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Danilo Tiziano Monguzzi, fantastico

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DANILO MONGUZZI

THE HOLE 46°05'51''12N 09°28'65''92E

 

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THE HOLE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-536-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

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Alla mia famiglia e in particolare a mio fratello Gilberto che probabilmente mi ha ispirato dall’aldilà.

Ringrazio Micaela con cui condivido tutto e di cui non potrei mai più fare a meno.

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Capitolo I

La scoperta La telefonata arrivò nel cuore della notte. «Vieni subito all’imbarcadero, noi siamo già qui da un’ora.» Bel modo di fare una telefonata. Tre e mezza di notte, senza dire ciao, scusa l’ora, sono Paolo. D’altronde il tono di voce lasciava capire chiaramente che era una cosa molto urgente e importante e non si trattava di uno scherzo. Mi preparai velocemente con i vestiti del giorno prima, ancora buttati lì sul divano in sala, mi infilai in tasca il portafogli, la key card dell’auto e il telefono. Non pensai alle chiavi di casa perché sarei sicuramente rientrato subito dopo e non vedevo la necessità di blindare tutto. Scesi velocemente le scale fino al livello dei box. Entrai in auto, misi la tessera nella fessura illuminata, premetti “start”, il cruscotto si illuminò e il motore si mise in moto con un rumore leggero come le fusa di un gatto. Tutto era ancora buio, l’alba non sarebbe arrivata che tra due o tre ore, e io per allora sarei sicuramente rientrato a casa e mi sarei trovato sotto le coperte a recuperare quelle rubate al sonno. Anche meno di due ore, ero capace di essere molto sbrigativo quando volevo. Fino a rasentare la maleducazione, se era il caso. Ma qui, trattandosi di Paolo, non era certamente il caso. Una chiamata così doveva essere senz’altro importante, ma superata la prima emergenza si sarebbe potuto risolvere, qualsiasi diavolo fosse il problema, l’indomani mattina con la mente più lucida e il favore del sole, e anche della temperatura un po’ più clemente. Con questo proposito ben impresso nella mente, mi diressi lentamente verso la strada provinciale che portava al paese. Il paese verso cui mi sto dirigendo conta poco più di tremila anime, compresi i possessori di seconde case, per cui gli abitanti veri e propri sono veramente pochi e non hanno mai avuto bisogno di conoscersi, nel senso che si conoscono tutti da sempre. Una realtà familiare assolutamente impensabile in una grande città dove alieni gli uni degli

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altri si aggirano sfiorandosi di tanto in tanto e si frequentano in cerchie che migrano da un happy hour all’altro. Qui i ritmi sono un po’ diversi, più slow. Qualcuno mi ha detto che nelle grandi città non circola energia ma informazioni e stress. In definitiva qui ho riscoperto il piacere delle stagioni con le loro colorazioni e i loro profumi e ognuna mi regala qualcosa. Prima, quando vivevo in una grande città, le stagioni erano divise fra il “che caldo che fa” e il “che freddo che fa”. Mentre scendevo a media velocità i quattro tornanti che mi separavano dal paese vero e proprio, cominciai a fare ipotesi su cosa poteva aspettarmi una volta arrivato all’imbarcadero. Ma poi era davvero Paolo che mi aveva chiamato? Be’, ero quasi certo, la telefonata era stata brevissima e non avevo neppure avuto il tempo di fare domande. Ma la voce era certamente la sua. Paolo era il titolare della ferramenta del paese, e chiamarla ferramenta era molto riduttivo. Vi si poteva trovare quasi qualunque cosa e quello che non c’era lo procurava. Era uomo di grandi capacità pratiche, un cervello fino e sempre pronto a mettersi in prima fila per iniziative benefiche e ricreative del paese. Aveva accettato subito me e la mia famiglia come compaesani anche se eravamo diventati residenti solo da un anno o poco più. Sua moglie e la mia erano diventate buone amiche e ora entrambe erano al mare per una breve vacanza con i rispettivi figli, un bambino loro e una figlia noi, coetanei. Io e Paolo avevamo cominciato a frequentarci per simpatia reciproca e per alcune passioni in comune a partire dall’esplorazione subacquea, dall’archeologia e dalla storia. Tre passioni che convivevano più naturalmente di quelle che accomunano gran parte degli uomini, dalle moto, alle auto, alle barche. Avevamo fatto più di un’immersione insieme e avevamo trovato un buon affiatamento. Ci eravamo scambiati i siti scoperti e li avevamo riesplorati assieme e poi eravamo passati a scoprirne di nuovi setacciando luoghi che per conformazione e per storia si prestavano a ospitare relitti e reperti. Nelle nostre escursioni ci era sempre da supporto la fida Nausicaa, la mia imbarcazione. Le nostre discese, che effettuavamo per lo più nella stagione autunnale e primaverile e cioè quando le acque sono più limpide, erano generalmente con profondità medie di trenta, trentacinque metri, in alcuni casi con puntate fino a cinquanta. Il campo d’intervento era perciò molto limitato, se si considera che la profondità del lago è di

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oltre quattrocentottanta metri, ma è anche vero che in esso ci sono diverse balze e alcuni pinnacoli che rendono la nostra quota di lavoro pur sempre interessante. Inoltre avevo installato a bordo un mini robottino auto costruito che stavamo testando per portalo a una quota operativa di quasi centocinquanta metri. Le difficoltà per costruirlo erano da paragonare alla fatica e al dispendio costati per restaurare Nausicaa, ma dopo tanti esperimenti falliti e tanto sforzo per ripristinare il robottino allagato o incagliato, ora riuscivamo a eseguire una scansione del fondale più che soddisfacente. Non erano mancate le sorprese, come quella del bimotore adagiato sul fondale di una rada tra le più frequentate e insospettabili per certi ritrovamenti, o le immagini, a distanza di sicurezza per non perdere l’apparecchiatura, del “pozzo nero”, una grande apertura in una parete a strapiombo che costituiva un sifone posto a cinquanta metri di profondità, in cui veniva risucchiato all’interno della montagna qualsiasi cosa gli si avvicinasse. Di mostri lacustri non ne incontrammo mai neppure l’ombra, ma andando a verificare i casi di avvistamento, in questo e in altri laghi, si comprendeva come la gente vedesse quello che vuole vedere. In alcune circostanze tutt’altro che rare, il passaggio di un’imbarcazione genera dietro di sé delle onde che possono sembrare delle spire di serpente lacustre, ma sono solo onde. Pur tutta via non mancano le ipotesi o i presunti avvistamenti che vanno ad alimentare il mistero del lago e dei suoi abissi. È suggestivo pensare che un leviatano dorma nelle sue profondità da epoche preistoriche e che ora si sia svegliato. Ma se c’è, sta ancora dormendo. Tornando al perché mi trovavo in auto a quest’ora, pensai che sicuramente non si trattava di uno scherzo. Avevamo troppa stima reciproca e amicizia per fare una burla del genere. Al secondo tornante osservai il lago con maggiore attenzione e vidi che circa nel mezzo e cioè a metà strada tra il nostro paese e san Siro, posto sulla riva opposta, c’erano parecchie barche di pescatori. Le distinguevo a malapena e solo per le loro luci di via. All’ultimo tornante la scena, sebbene ancora lontana, era più chiara. Ma non riuscivo a distinguere maggiori particolari, data la distanza e il buio ancora incombente. Però c’era qualcosa di anomalo nella loro presenza a quell’ora. Poi non vidi più nulla a causa delle case e dovetti aspettare di arrivare in riva al lago per vedere ancora qualcosa. Continuavo a fare ipotesi sul motivo di questa telefonata misteriosa, naturalmente le prime ipotesi che si fanno sono tutte tragiche. Nessuno pensa di essere svegliato nella notte perché ha vinto la lotteria con il

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biglietto comprato in società a un amico. Quali motivi così urgenti potevano esserci per fare una tale telefonata? Pensai un po’ a tutto quello che poteva rappresentare un pericolo imminente; le rispettive famiglie erano lontane e con la mia avevo parlato non più tardi di poche ore prima, e comunque qualsiasi notizia inerente loro non avrebbe giustificato il nostro appuntamento all’imbarcadero. Forse doveva arrivare qualcuno, ma i traghetti non facevano servizio notturno e qualunque altra imbarcazione sarebbe approdata in uno degli altri due porticcioli o al pontile alla fine del paese. Forse era qualcosa che riguardava il lago. Sì, sicuramente riguardava il lago. Ecco, forse era la mia barca. Poteva essersi liberata dagli ormeggi, aver navigato solinga in mezzo al lago e qualcuno l’aveva rimorchiata fino al paese. Poteva essere un’ipotesi, ma era un po’ deboluccia. Nausicaa era ormeggiata appena fuori dal comune in una rada tranquilla, affiancata a un pontile il legno solido e ultra collaudato dai capricci del lago. Le cime d’ormeggio erano nuove e mi fidavo dei miei nodi, inoltre le prue erano saldamente fissate a una boa con peso morto. Le possibilità che tutto avesse mollato e la barca fosse in mezzo al lago erano abbastanza remote, a meno che non fosse stato un brutto scherzo di cattivo gusto di qualcuno. Forse era qualcosa che aveva a che fare con i pescatori. In effetti non avevo mai visto tante barche da pesca tutte insieme e nello stesso punto del lago. Dovevo pensare a una pesca miracolosa? Il mio pensiero correva più facilmente a recuperi di altro genere. O nelle loro reti si era impigliato qualche ordigno della seconda guerra mondiale, ma dato l’alto fondale lo escludevo o, più verosimilmente, involontariamente le loro reti avevano catturato i tristi resti di qualche povera anima caduta, o peggio, nel lago. Purtroppo non sarebbe stato il primo caso. Il lago, come del resto il mare, pretende un tributo periodico a cui non si sfugge. Sono bagnanti incauti, più spesso sommozzatori un po’ troppo audaci e qualche volta i muti testimoni di un omicidio. Nei casi di profondità elevate, sembrava che il lago avesse riguardo delle persone affidategli, e che volesse quasi conservarle bene per l’eternità. Il freddo delle sue profondità e la mancanza quasi di batteri, conservavano i corpi in uno stato pressoché integro, dando alla morte una sua dignità che la sepoltura non garantisce. Ma forse mi sbagliavo e tutto quello che mi aspettava era un qualcosa di molto curioso e molto momentaneo da giustificarne l’urgenza. Anni prima ero stato testimone di un fenomeno stranissimo e brevissimo. Ero sulla sponda opposta a una buona altezza sul lago e ne

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godevo un’ottima vista, quando io e tutti i presenti osservammo la formazione di un disco argenteo che emergeva dal fondo prendendo lucentezza e contorni decisi. Il disco si fermò poco sotto la superficie dell’acqua poi cominciò a spostarsi rapidamente in cerchi ampi e poi ancora cambiando direzione a scatti fulminei. Tutti eravamo ormai convinti di trovarci di fronte a un disco volante che emergeva dalle profondità del lago e che da un momento all’altro avrebbe fatto rotta verso Alpha Centauri… invece si dissolse. Si trattava di un branco gigantesco di pesci, forse arborelle, che in perfetta sincronia avevano dato origine a un disco quasi perfetto e che dopo alcune rivoluzioni evidentemente attorno a qualche loro preda, se ne erano andati ognuno per conto suo. Ma ormai ero quasi arrivato e la mia curiosità sarebbe stata saziata. Parcheggiai con due ruote sul marciapiede del bar Arrigoni. Il parcheggio e la strada erano ingombri di auto. C’era anche la macchina dei vigili con i lampeggianti accesi. Mi accorsi che quasi tutto il paese era lì. Di qualunque cosa si trattasse doveva essere piuttosto importante per catturare l’attenzione di tutti. Stava arrivando anche il fuoristrada del comando locale dei carabinieri, che appena sceso dal veicolo raggiunse il capo della polizia urbana. Si misero a parlottare scuotendo a turno la testa. Poi il maresciallo Loyacono mi vide e si diresse verso di me. «Andrea, cosa ne dici?» Pensai che quella era la notte in cui non si salutava più. «Ciao maresciallo, non so neppure di cosa stai parlando, sono appena arrivato perché mi ha telefonato Paolo. E ho appena parcheggiato l’auto, in divieto di sosta» aggiunsi guardando il capo dei vigili. Loyacono era un buon sottufficiale, era al comando della stazione locale da quasi un quinquennio. Viveva nella casermetta con la sua famiglia composta da donna Amalia, di modesta statura fisica ma dotata di grande energia e non priva di una certa sensualità che non lasciava indifferente il marito e forse più di qualche altro uomo in paese. Era di moralità ferrea, degna moglie del comandante dei carabinieri, e con la stessa fermezza amministrava la casa, i figli e i suoi alunni. Insegnava alla scuola media locale, e le sue classi erano sicuramente le più disciplinate ma anche le più preparate. Le origini di entrambi, intendo marito e moglie, erano pugliesi, e non nascondevano l’illusione di tornare, in età di pensione, a Santa Maria al Bagno, con le sue scogliere e il suo mare limpido e turchese così

