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1 Alessandro Pronzato UNESAGERAZIONE DI AMORE La vicenda delle sei suore colpite dal virus Ebola Ed. Gribaudi

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Page 1: UN ESAGERAZIONE DI AMORE - Istituto Palazzolo · Quelle sei suore non sono morte di febbre emorragica virale di tipo Ebola. Molto tempo prima erano state infettate dal virus della

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Alessandro Pronzato

UN’ESAGERAZIONE

DI AMORE

La vicenda delle sei suore

colpite dal virus Ebola

Ed. Gribaudi

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Proprietà letteraria riservata

©1997 by Piero Gribaudi Editore srl

20142 Milano – Via C. Baroni, 190

ISBN 88-7152-449-7

Prima edizione: aprile 1997

Seconda edizione: giugno 1997

Terza edizione: novembre 2004

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A tutte quelle

che sono come loro

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PAGINA 7:

PRESENTAZIONE

Ringrazio Alessandro Pronzato per la vivace e affascinante memoria delle sei suore delle

Poverelle di Bergamo vittime del virus Ebola. Nella fretta odierna si dimentica tutto, anche i gesti

che fortunatamente ancora commuovono perché esprimono le ricchezze più profonde del cuore

umano. Ricchezze portate a compimento da Gesù Cristo. E quello delle sei suore Poverelle è stato

uno di questi gesti. Con naturalezza, coraggio e abbandono nel Signore, hanno totalmente condiviso

la povertà dei fratelli loro affidati dall’Amore crocifisso.

Con la semplicità della loro vita e della loro morte ci rammentano che la fede cristiana è lasciarsi

guidare dall’amore di Gesù Cristo nelle scelte quotidiane. E ci dicono che la vera ricchezza

dell’uomo e l’efficacia della testimonianza cristiana sono indissolubilmente legate alla possibilità di

essere immagine dell’uomo perfetto rivelato sulla Croce.

Ottima pure la collocazione della vicenda dolorosa delle suore all’interno della tragedia del

popolo zairese; tragedia drammatica, carica di enormi sofferenze, sepolta nel silenzio dei mezzi di

comunicazione e delle potenze occidentali. Così la vicenda assume contorni più precisi e più

comprensibili. E ricordandola, siamo costretti a richiamare, alla nostra coscienza assopita, il

dramma di un paese dove da troppo tempo sono violati tutti i diritti umani. Le sei umili suore

continueranno così a servire i fratelli zairesi.

Il loro rapido e sobrio schizzo biografico permette di cogliere al vivo la nascita e la crescita di

vocazioni «normali». Storie diverse ma accumunate dalla risposta generosa e gioiosa a un carisma

che propone di seguire senza riserve Cristo ignudo sulla Croce, cioè Cristo totalmente offerto al

Padre e ai fratelli.

PAGINA 8:

Leggendole diciamo grazie allo Spirito che sempre suscita testimoni dell’Amore e preghiamo

perché tanti cuori giovani scoprano dove sta il segreto della vita.

+ Roberto Amadei

Vescovo di Bergamo

Bergamo, 18 febbraio 1997

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PAGINA 9:

AVVERTENZE PRIMA E DOPO L’USO

PAGINA 11:

È TUTTA COLPA DI UN ALTRO VIRUS

Per favore, non andate a cercare quel virus sull’enciclopedia medica. O, se proprio non sapete

resistere alla curiosità, sfogliate pure i trattati scientifici, consultate l’esperto di epidemiologia,

interpellate il virologo che vi capita a tiro, alla scoperta del famigerato Ebola.

Prima, però, dovete sapere che responsabile di tutta questa tragedia è un altro virus, ancora più

micidiale e contagioso dell’Ebola.

Quelle sei suore non sono morte di febbre emorragica virale di tipo Ebola. Molto tempo prima

erano state infettate dal virus della fede, contratto fin dalla nascita. Successivamente erano state

assalite dalla febbre della carità, inoculata nel loro organismo da don Luigi Palazzolo e madre Maria

Teresa Gabrieli.

La terra bergamasca, e in particolare il retroterra familiare, avevano contribuito a creare le

condizioni favorevoli per lo sviluppo della malattia.

La loro persona era il terreno di cultura ideale per l’assalto di altri virus, tutti comunque

appartenenti al ceppo evangelico.

Le sei suore erano sbarcate in Africa coscienti di essere «portatrici sane» del virus trasmesso da

un certo Gesù di Nazaret. Sapevano che la fede, o è contagiosa, oppure diventa vaccino che

immunizza. La loro fede era senza dubbio di tipo contagioso.

La febbre della loro carità, a contatto quotidiano con quel cumulo di miserie assortite, non si è

mai attenuata, anzi si è mantenuta costantemente su picchi elevatissimi.

Il virus Ebola ha potuto colpirle proditoriamente perché si è trovato la strada spalancata dagli

altri virus che avevano preso possesso di organismi ormai privi di difese immunitarie, malati di

amore inguaribile per i poveri.

PAGINA 12:

Per vederci chiaro nella vicenda drammatica e clamorosa di queste sei donne che indossavano

l’abito religioso, non è sufficiente leggicchiare i trattati di medicina nei capitoli dedicati alle

malattie infettive.

Soltanto aprendo il Vangelo, in particolare là dove spiega che esistono due comandamenti che

però ne formano uno solo, c’è la possibilità di capirci qualcosa, di intuire il segreto di queste morti

atroci e gloriose al tempo stesso.

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PAGINA 13:

LA SALVEZZA STA NEL CONTAGIO

Stavolta i giornali sono stati costretti a dedicare un po’ di spazio anche a loro. Sei suore che

muoiono, una dopo l’altra, in poco più di un mese, spazzate via brutalmente da una di quelle

epidemie terrificanti che, per fortuna (si pensa, anche se non si dice), sono ormai una prerogativa

solo dell’Africa, fanno notizia.

I giornali si risvegliano e ci svegliano unicamente se c’è un pizzico di sensazionalismo, se la

vicenda possiede un risvolto inquietante (un missionario assassinato, un volontario caduto in un

agguato, un Vescovo trucidato barbaramente, un gruppo di religiosi sterminati, una suora rapita,

un’intera comunità tenuta in ostaggio...). Diversamente l’esistenza di queste persone viene

pervicacemente ignorata.

I grandi giornali devono occuparsi di grossi avvenimenti e dei personaggi (non importa se spesso

penosi) che dominano sul palcoscenico della politica, e riservano spazi avari per gli umili

protagonisti di una storia sotterranea. Dalle loro pagine vengono esclusi, sistematicamente, coloro

che, silenziosamente, fanno funzionare il mondo, ne assicurano l’equilibrio.

In questa occasione, però, queste sei suore delle Poverelle di Bergamo, occupano per un po’ di

tempo un po’ di spazio, si guadagnano qualche titolo abbastanza in vista.

Loro, sempre decisamente schive, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Erano andate laggiù per

recare la «buona notizia», non certo per fare notizia.

Comunque, gli innumerevoli distratti che popolano il nostro paese scoprono che esistono anche

loro. Che i deserti più ustionati dall’odio, dalla crudeltà, dalla ferocia, dall’ingiustizia, dalla fame,

dall’indifferenza e dagli egoismi più sfrenati, sono attraversati

PAGINA 14:

da queste modeste camminatrici e portatrici di un Vangelo di pace, di fraternità, di compassione.

In una società in cui tutti cercano di affermarsi, imporsi all’attenzione e all’ammirazione,

accumulare applausi, denaro, popolarità e voti, scannarsi a vicenda (magari con parole cariche di

violenza), loro hanno accettato di «perdersi», scomparire, piazzarsi dalla parte degli offesi, dei

piccoli, dei calpestati, dei senza voce, dei perdenti, di coloro che, in ogni caso, escono sempre

sconfitti. Disposte a percorrere fino in fondo una strada di fedeltà nascosta, di oscurità, in nome del

Vangelo annunciato e manifestato, attraverso le loro vite «perdute», ai poveri.

Un’oscurità e un silenzio squarciati soltanto, qualche volta, dal lampo di una fucilata assassina,

dal balenio di una lama proditoria, oppure dal livido bagliore di una morte atroce, che le consegna

alla nostra memoria e ai nostri rimorsi, grazie alla notizia «sparata» dal giornale.

Ma c’è fretta di chiudere, prima ancora che l’ultima bara venga deposta nel grembo di quella

terra rossastra.

