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ARACNE Terre di vulcani Miti, linguaggi, paure, rischi Atti del Convegno Internazionale di Studi italo–francese Parte II Sezione territorio e ambiente Tullio D’Aponte

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ARACNE

Terre di vulcaniMiti, linguaggi,

paure, rischi

Atti del Convegno Internazionaledi Studi italo–francese

Parte IISezione territorio e ambiente

Tullio D’Aponte

Copyright © MMVARACNE EDITRICE S.r.l.

[email protected]

00173 Romavia Raffaele Garofalo, 133 A/B

(06) 93781065

ISBN 88–548–0142–9

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

I edizione: aprile 2005

In copertina: Fontana Spinacorona, restauro e riattivazione funzionale,

maggio 2004 (foto G. Pignatelli, 2005)

Tra antiche fabbriche ecclesiastiche degli ordini monastici, circondate da nobili dimore, da uno slargo isolato, inaspettatamente, appare una splendida fontana, ben presto battezzata dal popolo “funtan ‘e zizze”. Ci si trova in un quadrilatero chiuso da Mezzocannone, Spaccanapoli, via Duomo e l’attuale Corso Umberto, proprio a ridos-so dell’edificio principale della Federico II, a pochi passi dall’ingresso della Facoltà di Scienze Politiche.

È una delle tante, spesso dimenticate e poco curate, “fontane di Napoli” che già nell’Ottocento, il D’Ambra (Napoli antica, 1889) indica come Spinacorona, dal nome attribuito alla Santa Maria al cui culto è dedicata una chiesa del XIV secolo eretta in quel modesto slargo che si apre sulla via Guacci Nobile, ai margini dell’insediamento ebraico che sorse intorno alla limitrofa Portanuova.

Non è ben certa l’epoca della costruzione, sebbene qualche storico la vorrebbe far risalire al XII secolo, mentre le uniche notizie certe ricorrono in seguito al restauro disposto da don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, nella prima metà del XVI.

L’ing. Leone Gasparini, straordinario gentiluomo di nascita piemontese che a “compensazione” del suo impegno professionale di manager del comparto elettrico, in ragione del quale viveva nella nostra città, volle coltivare, con passione e competenza, interessi artistico–letterari, nella sua opera “Antiche Fontane di Napoli” (Società edi-trice napoletana, 1979) fornisce elementi che suggeriscono interessanti considerazioni sul significato simbolico e, forse, per riflesso, sulla databilità dell’opera.

Dice, appunto, il Gasparini “La statuina di Partenope è posta su un altorilievo a-vente la forma del Vesuvio (è un motivo naturalistico che anticipa analoghi effetti ba-rocchi) sulle cui pareti sono scolpiti un violino e lingue di fiamme”.

L’elemento caratterizzante, a nostro avviso, resta la chiara composizione naturali-sta che, riprendendo motivi classici raffigura Partenope, metà donna e metà uccello, dal cui seno vitale sgorga, in forma di purissima acqua, l’energia che spegne il “fuo-co” del vulcano.

Nell’espressione artistica, il vigore distruttivo del vulcano, forza incontenibile, modellatrice primaria del paesaggio, è contrapposto proprio all’acqua, simbolo di pu-rezza e di ricchezza, sicché: “dum vesevi syrena incendia mulcet” come ammoniva l’iscrizione originariamente incisa nel bianco marmo della fontana.

Coincidenza casuale, oppure implicita conferma di una essenzialità geografica da interpretare attraverso la perenne interazione uomo–natura, simbolo straordinario di un positivismo incentrato sulla fattività dell’umano intelletto?

Qual sia la risposta al nostro interrogativo, resta la consapevolezza di uno stimo-lante intrigo che accomuna lo splendore del sito all’evocazione del rischio in una pro-spettiva positivista evoca attraverso la forza vitale di Partenope le ragioni di una viva-cità culturale insopprimibile.

T.D.

INDICE

Introduzione

9 Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica di Tullio D’Aponte

19 Rischio, paura, informazione

di Ugo Leone

Il Mito 31 Vulcani, paesaggio e richiami archeologici nelle carte

d’autore tra Settecento e Ottocento di Anna Carrabetta

41 Il fenomeno vulcanico in alcuni scrittori, cartografi e veduti-

sti dei secoli XVII-XIX di Simonetta Conti

61 Fuochi minori: mito, uso e abuso dei vulcani tra Napoli e

dintorni di Elio Manzi

75 Il Grand Tour ai vulcani del Sud: iconografia e geologia nel-

la riscoperta del mondo classico di Ernesto Mazzetti

Il Vesuvio e l’Etna

93 Connessioni ambientali e specificità territoriali: la centralità del Vesuvio nella rete ecologica del sistema regionale cam-pano di Maria Ronza

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Indice 8

117 Il Vesuvio: quando il bello non coincide con il buono di Lucio Lirer, Paola Petrosino, Mihaela Chirosca, Marino Grimaldi e Giuliana Coslovich

133 “Là dove si sente il vento”. I vulcani, le Eolie, la Sicilia

di Giuseppe Campione 147 L’Etna: un percorso attraverso l’immaginario, la consapevo-

lezza del rischio e la gestione del territorio di Caterina Cirelli, Elena Di Blasi e Carmelo Maria Porto

Il Vesuvio e la costa

209 Il Vesuvio tra mito e paura nella percezione turistica

di Italo Talia 215 Dinamiche demografiche e tendenze insediative nell’area ve-

suviana di Maria Laura Gasparini

229 La “montagna urbana di fuoco”: vulnerabilità, pianificazione

e gestione del rischio di Daniela La Foresta

257 Oltre il vulcano. La Terra delle Sirene nel Piano Territoriale

di Coordinamento Napoletano di Viviana D’Aponte

283 L’idea di un Parco “aperto”: proposizioni operative

all’ombra del Vesuvio di Barbara Delle Donne

295 Il Parco Letterario del Vesuvio

di Stefania Palmentieri 303 L’importanza delle esercitazioni nella pianificazione

d’emergenza: i casi di Somma Vesuviana, Trecase e Portici di Cristiano Pesaresi

INTRODUZIONE

Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica

Tullio D’Aponte∗

Il tema che insieme ai miei Colleghi abbiamo scelto per questo

incontro di studio è allo stesso tempo argomento di carattere genera-le, di ampia prospezione concettuale, e problema d’interesse regiona-le, in quanto dalla presenza della costruzione vulcanica scaturiscono fondamentali conseguenze sul piano degli assetti insediativi, da un lato, del controllo e governo del “rischio”, dall’altro.