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diverso dal lago che avevano comunque imparato ad amare. Due figli in età scolare completavano il quadretto familiare. Il capo della polizia urbana avrebbe semplicemente voluto essere qualcun altro. Loyacono, torreggiando sulla modesta folla con la sua altezza, individuò Paolo gli si avvicinò a passo veloce. Mi accodai al maresciallo e lo raggiungemmo insieme. Questi stava parlando a voce bassa con alcuni pescatori; tutti sussurravano o addirittura erano ammutoliti. Sembrava una veglia funebre e non riuscivo a immaginare un qualche cosa che avesse potuto togliere la voce a gente solitamente ciarliera. Paolo stava facendo domande a Guglielmo, che poteva considerarsi il capo flotta nonché il presidente dell’associazione pescatori del lago di Como. «Lo so che me lo hai già raccontato, ma dimmelo ancora, e poi sta arrivando anche Andrea e il maresciallo, così sentono anche loro.» Il buon Guglielmo raccontò di cosa era successo durante la notte. Era una sera come tutte le altre, le barche sono uscite appena calato il sole a stendere le reti e poi i pescatori sono rientrati come di consueto. Più tardi tornano fuori a controllare i galleggianti e poi verso l’alba recuperano il tutto sperando in un buon raccolto. Si tratta di barche piccole con modesti motori per lo più da 9,9 CV, più che sufficienti per muovere le imbarcazioni in legno che solcano il lago e rientrano con piccoli carichi di pesce che bastano appena ad approvvigionare i ristorantini lungo il lago e a smerciarne qualche chilo ai privati. Gino, uno dei pescatori, era da poco uscito per il giro di controllo. Io ieri sera non ero uscito perché ho la barca in manutenzione fino a giovedì, per cui bighellonavo tra il porticciolo e “il trani”, che rimane aperto fin dopo l’una di notte, in attesa che tutte la barche fossero rientrate. Non che fosse un mio dovere o un mio incarico, ma con i pescatori ci si conosce da sempre e ormai le notti sono dedicate al lago e al lavoro, e il giorno alle famiglie. A un certo momento arriva a tutto motore il Gino con la sua barca. Pensavo che si sarebbe schiantato nel porticciolo addosso a qualche deriva, invece è riuscito ad arrivare indenne fino al suo posto abituale. Molla tutto senza neanche dare di volta a una cima e di corsa si precipita sulla rampa che porta alla passeggiata lungolago. È li che quasi mi atterra. Gli chiedo se sta male, o se è matto. Aveva gli occhi umidi e sbarrati dalla paura, dopo un attimo di smarrimento mi

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investe con un fiume di parole senza senso. Lo interrompo e gli propongo di venire con me nel trani, così ci togliamo dall’umido della sera. «Beviamo qualcosa di caldo e mi racconti tutto» gli dico. Lui accetta e ci dirigiamo verso il vicolo, svoltiamo ed entriamo nell’osteria attraverso un portoncino di legno e vetro con campanello attaccato. È una notte di maggio, non di quelle belle che fanno pregustare l’estate, ma di quelle brutte che fanno sembrare di essere ancora in inverno o che l’inverno debba ancora arrivare. Ci accoglie il calore di una stufa a pellet e l’odore di vino che se ne sta in grosse botti per la mescita o in bottiglie tutte allineate su assi di legno. Non era un enoteca con vini da meditazione ma piuttosto un posto dove si guardava più alla quantità che non alla qualità sopraffina. In realtà i vini serviti erano quasi tutti notevoli e qualcuno quasi eccellente; non era un locale per i turisti ma per la gente del posto. Il luogo era quasi deserto, ai tavoli in legno pesante c’erano sedute tre persone non più in grado di riconoscersi, ognuna persa nei suoi pensieri, che ogni tanto condividevano dei grugniti e degli apprezzamenti sul sindaco, sul governo o sul vino. Le pareti erano adornate da file e file di bottiglie con o senza etichetta; nonostante l’ambiente semplice, l’archiviazione dei vini era rigorosa. Se si capitava nel trani alle ore giuste si riusciva a consumare un piccolo pasto con quello che l’oste metteva sul bancone in una sorta di happy hour ante litteram. Non ci volevano gli yuppies per inventare una cosa che c’era da decenni se non da secoli. Un bancone arricchito di piattini con focaccine, sottaceti, uova sode e altre golosità. Ci siamo seduti in un angolo e a noi si è unito Roberto, l’oste, come amava autodefinirsi usando volutamente un termine fuori corso. Gino era visibilmente spaventato, aveva il colorito di una mozzarella scaduta e in più puzzava di sudore e di pesce. Era solo per l’affetto che provavamo per lui che eravamo lì ad ascoltarlo invece di chiamare il 118. «Dai Gino, racconta dall’inizio» lo esortò Roberto, e il Gino cominciò a raccontare la sua notte brava: «Sono uscito come sempre, no? Ho gettato le lanzettiere e le ho fissate ai galleggianti, no? Poi sono rientrato e sono passato da casa e poi sono venuto qui a salutare Roberto e bere un bicchierino, no? Vero Roberto che sono passato di qua?» Roberto annuisce.

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«Poi sono uscito e sono tornato fuori a controllare i galleggianti e le esche, no? Avevo acceso il faro per fare queste cose e ogni tanto lo puntavo un po’ più in là per vedere se tutti i galleggianti erano allineati, no? Sai come guido la barca, ho il volantino del timone a prua e così vedo subito l’acqua davanti a me, no? A un certo punto il fascio di luce crea un’ombra sei o sette metri più avanti, no? Fermo il motore e lo metto in folle. La barca avanza ancora un po’ e poi si ferma dondolando sulle piccole onde. Ora l’ombra era più vicina ma non riuscivo a capire cosa la facesse. Non c’era niente tra me e l’ombra. Poi mi accorgo che è l’acqua stessa che fa l’ombra, no? Mi spiego meglio. L’acqua davanti a me era più bassa di quella dove stavo io. Vi giuro. Lo sapete, no? Di notte anche con la luna piena non si vede benissimo tutto quello che c’è nell’acqua, ma su questo non posso sbagliarmi. Dapprima avevo pensato stupidamente a un taglio, un crepaccio, un accidente di qualcosa che tagliasse il lago, no? Ma poi osservando bene mi sono reso conto che il lago aveva due differenti altezze. Sono rimasto lì un po’ come ipnotizzato a osservare questa strana cosa, poi scrollandomi di dosso l’apatia ho inserito la marcia indietro e mi sono allontanato più velocemente che potevo, con lo specchio di poppa che faceva attrito e imbarcava acqua. Poi ho rallentato e mi sono fermato di nuovo. Avevo voglia di essere già qui a raccontare cosa avevo visto, ma già mi vedevo le facce che mi squadravano e le battute su quanto bevo. Allora ho deciso di ritornare lentamente a vedere questa cosa. Dovevo essere ben sicuro di quello che avevo visto, prima di parlarne in giro, no? É un paese questo, si fa in fretta a essere etichettati come matti o un po’ strambi. C’è ancora della gente dell’età di mio padre che porta dei soprannomi per qualche sciocchezza fatta sessant’anni fa. E allora mi faccio coraggio, passo dal folle alla marcia avanti. Procedo lentamente fino ad arrivare come prima a poco più di sei metri dall’ombra. Avanzo ancora un po’ con il motore al minimo, poi decido di girare la barca e andare all’indietro. Ho pensato che se avessi dovuto scappare di corsa mi conveniva farlo a marcia avanti e con la prua e non con la poppa, no? Allora vado indietro piano piano con il cuore che mi martella nelle tempie, e mi avvicino ancora un po’, e riesco a vedere che si tratta proprio di un pezzo di lago sprofondato. Il lago lì è più basso di almeno quaranta o cinquanta centimetri. Non riesco a vedere se e dove l’acqua torna su, punto il faro più in là che

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posso, ma niente da fare. Deve essere un crepaccio molto largo e a un certo punto mi rendo conto che la corrente mi sta portando lentamente sempre più vicino al crepaccio. Un brivido mi corre lungo la schiena, adesso. Se poi in paese non mi credono non me ne frega un bel niente, metto il motore a tutta manetta e mi allontano il più rapidamente che posso.» Io e il Roberto non parliamo, rimaniamo muti e ci guardiamo. Forse è davvero diventato matto. In effetti, da quando l’Angela lo ha piantato per scappare con quello di Biella, lui non è più stato lo stesso. Si può capirlo, si conoscevano fin da bambini, cresciuti nello stesso cortile, andati allo stesso asilo, poi alla stessa scuola e poi hanno cominciato a frequentarsi in modo diverso. Si davano appuntamento alla chiesetta di Sant’Andrea, poi uscivano il sabato sera a mangiare la pizza da soli e non con tutta la brigata di amici. E poi lui trova lavoro nell’azienda di un amico del padre e la sera fa il cameriere e tutto per riuscire a rilevare una barca da pesca. Non tutti qui amano il lago, anzi per alcuni che ci sia o non ci sia fa lo stesso. Lui invece il lago lo amava veramente, e riuscire a vivere con quello che dava era la sua massima ambizione. Ma non era la massima ambizione dell’Angela. Si sposano, vanno a vivere in un appartamentino nel centro storico lasciatogli dalla nonna morta due anni prima e cominciano a vivere davvero insieme. Ma ormai non sono più marito e moglie, sono fratello e sorella. Lui comincia a uscire tutte le sere per andare a pesca con la barca e lei comincia a uscire alla sera con le amiche. Poi le amiche cominciano a uscire dal paese e lei dietro, così scopre che oltre il paese, la casa, la spesa, c’è altro. C’è l’ambizione di possedere cose, di pensare di poter avere altre persone ai propri piedi, l’illusione di poter avere altri uomini piegati ai propri voleri. E poi compare quello di Biella. Gino è distrutto. L’Angela passeggia per il paese con questo bell’imbusto di Biella, ostentando il suo adulterio come un trofeo di caccia grossa. Esibisce il cialtrone che ha rimorchiato come una conquista, noncurante delle umiliazioni che sta procurando al povero Gino. Si stancherà poi l’Angela di questo tipo e tornerà da me, pensa Gino, e invece un bel giorno torna a casa all’alba da una notte di freddo e pochi pesci e non trova più né l’Angela né i mobili. Se ne erano andati tutti quanti, forse a Biella. Sono passati mesi da quel giorno, e tutto il paese si è stretto attorno a Gino. Non c’è stata una sola battuta di cattivo gusto sull’accaduto, in compenso i genitori dell’Angela non sono praticamente più usciti di casa. Di tempo ne

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passò e Gino trasformò la sua disperazione in una sorta di maschera imperscrutabile. Era diventato una sorta di automa che si alzava, si vestiva, mangiava, lavorava, dormiva. Faceva tutto tranne che pensare, non pensava e non soffriva più. Era morto. E un giorno d’autunno, l’Angela è tornata. Non doveva essersela passata molto bene in quel tempo passato lontano da Gino. Del resto una che scappa con un uomo e ha bisogno di portarsi via i mobili, forse non va a stare molto bene, ma a quel tempo era talmente inebriata dalla novità e forse anche dal sesso che non se ne era accorta. Si fece trovare al porticciolo con l’aria mesta di un pulcino bagnato. Di spavaldo non aveva più nulla, ed era anche vestita male. In paese non sanno ancora se il cuore di Gino abbia avuto un battito in più o in meno vedendola. Ma se lo ebbe, non si vide; le passò accanto e le disse “ciao”. Un ciao senza odio e senza rimpianti, un ciao che si può dire a qualcuno che si conosce appena. Se le avesse tirato una coltellata le avrebbe fatto meno male. Ma Gino non voleva farle del male, non voleva farle proprio niente. Angela è come se non fosse mai esistita. Gino continuò lungo la sua strada e andò a casa. Angela tornò a casa dei suoi e non uscì più neppure lei. Quindi il Gino era sì attendibile, ma era anche uno che era stato molto vicino a perdere il lume della ragione. Per cui, dopo una serie di domande interminabili a cui Gino sapeva rispondere sì e no, si decise di provare ad andare a vedere se questo crepaccio c’era o non c’era. Si sarebbero tolti il dubbio e avrebbero dimostrato ancora una volta la loro amicizia a Gino. Lui era felice di poterli portare sul posto, era attratto da quel crepaccio, ma ne era anche spaventato a morte e adesso che poteva tornarci con Guglielmo e Roberto che si era unito subito alla spedizione, gli sembrava di non avere più paura di nulla. In quel momento suona il mio cellulare e una voce concitata mi racconta a modo suo quello che ho appena sentito da Gino, poi un’altra chiamata, poi un’altra ancora. In buona sostanza, tutti i pescatori stavano chiamando per raccontare la stessa cosa. C’erano poche varianti date dall’interpretazione di quanto avevano visto o dalla visione distorta da fattori emotivi. Uno o due avevano visto ribollire l’acqua e uno aveva intravisto anche qualcosa che si muoveva. Senza ombra di dubbio il mostro di Loch Ness.

