘magistero’, con il suo temine nell’autorità di insegnamento della gerarchia della Chiesa, solleva un primo problema essenziale che ogni telogia fondamentale deve affrontare circa il fondamento di tale autorità. In breve, ci si potrebbe chiedere, non è forse vero che

67 Cf. Y. CONGAR, «Storia del temine “Magisterium”», Concilium ( )157-173. 68 S.Th, III, q. 81, a. 2. 69 In IV Sent., 9, 2, 2, 4. 70 Cf. Y. CONGAR, L’Eglise de S. Augustine à l’époque moderne, Parigi 1970, 191.

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Cristo istituì solo gli apostoli e non l’episcopato? Oppure, non è forse vero che il NT (1 Cor 12,28) distingue tra apostoli (giurisdizione) e maestri (insegnamento)? Per rispondere a tali e simili domande bisogna naturalmente far riferimento al NT e ai testi della chiesa primitiva.

Accontentandoci di dare alcune indicazioni generali, iniziamo con il notare che l’affermare che l’episcopato sia di istituzione divina e, allo stesso tempo, sia anche il frutto di una evoluzione storica non è contraddittorio se vediamo questa evoluzione storica come guidata dallo Spirito e come facente parte del disegno di Dio sulla sua Chiesa. Cristo dette infatti l’incarico agli apostoli di insegnare nel suo nome (Mc 3,14; Mc 16, 15; Mt 28, 19s) fino alla fine del mondo (Mt 28, 19s). Ed essi, per portare a termine tale incarico, condivisero da subito tale incarico con dei collaboratori aventi parte al loro compito magisteriale (vedi lettere a Tm e Tt). Questi primi collaboratori, poi, continuarono l’opera degli apostoli dopo la loro morte (2 Tm 4,1-8) e, a loro volta, costituirono dei successori (vescovi e/o presbiteri) in grado di insegnare (1 Tm 3,2; 2 Tm 2,2; Tt 1,9): il mandato apostolico dell’insegnamento è dunque operativo già nel NT.

Certamente gli apostoli (e poi i vescovi) non erano gli unici maestri, ma dai passi precedente si vede indubbiamente che erano anche maestri. Inoltre è certamente vero che il passaggio, nel secondo secolo, da una forma collegiale primitiva di direzione all’episcopato non fu un passaggio che avvenne allo stesso tempo in tutte le chiese locali e che non tutto a tal proposito sia perfettamente chiaro, ma è indubbio che alla fine del secondo secolo ogni chiesa era retta da un Vescovo assistito da presbiteri e diaconi, che questi era visto come legittimo successore degli apostoli e che tutta la chiesa vedeva nell’insegnamento dei vescovi la norma della propria fede.

Se teniamo pertanto conto di queste attestazioni storiche e del fatto, indubitabile per la fede cristiana, che lo Spirito Santo conserva la chiesa nella vera fede (cfr. Gv 16,13), allora, come «la fiducia che lo Spirito Santo ha guidato la Chiesa del secondo e del terzo secolo nel discernimento degli scritti che sarebbero divenuti normativi per la sua fede giustifica il fatto che accettiamo il NT come scrittura ispirata», così «abbiamo ugual motivo di credere che lo Spirito Santo abbia guidato la stessa chiesa del secondo e terzo secolo nel riconoscimento universale che i suoi vescovi erano maestri autorevoli le cui decisioni su questioni dottrinali erano normative per la sua fede»71.

4.2.1 Il fondamento cristologico del magistero

La motivazione sopra data a riguardo della correttezza dell’assunto che l’autorità magisteriale sia di ‘istituzione divina’ rimane però per K. Rahner alla superficie e non coglie il motivo più profondo e intrinseco alla stessa natura della chiesa. In fin dei conti, non è chiaro perché Dio costituisca una autorità assoluta di questo tipo solo ora e non anche prima della chiesa di Cristo, lasciando che anche i rappresentanti ufficiali della ‘chiesa’ giudaica si allontanino da Dio e dalla sua rivelazione: anche nell’AT una autorità di questo tipo sarebbe stata desiderabile per cogliere con certezza la verità della rivelazione.

Per Rahner si presenta dunque la necessita di motivare questo tipo di autorità dottrinale a partire da Cristo stesso o, meglio, da ciò che egli è e rappresenta per la fede cristiana. In questa prospettiva Cristo viene visto come «il vertice assoluto, irreversibile e insuperabile della storia della salvezza»72, come colui che mette la parola fine al dialogo fino allora aperto tra Dio e l’uomo, in quanto con lui si rende storicamente presente e visibile il fatto che Dio si autocomunica all’uomo e che l’uomo (l’umanità nel suo complesso a prescindere dal destino individuale) accoglie tale autocomunicazione che per lui è sommo bene e verità ultima.