Le abituali futilità, gli scandali regolari, il teatro dell’apparenza, le dichiarazioni chiassose dei

noti cialtroni, le rappresentazioni comiche (e tanto più comiche quanto più seriose e perfino

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«filosofiche»), incalzano e chiedono prepotentemente di riavere tutto lo spazio che gli compete,

esigono gli vengano restituiti i grossi titoli.

Pagato un frettoloso e ipocrita omaggio alla «dedizione», all’opera «altamente umanitaria», alla

«nobile missione» di queste povere donne, tutto ritorna come prima.

Il programma interrotto parzialmente, riprende proponendo i soliti riti dell’insignificanza, le

solite sciocchezze innocue, le solite volgarità non certo innocue, i soliti numeri coi soliti personaggi

pittoreschi e coi soliti discorsi stonati, nonostante le musiche che li avvolgono.

La gente esige di essere rassicurata, non disturbata. Ha bisogno di avere davanti agli occhi le

maschere dei pagliacci di turno, e non il volto pulito di donne vere. E poi i primattori di turno han-

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no paura che quelle comparse in abito religioso gli rubino la scena.

E così cala il sipario sul dramma e riprende la commedia. Si riaccendono le luci ammiccanti

destinate ai divi che si affacciano alla ribalta a riscuotere la dose di applausi senza i quali non

riuscirebbero a vivere. Il nome e la foto sui giornali, oltre che le «apparizioni» fisse sul teleschermo,

sono il loro certificato di... esistenza.

Di guai ne abbiamo già a sufficienza, e non è proprio il caso di aggiungerne altri. Rimangano

confinati là dove sono, in quel continente selvaggio, a distanza di sicurezza da noi.

Dopo la morte delle prime due suore, uno dei quotidiani più diffusi in Italia1 sentiva il dovere di

rassicurare i propri lettori. Così: «Per una volta, tenete al morso l’immaginazione. Non lasciatevi

travolgere dalla sindrome di Ebola. E casomai, se siete tipi impressionabili, aspettate per andare a

vedere Virus letale2. Dalle nostre parti, infatti, le possibilità di un contagio – dicono gli studiosi –

sono talmente esigue da essere pressoché inesistenti. Quindi, niente panico. Anche se poi, in

biologia, “non bisogna mai dire mai”». E, a supporto di queste righe con effetto «tranquillante»,

veniva riportato il parere di un illustre professore esperto di virologia, il quale avvertiva che «si

possono considerare soggetti a rischio soprattutto gli operatori sanitari addetti all’assistenza dei

soggetti infetti». Quindi la cosa non ci riguarda.

Invece, no. Sarà il caso di risparmiarci i tranquillanti. È opportuno lasciarci almeno sfiorare, se

non proprio travolgere, dalla sindrome di Ebola. Senza neppure bisogno di leggere le pagine

sconvolgenti di Area di contagio o vedere le sequenze agghiaccianti di Virus letale.

Sarà sufficiente non perdere di vista le immagini di quelle sei

1 «La Repubblica», 10 maggio 1995.

2 Si tratta di un film, comparso sugli schermi italiani nel 1995 e ispirato al libro di R. Preston Area di contagio con

Dustin Hoffman nelle vesti di uno scienziato che combatte contro un virus chiamato Motoba che ha infettato una città

degli Stati Uniti, e per combattere il quale l’esercito consiglia al Presidente di impiegare la bomba all’idrogeno

distruggendo tutta la zona infetta.

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suore che sono rimaste semplicemente al loro posto, e non hanno mai pensato alla fuga di fronte

all’incalzare inesorabile del nemico feroce.

Abbiamo bisogno di essere contagiati dal loro virus. Per risvegliarci dal torpido sonno

dell’indifferenza. E tentare di essere più umani. E cominciare a diventare un po’ più cristiani.

PAGINA 17:

DOVE

PAGINA 19:

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PAGINA 21:

ZAIRE, GIGANTE AFRICANO

COI PIEDI DI ARGILLA

Qualche cifra per capire

Collocato nel cuore dell’Africa, lo Zaire (ex Congo-Léopoldville o Congo Belga) ha una

superficie di 2.345.409 chilometri quadrati. Le sue frontiere, che si sviluppano per una lunghezza di

ben 9.000 chilometri, lo separano da nove paesi confinanti (Repubblica Centroafricana, Sudan,

Uganda, Rwanda, Burundi, Tanzania, Zambia, Angola, Congo).

Il suo territorio è grande oltre quattro volte la Francia, quasi otto volte l’Italia, ottanta volte il

Belgio che lo aveva colonizzato, ma scarsamente abitato: quarantadue persone per chilometro

quadrato. Dato ancora più sconcertante: solo 23.000 kmq. sono coltivati, e rappresentano il tre per

cento del territorio disponibile. È caratterizzato da un clima umido e malsano, con una immensa

foresta vergine.

Attualmente la popolazione sfiora i quarantaquattro milioni, e risulta triplicata in meno di

quarant’anni, con un incremento demografico del tre per cento. Si calcola che nel 2000 gli zairesi

saranno più di cinquantuno milioni.

Zaire è anche il nome del suo fiume principale (denominazione precedente: Congo).

La capitale è Kinshasa (che i belgi chiamavano Léopoldville), e che ora, sbrigativamente, viene

chiamata «Kin», con oltre quattro milioni di abitanti. Si dice anche «Kin-la joie», per indicare uno

stile di vita non propriamente monastico. Riferisce Enzo Biagi3: «I congolesi amano spassarsela

(quelli che possono permetterselo, naturalmente, N.d.R.). All’imbrunire si accendono le luci dei

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quattromila bar del sordido quartiere di Matonge, suonano ottocento orchestre, un’esplosione di

trombe e di tamburi. “Kin” diventa la città più festosa del continente... Battono i tamburi, tintinnano

gli anelli d’avorio o di argento che adornano i polsi delle ragazze». Resta da precisare, però, che per

la maggior parte della popolazione, specialmente all’interno dell’immenso paese, il problema

principale non è tanto quello di «spassarsela», quanto di sopravvivere con il piatto di manioca

garantito dal padre-padrone, ossia Mobutu, ossia «le grand léopard», ossia «l’indistruttibile

dinosauro».

Gigante, dunque, ma coi piedi fragili, di argilla. O, addirittura, gigante dalle gambe che non

riescono a reggerlo. Fuori di metafora: la situazione politica ed economica è semplicemente

disastrosa. Quella sanitaria, poi, risulta paurosa.

Da un punto di vista ecclesiale, si contano 47 diocesi con 53 vescovi tutti indigeni. I sacerdoti

locali sono 1.200, i missionari circa 2.000, le religiose 4.700.

3 «L’Espresso», 5 dicembre 1996.

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Un po’ di storia per capire

Il Congo Belga è stato fondato da re Leopoldo II, con l’apporto dell’esploratore Stanley. La

conferenza di Berlino nel 1885 sancisce la fondazione dello stato indipendente del Congo sotto la

sovranità personale di Leopoldo II. Nel 1908 diventa provincia belga.

Nel 1958 viene fondato il MNC (Movimento Nazionale Congolese), che si colloca al di sopra

delle etnie; è composto da personalità di spicco quali Lumumba, Adula, Ngalula, Makoso, e si

prefigge quale traguardo l’indipendenza per il Congo eliminando il regime colonialista (già

condannato dalla Carta dell’ONU nel 1947).

Nel gennaio 1959 si registrano agitazioni a Léopoldville, cui segue una sanguinosa repressione.

Il 30 giugno 1960 viene proclamata l’indipendenza del Congo. Lumumba diventa Primo

Ministro e Kasa-vubu Presidente. Nello stesso anno 1960 si determina la secessione del Katanga

(regione

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dove ci sono quasi tutte le miniere di minerali e metalli preziosi) e del Sud-Kasai.

Nel 1961 Lumumba viene assassinato e si forma il governo di Unità Nazionale di Adula. Nel

1963 si conclude l’avventura della secessione del Katanga.

Nel 1964 c’è la parentesi del governo Ciombe, con l’intervento belga-statunitense a Stanleyville.

Il 24 novembre 1965 Mobutu prende il potere. Non lo mollerà più. Due anni dopo viene fondato

il MPR (Movimento Popolare della Rivoluzione).

Dal 1971 si martella ossessivamente il tasto del ritorno alla tradizione e scocca la parola magica:

«Autenticità». Il Congo ormai si chiama Zaire. Inizia, quindi, il processo di «zairizzazione».

Impossibile registrare i numerosi focolai di guerra che si accendono periodicamente nel paese (in

particolare nello Shaba, ex Katanga), soffocati regolarmente e spietatamente da interventi

dall’esterno.