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Io ho suggerito di uscire ancora con alcune barche e vedere meglio quanto stava succedendo, in modo da poter valutare le dimensioni del “crepaccio”. Roberto si è affrettato a buttare letteralmente fuori gli ultimi avventori della sua osteria, tra i mugugni e i moccoli che tiravano quei gentleman. Quelli dell’anonima alcolisti, una volta fuori, si appoggiarono al portone del locale con l’aria di non volersene andare fino a che avesse riaperto. Roberto chiuse la porta con una grossa chiave delle dimensioni di trenta centimetri che usava anche come deterrente per i male intenzionati. Detto e fatto, ci siamo diretti alla barca di Gino. Nel frattempo, grazie al tam tam dei cellulari, parecchie barche aderirono all’iniziativa, a dire la verità più di quelle che avevo auspicato. Siamo usciti da tutti i porticcioli sia sul versante di Dervio che su quello opposto. Lungo il braccio di lago davanti a noi c’era un ronzio di piccoli fuoribordo a due e a quattro tempi. Ognuno, secondo disposizioni, procedette piano fino all’approssimarsi del dislivello e si fermò a distanza di sicurezza. Così fecero tutti, e in effetti il crepaccio c’era, eccome. Il dislivello tra l’acqua dove eravamo noi e il crepaccio era anche più alto di quanto aveva detto Gino il quale, sebbene infreddolito e impaurito, gongolava di contentezza. Aveva dato per primo l’allarme di qualcosa di non solo reale ma anche enorme. Ora dovevamo capire le dimensioni e la forma di quel crepaccio. E se tagliava il lago per tutta la sua lunghezza? Come avremmo fatto ad attraversarlo? Forse era di pochi metri e dovuto a qualche fenomeno di correnti e magari tra poco sarebbe scomparso. Oppure ci avrebbe inghiottiti tutti. La luna appariva e scompariva attraverso le nuvole in un cielo ancora freddo per la stagione. Noi, chiusi nei nostri pesanti giubbotti, stavamo appena bene. Gino cercò di accendersi una sigaretta ma dopo tre tentativi falliti buttò via la scatola di fiammiferi e la sigaretta. Ci siamo avvicinati a dove Gino aveva trovato il dislivello, era proprio in prossimità dei suoi galleggianti. Siamo avanzati ancora un po’ e poi abbiamo messo il motore in folle, non fidandoci a spegnerlo. Si sentiva il rumore degli altri fuoribordo che si stavano posizionando ogni venti, venticinque metri l’uno dall’altro. Avevamo tutti le luci di via accese e il faro per la pesca puntato verso quell’anomalia. Il cellulare riprese a suonare; a gruppi di quattro o cinque, le barche ci comunicavano che si erano posizionate a pochi metri dal dislivello.

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Una volta che tutte le imbarcazioni furono in posizione vicino al crepaccio e, secondo la strategia di Gino, con la prua dalla parte opposta al crepaccio per ogni evenienza di fuga, alzammo lo sguardo per vedere quanto fosse lunga quella fenditura. Ci accorgemmo che le barche avevano formato un cerchio, per quel che potevamo vedere, quasi perfetto. Stavamo formando una circonferenza il cui diametro era di circa ottocento metri e il centro era nel bel mezzo del lago compreso tra Varenna, Dervio e San Siro. Siamo rimasti tutti ammutoliti, non potevamo crederci. Nel bel mezzo del lago si era formato un cratere e non c’era un motivo apparente. Poteva essere generato dal fondo del lago, forse. Sicuramente noi non saremmo stati in grado di venirne a capo. Bisognava dare subito l’allarme alle forze dell’ordine. Guglielmo sogghignava sotto i baffoni all’idea del maresciallo Loyacono che si ritrovava un buco nel lago. Poi, di comune accordo, siamo rientrati tutti dando pieno gas ai motori, ognuno al suo porticciolo di partenza. Al nostro arrivo la notizia si era già diffusa per tutto il paese e in quelli attorno al cratere. «Adesso vi ho raccontato tutto quello che è successo e tutto quello che sappiamo.» A fine racconto intervenne il maresciallo, quasi a voler far capire che dopo l’ora del dilettante era giunto il momento delle autorità costituite. «Ma non vi è passato neppure per un attimo nel cervello di dare l’allarme e chiamarci? Se le cose stanno così può trattarsi di qualsiasi cosa, anche pericolosa, e voi andate a fare i Piero Angela e a vedere cos’è!» Il maresciallo era veramente contrariato, ma soprattutto preoccupato. I pescatori non erano persone stupide e tutti avevano famiglia, e il fatto che avessero potuto rischiare la vita per capire cosa disturbava il loro lago lo riempiva di tenerezza e di spavento. Era stata un’azione avventata quella di uscire tutti in massa verso un qualcosa di così ignoto, ma era anche vero che fino al sopraluogo non si sapeva cosa fosse. È facile aver timore di un cratere in mezzo al lago, ma quando se ne vede solo un pezzettino e non se ne conoscono le reali dimensioni, può sembrare codardia non andare a vedere per saperne di più. Il maresciallo ci tenne comunque a dire che aveva già mandato un fonogramma al comando di Lecco e ne avrebbe mandato un altro non

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appena avesse steso un rapporto sull’accaduto, e già si immaginava l’appuntato alle prese con un racconto del genere. Si sarebbe poi attenuto agli ordini. Lo disse con autorità ma nel contempo come se volesse dimostrarmi la sua efficienza e la sua amicizia nel comunicarmelo. Fonogramma era una parola che non sentivo più dall’epoca del mio servizio militare, che risaliva a parecchi anni prima. Una parentesi nella mia vita che aveva lasciato dei ricordi piacevoli. Un semplice servizio di leva certo, ma fatto di incarichi speciali a cui ero arrivato forse per pure casualità. Ricordi di serate di gala in alta uniforme, tenute in fortini della prima guerra mondiale nel triveneto e adibite ora a locations superbe. Tutti luoghi che da civile non avrei mai più potuto vedere, e nemmeno avvicinare. Un periodo conclusosi con il congedo illimitato e il grado di tenente. Forse per questo grado il buon maresciallo mi manifestava il suo operato, non considerandomi completamente un civile e sapendo che ero in grado di ricevere e dare ordini anche se, a dire il vero, la prima casistica mi era poco consona. In quel momento squillò il suo cellulare e dopo una breve conversazione a base di “sissignore”, il maresciallo ripose il cellulare e disse con enfasi: «Stiamo mandando un elicottero e un’imbarcazione veloce, ma io devo far rientrare tutti i pescatori e interdire la navigazione. Come faccio?» Mentre terminava la frase il tipico rumore di un elicottero in avvicinamento ruppe il silenzio. Un potente faro illuminava la superficie del lago e dopo brevi manovre in cui si spostava lateralmente e scendeva quasi a sfiorare la superficie dell’acqua, si stazionò a punto fisso a circa venti metri dalla superficie e al centro di quello strano cerchio. Era un’immagine molto coreografica, con tutte le barchette illuminate dei pescatori e sballottate dal turbinio dei rotori. Ora le auto di servizio si erano moltiplicate. Non era più una faccenda del paese ma un fenomeno che interessava tutto il lago. Prima che il giorno fosse fatto, la notizia aveva fatto il giro del lago. YouTube aveva fatto il resto. Il fenomeno stava diventando di dominio pubblico ma, con una sorta di campanilismo, il paese lo considerava suo e poco gli garbava che altri vi si intromettessero. Per il paese era una novità pazzesca, un qualcosa che avrebbe cambiato il corso della storia del paese. Se ne sarebbe parlato per generazioni.

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Ora bisognava aspettare il giorno e sperare che non svanisse subito per poterlo almeno fotografare. Il resto della notte la passammo in caserma, intendo io, il maresciallo, Paolo, Guglielmo e Gino. Non era uno scherzo mettere giù un rapporto sull’accaduto. Fortunatamente l’elicotterista avrebbe fatto il suo, per cui quello del maresciallo si sarebbe limitato al resoconto di Guglielmo e di Gino. La barca veloce non si era vista. Gli uomini della casermetta dei carabinieri erano quasi tutti fuori a impedire ai curiosi di prendere il largo per andare a vedere quel cratere. La navigazione dei traghetti e degli aliscafi era interdetta fino a nuovo ordine. Quando il rapporto fu steso venne fatto firmare ai due testimoni oculari a nome di tutti i pescatori e poterono andare a casa. Sicuramente non sarebbero andati a casa ma si sarebbero rintanati nel trani di Roberto a smaltire l’adrenalina accumulata in tutta la notte. Paolo e io rimanemmo nel suo ufficio stravaccati sul suo divano in similpelle. L’ufficio del maresciallo era in tutto e per tutto simile a quello dei suoi colleghi disseminati in tutta Italia. L’arredo era tristissimo e male assortito, pareva che non ci fossero due componenti d’arredo comprati nello stesso posto. La parete dietro alla sua scrivania era ricoperta dai calendari dell’Arma e dagli immancabili crest. Ma c’era una cosa che rendeva quell’ufficio un luogo con personalità. Era la faccia del maresciallo, una faccia larga con uno sguardo diretto. Si capiva che tutto nella sua mente era diviso in due gruppi: quello che si può fare e quello che non si può fare. Ma non era superficiale o becero, al contrario. I due grossi gruppi mentali si suddividevano poi in sottogruppi che comprendevano quello che si deve fare, quello che si vorrebbe fare e quello che solo qualche volta si può fare. Insomma un insieme di circuiti in cui scorrevano i suoi pensieri senza però mai entrare in conflitto. «Ma voi cosa ne pensate? Io non credo sia una cosa tanto normale avere un buco nel lago. Ma avete sentito i ragazzini come lo chiamavano? The hole. Che poi con la cantilena che hanno non suona come una parola americana ma come un’esclamazione delle valli: dèholee. Tra non molto arriveranno giornalisti e tecnici inviati e la pace del paese sarà andata a ramengo.» Noi lo guardavamo mentre andava avanti e indietro. In effetti era una bella rogna. Era abituato alla tranquilla vita di un paese in riva al lago, che solo per un paio di mesi all’anno in cui si riempiva di turisti per lo più stranieri. Un po’ di balordi da tenere

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d’occhio, sempre quelli e prevedibili nelle loro prodezze e niente di più. E adesso un evento di dimensioni planetarie. Sì, il lavoro sarebbe aumentato, ma era anche curioso di vedere come sarebbe andata a finire e quale spiegazione avrebbero trovato gli scienziati. Lui era certo che il fenomeno sarebbe stato lì anche al mattino e per molto tempo ancora. L’attendente bussò con mala grazia alla porta. «Comandante, ci sono di là la Protezione Civile e la Comunità Montana e stanno arrivando quelli del Consorzio Delle Acque Interne.» Il maresciallo alzò gli occhi al cielo, ci fece segno di aspettarlo e uscì dall’ufficio. Adesso eravamo lì e ci sentivamo più ostaggi che ospiti e di fatto non potevamo uscire fino a che fosse rientrato il maresciallo. Dopo un lasso di tempo che giudicammo troppo breve per poter dormire e troppo lungo per non annoiarci, il maresciallo rientrò con un bel sorriso stampato sulla faccia. «Hanno deciso di unirsi tutti insieme per costituire uno staff di tecnici, consulenti e supervisori che abbiano un certo peso in tutto quello che succederà da adesso ai prossimi giorni.» Lo staff sarebbe stato composto da biologi, geologi, ingegneri e un certo numero di persone con una buona conoscenza del lago e delle tecniche di immersione. Non si rendevano conto che il fenomeno era di proporzioni tali da non poter venire autogestito. Avevano coinvolto anche quel tizio che attraversava il lago con il suo pontone, una barca che era una via di mezzo tra una piattaforma e un piccolo traghetto aperto. A prua aveva qualcosa che sembrava, da lontano, una torre per le perforazioni petrolifere. Magari poteva servire, chi lo sa. Ma prima o poi sarebbe intervenuto il Ministero degli Interni e avrebbe commissariato il tutto. Nel frattempo c’era ancora qualche ora per studiare il fenomeno. Occorreva un sopraluogo per vedere in prima persona di cosa si trattasse e in che cosa consistesse quel fenomeno. L’idea, lanciata da Paolo, era quella di prendere un’imbarcazione e andare sul posto. La barca sarebbe stata la mia e il maresciallo, in veste assolutamente non ufficiale, ci avrebbe accompagnato. Paolo era sicuramente della partita. Detto, fatto. Con l’auto di Paolo, una grossa Audi A8, abbiamo attraversato il paese facendoci largo tra la gente e dopo un breve tragitto siamo arrivati alla caletta in cui era ormeggiata Nausicaa.