Ora, affinché Cristo sia veramente e per tutti i tempi la presenza storica e visibile dell’autocomunicazione di Dio offerta e accettata (sempre parlando in generale), è necessario che questa visibilità continui nella sua Chiesa che è per l’appunto: «la presenza permanente e la tangibilità storica di questa parola ultima e vittoriosa detta da Dio in Gesù Cristo»73. Ma, come si dice qui, con Cristo siamo

71 F.A. SULLIVAN, «Magistero», in DTF, 655. 72 CF, 482. 73 CF, 483.

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già nella ‘pienezza dei tempi’ e quindi anche la Chiesa deve in qualche modo partecipare a questa definitività, visto che di tale definitività essa ne è la presenza storica. Questo, naturalmente, non significa che la libertà umana (e quindi la sua storia) sia stata eliminata, ma che essa è stata già redenta e già introdotta nella vita, nella verità e nell’amore di Dio, salvo restando il fatto che l’uomo, individualmente, può opporsi a tale stato di cose e a tale dato di fatto.

Questa argomentazione spiega il motivo cristologico fondamentale affinché la Chiesa, nel suo complesso, debba partecipare alla definitività di Cristo e non possa decadere dalla verità e dalla grazia. Resta però ancora da stabilire il modo concreto in cui si realizza questa permanenza della Chiesa nella verità, ma anche questo punto diverrà chiaro se noi guardiamo al NT e a tutta la storia dell’autocomprensione della Chiesa. Qui infatti, come sintetizzato in precedenza, si rende evidente come la Chiesa abbia una struttura gerarchica con «un’autorità che insegna per missione e autorità di Cristo»74. Notiamo comunque qui nuovamente che tale autorità dottrinale non è un qualcosa che nasce dal basso (delega da parte degli altri membri) e nemmeno solo un potere formale aggiunto estrinsecamente alla natura della Chiesa, ma è un qualcosa che «è pensabile soltanto nell’ambito di questa comunità escatologica di fede ed è elemento costitutivo della realizzazione di quella volontà di Dio in Gesù Cristo, attraverso la quale la verità salvifica dell’evento di Cristo rimane storicamente presente nel mondo. La chiesa non sarebbe la comunità salvifica escatologica, se non fosse nel possesso ‘infallibile’ della verità di Cristo»75.

4.3 Magistero e totalità della Chiesa

Nel paragrafo precedente è stato evidenziato come il magistero è pensabile in quanto tale solo in quanto fa parte di quella comunità escatologica che è la Chiesa nel suo complesso e, quindi, si è anche indirettamente evidenziato come la relazione esistente tra magistero e totalità della chiesa non permetta più di ridurre la Chiesa dei fedeli a semplice ascoltatrice passiva e obbediente dell’insegnamento autorevole del magistero.

A tal riguardo è indubbio che il Vat. II abbia intrapreso il tentativo di superare tale distinzione tra chiesa docente e chiesa discente, soprattutto nei capitoli 2 e 4 della Lumen gentium dove evidenzia come al Popolo di Dio nel suo complesso (n.12) e alla chiesa discente in particolare (n.30) spetti una infallibilità nella fede76. La Dei Verbum (n.8) poi evidenzia come tutto ciò che è stato trasmesso, e a cui il magistero è vincolato, comprende tutto ciò che la Chiesa è e tutto ciò che essa crede, mostrando così come il ‘deposito della fede’ non sia stato affidato solo ai successori degli apostoli e non venga trasmesso solo dal loro insegnamento. Come nota Rahner, quindi, si può senz’altro dire che «gli effettivi depositari del magistero dipendono, almeno per quanto concerne il contenuto dottrinale, da una Chiesa che non è solo unilaterale funzione del ministero nella Chiesa. A questa fede, a questa storia della fede, a questa evoluzione del dogma da cui il magistero concretamente dipende, cooperano tutti i membri della Chiesa, ognuno a suo modo, con la loro vita la loro confessione, la loro preghiera, le loro decisioni concrete, la loro teologia riflessa. E tutto ciò che essi in tal modo compiono, non è affatto la semplice esecuzione di verità e norme derivanti dal magistero»77. A tutto ciò va poi aggiunto quanto abbiamo detto nel paragrafo precedente a proposito dell’autorità del magistero e che evidenziava come anche il suo potere, la sua legittimità e la sua ‘infallibilità’ derivino, in fin dei conti, dalla Chiesa nel suo complesso.