Il 24 aprile 1990 nasce la Terza Repubblica. Ma nulla cambia perché tutto continua a reggersi sui

piedi di argilla del gigante e sul pugno di ferro di Mobutu Sese Seko. Ed è di lui ancora che

dobbiamo parlare.

Un conto corrente bancario gira con in testa una pelle di leopardo

Lo riconosciamo anche in Europa a motivo soprattutto di quel bizzarro copricapo di pelle di

leopardo. I grossi occhiali, una certa aria tra l’ironico e lo sprezzante. E, recentemente, a causa del

male che l’ha aggredito, il volto leggermente tumefatto.

Il suo stile di vita è ancora più bizzarro del copricapo, e appare spregiudicato, perfino insultante.

A Kinshasa ci va sempre più raramente. Preferisce risiedere a Gbadolite, il suo villaggio natale

del nord, dove lui, prima di essere fatto generale e poi maresciallo, si chiamava semplicemente

Joseph Désiré. Qui si è fatto costruire una specie di favolosa «Versailles della giungla», con marmi

di Carrara, rubinetti placcati oro, fontane pretenziose e leopardi in abbondanza. E, natural-

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mente, con la protezione dei pretoriani di fiducia, appartenenti al nucleo di truppe scelte, addestrate

dagli israeliani, le uniche a ricevere regolare stipendio, puntualmente, alla fine del mese.

Intrigante, spregiudicato, ancora giovane ufficiale era riuscito ad aizzare un politico contro

l’altro, mettere il Presidente contro il Primo Ministro, creare la confusione e la paralisi, in modo da

potersi poi presentare come l’uomo della Provvidenza.

Recentemente il presidente Mobutu si è recato in Svizzera per farsi operare alla prostata

rimorchiandosi dietro, oltre alla moglie Bobi Ladawa – sposata in gran fretta prima della visita del

Papa – un codazzo di cinquanta persone, tutte alloggiate in un lussuosissimo albergo di Losanna,

alla modica spesa di decine di milioni al giorno.

Allorché le autorità elvetiche – che qualche volta hanno dei soprassalti di pudore – non gli hanno

rinnovato il visto, è stato costretto a «rifugiarsi» nella sua «Villa del mare» a Roquebrune-Cap

Martin, in Costa Azzurra. Obbligato a interrompere la sua splendida convalescenza, per far fronte

alla secessione delle regioni orientali del Kivu, caduto in mani tutse, e per soffocare l’ennesima

rivolta nello Shaba e nel Kasai, è ripartito da Nizza con una flottiglia composta da tre executive e

due charter DC-8. I cinque aerei si erano resi indispensabili perché le cinquanta persone del seguito

avevano fatto razzia di televisori, lavatrici ed elettrodomestici vari, rastrellati a Nizza, Cannes e

Mentone.

All’ultimo momento – come riferisce il quotidiano «Le Parisien» – era arrivato sulla pista «un

enorme autocarro carico di regali».

Al suo sbarco a Kinshasa, il dittatore, sessantaseienne, le cui condizioni di salute vengono a

stento mascherate dal sorriso sempre più smorto, sarebbe stato accolto da una folla entusiasta di

trentamila zairesi. Così almeno riferiscono le cronache ufficiali.

Una cassaforte a cielo aperto

Attualmente l’aria in Zaire è tornata a farsi pesante: ribellioni in serie, studenti in agitazione,

folla inferocita, voglia di spaccare tutto, clima non troppo favorevole nei confronti dei bianchi.

PAGINA 25:

A Kinshasa si avverte il fiato umido e appestato di violenza che viene dal fitto della foresta. In

molti quartieri della capitale domina già la legge della giungla. Nella città dove pure sfrecciano

pretenziose Mercedes e lucide Jaguar, c’è anche gente che avvicina venditori ambulanti per

acquistare una sola sigaretta estratta dal pacchetto aperto. Due mondi agli antipodi qui coabitano da

sempre: stracci e un numero incredibile di telefonini. L’equilibrio si fa sempre più precario.

In tutto il paese il reddito pro capite è di centocinquanta dollari (poco più di

duecentocinquantamila lire) l’anno4.

4 Nel 1974 Mobutu non esitò a sborsare diverse centinaia di migliaia di dollari per finanziare l’incontro

«leggendario» di pugilato tra Cassius Clay (Muhammad Alì) e George Foreman. L’incontro si svolse il 30 ottobre in

uno stadio gremito di centomila persone. Nei sotterranei stavano i prigionieri politici. Pochi giorni prima del match,

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Manca un’autorità credibile, e il vuoto è colmato da potentati tribali, mentre si scatenano

insaziabili appetiti.

Eppure lo Zaire assomiglia, secondo un’immagine assai indovinata, ad una immensa cassaforte a

cielo aperto da cui traboccano cobalto, rame, stagno, oro, diamanti, uranio, petrolio, gas, legno

pregiato, caucciù e una quantità tale di energia elettrica da illuminare l’Europa intera (lo Zaire è il

secondo bacino idrografico del mondo). A ciò si devono aggiungere le ricchezze derivanti

dall’agricoltura: caffè, riso, ortaggi.

Ecco il quadro abbozzato nel 1987 da suor Danielangela, la più acuta e coraggiosa, tra le

Poverelle, nel descrivere la situazione del suo paese di adozione: «...A parte il settore minerario, la

struttura industriale dello Zaire, nonostante le eccezionali riserve di energia idroelettrica, è molto

povera. L’agricoltura è ancora arretrata, limitate piantagioni di palma da olio e di caffè sono

controllate per lo più dal capitale europeo. Prevale un’agricoltura di sussistenza appena in grado di

assicurare l’autosufficienza alimentare delle migliaia di piccoli villaggi in cui vive il 75 per cento

della popolazione. Anche lo sfruttamento della foresta, ricca di legnami pre-

PAGINA 26:

giati, viene ostacolato dalla mancanza di vie di comunicazione. Questo spiega perché un paese così

ricco abbia un reddito pro capite tra i più bassi del mondo».

«Il 40 per cento dei bambini è denutrito e la speranza di vita della donna ha un arco di 46 anni».

Cinque anni dopo la stessa suor Danielangela constatava: «...Lo Zaire continua a naufragare. La

dittatura non è ancora sepolta, anzi diventa sempre più aggressiva».

Le altre piaghe

Ed ecco il punto di vista di un missionario, padre Lino Salvi, comboniano, che ha trascorso

parecchi anni in Zaire: «Tutti stanno parlando dell’igiene, della prevenzione, della protezione,

intanto, però, sono tre anni che gli infermieri non sono pagati, le strutture ospedaliere non ricevono

aiuti...

«Nella maggior parte delle famiglie si mangia solo una volta ogni due giorni. Anche qui si è in

presenza di una esplosiva e incontrollabile mortalità dovuta a malnutrizione. In queste condizioni di

povertà endemica estrema, il propagarsi di alcune malattie è naturalmente più facile che altrove...

«...Tocca poi ai genitori provvedere alla retribuzione dei maestri, perché lo Stato non paga più e

quindi le scuole devono in pratica autogestirsi. Nel 1994 siamo già partiti con tre mesi di ritardo, a

fine novembre anziché in settembre. I genitori possono dare qualcosa, dieci o venti chili di riso.

Pochi riescono a pagare fino in fondo». Come a dire che, mentre l’anno scolastico si accorcia

sempre più, la fame si allunga in maniera paurosa.

Prosegue padre Salvi: «Nel 1993 l’inflazione è stata del quattrocentocinquantamila per cento.

Nel novembre di quell’anno un pezzo di sapone costava quattro milioni di “zaire”, che è la moneta

locale. La riforma fatta dal presidente Mobutu si è limitata a togliere sei zeri creando così lo “zaire”

Mobutu ne fece uccidere un centinaio per scoraggiare eventuali colpi di stato che avrebbero «offuscato» agli occhi del

mondo l’immagine del suo paese «libero».

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pesante, ma evidentemente non ha risolto nulla. All’inizio del 1994 un dollaro valeva tre nuovi

“zaire”; oggi occorrono circa tremila “zaire” per acquistare un dollaro. I salari ufficiali sono irrisori.

Un maestro o un infer-

PAGINA 27:

miere, con la loro paga mensile, non riescono nemmeno a comprarsi una camicia o un paio di

sandali. La gente riesce a sopravvivere coltivando i propri campi o ricorrendo a piccoli espedienti»5.