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La barca, che sebbene datata era stata nell’arco degli anni equipaggiata con strumentazioni molto utili alla raccolta di dati anche a elevate profondità, era in grado di rilevare il fondo con una scansione abbastanza larga, di rilevare velocità e temperatura delle correnti fino a una profondità di centocinquanta metri, prelevare campioni e fare riprese subacquee sia dalla chiglia dotata di telecamere e fari, sia in profondità utilizzando un robot teleguidato. Quest’ultimo disponeva di un braccio meccanico che consentiva elementari operazioni. Saliti a bordo dell’imbarcazione, che era ormeggiata in una rada fuori dal paese, lo liberammo dagli ormeggi. Accesi i due entrofuoribordo da centottanta cavalli ciascuno e partimmo a luci spente e a bassa velocità. Mentre ci avvicinavamo al luogo del fenomeno, tutti e tre vicini alla plancia con i volti appena illuminati dal basso dalle luci verdognole degli strumenti che ci davano un aspetto spettrale, rimanemmo per un po’ in silenzio. Tenevo i motori a una velocità e un’inclinazione tali da produrre pochissima scia e allungai parecchio il tragitto per non incrociare altre imbarcazioni. La luce del giorno diventava di minuto in minuto sempre più intensa e il suo colore livido e freddo dava una strana atmosfera al tutto. Ormai eravamo completamente visibili e lo era anche lo strano dislivello che si era formato nel lago. Si trattava di un cerchio perfetto, per quanto si poteva vedere dalla nostra prospettiva a pelo d’acqua. Il diametro era valutabile in circa ottocento metri e il dislivello era di circa settanta centimetri, quindi se il pescatore aveva valutato bene la profondità, questa era aumentata nell’arco di pochissime ore. Era un avvallamento, una depressione e la distanza tra una quota e l’altra era più o meno di mezzo metro in cui l’acqua era in pendenza. È un fenomeno che alcune volte si può verificare in determinate condizioni come ad esempio in località Lecco, Ponte Visconteo. Chi naviga dall’Adda al lago si accorge di avere un tratto, proprio sotto il ponte, in cui si naviga in salita superando un dislivello di novanta centimetri. Ma il principio non è applicabile a quello che avevamo di fronte. Qui era proprio un’altra cosa. Rompendo il silenzio per primo, Paolo si abbandonò a esclamazioni di stupore. Lo seguì a ruota il maresciallo. Non si era mai vista una cosa del genere. C’erano stati tanti fenomeni sul lago, e tante leggende. I vecchi narravano storie che raccontavano i vecchi a loro quando erano bambini, in cui il lago era un’unica lastra di ghiaccio e per tutto

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l’inverno la gente lo attraversava a piedi o addirittura con carri trainati da buoi. Si dice che quella volta, proprio un carro con i buoi che attraversava il lago di Oggiono, anch’esso ghiacciato, fosse sprofondato nell’acqua gelida e, sebbene fossero state calate lunghe corde con ramponi alle estremità, non si trovò nulla nonostante la modesta profondità. Solo alla primavera successiva furono trovati i corpi dei buoi con ancora attaccato il carro, ma il ritrovamento si disse che avvenne nel lago di Lecco. Se tale storia fosse vera darebbe conferma ad alcune teorie che vogliono i laghi di Lecco, Annone, Oggiono e Pusiano collegati da condotti naturali sotterranei. Altre leggende e storie di paese periodicamente facevano del lago la dimora ideale per draghi e serpenti lacustri. Si narra anche del ritrovamento di poveri corpi conservati quasi perfettamente recuperati dal lago. Forse grazie alle bassissime temperature delle acque, che mantenevano le loro vittime in uno stato di limbo quasi per l’eternità. Ebbe risonanza il caso in cui dalle acque riemerse, dopo una stagione particolarmente secca, un intero mammut. Stranamente o molto prevedibilmente non è reperibile alcuna foto del grande evento, per non parlare del mammut stesso, misteriosamente e segretamente portato via da qualche museo di scienze naturali e attualmente in qualche scantinato non accessibile dal pubblico. Ci sono anche avvenimenti più recenti risalenti al secondo conflitto mondiale, con tutta una serie di variabili ma senz’altro più verificabili. Ma nessuno di questi racconti accennava mai e in nessun modo anche solo simile a quanto stava accadendo al lago in quel frangente. Le acque erano appena increspate ed era un piacere navigare, veniva voglia di dare manetta ai motori e farsi un giro senza una meta precisa, invece stavamo procedendo con cautela per raggiungere il sito dell’evento. Già alla partenza dal nostro pontile si intravedeva la depressione in mezzo al lago. Pensai a quante volte lo avevo attraversato in lungo e in largo con la mia famiglia a bordo, e ora con i suoi lati oscuri non era più il nostro lago ma quasi un estraneo, anzi la sensazione era che fosse affetto da una malattia. Una grave malattia che lo stava sfigurando, forse per sempre. Quella anomalia, messa lì nel bel mezzo del lago, era una presenza inquietante e potevamo ben immaginare che paura dovessero avere provato i pescatori che l’avevano rilevata, considerando anche il fatto che la scoperta era avvenuta di notte. Il povero Gino era stato quasi eroico nel suo tornare da solo a verificare la consistenza del fenomeno.

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Mentre ci avvicinavamo si poteva vedere sempre più distintamente lo strano dislivello, e pareva anche superiore a quanto avevano riferito. Noi non fummo temerari come Gino, Guglielmo, Roberto e gli altri pescatori. Ci fermammo una ventina di metri prima del salto di quota, e già ci sembrava di essere troppo vicini. Fermammo i motori e rimanemmo a guardare lo strano spettacolo. Con dei buoni binocoli godevamo comunque di una visione perfetta del fenomeno. Il limite del cratere o The hole, come lo chiamavano i ragazzi, era veramente netto, l’acqua in un certo punto era come piegata e diventava un piano inclinato per circa mezzo metro, poi tornava in piano ma settanta centimetri più in basso. Il movimento dell’acqua era quello che c’era sul resto del lago. Intendo dire che non aveva un suo movimento indipendente, neppure nella zona inclinata. Era veramente inspiegabile. Inoltre, e questo forse lo udivamo solo noi perché avevamo i motori spenti, c’era un rumore di fondo difficile da spiegare. Era più un vibrazione che non un suono vero e proprio, ricordava quello che nei film attribuiscono ai campi magnetici. Non era piacevole e sembrava di preludio a qualcosa di sinistro. Io nel frattempo avevo acceso gli strumenti di bordo e stavo registrando la velocità del vento, della corrente sotto di noi, delle temperature esterne e in immersione. Avevo inoltre attivato le telecamere subacquee poste lungo gli scafi. Provammo a gettare in acqua un paio di parabordi per vedere se venivano catturati dal cratere, ma se stavamo tranquilli a mollo fino a che non ci vennero restituiti dal lieve venticello che spirava verso di noi. Era proprio vero. Tutto quanto aveva raccontato Gino era lì da vedere, non c’erano inganni o effetti speciali. Il lago aveva un buco. Punto. Adesso qualcuno avrebbe dovuto spiegarci perché, e pur non essendo noi degli scienziati, a nostro giudizio sarebbe stato molto difficile trovare una ragione valida. Di fenomeni strani sul pianeta Terra sicuramente ce n’erano molti, ma questo era lì nel bel mezzo di un lago tra i più famosi e frequentati del mondo. Non si poteva archiviare come caso inspiegabile e basta. Non eravamo in Siberia o nel deserto australiano. Questo, tra poco, sarebbe stato sotto gli occhi di tutti e avrebbe cominciato a chiedere, urlando, spiegazioni. Il cellulare del maresciallo cominciò a suonare e, data la tensione del momento, per poco non finivamo in acqua, visto che eravamo tutti sporti nel tentativo di essere il più vicini possibile al cratere. Fu una sequenza di telefonate, durante le quali, alternativamente, impartiva

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ordini ai subalterni e ne riceveva dai superiori, e così fu per tutta l’ora che seguì. Noi nel frattempo non ci stancavamo di osservare il cratere, e cercavamo di individuare la sorgente di quel particolare suono. Non si capiva se provenisse dal fondo del lago, ma veniva senza dubbio dalla zona del cratere. Anche perché allontanandoci da questo il suono si attenuava per riprendere quando ci avvicinavamo. Quando finalmente ebbe un attimo di pace, il maresciallo ci disse che tra non molto sarebbero scese in campo ben altre forze e che era meglio che rientrassimo. Evidentemente la notizia era arrivata molto in alto e non poteva più trattarsi di un curioso fenomeno di paese. La cosa era di interesse nazionale e il Governo stesso se ne sarebbe occupato. L’alleanza tra Comunità Montana, Protezione Civile e Consorzio Acque Interne sarebbe durata molto poco, o meglio avrebbe contato molto poco. Mentre il maresciallo era assorto nei suoi pensieri, io e Paolo stavamo pensando a come organizzare un sopraluogo proprio sopra il cratere. Paolo, che era sempre pronto a trovare l’aspetto ludico di ogni vicenda, proponeva di utilizzare uno dei suoi elicotteri radiocomandati per sorvolare il cratere e fare delle foto. Era una cosa fattibilissima, lui aveva già un aeromodello attrezzato con fotocamera digitale e avevamo già effettuato esperimenti del genere, anche se in condizioni diverse. La peggior cosa che potesse capitare era di perdere l’aeromodello, ma Paolo era disposto al sacrificio supremo. Detto fatto, rientrammo a tutta velocità. Ormai non c’era più molto tempo per i nostri esperimenti empirici, stavano arrivando “quelli” che facevano sul serio e noi avremmo avuto una sola occasione per tornare sul sito. Poi sarebbe stato tutto tabù. Il maresciallo si fece sbarcare al pontile di fianco al porticciolo e già un’auto di servizio era lì ad attenderlo. «Mi raccomando» ci disse «non fate cazzate e fate in fretta. C’è già su un ricognitore che scatta foto dall’alto e non vorrei che ci foste anche voi nei fotogrammi.» Era un buon consiglio e se proprio dovevano fotografarci, dovevamo ricordarci di sorridere. Ci staccammo dal pontile e di corsa andammo a casa di Paolo. Casa sua era proprio sul lago, non vicino al lago, ma sul lago. Mi accostai alla spiaggetta sotto casa sua e lui con un balzo fu giù, girò dietro alla casa per accedere alla scala che portava all’abitazione e scomparve.