Che l’intera Chiesa sia il soggetto della verità rivelata non è comunque una affermazione fatta solo dal Vat. II, in quanto già il Vat. I, parlando dell’infallibilità del Papa, collega quest’ultima alla autorità dell’intera Chiesa (DS 3074). E il Vat. II, riprendendo tale insegnamento, quasi lo commenta aggiungendo esplicitamente che il Papa è «singolarmente insignito dal carisma dell’infallibilità della stessa chiesa» (LG 25)78. 74 CF, 483. 75 SM, V, 4. 76 Nota Rahner a tal proposito come il Concilio non ha però tentato qui di collegare questi due capitoli con il terzo che parla della costituzione gerarchica della Chiesa (Cf. NS, IV, 410 nota 4). 77 NS, IV, 414s. 78 Cf. SALA, G., «Magistero», in DTI, II, 426.

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Naturalmente, come già notato in precedenza, tutto ciò non significa che l’autorità del magistero provenga da quella della comunità ma, visto che nemmeno si può dire che l’autorità della Chiesa e quella del magistero siano due entità uguali e distinte (non possono esistere più autorità magisteriali supreme), bisogna vedere questa ‘derivazione’ di autorità nel senso che quella del magistero (‘voluta’ da Cristo) è comprensibile solo all’interno di quella della Chiesa intesa come comunità che permane in modo ‘infallibile’ nella fede. Come dice Rahner, cioè, «la derivazione di una autorità da Cristo non risulta a priori inconciliabile con una sua derivazione dalla Chiesa, poiché ambedue possono essere due lati di un’unica realtà, in quanto, in ultima analisi, la derivazione di un ministero da Cristo non è altro che un momento della derivazione della Chiesa nel suo complesso da lui»79.

4.3.1 Le decisioni magisteriali

In DV 10 si evidenzia come il magistero abbia il compito di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa, dove però ‘autenticamente’ significa qui solo ‘autorevole’ (in nome di Cristo stesso) e non esclude che altri possano interpretare tale parola con una autorità che proviene dal loro sapere (soprattutto esegeti e teologi). Anzi, in questo stesso numero si dice esplicitamente che il magistero deve anche ‘piamente’ ascoltare questa parola che è stata affidata alla chiesa intera e che è penetrata nella sua fede, nella sua vita e nel suo culto (DV 8); in altre parole, si dice che la consultazione di fedeli ‘esperti’ da parte del magistero è necessaria. Anche LG 25 tratta di questo problema e nota come il magistero nelle decisioni ufficiali deve far uso di tutti «i mezzi convenienti» per giungere alla verità, vale a dire, per vedere come l’insegnamento proposto appartenga alla Rivelazione – visto che il magistero non riceve nuove rivelazioni.

Tutte queste affermazioni sembrano cose ovvie, ma, nota Rahner, in fondo non si dice molto sul come attuarle, e anche il Vat. II non è andato molto al di là delle affermazioni molto generali già fatte dal Vescovo Gasser al Vat. I80. Sembra che ci sia una certa ritrosia ad evidenziare il lato umano delle decisioni magisteriali, quasi si temesse che la fede nell’assistenza divina scomparisse se si mettesse in luce il cammino storico che le accompagna: come se l’azione di Dio sarebbe presente solo dove termina lo sforzo dell’uomo e non fosse invece presente proprio in tale sforzo. In questo modo si tiene nell’ombra un aspetto importante delle decisioni magisteriali, anzi un elemento che appartiene alla loro stessa essenza teologica visto che il magistero agisce come organo e funzione della Chiesa nella sua totalità e non è quindi un male che ciò appaia chiaramente e che si renda «comprensibile e accettabile al credente istruito in quale modo esso abbia ricavato la sua definizione dall’insieme dell’unica Rivelazione di Dio, creduta con fede viva nella chiesa»81.

4.3.2 Magistero e contenuto della fede

Il minimo che si possa dire su tale questione è che il magistero è sottomesso alla Rivelazione, che ad essa deve obbedire e che l’assistenza dello Spirito Santo fa si che il suo insegnamento si mantenga sempre in tale obbedienza – tutte cose espresse in DV 1082. Questo però non esaurisce il tema del rapporto tra l’autorità formale del magistero e il contenuto della fede che esso proclama.

