un esagerazione di amore - istituto palazzolo · quelle sei suore non sono morte di febbre...
TRANSCRIPT
1
Alessandro Pronzato
UN’ESAGERAZIONE
DI AMORE
La vicenda delle sei suore
colpite dal virus Ebola
Ed. Gribaudi
2
Proprietà letteraria riservata
©1997 by Piero Gribaudi Editore srl
20142 Milano – Via C. Baroni, 190
ISBN 88-7152-449-7
Prima edizione: aprile 1997
Seconda edizione: giugno 1997
Terza edizione: novembre 2004
3
A tutte quelle
che sono come loro
4
PAGINA 7:
PRESENTAZIONE
Ringrazio Alessandro Pronzato per la vivace e affascinante memoria delle sei suore delle
Poverelle di Bergamo vittime del virus Ebola. Nella fretta odierna si dimentica tutto, anche i gesti
che fortunatamente ancora commuovono perché esprimono le ricchezze più profonde del cuore
umano. Ricchezze portate a compimento da Gesù Cristo. E quello delle sei suore Poverelle è stato
uno di questi gesti. Con naturalezza, coraggio e abbandono nel Signore, hanno totalmente condiviso
la povertà dei fratelli loro affidati dall’Amore crocifisso.
Con la semplicità della loro vita e della loro morte ci rammentano che la fede cristiana è lasciarsi
guidare dall’amore di Gesù Cristo nelle scelte quotidiane. E ci dicono che la vera ricchezza
dell’uomo e l’efficacia della testimonianza cristiana sono indissolubilmente legate alla possibilità di
essere immagine dell’uomo perfetto rivelato sulla Croce.
Ottima pure la collocazione della vicenda dolorosa delle suore all’interno della tragedia del
popolo zairese; tragedia drammatica, carica di enormi sofferenze, sepolta nel silenzio dei mezzi di
comunicazione e delle potenze occidentali. Così la vicenda assume contorni più precisi e più
comprensibili. E ricordandola, siamo costretti a richiamare, alla nostra coscienza assopita, il
dramma di un paese dove da troppo tempo sono violati tutti i diritti umani. Le sei umili suore
continueranno così a servire i fratelli zairesi.
Il loro rapido e sobrio schizzo biografico permette di cogliere al vivo la nascita e la crescita di
vocazioni «normali». Storie diverse ma accumunate dalla risposta generosa e gioiosa a un carisma
che propone di seguire senza riserve Cristo ignudo sulla Croce, cioè Cristo totalmente offerto al
Padre e ai fratelli.
PAGINA 8:
Leggendole diciamo grazie allo Spirito che sempre suscita testimoni dell’Amore e preghiamo
perché tanti cuori giovani scoprano dove sta il segreto della vita.
+ Roberto Amadei
Vescovo di Bergamo
Bergamo, 18 febbraio 1997
5
PAGINA 9:
AVVERTENZE PRIMA E DOPO L’USO
PAGINA 11:
È TUTTA COLPA DI UN ALTRO VIRUS
Per favore, non andate a cercare quel virus sull’enciclopedia medica. O, se proprio non sapete
resistere alla curiosità, sfogliate pure i trattati scientifici, consultate l’esperto di epidemiologia,
interpellate il virologo che vi capita a tiro, alla scoperta del famigerato Ebola.
Prima, però, dovete sapere che responsabile di tutta questa tragedia è un altro virus, ancora più
micidiale e contagioso dell’Ebola.
Quelle sei suore non sono morte di febbre emorragica virale di tipo Ebola. Molto tempo prima
erano state infettate dal virus della fede, contratto fin dalla nascita. Successivamente erano state
assalite dalla febbre della carità, inoculata nel loro organismo da don Luigi Palazzolo e madre Maria
Teresa Gabrieli.
La terra bergamasca, e in particolare il retroterra familiare, avevano contribuito a creare le
condizioni favorevoli per lo sviluppo della malattia.
La loro persona era il terreno di cultura ideale per l’assalto di altri virus, tutti comunque
appartenenti al ceppo evangelico.
Le sei suore erano sbarcate in Africa coscienti di essere «portatrici sane» del virus trasmesso da
un certo Gesù di Nazaret. Sapevano che la fede, o è contagiosa, oppure diventa vaccino che
immunizza. La loro fede era senza dubbio di tipo contagioso.
La febbre della loro carità, a contatto quotidiano con quel cumulo di miserie assortite, non si è
mai attenuata, anzi si è mantenuta costantemente su picchi elevatissimi.
Il virus Ebola ha potuto colpirle proditoriamente perché si è trovato la strada spalancata dagli
altri virus che avevano preso possesso di organismi ormai privi di difese immunitarie, malati di
amore inguaribile per i poveri.
PAGINA 12:
Per vederci chiaro nella vicenda drammatica e clamorosa di queste sei donne che indossavano
l’abito religioso, non è sufficiente leggicchiare i trattati di medicina nei capitoli dedicati alle
malattie infettive.
Soltanto aprendo il Vangelo, in particolare là dove spiega che esistono due comandamenti che
però ne formano uno solo, c’è la possibilità di capirci qualcosa, di intuire il segreto di queste morti
atroci e gloriose al tempo stesso.
6
PAGINA 13:
LA SALVEZZA STA NEL CONTAGIO
Stavolta i giornali sono stati costretti a dedicare un po’ di spazio anche a loro. Sei suore che
muoiono, una dopo l’altra, in poco più di un mese, spazzate via brutalmente da una di quelle
epidemie terrificanti che, per fortuna (si pensa, anche se non si dice), sono ormai una prerogativa
solo dell’Africa, fanno notizia.
I giornali si risvegliano e ci svegliano unicamente se c’è un pizzico di sensazionalismo, se la
vicenda possiede un risvolto inquietante (un missionario assassinato, un volontario caduto in un
agguato, un Vescovo trucidato barbaramente, un gruppo di religiosi sterminati, una suora rapita,
un’intera comunità tenuta in ostaggio...). Diversamente l’esistenza di queste persone viene
pervicacemente ignorata.
I grandi giornali devono occuparsi di grossi avvenimenti e dei personaggi (non importa se spesso
penosi) che dominano sul palcoscenico della politica, e riservano spazi avari per gli umili
protagonisti di una storia sotterranea. Dalle loro pagine vengono esclusi, sistematicamente, coloro
che, silenziosamente, fanno funzionare il mondo, ne assicurano l’equilibrio.
In questa occasione, però, queste sei suore delle Poverelle di Bergamo, occupano per un po’ di
tempo un po’ di spazio, si guadagnano qualche titolo abbastanza in vista.
Loro, sempre decisamente schive, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Erano andate laggiù per
recare la «buona notizia», non certo per fare notizia.
Comunque, gli innumerevoli distratti che popolano il nostro paese scoprono che esistono anche
loro. Che i deserti più ustionati dall’odio, dalla crudeltà, dalla ferocia, dall’ingiustizia, dalla fame,
dall’indifferenza e dagli egoismi più sfrenati, sono attraversati
PAGINA 14:
da queste modeste camminatrici e portatrici di un Vangelo di pace, di fraternità, di compassione.
In una società in cui tutti cercano di affermarsi, imporsi all’attenzione e all’ammirazione,
accumulare applausi, denaro, popolarità e voti, scannarsi a vicenda (magari con parole cariche di
violenza), loro hanno accettato di «perdersi», scomparire, piazzarsi dalla parte degli offesi, dei
piccoli, dei calpestati, dei senza voce, dei perdenti, di coloro che, in ogni caso, escono sempre
sconfitti. Disposte a percorrere fino in fondo una strada di fedeltà nascosta, di oscurità, in nome del
Vangelo annunciato e manifestato, attraverso le loro vite «perdute», ai poveri.
Un’oscurità e un silenzio squarciati soltanto, qualche volta, dal lampo di una fucilata assassina,
dal balenio di una lama proditoria, oppure dal livido bagliore di una morte atroce, che le consegna
alla nostra memoria e ai nostri rimorsi, grazie alla notizia «sparata» dal giornale.
Ma c’è fretta di chiudere, prima ancora che l’ultima bara venga deposta nel grembo di quella
terra rossastra.
Le abituali futilità, gli scandali regolari, il teatro dell’apparenza, le dichiarazioni chiassose dei
noti cialtroni, le rappresentazioni comiche (e tanto più comiche quanto più seriose e perfino
7
«filosofiche»), incalzano e chiedono prepotentemente di riavere tutto lo spazio che gli compete,
esigono gli vengano restituiti i grossi titoli.
Pagato un frettoloso e ipocrita omaggio alla «dedizione», all’opera «altamente umanitaria», alla
«nobile missione» di queste povere donne, tutto ritorna come prima.
Il programma interrotto parzialmente, riprende proponendo i soliti riti dell’insignificanza, le
solite sciocchezze innocue, le solite volgarità non certo innocue, i soliti numeri coi soliti personaggi
pittoreschi e coi soliti discorsi stonati, nonostante le musiche che li avvolgono.
La gente esige di essere rassicurata, non disturbata. Ha bisogno di avere davanti agli occhi le
maschere dei pagliacci di turno, e non il volto pulito di donne vere. E poi i primattori di turno han-
PAGINA 15:
no paura che quelle comparse in abito religioso gli rubino la scena.
E così cala il sipario sul dramma e riprende la commedia. Si riaccendono le luci ammiccanti
destinate ai divi che si affacciano alla ribalta a riscuotere la dose di applausi senza i quali non
riuscirebbero a vivere. Il nome e la foto sui giornali, oltre che le «apparizioni» fisse sul teleschermo,
sono il loro certificato di... esistenza.
Di guai ne abbiamo già a sufficienza, e non è proprio il caso di aggiungerne altri. Rimangano
confinati là dove sono, in quel continente selvaggio, a distanza di sicurezza da noi.
Dopo la morte delle prime due suore, uno dei quotidiani più diffusi in Italia1 sentiva il dovere di
rassicurare i propri lettori. Così: «Per una volta, tenete al morso l’immaginazione. Non lasciatevi
travolgere dalla sindrome di Ebola. E casomai, se siete tipi impressionabili, aspettate per andare a
vedere Virus letale2. Dalle nostre parti, infatti, le possibilità di un contagio – dicono gli studiosi –
sono talmente esigue da essere pressoché inesistenti. Quindi, niente panico. Anche se poi, in
biologia, “non bisogna mai dire mai”». E, a supporto di queste righe con effetto «tranquillante»,
veniva riportato il parere di un illustre professore esperto di virologia, il quale avvertiva che «si
possono considerare soggetti a rischio soprattutto gli operatori sanitari addetti all’assistenza dei
soggetti infetti». Quindi la cosa non ci riguarda.
Invece, no. Sarà il caso di risparmiarci i tranquillanti. È opportuno lasciarci almeno sfiorare, se
non proprio travolgere, dalla sindrome di Ebola. Senza neppure bisogno di leggere le pagine
sconvolgenti di Area di contagio o vedere le sequenze agghiaccianti di Virus letale.
Sarà sufficiente non perdere di vista le immagini di quelle sei
1 «La Repubblica», 10 maggio 1995.
2 Si tratta di un film, comparso sugli schermi italiani nel 1995 e ispirato al libro di R. Preston Area di contagio con
Dustin Hoffman nelle vesti di uno scienziato che combatte contro un virus chiamato Motoba che ha infettato una città
degli Stati Uniti, e per combattere il quale l’esercito consiglia al Presidente di impiegare la bomba all’idrogeno
distruggendo tutta la zona infetta.
8
PAGINA 16:
suore che sono rimaste semplicemente al loro posto, e non hanno mai pensato alla fuga di fronte
all’incalzare inesorabile del nemico feroce.
Abbiamo bisogno di essere contagiati dal loro virus. Per risvegliarci dal torpido sonno
dell’indifferenza. E tentare di essere più umani. E cominciare a diventare un po’ più cristiani.
PAGINA 17:
DOVE
PAGINA 19:
9
PAGINA 21:
ZAIRE, GIGANTE AFRICANO
COI PIEDI DI ARGILLA
Qualche cifra per capire
Collocato nel cuore dell’Africa, lo Zaire (ex Congo-Léopoldville o Congo Belga) ha una
superficie di 2.345.409 chilometri quadrati. Le sue frontiere, che si sviluppano per una lunghezza di
ben 9.000 chilometri, lo separano da nove paesi confinanti (Repubblica Centroafricana, Sudan,
Uganda, Rwanda, Burundi, Tanzania, Zambia, Angola, Congo).
Il suo territorio è grande oltre quattro volte la Francia, quasi otto volte l’Italia, ottanta volte il
Belgio che lo aveva colonizzato, ma scarsamente abitato: quarantadue persone per chilometro
quadrato. Dato ancora più sconcertante: solo 23.000 kmq. sono coltivati, e rappresentano il tre per
cento del territorio disponibile. È caratterizzato da un clima umido e malsano, con una immensa
foresta vergine.
Attualmente la popolazione sfiora i quarantaquattro milioni, e risulta triplicata in meno di
quarant’anni, con un incremento demografico del tre per cento. Si calcola che nel 2000 gli zairesi
saranno più di cinquantuno milioni.
Zaire è anche il nome del suo fiume principale (denominazione precedente: Congo).
La capitale è Kinshasa (che i belgi chiamavano Léopoldville), e che ora, sbrigativamente, viene
chiamata «Kin», con oltre quattro milioni di abitanti. Si dice anche «Kin-la joie», per indicare uno
stile di vita non propriamente monastico. Riferisce Enzo Biagi3: «I congolesi amano spassarsela
(quelli che possono permetterselo, naturalmente, N.d.R.). All’imbrunire si accendono le luci dei
PAGINA 22:
quattromila bar del sordido quartiere di Matonge, suonano ottocento orchestre, un’esplosione di
trombe e di tamburi. “Kin” diventa la città più festosa del continente... Battono i tamburi, tintinnano
gli anelli d’avorio o di argento che adornano i polsi delle ragazze». Resta da precisare, però, che per
la maggior parte della popolazione, specialmente all’interno dell’immenso paese, il problema
principale non è tanto quello di «spassarsela», quanto di sopravvivere con il piatto di manioca
garantito dal padre-padrone, ossia Mobutu, ossia «le grand léopard», ossia «l’indistruttibile
dinosauro».
Gigante, dunque, ma coi piedi fragili, di argilla. O, addirittura, gigante dalle gambe che non
riescono a reggerlo. Fuori di metafora: la situazione politica ed economica è semplicemente
disastrosa. Quella sanitaria, poi, risulta paurosa.
Da un punto di vista ecclesiale, si contano 47 diocesi con 53 vescovi tutti indigeni. I sacerdoti
locali sono 1.200, i missionari circa 2.000, le religiose 4.700.
3 «L’Espresso», 5 dicembre 1996.
10
Un po’ di storia per capire
Il Congo Belga è stato fondato da re Leopoldo II, con l’apporto dell’esploratore Stanley. La
conferenza di Berlino nel 1885 sancisce la fondazione dello stato indipendente del Congo sotto la
sovranità personale di Leopoldo II. Nel 1908 diventa provincia belga.
Nel 1958 viene fondato il MNC (Movimento Nazionale Congolese), che si colloca al di sopra
delle etnie; è composto da personalità di spicco quali Lumumba, Adula, Ngalula, Makoso, e si
prefigge quale traguardo l’indipendenza per il Congo eliminando il regime colonialista (già
condannato dalla Carta dell’ONU nel 1947).
Nel gennaio 1959 si registrano agitazioni a Léopoldville, cui segue una sanguinosa repressione.
Il 30 giugno 1960 viene proclamata l’indipendenza del Congo. Lumumba diventa Primo
Ministro e Kasa-vubu Presidente. Nello stesso anno 1960 si determina la secessione del Katanga
(regione
PAGINA 23:
dove ci sono quasi tutte le miniere di minerali e metalli preziosi) e del Sud-Kasai.
Nel 1961 Lumumba viene assassinato e si forma il governo di Unità Nazionale di Adula. Nel
1963 si conclude l’avventura della secessione del Katanga.
Nel 1964 c’è la parentesi del governo Ciombe, con l’intervento belga-statunitense a Stanleyville.
Il 24 novembre 1965 Mobutu prende il potere. Non lo mollerà più. Due anni dopo viene fondato
il MPR (Movimento Popolare della Rivoluzione).
Dal 1971 si martella ossessivamente il tasto del ritorno alla tradizione e scocca la parola magica:
«Autenticità». Il Congo ormai si chiama Zaire. Inizia, quindi, il processo di «zairizzazione».
Impossibile registrare i numerosi focolai di guerra che si accendono periodicamente nel paese (in
particolare nello Shaba, ex Katanga), soffocati regolarmente e spietatamente da interventi
dall’esterno.
Il 24 aprile 1990 nasce la Terza Repubblica. Ma nulla cambia perché tutto continua a reggersi sui
piedi di argilla del gigante e sul pugno di ferro di Mobutu Sese Seko. Ed è di lui ancora che
dobbiamo parlare.
Un conto corrente bancario gira con in testa una pelle di leopardo
Lo riconosciamo anche in Europa a motivo soprattutto di quel bizzarro copricapo di pelle di
leopardo. I grossi occhiali, una certa aria tra l’ironico e lo sprezzante. E, recentemente, a causa del
male che l’ha aggredito, il volto leggermente tumefatto.
Il suo stile di vita è ancora più bizzarro del copricapo, e appare spregiudicato, perfino insultante.
A Kinshasa ci va sempre più raramente. Preferisce risiedere a Gbadolite, il suo villaggio natale
del nord, dove lui, prima di essere fatto generale e poi maresciallo, si chiamava semplicemente
Joseph Désiré. Qui si è fatto costruire una specie di favolosa «Versailles della giungla», con marmi
di Carrara, rubinetti placcati oro, fontane pretenziose e leopardi in abbondanza. E, natural-
11
PAGINA 24:
mente, con la protezione dei pretoriani di fiducia, appartenenti al nucleo di truppe scelte, addestrate
dagli israeliani, le uniche a ricevere regolare stipendio, puntualmente, alla fine del mese.
Intrigante, spregiudicato, ancora giovane ufficiale era riuscito ad aizzare un politico contro
l’altro, mettere il Presidente contro il Primo Ministro, creare la confusione e la paralisi, in modo da
potersi poi presentare come l’uomo della Provvidenza.
Recentemente il presidente Mobutu si è recato in Svizzera per farsi operare alla prostata
rimorchiandosi dietro, oltre alla moglie Bobi Ladawa – sposata in gran fretta prima della visita del
Papa – un codazzo di cinquanta persone, tutte alloggiate in un lussuosissimo albergo di Losanna,
alla modica spesa di decine di milioni al giorno.
Allorché le autorità elvetiche – che qualche volta hanno dei soprassalti di pudore – non gli hanno
rinnovato il visto, è stato costretto a «rifugiarsi» nella sua «Villa del mare» a Roquebrune-Cap
Martin, in Costa Azzurra. Obbligato a interrompere la sua splendida convalescenza, per far fronte
alla secessione delle regioni orientali del Kivu, caduto in mani tutse, e per soffocare l’ennesima
rivolta nello Shaba e nel Kasai, è ripartito da Nizza con una flottiglia composta da tre executive e
due charter DC-8. I cinque aerei si erano resi indispensabili perché le cinquanta persone del seguito
avevano fatto razzia di televisori, lavatrici ed elettrodomestici vari, rastrellati a Nizza, Cannes e
Mentone.
All’ultimo momento – come riferisce il quotidiano «Le Parisien» – era arrivato sulla pista «un
enorme autocarro carico di regali».
Al suo sbarco a Kinshasa, il dittatore, sessantaseienne, le cui condizioni di salute vengono a
stento mascherate dal sorriso sempre più smorto, sarebbe stato accolto da una folla entusiasta di
trentamila zairesi. Così almeno riferiscono le cronache ufficiali.
Una cassaforte a cielo aperto
Attualmente l’aria in Zaire è tornata a farsi pesante: ribellioni in serie, studenti in agitazione,
folla inferocita, voglia di spaccare tutto, clima non troppo favorevole nei confronti dei bianchi.
PAGINA 25:
A Kinshasa si avverte il fiato umido e appestato di violenza che viene dal fitto della foresta. In
molti quartieri della capitale domina già la legge della giungla. Nella città dove pure sfrecciano
pretenziose Mercedes e lucide Jaguar, c’è anche gente che avvicina venditori ambulanti per
acquistare una sola sigaretta estratta dal pacchetto aperto. Due mondi agli antipodi qui coabitano da
sempre: stracci e un numero incredibile di telefonini. L’equilibrio si fa sempre più precario.
In tutto il paese il reddito pro capite è di centocinquanta dollari (poco più di
duecentocinquantamila lire) l’anno4.
4 Nel 1974 Mobutu non esitò a sborsare diverse centinaia di migliaia di dollari per finanziare l’incontro
«leggendario» di pugilato tra Cassius Clay (Muhammad Alì) e George Foreman. L’incontro si svolse il 30 ottobre in
uno stadio gremito di centomila persone. Nei sotterranei stavano i prigionieri politici. Pochi giorni prima del match,
12
Manca un’autorità credibile, e il vuoto è colmato da potentati tribali, mentre si scatenano
insaziabili appetiti.
Eppure lo Zaire assomiglia, secondo un’immagine assai indovinata, ad una immensa cassaforte a
cielo aperto da cui traboccano cobalto, rame, stagno, oro, diamanti, uranio, petrolio, gas, legno
pregiato, caucciù e una quantità tale di energia elettrica da illuminare l’Europa intera (lo Zaire è il
secondo bacino idrografico del mondo). A ciò si devono aggiungere le ricchezze derivanti
dall’agricoltura: caffè, riso, ortaggi.
Ecco il quadro abbozzato nel 1987 da suor Danielangela, la più acuta e coraggiosa, tra le
Poverelle, nel descrivere la situazione del suo paese di adozione: «...A parte il settore minerario, la
struttura industriale dello Zaire, nonostante le eccezionali riserve di energia idroelettrica, è molto
povera. L’agricoltura è ancora arretrata, limitate piantagioni di palma da olio e di caffè sono
controllate per lo più dal capitale europeo. Prevale un’agricoltura di sussistenza appena in grado di
assicurare l’autosufficienza alimentare delle migliaia di piccoli villaggi in cui vive il 75 per cento
della popolazione. Anche lo sfruttamento della foresta, ricca di legnami pre-
PAGINA 26:
giati, viene ostacolato dalla mancanza di vie di comunicazione. Questo spiega perché un paese così
ricco abbia un reddito pro capite tra i più bassi del mondo».
«Il 40 per cento dei bambini è denutrito e la speranza di vita della donna ha un arco di 46 anni».
Cinque anni dopo la stessa suor Danielangela constatava: «...Lo Zaire continua a naufragare. La
dittatura non è ancora sepolta, anzi diventa sempre più aggressiva».
Le altre piaghe
Ed ecco il punto di vista di un missionario, padre Lino Salvi, comboniano, che ha trascorso
parecchi anni in Zaire: «Tutti stanno parlando dell’igiene, della prevenzione, della protezione,
intanto, però, sono tre anni che gli infermieri non sono pagati, le strutture ospedaliere non ricevono
aiuti...
«Nella maggior parte delle famiglie si mangia solo una volta ogni due giorni. Anche qui si è in
presenza di una esplosiva e incontrollabile mortalità dovuta a malnutrizione. In queste condizioni di
povertà endemica estrema, il propagarsi di alcune malattie è naturalmente più facile che altrove...
«...Tocca poi ai genitori provvedere alla retribuzione dei maestri, perché lo Stato non paga più e
quindi le scuole devono in pratica autogestirsi. Nel 1994 siamo già partiti con tre mesi di ritardo, a
fine novembre anziché in settembre. I genitori possono dare qualcosa, dieci o venti chili di riso.
Pochi riescono a pagare fino in fondo». Come a dire che, mentre l’anno scolastico si accorcia
sempre più, la fame si allunga in maniera paurosa.
Prosegue padre Salvi: «Nel 1993 l’inflazione è stata del quattrocentocinquantamila per cento.
Nel novembre di quell’anno un pezzo di sapone costava quattro milioni di “zaire”, che è la moneta
locale. La riforma fatta dal presidente Mobutu si è limitata a togliere sei zeri creando così lo “zaire”
Mobutu ne fece uccidere un centinaio per scoraggiare eventuali colpi di stato che avrebbero «offuscato» agli occhi del
mondo l’immagine del suo paese «libero».
13
pesante, ma evidentemente non ha risolto nulla. All’inizio del 1994 un dollaro valeva tre nuovi
“zaire”; oggi occorrono circa tremila “zaire” per acquistare un dollaro. I salari ufficiali sono irrisori.
Un maestro o un infer-
PAGINA 27:
miere, con la loro paga mensile, non riescono nemmeno a comprarsi una camicia o un paio di
sandali. La gente riesce a sopravvivere coltivando i propri campi o ricorrendo a piccoli espedienti»5.
Una situazione esplosiva
Il quadro tracciato dalla suora e dal missionario viene confermato dall’analisi spietata che ne ha
fatto recentemente uno sperimentato osservatore italiano6: «Kinshasa oggi è la capitale di un Paese
che non esiste più... Kinshasa è già un inferno... Le case e le strade si portano addosso
quell’apparenza di slabbrato, di definitivamente provvisorio, che hanno tutte le città che son venute
su lungo la frontiera dell’immensa distesa verde. E nella città è la legge della giungla che alla fine
decide chi vive e chi muore, tra i suoi 4 milioni di abitanti...
«Lo Zaire potrebbe essere il Paese più benestante dell’Africa. Solo che se lo sono rubato, prima i
belgi, e poi i suoi padroni neri. Un ministro francese ama dire che “Mobutu è il più grosso conto in
banca che vada in giro con un berretto di leopardo sulla testa”. E in una conversazione privata,
un’altissima autorità, ma veramente altissima, si è lasciata scappare una frase che la dice lunga sugli
appetiti endogeni nello Zaire: “Se i ministri si contentassero di soltanto il dieci o il quindici per
cento dei quattrini che passano per i loro dicasteri, questo Paese andrebbe a posto in un paio
d’anni”.
«Gli appetiti endogeni sono mostruosi, Rabelais non avrebbe potuto raccontarli meglio. La
voracità è senza limiti dovunque, dalla Nomenklatura di regime fino all’ultimo, al più misero
zairese che possa arraffare anche soltanto l’ombra di un cent. Lo Zaire ha perduto la guerra con i
ruandesi semplicemente perché sono spariti i dollari destinati all’acquisto delle armi, e per pagarsi
da mangiare ufficiali e soldati poi si sono anch’essi venduti le loro armi.
PAGINA 28:
«Qui sono mesi, anni, che militari e funzionari pubblici non ricevono salari dal governo: e allora
chi può si arrangia. Dentro la protezione della divisa o di una scrivania, si chiedono soldi a
chiunque...
«...Non è un problema di tangente, o di corruzione, per come possiamo intenderlo noi, in Europa.
È piuttosto l’esercizio di un diritto di pedaggio che trova le radici nell’antica cultura delle libere
tribù della foresta, e che qui è diventata ora l’appropriazione degli spazi che l’assenza di uno Stato
ha lasciato alla scorreria di questi micropoteri sostitutivi. Nella contraddizione drammatica delle
5 Intervista a cura di Giuseppe Zois, in «L’Eco di Bergamo», 5 giugno 1995.
6 Mimmo Candito, in «La Stampa», 17 dicembre 1996.
14
ricchezze esibite poi senza ritegno, questa memoria antica trova una più diretta forza di
realizzazione. E i due mondi marciano paralleli...
«...A un regime autocratico che si va spegnendo dentro una malattia mortale, a uno Stato che non
esiste più, perduto ormai nei frammenti delle 365 tribù che tengono in mano i pezzi di questo
immenso territorio, oggi dal Nord del mondo si guarda con nuova attenzione. Qui ancora i belgi
controllano un buon 70 per cento dell’economia, ma sono in affanno già da tempo e sul collo ora gli
fiatano pesantemente gli americani, i sudafricani, i francesi, i tedeschi, gli italiani. Sbranato dai
morsi rabbiosi di tutti questi pretendenti, assalito con cupidigia per il suo immenso potenziale, lo
Zaire pare riprecipitare nella storia antica della colonizzazione, quando qui c’erano soltanto quattro
laureati e duecentocinquantotto studenti.
«...La fine di un potere si consuma oggi nelle prime ombre di un caos che potrebbe esplodere
presto, ben al di là della guerra perduta nel Kivu in questi giorni...».
Già nel dicembre del 1990 suor Danielangela scriveva: «...Nello Zaire la situazione sta
diventando sempre più drammatica. In un mese la moneta locale (lo zaire) ha subito una
svalutazione del duecento per cento e non si arresta. I salari restano quasi invariati. La gente è
esasperata ed è disposta a tutto. I giornali finalmente cominciano ad esprimersi chiaramente. Il
governo di transizione sembra non esistere.
«Durante una manifestazione i militari hanno sparato sulla fol-
PAGINA 29:
la: ci sono stati parecchi morti, molti feriti e tanti imprigionati. Anche se Mobutu, il grande
dittatore, verrà cambiato, la situazione resterà sempre molto grave.
«La gente pensa che noi europei siamo responsabili di questo malessere, perché tanti
commercianti sono europei e tengono i prezzi molto alti... A Kinshasa sembra di essere in guerra;
infatti bruciano macchine, autobus, negozi, e lanciano pietre a buon mercato. Questo è il quadro del
nostro Natale...».
Qualcuno parte sprovvisto di «appetiti»
C’è stato qualcuno, però, che si è mosso dall’Italia, non attirato dalla ricchezza a cielo aperto
dello Zaire, bensì dalla sua miseria, sterminata ancor più della foresta. C’è andato e continua ad
andarci non per arraffare, ma per donare. Non per sfruttare, ma per servire. Non per colonizzare, ma
per portare il Vangelo della misericordia.
La scintilla della decisione di aprire l’Istituto fondato dal Palazzolo agli orizzonti dell’Africa è
scoccata in seguito a un incontro fortuito, avvenuto a Roma, nel 1950, in occasione della
beatificazione di Maria Goretti, tra la Superiora Generale di allora, madre Fiorina Freti, e il gesuita
padre Greggio, missionario in Congo Belga. Il campo individuato era quello del Vicariato del
Kwango.
Il progetto sarà attuato due anni dopo. Questi i nomi delle prime cinque religiose delle Poverelle
che hanno ricevuto il Crocifisso dalle mani del vescovo di Bergamo, mons. Adriano Bernareggi:
suor Gerosa Vanoncini, di Bergamo; suor Forziana Gasparini, di Vicenza; suor Floralba Rondi, di
15
Pedrengo; suor Rosalia Castellani, di Livigno (Sondrio); suor Espedita Valle di Peraga di Vigonza
(Padova).
Hanno lasciato Casa Madre il Mercoledì Santo 1952, hanno raggiunto Milano, e quindi Bruxelles
ed Anversa. Il 15 aprile si sono imbarcate a bordo dell’Armand Grisar. Il 29 aprile hanno
cominciato a risalire il fiume Congo, per arrivare a Kikwit, nel territorio del Bandundu, il 5 maggio.
PAGINA 30:
Ecco alcuni stralci delle lettere inviate dalla superiora suor Espedita:
«Siamo arrivate finalmente alla nostra nuova dimora, dove proviamo una prima delusione.
Pensavamo e speravamo di trovare per abitazione una capanna di paglia e terra battuta e ci troviamo
invece dinanzi ad una graziosa casetta con orto e con un bel giardinetto» (5 maggio 1952).
«Oggi, finalmente, abbiamo visitato l’ospedale e la clinica. Sì, amici, abbiamo anche la clinica
per i fratelli bianchi, casta privilegiata. Eppure siamo tutti fratelli, tutti figli dello stesso Padre e tutti
redenti da Gesù, bianchi e neri. La clinica è abbastanza bella, ma l’ospedale fa pietà.
«Quale stretta al cuore abbiamo provato alla vista di quei poveri ammalati, magri, sparuti, quasi
tutti in condizioni veramente miserabili; giacciono su letti senza materassi e senza lenzuola; altri
stanno adagiati su povere stuoie di fabbricazione locale. Novanta ammalati, un solo medico,
tuttofare, nessun specialista.
«Tre stamberghe in muratura: ecco il nostro ospedale. Una piccola sala operatoria, un misero
ufficio amministrativo che sarà affidato a me, nessun lavabo, niente acqua potabile, solo acqua che
viene trasportata con fusti e attinta dal fiume Kwilu.
«Quale desolazione! Signore, aiutaci, ora siamo nella prova più dura e impegnativa; ci
abbandoniamo a Te e Ti offriamo anima, corpo, volontà, salute e forza per questi tuoi cari figli.
Donaci la forza di continuare il cammino passo per passo dietro a Te, sempre. Che nessuna di noi,
dopo aver messo mano all’aratro, volga indietro lo sguardo!» (7 maggio 1952).
E successivamente: «Ora siamo qui in questo vastissimo campo di ospedale e noi vi ci butteremo
anima e corpo in una totale dedizione» (20 giugno 1952).
La commovente determinazione iniziale non è più venuta meno. Nessuna Poverella ha mai
pensato alla cassaforte a cielo aperto dello Zaire. Troppo occupata a chinarsi sulla miseria di quella
gente.
Resta da precisare, come ha fatto il vescovo di Bergamo mons. Amadei, che la dimensione
missionaria non è qualcosa di aggiun-
PAGINA 31:
to alla vocazione specifica delle Poverelle. Essa è già presente, almeno allo stato potenziale, nello
spirito del beato don Luigi Maria Palazzolo. È una naturale conseguenza del suo carisma, del suo
impegno a dedicarsi ai «rifiuti». Si trattava, infatti, di arrivare anche ai dimenticati, agli ultimi, della
Terra.
16
Attualmente le comunità delle Poverelle in quel Paese sono 10, con 27 suore italiane e 36 zairesi.
Oltre che a Kikwit, si trovano a Mosango, Tumikia e Lusanga. A Kinshasa ci sono quattro Case
(Kingasani, Kikimi e Limete e Mont Ngafula).
Le Poverelle sono presenti anche in Costa d’Avorio (5 comunità con religiose italiane e zairesi,
mentre alcune suore ivoriane si trovano attualmente in Zaire per la formazione), e in Malawi (3
comunità con suore italiane, malawiane e zairesi).
L’orizzonte missionario delle figlie del Palazzolo si è esteso anche al Brasile, dove sono
impiantate 3 comunità con suore italiane e brasiliane.
Da segnalare il particolare che tutte le comunità missionarie risultano miste: segno concreto di
«inculturazione del carisma», oltre che segno della fraternità più autentica.
Qualcuno continui pure a viaggiare con in testa una bustina di pelle di leopardo, rastrellando
camionate di regali e paccate di dollari. Delle donne «Poverelle» continuano a partire senza
domandarsi che cosa c’è da guadagnare laggiù, ma disposte unicamente a perdere e a donare.
PAGINA 33:
CHE COSA
PAGINA 35:
IL VIRUS CHE ESCE DALLA FORESTA
Ebola: chi era costui?
A costo di sembrare banali, possiamo cominciare parafrasando la celebre domanda di don
Abbondio: Ebola, chi era costui?
In realtà, «costui» è un fiume. Esiste, infatti, tra gli addetti ai lavori, la consuetudine di assegnare
un nome ai virus in rapporto alla località in cui sono stati individuati la prima volta.
Nel nostro caso, Ebola è un fiume dello Zaire, affluente del Congo. E pare sia proprio in un certo
tratto di quel corso d’acqua, che scorre cento chilometri a sud del confine con la Repubblica
Centroafricana, e a più di mille chilometri a nord di Kikwit, in un territorio denominato Bumba
Zone (provincia del Bongo), che il virus è uscito allo scoperto nel settembre 1976, dopo essere
rimasto acquattato per chissà quanto tempo nel cuore della giungla.
Ma andiamo con ordine, familiarizzandoci almeno un po’ con la terminologia scientifica.
Virus, prima di tutto. Dicono i dizionari medici: «Agente patogeno più piccolo di un batterio,
costituito da un guscio proteico (capside) e un nucleo di DNA o RNA. Le due strutture riunite
formano il nucleocapside. Un virus ha la possibilità di moltiplicarsi solo all’interno di una cellula
viva».
Filovirus: «si tratta di virus che presentano un’affinità tra di loro. Questa famiglia di virus
comprende solo Ebola (nelle sue tre varietà) e Marburg».
Ospite: «l’organismo in cui un parassita, ad esempio un virus, si insedia e di cui spesso si nutre».
17
Ebola: «si pronuncia Ee-boh-la. Si tratta di un virus tropicale, estremamente letale, le cui origini
permangono sconosciute».
PAGINA 36:
Ne sono note tre varietà: Ebola Zaire, Ebola Sudan ed Ebola Reston (dal nome della città degli
Stati Uniti dove è stato individuato, nel 1989, in un laboratorio popolato da scimmie per
esperimenti). La varietà Reston pare non uccida gli esseri umani, tuttavia la sua pericolosità rimane
altissima, data la sua probabile capacità di viaggiare nell’aria. Reston è di origine asiatica
(Filippine), ma non si esclude abbia raggiunto quelle isole a bordo di un aereo partito dall’Africa.
Strettamente imparentato con Ebola è il virus Marburg, dal nome di un’antica città della
Germania settentrionale, dove il virus ha fatto la sua comparsa nel 1967, nello stabilimento della
Behring Works, una ditta produttrice di vaccini, che importava a questo scopo scimmie dall’Africa
Centrale. Il virus sarebbe arrivato in Germania con una spedizione di cercopiteci partita da Entebbe
(Uganda).
Marburg si è manifestato anche nel 1980 in Kenia, nelle grotte di Kitum, sulle pendici di Mount
Elgon, un grandioso vulcano spento di 4.270 metri di altezza, posto sul limitare della Rift Valley
Orientale, e luogo di grande richiamo turistico, praticamente a metà strada tra i laghi Turkana e
Vittoria.
Marburg un po’ superficialmente viene considerato il «gemello gentile» (si fa per dire) della
famiglia, e provoca effetti paragonabili a quelli delle radiazioni nucleari. Si può leggere, comunque,
in proposito, la storia allucinante di Charles Monet e del dottor Musoke, nel libro di R. Preston che
citeremo tra poco.
Marburg viene anche definito «rabbia allungata».
Il più micidiale è senza dubbio Ebola Zaire, che vanta un tasso di mortalità tra gli individui
contagiati di nove su dieci. La varietà più terrificante dell’Ebola è quella cosiddetta Mayinga, dal
nome di un’infermiera morta in Zaire nel 1976.
Ebola è conosciuto anche con un altro nome, Yambuku, località non troppo distante da Bumba,
nel cui ospedale (Yambuku Mission Hospital) il virus zairese si sarebbe scatenato la prima volta.
Si tratta in ogni caso, di FEVE (Febbre Emorragica Virale di tipo Ebola).
PAGINA 37:
Lasciamo da parte il Marburg e il Reston, e raccontiamo succintamente la storia degli altri due
«gemelli terribili», affidandoci alla penna di un serio e brillante divulgatore americano, Richard
Preston, collaboratore della rivista «The New Yorker», che ha pubblicato un libro di grande
successo, Area di contagio (trad. it. Rizzoli, Milano 1994), che quasi sicuramente è stato adocchiato
anche da una suora delle Poverelle all’ambasciata italiana di Kinshasa, e le ha rigato la schiena di
brividi freddi.
Alcune descrizioni risultano sconvolgenti, per cui, chi avesse lo stomaco e il cuore delicati, può
saltare queste pagine.
18
Ebola Sudan
«Il 6 luglio 1976, a ottocento chilometri da Mount Elgon, nel Sudan meridionale, sul limitare
della foresta pluviale centroafricana, un uomo conosciuto dai cacciatori di Ebola come Yu.G., ebbe
un collasso circolatorio e morì perdendo sangue da tutti gli orifizi del corpo. Il signor Yu.G., di cui
sono riportate solo le iniziali, fu il primo caso noto, il cosiddetto caso di riferimento di un’epidemia
scatenata da un virus sconosciuto.
«Il signor Yu.G. lavorava come magazziniere in un cotonificio della cittadina di Nzara... Era un
impiegato. Lavorava seduto a una scrivania in una stanza stracolma di pezze di cotone, sul retro
della fabbrica. Dal soffitto, penzolavano i pipistrelli. Nessuno è mai riuscito a dimostrare che si
trattava di pipistrelli infettati da Ebola. Il virus potrebbe essere penetrato nella fabbrica seguendo
altri percorsi, forse attraverso gli insetti intrappolati nelle fibre di cotone, o i ratti che si annidavano
nel fabbricato. O forse il virus non arrivò mai nelle vicinanze del cotonificio, e il signor Yu.G. fu
contagiato altrove. Non si fece ricoverare in ospedale e morì su una brandina nella baracca dove
abitava con la sua famiglia. I suoi celebrarono per lui un tradizionale funerale azande e
ammassarono un cumulo di pietre sul suo cadavere, adagiato in una radura di erba degli elefanti...
«Non passò molto tempo prima che il contagio si diffondesse. Pochi giorni dopo la morte di
Yu.G., due dei suoi colleghi che la-
PAGINA 38:
voravano nella stessa stanza cominciarono a perdere sangue, entrarono in una fase di shock e
morirono in seguito a massicce emorragie...
«La maggioranza dei casi fatali dell’Ebola Sudan, possono essere individuati ripercorrendo a
ritroso la catena di contagio avviata dal tranquillo signor Yu.G. Da lui si irradiò un silenzioso raggio
di morte che ebbe effetti devastanti sulla popolazione del Sudan meridionale. La nuova varietà
imperversò per Nzara e quindi puntò a est, verso la città di Maridi, dov’era l’ospedale.
«Si abbatté sull’ospedale come una bomba, uccidendo infermiere e inservienti, devastando gli
ammalati, per poi imperversare tra i familiari dei degenti. Pare che lo staff medico avesse praticato
iniezioni utilizzando aghi non sterilizzati. Fu dunque facilissimo per il virus diffondersi tra i
ricoverati e quindi di ritorno sul personale stesso...
«Il virus trasformò l’ospedale di Maridi in un obitorio. A mano a mano che il virus saltava da un
letto all’altro uccidendone i pazienti, i medici cominciarono a notare nei contagiati sintomi di
squilibrio mentale, di psicosi e di spersonalizzazione. Alcuni dei morenti si strappavano di dosso gli
indumenti e lasciavano l’ospedale nudi e sanguinanti, per poi vagabondare per le strade della città in
cerca delle loro case, apparentemente inconsapevoli delle loro condizioni e di ciò che era accaduto.
Non c’è alcun dubbio che Ebola danneggi il cervello provocando stati di demenza. Tuttavia, non è
facile distinguere i danni cerebrali dagli effetti della paura...
«Rispetto a Marburg, la varietà Ebola Sudan è doppiamente letale: il tasso di mortalità fra i
contagiati fu del cinquanta per cento, pari a quello della peste nera che imperversò nel Medio Evo.
Dunque, una buona metà dei soggetti infettati morì, e anche rapidamente...
«Per ragioni che non sono chiare, l’epidemia cominciò a perdere la sua iniziale virulenza e il
virus scomparve. Ma l’ospedale di Maridi aveva costituito l’epicentro della crisi, e mentre il virus
19
impazzava al suo interno, il personale medico e paramedico sopravvissuto si fece prendere dal
panico e fuggì. Fu probabilmente
PAGINA 39:
la cosa più saggia che potessero fare, e anche la cosa utile, perché fece cessare l’utilizzo di aghi non
sterilizzati e svuotò l’ospedale, contribuendo così a spezzare la catena infettiva...».
Un nome sinistro: Yambuku
Ancora R. Preston con le sue pagine terrificanti: «Due mesi dopo l’emergenza Sudan – si era ai
primi di settembre del 1976 – un filovirus ancora più letale fece la sua comparsa a 800 chilometri
più a ovest, in una provincia dello Zaire denominata Bumba Zone, un tratto di foresta pluviale
tropicale costellato da radi villaggi e bagnato dal fiume Ebola, affluente del Congo. La varietà
Ebola Zaire era quasi due volte più letale di Ebola Sudan. Parve erompere dal nulla con
l’implacabilità di una forza mossa da imperscrutabili intenzioni. A tutt’oggi, non è stato ancora
possibile individuare il primo caso umano di Ebola Zaire.
«In quei primi giorni di settembre, qualcuno che probabilmente viveva sulla sponda meridionale
del fiume Ebola, toccò forse qualcosa di sanguinolento, potrebbe essere stata carne di scimmia, la
gente di quella zona se ne ciba abitualmente, o magari un elefante o un pipistrello, oppure chissà,
quella persona toccò un insetto schiacciato, o fu morso da un ragno. Qualunque fosse il primo ospite
del virus, è probabile che sia stato un contatto ematico a permettergli di penetrare nel mondo degli
uomini. Forse la porta che gli garantì tale accesso fu una ferita sulla mano di questo individuo
sconosciuto.
«Il virus si manifestò allo Yambuku Mission Hospital, una clinica dell’entroterra gestita da suore
belghe. Il piccolo ospedale, un’accozzaglia di tetti di lamiera e muri imbiancati a calce, sorgeva
nella giungla, vicino a una chiesa da cui scaturivano ogni giorno le melodie degli inni religiosi e le
formule liturgiche della messa celebrata in bantù».
Andò più o meno così. La missione di Yambuku comprendeva anche una scuola. Verso la fine di
agosto, uno degli insegnanti andò in vacanza con alcuni amici nelle regioni settentrionali dello
Zaire. In un mercato, comprò della carne fresca di antilope e una
PAGINA 40:
scimmia uccisa da poco. Al ritorno, la moglie del maestro cucinò per la famiglia la carne di
antilope. Il mattino seguente, l’uomo si sentiva poco bene e passò dall’ospedale per farsi fare
un’iniezione.
«Ogni mattina le suore dello Yambuku Hospital disponevano sul tavolo cinque siringhe
ipodermiche che utilizzavano per le iniezioni dell’intera giornata7. Cinque aghi al giorno per
7 Si ha l’impressione che R. Preston calchi un po’ la mano nel tentativo di presentare la presunta superficialità e
quasi incoscienza di quelle suore quale causa prima, se non unica, del diffondersi del virus Ebola. Questa versione dei
20
somministrare farmaci alle centinaia di persone che affollavano il reparto pazienti esterni
dell’ospedale e la clinica ostetrica. Di tanto in tanto, dopo un’iniezione li sciacquavano in una
bacinella di acqua calda, così da eliminare il sangue, ma più spesso tralasciavano anche questa
elementare precauzione, passando da un braccio all’altro e mescolando sangue a sangue. Dato che
Ebola è altamente contagioso, e che cinque o dieci particelle di esso bastano ad avviare attraverso il
contatto ematico un’amplificazione di larga portata in un nuovo ospite, ecco che l’agente disponeva
di un’eccellente opportunità per diffondersi.
«Pochi giorni dopo, il maestro si ammalò. Il suo era il primo caso noto di Ebola Zaire, ma è
probabile che lo abbia contratto da uno degli aghi non sterilizzati dalle suore, e ciò significa che
qualcuno già infetto era passato dall’ospedale e che su di lui era stato utilizzato lo stesso ago
impiegato successivamente per il maestro...
«II virus eruppe simultaneamente in cinquantacinque villaggi circostanti l’ospedale. Prima uccise
le persone cui era stata praticata l’antimalarica, quindi si diffuse tra le loro famiglie, accanendosi
con particolare ferocia sulle donne, a cui in Africa spetta il compito di preparare i morti alla
sepoltura...
«Il virus imperversò per lo Yambuku Hospital uccidendo buo-
PAGINA 41:
na parte delle infermiere e quindi le suore belghe. Fra di loro, la prima a essere contagiata fu
l’ostetrica che aveva assistito alla nascita di un nato morto. La madre, affetta dal virus, lo aveva
trasmesso al feto, che evidentemente era morto dissanguato quando ancora si trovava nell’utero. La
suora... si imbrattò abbondantemente di sangue le mani. Era sangue altamente infetto, e lei doveva
avere un’escoriazione o un graffio su una mano. II virus la colpì con micidiale violenza e di lì a
cinque giorni era morta...».
A questo punto si innesca una sequenza allucinante. Allorché un’altra religiosa dello Yambuku
Hospital si ammala, un sacerdote decide di trasportarla, insieme a una consorella destinata ad
assisterla, a Kinshasa, e precisamente al Ngaliema Hospital, dove, secondo lui, avrebbe avuto cure
più adeguate. Lì la suora muore dopo un’atroce agonia. La consorella accompagnatrice manifesta
poco dopo gli stessi sintomi.
In quell’ospedale lavora un’infermiera di nome Mayinga N., che assiste la religiosa belga e
probabilmente si sporca con il sangue e il vomito nero della morente. Ai primi sintomi (mal di testa
e senso di spossatezza), la giovane abbandona l’ospedale e vaga per due giorni per la città,
prendendo taxi, recandosi in alcune agenzie di viaggio per ottenere un biglietto in modo da recarsi
all’estero. Lei pensa di aver contratto semplicemente la malaria e non riesce neppure a pensare a
qualcosa di diverso. Si reca al Mama Yemo Hospital, l’ultima spiaggia dei poveri della città (chissà
perché non si e più ripresentata al Ngaliema Hospital...). Lì non c’è posto per lei (e poi ha soltanto
gli occhi arrossati, e i medici non le prestano molta attenzione). Prende un altro taxi, va in un altro
ospedale. Finalmente si decide a ritornare al Ngaliema, dove viene ricoverata in una stanza singola.
fatti va presa, perciò, con beneficio d’inventario, come potrebbe testimoniare chiunque conosca direttamente la
situazione dell’Africa. Occorre, tra l’altro, tener presenti l’enorme afflusso di malati e la mancanza drammatica di
strumenti idonei, e perfino dell’acqua.
21
Cade poco dopo in uno stato letargico e il suo volto si irrigidisce in una sorta di maschera
impassibile.
Certo l’infermiera, nel suo allucinato vagabondaggio, ha seminato il contagio nella capitale,
essendo entrata in contatto con molte persone e avendo frequentato sale affollate e locali pubblici.
PAGINA 42:
A questo punto scatta l’allarme, ad opera specialmente dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS).
Riferisce R. Preston: «Il presidente Mobutu Sese Seko fece intervenire l’esercito. L’ospedale di
Ngaliema venne circondato e i soldati ricevettero l’ordine di non lasciare entrare o uscire nessuno se
non il personale medico. Buona parte dei dottori erano già in quarantena all’interno dell’ospedale
stesso, ma l’intervento militare rappresentò un’ulteriore garanzia.
«Mobutu ordinò inoltre all’esercito di chiudere la Bumba Zone con blocchi stradali e di sparare a
chiunque tentasse di uscirne. Il principale tramite di collegamento della zona con il mondo esterno
era rappresentato dal fiume Congo, ma i capitani delle imbarcazioni fluviali, informati di quanto
stava accadendo, si rifiutavano di fare sosta nel tratto di fiume che attraversava la Bumba Zone,
senza curarsi dei capannelli di gente che li implorava dalla riva. Poi, anche i collegamenti radio
cessarono. Nessuno sapeva più che cosa stesse accadendo nella zona chiusa, quanti fossero i morti e
come stesse agendo il virus. Era come se Bumba fosse sparita dalla faccia della terra per precipitare
nel cuore silenzioso del nulla».
Qualcuno ha fotografato Ebola e poi gli è andato incontro
Ebola è stato fotografato per mezzo di un microscopio elettronico. L’immagine, ingrandita
112.000 volte, assomiglia a un lombrico. Ma le forme appaiono assai diverse tra loro: code di
maiale, rami, lettera Y, lettera U, bullone di tipo «golfare». Tuttavia la forma classica resta quella
che sarà battezzata come «bastone di pastore» («shepherd’s crook») costituito da un doppio uncino
aggrovigliato.
Allorché Frederick A. Murphy, nel laboratorio altamente specializzato del Center for Disease
Control (CDC) di Atlanta, Georgia (Stati Uniti), esaminò le cellule che costituivano il preparato da
sottoporre al microscopio, rimase quasi atterrito: non aveva mai visto una quantità così spropositata
di virus ammassati in un campione così ridotto.
PAGINA 43:
Karl M. Jonshon, un medico americano che aveva fondato una sezione del CDC in cui si
studiavano gli agenti patogeni speciali, non appena ebbe accertato, dopo innumerevoli esami di
laboratorio con gli strumenti più sofisticati, che il virus sotto esame non reagiva a nessuno dei test
approntati per Marburg o altri virus noti, e quindi si trattava di un agente sconosciuto, decise anche
di battezzarlo: Ebola, appunto.
22
Al giornalista R. Preston che si diceva affascinato dal virus Ebola, lui replicò di esserne, invece,
«spaventato a morte». Nonostante ciò, due giorni dopo aver isolato il virus, in compagnia di un altro
medico del CDC, decise di partire per lo Zaire. Atterrò nella capitale. Racconterà: «Kinshasa si era
trasformata in una specie di manicomio. Dalla provincia di Bumba non arrivavano più notizie, e i
contatti radio erano stati interrotti. Sapevamo che laggiù la situazione era molto grave, e che ci
trovavamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo. Non sapevamo ancora se il virus avesse la
capacità di diffondersi nell’aria attraverso minute goccioline, un po’ come fa quello dell’influenza.
Se Ebola avesse avuto questa caratteristica, oggi il mondo sarebbe un posto molto diverso... ossia
non saremmo più così tanti».
Da Kinshasa, messo a capo di un team internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità,
allestì una squadra operativa che, guidata dal collega Joel Breman, raggiunse la zona maledetta di
Bumba a bordo di un aereo militare.
Sistemati in due Land Rover, messe a disposizione dal governatore dietro versamento di un
mucchio di banconote, i dottori si mossero in direzione del fiume Ebola. Un cumulo di materassi
bruciati segnalò loro che erano arrivati al famigerato Yambuku Mission Hospital.
Riferisce R. Preston (op. cit. pagg. 100-101): «Tutto era silenzio; l’ospedale sembrava deserto. I
letti, in ferro o in legno, erano privi di materassi – quelli insanguinati erano stati bruciati nel campo
di calcio – e i pavimenti rilucevano di pulizia. La squadra scoprì tre suore e un sacerdote vivi,
insieme con un gruppetto di devote infermiere africane. Erano stati loro a ripulire l’ospedale dopo
che il virus aveva ucciso tutti gli altri e ora si erano impegnati
PAGINA 44:
a spruzzare le stanze di insetticida. Solo una stanza non era stata ripulita, perché nessuno, neppure
le infermiere, avevano trovato il coraggio di entrare nel reparto maternità. Quando Joel Breman e i
suoi collaboratori vi si recarono, trovarono bacinelle di acqua sporca abbandonate in mezzo a
siringhe chiazzate di sangue. La sala era stata evacuata quando alcune madri, ormai morenti,
avevano abortito feti contagiati da Ebola. Quella stanza apparve ai medici come l’apoteosi del virus,
un luogo oscuro ai confini della terra, dove la speranza che scaturisce da ogni nascita si era
trasformata in un incubo di sangue e di morte.
«Piovve per tutto il giorno e tutta la notte... Il giorno seguente la squadra si inoltrò ancora più
profondamente nella foresta, toccando alcuni villaggi dove l’epidemia aveva imperversato. In alcuni
casi, le vittime erano state isolate nelle capanne che sorgevano ai margini del villaggio, una tecnica
adottata da sempre in Africa a protezione dal vaiolo, e le casupole in cui si erano verificati dei
decessi erano state date alle fiamme. Ma la virulenza dell’agente patogeno andava già calando e
gran parte delle persone condannate a morire erano già morte... Un’ondata di emozione si abbatté su
Joel Breman quando comprese, con la lucidità di un medico che scopre improvvisamente di poter
vedere nel cuore delle cose, che le vittime erano state contagiate all’ospedale...».
Arrivò una nave ospedale e l’opera di risanamento venne completata. Proprio alle sorgenti del
fiume che gli aveva dato il nome, il virus dovette arrestare la sua marcia sterminatrice e tornare ad
acquattarsi nella foresta. Nello Zaire, terminata l’emergenza del 1976, si tirò un sospiro di sollievo.
23
Successivamente, tuttavia, sarebbe riuscito a penetrare in vari punti del globo. E, nel 1989,
attraverso macachi importati da Giava, addirittura nel cuore degli Stati Uniti, e precisamente a
Reston, in Virginia, a pochi chilometri da Washington.
Qui si è sfiorata la tragedia. Ma della battaglia combattuta in quella cittadina l’opinione pubblica
non ha avuto il minimo sospetto. Solo dopo lo scampato pericolo, Preston ha divulgato la cosa in
Area di contagio. Probabilmente la varietà di Ebola pene-
PAGINA 45:
trata clandestinamente in America era meno micidiale, e comunque non letale per l’uomo.
Così Ebola, dopo questa sortita, è tornato a rimpiattarsi nella foresta zairese. Non rimarrà a lungo
in clandestinità. A meno di vent’anni dalla sua sortita a Yambuku, torna a spargere il terrore nella
città di Kikwit (circa cinquecentomila abitanti). E siamo, appunto, nel 1995.
Il mostro in azione
Prima, però, di riferire che cosa è avvenuto a Kikwit, occorre, sia pure con una certa riluttanza, e
perfino ripugnanza, guardare in faccia al mostro e descrivere la sua allucinante opera devastatrice.