Una situazione esplosiva

Il quadro tracciato dalla suora e dal missionario viene confermato dall’analisi spietata che ne ha

fatto recentemente uno sperimentato osservatore italiano6: «Kinshasa oggi è la capitale di un Paese

che non esiste più... Kinshasa è già un inferno... Le case e le strade si portano addosso

quell’apparenza di slabbrato, di definitivamente provvisorio, che hanno tutte le città che son venute

su lungo la frontiera dell’immensa distesa verde. E nella città è la legge della giungla che alla fine

decide chi vive e chi muore, tra i suoi 4 milioni di abitanti...

«Lo Zaire potrebbe essere il Paese più benestante dell’Africa. Solo che se lo sono rubato, prima i

belgi, e poi i suoi padroni neri. Un ministro francese ama dire che “Mobutu è il più grosso conto in

banca che vada in giro con un berretto di leopardo sulla testa”. E in una conversazione privata,

un’altissima autorità, ma veramente altissima, si è lasciata scappare una frase che la dice lunga sugli

appetiti endogeni nello Zaire: “Se i ministri si contentassero di soltanto il dieci o il quindici per

cento dei quattrini che passano per i loro dicasteri, questo Paese andrebbe a posto in un paio

d’anni”.

«Gli appetiti endogeni sono mostruosi, Rabelais non avrebbe potuto raccontarli meglio. La

voracità è senza limiti dovunque, dalla Nomenklatura di regime fino all’ultimo, al più misero

zairese che possa arraffare anche soltanto l’ombra di un cent. Lo Zaire ha perduto la guerra con i

ruandesi semplicemente perché sono spariti i dollari destinati all’acquisto delle armi, e per pagarsi

da mangiare ufficiali e soldati poi si sono anch’essi venduti le loro armi.

PAGINA 28:

«Qui sono mesi, anni, che militari e funzionari pubblici non ricevono salari dal governo: e allora

chi può si arrangia. Dentro la protezione della divisa o di una scrivania, si chiedono soldi a

chiunque...

«...Non è un problema di tangente, o di corruzione, per come possiamo intenderlo noi, in Europa.

È piuttosto l’esercizio di un diritto di pedaggio che trova le radici nell’antica cultura delle libere

tribù della foresta, e che qui è diventata ora l’appropriazione degli spazi che l’assenza di uno Stato

ha lasciato alla scorreria di questi micropoteri sostitutivi. Nella contraddizione drammatica delle

5 Intervista a cura di Giuseppe Zois, in «L’Eco di Bergamo», 5 giugno 1995.

6 Mimmo Candito, in «La Stampa», 17 dicembre 1996.

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ricchezze esibite poi senza ritegno, questa memoria antica trova una più diretta forza di

realizzazione. E i due mondi marciano paralleli...

«...A un regime autocratico che si va spegnendo dentro una malattia mortale, a uno Stato che non

esiste più, perduto ormai nei frammenti delle 365 tribù che tengono in mano i pezzi di questo

immenso territorio, oggi dal Nord del mondo si guarda con nuova attenzione. Qui ancora i belgi

controllano un buon 70 per cento dell’economia, ma sono in affanno già da tempo e sul collo ora gli

fiatano pesantemente gli americani, i sudafricani, i francesi, i tedeschi, gli italiani. Sbranato dai

morsi rabbiosi di tutti questi pretendenti, assalito con cupidigia per il suo immenso potenziale, lo

Zaire pare riprecipitare nella storia antica della colonizzazione, quando qui c’erano soltanto quattro

laureati e duecentocinquantotto studenti.

«...La fine di un potere si consuma oggi nelle prime ombre di un caos che potrebbe esplodere

presto, ben al di là della guerra perduta nel Kivu in questi giorni...».

Già nel dicembre del 1990 suor Danielangela scriveva: «...Nello Zaire la situazione sta

diventando sempre più drammatica. In un mese la moneta locale (lo zaire) ha subito una

svalutazione del duecento per cento e non si arresta. I salari restano quasi invariati. La gente è

esasperata ed è disposta a tutto. I giornali finalmente cominciano ad esprimersi chiaramente. Il

governo di transizione sembra non esistere.

«Durante una manifestazione i militari hanno sparato sulla fol-

PAGINA 29:

la: ci sono stati parecchi morti, molti feriti e tanti imprigionati. Anche se Mobutu, il grande

dittatore, verrà cambiato, la situazione resterà sempre molto grave.

«La gente pensa che noi europei siamo responsabili di questo malessere, perché tanti

commercianti sono europei e tengono i prezzi molto alti... A Kinshasa sembra di essere in guerra;

infatti bruciano macchine, autobus, negozi, e lanciano pietre a buon mercato. Questo è il quadro del

nostro Natale...».

Qualcuno parte sprovvisto di «appetiti»

C’è stato qualcuno, però, che si è mosso dall’Italia, non attirato dalla ricchezza a cielo aperto

dello Zaire, bensì dalla sua miseria, sterminata ancor più della foresta. C’è andato e continua ad

andarci non per arraffare, ma per donare. Non per sfruttare, ma per servire. Non per colonizzare, ma

per portare il Vangelo della misericordia.

La scintilla della decisione di aprire l’Istituto fondato dal Palazzolo agli orizzonti dell’Africa è

scoccata in seguito a un incontro fortuito, avvenuto a Roma, nel 1950, in occasione della

beatificazione di Maria Goretti, tra la Superiora Generale di allora, madre Fiorina Freti, e il gesuita

padre Greggio, missionario in Congo Belga. Il campo individuato era quello del Vicariato del

Kwango.

Il progetto sarà attuato due anni dopo. Questi i nomi delle prime cinque religiose delle Poverelle

che hanno ricevuto il Crocifisso dalle mani del vescovo di Bergamo, mons. Adriano Bernareggi:

suor Gerosa Vanoncini, di Bergamo; suor Forziana Gasparini, di Vicenza; suor Floralba Rondi, di

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Pedrengo; suor Rosalia Castellani, di Livigno (Sondrio); suor Espedita Valle di Peraga di Vigonza

(Padova).

Hanno lasciato Casa Madre il Mercoledì Santo 1952, hanno raggiunto Milano, e quindi Bruxelles

ed Anversa. Il 15 aprile si sono imbarcate a bordo dell’Armand Grisar. Il 29 aprile hanno

cominciato a risalire il fiume Congo, per arrivare a Kikwit, nel territorio del Bandundu, il 5 maggio.

PAGINA 30:

Ecco alcuni stralci delle lettere inviate dalla superiora suor Espedita:

«Siamo arrivate finalmente alla nostra nuova dimora, dove proviamo una prima delusione.

Pensavamo e speravamo di trovare per abitazione una capanna di paglia e terra battuta e ci troviamo

invece dinanzi ad una graziosa casetta con orto e con un bel giardinetto» (5 maggio 1952).

«Oggi, finalmente, abbiamo visitato l’ospedale e la clinica. Sì, amici, abbiamo anche la clinica

per i fratelli bianchi, casta privilegiata. Eppure siamo tutti fratelli, tutti figli dello stesso Padre e tutti

redenti da Gesù, bianchi e neri. La clinica è abbastanza bella, ma l’ospedale fa pietà.

«Quale stretta al cuore abbiamo provato alla vista di quei poveri ammalati, magri, sparuti, quasi

tutti in condizioni veramente miserabili; giacciono su letti senza materassi e senza lenzuola; altri

stanno adagiati su povere stuoie di fabbricazione locale. Novanta ammalati, un solo medico,

tuttofare, nessun specialista.

«Tre stamberghe in muratura: ecco il nostro ospedale. Una piccola sala operatoria, un misero

ufficio amministrativo che sarà affidato a me, nessun lavabo, niente acqua potabile, solo acqua che

viene trasportata con fusti e attinta dal fiume Kwilu.

«Quale desolazione! Signore, aiutaci, ora siamo nella prova più dura e impegnativa; ci

abbandoniamo a Te e Ti offriamo anima, corpo, volontà, salute e forza per questi tuoi cari figli.

Donaci la forza di continuare il cammino passo per passo dietro a Te, sempre. Che nessuna di noi,

dopo aver messo mano all’aratro, volga indietro lo sguardo!» (7 maggio 1952).

E successivamente: «Ora siamo qui in questo vastissimo campo di ospedale e noi vi ci butteremo

anima e corpo in una totale dedizione» (20 giugno 1952).

La commovente determinazione iniziale non è più venuta meno. Nessuna Poverella ha mai

pensato alla cassaforte a cielo aperto dello Zaire. Troppo occupata a chinarsi sulla miseria di quella

gente.