K. Rahner nota a tal proposito che se è vero che tra magistero e fides quae esiste per la fede cattolica una profonda unità che si esprime in un mutuo rapporto di condizionamento, è vero anche che all’interno di questa fondamentale unità i due elementi non stanno propriamente sullo stesso piano, visto che l’autorità formale del magistero non è il dato primo della fede cristiana ma poggia su più importanti contenuti di fede. Più precisamente, non si crede in Dio, nella sua grazia e in Gesù Cristo crocefisso e risorto perché si crede all’autorità formale del magistero, ma viceversa. Quest’ultima, nella gerarchia delle verità, è un dato relativamente secondario, mentre le prime sono un dato primario e fondamentale.

79 NS, IV, 413. 80 Cf. SM, V, 16; NS, IV, 417-420. 81 SM, V, 16. 82 Cf. F.A. SULLIVAN, «Magistero», in DTF, 655-656

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Questo fa si che mentre Agostino diceva «non crederei al vangelo, se non mi fosse garantito dall’autorità della chiesa»83, Rahner dice che, proprio per avere una fede cattolica, «non crederei all’autorità della chiesa, se a ciò non mi muovesse il vangelo»84.

Questa semplice verità ha poi come conseguenza pratica il fatto che il magistero dovrebbe fondare il suo insegnamento non basandosi soltanto sulla sua autorità formale ma anche ricollegandolo nel modo più chiaro possibile al fondamento della fede cristiana. E questo, notiamolo esplicitamente, non perché teoricamente e giuridicamente il ricorso all’autorità formale non sia legittimo, ma perché praticamente e di fatto tale autorità non è una cosa scontata nella fede dei cattolici a cui tale insegnamento si rivolge, visto che – come detto precedentemente – la fede nell’autorità magisteriale è tutto sommato un dato secondario e poggiante su altre verità più fondamentali del cristianesimo che si possono dare con più probabilità come scontate. A ciò va aggiunta anche la diminuzione – nel mondo occidentale – di quel ‘potere’ che in qualche modo era legato all’autorevolezza del magistero e che anche lo sosteneva, e che contribuisce a rendere sempre più inefficace il ricorso alla semplice autorità formale. Per tali motivi Rahner conclude dicendo che «sia dal punto di vista oggettivo che della specifica situazione odierna la dottrina proposta dal magistero dovrebbe garantire la credibilità dell’istanza proclamata in base alla propria capacità interna di convincimento, al suo profondo legame cioè con la totalità della fede capace di comprendere anche i contenuti della singola verità»85.

4.4 L’autorità suprema della Chiesa

Precedentemente abbiamo visto come tutta Chiesa nel suo complesso possa essere vista come il soggetto della verità rivelata. Questo però non significa che questo permanere nella verità sia solo una realtà vissuta e staccata dalla concreta formulazione concettuale che se ne può dare: l’unità reale di fede è possibile solo con una comune professione di fede. Ora, compito specifico del magistero è proprio garantire questa comune professione di fede e, pertanto, esso è il soggetto della verità nel senso specifico di annuncio autentico (= autorevole) della rivelazione (DV 10).

Se guardiamo a ciò che il magistero dice su se stesso vediamo che il collegio episcopale – in unione con e sotto il papa suo capo – viene detto essere il «soggetto di suprema e piena potestà su tutta la chiesa» (LG 22). Parimenti, anche il papa viene detto essere in possesso di «una potestà piena, suprema e universale, che egli può sempre esercitare liberamente» (LG 22). È dunque chiaro che secondo il Vat. II – che praticamente riprende quanto detto nel Vat. I – sia il collegio episcopale che il papa da solo possiedono una autorità suprema, ma in che rapporto stiano queste due realtà il concilio non ce lo dice.

Prima di affrontare questo problema notiamo che per capire bene il magistero della chiesa bisogna tener presente la fondamentale unità della potestà ([potestas magisterii,] postestas ministerii sive ordinis, potestas iurisdictionis sive ecclesiastica in specie) e/o degli uffici (munus docendi, munus santificandi, munus gubernandi) nella Chiesa. Questo fa si che si possa dire che il magistero «non è propriamente il pieno potere di indottrinamento di verità astratte a sé stanti, ma la garanzia che la parola salvifica di Cristo viene realmente indirizzata alla concreta situazione di un tempo e per la vita cristiana»86. Tutto questo deriva dal fatto la rivelazione (o la parola di Dio) che il magistero deve annunciare autenticamente non è solo un insieme di verità ma anche una realtà salvifica.

