un anarchico alla corte del re · dopo tutto, mi sbagliavo, la biologia non determina tutto e, ......

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UN ANARCHICO ALLA CORTE DEL RE

Il chimico svedese Alfred Nobel divenne famoso peraver inventato la dinamite. Nel 1888, mentre si trovavaa Cannes, morì suo fratello Ludwig ma un giornalefrancese, credendo fosse Alfred, pubblicò un necrolo-gio col titolo “Il mercante di morte è morto”. Sconvoltoper il modo in cui il mondo lo avrebbe ricordato, AlfredNobel dispose che dopo la sua morte una cospicuaparte del suo patrimonio andasse a costituire un fondofinalizzato a premiare annualmente le persone più me-ritevoli nei vari campi dello scibile umano. Oggi sonopochi quelli che ricordano Alfred Nobel per la dinami-te. Questa storia sicuramente piaceva a José Saramagoperché parla degli esseri umani, della memoria, e dicome ognuno di noi abbia la possibilità di migliorare sestesso.Di fronte al re di Svezia e a centinaia di persone che gliconferiscono il premio Nobel per la Letteratura, l'anar-chico José Saramago non ringrazia nessuno, nemmenose stesso. Perché non è lui ad aver scritto le meraviglio-se storie che popolano i suoi romanzi, non è lui ad

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averne creato i personaggi, sono quei personaggi chehanno creato lui, che lo hanno costruito, che gli hannoimpartito le lezioni più importanti della sua vita. Lui èsempre stato solo un apprendista.Nel discorso c'è tutto Saramago, il legame con le radici,l'attenzione per la memoria, l'ironia sottile, l'irriveren-za anarchica, la costante e instancabile ribellione versoil potere.José Saramago oggi non c'è più, ma ci sono i suoi ro-manzi, che non sono romanzi come gli altri. Leggerli ècome sedersi a un tavolo assieme a lui, davanti a unbicchiere di vinho tinto, e ascoltarlo raccontare.

Claudio Scaia

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L'uomo più saggio che ho conosciuto in tutta la miavita non sapeva leggere né scrivere. Alle quattro dellamattina, quando la promessa di un nuovo giorno anco-ra indugiava in terra di Francia, si alzava dal paglieric-cio e si avviava verso i campi, portando a pastura lamezza dozzina di scrofe della cui fertilità si nutrivanolui e la moglie. Vivevano di questa scarsità i miei nonnimaterni, del piccolo allevamento di maiali che, dopo losvezzamento, venivano venduti ai vicini del villaggio,Azinhaga il suo nome, nella provincia di Ribatejo. Sichiamavano Jerónimo Melrinho e Josefa Caixinha que-sti nonni, ed erano entrambi analfabeti. In Inverno,quando il freddo della notte cresceva al punto di gelarel'acqua nelle brocche dentro casa, andavano a prende-re i maialini più deboli nei porcili e li portavano nel loroletto. Sotto le coperte ruvide, il calore degli umani pro-teggeva i piccoli animali dal congelamento e li salvavada morte certa. Benché fossero persone di buon carat-tere, non era per animo compassionevole che i duevecchi agivano così: ciò che li preoccupava, senza senti-mentalismi né retorica, era proteggere il loro mezzo di

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sostentamento, con la naturalezza di chi, per sopravvi-vere, ha imparato a non pensare più del necessario. Hoaiutato molte volte questo mio nonno Jerónimo nelsuo lavoro di pastore, ho spalato molte volte la terradell'orto annesso alla casa e tagliato legna per il fuoco,molte volte, girando e rigirando la grande ruota di fer-ro che azionava la pompa, ho fatto salire l'acqua dalpozzo comunitario e l'ho trasportata a spalle, moltevolte, di nascosto dai guardiani, sono andato con mianonna, sempre all'alba, muniti di rastrello, sacco e cor-da, a raccogliere tra le stoppie la paglia sciolta che poisarebbe servita da giaciglio per il bestiame. E alcunevolte, nelle notti roventi d'Estate, dopo cena, mio non-no mi diceva: “José, oggi andiamo a dormire tutti e duesotto la ficaia”. C'erano altre due ficaie, ma quella, cer-tamente perché la più grande, perché la più antica,perché quella di sempre, era, per tutte le persone dellacasa, la ficaia. Più o meno per antonomasia, parolaerudita che solo molti anni dopo sarei arrivato a cono-scere e a sapere ciò che significava... Nel mezzo dellapace notturna, tra i rami alti dell'albero, mi apparivauna stella, e poi, lentamente, si nascondeva dietro unafoglia, e, guardando in un'altra direzione, come un fiu-me che scorre in silenzio nel cielo concavo, comparivala luminosità opalescente della Via Lattea, il Cammino