Le ragioni che spiegano lo straordinario interesse per uno studio “geografico” degli ambiti locali interessati da fenomeni di vulcani-smo attivo è estremamente chiaro: bisogna conoscere in tutti i suoi aspetti l’organizzazione reale del territorio, analizzare i fattori della struttura del paesaggio, interpretarne le dinamiche con una finalità esplicita: impostare le linee direttrici dell’azione di “governement” che si rende necessaria a salvaguardia delle risorse locali e della stes-sa esistenza delle comunità insediate in queste particolari regioni ge-ografiche del Paese.

Il motivo per il quale si ritiene che proprio l’approccio “geografi-co” aiuti a meglio comprendere come intervenire per “organizzare il territorio a rischio” risiede nella specifica ottica che tale scienza ha assunto a proprio metodo di studio. Nella concezione “geografica” del paesaggio, infatti, al fattore “naturale” viene attribuita rilevanza pari al fattore “umano”, in quanto si ritiene che la costruzione dei singoli scenari sia il risultato di un processo d’interazione che, col suo svolgersi, determina, appunto, le dinamiche che producono le stratificazioni degli assetti evolutivi dello spazio-territorio. E, tutta-via, in nessun caso, il concetto di pari rilevanza va inteso come equi-librio di forze né pari incidenza dimensionale di ordine fattoriale, bensì come esplicita affermazione di natura concettuale la cui valen-za deriva dall’adesione al principio storicistico della funzione model-latrice svolta dal gruppo umano attraverso il tempo.

∗ Ordinario di Organizzazione e Pianificazione del Territorio, Preside Facoltà

Scienze Politiche, Università di Napoli Federico II.

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Tullio D’Aponte 12

Questa esplicita consapevolezza, ormai, traspare negli stessi studi che seguendo il metodo geografico affrontano il tema della pianifica-zione in termini di innovazione territoriale. In tale prospettiva è intui-tivo comprendere come l’“interpretazione geografica” degli effetti delle politiche regionali fornisca un utile contributo alla conoscenza delle interazioni che si producono con il substrato fisico destinatario degli interventi di cui ci si propone di valutare le prevedibili proie-zioni, sia rispetto alle modificazioni degli equilibri fisici, sia in fun-zione dell’organizzazione territoriale.

È del tutto evidente come quello che si propone di porre in essere non sia altro che un esercizio di “lettura” delle dinamiche che ciascun processo di pianificazione pone in essere nella puntuale individua-zione degli effetti che le trasformazioni introdotte determinano sulla modificazione dell’organismo territoriale; lettura non semplice, pro-prio perché le molteplici interazioni tra i fattori in campo rivelano ca-ratteri di indubbia complessità: analisi tanto più ardua nell’interpretazione dei “rischi” relativi, quanto più diffusa si rivela la presenza di fattori fisici sensibili all’interno dell’area d’intervento.

Sono queste le ragioni che spiegano l’esigenza di una stretta col-laborazione inter e infra disciplinare nella fase di predisposizione tecnica del piano, allorché le singole professionalità specialistiche e le specificazioni applicative infra-disciplinari sono chiamate a tradur-re in processi le scelte politiche definite nelle sedi competenti.

La “costruzione” di un processo di pianificazione presuppone ge-ometrie ad assetto “variabile” in cui un sistema di equazioni non ammette affatto una soluzione univoca, bensì prevede soluzioni al-ternative in rapporto alla variabilità dell’obiettivo progettuale, la cui determinazione dipende dalla verifica dell’assenso partecipativo da parte del contesto sociale. In tal senso, la fase di concezione iniziale esige la possibilità di obiettivi alternativi, sicché la formulazione del piano possa “adattare” le opzioni tecniche ai “vincoli” politici del progetto complessivo.

Del resto, la confusione che sovente travolge ogni corretta distin-zione tra concettualizzazione e prassi operativa nello svolgimento delle singole fasi in cui si articola il processo di piano, si traduce in una sottovalutazione della complessità, fideisticamente affrontata at-traverso il troppo diffuso ricorso a modelli astratti, da cui deriva un tecnicismo esasperato che, quasi sempre, si rivela fallace nel medio-lungo periodo. La principale causa di tale inadeguatezza dello stru-mento modellistico deriva, per l’appunto, proprio dalla poco attenta

Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica 13

considerazione preventiva delle proiezioni territoriali degli interventi da attuare. In tal caso, è semplice convenire che quanto si riveli mag-giormente carente sia proprio l’analisi “geografica” degli effetti del processo di pianificazione, trascurata o, quanto meno, oscurata dalla ridondante eco del paradigma tecnicistico. Ovvero, in molti casi, emarginata dalla ferma determinazione politica di realizzazione dell’intervento; opzione del tutto pragmatica, in quanto tale, inevita-bilmente caratterizzata da esigenze di “immediatezza”, capaci, cioè, di convogliare il consenso intorno ad una soluzione, poco importa quanto razionale.

Il che non deve affatto interpretarsi come incauta pretesa di un improponibile primato dell’opzione geopolitica, non inficiando affat-to l’esigenza conoscitiva che deve sostanziare ogni progetto di inno-vazione dell’assetto del territorio, quella ineludibile legittimazione politica che, in ogni caso, deve scaturire da una esplicita esposizione degli effetti culturali complessivi prodotti dalle possibili soluzioni alternative, tra le quali la collettività dovrà poter scegliere le soluzio-ni maggiormente rispondenti agli interessi “collettivi” in termini di assoluta trasparenza. Ne consegue che la “conoscenza” rappresenti il principale strumento della democrazia partecipativa e che il maggior livello di approfondimento possibile, unitamente ai diversi aspetti settoriali che intervengono nella composizione del processo, assuma-no rilievo assoluto, in quanto momento insostituibile di un corretto confronto partecipativo tra i diversi attori sociali.

Ma, se tutto ciò che ho appena sostenuto può trovare condivisione tra gli studiosi che sono cortesemente convenuti da tante sedi univer-sitarie, ciò che ho il dovere di chiarire è un ulteriore aspetto “singola-re” di questo nostro incontro.