Ci affidiamo ancora alla penna di R. Preston, facendo però una precisazione fondamentale. Le
sintomatologie di Ebola sono piuttosto varie, e pur presentando alcuni elementi comuni, possono
anche discostarsi notevolmente da quella descritta. In particolare, nelle Poverelle i sintomi sono
stati assai difformi. Questa avvertenza non ha lo scopo di minimizzare, o consolare a buon mercato i
familiari delle vittime, ma unicamente di stabilire una completezza di informazione sulla malattia,
che presenta comunque sempre aspetti di una gravità estrema, anche se non necessariamente
raccapriccianti come nella raffigurazione del divulgatore americano.
Dunque: «Ebola Zaire attacca tutti gli organi e i tessuti del corpo umano tranne le ossa e i
muscoli scheletrici: è un parassita perfetto, dato che trasforma virtualmente ogni parte del corpo in
un ammasso semiliquido di particelle virali. In qualche modo, le sette misteriose proteine di Ebola
lavorano insieme con la spietatezza di una macchina tesa alla distruzione totale dell’organismo.
«A mano a mano che l’infezione progredisce, grumi di sangue si formano nel circolo ematico, il
sangue si fa più denso, la circolazione più lenta, e i grumi iniziano ad aderire alle pareti dei vasi
sanguigni. È questo un fenomeno conosciuto come “pavimentazione”...
«...In questo modo, svariate parti del corpo non sono più irro-
PAGINA 46:
rate dal sangue, il che dà il via a processi di necrosi nel cervello, nel fegato, nei reni, nei polmoni,
nell’intestino, nei testicoli, nelle mammelle (negli uomini come nelle donne) e nell’epidermide su
cui compaiono chiazze rosse, dette “petecchie”, a indicare la presenza di emorragie sottocutanee.
«Ebola attacca con particolare ferocia il tessuto connettivo, si moltiplica nel collagene, ossia il
tessuto che sovrintende alla compattezza della pelle e mantiene le cellule unite tra loro. Il collagene
24
si trasforma in una specie di poltiglia, e gli strati più profondi dell’epidermide muoiono e si
liquefano. In superficie, invece, esplodono minuscole vesciche bianche e rosse che rispondono al
nome di esantema maculopapulare...
«Sulla pelle compaiono anche lacerazioni spontanee da cui sgorga sangue emorragico. Le
chiazze rosse si moltiplicano fino a diventare estesissimi ematomi, la pelle si fa molle e cedevole, e
si strappa se sottoposta a una pressione anche lieve. La bocca sanguina e così le gengive, e a volte si
verificano emorragie delle ghiandole salivari. Letteralmente tutti gli orifizi del corpo, i piccoli come
i grandi, sanguinano.
«La lingua assume una tonalità rosso brillante, quindi si stacca per venire ingoiata o sputata. Si
tratta, pare, di un fenomeno dolorosissimo. Può anche capitare che la pelle della lingua si laceri
durante gli accessi di vomito nero. Altrettanto facilmente può staccarsi il rivestimento della trachea,
e il tessuto morto scivola nei polmoni o viene espulso con l’espettorato. Il cuore sanguina
all’interno; il muscolo cede e negli atri e nei ventricoli si verificano emorragie; con i battiti, il
sangue viene espulso dal cuore e va a riempire la cavità toracica. Il cervello si intasa di globuli
rossi, una condizione nota come “agglutinazione del cervello”.
«Infine, Ebola aggredisce il rivestimento dei bulbi oculari, che a volte si riempiono di sangue
provocando cecità. Piccole gocce di sangue compaiono sulle palpebre e rigano le guance
dell’ammalato, senza coagularsi...
«...Ebola attiva una necrosi strisciante discontinua, che interessa tutti gli organi interni. Il fegato
si gonfia e diventa giallo, comincia e liquefarsi e infine si spacca... Intasati da grumi sanguigni
PAGINA 47:
e cellule morte, i reni smettono di funzionare. Con la cessazione delle funzioni renali, l’urina
intossica il sangue, la milza si tramuta in un unico, enorme agglomerato di sangue solidificato,
grande più o meno come una palla da baseball...
«Ebola distrugge il cervello più ampiamente e più diffusamente di quanto faccia il virus
Marburg, e spesso nello stadio terminale le vittime soffrono di crisi epilettiche. Durante le
convulsioni, genericamente indicate come attacchi di grand mal, tutto il corpo comincia a
rabbrividire e a tremare, e gli occhi, che a volte colano sangue, si rovesciano all’indietro. Spesso, il
sangue del paziente finisce con lo spargersi tutt’intorno, e forse tale fenomeno è una delle riuscite
strategie di Ebola, che ha così maggiori possibilità di introdursi in un altro ospite.
«Ebola e Marburg si moltiplicano con tanta rapidità ed efficacia che le cellule dell’organismo
infettato diventano veri e propri blocchi di particelle virali simili a cristalli... Ebola si moltiplica nel
cuore, negli intestini, negli occhi, letteralmente ovunque... La moltiplicazione continua inesorabile
fino a quando una sola goccia del sangue dell’ospite arriva a contenere anche cento milioni di virus.
«Dopo la morte, il cadavere si decompone con estrema rapidità: gli organi interni, morti
parzialmente o per intero ormai da giorni, hanno già cominciato a dissolversi e si verifica una sorta
di fenomeno di liquefazione; i tessuti connettivi, la pelle e gli organi, già costellati di zone morte,
riscaldati dalla febbre e danneggiati dallo shock, cominciano appunto a liquefarsi e le secrezioni
emesse dal cadavere sono naturalmente sature di Ebola» (op. cit. pagg. 90-92).
25
Un ricercatore americano, con un linguaggio un po’ brutale e paradossale, arriva ad affermare
che «Ebola fa sembrare l’AIDS un raffreddore... Ti fa diventare liquido e poi esplodere... L’interno
del tuo corpo è morto prima ancora che tu muoia. E per fare tutto questo il maledetto virus impiega
circa sette giorni...». E a chi gli domandava cosa si potesse fare per combatterlo, rispondeva:
«L’unica cosa da fare è non beccarselo...».
Chiedo scusa ai lettori più sensibili che troveranno queste descrizioni un po’ truculente e
raccapriccianti. Devo riconoscere che
PAGINA 48:
io stesso, nel riferire queste cose, mi sentivo a disagio e avevo quasi la sensazione di essere
contagiato da Ebola alla semplice lettura del quadro clinico. Faccio, tuttavia, presente che le sei
Poverelle non si sono limitate a leggere delle pagine su Ebola. Loro le nefande imprese del terribile
virus le hanno lette nel proprio corpo.
Una cruda evidenza e molti inquietanti interrogativi
A riguardo di Ebola ci sono pochi punti fermi (e, tra questi, alcuni un po’... traballanti) e,
nonostante le ricerche, permangono parecchi interrogativi inquietanti e misteriosi. Su questo virus
sappiamo parecchie cose, soprattutto conosciamo gli effetti della sua opera, ma la chiave di ingresso
nel suo regno non è stata ancora trovata.
È accertato che i tempi di incubazione appaiono brevissimi, a differenza di quelli dell’AIDS che
sono ultradecennali. La sua azione è fulminea e non supera i venti giorni. Allorché Ebola si
introduce in un organismo, nei primi giorni la persona non accusa alcun malessere. Dopo che si
avvertono i primi sintomi (mal di testa, febbre, arrossamento degli occhi), il decorso del male
diventa inarrestabile e la fine sopravviene nel giro di otto-dieci giorni.
Ebola non viene riconosciuto di primo acchito. Da principio si pensa a una banale influenza o a
un attacco di malaria. A Kikwit si è camuffato da diarrea rossa, un malanno abbastanza frequente, e,
se non proprio innocuo, certo non eccessivamente temibile. Allorché sotto quel travestimento
appare il volto orrendo di Ebola, è ormai troppo tardi. Il virus ha già iniziato la sua inarrestabile
azione devastatrice che compie con una fretta maledetta.
Finora non è stato approntato alcun vaccino in grado di contrastare il virus Ebola.
Quanto agli animali che sarebbero «serbatoi» del virus (in linguaggio tecnico: ospiti), occorre
discolpare subito le scimmie, che invece ne sono le vittime più esposte e quindi semmai il veicolo di
trasmissione. Si pensa piuttosto ai pipistrelli, ai ragni, a vari insetti, ai topi, ma non si escludono
neppure il leone, il bufalo cafro
PAGINA 49:
e qualche rettile imprecisato. I ratti restano comunque i maggiori indiziati.
26
L’epidemia sviluppatasi in Zaire sembra essere partita da carne di scimmia messa in commercio.
Ma si trattava, probabilmente, di scimmia che aveva divorato un topo infetto.
Resta in piedi l’interrogativo più angoscioso: Ebola, oltre che per contatto fisico (specialmente
mediante il sangue), si propaga pure attraverso l’aria?
Da esperimenti condotti sulle scimmie si è potuto costatare che Ebola si muove attraverso l’aria
seguendo percorsi misteriosi. Perciò, sempre riferendosi alle scimmie, gli studiosi in un primo
tempo sospettarono che il virus sarebbe in grado di attraversare gli spazi aperti viaggiando nell’aria
trasportato da minuscole e invisibili goccioline derivanti dall’acqua spruzzata su un pavimento (una
specie di effetto aerosol). Insomma, qualcosa di simile a quanto avviene per il virus dell’influenza,
per cui basterebbe uno starnuto o un colpo di tosse per diffondere il contagio.
Ma l’ipotesi viene smentita da altri studiosi, i quali fanno notare che il fenomeno potrebbe
applicarsi soltanto a Reston e in particolare alla varietà Andromeda.
Lo scienziato Tom Skinker ha detto: «Le possibilità che Ebola riesca a diffondersi “per via
aerea” sono ridotte, anzi ridottissime, ma non inesistenti». Quel «non inesistenti» insinua un dubbio
atroce. In tal caso, infatti, non sarebbe umanamente possibile tenere il virus sotto controllo.
PAGINA 50:
EBOLA A KIKWIT
Che cosa è avvenuto
Kikwit, una cittadina di poco più di quattrocentomila abitanti, incastonata in un paesaggio
bellissimo attraversato dal fiume Kwilu (assai popolato di coccodrilli), è stata sicuramente
l’epicentro dell’epidemia scatenatasi nel 1995.
Secondo l’opinione del prof. Jean-Jacques Muyembe8, Ebola si sarebbe introdotto a Kikwit nel
gennaio del 1995, allogandosi in una famiglia del quartiere denominato Poto-Poto, nella zona di
Lukolela. Quindi, dopo essersi infiltrato nell’ospedale stesso, avrebbe provocato vittime in serie.
Pare, secondo alcune testimonianze, che suor Floralba denunciasse il fatto che alcuni uomini
morivano senza che ci si preoccupasse di accertare la causa dei loro decessi che risultavano
piuttosto misteriosi.
Diciamo subito che l’allarme internazionale è scattato soltanto quando a rimanere vittime del
virus furono dei bianchi, e precisamente delle suore.
Il virus a Kikwit ha raggiunto la sua punta parossistica nei giorni 13 e 14 maggio 1995.
II 24 agosto 1995, giorno in cui è stata dichiarata la fine dell’epidemia, si potevano fare dei
calcoli sufficientemente precisi: il mostro aveva provocato 244 morti su un totale di 315 persone
colpite. Quindi si era registrato un tasso di letalità del 77 per cento.
La vittima più anziana è stata suor Floralba, coi suoi 71 anni, la più giovane un bambino di due
mesi. Le famiglie colpite sono state 180, con un numero impressionante di orfani: 367 al di
8
Ricavo le notizie per questo capitolo dal volume dell’abbé Fansaka Biniama Bernard, Les chrétiens de Kikwit face
au virus d’Ebola, Kikwit 1996.
27
PAGINA 51:
sotto dei quattordici anni, e 133 fra i quattordici anni e la maggiore età.
Il secondo focolaio dell’epidemia è stato Mosango.
Si è perso molto tempo a discutere sull’origine virale o bacillare della malattia.
Il contagio si è diffuso certamente dalla sala operatoria dell’ospedale. Non si può stabilire con
sicurezza, tuttavia, quale sia stata la persona infetta sottoposta a intervento chirurgico: si parla
genericamente di una donna, ma anche di un inserviente, e poi del famigerato «cercatore di
diamanti» venuto dall’Angola. Il «fattaccio» comunque si sarebbe verificato il 10 aprile, e suor
Floralba partecipava come al solito all’operazione.
Anche nella cittadina del Bandundu tutto cominciava con la febbre. Ma allorché suor Floralba
annuncia in comunità di stare poco bene e di avere la febbre, nessuno si preoccupa più di tanto. La
febbre, in quei posti, rappresenta quasi la normalità. Solo quando la temperatura continua a
rimanere su picchi elevati, serpeggia l’apprensione e la suora viene trasportata all’ospedale di
Mosango, che sarebbe più affidabile.
Durante i solenni funerali, svoltisi il 27 aprile nella cattedrale di Kikwit per volere espresso del
Vescovo, nessuno poteva sapere che cosa si nascondesse dietro la morte di «mama mbuta», né
tantomeno sospettava che si fosse ormai entrati in un «ciclo infernale».
Anche qui i sintomi della malattia sono quelli soliti: febbre sui 40°-41°, vomiti sanguinolenti,
emorragie congiuntivali, macchie rosse sul tronco, gli avambracci e poi sulla lingua, le pupille che
si accendono fino a diventare color rubino.
Qualche volta il virus, apprendista stregone, concede alla vittima una brevissima tregua,
facendole balenare l’illusione di una ripresa, per poi assestarle subito dopo il colpo decisivo.
Si sa ormai che il virus viene contratto attraverso il sangue, la saliva, il vomito, le urine, lo
sperma, oppure manipolando un morto infettato.
A questo proposito, un grosso enigma rappresenta la morte delle ultime due «Palazzoline», che
pure avevano adottato tutte le
PAGINA 52:
precauzioni imposte dai medici e suggerite dalla loro stessa esperienza professionale. Il prof.
Muyembe insinua il sospetto che sarebbe bastata la maniglia della porta toccata da una suora già
malata a trasmettere il contagio a quella che veniva dopo e la afferrava a mani nude.
Imperversa il virus, ma anche le favole e i pregiudizi
La gente, comunque, più che fidarsi della scienza, ricerca altre cause affidandosi alle favole e ai
pregiudizi. E allora, siccome l’epidemia colpisce le religiose, ecco scoccare la diagnosi: si tratta di un
castigo di Dio perché non hanno la fede. Quello sarebbe il peccato capitale dei cattolici (e poco
importa vengano colpiti anche membri di altre confessioni religiose).
Circolano anche leggende che hanno dell’inverosimile. Quella che viene spacciata più di
frequente ha per protagonista l’individuo malato venuto dall’Angola, dove era andato a cercare
28
fortuna, e che teneva depositato nei visceri un diamante di parecchi carati, per sfuggire ai controlli
della dogana. Si tratta di un trucco abbastanza noto e praticato da coloro che vengono definiti come
«Banaya Lunda» (figli di Lunda; Lunda è una provincia dell’Angola dove si sarebbero arricchiti
parecchi di questi avventurieri).
All’ospedale, prima dell’operazione, avrebbe rivelato il suo segreto e i medici si sarebbero poi
spartiti quella fortuna (magari con la complicità delle suore!). Per cui il morbo non sarebbe che la
terribile vendetta di quel talismano depredato.
La morte arriva... dopo il funerale
A Kikwit, durante la liturgia funebre, si intona un famoso canto in lingua Mbala, dalla melodia e
dalle parole struggenti «Mulongodi... malembe» che si può rendere con «Guardalo... dolcemente».
A poco a poco, però, la dolce nenia sarebbe stata striata dai brividi della paura che finiva per
paralizzare la gente.
PAGINA 53:
Già durante i funerali della seconda Poverella (suor Clarangela) si notava una vistosa rarefazione
dei fedeli in cattedrale, per la Messa di suffragio9, a motivo del panico che stava serpeggiando.
Intanto il Vescovo, nell’omelia, aveva lanciato un drammatico appello: «Si tratta di una malattia
contagiosa. Verranno trovati dei medici disposti a venire in nostro soccorso?».
Particolarmente agghiacciante la sepoltura di suor DanielangeIa. Morta verso le 14, vennero
decisi i funerali per la sera della stessa giornata.
Al cimitero, i portatori, stremati, si limitarono a depositare il feretro nella fossa, e se ne andarono
lasciandolo scoperto.
Le suore avevano dovuto provvedere loro a rivestire di stoffa una bara rudimentale, che il
cappellano dell’ospedale aveva recato per un certo tratto sulla propria testa.
C’era una sola pala, e i medici avevano diffidato sia le suore che i becchini dall’utilizzarla,
perché non infettasse persone sane.
A un certo punto, però, non potendo resistere a quello spettacolo umiliante, una suora aveva
afferrato la pala, presto imitata da altre religiose che impugnarono bastoni e altri mezzi di fortuna
per ricoprire di terra la bara.
«Sepolta come una povera», commenterà semplicemente suor Annelvira, provinciale, ricordando
il pensiero (e il desiderio) del Palazzolo.
Ma un prete zairese non ci sta e recita il mea culpa gridando: «Suor Daniela, perdonaci!».
Castigata la pietà
Paradossalmente, durante l’epidemia, proprio i gesti d’amore vengono spietatamente «puniti». Al
di là delle Poverelle, vittime della loro generosità, tipico è il caso dell’infermiere Willy Mubiala,
che ha contaminato parecchi operatori all’interno dell’ospeda-
9 Sarà opportuno tener presente che, dopo suor Floralba, in seguito nessuna suora è stata portata in chiesa per le
esequie. Normalmente, il giorno dopo la sepoltura, veniva celebrata una Messa di suffragio.
29
PAGINA 54:
le, oltre che i familiari. Personaggio dotato di una carica umana irresistibile e di grande
professionalità, godeva della simpatia generale e tutti, in occasione della sua malattia, si erano
prodigati per soccorrerlo (lo seguiranno nella tomba il figlioletto di pochi mesi e diversi familiari).
Le ultime sue vittime saranno, paradossalmente, tre amici che ne avevano composto con grande
delicatezza la salma.
Anche la morte di suor Eugenia Kabila, delle suore di san Giuseppe di Torino, va attribuita a lui,
oltre che alla prontezza della religiosa nel servire. Infatti era intervenuta per aiutare un infermiere
che intendeva praticare un’iniezione a Willy e aveva rotto la fiala ferendosi a una mano.
Quasi non bastasse, il virus puniva ancora più duramente la pietà verso i morti. I riti collettivi del
lutto erano l’occasione propizia per l’Ebola di colpire inesorabilmente.
Non c’è da stupire, allora, e nemmeno da scandalizzarsi, se in certe case, quando un congiunto
veniva a morire, ci si sbarazzasse in fretta del cadavere. Vergogna e terrore, a braccetto,
provocavano queste reazioni.
Fede alla prova della ragionevolezza
Al di fuori dell’ospedale, l’epidemia di Ebola ha fatto strage soprattutto in due ambiti religiosi:
nella «Legione di Maria» della parrocchia Yesu-Ngulunsi (diretta dall’animatore Madioko Médard)
e nella comunità cristiana di obbedienza protestante della Cadz.
Sorprendente soprattutto il numero delle vittime tra le legionarie, che si dedicavano in particolare
alla cura dei vecchi e dei «marginalizzati»: 21. E dire che parecchie di queste donne, a motivo della
loro preparazione, erano state selezionate per operare nelle varie sottocommissioni mediche.
All’origine di tutto, forse, c’è la morte della presidente, Annie Ngalula, la cui infermità, in un
primo tempo, era stata attribuita ai malesseri della sua tredicesima gravidanza.
Si può affermare che «mama Annie Ngalula» abbia provocato
PAGINA 55:
direttamente la morte di quattordici persone che l’avevano avvicinata durante la malattia (e alle
quali lei aveva garantito che la Vergine Maria le avrebbe protette dal virus), contravvenendo
ottusamente agli ordini dei medici, e che, altrettanto ottusamente, avevano lavato, rivestito e
vegliato il cadavere di Annie, senza adottare alcuna precauzione.
Il fanatismo dei figli, uno dei quali aveva sfidato dottori e portantini armato di machete per
imporre una sepoltura «normale», secondo le tradizioni, aveva fatto il resto.
Proprio in questa occasione si è potuto accertare che la Madonna non poteva funzionare da anti-
virus senza un adeguato discernimento nella pratica della fede e della carità.
Il prof. J.J. Muyembe-Tamfum, presidente del comitato internazionale di coordinamento
scientifico e tecnico della lotta contro Ebola, dichiarerà senza mezzi termini: «Le sorelle delle
Poverelle di Bergamo e la suora di san Giuseppe di Torino erano state colpite dall’infezione
curando altri malati... Ma alcuni cristiani sono morti per aver voluto sfidare temerariamente la loro
30
fede, e per aver irriso alle direttive del corpo medico: è il caso dei membri della Legione di Maria e
degli adepti del pastore protestante che aveva imposto le mani su un caso di Ebola».
A proposito del pastore protestante, vale la pena riassumere brevemente la sua vicenda. Dunque.
Quando ormai i pericoli dell’epidemia erano avvertiti da tutti, lui si ostinava a diffondere l’opinione
secondo cui Ebola era una punizione che colpiva esclusivamente coloro che non credevano in Dio.
Finì per imporre le mani sul capo di una donna malata del suo gruppo. Il fatto che quella
vomitasse sangue venne interpretato come espulsione dello spirito impuro.
Il pastore, col suo diacono e un altro che possedeva al pari di lui il dono delle guarigioni,
digiunarono e pregarono tutta la notte. La malata morì. Gli altri seguirono poco dopo, a cominciare
dal pastore al quale inutilmente un medico cercò di far capire che il virus poteva pur essere una
punizione divina, tuttavia, dal momento che il Signore aveva suscitato degli uomini intelligenti per
indicare la via della lotta, bisognava seguirli. Tutto vano. Il medi-
PAGINA 56:
co non riuscì a convincere il pastore che la volontà di Dio non era in contrasto con l’impegno della
scienza animata dalla buona volontà di portare la guarigione.
Almeno una trentina di morti sono da addebitare a una fede mal compresa.
Naturalmente, il caso delle Poverelle è diverso. Le prime hanno contratto il virus dedicandosi ai
malati e poi alle consorelle, quando ancora non si sapeva di che cosa si trattasse. E le ultime due lo
contrassero, come abbiamo già detto, in modo quasi inspiegabile, nonostante le precauzioni.
Bisognava, dunque, combattere su diversi fronti, compreso quello della superstizione e dei
pregiudizi più grossolani. Dapprima la popolazione spiegava tutto ciò che accadeva con «Landa
Landa», un’espressione che metteva in evidenza la stupefacente successione dei casi che colpivano
i membri di una stessa famiglia. Ossia, si attribuiva ciò che accadeva a una specie di cattiva sorte, al
malocchio, a qualche fattura.
Poi si incolparono i medici di Rosa Croce, attribuendo loro la pratica di sacrifici umani per fini
inconfessabili.
Allorché il virus seminò la morte tra le Poverelle, i protestanti tirarono l’acqua al proprio mulino
confessionale, spiegando che il flagello era dovuto alla mancanza di fervore dei cattolici. E quando
pure la comunità protestante venne colpita, tutti infine vennero ruvidamente richiamati alla ragione.
Così, attraverso molte sofferenze supplementari, si recuperò faticosamente l’unità dei cristiani
ammettendo che il flagello che si era abbattuto su Kikwit non era una punizione di Dio, bensì una
prova terribile che l’intera popolazione doveva superare integrando, nell’ambito della fede, le
norme igieniche stabilite dall’équipe medica.
In tal modo la vittoria, relativamente rapida, ottenuta contro l’Ebola, sarà la vittoria del popolo di
Dio, animato dalla fede e guidato dalla ragionevolezza, su una calamità naturale.
31
PAGINA 57:
Le bastonate a Maradona
Bisogna anche citare il dramma vissuto da tanti bambini. Un caso emblematico fra tutti: quello di
Kimbamba, soprannominato Maradona, di cinque anni. I suoi genitori adottivi vengono colpiti dal
virus e muoiono. Il piccolo, stravolto, esce di casa per avvertire il vicinato.
Qualcuno gli mette in mano un bastone imponendogli di colpire i suoi genitori in modo da
accertare se per caso siano ancora vivi. Quando Maradona esce, lasciando capire che quelli non
danno più alcun segno di vita, viene quasi lapidato e aggredito a legnate. Riesce a scampare per
miracolo a quella furia selvaggia.
Viene raccolto dal Vescovo di Kikwit e condotto all’ospedale generale, dove, insieme ad altri
orfani, sarà affidato alle cure del dottor Philippe Callain.
Verrà poi creato un centro apposito che accoglierà Maradona e altri bambini che avevano avuto
una sorte simile alla sua.
La faticosa catechesi del prof. Muyembe
Occorre segnalare anche atteggiamenti discriminatori nei confronti delle religiose di ogni ordine.
Posta l’equazione che Ebola=mancanza di fede dei cattolici e in particolare delle suore, si è arrivati
a rifiutare loro un posto in taxi al grido di «Ebola» oppure «Diarrea rossa». Poco ci mancò non si
scatenasse la caccia alle streghe e all’untore.
Comunque, riassumendo, si possono identificare alcuni atteggiamenti tipici della popolazione di
fronte all’epidemia.
Il primo, abbastanza naturale, è stato il panico. Specialmente nei primi giorni, non c’era una
macchina che circolasse a partire dalle prime ombre della sera.
Poi, specialmente nell’ambito delle sette, saturo di fanatismo irresponsabile, si è verificato un
rozzo fenomeno di scetticismo nei confronti della scienza medica e perfino di denigrazione nei
confronti dei dottori, accusati talvolta di pratiche abominevoli.
In compenso, pullulavano i visionari, gli apocalittici, e circola-
PAGINA 58:
vano le chiacchiere più inverosimili a riguardo di riunioni sataniche (con il virus Ebola in persona
che presiedeva...) e venivano praticati i più svariati riti magici.
In questi ambienti, la miscela tra ignoranza e fanatismo religioso, provocava l’istigazione a
trasgredire ostentatamente le proibizioni mediche e a cercare pervicacemente il contatto fisico
specialmente nel saluto.
Occorre tener presente che, nello Zaire, come del resto in altri Paesi africani, il saluto assume
una rilevanza particolare. Non ci si accontenta del nostro «buongiorno», ma si accompagnano le
parole con un gesto significativo, che può variare dalla comune stretta di mano, al contatto dei
pollici e poi dell’intera mano, ai buffetti sulle guance, agli abbracci, e perfino al congiungimento
delle teste, il tutto accompagnato da formule speciali.
32
Il prof. Muyembe, durante l’epidemia a Kikwit, aveva messo a punto una forma di saluto che
conciliasse la tradizionale gentilezza con la necessaria precauzione per evitare il contatto fisico. Il
gesto poteva apparire un po’ bizzarro e suscitare il sorriso, ma risultava abbastanza efficace.
Consisteva nel portare la mano sulla spalla e puntare il gomito in direzione dell’interlocutore che si
manteneva a debita distanza.
Ma è soprattutto nella manipolazione dei cadaveri che in certi irriducibili nostalgici della
tradizione si è manifestata l’ostilità – talvolta perfino violenta – nei confronti dei medici, fino a
demonizzare le loro disposizioni. Così spesso venne ripreso il costume del «Mulongodi» col
risultato, abbastanza prevedibile, che a trionfare non era tanto la tradizione ma il virus Ebola.
In campo cristiano, il ricorso alla preghiera nell’infuriare della pestilenza era frequente.
Particolarmente impiegate le formule semplici e ripetitive, in kikongo o in lingala: «Ndimela kaka,
okobika», «Kwikila kaka».
Ma non ci furono solo riunioni di preghiera. Gruppi laicali e religiosi (in prevalenza femminili)
si distinsero in un’opera assidua di informazione e sensibilizzazione, anche attraverso opuscoli che
presentavano le norme di prevenzione in modo chiaro e comprensibile per tutti.
PAGINA 59:
Parecchi cristiani erano arruolati nelle vane commissioni che combattevano in prima linea. Si
trattava di convincere la popolazione credente che le istruzioni dei medici dovevano essere
osservate quasi fossero volontà di Dio e che, oltre a indossare «l’armatura della fede», bisognava
calzare i guanti raccomandati dal dottor Muyembe. Una catechesi che, tenuti presenti gli ostacoli
contro cui andava a cozzare, richiedeva sforzi non indifferenti.
I protagonisti
Ed è giusto citare alcuni protagonisti di quelle giornate terribili. Spicca fra tutti la figura del
professor Jean-Jacques Muyembe-Tamfum, di Kinshasa, epidemiologo di autorità indiscussa,
chiamato d’urgenza dal Direttore Generale dell’ospedale di Kikwit.
Ha svolto un ruolo fondamentale, dapprima nella definizione dell’epidemia, e poi nel predisporre
i mezzi per combatterla e circoscriverla. La conoscenza della psicologia della gente, unita al
prestigio personale, lo favoriva nell’opera di convincimento e responsabilizzazione. Ma ha dovuto
scontrarsi anche lui con resistenze non indifferenti.
Tutti, comunque, finiscono per dargli atto di aver agito con grande umanità oltre che rigorosa
scientificità.
E quindi alcuni medici dell’ospedale e periferici, obbligati a operare in situazioni assai difficili,
con mezzi assolutamente inadeguati, in una casa il cui tetto era già in fiamme. Non è possibile
citarli tutti, perché l’elenco sarebbe assai lungo. Uno di loro, e precisamente un anestesista, ci ha
lasciato la vita.
Quindi vanno ricordati gli infermieri e le infermiere che hanno accettato volontariamente di
entrare nel temutissimo 3° Padiglione, dove stavano reclusi i malati di Ebola. Ciò che hanno fatto in
quel luogo, in un quadro di squallore e desolazione e orrore indescrivibili, per curare e confortare,
33
lo si può soltanto intuire più che raccontare. Il loro sacrificio, comunque, entra di diritto nelle
pagine più luminose firmate dalla gente semplice.
Una delle infermiere, Sofia Mvokolo, di 35 anni, aveva prete-
PAGINA 60:
so, quale unica assicurazione prima di mettere i piedi in quel recinto, che qualcuno si occupasse dei
suoi figli da cui doveva separarsi.
Non avevano neppure il tempo di prepararsi il pasto. Le emergenze erano continue. Un malato
anche di costituzione robusta poteva accusare un calo di pressione fino a zero e bisognava
rianimarlo.
Più di una volta le infermiere vennero sorprese dal sonno con una siringa in mano.
Allorché il secondo turno di volontari penetrò nel 3° Padiglione per sostituirlo, quelle del primo
drappello ebbero quale premio tre giorni di riposo.
Vanno ancora segnalati i dottori Pierre Clause e Philippe Callain, giunti dagli Stati Uniti, e che si
sono imposti all’ammirazione generale per tatto ed esperienza. Il dottor Pierre si è accollato
personalmente il compito di assistere, con squisita delicatezza, suor Annelvira e suor Vitarosa.
Figura di spicco, infine, è senza dubbio quella del Vescovo di Kikwit, mons. Kasiala Edouard
Mununu, che ha fornito uno straordinario esempio di fede, di coraggio e di amore. Ha voluto
benedire personalmente e accompagnare alla tomba tutte le vittime di Ebola.
Ha fatto, per così dire, da cassa di risonanza della tragedia del suo popolo presso l’opinione
pubblica internazionale. Ha ottenuto e gestito con oculatezza i contributi di vari organismi. Ma,
soprattutto, è sempre stato in prima linea contro il virus, sia all’ospedale che nelle case dei
moribondi, e quindi nei conventi delle religiose cui era imposta la quarantena, infine al cimitero.
Allorché le Poverelle sono state trasferite a Mbuka-Nzundu, lui non ha mai lasciato mancare la
sua presenza.
Significativo pure il suo impegno per animare e, quando era il caso, dare una mano ai
«sécuristes», spossati dal lavoro, per inumare i cadaveri. E, dopo aver inflitto una dura reprimenda a
chi aveva opposto un rifiuto, ha provveduto con le proprie mani, debitamente guantate (e mai guanti
vescovili sono apparsi più splen-
PAGINA 61:
didi e accettabili), a seppellire i cadaveri abbandonati nel cimitero in quel fatidico 13 maggio.
Insomma, ha dimostrato che neppure un Vescovo è dispensato dall’opera di misericordia
corporale che consiste nel «seppellire i morti». Virus o non virus.
A chi lo accusava di aver esagerato in allarmismo risponderà di aver sentito l’elementare dovere
di captare il grido della sua gente e scuotere l’opinione pubblica internazionale. «L’unico mandato
che ho ricevuto è stato il grido del mio popolo espresso con lacrime di sangue». Comodo criticare,
specialmente quando chi lo fa se n’è rimasto al riparo dal virus.
34
Mons. Mununu, senza iattanza, sa di aver contribuito a limitare l’estensione dell’epidemia in
tempi relativamente brevi. E, attraverso l’intervento di ricercatori accorsi da ogni parte, di aver
favorito l’opera di identificazione del flagello.
Una pianta che non c’entra
Si è favoleggiato a lungo a proposito del mupeshi-peshi. Questa pianta, a cui tutti riconoscono
proprietà terapeutiche quasi magiche per numerosissimi mali, secondo alcuni avrebbe procurato
guarigioni durante l’epidemia di Ebola.
Si tratta di un arbusto assai conosciuto che cresce nelle foreste dei dintorni di Kikwit. Per uso
medicinale viene utilizzata la radice, debitamente seccata (che si può trovare anche al mercato), che
viene messa a macerare in un bicchiere d’acqua. Si ottiene così un liquore denso, dal sapore
decisamente amaro e sgradevole. Anche l’odore è ripugnante e lo si avverte stando vicino a chi lo
assume.
I suoi effetti benefici sono generalmente riconosciuti nella cura della malaria – grande
maledizione dei paesi tropicali – della tosse, della febbre gialla, dei dolori articolari e della schiena.
Il mupeshi-peshi viene anche impiegato dalla medicina tradizionale per la cura di certe malattie
veneree.
Si è tentato di inserire nella già lunga lista dei successi conseguiti da questa pianta prodigiosa
anche l’eliminazione del famige-
PAGINA 62:
rato virus. Tuttavia, in occasione della grande calamità, nonostante l’alone di mistero che circonda
il mupeshi-peshi, e perfino la sua mitizzazione, non si è riusciti ad accertare alcun influsso positivo
su un piano rigorosamente scientifico.
I suoi meriti, quindi, almeno nel caso di Ebola, restano tutti da dimostrare.
Un silenzio che uccide più delle pallottole
C’è il pericolo che, dopo questa tragedia e tutto il clamore che ha sollevato nell’opinione
pubblica internazionale, sullo Zaire torni a calare una pesante coltre di silenzio. «Questo –
ammonisce mons. Faustin Ngabu, vescovo di Goma – è un silenzio che uccide. Sì, uccide più di
migliaia di pallottole».
PAGINA 63:
IN CASA DELLE POVERELLE
Una drammatica successione di fax
Dopo aver guardato in faccia il terribile mostro di nome Ebola, e aver tracciato il percorso della
sua azione devastatrice nell’epicentro di Kikwit, concentriamo l’attenzione sulle sei Poverelle che,
35
in rapida successione, ne sono state vittime. Inseriremo il loro dramma in quello vissuto da tutta la
loro famiglia religiosa.
Seguiremo diverse tracce, rifaremo la loro storia da punti di osservazione diversi, col rischio di
qualche inevitabile ripetizione.
Cominciamo dalla via «ufficiale». Si tratta dei fax partiti da Kinshasa (Limete) e firmati da suor
Amelia e suor Donata (alternativamente o insieme).
Il 25 aprile 1995, alle ore 10,20, si comunica alla Madre Generale: «Restiamo unite nella
sofferenza, nella preghiera e nell’offerta. Suor Floralba ci ha lasciate per il cielo proprio in questo
momento. Il Padre, la Madonna e il Palazzolo l’avranno già abbracciata. Ci proteggerà dal cielo.
«Dall’interno, dicono che non è possibile portarla a Kinshasa...».
Tre giorni dopo: «Il funerale è stato un vero trionfo. Tantissima gente... Suor Floralba, schiva di
tutto ciò che poteva attirare l’attenzione su di lei, durante tutta la sua vita, questa volta non ha
potuto scappare...».
A proposito dei funerali di suor Floralba, celebrati nella cattedrale di Kikwit, qualcuno sostiene
che quella forma solenne, con una grande partecipazione di popolo, è stata un’imperdonabile
imprudenza, se non un atto temerario. Ciò significa ragionare col senno di poi. In realtà, a fine
aprile nessuno era in grado di affermare che responsabile del decesso fosse il virus Ebola, e quin-
PAGINA 64:
di come si poteva impedire che la popolazione di Kikwit rendesse omaggio a una «mamma» che per
43 anni aveva servito i loro malati?
Si riteneva poi che il suo corpo non potesse diffondere il contagio perché era stato
immediatamente imbevuto di formolo, in attesa che arrivassero dall’Italia le due sorelle.
Comunque la morte per cause misteriose di suor Floralba contribuisce in maniera determinante a
far scattare l’allarme10
come testimonia questo fax del 4 maggio (allorché suor Clarangela e suor
Danielangela si sono già ammalate): «Dopo una giornata di un duro e lungo silenzio, percepisco con
molta difficoltà la voce di suor Anna11
che con tono grave mi comunica quanto nella giornata è
stato deciso con i medici e i professori specialisti inviati da Kinshasa.
«1° Tutte le suore che sono venute a contatto con la sorella defunta devono sottoporsi a un
periodo di contumacia. Ciascuna deve restare in casa senza nessun contatto con l’esterno...
«2° I prelievi del sangue saranno inviati domani mattina, tramite una persona, ad Anversa, per
uno studio approfondito e i risultati verranno comunicati non appena possibile...
«3° Non si sa ancora quale tipo di microbo o virus produca l’epidemia. Si fanno molte ipotesi,
ma sarà esclusivamente Anversa ad esprimersi con certezza...
10
Precisiamo che, oltre alla morte di suor Floralba (per cause non chiaramente diagnosticate), ci sono stati altri
segnali inquietanti e decisivi, come la morte concomitante di altre persone, soprattutto tra il personale degli ospedali di
Kikwit e di Mosango, che presentavano sintomi analoghi a quelli rilevati in alcuni malati. La diagnosi fatta dal prof.
Muyembe il 5 maggio è stata, per così dire, facilitata dalle malate «di pelle bianca», in quanto su di esse si
evidenziavano meglio le terribili «macchie rosse» tipiche di Ebola. 11
Occorre tener presente che, non essendo possibili le comunicazioni dirette tra Kikwit e l’Italia, le notizie
passavano necessariamente «via radio» (abitualmente con notevoli difficoltà tecniche) da Kikwit alla capitale Kinshasa,
e di qui venivano smistate, «via fax» (in quel tempo il fax funzionava meglio del telefono) alla Casa Madre di Bergamo.
36
PAGINA 65:
«4° Quanto alle sorelle di suor Floralba; speriamo possano partire domani sera. Sono molto
preoccupate... Starà a voi avvertirle di essere prudenti ed eventualmente consultare il Negrar12
».
Fax del 5 maggio: «Suor Daniela è stata trasportata a Kikwit. Il suo stato di salute, come quello
di suor Clara, resta allarmante. Le due sorelle presentano gli stessi sintomi di suor Floralba.
Informate le famiglie. Qui si fa appello ad organismi internazionali. Non ci sono medicine e non è
possibile il trasporto. Le sorelle di Kikwit sono in isolamento. Chiediamo un “miracolo”. Che il
Signore ci sostenga nella fede... Le sorelle di suor Floralba partono stasera. Saranno alle 9 a Milano
Linate».
Ed ecco, il giorno dopo, un drammatico appello: «Suor Clarangela ci ha lasciato all’una di notte.
Signore, abbi pietà! Suor Danielangela è gravissima. Dobbiamo procedere immediatamente per
cercare aiuti tramite ambasciata belga per Anversa in modo da salvarla. Sosteneteci! Suor Donata».
Nello stesso giorno, 6 maggio: «Abbiamo ricevuto notizie da Anversa. Non trovano plasma con
anticorpi...
«Servono con urgenza indumenti protettivi e maschere per le persone che stanno a contatto
diretto con le malate...
«Cosa vuole mai il Signore? Gli occhi continuano a riempirsi di lacrime ».
7 maggio: «Abbiamo appena parlato con le sorelle di Kikwit. Sono le ore 6,40. Suor Daniela ha
avuto una leggera ripresa, ma lo stato permane gravissimo. Non è ancora entrata in coma e non ha
emorragie. Tale è stato il decorso per le altre sorelle: dopo la febbre, vomito e diarrea. Strappiamo il
miracolo al Fondatore! Suor Dinarosa ha sempre febbre molto elevata, nausea... Le altre sorelle non
presentano per il momento dei sintomi... Si sta lottando per smuovere organismi internazionali.
Servono con urgenza mezzi di protezione.
«Suor Clarangela, deceduta ieri 6 maggio alle ore 1,30 di notte, è stata sepolta ieri pomeriggio
alle 14,30.
«Nessuno ha potuto entrare nel recinto della comunità né tan-
PAGINA 66:
tomeno in casa. È terribilmente duro. La vera solitudine per le sorelle di Kikwit. Ci chiediamo come
poterle sostenere in questo dramma. Restiamo unite...».
Frattanto i campioni di sangue inviati ad Anversa e ad Atlanta il 5 maggio, sono stati esaminati e
la prima risposta sicura giunge dagli Stati Uniti l’8 maggio: non ci sono dubbi, si tratta di Ebola.
Il 10 maggio la Madre Generale, suor Gesuelda Paltenghi, informa la Congregazione:
«Carissime Sorelle, dopo la rapidissima morte della missionaria suor Floralba Rondi che a tutte ha
lasciato in cuore tanta sofferenza e un esempio di carità eroica, sono partita per la Costa d’Avorio in
visita alle sorelle, niente supponendo di quanto ancora doveva accadere.
«Sabato 6 maggio suor Guglielma mi raggiunge con una telefonata ad Agnibilekrou
comunicandomi con angoscia il decesso di un’altra missionaria, suor Clarangela Ghilardi, colpita
12
Ospedale tenuto dai Padri di don Calabria, nei dintorni di Verona.
37
anch’essa dal virus micidiale. Non ho più resistito e la sera stessa, con suor Flora che mi
accompagnava, siamo ripartite da Abidjan per Milano.
«Nel frattempo mi hanno comunicato l’aggravarsi di altre due sorelle, suor Danielangela Sorti e
suor Dinarosa Belleri.
«La situazione nella regione di Kikwit è gravissima per la popolazione già così provata dalla
miseria, dalla malattia, dall’oppressione. Le nostre sorelle di Kikwit sono in isolamento, avendo
tutte avuto contatti con le due ammalate. La Superiora Provinciale, essendo infermiera, è là che le
assiste e le incoraggia assieme ad altre sorelle.
«Le sorelle di Mosango, Tumikia e Lusanga sono pure in isolamento per precauzione, ma finora
stanno bene. A Kinshasa non c’è allarme, essendo lontana 500 chilometri da Kikwit. Tuttavia suor
Danila, che aveva assistito suor Floralba e altre tre suore che avevano partecipato al funerale, sono
in isolamento per precauzione...
«L’offerta della vita delle nostre due sorelle espressa in una carità eroica verso i malati, ha fatto
sì che l’opinione pubblica si scuotesse e si muovesse, ed ora vengono organizzati aiuti e predisposti
mezzi a livello internazionale, ed è stata allestita una équi-
PAGINA 67:
pe di ricercatori per debellare il male. Suor Donata e suor Amelia, partecipando alle riunioni
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Kinshasa, hanno fatto sentire la voce di chi non ha
voce e qualcosa si sta muovendo a favore di tutta la popolazione. Speriamo che questi aiuti risultino
efficaci per tutti...
«Mi ha commossa la disponibilità di alcune sorelle, infermiere e non, a partire per lo Zaire al fine
di aiutare le sorelle di laggiù. Grazie di vero cuore per questa generosità. Al momento non è
possibile andarci, perché sarei io la prima a partire; più tardi si vedrà l’evoluzione e saranno
esaminate le possibilità...».
Intanto da Kinshasa si susseguono a ritmo incalzante i fax: «Siamo sempre in attesa della buona
novella, non ci lasciamo abbattere... Noi crediamo al di là di tutto...
«Cerchiamo di essere presenti alla comunità di Kikwit. Devono riuscire a tener duro...
«Ore 14,05: mentre scriviamo, riceviamo la triste notizia che suor Daniela non è più di questo
mondo... Continuiamo a sperare nel Signore, a implorare per suor Dina. Il cuore si spezza, ma
guardiamo a Lui...» (11 maggio).
E lo stesso giorno: «...Dunque, anche suor Danielangela ci ha lasciate per il Paradiso dopo tredici
giorni di lotta che abbiamo combattuto insieme contro questo terribile virus... Ora c’è suor Dina che
dal 4 maggio ha gli stessi sintomi. Tutti i test ematici prelevati, dunque anche il suo, confermano la
forma virale di febbre emorragica (di Yambuku)...».
Una lettera inviata da Kikwit lo stesso giorno 11 maggio, a firma suor Anna, informa: «È un
flagello terribile! In questi giorni muoiono due infermieri al giorno. C’è pure una giovane suora di
S. Giuseppe di Torino che non sta bene... Ora suor Dina... Temo perché è fragile. Chi pensava più
all’epidemia di Yambuku in modo da adottare tutte le precauzioni nell’assistenza?... Siamo molto
affrante ma il coraggio non manca...».
38
Ancora comunicazioni da Kinshasa il 13 maggio: «Abbiamo sentito con estrema chiarezza suor
Anna... Una voce ferma, una fede salda e un coraggio stupendo. Saluta tutte e dice di restare
coraggiose e ricche di speranza. Loro non presentano nessun sin-
PAGINA 68:
tomo. La carissima suor Dina è sempre molto grave. Ieri sera ha ricevuto il sacramento dei malati e
si è confessata; era cosciente.
«Nella cattedrale, sempre ieri alle ore 15, è stata celebrata la Messa di suffragio per suor Daniela.
Tre sorelle di Tumikia e una di Mosango hanno ottenuto il permesso di partecipare. Nel frattempo
le sorelle di Kikwit (in isolamento) sono rimaste in preghiera e in adorazione. Al termine della
celebrazione, le suore delle tre comunità si sono scambiate notizie parlandosi dal portone chiuso. È
un momento duro ma “Fiat”...».
Lo stesso giorno: «Suor Dina permane grave, ma è sempre presente a se stessa. Ha chiesto di
suor Daniela e le è stato detto che è stata portata all’ospedale... Sono tutte molto coraggiose, e per il
momento non accusano nessun sintomo, solo tanta stanchezza...».
Comunicazioni a ritmo incalzante il 14 maggio. Ore 7,50: «Abbiamo appena sentito suor
Vitarosa. Il Signore vuole proprio strapparci suor Dinarosa. Stanotte è entrata in coma. Continuiamo
a gridare al Signore la nostra fede e la nostra speranza. Il suo volere misterioso ci mette in
ginocchio».
Poco dopo: «La quarta martire della carità ha raggiunto le altre alle 9,17... Il Signore ha
veramente marcato la nostra storia con pagine di fede, di speranza, di abbandono...».
La mattina del giorno dopo: «Suor Dinarosa sarà sepolta subito! La Messa sarà celebrata alle ore
17, ma suor Anna ha chiesto che ogni comunità celebri sul posto perché a Kikwit si stanno
moltiplicando i casi e non è prudente entrarvi... Il cuore si spezza per il dolore...».
Ed ecco ancora un messaggio della Madre (16 maggio): «L’angelo della morte ha bussato per la
quarta volta in 19 giorni alla porta della nostra famiglia religiosa, portando in Paradiso le altre due
carissime sorelle missionarie: suor Danielangela, deceduta l’11 maggio, e suor Dinarosa, il 14 dello
stesso mese.
«Non posso passare sotto silenzio la testimonianza di una nostra comunità di Bergamo, le cui
Sorelle, presentandomi le condoglianze e l’offerta, scrivono: “Le mandiamo quanto avremmo speso per
la passeggiata comunitaria e che, volentieri, abbiamo deciso di trasformare in giornata di supplica e
di adorazione”.
PAGINA 69:
«Sostenute da diverse persone della Diocesi di Bergamo, abbiamo attivato in proprio, ma anche
sollecitato ogni aiuto possibile da parte di organismi nazionali e internazionali, a favore di tutto il
popolo zairese in mezzo al quale le nostre sorelle hanno dato e stanno dando la vita. Il Vescovo di
Bergamo ha lanciato un appello; la Caritas diocesana ha avviato una sottoscrizione; il Ministero
39
degli Esteri ha assicurato l’invio di aiuti. Speriamo e operiamo perché la solidarietà non venga
meno.
«...Suor Annelvira, Superiora Provinciale, è rimasta sulla breccia e come infermiera, con fede
forte, coraggio e grande speranza, ha assistito e curato fino all’ultimo, a una a una, le quattro sorelle
che ora sono nella gloria dei beati...».
Ed ecco un’altra successione di fax dallo Zaire. 20 maggio: «Questa mattina, alle ore 7, a suor
Anna che l’aveva chiesto insistentemente, è stato amministrato il sacramento dell’unzione degli
infermi. Così pure a suor Rosa. Le sorelle della comunità hanno partecipato dall’esterno con il canto
che ci è tanto caro: “Oh Marie! aide nous a dire oui, chaque jour de notre vie...”13
.
«Suor Anna non va molto bene, tutti i sintomi della febbre emorragica sono là. Suor Rosa, per il
momento, ha solo febbre ma è ancora in forza...
«Le sorelle della comunità aspettano che suor Maria e suor Béa arrivino a prenderle per andare
in un’altra casa».
23 maggio: «Suor Anna è sempre molto grave, suor Rosa stazionaria... Il Signore sa e ci ama,
vogliamo crederlo...».
Lo stesso giorno, ore 17,10: «Suor Annelvira è appena entrata nella pace del Signore. “Fiat!”.
Nel silenzio adorante, lo sguardo fisso al Gesù ignudo sulla croce, diciamo: “Sì, Padre!”... Suor
Vitarosa va meglio, e suor Béa cerca di fare in modo che non lo sappia subito».
Alle 21 dello stesso giorno: «Un forte temporale ci ha impedito di comunicare ancora, via radio,
con suor Béa. Non sappiamo
PAGINA 70:
perciò nulla del funerale, della Messa, della reazione di suor Rosa e delle altre sorelle...».
Il giorno seguente: «Suor Anna è stata sepolta alle ore 7. C’erano il Vescovo, suor Béa, suor
Vincenzia, alcune Suore di altre congregazioni, parecchi medici e il medico curante, e poi la gente
che usciva dalla Messa della cattedrale...
«...Suor Vitarosa sta abbastanza bene. Ieri pomeriggio ha intuito la morte di suor Anna perché ha
sentito un rumore insolito nella stanza vicina e lei era solita arrivare fino alla porta per vedere suor
Anna. Il suo medico curante glielo ha detto esplicitamente. Suor Béa dice che i medici si
dimostrano molto umani. Sono rimasti con lei, l’hanno consolata, incoraggiata a reagire
positivamente. Suor Rosa ha dormito tutta la notte. Non ha febbre, né vomito, né diarrea. Stamane
ha voluto l’uovo col marsala. Si è alzata un po’ ed è tornata a letto... Il Signore ci dà la forza per
portare il peso di questa prova... È già un miracolo la fede con cui possiamo vivere questo
momento...».
24 maggio: «La situazione di suor Rosa appare molto critica. Non ha alcun sintomo particolare
(pressione normale, niente febbre, né vomito, né diarrea), ma accusa tanta, tanta debolezza. Il
medico è preoccupato. Anche se mangia qualcosa, non riesce a recuperare le forze... Il cuore freme
ancora e silenziosamente grida al Signore: “... Anche questa?”. Non abbiamo forza per “discutere
con Lui”... Lo guardiamo e imploriamo. Non vogliamo perdere fede e speranza. Ci sono alcuni
13
La stessa scena si era ripetuta per ciascuna sorella che riceveva l’unzione degli infermi. Le consorelle, che stavano
fuori, in giardino, intonavano col groppo in gola quel canto.
40
infermieri che sono guariti e passano a vedere suor Rosa per incoraggiarla, per dirle che anche lei
può venirne fuori. Lei però ha detto: “Penso di non farcela...”. Insieme viviamo questa nuova
angoscia, questa offerta che ci consuma tutte, questo mistero che chiede solo adorazione e
accoglienza. È terribilmente duro, ma vogliamo credere e sperare».
Ed ecco le ultime comunicazioni del 28 maggio 1995: «“Tutto è compiuto!”. Il Signore si è
portato con Sé nella gloria dei beati anche suor Rosa, alle ore 2 di stanotte... Il mistero è grande, ci
avvolge, e in uno sforzo supremo diciamo: “Padre, nelle tue mani mettiamo le loro e le nostre vite.
Abbi pietà di noi”».
E, poco dopo: «Abbiamo avuto alcuni particolari. Ieri sera, ver-
PAGINA 71:
so le 22, la pressione è scesa, l’astenia è cresciuta, alle ore 24 la respirazione risultava superficiale.
Si è spenta silenziosamente, si è addormentata nel Signore. Se le sorelle non fossero state vicine a
guardare ogni tanto, non si sarebbero neanche rese conto. I medici non hanno cessato di fare il
possibile per salvarla... Sarà sepolta alle 13,30 e la Messa sarà celebrata domani. Le sorelle delle
diverse comunità potranno essere presenti, tranne quelle in isolamento. Il Signore ci renda salde
nella fede».
Nessuna sbavatura di commento, che finirebbe per intaccare la semplicità di queste righe e
offuscarne la luminosità.
Lasciamo, piuttosto, sia la «Madre» a fare un bilancio: «Abbiamo sperato tanto in questo mese di
maggio! Abbiamo invocato a lungo, con fervore e insistenza, l’intercessione del nostro Fondatore: il
beato Luigi Maria Palazzolo. Il rapido succedersi degli eventi ci ha profondamente colpite. Siamo
sgomente per questa durissima prova, ma non distrutte; siamo sconvolte, ma non spezzate, perché
Dio ci è Padre tenerissimo e sa il perché di questa sofferenza, di queste morti, di questi vuoti; e, nel
cocente dolore, abbiamo fissato ancor più il nostro sguardo sul Crocifisso Risorto con grande
speranza.
«La morte delle Sorelle martiri di carità ci ha fatto e ci fa profondamente meditare per capire,
raccogliere e custodire il segreto della loro testimonianza: la loro morte è stata la conclusione di una
vita donata giorno dopo giorno con amore, gioia, umiltà e disponibilità totale a Dio e ai fratelli.
Questa è la vera “profezia”!
Siamo certe che la vita donata con amore e per amore dalle nostre Sorelle a Kikwit è seme che
genera altra vita alla Chiesa zairese, all’Africa, alla Chiesa tutta e anche alla nostra Congregazione.
Quando un giorno, noi o altri dopo di noi, vedranno i frutti, non si potrà che benedire il Signore»
(28 maggio 1995, festa dell’Ascensione).
La superstite
Lei, suor Annamaria Arcaro, Superiora di Mosango, si sente quasi in colpa per essere stata
risparmiata, pur avendo assistito –
41
PAGINA 72:
finché i medici glielo hanno consentito – le Sorelle inferme. Era accorsa subito dalla sua sede per
rimpiazzare la Superiora di Kikwit che si trovava in Italia.
Dice: «Io... la superstite... Solo il Signore sa perché sono ancora qui; certamente non ero ancora
pronta per le nozze...».
Una sua prima relazione, messa giù quale lettera alle consorelle, in una forma concitata «con
male espressioni ed errori», risulta fondamentale, come è facile intuire, trattandosi di una testimone
oculare dei fatti. Ne stralciamo alcuni brani:
«Abbiamo vissuto assieme giorni di lotta tremenda, tra fede e tutto ciò che è umano, affetto, e
tanto amore di sorelle... Ci siamo aiutate, incoraggiate, sgridate, perché ci sembrava che ognuna
esagerasse nel lavoro, nel donarsi. In ogni caso, suor Anna e suor Rosa hanno proprio esagerato
nell’Amore. Non hanno mai voluto che io facessi la notte, solo le rimpiazzavo durante il giorno
perché riposassero e loro venivano immancabilmente prima dell’ora convenuta. Suor Anna doveva
stare fino a mezzanotte14
e poi avrebbe cominciato suor Rosa; ma suor Rosa alle 22 era sempre là...
Una cosa voglio dire con forza: dal momento che il prof. Muyembe ha comunicato che era una
malattia contagiosa, abbiamo usato con il massimo scrupolo tutte le tecniche e il materiale di
protezione (in nostro possesso in quel momento). Veramente nessuna superficialità o leggerezza per
la disinfezione o protezione, anzi...
«Il 1° maggio suor Costanzina è venuta a chiamarmi al Sanatorio tutta agitata: “Suor Daniela non
sta bene da sabato: ve l’ho portata”. Subito mi ha preso una tale angoscia e paura che non riuscivo
più a tornare a casa... Già ero andata il giorno prima a Kikwit a trovare suor Clara che non stava
bene e anche suor Dina aveva la febbre... La dott. Bonnet ha voluto incominciare a curarla a
Mosango perché sembrava malaria o una ricaduta della sua
PAGINA 73:
infezione renale. Gli esami erano normali, solo febbre e un vomito continuo, da straziare il cuore a
sentirla, e che sarebbe durato fino a due giorni prima della morte...