4.4.1 Il Papa e il collegio episcopale

Secondo LG 22 il papa ha sulla chiesa «potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente», allo stesso modo anche l’episcopato universale come tale – cioè come entità collegiale – è «soggetto di suprema e piena potestà su tutta la chiesa»; quest’ultimo però gode di questa potestà suprema solo in quanto riunito con e sotto il papa, e non può quindi essere esercitata senza il suo

83 PL 42, 176 84 NS, IV, 434. 85 NS, IV, 439. 86 SM, V, 5-6.

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consenso. Tutte queste cose non sono altro che una riproposizione della dottrina classica presente sia prima che dopo il Vat. I, anche se allora i termini a confronto erano il papa e il concilio ecumenico. Però, a meno di ammettere che il semplice cambiamento di luogo dia ai vescovi una potestà che prima non hanno, si vede che in fondo anche allora i termini erano gli stessi; oggi forse lo sono solo in modo più esplicito. Rimane quindi anche dopo il Vat. II il problema di chiarificare il rapporto tra il romano pontefice e il collegio dei vescovi (o concilio) che sono detti possedere ambedue la piena e suprema potestà su tutta la Chiesa. A tal riguardo le risposte classiche date dalla teologia sono sostanzialmente due: a) nella Chiesa esiste una sola potestà suprema che è quella del papa; b) nella Chiesa esistono due potestà supreme non adeguatamente distinte.

La prima va incontro a delle difficoltà sia di ordine teorico che storico. Teoricamente infatti dire che il papa è l’unica potestà suprema significa ammettere che la potestà dell’episcopato universale (e quindi del concilio) è derivata da quella del papa, ma una potestà derivata da un’altra da essa distinta non può essere a sua volta suprema ma dipendente dalla prima. Contro questa ‘concessione’ della piena potestà per modo di partecipazione è anche il fatto che la potestà dell’episcopato è, alla pari di quella del papato, di diritto divino e non può quindi essere soggetta alla discrezionalità di chicchessia. Anche da un punto di vista storico poi questa tesi si scontra con gravi difficoltà, visto che il fatto che il concilio possedesse la suprema potestà nella chiesa era un dato certo ed evidente molto tempo prima che si arrivasse a riconoscere esplicitamente l’infallibilità del papa in fatto di fede e di costumi. Questo è esattamente l’opposto di quanto bisognerebbe aspettarsi se fosse vera la tesi proposta, visto che qui l’ordine reale (fondamento e fondato) procede parallelamente a quello della conoscenza (causa e effetto) trattandosi di poteri giuridici che non possono esistere come tali al di fuori di una conoscenza esplicita.

La seconda tesi è valida fino a quando la si prende come una descrizione empirica di una data situazione di fatto: esistono nella Chiesa due soggetti fisici della potestà suprema che non sono adeguatamente distinti. Al di la di questa descrizione del fenomeno essa non va e, anzi, solleva il problema della essenziale unità di quel soggetto che nella Chiesa detiene quel potere supremo che deve essere necessariamente unico. Infatti, una volta escluso che dall’unità possa derivare –in questo caso – la dualità, sicuramente è inconcepibile che la necessaria unità si possa derivare da quella dualità che questa tesi propone. Oltre queste due tesi c’è n’è anche una proposta da K. Rahner, secondo la quale «esiste… un unico soggetto della suprema potestà della Chiesa: il collegio episcopale strutturato sotto il Papa quale suo capo; però esistono due modi, in cui tale supremo collegio può agire: un “atto propriamente collegiale” e l’atto del Papa come capo del collegio»87. Qui si tiene conto del fatto che nella Chiesa può esistere un solo soggetto del supremo potere e, contemporaneamente, si tiene anche conto del dato di fatto che, come insegnato pure dal Vat. II, questo unico soggetto deve includere in se i due elementi di cui ricerchiamo l’unità in modo che uno implichi l’altro (il papa e il collegio).

Per comprendere bene questa tesi bisogna tener conto che è lecito affermare che una persona fisica singola possa porre l’atto di una persona morale-collegiale senza che questa debba sempre e necessariamente essere autorizzata previamente dai singoli membri del collegio. In particolare, nel caso della Chiesa, la designazione di questa persona fisica singola è fatta da Cristo stesso (da Dio) che è anche colui che poi garantisce che l’agire di questo unico rappresentante corrisponda di fatto anche alla volontà rettamente intesa del collegio (tramite l’assistenza dello Spirito – LG 25).