L’idea che mi ha spinto ad accogliere le sollecitazioni delle colle-ghe “francesiste” di discutere tra studiosi di discipline, apparente-mente, così lontane tra di loro – linguistica e scienze territoriali – un tema di straordinaria evidenza nell’agenda politica regionale, l’assetto territoriale delle aree a rischio vulcanico, si presta bene ad una interpretazioni alla luce delle considerazione appena svolte.

In quale misura la letteratura, la poesia, l’arte, in breve, la cultura umanistica, possono contribuire ad aiutare la collettività nel non faci-le compito di valutazione delle prospettive legate alle proiezioni ter-ritoriali degli interventi di pianificazione? In particolare, poi, quanto questo apporto incide in una situazione in cui un ambiente decisa-

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mente “esposto” e, quindi, “sensibile” esprime elevati livelli di “ri-schio”?

Una risposta complessiva è semplice fornirla ove si consideri co-me l’ambito geografico sul quale ci si propone di offrire un contribu-to di conoscenza all’interpretazione delle dinamiche in atto rappre-senta un’area in cui la stratificazione storica e le persistenze naturali-stiche assumono caratteri di estrema complessità che giustificano un ampio spettro di segmentazione analitica, tale da coinvolgere espe-rienze e sensibilità scientifiche estremamente articolate.

Del resto, chi non ricorda:

Paurosamente gemette, ne urlò tutta intorno la roccia, atterriti balzarono indietro ed egli il tizzone strappò dall’occhio, grondante di sangue, e lo sca-gliò lontano da sé agitando le braccia e i Ciclopi chiamava gridando che in gi-ro vivevano nelle spelonche e sulle cime ventose.

(Omero, Odissea l. IX, vv. 395-400)

Dove il mito del ciclope non è altro che la trasposizione poetica dell’immagine del vulcano, immane, minaccioso gigante che sprigio-na fuoco attraverso un occhio/cratere che “gronda sangue” e che il navigatore non può per nessuna ragione ignorare, se vuole la nave e l’equipaggio salvi, sicché la prudenza lo deve spingere a dirigere la prua al largo, il più lontano possibile da un tale rischio.

Così come, già in versi precedenti, proprio alludendo alla costa partenopea, il poeta usando un’altra perifrasi:

Qui presto vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, ferma la

nave a sentire la nostra voce. Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce, poi pieno di gioia riparte e conoscendo più cose

(Omero, Odissea l. XII, vv. 184-189) non aveva rinunciato a tramandare nei secoli altro pericolo d’incauto accosto.

Chiaro e diretto l’ammonimento: le suggestioni di un paesaggio particolarmente ameno costituiscono un pericolo nella misura in cui al fascino che spinge ad avvicinarsi alla costa si contrappone la peri-colosità di fondali insicuri e improvvise secche scogliose.

La tradizione orale, che così efficacemente tramanda antichi “av-visi ai naviganti”, sia evocando le sirene ammaliatrici che popolano una costa incantata, sia l’improvviso fuoco tra Eolie ed Etna, è uno strumento poetico di estrema attualità in termini di richiamo sollecito

Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica 15

ad una consapevolezza del rischio che fattori “irrazionali” potrebbero offuscare impedendone la più attenta considerazione.

Per quali inspiegabili ragioni, ci si potrebbe chiedere,

l’irrazionalità dei comportamenti ha potuto offuscare la consapevo-lezza del rischio?

Da un lato, per molti versi, nonostante taluni non dissimulati “se-gni” d’intensa attività vulcanica manifestatisi, ancora di recente – sia negli anni Quaranta, sia negli anni Ottanta – dal dopoguerra sino ad un decennio addietro, il territorio vesuviano ha continuato a dare luogo ad irragionevoli fenomeni di conurbazione con il capoluogo campano e a contemporanei incrementi della trama insediativa, sia con andamento parallelo alla linea di costa, sia in direzione delle fal-de del vulcano, vera e propria montagna “urbanizzata”, sempre più coinvolta nel processo di antropizzazione di questo territorio. Questo comportamento “distratto” degli abitatori dell’area vesuviana, in buona misura persino incoraggiato o, comunque, per lungo tempo, affatto contrastato, da una classe politica parimenti “disattenta” al corretto governo del territorio, ha determinato situazioni di esposi-zione al rischio vulcanico sempre più gravi e incontrollate. La confu-sione edilizia da cui è arduo dipanare la trama insediativa, non è sol-tanto uno degli effetti dell’antica origine del popolamento che ne ha disegnato l’originaria configurazione, quanto la conseguenza di un processo “spontaneo” animato da quello straordinario mix di fattori di “centralità” geografica che hanno reso intensamente attrattiva tutta l’area orientale del Golfo partenopeo. Questo spazio geografico, nei cui confini operiamo e che quotidianamente riempie l’immaginario del nostro domani, è uno spazio decisamente antropizzato e, tuttavia, imponentemente segnato da quella che gli antichi ritenevano la più esplicita e violenta espressione del dominio della natura: il fenomeno vulcanico, la montagna che nasce dalle viscere più profonde della madre Terra e che, a differenza di ogni altra costruzione ignea, resta legata ad essa da un cordone ombelicale che è un condotto di fuoco le cui manifestazioni di parossismo, sia pure allorché blande, non possono non essere interpretate come una costante ammonizione, un richiamo vigile a un pericolo in perenne agguato.

Ma, se il Vesuvio tuttora appare regolato da una fase sia pur pre-caria e di incerta durata, di equilibrio, come mai di fronte ad un’Etna ripetutamente sotto la spinta di un’intensa condizione di parossismo,

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l’insipienza dei governanti non è riuscita a frenare la cupidigia della speculazione urbana?

Nessuna memoria di un “mito” possente. Nessuna titubanza, nep-pure di fronte alla quotidianità di un rischio tutt’altro che sopito, af-fatto consegnato al monito letterario e poetico.

Ma, contemporaneamente, quale espressione più evidente di pre-gnante fisicità, quale segno possente, ineludibile, di consapevolezza del rischio, quale più esplicito severo richiamo al rigore dell’azione di piano in aree geografiche così esplicitamente “sensibili”?