«Dunque, si è iniziato subito con perfusioni, antimalarici, antibiotici e tutti gli antiemetici
possibili... Venerdì 5, dopo aver costatato che il tempo di coagulazione non era più normale,
immediatamente ho avuto la conferma della terribile malattia... Subito, con suor M. Luisa, abbiamo
preso suor Danielangela, l’abbiamo sistemata in macchina con il materasso e portata a Kikwit... Già
suor Clara era isolata nella piccola casetta e suor Daniela ha preso l’altra camera; suor Clara
respirava molto male ed aveva il corpo e il volto ricoperti di una porpora emorragica.
«Suor Daniela, mentre continuava a vomitare diceva: “Quanta pena mi fa suor Clara a sentirla
respirare così...”. E suor Clara, a sua volta: “Povera suor Daniela! Mi si spezza il cuore a sentirla
vomitare così...”. E noi, con le lacrime che cadevano a terra scendendo dalla maschera, ci
preoccupavamo di rassicurare e aiutare sia l’una che l’altra».
14
C’è da segnalare che suor Annamaria Arcaro era rientrata in Zaire dall’Italia soltanto da un mese, dopo essersi
sottoposta a un intervento chirurgico per l’asportazione di un tumore. Per questo motivo si voleva risparmiarle lo
strapazzo dell’assistenza notturna.
42
Suor Annamaria parla con accenti strazianti del funerale delle consorelle: «Veramente il funerale
dei poveri, tra i più poveri... Tutta la gente in quel momento ci sfuggiva, e se ci vedeva attraverso la
siepe si metteva un fazzoletto davanti alla bocca. Abituate a dare, ad aiutare, ci sentivamo umiliate,
ma ci rendevamo conto che il momento era drammatico per tutta la popolazione.
«Dall’ospedale ci giungevano in continuazione grida, pianti di morte, e noi avremmo voluto
essere là ad aiutare quella gente, soprattutto nelle prime settimane, allorché quei poveretti morivano
uno dopo l’altro e restavano insepolti per giorni e giorni. Invece il Signore voleva facessimo
esperienza di essere povere, infette, malate, isolate, sfuggite noi stesse... Era la prima volta che
capivo qualcosa del nostro carisma: “Essere configurate a Cristo morto, ignudo sulla croce”...
«Nell’assistere all’agonia delle Sorelle ho compreso che, forse, è stato più difficile per Maria
stare ai piedi della Croce che essere lei stessa inchiodata alla Croce…
«Non è possibile descrivere i sentimenti provati in quei giorni.
PAGINA 74:
Tra tante lacrime, suppliche e preghiere ci dicevamo parole di fede, di speranza. Suor Anna è
sempre stata meravigliosa, con una forza e un coraggio incredibili. Insieme gridavamo: “Perché,
Signore, ci hai abbandonato?...”. “La tua volontà sia fatta...”. Quanta preghiera, in quei giorni. Notte
e giorno, con le giovani suore zairesi15
, anch’esse in isolamento, ci si dava il turno davanti al SS.
Sacramento sempre esposto.
«Mi veniva sovente in mente il canto della Passione: “On attendait... Le ciel n’a pas répondu. La
prière s’est perdue... dans la nuit” (“Aspettavamo... Il cielo non ha risposto. La preghiera si è
persa... nella notte”). Solo il Signore conosce il perché di questo grande silenzio.
«Il pomeriggio del 14 (dopo i funerali di suor Dinarosa, morta lo stesso giorno), quando il grande
dramma sembrava ormai compiuto, e tutti – da Limete e Bergamo – compreso il Vescovo, ci
dicevano di riposare, di dormire, era invece il momento in cui iniziava un altro, indescrivibile
dramma. Suor Anna, fin da ieri mi diceva di sentirsi poco bene e aveva la febbre. Suor Rosa alle 16
mi viene a dire di avere pure lei trentotto e mezzo di febbre... Ho avuto un presentimento: “Ancora
due sorelle afferrate da quel terribile mostro...”.
«Non ho più potuto chiudere occhio la notte, mi sentivo morire, ma dovevo farmi forza,
incoraggiare e curare suor Anna e suor Rosa. È stato il momento in cui ho chiesto aiuto a Kinshasa
e in Italia, perché vedevo che non ce la facevo più.
«Il dottor Philippe e il dottor Pierre (medici di Atlanta) dal giorno 15 maggio sono stati i nostri
angeli custodi. Prima di loro nessun medico aveva messo piede nel nostro cortile, solo una volta il
dott. Muyembe era venuto per prelievi di sangue. Tutte sole avevamo dovuto curare e individuare i
farmaci che potessero aiutare le nostre ammalate.
15
Le suore zairesi sono state meno esposte al contagio – almeno nella fase in cui si trattava di assistere le consorelle
– perché, essendo le più giovani della comunità (quasi tutte ancora juniores), suor Annelvira aveva ritenuto giusto
fossero risparmiate.
43
PAGINA 75:
«Sabato 20, dopo che suor Anna e suor Rosa, trasportate nella casetta dell’isolamento, avevano
ricevuto i Sacramenti degli infermi, abbiamo saputo che erano arrivate suor Maria e suor Béa, ma
non hanno potuto entrare in casa. Le abbiamo scorte da lontano: erano vestite come astronauti.
«A tutte noi della comunità il Vescovo era venuto ad annunciare che dovevamo lasciare la casa e
partire per un altro luogo, non si sapeva dove... Ho cercato di convincerlo a lasciare suor Saverina e
me, per assicurare la vicinanza alle sorelle e provvedere ai loro bisogni, ma è stato tutto inutile.
«Alle 21 di sabato 20 maggio, i “Medici senza frontiere” sono venuti a prenderci. Dopo aver
raccolto qualcosa in tutta fretta, siamo partite verso una casa disabitata, che le suore di diverse
Congregazioni avevano cercato di ripulire un po’.
«Il dolore di tutte nel lasciare suor Anna e suor Rosa sole con gli infermieri era immenso.
Pensavo agli ebrei fuggiti nella notte...
«Suor Maria e suor Béa si sono organizzate e hanno assicurato la loro presenza notte e giorno,
sedute là fuori, dietro la cappella...
«Noi, frattanto, arrivavamo in quella casa assolutamente vuota, senza acqua e senza luce, solo
con un materasso, una sedia e un secchio. Ma non badavamo ai disagi, perché il nostro cuore e la
nostra mente erano in quelle due camerette dove veramente si stava consumando il sacrificio, ed
eravamo solo ansiose di avere notizie.
«Per tre mattine il Vescovo è venuto a celebrare la S. Messa, e fin dal primo giorno ci ha lasciato
il SS. Sacramento dentro la sua valigia, perché non avevamo posto migliore dove metterlo.
«La morte di suor Anna sono venuti ad annunciarcela alle 9 di sera e la morte di suor Rosa il
mattino dell’Ascensione. Vedo le carissime sorelle, passate dall’altra parte del fiume ed entrate
nella verità “toute entière”...» (Kikwit, 30 maggio 1995).
Successivamente suor Annamaria Arcaro stenderà un diario dettagliato di quelle giornate che
l’hanno vista protagonista straziata. Sono pagine che rimarranno nella storia dell’Istituto e che si
concludono con questa osservazione: «Come poteva il Signore
PAGINA 76:
fare un miracolo solo per noi, mentre c’erano molti altri che stavano morendo dello stesso male?
Avrebbe dovuto fare un miracolo generale!».
Un grande spavento
Nella grande tragedia si inserisce anche la vicenda che vede protagoniste Rosanna e Angiolina
Rondi. Riassumiamola a grandi linee: partono dall’Italia il 26 aprile per partecipare ai funerali della
sorella, suor Floralba, avvenuti il 27. Pensano di trattenersi un po’ in Zaire, ma allorché cominciano
a circolare notizie sempre più inquietanti sul morbo, in preda a comprensibile apprensione,
chiedono di poter anticipare il ritorno in patria. Vengono «bloccate» all’aeroporto di Linate il 6
maggio e ricoverate in isolamento agli Ospedali Riuniti di Bergamo, più che altro per misura
44
precauzionale. Dichiarate perfettamente sane, verranno dimesse due settimane dopo. Comunque lo
spavento dev’essere stato notevole.
Spigoliamo qualche notizia dal loro racconto: «Il tragitto fra Kinshasa e Kikwit l’abbiamo fatto
su un piccolo aereo con altre cinque persone. L’assetto era talmente precario che ci facevano
spostare per bilanciare il peso...
«Il giorno dopo il funerale, la gente veniva a farci le condoglianze: chi ci portava una gallina, chi
un cocco... Magari erano le uniche cose che possedevano, ma intendevano esprimere così la loro
riconoscenza per quello che la nostra sorella aveva fatto per loro.
«Per strada incontravamo gente che ci diceva: “Io e i miei familiari stiamo bene grazie a suor
Floralba che ci ha curato”.
«Una donna ci ha fermato e ci ha detto: “Vi raccomandiamo a nome di tutti: dateci un’altra suor
Floralba”. Suor Annelvira, che era vicina a noi, ha risposto: “Volentieri, se l’avessimo! Ma siccome
non si può fabbricare una vocazione...”.
«...Prima di partire per Mosango io (Rosanna) ho voluto visitare l’ospedale accompagnata da
suor Nathalie. La sala operatoria era chiusa per disinfezione, e anche un padiglione era chiuso per lo
stesso motivo. In un altro padiglione ho visto un ammalato con
PAGINA 77:
la flebo, seduto sul letto, tutto sporco di sangue. Suor Nathalie ha osservato: “Questo,
probabilmente, ha quella malattia...”.
«All’ospedale di Mosango c’era un infermiere malato, portato da Kikwit per curarsi, e di notte è
morto. Abbiamo sentito i tamburi dei parenti che dal villaggio venivano a prenderlo. La dottoressa
però ha ordinato di seppellirlo subito sul posto, perché infetto. Ma si pensava più che altro alla
diarrea rossa, di Ebola non si parlava ancora...».
Circa lo stato d’animo delle suore, le sorelle Rondi riferiscono che, fin dal loro arrivo nella
capitale, avevano notato che erano preoccupate e lasciavano trasparire il sospetto che stesse
succedendo qualcosa di strano: «Sfogliavano le pagine delle enciclopedie cercando di capire che
virus fosse. Ma erano al buio, non ne sapevano niente. Un giorno una di loro è andata a Kinshasa,
all’ambasciata, e ha visto un libro in italiano che parlava di Ebola16
, riconoscendo i sintomi che le
consorelle avevano descritto: lì è scattato l’allarme».
Ultimo dettaglio in riferimento alla partenza dallo Zaire: «Suor Vitarosa ci ha salutate
all’aeroporto di Kikwit: lei arrivava e noi partivamo con lo stesso piccolo aereo. Siccome ci
sembrava poco sicuro, le abbiamo comunicato i nostri timori, e lei ci ha risposto: “Ma io ci ho
perfino dormito! Quindi state pur tranquille...”».
Quelle due vicino al muretto
Suor Maria Cassiani (Fiorisalba), la Superiora della comunità di Kikwit, ossia quella che non
c’era... Lei stava in Italia, per un periodo di riposo, dal 1° aprile. Ogni notizia che giungeva da
16
Quasi certamente si tratta del volume di Richard Preston, Area di contagio (Rizzoli), abbondantemente citato
all’inizio.
45
laggiù provocava in lei una lacerazione profonda e, insieme, quasi un senso di vergogna. Sì, il
rimorso di non esserci, di non partecipare direttamente, di non rischiare come tutte le altre. Lei, poi,
che era la responsabile delle sorelle...
Supplicava, scongiurava, implorava con le lacrime agli occhi
PAGINA 78:
che la lasciassero partire, perché quella situazione, per lei, diventava sempre più insostenibile. Tutto
inutile. C’erano ragioni di prudenza che prevalevano su quelle del cuore.
Dopo la morte della quarta suora (suor Dinarosa, 14 maggio), intensificò le suppliche. La Madre
finalmente si arrese. Suor Maria Cassiani partì da Bergamo insieme a una giovane suora zairese,
suor Béatrice Ngwaka (chiamata familiarmente da tutte Béa), che studiava in Inghilterra. Spiega,
semplicemente, a chi sembra aver bisogno di spiegazioni per il suo gesto: «So che vado incontro
alla morte, ma la mia missione è là».
Le due sbarcano all’aeroporto di Kikwit a mezzogiorno del 19 maggio, e da quel momento è
tutto un susseguirsi di delusioni cocenti. Si accorgono che per loro non c’è posto...
Mons. Mununu, dopo averle invitate come ospiti a pranzo, le avverte che non avrebbero dovuto
entrare in casa, dal momento che le suore della comunità erano in quarantena (e due già ammalate).
I medici, poi, lasciano capire senza ombra di dubbio che non hanno gradito il loro arrivo, che
crea qualche problema supplementare per il già faticoso sistema di sicurezza che stanno
approntando per circoscrivere il flagello.
Vengono ospitate presso le suore «Annonciades» di Gagwa. Prima di recarvisi, però, riescono a
strappare il permesso di poter almeno salutare da lontano le consorelle «recluse». La condizione
preliminare è però quella di passare dall’ospedale a munirsi di tute protettive, camici, guanti e
stivali. Racconta suor Maria: «Così vestite abbiamo potuto entrare nel cortile di casa; le suore sono
uscite sulla porta e solo a grande distanza ci siamo salutate tra le lacrime e i singhiozzi da ambedue
le parti».
Subito dopo devono assistere allo spettacolo straziante del trasporto di suor Annelvira e suor
Vitarosa nella casetta destinata alle suore contagiate dal virus: «Vediamo passare suor Anna in
carrozzella... Aveva il viso come gonfio e un po’ rossastro. Sempre mantenendoci a distanza,
l’abbiamo chiamata: lei ci ha guardato, ha abbozzato un lieve sorriso e ci ha salutate con la mano.
Da quel viso traspariva una grande sofferenza fisica e morale... Suor
PAGINA 79:
Rosa è passata poco dopo, camminando da sola; pure lei aveva il viso leggermente rossastro. Ci ha
salutate con lo sguardo triste e sofferente... Cosa avranno avuto nel cuore quelle due sorelle? Loro
che fino a qualche giorno prima avevano assistito tutte le altre fino al sacrificio supremo?
L’abbiamo potuto solo immaginare... Vedendole passare, mi è sembrato di vedere come “l’agnello”
che, docile, senza ribellarsi, va al macello... Erano pienamente coscienti che da quella casetta non
sarebbero più uscite».
46
Nei ricordi scritti di suor Maria ricorre un termine che dev’essere stato come uno spillone
conficcato nella sua carne: distanza. D’ora innanzi avrebbero sempre dovuto stare a distanza.
Potevano assicurare una presenza, ma a distanza. Captare un grido, un lamento, un’invocazione di
aiuto, ma senza poter intervenire direttamente.
L’assistenza alle due Sorelle morenti era affidata a un infermiere, un’infermiera, e a uno dei
medici di Atlanta. Il dottor Pierre Clause si era mostrato irremovibile: aveva visto il modo in cui
quelle suore si amavano tra di loro, intuito l’intensità del loro rapporto fraterno, e quindi... non si
fidava. Aveva ragione di sospettare che non avrebbero osservato scrupolosamente le tecniche di
protezione, ma si sarebbero abbandonate a qualche gesto dettato dall’affetto. Bisognava
assolutamente interrompere quella catena.
Le due si sono acquartierate vicino alla cappella, davanti al muro della sacrestia. E non hanno
più abbandonato quella postazione che permetteva di intercettare le voci che arrivavano dalla
finestra e far sentire la loro presenza viva alle sorelle «recluse». Così giorno e notte, dandosi
regolari turni di guardia.
«Il Signore solo sa quanto ci è costato ogni volta dover ricorrere all’infermiere perché prestasse
alle malate l’uno o l’altro servizio. Con tanta fatica e sofferenza ci siamo rassegnate al fatto di poter
almeno star lì, in quello spazio esterno».
Senso di impotenza, prima di tutto. Una volta suor Annelvira chiede un’aranciata fresca, e non si
riesce, nonostante tutte le acrobazie, a trovarla. D’altra parte non è possibile entrare in casa, perché
sottoposta a disinfezione e la comunità è stata trasferita altrove per completare la quarantena.
PAGINA 80:
Pur con la massima buona volontà, tutto viene effettuato con ritardo. E così l’acqua fresca non è
più fresca e il latte caldo non è più caldo quando viene recapitato. Per di più, comunicare con i
medici e gli infermieri non è agevole, perché con quegli scafandri addosso risulta impresa ardua
farsi capire.
«Il primo giorno suor Anna mi chiese di tagliarle i capelli perché faceva molto caldo e le davano
fastidio. Ma anche questo servizio non ho potuto prestarlo io direttamente come avrei voluto, ma ho
dovuto ricorrere all’infermiera. Come avrà interpretato suor Anna questo rifiuto? Certamente era
cosciente che non era per cattiva volontà, ma deve aver sofferto per questo e ancora di più per gli
altri servizi più delicati».
Ancora un piccolo episodio significativo: «Una notte suor Vitarosa ci ha chiesto un limone.
Siamo andate nel nostro giardino e l’abbiamo staccato da una pianta, ma ci siamo poi accorte che
mancavamo di un coltello per tagliarlo a metà. Così abbiamo dovuto ricorrere a una lama di rasoio
debitamente pulita...».
Le comunicazioni «a distanza» sono quanto mai difficoltose. Ci si limita, per lo più, a qualche
cenno di saluto con la mano. Specialmente nel caso di suor Annelvira, le cui condizioni si stanno
aggravando e si assopisce sempre più di frequente, captare le sue parole «da lontano» diventa
praticamente impossibile.
47
Bisogna anche precisare che le due sentinelle, oltre a conservare la postazione dietro la sacrestia,
devono anche preoccuparsi di rifornire di acqua e cibo le consorelle trasferite in un altro quartiere
della città. In quest’opera vengono provvidenzialmente aiutate da religiose di altre Congregazioni.
«La notte del 22 maggio, alle 3 del mattino, con suor Béa abbiamo commemorato la nascita della
nostra congregazione, abbiamo pregato a lungo sperando proprio in un miracolo del Fondatore.
Invece, niente: i cieli sembravano proprio chiusi alle nostre suppliche».
A riguardo della sepoltura di suor Annelvira (morta alle 16,45 del 23 maggio), suor Maria
riferisce che la salma è stata composta nella bara dagli stessi dottor Pierre e Philippe. Ma ecco il
racconto del seguito, che mette addosso i brividi: «Bisognava far presto
PAGINA 81:
presto per seppellirla perché stava calando la notte. Si è cercato in tutta fretta di trovare qualcuno
che provvedesse a scavare la fossa. Intanto ci siamo incamminate verso il cimitero. La bara era
trasportata su una barella dell’ospedale da alcuni uomini della Croce Rossa, che in quei giorni
assicuravano questo servizio. Noi, ossia suor Vincenzia, suor Béa e io la seguivamo a qualche
passo, rispettando la distanza obbligatoria e piangendo.
«Arrivati al cimitero, ci siamo resi conto che la buca non era pronta: la terra era dura e si faceva
fatica a scavare. Allora i dottori Pierre e Philippe non hanno esitato a dare una mano agli spalatori
in modo che si sbrigassero, dal momento che era già sceso il buio.
«Improvvisamente si è scatenato un furioso temporale, per cui risultava impossibile procedere
alla sepoltura. Precipitosamente rientrammo in casa, sotto la pioggia battente, e deponemmo la bara
nell’atrio. Ci posi davanti il cero pasquale acceso... Era la prima volta che rimettevo i piedi in casa
nostra, ora vuota e abbandonata. Non riesco a descrivere ciò che ho provato: comunque, tutto meno
che paura...».
E poi si tratta di avvertire le sorelle della comunità della morte di suor Annelvira. Scortata dal
dottor Pierre Clause, suor Maria ci va quando è già notte e le suore sono a letto. Non c’è stato
bisogno di parole...
E bisogna subito tornare da suor Vitarosa e informarla. Lo fa, con molta delicatezza, il dottor
Philippe Callain. Lei si è limitata a commentare: «Adesso è il mio turno».
Prosegue suor Maria: «Nei giorni successivi non abbiamo fatto altro che darle coraggio, anche
perché i medici speravano proprio che ce la facesse. L’abbiamo sollecitata perché si sforzasse di
mangiare... Ora tutte le piccole attenzioni erano per lei. Abbiamo chiamato alcune persone guarite
perché le raccontassero la loro storia in modo si convincesse che anche lei poteva farcela...
«...Non posso dimenticare la sua voce, erano innumerevoli le volte che mi chiamava “Maria!”,
con un tono che sembrava dirmi “Fai presto, vieni...”. Purtroppo ciò avveniva sempre attraverso la
finestra e la zanzariera. Io poi dovevo chiedere all’infermiere o al-
48
PAGINA 82:
l’infermiera di entrare nella stanza a provvedere. Ma soltanto per l’abbigliamento di protezione
occorrevano almeno cinque minuti...
«Un giorno – non potrò mai dimenticarlo – la porta era rimasta aperta e io ero contentissima
perché potevo veder meglio suor Vitarosa pur rimanendo al di fuori. L’infermiere si era allontanato
e lei mi chiese dell’acqua fresca. Le feci presente che non potevo entrare, ma lei ha insistito un po’
e si è avvicinata alla porta, pur rimanendo a una certa distanza. Ha allungato il braccio più che
poteva e io ho fatto altrettanto, lì sulla soglia, e le ho versato l’acqua nel bicchiere. Provai tanta
pena nel cuore: sarei entrata, l’avrei abbracciata, invece ho dovuto limitarmi a compiere solo quel
gesto che forse può essere stato interpretato da lei negativamente, quasi che io avessi paura di
infettarmi. Ma non era così... Anzi, tale era la sofferenza che avrei preferito in quel momento essere
io dall’altra parte, al suo posto, purché tutto fosse finito. Purtroppo sentivo dentro il peso
dell’obbedienza al Vescovo e a quanti avevano insistito perché osservassimo tutte le prescrizioni...
«Il penultimo giorno il dottor Philippe le ha messo di nuovo la perfusione, perché le sue
condizioni erano di sempre maggior debolezza. Spesso le veniva da vomitare. Mentre il medico le
praticava la perfusione, alcune gocce di sangue hanno sporcato la mano della sorella. Il dottore,
allora, con tanta delicatezza ha provveduto a ripulirla. Io, dal di fuori, osservavo la scena e mi
compiacevo della delicatezza con cui il dottore prestava questo servizio. A un certo punto notai che
il medico era scoppiato a ridere. Quando uscì, gliene chiesi il motivo. Lui, quasi arrossendo, spiegò:
“Mi ha detto che ho la delicatezza di una donna”. Devo dire che anch’io avevo avuto la stessa idea
osservandolo in azione... Di giorno e di notte lui è sempre stato pronto ad accorrere ad ogni
chiamata. Anche quando andava a vedere gli altri ammalati in ospedale, rimanevamo in contatto
con lui attraverso la “Motorola”. Si è offerto più volte di restare al mio posto durante la notte per
permettermi di andare a riposare. Ma non potevo accettare, sapendo come suor Rosa mi chiamasse
continuamente anche di notte. Lui pure si è reso conto di ciò allorché, una volta, avendo
dimenticato le chiavi, è rimasto sotto le stelle insieme a noi...
PAGINA 83:
L’abbiamo sentito come un nostro fratello, e forse qualcosa di più».
Il 27 sera il dottor Philippe comunica a suor Maria che ormai lui non spera più. Nelle primissime
ore del giorno dell’Ascensione il cuore di suor Vitarosa cessa di battere. Commenta la sua
Superiora: «Umanamente, l’ultima sconfitta».
Ma non era una sconfitta. Quelle due suore rimaste di sentinella, tra il muro e la chiesa, a fissare
una finestra, a captare una voce, a trasmettere un segnale di partecipazione, sono state il simbolo più
evidente di un amore che non si arrende, e alla fine, nonostante l’apparente sconfitta, risulta
vittorioso.
Ed ecco la descrizione dell’epilogo: «Verso le 13 della festa dell’Ascensione ci siamo
incamminati verso il cimitero. Tutto si è svolto nella povertà più assoluta e nell’isolamento più
crudo. Come per le altre Sorelle, erano presenti il Vescovo, père Francois, i due medici di Atlanta,
dottor Philippe e dottor Pierre, più qualche suora di altre Congregazioni. Proprio il funerale dei
49
poveri, come dice il Fondatore: senza alcuna tomba... Allontanate, sfuggite come persone
pericolose, infette, perfino considerate peccatrici (secondo una certa credenza ancestrale)... Anche
questo ha contribuito ad aumentare la nostra sofferenza...
«...Due giorni dopo, suor Vincenzia, suor Béa e io siamo rientrate a casa nostra per rimanervi. In
questa casa, che poco più di un mese prima era vivace, chiassosa, movimentata, ora regna il vuoto e
la solitudine, anche perché il resto della comunità è ancora in isolamento, e vi rimarrà fino al 9
giugno...
«Quando finalmente abbiamo potuto riunirci, avevamo l’impressione di ritornare da un altro
mondo. Ci sembrava tutto un sogno, un’allucinazione.
«Tutte le volte che andiamo a visitare le tombe non facciamo che sperimentare e rinnovare
questa misteriosa realtà... Anche se per ora siamo ancora nel buio, crediamo fermamente che tutto
ciò che è avvenuto è per la più grande gloria di Dio, per il bene di ciascuna di noi, della nostra
amata Congregazione, della Chiesa intera. Speriamo anche ardentemente che serva pure per un mi-
PAGINA 84:
glioramento delle condizioni inumane di questo popolo che soffre terribilmente per la fame, le
ingiustizie sociali, ad ogni livello».
Suor Maria conclude così la sua toccante relazione: «È stata un’esperienza dolorosissima quella
che abbiamo vissuto, ma anche di tanto amore e tanta fraternità. Ci siamo sentiti veramente fratelli
con il mondo intero, anche con quelli di religione diversa.
«Un giorno, forse, diremo “Grazie per questa durissima prova che abbiamo vissuto».
PAGINA 85:
PER UNA VOLTA LA COLPA NON È DEI GIORNALI…
Hanno fatto il loro dovere
Per favore, no. Almeno stavolta non diamo addosso ai giornali. Hanno fatto il loro dovere. Non
c’è stato bisogno di ricorrere al sensazionalismo. Ebola è già fin troppo terrificante: nel descrivere
la sua azione, non si rischia tanto di esagerare o amplificare, quanto piuttosto di rimanere al di qua
della realtà.
Qualche inesattezza, data la situazione un po’ confusa degli inizi e la difficile identificazione del
virus, era inevitabile.
Cito tra tutti «L’Eco di Bergamo» con le sue cronache puntuali, serie, documentate, rispettose, i
commenti appropriati, e il sostegno offerto alle iniziative di aiuti per lo Zaire promossi dalla
Caritas.
E poi i settimanali, in prima linea «La nostra Domenica», quindi «Oggi», «Gente», «Famiglia
cristiana», «Visto», «La voce del popolo»...
50
C’è stato anche qualcuno, come M. A. Alberizzi, inviato de «Il Corriere della Sera», che è partito
e si è unito al plotone di giornalisti, telecronisti e fotoreporter presenti a Kikwit, per descrivere dal
vivo ciò che accadeva in quei giorni terribili. Ecco ampi stralci della sua corrispondenza.
«Sono stato nell’inferno della città maledetta»
«Vestiti con un lungo camice verde coperto da un grembiule bianco, la maschera sul volto e un
elmetto con una grande croce rossa in fronte, guanti gialli che arrivano quasi all’ascella, i monatti di
Kikwit setacciano la città per raccogliere i cadaveri di quanti sono morti di febbre emorragica, la
micidiale malattia provocata
PAGINA 86:
dal virus Ebola. Sembra di assistere a una scena tratta dai Promessi sposi. Il gruppo avanza verso
una casa, spinge la porta ed entra. Poco dopo ne esce con un corpo, avvolto da un cencio bianco. Il
macabro fardello viene depositato su una barella a rotelle. Il viaggio verso l’ospedale viene fatto a
piedi. La gente è tenuta a distanza dai campanelli agitati dal primo dei monatti del corteo. Nessuno
si azzarda ad avvicinarsi a quel tremendo funerale.
«Siamo nella “città maledetta”. I cadaveri vengono portati all’Ospedale generale. Il loro sangue
deve essere analizzato per controllare se sono stati uccisi dal micidiale Ebola. I monatti li scaricano
con tutte le precauzioni del caso in una stanza apposita tenuta in isolamento e trasformata per
l’occasione in obitorio. I loro gesti sono lenti e misurati. Qualsiasi errore può costare carissimo...
«...Gli effetti di Ebola sono talmente devastanti e impressionanti che spaventano molto più di
quelli provocati da una malattia “normale”, seppure letale. A Kikwit la gente che ha visto familiari,
amici o vicini di casa morire così, è terrorizzata. Vede passare i convogli dei monatti e si domanda
cosa fare.
«“Portateci via di qui” implorava Clementine Mukaladudu chiedendo conforto ai giornalisti. La
sua casa è proprio davanti al cimitero, un ritaglio di terra sul ciglio della strada dove sono stati
seppelliti i morti di Ebola. “Con la pioggia”, racconta la donna, “il camposanto diventa una melma
di fango e nessuno mi toglie dalla testa che i corpi tumulati laggiù non vengano a contatto con
questi liquami e il virus maledetto non risalga in superficie”.
«La gente, che dal momento in cui ha saputo dell’epidemia era scappata, ora torna a casa ma è in
preda al panico. “Hanno detto di non aver contatti intimi e rapporti tra di noi”, dice Ado Mufenghe.
“Si può evitare di abbracciare la propria moglie, ma come si fa a negare un bacio ai propri
bambini?”.
«Le strade di Kikwit sono percorse di auto dotate di altoparlanti che invitano a osservare rigorose
regole comportamentali e igieniche. “Il contagio non è aereo ma avviene solo attraverso i liquidi
corporei: dal sudore allo sperma, dalla saliva all’urina”, grida un uomo nel suo microfono. Poi
lancia volantini in cui ci sono
51
PAGINA 87:
tre vignette che spiegano di non toccare gli ammalati, non adoperare siringhe già usate, non lavare i
morti (una pratica molto diffusa in Africa e che propizia l’ingresso in paradiso: obbligare la gente a
rinunciarvi è veramente un’impresa), bollire i vestiti prima di lavarli.
«I medici di Kikwit hanno cercato di compilare un “albero genealogico” della malattia,
individuando il primo colpito di Ebola. Si tratta di un giovane, certo Kimfumu di 36 anni che era
stato in Angola a raccogliere clandestinamente diamanti. È lì che è stato infettato da un animale. Da
una scimmia o più probabilmente, sostengono gli scienziati, da un topo. Quando Kimfumu torna a
casa, a Kikwit, dopo la sua gita, sta male.
«La colpa viene immediatamente data ai diamanti finiti in pancia. I medici tentano di operarlo
due volte, il 10 e l’11 aprile, ma in entrambi i casi, subito dopo averlo aperto, i chirurghi lo
richiudono: i suoi organi sono già in putrefazione. Ma intanto il maledetto virus ha già cominciato il
suo viaggio attraverso il corpo di altri disgraziati. I familiari di Kimfumu, uno dopo l’altro, muoiono
tutti, come muoiono anche gli infermieri che l’hanno curato. Tra questi c’è anche suor Floralba, la
prima delle religiose italiane dell’ordine delle Poverelle, stroncate da Ebola.
«Da suor Floralba il virus passa alle consorelle che l’hanno in cura17
: Clarangela, Danielangela e
Dinarosa che muoiono tra dolori atroci. Ma a questo punto a qualcuno viene in mente che possa
trattarsi di uno dei virus pericolosissimi che ogni tanto si fanno vivi con micidiale risultato in
Africa. Ma Ebola è già passato in altri corpi. Chi è stato contagiato ha viaggiato e ha trasferito fuori
Kikwit la bomba esplosiva che si porta con sé. Casi di infezione si verificano nei villaggi attorno a
Kikwit fino a Kenke, una città a 200 chilometri da Kinshasa.
PAGINA 88:
«Kinshasa è un agglomerato di 5 milioni di persone la maggior parte delle quali vive in baracche
o casette in muratura. Le condizioni igieniche sono pessime: non c’è acqua né servizi. Le fogne
sono a cielo aperto e emanano un fetore insopportabile. Se Ebola dovesse raggiungere uno dei
quartieri poveri di Kinshasa sarebbe la catastrofe, nessuno riuscirebbe a fermare un’epidemia che
potrebbe diffondersi in tutto il mondo.
«Le autorità zairote decidono di creare un cordone sanitario attorno alla capitale e non far entrare
nessuno che venga da Kikwit. In 15 giorni a ’Mbankala, 150 chilometri da Kinshasa, sulla via per
Kikwit, si forma una lunga fila di 300 autocarri. Ma bloccare i veicoli rischia di aggravare la
situazione, non risolverla. L’improvvisato bivacco di 3.000 camionisti e delle loro famiglie, diventa
un’altra bomba. Anche qui non c’è acqua, non ci sono servizi, non c’è cibo.
«Una visita al campo lascia stupefatti. Il puzzo è micidiale e penetra, senza problemi, nella
mascherina da chirurgo, consigliata a chi va a Kikwit e dintorni. È appena piovuto... In questo
ambiente le mogli degli autisti preparano da mangiare per i loro uomini e per i loro bambini. Un
17
Questo particolare non è del tutto esatto. Infatti è stata con certezza contagiata da suor Floralba unicamente suor
Danielangela. Si pensa che suor Clarangela e suor Dinarosa siano state contagiate all’ospedale di Kikwit, stando tra gli
ammalati. Invece suor Annelvira e suor Vitarosa sono state probabilmente infettate durante una grossa e inarrestabile
emorragia di suor Clarangela, che si è verificata la notte precedente alla morte della suora.
52
piccolo fuoco dove sistemare una bacinella d’acqua nella quale sminuzzano foglie di manioca, il
cibo principale dello Zaire. Una donna seduta per terra in mezzo a questa fanghiglia allatta
sorridendo.
«Finalmente qualcuno si rende conto che mantenere una carica esplosiva di tali proporzioni alle
soglie di Kinshasa può favorire il diffondersi dell’epidemia, anziché arginarla. Il blocco viene
levato e trecento camion si precipitano in città carichi dei loro approvvigionamenti. Porteranno
l’Ebola?
«I medici dell’Organizzazione mondiale della sanità sono ottimisti. Secondo loro il virus, dopo
una serie di passaggi nel corpo umano, si attenua e perde quell’aggressività che lo contraddistingue:
“Abbiamo dato via libera ai camion e abolito il cordone sanitario attorno alla capitale”, spiega il
capo dell’Oms a Kinshasa, il nigeriano Abdul Moudi, “e sappiamo che stiamo correndo un rischio
gravissimo. D’altro canto sapevamo che chi voleva passare passava lo stesso e che il campo
spontaneo di ’Mbankala poteva
PAGINA 89:
esplodere all’improvviso. Magari non di Ebola, ma di diarrea, colera, tifo...”»18
.
«È peggio della guerra»
Si chiama Gian Micalessin, è un triestino trentacinquenne e di mestiere fa l’inviato di guerra. È
uno dei pochissimi giornalisti che ha avuto il fegato di penetrare nell’area di contagio. E dice
subito: «Non è un fronte, non c’è guerra qui, ma è peggio».
Anche lui si rifà alle immagini manzoniane della peste: «Al posto del carretto c’è un grosso
camion, che sembra quello dei rifiuti che gira per le nostre città italiane. Arancione, con le paratie
alte. Da esse sporgono delle specie di monatti del Duemila, vestiti tutti di verde, con i guanti, le
mascherine, gli occhiali di plastica, l’elmetto bianco con la croce rossa sopra. Sono dei volontari
locali che lo fanno per guadagnarsi il pane. Vanno di casa in casa a raccogliere i morti o gli
agonizzanti...».
Descrive l’ospedale: «...Una tipica costruzione africana, con bassi padiglioni, molto diversi da
quelli europei. Adesso l’ospedale è praticamente deserto. Il padiglione 3 è isolato, circondato da
grandi teloni di nylon nero che creano una zona di decontaminazione tra l’interno e l’esterno, una
specie di limbo tra la vita e la morte. Lì sono concentrati un centinaio di ammalati di Ebola. È una
zona dell’orrore... I medici sono altamente protetti, entrano con doppi guanti, tute Racal da
astronauta: il rischio è enorme. Il controllo dell’area calda è in mano al CDC di Atlanta, gli
americani sono i più esperti; con loro ci sono anche dei virologi zairoti che hanno seguito già
l’epidemia del 1976, dei sudafricani e alcuni francesi dell’Istituto Pasteur. Le zone di accesso sono
circondate da fosse con il cloro, in cui entri con i piedi. C’è qualche militare, ma chiunque, se vuole,
è libero di entrare in qualunque zona dell’ospedale. Qualche giornalista l’ha fatto. I loro racconti
sono raccapriccianti. Io moralmente non me la sono sentita. Perché? Ecco, ne ho discusso a cena
con Ingrid, un’inviata della Cnn
18
Corrispondenza da Kikwit apparsa su «Oggi», 31 maggio 1995.
53
PAGINA 90:
che si è rifiutata persino di mettere piede a Kikwit. È immorale che noi giornalisti per andare a
informare rischiamo di portare il contagio in Europa, o anche solo a Kinshasa, mettendo a
repentaglio la vita di molte altre persone».
Spiega ancora: «Quando siamo arrivati a Kikwit, da una parte c’era il libro di Preston che dava
un’immagine veramente catastrofica della malattia; dall’altra erano i medici i primi a chiederci:
“Perché tenete i guanti e le mascherine? Non serve a niente, il contagio non avviene per via aerea”.
Alla fine si arrivava a sottovalutare il contagio, e finiva che all’ospedale c’era una gran via vai...».
Conclude Micalessin: «Ho ancora paura. In guerra, quando torni in albergo la sera e le pallottole
non ti hanno preso, dici: “Mi sono salvato, mi è andata bene”. Qui ti porti dietro il rischio di questa
morte tremenda, l’angoscia. Di fatto non sai niente, perché non è chiaro come si propaghi questo
virus. Certo, i medici ti dicono che avviene solo a stretto contatto, però li vedi che entrano solo tutti
bardati in ospedale... E poi non sai mai chi tocchi, la sera ti chiedi che cosa hai fatto durante la
giornata, ripassi la scena come in un film. Adesso per 20 giorni mi porterò dietro questa paura.
Provi un senso di inadeguatezza totale, non puoi far niente per difenderti, ti rendi conto di essere
completamente in balia della natura.
«Questo è un po’ il senso della grande paura di Ebola: l’uomo del Duemila, che con la scienza
può far tutto, di fronte a questo virus che emerge dal nulla dal cuore dell’Africa si trova
improvvisamente come l’uomo di 2000 anni fa che moriva per un’infezione»19
.
PAGINA 91:
UN PO’ DI GLORIA ANCHE DA QUAGGIÙ
Qualcuno si è ricordato di loro…
Il 13 luglio 1995, il Presidente della Repubblica Italiana, on. Oscar Luigi Scalfaro, che ai primi
di giugno aveva parlato direttamente al telefono con la Superiora Generale, indirizzava alle
Poverelle il seguente telegramma:
«Ringrazio Dio che mi ha dato la possibilità di conferire al vostro Istituto la medaglia al valor
civile. Di fronte all’eroismo umile, semplice, nascosto, fedelissimo alle sofferenze umane, delle
vostre ammirevoli suore, il massimo riconoscimento dello Stato pare poca cosa. Ma voi credete in
un premio che trascende ogni premio umano e non perde valore con il passare del tempo. Grazie a
nome dell’Italia».
Pure la Provincia di Bergamo ha conferito la medaglia d’oro alla memoria delle sei Poverelle
vittime di Ebola. La cerimonia si è svolta nella sala consiliare della Provincia il 16 ottobre dello
stesso anno, alla presenza del Vescovo, Mons. Roberto Amadei. È stato il Presidente stesso, prof.
Giovanni Cappelluzzo, a consegnare la medaglia alla Superiora Generale, suor Gesuelda Paltenghi.
Tra gli altri riconoscimenti, va segnalata una targa alla memoria delle Suore assegnata
dall’Associazione Nazionale Carabinieri, sezione di Ceprano.
19
Intervista a cura di Carlo Dignola, «L’Eco di Bergamo», 30 maggio 1995.
54
Inoltre, il 10 giugno 1995, papa Giovanni Paolo II riceveva in udienza la Superiora Generale
insieme alle sue Consigliere, che parteciperanno anche alla S. Messa celebrata nella cappella privata
e riceveranno in dono dal Pontefice una casula rossa che verrà portata a Kikwit.
PAGINA 92:
Una catena di solidarietà da Bergamo allo Zaire
Non appena si sono avute notizie della tragedia che si stava abbattendo sullo Zaire e su Kikwit in
particolare, la Caritas diocesana, in collaborazione con il Centro Missionario e con le suore delle
Poverelle, ha teso la mano ai bergamaschi, che hanno risposto con una prontezza e una generosità
che sono proverbiali presso quella gente.
In breve si è superato il miliardo di lire. Inoltre sono stati raccolti aiuti di ogni genere,
specialmente in medicinali.
Le Poverelle, con un gesto che la dice lunga sul loro stile, non hanno voluto fosse riservata loro
neppure una parte dei fondi dell’operazione «Pro Zaire», ma che tutto confluisse nel conto della
Caritas. Gran parte di quegli aiuti saranno consegnati alla diocesi di Kikwit e saranno amministrati
da una speciale commissione composta dal Vescovo mons. Mununu, dal Vicario Generale, da
alcuni medici e missionari.
Richiesta accolta
Cessata l’emergenza-Ebola, il Direttore Generale dell’ospedale di Kikwit lanciava alle Poverelle
un accorato appello: «Vi supplichiamo di non abbandonarci, dopo tanti anni di presenza in mezzo a
noi. Non possiamo fare a meno della vostra opera».
La Madre Generale, ottenuto finalmente il segnale di via libera il 18 giugno, partiva per lo Zaire
per abbracciare le sorelle scampate al flagello, e per rassicurare tutti che la loro presenza laggiù non
avrebbe subito interruzioni. Anzi, non era mai stata messa in discussione.
Le sei Poverelle, dal cielo, avranno certamente considerato questa assicurazione come qualcosa
di più prezioso di tutte le medaglie.
PAGINA 93:
CHI
55
PAGINA 95:
SUOR FLORALBA
QUELLA CHE VOLEVA
ATTRAVERSARE IL MARE
Il chiodo della missione
Aveva fatto parte della prima spedizione. L’anno 1952 rappresenta una data storica per la
famiglia delle suore delle Poverelle: cinque sorelle partono per la missione in terra d’Africa,
destinazione Zaire (che, allora, si chiamava Congo Belga). Tra esse c’è, appunto, suor Floralba, che
quand’era ancora ragazzina aveva dichiarato con stupefacente ingenuità:
– Quando mi faccio suora, attraverso il mare, salvo un’anima e poi muoio.
Rosina Rondi nasce a Pedrengo (provincia di Bergamo) il 10 dicembre 1924, prima di otto figli
(dopo di lei verranno tre fratelli e quattro sorelle), di cui dovrà occuparsi, appena quindicenne, a
causa della morte precoce della mamma.
Sperimenta ben presto che cosa vuol dire dimenticare se stessa e le legittime esigenze personali
per occuparsi degli altri. Ed è proprio in famiglia che impara ad assumersi precisi e pesanti compiti.
Voce del verbo sacrificarsi. Per un certo tempo va anche a lavorare in filanda, in modo da portare
qualche soldo in più a casa. Nove bocche da sfamare non sono uno scherzo.
Quel ruvido apprendistato le tornerà molto utile e costituirà la base insostituibile delle sue
responsabilità future.
Rosina è un tipo che riesce a mettere insieme parecchie cose, rivelando notevoli doti di equilibrio
e rispettando una precisa gerarchia di valori: famiglia e apostolato nell’Azione Cattolica, Chiesa e
fatica quotidiana, preghiera e preparazione del pranzo, Messa al mattino e lavoro di rammendo
quando è già notte.
Nel suo cuore sta maturando la vocazione religiosa. O, più precisamente, la vocazione
missionaria. Sì, perché Rosina non riesce
PAGINA 96:
a concepire l’essere suora senza essere missionaria. Verrebbe da dire che, per lei, l’aspirazione
missionaria preceda la scelta stessa della vita religiosa. Ma, forse, è più esatto affermare che, per
Rosina, la suora e la missionaria fanno tutt’uno.
Voce del verbo aspettare
Comunque, per ora, è costretta dalle circostanze a soffocare quegli ideali. Concretamente, deve
occuparsi della numerosa famiglia. È quello il compito primario cui non può e non vuole sottrarsi.
Sarebbe ingiusto, oltre che crudele, lasciar ricadere esclusivamente sulle spalle del babbo, che deve
già tirare una carretta boia per garantire il necessario, tutto il peso dell’educazione degli altri sette
figli rimasti orfani di madre.
56
Aspirazioni ideali o necessità concrete? Il problema, certo, si poneva in maniera anche lacerante,
e non era possibile eluderlo. Rosina deve averne sofferto, senza tuttavia lasciar trapelare nulla
all’esterno della trama di pensieri che tesseva nel proprio intimo. Si affidava al suo ormai
consolidato buonsenso o, se si preferisce, senso pratico.
Si trattava di rimanere a casa, lasciando tuttavia aperta la porta verso il mare... Dedicarsi
totalmente alla realtà che sta sotto gli occhi, e insistere nello stesso tempo a guardare lontano.
Rinunciare a partire, senza tuttavia strappare il biglietto di viaggio e aspettando il segnale.
Il segnale si produsse in una maniera inaspettata e per una serie di circostanze fortunate. Il babbo
si risposò ed ebbe ancora due figlie. Rosina intrecciò ottimi rapporti con la matrigna, e proprio
questa divenne la depositaria del segreto che lei custodiva nel cuore, le fornì tutto il suo appoggio
per la realizzazione, superando le resistenze e la diffidenza del padre.
Particolare significativo. La seconda della sorelle «acquistate», Rosanna, parteciperà
intensamente, pur stando in famiglia, al sogno missionario di Rosina. Infatti adotterà una bambina
zairese per la quale suor Floralba manifesterà sempre un vivo interessamento, come dimostrano le
lettere indirizzate alla sorella.
PAGINA 97:
Dove suona la campana?
Rimaneva la scelta dell’Istituto. Il cuore batteva indubbiamente dalla parte delle Poverelle. Ma
c’era una difficoltà pressoché insormontabile da superare: le «figlie» del Palazzolo non avevano le
missioni, le Suore di Maria Bambina invece sì. Rosina ripiegò su queste ultime, che tra l’altro
tenevano la Casa a distanza di suono di campana da quella delle Poverelle. Proprio quella campana
avrebbe costituito una trappola provvidenziale.
Dopo pochi mesi, però, senza neppure ripassare in famiglia, Rosina traslocò dalle Poverelle.
Spiegherà che, quando sentiva suonare la campana del Palazzolo, il suo cuore si metteva in tumulto.
Non riusciva ad avere pace, le sembrava di aver consumato un tradimento. I Superiori capirono il
suo dramma e non ostacolarono il trasloco, rendendolo indolore.
Allorché Rosina si presentò alla porta delle Poverelle aveva ventun anni, e l’Italia stava
sgomberando le macerie provocate dalla guerra.
La scelta missionaria? Beh, Rosina non ci aveva rinunciato. Intuiva che anche quella strada,
presto o tardi, si sarebbe aperta. E lei aveva imparato ad aspettare, ossia a sperare.
Non dovrà attendere molto il nuovo segnale di partenza: sette anni, un’inezia.
Rosina, frattanto, è diventata suor Floralba e ha frequentato la scuola per infermieri
professionali. È stata anche spedita in Belgio a seguire un corso sulle malattie tropicali.
Suor Floralba sbarca in Zaire dopo una navigazione di venti giorni. Prima di partire si è limitata,
con poche parole «materne», a raccomandare ai fratelli di rimanere uniti.
Ha realizzato metà del suo proposito infantile: si è fatta suora e ha attraversato il mare. Restano
gli altri due punti del programma («salvare un’anima», e «morire»).
Ben presto suor Floralba, che è tipo da coltivare pazientemente gli ideali più elevati spazzando
via però le illusioni, si rende conto che lì la salvezza delle anime passa attraverso la salvezza dei
corpi aggrediti dalla denutrizione e dalle malattie più impossibili.
57
PAGINA 98:
Quanto alla morte, bisognerà aspettare il segnale che, come tutti gli altri, dipende da Qualcuno
che tiene in mano la corda della campana. E, stavolta, l’attesa si rivelerà piuttosto lunga: quarantatré
anni.
La suora che non riesce a dire no
Il campo d’azione assegnato è Kikwit, un centro piuttosto importante nel territorio del
Bandundu. Qui suor Floralba non deve più aspettare nessun segnale: non c’è che da rimboccarsi le
maniche, perché le necessità sono sterminate e hanno carattere di urgenza.
L’attività missionaria di suor Floralba si esprime nei grossi numeri: venticinque anni
nell’ospedale civile di Kikwit, sei in quello della capitale Kinshasa, e dieci nel lebbrosario di
Mosango.
A osservarla in azione, e a coglierne gli atteggiamenti caratteristici, la si potrebbe definire come
«la suora che non riesce a dire di no». Viene in mente Paolo: «Dio è testimone che la nostra parola
verso di voi non è “sì” e “no”. Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi... non fu
“sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute
“sì”» (2 Cor 1, 18-20).
In suor Floralba c’è soltanto il «sì». O, più esattamente: dice ininterrottamente «sì» a Dio e agli
altri, riservando il «no» a se stessa e alle proprie esigenze.
Dopo una lunga filza di anni di missione, lei non riesce proprio a fare il callo alla miseria, ad
abituarsi alla sofferenza altrui. Di fronte a certi spettacoli che la sconvolgono come il primo giorno,
non ce la fa a dire «no». Ed eccola mettersi in tasca, furtivamente, una pagnotta, un uovo (frutto del
«no» opposto al proprio stomaco) e camminare a passi rapidi nel viale dove è fissato
l’appuntamento con un poverocristo avvolto negli stracci di un malato di tubercolosi o di un
lebbroso. Così pure per le medicine e altri generi di prima necessità.
I suoi infiniti gesti di umanità, compiuti quotidianamente nella clandestinità (ma qualcosa,
nonostante lei adotti tutte le precau-
PAGINA 99:
zioni, trapelava sempre) la facevano considerare, nel Bandundu, una specie di copia, o di
controfigura, di Madre Teresa di Calcutta. Ma lei si accontentava di essere una Poverella. Era suor
Floralba e niente altro. L’abito e la nicchia di un’altra le andavano decisamente larghi (o, forse,
stretti). Quanto all’aureola, non ci pensava neppure, e poi l’avrebbe impacciata.
Riusciva a far dire «sì» anche alla generosità della sua gente di Pedrengo e zone vicine,
provocando una commovente catena di solidarietà che allacciava il bergamasco con lo Zaire.
Tutt’altro che timida, suor Floralba, quando si tratta di tendere la mano per soccorrere i suoi
poveri e reclamare giustizia per loro. Non esita, infatti, a presentarsi davanti al generale Mobutu a
patrocinare, umilmente ma con estrema decisione, la causa dei ricoverati nell’ospedale di Kinshasa,
le cui condizioni offendono le regole più elementari dell’umanità.
58
Allorché raggiungeva Pedrengo, dove i suoi parenti possiedono un’azienda agricola, e vedeva
sacchi di pane raffermo, esclamava: «Ah, se li avessi io per i miei bambini!».
La sorgente della forza
È opportuno anche spazzar via un equivoco. Sarebbe riduttivo, infatti, presentare suor Floralba
come una incontenibile faticatrice, un’attivista frenetica, una faccendona inarrestabile. Si
commetterebbe un torto colossale nei suoi confronti se si appiattisse la sua figura esclusivamente
sul terreno caritativo e sociale.
In lei c’è qualcos’altro, che poi e il più. Per scoprire la dimensione interiore che fa da supporto e
spiega la dedizione totale di questa suora al servizio dei poveri, sarà sufficiente citare un episodio
significativo. La trovavano spesso in chiesa, inginocchiata sul nudo pavimento, col tabernacolo a
portata di sguardo. Si sapeva che era reduce da lunghe e spossanti ore di sala operatoria oppure da
chilometri percorsi scarpinando assiduamente in corsia o per i vialetti che sapeva lei. Le consorelle,
immancabilmente, le facevano presente che doveva andarsi a riposare, o
PAGINA 100:
comunque poteva anche sedersi. E lei, altrettanto immancabilmente, replicava:
– E dove pensate che prenda la forza se non da qui?
Ritorno amaro
Nel 1994, inaspettatamente, era stata richiamata a Kikwit, sua culla missionaria. Trovò una
situazione piuttosto deludente e comunque assai diversa da quella che aveva lasciato sedici anni
prima. Ciò le provocò notevole delusione e amarezza. Lo sta a testimoniare questa lettera, dai toni
confidenziali, indirizzata alla Madre Generale:
«Perdoni se non le ho scritto prima, ma non me la sono sentita: volevo aspettare un po’. Essendo
stata tanti anni a Kikwit, appena giunta ho avuto l’impressione di essere sempre stata qui...
«Tuttavia, quando ho visitato l’ospedale, mi sono cadute le braccia... Comunque mi sono detta:
io non ho chiesto di tornare in questo luogo, anzi non ho mai pensato che mi ci mandassero di
nuovo, dal momento che c’ero già rimasta venticinque anni.
«Dunque sono sicura di essere nella volontà di Dio, e ciò mi dà pace e gioia. Io cerco di stare
vicina ai malati e di seguire i più gravi. Avendo meno lavoro, mi sono proposta di essere più
paziente, più buona, più gentile con tutti.
«Voglio, in questi pochi anni che mi restano, testimoniare la bontà e l’amore misericordioso del
Padre. Penso di frequente alla morte e sento il desiderio di essere più buona, di cercare solo il
Signore in tutto, in modo che Egli sia sempre al centro della mia vita».
Le possono anche cadere le braccia. Ma subito, passato il primo momento di sconforto, si mette
al lavoro. La praticità di suor Floralba si esprime perfettamente in questo suo atteggiamento.
E poi: «Sono sicura di essere nella volontà di Dio, e questo mi dà pace e gioia». La spiritualità di
suor Floralba è tutta racchiusa in questa semplice frase.
59
La sua pedagogia, poi, è sintetizzata in questi consigli che dava a una giovane suora zairese:
«Nel povero c’è il Cristo che tu ser-
PAGINA 101:
vi; che esso sia un ladro, un bandito, un mendicante... se ti chiede qualcosa, daglielo; se ti si
avvicina, accoglilo. È la carità quella che tu fai; se quello mente o ti ruba, è lui che compie il
peccato, ma tu vivi la carità....
La conoscevano solo come mamma
Quando cade malata si pensa a una febbre tifoidea. Il virus di Ebola non è stato ancora
individuato, e lui circola camuffato sotto falso nome, iniziando così a compiere, indisturbato, la sua
azione devastatrice. Lei sicuramente ne è stata aggredita in sala operatoria, ed è possibile perfino
stabilire una data abbastanza precisa: 10 aprile.
Suor Floralba, dopo che il male si è aggravato in maniera preoccupante, viene riportata il 20
aprile, in seguito a un suo esplicito desiderio, a Mosango nella sua «cittadella della carità»,
miracolosamente avvolta nel verde. Si ritrova in mezzo alla sua famiglia di lebbrosi, tubercolotici,
denutriti e malati vari.
Nei giorni successivi continua a preoccuparsi degli altri e, pur costretta a letto, rivolge consigli,
raccomandazioni, suggerimenti pratici agli infermieri.
Riferisce suor Annamaria Arcaro: «Non ha mai emesso un lamento. La sua preoccupazione era
la scheda per la consultazione20
. “Dobbiamo pensare per l’avvenire”, diceva. Mi ha chiesto
consiglio, e poi mi ha invitata a scrivere per lei il nome che desiderava. Per tutta la giornata di
sabato 22 è rimasta in delirio e ha continuato a “curare i malati”... Verso le quindici è venuto, per
l’Unzione degli infermi, padre Mario Cogliati, che era assai commosso, perché le voleva molto
bene. Al termine suor Floralba ha detto: “Oh, avete cantato molto bene”».
Lei è la prima vittima, tra le suore, di quel virus assassino per ora senza nome. Muore il 25 aprile
1995 (ore 9,45), all’età di set-
PAGINA 102:
tantuno anni. Manco a dirlo, ha captato prontamente il segnale ultimo.
Certamente non è riuscita a fare il conto dei corpi salvati in quarantatré anni di missione, dopo la
fatidica traversata del mare. Quanto alle anime, quello è un conto che soltanto Dio sa fare.
Il Vescovo mons. Mununu pretende che i funerali si svolgano a Kikwit. Ancora suor Annamaria:
«Quando la salma è giunta a Kikwit, è stato un “urlo unico”. Da allora la gente se ne è
impossessata. Noi non ne eravamo più padrone. È stata portata in tutti i padiglioni. La stessa notte
di mercoledì 26 è stata vegliata nella cattedrale...».
20
In estate doveva tenersi il Capitolo Generale dell’Istituto, poi rimandato all’ottobre 1995.
60
I funerali vengono celebrati il 27, nel duomo di Kikwit gremito di folla e autorità. Il Vescovo
dirà semplicemente: «Voi non la conoscete come suor Floralba Rondi, la chiamavate mamma». Di
fatto la gente la riconosceva come «mamma mbuta», ossia «mamma anziana» (il titolo veniva
attribuito a suor Floralba, in quanto era la suora arrivata per prima a Kikwit).