Essa infine, notiamolo esplicitamente, non sminuisce l’importanza e la dignità del primato papale. Infatti, LG 25 dichiara esplicitamente che il papa non possiede i suoi poteri in quanto persona privata ma in quanto capo di tutta la Chiesa, e questo certamente non sminuisce la sua importanza e dignità. Quindi possiamo dire con Rahner che «se l’importanza e l’unicità del primato romano non vengono sminuiti col dire che il Papa possiede il suo potere come capo visibile della Chiesa e solo in unione con lei», allora «non si attenta in alcun modo al primato, quando si afferma che il Papa possiede il suo potere in qualità di capo del collegio episcopale. Bisogna infatti sempre ricordare ch’egli è capo di una Chiesa, la quale è 87 NS, III, 459.

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una entità socialmente strutturata e la cui struttura non promana unicamente dal papato, ma annovera tra i suoi elementi “iuris divini” anche l’episcopato. Pertanto se il Papa è capo della Chiesa e solo così è Papa, ne viene che è capo di una Chiesa che possiede una struttura “iuris divini” anche episcopale. Il Papa quindi non può essere capo della Chiesa se non essendo nello stesso tempo capo dell’episcopato universale. E se il vescovo di Roma possiede il suo pieno potere come capo della Chiesa, lo possiede anche necessariamente come capo dell’episcopato. In ambedue i casi il rapporto tra il suo ufficio e la Chiesa universale e, rispettivamente, l’episcopato universale va inteso allo stesso modo in maniera reduplicativa»88.

4.5 Forme di esercizio e oggetto del magistero

[G. SALA, «Magistero», in DTI, 427-432 dà la preferenza alla coppia ‘magistero ordinario o autentico’ e ‘magistero straordinario o infallibile’ – pur riconoscendo l’altra possibilità. F.A. SULLIVAN, «Magistero», in DTF, 656-661 oppone invece ‘esercizio ordinario’ del magistero ed ‘esercizio straordinario o solenne’ del magistero a prescindere dalla qualifica di infallibilità che può riguardare ambedue le forme di esercizio; seguiremo questa divisione che ci sembra più chiara. Sull’oggetto del magistero vedi anche K. Rahner, «Magistero», in SM, V, 8-9. Su ruolo del magistero in abito sociale, politico e culturale vedi G. TRENTIN, «Magistero e autorità», in NDTM, 680s (specialmente)].

4.5.1 Le “note teologiche”

Qui si intende riprendere e rivedere quanto detto più sopra mettendoci esplicitamente dalla parte del ‘fedele’ e considerare quindi il tipo di risposta che egli deve dare alle diverse prese di posizione del magistero. A tal riguardo prenderemo come punto di riferimento l’istruzione Dunum Veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo emanata dalla Congregazione per la Dottrina Fede89.

Ai nn. 23 e 24 tale istruzione presenta quattro differenti gradi di risposta a differenti pronunciamenti magisteriali (nn. 15 e 16), in ordine discendente: 1) la fede teologale (cioè data a Dio stesso) come risposta al pronunciamento infallibile e solenne del magistero a riguardo di una dottrina contenuta nella Rivelazione (oggetto primario) – è la risposta al ‘dogma’; 2) una accettazione e ritenzione ferma in risposta a pronunciamenti infallibili riguardati verità strettamente connesse con la Rivelazione (oggetto secondario); 3) un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza in risposta a pronunciamenti magisteriali autentici ma non infallibili e miranti a dare una migliore comprensione della rivelazione e delle sue implicazioni morali (cioè, su “fede e costumi”); 4) un ossequio leale in risposta a pronunciamenti magisteriali in questioni dibattute. [Lettura nn. 23 e 24; cfr. anche J. WICKS, Introduzione al metodo teologico, Casale Monferrato 1994, 142-144].

4.6 Considerazioni sul magistero autentico non infallibile

È dottrina nota da sempre che molti degli interventi magisteriali pur essendo autentici –«cioè esercitati per autorità di Cristo e quindi con una particolare assistenza dello Spirito Santo»90 – e pur portando in se l’obbligo di un assenso interiore da parte del fedele (LG 25), non sono tuttavia infallibili e non escludono quindi che, in certi casi, sia possibile per il fedele non prestare questo assenso. Oggi, a differenza del passato, si è forse divenuti più consapevoli che il magistero possa sbagliare e che di fatto si sia sbagliato e ciò grazie, probabilmente, al più alto grado di coscientizzazione raggiunto e alla grande velocità con cui progredisce il nostro sapere e che fa si che le nuove concezioni subentrino alle vecchie quando queste (e i pronunciamenti magisteriali fatti in questo contesto) sono ancora ben vive nella nostra memoria.

88 NS, III, 460-461. 89 In documento originale si trova in AAS 82(1990)1550-1570; la traduzione italiana si può trovare in La Civiltà Cattolica 3(1990)150-167. 90 G. SALA, «Magistero», in DTI, II, 428.