Alla poetica e alla letteratura va attribuito un ruolo importante nel processo di sensibilizzazione popolare: l’attitudine a mantenere vivo il ricordo, la straordinaria capacità evocativa della poesia che tra-manda sentimenti forti quali la paura e lo sgomento di fronte alla ca-tastrofe, la insostituibile propensione della letteratura ad interagire con la storia, per custodire la memoria di eventi e situazioni prodotte dal manifestarsi del vulcanesimo acuto.

L’arte, la letteratura, nelle loro diverse espressioni, alimentano la memoria e trasmettono sensazioni che ci coinvolgono nel più pro-fondo, sia pure allorché estranei agli eventi evocati, in tal senso, la cultura rappresenta il “ponte” che congiunge passato e presente. Pa-rimenti, l’analisi scientifica della composizione degli assetti prodotti dalle diverse opzioni di intervento sul territorio, svolge un ruolo an-cora più incisivo: consente di aggiungere l’elemento proiettivo, la considerazione degli effetti territoriali delle dinamiche evolutive, consentendo di aggiungere un insostituibile elemento di valutazione alla rappresentazione dei diversi scenari innovativi.

Il progetto che ci ha visto impegnati nell’organizzazione di questo

incontro prevede una stretta integrazione tra diversi approcci e speci-ficità disciplinari, integrazione che emerge dalla stessa presentazione dei contributi.

Nell’articolazione delle giornate di studio quella “vicinanza” tra arte, letteratura e indagine scientifica a cui si è fatto ampio riferimen-to è costantemente in evidenza. L’attenzione e l’interesse scientifico per i vulcani perdura, ed è particolarmente vivace, durante il periodo dei viaggi in Italia, quando molte escursioni furono appositamente compiute per studiare direttamente i fenomeni eruttivi. Su questa traccia si sviluppano contributi quali quello del Mazzetti e della Con-ti (E. Mazzetti, Il Grand Tour ai vulcani del Sud: iconografia e geo-

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logia nella riscoperta del mondo classico, S. Conti, Il fenomeno vul-canico in alcuni scrittori, cartografi e vedutisi dei secoli XVII-XIX).

Nello stesso tempo, la citazione letteraria dei vulcani ricorre fre-quentemente sia in opere poetiche che in altri saggi aventi una più esplicita caratterizzazione scientifica (G. Campione, “Là dove si sen-te il vento”. I vulcani, le Eolie, la Sicilia; I. Talia, Il Vesuvio tra mito e paura nella percezione turistica), dove vengono sviluppate rifles-sioni, che in termini di “geografia attiva” meritano qualche appro-fondimento, quanto meno, per un contributo al dibattito sull’intervento pianificatorio nelle aree vulcaniche.

Del resto, come si è detto, intorno ai vulcani sono frequentemente nati ingenti insediamenti abitativi che, per nulla scoraggiati dalla par-ticolare pericolosità del sito, si sono distribuiti alle falde dei rilievi usufruendo delle particolari e felici condizioni di fertilità del terreno, degli acclivi poco impervi e facilmente destinabili a strutture antropi-che, sicché si verifica che, a differenza delle più impervie montagne, i vulcani, troppo spesso, non presentano analoghi limiti all’insediamento e vengono quindi scelti come luogo di elezione per l’inurbamento (M. L. Gasparini, Dinamiche demografiche e tendenze insediative nell’area vesuviana). Nel caso dei vulcani italiani, inoltre, raramente si registrano i particolari fattori climatici che contraddi-stinguono i nostri rilievi alpini ed appenninici, e tale fenomeno è probabilmente da ascriversi alla particolare distribuzione costiera de-gli stessi che, nonostante l’entità dell’altitudine raggiunta, risentono costantemente della azione mitigatrice del mare.

L’idea stessa di “montagna vulcanica” quando confrontata con quella simbolica di “montagna urbana”, non può non evocare l’idea di “pericolo”, “rischio” e, per tanto, la conseguente ’esigenza di at-tente riflessioni intorno alla necessità di “vincoli”, “interventi di sal-vaguardia”, “protezione” e “controllo, mitigazione e gestione dell’emergenza” (C. Girelli, E. Di Blasi, C. M. Porto, L’Etna: un percorso attraverso l’immaginario, la consapevolezza del rischio e la gestione del territorio).

La gestione del rischio e/o il rischio controllato presuppone la puntuale conoscenza dei fattori che lo determinano e degli elementi che ne amplificano gli effetti: da ciò l’esigenza di rigorosi strumenti di pianificazione del territorio che prevedendo specifici interventi preventivi consentano il superamento del semplice criterio della ge-stione ex post dell’evento disastroso.

Tullio D’Aponte 18

Su tali aspetti il Piano Territoriale di Coordinamento della Pro-vincia di Napoli si sofferma ampiamente, consapevole della necessità di intervenire sulle “gravissime manomissioni ambientali” che nel tempo si sono succedute in tutta l’area vesuviana, anche a causa di una percezione del rischio decisamente labile, in quanto connessa ad una memoria storica piuttosto lontana nel tempo.

Il rischio strettamente connesso alle attività antropiche può quindi essere ridotto agendo non tanto sui fenomeni naturali, peraltro diffi-cilmente controllabili, quanto sulla conoscenza e su di un uso oculato e razionale del territorio. Da tale punto di vista nella pianificazione dello sviluppo turistico dell’area orientale il nesso con la realtà ricet-tiva della Penisola Sorrentina, area immediatamente al margine del Vesuvio, si rivela del tutto degno di attenzione, come traspare dalle indicazioni del recente strumento di indirizzo della pianificazione a scala provinciale (V. D’Aponte, Oltre il vulcano. La Terra delle Si-rene nel Piano Territoriale di Coordinamento Napoletano). Nello stesso tempo, riflettendo sulle condizioni naturalistiche dell’area e sull’esigenza di tempestivi e puntuali strumenti informativi di straor-dinaria rilevanza si dimostrano le opportunità offerte dai Sistemi In-formativi Geografici (D. La Foresta, La “montagna urbana di fuo-co”: vulnerabilità, pianificazione e gestione del rischio).