Sì, mamma può bastare. Del resto, lei aveva cominciato a fare da mamma quando aveva appena
quindici anni...
Qualcuno attende in fondo al viale...
Scommetto che, se qualcuno è andato a frugare nelle tasche della sua veste, probabilmente vi ha
trovato un uovo o un pezzo di pane...
Comunque, da parte nostra, il modo migliore di ricordarla consiste nel rendersi conto che,
appiattato in qualche angolo del viale, c’è sempre un povero in attesa.
Sta a noi captare quei segnali che suor Floralba non si è mai lasciata sfuggire.
La campana suona anche per i sordi.
E il capo della corda è tenuto da Uno che non tollera ritardi.
Suor Floralba è in grado di fornirci informazioni al riguardo.
PAGINA 103:
SUOR CLARANGELA
QUELLA CHE ARRIVAVA FISCHIETTANDO
«Ma dove vuole andare?»
Quando, in paese, si diffuse la notizia che Sandra andava a farsi suora tra le Poverelle, alcune sue
compagne commentarono:
– Ha scelto le suore delle Poverelle: ma più povera di così dove vuole andare?
Indubbiamente la povertà Sandrina la conosceva e viveva già in famiglia. I suoi abitavano in una
casetta alla periferia di Trescore Balneario (Bergamo), dove il padre faceva il mezzadro alle
dipendenze dei Gonzembag, specie di signorotti locali, e la madre lavorava in filanda.
Ma Sandra prendeva la strada del convento non semplicemente per vivere ancora più
poveramente, ma per servire i poveri, ossia per combattere la povertà.
Certo, godeva del vantaggio di non aver bisogno di imparare la povertà sui libri e sui documenti
o costruirsene un’immagine ideale, col rischio di cadere nella retorica della povertà. Lei i poveri li
conosceva perché apparteneva, fin dalla nascita, alla loro stessa categoria. Ne aveva sperimentato e
condiviso la fatica, l’insicurezza, i disagi, le privazioni, gli innumerevoli bocconi amari da
inghiottire.
Le sarebbe stato agevole, perciò, mettersi sulla loro stessa lunghezza d’onda, senza bisogno di
tanti discorsi e spiegazioni.
Era nata a Trescore, da Michele e Angiolina Ghilardi, il 21 giugno 1931, ultima di quattro
fratelli. Una ragazza ammodo, senza grilli per la testa. D’altra parte, in quella casa il grosso
61
problema era assicurare il pane quotidiano e non ci si poteva consentire il lusso di coltivare grilli di
sorta. I grilli venivano lasciati a fare i can-
PAGINA 104:
terini nei campi. Forse, in famiglia, non li sentivano nemmeno, storditi com’erano, la sera, dal duro
lavoro.
La ragazza dalle lunghe trecce bionde
Una compagna delle elementari ne traccia questo ritratto essenziale: «Sandra aveva delle lunghe
trecce bionde ed era una ragazza buonissima. Non si lamentava mai. Frequentava la nostra stessa
classe e la domenica veniva a giocare all’oratorio femminile».
La vita si srotolava nella massima semplicità. La bontà, la disponibilità verso gli altri, la
modestia facevano parte del clima familiare. Coi vicini ci si dava una mano quand’era il caso (e lo
era sovente). In quegli ambienti le necessità del prossimo vengono avvertite, quasi «fiutate»
d’istinto, senza neppure bisogno scocchi la richiesta esplicita. Lo scambio di favori, i piccoli gesti di
solidarietà, gli interventi fuori programma per rimediare a un guaio imprevisto, l’aiuto per superare
una difficoltà, sono all’ordine del giorno e vengono forniti con la massima naturalezza, senza
proclami altisonanti. E tutto viene saldato con un semplice «grazie», borbottato nell’ispido dialetto
bergamasco composto, come osservava con acutezza Giovannino Guareschi, unicamente dalle
cinque vocali che, però, sono conficcate in gola, e ne vengono espulse di forza, raddoppiate, come
«colpi di tosse fonetici». Più o meno cosi: «Haa...hii...hee:...», che vuol dire, appunto, «grazie».
Di proseguire gli studi, dopo le elementari, neppure a parlarne. Sandra va a imparare il mestiere
di sarta dalla mitica signora Ercolina, con la quale manterrà anche in seguito rapporti improntati alla
massima spontaneità e confidenza. Quei dieci anni di apprendistato in una sartoria di paese si
riveleranno assai utili quando sarà nello Zaire.
Da parte sua Ercolina, novantenne, ricorderà così la sua diligente allieva: «Era una santa, come
sua mamma. Ha lavorato da me per molti anni e non l’ho mai sentita lamentarsi una volta, e
neppure parlar male di qualcuno. Era sempre contenta...
PAGINA 105:
Un giorno è venuta la mamma a dirmi che sua figlia entrava in convento. Da allora l’ho rivista
suora...». Come a dire: un carattere d’oro. Sandra lavorerà anche in una fabbrica di bottoni.
Un «sì» che dura tutta la vita
Entra a far parte della famiglia del Palazzolo a 21 anni. Superfluo precisare che è matura ben
oltre la sua età. Quando si cresce in un ambiente come quello in cui è vissuta lei, se non si è maturi
a vent’anni non lo si diventerà mai. Suor Clarangela (questo, infatti, è il suo nuovo nome) riceve
62
piuttosto una formazione specifica per la missione: scuola per infermieri a Roma, e il solito corso
per malattie tropicali ad Anversa.
Allorché viene destinata alla missione dello Zaire, nel 1959, non ha ancora fatto la professione
perpetua. Lei, però, fin dall’inizio ha giurato fedeltà al Signore e ai poveri (secondo la sua logica
elementare, un’unica fedeltà). E il «sì» di creature come suor Clarangela, magari formulato
mentalmente in dialetto bergamasco (senza consonante ma con due o tre «i» precedute dalla
«acca»), non può che avere la durata della vita intera.
Presta il suo servizio infermieristico dapprima a Kikwit, poi a Mosango, quindi ancora a Kikwit.
Nel 1970 si trattiene in Italia giusto il tempo per guadagnarsi il diploma in ostetricia, e ritorna tra i
malati a Tumikia, e successivamente a Mosango. Infine, due anni prima della morte, torna a Kikwit.
In totale fanno trentasei anni di vita missionaria.
Gli spostamenti continui da una sede all’altra, a seconda delle necessità, per lei non costituivano
un problema: i poveri erano gli stessi da per tutto. E questo le bastava. I poveri, laggiù, non le
mancavano certo. E lei non mancava ai poveri.
Spiccava per concretezza, che deve aver assorbito dalla sua terra. Sapeva coniugare dolcezza con
fermezza. Riservava per sé la scorza aspra e spinosa del sacrificio e della rinuncia, regalando agli
altri unicamente la polpa della carità più squisita e sorridente.
Proverbiale era la sua prontezza a rispondere alle chiamate. In
PAGINA 106:
un reparto di maternità la vita non può attendere. E lei, per raggiungere più in fretta il suo
padiglione, si serviva di un motorino scatarrante. Il carburante ce l’aveva dentro suor Clarangela.
Anche le chiamate notturne, per parti difficili, erano piuttosto frequenti. E lei si liberava
facilmente delle pesantezze del sonno. Ormai c’era avvezza, attraverso un allenamento continuo.
Da questa disponibilità, da questa donazione totale, riservava per sé solo il diritto di essere felice.
Il suo arrivo in comunità, per i parti e la preghiera, era segnalato, in lontananza, da un
inconfondibile canticchiare o fischiettare.
«Con spirito umile e povero»
Possiamo aprirci uno spiraglio nel mondo interiore di suor Clarangela, sfogliando
rispettosamente un suo quadernetto di appunti.
A conclusione di un Corso di Esercizi, fatto in Zaire (a Kasanza), nell’ottobre del 1978, scrive:
«Signore, qui davanti a te, in questo ultimo giorno di Esercizi, formulo questi propositi:
1. Vita di preghiera più profonda e più curata. L’Eucarestia sarà la sorgente per attingere la
forza giorno per giorno. Anche quando il mio pregare incontrerà aridità, voglio restare, nonostante
tutto, fedele.
2. Carità senza misura, solo per il puro tuo amore. In primo luogo, in comunità, tra le mie
consorelle, considerandomi l’ultima di esse e vivendo la vera comunione. E poi carità verso i miei
fratelli: essere accogliente, disponibile con tutti, specialmente con gli ammalati, i poveri, gli
abbandonati, e con quelli in cui a volte è difficile riconoscerti.
63
Infine ti dico grazie, Signore, per il tuo amore. Ti offro la gioia della mia donazione, gioia che mi
sforzerò di vivere tra questi fratelli con spirito umile e povero, consapevole del nulla che sono e del
tutto che sei. Gesù, mite e umile di cuore, rendi il mio cuore simile al tuo».
PAGINA 107:
Bastano, al di là delle note scarne, quelle due espressioni «gioia della mia donazione» e «con
spirito umile e povero» per comporre il ritratto di suor Clarangela.
«Lottando per aiutare i poveri»
Adotta uno stile confidenziale, scrivendo alla Madre Generale, come testimoniano queste righe
stralciate da due sue lettere:
«...Di me le dico subito che sono contenta di essere qui a Kikwit, in questa comunità, e di
compiere così la volontà del Signore, giorno per giorno, accettando le pene e le difficoltà dovute a
questi tempi critici, lottando per aiutare i poveri. Chi li può ancora contare?...
«Oltre al servizio della clinica, do un aiuto alla farmacia e a suor Maria nella contabilità
dell’ospedale. In questo sono proprio una povera aiutante, ma spero, con il tempo e l’esercizio, di
essere maggiormente utile. Ancora un altro aiuto è quello di pasticciera della comunità per le feste
di circostanza. E adesso, con l’assenza di due sorelle, ci aiuteremo nei vari servizi...» (12 giugno
1994).
E ancora, in occasione di un Corso di Esercizi:
« ...Mi ha colpito la domanda: come amare Dio? Si tratta di amarlo con una misura senza misura.
Così mi sono lasciata penetrare dalla ricchezza di questo insegnamento, che risulta grandioso per
questo orizzonte di amore sconfinato che spalanca. Quante volte mi sono posta la domanda: “cosa
ho fatto, così misera che sono, per meritarmi che Dio mio Padre mi ami con tanta tenerezza?...”» (7
settembre 1994).
In quest’ultima lettera si firma: «la sua povera suor Clara, felice».
«Lasciami andare dal mio Signore».
L’agonia straziante e gloriosa di suor Clarangela ci viene descritta dalla Provinciale suor
Annelvira:
PAGINA 108:
«Il 29 aprile a mezzogiorno suor Clarangela dice che sente febbre: ha 38°. Il medico le fa fare gli
esami, che rivelano leucocitosi con neutrofilia. Si cura anche la malaria, poiché questa terribile
malattia si presenta in modo subdolo e come paludismo. Febbre e vomito non la lasciano in pace;
appare un’astenia, un calo pressoché giornaliero (cioè un peggioramento). Si prelevano esami per il
Belgio, nel timore di una febbre emorragica virale, come quella avvenuta a Yambuku... Flebo,
vitamine, premura e vicinanza perché sentivamo che la cosa si faceva seria...
64
«Suor Clarangela ci ha lasciato il 6 maggio (1° sabato) all’una di notte. Il cuore ha ceduto! È una
forma tremenda! Non c’è una normale coagulazione del sangue, per cui le lascio immaginare le
emorragie... Suor Clara ha offerto anche lei per la Congregazione, la Chiesa dello Zaire, il Capitolo,
le giovani suore. In quell’ultimo venerdì continuava a ripetere: «Vieni, Signore Gesù, vieni presto a
prendermi. Abbi pietà, Signore, della nostra comunità, del nostro popolo. Tu vedi i bisogni, ma io
voglio fare solo la Tua Volontà!».
«Ero lì con suor Vitarosa, ci è morta tra le braccia... ma non dimenticherò questo suo ardente
desiderio di vedere il Signore! Poche ore prima mi disse:
– Anna, lasciami andare...
Le domandai:
– Dove?
E lei:
– Dal mio Signore».
Le creature del silenzio che fanno funzionare il mondo
Suor Clarangela era una di quelle creature che, non fosse intervenuta quella morte clamorosa,
non avrebbe mai fatto parlare di sé.
Lei stessa non desiderava altro che passare inosservata. Una presenza discreta, eppure necessaria.
Un servizio umile, poco ap-
PAGINA 109:
pariscente, eppure tanto più utile, e perfino indispensabile, quanto meno appariscente.
Di persone come lei, per nostra fortuna, ce ne sono decine di migliaia... E sono precisamente
quelle che «fanno funzionare il mondo».
PAGINA 110:
SUOR DANIELANGELA
QUELLA COL CIUFFO RIBELLE
I diritti della «minore età»
Quello che si dice un caratterino. Determinata, capace di puntare i piedi, decisa ad avanzare
verso una certa porta quando tutti la stanno strattonando perché arretri, eviti di commettere quella
sciocchezza, non compia un passo di cui avrebbe potuto pentirsi. Tutti coalizzati contro di lei, e lei
che tiene testa (una testa caratterizzata da un ciuffo ribelle e sbarazzino) a tutti.
Sa quello che vuole... e lo vuole. Ad ogni costo. E ciò a diciotto anni. Gli altri le buttano addosso
il solito argomento della «minore età». Ma lei rivendica, per certe scelte di vita, non certo per un
capriccio, i diritti delle minorenni.
65
E poi pensa che uno può essere immaturo anche a quarant’anni, mentre c’è chi, molto prima dei
venti, è allenato a far funzionare il cervello e a muoversi dopo aver ponderato bene ogni cosa. E lei
non è tipo da agire alla leggera, non bisogna badare alle apparenze, ossia al ciuffo: riflette, si pone
delle domande, prega, medita, non scansa nessuna delle questioni più difficili.
I fratelli, quando lei manifesta l’intenzione di entrare in convento a diciotto anni, scatenano un
putiferio anche giudiziario. Mobilitano tutte le persone autorevoli che hanno a portata di mano,
prevosto compreso.
Per carità, si tratta di brava gente che non ha nulla contro la religione, ci mancherebbe altro, nella
parentela non mancano preti e suore. Tuttavia, nel caso di Anna, la cosa è diversa: lei è troppo
giovane, adesso è troppo presto, aspetti ancora un po’. Se, fra tre anni, non avrà cambiato idea, non
saranno loro ad ostacolarla nella sua vocazione.
Insomma, si forma una specie di catena di salvataggio della
PAGINA 111:
«sconsiderata». Si cerca dapprima di convincere la tutrice. Quella, però, non ha nulla da obiettare al
fatto che Anna vada suora.
Promesse, suppliche, minacce, toni duri e «mozione degli affetti», discussioni interminabili con
urla e lacrime e pugni martellati sul tavolo. Lei è irremovibile come un macigno.
Allora si va in tribunale. A questo punto la catena ha perso qualche pezzo, sono rimasti in sei
fratelli, ma questi sono decisi a spingersi fino in fondo pur di sbarrare la strada alla sorellina
testarda. Il giudice per i minorenni non bazzica la chiesa, e poi lui stesso ha in casa una brutta gatta
da pelare come quella che gli viene messa in mano.
Anna non si scompone. Alla fine, l’uomo armato di codice e scarso di fede allarga le braccia e
tira le conclusioni rivolgendosi ai fratelli in rivolta:
– Avete ragione, Anna è giovane, e voi il vostro dovere l’avete fatto. Però dovete tener conto che
è una ragazzina molto preparata. Io non posso oppormi, non so cosa dirvi...
Un’identica sentenza viene emessa dal parroco monsignore:
– La ragazza è sicura della sua decisione e si dimostra molto preparata.
Insomma, la spunta lei contro tutta la parentela e dintorni coalizzati.
Le lungaggini legali sono riuscite a ritardare il passo fatidico soltanto di pochi mesi. Infatti,
quando Anna entra tra le Poverelle, il 1° marzo 1966, è sulla soglia dei diciannove anni.
Volevano tenersi il gioiello di famiglia
Per comprendere i rapporti burrascosi coi fratelli, bisogna tener conto della situazione familiare.
Anna, paradossalmente, è la prediletta, tutti si sentono in dovere di tutelarla, di evitare che prenda
decisioni avventate. In altre parole: è il gioiello più prezioso di una famiglia povera e loro
pretenderebbero di tenerselo il più a lungo possibile.
C’è spesso una maternità (o paternità) possessiva. In questo ca-
66
PAGINA 112:
so si verifica il fenomeno di una «fraternità» gelosamente, ferocemente e pateticamente possessiva.
Lei era l’ultimo, delicato anello di una catena di tredici figli nati dal matrimonio tra Daniele e
Angela Sorti, originari di Lallio, ma abitanti nella città di Bergamo, in zona Loreto. Tra Anna e il
primogenito ci sono ventitré anni di differenza.
Poteva essere considerata un’intrusa, una concorrente pericolosa, dal momento che le condizioni
economiche dei Sorti non erano certo floride. Un posto in più a una tavola già abbastanza avara, in
quelle situazioni, obbliga gli altri a stare più stretti e a ridurre le dimensioni del piatto.
Invece, no. Assicura la sorella Maria: «È stata considerata come l’angelo della famiglia. Quando
è nata abbiamo fatto una gran festa in casa».
Tutto viene compiuto in gran fretta. Anna nasce il 15 giugno del 1947, una domenica mattina,
quand’è ancora buio. Si decide di battezzarla il giorno stesso. L’ostetrica ha stabilito che il
battesimo amministrato di domenica procura l’indulgenza. L’unica difficoltà è che la madrina
prescelta abita lontano e non è possibile raggiungerla subito con i mezzi a disposizione (di telefono,
manco a parlare).
Dovendo scegliere tra madrina predestinata e l’indulgenza, si opta per l’indulgenza, ossia... per
la sorella più grande, Maria, diciassettenne. Farà lei da madrina vicaria. Ciò spiega il rapporto
particolare, piuttosto complesso, che si stabilirà tra le due. Maria si sentirà sempre qualcosa più di
una sorella nei confronti della «piccina» e, allorché si scatenerà la «guerra dei diciotto anni», sarà
lei la combattente più ostinata, anche se destinata a soccombere. Infatti, tra due «irriducibili», la
spunterà quella «più irriducibile».
La famiglia deve registrare lutti penosissimi in serie, che incidono sulla vita di tutti. Papà
Daniele muore nel 1955, quando Anna ha otto anni. L’anno successivo muore anche la mamma.
Passano due anni ed ecco che, in un tragico incidente, perde la vita il fratello Tarcisio.
Anna frequenta le elementari alla scuola «Armando Diaz».
PAGINA 113:
Non brilla particolarmente negli studi, tuttavia si arrangia. Fin dall’adolescenza, è costretta a
sbrigare le faccende domestiche. In Casa, con tutti quei fratelli, il lavoro non manca certo, e ognuno
deve fare la sua parte.
Forbici crudeli
Anna ama la musica e lo sport. Le piace andare a cavallo (ma non bisogna pensare
all’equitazione, che è roba da ricchi) e in bicicletta (una delle mete abituali è il santuario di
Caravaggio).
Ci tiene alla cura della persona, con un tocco di eleganza e perfino di stravaganza (per quel
tempo). Per esempio, non è disposta per nessuna ragione al mondo a rinunciare a un ciuffetto
sbarazzino che lei si lascia scendere sulla fronte. La sorella Maria continua a rimbrottarla e, infine, a
minacciarla:
67
– Va a finire che una buona volta te li taglio io quei ridicoli capelli...
Lei da quell’orecchio non ci sente e stavolta la battaglia, a colpi secchi di forbice, viene vinta
dalla sorella maggiore, che in seguito non si darà pace per quel gesto.
Trova un lavoro come rammendatrice in una ditta. Poi passa in una legatoria di libri. Si tratta di
impieghi piuttosto precari e qualcuno si dà da fare per cercarle un posto più sicuro.
Viene finalmente trovata una sistemazione adeguata presso l’Ospedale Maggiore di Bergamo,
ma proprio quando le arriva il sospirato invito a presentarsi, lei oppone un rifiuto. Si limita a dire:
– È inutile.
Ormai ha scelto un’altra strada, mettendo sul piede di guerra – come abbiamo visto – tutta la
famiglia.
Nel Diario di quelle settimane c’è una notazione che lascia trapelare il travaglio interiore che ha
dovuto combattere nel proprio intimo: «Tu mi chiami, ma io non rispondo. Tu mi tenti, ma io non
sono disposta».
Nell’ultima pagina, però, compare una spiga accompagnata da due righe di didascalia: «Signore,
sono pronta. Questo è il tuo raccolto».
PAGINA 114:
Stavolta ha trovato Qualcuno più testardo di lei.
La lotta interiore riguardava anche la forma di vita: Anna avvertiva una certa attrattiva verso la
clausura e non sapeva decidersi. Alla fine, dopo parecchie esitazioni, aveva optato per la vita attiva.
L’esigenza contemplativa, tuttavia, rimarrà sempre come una spina tormentosa conficcata nel suo
animo.
Durante gli anni della missione riuscirà a conciliare, non senza fatica e superando difficoltà
facilmente comprensibili, le due dimensioni. Ciò però, evidentemente, non le bastava. Qualcuno
addirittura sostiene che suor Danielangela, non fosse stata stroncata precocemente dal virus di
Ebola, avrebbe finito per realizzare il sogno antico della clausura.
Il mazzo di fiori dello spasimante deluso
Quando entra fra le Poverelle (1° marzo 1966) è costretta a incassare l’ultimo ricatto del fratello
Zenone:
– Vai suora? E allora, me non mi vedi più...
Allorché farà recapitare a tutti i familiari l’invito per la festa della vestizione religiosa, l’unico a
impuntarsi sarà proprio Zenone, che dichiara solennemente ai fratelli:
– Al Palazzolo, se volete, andateci voi, io di certo non ci vengo. Quella ha voluto fare di testa
sua, come al solito... e io non mi muovo da casa.
E invece non resisterà. A mezzogiorno, Anna vede spuntare, in fondo al cortile, anche se un po’
rabbuiato, con l’aria tra l’indifferente e l’impacciato, il «duro» Zenone.
Quel giorno riceve anche un singolare omaggio floreale accompagnato da una lettera. È Sergio,
un suo spasimante, forse quello che ha sofferto più di tutti per la scelta di Anna. Nel biglietto
assicura che avrebbe aspettato tre anni prima di rassegnarsi definitivamente...
68
Per ricordare ambedue i genitori defunti, Anna; nel giorno dei voti, assume il nome di suor
Danielangela.
Dopo il noviziato, viene destinata a Milano, tra gli anziani. Quindi scocca la decisione di andare
in missione. Ma anche sta-
PAGINA 115:
volta c’è una leggera titubanza. Riferisce la Superiora suor Silviangela:
«Aveva il desiderio della clausura. Diceva che doveva dedicare tutta la sua vita alla
contemplazione; dava tantissimo tempo alla preghiera personale, anche notturna, e ogni anno
andava a fare gli esercizi in clausura. Io però avevo il dubbio che questa fosse un po’ una “fuga”, e
abbiamo detto: “Fai un’esperienza in missione. Se poi davvero questa è la strada che il Signore ha
preparato per te, Lui te l’aprirà”. Ha fatto la domanda ed è stata subito accolta».
E anche stavolta, manco a dirlo, c’è battaglia coi fratelli. Maria, che ha assunto, com’era
prevedibile, il comando delle operazioni, si mette a urlare:
– Vai in missione? Ma cosa ti sei messa in testa? C’è bisogno anche qui.
Suor Danielangela risponde imperturbabile:
– Là c’è più bisogno che non qui. Io ci vado.
Discorso chiuso. Stavolta Maria mica può afferrare le forbici. Certe idee che spuntano in testa
alla sorellina non si possono tagliare come lei ha fatto con la frangetta impertinente...
Da parte sua, suor Danielangela annuncia di aver modificato il testamento:
– I miei soldi me li porto tutti là.
Ma non è una vendetta. Semplicemente una valutazione serena delle priorità.
Nei primi anni di missione, nessuno dei fratelli andrà a trovarla. Successivamente sarà lei a non
volerlo, a motivo delle continue turbolenze politiche che si registravano nel paese, e che potevano
costituire un pericolo.
Tuttavia, quando suor Danielangela tornava in patria per le vacanze, trovava sempre qualcuno ad
attenderla a Linate. E il problema, di non facile soluzione, era quello di «dividersi» in parti eguali
tra i fratelli, per non scontentare nessuno. Segno evidente che i rapporti si erano definitivamente
rasserenati. O, forse, più verosimilmente, al di là di qualche temporale appariscente e chiassoso, in
profondità non si erano mai guastati. Si sa, l’eccesso di
PAGINA 116:
affetto, tante volte, conduce al tentativo di soffocamento della libertà altrui.
Il rimedio contro la stanchezza
Suor Danielangela è stata chiamata d’urgenza nello Zaire, senza neppure aver potuto completare
il corso per malattie tropicali in Belgio.
69
Arriva a Mosango, sua prima comunità, scortata da suor Floralba. Vi rimarrà dieci anni, quindi
passerà a Kikimi (periferia della capitale). Alla fine la troviamo Superiora a Tumikia.
Da per tutto si segnala per competenza professionale, capacità di animazione, entusiasmo,
disponibilità.
I problemi che deve sbrogliare non riescono ad alterare la sua serenità. Avverte la stanchezza,
come tutti, ma ha scoperto il sistema infallibile per combatterla. Confida: «Certe volte sono stanca,
però al vedere il bisogno mi passa».
I fratelli, anche se non si fanno vedere, si fanno sentire con doni e aiuti di ogni genere. Lei,
abitualmente, vende i regali e li trasforma in denaro da distribuire ai poveri.
Coltiva anche un hobby: il mercato. Ci gode un mondo a trattare gli acquisti con abilità
consumata e naturalmente discutendo sul prezzo.
Non ha deposto definitivamente il sogno della clausura, e anche in Africa tiene i collegamenti
con un paio di monasteri locali. Le consorelle la chiamano scherzosamente «trappistina».
Significativa, a questo proposito, la predilezione per la Casa di Esercizi di Eupilio, «la collina
dello Spirito». Durante le soste in Italia vi soggiornerà almeno un paio di volte per corsi di
meditazione.
Stralciando alcuni brani dalle lettere, è possibile intuire la sua statura spirituale. Definisce la vita
missionaria come «una presenza che testimonia l’amore del Signore».
Scrive a una consorella: «Colui che ti ama vuole che tu entri in profondità con Lui,
contemplandolo e offrendogli del tempo che
PAGINA 117:
sia per Lui solo». E insiste: «Ricordati che bisogna passare diverse ore in questo atteggiamento per
incontrare Lui».
Non viaggia tra le nuvole
Ma la sua spiritualità non è certo di evasione. Suor Danielangela non veleggia tra le nuvole di un
misticismo vacuo. Tiene i piedi ben piantati sulla terra africana.
Si distingue per una spiccata passione per la giustizia In quel paese di ingiustizie ne vede
parecchie, e il coraggio per parlarne non le fa certo difetto. Testimoniano i suoi familiari: «Ci
spiegava le cose dal punto di vista politico. Ci riferiva cose che tutti sanno ma che nessuno dice».
Con Lallio, che è il paese di origine dei suoi genitori, riesce a stabilire dei rapporti costanti, in
particolare con il locale «Gruppo Missionario», assai vivace e impegnato. Da quella gente suor
Danielangela viene considerata come l’inviata speciale sul fronte dello Zaire. E lei spedisce
relazioni abbastanza regolari che contengono lucide analisi sulla situazione di quel paese.
In occasione dei festeggiamenti per il 25° di vita religiosa, nel luglio 1993, le regalano anche una
macchina fotografica, grazie alla quale riuscirà a corredare la sua documentazione con immagini
assai efficaci.
Stralciamo da quei rapporti alcuni brani che dimostrano la lucidità di analisi di questa suora,
capace di individuare e denunciare, senza mezzi termini, i mali che affliggono to Zaire.
70
Parla con evidente soddisfazione del catechismo che viene insegnato nella lingua locale, il
kikongo (il francese lo si impara soltanto nelle scuole medie e superiori). Ma affonda il bisturi della
sua penetrante analisi in quella che, dopo la miseria (ma tra le due c’è un legame molto stretto) è la
piaga più preoccupante, che corrode tutti i tessuti della vita sociale: il regime tirannico di Mobutu.
Ma andiamo con ordine.
Scrive da Kinshasa, dove opera in una specie di baraccopoli: «Pur essendo nella capitale, il
quartiere Zelo è situato all’estrema
PAGINA 118:
periferia. Il nostro centro ospedaliero, dispensario, scuola di cucito, è situato vicino alla parrocchia.
«Il nostro servizio è diretto a ottantamila abitanti. La zona è poverissima, siamo senz’acqua e
senza corrente, ma possediamo un gruppo elettrogeno che ci permette la luce due ore al giorno e
l’acqua per i bisogni più indispensabili. Il numero dei bambini denutriti è elevato, così quello dei
tubercolosi. In questa zona il servizio che assicuriamo noi è praticamente l’unico, dal momento che
il grande ospedale generale è accessibile a pochi» (giugno 1984).
E ancora: «Ciò che mi edifica ogni giorno è constatare che della gente povera, che soffre la fame,
riesce sempre a condividere con gli altri il poco o nulla che riesce ad avere dalla Provvidenza.
«C’era un bambino gravissimo per la denutrizione, che io amavo in modo particolare e seguivo
con attenzione per tentare di recuperarlo dal suo stato di marasma, dandogli un po’ di cibo. Spesse
volte questo piccolo lasciava una parte di quanto gli davo per donarlo agli altri bambini che sapeva
affamati. Di esempi come questi ce ne sono tanti...» (Kinshasa, 20 agosto 1985).
Annuncia: «Il 10 dicembre è stata inaugurata la nuova maternità con trenta letti. Ora le mamme
non partoriscono più in terra, ma in condizioni umane. Potete immaginare la gioia della
popolazione!» (dicembre 1987).
Tuttavia non riesce a cullarsi in facili illusioni: «La gente non ha soldi per potersi curare in
privato. I denutriti aumentano un po’ dovunque. Noi continuiamo ad essere una presenza che
consola e aiuta, ma è ben poco e i bisogni sono immensi...» (27 giugno 1992).
Il quadro che traccia sovente appare desolante: «...Nello Zaire nulla di nuovo. Da alcuni mesi
regna un clima di staticità nell’insicurezza. La gente è nauseata di politica, di promesse, di attese
senza realizzazione...
«Per la povertà estrema, in campo sanitario, dove non esistono mutue, ed ogni persona deve
pagarsi tutto, la gente ritorna alla tradizionale medicina indigena. Naturalmente una medicina sen-
PAGINA 119:
za dosi è portatrice di morte per intossicazione, specie nei bambini.
«Lo scoraggiamento è il peggiore dei mali nella situazione attuale, perché porta molti cristiani
all’abbandono della religione, per aderire a sette che nascono un po’ dovunque. Ci si rifugia in
danze, canti, fanatismi e speranze fasulle.
71
«Un altro pericolo è il ritorno ai “fetiches”, l’aiuto chiesto agli stregoni... che esigono grosse
ricompense... C’è bisogno più che mai di spargere il seme: c’è chi semina e chi raccoglie.
L’efficacia del nostro apostolato è ancora un sogno, almeno nel campo dell’educazione della massa,
ma crediamo anche che il grano che cade in terra, prima di portare frutto deve anche morire. Il
marcire per noi è il lavorare senza vedere frutti...» (maggio 1994).
Il suo animo si svela soprattutto in queste righe scritte poco prima di morire: «La gente è
veramente animata da buona volontà, ma tutto è reso spesso inefficace da un regime perverso. La
tentazione dello scoraggiamento mina anche le persone bene intenzionate.
«Mi piace pensare a Madre Teresa di Calcutta che non si è mai arresa. Le biografie parlano di lei
come di una donna dall’intensa preghiera e contemplazione Eucaristica. Il suo segreto sta
nell’amare pazzamente il Cristo per trovare l’energia necessaria per aiutare piccoli e grandi in nome
suo.
«È con questi sentimenti che cerco e cerchiamo di lottare per una liberazione... del nostro paese
d’adozione. Il Signore ascolti il nostro grido e ascolti il grido dei poveri inviando un nuovo
Mosè...» (18 marzo 1995).
«Una suora che sorride: è tutto qui ciò che è venuta a fare?».
Significativa anche questa lettera inviata da Tumikia agli amici di Lallio, dove parla con molto
realismo del senso della missione toccando il tema della sua apparente inutilità: «...Proprio vero: è
dando che si riceve. È sacrificandosi che si ritrova la vita. C’è più gioia nel dare che nel ricevere.
«Nella mia piccola esperienza ho potuto costatare che quando
PAGINA 120:
si è poveri di mezzi, o bloccati da una politica dittatoriale, quando umanamente parlando la mia
presenza sembra inutile, il mio donarmi uno sciupio, il mio servizio sfruttamento di una certa classe
benpensante, e qualche volta anche il povero sembra non recepire il tuo messaggio, ebbene, proprio
in questa linea di povertà e di fallimento si ritrova il senso della missione...
«...È da quel fondo di delusioni che si scopre la vera identità: quella di seguire il Cristo in un
cammino di non trionfo, in un cammino duro, fatto di delusioni e tradimenti, ma nello stesso tempo
un cammino che redime e salva.
«La gente anche quaggiù attende dal missionario e dalla missionaria gesti grandi, opere
prodigiose, costruzioni, un continuo dare e fare. E quando questo non avviene scopri in loro la
delusione sullo stile dei due di Emmaus: speravamo in una missionaria che risolvesse tutti i nostri
problemi, mi desse questo e quello, e invece mi guarda con tenerezza, mi parla solo di Amore:
amare come Lui, perdonare, essere segno trasparente. È solo una suora che sorride, aiuta... Ma è
tutto qui quello che è venuta a fare?
«Poi, piano piano, ti accorgi che il sospetto, il rispetto, si trasformano in comprensione,
condivisione, stimolo a fare noi, a essere noi, a non attendere i gnocchi dalla luna come diceva il
nostro Beato Fondatore, don Luigi Palazzolo. Essere poveri, ma di una povertà che arricchisce
l’altro, con l’ascolto, l’attenzione, la presenza, la comprensione, e tutto ciò all’infinito...».
72
Si tratta di una delle pagine più autentiche, più concrete, più sincere, che io abbia mai letto
sull’argomento.
Rastrella denaro senza sporcarsi le mani
Quando tornava in Italia per il «riposo», non si concedeva soste. Era sempre in giro a informare,
sensibilizzare, raccontare, inquietare e... rastrellare soldi.
Trattandosi di denaro destinato ai bisognosi, non aveva falsi pudori. Ad esempio, quando la sua
famiglia vendette la vecchia casa nel quartiere di Loreto, lei pretese immediatamente la sua quota.
Quale spiegazione si limitò a ripetere:
PAGINA 121:
– Questi soldini mi occorrono, mi occorrono...
Avutili, si era precipitata a Verona ad acquistare apparecchiature per i raggi X.
Con chiunque le capitasse a tiro, commentava:
– Non sai che bello, per la mia gente là...
Amore vuole amore
Non appena viene a sapere che suor Floralba sta male ed è stata ospitata a Mosango, a una
quindicina di chilometri da Tumikia, suor Danielangela la raggiunge per prestarle assistenza.
La natura del male è ancora sconosciuta, ma suor Danielangela non è abituata a chiedere
documenti né alle persone né alle malattie. Lì il male ha il volto di una consorella, e ciò le basta.
L’ultima veglia accanto a suor Floralba morente la fa lei. Non volendo disturbare le consorelle
assai affaticate, sbriga tutto da sola: iniezioni, cambio della biancheria sporca di sangue, e altro
ancora.
Al mattino comunica a suor Annamaria:
– Ho fatto tutto, sai?... ma non sta bene...
Quella scuote il capo:
– Come mai tutti quegli stracci già puliti?
E lei, arrossendo un poco, si giustifica:
– Mah, così... per non darvi lavoro... Li lavavo a mano a mano... Allorché le sorelle di suor
Floralba, subito dopo il funerale, l’avvicinano per ringraziarla, lei si limita a commentare:
– È semplicemente quello che mi sentivo di fare.
Non una parola in più.
Poco dopo viene messa in isolamento. Soccombe al termine di 13 giorni di lotta accanita col
nemico ancora senza nome, l’11 maggio 1995.
La sorella Maria, che ha passato una notte insonne, rigirandosi nel letto in preda a una strana
agitazione, apprende la notizia in maniera un po’ brutale:
«Quella mattina mi sono seduta qui, al tavolo tra le foto e le lettere. Arriva in macchina mio
figlio Franco, più presto del soli-
73
PAGINA 122:
to: «Mamma, ormai hai solo quelle foto lì da guardare: l’Anna non c’è più».
Lei commenta: «A noi manca, ma anche là, in Africa, mancherà qualcosa».
Suor Danielangela aveva scritto: «L’Amore vuole amore». Niente altro.
Chi pretendesse altre spiegazioni per capire, dimostrerebbe di non capire niente.
E poi non ci sono altre spiegazioni…
PAGINA 123:
SUOR DINAROSA
QUELLA CHE PEDALAVA IN SALITA
Esperta in bulloni
Da quelle parti, in Valtrompia, nel bresciano, è normale che una ragazza vada a lavorare in uno
stabilimento. E si tratta, per lo più, di fabbriche in cui le mani non vengono impiegate a contatto con
materiale particolarmente morbido, ma sono costrette a carezzare il ferro.
Teresì non sfugge alla regola: il suo lavoro consiste nel produrre bulloni, che non è il massimo
della delicatezza per una giovane donna. E dire che, prima, si era familiarizzata con ago, filo e
forbici, imparando il mestiere di sarta. Dalla stoffa ai bulloni, il passo... per le mani, è notevole. Ma
Teresì non sta a sottilizzare troppo.
Al mattino inforca la bicicletta e punta in direzione di Lumezzane. Per raggiungere l’officina
bisogna affrontare alcuni chilometri di una salita che spezza le gambe e toglie il fiato. È giocoforza
abbandonare la bici e salire su un pullman che facilita il percorso.
Ma lei si tiene in tasca i soldi del biglietto, regolarmente forniti dalla mamma, e affronta l’erta a
piedi. Dice che deve risparmiare per la dote. Ma non è detto debba trattarsi del corredo da sposa.
Insomma, deve ancora decidere di che dote si tratti.
Teresa Belleri era nata a Cailina (che allora faceva parte della parrocchia di Villacarcina), in
provincia di Brescia, l’11 maggio 1936. Il babbo si chiamava Battista, la mamma Maria. Era stata
preceduta da Domenica. Dopo di lei verrà un maschio, Pierino.
Proprio il fratello abbozza un ritratto che spiega il carattere di Teresì: «Era allegra, sorridente.
Con lei non c’era gusto a litigare. Rendeva tutto semplice con una scrollata di spalle».
PAGINA 124:
Se la mamma la rimproverava per qualcosa, lei si limitava a commentare:
– Me lo sono meritato.
Tutto lì: nessuna scusa, nessuna giustificazione, nessun piagnucolamento.
74
Uno spettacolo pirotecnico nel cielo scuro.
La cugina, suor Tersilla Corti, anche lei delle Poverelle, riferisce di alcuni momenti
particolarmente drammatici legati all’esperienza della guerra che volgeva ormai all’epilogo:
«Mentre le bombe degli alleati si abbattevano come grandine sulla città di Brescia, noi stavamo
sdraiate per terra, scaraventate qua e là dagli spostamenti d’aria. Ci tenevamo strette l’una all’altra,
nella notte senza luce, con la terra che tremava sotto di noi. Urlavamo, piangevamo e pregavamo
anche a voce alta cercando di superare il fragore degli schianti dirompenti...».
Teresina aveva otto anni e, nella sua ingenuità – stando al racconto della cugina – non poteva
trattenersi dall’intercalare la recita delle «Ave Maria» con esclamazioni di ammirazione per lo
spettacolo fantasmagorico allestito nel cielo buio squarciato dai bagliori dell’esplosione delle
bombe e striato dalle scie e dalle cascate luminose della contraerea.
Insomma, fuochi artificiali pagati a prezzo di molto spavento e parecchie «Ave Maria».
Giocherellona, allegra, Teresì prediligeva i giochi di gruppo purché fossero movimentati. E
l’oratorio delle Suore delle Poverelle le forniva spazio e materia prima più che sufficienti per la sua
esuberanza.
Ogni tanto si rimorchiava in casa un’amica che abitava lì vicino, destinata a fare da cavia per i
suoi esperimenti infermieristici. E quella, compiacente, si adattava al ruolo di paziente fingendosi
malata e consentendo in tal modo a Teresì di prestarle tutte le cure del caso e praticarle le terapie di
pronto intervento. Lei, molto compresa della parte che si era assegnata, ritagliava con le forbici
strisce di carta bianca e le applicava delicatamente sugli occhi o la
PAGINA 125:
testa della compagna remissiva, accompagnando il tutto con parole di conforto e consigli
appropriati.
Certi bambini, una volta, manifestando sintomi di vocazione precoce, giocavano a fare il prete
avvolti in improbabili sottovesti arraffate alla nonna, e armeggiavano con turibolo, aspersorio,
attizzatoio e attrezzi vari, davanti ad un altarino improvvisato.
Lei si divertiva a fare l’infermiera, senza sospettare che per circa trentacinque anni avrebbe
svolto proprio quel servizio, che sarebbe stato una cosa estremamente seria, non semplicemente un
gioco (e neppure un mestiere). E la materia prima non avrebbe avuto bisogno di andarsela a cercare:
si sarebbe presentata spontaneamente, ogni giorno, in lunghe file...
Si era fatta le ossa nell’Azione Cattolica, campo in cui aveva percorso con diligenza e
convinzione tutta la trafila, da «Piccolissima» a «Beniamina» a «Giò».
Compatibilmente con gli orari di lavoro, partecipava alle preghiere della sera nella cappella delle
suore.
Per un certo tempo deve aver valutato anche la possibilità di formarsi una famiglia, e c’era nei
paraggi un giovane dispostissimo a partecipare al progetto. Ma, a poco a poco, si era convinta che la
sua strada era un’altra.
75
Due mani come dote
Nel 1957, all’età di 21 anni, Teresì entra nell’Istituto delle Suore delle Poverelle di Bergamo,
portando in dote, oltre a dosi notevoli di semplicità, buon senso, praticità, due mani allenate a...
darsi da fare. Diventerà suor Dinarosa, senza rinunciare al suo temperamento gioioso e cordiale.
Dopo aver conseguito il diploma di infermiera professionale a Roma, viene destinata a Cagliari
per prestare servizio ai malati di tubercolosi.
Cinque anni dopo, nel 1966, si imbarca per lo Zaire. Il primo campo di attività è Mosango, a
circa 400 chilometri da Kinshasa. Vi rimarrà diciassette anni, dedicandosi in prevalenza ai malati di
Tbc (che, in quelle plaghe, sono i più poveri tra i poveri). Ma il
PAGINA 126:
suo raggio di azione comprende anche i lebbrosi e individui affetti da infermità particolarmente
gravi.
Dove c’è pericolo, lei è presente. Se c’è bisogno di qualcuno che si accolli i compiti più ingrati,
lei non si tira indietro. Le sue mani si sono addestrate a trattare il ferro. In lei coabitano queste
componenti: decisione, robustezza interiore, forza d’animo e delicatezza, tenute insieme dal
silenzio. Si riserva i servizi più penosi, e perfino ripugnanti, quasi fosse la cosa più naturale di
questo mondo.
Nel 1983 la troviamo a Kikwit. Manco a dirlo, il suo reparto è quello dei tubercolotici. Ma si
occupa anche di malati di AIDS. Ecco come lei stessa descrive la situazione, due anni prima della
morte, scrivendo ai suoi compaesani della parrocchia di Cailina di Villacarcina:
«...Lavoro in un grande ospedale civile che comprende undici padiglioni. Vi sono con me altre
consorelle europee e zairesi, otto medici e personale del luogo in numero sufficiente.
«L’ospedale può disporre complessivamente di 450 posti letto, ma gli ammalati ricoverati si
aggirano ogni giorno sui 1.200-1.400.
«A Kikwit ci sono infermi colpiti da malattie di ogni genere: dai lebbrosi ai denutriti, dagli affetti
da malaria e da verminosi ai sofferenti di AIDS e di tanti altri mali.
«C’è grande miseria e battaglia per vivere. Si lotta per l’acqua, in quanto le sorgenti sono lontane
e non esistono condutture. Si lotta contro le malattie, senza medicinali adeguati.
«A Kikwit si trova poco di tutto e quello che si trova viene pagato molto caro...
«I meno fortunati si recano nella savana a caccia di topi, di grilli, di formiche, oppure cuociono
dei bruchi simili alle processionarie, ricchi di proteine. Quando li vedo nutrirsi in tal modo, mi
prende una grande compassione e non posso trattenermi dal confrontare la situazione dello Zaire
con le nostre cosiddette “crisi economiche” d’Italia, dove i magazzini sono pieni di ogni ben di
Dio...
«Qui a Kikwit ci sono tanti bambini, ma molti di loro non han-
76
PAGINA 127:
no la possibilità di andare a scuola, perché non tengono soldi per pagare i maestri. L’istruzione,
infatti, non è gratuita e obbligatoria come da noi...».
Su un cumulo di miserie, il miracoloso zampillo dell’allegria
L’ambiente è piuttosto deprimente. Suor Dinarosa, tuttavia, riesce sempre a far emergere da
quella palude di desolazione lo zampillo dell’allegria e a creare un’atmosfera di serenità.
Anche in comunità si preoccupa di animare le ricreazioni. Si improvvisa pagliaccio, ballerina,
attrice comica, adottando i travestimenti più incredibili e trovando una valida spalla per le sue gag
in suor Clarangela. È convinta che la fraternità si consolida non solo con le prediche ma anche con
l’allegria contagiosa. Una risata scoppiettante ha il potere di rasserenare atmosfere cupe, dissipare
l’aria stagnante di tedio che domina in certi ambienti religiosi, mettere in rotta i nuvoloni neri forieri
di tempesta, attenuare tensioni, sdrammatizzare problemi e preoccupazioni.
Suor Dinarosa non aveva studiato il latino, ma era sicura che «servite Dominum in laetitia» non
andava tradotto, come purtroppo si ostinano a fare parecchi, che pure hanno frequentato le scuole,
con «servite il Signore e il prossimo nella cupezza e nella musoneria».
Suor Dinarosa, ossia la naturalezza della carità, la facilità delle cose più difficili, la quotidianità e
l’ordinarietà dello straordinario, e l’anti-eroismo... dell’eroismo.
Angelina Rondi l’ha avvicinata nei giorni in cui si stava addensando la bufera. Il suo racconto
mette perfettamente a fuoco la personalità di suor Dinarosa:
«Io e mia sorella Rosanna, alla fine di aprile, siamo andate a Kikwit per il funerale di nostra
sorella, suor Floralba. In quei giorni ci si cominciava ad allarmare, ma non si sapeva ancora che si
trattava di Ebola.
«Io ero seduta in casa vicino a suor Dinarosa, che non aveva
PAGINA 128:
ancora la febbre, mentre suor Clarangela già cominciava a star male e quel giorno le avevano fatto
un prelievo.
«Suor Dina dice a suor Clara:
– Ti è andata bene, perché sembra sia solo una forte malaria, e hai anche gli anticorpi del tifo:
forse lo hai fatto tempo fa...
«Allora io ho detto a suor Dinarosa:
– Stia attenta, non si ammali anche lei che deve ritornare in Italia presto. L’aspettiamo a casa
nostra a mangiare le costine!
«Mi ha risposto:
– Ma io sono qui a servire i poveri: il Padre Eterno mi aiuterà...
«Io ho insistito:
– Ma non ha mica paura lei che lavora la in mezzo a tutti quei malati che non si capisce bene
cosa hanno?
77
«Risposta:
– La mia missione è quella di servire i poveri! Cosa ha fatto il mio Fondatore? Io sono qui per
seguire le sue orme:
«E dicendo così rideva un po’... Suor Dina era sempre contenta».
Quei passi lungo l’erta
Già, lei si era proposta di seguire le orme del Fondatore. Non era cosa agevole, perché tener
dietro a quell’infaticabile Samaritano rappresentava un’impresa da spezzare gambe e schiena,
strozzare il fiato, assai più che la salita che conduceva alla fabbrica di bulloni di Lumezzane.
Il Palazzolo raccomandava anche di «avvolgersi tra i poveri». Un gesto ancora più impegnativo
di quello, pur emblematico, di Martino, che ha diviso il mantello col mendicante barbellante di
freddo.
Non è questione soltanto di donare il mantello, ma di «avvolgersi tra i poveri», ossia di vivere
con loro, fare di loro il proprio habitat naturale. I pesci vivono nell’acqua, gli uccelli nell’aria, e le
Poverelle nei luoghi della sofferenza e della miseria. Fuori da quegli ambienti, boccheggerebbero
per mancanza di ossigeno. Così
PAGINA 129:
pensava suor Dinarosa, senza dirlo (ma le cose più importanti non è necessario dirle).
Da parte sua, lei sta sempre «avvolta tra i poveri» con semplicità e letizia. E quando la strada è in
salita (e lo è sempre, in quelle zone piatte), non bisogna stare ad aspettare l’autobus. Ci si
arrampica, e talvolta si arranca, a piedi. Possibilmente senza lasciar mancare il canto e il guizzo
dell’umorismo.
I piedi ci sono stati dati per camminare, la schiena per curvarsi sulle sofferenze altrui, e le mani
per ritagliare bende di pietà e tenerezza da posare, delicatamente, sui volti sfigurati e sui corpi
devastati. E i soldi vanno risparmiati per la dote dei poveri.
Così pensava suor Dinarosa. Ma anche questo non lo diceva. Questione di pudore, che è
inseparabile dall’amore.
Calvario con vista sul Paradiso
Durante il primo anno di permanenza in Africa, le era morto il babbo, da tempo sofferente di
cuore, e lei, ovviamente, non aveva potuto né voluto abbandonare il posto. Il dolore per certe
perdite, quando si è lontani migliaia di chilometri, si avverte in maniera ancora più acuta e la
lacerazione si rimargina molto più lentamente.
Per fortuna, durante il congedo quadriennale in Italia, nell’inverno 1990-1991, ha la possibilità di
investire la sua tenerezza anche nell’assistenza alla mamma, che muore nel gennaio del 1991.
Prima del ritorno alla base di Kikwit, compie una specie di «esproprio terzomondista» nella casa
della sorella Domenica: requisisce vestaglie, camicie, lenzuola, asciugamani e affini,
impacchettandoli per la missione. Si limita a spiegare:
– Tanto tu potrai sempre ricomprarle, ad una ad una, tutte queste cose.
78
Domenica vorrebbe protestare:
– Teresì, mi spogli la casa!
Ma si vede che, in fondo, è contenta di fare contenta la sorella, la quale è felice quando può
rendere felici gli altri.
PAGINA 130:
Sarebbe dovuta tornare in Italia, per il solito periodo di vacanze, nel luglio 1995.
Invece, il 9 maggio inizia la tremenda, devastante salita del Calvario. Giungerà in cima il 14.
Di lassù c’è la vista sul Paradiso.
PAGINA 131:
SUOR ANNELVIRA
QUELLA CHE COLTIVAVA I PUNTI ESCLAMATIVI
Anche un ceffone serve a piantare i chiodi
Suo padre, venditore ambulante di frutta e verdura, sognava per lei un futuro tranquillo di
magliaia con tanto di atelier in proprio. Ma lei aveva conficcato in testa un chiodo, e teneva in cuore
un sogno diverso, che aveva comunicato esclusivamente a mamma Elvira. Nessun altro, neppure
nella cerchia delle amiche più intime, era stato messo al corrente di quel segreto, che lei si guardava
bene dal lasciar trapelare.
Un giorno Celestina – diciassettenne – stava nell’orto col padre, la schiena piegata a sradicare
erbacce. Durante una sosta, mentre si detergeva il sudore, papà Ludovico adottò, con evidente
impaccio, un tono confidenziale:
– Adesso che hai imparato bene il mestiere di magliaia, e sei in grado di cavartela da sola, ti
compro una macchina per maglieria.
Doveva essere una sorpresa, almeno così pensava il brav’uomo. Invece la sorpresa rimbalzò
imprevista, dall’altra parte:
– Papà, non comprarmi nessuna macchina, perché io vado suora.
Una frazione di secondo, e le arrivò, in piena faccia, un sonoro ceffone. La delusione per
Ludovico risultava troppo bruciante e lui era andato giù con la mano pesante, tanto da far saltare un
dente in bocca alla figlia.
Anche in seguito, per alcuni giorni, non riuscirà a darsi pace. Quella ragazza aveva la possibilità
di non girare più da un mercato all’altro, in qualsiasi condizione di tempo, poteva starsene in casa a
fare un lavoro pulito, per proprio conto, e lei, incosciente, si era messa in testa di andarsi a
rinchiudere in un convento. Chissà cosa aveva nel cervello...
79
PAGINA 132:
Alla fine si lasciò convincere e si arrese. D’altra parte, quella figlia non era tipo da rinunciare ai
propri sogni, ceffoni o non ceffoni. Poteva anche ingoiare un dente, ma non era disposta a ringoiare
i propri ideali. Incassava senza fiatare lo schiaffone, ma il chiodo si conficcava ancora più in
profondità. E poi contava sulla complicità della mamma. Cosa può fare un uomo, sia pure sostenuto
da un manrovescio che lascia il segno, contro due deboli donne coalizzate? Tanto più che c’era di
mezzo un Altro (ma questo Ludovico Ossoli, ambulante di frutta e verdura, non era in grado di
sospettarlo).
Il segreto per vendere gelati
Era nata il 6 agosto 1937 a Orzivecchi, un paesino con le case seminate sui bordi della strada per
Brescia, a poca distanza dalla sponda sinistra dell’Oglio. Era stata preceduta da una sorella e da due
fratelli (ma uno era morto prematuramente). Dopo di lei sarebbero venuti due altri maschietti, di cui
solo uno sopravvissuto.
In famiglia bisogna darsi da fare per campare dignitosamente. Oltre al commercio ambulante,
viene gestito un piccolo negozio dove si trovano i generi più disparati: merceria e gelateria, salumi e
detersivi, pane e spago, quaderni e formaggio.
Celestina si dimostra una ragazzina dalla personalità vivace, esuberante, con un’allegria
trascinatrice. A scuola se la cava ottimamente. Dopo la quinta elementare, frequenta le suore per
imparare il ricamo e il cucito. Ma il suo impegno principale è in casa e al mercato.
Racconta la vecchia mamma: «Era così gioiosa che emanava un fascino speciale. Le piaceva
molto la lettura e amava i bambini. Molti giovanotti, quando era lei di turno a vendere il nostro
gelato, se ne stavano a guardarla, era proprio bella... Non sarebbero più andati via». Difficile
accertare fino a che punto riuscirà in seguito a coltivare la passione per i libri. Quanto ai bambini,
ne avrà una moltitudine.
La primogenita, Maria, viene spedita a Verona per frequentare i corsi da ostetrica. Per lei,
invece, viene progettato, come abbia-
PAGINA 133:
mo visto, un futuro da maglierista. Paradossalmente, non soltanto manderà in frantumi il progetto
paterno, entrando tra le Poverelle nel 1954, ma in Africa «ruberà» il mestiere alla sorella Maria.
Laggiù si nasce facilmente. Il problema è sopravvivere
Fa la sua professione religiosa nel 1956 assumendo il «nome nuovo» di Annelvira. Dopo aver
conseguito il diploma di infermiera e caposala (1957-1959), presta il suo servizio a Milano nella
Casa di riposo di via Aldini.
Parte per lo Zaire nel 1961, destinata all’ospedale di Kikwit. Negli anni 1967-1968 sta a Roma
dove si specializza in ostetricia.
80
Impossibile fare un calcolo, anche approssimativo, di quanti minuscoli marmocchi urlanti
consegnerà nelle braccia di madri felici in Africa. Certo, sono diverse migliaia i bambini che lei ha
aiutato a vedere la luce. Basti pensare che in quell’ospedale si registrano dalle settecento alle
ottocento nascite al mese. Verrà giustamente definita dagli indigeni (che nell’appioppare i
soprannomi ci azzeccano sempre) «la donna della vita».
L’unico suo rammarico: laggiù il problema non è nascere. Il problema serio è sopravvivere.
Suor Annelvira tiene i collegamenti con il paese d’origine, cercando di coinvolgerlo nella sua
missione. Durante le brevi rimpatriate si dà da fare per sensibilizzare parenti, amici, oltre che
parrocchiani, ai problemi della sua terra d’adozione. E dà l’avvio, così, a un rivolo ininterrotto di
aiuti in cibo, vestiti, medicinali e denaro. Certo, c’è una sproporzione abissale tra le necessità dello
Zaire e le possibilità della gente di Orzivecchi e dintorni. Ma a suor Annelvira sta a cuore che tutti
si sentano corresponsabili. E poi è convinta che anche poche gocce riescono a far fiorire quel
deserto sterminato di miserie e ad attenuarne almeno un po’ la sete.
Di suo ci mette una dedizione totale e un amore spinto fino ai confini dell’esagerazione.
Il ritornello che ripete anche nei giorni del dramma finale, e che tradisce una fede smisurata, è: «Il
Signore è buono! Il Signo-
PAGINA 134:
re provvede! Il Signore fa bene ogni cosa!» (sì, lei, nel suo temperamento gioioso, metteva i punti
esclamativi anche quando parlava).