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di Santiago, come ancora la chiamavano nel villaggio.Fintanto che il sonno non arrivava, la notte si popolavadelle storie e degli aneddoti che raccontava mio non-no: leggende, apparizioni, prodigi, episodi singolari,morti antiche, risse furibonde, parole di antenati, uninstancabile rumore di memorie che mi mantenevasveglio e allo stesso tempo mi cullava soavemente.Non ho mai saputo se taceva quando percepiva che miero addormentato, o se continuava a parlare per nonlasciare a metà la risposta alla domanda che sempre glifacevo nelle pause più lunghe che volutamente mette-va nel racconto: “E poi?”. Forse ripeteva le storie per sestesso, sia per non dimenticarle, sia per arricchirle connuove vicissitudini. A quella mia età e in quel tempo dinoi tutti, è superfluo dire che immaginavo che miononno Jerónimo fosse padrone di tutta la scienza delmondo. Quando, alla prima luce del mattino, il cantodegli uccelli mi svegliava, lui già non c’era più, era an-dato nei campi con i suoi animali, lasciandomi a dormi-re. Allora mi alzavo, piegavo la coperta e, scalzo (nel vil-laggio sono sempre andato scalzo fino ai 14 anni) e an-cora con la paglia tra i capelli, passavo dalla parte colti-vata del cortile all'altra dove si trovavano i porcili, ac-canto alla casa. Mia nonna, già in piedi da prima di miononno, mi metteva davanti una grande scodella di caffè

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con dei pezzetti di pane e mi domandava se avevo dor-mito bene. Se le raccontavo qualche brutto sogno su-scitato dalle storie del nonno, lei mi tranquillizzavasempre: “Non farci caso, nei sogni non c'è niente divero”. Allora pensavo che mia nonna, nonostante fosseuna donna molto saggia, non raggiungesse le vette dimio nonno, lui che, sdraiato sotto la ficaia, con accantoil nipote José, era capace di mettere l'universo in movi-mento con appena due parole. Solo molti anni dopo,quando mio nonno già se n'era andato da questo mon-do e io ero un uomo fatto, arrivai a capire che anche lanonna, alla fine, credeva nei sogni. Altro non potrebbesignificare che una notte, sulla porta della sua poveracasa, dove allora viveva da sola, seduta a guardare lestelle maggiori e minori sopra la sua testa, avesse dettoqueste parole: “Il mondo è tanto bello, e mi dispiacetanto di dover morire”. Non disse che aveva paura dimorire, disse che le dispiaceva di dover morire, comese la vita di pesante e continuo lavoro come era stata lasua stesse, in quel momento quasi finale, ricevendo lagrazia di un congedo supremo e conclusivo, la consola-zione della bellezza rivelata. Stava seduta sulla porta diuna casa come non credo ne siano esistite altre almondo perché in essa visse gente capace di dormirecon i maiali come fossero i loro propri figli, gente a cui

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dispiaceva di andarsene dalla vita solo perché il mondoera bello, gente, e questo fu mio nonno Jerónimo, pa-store e narratore di storie che, al presentimento che lamorte lo stava venendo a prendere, andò a congedarsidagli alberi del suo orto, uno per uno, abbracciandoli epiangendo perché sapeva che non li avrebbe rivisti.

Molti anni dopo, scrivendo per la prima volta di questomio nonno Jerónimo e questa mia nonna Josefa (ho di-menticato di dire che era stata, a sentire quanti l'ave-vano conosciuta da ragazza, di una bellezza straordina-ria), ho capito che stavo trasformando le persone co-muni che erano state in personaggi letterari e che que-sto era, probabilmente, il modo per non dimenticarle,disegnando e ridisegnando i loro volti con la matitasempre in trasformazione del ricordo, colorando e illu-minando la monotonia di un quotidiano sbiadito e sen-za orizzonti, come chi va ricreando, sull'instabile map-pa della memoria, l'irrealtà soprannaturale del paesein cui ha deciso di vivere. La stessa attitudine dello spi-rito che, dopo aver evocato l'affascinante ed enigmati-ca figura di un certo bisnonno berbero, mi portò a de-scrivere più o meno in questi termini un vecchio ritrat-to (che oggi ha già quasi ottant'anni) dove compaiono imiei genitori: “I due stanno in piedi di fronte al fotogra-