Gli eventi disastrosi non possono essere né evitati né, in alcuni ca-si preventivati con largo anticipo, tuttavia il loro impatto può essere contenuto attraverso un processo appropriato e corretto di informa-zione alla popolazione che spieghi, anche, i comportamenti da assu-mere (U. Leone, Rischio, paura, informazione) e le conseguenze pra-tiche degli interventi di salvaguardia (C. Pesaresi, L’importanza delle esercitazioni nella pianificazione d’emergenza: i casi di Somma Ve-suviana, Trecase e Portici).

Intorno a questi temi, durante i due giorni dei nostri lavori, si svolgerà la sezione territoriale del colloquio, alla quale farà seguito la sezione diretta dall’insigne Collega Giovanni Dotoli che coordina il nutrito gruppo di francesisti del nostro Ateneo e dell’Università di Clermont Ferrant.

Un ringraziamento, tutt’altro che rituale, devo agli Enti, l’Università Federico II che ci ospita in questa suggestiva cornice, la Giunta Regionale della Campania, l’Amministrazione Provinciale di Napoli, l’Ente Parco del Vesuvio e l’Azienda di Soggiorno, Cura e Turismo di Napoli per la generosa ospitalità e la dimostrazione di convinta adesione al nostro lavoro che ci testimonia attraverso la par-

Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica 19

tecipazione di insigni Rappresentanti di tali Istituzioni. Più di tutti, però, sento il bisogno di ringraziare tre Colleghe, attive, quanto pa-zienti e benevole verso un “inafferrabile” Responsabile Scientifico. Sono Gabriella Fabbricino e Annalisa Aruta che per prime mi hanno “stretto” intorno ad un impegno fattivo e Daniela La Foresta che, per “sodalizio” disciplinare mi ha ampiamente supportato, consentendo-mi, così, di superare non pochi ostacoli e incertezze. Se l’incontro a-vrà successo il merito è, indubbiamente loro. Ma, se, malaugurata-mente, rileverete errori e insipienze, sin d’ora sappiate che ogni re-sponsabilità è esclusivamente mia.

Rischio, paura, informazione

Ugo Leone∗

1. Rischio e paura

Terremoti ed eruzioni vulcaniche sono fenomeni che hanno sempre colpito l’immaginazione dei loro osservatori.

Durante il periodo dei viaggi in Italia, i due fenomeni fecero regi-strare il meglio di sé e la storia di quegli anni è ricchissima di crona-che su terremoti ed eruzioni.

Intorno ad esse, soprattutto con riguardo alle eruzioni – dell’Etna e, ancor più, del Vesuvio – si è sviluppato un materiale iconografico di eccezionale valore che fornisce una quasi “fotografica” documenta-zione degli eventi. E per studiare questi fenomeni molti viaggi furono appositamente compiuti da studiosi come Horace-Bénédict de Saus-surre verso la fine del Settecento, Alexander von Humboldt, Leopold von Buch, Louis-Joseph Gay-Lussac, poi.

Un geografo francese, Abraham Du Bois, sottolineò in pochi signi-ficativi tratti la complessità della situazione quando nel 1736 scrisse:

Se l’Italia è un paese gradevole e delizioso, che ha meritato il nome di Pa-

radiso terrestre, e Giardino dell’Europa, essa ha pure i suoi grandi incomodi; perché oltre le due montagne che vomitano fuoco, il Vesuvio e l’Etna, ( le quali non danneggiano che quanti sono loro vicini, il primo nel Regno di Na-poli, ed il secondo in Sicilia), essa è anche assai soggetta ai terremoti, che causano grandi distruzioni. Come ha scritto Carlo Alberto Anzuini, «l’esistenza dell’individuo

é sempre stata caratterizzata dalla presenza degli elementi naturali ai quali la filosofia empedoclea imputava la generazione di tutti i corpi e a cui si collegavano i miti che presiedevano alla vita stessa dell’uomo».

Un vulcano, in particolare,

punto di raccordo tra i quattro elementi naturali si presenta come l’artefice della vita dell’individuo, influisce sulle sue aspettative, richiama alla mente il senso della vita che si genera, ma anche della morte e del mistero,

∗ Ordinario di Politica dell’Ambiente, Direttore DADAT.

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Ugo Leone 22

dell’abbondanza e della distruzione. A questa eterna dicotomia si lega il Ve-suvio -Besubios, Besbios, Vesvio, Vesevo- esso stesso per antonomasia eti-mologica favilla, facella, scintilla a cui ab immemorabili é legata la vita, la storia e la cultura partenopea. (C.A.Anzuini, Il Vesuvio nella letteratura di viaggi e nell’iconografia artisti-ca, in “Viaggio in Italia”, n. 10, 1985, p. 39) La “scoperta” di Pompei ed Ercolano nel ’700 fece considerare in

modo ancor più approfondito il Vesuvio, che cominciò con regolarità ad essere meta obbligata dei viaggi e oggetto di resoconti accurati e ispiratore di una florida produzione artistica.

Scrive Pietro Colletta (Storia del reame di Napoli, Torino, 1852, vol. I, p. 79)

Annovero fra le opere più fortunate di Carlo gli scavi di Ercolano e di

Pompei, e poiché dovrò dire di città distrutte dal vicino volcano, accennerò prima le due più grandi eruzioni avvenute sotto quel re, e le magnanime sue provvidenze a soccorrere le travagliate genti. La prima eruzione fu nell’anno 1758, disastrosa per abbondanti ceneri vomitate dal monte, alzate in forma di pino sino alle nuvole, trasportate dal vento in paesi lontani, là discese, e per pioggie e propria natura assodate e impietrite. La fertilità di ampie regioni fu mutata in deserti; e più devastate le città delle Due Torri, Sarno, Palma, Ot-taiano, Nola, Avellino, Ariano. L’altra eruzione, dell’anno 1750, più fiera per tremuoti e distruggimenti, coprì di lava borghi, villaggi, terreni feracissimi e colti. Il re, l’una e l’altra volta, rimise i tributi delle terre danneggiate o gli scemò; diede soccorsi, fece doni. Nel tempo della eruzione del ‘58, agitandosi le quistioni giurisdizionali tra’l re e’l papa, i frati e i preti della città sussurra-vano agli orecchi del popolo, quel flagello essere messaggio di Dio ai ministri di Carlo, acciò desistessero dal tribolare la Chiesa e i sacerdoti. Ma il volcano quietò, serenò il cielo, i timori svanirono, le contese col papa seguitarono. Nella lunga storia di eruzioni, dalla “pliniana” del 79 d.C.

all’ultima del 1944 il Vesuvio si è ben guadagnato l’appellativo di sterminatore affibbiatogli da Matilde Serao. In realtà non tutte le eru-zioni hanno fatto stermini, ma é certo che il vulcano é sempre stato considerato con timore e la sua presenza ha non poco inciso sulla qua-lità della vita dei napoletani.