Resta da precisare, come ha fatto il vescovo di Bergamo mons. Amadei, che la dimensione

missionaria non è qualcosa di aggiun-

PAGINA 31:

to alla vocazione specifica delle Poverelle. Essa è già presente, almeno allo stato potenziale, nello

spirito del beato don Luigi Maria Palazzolo. È una naturale conseguenza del suo carisma, del suo

impegno a dedicarsi ai «rifiuti». Si trattava, infatti, di arrivare anche ai dimenticati, agli ultimi, della

Terra.

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Attualmente le comunità delle Poverelle in quel Paese sono 10, con 27 suore italiane e 36 zairesi.

Oltre che a Kikwit, si trovano a Mosango, Tumikia e Lusanga. A Kinshasa ci sono quattro Case

(Kingasani, Kikimi e Limete e Mont Ngafula).

Le Poverelle sono presenti anche in Costa d’Avorio (5 comunità con religiose italiane e zairesi,

mentre alcune suore ivoriane si trovano attualmente in Zaire per la formazione), e in Malawi (3

comunità con suore italiane, malawiane e zairesi).

L’orizzonte missionario delle figlie del Palazzolo si è esteso anche al Brasile, dove sono

impiantate 3 comunità con suore italiane e brasiliane.

Da segnalare il particolare che tutte le comunità missionarie risultano miste: segno concreto di

«inculturazione del carisma», oltre che segno della fraternità più autentica.

Qualcuno continui pure a viaggiare con in testa una bustina di pelle di leopardo, rastrellando

camionate di regali e paccate di dollari. Delle donne «Poverelle» continuano a partire senza

domandarsi che cosa c’è da guadagnare laggiù, ma disposte unicamente a perdere e a donare.

PAGINA 33:

CHE COSA

PAGINA 35:

IL VIRUS CHE ESCE DALLA FORESTA

Ebola: chi era costui?

A costo di sembrare banali, possiamo cominciare parafrasando la celebre domanda di don

Abbondio: Ebola, chi era costui?

In realtà, «costui» è un fiume. Esiste, infatti, tra gli addetti ai lavori, la consuetudine di assegnare

un nome ai virus in rapporto alla località in cui sono stati individuati la prima volta.

Nel nostro caso, Ebola è un fiume dello Zaire, affluente del Congo. E pare sia proprio in un certo

tratto di quel corso d’acqua, che scorre cento chilometri a sud del confine con la Repubblica

Centroafricana, e a più di mille chilometri a nord di Kikwit, in un territorio denominato Bumba

Zone (provincia del Bongo), che il virus è uscito allo scoperto nel settembre 1976, dopo essere

rimasto acquattato per chissà quanto tempo nel cuore della giungla.

Ma andiamo con ordine, familiarizzandoci almeno un po’ con la terminologia scientifica.

Virus, prima di tutto. Dicono i dizionari medici: «Agente patogeno più piccolo di un batterio,

costituito da un guscio proteico (capside) e un nucleo di DNA o RNA. Le due strutture riunite

formano il nucleocapside. Un virus ha la possibilità di moltiplicarsi solo all’interno di una cellula

viva».

Filovirus: «si tratta di virus che presentano un’affinità tra di loro. Questa famiglia di virus

comprende solo Ebola (nelle sue tre varietà) e Marburg».

Ospite: «l’organismo in cui un parassita, ad esempio un virus, si insedia e di cui spesso si nutre».

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Ebola: «si pronuncia Ee-boh-la. Si tratta di un virus tropicale, estremamente letale, le cui origini

permangono sconosciute».

PAGINA 36:

Ne sono note tre varietà: Ebola Zaire, Ebola Sudan ed Ebola Reston (dal nome della città degli

Stati Uniti dove è stato individuato, nel 1989, in un laboratorio popolato da scimmie per

esperimenti). La varietà Reston pare non uccida gli esseri umani, tuttavia la sua pericolosità rimane

altissima, data la sua probabile capacità di viaggiare nell’aria. Reston è di origine asiatica

(Filippine), ma non si esclude abbia raggiunto quelle isole a bordo di un aereo partito dall’Africa.

Strettamente imparentato con Ebola è il virus Marburg, dal nome di un’antica città della

Germania settentrionale, dove il virus ha fatto la sua comparsa nel 1967, nello stabilimento della

Behring Works, una ditta produttrice di vaccini, che importava a questo scopo scimmie dall’Africa

Centrale. Il virus sarebbe arrivato in Germania con una spedizione di cercopiteci partita da Entebbe

(Uganda).

Marburg si è manifestato anche nel 1980 in Kenia, nelle grotte di Kitum, sulle pendici di Mount

Elgon, un grandioso vulcano spento di 4.270 metri di altezza, posto sul limitare della Rift Valley

Orientale, e luogo di grande richiamo turistico, praticamente a metà strada tra i laghi Turkana e

Vittoria.

Marburg un po’ superficialmente viene considerato il «gemello gentile» (si fa per dire) della

famiglia, e provoca effetti paragonabili a quelli delle radiazioni nucleari. Si può leggere, comunque,

in proposito, la storia allucinante di Charles Monet e del dottor Musoke, nel libro di R. Preston che

citeremo tra poco.

Marburg viene anche definito «rabbia allungata».

Il più micidiale è senza dubbio Ebola Zaire, che vanta un tasso di mortalità tra gli individui

contagiati di nove su dieci. La varietà più terrificante dell’Ebola è quella cosiddetta Mayinga, dal

nome di un’infermiera morta in Zaire nel 1976.

Ebola è conosciuto anche con un altro nome, Yambuku, località non troppo distante da Bumba,

nel cui ospedale (Yambuku Mission Hospital) il virus zairese si sarebbe scatenato la prima volta.

Si tratta in ogni caso, di FEVE (Febbre Emorragica Virale di tipo Ebola).

PAGINA 37:

Lasciamo da parte il Marburg e il Reston, e raccontiamo succintamente la storia degli altri due

«gemelli terribili», affidandoci alla penna di un serio e brillante divulgatore americano, Richard

Preston, collaboratore della rivista «The New Yorker», che ha pubblicato un libro di grande

successo, Area di contagio (trad. it. Rizzoli, Milano 1994), che quasi sicuramente è stato adocchiato

anche da una suora delle Poverelle all’ambasciata italiana di Kinshasa, e le ha rigato la schiena di

brividi freddi.

Alcune descrizioni risultano sconvolgenti, per cui, chi avesse lo stomaco e il cuore delicati, può

saltare queste pagine.

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Ebola Sudan

«Il 6 luglio 1976, a ottocento chilometri da Mount Elgon, nel Sudan meridionale, sul limitare

della foresta pluviale centroafricana, un uomo conosciuto dai cacciatori di Ebola come Yu.G., ebbe

un collasso circolatorio e morì perdendo sangue da tutti gli orifizi del corpo. Il signor Yu.G., di cui

sono riportate solo le iniziali, fu il primo caso noto, il cosiddetto caso di riferimento di un’epidemia

scatenata da un virus sconosciuto.

«Il signor Yu.G. lavorava come magazziniere in un cotonificio della cittadina di Nzara... Era un

impiegato. Lavorava seduto a una scrivania in una stanza stracolma di pezze di cotone, sul retro

della fabbrica. Dal soffitto, penzolavano i pipistrelli. Nessuno è mai riuscito a dimostrare che si

trattava di pipistrelli infettati da Ebola. Il virus potrebbe essere penetrato nella fabbrica seguendo

altri percorsi, forse attraverso gli insetti intrappolati nelle fibre di cotone, o i ratti che si annidavano

nel fabbricato. O forse il virus non arrivò mai nelle vicinanze del cotonificio, e il signor Yu.G. fu

contagiato altrove. Non si fece ricoverare in ospedale e morì su una brandina nella baracca dove

abitava con la sua famiglia. I suoi celebrarono per lui un tradizionale funerale azande e

ammassarono un cumulo di pietre sul suo cadavere, adagiato in una radura di erba degli elefanti...

«Non passò molto tempo prima che il contagio si diffondesse. Pochi giorni dopo la morte di

Yu.G., due dei suoi colleghi che la-

PAGINA 38:

voravano nella stessa stanza cominciarono a perdere sangue, entrarono in una fase di shock e

morirono in seguito a massicce emorragie...

«La maggioranza dei casi fatali dell’Ebola Sudan, possono essere individuati ripercorrendo a

ritroso la catena di contagio avviata dal tranquillo signor Yu.G. Da lui si irradiò un silenzioso raggio

di morte che ebbe effetti devastanti sulla popolazione del Sudan meridionale. La nuova varietà

imperversò per Nzara e quindi puntò a est, verso la città di Maridi, dov’era l’ospedale.