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fo, belli e giovani, mostrando sul volto un'espressionedi solenne gravità che è forse timore davanti alla mac-china fotografica, nell'istante in cui l'obiettivo fisserà,di uno e dell'altra, l'immagine che mai più tornerannoad avere, perché il giorno seguente sarà implacabil-mente un altro giorno... Mia madre appoggia il gomitodestro su un'alta colonna e stringe nella mano sinistra,che cade lungo il fianco, un fiore. Mio padre passa ilbraccio dietro la schiena di mia madre e la sua manocallosa compare sulla spalla di lei come un'ala. Entram-bi calpestano intimiditi un tappeto arabescato. Il teloche serve da fondale posticcio per il ritratto mostra dif-fuse e incongruenti architetture neoclassiche”. E con-cludevo: “Doveva pur arrivare un giorno in cui avreiraccontato queste cose. Nulla di tutto ciò ha importan-za, se non per me. Un nonno berbero, venuto dal Norddell'Africa, un altro nonno pastore di maiali, una nonnameravigliosamente bella, dei genitori seri ed eleganti,un fiore in un ritratto – di quale altra genealogia puòimportarmi? A quale miglior albero potrei appoggiar-mi?”.

Scrissi queste parole quasi trent'anni fa, senza altra in-tenzione che quella di ricostruire e registrare istanti divita delle persone che mi hanno generato e mi furono

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più vicine, pensando non fosse necessario specificarenient'altro perché si sapesse da dove vengo e di qualisostanze è fatta la persona che cominciavo a essere equella nella quale poco a poco mi sto trasformando.Dopo tutto, mi sbagliavo, la biologia non determinatutto e, quanto alla genetica, dovevano essere statimolto misteriosi i suoi percorsi per essere andata tantolontano... al mio albero genealogico (mi si perdoni lapresunzione nel designarlo così, essendo tanto scarsala sostanza della sua linfa) non mancavano solo alcunidi quei rami che il tempo e i conseguenti incontri dellavita fanno staccare dal tronco centrale, gli mancava an-che chi aiutasse le sue radici a penetrare negli stratisotterranei più profondi, chi appurasse la consistenza eil sapore dei suoi frutti, chi ampliasse e irrobustisse lasua cima per farne rifugio agli uccelli migratori e riparoper i nidi. Nel dipingere i miei genitori e i miei nonnicon tinte letterarie, trasformandoli, dalle semplici per-sone di carne e ossa che erano state, in personaggi dinuovo e in altro modo costruttori della mia vita, stavo,senza percepirlo, tracciando il cammino per il quale ipersonaggi che avrei inventato, gli altri, quelli effettiva-mente letterari, avrebbero fabbricato e mi avrebberoportato i materiali e gli attrezzi che, finalmente, nelbene e nel male, nel sufficiente e nell'insufficiente, nel

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guadagno e nella perdita, in ciò che fa difetto ma an-che in ciò che è in eccesso, hanno finito per fare di mela persona in cui oggi mi riconosco: creatore di questipersonaggi, ma, allo stesso tempo, loro creatura. In uncerto senso si potrebbe anche dire che, lettera dopolettera, parola dopo parola, pagina dopo pagina, librodopo libro, sono andato, progressivamente, a impian-tare nell'uomo che ero i personaggi che ho creato. Cre-do che, senza di loro, non sarei la persona che sonooggi, senza di loro forse la mia vita non sarebbe statache un abbozzo impreciso, una promessa come tantealtre che da promessa non è riuscita ad andare oltre,l'esistenza di qualcuno che forse poteva essere stato ealla fine non è arrivato a essere.

Riesco ancora a vedere con chiarezza chi furono i mieimaestri di vita, quelli che più intensamente mi insegna-rono il duro mestiere di vivere, quelle decine di perso-naggi di romanzo e di teatro che in questo momentovedo sfilare davanti ai miei occhi, quegli uomini e quel-le donne fatti di carta e inchiostro, quella gente checredevo di guidare d’accordo con le mie convenienze dinarratore e obbedendo alla mia volontà di autore,come burattini articolati le cui azioni non potevanoavere più effetto su di me che il peso sopportato e la

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tensione dei fili con cui li muovevo.Di quei maestri il primo fu, senza dubbio, un mediocreritrattista che designai semplicemente con la lettera H.,protagonista di una storia che credo ragionevole chia-mare di doppia iniziazione (quella di lui, ma anche, inqualche modo, dell'autore del libro), intitolata Manualde Pintura e Caligrafia (ndc Manuale di Pittura e Calli-grafia), che mi insegnò l'onestà elementare di ricono-scere e accettare, senza risentimento né frustrazione, imiei limiti: non potendo né avendo l'ambizione di av-venturarmi oltre il mio piccolo orto, mi restava la possi-bilità di scavare verso il fondo, verso il basso, in direzio-ne delle radici. Le mie, ma anche quelle del mondo, semi potevo permettere un'ambizione così smisurata.Non compete a me, è chiaro, giudicare il merito del ri-sultato degli sforzi fatti, ma credo sia evidente che tut-to il mio lavoro, da lì in poi, obbedì a quel proposito e aquel principio.