Ma vi era anche chi, come Melisurgo, nel fare una sorta di analisi costi e benefici dei guasti del Vesuvio, riteneva che esso “ampiamente compensa i piccioli e passeggeri nostri terrori collo spettacolo magni-fico e sublime delle sue eruzioni, i guasti parziali colla fertilità che spande ad esso d’intorno, l’aspetto minaccioso di pochi istanti colle

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perenni sue bellezze e colle contemplazioni che fa nascere nel filoso-fo”.

Anche l’abate Galiani si pose il problema di esorcizzare questa ma-lefica presenza. E per farlo pubblicò un gustosissimo volumetto già significativo sin dal titolo: Spaventosissima descrizione dello spaven-toso spavento che ci spaventò tutti coll’eruzione del Vesuvio la sera degli otto d’Agosto 1779, ma (per grazia di Dio) durò poco. In realtà, come confessa lo stesso Galiani, quella eruzione non fu spaventosis-sima: “non é vero niente affatto. Nelli paesi attorno alla montagna le genti fuggirono non per quello che era stato, ma per paura di quello che poteva venire”.

Malgrado il rischio e la paura, il Vesuvio é sempre stato anche mo-tivo di attrazione per viaggiatori ed uomini di scienze.

In una delle nove lettere che costituiscono Napoli ad occhio nudo, il 29 maggio 1877 Renato Fucini scriveva:

Togliete a Napoli il Vesuvio, e la voce incantata della sirena avrà perduto

per voi le sue più dolci armonie... il Vesuvio é il cuore, é l’anima, é il sunto di tutti gli splendori del Golfo...Egli possiede il fascino della ferocia tranquilla, le attrattive della bellezza ruvidamente accoppiata alla modestia; é il gran de-linquente dalle bellissime forme che tutti ammirano perché é feroce, che tutti amano perché é bello. Tuttavia “Vesuvio” non é solo natura e scienza e paura; non è solo

un vulcano; è anche un eccezionale insieme di beni naturali e di pro-dotti della cultura materiale che fanno del “comprensorio vesuviano” un bene culturale unico al mondo nel quale emergono almeno tre punti rilevanti di cui il Vesuvio costituisce il comune denominatore: il vul-cano, gli scavi archeologici, le ville settecentesche del Miglio d’oro.

Ma non è tutto oro o, come pure si dice, rose e fiori. Quest’area – la parte più popolosa e più densamente popolata della Campania – è anche un formidabile carico di inquinamento e di rischio.

Già nel 1902, osservando la “serie ininterrotta di case che da Napo-li a Torre del Greco assume nomi di paesi differenti”, Francesco Save-rio Nitti la definiva “una vera corona di spine”.

Quella corona di spine oggi si spinge sino a Castellammare di Sta-bia e costituisce un enorme addensamento edilizio e demografico frut-to di gravissime manomissioni ambientali. Tanto più gravi in quanto avvenute in aree di straordinario interesse naturalistico e di ecceziona-le addensamento di prodotti della cultura materiale sedimentati e ac-cumulati in oltre 2000 anni di civiltà.

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È questo carico di considerazioni che dà un particolare connotato al rischio-Vesuvio che incombe su una popolazione di oltre 500.000.

Dunque, il “gran delinquente” non é il vulcano, ma è l’uomo la cui ferocia devastante è stata ed è di forza non inferiore a quella del Ve-suvio riuscendo, così, ad agire da amplificatore delle cause del rischio.

Dopo l’ultima eruzione del 1944, la memoria storica sembra essersi persa e, con essa, la percezione del rischio. È perciò che l’espansione edilizia degli anni cinquanta e sessanta ha prodotto una smisurata e-spansione degli antichi centri abitati che non ha risparmiato, nella sua aggressione, la parte alta del vulcano. In tal modo si è formata una barriera di costruzioni, una moderna “corona di spine”.

Né il rischio vulcanico si esaurisce qui; esso continua negli ardenti Campi Flegrei, dove prosegue quella ideale “linea del fuoco” che cin-ge Napoli da Ovest ad Est. È un rischio, peraltro, ben diverso, più li-mitato e, quindi, minor motivo di paura e con minore impatto sulla qualità della vita.

Goethe (1°marzo 1787, sera) sembra avere piena coscienza del pe-ricolo:

Una gita in barca sino a Pozzuoli, brevi gite in carrozza, liete escursioni

attraverso la regione più meravigliosa del mondo. Sotto il cielo più sereno, il terreno più infido. Rovine di un’imponenza appena credibile, maledette e tri-sti. Acque bollenti, grotte che emanano vapori di zolfo, montagne di scorie negate ad ogni vegetazione, zone nude e malinconiche, ma poi, in fine, una vegetazione lussureggiante che ammanta tutto e dovunque le è possibile, si innalza su le cose morte, intorno ai laghi ed ai ruscelli, sì, sino a prender pos-sesso di una splendida foresta di querce cresciute sui pendii di un vulcano spento.

(3 marzo, Vesuvio) 2. La risposta: S.Gennaro

...ma – (per grazia di Dio) – durò poco, si ricorderà è la parte fina-le del lungo titolo del divertente opuscolo scritto dall’abate Galiani. Quella parentesi la dice lunga. Era la risposta alla paura. Una risposta che, generalmente, passava attraverso la fondamentale mediazione di San Gennaro.