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Io nel frattempo controllai lo stato dei serbatoi di carburante attraverso gli strumenti, che però non davano delle letture affidabili. Gli aghi degli strumenti non si fermavano su una lettura, ma continuavano a spostarsi segnando alternativamente il pieno o la riserva. Confidai nel fatto che avevo fatto rifornimento il giorno prima e che l’unica uscita era stata questa. Dato il suo consumo e la capacità dei due serbatoi, dovevo avere ancora un’autonomia di dodici ore a media velocità. Paolo tornò con un grosso modello di elicottero e il radiocomando a tracolla, e un sorriso largo che stentava a non aprirgli la faccia in due. «Dai, salta su che ormai è pieno giorno.» Lui si arrampicò, impacciato dall’elicottero, fino al ponte di Nausicaa, poi gli diedi una mano a issare a bordo il materiale. Il tempo di sistemarlo al sicuro e partimmo veloci come il vento. Per tutta la durata del tragitto, Paolo fu alle prese con il suo Bell 206; aveva scelto quello più grosso e potente della sua collezione. Dopo una rapida valutazione dei fatti aveva scartato i modelli elettrici, sia per l’autonomia più breve che per le componenti elettriche. Non che non ce ne fossero in un motore a scoppio, ma erano di minor peso in una situazione che forse presentava campi magnetici. Anche la nostra imbarcazione aveva componenti elettriche ed elettroniche, e non erano state disturbate, a parte gli strumenti del livello dei serbatoi. Il problema forse sarebbe stato il sorvolo stesso del cratere. Poteva darsi che il radiocomando perdesse l’apparecchio. Questo forse era il rischio più grosso, comunque limitato a un modellino, anche se lungo novanta centimetri. Paolo si diede da fare per sistemare l’elicottero sul ponte in una zona relativamente sgombra da strutture. Quando raggiungemmo il luogo che ci sembrava ideale per il decollo del Bell 206, spensi i motori. Nausicaa era lì ferma, quasi immobile sul lago piatto. Era la piattaforma ideale per far decollare l’elicottero. Paolo accese gli interruttori sull’elicottero, poi quelli sul radiocomando e diede “start”. Una scala di led si accese sul radiocomando nella sua parte più bassa, e uno sulla carlinga dell’elicottero. Un piccolo motore elettrico fece partire quello a scoppio e il rotore principale cominciò a girare. Il rumore era piuttosto forte e dal basso veniva soffiato con violenza un filo di denso fumo bianco. Paolo diede mano a un manettino con il pollice e la scala di led sul radiocomando si illuminò ulteriormente e contemporaneamente il rotore prese a girare più velocemente, sempre più velocemente. Quando ebbe raggiunto un regime elevato e costante, Paolo lo lasciò scaldare per un

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minuto; in realtà era troppo poco ma non avevamo altro tempo. Un’altra pressione verso l’alto del pollice sul manettino e i giri del rotore, che sembravano già al massimo, aumentarono violentemente trasformando il forte rumore in un urlo. E l’elicottero si staccò dal ponte. Si alzò di poco, poi ruotò di novanta gradi, si alzò di circa un metro, abbassò il muso e si diresse verso la sua meta. Paolo era proprio bravo nel pilotarlo. Ero convinto che sarebbe stato in grado di guidarne uno più grosso, non dico volutamente “vero” perché già una volta lo avevo visto avere un’accesa discussione con un tizio sulla questione del grosso e del vero. Paolo, e anch’io, sosteneva che un aeromodello in grado di volare e compiere tutte le azioni che in volo può compiere un elicottero con a bordo del personale, è un elicottero vero, solo più piccolo e senza gente a bordo. Il giocattolo è un’altra cosa. Anche l’aviazione militare utilizza degli aerei un po’ più piccoli e senza personale a bordo e radiocomandati per le ricognizioni fotografiche, ma non li chiama giocattoli, li chiama aerei senza pilota. Chiarito questo, Paolo si mostrava molto competente. Utilizzava un radiocomando a sei canali che consentiva al modello di salire e scendere, di ruotare su se stesso su un lato e su un altro, di avanzare e indietreggiare e di traslare di fianco, a destra e a sinistra. Sono poi questi gli spostamenti che può effettuare un elicottero con pilota. Un settimo canale era stato aggiunto per una telecamera ultraleggera che trasferiva le immagini su un hard disc remoto. Ora l’elicottero era sul bordo del cratere a un’altezza di circa quattro metri. Paolo lo teneva fermo a punto fisso e osservava nel suo piccolo monitor quanto inquadrava e registrava la telecamera. Poi lo fece scivolare di lato in modo da seguire per un po’ il bordo del cratere, quindi lo mandò con decisione verso il centro dello stesso. L’elicottero si muoveva rapidamente, a poche decine di centimetri dalla superficie dell’acqua con il suo getto di fumo bianco e sotto di sé scorreva veloce la superficie del lago ribassato. Paolo era intento a governare l’aeromodello e monitorare quanto inquadrava la telecamera, quando d’un tratto l’immagine sul monitor da tre pollici scomparve. Alzò di scatto lo sguardo per vedere l’elicottero da cui era scomparso anche il frastuono. Infatti non c’era più né il rumore né l’elicottero. Il cratere era vuoto, come se non ci fosse stato mai nessun elicottero, era scomparso anche il fumo che seguiva il velivolo. «Ma tu hai visto dove è finito?» Io non stavo guardando altro che l’elicottero, a differenza di lui che armeggiava con altre cose, e avevo visto benissimo che di punto in

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bianco era scomparso. Anzi, era veramente come se non ci fosse mai stato. Come se da un filmato fossero stati tolti dei fotogrammi. Rimanemmo ammutoliti e Paolo non scoppiò a piangere per orgoglio. Era stata una doccia fredda, come a un bambino a cui scoppia il palloncino. Prima c’era e poi non c’era più. «Ma dov’è finito? Non può essere scomparso nel nulla. Ho visto bene, non è precipitato, semplicemente non c’è più.» Era successo quando Paolo aveva fatto cambiare quota al modello, intendeva farlo volare sfiorando quasi la superficie dell’acqua per cercare di filmare sotto il pelo dell’acqua. Aveva montato delle lenti polarizzanti e se c’era qualcosa là sotto, forse si sarebbe riuscito a vederlo. Ma mentre si stava dirigendo verso il centro era scomparso di colpo. La cosa non prometteva nulla di buono. Bisognava anche dirlo rapidamente a qualcuno, al maresciallo. Ma anche l’elicottero dei carabinieri aveva sorvolato il cratere, e non era successo nulla. Forse perché a una quota più alta o forse era una questione di massa. Noi pensammo bene di accendere i motori e rientrare rapidamente a riva. Non riuscivamo a spiegarci quanto era accaduto. Il cratere poteva rappresentare un serio pericolo e andava decisamente vietata la navigazione sul lago. Certo, era già stata data questa disposizione, ma era assolutamente preventiva non si sa per quali evenienze. Ma ora il motivo, o uno dei motivi, si conosceva. Presi il cellulare dalla tasca dei pantaloni posta sulla coscia e chiamai il maresciallo. Niente, la linea era occupata. Probabilmente tutto il paese stava chiamando tutti, con il risultato di intasare le linee e non riuscire più a telefonare. Oppure era un disservizio voluto per tentare di arginare la notizia del cratere. Ma per quanto avrebbero potuto insabbiare la cosa? Un’ora, forse due o tre al massimo, non di più, e poi sarebbe stato il caos. Si sarebbero dovute bloccare le strade di accesso al paese e al lago in genere e mettere tutto il Lario in uno stato di quarantena. Ci aspettava un bel periodo di ristrettezze. Ormai eravamo arrivati all’attracco di Nausicaa. La ormeggiammo velocemente ma con cura e ci dirigemmo a casa di Paolo. Prima di allontanarci, rimossi l’hard disc dall’imbarcazione e me lo infilai in un tascone del giubbotto. Paolo invece, un po’ mogio, riportò a casa il radiocomando dell’elicottero; se non altro al suo interno era alloggiata la memoria delle riprese effettuate dalla video camera a bordo del velivolo. La casa di Paolo era poco distante e ci vollero pochi minuti in

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auto per raggiungerla. Parcheggiammo praticamente sul tetto della sua abitazione e poi, per raggiungerla, scendemmo fino quasi al livello dell’acqua. Più tardi avremmo passato al setaccio tutto il materiale, nella speranza di vedere qualcosa di anomalo. Anche i telefoni fissi erano fuori uso. Ciò confermava in parte i nostri sospetti. Avremmo avvertito il maresciallo di persona non appena fossimo rientrati in paese. Per adesso poteva aspettare, tanto di barche sul lago non se ne vedevano. Ormai erano le sette del mattino, io mi davo da fare sul portatile di Paolo. Non avevo intenzione di visionare tutto il materiale raccolto, giusto controllare che i sistemi avessero funzionato e fosse stato registrato qualcosa. I diagrammi delle temperature e delle correnti erano assolutamente allineati ai valori di riferimento del lago in quella stagione. Nulla di anomalo, andammo a vedere le registrazioni. Le quattro telecamere montate in prossimità delle prue e delle poppe erano delle Sony ad alta definizione e con funzione notturna abbinata a proiettori infrarossi. Il tutto era alloggiato in una palpebra di plexiglass dimensionata per resistere anche a urti di modesta entità. Caricai i filmati e cominciammo a farli scorrere. Erano di una noia mortale. Le immagini erano monocromatiche e prive di qualsiasi cosa che potesse attirare l’attenzione, solo di tanto in tanto un cavedano veniva per qualche istante inquadrato e alcuni fotogrammi erano confusi come se fossero stati attraversati da una scarica elettrica o un disturbo di qualche genere. Forse era vera l’ipotesi del campo magnetico. In definitiva nulla di fatto, del resto cosa ci aspettavamo di trovare? il ritratto dello scienziato pazzo che fa i buchi nel lago o quello del mostro del lago? Mancavano le scansioni dell’ecoscandaglio. Peccato, sarebbero forse state interessanti, ma sfortunatamente lo strumento non era stato attivato. Non so cosa avrebbero potuto dire le scansioni, perché il fondo del lago era sicuramente immutato, ma davanti a simili eventi qualsiasi dato in più poteva essere interessante. Era nella metodologia standard raccogliere tutti i dati, anche i meno importanti in apparenza. Mollammo tutto e ci dedicammo alla colazione. Decidemmo di regalarci un paio di ore per noi. Improvvisammo un brunch con uova, prosciutto, spremuta, pane tostato e caffè, e poi un brevissimo sonnellino sul mega divano di Paolo.

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Sua moglie e suo figlio erano via e lui era padrone della casa, e si vedeva. Era uno schifo. L’unico ambiente in ordine era la cucina, o perlomeno lo era stato fino a quel momento, perché Paolo pranzava e cenava fuori. Tutto il resto era un campo di battaglia dopo una disfatta. Ma poco importava per dormire un’oretta. Dopo che ci fummo sfamati a sufficienza, mentre ci scambiavamo delle impressioni sugli eventi e scandagliavamo i programmi TV per vedere se qualche canale accennasse al fenomeno, crollammo sul divano. Il risveglio avvenne per una serie di colpi alla porta. Giungevano da lontano, come ovattati da pareti di materassi, ma in realtà provenivano proprio dalla porta ed erano attutiti solo dal nostro profondo sonno. Quando riemergemmo alla superficie dello stato di veglia, tentennai ancora un po’ ad alzarmi, pensando che non era educazione andare ad aprire la porta di una casa che non fosse la mia. Paolo, in qualità di padrone di casa, andò a vedere chi fosse e io gli coprii le spalle con un trinciapolli che avevo preso in cucina. Sicuramente non era un ladro per fare tutto quel baccano, ma forse era un pazzo omicida o il mostro del cratere. Era stato un sonnellino breve e ricco di incubi, il mio. Complici le uova e la vista del lago che si poteva ammirare dalle vetrate. Nel mio incubo il cratere si era trasformato in un buco nero che risucchiava tutto il lago dentro di sé, e poi la Brianza e poi la Lombardia e l’Italia intera e poi il mondo. Fortunatamente al nostro risveglio il pianeta, per il momento, era ancora tutto intero. Invece di un pazzo omicida, alla porta c’era il maresciallo e un appuntato che cercavano di svegliarci. C’erano delle grosse novità, il paese era invaso da truppe e funzionari governativi. Stavano imponendo nuove regole a tutti, scavalcando il sindaco, la giunta e chiunque non facesse parte del ministero degli interni. Il maresciallo era a disagio e preoccupato. Aveva bisogno di supporto morale, e forse anche di dormire qualche ora e mangiare qualcosa. I suoi occhi corsero al tavolino del salotto ancora imbandito e ne approfittò per riempirsi la pancia. Mangiò con una voracità veramente impressionante. Forse pensava che non si sarebbe saputo quando sarebbe stato il prossimo pasto. Con due parole congedò l’appuntato che lo aveva portato fin lì con l’auto di servizio, e gli disse che sarebbe rientrato con noi. Questo voleva dire che dovevamo interrompere la siesta e tornare in paese con lui.