«Si abbatté sull’ospedale come una bomba, uccidendo infermiere e inservienti, devastando gli

ammalati, per poi imperversare tra i familiari dei degenti. Pare che lo staff medico avesse praticato

iniezioni utilizzando aghi non sterilizzati. Fu dunque facilissimo per il virus diffondersi tra i

ricoverati e quindi di ritorno sul personale stesso...

«Il virus trasformò l’ospedale di Maridi in un obitorio. A mano a mano che il virus saltava da un

letto all’altro uccidendone i pazienti, i medici cominciarono a notare nei contagiati sintomi di

squilibrio mentale, di psicosi e di spersonalizzazione. Alcuni dei morenti si strappavano di dosso gli

indumenti e lasciavano l’ospedale nudi e sanguinanti, per poi vagabondare per le strade della città in

cerca delle loro case, apparentemente inconsapevoli delle loro condizioni e di ciò che era accaduto.

Non c’è alcun dubbio che Ebola danneggi il cervello provocando stati di demenza. Tuttavia, non è

facile distinguere i danni cerebrali dagli effetti della paura...

«Rispetto a Marburg, la varietà Ebola Sudan è doppiamente letale: il tasso di mortalità fra i

contagiati fu del cinquanta per cento, pari a quello della peste nera che imperversò nel Medio Evo.

Dunque, una buona metà dei soggetti infettati morì, e anche rapidamente...

«Per ragioni che non sono chiare, l’epidemia cominciò a perdere la sua iniziale virulenza e il

virus scomparve. Ma l’ospedale di Maridi aveva costituito l’epicentro della crisi, e mentre il virus

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impazzava al suo interno, il personale medico e paramedico sopravvissuto si fece prendere dal

panico e fuggì. Fu probabilmente

PAGINA 39:

la cosa più saggia che potessero fare, e anche la cosa utile, perché fece cessare l’utilizzo di aghi non

sterilizzati e svuotò l’ospedale, contribuendo così a spezzare la catena infettiva...».

Un nome sinistro: Yambuku

Ancora R. Preston con le sue pagine terrificanti: «Due mesi dopo l’emergenza Sudan – si era ai

primi di settembre del 1976 – un filovirus ancora più letale fece la sua comparsa a 800 chilometri

più a ovest, in una provincia dello Zaire denominata Bumba Zone, un tratto di foresta pluviale

tropicale costellato da radi villaggi e bagnato dal fiume Ebola, affluente del Congo. La varietà

Ebola Zaire era quasi due volte più letale di Ebola Sudan. Parve erompere dal nulla con

l’implacabilità di una forza mossa da imperscrutabili intenzioni. A tutt’oggi, non è stato ancora

possibile individuare il primo caso umano di Ebola Zaire.

«In quei primi giorni di settembre, qualcuno che probabilmente viveva sulla sponda meridionale

del fiume Ebola, toccò forse qualcosa di sanguinolento, potrebbe essere stata carne di scimmia, la

gente di quella zona se ne ciba abitualmente, o magari un elefante o un pipistrello, oppure chissà,

quella persona toccò un insetto schiacciato, o fu morso da un ragno. Qualunque fosse il primo ospite

del virus, è probabile che sia stato un contatto ematico a permettergli di penetrare nel mondo degli

uomini. Forse la porta che gli garantì tale accesso fu una ferita sulla mano di questo individuo

sconosciuto.

«Il virus si manifestò allo Yambuku Mission Hospital, una clinica dell’entroterra gestita da suore

belghe. Il piccolo ospedale, un’accozzaglia di tetti di lamiera e muri imbiancati a calce, sorgeva

nella giungla, vicino a una chiesa da cui scaturivano ogni giorno le melodie degli inni religiosi e le

formule liturgiche della messa celebrata in bantù».

Andò più o meno così. La missione di Yambuku comprendeva anche una scuola. Verso la fine di

agosto, uno degli insegnanti andò in vacanza con alcuni amici nelle regioni settentrionali dello

Zaire. In un mercato, comprò della carne fresca di antilope e una

PAGINA 40:

scimmia uccisa da poco. Al ritorno, la moglie del maestro cucinò per la famiglia la carne di

antilope. Il mattino seguente, l’uomo si sentiva poco bene e passò dall’ospedale per farsi fare

un’iniezione.

«Ogni mattina le suore dello Yambuku Hospital disponevano sul tavolo cinque siringhe

ipodermiche che utilizzavano per le iniezioni dell’intera giornata7. Cinque aghi al giorno per

7 Si ha l’impressione che R. Preston calchi un po’ la mano nel tentativo di presentare la presunta superficialità e

quasi incoscienza di quelle suore quale causa prima, se non unica, del diffondersi del virus Ebola. Questa versione dei

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somministrare farmaci alle centinaia di persone che affollavano il reparto pazienti esterni

dell’ospedale e la clinica ostetrica. Di tanto in tanto, dopo un’iniezione li sciacquavano in una

bacinella di acqua calda, così da eliminare il sangue, ma più spesso tralasciavano anche questa

elementare precauzione, passando da un braccio all’altro e mescolando sangue a sangue. Dato che

Ebola è altamente contagioso, e che cinque o dieci particelle di esso bastano ad avviare attraverso il

contatto ematico un’amplificazione di larga portata in un nuovo ospite, ecco che l’agente disponeva

di un’eccellente opportunità per diffondersi.

«Pochi giorni dopo, il maestro si ammalò. Il suo era il primo caso noto di Ebola Zaire, ma è

probabile che lo abbia contratto da uno degli aghi non sterilizzati dalle suore, e ciò significa che

qualcuno già infetto era passato dall’ospedale e che su di lui era stato utilizzato lo stesso ago

impiegato successivamente per il maestro...

«II virus eruppe simultaneamente in cinquantacinque villaggi circostanti l’ospedale. Prima uccise

le persone cui era stata praticata l’antimalarica, quindi si diffuse tra le loro famiglie, accanendosi

con particolare ferocia sulle donne, a cui in Africa spetta il compito di preparare i morti alla

sepoltura...

«Il virus imperversò per lo Yambuku Hospital uccidendo buo-

PAGINA 41:

na parte delle infermiere e quindi le suore belghe. Fra di loro, la prima a essere contagiata fu

l’ostetrica che aveva assistito alla nascita di un nato morto. La madre, affetta dal virus, lo aveva

trasmesso al feto, che evidentemente era morto dissanguato quando ancora si trovava nell’utero. La

suora... si imbrattò abbondantemente di sangue le mani. Era sangue altamente infetto, e lei doveva

avere un’escoriazione o un graffio su una mano. II virus la colpì con micidiale violenza e di lì a

cinque giorni era morta...».

A questo punto si innesca una sequenza allucinante. Allorché un’altra religiosa dello Yambuku

Hospital si ammala, un sacerdote decide di trasportarla, insieme a una consorella destinata ad

assisterla, a Kinshasa, e precisamente al Ngaliema Hospital, dove, secondo lui, avrebbe avuto cure

più adeguate. Lì la suora muore dopo un’atroce agonia. La consorella accompagnatrice manifesta

poco dopo gli stessi sintomi.

In quell’ospedale lavora un’infermiera di nome Mayinga N., che assiste la religiosa belga e

probabilmente si sporca con il sangue e il vomito nero della morente. Ai primi sintomi (mal di testa

e senso di spossatezza), la giovane abbandona l’ospedale e vaga per due giorni per la città,

prendendo taxi, recandosi in alcune agenzie di viaggio per ottenere un biglietto in modo da recarsi

all’estero. Lei pensa di aver contratto semplicemente la malaria e non riesce neppure a pensare a

qualcosa di diverso. Si reca al Mama Yemo Hospital, l’ultima spiaggia dei poveri della città (chissà

perché non si e più ripresentata al Ngaliema Hospital...). Lì non c’è posto per lei (e poi ha soltanto

gli occhi arrossati, e i medici non le prestano molta attenzione). Prende un altro taxi, va in un altro

ospedale. Finalmente si decide a ritornare al Ngaliema, dove viene ricoverata in una stanza singola.

fatti va presa, perciò, con beneficio d’inventario, come potrebbe testimoniare chiunque conosca direttamente la

situazione dell’Africa. Occorre, tra l’altro, tener presenti l’enorme afflusso di malati e la mancanza drammatica di

strumenti idonei, e perfino dell’acqua.