Intanto, personalmente, si preoccupa di fornire una mano robusta alla Provvidenza (e tanto più
robusta in quanto viene da un fisico non eccezionale), dandosi instancabilmente da fare. Non si
risparmia e il suo organismo ben presto ne paga le conseguenze. Dapprima una seria malattia
polmonare (dopo appena sei anni di missione). Successivamente si manifestano seri problemi alle
articolazioni delle ginocchia che fanno prospettare l’ombra della carrozzella.
Viene tentato, dopo parecchie perplessità, un intervento chirurgico, che invece dà esiti
soddisfacenti, cosicché suor Annelvira torna a camminare.
Nel 1992 il suo servizio in terra di missione ha una svolta non prevista dall’interessata, che viene
eletta Superiora Provinciale delle Suore delle Poverelle in Africa.
Si tratta di un compito delicato e non certo agevole. I viaggi spossanti, con relativi disagi e
imprevisti, sono all’ordine del giorno: Zaire, Malawi, Costa d’Avorio e Italia... Le pare di essere
tornata agli anni della giovinezza, quando girava per i mercati. Solo che adesso non va a vendere
prodotti ortofrutticoli, ma a recare conforto e incoraggiamento, a risolvere problemi assillanti e
sempre nuovi.
Nonostante una salute piuttosto fragile e le giunture che scricchiolano, non si tira mai indietro.
Sperimenta un altro tipo di maternità. Si prodiga dando prova di una maturità umana e spirituale di
prim’ordine: sensibilità, capacità di ascolto, attenzione delicata alle persone e alle loro difficoltà
concrete. Ha così modo di riversare sulle sorelle la sua ricchezza interiore.
81
Dalle profondità...
Qualche spiraglio sul suo mondo spirituale viene socchiuso dagli scritti e soprattutto dalle lettere.
Eccone qualche scampolo. Un appunto messo giù dopo il mese ignaziano: «L’annientamento del
PAGINA 135:
Verbo è un abisso di Amore! Grazie, o mio Signore, per essere Tu quello che sei: Dio, Santo!».
Scrive: «Vedendomi più o meno handicappata, sento in me due forze: da una parte la mia natura
soffre per l’impossibilità di camminare e per il timore di essere di peso agli altri... D’altra parte
nasce nell’intimo tanta pace e il desiderio di abbandonarmi alla volontà, inspiegabile, ma sempre
paterna e Divina del Signore che, specie da qualche mese, mi fa sentire la grande importanza di
essere sempre più Sua e come vuole Lui. Allora, fino a che punto importa il poter camminare o no?
L’essenziale è vivere ogni momento per la sua gloria. Grazie, Signore, di questa tua luce. Quanti
passi e salti ho fatto fino ad oggi per la mia soddisfazione personale e la mia ansia di fare bella
figura! Perdonami, o Gesù. Non ti domando nulla, Tu sai quello che è meglio per me» (1° gennaio
1980).
Anche dopo anni di «mestiere» in ostetricia, mantiene intatto lo stupore di fronte al miracolo
della vita.
Manifesta una riconoscenza quasi infantile di fronte a qualsiasi cosa le venga donata: «Che
bello! Che buono!» (e, magari, i punti esclamativi sono due e anche più...). Ma subito un’ombra
passa sul suo volto raggiante: «Ah, se l’avesse la mia gente!...».
La penna intinta nel sangue
E, soprattutto, negli scritti, rapidi – per forza di cose – degli ultimi mesi, tra marzo e metà
maggio del 1995, quelli con cui metteva al corrente la Madre Generale del dramma che si stava
vivendo laggiù, che suor Annelvira si rivela in tutta la sua statura e maturità, sia umana che
spirituale. La sua fede resta incrollabile, la sua Speranza non viene meno neppure in quelle giornate
strazianti che lei vive in prima persona e con addosso una tremenda responsabilità nei confronti
delle Sorelle (e non solo).
«Qui, malgrado la situazione, si va avanti con tanta fiducia nel Signore, anche se a volte, per
nostra poca fede, Lui sembra lontano, oppure addormentato...» È il 28 marzo, e non viene ancora
pronunciato il nome di Ebola.
PAGINA 136:
«È Gesù che deve essere al centro della nostra vita e del nostro apostolato. Allora faremo tutto
con amore, trovando e scoprendo, e facendo conoscere, Chi e per Chi siamo a servizio» (20 aprile
1995).
Documento struggente si rivela in particolare la lettera indirizzata alla Superiora Generale, suor
Gesuelda Paltenghi, anche a nome delle Consorelle, in data 11 maggio 1995.
82
Sarà opportuno inquadrarla nella cornice degli avvenimenti che l’hanno ispirata. Suor Annelvira,
non appena era stata informata che suor Floralba dava serie preoccupazioni per la salute, aveva
abbandonato la sede provincializia di Kinshasa e si era precipitata a Kikwit (ormai a quel viaggio di
500 chilometri era avvezza). L’aveva assistita sino alla fine, raccogliendo i suoi ultimi pensieri e
vivendo con lei quell’agonia straziante.
Aveva servito personalmente, nella piena consapevolezza del rischio che stava affrontando – pur
prendendo le doverose precauzioni suggerite dai medici e dalla sua esperienza professionale – le
altre tre Sorelle che stavano soccombendo allo stesso male, ormai sufficientemente delineato nei
suoi terribili contorni. Quello di essere presente nel momento estremo del pericolo, era un privilegio
della Madre, e non intendeva per nessuna ragione al mondo, rinunciarvi.
Lei, abituata per parecchi anni a mettersi al servizio della vita, assistere migliaia di nascite,
adesso era chiamata ad assistere, impotente, all’opera devastatrice di quel virus mortale che
aggrediva senza pietà le sue «figlie». Sperimentava una lacerante «maternità nella morte».
«Lui è con noi anche in questa durissima prova»
Ecco dunque la sua relazione inzuppata di lacrime:
«Carissima Madre Generale, col cuore affranto dal dolore tento di mandarle qualche notizia.
Purtroppo alle ore 14, circa mezz’ora fa, anche suor Danielangela ci ha lasciate per il Paradiso dopo
tredici giorni di lotta, combattuta insieme, contro questo terribile virus.
PAGINA 137:
«Il 29 aprile a mezzogiorno suor Clarangela dice che sente febbre: ha 38°...
«...Suor Clarangela ci ha lasciato il 6 maggio...
«...Come non bastassero le due sorelle, ecco il turno di suor Danielangela. I Sacramenti le sono
stati amministrati dal nostro Vescovo, che ci è molto vicino, come pure tutte le parrocchie e la gente
di Kikwit, domenica 7 maggio. Mai un lamento nemmeno lei, ma tredici giorni di lotta senza
riuscire a fabbricare delle difese specifiche! Speravamo tanto che giungesse in tempo del plasma
con anticorpi, ma invano! Solo protezioni... È vero che è importantissimo pure quel materiale, ma
noi speravamo anche il resto!
«È solo nella fede che si trova il senso profondo di tanto dolore! Noi siamo impietrite.
L’abbiamo ricomposta: sembrava un angelo! Distesa nella pace dello Sposo, il Quale in questi
giorni ultimava, con la loro offerta serena e totale, la loro corona con le gemme più preziose, da
portare sul loro capo al loro arrivo nella Casa del Padre.
«Ora c’è suor Dinarosa che dal 4 maggio manifesta gli stessi sintomi e tutti i test ematici
prelevati, dunque anche il suo, confermano da Anversa la forma virale di febbre emorragica (di
Yambuku).
«Grazie, Madre, della sua vicinanza, grazie a tutte le consorelle, sia quelle che hanno scritto sia
le altre, grazie per le preghiere e per il conforto spirituale. Grazie alle Madri Provinciali e alle loro
comunità. Grazie al Malawi e alla Costa d’Avorio. Con Maria ai piedi della croce vogliamo
ravvivare la nostra fede e ripetere... con tutte le nostre Sorelle, con lei, cara Madre Generale, il
nostro “Fiat”. Certo Lui sa tutto ed è con noi anche in questa durissima prova.
83
«Ciao! Saluti! GRAZIE! Sua suor Annelvira e consorelle tutte».
Notare quell’ultimo «grazie» scritto a caratteri maiuscoli, una specie di sigla finale, di chiave
decisiva per comprendere l’intera vita di suor Annelvira.
E non mancano neppure i soliti punti esclamativi. Indubbiamente, in quei giorni, davanti a lei
sono affiorati inquietanti punti
PAGINA 138:
interrogativi. Ma è riuscita a estirparli, trapiantando al loro posto i punti esclamativi.
Due giorni dopo, il 13 maggio, comunica a una sorella di Kinshasa: «Il tempo per vivere può essere
corto, e allora intensifichiamo il nostro vivere... Nelle condizioni in cui ci troviamo, il valore del vivere
assume tutt’altra dimensione. Ci rimettiamo a Dio».
Solitudine finale
Dopo aver accompagnato suor Dinarosa lungo il suo Calvario, fino al culmine, (14 maggio),
dichiara con semplicità: «Penso sia arrivato il mio turno». Ma già il giorno prima aveva comunicato
a suor Annamaria Arcaro, di non sentirsi bene. Quel persistente mal di testa e la febbre sono
«segni» che non lasciano troppi dubbi. Ormai i sintomi li conosce e sa che cosa l’aspetta.
Commenta suor Annamaria: «Suor Anna, sabato 13, mi dice che non si sente bene; suor Rosa
viene a dirmi: “Ho 38° di febbre...”.
«Abbiamo cercato di sdrammatizzare, ma nel mio cuore è scesa un’angoscia mai provata, che mi
toglieva il respiro, e il cuore mi batteva all’impazzata... Il presentimento era là, chiaro davanti a me:
ancora due sorelle afferrate dal terribile mostro...
«Mi sentivo morire, ma dovevo farmi forza, incoraggiare e curare suor Anna e suor Rosa...
«Suor Annelvira è stata sempre meravigliosa, con una forza e un coraggio incredibili. Anche
quando ha capito (al secondo e al terzo giorno) che il virus l’aveva contagiata, è stata di una forza
eccezionale, anche se si notava sul suo volto il duro combattimento che stava vivendo...
«A un certo momento suor Annelvira, così come suor Danielangela, non volevano più il siero e
neppure il plasma. Raccomandavano di riservarlo per i poveri che non avevano soldi per
comprarli».
Lei, come pure suor Vitarosa, dovrà affrontare quella lotta spaventosa senza poter avere accanto
le consorelle, con l’assistenza
PAGINA 139:
soltanto di due infermieri coordinata dal dottor Philippe Callain del CDC di Atlanta. Quella misura
dolorosissima si era resa necessaria per risparmiare altre vittime.
Ma seguiamo il racconto di suor Annamaria, «la sopravvissuta»:
«Il giorno 17, suor Annelvira mi dice:
84
– Sai che penso di avere il virus? È il quarto giorno che prendo antibiotici e la febbre non
scende...
«Il giorno seguente, suor Anna presentava le prime chiazze rosse alle mani, alle braccia... Il
dottor Philippe Callain le dice:
– Adesso, suor Anna, è confermato che avete il virus di Ebola. Da questo momento, le vostre
sorelle e io dobbiamo mettere in atto tutte le precauzioni, con l’isolamento stretto.
«E lei:
– Merci, docteur... Je comprends bien!
«Quando si è trattato di trasferire anche suor Annelvira nella casetta dell’isolamento dove erano
morte tutte le altre, i medici, il Vescovo e tutti hanno obbligato noi sorelle a non assisterle più.
Venerdì 19 maggio due medici e due persone della Croce Rossa sono venute a prenderla per
trasportarla nella casetta. Non potrò più dimenticare quel passaggio di suor Anna, davanti a noi, che
eravamo tutte in singhiozzi...
«Subito ho pensato all’Agnello che andava verso il sacrificio fuori dalla città e lontano dai suoi...
«Nel pomeriggio dello stesso giorno suor Anna ha richiesto il Padre per il sacramento degli
infermi. Anche suor Vitarosa ha voluto riceverlo insieme a suor Anna e si è assistito ancora una
volta a una scena commovente: tutta la comunità stava al di fuori e seguiva il rito cantando “Marie,
Mère du grand’oui!”...».
L’unico cruccio per lei, in quei giorni: non poter intrecciare nel silenzio completo il dialogo col
suo Signore, interrotto spesso com’era dagli interventi medici o infermieristici.
Incontrerà l’angelo della morte il 23 maggio verso le 18.
I testimoni riferiscono di una pioggerellina fine che scende dal cielo proprio in quegli ultimi
istanti, e che cessa subito dopo. Suor
PAGINA 140:
Béatrice Ngwaka commenterà: «Quasi una pioggia delle grazie che vuol far scendere su di noi pace,
consolazione e accettazione».
Una fioritura di punti esclamativi
L’anno precedente, in occasione della Pasqua, aveva spedito, quale augurio all’anziana e
indimenticata mamma Elvira, una fotografia di un bimbo africano, ponendo questa scritta nel retro:
«Carissima Mamma, Buona Pasqua! Te la dà questo bellissimo pupo del Malawy! Cerca di star
bene, ti ricordo tanto nelle preghiere... A te auguroni e un grosso bacio. Tua figlia Celestina».
Anche per noi, d’ora innanzi, è possibile ritrovare suor Annelvira nel sorriso di qualsiasi
bambino.
Il messaggio della «donna della vita» non può che essere un messaggio di vita. E pure l’ombra
sinistra della morte viene assorbita dalla luce pasquale.
Chissà quanti punti esclamativi avrà dovuto tirar fuori suor Annelvira all’arrivo nella Casa del
Padre.
Lassù avrà trovato una sterminata fioritura di punti esclamativi. E qualcuno l’avrà lasciato cadere
anche qui in terra, senza dubbio.
85
Sarà bene che afferriamo un fascio di quei suoi immancabili punti esclamativi, per piantarlo al
centro del nostro cuore, a soppiantare i troppi punti interrogativi che lo invadono, e far germogliare
una voglia insopprimibile di lode.
PAGINA 141:
SUOR VITAROSA
QUELLA CHE ANDAVA DAI «NON RAGGIUNTI»
Va’ dove ti porta il lavoro…
Si chiamava Maria Rosa. Da religiosa aveva assunto il nome di suor Vitarosa. Ma in comunità
veniva indicata abitualmente come «la Zorza», a motivo del suo legame particolarissimo con la
famiglia.
Tuttavia, in quella confusione di nomi, lei era sempre quella, inconfondibile, facilmente
riconoscibile per il faccione attraversato da un largo sorriso.
Strana famiglia quella degli Zorza. Numerosa, di condizioni assai modeste, e anche un po’
nomade. Infatti il padre fa il bracciante e il lavoro deve andarselo a cercare dove c’è, e i nove figli
lo seguono nei suoi spostamenti.
Racconta Adele, una delle sorelle: «Soldi ce n’erano pochi, ma eravamo felici lo stesso.
Conducevamo una vita semplice e ricca di affetto».
Se i soldi scarseggiavano, in compenso il capitale di fede era piuttosto consistente. Papà Angelo,
uomo religiosissimo, la sera, radunava la nidiata per la recita del Rosario. Gli altri appuntamenti
fissi erano le preghiere del mattino e quelle prima dei pasti.
Maria Rosa era nata per ultima a Palosco, provincia di Bergamo e diocesi di Brescia, il 9 ottobre
1944.
Quando ha appena due anni, le muore la mamma Maria. Sarà la signora Faustina, nonna paterna,
a svolgere il ruolo di seconda mamma.
Ma poi il babbo decide di risposarsi e la famiglia ben presto aumenta perché arrivano due altri
fratellini. Maria Rosa, frattanto, ha dovuto crescere in fretta perché deve occuparsi dei nuovi
arrivati, dal momento che la matrigna è spesso malata.
PAGINA 142:
Appena terminate le scuole, trova lavoro (nero) in un’azienda di Telgate che produce manici di
ombrelli. La paga è miserabile, ma in una famiglia come quella rappresenta pur sempre una manna
provvidenziale. Papà Angelo – che morirà nel 1964 – apprezza.
«Meglio non pensarci troppo…»
Le compagne la ricordano come una ragazza mite, remissiva, non invidiosa, serena, disposta a
lasciar correre, e soprattutto sempre col sorriso a illuminarle quel faccione simpatico.
86
Ma lasciamo, per una volta, sia lei a raccontare la propria vita e gli inizi della sua vocazione.
Possediamo, a questo riguardo, una specie di relazione autobiografica, scritta da suor Vitarosa
Zorza in occasione del suo 25° di professione, circa un anno prima della morte, per il bollettino
della parrocchia di Palosco. È un racconto piano, in tono dimesso, senza forzature retoriche,
secondo lo stile del personaggio. Ecco alcuni passaggi:
«...Avevo sette anni quando, per motivi di lavoro, la mia famiglia si trasferì alle Bettole di
Cavernago, nel 1950. Vi rimasi fino a 17 anni. Le Bettole, allora, contavano tre case e Cavernago –
se non erro – ne contava otto, compreso il bellissimo Castello. Era un paese piccolo, tranquillo; non
c’era l’attrattiva della televisione né occasione di altri divertimenti.
«La mia vita trascorreva semplicemente tra impegni di famiglia, di lavoro e di parrocchia. Mi
piaceva fare catechismo, andare dalle Suore, fermarmi nella bella chiesetta di Cavernago dove c’era
Qualcuno che esercitava su di me una certa attrattiva.
«Avvertivo che la vita è un dono di Dio, che tutto quello che ci circonda è fatto da Lui con amore
e che ogni persona era pure un segno dell’amore di Dio.
«Capivo che su ogni persona il Signore ha un progetto particolare: è compito di ciascuno di noi
conoscere questo progetto e realizzarlo secondo i doni di cui siamo colmati.
«Ma quale era il mio progetto? Cominciò dentro di me una lotta: sentivo che il Signore mi
chiedeva di essere dono di amore e
PAGINA 143:
nello stesso tempo avvertivo forte l’attrattiva per la vita matrimoniale. Come poteva Dio scegliere
me per la vita religiosa, se io ero così imperfetta e se avevo interesse per le cose a cui ogni ragazza
tiene tanto?
«Per il momento decisi di non pensarci troppo, per non avere delle noie. A 18 anni conobbi un
ragazzo che mi propose di condividere la vita con lui. Ci frequentammo per due anni e mi sembrava
molto bello l’amore che nasceva tra noi. Nel rispetto reciproco cercavamo di conoscerci e fare
progetti per il futuro. Ma dentro di me qualcosa non era chiaro: sarà proprio questo che Dio vuole
da me?».
Su quest’ultimo episodio le versioni sono contrastanti. Secondo alcuni sarebbe stato il ragazzo,
Giuseppe, a rompere il fidanzamento perché avverte il richiamo della vita monastica e si rifugia per
un certo tempo in un convento piemontese. Secondo la testimonianza di Antonella Sbernini, «Rosa
ne soffre, ma non ne fa una tragedia. Solo una volta la sorella Adele l’ha vista piangere a causa di
Giuseppe e la conforta tra le sue braccia».
La verità, probabilmente, ancora una volta, sta nel mezzo: ossia ambedue si rendono conto che la
loro strada è diversa. E quella che deve lottare di più, per obbedire alla sua vera vocazione, è Rosa.
Ma riprendiamo il filo del racconto: «Cominciai a pregare con più intensità e a chiedere
consiglio al Parroco. Un po’ per volta cominciò a farsi luce dentro di me: la mia attenzione si
posava più spesso sull’amore che il Signore aveva per me e sulla necessità di raggiungere i fratelli
più poveri per parlare loro della bontà del Padre che sta nei cieli.
87
«A 21 anni mi resi conto che era arrivata l’ora di dare la mia risposta a Dio, diventando tutta sua
nella vita religiosa. Feci un serio cammino di ricerca e di discernimento per conoscere in quale
Congregazione avrei potuto vivere la mia appartenenza al Signore e la missione in mezzo ai poveri.
«Sempre per motivi di lavoro, la mia famiglia aveva lasciato Cavernago e si era trasferita a
Palosco. Lì conobbi le Suore delle Poverelle... Fui subito colpita dallo stile di vita di queste Suore:
PAGINA 144:
nella povertà, semplicità, disponibilità e gioia si avvolgono tra i poveri, quelli non raggiunti da altri,
come diceva il Fondatore.
«Per meglio conoscere e sperimentare il loro carisma, che si ricollega alla contemplazione e
imitazione di Cristo, povero e obbediente al Padre per amore degli uomini, fino allo spogliamento
della croce, andai a lavorare in una loro comunità che prestava servizio agli ammalati psichici21
».
«A 23 anni entrai come postulante nella Congregazione; dopo il noviziato feci la professione
religiosa: ero Suora, appartenevo al mio Dio in modo tutto singolare!
«Ultimati gli studi di infermiera professionale, prestai servizio tra gli anziani e di nuovo tra gli
ammalati psichici: a contatto con tanta sofferenza e solitudine, sentii nascere dentro di me un
desiderio, quasi una nuova vocazione: andare in terra di missione dove la povertà è ancora più vasta
e gli aiuti meno solleciti. Sentivo che dovevo lasciare la vita abbastanza sicura che conducevo qui in
Italia per condividere la situazione dei fratelli “non raggiunti” nella lontana Africa».
La letizia di suor «Tappabuchi»
Resta da precisare che suor Vitarosa, prima di sbarcare nello Zaire, presta servizio dapprima a
Milano, poi passa a Tone Boldone, e quindi nuovamente a Varese, luogo del suo primo
apprendistato.
Gli spostamenti sono continui, ma lei c’è avvezza fin da piccola. I Superiori sanno che, in ogni
emergenza, possono contare a occhi chiusi sulla sua disponibilità. E con lei si può formulare una
richiesta secca, senza troppi preamboli.
Così diventa una «suora tappabuchi»: qualche giorno in quella comunità, un paio di settimane in
quell’altra, perché c’è da sostituire qualche consorella. E lei parte badando a non lasciarsi dietro il
sorriso, e attirandosi ovunque la simpatia generale.
Non si sente per nulla diminuita da quel pendolarismo, indi-
PAGINA 145:
gesto ai più. Lei appartiene alla categoria dei «servi inutili», che non si tirano mai indietro quando
viene richiesta la loro opera oscura quanto preziosa (quelli, invece, che si ritengono indispensabili,
riescono sempre a defilarsi allorché si profila un compito sgradevole e poco appariscente).
21
Si tratta dell’ospedale psichiatrico «Bizzozzero» di Varese.
88
Quando il francese non funziona, basta il sorriso per farsi capire
Nell’ottobre 1982 suor Vitarosa parte per lo Zaire, dopo una preparazione piuttosto sommaria. In
Belgio, oltre che frequentare le lezioni sulle malattie tropicali, avrebbe dovuto imparare il francese.
Ma, per quanto si mettesse di buzzo buono, quella lingua le rimaneva indigesta. Lei se la faceva di
più col dialetto bergamasco. E comunque, laggiù, se la sarebbe cavata sparando le vocali doppie e
illustrandole col suo impareggiabile sorriso. E tutti l’avrebbero capita perfettamente.
La sua prima destinazione è Kikwit. Così descrive, semplicemente, la situazione che trova:
«L’ospedale ha una capienza di 500 persone, ma in ogni letto ci sono sempre due o tre ammalati,
quindi pensate voi le condizioni...».
Lei si dedica in modo particolare ai bambini denutriti. Nel suo animo sensibile, però, registra e
condivide profondamente la sofferenza di quello che considera ormai il «suo» popolo. E trova
accenti accorati per dare conto di quella situazione che sfiora la tragedia. Scrive, per esempio, alla
Madre Generale, durante un Corso di Esercizi:
«Ormai la miseria è arrivata al culmine, la gente non sa più che cosa fare... Arrivano malati gravi
privi di ogni mezzo, rifiutati dagli altri dispensari od ospedali, perché non possono pagare. Se anche
da noi non trovassero aiuto, sarebbero destinati a morire...
«Arrivano tanti bambini denutriti, e ora anche adulti; sono aumentati i tubercolotici; sono più di
450 gli ammalati che vengono ogni giorno a prendere le medicine. Malaria cerebrale e meningite
uccidono tanti bambini. L’AIDS fa strage...
«Io torno tra loro con un grande desiderio di amare più intensamente Dio, servendolo negli
infermi, negli abbandonati... A noi
PAGINA 146:
non resta che mettere tutto nelle mani di Dio e pregare tanto perché non succeda il peggio».
Più tardi, nel già citato articolo, non esita a scuotere la coscienza tranquilla di tanti cristiani
occidentali, scaraventando loro in faccia un quadro allucinante che lei ha davanti agli occhi:
«Forse noi, abituati a mangiare tre volte al giorno, dormire in camere arredate e comode, avere a
disposizione denaro e comfort vari, non riusciamo neppure ad immaginare che milioni di fratelli
vivano in capanne di fango e paglia, dormano per terra, mangino una volta al giorno se sono
fortunati, e quelli che lavorano abbiano una paga da miseria...».
E concluderà, lanciando un appello ben mirato:
«Io sono certa che anche oggi il grido di questi fratelli è capace di suscitare la solidarietà di noi
che stiamo bene e che ci diciamo cristiani; ma sono anche sicura che la voce del Signore bussa al
cuore di tanti ragazzi e ragazze chiedendo loro di mettere la loro vita a sua disposizione per andare
tra questi fratelli a dire concretamente, con la vita spesa per amore, che in cielo c’è un Padre Buono
per tutti.
«Auguro a questi giovani di aprire il cuore a Cristo, di ascoltare il suo invito, di non aver paura a
scegliere la vita religiosa come proprio stato di vita: chi perde la propria vita per me la ritrova, dice
Gesù. E io vi posso garantire che vale la pena vivere insieme con Gesù la meravigliosa esperienza
dell’amore che si rende visibile nel servizio agli ultimi!».
89
«Sorrideva sempre»
Giorgio Fornoni, di Ardesio, è un fotografo giramondo. Un giorno è capitato a Mosango e ha
incontrato suor Vitarosa. La ritrae così:
«Mi aveva colpito quella suora. La cosa che la distingueva dalle altre è che sorrideva sempre,
sempre, sempre: una persona di una serenità e di una forza estrema. Ispirava un senso di solidità, sia
fisica che morale...
«Vitarosa Zorza in quei giorni mi ha accompagnato al carcere
PAGINA 147:
di Kinshasa, al manicomio, in giro per i villaggi. Le suore danno ogni genere di aiuto a quella gente,
che ha tanti bisogni. È la loro missione, molto al di là del lavoro sanitario in ospedale. Le Poverelle
hanno libertà d’accesso in molti posti, sono rispettate, non solo dai militari, ma da tutti. Il governo
si fida di loro, concede una certa libertà.
«Tre volte alla settimana suor Vitarosa caricava un pulmino di viveri e andava a trovare i
carcerati. Li chiamava uno per uno, portava da mangiare, che è la cosa più semplice per aiutarli. Era
capace di visitare cento persone al giorno. Ce n’erano anche di pericolosi, alcuni sono legati con
catene, trattati come animali. Di umano c’era ben poco in quel posto. L’unica nota di umanità era
data dal lavoro di queste suore.
«...Mi ha accompagnato anche al manicomio, che è un luogo aperto, molto diverso dai nostri:
non ci sono guardiani, e la gente sta dentro perché non ha altre alternative. Il mondo per loro non
esiste più.
«In questo quadro le suore sanno mantenere un certo equilibrio di pulizia e di igiene... Mi ricordo
come suor Rosa sapeva accogliere i malati, come li sapeva trattare... Conservava una straordinaria
serenità»22.
Paura sì...
Dopo dieci anni, suor Vitarosa viene colpita da un attacco di ischemia ed è costretta a riparare in
Italia, giusto il tempo per rimettersi in sesto. Per il sorriso non c’è bisogno: quello non è mai in
restauro.
Il collaudo della salute ritrovata viene fatto a Kingasani, uno sterminato quartiere alla periferia
della capitale.
La situazione politica dello Zaire, in quegli anni, diventa ancora più preoccupante, che è tutto
dire. Un po’ da per tutto si accendono focolai di rivolta, esplode la rabbia di gente che non ne può
più, con le inevitabili code di saccheggi, uccisioni e violenze
22
«L’Eco di Bergamo», 29 maggio 1995.
90
PAGINA 148:
di ogni genere. I sibili delle pallottole lacerano l’aria in continuazione.
Suor Vitarosa ne rimane scossa, sperimenta la paura, e non fa nulla per nasconderla. Lei vuol
essere semplicemente suora, e non intende giocare a fare l’eroina. Scrive:
«Anche se l’insicurezza non manca mai e la paura qualche volta si fa sentire, mi affido a Dio...».
Paura no…
Ignora, invece, totalmente la paura quando si tratta di accorrere a Kikwit non appena viene a
sapere dell’emergenza che si è determinata laggiù dopo la morte di suor Floralba.
Ha cacciato, alla rinfusa, in una valigia, le sue poche cose insieme a tutti i medicinali che è
riuscita ad arraffare, e lascia la sicura Kingasani per raggiungere la comunità di Kikwit, così
duramente provata.
Suor Antoinette premurosa, la mette in guardia:
– Non hai paura? Sembra che ci sia una malattia contagiosa...
Lei non ha esitazioni:
– Paura di che? Le altre sorelle sono là: perché non posso andarci anch’io? In questo momento
hanno bisogno di me.
Un infermiere, suo collaboratore, le si inginocchia davanti e con la voce strozzata dall’angoscia,
la supplica:
– Ma sœur, non andare, perché a Kikwit è già morto un mio amico e tanti altri stanno morendo!
Per tutta risposta, suor Rosa, secondo il suo stile inconfondibile, sfodera un bel sorriso e intona il
ritornello di una canzone in lingala: «Se il Signore ti manda, va’, e non temere...».
E così, a fianco di suor Annelvira, si prodiga accanto alle sue consorelle colpite dal virus.
Quando anche lei viene aggredita dal male, i medici cercano di darle speranza. Lei, però, che ha
visto morire, pochi giorni prima, suor Annelvira, non si fa illusioni:
– Ora tocca a me.
Alle due di domenica mattina, 28 maggio 1995, solennità del-
PAGINA 149:
l’Ascensione, suor Vitarosa porta il suo faccione attraversato dall’abituale largo sorriso, che non ha
mai ammainato, a contemplare la gloria di quel Dio che predilige i piccoli come lei.
«Dio ama i piccoli»
Aveva scritto: «Ho percepito che Dio mi ama di un amore infinito. Più riconosco di avere tanti
limiti ed essere tanto povera, più sento che Dio mi ama. Sì, perché Dio ama i piccoli!».
Una consorella, suor Danila, testimonia da Kinshasa:
«Quando ci è giunta la notizia della morte che si è diffusa in un baleno, abbiamo sentito quanto
suor Rosa fosse amata dal personale, dalla gente, dai poveri. Attraverso il pianto, le grida, ciascuno
esprimeva la propria angoscia di fronte a questa scomparsa... Ieri sera il personale e la gente della
91
parrocchia hanno organizzato una veglia... A un certo punto è giunto anche il Cardinale che ha
pregato con noi, lodando il Signore per il dono di queste martiri fatto alla Congregazione e alla
Chiesa...».
Quand’era ancora studente, aveva allacciato rapporti di amicizia con una compagna dello Zaire,
suor Béatrice. Insieme avevano percorso tutto il cammino della formazione alla vita religiosa,
condividendo ideali e passione missionaria. Quel legame non verrà mai spezzato neppure in seguito.
Alla morte di suor Vitarosa, la mamma di suor Béatrice commenterà:
– Mi è morta la figlia bianca.
E non era la sola a considerarla tale.
PAGINA 150:
RITRATTO DI FAMIGLIA
Alcune linee per comporre un’immagine unitaria
Sei personalità diverse, con alle spalle storie, vicende, esperienze differenti. Viene da
domandarsi: che cosa avevano in comune, al di là della morte provocata dalla medesima causa che
le ha assimilate nella stessa sorte in uno spazio di tempo assai ristretto? Ci sono tra loro delle
rassomiglianze, e quali?
Proviamo a individuare alcuni tratti caratteristici che compongano un’immagine unitaria, pur
nella varietà dei volti.
Alla fine, dovrebbe venirne fuori un ritratto di famiglia.
I documenti arrivano solo all’ultimo istante
Il loro Fondatore aveva coniato una formula singolare: «Avvolgersi tra i poveri». Era il suo
chiodo fisso, il suo programma, la divisa inconfondibile della sua famiglia religiosa, il segno di
riconoscimento delle Poverelle.
Paradossalmente, il vero abito delle Poverelle è il vestito dei poveri, in cui devono essere
«avvolte». Se appaiono «fuori» da quel rivestimento, se si spogliano di quell’abito che le avvolge,
se si sottraggono a quella «copertura» (oserei dire coperta; sì, perché si tratta della coperta del
povero), diventano irriconoscibili, non identificabili.
Loro erano andate in Missione nella certezza che laggiù sarebbe stato facile «avvolgersi tra i
poveri», identificarsi totalmente con loro. Nello Zaire la coperta della povertà era decisamente
ampia, quasi smisurata, e loro vi avrebbero trovato riparo senza eccessive difficoltà.
Ben presto, però, avevano dovuto rendersi conto che la cosa
PAGINA 151:
non era tanto semplice. Pur «avvolte» tra i poveri, e perfino tra i più poveri tra i poveri, la differenza
rimaneva, e risultava piuttosto marcata.
92
Pur vivendo con loro, dedicandosi a loro, soffrendo con loro, sposando senza riserve la loro
causa, c’era pur sempre una distanza. L’identificazione si rivelava impossibile. E non era solo
questione di pelle.
Un conto è vivere in mezzo ai poveri, servirli, spendersi senza risparmio per loro, e un conto
essere povero. Emerge sempre una linea di confine che separa chi ha fatto voto di povertà, chi ha
scelto i poveri, e chi, semplicemente, è povero. E quella linea, per quanti sforzi facessero, non si
poteva cancellare.
«Avvolte», ma loro di qua, e quelli di là. Era il loro cruccio, quasi un rimorso tormentoso, una
ferita perennemente aperta. Le sei Poverelle si portavano dentro una specie di peccato originale (e
non esiste battesimo di «inculturazione» che possa cancellarlo): stavano con loro, per una scelta di
amore, ma non riuscivano ad essere come loro. Ed erano i poveri stessi a farglielo capire in mille
maniere, senza per questo attribuirgliene una colpa, beninteso.
Era, quella, la loro spina fastidiosa conficcata nella carne (2 Cor 12,7).
Bisognava rassegnarsi: i documenti di «identificazione» non li avrebbero mai ottenuti.
Poi, all’improvviso, si è affacciato alla frontiera il nemico, l’Ebola, e ha prodotto quel risultato
inatteso, ha compiuto quella specie di miracolo. Ha portato i documenti.
L’identificazione «impossibile» è stata resa possibile per contagio. Non c’è stato bisogno
neppure di una trasfusione di sangue. È bastato il contatto epidermico; forse, addirittura, il respirare
la stessa aria.
E così, per colpa (o per merito) di un maledetto virus, che secondo l’opinione corrente doveva
essere riservato agli africani, le sei Poverelle si sono ritrovate finalmente come loro.
«Avvolte tra i poveri», perché «avvolte» dallo stesso virus. So-
PAGINA 152:
lo che l’avvolgimento non era all’esterno, ma all’interno dell’organismo, dentro la carne.
Quanto parlare si è fatto, in questi ultimi tempi, di «inculturazione»... Loro l’inculturazione
l’hanno realizzata, non nella mente, ma nel corpo. Il virus di Ebola è stato il fattore determinante di
questa stupefacente «incarnazione» (che è qualcosa di più dell’inculturazione).
E tutto ciò – sarà bene sottolinearlo – non è avvenuto attraverso una scelta personale, un
dibattito, una programmazione apostolica.
Il contagio non si trasmette nel corso di una discussione, di un dibattito «impegnato», ma nel
corso di un servizio.
Non c’è stata una loro decisione esplicita. Si sono ritrovate improvvisamente povere, in maniera
radicale, scarnificante, nel modo che non avrebbero mai immaginato.
La distanza non l’hanno annullata le sei Poverelle attraverso particolari tecniche missionarie
suggerite dagli esperti del ramo. Ha provveduto a colmarla l’Ebola. E l’ha fatto in una maniera
brutale, senza nessuna consultazione preliminare.
Paradossalmente, la spina è stata estirpata proprio quando si ritrovano con la carne straziata in
quel modo crudele.
Dunque. Hanno alla fine scoperto che se risultava impossibile vivere come loro, restava pur
sempre la possibilità di morire come loro.
93
La «grazia» tanto sospirata è arrivata proprio all’ultimo istante. E non era, beninteso, la
sospensione della sentenza, ma l’esecuzione.
Si sono presentate lassù «avvolte nell’Ebola», insieme a tanti altri.
Più che documenti di identità, potevano esibire un prezioso, raro documento di identificazione.
«Ero stato colpito dal virus di Ebola e... vi siete lasciate contagiare...».
E così, lassù, hanno scoperto che Qualcuno li aveva preceduti nell’identificazione. Anche Lui,
prima di loro, si era lasciato «avvolgere dall’Ebola».
PAGINA 153:
La naturalezza della carità
Ha visto giusto Abramo Levi: «...del tutto naturalmente». Ossia, hanno fatto quello che hanno
fatto come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Qualcosa che va da sé, sempre che ci si
collochi in una certa ottica, si segua una certa logica.
Non si sono atteggiate e non si sono sentite delle eroine, e nemmeno delle martiri. Erano e
rimanevano delle povere donne, anzi delle Poverelle.
Hanno compiuto quel gesto con spontaneità, naturalezza, semplicità. Qualcosa che non rientrava
nel registro dell’eccezionale, ma in quello delle cose da fare. «Niente di speciale» avrebbero potuto
dire.
Avessero saputo dal nostro sbalordimento, dello scalpore che la loro vicenda ha scatenato anche
sui giornali e alla televisione, certamente si sarebbero stupite... della nostra meraviglia.
Contente, probabilmente, che si parlasse e si scrivesse di loro solo a patto servisse a far
conoscere il dramma di quella gente in mezzo alla quale si confondevano e «si avvolgevano».
Insomma, niente di straordinario. O, se si preferisce, anche lo straordinario apparteneva al
programma «ordinario» della loro esistenza. Anche l’eccezionale era la regola.
D’altra parte, tutta la loro vita missionaria è stata «avvolta» nel silenzio, nel nascondimento,
nell’oscurità, nella non appariscenza.
Si erano specializzate – così come voleva don Luigi Palazzolo – nel «niente e tutto», riferendosi
al modello offerto da san Giuseppe.
Nessun protagonismo, nessuna posa da personaggio. Nessuna preoccupazione di far parlare di sé,
di far sapere.
Il massimo della pubblicità che si concedevano era, per alcune, qualche raro articolo destinato al
bollettino parrocchiale del loro paese di origine, e scritto in uno stile dimesso, senza forzature
retoriche, e immune da ogni forma di autocelebrazione, di culto della personalità.
Loro lasciavano volentieri a certi propagandisti di se stessi la presunzione di scrivere pagine
fondamentali di storia del Regno
94
PAGINA 154:
(ci è stato dato di ascoltare, recentemente, un pittoresco «pavone» e trombone di una radio con
marchio cattolico parlare delle proprie «trasmissioni storiche», dando quasi a intendere che le sue
«catechesi storiche» avessero convertito il mondo intero...).
Loro, le sei Poverelle, si accontentavano di consegnarsi alla cronaca quotidiana del Regno,
recitata – più che scritta – a bassa voce, tutta a lettere minuscole. Liete di essere ignorate, trascurate
dai più. Soddisfatte di avere il loro nome scritto nei cieli (Lc 10,20), e non sulle pagine dei giornali.
Appagate per il fatto di appartenere alla categoria dei piccoli, dei «nessuno», privilegiata dal
Vangelo, e quindi immunizzate dal bisogno di elemosinare popolarità, consensi, notorietà.
Vogliamo rispolverare, nel loro caso, una parola, una virtù che oggi viene spesso confinata tra le
anticaglie? E allora diciamo pure umiltà.
Il Fondatore aveva raccomandato con martellante insistenza che stessero «giù basse». Diceva
anche: «Sedete in terra, e allora non cadrete». E loro non avevano alcuna velleità di arrampicarsi sui
monumenti. D’altra parte, chi lavora seriamente per i poveri, non trova più il tempo di fabbricarsi il
monumento, né la voglia di arrampicarvisi sopra. Chi scarpina tutto il giorno in una corsia
d’ospedale, è improbabile gli resti la forza per fare passerella o salotto televisivo.
Era proprio l’umiltà la sorgente segreta della loro gioia inalterabile, della loro serenità anche in
mezzo alle prove e alle incomprensioni. La gioia, appunto, dei «servi inutili» (Lc 17,10).
L’umiltà era la cornice preziosa che inquadrava la loro carità. Una cornice fatta apposta per
nascondere, non per esibire.
Si assiste, oggi, alla scomparsa del comune senso del pudore in certa carità esibita, sbandierata,
pubblicizzata, strumentalizzata. Gesù raccomanda: «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere
davanti agli uomini per essere da loro ammirati... Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la
tromba davanti a te... Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua
destra, perché la tua elemosina resti segreta» (Mt 6,1-4).
Oggi si ha l’impressione che la famosa tromba, condannata e
PAGINA 155:
messa a tacere dal Vangelo, sia stata richiamata in servizio, lucidata, rivalutata, e siccome era
ritenuta insufficiente, ha ottenuto il rinforzo di tamburi, piatti, tromboni, pifferi, corni, violoncelli,
grancasse, altoparlanti fragorosi e affini. Col risultato di produrre un concerto assordante,
decisamente sgradevole.
Invece della carità «segreta», nascosta, schiva, modesta, umile, abbiamo una carità spettacolare,
chiassosa, fatua, presenzialista, reclamizzata al di là dei confini della decenza, o almeno del buon
gusto.
È vero che Gesù ha detto: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le
vostre opere buone». Ma non ha mancato di precisare: «...e rendano gloria al Padre che è nei cieli»
(Mt 5,16).
95
Ci sono, invece, «produttori di opere buone» che riscuotono loro, spudoratamente,
sfacciatamente, in termini di culto della personalità, popolarità, applausi, presenzialismo
incontinente, quella gloria che andrebbe dirottata verso Dio.
E così assistiamo a spettacoli penosi di divismo, a fenomeni indigesti di protagonismo nel campo
della carità e delle iniziative di tipo sociale.
L’equivalente delle esposizioni del SS. Sacramento, in chiesa, per certi individui, è diventata
l’esposizione regolare di se stessi negli studi televisivi, nelle sale delle conferenze, e perfino negli
stadi.
Con la scusa che bisogna fornire «buone notizie», far conoscere il bene, e non solo il male
presente nel mondo, c’è gente che non appena decide di far qualcosa, crea prima di tutto un ufficio
stampa incaricato di trasmettere l’informazione a tutti i mezzi di comunicazione che ci sono nei
paraggi. più che di fare, ci si preoccupa di far sapere.
Tra informazione ed esibizione, tra comunicazione e sensazionalismo, ci deve pur essere una
linea di demarcazione che non va superata impunemente.
La carità, ci ricordano le sei Poverelle e le loro «complici», come certi preziosi affreschi
antichissimi, è qualcosa di delicato, che finisce per sbiadire e perdere il proprio splendore (davanti a
Dio
PAGINA 156:
e ai destinatari) allorché viene sottoposta alla luce del sole o dei riflettori.
Abbiamo bisogno che si spengano le luci della ribalta, si chiudano i microfoni, venga azzerato il
volume degli altoparlanti, cessi il concerto fracassone, si interrompano le marce trionfali, perché
possiamo percepire la musica silenziosa di tanta carità nascosta, seminata sotto la dura crosta del
mondo.
La vera generosità – ci ricordano ancora le Poverelle – è rifiuto del palcoscenico, la dedizione
autentica è gusto del lavoro oscuro.
L’amore ha tutto da guadagnare quando circola in incognito «avvolto» nella copertura necessaria
del pudore e nel mantello liso dell’umiltà.
L’amore non ha bisogno di essere pubblicizzato. Basta poterlo intuire, sospettarne la presenza.
Quando l’amore esce di casa, e va a raccontarsi, esibirsi, celebrarsi, autoesaltarsi, si concede
all’ammirazione, provoca l’applauso, quello che «esce» non è l’amore, ma l’orgoglio (con
l’accompagnamento dei parenti stretti: vanità, spocchia, ambizione, ricerca di sé) travestito da
carità. Il travestimento più grossolano e indecente.
Osservando lo stile delle sei Poverelle ci rendiamo conto che ritroveremo la carità evangelica e la
riconosceremo senza possibilità di equivoci, solo quando la vedremo nella compagnia rassicurante
dell’umiltà.
Le sei Poverelle non avevano alcuna pretesa di imporsi all’attenzione del pubblico (e avrebbero
volentieri fatto a meno anche di una morte che, necessariamente, «faceva notizia»). Si
accontentavano di «mostrare» ai poveri dello Zaire la misericordia del Signore. Riscuotere fama?
Manco ci pensavano.
96
Se si parla veramente dell’amore del Padre, non si ha alcun bisogno di far parlare di sé. Diceva
Gandhi: «L’amore è l’ultimo limite dell’umiltà».
Le sei Poverelle sono pervenute a quell’amore eccessivo, a quell’esagerazione di amore, proprio
perché si sono spinte sulle frontiere estreme dell’umiltà.
PAGINA 157:
La follia dell’amore appartiene alla normalità della vita cristiana
E allora occorre anche parlare di «normalità». Sì, perché uno dei tratti inconfondibili, comuni
alle sei Poverelle, è proprio la normalità.
Sono sei suore normali, che non rientrano nella categoria dell’eccezionale. Normali nel servizio,
normali nella fedeltà, normali nel «perdere la vita», normali nella dimenticanza di sé.
Normali nel coraggio, ma anche nella paura. Normali negli slanci, ma anche nelle debolezze.
Normali in un amore «senza misura».
La loro vita era la somma di tante cose normali, tante occupazioni ordinarie, tante faccende
comuni, tanti compiti per nulla esaltanti.
Oggi il palcoscenico è totalmente occupato da protagonisti, primattori, che sgomitano per stare in
primo piano. Non si riesce più a reclutare individui disposti a recitare la parte modesta – ma pur
sempre esaltante – di semplici uomini, di cristiani e religiosi «normali».
Ho l’impressione che il mondo, oggi, sia popolato quasi esclusivamente di gente straordinaria,
individui fuori dal comune, personaggi eccezionali, uomini importanti (o che si ritengono tali), preti
«che non sono come gli altri».
Si stanno assottigliando paurosamente le fila della gente comune. E anche se sopravvive qualche
raro esemplare, non desta alcun interesse.
Sembrerebbe che l’uomo normale appartenga a una razza minacciata di estinzione. Occorre,
perciò, salvarlo. Cominciando con l’attribuirgli tutto il valore che merita.
Si crea un interesse morboso attorno alle «celebrità», e si trascurano gli oscuri faticatori.
Personalmente avverto una gran voglia di normalità. Voglia di normalità, ossia voglia di
incontrare delle persone più che dei personaggi famosi.
Di individui famosi ce ne sono anche troppi in circolazione. E finiscono per intralciare il traffico,
provocando ingorghi fastidiosi.
PAGINA 158:
Viene il sospetto che la ricerca dell’eccezionale e del sensazionalistico rappresenti una comoda
via di fuga dalle responsabilità «ordinarie», dagli impegni sgradevoli dei giorni feriali.
Loro, le sei Poverelle, non si ritenevano «suore diverse dalle altre». Al contrario, si
consideravano uguali alle loro consorelle, e a tutte le altre suore del mondo impegnate sul fronte
della miseria.
97
La testimonianza delle sei suore delle Poverelle appare tanto più inquietante e scomoda per noi
proprio perché appartiene al campo della normalità.
Non ci è consentito rifugiarci nel solito alibi che quelle sono creature «eccezionali», con una
vocazione speciale, quasi con una predisposizione ereditaria all’eroismo.
No. Quelle sono creature normali, in carne e ossa come noi, che avvertivano la nostra stessa
stanchezza, provavano le nostre stesse ripugnanze nell’affrontare certe situazioni sgradevoli e
ricorrenti. Minacciate di scoraggiamento come noi. Artigliate dai nostri stessi dubbi.
Sperimentavano le medesime difficoltà contro le quali ci scontriamo abitualmente.
È proprio questo aspetto che ci rende indigesto – al di là di una scontata ammirazione e di una
facile commozione – il loro esempio, «insopportabile» la loro provocazione. Siamo di fronte,
infatti, alla provocazione della normalità.
L’amore come norma. E anche il sacrificio, la rinuncia, la fedeltà più costosa, la carità
sorridente, il servizio gioioso come norma.
L’aspetto paradossale della loro lezione sta proprio qui: la follia dell’amore, e la follia stessa dei
paradossi evangelici, in campo cristiano, appartiene alla categoria della normalità.
«Eccomi», ossia l’incontro dei volti
Dovessimo riassumere in una formula concisa il senso del loro servizio, che è poi il senso della
loro obbedienza, potremmo dire così: erano creature capaci di dire, in ogni circostanza «Eccomi!».
Proprio come ha detto, al momento dell’Annuncio, Maria di Nazaret (Lc 1,38).
PAGINA 159:
Sicuramente non avevano letto E. Lévinas e ciò che il grande filosofo ebreo teorizza a riguardo
dell’amore e in particolare del rapporto tra amore e volto. In compenso, hanno attuato
spontaneamente, intuitivamente, quel programma, senza neppur bisogno di passare attraverso la
fase di elaborazione concettuale.
Erano convinte che l’amore non è possibile se non tra volti; che l’amore è, prima di tutto,
incontro tra volti23
. Si sono lasciate interpellare dal volto dell’altro, dal volto dei malati, dei
denutriti, degli «inguardabili», dei lebbrosi, dei «non raggiunti» (loro raggiungevano principalmente
col volto i «non raggiunti»). Da questo incontro col volto del fratello zairese nasceva il senso della
loro responsabilità. Venivano toccate dal volto, non all’indicativo, ma all’imperativo. Per cui al suo
comando non potevano che rispondere: «Eccomi». Si sentivano obbligate nei confronti del volto del
prossimo.
«La prossimità dell’altro è la mia responsabilità per lui: farsi prossimo significa essere custode
del proprio fratello; essere custode del proprio fratello significa essere il suo ostaggio» (E. Lévinas).
Ciò implica, prima di tutto, «vulnerabilità», che vuol dire tenere, nel proprio essere, un punto
debole, una zona scoperta, un territorio indifeso, per cui si viene toccati, feriti dalla miseria
dell’altro. È questo il punto di partenza della misericordia.
Ancora Lévinas: «Solo un io vulnerabile può amare il suo prossimo».
23
Ricavo alcune di queste riflessioni dallo splendido volume di Bruno Chenu, Tracce del volto, Qiqajon, 1996.
98
Il che comporta la scomparsa, anzi addirittura la morte dell’io. L’io muore a se stesso, viene
sloggiato dalle proprie comodità, dalle proprie sicurezze, dalle proprie abitudini e schemi mentali.
L’io, allora, non è più protagonista. Perché l’altro ha sempre la precedenza, la priorità. È come se
dicesse al fratello: «Prego, dopo di te...».
L’«io» diventa servo del «tu».
«Eccomi» sta a indicare che l’io non è più soggetto, ma è di-
PAGINA 160:
ventato complemento oggetto: «Ecco-me», sono a tua disposizione. Puoi disporre di me (ecco-me!).
Purtroppo parecchi individui, malati di protagonismo nel campo della carità, riescono
incredibilmente a dire: «ecco-io».
Chi ama di un amore esagerato, come quello delle sei Poverelle, arriva ad amare l’altro prima di
se stesso, più della propria vita.
Chi ama ha sempre una responsabilità in più rispetto a tutti gli altri. E non hai mai finito di
sdebitarsi nei confronti del prossimo.
Chi ama è sempre fuori-di-sé per l’altro. La carità implica necessariamente un decentramento.
Ma anche un’espropriazione, una spoliazione, un non appartenersi.
Se è vero che «l’etica è un’ottica», come sostiene il pensatore che abbiamo citato, ciò vale anche
per l’amore. Le sei Poverelle hanno saputo guardare in un certo modo il prossimo, l’hanno visto in
maniera diversa. Dall’incrociare lo sguardo dell’altro, hanno sentito emergere l’imperativo
dell’attenzione, del rispetto, della carità senza limiti, della responsabilità, del «prendersi a carico» il
fratello.
Dall’incontro col volto dell’altro si sono sentite spinte in avanti, spinte «oltre». Oltre ogni
confine, compreso quello della ragionevolezza, del calcolo, della prudenza umana, del preciso
dosaggio, della saggia amministrazione di sé. Perché, se incontri il volto dell’altro, non riesci più ad
amministrare, a controllare giudiziosamente la tua vita (compresa quella spirituale).
Oserei dire che non sono state tanto loro ad andare verso gli altri, quanto piuttosto che si sono
lasciate raggiungere dai fratelli dello Zaire. L’amore ha l’altro come punto di partenza: ecco ciò che
Gesù ha cercato di far capire al dottore della legge con la parabola del samaritano (Lc 10,25-37).
Paradossalmente si sono fatte raggiungere dai «non raggiunti»!
Le loro vite, da quel momento, erano per così dire, occupate, sequestrate, prese in ostaggio dal
prossimo. Messe a disposizione. Le sei Poverelle non si appartenevano più.
Senza questa spoliazione radicale, risulta impossibile «avvolgersi» tra i poveri.
PAGINA 161:
Hanno detto «Eccomi» allorché sono state convocate per la partenza.
Hanno ripetuto «Eccomi» rispondendo agli innumerevoli appelli della loro esistenza missionaria.
Allenate a dire «Eccomi» nella quotidianità, sono state capaci di dire, del tutto naturalmente,
«Eccomi» anche di fronte all’imperativo estremo del contagio.
99
Non facciamoci illusioni al riguardo. Una morte come quella non s’improvvisa, e non è neppure
casuale. È, piuttosto, la conseguenza, quasi naturale, dell’abitudine a dire «Eccomi».
Solo chi si è abituato a donare la vita, in moneta spicciola, giorno per giorno, spendendosi per gli
altri, diventa capace di «dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Voglio dire: solo chi è capace
di vivere per gli altri, diventa anche capace di morire per loro.
E, di fronte alla «convocazione» ultima, non hanno più avuto bisogno di parlare. In quelle
condizioni, non trovavano più la forza di cavar fuori le parole. Ma non era necessario. L’«Eccomi»
era ormai stampato in faccia.
E anche questa volta c’è stato un incontro di volti.
Condividere la morte
Un altro lineamento comune è senza dubbio il senso comunitario. Nessuna di loro si atteggiava a
fuoriclasse, a campionessa impegnata in un’impresa solitaria, isolata dalle compagne, staccata dalle
consorelle.
Ognuna, invece, respingendo qualsiasi atteggiamento individualistico ed esclusivistico,
testimoniava l’appartenenza a una famiglia. E la famiglia era quella della comunità locale, ma anche
quella, allargata, dell’Istituto.
Basta leggere certe lettere indirizzate ai Superiori, per accertare quanto fosse spiccato in loro il
senso di «appartenenza».
Non agivano a titolo personale, ma insieme alle altre, e a nome di tutte le altre (comprese quelle
rimaste in Italia).
Non facevano alcuna distinzione tra chi stava in prima linea e quelle che rimanevano nelle
retrovie. L’opera era «comune».
PAGINA 162:
La missione non è mai una faccenda privata, e non si riduce all’impresa di un singolo. La
missione è, prima di tutto, un fatto ecclesiale. Ed è anche un fatto comunitario.
Nessuna delle sei Poverelle agiva in nome proprio, per conto proprio, né tantomeno cercava di
imporsi all’attenzione a titolo personale.
Certo, ognuna recava la propria impronta, le proprie capacità, la propria unicità, perfino la
propria inventività, ma senza mai pretendere di essere considerata una pedina autonoma, avulsa dal
contesto, che segue traiettorie indipendenti.
Voce del verbo condividere. E voce del verbo partecipare.
Ciascuna al proprio posto, con un compito particolare, una responsabilità precisa in un
determinato settore. Ma con la consapevolezza di far parte di un tutto, di portare avanti un’impresa
comune. Insomma, specificità e complementarietà dei compiti.
Nessuna di loro ha mai pensato di ricavarsi una nicchia personale di popolarità, considerazione,
fama. E nemmeno di attribuirsi meriti che andavano messi sul conto di tutte le altre, e facevano
parte del «bilancio familiare».
100
Come condividevano fatiche, problemi, difficoltà, lavoro, ansie, dubbi, lacrime, pene, speranze,
scoramenti, progetti, così anche i frutti andavano ripartiti, non certo nel senso che ognuna incassava
la propria quota, ma nel senso che quei frutti appartenevano al raccolto comunitario.
Anche quando un risultato veniva conseguito da una singola Poverella, c’era viva la
consapevolezza dell’apporto di tutte le altre.
Non c’è atteggiamento più sfasato rispetto allo spirito autentico della missione evangelica di
quello che porta certi individui a recitare la parte del primattore, concentrando su di sé i riflettori
dell’attenzione generale, e relegando nell’ombra, dietro le quinte, i collaboratori, quasi che l’opera
silenziosa e nascosta di questi ultimi fosse trascurabile. Ossia, gli altri ridotti al ruolo di comparse
insignificanti, semplice cornice destinata a mettere in evidenza il protagonista indiscusso, che deve
sempre stare in primo piano.