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Dopo che il maresciallo si fu abbuffato come si deve, uscimmo di casa. Nel frattempo una motovedetta stava pattugliando il lago di fronte a noi, scoraggiando qualsiasi tentativo di uscire con le barche. Probabilmente la nostra fu l’ultima barca civile a navigare su quel tratto di lago. Il resoconto del nostro esperimento aveva molto impressionato il maresciallo, ed era contento che la motovedetta incrociasse lì davanti, ma bisognava avvertire il suo equipaggio dei nuovi sviluppi. La scomparsa del nostro elicottero poteva aprire nuovi scenari sul mistero del lago, ed era un argomento in più su cui avrebbero dovuto fare luce i cervelloni che sarebbero arrivati sul posto. Una volta saliti sulla A8 di Paolo, il maresciallo ribadì la presenza di forze armate in paese. L’esercito stava mandando uomini e mezzi sul lago e la stessa cosa la stava facendo la marina militare. Avevano scelto come campo base proprio il nostro paese e, se da una parte ne eravamo lusingati, dall’altra ne eravamo preoccupati. Molta gente da gestire, le loro libere uscite avrebbero scombussolato non poco il tran tran della normalità. Ma quanto meno, se The Hole rappresentava un pericolo, era meglio avere il settimo cavalleggeri sotto casa. A proposito di casa, la mia era ancora aperta e non ero sicuro di riuscire a passare entro breve. Pregai il maresciallo di mandare qualcuno a pattugliare casa mia, e lui mi assicurò che non solo avrebbe mandato qualcuno a fare dei controlli, ma avrebbe lasciato un’auto con due militari proprio fuori dall’abitazione, togliendoli da quella sciocchezza che era il cratere nel lago, con la raccomandazione di dare una pulitina e una spolveratina a tutto l’appartamento e, se avanzava un pochino di tempo, potare le piante del terrazzo. OK, bastava dire di no. Con questi sviluppi si era sancito che il fenomeno era del nostro paese, come era del resto sembrato fin dall’inizio, nonostante si fosse manifestato in mezzo al lago e quindi se ne poteva attribuire la “proprietà” a uno qualunque dei paesi di qua e di là del lago. Ma il primo a segnalarlo era stato un nostro paesano, e la prima operazione per capire quanto fosse grande e fatto come, era stata lanciata dal capo flotta che era sempre del nostro paese. Ben presto lo staff appena costituito avrebbe avuto il ben servito. Le forze armate non gradivano intromissioni di civili, e per non creare eccessivo mal contento avrebbero relegato tutti a mansioni di osservazione e monitoraggio. Il maresciallo ci aggiornò anche sulla situazione dei media.

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«Stamattina, intendo mentre voi giocavate con l’elicottero e vi abbuffavate come pitoni, ho comprato praticamente tutti i giornali in edicola. Niente. Nessuna testata ha fatto neppure il minimo accenno a quanto sta succedendo qui. Evidentemente sono riusciti a imbavagliare la stampa. Devono esserci in gioco poteri di cui non abbiamo idea.» «Sapete cosa penso?» Sebbene nessuno gli avesse dato una risposta, il suo parere ce lo diede lo stesso. «Penso che in tutta questa storia, che mi piace sempre meno, noi contiamo quanto delle caccole, e quei bei tipi del governo che stanno arrivando si sentiranno autorizzati a darci ordini. Vedrete se non ho ragione. È esattamente come quella volta, cioè no, non esattamente perché una cosa del genere proprio non si era mai vista, ma insomma come quella volta che…» Ormai era partito a ruota libera. Era uno di quei rari casi in cui, al posto di essere il comandante di una caserma dei carabinieri, sembrava un uomo qualsiasi che si lamentava del governo e delle istituzioni, e sarebbe andato avanti ancora un bel pezzo, fino a che non avesse tirato fuori dal gozzo tutto quanto aveva dentro. Era una di quelle situazioni in cui veniva minato il suo potere, anzi ancora peggio. Non veniva considerato, e questo lo faceva imbestialire ancor di più di uno scontro sulle competenze. La casa di Paolo, da cui eravamo partiti, era sul confine del comune, oltre casa sua c’era una breve galleria e poi si entrava in un altro comune. Per raggiungere il paese vero e proprio occorreva fare un tratto di strada praticamente senza nessun fabbricato. Un tratto di strada che costeggiava il lago, in quel punto a strapiombo. Dopo un paio di ampie curve si arrivava all’ospedale, poi lentamente il numero dei fabbricati aumentava e si arrivava al lungo rettilineo che portava al paese vero e proprio, ed era lì che era stato costituito un posto di blocco.

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Capitolo II

Le ricerche Non erano carabinieri, ma l’esercito. Più di un posto di blocco sembrava un check point. Proprio lì, dove nel periodo festivo natalizio troneggiava una grande candela come addobbo, ora c’era un mezzo blindato di traverso sulla strada e a fianco una garitta circondata da sacchi di sabbia. Il tutto era stato allestito nell’ultima ora. L’aspetto era molto minaccioso e dava agli ambienti familiari un’aria estranea e di piena emergenza. Al nostro avvicinarsi due soldati armati di mitra ci intimarono l’alt e un terzo si avvicinò alla nostra auto. Guardò appena dentro all’auto e quando il suo sguardo incrociò quello del maresciallo contraccambiò il saluto militare e ci fece segno di procedere. Il suo sguardo era freddo e distaccato, come se stesse controllando un carro bestiame. Il maresciallo aveva intuito bene, da questo momento non eravamo nulla, dei numeri che si muovevano per il paese. Il nostro lasciapassare era il maresciallo, e quando finalmente fummo arrivati nel centro del paese ci sembrò di vederlo per la prima volta. Di auto civili non se ne vedevano quasi più, ovunque erano parcheggiati mezzi militari e auto blu con il lampeggiante sopra il tetto. Le persone in giro non erano i soliti paesani, ma forestieri e tutti con l’aria seria e incazzata. Dovevano far vedere che stavano facendo una cosa importante e che noi eravamo solo d’intralcio. Non considerando che questo era il nostro paese, che erano lì perché noi avevamo scoperto questo mistero e che il loro stipendio veniva dalle nostre tasche. Non potevamo che essere solidali e d’accordo con il nostro maresciallo. Attraversammo parte del lungo lago, e all’altezza dell’imbarcadero dei traghetti trovammo un altro posto di blocco, questa volta senza garrita. Il posto di blocco era costituito da un fuoristrada malamente parcheggiato di traverso che ostentava arroganza come il milite che ci stava intimando l’alt. Il giovane militare si fece avanti, staccandosi dagli altri due soldati armati, e aveva un’aria molto zelante e molto

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stronza che si ridimensionò quando vide all’interno dell’auto un carabiniere in divisa, ma non cambiò di molto l’atteggiamento con me e con Paolo. Il militare stava assaporando il suo momento di gloria ordinandoci di esibire i documenti e di scendere dall’auto. Paolo, di indole mansueta e socievole, scese dall’auto con un ampio sorriso e i documenti già in mano, il maresciallo si mise di lato e tentò di far valere il suo grado e il fatto che era il comandante della locale stazione dei carabinieri, tentò inoltre di farsi garante per noi due. Io non scesi neppure dall’auto, anzi intimai al giovane milite di declinarmi le sue generalità e di farmi parlare con il suo diretto superiore. Questi rimase per un attimo spiazzato poi si vide, dalla sua espressione demente, che stava valutando in pochi attimi se riprendere a fare lo stronzo e forse trovarsi in un mare di guai o abbassare la cresta e fare quanto gli avevo chiesto. Scelse per il suo bene. Scattò sugli attenti e declinò nome, cognome, compagnia, caserma e grado. Era un semplice caporale maggiore, come già avevo notato dai due baffi neri sulle spalline della mimetica. «Bene giovanotto» lo apostrofai «io sono il tenente di vascello in congedo Andrea Cardinali, e ora che abbiamo fatto le presentazioni portami dal tuo superiore.» Lo sguardo del militare mi sfiorò una tempia per andare a mettere a fuoco qualcosa o qualcuno alle mie spalle. Stavo per dire qualcosa quando una voce dietro di me esordì con: «Bel modo di strapazzare i miei ragazzi.» La voce era vagamente familiare ma gli mancava un nome, il tono era severo ma non offeso. Mi girai e mi trovai davanti a una persona dall’aspetto mite ma autorevole, più o meno della mia altezza e corporatura, con un sorriso divertito stampato sulla faccia. «Ciao signor questore, cosa ci fai dalle mie parti?» «Adesso sono le mie parti, visto che sono il coordinatore di Lombardia, Piemonte e Liguria.» Ci stringemmo la mano con calore davanti a Paolo, il maresciallo e il povero milite. Inutile dire che i miei amici, e ancora di più il caporale, rimasero basiti da questa conoscenza inaspettata e provvidenziale. Non mi piaceva essere considerato un numero e forse questa conoscenza poteva farci riservare se non altro il rispetto da parte di quell’orda di gente. Il super-questore mi chiese cosa stesse succedendo e la stessa cosa gliela chiesi io. Tra posti di blocco, convenevoli e pacche sulle spalle, la

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mattina era sfumata ed erano quasi le undici e mezzo. Di solito non pranzo prima dell’una e neanche sempre, ma la notte era stata lunga, insonne e piena di sorprese, per cui proposi: «Andiamo a mangiare un boccone alla “Trattoria del Ponte” e parliamone.» L’invito fu accolto con entusiasmo sia da lui che dai miei amici che ormai mi seguivano come due remore. Il caporale stronzo, invece, rimase lì a continuare a fare il suo dovere per cui si sentiva tanto tagliato. Anzi, se appena avessi potuto mi sarei prodigato per fargli fare un numero esagerato di guardie, per tutto il tempo del suo soggiorno sul lago. Entrammo nella Trattoria alle dodici in punto, accolti da un buon odore di trippa. Era bello riscoprire il piacere di mettersi a tavola a mezzogiorno. Per molte persone è uno di quegli appuntamenti inderogabili e assoluti. Qualsiasi cosa si stia facendo non è e non sarà mai più importante del pasto di mezzogiorno. La trattoria era sempre quella ma, personale a parte, tutta la gente lì seduta aveva facce nuove. Erano quasi tutti in divisa. Aviazione leggera, aviazione imbarcata, lagunari, uomini del Comsubin e militari americani erano tutti ai tavoli che mangiavano a quattro palmenti chiaccherando di argomenti che nulla avevano a che vedere con il fenomeno che stava succedendo. Passando tra i tavoli si sentivano stralci di conversazione: “Se poi la cambio subito ci rimetto pochissimo” “Se non ti richiama, richiamala tu” “Ma guarda che se gli aumenti la RAM è tutto un altro vivere”. E così via. Quella gente era dentro a quel fenomeno per lavoro, e ora non stavano lavorando per cui parlavano di altro, delle loro piccole cose quotidiane. Poi quando avessero finito il pranzo, sarebbero tornati a essere soldati pronti a dare la vita, se era necessario. Il locale era noto per la sua cucina semplice ma gustosa, e non di rado il cuoco, il buon Giampiero, si esibiva in virtuosismi di alta arte culinaria. Virtuosismi che venivano poi sedati dalla moglie Pinuccia che non riusciva a stare dietro alle ordinazioni e soprattutto ai costi. «Dimmelo, se hai intenzione di fare il grande cuoco dimmelo. Esco, cambio l’insegna e non scrivo più il menù sulla lavagna con di fianco i prezzi, ma faccio stampare i menù con i prezzi nuovi. Prendo un paio di cameriere e me ne sto alla cassa. Va bene?» Lui ce ne metteva di buona volontà per spiegarle che il suo lavoro non era un mestiere ma una missione, e ce ne metteva anche di buona

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volontà a non strozzarla. Ne avevano parlato tante volte; lui voleva cambiare il locale e trasformarlo in un salotto culinario, dove la gente potesse assaporare delle emozioni, non dei piatti. Un ambiente dove tutto fosse studiato per dare il massimo risalto alle sue creazioni. Creazioni effimere, in quanto duravano meno della vita di una farfalla, la breve durata di un pasto. Ma che lasciavano un ricordo indelebile. Rivedere un po’ tutto l’ambiente, prendere un buon architetto con la giusta sensibilità, creare la giusta atmosfera con gli ambienti ovattati, le luci che creavano penombre ai lati sala per concentrarsi quasi solo sui piatti. La tavola come un palcoscenico su cui recitavano degli assoli o dei duetti o dei piccoli cori di prelibatezze. Ma anche la Pinuccia non aveva tutti i torti. Con quel locale, che era stato di suo padre, ci avevano campato una vita, avevano mantenuto tre figli agli studi, li avevano sposati dando a ciascuno di essi un appartamento nella zona nuova. Ma era anche vero che ora forse potevano concedersi lo sfizio di lavorare non per soldi ma per amore. Altre volte si diceva che aveva lavorato troppo, e forse era il caso di andare a vedere un po’ cosa succedeva in giro per il mondo, magari con una nave da crociera. Comunque il locale era tutt’altro che brutto o squallido. Più di una sera d’inverno l’avevamo passata lì, organizzando cene tra amici nella saletta con il camino, cene alle quali poi si univa anche Giampiero. Attraversammo tutto il locale e andammo a sederci in fondo, nella zona verandata, dove avremmo potuto parlare liberamente. «È una bella gatta da pelare» disse il super-questore «un caso del genere è accaduto tre anni fa in Norvegia al largo di un tratto di costa deserto. La zona era ed è disabitata per cui la notizia non ha avuto la risonanza che sta avendo qui, ma è comunque stata una figuraccia per tutti quelli che hanno partecipato e non sono riusciti a capirci un’acca.» «Vuoi dirmi che il fenomeno è già conosciuto? Che esistono dati rilevati attorno a questo coso?» «No, non ti sto dicendo che conosciamo il fenomeno, ma solo che è già successo qualcosa di simile e che i dati raccolti in quell’occasione sono molto pochi. E poi il caso di questo lago per ora è un po’ differente» spiega «il caso della Norvegia fu rilevato da un pilota che stava sorvolando con il suo Piper Meridian una zona non abitata e un tratto di mare senza rotte commerciali o militari. IL Piper era partito da una stazione di ricerca posto nell’entroterra, allestito temporaneamente per lo studio del clima. La stazione si trovava a circa un’ora di volo dalla costa e il Piper era alla ricerca di un pallone sonda che era ricaduto, con il suo prezioso bottino di dati, forse sulla costa o forse in mare.