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Cade poco dopo in uno stato letargico e il suo volto si irrigidisce in una sorta di maschera

impassibile.

Certo l’infermiera, nel suo allucinato vagabondaggio, ha seminato il contagio nella capitale,

essendo entrata in contatto con molte persone e avendo frequentato sale affollate e locali pubblici.

PAGINA 42:

A questo punto scatta l’allarme, ad opera specialmente dell’Organizzazione Mondiale della

Sanità (OMS).

Riferisce R. Preston: «Il presidente Mobutu Sese Seko fece intervenire l’esercito. L’ospedale di

Ngaliema venne circondato e i soldati ricevettero l’ordine di non lasciare entrare o uscire nessuno se

non il personale medico. Buona parte dei dottori erano già in quarantena all’interno dell’ospedale

stesso, ma l’intervento militare rappresentò un’ulteriore garanzia.

«Mobutu ordinò inoltre all’esercito di chiudere la Bumba Zone con blocchi stradali e di sparare a

chiunque tentasse di uscirne. Il principale tramite di collegamento della zona con il mondo esterno

era rappresentato dal fiume Congo, ma i capitani delle imbarcazioni fluviali, informati di quanto

stava accadendo, si rifiutavano di fare sosta nel tratto di fiume che attraversava la Bumba Zone,

senza curarsi dei capannelli di gente che li implorava dalla riva. Poi, anche i collegamenti radio

cessarono. Nessuno sapeva più che cosa stesse accadendo nella zona chiusa, quanti fossero i morti e

come stesse agendo il virus. Era come se Bumba fosse sparita dalla faccia della terra per precipitare

nel cuore silenzioso del nulla».

Qualcuno ha fotografato Ebola e poi gli è andato incontro

Ebola è stato fotografato per mezzo di un microscopio elettronico. L’immagine, ingrandita

112.000 volte, assomiglia a un lombrico. Ma le forme appaiono assai diverse tra loro: code di

maiale, rami, lettera Y, lettera U, bullone di tipo «golfare». Tuttavia la forma classica resta quella

che sarà battezzata come «bastone di pastore» («shepherd’s crook») costituito da un doppio uncino

aggrovigliato.

Allorché Frederick A. Murphy, nel laboratorio altamente specializzato del Center for Disease

Control (CDC) di Atlanta, Georgia (Stati Uniti), esaminò le cellule che costituivano il preparato da

sottoporre al microscopio, rimase quasi atterrito: non aveva mai visto una quantità così spropositata

di virus ammassati in un campione così ridotto.

PAGINA 43:

Karl M. Jonshon, un medico americano che aveva fondato una sezione del CDC in cui si

studiavano gli agenti patogeni speciali, non appena ebbe accertato, dopo innumerevoli esami di

laboratorio con gli strumenti più sofisticati, che il virus sotto esame non reagiva a nessuno dei test

approntati per Marburg o altri virus noti, e quindi si trattava di un agente sconosciuto, decise anche

di battezzarlo: Ebola, appunto.

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Al giornalista R. Preston che si diceva affascinato dal virus Ebola, lui replicò di esserne, invece,

«spaventato a morte». Nonostante ciò, due giorni dopo aver isolato il virus, in compagnia di un altro

medico del CDC, decise di partire per lo Zaire. Atterrò nella capitale. Racconterà: «Kinshasa si era

trasformata in una specie di manicomio. Dalla provincia di Bumba non arrivavano più notizie, e i

contatti radio erano stati interrotti. Sapevamo che laggiù la situazione era molto grave, e che ci

trovavamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo. Non sapevamo ancora se il virus avesse la

capacità di diffondersi nell’aria attraverso minute goccioline, un po’ come fa quello dell’influenza.

Se Ebola avesse avuto questa caratteristica, oggi il mondo sarebbe un posto molto diverso... ossia

non saremmo più così tanti».

Da Kinshasa, messo a capo di un team internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità,

allestì una squadra operativa che, guidata dal collega Joel Breman, raggiunse la zona maledetta di

Bumba a bordo di un aereo militare.

Sistemati in due Land Rover, messe a disposizione dal governatore dietro versamento di un

mucchio di banconote, i dottori si mossero in direzione del fiume Ebola. Un cumulo di materassi

bruciati segnalò loro che erano arrivati al famigerato Yambuku Mission Hospital.

Riferisce R. Preston (op. cit. pagg. 100-101): «Tutto era silenzio; l’ospedale sembrava deserto. I

letti, in ferro o in legno, erano privi di materassi – quelli insanguinati erano stati bruciati nel campo

di calcio – e i pavimenti rilucevano di pulizia. La squadra scoprì tre suore e un sacerdote vivi,

insieme con un gruppetto di devote infermiere africane. Erano stati loro a ripulire l’ospedale dopo

che il virus aveva ucciso tutti gli altri e ora si erano impegnati

PAGINA 44:

a spruzzare le stanze di insetticida. Solo una stanza non era stata ripulita, perché nessuno, neppure

le infermiere, avevano trovato il coraggio di entrare nel reparto maternità. Quando Joel Breman e i

suoi collaboratori vi si recarono, trovarono bacinelle di acqua sporca abbandonate in mezzo a

siringhe chiazzate di sangue. La sala era stata evacuata quando alcune madri, ormai morenti,

avevano abortito feti contagiati da Ebola. Quella stanza apparve ai medici come l’apoteosi del virus,

un luogo oscuro ai confini della terra, dove la speranza che scaturisce da ogni nascita si era

trasformata in un incubo di sangue e di morte.

«Piovve per tutto il giorno e tutta la notte... Il giorno seguente la squadra si inoltrò ancora più

profondamente nella foresta, toccando alcuni villaggi dove l’epidemia aveva imperversato. In alcuni

casi, le vittime erano state isolate nelle capanne che sorgevano ai margini del villaggio, una tecnica

adottata da sempre in Africa a protezione dal vaiolo, e le casupole in cui si erano verificati dei

decessi erano state date alle fiamme. Ma la virulenza dell’agente patogeno andava già calando e

gran parte delle persone condannate a morire erano già morte... Un’ondata di emozione si abbatté su

Joel Breman quando comprese, con la lucidità di un medico che scopre improvvisamente di poter

vedere nel cuore delle cose, che le vittime erano state contagiate all’ospedale...».

Arrivò una nave ospedale e l’opera di risanamento venne completata. Proprio alle sorgenti del

fiume che gli aveva dato il nome, il virus dovette arrestare la sua marcia sterminatrice e tornare ad

acquattarsi nella foresta. Nello Zaire, terminata l’emergenza del 1976, si tirò un sospiro di sollievo.

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Successivamente, tuttavia, sarebbe riuscito a penetrare in vari punti del globo. E, nel 1989,

attraverso macachi importati da Giava, addirittura nel cuore degli Stati Uniti, e precisamente a

Reston, in Virginia, a pochi chilometri da Washington.

Qui si è sfiorata la tragedia. Ma della battaglia combattuta in quella cittadina l’opinione pubblica

non ha avuto il minimo sospetto. Solo dopo lo scampato pericolo, Preston ha divulgato la cosa in

Area di contagio. Probabilmente la varietà di Ebola pene-

PAGINA 45:

trata clandestinamente in America era meno micidiale, e comunque non letale per l’uomo.

Così Ebola, dopo questa sortita, è tornato a rimpiattarsi nella foresta zairese. Non rimarrà a lungo

in clandestinità. A meno di vent’anni dalla sua sortita a Yambuku, torna a spargere il terrore nella

città di Kikwit (circa cinquecentomila abitanti). E siamo, appunto, nel 1995.

Il mostro in azione

Prima, però, di riferire che cosa è avvenuto a Kikwit, occorre, sia pure con una certa riluttanza, e

perfino ripugnanza, guardare in faccia al mostro e descrivere la sua allucinante opera devastatrice.

Ci affidiamo ancora alla penna di R. Preston, facendo però una precisazione fondamentale. Le

sintomatologie di Ebola sono piuttosto varie, e pur presentando alcuni elementi comuni, possono

anche discostarsi notevolmente da quella descritta. In particolare, nelle Poverelle i sintomi sono

stati assai difformi. Questa avvertenza non ha lo scopo di minimizzare, o consolare a buon mercato i

familiari delle vittime, ma unicamente di stabilire una completezza di informazione sulla malattia,

che presenta comunque sempre aspetti di una gravità estrema, anche se non necessariamente

raccapriccianti come nella raffigurazione del divulgatore americano.