Tengo un ricordo assai fastidioso al riguardo. Un brillante gior-
PAGINA 163:
nalista, specializzato nel ricamare bellurie, sbarca, armato di taccuino e macchina fotografica, in
una missione della Tanzania dove si rompono la schiena decine di silenziosi operai del Vangelo,
che non hanno mai fatto parlare di sé prima di allora. Ne adocchia uno, il più disinvolto nel ciarlare,
e ne fa un eroe cucendogli addosso un monumento di carta (da cui l’autore ricava un bel gruzzolo, il
che non guasta mai...). Tutti gli altri vengono ignorati, o diventano figure irrilevanti, evanescenti, di
contorno. I lavoratori oscuri non contano, tutta la luce viene concentrata sull’eroe solitario. Questa,
oltre al resto, rappresenta una colossale ingiustizia, una intollerabile mistificazione, un falso
scandaloso.
Le sei Poverelle non si sarebbero mai prestate a un’operazione del genere. Loro hanno evitato
questo rischio, non sono incappate in questo clamoroso e abbastanza frequente equivoco.
Indubbiamente, hanno scritto una pagina «gloriosa» nella storia del loro Istituto. Ma in calce a
quella pagina non c’è soltanto la loro firma. Si tratta, infatti, di un’opera «in collaborazione», di una
storia scritta «a più mani», di una vicenda in cui sono coinvolte diverse persone, tutte impegnate in
una parte «principale».
Le sei Poverelle, in fondo, sono delle spie preziose. Spie che ci permettono di sospettare tante
altre presenze, anche oltre i confini della famiglia religiosa del Palazzolo. Spie che tradiscono
l’esistenza, sovente ignorata o dimenticata, di un capitale enorme di generosità, servizio
disinteressato, sacrificio, lavoro «nero», pulizia, dedizione appassionata alla causa dei poveri della
terra.
Oserei dire che la loro stessa morte non è stata semplicemente un fatto individuale, ma assume
una dimensione collettiva, una prospettiva comunitaria.
Loro l’hanno messa a disposizione. Della propria famiglia religiosa, della Chiesa (soprattutto
della Chiesa locale dello Zaire), ma anche di tutti noi. Per cui, se ce l’attribuiamo, non ci rendiamo
colpevoli di appropriazione indebita.
Le sei Poverelle non si sono appartenute in vita, e non si sono appartenute neppure in morte.
Quella morte è di tutti. Anche di quelli che se ne stanno rimpiattati nella tana blindata
dell’indifferenza, che li rende immuni
101
PAGINA 164:
dal virus diffuso dal samaritano, quel giorno, quando si è fermato lungo la strada che porta da
Gerusalemme a tutti gli Zaire del Terzo mondo.
Dopo averci offerto la loro vita, le Poverelle ci fanno dono della loro morte. È qualcosa che ci
appartiene. Patrimonio comune.
E, grazie appunto a questo dono, ci sentiamo un po’ meno «abusivi» della vita.
Esagerate
Chissà quanti inviti alla prudenza, quante raccomandazioni ad aversi dei riguardi, quanti
ammonimenti a non esagerare...
Come se la cosa dipendesse da loro. In realtà, il fuoco è incontrollabile. Ne aveva fatto
esperienza il povero, sprovveduto Geremia:
«Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,
chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo» (Ger 20,9).
Una volta attizzata la fiamma, non resta che bruciare, lasciarsi «avvolgere» dall’incendio.
Un tratto piuttosto appariscente, che accomuna le sei Poverelle, è senza dubbio quello
dell’esagerazione. Erano esagerate nell’amore. La loro era una carità «eccessiva».
Avevano intuito che, in quel campo, se si vuole essere sicuri che la misura sia quella giusta,
occorre abbandonare ogni misura. Se ci si voleva mantenere nel «giusto mezzo», bisognava
spingersi a un estremo. Loro erano delle «estremiste». Estremiste nella carità. Estremiste, non a
parole, ma nei fatti.
Avevano capito che l’equilibrio sta nella follia.
Citiamo due espressioni popolari a riguardo dell’amore. Quando qualcuno s’innamora, c’è
immancabilmente chi commenta: «Quello (o quella) ha perso la testa». Un’altra frase che viene
spesso rivolta alla persona amata «Ti amo da pazzi...». Con una variante: «Sono impazzito per te».
Niente di strano. Le due espressioni traducono una caratteri-
PAGINA 165:
stica del tutto naturale nell’amore. Non si può amare se non perdendo la testa. E non ci può essere
che un amore da pazzi. Le sei Poverelle non avevano esitato a perdere la testa, e hanno continuato a
perderla, ad amare fino alla follia.
L’amore si apparenta alla follia. Per amare veramente occorre uscir fuori di sé, rinunciare a
«controllare» la propria vita, smetterla di fare calcoli prudenti, e seguire una logica che non è quella
del senso comune. Dice Michel Quoist: «L’amore è una strada a senso unico: parte sempre da te per
andare verso gli altri. Ogni volta che prendi qualcosa o qualcuno per te, smetti di amare, perché
smetti di dare. Cammini contromano».
102
L’egoista è precisamente uno che cammina contromano. Anche quando dichiara di fare del bene,
l’egoista pensa a se stesso, intende fare del bene a se stesso. È totalmente occupato con se stesso.
L’egoista si rivela costituzionalmente inadatto ad amare, perché incapace di abbandonarsi,
consegnarsi all’altro. Può essere disposto a tutto, meno che alla follia, meno che a perdere la testa, o
la faccia.
Nell’amore autentico, invece, c’è una componente di rischio, eccesso, esagerazione.
Oggi il pericolo, nel campo della carità cristiana, può essere quello di una prevalenza
dell’organizzazione, delle strutture, delle forme esteriori. La burocratizzazione finisce per soffocare
la spontaneità, annullare la ricerca dei rapporti personali, azzerare l’attenzione ai singoli individui.
Guai quando una fredda razionalità non permette al cuore di uscire allo scoperto.
Certa carità asettica, burocratica, impassibile, rigidamente funzionale, neutrale, regolata da criteri
amministrativi, da schemi psicologici, da teoremi sociologici, rischia di oscurare l’amore di Dio.
La carità va affidata a degli esseri appassionati, come le sei Poverelle e le loro complici, non a
più o meno diligenti funzionari che sanno tutto di tecnica ma sono degli sprovveduti in fatto di
umanità. Ha bisogno di innamorati, non di imperturbabili e inappuntabili impiegati.
PAGINA 166:
L’amore è fuoco, non cenere di pratiche, carte, schede, casi, indagini, statistiche.
È luce – anche dell’intelligenza –. Ma luce calda, prodotta con la collaborazione del cuore, non
luce smorta e gelida delle lampade al neon.
Il romanziere greco Kazantzakis racconta la storia di un eremita che insisteva a chiedere a Dio
qual era il suo vero nome. Un giorno percepì una voce che gli diceva: «Il mio nome è “non-
abbastanza”, perché è quello che io grido in silenzio a tutti coloro che osano amarmi...».
Anche l’amore delle Poverelle poteva chiamarsi «non abbastanza».
Hanno interpretato in questa ottica il senso del comandamento di Gesù: «Vi do un
comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi
gli uni gli altri» (Gv 13,34). Loro sapevano che il Signore esige un amore «come» il suo: eccessivo,
prodigale, folle.
Il «come» imposto da Cristo apparentemente è una misura. In realtà, quel comparativo ci colloca
in una vertiginosa «dismisura». Ci troviamo confrontati con qualcosa che non ha misura. Per cui si
tratta di adeguare le nostre misure, forzatamente ridotte, a una misura... infinita.
La nostra misura sarà di non averne!
In fatto di amore, il cristiano è nel giusto solo quando esagera, si mostra eccessivo.
In riferimento al comandamento dell’amore, uno non potrà mai dire «sono a posto», «mi sento
soddisfatto», «più di così non sono obbligato». Queste espressioni non appartenevano al
vocabolario e nemmeno al pensiero delle sei Poverelle.
«È meglio che non s’innamori mai colui che è predisposto ad amare veramente» (Ajmatov, Il
patibolo). Sì, perché se ami veramente, allora non ti appartieni più, non controlli la situazione, non
riesci a gestire giudiziosamente la tua vita e il tuo tempo, e paghi l’amore in termini di sofferenza
spropositata.
Le sei Poverelle erano coscienti del fatto che il Signore non sta-
103
PAGINA 167:
bilisce il minimo indispensabile per sentirsi a posto (non vuole che ci sentiamo a posto), ma un
superamento continuo.
Nessuno potrà mai dire: basta, ho già fatto fin troppo.
Loro erano consapevoli che Cristo, e l’altro, è sempre in diritto di esigere «di più», «ancora»,
«meglio».
Sapevano che non esiste un calmiere per l’amore.
E anche quando si sono spinte fino a quel limite estremo, almeno mentalmente hanno
riconosciuto: «non abbastanza...».
Quelle suore ci ricordano che per amare, bisogna «uscire» da una logica prudenziale,
utilitaristica, ed entrare nel territorio della pazzia, nel campo della gratuità.
Non il calcolo, ma lo spreco. Proprio come la donna del profumo, biasimata dalla gente
«equilibrata», ma difesa e apprezzata da Gesù (Mc 14,1-11).
Ci suggeriscono che solo chi è disposto a «sprecare» l’amore, allo stesso modo della vita, lo
mette in salvo.
Esperte in umanità
Le sei Poverelle costituiscono una clamorosa smentita al luogo comune che stabilisce un
rapporto – quasi di causa ed effetto – tra verginità consacrata e aridità, tra castità e congelamento
dei sentimenti, tra purezza e azzeramento dell’affettività.
Proprio all’opposto, attraverso il voto di castità, esse hanno acquisito una capacità più accentuata
di amare. La donazione totale ed esclusiva a Dio, la consacrazione a Lui anche del proprio corpo,
non le rendeva fredde, distanti, estranee, preoccupate ossessivamente di non lasciarsi «contaminare»
dal contatto con gli altri.
Erano, invece, partecipi, sensibili, sacramento dell’amore materno di Dio.
Non avevano paura di arrischiare il proprio cuore, oltre che le mani e i piedi, nel servizio dei
poveri. Non si vergognavano dei sentimenti.
Non distaccate, ma solidali, coinvolte totalmente nelle situazioni e nei problemi della loro gente.
PAGINA 168:
Un amore all’insegna della purezza non vuol dire un amore evanescente, esangue, asettico,
gelido, ma un amore caratterizzato sia dalla trasparenza che dall’incandescenza. Il loro era un amore
bruciante e universale, senza esclusioni né discriminazioni.
Le sei Poverelle non hanno mai rinnegato la propria femminilità. Non si sono limitate a un amore
impersonale, «controllato», protetto da una ruvida scorza, ma si sono rese testimoni di una carità
improntata alla tenerezza.
Vere donne, non creature neutre e smorte, non impassibili manichini religiosi. L’abito religioso,
lungi dal nascondere, rivelava luminosamente delle donne in carne e ossa e viscere di misericordia,
dotate di intelligenza e cuore.
104
Il contatto con Dio, nella preghiera e nella contemplazione, non le rendeva semplicemente più
spirituali, ma anche più umane.
Sì, la loro lezione è anche una lezione di umanità, con sfumature di delicatezza, sensibilità,
rispetto, creatività.
Assistenza
Per quanto possa sembrare riduttivo, le Poverelle non hanno fatto altro che «assistenza». Si tratta
di una parola che oggi gode di cattiva fama, appare screditata, soprattutto quando la si applica a un
atteggiamento pietistico oppure a dei comportamenti all’insegna della passività, per cui «assistere»
vorrebbe dire essere spettatori inerti (in questo senso si assiste a uno spettacolo, a una partita di
calcio, a un incidente).
Eppure «assistenza» è una parola nobile, anche se un po’ decaduta, di cui non c’è affatto da
vergognarsi, e che le sei Poverelle e le creature come loro hanno contribuito a rivalutare. Deriva da
un verbo latino: adsistere composto da ad (presso, davanti) e sistere (stare) e ha il significato di
curare, aiutare, soccorrere.
Si tratta, dunque, di «stare presso», «stare davanti» a qualcuno, essere presenti. Ma essere
presenti in senso attivo, compromettendosi, lasciandosi coinvolgere con tutta la persona.
Assistenza significa, appunto, coinvolgimento.
Assistenza è il contrario di fuga.
PAGINA 169:
Assistere, in questo senso preciso, significa, in fondo, «farsi trovare».
Assistere non vuol dire «apparire». Assistenza, invece, significa essere presenti, non nel
momento del trionfo, dello spettacolo, delle celebrazioni, ma quando si tratta di fare, faticare,
impegnarsi, sacrificarsi.
Paradossalmente assistenza significa capacità di «scomparire». Proprio come il seme evangelico
che scompare sotto terra e porta molto frutto (Gv 12,24).
Assistere vuol dire assicurare una presenza non occasionale, non episodica, ma all’insegna della
continuità e della fedeltà quotidiana.
L’assistenza è il contrario del velleitarismo, dell’entusiasmo passeggero, dello sfarfalleggiare
alla ricerca di gratificazioni emotive.
Coloro che, come le Poverelle, si dedicano all’assistenza, non si occupano degli altri per fare del
bene a se stessi, per risolvere i propri problemi personali, ma soltanto per procurare il bene altrui.
Le sei Poverelle, allenate ad assistere, ossia ad essere presenti, a non mancare gli appuntamenti
decisivi con la sofferenza e il bisogno del prossimo, sono state presenti anche al contagio.
Mentre si profilava all’orizzonte l’ombra minacciosa di Ebola, loro non si sono tirate indietro,
non hanno ripiegato su comodi rifugi. Non si sono accontentate di pregare perché venisse
allontanato il terribile flagello.
Allorché il virus si è scatenato con tutta la sua furia in mezzo alla gente, loro «c’erano».
Specialiste nell’assistenza. Impegnate a restituire splendore a una parola svalutata. Capaci di
compromettersi o, se si vuole, di assicurare una presenza «compromettente».
105
Le sei Poverelle ci suggeriscono che assistenza implica il coraggio di dire: «Io c’entro con i guai
del prossimo».
Ci ricordano che per essere missionari occorre, prima di ogni altra cosa, non essere dimissionari.
PAGINA 170:
Che per combattere sul fronte della povertà bisogna non essere disertori.
Che, quando si tratta di quella battaglia, non c’è alcuna assenza giustificata.
Che, per rispondere all’appello, è necessario essere presenti.
Che il rimedio più sicuro per resistere alla tentazione di tirarsi indietro, consiste nel farsi avanti...
L’amore riconsacrato
Lo confesso. Sono andato a indagare tra le carte. Ci tenevo a mettere insieme un capitolo che
registrasse i loro pensieri spirituali e permettesse così di completare il loro profilo religioso.
Il materiale che ho rintracciato è ben poca cosa. Scarne riflessioni, neppur troppo originali e frasi
abbastanza scontate. Insomma, cose ovvie. Nessuna formula brillante, incisiva, di quelle
appartenenti a un linguaggio pseudo-mistico che oggi va tanto di moda e che, a ben guardare,
appare banalmente ripetitivo e suona piuttosto sospetto, se non proprio stonato.
Le frasi caratteristiche delle sei Poverelle, quando non ricalcano le espressioni tipiche del
Fondatore, si collocano più sul versante devozionale che su quello mistico.
Qualcuna, prima di entrare in convento, teneva il Diario. In seguito, specialmente nel periodo
missionario, se ne perdono le tracce. Forse l’hanno bruciato prima della partenza.
Mi sono reso conto che la mia era una pretesa assurda. Quelle adoperavano le mani per
un’infinità di usi, meno che per impugnare la penna.
Chi vive in quella maniera normalmente non ha bisogno di scrivere.
Se c’è, però, una parola «sacra» che le sei Poverelle hanno contribuito a rivalutare, questa parola
è senz’altro: amore. Ce l’hanno restituita splendente, quasi intatta, perché ripulita dalle chiacchiere,
comprese quelle religiose, che sono le più devastanti.
L’amore è una parola che oggi viene ripetuta, martellata, nelle maniere e nelle sedi più diverse –
dalle canzoni alle prediche, dai
PAGINA 171:
rotocalchi sfacciati alle riviste di tipo religioso, dalle riunioni devote delle «beatine» (per usare un
termine caro al Palazzolo) ai salotti televisivi. Una parola usurata, logora, estenuata.
«Tutte le parole sono logore / e l’uomo non può più usarle» si lagnava il Qohelet (1,8). L’amore
più di ogni altra.
Le nostre orecchie rimbombano continuamente di questo vocabolo, che ci viene scaraventato
addosso a brancate generose senza ci si possa difendere, che siamo costretti a ingoiare, a dosi
106
massicce, almeno un centinaio di volte al giorno. Verrebbe voglia di protestare: «Non se ne può più!
Concedeteci una tregua!».
Il guaio è che si tratta, nella maggior parte dei casi, di una parola che, proprio per l’uso smodato
e improprio che se ne fa, appare largamente svalutata, perfino sospetta, si presta a ogni sorta di
equivoci, risulta disponibile per le operazioni più spregiudicate, comprese quelle di mercato.
La parola viene sconsacrata disinvoltamente, prostituita nella maniera più sfacciata, violentata a
fare da supporto e copertura a comportamenti per lo meno discutibili e che sono in contraddizione
col significato autentico del termine, e finisce quindi per mostrarsi lacera, sporca, irrimediabilmente
compromessa, impresentabile.
Usurata, e quindi scarsamente affidabile. Sfilacciata, e dunque priva di senso. Sospetta, a motivo
dell’eccessiva facilità di impiego.
Si ha l’impressione di un guscio vuoto, anche se molto appariscente, ma che, a osservarlo da
vicino, lascia delusi. E, comunque, là dentro si può trovare di tutto, eccetto ciò che sarebbe le-
gittimo attendersi.
L’amore scompare, e il suo posto viene preso di prepotenza da goffe controfigure, o
dall’immagine orribilmente deformata, oppure dalla caricatura disgustosa. Quella che circola, o
cade sotto tiro degli occhi e degli orecchi, è l’imitazione grossolana, la copia infedele, la parodia. Si
può parlare di nome usurpato, di firma falsificata.
Il prodotto genuino è stato sostituito dai surrogati più pacchiani, dalle contraffazioni più
spudorate, e perfino da merce avariata
PAGINA 172:
che provoca danni gravissimi sia nell’organismo individuale che in quello collettivo.
Il tutto, naturalmente, «avvolto» in involucri pretenziosi, con etichette scintillanti, nastrini
colorati, immagini ammiccanti, e immancabile accompagnamento musicale. Vengono concessi
perfino sconti generosi sul prezzo originario nel corso di regolari, spregiudicate, chiassose, insistite
azioni promozionali.
Uno sguardo attento, tuttavia, non dovrebbe lasciarsi ingannare dalle confezioni eleganti, dalle
apparenze menzognere, e sarebbe in grado di scoprire la nostra desolante povertà in fatto di amore.
Si avverte l’esigenza di mettere a tacere l’insopportabile chiacchiericcio. Il nostro, infatti, troppo
spesso, è un amore chiacchierato, cantato, urlato.
Anche la carità viene praticata da tanti individui esclusivamente con la bocca. Giovanni, nella
Prima lettera, ammonisce: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella
verità» (3,18).
Le sei Poverelle, da parte loro, ci avvertono che non basta dire, non è sufficiente proclamare, non
ci si può accontentare di dichiarare solennemente.
Non chi dice amore... Non chi sospira amore...
Il peccato più evidente contro l’amore, è rappresentato dall’inconsistenza. Un certo amore risulta
posticcio, esile, fragile, logoro, sempre sul punto di sfasciarsi, perché non sufficientemente
collaudata dalla sofferenza, non rafforzato dal sacrificio, non garantito dalla dimenticanza di sé.
107
Le sei Poverelle ci avvertono che non ci si può illudere di trovare e conservare l’amore sul
versante della facilità, della leggerezza, della fatuità, seguendo le inclinazioni e gli istinti,
abbandonandosi al vento favorevole, scansando gli ostacoli, evitando le scelte dolorose e perfino
drammatiche. Ci ricordano che la sofferenza, lungi dal costituire una minaccia per l’amore, lo rende
solido, che la Croce gli assicura profondità e fecondità.
Osservando la prassi (non la teoria!) delle Poverelle, dobbiamo prendere atto che l’amore
implica una lotta incessante con se stes-
PAGINA 173:
si. L’amore ha sempre bisogno di purificazione. È necessaria la rinuncia perché l’amore non si
corrompa e degradi in ricerca di sé.
Oggi certe concezioni dell’amore sono all’insegna della leggerezza, della superficialità, della
spensieratezza, dell’irresponsabilità. Ma l’amore non è entusiasmo epidermico o passeggero, è
qualcosa di serio, di estremamente esigente.
L’amore dev’essere disposto a dare tutto, ma rivendica il diritto di pretendere tutto. «Riamato
l’Amor, l’Amor vuol tutto» osserva il poeta Clemente Rebora. Gli fa eco suor Danielangela:
«Amore chiede amore». Unicamente sul piano della totalità l’amore trova la sua vera dimensione e
il suo significato più luminoso.
Imparare ad amare significa avere il coraggio di imboccare la strada di una donazione senza
riserve, di una spoliazione continua, di una costosa ascesi. L’amore, certo, è all’insegna della
gratuità, eppure comporta un prezzo da pagare. E nessuno può pretendere di venirne esentato
oppure ottenere sconti.
L’amore cresce... in perdita. Si sviluppa attraverso una serie interminabile di lacerazioni
profonde. L’amore non va da sé. E cammina aspro, contrastato. L’amore si irrobustisce solo quando
qualcosa fa resistenza.
Guardando in direzione delle sei Poverelle, ritroviamo l’amore «serio». Certo, non ci dovrebbe
essere bisogno di appiccicargli addosso quell’aggettivo, perché l’amore o è una cosa seria o non è
amore. Ma siccome ci viene spesso spacciato come amore un prodotto adulterato che viene
fabbricato nei laboratori della facilità, per scoprire e apprezzare quello genuino, si rende necessario
riconoscerlo grazie al marchio inconfondibile che non può essere contraffatto. La serietà, appunto.
Le sei Poverelle ci restituiscono precisamente un amore all’insegna della serietà. Perché loro –
pur abitualmente allegre e comunque serene – erano persone serie. D’altra parte, la serietà è uno dei
frutti più apprezzati che cresce nella terra bergamasca.
Fatica, impegno, lavoro ostinato, sacrificio, generosità.
In Svizzera, che ha visto una consistente immigrazione berga-
PAGINA 174:
masca, mi tocca sentire ancor oggi certi anziani che sentenziano, con ammirazione:
– I bergamaschi non sono italiani...
108
Intendendo rilevare che si distinguono per la serietà dell’impegno e una capacità di lavoro quasi
«mostruosa».
Le sei Poverelle hanno testimoniato l’amore piegando la schiena. Al posto dei fronzoli
sentimentali, delle sbavature pie, l’umile servizio quotidiano. Non tanto le dubbie «elevazioni»
mistiche, ma i piedi ben piantati in terra, ossia: concretezza, realismo. Non tanto il chiacchiericcio
devoto, i sospiri, le sdolcinature canterine, le espressioni vaporose, le teorizzazioni di una teologia
dal fiato corto e dalla lingua lunga, gli schematismi pretenziosi di una psicologia d’accatto, ma le
azioni, i gesti, i comportamenti ispirati al Vangelo e allo spirito assorbito dai Fondatori.
Insomma, si sono spiegate con i fatti più che con le parole. Ci hanno presentato le opere
dell’amore, non dei discorsi sull’amore.
E così ci restituiscono quella parola «riconsacrata», riscattata dalle chiacchiere, ricollocandola
nella sua cornice più naturale: il silenzio. Sì, l’amore «avvolto» nel manto luminoso del silenzio.
Per fortuna le sei Poverelle non avevano facilità di parola...
«Non possiamo fidarci di voi: vi volete troppo bene»
L’hanno immediatamente intuito i medici americani, spalleggiati da quelli dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità.
Bisognava, a costo di apparire crudeli, sbarrare il passo a quelle due suore (suor Maria e suor
Béatrice), che pretendevano assistere direttamente suor Annelvira e suor Vitarosa, rinchiuse nella
casetta di isolamento.
Potevano anche indossare le tute più sofisticate e adottare la complessa attrezzatura di
protezione, ma c’era qualcosa dentro di loro che risultava incontenibile e poteva rivelarsi
pericoloso.
«Vi volete troppo bene tra di voi e va a finire che non prendete le precauzioni necessarie,
lasciandovi prendere la mano (meglio, il cuore) dall’affetto» avevano sentenziato i dottori venuti da
lontano. E non si poteva dare loro torto. Era proprio così.
PAGINA 175:
«Vi volete troppo bene tra di voi»: è l’elogio più bello, e tanto più significativo in quanto
formulato da osservatori esterni.
Occorre sottolineare l’aspetto di fraternità che animava le comunità delle Poverelle in Africa.
Normalmente si mette in evidenza la dedizione anche eroica agli altri. Ma l’Ebola ha rivelato un
altro aspetto legato strettamente al primo: l’amore fraterno circolante all’interno dell’organismo
comunitario.
La missione regge perché sostenuta da una intensa esperienza di vita comunitaria. Anzi, l’amore
fraterno, tra i membri della comunità, è la prima, insostituibile forma di missionarietà.
Resta da precisare che questa «esagerazione» di amore fraterno non si è prodotta solo
nell’emergenza-Ebola. Atteggiamenti del genere, quella prontezza, quella naturalezza nell’accorrere
a servire le sorelle malate, rischiando la vita, non s’improvvisano, né sono semplicemente episodici.
Ebola, semmai, ha evidenziato una realtà già presente nel tessuto comunitario delle Poverelle.
109
Anche quando, nelle religiose colpite dal virus, non c’era più coagulazione del sangue, intorno a
loro permaneva una forza di coagulazione che non sarebbe mai venuta meno.
Anche senza il voto
Ci si è posta anche la domanda: le sei Poverelle erano obbligate in forza di un voto speciale a
fare quello che hanno fatto?
C’è da tener presente, infatti, che nell’abbozzo delle Costituzioni scritte nel 1869 per la sua
famiglia religiosa neonata, il Palazzolo prevedeva che le religiose dovessero emettere sei voti.
L’ultimo le obbligava, appunto ad «adoperarsi (a seconda dell’obbedienza) in servizio degli
ammalati poveri, che giaciono nelle proprie case (anche in tempo di malattie contagiose e di peste).
Questo voto importa che le Suore debbano, a seconda verranno mandate dall’obbedienza della
Madre, prestarsi in servizio di questi ammalati poveri che giaciono nelle proprie case o perché
intrasportabili all’Ospedale, o perché cronici o per qualsiasi causa degna e mancano del necessario
servizio. Quando vi sia la necessità debbono vegliare anche la notte (sempre rette dall’obbedien-
PAGINA 176:
za), in loro servizio. Siccome poi le Suore delle Poverelle devono lavorare di giorno per
guadagnarsi il cibo, così la Madre dovrà usare della sua prudenza risparmiando le giornate alle
Suore ove non vi sia assoluta necessità, e facilitando l’assistenza della notte, che è la più necessaria
e quella che più difficilmente si trova. Di più questo voto importa che debbano generosamente le
Suore offrire la loro vita in pro degli ammalati nell’occasione di malattie contagiose ed anche di
peste...».
Interpellata in proposito, la Superiora Generale, suor Gesuelda Paltenghi, precisava che nelle
attuali Costituzioni, approvate nel 1987, la formula dei voti non contiene più l’espressione primitiva
a proposito del tempo di malattie contagiose e anche di peste. Ma aggiungeva: «Tuttavia ne rimane
lo spirito, che porta in realtà alla stessa espressione di vita... Risulta quindi indispensabile che resti
tale spirito, per la fedeltà al carisma, e che all’occasione, come hanno dimostrato le nostre Sorelle,
venga vissuto nel concreto delle situazioni».
Come a dire che le sei Poverelle, allorché si è affacciato lo spettro di Ebola, si sono
dimenticate... che il sesto voto era stato abolito. E hanno agito come se...
PAGINA 177:
I COLPEVOLI
110
PAGINA 179:
LE HANNO MESSE SU UNA CATTIVA STRADA
No. Non è stata tutta colpa loro. Se di giallo si può parlare nella vicenda delle sei suore, i
colpevoli sono facilmente individuabili.
Uno, il killer omicida, l’abbiamo scovato e descritto subito all’inizio e ha un nome e una
fisionomia precisa: virus di Ebola.
Ma i colpevoli sono anche altri. Noi, per comodità, li piazziamo alla fine della storia, quale
spiegazione conclusiva, chiave risolutrice del giallo. In realtà andrebbero posti all’inizio, perché
hanno addirittura preceduto il virus assassino.
I veri colpevoli si chiamano don Luigi Palazzolo e madre Teresa Gabrieli. Da loro le sei suore
hanno copiato in maniera fin troppo scoperta e dichiarata.
Da loro hanno imparato ad esagerare in amore.
Da loro si sono lasciate «fuorviare», abbandonando la strada sicura della prudenza umana
calcolatrice, per imboccare la «cattiva strada» evangelica dell’eccesso, della follia, del perdere la
vita. Una strada estremamente rischiosa e avventurosa.
Ho ritenuto opportuno, perciò, inserire a questo punto le figure dei «Fondatori», senza le quali
sarebbe difficile comprendere i ritratti delle «figlie» che ho appena abbozzato.
Non ho la pretesa di presentare dei profili biografici completi. Tra l’altro, non sarebbe questa la
sede, anche per motivi di spazio24
.
PAGINA 180:
Soprattutto per il Palazzolo, ho pensato bene di presentare dei medaglioni che colgono episodi e
atteggiamenti che denunciano il suo stile personalissimo, più che preoccuparmi di ricostruire
cronologicamente il suo itinerario.
24
Per una conoscenza approfondita del Palazzolo, si possono consultare le seguenti biografie:
– Carlo Castelletti, Vita del servo di Dio Don Luigi Palazzolo e memorie storiche intorno agli Istituti di Carità da lui
fondati, Bergamo 1894. II edizione, Bergamo 1920. Ristampa, Padova 1996.
– Dino T. Donadoni, Non dire mai basta! La personalità, l’attività, gli scritti del beato Luigi Palazzolo, Gribaudi,
Torino 1969.
– Gino Lubich, Piero Lazzarin, Don Luigi Palazzolo, La misericordia continua, Queriniana, Brescia 1986.
Per Madre Teresa Gabrieli, l’unica biografia disponibile resta ancora quella di Luigi Frigeni, Vita di suor Maria
Teresa Gabrieli, Cofondatrice delle Suore Poverelle e prima Madre Generale dell’Istituto Palazzolo in Bergamo,
Bergamo 1928.
Per entrambi, risulta fondamentale la scoperta della loro personalità e statura spirituale attraverso le lettere:
– Epistolario di Luigi Maria Palazzolo, Bergamo 1989.
– Epistolario di Teresa Gabrieli, Bergamo 1997.
111
PAGINA 181:
DON LUIGI PALAZZOLO
IL PRETE CHE VA A CERCARE I «RIFIUTI»
Un improvvisatore
Prima di assegnare a qualcuno il titolo di beato o di santo, la Chiesa sottopone il candidato a
lunghi e accurati esami per accertare che abbia praticato determinate virtù in grado eroico.
Non mi risulta che nel catalogo di queste virtù indispensabili per la gloria degli altari ce ne sia
una che il Palazzolo ha praticato in modo straordinario lungo tutto il percorso della sua vita:
l’improvvisazione.
Ce l’aveva nel sangue questa virtù, e si può affermare l’abbia manifestata fin da bambino. Più
tardi, confrontandosi col Vangelo, vi avrebbe scovato un modello proposto all’imitazione dallo
stesso Maestro: il samaritano (Lc 10,25-37).
Il samaritano è stato uno stupefacente improvvisatore. Ed è proprio la sua capacità di
improvvisazione che lo distingue dall’atteggiamento «assenteista» adottato dal sacerdote e dal
levita. Costoro erano abitudinari, ripetitivi, rigidi programmatori della loro vita e perfino dei loro
gesti religiosi. Procedevano per schemi, secondo moduli predefiniti. E in quegli schemi non c’era
spazio per il gesto estemporaneo, fuori dalle regole.
Camminavano lungo la strada come su dei binari, seguendo un programma di viaggio stabilito in
partenza. Orari, scadenze, velocità di crociera. Tutto già calcolato. In quel programma non era
prevista la sosta, l’interruzione dell’itinerario.
Non era contemplato l’imprevisto.
Non era inserito l’appuntamento con l’intruso.
Non c’era spazio per la sorpresa.
Non era programmato... il fuori programma.
Hanno adocchiato il ferito, ma quella vista, quell’incontro non
PAGINA 182:
ha costituito per loro un inciampo che li abbia fatti deragliare dai binari della regolarità.
Hanno scansato l’ostacolo tirando dritto, imperterriti, per la loro strada, senza sentirsi
interpellati, senza avvertire la provocazione della realtà imprevista, senza sentirsi «presi nelle
viscere».
Il samaritano, lui, è stato uno stupefacente improvvisatore. Ha accettato la provocazione
dell’intruso, il richiamo dell’estraneo, inserendo una variante nel suo programma di viaggio,
inventando una sosta non contemplata. Non si è limitato a vedere e proseguire per tenere la media
della velocità stabilita dal ruolino di marcia e rispettare l’agenda degli impegni.
Si è sentito chiamato in causa dall’imprevisto, dal prossimo sconosciuto che aveva fatto la sua
comparsa nella strada senza farsi annunciare.
112
A differenza dei due per i quali il poveraccio rappresentava un elemento di disturbo per il loro
panorama religioso, un corpo estraneo per il loro delicato organismo spirituale, ha accettato il
disguido, la variante rispetto all’itinerario stabilito.
E anche i suoi gesti di primo intervento nei confronti del malcapitato sono all’insegna
dell’improvvisazione.
Alessandro Gnocchi, acuto scrittore e giornalista bergamasco, definisce così l’improvvisazione:
«È la capacità di non tentennare, di non indugiare davanti a qualsiasi situazione». Io ci aggiungerei:
non indietreggiare. Ma avverte, a scanso di equivoci che potrebbero collegare l’improvvisazione
alla facilità o alla faciloneria: «Non è una virtù facile da praticare, l’improvvisazione. La vita di tutti
i giorni abilita alla velocità e alla sveltezza. Ma è tutt’altra cosa rispetto alla prontezza e
all’improvvisazione. La velocità è figlia dell’abitudine a svolgere un compito o un’azione. La
prontezza nasce invece da una costante attenzione allo scorrere della vita. Solo chi è pronto può
fermarsi al momento giusto e agire al di fuori degli schemi abituali e delle convenzioni sociali»25
. Il
contrario dell’improvvisazione è la programmazione esasperata, lo schematismo rigido, la
burocratizzazione che uccide la spontaneità,
PAGINA 183:
l’organizzazione che soffoca la vita. Il modulo, la scheda, le diagnosi di ogni tipo, la fissazione
delle competenze, finiscono per nascondere la persona.
Don Luigi Palazzolo è stato uno straordinario improvvisatore. Tutte le sue iniziative sono nate
dall’improvvisazione e si sono sviluppate attraverso una serie impressionante di improvvisazioni
successive.
Certo, anche lui ha dovuto assicurare alle proprie opere un minimo di organizzazione, accettare
delle forme, impiantare delle strutture. Ma ha sempre vigilato affinché l’apparato esteriore e
giuridico non arrestasse lo «scorrere della vita». Soprattutto, la pur necessaria fase di
organizzazione e programmazione non ha annullato completamente la fase di improvvisazione.
Lui ha continuato a improvvisare anche quando le sue opere avevano ormai acquisito una
fisionomia abbastanza precisa e ben delineata. Nella sua azione c’era sempre spazio per
l’imprevedibile e la creatività. Prontezza, spontaneità, duttilità, caratterizzavano costantemente il
suo stile.
La scelta stessa dei rifiuti, dei «non raggiunti», degli ultimi fra gli ultimi, appartiene
precisamente al registro dell’improvvisazione. Quando un individuo non si inseriva nei moduli
ufficiali, non era contenuto in una casella burocratica, non rientrava nei canoni previsti dalle
strutture esistenti, diventava inevitabilmente «affare suo». Allorché una persona era destinata a
rimanere ai margini, lui se ne faceva carico. Proprio come il samaritano «improvvisatore».
Più che badare ai timbri, alle carte e alle classificazioni, il Palazzolo preferiva «essere preso nelle
viscere».
25
Don Camillo & Peppone, l’invenzione del vero, Rizzoli, Milano 1995.
113
Lui non viaggiava con in tasca l’identikit del prossimo. Gli bastava scorgere qualcuno di cui
nessuno si occupava per capire che quello, precisamente, era il prossimo cui avvicinarsi, cui
dedicarsi, verso il quale avere sollecitudine.
Lui non rivendicava un proprio territorio di competenza. Quando un caso esulava dalla
competenza altrui, il Palazzolo era «pronto» ad accollarselo. Il suo interesse si innestava in quelle
situazioni che provocavano il disinteresse generale. Là
PAGINA 184:
dove tutti «passavano oltre», come il sacerdote e il levita, lui si fermava.
Insomma, proprio non riusciva a copiare.
Era capace solo di inventare.
Lotta su due fronti
C’era una volta la povertà più degradante. C’erano una volta le astruserie. C’erano una volta le
polemiche feroci che avvelenavano gli animi.
La povertà – con il suo penoso codazzo di malattie e vizi di ogni genere – la faceva da «signora»
incontrastata in tutto il bergamasco. Le astruserie Luigi Palazzolo le aveva scoperte sui banchi del
liceo in Seminario, propalate dall’insegnante di filosofia, e ne era rimasto sconcertato. Significativa
questa sua confidenza: «Vedo proprio che io sono un ignorante perché, per quanto mi sforzi di stare
attento e studiare, non vi trovo che astruserie».
Di quel suo insegnante dirà semplicemente: «Andava troppo nelle nubi...».
Scriverà di lui il Castelletti, primo biografo: «Odiava il disputare per il piacere di disputare e
veniva sempre al pratico e voleva che le dispute avessero sempre per conclusione lo stabilire chiaro
“cosa si dovesse dire in predica, cosa consigliare in confessionale e come regolarsi nella direzione
delle coscienze. Tutto il resto – soggiungeva – è buono pei dotti e io non vi capisco nulla”».
Insomma: buon senso pratico contro le astruserie e le discussioni fumose.
Le polemiche anticlericali erano quelle che imperversavano nel clima del Risorgimento, ed erano
spuntate tra i calcinacci di Porta Pia. Sui muri di parecchie canoniche, la notte, comparivano scritte
minacciose: «A morte! Abbasso le sacre teste!» (evidentemente, il mezzo più sicuro per farle
scendere «abbasso» era quello di tagliarle).
A ciò si devono aggiungere le tensioni e i contrasti insanabili tra preti (e vescovi) tradizionalisti e
la fazione opposta dei «liberali».
PAGINA 185:
Don Palazzolo combatte sia contro la miseria che contro le «astruserie». E si tenne lontano dalle
dispute, non si lasciò invischiare nelle diatribe né travolgere dalle polemiche, rifiutando di
schierarsi sia da una parte che dall’altra.
114
Lui aveva scelto di stare nel «giusto mezzo»... della povertà. Temeva, a ragione, che i «piccoli» e
i deboli pagassero le conseguenze delle strumentalizzazioni politiche e religiose. Nel gran
polverone, a lui stava a cuore mettere in salvo il Vangelo annunciato ai poveri.
La lotta contro la miseria e i suoi temibili alleati la condusse affidandosi ad armi improprie e
considerate desuete: fede, mortificazione, cuore, fantasia e obbedienza. A proposito di obbedienza
scriveva: «Ho fissato di ubbidire. A costo della morte». Non avrebbe mai fatto nulla contro
l’obbedienza.
Ma chi era questo pazzo, estraneo a tutti gli schemi e incurante delle mode, questo «irregolare»
obbedientissimo, quest’uomo apparentemente fuori dal suo tempo eppure immerso fino alla testa
nella realtà più bruciante e sconvolgente?
Qualcuno ha detto che la sua opera è cresciuta come un fiore su un cumulo spropositato di
immondizie.
Un immondezzaio di proporzioni mostruose
Non è difficile, purtroppo, farsi un’idea del cumulo di immondizie su cui questo prete andò a
frugare con mani delicate.
La figura del Palazzolo, infatti, si staglia in una situazione storico-sociale particolarmente penosa
e turbolenta. La provincia di Bergamo26
offre uno spaccato della realtà piuttosto deprimente.
Povertà, miseria, e spesso perfino la carestia, stringono la popolazione in una morsa spietata. Le
scarse risorse erano date dalle industrie tessili (e, in particolare, della seta), dall’agricoltura,
dall’allevamento dei bachi da seta, dall’emigrazione, e dalla proverbiale familiarità con la fatica di
quella gente.
Il lavoro nelle numerose filande si rivelava decisamente ingra-
PAGINA 186:
to: turni spietati di 12-13 ore al giorno, in ambienti insalubri, e con paghe derisorie.
Le malattie e le epidemie non davano tregua. Basti pensare che, nell’arco della vita del Palazzolo
(59 anni), il colera farà la sua apparizione, in città e provincia, ben cinque volte, per un totale di
trentasettemila casi e circa diciannovemila morti.
La pellagra, se non riempiva i cimiteri, popolava ospedali, carceri e manicomi.
La mortalità infantile toccava picchi impressionanti. I figli erano molti e, spesso, di troppo,
cosicché si verificavano fenomeni vergognosi di compravendita, di scambio, e perfino di
soppressione. Don Luigi stesso dovette «acquistarne» uno, in piazza, per riscattarlo da un destino
crudele.
L’alcolismo, assai diffuso, per i motivi che è facile immaginare, faceva il resto.
Da dove cominciare? Don Palazzolo cominciò dalla Provvidenza, verso la quale aveva aperto un
credito di fiducia pressoché illimitato, ossia... da se stesso. Mi spiego.
Non so se conoscesse la storia di quel rabbino che, venutosi a trovare in una situazione quasi
disperata, prego così: «Signore, ti ho sempre servito fedelmente per tanti anni, e non ti ho mai
26
Nel 1871 contava 368.152 abitanti.
115
chiesto nulla per me. Adesso, però, che sono diventato vecchio, non ce la faccio più a tirare avanti
se non mi aiuti Tu. Il futuro mi fa paura, perché le mie risorse economiche sono quasi inesistenti. Se
cado ammalato, chi si occuperà di me? Per cui, Signore, ti prego: fammi vincere alla lotteria».
Passavano le settimane e i mesi, e il povero e pio rabbino si trovava immerso sempre più in un
mare di guai. Perciò continuava a ripetere la solita litania: «Signore, abbi pietà di me, fammi
vincere alla lotteria».
Un giorno smise di piagnucolare e si spazientì di brutto: «Signore, mi hai proprio deluso.
Nonostante il mio fiducioso pregare, Tu non ti curi di me, mi abbandoni, non mi ascolti. In fondo,
che cosa ti costa farmi la grazia di vincere alla lotteria?».
L’Onnipotente gli rispose: «Vedi, io vorrei proprio aiutarti... Ma tu, quando ti decidi ad
acquistare il biglietto?».
PAGINA 187:
Il Palazzolo, da bergamasco schietto, aveva coniato una formula scanzonata: «Non bisogna
aspettare i gnocchi dalla Luna». Quindi, occorre darsi da fare per assecondare la Provvidenza.
Per sostenere le prime opere, destinate agli orfani (in poco più di vent’anni, in sei Istituti, ne
vengono ospitati oltre 1.200), non esita a dar fondo al patrimonio avuto in eredità dalla famiglia le
cui condizioni erano decisamente agiate: circa duecentomila lire di allora, una cifra considerevole.
La scelta dei rifiuti
E poi si tratta di scegliere. E lui sceglie i rifiuti (ecco l’immondezzaio), ossia i rifiutati, i «non
raggiunti» dagli altri. Spiegava: «Io cerco, raccolgo il rifiuto di tutti gli altri, perché dove altri
provvede, lo fa assai meglio di quello che io potrei fare. Ma dove altri non può giungere, cerco di
fare qualcosa io come posso».
Discorso abbastanza diplomatico, che io traduco così: le cose che nessuno vuol fare, i poveracci
di cui nessuno intende occuparsi, ciò che provoca ribrezzo o indifferenza da parte delle anime belle,
ebbene, ci penso io, quello è il mio campo privilegiato.
Il suo è un compito di supplenza. Supplisce là dove non c’è niente da guadagnare e tutto da
perdere (si potrebbe dire che quando c’è da perdere, don Luigi Palazzolo non perde l’occasione!).
Interviene nelle situazioni disperate. Si fa avanti nei casi in cui i prudenti e i calcolatori si tirano
indietro.
Lui non esita a tuffare le mani in una certa realtà, superando le paure dei benpensanti e delle
persone tanto pie e tanto schifiltose.
Insomma, se c’è una causa persa, un settore dimenticato, una categoria di persone trascurate, una
grana spiacevole o una serie di grattacapi alle viste, un’opera disertata perché non appetibile, don
Palazzolo vince la gara d’appalto. Non è che superi la concorrenza. È proprio che non ci sono
concorrenti.
Se c’è una strada impervia, dove nessuno si arrischia, lui vi si avventura.
Se ci sono dei non raggiunti, lui non esita a raggiungerli.
116
PAGINA 188:
Tutto è cominciato così
I due episodi sono fin troppo conosciuti, ma vale la pena riproporli, perché costituiscono il punto
di partenza dell’opera del Palazzolo e costituiscono la spia di una scelta precisa, che sarà anche
quella della sua famiglia religiosa.
Ecco la ricostruzione che del primo ne fa Dino Donadoni: «Nel 1864, esattamente cent’anni
prima che il Concilio approvasse la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo,
un sacerdote bergamasco, don Luigi Palazzolo, percorrendo una viuzza d’un borgo popolare della
sua città, s’imbatteva in un ragazzo abbandonato e seminudo. Era un orfano. Lo raccolse e,
avvoltolo nel suo mantello, se lo portò a casa “e lui stesso lo ripulì, lo fornì di cibo e se lo tenne
come un suo più caro figliuolo”».
Qualche anno dopo, precisamente il 22 maggio 1869, una ragazza orfana e abbandonata, e per di
più storpia e sciancata, macilenta e sofferente, di nome Molgari, che il Palazzolo da sei mesi le
aveva affidato, veniva condotta dalla Gabrieli nella Casa appena inaugurata. Sarà la primizia
dell’Istituto che avrebbe dovuto accogliere le orfanelle più derelitte, che non avevano ricovero in
altre istituzioni.
Un carretto, un asino e un prete stravagante...
Se c’è una virtù, oltre la carità, che il Palazzolo ha praticato e illustrato in maniera perfino
esagerata è senza dubbio l’umiltà.
Due moderni biografi osservano: «Non fece nulla di nulla per salire anche di un solo gradino
nella carriera ecclesiastica in cui per indole, censo e cultura – se non vogliamo tener conto della
santa vita – avrebbe potuto fare passi rapidi e notevoli. Nemmeno al modesto titolo di monsignore
ambì, si accontentò di quello di bracciante della vigna del Signore, di manovale al servizio dei
poveri, di ultimo assieme agli ultimi nella casa del Signore. Evviva! Contentissimo di occupare quel
posto. E per restarci, per scoraggiare chiunque potesse pensare per lui promozioni od onorifi-
PAGINA 189:
che patacche con dedica, sapeva bene come comportarsi. Compiva gesti inusitati, stravaganti,
bizzarri, che facevano rizzare i capelli in testa ai benpensanti, e dissuadere i temerari che avessero
pensato davvero di affibbiargli qualche fronzolo con pergamena. “Quel pazzo, per l’amore di Dio,
meglio lasciarlo lì!...”» (Lubich-Lazzarin).
Per capire di che stoffa fosse fatta l’umiltà del Palazzolo, provocatoriamente colorata di
stramberie, sarà bene citare alcuni fatterelli così come li riferisce il Castelletti:
«Essendo egli una volta in tempo d’inverno sdrucciolato per terra nella via più frequentata di
Bergamo, guardossi attorno sorridendo, poi tratta quietamente di tasca la scatola, fiutò un po’ di
tabacco, indi, in mezzo alle risa dei presenti, rizzossi tranquillamente e continuò la sua strada.
«Una volta fu visto viaggiare sopra un carretto tirato da un asino e tenendo in mano, per ripararsi
dalla pioggia, un ombrello lacero e rotto.
117
«Recossi un’altra volta con un simile equipaggio da Torre Boldone fino al luogo di Gavarno,
distante non meno di sei chilometri, a visitare mons. Speranza che dimorava allora colà nella sua
villeggiatura. Mons. Speranza lo accolse con grande amorevolezza e lo volle seco a pranzo. Venuta
l’ora della partenza, il Palazzolo, presente il Vescovo, fece attaccare il suo giumento e stava per
montarvi, mentre un suo orfanello pigliava le redini. Allora il Vescovo, certo volendo far prova
dell’umiltà e della obbedienza del Palazzolo, gli disse: “In complesso ella è ben comoda codesta
vostra vantata umiltà. Siete venuto qui senza fatica al mondo col vostro carrettino guidato da mano
altrui. Vorrei vedervi un po’ pigliare voi stesso le briglie del vostro giumento e guidarlo a mano”.
Non ci volle altro pel Palazzolo. Giubilante d’aver avuto un tal comando dal suo Vescovo, collocò
tosto sul carretto il suo orfanello e pigliato con una mano per le briglie il giumento, coll’altra
agitando da bravo carrettiere la frusta e gridando appunto come sogliono i carrettieri, posesi in
viaggio, e sarebbe certamente andato fino a Torre ed in capo al mondo in quella maniera, se
lasciatogli fare così un tratto di via, Monsignore non lo avesse richiamato,
PAGINA 190:
ordinandogli di montare di nuovo sul carretto e di usare poi parcamente di queste mostre di umiltà.
«...Un giorno presa una certa carretta, che usavasi per trasportare letame e spazzatura, la caricò
di badili, zappe e scope e attaccatovi un rozzo giumento, restio per giunta e ribelle al freno, e date le
redini ad un orfanello posesi a sedere sulla carrettella e partitosi di pieno giorno dalla sua casa di
San Bernardino, incamminossi, attraversando pel tratto di non meno di due chilometri tutta la città,
alla volta di Torre Boldone. Il ciucherello fermavasi ed adombrava e andava di traverso quasi ad
ogni passo. L’orfanello, poco pratico, mal sapeva guidarlo e gridava e bastonava. La gente
accorreva a quello strano spettacolo ridendone, e il Palazzolo, sempre al suo posto, percorse in quel
modo le vie più frequentate della città, passando innanzi alla casa dove era nato e dove giovane
avea vissuto quasi da signore e per quelle contrade, dove era conosciuto da tutti, bevendosi sorso a
sorso quel calice di umiliazioni.
«Il fatto destò grande rumore, se ne occupò, se non erriamo, anche il giornale cittadino liberale,
ponendo in ridicolo il Palazzolo. Tutti ne parlavano. I mondani chiamavano addirittura il Palazzolo
un pazzo o uno sciocco. Anche dei buoni i più lo criticavano, quasi avesse screditata la dignità
sacerdotale».
Commenta puntualmente la coppia Lubich-Lazzarin: «Erano invece ben altre le cose che
secondo don Palazzolo potevano offendere seriamente e gravemente la dignità di un prete: la ricerca
della ricchezza e la sua sfacciata esibizione, la conquista di potere ad ogni costo, il perseguimento
della vita comoda, senza profeti rompiscatole tra i piedi...».
Aggiungendo, subito dopo: «Di solito, nei suoi atti quotidiani, egli limitava la sua “follia”
girando a fare la spesa fra le bancherelle con le servette del rione, sganciando pochi spiccioli ai
bottegai e facendosi chiamare “pitocco”, per servire qualcosina di più ai suoi orfani e curare un po’
meglio i suoi ammalati».
In filigrana, dietro questi episodi, si può leggere una firma inconfondibile: san Filippo Neri. Tra
il «fiorentino spirito bizzarro» del Cinquecento, e il prete bergamasco dell’Ottocento, munito di
118
PAGINA 191:
carretto e ciuco, c’è una stretta parentela. Così come si può intravvedere una certa affinità anche con
i «folli per Cristo» della tradizione russa. L’altro nome che viene in mente è quello di Benedetto
Labre. Non per nulla don Luigi, durante il breve soggiorno romano, era andato a cercare proprio la
tomba del «vagabondo» francese. Racconterà, in una lettera, di aver celebrato a Santa Maria dei
monti «nella chiesa del mio beato Labre. È inutile: bisogna che ceda e borli là (che ci cada)».
Il tutto, però, nel caso del Palazzolo, sotto l’ala della più rigida obbedienza. Diceva: «Se
l’obbedienza mi permettesse di fare tutto quello che la mia mente mi suggerisce, benché siano cose
stravaganti, quale nocumento ne porterebbe il mondo? Ciò che porta danno non è che il peccato;
questo debbo fuggire a costo della vita; ma le cattive figure che avessi a fare, facendomi ritenere dal
mondo per pazzo o stolto, queste anzi mi servono per tenermi umiliato. L’umiltà si esercita con la
pratica delle umiliazioni».
La baracca e la famiglia dei gioppini
Ma il Palazzolo è anche inseparabile dalla «baracca». Uomo di grande preghiera, di profonda
vita interiore, di penitenza perfino eccessiva, tuttavia, oltre la chiesa, frequentava assiduamente la
«baracca», che era il laboratorio dove allestiva i suoi spettacoli teatrali coi burattini.
Lì teneva le numerose teste intercambiabili delle marionette. Lì, soprattutto, c’era il suo fedele
Gioppino, il celebre personaggio bergamasco trigozzuto e armato del bastone della polenta.
Aveva messo a punto per questa maschera un linguaggio zeppo di espressioni colorite, battute
esilaranti, facezie irresistibili in purissimo dialetto bergamasco (il tutto ricavato dalla frequentazione
assidua e dall’ascolto della gente comune), capaci di scatenare l’ilarità del pubblico.
Qualche volta era stato chiamato anche in Seminario a «istruire» i chierici con la sapienza dei
burattini.
Durante le ricorrenti crisi di malinconia – che si accentueranno negli ultimi anni – usciva dalla
propria camera dopo orazioni pro-
PAGINA 192:
lungate, e magari col cilicio ai fianchi, e si recava nella «baracca» dove apriva il fuoco di fila delle
sue spiritosaggini, delle trovate più fantasiose, dei dialoghi più squinternati, degli scherzi e delle
furbate più imprevedibili.
Naturalmente il personaggio maggiormente atteso e curato era quello di Gioppino, contadino un
po’ sempliciotto e bonaccione, ma anche lesto di mano «cui si attagliava la voce bonaria e un po’
stridula nelle sue inflessioni dialettali che don Luigi gli prestava alla perfezione, come gli aveva
perfettamente confezionato il tipico costume, consistente in un largo cappello di feltro sopra la
parrucca nera con un codino ritorto all’insù, la corta giubba verde orlata di rosso, il vistoso
panciotto, nonché, imbracciato, l’immancabile bastone di legno per rimestare la polenta» (Lubich-
Lazzarin).
119
Don Luigi era autore dei testi e delle musiche, regista, sceneggiatore, costumista, attore.
Nessuno, evidentemente, poteva sospettare che quel prete stravagante, che sollazzava il pubblico, si
tenesse dentro un magone grosso così...
Ancora pochi mesi prima della morte, il Palazzolo, che stava già male soprattutto a motivo delle
squassanti crisi di asma, non volle rinunciare ad allestire un ultimo spettacolo per le sue suore e le
orfanelle di Bergamo. In quell’occasione risfoderò il suo pezzo forte, di sicuro effetto: La famiglia
dei gioppini, commedia scritta da lui e recitata chissà quante volte.
Dopo quella faticata, le sue condizioni si aggravarono. Al termine della rappresentazione, si
sentiva spossato, sul punto di crollare, con delle fitte dolorosissime – come spade – che gli
trafiggevano il petto e il respiro che si faceva sempre più affannoso fino a trasformarsi in rantolo.
Comunque, anche se stremato, era soddisfatto. Aveva «chiuso» con quella commedia dal titolo
significativo. In fondo, la sua era «una famiglia di gioppini».
E anche le suore facevano parte della «famiglia dei gioppini». In mezzo a personaggi sussiegosi
e supponenti, che si attribuiscono parti importanti, loro si accontentavano di interpretare ruoli
«ridicoli» agli occhi del mondo.
PAGINA 193:
Nessuno le prende sul serio. Il capo stesso della «baracca» continua a essere chiamato il
Palazzolino.
A loro sta bene così. È gente seria, quella. Talmente seria che non si prende assolutamente sul
serio, ed è contenta di non venire presa sul serio. Gente che affronta le realtà più sgradevoli, si accolla i
compiti più ripugnanti, schifati dai più. In allegria.
Già. «La famiglia dei gioppini».