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Su tale questione e su quale debba essere il comportamento del ‘fedele’ riproponiamo qui alcuni punti di un documento dottrinale dei vescovi tedeschi del 22-9-1967 che sono ancora utili per affrontare bene il problema in questione.

[Testo ripreso da K. Rahner in SM, V, 13-15 e, con più vasto commento, in NS, V, 405-422 (da qui risulta pure che questo documento è stato pubblicato in italiano sull’Osservatore Romano del 15 Dicembre 1967)].

4.7 Considerazioni sul magistero infallibile

[K. RAHNER, «Magistero», in SM, V, 12-13; ID., «Il concetto di infallibilità nella teologia cattolica», in ID. - al., Infallibile?, Roma 1971, 379-404. G. SALA, «Magistero», in DTI, 430-432 (l’A. parla di ‘magistero straordinario’)].

4.8 Magistero e teologia

a) Visione storica a.1) Periodo dell’antimodernismo (1905-1960). Momento di prevalenza del magistero: le due cattedre di Tommaso si riducono ad una (cfr. § 4.1 e punto a.2) di questo paragrafo).

Le idee dell’illuminismo passano dalla società alla chiesa: razionalismo, autonomia della ragione, rifiuto di verità soprannaturali, religione come questione privata. Ciò provoca un’atmosfera di forte critica e dubbio alla quale risponde (reagisce) il magistero. Nei riguardi del rapporto con la teologia questa reazione provoca:

– forte sorveglianza teologica; – tendenza del magistero di assumere tutti i ruoli, compresi quelli della teologia che, di conseguenza,

risulta totalmente subordinata. Pio XII, nell’enciclica ‘Humani generis’ (1950), formalizza questa situazione (siamo all’apice): 1) il magistero è la ‘norma prossima ed universale di verità’ per il teologo: il punto di partenza dell’indagine teologica si trova nella dottrina del magistero vivente della Chiesa; 2) la teologia segue, di conseguenza, un ‘metodo regressivo’: mostra cioè come l’attuale insegnamento del magistero sia l’omogeneo sviluppo di un processo che è partito dalle fonti e che non è nient’altro che la progressiva esplicitazione di cose che in queste ultime erano implicite e/o oscure (la convinzione di fondo è che la sostanza della fede non cambia e che, quindi, c’è coerenza e continuità tra le formulazioni antiche e quelle del magistero contemporaneo).

a.2) Cause del cambiamento di atteggiamento nei confronti della teologia.

Guardando agli eventi storici: – riscoperta del modello carismatico: servizio carismatico dei ‘didaskali’ (maestri) nella Chiesa

antica (p. es. 1 Cor 12,28 li pone dopo gli apostoli e i profeti) che fa si che si veda la teologia come una vocazione e un ministero ecclesiale;

– ruolo dei ‘dottori’ nella chiesa medioevale: 1) presero parte ad alcuni concili generali con diritto di voto (p. es. Costanza nel 1414-18); 2) teoria delle ‘due cattedre’, quella del magistero (vescovo e papa) che dichiara autorevolmente e richiede obbedienza, quella dei teologi che si fonda sulla competenza scientifica e che ha come forma di convinzione l’argomentazione. La cattedra teologica fu assunta dalle facoltà teologiche di Parigi e di Lovanio che intervennero per condannare errori dottrinali;

– ruolo importante dei teologi durante il concilio Vat. II: partecipazione a commissioni, elaborazione di schemi provvisori, aiuto ai vescovi per discorsi e interventi ufficiali, proposte di emendazione poi fatte proprie dal concilio.

b) Visione sistematica

b.1) Elementi comuni al magistero e alla teologia.

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– Ambedue sono al servizio dell’intelligenza e della comunicazione della parola di Dio rivelata91. Ambedue hanno il medesimo fine: «conservare il popolo di Dio nella verità che libera e farne così “la luce delle nazioni”»92. Ambedue sono cioè strumenti nelle mani dell’unico spirito di verità dato a tutti come maestro interiore.

– Ambedue sono ugualmente vincolati a93: parola di Dio; sensus fidei; documenti della tradizione; missione pastorale.

In questo modo la posizione di Pio XII viene superata relazionando sia il magistero che la teologia alla stessa verità sovrastante della parola di Dio (scritta e trasmessa) e allo stesso fine.

b.2) Differenze e complementarità tra magistero e teologia94

– Funzioni proprie: Magistero: ha un carisma non ‘creativo’ ma ‘protettivo’ del deposito che deve difendere

autoritativamente – cioè discerne le proposte pastorali e teologiche e interpreta la Scrittura con autorità. Ha un carisma che lo porta a riconoscere ‘istintivamente’ ciò che è conforme al deposito ricevuto o è un suo omogeneo sviluppo.