Poi vennero gli uomini e le donne dell'Alentejo, quellastessa fratellanza di condannati della terra a cui appar-tenevano mio nonno Jerónimo e mia nonna Josefa,contadini rozzi obbligati ad affittare la forza delle brac-cia in cambio di un salario e di condizioni di lavoro chemeritavano solo il nome di infami, portando avanti per

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meno di niente quella vita che gli esseri colti e civilizza-ti, quali noi pretendiamo essere, usiamo chiamare, se-condo le occasioni, preziosa, sacra o sublime. Gentecomune che ho conosciuto, ingannata da una Chiesatanto complice quanto beneficiaria del potere delloStato e dei latifondisti, gente permanentemente con-trollata dalla polizia, gente, quante e quante volte, vit-tima innocente dell'arbitrio di una falsa giustizia. Tregenerazioni di una famiglia di contadini, i Mau-Tempo,dall'inizio del secolo fino alla Rivoluzione dell'Aprile del1974 che rovesciò la dittatura, si avvicendano in questoromanzo cui diedi il titolo di Levantado do Chao (ndcRialzato da terra, ma in italiano pubblicato con il titolodi Una terra chiamata Alentejo), ed è stato con tali uo-mini e donne rialzatisi da terra, persone reali prima, fi-gure di finzione poi, che ho imparato a essere paziente,a confidare e a consegnarmi al tempo, a quel tempoche insieme ci va costruendo e distruggendo per co-struirci di nuovo e un'altra volta distruggerci. La solacosa che non sono certo di aver assimilato in manierasoddisfacente è ciò che la durezza delle esperienze hatrasformato in virtù in queste donne e in questi uomi-ni: un'attitudine naturalmente stoica di fronte alla vita.Considerando, però, che la lezione ricevuta, dopo piùdi vent'anni, ancora permane intatta nella mia memo-

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ria, che tutti i giorni la sento presente nel mio spiritocome una chiamata insistente, non ho perso, finora, lasperanza di essere un po' più meritevole della grandez-za degli esempi che mi sono stati proposti nell'immen-sità delle pianure dell'Alentejo. Il tempo lo dirà.

Quali altre lezioni potrei ricevere da un portoghese cheè vissuto nel XVI secolo, che ha composto le Rime e leglorie, i naufragi e i disincanti aviti di Os Lusiadas (ndc ILusiadi), che è stato un genio poetico assoluto, il mag-giore della nostra Letteratura, per quanto ciò possa pe-sare a Fernando Pessoa, che si proclamò il Super-Ca-mões di essa? Nessuna lezione che fosse a mia misura,nessuna lezione che fossi capace di apprendere, salvola più semplice che mi potesse essere offerta dall'uo-mo Luiz Vaz de Camões nella sua estrema umanità, peresempio, l'umiltà orgogliosa di un autore che va bus-sando a tutte le porte alla ricerca di qualcuno dispostoa pubblicare il libro che ha scritto, sopportando perquesto il disprezzo degli ignoranti di sangue e di casta,l'indifferenza sdegnosa di un re e della sua corte di po-tenti, lo scherno con cui da sempre il mondo ha accoltola visita dei poeti, dei visionari e dei pazzi. Almeno unavolta nella vita, tutti gli autori hanno dovuto o dovran-no essere Luis de Camões, anche se non hanno scritto i

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versi di Sobolos rios... Tra nobili di corte e censori delSant'Uffizio, tra amori dei tempi andati e disillusioni diuna prematura vecchiaia, tra il dolore di scrivere e l'al-legria dell'aver scritto, è a quest'uomo sofferente chetorna povero dall'India, dove molti andavano solo perarricchirsi, è a questo soldato cieco da un occhio e feri-to nell'anima, è a questo seduttore senza fortuna chenon turberà mai più i sentimenti delle dame di palazzo,che io feci vivere sul palcoscenico l'opera teatrale Quefarei com este livro? (ndc Che farò con questo libro?),nel finale della quale echeggia un'altra domanda, quel-la che importa veramente, quella che mai sapremo seun giorno arriverà ad avere una risposta soddisfacente:“Che farai con questo libro?”. Umiltà orgogliosa, fuquella di portare sotto braccio un'opera prima e veder-si ingiustamente rifiutato dal mondo. Umiltà ugual-mente orgogliosa, e ostinata, quella di voler sapere acosa serviranno domani i libri che scriviamo oggi, e su-bito dubitare che riescano a durare a lungo (fino aquando?) le ragioni rassicuranti che ci vengono date oche diamo a noi stessi. Nessuno si inganna meglio diquando permette agli altri di ingannarlo.