Le origini
Luigi Maria Palazzolo nasce a Bergamo, in una casa signorile di via Prato (l’attuale via XX
Settembre), nella parrocchia di S. Alessandro in Colonna, il 10 dicembre 1827, ultimo di otto
fratelli, quasi tutti morti prematuramente27
, e può considerarsi un «sopravvissuto». I genitori,
Ottavio Palazzolo e Teresa Antoine, godevano di una certa agiatezza. La famiglia di lui era di San
Pellegrino, in val Brembana. Lei era di origine straniera, ma i suoi si erano da tempo trapiantati a
Bergamo, distinguendosi in particolare nell’arte della stampa. Terreni, case, una libreria di fama
consolidata, denari, assicuravano un tenore di vita senza preoccupazioni di carattere economico
tanto che il padre, oltre al commercio, poteva consentirsi di coltivare i prediletti studi di carattere
storico-letterario. Ma, al di là dei «beni», in casa c’era il «bene» della fede.
Papà Ottavio muore all’età di cinquantaquattro anni, quando Luigino ne ha appena dieci. La
mamma, invece, toccherà i settantanove anni e avrà la fortuna (accompagnata dagli inevitabili
crucci) di seguire gli inizi e gli sviluppi delle imprevedibili iniziative del figlio superstite, che la
risarcirà, con centinaia di marmocchi, di quelli perduti nella sua sfortunata maternità.
27
Quando Luigi nasce, solo due sono ancora vivi. Giacomo, che supererà di poco la soglia dei quindici anni, e
Aquilino che raggiungerà i trentun anni.
120
Luigino, tuttavia, si rivela ben presto malaticcio – e ciò accentuerà le ansie di Teresa Antoine –,
ma, nonostante la salute cagionevole e i numerosi lutti familiari, rivela, secondo la testimo-
PAGINA 194:
nianza del suo primo biografo, un carattere dolce e sereno. Il Castelletti completa così il ritratto del
suo personaggio: «La gracilità della sua complessione (massime nella sua prima età) non lasciò
altro vestigio nel suo carattere fuori di una certa apprensione e malinconia che lo assalivano a
quando a quando, allorché vedevasi preso da qualche malore, ancorché leggiero; apprensione però
ch’egli tosto cacciava da sé ridendone e seco stesso e cogli altri. Del resto l’indole sua era oltre
modo gaia e soave, il suo cuore sensibile ed affettuoso, la sua conversazione piacevolissima, e tutto
concorreva a renderlo caro ed amabile a tutti.
«Erano poi caratteristiche in lui, e lo furono per tutta la sua vita, una singolare ingenuità ed una
semplicità quasi infantile; per la quale pareva che nessuno avesse soggezione di lui e molti anche
negli ultimi anni della sua vita lo chiamavano ancora volgarmente il Palazzolino. E anche questo fu
causa in parte, che, massime nella sua città, le sue opere, lui vivente, non fossero da tutti conosciute
ed apprezzate come si meritavano; e solo dopo la sua morte si poté rivelare quale animo generoso e
intraprendente si nascondesse sotto quelle apparenze così umili e, quasi direbbesi, puerili; sicché
molti ne rimasero stupefatti quasi di cosa del tutto nuova e inaspettata».
Vogliamo dire che il Palazzolo non è mai stato preso troppo sul serio? Resta il fatto che lui,
impegnato com’era in cose serie, non si è mai curato troppo dell’opinione degli altri. Parlassero
pure di «Palazzolino» quelli che dovevano muovere la lingua e sentenziare mentre lui faticava e
tribolava...
Un sacerdote che – grazie anche al ruolo di confessore abituale – eserciterà un influsso sulla
formazione di Luigi Palazzolo è senza dubbio don Pietro Sironi. Altro punto di riferimento
essenziale è mons. Alessandro Valsecchi, grande figura di educatore della gioventù, diventato poi
Vescovo.
Le tasche coi buchi non riescono a trattenere la «mezza svanzica»
Fin da bambino era la disperazione della mamma. A motivo delle tasche. La povera (si fa per
dire) signora Teresa non riusciva
PAGINA 195:
a capacitarsi. Le tasche di Luigino, chissà perché, erano sempre bucate. Infatti non riuscivano a
trattenere le «mezze svanziche» (circa 42 centesimi) che regolarmente lei vi depositava per le
piccole spese e soprattutto per la merenda a scuola.
Un giorno, proprio mentre percorreva il lungo tragitto che separava la casa dal ginnasio, Luigi,
appena dodicenne, ebbe un piccolo malore e fu portato in un vicino caffè dove gli venne fatta
ingollare una bevanda forte. Quando si trattò di pagare, lui si frugò nella tasche con evidente
121
impaccio, perché sapeva che erano sfondate e non potevano contenere neppure un soldo. Così
dovettero rimediare i compagni. Ma più mortificata di tutti, quando le riferirono l’accaduto, fu la
madre, che si sentiva umiliata al pensiero che la sospettassero di tirchieria nei confronti del figlio.
La signora Teresa per l’ennesima volta ispezionò le tasche del ragazzo per controllare se le
avesse ancora sfondate. E per l’ennesima volta dovette costatare che le saccocce erano intatte, anche
se, per chissà quale fenomeno misterioso, non trattenevano il denaro.
Il fatto è che le tasche facevano il loro dovere, ma erano le mani di Luigino ad essere... bucate.
Gli bastava scorgere un disgraziato per strada, ed ecco che i soldi passavano, con la complicità delle
mani bucate, dalle sue tasche a quelle del poveraccio.
Teresa, dopo l’episodio increscioso dello svenimento, impose severamente al figlio che tenesse
sempre in scarsella «mezza svanzica». Lui non intendeva in nessun modo trasgredire il comando
materno, ma non riusciva nemmeno a disobbedire al proprio cuore. Così, quando cadeva in
tentazione di fronte a un mendicante, correva immediatamente dalla mamma perché colmasse il
buco e rifornisse le saccocce dei centesimi mancanti fino a ricomporre la fatidica «mezza» svanzica.
La signora Teresa, ormai rassegnata, commentava:
– Questo mio figliolo vuol morire spiantato.
Era una fin troppo facile profezia.
PAGINA 196:
Anche la casa se ne va...
Pure in seguito, ormai sacerdote, Luigi dovrà ricorrere con frequenza alla mamma perché
provvedesse a rattoppare i buchi vistosi, anche se invisibili, che si producevano inevitabilmente
nelle tasche della talare. Stavolta non si trattava più di ripianare la regolamentare «mezza svanzica»,
ma somme sempre più considerevoli. E la signora Teresa, borbottando un po’, giusto per salvare le
apparenze, apriva generosamente il borsellino.
Con quella torma di ragazzi sbrindellati che don Luigi si prendeva a carico, e con le scuole serali
cui doveva provvedere di persona, era inevitabile che il patrimonio di famiglia venisse
saccheggiato.
Ci fu un momento in cui il figlio prete non ebbe più il coraggio di ricorrere alla mamma per farsi
rattoppare le tasche sfondate. Accadde allorché si trattò di allestire il nuovo Oratorio. Per arrivare a
pareggiare la «mezza svanzica» e le diverse migliaia di lire mancanti, don Luigi decise di vendere la
casa che gli era toccata in eredità a San Pellegrino. Non ebbe, però, il coraggio di comunicare la
cosa a mamma Teresa, temendo sarebbe stato un colpo troppo duro per lei.
Gli amici pensarono allora di organizzare una festa per l’inaugurazione e di invitarvi, quale
ospite d’onore, la signora Teresa. Questa intervenne tutta in ghingheri senza sospettare la trappola
che era stata approntata. Manifestò il proprio compiacimento per quella realizzazione che aveva del
miracoloso. Incassò, commossa, fiori, omaggi poetici, applausi. E soltanto quando apparve
sufficientemente anestetizzata dal profumo dei fiori e dal suono carezzevole delle poesie e dei canti,
la informarono che per realizzare quell’opera era stato necessario far passare attraverso le tasche
bucate di don Luigi la... casa di San Pellegrino.
122
Allargò le braccia, felicemente rassegnata, lasciando cadere a terra i fiori. Da tempo si era resa
conto che quel figlio era incorreggibile. Neppure in Paradiso sarebbero riusciti a cucirgli le tasche.
Lui, in un angolo, dopo aver scrutato a lungo, in apprensione,
PAGINA 197:
la reazione materna, allorché costatò che la pillola debitamente addolcita era stata trangugiata, tirò
un sospiro di sollievo, commentando:
– Anche questa è andata!...
Quanta fatica per scrollarsi di dosso l’etichetta di «signorino»...
Lo chiamavano «il signorino». Forse perché era sempre agghindato a dovere e scortato da una
persona della servitù, attempata e prudente.
Fin da bambino aveva preso l’abitudine di visitare i malati negli ospedali e nei loro tuguri. Con
la tacita complicità della «scorta», recava loro una parte del proprio pasto. E, naturalmente, nei casi
più disperati, non esitava a rovesciare il contenuto delle proprie tasche.
I poveri, per deferenza, si rivolgevano a lui con l’appellativo di «signorino». Luigino non
gradiva. Si sentiva addirittura umiliato.
Si può dire che durante tutta la sua vita cercherà in tutti i modi di smentire quel titolo. Adotterà
uno stile di vita austero, vivendo con i poveri e per i poveri. I poveri saranno il suo ambiente
naturale, il suo habitat. Con loro si troverà «naturalmente» a proprio agio. E anche i poveri si
troveranno a proprio agio con lui, quasi fosse uno di loro. Il Castelletti arriva ad affermare: «Se con
la madre sua egli non ebbe mai tutta quella apertura che suol avere un figlio con sua madre,
pensiamo che non ultima ragione fu il vivere ella da signora. Parea che quel suo fare signorile gli
imponesse soggezione».
Sempre il primo biografo riferisce: «In casa sua c’era sempre qualche cosa per tutti, e cordialità e
vera carità, sicché i poveri, massime del vicinato, vi andavano quando avevano qualche bisogno
come a casa propria».
Saranno più o meno le stesse frequentazioni di quand’era fanciullo, e qualcuna in più. Ma «il
signorino», frattanto, sarà scomparso definitivamente, finito chissà dove.
Morirà povero, angosciato anche dalle strettezze economiche in cui si dibattevano le sue
istituzioni (solo dopo la sua morte le
PAGINA 198:
cose miglioreranno sensibilmente e in modo abbastanza misterioso: forse il beato Palazzolo,
incorreggibile portatore di tasche sfondate, aveva operato qualche pertugio tra le nuvole...).
Confesserà a un prete amico: «Sono qui malato e bisognoso di tutto e non ho nulla né per me né
per tutta questa famiglia di poveri». E non esiterà a tendere la mano: «Faccia un po’ di carità a
questo povero prete...».
123
Con l’aiuto di Gioppino
Nel 1839 Luigi Palazzolo intraprende gli studi classici nel ginnasio della città. Coltiva anche la
passione per la musica: si imporrà come discreto suonatore d’organo e autore di diversi lavori.
Nel 1844 entra, in qualità di esterno, senza vestire l’abito chiericale, nel seminario diocesano, per
compiere gli studi filosofici. Quindi inizia la teologia, questa volta chierico a tutti gli effetti. È
ordinato sacerdote il 23 giugno 1850 da mons. Carlo Gritti Morlacchi, vescovo di Bergamo e che è
stato suo parroco.
Non gode di alcun beneficio ecclesiastico e non ha neppure precisi impegni di cura d’anime. A
quel tempo c’è abbondanza di clero, e i preti appartenenti a famiglie di condizione sociale elevata se
ne stanno a casa loro.
Lui si sceglie, quale primo campo di apostolato, il popolare quartiere Foppa, parrocchia di S.
Alessandro in Colonna, rione San Bernardino. Qualcuno ha abbozzato un quadro suggestivo e
realistico al tempo stesso: «La Foppa era uno dei quartieri più popolari della Bergamo d’una volta:
un agglomerato di case e casupole sedimentate dal tempo una appresso all’altra, una addosso
all’altra, i muri anneriti e gli angoli sbreccati, lungo viuzze anguste e contorte, con piccoli slarghi,
qua e là, su cui s’affacciavano le botteghe degli artigiani e qualche negozietto.
«Quartiere basso, ma d’una povertà non priva di vita, con le donne alle finestre a rilanciarsi
spesso gli ultimi pettegolezzi mentre stendevano i panni a quel po’ di sole che nelle ore buone
riusciva a infilarsi tra i tetti; e gli uomini burberi che tiravano via, senza sprecare troppe parole sulla
situazione sempre più stentata;
PAGINA 199:
e il rincorrersi vociante dei ragazzini scatenati, e il cigolio dei carri che a tratti si faceva stridore
sull’acciottolato sconnesso; e il tonfo squillante dei magli sulle incudini; e il fruscio dei telai e tutti
gli altri rumori della fatica umana vibranti in quell’aria stantia, che sapeva di miseria, di umori acidi
e anche di sconsolatezza per l’avarizia cruda dei tempi che costringeva a masticar poco pane e
troppa rabbia» (Lubich-Lazzarin).
Grosso talento educativo. Qualcosa di innato, di istintivo, non certo frutto di studi. Giovane prete
ventitreenne, si fa le ossa proprio quale responsabile dell’oratorio della Foppa.
Sbircia in direzione di un prete torinese, don Giovanni Bosco. Ma suo maestro e modello è anche
Gioppino, celebre maschera bergamasca di «sempliciotto castigamatti». Si rivela burattinaio ricco
di risorse e inventività, con uno sterminato repertorio di «teste» intercambiabili, e scenari fantasiosi.
Insomma, insegna e predica facendo ridere a crepapelle. Un predicatore di larga fama, una volta,
non riuscendo a tenere a bada una ghenga scatenata di ragazzi, piuttosto sconsolato rinunciò a
proseguire nel suo dotto e accalorato sermone e chiese soccorso al Palazzolo:
– Per favore, cominciate la vostra predica con Gioppino, che forse farete più frutto.
Quel «forse» era di troppo...
Anche in seguito, insisterà molto sulle rappresentazioni teatrali. A una suora raccomandava:
«Nessuna dell’Oratorio resti fuori perché è povera. Se non ha palanca, non fa niente, entri
ugualmente».
124
Tra i suoi impegni primari, spicca quello per l’istruzione. Constatava: «C’è un’ignoranza che fa
spavento». E lui promuove scuole serali per giovani e adulti, operai e contadini, senza distinzione.
In una classe terza, tenuta da lui, si potevano contare anche un centinaio di allievi non certo di
primo pelo.
La materia prima, dunque, non scarseggiava. Per libri e quaderni, manco a dirlo, provvedeva lui.
La sua pedagogia era all’insegna della concretezza. Poteva far sua una celebre battuta: «Qual è la
miglior disposizione per imparare? Aver mangiato».
PAGINA 200:
Lui era convinto anche che per arrivare all’anima del povero, bisognava necessariamente passare
per lo stomaco...
Le tappe di un itinerario
Devo accontentarmi, per evidenti motivi di spazio, di registrare alcune date significative e
accennare alle tappe più rilevanti che hanno caratterizzato l’itinerario di questo straordinario e
insolito prete bergamasco.
Nel 1859 il proprietario dei locali dell’Oratorio della Foppa si rifiuta di rinnovare il contratto di
affitto. Forse è soltanto una tattica furbastra per alzare il prezzo. Ma, intanto, il Palazzolo è costretto
a vagare per la città con il codazzo dei suoi giovani che lui non intende assolutamente abbandonare
a se stessi.
Nel mese di maggio 1862 mamma Teresa offre al figlio una grossa somma che deve servire
all’acquisto di un terreno e di alcune case per realizzare il nuovo Oratorio, che sarà intitolato a san
Filippo Neri. Poco dopo, a settembre, la mamma muore.
Nel 1863 il Palazzolo si fa costruire una modesta abitazione nell’area dell’Oratorio, in modo da
poter stare sempre vicino ai suoi giovani. Invece, nella casa di villeggiatura della sua famiglia, a
Torre Boldone, accoglie i primi ragazzi orfani e, per il loro sostentamento e quello di tanti poveri,
dà praticamente fondo a tutto il patrimonio ricevuto in eredità.
Il 6 gennaio 1864, nei locali dell’Oratorio viene inaugurata la Pia Opera di S. Dorotea, a favore
della gioventù femminile, fondata da don Luca Passi e diretta dal Palazzolo. Teresa Gabrieli ne
diventerà vice superiora cinque anni dopo.
Il 22 maggio 1869 dà inizio, con la collaborazione di Teresa Gabrieli, alla Congregazione delle
Suore delle Poverelle.
Il 27 giugno 1869 viene giustamente considerata una data fondamentale nell’evoluzione
spirituale e apostolica del Palazzolo, che inizia a Roma, presso i gesuiti di S. Eusebio, un corso di
Esercizi. Un cardinale, poco prima, avendolo visto in compagnia di mons. Valsecchi, l’ha definito
«un buon sacco da notte». Al termine di quell’esperienza, il Palazzolo formula il proposito di vi-
125
PAGINA 201:
vere nel disprezzo, ridursi a totale povertà, in modo da imitare Cristo «ignudo sulla croce».
Si può parlare di una svolta radicale, di «conversione», purché si tenga presente che il tutto era
preparato da un lungo apprendistato e una frequentazione assidua dei «bassifondi» della società.
Nel 1870 il Palazzolo dà avvio, con Gian Battista Leidi, alla congregazione dei Fratelli della
Sacra Famiglia per l’educazione degli orfani. L’istituzione avrà però una vita stenta, soprattutto
perché, a differenza di quella femminile per la quale c’è stata la «scoperta» di una Teresa Gabrieli,
qui è sempre mancata una persona all’altezza del compito.
Il 4 ottobre 1874 viene inaugurato il nuovo convento per le suore e per le orfane, cresciute di
numero. Qui, in quella che sarà considerata la Casa Madre dell’Istituto, le religiose traslocheranno
abbandonando l’edificio di via Foppa.
Col 1875 comincia l’espansione dell’Istituto fuori dai confini della bergamasca: dapprima
Vicenza (1875), quindi Brescia (1876).
L’anno 1885 è sicuramente il più fecondo di fondazioni palazzoliane: Breganze (Vicenza), tre
Case a Torre Boldone, S. Chiara a Vicenza.
Il 12 maggio 1886 il vescovo mons. Camillo Guindani reca al Palazzolo, gravemente infermo, le
Regole approvate dell’Istituto.
Don Luigi Palazzolo muore il 15 giugno 1886, nella Casa Madre. Verrà proclamato beato il 19
marzo 1963 da papa Giovanni XXIII, che non ha mai nascosto la propria simpatia per quel prete suo
conterraneo.
Dimmi come scrivi…
Nel mio piccolo l’ho sperimentato diverse volte: se voglio prendere le misure di un personaggio,
non devo fidarmi dell’abito che gli hanno cucito addosso i biografi ufficiali e quelli improvvisati.
Bisogna leggere l’epistolario. Dalle lettere vien fuori il tipo così
PAGINA 202:
com’è, non il manichino ammodo di certa agiografia compassata e caramellosa.
Alla regola non sfugge il beato don Luigi Palazzolo, che ci ha lasciato un migliaio di lettere, fitte
di osservazioni acute, sfoghi, abbandoni, sfuriate, racconti gustosi, notizie curiose, arguzie,
umorismo scoppiettante. Qui la personalità emerge in tutta la sua ruvidezza, spontaneità,
delicatezza.
Scrive male, il Palazzolo, strapazzando grammatica e sintassi, usando un gergo popolaresco,
mortificando il bello stile. E ciò sorprende se si pensa che negli anni del liceo nutriva una spiccata
simpatia per i classici. Senza mezzi termini, un biografo, Mauro Valoti, sentenziava: «Lingua
poverissima, espressioni dialettali, pensiero poco curato, sgrammaticature, contorsioni, disordine».
Insomma, picchiava sulla carta non certo in punta di penna, ma con vigorosi colpi di zappa (una
zappa neppur troppo affilata). E lo stesso biografo avanza l’ipotesi che «scrivesse anche con
126
volontario abbandono di ogni riguardo alla forma, incurante del giudizio poco favorevole che ne
sarebbe venuto, per umiltà, per amore di umiliazione».
Non posso escludere, ovviamente, tale spiegazione. Tuttavia ritengo che nelle lettere il Palazzolo
tradisca soprattutto la fretta. Fretta di uno che ha sempre troppo da fare, e non può permettersi il
lusso letterario di «ricamar bellurie». Ha delle cose importanti da dire, e dice ciò che gli sta a cuore
con immediatezza, d’impulso, quasi con foga, senza badare alla forma. Tira avanti, tracciando
solchi talvolta sghembi, approssimativi, sulla carta, per arrivare direttamente allo scopo. E non ci
vuol molto ad immaginare che i colpi lasciassero il segno. Stile rozzo, raffazzonato, ma
estremamente efficace. E, manco a dirlo, chiaro.
Ecco qualche esempio. Arronciglia di brutto una Superiora, colpevole di scrivere in una maniera
incomprensibile: «Senti, o Madre, e sta’ attenta, e scrivi bene chiaro e netto e capisci quello che
scrivi se no mi metti in pensieri e imbrogli, dacché ne ho tanti».
Minaccia una suora: «Stia su allegra, ma si guardi bene da ogni voglio e da ogni uffa! perché le
costeranno cari».
PAGINA 203:
Non esita a miscelare italiano e dialetto bergamasco: «Ciao, fra Giuliano, sae, sae e sta sö e mia
crapunade». Che tradotto vuol dire: «buono, buono, e sta’ su di morale, e non fare lo zuccone».
E anche un proposito un po’ sbarazzino: «Voglio andare da quelle (suore) del S. Cuore a vedere
se c’è caffè o pasta da scroccare. Se faccio figure men fa tanta a me (non m’importa niente)».
Una raccomandazione fulminante: «Al confessore contate i peccati, e basta, e siate pentite».
Altra raccomandazione: «Invece di digiuni, recitate tre Pater Ave Gloria al SS. Crocefisso e state
più attente a trangugiare amaro e a sputare dolce».
E ancora più spassosa: «Non lasciarti imbalordire da male fanfaluche del demonio».
Esilaranti e taglienti appaiono pure le sue battute sulle «beate», che qualche volta vorrebbero
impaniare anche le suore nella loro melassa devota.
Dichiara con semplicità: «Non so risparmiarmi». Ha sempre tanta fretta («Due parole, ma di
premura...» è l’attacco di tante lettere), ma finisce che fa fatica a staccarsi dal foglio. E ci mette
aggiunte, «post scriptum» e saluti a iosa: «Ciao ciao ciao ciao ciao ciao uno per ciascuno; l’altro a
chi vuoi». Oppure, ancora meglio, in dialetto: «Ciao a mò (ancora ciao)».
Tenerezza
Il Palazzolo, o della tenerezza. Ecco alcune insistenti raccomandazioni destinate a chi deve
curare gli infermi: «Non risparmi spese, faccia tutto per loro: dia buona carne, minestra buona, ma
poca, un po’ di vino e pane in abbondanza...».
Sapeva che le parole non riempivano lo stomaco dei suoi orfani: «Non consigli ma polenta!».
Supplicava una suora: «Sii buona, ti prego, se non vuoi che la casa vada alla malora».
Raccomandava a Madre Teresa: «Non risparmiare spese per le mie orfanelle, ti darò buon
castigo se troverò che hai speso poco. Le parti alle orfanelle le darai tu stessa, e buona porzione, e
man-
127
PAGINA 204:
zo e non castrato. A tutte quelle che non sono di buona cera e franche affatto darai di grasso (e bene
e buono) se fosse anche il Venerdì Santo. Hai capito?...
«Alla notte porterai in dormitorio qualche cosa da mangiare e anche un gottin di vino e tu darai
ordine o alle orfanelle che si svegliano o a qualche monaca di svegliarti e darai alle orfanelle che
sono un po’ magre o di mala lena qualche cosetta da mangiare e un gottin di vino...
«...Non farle lavorare quando non sono di lena, lasciarle divertire, lasciarle dormire...
«...Presto verrò io apposta per vedere come trovo le orfanelle. Quanto al vino, ricordati di non
badare a centesimi in più o in meno, ma prendi quello buono».
Accoglienza era la sua parola d’ordine: «La ragazza teatrante la prenda, la accolga con gran
cuore, le darò il mio letto e metà del mio cibo se non avrò niente di più».
Non si limitava, tuttavia, ai consigli. Forniva esempi convincenti e toccanti: «Questa notte ho
mandato a letto e quiete le mie care figlie, ed io ho vegliato su di una scranna accanto alla
Madonna... Ho servito anche la Paolina... e le ho portato il caffè e qualche altra coserella come
facean le monache, con tanta sua consolazione che non le so dire, e con tanto mio gaudio che non lo
cambierei con tutte le allegrezze degli uomini. Ho passato una notte come di una terra di pace e di
carità...».
Sapeva infondere serenità e fiducia anche in mezzo alle prove più crude: «Mangiate allegramente
il poco che vi dona la Provvidenza e non pensate allora al caro prezzo che costa e non
attossicatevela con tali pensieri. Non lasciate intendere, massime alle orfanelle, le nostre
ristrettezze».
Lui stesso andava a fare la spesa con una borsaccia e un pittoresco ombrellone variopinto, che
cedeva volentieri in caso di necessità: «...Se piove, si faccia dare la mia ombrella grande sotto della
quale stanno in quattro col gerlo».
Si preoccupava: «Faccia provviste necessarie per corpetti, coperte e quanto bisogna, non me le
lasci patire». E ancora: «Ti raccomando di fare delle buone minestre e non tanto rare ma un po’
PAGINA 205:
spesse, e quando dai invece la pietanza di darne una quantità sufficiente». In un caso speciale
specificava: «Ricordati di non mandare al lavoro la Geltrude fino a che è guarita affatto. Dalle
buona carne e del vino, ma non vino di acqua, ma vino di uva e olio di merluzzo, e pane e cibi
sostanziosi». Evidentemente conosceva certi trucchi delle monache, e non solo delle monache...
Alcune volte si mostra apprensivo in maniera perfino esagerata: «Guardino le orfanelle di non
tenere le mani vicine allo sportello (della carrozza) perché non siano schiacciate». Raccomanda a
una Superiora di far coprire una buca di calce «perché già vedo alcune mie orfanelle che vi son
precipitate».
128
Povertà
Uno dei suoi tasti preferiti era la povertà. Una povertà gioiosa, prima di tutto, come testimonia
questa raccomandazione a una suora: «E stia allegra, perché l’ho detto che la povertà ride».
E alle novizie: «Non voglio musi. Fuori i musi, che la povertà ride. Su, allegre!».
Non bisogna assolutamente preoccuparsi di accumulare:
«Guardati bene dal tornare a radunare roba temendo che ti manchi. Guarda che radunando troppo
si spiantano le case. Sii povera, sii povera».
La povertà, d’accordo. Ma il primato resta sempre quello della carità: «Conserva la povertà, ma
in certe occasioni ricordati di dare qualche cosa in più da mangiare alle suore ed orfanelle. E quando
mangiate, non attossicate il cibo con pensieri sul denaro speso...».
Manco a dire, la scelta preferenziale resta quella dei poveri. Bisognava assolutamente «riservarsi
per i poveri». Dunque, prima i poveri... e poi i poveri... e poi ancora i poveri.
Non esitava a suonare l’allarme: «Se noi ci allontanassimo dai poveri, guai...». «Ho paura che la
Casa sia andata così in basso per mancanza di povertà».
E anche una morte come i poveri: «...Servire a Dio in tutta la vita, patire per Lui, lavorare per
Lui, salvare le anime a Lui, e poi morire anche in una stalla, ignorati dal mondo e sotterrati nel Ci-
PAGINA 206:
mitero senza alcuna pompa, da poveri, ricevendo la benedizione e le preci dei poveri che pregano
con fede, e intanto avere l’anima in luogo sicuro, e forse già in Paradiso!...
«Rinunciare alla vocazione del Signore per godere la libertà del mondo... far denari... essere
lodati dal mondo... avere grandi posti... essere potenti... essere applauditi, nominati dai giornali... e
poi morire in un bel letto con tre materassi, in una bella sala, circondati da medici... senza prete e
senza compunzione... senza opere buone... ed essere portati alla tomba di marmo, con la banda e
con grande seguito di gente polita... che gusto!...».
«Sia lodata la santa povertà» è l’esordio di alcune lettere. Personalmente, non si accontenta di
predicare e lodare la povertà, ma la vive. Può bastare questa annotazione: «Non posso più scrivere
dal freddo...».
Non ricorre certo a formule diplomatiche quando si tratta di chiarire le idee alle suore su
quell’argomento che gli sta tanto a cuore: «Non so come intenderla. Quando si ha fame e non si ha
il cucchiaio d’argento da mangiare scusa (voleva dire, evidentemente, “si usa”, N.d.R.) quello di
ottone, e se non c’è quello di ottone si mangia con quello di legno, e se non c’è quello di legno si
adopera la forchetta per mangiare il solido e si beve poi dalla scodella il brodo, ma per nessuno
conto si lascia andare in male la minestra. E le mie Suore delle Poverelle, se non hanno le cose
proprio a puntino, non sono buone d’ingegnarsi?».
Esigentissimo con se stesso, prima di ogni altro: «Ho venduto un po’ di lana, ma ho molte cose
ancora che sono da signore. Che abbia io d’andare al Campo Santo senza poter godere la povertà
proprio di proposito? Che debba chiudermi in un convento per goderla, mentre non mi sento voglia
di farmi frate? Faccia Iddio. Il poverissimo Gesù che nasce in una stalla e muore ignudo sulla
croce... mi faccia anche questa grazia».
129
Stare bassi
Parallelamente batteva l’altro tasto, quello dell’umiltà. Dichiarava: «Benedico il Signore e lo
prego che ci tenga tutti giù, giù bassi, perché possiamo andare su su, alti in Paradiso».
PAGINA 207:
Picchiava ostinatamente su questo tasto: «Ah, per pietà, suore mie benedette, siate umili, se non
volete spiantare e chiudere la Casa».
Con questa variante: «State giù basse, e sedete in terra, che allora non cadrete».
Concretamente: «Fate la portinaia, istruite le nostre orfanelle, supplite quando mancano le altre,
e questo con allegrezza...».
E alle suore imponeva, senza mezzi termini: «Fate digiunare il vostro amor proprio in grande. Le
Suore siano umili, sincere, semplici colla loro Madre e domandino e ricevano volentieri le
umiliazioni e la penitenza. La Madre stia giù bassa bassa, e non si lamenti se è messa in un cantone
con tutte le sue Suore».
Quanto all’essere messi in un cantone, è rimasta celebre una sua reprimenda. Gli era arrivato
all’orecchio che alcune Suore si lagnavano per non essere troppo considerate in parrocchia e di
venire impiegate come tappabuchi, per il catechismo, soltanto quando mancavano persone più
qualificate. Non esitò a prendere penna e carta: «...Ho sentito l’onore e la stima che hanno di voi, e
come vi hanno onorato, adoperandovi per rimpiazzare le maestre che mancano alla dottrina. Ma con
mio dispiacere ho paura che vi abbiano onorato invano, credendovi umili...
«...Ah, suore benedette, così fate? Dunque il vostro povero ed afflitto superiore vi avrà parlato
invano tante e tante volte della santa umiltà? Ah! per pietà, suore mie benedette, siate umili, se non
volete spiantare e chiudere la casa. State giù basse e sedete in terra, che non cadrete. Fate la
portinaia, istruite le vostre orfanelle, supplite quando mancano le altre e questo con allegrezza
singolare e con volontà pronta, contenta e semplice...
«Se vi dicono di cantare quando mancano gli altri, cantate; se vi taglian fuori di mezzo il canto,
tacete. Se dopo vi dicono di cantare, cantate e non fate da meno dell’organo nel servire a Dio, il
quale tace e canta secondo che lo fanno tacere o cantare. Se volete diventar sante e gradite a Dio,
lasciate che tutti vi trattino da poverelle affatto, che vi tratteranno sempre meglio di quello che
trattarono e trattano tuttora Gesù Cristo tanti tiepidi cristiani...».
Credo, senza esagerazione, che queste righe stupende nella lo-
PAGINA 208:
ro semplicità valgano un intero trattato ascetico sull’umiltà scritto dal più prestigioso maestro
spirituale.
Ancora: «Siate umili davvero e non contentatevi di comparire umili. È l’umiltà che ci merita gli
abbracciamenti e le grazie di Gesù, e non l’apparenza dell’umiltà. Addio, vi metto nei cuori di Gesù
130
e Maria e vorrei chiudervi dentro a chiave, da poter proprio respirare e mangiare e bevere umiltà e
così crescere umili. Pregate per me perché sia proprio umile».
Pretendeva che si facesse il bene, ma senza esibirlo: «Non abbiamo smania di contare il bene, ma
di tenerlo nascosto».
Implorava una suora: «Prega per carità, prega che io sia umile, ed umili siam tutti per la grazia di
Dio. La superbia ci farà capitombolare; l’umiltà ci fa mettere radici profonde».
E a tutte diceva: «Consideratevi come spazzatura del forno di tutte le altre istituzioni».
Non aveva mai scordato la lezione ricevuta dal suo maestro, mons. Valsecchi, al quale aveva
domandato se non ci fosse il pericolo di una certa esagerazione nella ricerca dell’umiltà e delle
umiliazioni. Ne aveva avuto questa risposta: «Non è troppo mai. L’amor proprio, per quanto si
faccia, non si arriva mai a schiacciarlo del tutto. Galleggerà ancora sulla nostra fossa, tre dì dopo
che sarem morti!».
«Dio è tutto»
La sua spiritualità può essere sintetizzata con alcune frasi caratteristiche, assai incisive. Vuole le
suore specialiste, come san Giuseppe, del «niente e tutto». E spiega: «niente», se si punta allo
straordinario. «Tutto», se si bada alla sapienza della vita. Dunque, «una vita ordinaria nelle opere e
straordinaria nel modo».
Afferma con sicurezza: «Il Signore ci schiaccia con i suoi benefici. Poveri noi se non ci lasciamo
schiacciare».
Ed ecco una delle sue formule indimenticabili: «Fede, umiltà, confidenza... Quale demonio può
resistere? Nessuno, tutti alla malora».
Si spiega con ruvida schiettezza: «Ben vedi, figlia mia, che ho
PAGINA 209:
bisogno di monache di maschia virtù e non di cuoricini tenerini tenerini...».
E ancora: «Monache, monache, bisogna prepararsi in grande a santificarvi...». «Poche parole,
umiltà, preghiera e voglia di far bene, e buona maniera, e riuscirete in tutto».
Vuole «sodezza», non tollera superficialità. Pretende allegria, ma non «buffonerie».
Non può soffrire quelle che si creano problemi artificiali: «Non cominciare a fare dei monti dove
la strada è piana».
Infine, questa formula riassuntiva: «Dio è tutto, il mondo è nulla».
Inutile precisare che le sei martiri della carità, come le loro Consorelle, si sono nutrite
abbondantemente di questa pedagogia.
Una favola vera da raccontare lassù...
Viene il sospetto abbia trasferito lassù la sua «baracca». In Paradiso, tra molti santi giocherelloni,
un teatrino di marionette dev’essere stato particolarmente apprezzato.
131
Avrà esordito con il suo pezzo forte, di sicuro effetto: La famiglia dei gioppini. E poi ha
continuato a sgranare battute, raccontare storie, favole, nell’ispido dialetto bergamasco (lassù non si
parla solo latino).
Poi, un giorno, abbandonando il solito tono scanzonato, ha narrato una favola struggente. La
favola che aveva quali protagoniste sei deboli suore, appartenenti alla sua famiglia, che avevano
affrontato, una dopo l’altra, un drago cattivo di nome Ebola.
Quella favola non l’aveva inventata il Palazzolo. Era una storia vera. Ma anche se non ne
risultava l’autore, lui c’entrava pure per qualcosa. Così come c’entrava per qualcosa madre Teresa
Gabrieli, seduta in prima fila. Lo capivano tutti, lassù.
Storie di questo genere vengono molto apprezzate, lassù.
Il Paradiso è fatto anche di queste storie.
Lui continua a stare in attesa che gli venga fornito il materiale
PAGINA 210:
indispensabile per i suoi racconti. Resta convinto che «la famiglia dei gioppini» non delude.
La «baracca» non può chiudere.
E il Paradiso, che è «un’esagerazione di amore», segue con interesse le persone capaci di
esagerare.
PAGINA 211:
TERESA GABRIELI
IL DIRITTO DI CHIAMARSI AMORE
Esame col batticuore
Ha conseguito il diploma di insegnante all’età di 17 anni. Adesso, però, che è sulla trentina, deve
superare l’esame più difficile. Non tanto un esame, ma una trappola.
Teresa Gabrieli, che conosce bene lo stile di quel prete che tutti ritengono un po’ tocco di
cervello, entra nella casa del maestro con una certa trepidazione. E la trappola è lì, collocata sul
sofà, bene in vista, sotto le sembianze di una bambina con la faccia butterata e decorata di croste,
solcata di piaghe, che si trastulla con giocattoli rimediati chissà dove, inconsapevole di essere stata
prescelta quale... materia d’esame.
Dopo aver salutato rispettosamente don Luigi, la giovane donna non può trattenersi
dall’esprimere la propria sorpresa per quella presenza:
– Dove è andato a pescarla questa bambina?
– È un regalo che mi hanno fatto. Si tratta di un’orfana...
– Come non bastassero gli orfani che tiene a Torre Boldone, anche le bambine si mette a
prendere adesso...
L’esaminatore non si scompone:
132
– Non è un’anima di Dio anch’essa?
Teresa replica con un’altra domanda:
– Ed è deciso a tenerla Lei qui?
– No, di certo. L’ho chiamata perché voglio fame dono a Lei, signora Maestra.
Quella trasecola:
– A me?
– E a chi vuole che l’affidi? Gliela manda il Signore.
Teresa, per tutta risposta, dopo una lunga pausa di silenzio,
PAGINA 212:
si avvicina alla ragazza dall’aspetto non certo attraente, e l’accarezza.
Il maestro si sente in dovere di precisare:
– Badi che è anche storpia, sciancata...
La maestra diplomata, che ci tiene a quella promozione più di qualsiasi altra cosa, non può più
tirarsi indietro:
– Poverina! Dal momento che il Signore vuole così, la prenderò. E sarà quello che Dio vuole.
La trappola, «magistralmente» approntata dal Palazzolo, è scattata, e Teresa vi è rimasta
beatamente imprigionata.
Per non essere catturata, avrebbe dovuto evitare di avvicinarsi, o addirittura non entrare in quella
casa pericolosa. Ma lei non chiedeva di meglio che di venire catturata.
Si rimorchia in casa la bambina così sconciata, incurante della disapprovazione delle sorelle, che
ritengono quel gesto un’autentica pazzia.
Don Luigi, manco a dirlo, è soddisfatto, quasi avesse superato lui l’esame. Molti, a Bergamo e
dintorni, lo considerano un mattocchio. Adesso sa che i pazzi sono due e si può dare avvio
all’opera.
Teresa sistema la bambina nel proprio letto, e lei si accomoda sul pavimento, adagiandosi su un
saccone.
In fatto di comodità, i pazzi hanno gusti un po’ difficili...
La figlia dell’ortolano deve studiare
Teresa nasce dieci anni dopo il Palazzolo, il 13 settembre 1837, nella parrocchia di S. Alessandro
in Colonna, rione S. Lucia Vecchia, sesta degli otto figli nati dal matrimonio tra Lucia e Giuseppe
Gabrieli. Il padre fa l’ortolano, ma non è sprovvisto di cultura, essendo stato per un certo tempo in
Seminario. Comunque, una famiglia assai modesta.
Carattere non propriamente docile, anzi decisamente caparbio, con una discreta tendenza alle
impuntature.
A motivo del lavoro del babbo, la casa era una specie di mercato pubblico. Giuseppe Gabrieli ha
la salute minata da un grave
133
PAGINA 213:
male, non sempre è in grado di faticare, e la vita si fa dura perché l’orto rimane spesso incolto.
Prima di morire, il babbo esprime la volontà che Teresina frequenti le scuole delle Canossiane. È, in
pratica, il suo testamento. Ha perfino fatto vendere una mucca per sostenere le relative spese.
Teresina ha quindici anni. In casa ci sono ancora due sorelline piccole.
Nel convento delle suore Canossiane di via Rocchetta, Teresa si sente subito a proprio agio e lì
indubbiamente matura la propria vocazione. Non c’è che un passo da fare. Le suore stesse aspettano
quel passo con tranquilla sicurezza.
Ma quel passo non viene mai compiuto. A diciassette anni, Teresa Gabrieli lascia il convento
perché in casa la situazione si è aggravata e hanno bisogno di lei. Ha in tasca una patente che la
abilita all’insegnamento nelle scuole elementari (fino alla terza), quando raggiungerà i vent’anni di
età.
Intanto si dedica alla casa, e si occupa dell’orto e relativo commercio, rivelando indubbie doti di
concretezza.
Ma quanto grida la signora maestra...
Nel 1861 apre una scuola privata e si trasferisce da via Pradello in via Osio con la mamma e la
sorella minore. L’attività precedente viene liquidata definitivamente.
Teresina alla scuola ci crede e vi si dedica con passione e competenza investendo in essa le sue
capacità e una non comune sensibilità. Non si limita a istruire, ma intende educare. Non esita a
imporre la disciplina, quando è il caso. La sua voce, allora assume il timbro (e il volume...) della
severità. Talvolta è portata ad eccedere nei castighi e nelle minacce, ha delle reazioni eccessive,
sproporzionate rispetto alle mancanze delle allieve. In tal caso, non solo la voce, ma anche i modi
sono al di sopra delle righe.
Ed è proprio durante una delle sue «esplosioni» che avviene l’incontro con il Palazzolo. Ce lo
riferisce il primo biografo, don Luigi Frigeni:
«Un giorno D. Luigi Palazzolo andò alla scuola di Teresa per l’insegnamento del Catechismo.
Dal di fuori si sentiva la Maestra,
PAGINA 214:
che garriva in tono solenne. Si trattenne fuori dall’uscio ad ascoltare. Non era obbligato a turarsi le
orecchie dal momento che alla Maestra non importava proprio nulla a farsi udire. Per riguardo
forse, si era trattenuto dall’entrare, per non fare arrossire troppo la Maestrina nel colmo della sua
escandescenza. Passata la burrasca, D. Luigi entrò, che le allieve erano dimesse come alberi
abbattuti dalla grandine e dalla bufera della tempesta, in un silenzio di paura. Teresina ebbe un
sussulto e cercò di comporsi, di dominarsi, di riprendere la sua usata serenità. Avrebbe voluto
giustificarsi, ma non trovava parola. Era impicciata, nell’imbarazzo: a stento salutò. Don Luigi le
sussurrò all’orecchio: Calma, calma: si ottiene di più.
«Era la prima lezione del suo futuro maestro. Non la dimenticò più. Ne trasse profitto».
134
Si dedica all’apostolato anche al di fuori dell’ambito scolastico. Reca il proprio contributo
soprattutto nell’opera di Santa Dorotea, che si occupa della educazione morale e cristiana delle
ragazze dei quartieri poveri, con attenzione particolare a quelle «sviate e pericolanti». Qui Teresa si
fa le ossa e compie un prezioso apprendistato per la missione futura che ormai viene delineandosi,
sia pure in maniera ancora confusa.
I molteplici impegni, tuttavia, non le fanno dimenticare il sogno primitivo, anzi accentuano la
sua attrazione verso il chiostro.
Finalmente il passo tanto atteso, ma non nella direzione prevista
La svolta avviene nel 1868, quando Teresa ha 31 anni. Cinque anni prima le era morta la
mamma, ma lei aveva dovuto occuparsi della sorella Elisa, appena sedicenne. Adesso, finalmente,
mentre per questa c’è alle viste il matrimonio, la strada appare sgombra.
Ormai è matura per la vita religiosa. Il suo direttore spirituale, don Alessandri, vince le sue
ultime resistenze. La strada sembra segnata: le Canossiane, destinazione Venezia.
Non ci andrà. Il noviziato lo farà invece, in via Foppa. L’incontro con don Luigi Palazzolo,
infatti, si sta rivelando decisivo.
A osservare il Palazzolo in azione, come abbiamo già rilevato,
PAGINA 215:
si ha una certa idea di improvvisazione. Nel senso che lui non è tipo da progettare, dopo attento
studio, vagliando la situazione e approntando preventivamente i mezzi opportuni, le sue opere.
Queste gli spuntano tra le mani – oserei dire tra i piedi – in maniera imprevista, casuale, per una
serie di circostanze provvidenziali. Lui coglie al volo le occasioni, così come si presentano.
Nota acutamente don Frigeni: «Tutta l’opera del Palazzolo portava l’impronta visibile, il segno
infallibile della mano di Dio. Lui non è tipo che archetipa nella sua testa i disegni che vuole
eseguire, né ha prefissi gli scopi, né preordina studiosamente i mezzi. Le sue opere balzano fuori
quasi occasionalmente. Dio le suscita o all’infuori o anche contro ogni preordinazione, ogni
speranza umana. Sorgono impensate, a quel punto che stan per fallire, trionfano. Sentiva ripugnanza
il Palazzolo a star con le donne, ad occuparsi della gioventù femminile e diviene il Direttore della
Pia Opera. L’opera sta per naufragare e sorge dal suo seno per incanto un’istituzione magnifica. La
causa occasionale di questa istituzione è la nostra Gabrieli, o meglio la virtù della nostra Gabrieli. Il
Palazzolo da tempo l’andava studiando – non era suo Direttore spirituale – la conosceva per quel
che vedeva, per i saggi di virtù che dava nella Pia Opera, per quanto di bene sentiva parlarne tra le
Maestre e fuori».
Così dall’opera di S. Dorotea, minacciata di estinzione per carenza di locali, nasce qualcosa di
radicalmente nuovo, in cui Teresa Gabrieli svolgerà un ruolo importante.
Lo sguardo del Palazzolo non s’inganna: quella donna ormai matura è proprio l’elemento che ci
vuole per realizzare qualcosa che non gli è neppure troppo chiaro, ma non importa. Si chiarirà dopo.
135
La pietra fondamentale della costruzione
Tutto avviene alla chetichella, all’insaputa dei più. È il 22 maggio 1869. Nella cappella
dell’oratorio maschile, Teresa Gabrieli pronuncia i voti e si impegna ad adoperarsi a favore «della
gioventù femminile, massime delle povere Orfanelle abbandonate...
PAGINA 216:
e in servizio degli ammalati poveri che giacciono nelle proprie case anche in tempo di malattie
contagiose e di peste». Lei stessa ha scritto la formula che Legge con voce ferma. Ha aggiunto
anche una preghiera supplementare: «...Accetto ogni tribolazione ed ogni patire, desolazione,
aridità, angustie, povertà, ignominie, disprezzi, infermità, derisioni, melanconie, noie, persecuzioni,
abbandono delle creature, tutto quello insomma che Vi piacerà di mandarmi...
«Caro Gesù... se volete anche nasconderVi, se non volete farVi sentire da me, se volete trattarmi
con asprezza, se volete mostrarVi meco severo, fate pure quello che volete e Vi aggrada. Io Vi
protesto che Vi amerò sempre, che Vi servirò con fedeltà e procurerò sempre di cercar in tutto e per
tutto solo il Vostro gusto».
Don Luigi le consegna le chiavi della casa, intendendo con questo gesto affidargliene la
direzione.
Giustamente è stato osservato che Teresa costituisce una pietra fondamentale della costruzione, e
non solo la direttrice.
La divisa sembra fatta per non distinguerle...
Per un certo tempo è una Madre senza figlie. Le due compagne presenti alla veglia del 22
maggio sono tornate a casa, in attesa di tempi migliori. Lei rimane esposta, come il Palazzolo, alle
critiche e alle malignità delle solite «persone pie», chiamate anche da don Luigi «beatine».
Particolarmente importante si rivelerà, dopo sei mesi, l’acquisto di Giuditta Broletti, ventenne.
Soltanto nel 1870 sei giovani si uniranno a Teresa.
«Non erano zitelle dal collo torto, dallo spirito chiuso, dal carattere misantropo; né miserabili,
che non sanno come vivacchiare, trascurate dal mondo, che prendessero quel partito per vivere alla
men peggio. Tutt’altro...».
Quando si recavano al santuario di Borgo S. Caterina per ricevere lumi dalla Vergine a riguardo
della loro scelta di vita, «nessuno certo le avrebbe mai prese per delle candidate al Convento. Non
solo il portamento sciolto da giovani spigliate, ma allegre so-
PAGINA 217:
nore risate, che destavano l’attenzione nelle contrade, come di chiassose compagnie di
scampagnate, e ciò che è più bello, poiché avevano il borsellino discretamente fornito, non
lasciavano mai di far sosta a qualche caffè che le ristorasse.
136
«Queste cotali furono le prime suore che si unirono alla Gabrieli nella casa di via Foppa, che
condivisero le pene e le incertezze dell’avvenire, gareggiando con lei in generosità di virtù e spirito
di carità» (L. Frigeni).
Il vestito, secondo le intenzioni, avrebbe dovuto essere ritagliato su quello delle canossiane. In
realtà si distingueva radicalmente per maggior semplicità e aderenza alla... moda delle donne
povere.
Ancora il primo biografo: «Qui non si trattava tanto di formare delle suore maestre per i poveri,
bensì delle suore che vivessero a contatto dei poveri, nei loro uffici, nei bisogni, nelle indigenze,
nelle ricreazioni, in tutta l’estensione della vita dei poveri. Bisognava accostarsi ancora più
intimamente, accompagnarli ancor più questi poveri lanciati nel turbine impetuoso della nuova
vita...».
C. Castelletti precisa: «Il vestito delle suore consiste in una veste di tela marrone, di taglio e
forma affatto comune, uno scialle nero in testa e il grembiule. Quale unico distintivo religioso, le
suore delle poverelle portano la corona e una croce di legno al collo col Crocifisso. La cuffia
sarebbe un ostacolo per molte giovinette, le quali si vergognerebbero di farsi (vedere) insieme alle
monache. Di più, dovendo le suore avvolgersi fra i poveri ammalati e vegliare anche le notti, mi
pare che sia cosa più conveniente e di maggior confidenza per le suore stesse avere il fazzoletto
anziché la cuffia... Di più, se portano la cuffia, bisogna di conseguenza metterci sopra anche il velo,
e questo non è secondo la povertà di quelle, che sono povere e destinate per le povere».
Commenta il Frigeni: «So, vi è la stranezza che non sembrano nemmeno suore, quelle che
portano quella divisa.
«E ci voleva così. Che le suore fossero in mezzo ai poveri, come donne di loro, che non incutono
suggezione, né soverchia riverenza e ispirano famigliarità e confidenza...».
PAGINA 218:
Insomma, una divisa che, paradossalmente, le fa apparire... poco suore.
Come non bastasse, ecco la corona dalla parte sbagliata. Il tutto nasce da un gustoso equivoco.
Nella commemorazione del 1° anniversario di fondazione, il 22 maggio 1870, il Superiore, durante
una funzione notturna, consegna le corone. Giuditta se la accomoda a destra, invece che a sinistra
come bisognerebbe secondo il costume tradizionale. La Madre si avvede immediatamente
dell’errore, ma invece di correggerlo vi si adatta, e anche lei si acconcia la corona che penzola dal
fianco destro, imitando il gesto sbagliato della «figlia».
Già. Potevano portare la corona dalla parte sbagliata. Ma lo spirito era quello giusto.
Delicatezza e forza
Madre delicata, sensibile, tenerissima, ma non sprovvista di fermezza. Non ha perso neppure
l’abitudine di alzare la voce, quando è il caso. Parla chiaro alle orfane: «Non vi abbiamo raccolto
per darvi solo da mangiare, per crescervi come bestioline. È la vostra anima che ci preme».
Le risorse scarseggiano, le ospiti aumentano, e lei... moltiplica la generosità, il lavoro, il
sacrificio. Non vuole pesare su don Luigi, che ha già fin troppi grattacapi in proprio. E allora taglia
sui propri viveri. Voce del verbo «privarsi». E le suore la imitano.
137
Manco a dirlo, riserva per sé i servizi più umili, e per quelli più ripugnanti rivendica una specie
di monopolio.
Va anche a dare un’occhiata alla marmaglia in pantaloncini corti di Torre Boldone. Al suo
occhio penetrante non sfuggono bisogni, esigenze particolari, problemi, difficoltà. Anche quando
don Luigi affiderà ai Fratelli della Sacra Famiglia l’assistenza degli orfanotrofi, la Gabrieli non
desisterà dal fare da mamma. D’altra parte, bisogna riconoscere che il comportamento dei religiosi
era lungi dal corrispondere alle attese del Fondatore: «Con quei benedetti frati è proprio cosa che
mette in pensiero», mugugnava
PAGINA 219:
don Luigi. E suor Teresa ci metteva del suo per impedire che si angustiasse troppo.
Era una donna saggia, assennata, prudente, semplice, schietta, di una trasparenza cristallina,
incapace di infingimenti, incurante delle apparenze. L’ideale per reggere una Casa e alimentare lo
spirito religioso.
E proprio a riguardo dello spirito religioso, qualche volta si ritrovava in disaccordo col
Palazzolo, e non esitava a esprimere con franchezza e umiltà il proprio dissenso. Si trattava, infatti,
di impedire che le suore soccombessero al superlavoro imposto dalle travolgenti iniziative di don
Luigi, a scapito delle pratiche di pietà e della dimensione contemplativa. Lei voleva delle vere
religiose, non semplicemente delle pie e indaffarate massaie. Preferiva vederle trascorrere qualche
ora in chiesa piuttosto che a discutere sul prezzo nelle botteghe e tra le bancarelle dei mercati.
In certe occasioni poteva apparire un po’ tradizionalista rispetto alle idee più avanzate e
«rischiose» del Fondatore. In realtà, lei si preoccupava di mettere in salvo i valori fondamentali
dell’interiorità.
E poi i due finivano per completarsi a vicenda. Pacatezza ed esuberanza si equilibravano.
Dove vien fuori l’educatrice
Anche lei, un talento educativo innato, che si manifesta soprattutto nella formazione delle suore.
Le vuole sveglie, equilibrate, istruite, aperte. Raccomanda: «Altro che occhi bassi con le orfanelle...
e su il fazzoletto dagli occhi. Fronte libera».
Predilige quelle di carattere vivace. Punta sulla sostanza.
Da parte sua, fornisce esempi luminosi di mortificazione, delicatezza, intuizione profonda
dell’animo femminile:
«L’energia l’aveva nel carattere. Nonché essere rigida nel sostenere lo spirito, era rigida anche
nella formazione dei caratteri, che voleva robusti, sostenuti. Non voleva piagnistei, le scuse colle
lacrime, e assolutamente non soffriva sdolcinature, i caratteri molli» (L. Frigeni).
PAGINA 220:
All’occorrenza, pur nell’assoluto rispetto, non risparmia richiami, anche severi, al Palazzolo.
138
Sa inculcare lo spirito di penitenza, ma sempre con discrezione. Suggerisce alle novizie che
pretenderebbero imitarla nelle prolungate veglie notturne: «Quelle che vogliono tener compagnia
alla Madonna e a Gesù nelle ore della notte, si addormentino col pensiero di Gesù e di Maria e poi
si sveglino pensandoci ancora. Siete contente?».
Assai esigente, ma anche capace di capire e compatire. Irremovibile nei principi, ma indulgente e
generosa verso le persone e relative debolezze.
Forte e delicata al tempo stesso. Decisa nel reprimere le mancanze altrui, ma pronta a confessare
e chiedere perdono delle proprie colpe, magari mettendosi in ginocchio di fronte a una suora.
Manifesta le più delicate attenzioni soprattutto nei confronti di chi l’ha offesa e calunniata. Ecco
un episodio significativo. Un emigrante, reduce dalla Francia, va a trovare la figlia ospite
dell’Istituto. Quando se la vede dinanzi, piuttosto emaciata, non può trattenersi dal fare un
confronto con la Madre che è di struttura piuttosto pingue, e dà in escandescenze. Quindi,
rivolgendosi alla figlia, le impone: «Senti: quando al mattino ti chiamano, rispondi: “Nossignore;
prima d’alzarmi portatemi il caffè”. Guarda che bisogna fare così con le persone senza carità e
senza cuore. Obbedisci a tuo padre...».
La Madre assiste a tutta la scena penosa senza battere ciglio. Quindi, rivolgendosi alle suore,
commenta: «Poveretto, se giunge ora dalla Francia, avrà bisogno di qualcosa di caldo...». Poi,
interpellando direttamente quell’uomo esagitato: «Se accetta una zuppa ed un bicchiere di vino,
glielo offro di tutto cuore».
Quello, sbalordito da tanta mitezza, finisce per ammansirsi.
Povertà
Quanto a povertà, non è da meno del Palazzolo, che è tutto dire. Appena stabilitasi nella casa, ad
uso convento, di via Foppa, si precipitò a scegliersi la stanza più misera, umida, scarsamente
PAGINA 221:
arieggiata. Ci stavano dentro, a stento, un lettuccio, un tavolino e una cassa.
Impossibile farle accettare un abito nuovo. D’inverno indossava una vecchia mantellina ricavata
da una veste già piuttosto lisa e stinta appartenuta al suo arciprete.
Una volta, durante la visita a una Casa, incocciò una suora che calzava un paio di scarpe
«sfinite» e non esitò a offrire le proprie che erano in uno stato ancora discreto:
– Prendi, prendi... queste ti dureranno per un pezzo – insisteva. Quella, confusa, resistette più che
poté. Ma la Madre si mostrò intrattabile:
– Cavatele, cavatele... non fare tante storie.
E lo scambio fu fatto.
Un’altra volta, ad Ardesio, trovò la Superiora locale che indossava un abito sdrucito.
Immediatamente le propose lo scambio con la propria veste. Quella si schermì:
– È impossibile, Madre... Non vede come è corta la mia?
– Va’ là, va’ là... stai tranquilla che non me la leveranno lo stesso. Non me la scambieranno per
strada. Da’ qui...