Teologia: ha il compito di mediare tra magistero e popolo di Dio. Più in generale, la teologia attinge a differenti ‘loci’ per elaborare una spiegazione del significato della rivelazione di Dio – il magistero è uno di questi ‘loci’. La teologia comunque media il magistero nel senso che: 1) mette in rilievo la precisa intenzione dell’insegnamento, studiandone la genesi. E ne determina il peso dottrinale – la ‘nota teologica’ –, cioè il confine tra obbligo e libertà, studiando la relazione tra contenuto e componenti centrali della fede e a seconda di come il magistero stesso interpreta il suo agire; 2) indica la via che conduce dall’insegnamento ecclesiastico alle fonti e viceversa; 3) mostra come l’insegnamento sia luce e vita per i singoli e per la comunità di oggi. Come esso introduca gli uomini di oggi in una più piena comunione con il Dio trino; 4) indica il suo potere trasformante per i singoli, per i gruppi, per la società intera (futuro immediato). Evidenzia l’aspetto provvisorio di ciò che la Chiesa insegna in questo tempo intermedio, prima di giungere alla visione faccia a faccia (futuro escatologico).

– Autorità: Magistero: l’autorità gli proviene dall’ordinazione sacramentale che conferisce ufficio di insegnare e

governare. Teologia: l’autorità gli proviene dalla qualificazione e dell’essere membri della Chiesa con un

particolare carisma (confermato dalla missione canonica). – Legame con la Chiesa: Magistero: è un compito ufficiale confermato dal sacramento dell’Ordine. Teologia: missione canonica e/o vivo legame con la fede della Chiesa. Ogni battezzato può poi

esercitare questa funzione. – Libertà: Magistero: esso è libero per sua natura e istituzione, anche se non è una libertà ‘arbitraria’. Teologia: ha una libertà subordinata, in quanto deve tener conto del magistero. Ciò appartiene agli

elementi propri della scienza teologica e, quindi, non va contro la sua ‘libertà scientifica’.

91 Cf. CTI, «Tesi circa il mutuo rapporto tra magistero ecclesiastico e teologia» (=Magistero e Teologia), La Civiltà Cattolica 3(1976)53 (Tesi 2). 92 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, «Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo», La Civiltà Cattolica 3(1990)157 (n. 21). 93 Magistero e Teologia, 53s (Tesi 3). 94 Cf. soprattutto Magistero e Teologia, 54-57 (Tesi 5,6,7,8,9).

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Bibliografia essenziale

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235-281. G. O’COLLINS, Teologia fondamentale, Brescia 1982, 19842, 260-280 [stesso contenuto anche in: ID.,

«Criteri per l’interpretazione delle tradizioni», in LATOURELLE, R. - O’COLLINS, G., ed., Problemi e prospettive di teologia fondamentale, Brescia 1980, 397-411].

H.J. POTTMEYER, «Tradizione», in Dizionario di Teologia Fondamentale, Assisi 1990, 1341-1349. K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Alba 1977. G. SALA, «Magistero», in DTI, II, 423-434. L. SARTORI, «Il ‘sensus fidelium’ del popolo di Dio e il concorso dei laici nelle determinazioni

dottrinali», Studi Ecumenici 6(1988)33-57. F.A. SULLIVAN, «Magistero», in Dizionario di Teologia Fondamentale, Assisi 1990, 653-661 [in maniera

più approfondita in: ID., Il magistero nella Chiesa cattolica, Assisi 1986]. A. TONIOLO, Cristianesimo e verità. Corso di Teologia Fondamentale, Padova 2004. J. WICKS, «Il deposito della fede», in FISICHELLA, R., ed., Gesù Rivelatore, Brescia 1988, 110-117. –––––––, Introduzione al metodo teologico, Casale Monferrato 1994.

Documenti utili (oltre a quelli del concilio Vat. II):

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, «Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo», La Civiltà Cattolica 3(1990)150-167; orig. latino, AAS 82(1990)1550-1570.

–––––––, «Mysterium Ecclesiae», AAS 65(1973)396-408. CTI, «L’interpretazione dei dogmi», La Civiltà Cattolica, 2(1990)144-173. –––––––, «Tesi circa il mutuo rapporto tra magistero ecclesiastico e teologia», La Civiltà Cattolica

3(1976)52-58.

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