Si avvicinano ora un uomo che ha lasciato la mano sini-stra in guerra e una donna venuta al mondo con il mi-

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sterioso potere di vedere cosa c'è sotto la pelle dellepersone. Lui si chiama Baltasar Mateus e ha il sopran-nome di Sette-Soli, lei è conosciuta col nome di Bli-munda, e anche con lo pseudonimo di Sette-Lune chele fu affibbiato dopo, perché è scritto che dove ci sia unsole dovrà esserci una luna, e che solo la presenza con-giunta e armoniosa di uno e dell'altra rende abitabile,con l'amore, la terra. Si avvicina anche un padre gesui-ta chiamato Bartolomeu che ha inventato una macchi-na capace di salire in cielo e volare senza altro combu-stibile che la volontà umana, quella che, secondoquanto si va dicendo, tutto può, ma che non ha potuto,o non ha saputo, o non ha voluto, fino ad oggi, essere ilsole e la luna della semplice bontà o dell'ancora piùsemplice rispetto. Sono tre pazzi portoghesi del XVIIIsecolo, in un tempo e in un Paese nel quale fiorivano lesuperstizioni e i roghi dell'Inquisizione, dove la vanità ela megalomania di un re fecero erigere un convento, unpalazzo e una basilica che avrebbero dovuto impressio-nare il mondo, nel caso poco probabile che quel mon-do avesse occhi a sufficienza per vedere il Portogallo,come sappiamo che li aveva Blimunda per vedere ciòche era nascosto... E si avvicina anche una moltitudinedi migliaia e migliaia di uomini con le mani sudicie ecallose, con il corpo esausto per aver eretto, per anni,

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pietra dopo pietra, i muri implacabili del convento, lesale enormi del palazzo, le colonne e i pilastri, le aereetorri campanarie, la cupola della basilica sospesa nelvuoto. I suoni che stiamo sentendo sono del clavicem-balo di Domenico Scarlatti, che non sa se deve ridere opiangere... Questa è la storia di Memorial do Convento(ndc Memoriale del Convento), un libro in cui l'appren-dista autore, grazie a ciò che gli era stato insegnato findai tempi antichi dei suoi nonni Jerónimo e Josefa, riu-scì a scrivere parole come queste, non prive di un po'di poesia: “Oltre al parlare delle donne, sono i sogniche assicurano il mondo alla sua orbita. Ma sono anco-ra i sogni che gli fanno una corona di lune, per questo ilcielo è lo splendore che c'è nella testa degli uomini, senon è la testa degli uomini il vero e unico cielo”. E cosìsia.

Delle lezioni di poesia l'adolescente sapeva già qualco-sa, appresa nei suoi libri di testo quando, in una scuolaprofessionale di Lisbona, si stava preparando al lavoroche esercitò all'inizio: quello di meccanico. Ebbe anchebuoni maestri di arte poetica nelle lunghe ore notturneche passò nelle biblioteche pubbliche, leggendo secon-do il caso degli incontri e dei cataloghi, senza orienta-mento, senza nessuno che lo consigliasse, con lo stesso

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stupore creativo del navigatore che inventa ogni luogoche scopre. Ma fu nella biblioteca della scuola indu-striale che O ano da morte de Ricardo Reis (ndc L'annodella Morte di Ricardo Reis) iniziò ad essere scritto... Lìil giovane apprendista meccanico (aveva allora 17 anni)incontrò un giorno una rivista - “Atena” era il titolo -nella quale c'erano poesie firmate con quel nome e,naturalmente, essendo un pessimo conoscitore dellacartografia letteraria del suo Paese, pensò che esistes-se in Portogallo un poeta che si chiamava così: RicardoReis. Non ci mise molto tempo, però, a capire che ilpoeta propriamente detto era un certo Fernando No-gueira Pessoa che firmava poesie con nomi di poetiinesistenti nati nella sua testa e che chiamava eteroni-mi, parola che non si trovava nei dizionari dell'epoca,per questo costò tanto lavoro all'apprendista di letteresapere cosa significava. Imparò a memoria molte poe-sie di Ricardo Reis (“Per essere grande sii unico/ Mettitanto quanto sei nel minimo che fai”), ma non potevarassegnarsi, malgrado fosse giovane e ignorante, cheuno spirito superiore avesse potuto concepire, senzarimorso, questo verso crudele: “Saggio è chi si accon-tenta dello spettacolo del mondo”. Molto, molto tem-po dopo, l’apprendista, già con i capelli bianchi e un po’più consapevole del suo sapere, osò scrivere un ro-