– Bella figura le farei fare. Non sono matta! Anche il Superiore mi rimprovererebbe.
139
– E va bene: tu prenderai il rimprovero e io farò la brutta figura, e così guadagneremo tutte e due.
Allorché la Madre fu di ritorno acconciata goffamente in quell’abito impossibile, suscitò uno
scoppio di ilarità generale. E si dovette poi arrivare a proibirle lo «scambio dell’abito» quando
andava in visita alle Case. E lei fu costretta ad accettare quell’imposizione, mal digerita, e si
vendicava scambiando regolarmente crocifissi, mantelline e altre cose che non rientravano nel
divieto.
Pretendeva che nulla andasse perso, si ponesse la massima attenzione a non rompere, non
sciupare alcunché. Esigeva si recuperassero le pezze, i vestiti logori, le scarpe sfondate. Lei stessa
frugava continuamente tra gli stracci, alla ricerca di qualcosa da salvare. Le suore erano autorizzate
a mutare abiti soltanto quando fossero all’evidenza inservibili e indecenti. Raccomandava:
PAGINA 222:
«State nette e pulite, anche in casa. Ma i vestiti rattoppati non vi fanno disonore».
Faticatrice
Sopportava una mole di lavoro impressionante. Non era raro il caso che, prima della sveglia
mattutina, andasse a bussare alla cella di qualche suora:
– Fa’ presto, levati su e vieni con me, che c’è la tal vecchia che sta male e dobbiamo prepararla
alla Comunione.
Racconta una testimone: «Appena vestita, mi consegnava due palmine di fiori artificiali, due
mozziconi di candela e ci si avviava verso via Foppa, via S. Bernardino, via Osio, e su per abbaini.
Quelle povere stamberghe dai pianerottoli di legno tarlato, che scricchiolavano sotto i piedi, con
tacita minaccia, mi mettevano paura, e mi arrestavo. E la Madre, ridendo:
– Muoviti! Ti devi abituare... ci vuol ben altro!».
L’unico suo scrupolo era che il superlavoro non la distogliesse dal pensiero di Dio e
dall’attenzione a Lui nella preghiera.
Ecco uno scampolo della sua saggezza. Si tratta di un metodo infallibile per distinguere
indisposizione da pigrizia mattutina. Diceva, dunque, alle suore, rifacendosi a un consiglio di
S.Teresa: «Quando vi siate vestite, se non vi reggete, ritornate pure a letto. Ma badate di cominciare
la giornata generosamente, offrendo al Signore in sacrificio grato, le primizie, balzando dal letto
prontamente, come se il letto prendesse fuoco».
Le altre virtù
Quanto all’ubbidienza, seguiva docilmente il solco tracciato dal Palazzolo, ma senza rinunciare
alla propria personalità, libertà e indipendenza di giudizio.
Scriveva al Padre: «Per obbedienza starei sulla cima del più alto monte. Di me, reverendissimo
Padre, faccia quel che vuole, mi metta in basso, mi metta in alto, spero con la grazia del mio caro
Gesù di essere sempre contenta...».
140
PAGINA 223:
Dichiarava con tranquilla sicurezza: «Sono cattiva, ma ho vissuto e vivo nell’ubbidienza».
Per quanto riguarda l’umiltà, basterà stralciare alcune espressioni dalle lettere indirizzate a don
Luigi:
«Mi sgridi come una bambina, non si fidi di me, sono priva di virtù, incapace d’ogni piccola
cosa. Come posso dare buon esempio alle compagne?».
E ancora: «Mi faccia la carità, non me ne lasci passare una. Sia più severo che può. La prego: mi
consideri come la più meschina figlia che ha».
Riferisce il Frigeni: «La sua musica prediletta erano le ingiurie che si buscava, particolarmente
nel trattare con gli estranei. Allora stava in silenzio, calma, serena e gioiosa, come un buongustaio
all’audizione di un brano scelto di musica eseguito a regola d’arte».
Quando venne a mancare il lavoro nell’incannatoio della seta e le tempeste più furibonde si
abbattevano sulla Casa, commentava: «I miei peccati... Sono i miei peccati la causa di tutto ciò!».
La perspicacia era una sua dote inconfondibile. Il can. Valsecchi, suo direttore spirituale,
osservava: «Bisognava andare cauti nel contrariarla, perché anche quando sembrava che sbagliasse,
imbroccava nel segno».
È trepidante per le Sorelle che abbandonano il nido materno di Bergamo per emigrare nella
nuova, rischiosa fondazione di Vicenza. Ma sa anche di averle sgrezzate più che a sufficienza. Le
«rifiniture» verranno fatte sul campo di lavoro.
Trascinatrice più che collaboratrice
Restano da chiarire alcuni equivoci. Principalmente quello secondo cui la Gabrieli sarebbe stata
semplicemente la collaboratrice del Palazzolo, colei che lo assecondava nelle sue iniziative, gli
teneva dietro come poteva nelle sue aperture coraggiose e perfino temerarie (secondo alcuni).
Tale ruolo fa torto alla personalità di Teresa Gabrieli, la quale è anche «trascinatrice» e non solo
«esecutrice». Il suo compito non si limita alla copertura delle avanzate altrui. Lei svolge anche
PAGINA 224:
la funzione di stimolo, incoraggiamento, sostegno e, oserei dire, orientamento.
Osserva con acutezza il Frigeni: «Se don Luigi opera con segreto istinto divino ed abbraccia le
opere, accoglie orfani, mosso quasi inconsapevolmente da arcano impulso, come quando comprò la
Casa dei Pomi a Brescia, la Gabrieli pare guidata da una luce che splende chiara nel suo spirito».
Tutto ciò appare evidente nell’anno che possiamo definire «delle fondazioni»: il 1876. E si
manifesta, poco dopo, quando la neonata casa di Brescia sembra destinata al fallimento.. È lei, in
questa circostanza, che scuote il Palazzolo, minacciato da scoraggiamento e tentato di abbandonare
l’impresa: «Non faccia così... Lasci lavorare il Signore».
D’altra parte, la natura e la finalità dell’Istituto non erano state definite con precisione all’inizio.
Tutto era cominciato per «intuizione», rispondendo alle provocazioni di realtà contingenti. Più che
mettere una pietra istituzionale e giuridica alla base dell’edificio, il Palazzolo e la Gabrieli erano
141
inciampati in un sasso collocato in mezzo alla strada, e poi in altri sassi «abbandonati»
(un’orfanella, un povero ragazzo...).
La fisionomia dell’edificio, in definitiva, sarebbe venuta delineandosi a poco a poco, in maniera
imprevedibile. E le regole stesse si sarebbero adeguate allo sviluppo della fondazione. Insomma,
prima la vita e poi la norma. Prima lo spirito, e quindi la forma.
Soprattutto in questa fase, allorché si trattava di captare e poi precisare e attuare l’ispirazione, lo
sguardo penetrante, il discernimento della Gabrieli si riveleranno decisivi.
Ecco allora che pietra d’inciampo dopo pietra d’inciampo, si viene precisando il disegno della
nuova costruzione: Famiglia di poveri per i poveri, che si regge sui pilastri della povertà,
dell’umiltà, del sacrificio, e di una donazione senza riserve.
Ancora il Frigeni: «Famiglia di poveri, come erano, a quel tempo dei Fondatori, le famiglie dei
poveri, quanto al vitto, all’abitazione, al vestito, al letto. Allora non si dormiva su materassi
morbidi, né di crine vegetale. Erano sacconi rimpinzati di cartoc-
PAGINA 225:
ci, distesi su asse, sollevati da cavalletti. E le suore non devono essere da più: avranno il loro bel
saccone.
«Le donne povere non portavano il velo sul capo, allora: e le figlie della Gabrieli, allo stesso
modo delle popolane, avvolgeranno umilmente e modestamente il loro capo nello scialle nero.
Neppure a parlare poi di cuffie, né di taglio di capelli: sapevano troppo di monastico, di grave, di
riverenziale e, anziché ispirare confidenza e avvicinare, chiudevano gli animi, alienavano...
«...E come le donne povere calzano gli zoccoli in casa, così pure faranno le nostre Poverelle».
Lo stile dei poveri
Proprio gli zoccoli, più che la foggia del vestito, diventano il segno distintivo delle Poverelle. In
quella Casa si entra soltanto calzando gli zoccoli. E si rimane unicamente portando gli zoccoli
(insieme alla croce, naturalmente). Su questo punto non si transige.
Circa lo stare da poveri con i poveri, la Madre si mostra irremovibile, anche quando il Palazzolo
sarebbe incline a fare qualche concessione.
«Riguardo all’andare dai signori a fare le notti (ossia le veglie notturne), il mio parere sarebbe di
continuare secondo le nostre prime regole, e non cominciare a fare delle riforme. Stiamo coi poveri,
e allora le Suore conserveranno lo spirito nostro, avranno cara la loro casetta povera e le ragazze
povere. Per di più, abbiamo prove che con queste regole ci benedisse il Signore... Perché dunque
cambiarle?».
Nel 1879 la Gabrieli scrive a don Luigi che sta a Venezia: «Non si avvilisca per il fatto che a
Brescia non avevano zucchero e ne avevano poco pure a Vicenza. Non si perda d’animo. Stiamo da
poveri e non vergogniamoci di comparire da poveri. Questo bisogna raccomandarlo caldamente a
quelle di Vicenza, che mi sembrano un po’ smaniose di fare bella figura. Rimaniamo nel nostro
spirito».
Paradossalmente si può, dunque, affermare che il programma
142
PAGINA 226:
viene stabilito... successivamente, a cose fatte, mantenendo però fermi alcuni punti fondamentali.
La Gabrieli badava alla sostanza, puntava dritto allo scopo, senza lasciarsi distrarre da cose
marginali. Scriveva: «Nella nostra Casa c’è gran poco ordine. Ma non è con i tanti ordini che si può
operare. Col nostro spirito, quando ci sia testa e obbedienza, va bene così».
Quanto alla regola, sia lei che don Luigi costituivano la regola vivente cui adeguarsi. E non era
impresa facile...
Reciprocità
«Mi tenga bassa» implora, rivolgendosi al Palazzolo. E lui pretende che la Gabrieli si santifichi
«alla grande» (è un’espressione tipica di don Luigi).
Da parte sua, la Madre non esita a scuoterlo nelle ricorrenti crisi di malinconia, per impedirgli
«gli avvilimenti». Vuole che «sia allegro» anche in mezzo alle prove e alle tempeste più squassanti.
La Gabrieli è, in un certo senso, l’angelo tutelare del Palazzolo, specialmente nei momenti di
esitazione e di smarrimento, tutt’altro che rari.
Significativo il tono da «madre spirituale» di questa lettera: «Riguardo a quello che mi ha
domandato, mi sono consigliata col Signore e sento di dirle che fino a che non è a Bergamo, non
pensi di digiunare, né al mercoledì, né al venerdì, né al sabato. Pensi a terminare bene la sua cura e
a fare bene le sue cose; tutto per obbedienza».
Per quanto lacerante sia stata per lei la perdita del Palazzolo, registrata nel 1886, tuttavia
intreccia subito ottimi rapporti col successore, don Guglielmo Valsecchi, scelta che va incontro ai
suoi desideri.
Il nuovo Superiore, comunque, accusa ben presto problemi di salute, aggravati forse da paure
eccessive. Rivelatrice questa lettera del luglio 1886: «Il Rev. Superiore è sempre lo stesso coi suoi
occhi. Vedendo che non migliora, si avvilisce, pregiudicando così la propria salute. E, non potendo
occuparsi di niente, resta me-
PAGINA 227:
lanconico. Credimi, fa proprio compassione vederlo in Chiesa, con la corona in mano, come una
persona vecchia, che non può impegnarsi in nulla. Egli non può scrivere; fa qualche passeggiata alla
mattina e poi è là tutto il giorno...
«Spesso gli dico: “Andiamo a trovare quelli di Vicenza”. Sembra si risolva, ma poi comincia a
dire: “E se mi ammalo? Se, quando sono là, mi sento poco bene? Andremo la settimana ventura...”.
Ma allorché è il momento non si decide. È una compassione. Preghiamo... Se non si prega, la grazia
non verrà...».
Commenta il Frigeni: «Le preghiere furono esaudite; il Superiore poté in seguito riaversi, ma non
perfettamente. Alla Gabrieli, all’Istituzione, giovò assai col prestigio dell’autorità, col consiglio
assennato, con la dotta esperienza, nei contatti in alto e in basso, nei molteplici negozi, nelle tante
opere intraprese, nell’apertura di numerose Case, con la predicazione assidua, soda, applicata ai
143
bisogni, piena di unzione, e coll’esempio della vita di pietà. Anche col lavoro, finché poté e dove
seppe. Certo la Gabrieli dovette supplirlo molte volte e molte volte si accorse di non avere più don
Luigi».
In pratica, il grosso del lavoro ricade sulle spalle della Gabrieli.
Infatti, al di là dei problemi di salute, il Valsecchi ha un temperamento un po’ impulsivo ed è
portato qualche volta a prendere decisioni precipitose, per cui Madre Teresa deve muoversi con
molta circospezione e perfino diplomazia.
Per fortuna, l’approvazione canonica dell’Istituto (1886) dà alla Gabrieli una certa sicurezza.
Tuttavia resta fondamentale e insostituibile la sua pedagogia per mantenere lo spirito. I suoi discorsi
appaiono improntati alla chiarezza. Basti citare questa lettera indirizzata alle suore in procinto di
rinnovare i voti:
«Se vi sentite di fare la vera Suora, rinnovateli pure, ma alla condizione di osservarli ed eseguire
scrupolosamente le promesse che fate al Signore, altrimenti è meglio fare la buona secolare che la
cattiva suora.
«Ascoltate: se la vita religiosa ora troppo vi pesa, se vi pesa quella continua rinnegazione della
volontà, quella vita di continuo sacrificio, eseguendo come si deve i santi voti di obbedienza, di
PAGINA 228:
povertà e di castità... e di più quella carità che dovete avere fra voi e col vostro prossimo, se ora non
vi sentite più, in tal caso, invece di rinnovarli, i santi voti, spogliatevi dell’abito religioso e uscite...
Noi non vogliamo Suore forzate, come pure il Signore non vuole sacrifici forzati».
Per non svendere l’eredità
Estremamente esigente in fatto di spirito. Lei non è per nulla disposta a dissipare o svendere la
preziosità ricevuta dal Palazzolo. Al contrario: si sforza di potenziarla e consolidarla.
L’approvazione canonica dell’Istituto (concessa nel 1886, un mese prima della morte di don Luigi)
dà alla Gabrieli una certa sicurezza supplementare.
La sua gioia più grande è quando constata che le figlie hanno imparato la lezione, e si prodigano
con generosità, come nel caso dell’epidemia di colera scoppiata a Vicenza.
La scelta preferenziale dei poveri viene mantenuta con fermezza. Scrive alla Superiora di Schio:
«In quanto a quello che mi hai domandato circa l’andare a fare le notti per una signora, il Rev.mo
Superiore ed io non siamo persuasi, perché la nostra Regola non lo permette; e poi, state coi poveri,
e allora il Signore vi provvederà più che i signori...».
Allorché si tratta di correggere, lo fa con decisione. Scrive alla Superiora di Vicenza: «Quando si
ricevono le tue lettere, non si ha il disturbo di voltare il foglio. In quattro righe hai espresso tutto.
Sembra che tu non abbia bisogno di suggerimenti. Va bene tutto quello che sembra bene a te. Ti
pesa il dipendere? Questo è quello che possiamo conoscere in te».
Pretende dalle suore sincerità, assenza di calcoli, spirito di povertà, stile di vita austero.
Soprattutto insiste perché si realizzi, nelle comunità, una autentica fraternità. Ecco alcune
raccomandazioni di stampo paolino: «Suore, figlie mie, compatitevi, correggetevi, abbiate stima
una dell’altra, non giudicatevi l’una l’altra, amatevi in santa carità, gran carità...».
144
PAGINA 229:
«Con cuore largo vuol essere servito il Signore»: era un suo ritornello abituale. Non voleva uno
stile di santità tetro, cupo, né sopportava gli spiriti chiusi, gli animi esitanti, gli atteggiamenti
calcolatori, le ipocrisie, i formalismi. Aborriva soprattutto i pettegolezzi.
L’ilarità doveva essere il segno distintivo dell’Istituto. Basterà citare alla rinfusa alcune sue
espressioni: «Raccomando alle Suore: vivano secondo lo spirito del nostro Istituto, sempre allegre e
contente». «Questo è lo spirito del nostro Istituto: sempre allegre e contente in quello che il Signore
vuole». «Il mio timore è che svanisca quella bella impronta che ci lasciò il nostro Caro Defunto
Superiore. Egli era come un fanciullo, e io vorrei che questo spirito si conservasse allegro perché
utile».
Ma la Gabrieli sa che la letizia non è qualche cosa di epidermico, ma è legata strettamente
all’umiltà: «Se sarete superbe strapperete anche la Casa». Voleva dire, evidentemente,
«sradicherete».
Scriveva ancora: «A me non danno fastidio le Suore ammalate. Quelle che mi dispiacciono sono
quelle teste superbe e deboli, che non vogliono piegarsi: queste, sì, mi fanno male. Quella maledetta
superbia è una gran cosa...».
«Santità» era il ritornello più ricorrente, eco fedele del canto intonato dal Palazzolo. Ma la
Gabrieli non tollera caricature, si mostra allergica alle artificiosità, così come attesta questa
descrizione piuttosto tagliente: «Testa china, ristretta nelle spalle, una santità incollata. Ci vuol altro
se vogliamo lavorare con le giovinette...». Un vero gioiello di umorismo bergamasco
quell’espressione «santità incollata»...
Equilibrio
Naturalmente era sempre sorretta dal suo inconfondibile senso della misura. Nota il Frigeni:
«Forse da principio l’ardore della penitenza, della mortificazione, del sacrificio, le aveva fatto
oltrepassare un po’ i confini. Gli atti eroici non si possono imporre ad una comunità, non si possono
esigere da tutti. L’esperienza le fe-
PAGINA 230:
ce stabilire la giusta misura. Quanto era sollecita della santità delle suore, altrettanto lo era della
loro salute corporale».
Scrive a una Superiora: «Mi consolo udendo che l’asilo va bene. Ti raccomando, guarda che la
Suora non si affatichi troppo; essendo il primo anno, si accontenti di poco. Spero che nell’asilo non
sarà sola e vi sarà una donna che l’aiuti. Un’altra cosa voglio dirti: mi sembra che ti sia addossata
troppo lavoro. Avete l’Asilo, le ragazze del lavoro; dunque basta. Perché ricevere ancora del
lavoro?... Sta bene inoltre che facciate qualche passeggiata se volete avere salute; altrimenti vi
ammalerete e non sarete più buone né per voi né per gli altri.
145
«Ti raccomando, Madre, abbi cura delle tue Suore, tanto nel cibo, quanto nel non occuparle
troppo. Quando si potrà darti un’altra Suora in aiuto, allora potrai ricevere altro lavoro, ma adesso
no, no, hai capito?...».
E ancora, a un’altra responsabile di comunità: «Non puoi immaginarti come mi siete sempre
presenti, molto più in questi giorni che faceva tanto freddo, specialmente nel vostro dormitorio. Dio
sa che esterminio di freddo dovete patire. Questo mi rincresce molto, non vorrei che vi facesse
male; nel caso, scendete basso...».
Sempre a una Superiora: «Voglio che ti abitui a comperare ciò che ti abbisogna... Non farti
riguardi. Voglio che tutte le mattine beva il tuo caffè, e obbedisci nel tenerti d’acconto. Ricordati
che ti comando di far cuocere due volte la settimana la carne. Tieni d’acconto anche le altre se
devono resistere a far scuola. A me che vi avanzino dei soldi non m’importa. Mi preme che
conserviate la salute. Che si osservi lo spirito di povertà va bene, ma bisogna pure che non lasciate
mancare il necessario, mi hai capito?...».
Questa, come è facile intuire, si chiama saggezza. E anche equilibrio.
Sollecitudine materna
Riferisce una suora: «Una volta fui mandata all’ospedale. La malattia era cagionata soprattutto
da grande debolezza e, siccome
PAGINA 231:
prima di me, altre suore erano state ricoverate, certo per altre malattie, ma tutte in uno stato di
grande sfinimento, il dottore dell’ospedale aveva finito per nutrire una grande antipatia nei confronti
del nostro Istituto, ritenendo che i Superiori non si prendessero abbastanza cura delle suore e le
lasciassero patire indigenza. Questa sua opinione era avvalorata dal fatto che le suore delle
Poverelle, specie a Vicenza, versavano in grandi strettezze, e ciò non era mistero per nessuno.
«Quando la Madre Generale seppe che io ero ammalata, scrisse alla Superiora,
raccomandandomi alle sue cure, e obbligandola a visitarmi di frequente. Venne poi lei stessa, poco
dopo, a Vicenza, per constatare in quale stato mi trovassi. Nel vedermi così deperita, sentì viva
compassione e, dopo avermi consolata, come lei sapeva fare, andò dal medico e con le lacrime agli
occhi gli disse: “Signor dottore, raccomando alla sua bontà la mia figliuola: abbia per lei tutte le
cure, e se per ristabilirla in salute non è sufficiente ciò che l’ospedale somministra, spenda pure di
più, e sarà mio dovere risarcirla di tutto. Siamo poveri, è vero, ma facciamo volentieri qualsiasi
sacrificio pur di vederla guarita”.
«Il dottore, dopo aver preso atto della sollecitudine e dell’amore della Madre, dovette ricredersi e
passò dall’antipatia all’ammirazione».
Quanto all’atteggiamento nei confronti delle orfane e degli orfani, citiamo la testimonianza del
primo biografo: «Erano le pupille dei suoi occhi. Li teneva come il patrimonio spirituale della
famiglia... Ogni volta che veniva portata una nuova bambina, si rallegrava festante con le suore di
casa, bamboleggiando la piccina, proprio come si sorride giocondamente, in una buona casa,
chinandosi su ogni nuova culla...
146
«Ancora oggi si continua lo stesso spettacolo di giocondità. Bisognava, però, come essa si
esprime, che la bambina fosse una delle sue. Intendeva dire che fosse proprio un rifiuto. Senza
madre e padre, o che, pur avendo l’uno o l’altro genitore, fosse una derelitta. Quelle di nessuno,
insomma... Non transigeva su questo punto... Non badava poi che fossero bergamasche, bresciane,
vi-
PAGINA 232:
centine o di altre regioni dove non ci aveva Case. Se ne presero anche di calabresi, e perfino di
straniere».
Assicurava a tutti un’istruzione adeguata, fino alla quinta elementare (cosa che, a quei tempi, era
privilegio di pochi, appartenenti per lo più a famiglie ricche).
In compenso, incassava massicce dosi di ingratitudine.
Notevole anche il suo impegno nella scuola, antica e mai spenta passione. A questo campo
specifico assegnava pure le suore, dopo averle dotate di regolare diploma.
«Io qui mi diverto coi poveri»...
Un giorno aveva scritto al Palazzolo per informarlo: «Uno di quei pagliericci l’ho dato a quella
povera donna sortita dall’ospedale, che dormiva sotto le piante. Ora ci sono arrivata a farla venire
con le altre nella stanza dei poveri. Io qui mi diverto coi poveri...».
Non era un esemplare unico. Quella donna faceva parte della «clientela» abituale che fin dagli
inizi aveva frequentato via Foppa: vecchie, ma anche giovani di vita sgangherata, miserabili senza
casa, individui anziani – uomini e donne – respinti dagli ospedali, rifiutati dai ricoveri, reietti dei
manicomi, allontanati perfino dalle proprie famiglie. Insomma, tutti gli abbandonati e gli esclusi, i
derelitti, trovavano accoglienza nell’opera del Palazzolo e di madre Gabrieli.
Quella che è stata definita «la piccola cittadella della carità» assumerà una struttura organica e
verrà inaugurata il 15 giugno 1898.
Anche questo «Ricovero Invalidi» ricalca lo schema di tutte le altre opere dell’Istituto. Qualcosa
di non programmato, non definito, suscitato dalle circostanze, qualcosa insomma di occasionale, ma
che viene colto come un segno della Provvidenza.
Così la Gabrieli accoglie le prime tre vecchie e dà inizio, quasi senza proporselo, al Ricovero.
Lei stessa fa presente che non ha aperto una Casa. Sono quelli che vi entrano che segnalano che la
Casa è stata aperta!
PAGINA 233:
Come non bastasse, c’è la visita e l’assistenza – anche notturna – agli infermi disseminati nei
tuguri più sordidi, «irraggiungibili».
147
Naturalmente si rende necessario attrezzare le suore con una robusta formazione, sia su un piano
umano che religioso. La Madre, comunque, per questo campo specifico, non avrà motivo di lagnarsi
della generosità delle figlie. Semmai, dovrà preoccuparsi di arginarne l’ardore.
Descrive la situazione, il Frigeni, con una certa enfasi, ma tracciando un quadro sostanzialmente
veritiero: «Le Poverelle salirono le scale più insidiose dei quartieri popolosi e triviali della città; su
per gli abbaini nefandi, penetrarono negli anditi reconditi, dove non è luce di terra, né di cielo;
avvicinarono i letti immondi e le anime ancor più immonde; stettero e resistettero al dileguarsi, al
fuggire di tutti...».
Da parte sua, la Gabrieli racconta: «La tale è morta alle 10,30. Io stetti tutta la notte, perché
intanto che era in agonia la casa era piena di parenti; spirata che fu, vedendo che andava tutta in
miseria, che le scendeva dal capo, tutti se ne andarono. Io mi fermai, la vestii...».
Lei tira avanti con coraggio perché avverte la protezione celeste di don Luigi, che si manifesta
attraverso numerosi segni impercettibili, ma che la Madre riesce a captare con sicurezza. Perfino la
situazione economica della Casa e migliorata notevolmente ed appare più rassicurante. La
Provvidenza, certo. Ma gli gnocchi, non piovono dal cielo...
Quando muore, la Gabrieli non può ignorare la fioritura impressionante di opere che sta davanti
ai suoi occhi. L’orizzonte delle prime fondazioni, basate essenzialmente sugli orfanotrofi, si è
allargato abbracciando asili, scuole elementari, scuole di lavoro, oratori, ricoveri per anziani,
assistenza negli ospedali, cucine economiche28
. Ma lei commenta, con assoluta convinzione: «È
tutta
PAGINA 234:
opera di Dio; è Dio che ha fatto ogni cosa». E alle figlie impone, senza mezzi termini: «Voglio ed
esigo che le Suore non si credano di essere gran cosa se il Signore le adopera a fare un po’ di bene.
Il Signore non ha bisogno di noi. Ringraziamolo della Carità che ci usa nel servirsi di noi, povere
meschine».
Calvario finale
L’ultima tappa è particolarmente dolorosa: «Anche a lei, come a don Luigi, l’asma toglie il
respiro, la stringe alla gola; l’erpete, quasi risipola, le dissolve la pelle, le incide la carne, le
invermina la persona, le avvelena il sangue. Ha le gambe rigonfie, il ventre obeso... Riesce a
muoversi con estrema difficoltà, non può riposare... Non ce la fa più a trattenere il cibo» (L.
Frigeni).
Ma il suo stile non si smentisce neppure in queste circostanze. Un giorno le portano un piattino
di panna. Lei sembra gradire, ma poi respinge quella che le appare come una leccornia: «È cosa
troppo delicata, troppo delicata per me...».
28
Oltre alle Case istituite, quando era ancora vivente il Palazzolo, e insieme con lui, a Torre Boldone, Lallio,
Vicenza S. Chiara e S. Lucia, in Bergamo Alta e a Brescia, aveva aggiunto le Case di Villanova sul Chiese, Palosco,
Fiumicello, Castrezzato, Provaglio d’Iseo, Botticino Sera, Orzivecchi, Capriolo, Cogozzo, Rivoltella sul Garda, Saiano,
Lumezzane S. Sebastiano, Romano Lombardo, Clusone, Bonate Sopra, Roccafranca, Cazzago, Cossirano, Lumezzane
S. Apollonio, Farfengo.
148
È squassata dagli attacchi di asma e il medico ordina di sistemarle una stufa in camera per
renderle meno difficoltoso il respiro. Lei, quando è sola, si trascina fuori dal letto a prezzo di sforzi
sovrumani, butta fuori la legna e spegne i tizzoni ardenti. Poi comanda perentoriamente che nessuno
si azzardi più ad accendere quella stufa.
Si renderebbe necessario un materasso morbido per consentirle un po’ di riposo. Ma lei si mostra
irremovibile. Il saccone su cui è adagiata è fin troppo comodo.
E poi c’è un altro tipo di sofferenza, altrettanto straziante di quella fisica. Ha la sensazione (e più
che una sensazione) che la ritengano non più idonea a reggere l’Istituto. Di fatto, negli ultimi mesi,
dopo l’ictus che l’ha colpita nel settembre 1907 allorché si trovava a Padova, e che si è ripetuto in
forma più grave il 12 di-
PAGINA 235:
cembre, viene praticamente tenuta all’oscuro di tutto e i collegamenti con le suore delle Case
troncati.
In queste condizioni fisiche e morali spesso non può neppure avere il conforto dell’Eucarestia,
perché il suo stomaco ormai non ritiene più nulla, e questa per lei rappresenta la privazione più
insopportabile. Implora a mani giunte: «Datemi la comunione...».
Alla fine sopravviene anche la paralisi totale.
Mons. Castelletti comunicherà così la notizia della morte: «Logorata dalla malattia e più che
tutto dai pensieri, dalle fatiche, dalle penitenze, circa le ore 12 del 6 febbraio, rendeva santamente a
Dio la sua bell’anima Madre Teresa Gabrieli, Superiora delle Suore delle Poverelle». È il 1908.
Aveva 71 anni e aveva governato per 22 anni l’Istituto dopo la morte del Fondatore. Da sempre,
però, aveva guadagnato il diritto di chiamarsi Madre.
PAGINA 237:
HANNO DETTO E SCRITTO DI LORO
PAGINA 239:
COME HAN POTUTO ARRIVARE A TANTO?
Delle Suore Poverelle di Bergamo che hanno perso la vita nello Zaire, uccise dal virus Ebola, si è
scritto e parlato molto... Ma loro cosa dicono di se stesse? O, piuttosto, per essere un po’ meno
presuntuosi, come vorrebbero essere viste e conosciute?
Cerchiamo di arrivare alla verità mediante la finzione. E la finzione sarà di far parlare una di
loro. E perché la verità risulti meglio torchiata dalla finzione, immaginiamo una di queste Suore al
cospetto di Dio, per essere giudicata da Lui.
149
Il giudizio naturalmente è brevissimo. Non occorre che Dio convochi la sua Corte. Non c’è
Camera di Consiglio dove stendere la sentenza. C’è una parola del Vangelo che rimpiazza ogni
giudizio e ogni sentenza: «Chi perde la propria vita per me la ritrova».
Giudizio, dunque, istantaneo, ma non per questo sbrigativo. Infatti, se nella maggior parte dei
casi la domanda che Dio rivolge a chi gli sta davanti per essere giudicato è: «Come hai potuto
arrivare a tanto?», e il giudicando si sentirà sprofondare a quella sola domanda, nella identica forma
è rivolta a questa «Poverella»: «Come hai potuto arrivare a tanto?».
«Del tutto naturalmente – risponde l’interpellata –. Mi è bastato superare quel grosso equivoco,
che laggiù è ancora assai radicato, a proposito del Terzo mondo. Mi perdoni il mio Signore se oso
parlare con molta libertà: ma mi pare che la mentalità dei nostri cristiani a riguardo del Terzo
mondo non sia molto diversa da quella che una volta vigeva a riguardo delle anime del Purgatorio
(che è anch’esso a suo modo un terzo mondo). Quelle anime si potevano sollevare dalla loro pena
con pochissimo sforzo. A volte si sentiva addirittura predicare che bastava una visita in chiesa con
PAGINA 240:
la recita di certe preghiere per liberare un’anima dal Purgatorio. Ma anche fuori di questo caso, era
normalissimo che la recita di una preghiera venisse, se così posso dire, sopravvalutata con una
indulgenza capace di ridurre la pena del Purgatorio fino alla compieta estinzione.
«Adesso queste pratiche non sono più... praticate, e anche pochissimo predicate. Ma la mentalità
che le sosteneva è passata pari pari al rapporto tra il Primo e il Terzo mondo. Il Primo mondo, ivi
compresi i cristiani, che ne formano il nerbo, si sono messi in mente, senza che peraltro nessuno lo
predicasse, che basta pochissimo per portare un enorme aiuto a queste popolazioni...».
A questo punto la Poverella, che aveva parlato sincero e franco, ma con gli occhi bassi come si
conveniva davanti a una tale presenza, osò alzare gli occhi per vedere quale effetto le sue parole
avessero prodotto sulla faccia del Signore, una faccia sensibilissima, variabilissima, cosa che la
suora aveva imparato leggendo (finalmente!) la Bibbia. Quanto più gli uomini di Chiesa insistevano
nel predicare l’immutabilità di Dio, la sua superiorità rispetto ad ogni mutamento, un sereno
immenso sopra la nuvolaglia tempestosa, tanto più la Bibbia insisteva nel presentare autoritratti di
Dio tra loro diversissimi e senza possibilità di discernere quali di essi rappresenti meglio il vero
volto di Dio. Ebbene, la faccia di Dio in quel momento non rimandava altro alla Poverella che una
impressione di grande curiosità di sapere. La suora prese quindi fiducia e continuò:
«A complicare le cose, a portarle all’esasperazione subentra poi la mentalità coloniale. Se non si
sapeva più bene dove fosse il Purgatorio, si sapeva benissimo per contro dove erano i territori
d’oltre mare, la cosiddetta “terza sponda”, dalla quale forse venne la definizione di Terzo mondo.
Mentalità perversa (perversa anche nel senso economico, sottolineò la suora, che aveva fatto i suoi
bravi corsi di aggiornamento) perché significava semplicemente questo: gli aiuti al Terzo mondo
dovevano essere
150
PAGINA 241:
sopravvalutati nella stessa proporzione in cui erano stati sottovalutati i prodotti del Terzo mondo,
quando s’era trattato di pagarli. In questa proporzione perversa i conti tornavano, e come
tornavano».
Ora lo sguardo del Signore sulla Poverella esprimeva anche una attesa, come se dicesse: «Non
hai ancora risposto alla mia domanda “Come sei arrivata a tanto?”». La suora ristette silenziosa. Le
pareva di aver già risposto quando aveva detto «Del tutto naturalmente».
Cosa doveva dire d’altro? Ebbene, sì, una cosa la poteva dire. Lei aveva considerato la gente del
posto, a cui prestava da infermiera le sue cure, uguale a se stessa. Ma la gente era lontanissima da
questa idea.
«Avevo voglia – disse – di protestare che siamo tutti figli di Dio, che Dio non fa preferenze di
persone. Ma l’uguaglianza che io predicavo, essi la prendevano come un regalo che io
graziosamente gli facevo. E non c’era verso di uscire da questo corto circuito. Il fatto è che io stessa
mi sentivo superiore a loro, e non serviva niente il darmi mille volte della stupida per questo
sentimento indegno di me, poverella.
«Davvero, non c’è come essere in Missione per sentire la propria superiorità, e pare non esserci
altra scelta che gestirla nel modo migliore possibile. Ho imparato a leggere così il Vangelo, e ho
capito che proprio questo fu il problema di Gesù, venuto ad abitare in questo mondo».
Dio continuava ad ascoltare con un sorriso lieve a fior di labbra. Lei riprese:
«Poi arrivò Ebola, e lui senza tante distinzioni tra Primo e Terzo mondo, senza consultare
documenti di identità, senza tener conto del colore della pelle, senza chiedere permesso, si installò
in alcune di noi, e tra esse ci fui anch’io.
«Fu l’illuminazione improvvisa, la scoperta: finalmente ero uguale a loro. Il virus aveva creato a
suo modo uguaglianza. La mia vita non fu sopravvalutata rispetto a qualsiasi altra vita. Diventai
finalmente quel che dall’inizio avevo voluto essere: una in-
PAGINA 242:
fermiera poverella. Mi fu perfino risparmiata una morte da santa con le consorelle al capezzale, i
ceri accesi... Forse non m’hanno amministrato nemmeno l’olio santo...29
».
Così dicendo, la Suora guardò al Signore. E sentì che diceva: «Qui non c’è altro olio che quello
dell’esultanza, della gioia».
E la Poverella entrò nella grande Porta (Abramo Levi, Parliamone, 1995).
Dove trovare gli ideali
Di fronte al sacrificio di queste suore provo un sentimento di disagio. Non per non avere imitato
il loro gesto sublime (eroi si nasce e io sono nato soltanto buon diavolo). Ma per tutte le quotidiane
29
Evidentemente don Abramo Levi non poteva essere informato che, in realtà, le sei Poverelle avevano avuto la
grazia dell’Unzione degli infermi. Ma il brano, stupendo, è frutto di fantasia e fitto di paradossi.
151
futilità che mi irritano e mi distraggono. E per tutto ciò che non faccio a favore di chi non
pretenderebbe gesti eroici, ma si accontenterebbe di una briciola del mio altruismo.
Conosco brava gente che porta a spasso gli inabili in carrozzella, che inventa giochi per i ragazzi
down, che dedica un pomeriggio ai vecchietti del ricovero.
Non so se saprò rinunciare a qualche impegno per farlo anch’io. So però che la morte
consapevolmente affrontata dalle suore di Kikwit mi fa vergognare un po’ di più della mia inerzia.
Vorrei che si vergognassero un poco anche tutti quei ragazzi che mi scrivono denunciando
questa società senza ideali. Gli ideali non ce li danno gli altri. Se vogliamo trovarli, stanno dentro di
noi (Luca Goldoni, «TV Sorrisi e Canzoni», 11 giugno 1995).
Quelle che fanno funzionare il mondo
Le donne e gli uomini che, con le motivazioni più disparate, adottano uno stile di vita che
implica responsabilità e gratuità, so-
PAGINA 243:
no moltitudini e fanno funzionare il mondo. Le suore delle Poverelle di Bergamo, ad esempio... Non
amano che si parli di loro. Hanno scelto di vivere mescolate con le donne e gli uomini in condizioni
di bisogno... Hanno scelto, per statuto, di aiutare coloro di cui nessuno sembra volersi fare carico
(Albino Fascendini, consigliere comunale di Bergamo).
Quanto ingrata sei tu, morte...
Esse hanno saputo donare senza niente attendere in cambio. Che Dio accordi loro la sua pace per
questo amore profondo e disinteressato. Esse sono morte volendo salvare la vita degli altri.
Sfortunatamente, esse sono partite nell’aldilà senza essere riuscite a salvare le persone che erano
già infette, contaminate dal virus di Ebola. Quanto ingrata sei tu, morte.
...Quando si parte come queste religiose dopo aver fatto ciò che si doveva fare, ciò avviene senza
rimorsi. Ed è giusto rendere qui un vibrante omaggio a tutti quegli uomini e a quelle donne,
conosciuti o no, che sono venuti per aiutare gli Africani e hanno sempre dato il meglio di loro stessi
al nostro continente. Che Dio renda loro tutto ciò al centuplo e apra loro, dopo questo passaggio
terreno, le porte del Paradiso.
Da parte sua, l’Africa, sempre riconoscente, dice loro semplicemente: Grazie (Honorine Yaoua
Kouman, «Fraternité Matin»).
Quei quattro lumini rossi
Nella cappella le suore avevano messo in piedi, a modo loro, un piccolo «ricordo» delle quattro
sorelle scomparse. Vicino all’altare era acceso il grande cero pasquale. Ai piedi del cero, quattro
lumini rossi e un vaso di piccole rose, rosse anch’esse. Quella piccola scena così discreta, lasciava
uno straordinario struggimento. Tutto quel rosso richiamava, con una allusione drammatica e
discreta, il terribile scontro con Ebola dal quale le quattro sorelle, nel lontano Paese africano, erano
uscite sconfit-
152
PAGINA 244:
te. E il rosso dei quattro lumini era il ricordo del sangue delle emorragie, delle febbri e della morte.
Dall’altra parte, il cero bianco e la sua fiamma, che troneggiava alto, al di sopra dei lumini e del
vaso di rose.
...Il grande cero bianco, grande e vittorioso, mi sembrava che fosse lì a rassicurare che quel
sangue sparso, quello dei quattro lumini messi lì ai suoi piedi, non era sangue sparso inutilmente.
Esiste tanto sangue, in questo tempo, tante immagini di morte e di violenza. Nessuno invece ha
«visto» il sangue delle quattro sorelle morte in un lontano Paese africano. Ma le loro sorelle rimaste
qui hanno sentito il dovere di far «vedere» quel sangue, di ricordarlo. Solo che hanno pensato di
farlo vedere già trasfigurato, cambiato: hanno composto la piccola scena dei lumini rossi, in chiesa,
per ricordare sommessamente il dramma lontano, e li hanno collocati ai piedi di quell’altro lume,
grande, bianco, simbolo del Signore della vita e della morte. Quando il sangue serve a ricordare che
una vita è stata donata, allora non si ha più paura di ricordarlo ma non c’è neppure bisogno di
immagini truculente. Basta un lumino rosso, accanto al grande cero bianco (Alberto Carrara,
«L’Eco di Bergamo», 20 maggio 1995).
Non hanno voluto essere delle eroine
In loro, si ricordano non soltanto quanti – e sono tantissimi – in questi anni hanno perduto la vita
a causa della violenza o delle malattie, ma anche coloro i quali seguitano a rendere testimonianza
della Parola del Vangelo tra i poveri e gli emarginati, della nostra come di altre società. Eppure
queste sei suore non sono mai state, né hanno voluto essere, delle «eroine». Più semplicemente,
anche di fronte al rischio della morte, hanno voluto rimanere fedeli sino all’ultimo alla loro scelta:
la scelta di servire gli altri (Articolo anonimo su «La nostra Domenica», 22 ottobre 1995).
PAGINA 245:
Esistono ancora persone…
C’è un aspetto in questa vicenda che deve scuotere provocatoriamente le coscienze di tutti:
esistono ancora persone che ritengono “normale” dare la propria vita per gli altri» (Gabriele
Filippini, «La voce del Popolo», Brescia, 2 giugno 1995).
Una morte da poveri
Ci sono delle morti in cui il silenzio che è dentro ogni morte sembra già diradarsi: certe morti
serene, piene di speranza, nonostante tutto. Ma ci sono delle morti in cui non si riesce a intravvedere
nulla.
Non sappiamo come suor Annelvira sia morta. Forse per lei il morire non è stata un’esperienza di
silenzio. Ma lo è comunque per coloro che restano e si interrogano...
...In una sua lettera conservata nell’archivio della Casa Madre di Bergamo, il Palazzolo,
rivolgendosi alle sue suore, dice: «Amiamo la santa povertà di Gesù, ma con quell’amore non di
sola ammirazione (questa costa poco), ma con amore di abbracciamento...».
153
Curiosa, bellissima espressione: amare non dal di fuori, ammirando, ma immedesimandosi, come
si fa quando si abbraccia qualcuno.
Dove stia poi la santa povertà di Gesù per il Palazzolo non ci sono dubbi: «Servire a Dio in tutta
la vita, patire, per lui, lavorare per lui, salvare le anime a lui, e poi morire, anche in una stalla,
ignorati dal mondo, e sotterrati senza alcuna pompa».
Non so se potremo vedere immagini dei funerali di suor Annelvira, ma si può essere certi che si
sarà ripetuta la scena: gente con la maschera che trasporta la bara, senza quella forma elementare di
carità che è la «compagnia» del funerale, tutti tenuti a distanza per la paura del contagio.
Che stranezza quell’«amore di abbracciamento»! Parlare di abbracci in una solitudine così nera.
Eppure la fede è il tentativo di guardare oltre e di vedere qual-
PAGINA 246:
cuno dove non si vede nessuno (Alberto Carrara, «L’Eco di Bergamo», 26 maggio 1995).
Più facile vivere o morire?
Suor Floralba Rondi, suor Clarangela Ghilardi, suor Danielangela Sorti, suor Dinarosa Belleri,
suor Annelvira Ossoli, suor Vitarosa Zorza...
Sembrerebbe un bollettino di guerra. Invece è un’appendice delle litanie dei Santi. Sei rose del
martirio colte dal Signore nel giardino delle suore, fondate, nel 1869, da un santo sacerdote
bergamasco...
Della loro morte oggi tutti parlano; della loro vita pochissimi prima se ne sono accorti. Eppure la
spiegazione della loro morte la si può trovare solo nelle pagine della loro vita...
...Ciò che, per tanti, non ha saputo dire la loro vita, lo ha rivelato, in questi giorni, la loro morte...
...Le consorelle di tutte le case, durante la loro brevissima malattia, hanno pregato il loro Beato
Fondatore perché le guarisse. Il Signore ha fatto ancora di più: le ha incoronate! E ha scritto il loro
nome nel libro delle martiri della carità (Giuseppe Rinaldi, «La nostra Domenica», 11 giugno
1995).
Ci interpellano sull’alfabeto dei valori
Quella tragica vicenda ha messo in allerta il mondo intero, ha mostrato il volto ambivalente della
nostra società: da un lato le sue straordinarie possibilità tecnico-scientifiche e dall’altra le sue
contraddizioni. Forse Ebola non è un nome a caso: è cifra-simbolo di questa società che cerca e
alimenta la vita come il piccolo fiume zairese e al tempo stesso custodisce e alimenta il virus che
porta la morte. L’Ebola ha messo paura all’Occidente: ha smascherato la sua presunta sicurezza. Il
tabù della morte per un attimo è rientrato dalla porta dopo essere stato buttato dalla finestra. Forse
c’è qualcosa da ripensare nel nostro rapporto con il nascere e il morire.
154
PAGINA 247:
Le suore martiri di carità a Kikwit e quanti hanno perso la vita in Zaire a causa dell’Ebola sono
per l’Occidente ricco e pieno di grandi opportunità una salutare provocazione. Ci interpellano
sull’alfabeto dei valori che costellano il nostro universo; ci spingono a controllare accuratamente se
la nostra mentalità sia ormai omologata a quella corrente e a verificare se i parametri di
comportamento siano dettati dal calcolo e se a decidere le nostre scelte sia l’indice del listino di
borsa; ci obbligano a tenere sotto osservazione il nostro cuore e la nostra mente perché non si
robotizzino, divenendo incapaci della tenerezza del samaritano...
...Non basta il battito d’ala di qualche emozione per poi cadere pesantemente a terra accettando
l’ineluttabilità degli eventi. Al contrario, si esige fatica, continuità e tenacia di lavoro per e con
l’uomo: una fatica che sarà pesante e insieme leggera perché sostenuta da «Colui che fa nuove tutte
le cose» (Arturo Bellini, «L’Angelo in Famiglia» ).
Sono spuntate nuove stelle
La retorica è in agguato, le parole risuonano ma non penetrano. Con la sola fede, di chi parla e di
chi ascolta, si possono solo sussurrare alcune cose: loro, le Poverelle, ci chiedono di fare così, come
avrebbero fatto loro. Ci provo: «Parenti e sorelle, ascoltate: gli stipiti delle vostre porte si sono tinti
di rosso; è il sangue delle nuove “agnelle” che, in un mondo di guerre, ricordano che è vivo
l’amore! Si spengano, per pietà, le luci artificiali dei palcoscenici del fatuo e dell’effimero; sono
sorte nuove stelle nel cielo di Kikwit. Più belle e fascinose» (Antonio Bellasio, «Alba», 16-23
giugno 1995).
E poi le chiamano «teste fasciate»...
In una città africana di cui ignoravamo perfino l’esistenza e trasformata in lazzaretto da una
nuova peste che irride alla potenza delle nostre armate antibiotiche, ci sono queste «cap’e pezza»
PAGINA 248:
(come sono a volte chiamate le monache). E non ne sapeva niente nessuno. Perché avremmo dovuto
saperlo? Lo scopriamo perché quella città diventa regno di morte e chi può ne fugge; giustificato
dalla logica: «Tanto, contro l’Ebola non c’è niente da fare. Si può solo sperare che se ne vada com’è
venuto». E allora perché rischiare di contribuire, con la propria, ad innalzare il conto delle vite
perse.
Ma queste Poverelle di Bergamo... non sanno ragionare, non hanno logica. Restano lì, perché
non è vero che non c’è niente da fare e per gl’intoccabili infetti che muoiono, un’ultima carezza,
una parola di conforto e il sussurro d’una speranza di mondo migliore altrove, possono essere il
dono più grande a chiusura d’una vita che non ha dato loro niente.
Hanno paura le suore? Spero di sì, perché è umano averla e perché il loro eroismo sarebbe meno
grande senza la coscienza di quel che costa. Ma se ne hanno, non ne mostrano: non fuggono (Pino
Aprile, «Oggi», n.17, 1995).
155
Poverelle senza paura
Il «grido» delle Suore Poverelle ci sta scuotendo, oltre la loro stessa morte.
«Suore delle Poverelle»: così, nella seconda metà del secolo scorso, il beato Luigi Palazzolo ha
voluto che si chiamassero quante erano disposte ad entrare nella congregazione da lui fondata.
«Delle Poverelle», per indicare la radicalità di una scelta specificando il senso della proposta:
appartenere soltanto a quante sono rese povere e senza speranza, condividendone la miseria.
Con il passare del tempo, la forza del loro esempio ha fatto però cadere il «delle»: sono così
diventate, semplicemente, le Poverelle di Bergamo, senza più bisogno di spiegare o distinguere.
Oggi sono più di mille suore, operano nella realtà di emarginazione del nord Italia e sono
presenti in diversi Paesi del Sud del mondo. Non è cambiata, però, la loro attenzione verso gli ultimi
e non è nemmeno venuta meno la loro presenza in scuole, ospedali, dispensari e lebbrosari, dove la
vita umana si presenta debole, malata e calpestata...
PAGINA 249:
...Suor Floralba ha scelto di non «scappare», di continuare il servizio... Ha condiviso fino in
fondo una situazione disperata e il suo gesto, come quello delle consorelle, si carica di un altissimo
significato. È testimonianza di radicamento e fedeltà a realtà consapevolmente scelte e diventate,
ormai, parte integrante della propria vita. È coraggio, dedizione, sacrificio, disponibilità ad essere
«poveri tra i poveri». Ma è anche denuncia, provocazione e «grido», perché alla miseria sempre più
grande di un Sud del mondo, il Nord sappia rispondere con parole e presenze credibili, vere...
...In una terra in cui il Nord spesso si reca per sfruttare o per conquistare, è necessario ed urgente
che qualcuno «gridi» il bisogno di giustizia e il rispetto per la dignità e la cultura che proviene da
quel popolo.
In un momento in cui tutti vorrebbero difendersi da un virus micidiale e dove sono davvero
pochi gli aiuti concreti che arrivano a chi dalla malattia è colpito, è davvero prezioso che qualcuno
«gridi» l’importanza del non abbandonare chi è già schiacciato e reso ulteriormente debole da un
virus, così come da molti altri fattori. Perché in Africa non si muore solo per il virus Ebola, ma
anche per malnutrizione, per dissenteria, per tifo, per tubercolosi, per l’Aids, per l’indifferenza.
È autentico servizio allora che qualcuno «gridi» con la vita che il vero killer dell’umanità è la
miseria generata e favorita da politiche miopi ed egoiste, dalla corruzione che troppo spesso rende
complici banche e multinazionali del Nord del mondo con spregiudicati governanti di Paesi che
proprio per questo continuano a restare «sottosviluppati».
Sono dati che in teoria, ma anche in pratica, erano già in nostro possesso. Spesso però sono
volutamente dimenticati o taciuti nell’ingenuo egoismo che basti allontanare la povertà dal proprio
habitat per risolvere il problema oppure che basti delegare qualcuno – le suore Poverelle di
Bergamo – ad occuparsi di chi è più calpestato, per avere la coscienza a posto. Quanto sta
accadendo ci dice che non basta.
Il loro «grido», la loro testimonianza e l’impegno di tantissimi altri, vanno al di là di ogni
possibile parola. Ci testimoniano, al ca-
156
PAGINA 250:
ro prezzo della vita, che alla tragedia di qualsiasi virus o malattia infettiva non basta la sola risposta
della scienza. Questa resta indispensabile, ma ad essa deve affiancarsi quella fame e sete di giustizia
che da sempre il Vangelo ci ricorda e che queste missionarie ci ripropongono con la semplicità
(profonda) dell’essere operatori di pace e di speranza (Luigi Ciotti, «Avvenire», 25 maggio 1995).
Una parola dal silenzio della morte
Seguendo Cristo crocefisso «ignudo» (secondo l’espressione del Palazzolo), cioè spogliato di
tutto per essere spazio aperto ai disegni del Padre e alle necessità dei fratelli, hanno condiviso la
povertà dei fratelli zairesi fino alla debolezza disarmata di fronte alla morte. Senza strepito, nel
silenzio del servizio quotidiano, hanno rivelato e donato l’amore silenzioso e tenero del Crocefisso.
Hanno dato voce ad una porzione di umanità dimenticata dalla nostra indifferenza e dall’ingordigia
prepotente di chi da molti anni li sta sfruttando.
Dipende da noi non lasciar cadere questa parola che, dal silenzio di una morte accettata per
amore di tanti fratelli emarginati, ci rivela l’amore di «Colui che ci ama sino alla fine» e grida la
domanda sofferta di tanti fratelli (mons. Roberto Amadei, Vescovo di Bergamo).
Le ragioni della speranza
La solidarietà di tanti ci ha aiutato e ci aiuta a intravvedere in questo «Venerdì santo» uno dei
momenti più ricchi e fecondi della nostra Famiglia religiosa: le nostre Sorelle decedute a Kikwit,
dando la vita per amore, hanno offerto a tutti le ragioni della speranza cristiana (Suor Gesuelda
Paltenghi, Superiora Generale delle Suore delle Poverelle).
PAGINA 251:
SE TORNERÀ
PAGINA 253:
PRONTE A SVENTOLARE LA LORO BANDIERA
Richard Preston, a conclusione del suo libro sconvolgente, racconta di essere tornato, un giorno
d’autunno, nella famigerata casa delle scimmie a Reston:
«L’intrico dei rampicanti non mi permise di vedere fin nell’ex zona calda. Era come guardare
attraverso i viluppi di foglie e rami della foresta pluviale. Mi spostai sull’altro lato e trovai una
seconda porta contornata da pezzi di nastro. Premetti il viso contro il vetro, schermandomi gli occhi
con le mani per escludere i riflessi, e vidi un secchio incrostato di qualcosa di marrone. Sembravano
escrementi di scimmia secchi. Qualunque cosa fosse, pensai, era certo stata disinfettata col Clorox.
157
Un ragno aveva tessuto la sua tela tra una parete e il secchio e per terra, sotto la ragnatela, erano
visibili carcasse di mosche e vespe. Si era in autunno e il ragno doveva aver già deposto le uova,
preparandosi così a concludere il suo ciclo riproduttivo. La vita era tornata a imperare nella casa
delle scimmie. Ebola era comparso in quelle stanze, aveva sventolato i suoi stendardi, si era cibato e
quindi si era nuovamente ritirato nella foresta. Tornerà».
Quanto a loro, sono già tornate. Anzi, non sono mai partite.
Hanno ricominciato a tessere la loro delicata tela di misericordia e tenerezza per «avvolgervi» i
poveri e i sofferenti di quel Paese.
La loro casa non è mai rimasta vuota, e la bandiera dell’amore gratuito non è mai stata
ammainata.
Se tornerà il mostro, non c’è dubbio che loro ci saranno. E lo affronteranno, disarmate, avendo in
corpo quell’altro virus contratto leggendo le pagine di un Libro vecchio di duemila anni.
Se, invece, Ebola se ne rimarrà nella foresta, tanto meglio. Alle Poverelle, comunque, non
mancherà il lavoro. Con tutti i mostri
PAGINA 254:
che continuano a devastare i tanti Zaire del mondo, e la disumanità che guadagna territori sempre
più vasti, loro si ostinano a presidiare le innumerevoli «zone calde», continuando a darsi da fare per
«avvolgere» tante, troppe miserie. E magari – compito ancora più difficile – svegliare tanti, troppi
cristiani...
158
PAGINA 255:
INDICE
PRESENTAZIONE 7
AVVERTENZE PRIMA E DOPO L’USO 9
È tutta colpa di un altro virus 11
La salvezza sta nel contagio 13
DOVE 17
Zaire, gigante africano coi piedi di argilla 21
CHE COSA 33
Il virus che esce dalla foresta 35
Ebola a Kikwit 50
In casa delle Poverelle 63
Per una volta la colpa non è dei giornali… 85
Un po’ di gloria anche da quaggiù 91
CHI 93
Suor Floralba, quella che voleva attraversare il mare 95
Suor Clarangela, quella che arrivava fischiettando 103
Suor Danielangela, quella col ciuffo ribelle 110
Suor Dinarosa, quella che pedalava in salita 123
Suor Annelvira, quella che coltivava i punti esclamativi 131
Suor Vitarosa, quella che andava dai «non raggiunti» 141
Ritratto di famiglia 150
I COLPEVOLI 177
Le hanno messe su una cattiva strada 179
Don Luigi Palazzolo, il prete che va a cercare i «rifiuti» 181
Teresa Gabrieli, il diritto di chiamarsi Madre 211
HANNO DETTO E SCRITTO DI LORO 237
Come han potuto arrivare a tanto? 239
SE TORNERÀ… 251
Pronte a sventolare la loro bandiera 253