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Il pilota, quando aveva scoperto questa anomalia, aveva avuto il buon senso di non sorvolare troppo a bassa quota e troppo da vicino il cratere. Lo aveva invece fotografato da diverse angolazioni ed era rientrato alla base. Inutile dire che al suo rientro fu preso di mira dalle burle dei suoi colleghi che, informati via radio della scoperta, non aspettavano che il suo rientro per prenderlo in giro, fino a che le foto non furono sviluppate. Poi non risero più. Non si sa da quanto tempo la voragine fosse lì, forse una settimana o forse di più, comunque non più di tre anni e cioè dall’ultima rilevazione fotografica satellitare.» «Voragine? Cosa intendi per voragine? Qui siamo di fronte a un dislivello di sì e no settanta centimetri.» «Appunto per questo ho detto un fenomeno simile. Variano le proporzioni oppure è un fenomeno in evoluzione e anche questo potrebbe diventare una voragine. Se non sbaglio ci sono già letture diverse riguardo alla sua profondità. Quello Norvegese s’inabissava per 451 metri, cioè fino al fondo del mare sul quale si è formato. Sul fondo del cratere c’era un pezzo di fondale marino asciutto, nessuno vi si è calato ma è stato fotografato con dovizia di particolari. Le pareti del cratere dall’interno si presentano assolutamente lisce, come se qualcuno immergesse nell’acqua un bicchiere fino all’orlo ma senza farlo allagare. Con idrofoni è stato anche rilevato un rumore di fondo dal tono molto basso. I dati raccolti sono molto pochi e non ancora a nostre mani. C’era un certo riserbo sul caso ma ora che si è ripetuto qui vedremo di farci consegnare tutti i rapporti e tutte le analisi di allora. A proposito, eri tu a navigare mentre avevo ordinato di interdire la navigazione, vero?» Ci conoscevamo da troppi anni per prenderci sul serio, ma sapevamo che quando si trattava di cose serie potevamo contare l’uno sull’altro e se io ero uscito con la mia imbarcazione non era stato per morbosa curiosità. «Hai rilevato qualcosa di strano con la tua “Calypso”?» mi chiese serio ma scherzando sul nome della mia barca. In realtà si stava complimentando con me e con la mia barca ultra-equipaggiata che di solito chiamava “Nausea” storpiando il suo vero nome. «Non molto, anzi nulla di insolito. Dobbiamo ancora guardare bene il materiale raccolto, ma a una prima analisi pare sia tutto normale. Ci sono solo dei fotogrammi da analizzare meglio perché sono molto disturbati. Inoltre c’è il materiale raccolto dal piccolo elicottero che abbiamo mandato a sorvolare il cratere, ma sono pochissimi minuti di filmato.»

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«A proposito della prodezza di mandare un elicotterino a sorvolare la zona, potevate anche riportarlo a casa anziché lasciarlo là fuori a ronzare fino a che si è schiantato in acqua.» «Come dici?» Ma stava parlando del nostro piccolo elicottero? Cosa vuol dire che era là fuori a ronzare? Era scomparso e poi era riapparso? Doveva essere diventato un ben strano lago questo. Io e Paolo ci guardammo e ci ripromettemmo di parlarne più tardi tra noi. Per mezz’ora ci concentrammo sul pasto, composto da una sola portata. Infatti il cuoco si era rotto le scatole delle richieste più strane dei vari militari, specie quelli americani che pretendevano coca e hamburger, coca e bistecca, coca e chili. Aveva deciso di servire solo trippa. La decisione fu accolta con urla di gioia dagli yankees, che probabilmente non sapevano neppure cosa fosse, ma quando se la trovarono nel piatto con un’abbondante spolverata di formaggio grana e pepe, cominciarono a chiedere dei bis con applausi a scena aperta. Sempre esagerati in tutto. Dopo un bel piatto fumante di trippa, accompagnato da un buon bicchiere di rosso, si poteva vedere tutto sotto un’angolazione più favorevole. Stavamo tentando di convincerci che c’era un fenomeno da studiare, e non una tragedia di dimensioni bibliche che si stava consumando appena lì davanti a noi. Uno dei fenomeni più strani e rari del pianeta Terra stava accadendo di fronte a noi. Avevamo la possibilità di studiarlo a casa nostra e con tutto uno staff di cervelloni. Di qualsiasi cosa si trattasse, noi eravamo in prima fila allo spettacolo, però questa cosa forse non era molto tranquillizzante. Terminato il pasto, Paolo e il maresciallo si diressero ognuno per la sua strada. Paolo mi ricordò di passare da lui a riprendere gli hard disc da reinstallare su Nausicaa. Io e il super-questore rimanemmo lì mentre tutti gli avventori uscivano alla spicciolata. Il locale ora era quasi vuoto e Gianpiero e Pinuccia, con l’aiuto di una ragazza, stavano riordinando tutto. Giampiero mi passò accanto e mi sussurrò: «Fai con comodo, non preoccuparti. Quando poi avete finito, accosta il portoncino e basta.» Era qualche anno che non ci vedevamo, ma il super-questore e io eravamo qualcosa di più che semplici conoscenti. Avevamo condiviso momenti difficili delle nostre rispettive esistenze e ci eravamo stati di reciproco supporto. Quando ci conoscemmo, lui era questore a La

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Spezia e io ero lì per altri motivi, ma ben presto le nostre strade si incrociarono per un fatto di cronaca dai risvolti drammatici. Ora di tempo ne era passato ed eravamo entrambi più sereni. Lui da qualche anno viveva con una donna e aveva trovato un buon equilibrio. Grazia, così si chiama la moglie, era una donna piena di energia, anche troppa. Io in realtà avevo conosciuto prima Grazia e dopo qualche anno il suo futuro marito, ma non c’era che dire, facevano proprio una bella coppia e lui aveva trovato un po’ di pace dopo anni di vagabondaggio da una questura all’altra. «Tu sai che puoi contare sulla mia discrezione; c’è qualche altra cosa che non mi hai detto a riguardo di questo buco?» Il super-questore rimase un attimo in silenzio mentre mi osservava con attenzione, come se stesse studiando i miei lineamenti per capire se poteva andare un po’ oltre alle notizie di dominio pubblico. «In effetti non è tutto qui. Questa notizia dirompente non è arrivata a noi e a me per le vie tradizionali. Alcune volte mi capitano cose, e questa è una di quelle, che mi fanno pensare che ci siano due o più ordini di gerarchie, e che quella a cui appartengo io, pur essendo quella ufficiale, non sia l’unica e non sia sopra a qualsiasi cosa. Bada bene, non ho detto che io sono al di sopra di tutti, ma che la gerarchia a cui appartengo sia quella che termina con il capo dello stato. E ogni tanto mi sembra che ci siano delle eminenze grigie che danno disposizioni da sfere ancora più alte e internazionali. In questa circostanza in particolare, sono arrivate disposizioni non convenzionali che hanno interessato il nostro ministero degli interni e altri paesi stranieri, in particolare l’America. Una macchina organizzativa come questa non è facile da mettere in piedi in meno di due ore, e vedrai cosa ancora accadrà. Quanto ho raccontato a te e ai tuoi è quanto sono autorizzato a dire e non molto di meno di quanto sappia. Quello che posso aggiungere, e solo a te, sono cose che credo di aver capito, per cui nulla di supportato da documenti nelle mie mani ma frutto di collegamenti mentali tra avvenimenti vari in diversi luoghi del globo. Ti sembra che stia farneticando? Può darsi, ma quando vieni a conoscenza di fatti insoliti, e nel mio lavoro capita, e intendo dire di persone che non dovrebbero esistere perché non hanno un passato di nessun genere, ma che d’un tratto hanno dei fascicoli belli e pronti con una carriera irreprensibile e un passato dettagliatissimo, forse stai mettendo le mani su qualche personaggio dei servizi segreti. E poi arrivano lievi pressioni per affidare a loro incarichi per i quali c’è gente che aspetta decenni. Ti ho detto lievi pressioni, ma in realtà sono molto meno di lievi pressioni.

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Ma al contempo, per la forma in cui vengono fatte queste richieste, non sono rifiutabili. È come se qualcuno stesse disponendo sulla scacchiera dei personaggi per una partita a scacchi di dimensioni planetarie. Potrei aggiungere dell’altro ma credo che mi prenderesti veramente per pazzo.» Non avevo capito molto quanto mi aveva raccontato, ma mi aveva incuriosito, e lo ero ancora di più per quanto non intendeva raccontarmi. Provai a forzargli al mano. «Dai, prova a raccontarmi, magari insieme riusciamo a cavare un ragno dal buco.» Il super-questore esitò un attimo e poi si sbottonò e lo fece come atto liberatorio, forse l’unica persona a cui poteva raccontarlo ero io. «Quanto tenterò di raccontarti potrebbe aprirmi le porte di una casa di cura per malati mentali. Ci sono personaggi, e uno lo conoscerai tra non molto perché so che sta venendo qui, che io incontro periodicamente in occasione di eventi particolari. Ora queste persone con cui incrocio il mio destino da circa un trentennio, sono sempre uguali.» «Cosa intendi per uguali? Che sono sempre vestiti allo stesso modo o che hanno sempre lo stesso ruolo?» «No, intendo dire che hanno sempre lo stesso aspetto, la stessa età, e non è perché si colorano i capelli o si fanno il lifting, sono proprio con la stessa età di trent’anni fa. Anzi, alcune volte mettono in atto un make up per apparire più avanti con gli anni. Le donne ti sfuggono un po’ di più con la loro maestria nel cambiarsi, ma gli uomini sono mediamente più identificabili, pur cambiando nomi e aspetto. Ti sembro pazzo, vero? Ma ti assicuro che è così. Le prime volte non capivo bene, poi ho cominciato a sospettare e infine ho avuto la certezza di quanto ti dico.» Non avevo parole. Lo avevo sempre considerato una persona di raro equilibrio, e ora mi raccontava delle strane storie al limite della follia. «Non so cosa dirti, e non sono neppure sicuro di aver capito quanto mi hai detto. Ma voglio rassicurarti sulla mia discrezione. Ti prego di indicarmi, quando comparirà, questa persona che dovrebbe arrivare. Forse la vedrò con occhi diversi, alla luce di quanto mi hai raccontato.» Il super-questore era mogio sulla sedia della trattoria, era esausto, probabilmente gli era costato un grosso sacrificio lo sfogarsi con me, però era come se si fosse liberato di un peso. Ora poteva condividere il peso di quanto sapeva, o di quanto credeva di sapere, con un’altra persona. Uscimmo all’aria aperta e rimanemmo per un attimo nello slargo tra le vecchie case del centro storico. Lui era rimasto un accanito fumatore, io