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manzo per mostrare al poeta delle Odes una parte diciò che era lo spettacolo del mondo in quell’anno 1936in cui gli aveva fatto vivere i suoi ultimi giorni: l’occupa-zione della Renania da parte dell’esercito nazista, laguerra di Franco contro la Repubblica spagnola, lacreazione da parte di Salazar delle milizie fasciste por-toghesi. Fu come se avesse detto: “Ecco lo spettacolodel mondo, mio poeta delle amarezze serene e delloscetticismo elegante. Sfrutta, godi, contempla, giacchéè nello star seduto la tua saggezza…”.

O Ano da morte de Ricardo Reis si concludeva con delleparole malinconiche: “Qui, dove il mare è finito e laterra attende”. Pertanto, non ci sarebbero state piùscoperte per il Portogallo, destinato a un'attesa infinitadi futuri nemmeno lontanamente immaginabili. Solo ilsolito fado e la saudade di sempre e poco più. Fu allorache l'apprendista immaginò che forse c’era ancora unmodo per mettere di nuovo le navi in acqua, peresempio spostare la terra stessa e metterla a navigarein mare aperto. Frutto immediato del risentimento col-lettivo portoghese per gli sgarbi storici dell'Europa (masarebbe esatto dire di un mio risentimentopersonale...), il romanzo che scrissi allora – A Jangadade Pedra (ndc La Zattera di Pietra) – separò dal conti-

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nente europeo tutta la Penisola Iberica per trasformar-la in una grande isola fluttuante, in movimento senzaremi, né vele, né eliche in direzione del Sud del mondo,“massa di pietra e terra, coperta di città, villaggi, fiumi,boschi, fabbriche, macchie selvagge, campi coltivati,con la sua gente e i suoi animali”, verso un'utopia nuo-va: l'incontro culturale dei popoli peninsulari con i po-poli dell'altro lato dell'Atlantico, sfidando così, a tantosi spinse la mia strategia, il dominio soffocante che gliStati Uniti d'America del Nord vanno esercitando daquelle parti... Una visione due volte utopica intende-rebbe questa finzione politica come una metafora mol-to più generosa e umana: che l'Europa, tutta quanta,dovrà spostarsi verso il Sud, al fine, e a sconto dei suoiabusi colonialisti antichi e moderni, di aiutare a equili-brare il mondo. Cioè un'Europa finalmente etica. I per-sonaggi di A Jangada de Pedra – due donne, tre uominie un cane – viaggiano inconsapevolmente attraverso lapenisola mentre questa va solcando l'oceano. Il mondosta cambiando e loro sanno che devono cercare in sestessi le persone nuove nelle quali si trasformeranno(senza dimenticare il cane che non è un cane come glialtri...). Questo gli basta.

Allora l'apprendista si ricordò che in alcuni momenti

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della sua vita aveva fatto il correttore di bozze e che sein A Jangada de Pedra aveva, per così dire, revisionatoil futuro, non sarebbe stato male se adesso avesse revi-sionato il passato, inventando un romanzo che si sareb-be chiamato História do Cerco de Lisboa (ndc Storiadell'Assedio di Lisbona), nel quale un correttore, rive-dendo un libro dallo stesso titolo, ma di Storia, e stan-co di vedere come la suddetta Storia è ogni volta menocapace di sorprendere, decide di mettere al posto di un“sì” un “no”, sovvertendo l'autorità delle “verità stori-che”. Raimundo Silva, così si chiama il correttore, è unuomo semplice, rozzo, che si distingue dalla maggio-ranza solo nel credere che tutte le cose abbiano il lorolato visibile e il loro lato invisibile, e che non ne sapre-mo nulla fino a quando non gli avremo compiuto ungiro completo intorno. Di questo precisamente si parlain una conversazione che lui ha con lo storico. Così: “Le ricordo che i correttori hanno già visto moltodi letteratura e vita, Il mio libro, glielo ricordo io, è distoria, Non essendo mio proposito evidenziare altrecontraddizioni, signor dottore, nella mia opinione tuttociò che non è vita è letteratura, Anche la storia, Soprat-tutto la storia, senza voler offendere, E la pittura, lamusica, La musica continua a resistere da quando ènata, ora va, ora viene, vorrebbe liberarsi della parola,