Il 2 agosto 1707 – ha scritto Egon Corti – mentre era in corso la pomposa

cerimonia d’insediamento del viceré davanti al Castelnuovo, una pioggia di ceneri si abbatté su Napoli che alle tre del pomeriggio si trovò immersa nelle

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tenebre. Uno strato di polvere bianca alto parecchi centimetri ricoprì la città, e il viceré ordinò di tenere una processione solenne, alla quale volle partecipare di persona. Alzando al cielo il busto di San Gennaro, proprio dirimpetto al Vesuvio, la folla supplicò il santo di por fine al flagello, e il giorno seguente i suoi voti furono esauditi. Il conte Martinitz tuttavia non riuscì a dissipare nei Napoletani l’impressione che l’eruzione fosse un segno di corruccio del Cielo per la nuova occupazione straniera. Dal 1631 non si era più avuta una manife-stazione vulcanica così grave, né la sinistra colonna di fumo a forma di pino era riapparsa sulla vetta del monte. E, infatti, Napoli, come hanno scritto René Bouvier e André Laf-

fargue, “aveva anche un altro padrone, imparentato questo con Vulca-no e con il diavolo, il Vesuvio. Quando si adirava, la popolazione cor-reva ad implorare San Gennaro perché proteggesse la città dai furori delle divinità infernali”.

Lo aveva notato anche Goethe (1789) quando aveva scritto che i napoletani “vanno e vengono tutto il giorno in un paradiso... e quando la bocca dell’inferno loro vicino minaccia di montar sulle furie, ricor-rono a San Gennaro e al suo sangue”.

Ancora oggi, San Gennaro mio fa’ tu, nun ne pozzo proprio cchiù. La speranza è la mia fede, tutta sta riposta in te è una delle giaculato-rie che vengono recitate in occasione soprattutto delle ricorrenze di maggio e settembre durante le quali si verifica il miracolo dello scio-glimento del sangue del Santo.

Ma è anche il modo con cui tradizionalmente il napoletano “di massa” si è posto di fronte alla paura e al pericolo. Anche di fronte al pericolo-Vesuvio come sta, tra l’altro ma molto emblematicamente a dimostrare la statua di San Gennaro che all’ingresso orientale di Na-poli con la mano protesa verso il Vesuvio ferma l’avanzata della lava.

San Gennaro, scrive Giuseppe Porcaro è il grande protettore di Na-poli, la quale “nella sua illimitata fiducia, sa che San Gennaro non l’abbandona mai e la salverà sempre, come l’ha tante volte salvata dal fuoco dello Sterminatore, dalle epidemie, dalle carestie, dai tremendi flagelli che in tutte le stagioni dell’anno e in tutti i tempi devastano l’umanità, seminando morte e sventure”. E lo scrittore svizzero Adrian Wolfgang Martin:

San Gennaro protegge Napoli contro la peste, contro i terremoti, contro le

eruzioni del Vesuvio ed altre tribolazioni. Le circostanze esterne in cui, due volte l’anno avviene la liquefazione del suo sangue, costituiscono l’oracolo per il prossimo futuro. È infatti difficile trovare, nella storia della Cristianità, un altro santo cui venga imposta una così totale responsabilità, quale i napole-tani la pretendono da San Gennaro.

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3. Conoscenza e informazione In realtà, almeno per chi ha fede, sino a pochi decenni fa non

c’erano alternative. Oggi il discorso è potenzialmente diverso. Perché da anni ormai, la “cultura del rischio” si esercita nel modo migliore attraverso i filoni della previsione e della prevenzione di fenomeni na-turali calamitosi nel tentativo di realizzare concretamente l’obiettivo della convivenza col rischio che è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per realizzare una buona qualità della vita.

Ma per realizzare correttamente questo obiettivo occorre essere correttamente informati sulla entità del rischio, sulle cause e sui com-portamenti da tenere.

Le cose non vanno sempre in questo verso. Il mese scorso il “Sunday Times”, anticipando – e anche un po’ tra-

visando – i risultati di uno studio del CNR di Napoli, rendeva noto al mondo che l’intero arco costiero napoletano correrebbe il rischio di essere sommerso da un violento maremoto provocato da un collasso del Vesuvio.

Poco più di duecento anni fa l’abate Ferdinando Galiani pubblicava a Napoli il volumetto che ricordavo poco prima e avvertiva:

Per non restare con scrupolo alla coscienza devo nel concludere confessa-

re il mio peccato e colle lagrime agli occhi cercarne perdono alli miei cari be-nefattori e lettori. Io ho messo nel titolo dell’opera che questa eruzione fu spaventosissima, e non è vero niente affatto. Nelli paesi attorno alla montagna le genti fuggirono non per quello che era stato, ma per paura di quello che po-teva venire. A Napoli poi nessuno ebbe spavento, né del passato, né del pre-sente, né del futuro: e veramente la cosa non lo meritava. Ma io l’ho fatto per dar concetto al mio libro, movere la curiosità, e così venderne più; e non sono stato solo a far così, perché gli altri pure hanno detto mirabilia di questa eru-zione, ma in coscienza da sacerdote indegno che sono, per la verità l’eruzione fu poca cosa, e chi si ricorda quella del 1737 dirà che c’è la differenza, che c’è tra una cannonata e uno stronzillo di polvere sparato incoppa a un astrico. E così si è verificato il detto antico: sono assai più le vuce che le nuce. Mi sembrano questi – tra i tanti passati e presenti che avrei potuto

ricordare – due esempi significativi di un modo di fare informazione sul rischio che tende a privilegiare l’effetto sulla notizia scientifica-mente corretta, magari “per movere la curiosità e così venderne più”.

Ma perché si muove la curiosità e si vende di più dando spavento-sissime notizie?

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È in qualche modo la domanda che si pone Borges nel Prologo del suo Finimondi pubblicato da Franco Maria Ricci nel 1997:

Perché ci attrae la fine delle cose? Perché più nessuno canta l’aurora, e

non v’è chi non canti l’occaso? Perché ci attrae più la fine di Troia che le vi-cissitudini degli Achei? Perché preferiamo l’Inferno della Commedia al Para-diso?…Perché la morte possiede una dignità che la nascita dell’uomo non possiede?…. Perché la tragedia gode di un rispetto che la commedia non ot-tiene? Perché sentiamo che il lieto fine è sempre fittizio?...

Insomma, perché ci attraggono le Apocalissi? La rivista internazionale di teologia «Concilium» ha dedicato un

intero numero (il n. 4 del 1998 Il mondo va verso la fine?) a questo argomento e ha dato variegate risposte al quesito affrontandolo da più versanti.