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avevo smesso anni prima, ma la vista del pacchetto di sigarette attirava sempre il mio sguardo. Ero pienamente disintossicato, ma non ero un non fumatore, ero pur sempre un ex fumatore. Rimasi lì a vedere il breve rito dell’estrarre la sigaretta dal pacchetto, la breve ricerca dell’accendino nella tasca dei pantaloni, il rapido gesto che alza il cappuccio del Dupont e fa girare la rotellina che accende il gas. Un breve tiro per accendere la sigaretta, e tutto potrebbe terminare qui, tutto il resto è vizio e fa male. Raggiungemmo il campo base che era appena stato allestito passeggiando sul lungo lago. Non parlammo più delle sue confidenze e neppure del misterioso cratere, parlammo invece delle nostre famiglie e di come mi trovassi bene in questa mia nuova dimensione di provincia. Il pomeriggio trascorse tra briefing e conferenze stampa e dovetti partecipare praticamente a tutti. Ero stato arruolato dal super-questore e non c’era verso di svincolarsi. Alla stampa venivano date rassicurazioni sulle condizioni del cratere e sulle cause che avevano portato a questa anomalia. In effetti chiamarla anomalia era meglio che chiamarla The Hole. Le cause erano da ricercarsi nella sovrapposizione di certi fattori come la temperatura, le correnti e Dio sa cosa. Per un po’ sarebbe bastato a tenerli a bada, si stava tentando di minimizzare, ma era difficile giustificare la presenza di tutto quello spiegamento di forze dicendo che era per mantenere l’ordine e impedire il panico. Poi, nel tardo pomeriggio, qualcosa di intuibile ma poco percepibile venne a saturare l’aria. Era un suono basso di poco al di sopra della frequenza non percepibile dall’uomo. In effetti era già dal primo pomeriggio che i cani del paese latravano. Era un suono basso, molto basso e vibrato come generato da un campo elettromagnetico. Era quello che avevamo sentito noi, ma molto più forte, e anche in Norvegia era avvenuta la stessa cosa. Forse i due fenomeni si stavano allineando. «Senti questore, che fine ha poi fatto quel cratere in Norvegia?» «Non te lo so dire con certezza, o meglio so che si è chiuso da solo in una notte ma non so dopo quanto tempo. È per questo che abbiamo richiesto ufficialmente i dati alla Norvegia.» Il suono sembrava aumentare di intensità con il passare del tempo. Verso le ventitré si accrebbe ulteriormente. L’elicottero che a intervalli di due ore sorvolava il dislivello con le sue luci di via e un faro che dalla parte bassa della sua carlinga colpiva quasi con violenza la superficie dell’acqua, stette molto sopra il cerchio che si era formato in

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mezzo al lago, poi cominciò a percorrere la circonferenza e infine rientrò. Quando fu atterrato, il pilota si precipitò da noi a raccontare cosa aveva visto. Gli era parso che il dislivello fosse aumentato, e il sonar gli aveva confermato che il dislivello aveva superato il metro. Il briefing delle 02:38 avvenne con la partecipazione di tutti i piloti presenti, di un pool di tecnici inviato dal ministero degli interni, il coordinatore nella persona del super-questore e dal sottoscritto arruolato, consenziente o no, nell’operazione. Non nego che la cosa mi facesse molto piacere, mi permetteva di essere in prima fila a un evento più unico che raro, ma non erano stati ben definiti i miei compiti. Consulente, questa era la dicitura sul cartellino che mi era stato dato da appuntarmi sulla camicia, ed era stato aggiunto il grado militare successivo a quello con cui mi ero congedato: capitano di corvetta. Infilai il tesserino di riconoscimento nel portafoglio contravvenendo subito alla disposizione di tenerlo in vista e mi concentrai su quanto stava dicendo il relatore. Confermò che il fenomeno non era unico e che oltre a quello di cui ero stato messo al corrente dal super-questore, della Norvegia, ve ne erano stati un’altra dozzina sparsi tra il mar del Giappone, l’oceano Indiano, il Pacifico e una buona concentrazione ai poli Artico e Antartico. Tutti monitorati negli ultimi cinquant’anni e secretati con un’abile insabbiamento di qualsiasi notizia e con modifiche alle mappe satellitari. Ricerche più approfondite avevano stabilito dei “comportamenti” comuni a tutti i crateri acquatici del globo; si formavano nell’arco di poche ore e poi diventavano sempre più profondi fino a toccare il fondo degli oceani a qualunque profondità fosse. Questa fase poteva durare anche un mese. Poi la situazione si stabilizzava e rimaneva così per un tempo variabile, ma in genere più persistente in prossimità dei poli. Poi rapidamente i crateri si allagavano e tutto tornava come prima. Leggende esquimesi, degli indiani d’America e della Cina parlavano di grandi buchi nell’acqua che gli dei formavano nel mare per mettere in contatto mare terra e cielo, per usarli come portali per passare dal regno degli dei a quello degli uomini e viceversa. Forse le porte che usavano gli dei dell’Olimpo nelle loro incursioni sulla terra. Il relatore proseguì citando tutta una serie di dati sulle dimensioni, le profondità, la temperatura e il tempo. Già il tempo. Infatti questo, misurato all’interno dei crateri, era differente da quello misurato fuori, e

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questa differenza aumentava proporzionalmente alla profondità della voragine. Questo disallineamento faceva impazzire gli scienziati. Il tempo all’interno dei crateri rallentava, e questo spiegava in parte la scomparsa e la ricomparsa del nostro elicottero, ma solo in parte, o forse noi non eravamo in grado di arrivare alle giuste conclusioni. Ora un fenomeno tanto originale era capitato nel nostro paese e quindi avevamo l’occasione di studiarlo con tutto comodo e senza troppe interferenze. E per di più con un’unicità: per la prima volta l’evento non si manifestava a quota zero, caratteristica di tutti i mari, ma in un lago a duecento metri sul livello del mare. Einstein avrebbe dovuto essere qui, forse avrebbe avuto un modello matematico da applicare a questi fenomeni e sarebbe riuscito a spiegare tutto, compreso il disassamento del fattore tempo. Il relatore aveva un modo chiaro e semplice di esporre le cose, caratteristica di chi conosce bene la sua materia e sa affascinare con il proprio entusiasmo chi ascolta. Non c’era nulla di cattedratico nel suo esporre, sebbene una cattedra dovesse averla in una qualche università. Era una tipa dinamica, quasi atletica, con una dote comunicativa innata. Inoltre era una graziosissima, giovane donna. Il dottorato in fisica quantistica aveva fatto di lei la candidata ideale per coordinare le ricerche e la raccolta di dati. Qualcosa che andava ben oltre i rilevamenti empirici e grossolani che potevamo effettuare io e Nausicaa. D’un tratto capii che la questione non era più a gestione familiare con il maresciallo, Paolo, io, i volontari della protezione civile locale, i vigili del fuoco e la polizia urbana. Ora c’era il ministero degli interni, il CNR e Dio sa quanti altri enti e istituti. Forse mi conveniva arretrare di un passo, rientrare nell’ombra, tornare a casa mia e seguire tutto dal televisore. Mentre mi lasciavo andare a quelle considerazioni e guardavo, senza vedere, la gente che defluiva dalla tenda da campo adibita alle riunioni, mi sentii chiamare. «Andrea, Andrea, vieni che ti presento una persona.» Da lontano mi stava chiamando il super-questore e accanto a lui c’era quella bella ragazza che aveva tenuto l’informativa. «Ti presento la dottoressa Giorgia Micheli, mi ha pregato di presentarvi.» Le strinsi la mano sorridendole e sciorinandole il mio nome e cognome. Constatai con piacere che aveva una bella stretta di mano, decisa ma non ostentata. Dava l’idea di una persona pratica e senza compromessi. Del resto aveva a che fare con cose con cui non si poteva scendere a

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compromessi o convincere un’equazione ad arrivare a una conclusione piuttosto che a un’altra. La dottoressa Micheli si presentò semplicemente come Giorgia. «Possiamo darci del tu?» mi chiese con semplicità. «Se dovremo lavorare insieme non chiedo di meglio, e anche se non dovessimo lavorare insieme.» Avevo già cambiato idea, in un attimo pensai che doveva essere interessante lavorare con questo personaggio che mi suscitava simpatia e misi momentaneamente da parte i miei sensi di inferiorità. Giorgia e io ci trovammo subito in sintonia e finimmo col fare la colazione insieme al bar Arrigoni. Ora che la vedevo da vicino e non in atteggiamento pubblico, dovevo ammettere che era veramente una bella ragazza. Non c’era alcuna cosa nel suo abbigliamento che sottolineasse la sua femminilità, eppure questa strabordava dai suoi occhi e da ogni centimetro di pelle scoperta. Ma c’era qualcosa d’altro in lei che mi attraeva. Era un qualche cosa di tutto sommato familiare. Cercavo di immaginarmela con un altro tipo di pettinatura, vestita da tecnico di laboratorio, in divisa o in costume da bagno. Con un altro colore di capelli. Niente. Stavo scartabellando tutti i database della mia memoria, alla ricerca di quel volto e di quel modo di fare molto rassicurante per sovrapporli a un nome che non fosse Giorgia, ma l’impresa era di quelle che ti mandano in corto circuito il cervello. Per i prossimi giorni mi sarei arrovellato il cervello alla ricerca di quel nome. Sì, perché ero sicuro di averla già conosciuta in qualche altro contesto. Avevo dormito solo poche ore durante la mattinata e ne avrei aggiunta ancora qualcuna, ma non potevo cedere, dovevo aspettare ancora un po’. Giorgia mi raccontava delle sue esperienze come se fossero frutto di fortuite coincidenze e non di anni di duro lavoro, e con altrettanta grazia ed entusiasmo ascoltava le mie, anche se mentre le raccontavo mi risuonavano un po’ infantili al suo confronto. Le sue esperienze si svolgevano praticamente in tutto il mondo, era una donna senza vincoli familiari e con una vita affettiva ridotta all’osso. Non sarebbe potuto essere diversamente. Teneva corsi universitari in svariate facoltà europee e statunitensi, passava più tempo in aereo che in macchina, scriveva libri scientifici e faceva attività di ricerca, e nel tempo libero si occupava dei paesi sottosviluppati per riuscire a costruire reti idriche e organizzare scuole. Io invece… ma come facevo a mettermi a confronto con un tipo così? Le mancava la maglietta con la “S” di Superman nascosta sotto la

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camicia, o forse ce l’aveva. Se la avessi conosciuta in un altro ambiente e mi avesse raccontato queste cose non le avrei creduto, ma accidenti, era tutto vero e me lo raccontava con naturalezza e semplicità. Nessuna delle cose che mi raccontava o dei luoghi in cui era stata aveva correlazioni con me, eppure la mia ricerca continuava fino a che mi sarebbe venuto in mente un luogo o un nome rivelatori per capire dove avevo già conosciuto quella donna. Per un attimo mi venne il sospetto che ci fosse anche dell’altro nelle sue attività, ma che non me ne parlasse per umiltà. Invece non si dilungò molto sulla sua famiglia. Ne parlava come se fosse una cosa antica, qualcosa che non c’era più da molto tempo. C’era molta malinconia nel suo raccontare, o forse nostalgia per un tempo andato e felice. Non riuscii a capire che tipo di attività svolgesse o avesse svolto suo padre, ma mi lasciò capire che era in politica, anche se il termine che gli stava per scappare di bocca era “tribuno”. Evidentemente una sorta di lapsus freudiano. Ma ben strano. Aveva pochi ricordi della sua infanzia e sembravano appartenere a un tipo che non corrispondeva alla sua età. E di fidanzati non ne nominò. La sua vita affettiva e sentimentale si limitava alla sua famiglia di origine e non alla sua. Del resto, con i ritmi che aveva, avrei sfidato qualsiasi ragazzo a starle accanto. La sua attenzione tornò sulle mie attività subacquee, e pareva che ne conoscesse già parecchie. La cosa non poteva che lusingarmi ma mi chiesi anche dove e come avesse avuto tutte quelle informazioni. È vero che probabilmente qualcuno le aveva passato un dossier su di me, visto che per lavorare, anche se marginalmente, a un progetto del genere bisognava avere un passato ineccepibile, e chiunque veniva setacciato dalla sicurezza in cerca di tendenze al terrorismo o alla frode. Lo strano era che ci fosse una documentazione su di me. O forse c’era una documentazione su tutti. Un grande fratello che prendeva nota di tutte le nostre azioni. Il mio doveva essere un bel casino. Forse glielo avrei chiesto più avanti, quando fossimo entrati in maggiore confidenza. Era molto interessata anche a Nausicaa e volle che le raccontassi come era allestita. Fine anteprima.Continua...