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suppongo per invidia, ma torna sempre all'obbedienza,E la pittura, Beh, la pittura non è più che letteraturafatta coi pennelli, Spero che non stia dimenticando chel'umanità ha iniziato a dipingere molto prima di saperscrivere, Conosce il proverbio, se non hai il cane cacciacon il gatto, o, in altre parole, chi non può scrivere di-pinge, o disegna, è quello che fanno i bambini, Quelloche sta dicendo, in altre parole, è che la letteratura giàesisteva prima di essere nata, Sì signore, come l’uomo,in altre parole, prima di esserlo già lo era, Mi pare chelei abbia sbagliato vocazione, doveva fare lo storico, Mimanca la preparazione, signor dottore, cosa può fareun uomo semplice senza preparazione, è stata già unagrande fortuna essere venuto al mondo con i geni inordine, ma, per così dire, allo stato grezzo, e poi nes-sun'altra levigatura oltre le scuole primarie che rimase-ro le uniche, Poteva presentarsi come autodidatta, pro-dotto del suo personale e degno sforzo, non c’è nessu-na vergogna, anticamente la società provava orgoglioper i suoi autodidatti, Non più, è arrivato il progressoed è finita, gli autodidatti sono malvisti, solo quelli chescrivono versi e storie di evasione sono autorizzati a es-sere autodidatti, ma io non ho predisposizione per lacreazione letteraria, Allora faccia il filosofo, Il signordottore è un umorista, coltiva l’ironia, arrivo a chieder-

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mi come si sia dedicato alla storia, essendo essa unascienza tanto seria e profonda, Sono ironico solo nellavita reale, Mi è sempre parso che la storia non fossevita reale, letteratura, sì, e niente più. Ma la storia èstata vita reale nel tempo in cui ancora non la si potevachiamare storia, Allora il signor dottore pensa che lastoria e la vita reale, Lo penso, sì, Che la storia è statavita reale, voglio dire, Non ho alcun dubbio, Che sareb-be di noi se il deleatur che tutto cancella non esistesse,sospirò il correttore”. È inutile aggiungere che l’appren-dista imparò con Raimundo Silva la lezione del dubbio.Era tempo.

Beh, fu probabilmente questo apprendistato del dub-bio che lo spinse, due anni più tardi, a scrivere O Evan-gelho segundo Jesus Cristo (ndc Il Vangelo secondoGesù Cristo). È certo, e ce l’ha detto lui, che le paroledel titolo furono il risultato di un’illusione ottica, ma èlegittimo chiederci se non sia stato il sereno esempiodel correttore quello che, nel frattempo, gli preparò ilterreno dal quale sarebbe germogliato il nuovo roman-zo. Questa volta non si trattava di guardare dietro lepagine del Nuovo Testamento alla ricerca di contraddi-zioni, ma di illuminarne con una luce radente la super-ficie, come si fa con un dipinto, in modo da farne risal-

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tare i rilievi, i segni del passaggio, l’oscurità delle de-pressioni. Fu così che l’apprendista, ora circondato dapersonaggi evangelici, lesse, come se fosse la primavolta, la descrizione della strage degli Innocenti, e,avendo letto, non comprese. Non comprese come giàpotessero esserci dei martiri in una religione che anco-ra avrebbe dovuto aspettare trent’anni perché il suofondatore pronunciasse la prima parola su di essa, noncomprese come non avesse salvato la vita dei bambinidi Betlemme proprio l’unica persona che avrebbe po-tuto farlo, non comprese l’assenza, in Giuseppe, di unsentimento minimo di responsabilità, di rimorso, di col-pa, al limite di curiosità, al ritorno dall’Egitto con la fa-miglia. Non si potrà argomentare, in difesa della causa,che fu necessario che i bambini di Betlemme morisseroperché si potesse salvare la vita di Gesù: il semplicebuon senso, che a tutte le cose, tanto le umane comele divine, dovrebbe presiedere, sta lì a ricordarci cheDio non avrebbe inviato suo Figlio sulla terra, per di piùcon l’incarico di redimere i peccati dell’umanità, per-ché morisse a due anni di età decapitato da un soldatodi Erode… In questo Vangelo, scritto dall’apprendistacon il rispetto che meritano i grandi drammi, Giuseppesarà cosciente della sua colpa, accetterà il rimorsocome castigo per l’errore commesso e si lascerà andare