Anche J. Maddox si era posto un quesito del genere in una tavola rotonda al Salone di Torino del maggio 1990 sulle responsabilità della stampa nella divulgazione scientifica. E dopo essersi chiesto “perché le storie apocalittiche fanno aggio su più meditate e caute rappresenta-zioni del futuribile?” rispondeva che “svanito o quasi lo spettro dell’olocausto nucleare, l’umanità è in cerca di un nuovo Moloch da venerare e temere, e sembra trovarlo nella minaccia ambientale, nella catastrofe globale che il nuovo millenarismo ecologico paventa come imminente”.

Torna dunque il problema dell’informazione e torna con un altro quesito: i mezzi di informazione devono assecondare e cavalcare que-ste tendenze, magari per fare audience e venderne di più, o non anche tentare di educare i lettori e gli ascoltatori ad approcci più realistici e scientificamente più corretti?

È un problema importante perché – come credo senza dubbi, maga-ri anche un po’ enfatizzando – la prima protezione dal rischio sta nella informazione mirata a rendere la popolazione correttamente consape-vole della reale entità del rischio e dei comportamenti da tenere nel caso del suo manifestarsi.

Ma chi la fa l’informazione? Come ha scritto Antonio Cianciullo, un giornalista esperto di pro-

blemi dell’ambiente, “un messaggio ha bisogno di un sistema di tra-smissione e chi frequenta i giornali sa che la ‘complessità’ (un concet-to spesso riassunto dalla formula ‘un battito d’ali di farfalla a Tokyo può causare un ciclone alle Azzorre’) deve passare sotto le forche caudine delle esigenze della comunicazione”; in più la legge che mo-

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della il codice genetico del giornalista è quella secondo la quale “il cane che morde l’uomo non fa notizia, l’uomo che morde il cane, sì”.

Questa mi sembra un’annotazione di cui va tenuto doverosamente conto perché è alla base della montante babele dell’informazione e perché è impensabile avviare a soluzione i problemi del rischio am-bientale in tutte le sue componenti, in presenza di un’informazione che privilegi l’effetto rispetto alla notizia e al fatto.

Io credo che gli strumenti propri di tutte le scienze per “trasferire” le conoscenze sono potenzialmente tali da consentire almeno di col-mare i vuoti di una politica dell’ambiente e del territorio in termini di difesa dai possibili danni di fenomeni naturali che, per comodità, si continua a definire “calamità naturali”.

Un bambino di sette anni ha scritto: “Dio ha creato la terra, gli al-beri, i fiori, i frutti, i vecchi, i bambini, il cielo, le nuvole, il mondo, le malattie, le mosche, le zanzare, lo squalo, le eruzioni, i terremoti. Quando ha creato le montagne, ci ha lasciato dei vuoti sotto. Perciò le montagne si muovono e succedono i terremoti. Tutti possono sbaglia-re. Adesso non può rimediare”.

In questa semplice osservazione c’è quell’ “adesso non può rime-diare”che mi sembra estremamente significativo di un modo – proprio degli adulti – di subire i fenomeni naturali e il danno cui molto spesso gli stessi sono collegati, che ha caratterizzato sino a pochi decenni fa l’atteggiamento dell’opinione pubblica.

Ciò fino a quando la stessa opinione pubblica non ha scoperto – anche per merito dei mezzi di informazione – che molto spesso i danni e le vittime lamentate “si potevano evitare”. Da allora il passaggio dal-la filosofia dell’imprevedibile calamità naturale a quella della catastro-fe “annunciata” e che “si poteva evitare” è stato rapido. Rapido, spes-so realistico, talaltra semplicistico: raramente scientificamente corret-to.

Si propone, dunque, un altro problema: è importante l’informazione, ma è anche importante, preventivamente la formazio-ne degli informatori.

In questo senso anche la comunità scientifica ha le sue responsabi-lità.

Lo scienziato, istituzionalmente, fa ricerca. Quando i risultati della sua ricerca devono arrivare al grosso pubblico non può prescindere dalla intermediazione dei mezzi di comunicazione di massa. È a que-sto punto che lo scienziato ha il compito di formare gli informatori: non solo nel senso di fornire notizie chiare e puntuali sui fenomeni,

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ma anche nel senso di combattere con ogni mezzo le interpretazioni strumentalmente scorrette e la diffusione di notizie “false e tendenzio-se” generate, magari dalle stesse motivazioni confessate dall’Abate Galiani.

Infine, non va trascurato il ruolo importante del linguaggio. Esiste un comune modo di intendere il problema rischio e la termi-

nologia stessa che ne caratterizza i dati essenziali? Certamente no. Anzi il linguaggio in questa materia risulta note-

volmente inflazionato; molti termini risultano “corrotti” nei loro origi-nari significati e c’è il pericolo che uno stesso termine evochi imma-gini e contenuti diversi anche tra gli addetti ai lavori oltre che, soprat-tutto, nell’opinione pubblica. Così si parla indistintamente di disastro, catastrofe, calamità naturale, rischio per indicare gli eventi naturali e-stremi

Gli scienziati discutono sul significato di rischio, lo definiscono in modo diverso, distinguono tra rischio e hazard e via discorrendo. E tutto ciò alimenta una importante e dotta saggistica, ma credo nel far ciò non si debba mai perdere di vista gli interlocutori, i destinatari dei messaggi e delle informazioni ai quali bisogna rivolgersi con un lin-guaggio chiaro e possibilmente omogeneo.

Io in questi giorni sto sviluppando in puntate successive per i miei studenti di Politica dell’ambiente un seminario sul rischio ambientale.

All’atto dell’iscrizione ho proposto a tutti di definire il rischio in poche righe, senza particolari riflessioni e consultazione di libri; di proporre, cioè, la loro idea di rischio.

Ebbene quasi tutti hanno associato rischio ad incertezza, ma, so-prattutto, la schiacciante maggioranza dei partecipanti ha individuato il rischio nelle azioni umane contro l’ambiente, cioè nel rischio umano e tecnologico.

Una definizione le sintetizza tutte: “il rischio ambientale, secondo me è stato creato dall’uomo”.

Non me l’aspettavo e penso che alla base di questa scelta degli stu-denti vi sia stato il mio modo “superficiale” di proporre l’espressione “rischio ambientale”. Poiché l’ambiente oggi si considera degradato, inquinato e pericoloso e poiché tutto ciò viene attribuito a responsabi-lità umane, è possibile che se ne sia tratta la conseguenza che dicevo.

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Bibliografia

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