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alla morte quasi senza resistenza, come se gli mancas-se ancora questo per liquidare i suoi conti con il mon-do. Il Vangelo dell’apprendista non è più, pertanto, unaleggenda edificante di beati e dèi, ma la storia di ungruppo di esseri umani soggetti a un potere contro ilquale lottano, ma che non possono battere. Gesù, cheerediterà i sandali con i quali il padre aveva calpestatola polvere dei sentieri della terra, erediterà anche il suosentimento tragico di responsabilità e di colpa che nonlo abbandonerà mai più, nemmeno quando leverà lavoce dall’alto della croce: “Uomini, perdonatelo perchénon sa quello che ha fatto”, di certo riferendosi al Dioche lo aveva portato fino a lì, ma chissà se ricordandoanche, in quell’ultima agonia, il suo padre autentico,quello che, nella carne e nel sangue, umanamente loaveva generato. Come si vede, l’apprendista aveva giàfatto un lungo viaggio quando nel suo eretico Vangeloscrisse le ultime parole del dialogo nel tempio tra Gesùe lo scriba: “La colpa è un lupo che mangia il figliodopo aver divorato il padre, disse lo scriba, Quel lupodi cui parli ha già mangiato mio padre, disse Gesù, Allo-ra manca solo che divori te, E tu, nella tua vita, sei sta-to mangiato o divorato, Non solo mangiato e divorato,ma vomitato, rispose lo scriba”.

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Se l’imperatore Carlo Magno non avesse eretto nelnord della Germania un monastero, se quel monasteronon avesse dato origine alla città di Münster, se Mün-ster non avesse voluto festeggiare i mille e duecentoanni dalla sua fondazione con un’opera su una spaven-tosa guerra in cui si affrontarono nel XVI secolo prote-stanti anabattisti e cattolici, l’apprendista non avrebbescritto l’opera teatrale che chiamò In Nomine Dei. Unavolta ancora, senza altro ausilio che la piccola luce del-la sua ragione, l’apprendista dovette penetrare nell’o-scuro labirinto delle credenze religiose, quello che videfu di nuovo la maschera orrenda dell’intolleranza,un’intolleranza che a Münster raggiunse il parossismodemenziale, un’intolleranza che insultava la stessa cau-sa che entrambe le parti proclamavano di difendere.Perché non si trattava di una guerra in nome di due dèinemici, ma di una guerra in nome di uno stesso dio.Ciechi delle loro stesse credenze, gli anabattisti e i cat-tolici di Münster non furono capaci di comprendere lapiù chiara di tutte le evidenze: nel giorno del GiudizioFinale, quando gli uni e gli altri si presenteranno a rice-vere il premio o il castigo che avranno meritato le loroazioni sulla terra, Dio, se nelle sue decisioni si appoggiaa qualcosa di simile alla logica umana, dovrà accettarein paradiso tanto gli uni quanto gli altri, per la semplice

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ragione che gli uni e gli altri credono in lui. La terribilecarneficina di Münster insegnò all’apprendista che, alcontrario di quanto avevano promesso, le religioni nonsono mai servite per avvicinare gli uomini, e che la piùassurda di tutte le guerre è una guerra religiosa, consi-derando che Dio non potrebbe, anche se lo volesse, di-chiarare guerra a se stesso…

Ciechi. L’apprendista pensò: “Siamo ciechi”, e si sedettea scrivere Ensaio sobre a Cegueira (ndc in italiano Sag-gio sulla Cecità, pubblicato col titolo Cecità) per ricor-dare a chi lo avesse letto che usiamo perversamente laragione quando umiliamo la vita, che la dignità dell’es-sere umano è tutti i giorni insultata dai potenti del no-stro mondo, che la menzogna universale ha preso il po-sto delle verità plurali, che l’uomo ha smesso di rispet-tare se stesso quando ha perso il rispetto che deve alsuo simile. Poi, l’apprendista, come se tentasse di esor-cizzare i mostri generati dalla cecità della ragione, simise a scrivere la più semplice di tutte le storie: unapersona che va alla ricerca di un’altra persona solo per-ché ha capito che la vita non ha nulla di più importanteda chiedere a un essere umano. Il libro si chiama Todosos nomes (ndc in italiano Tutti i nomi). Non scritti, tuttii nostri nomi sono là. I nomi dei vivi e i nomi dei morti.

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Concludo. La voce che ha letto queste pagine vorrebbeessere l'eco delle voci congiunte dei miei personaggi.Non ho, a ben vedere, più voce di quella che loro han-no avuto. Perdonatemi se vi è sembrato poco questoche per me è tutto.

7 dicembre 1998

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