Dunque: «Ebola Zaire attacca tutti gli organi e i tessuti del corpo umano tranne le ossa e i

muscoli scheletrici: è un parassita perfetto, dato che trasforma virtualmente ogni parte del corpo in

un ammasso semiliquido di particelle virali. In qualche modo, le sette misteriose proteine di Ebola

lavorano insieme con la spietatezza di una macchina tesa alla distruzione totale dell’organismo.

«A mano a mano che l’infezione progredisce, grumi di sangue si formano nel circolo ematico, il

sangue si fa più denso, la circolazione più lenta, e i grumi iniziano ad aderire alle pareti dei vasi

sanguigni. È questo un fenomeno conosciuto come “pavimentazione”...

«...In questo modo, svariate parti del corpo non sono più irro-

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rate dal sangue, il che dà il via a processi di necrosi nel cervello, nel fegato, nei reni, nei polmoni,

nell’intestino, nei testicoli, nelle mammelle (negli uomini come nelle donne) e nell’epidermide su

cui compaiono chiazze rosse, dette “petecchie”, a indicare la presenza di emorragie sottocutanee.

«Ebola attacca con particolare ferocia il tessuto connettivo, si moltiplica nel collagene, ossia il

tessuto che sovrintende alla compattezza della pelle e mantiene le cellule unite tra loro. Il collagene

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si trasforma in una specie di poltiglia, e gli strati più profondi dell’epidermide muoiono e si

liquefano. In superficie, invece, esplodono minuscole vesciche bianche e rosse che rispondono al

nome di esantema maculopapulare...

«Sulla pelle compaiono anche lacerazioni spontanee da cui sgorga sangue emorragico. Le

chiazze rosse si moltiplicano fino a diventare estesissimi ematomi, la pelle si fa molle e cedevole, e

si strappa se sottoposta a una pressione anche lieve. La bocca sanguina e così le gengive, e a volte si

verificano emorragie delle ghiandole salivari. Letteralmente tutti gli orifizi del corpo, i piccoli come

i grandi, sanguinano.

«La lingua assume una tonalità rosso brillante, quindi si stacca per venire ingoiata o sputata. Si

tratta, pare, di un fenomeno dolorosissimo. Può anche capitare che la pelle della lingua si laceri

durante gli accessi di vomito nero. Altrettanto facilmente può staccarsi il rivestimento della trachea,

e il tessuto morto scivola nei polmoni o viene espulso con l’espettorato. Il cuore sanguina

all’interno; il muscolo cede e negli atri e nei ventricoli si verificano emorragie; con i battiti, il

sangue viene espulso dal cuore e va a riempire la cavità toracica. Il cervello si intasa di globuli

rossi, una condizione nota come “agglutinazione del cervello”.

«Infine, Ebola aggredisce il rivestimento dei bulbi oculari, che a volte si riempiono di sangue

provocando cecità. Piccole gocce di sangue compaiono sulle palpebre e rigano le guance

dell’ammalato, senza coagularsi...

«...Ebola attiva una necrosi strisciante discontinua, che interessa tutti gli organi interni. Il fegato

si gonfia e diventa giallo, comincia e liquefarsi e infine si spacca... Intasati da grumi sanguigni

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e cellule morte, i reni smettono di funzionare. Con la cessazione delle funzioni renali, l’urina

intossica il sangue, la milza si tramuta in un unico, enorme agglomerato di sangue solidificato,

grande più o meno come una palla da baseball...

«Ebola distrugge il cervello più ampiamente e più diffusamente di quanto faccia il virus

Marburg, e spesso nello stadio terminale le vittime soffrono di crisi epilettiche. Durante le

convulsioni, genericamente indicate come attacchi di grand mal, tutto il corpo comincia a

rabbrividire e a tremare, e gli occhi, che a volte colano sangue, si rovesciano all’indietro. Spesso, il

sangue del paziente finisce con lo spargersi tutt’intorno, e forse tale fenomeno è una delle riuscite

strategie di Ebola, che ha così maggiori possibilità di introdursi in un altro ospite.

«Ebola e Marburg si moltiplicano con tanta rapidità ed efficacia che le cellule dell’organismo

infettato diventano veri e propri blocchi di particelle virali simili a cristalli... Ebola si moltiplica nel

cuore, negli intestini, negli occhi, letteralmente ovunque... La moltiplicazione continua inesorabile

fino a quando una sola goccia del sangue dell’ospite arriva a contenere anche cento milioni di virus.

«Dopo la morte, il cadavere si decompone con estrema rapidità: gli organi interni, morti

parzialmente o per intero ormai da giorni, hanno già cominciato a dissolversi e si verifica una sorta

di fenomeno di liquefazione; i tessuti connettivi, la pelle e gli organi, già costellati di zone morte,

riscaldati dalla febbre e danneggiati dallo shock, cominciano appunto a liquefarsi e le secrezioni

emesse dal cadavere sono naturalmente sature di Ebola» (op. cit. pagg. 90-92).

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Un ricercatore americano, con un linguaggio un po’ brutale e paradossale, arriva ad affermare

che «Ebola fa sembrare l’AIDS un raffreddore... Ti fa diventare liquido e poi esplodere... L’interno

del tuo corpo è morto prima ancora che tu muoia. E per fare tutto questo il maledetto virus impiega

circa sette giorni...». E a chi gli domandava cosa si potesse fare per combatterlo, rispondeva:

«L’unica cosa da fare è non beccarselo...».

Chiedo scusa ai lettori più sensibili che troveranno queste descrizioni un po’ truculente e

raccapriccianti. Devo riconoscere che

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io stesso, nel riferire queste cose, mi sentivo a disagio e avevo quasi la sensazione di essere

contagiato da Ebola alla semplice lettura del quadro clinico. Faccio, tuttavia, presente che le sei

Poverelle non si sono limitate a leggere delle pagine su Ebola. Loro le nefande imprese del terribile

virus le hanno lette nel proprio corpo.

Una cruda evidenza e molti inquietanti interrogativi

A riguardo di Ebola ci sono pochi punti fermi (e, tra questi, alcuni un po’... traballanti) e,

nonostante le ricerche, permangono parecchi interrogativi inquietanti e misteriosi. Su questo virus

sappiamo parecchie cose, soprattutto conosciamo gli effetti della sua opera, ma la chiave di ingresso

nel suo regno non è stata ancora trovata.

È accertato che i tempi di incubazione appaiono brevissimi, a differenza di quelli dell’AIDS che

sono ultradecennali. La sua azione è fulminea e non supera i venti giorni. Allorché Ebola si

introduce in un organismo, nei primi giorni la persona non accusa alcun malessere. Dopo che si

avvertono i primi sintomi (mal di testa, febbre, arrossamento degli occhi), il decorso del male

diventa inarrestabile e la fine sopravviene nel giro di otto-dieci giorni.

Ebola non viene riconosciuto di primo acchito. Da principio si pensa a una banale influenza o a

un attacco di malaria. A Kikwit si è camuffato da diarrea rossa, un malanno abbastanza frequente, e,

se non proprio innocuo, certo non eccessivamente temibile. Allorché sotto quel travestimento

appare il volto orrendo di Ebola, è ormai troppo tardi. Il virus ha già iniziato la sua inarrestabile

azione devastatrice che compie con una fretta maledetta.

Finora non è stato approntato alcun vaccino in grado di contrastare il virus Ebola.

Quanto agli animali che sarebbero «serbatoi» del virus (in linguaggio tecnico: ospiti), occorre

discolpare subito le scimmie, che invece ne sono le vittime più esposte e quindi semmai il veicolo di

trasmissione. Si pensa piuttosto ai pipistrelli, ai ragni, a vari insetti, ai topi, ma non si escludono

neppure il leone, il bufalo cafro

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e qualche rettile imprecisato. I ratti restano comunque i maggiori indiziati.

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L’epidemia sviluppatasi in Zaire sembra essere partita da carne di scimmia messa in commercio.

Ma si trattava, probabilmente, di scimmia che aveva divorato un topo infetto.

Resta in piedi l’interrogativo più angoscioso: Ebola, oltre che per contatto fisico (specialmente

mediante il sangue), si propaga pure attraverso l’aria?

Da esperimenti condotti sulle scimmie si è potuto costatare che Ebola si muove attraverso l’aria

seguendo percorsi misteriosi. Perciò, sempre riferendosi alle scimmie, gli studiosi in un primo

tempo sospettarono che il virus sarebbe in grado di attraversare gli spazi aperti viaggiando nell’aria

trasportato da minuscole e invisibili goccioline derivanti dall’acqua spruzzata su un pavimento (una

specie di effetto aerosol). Insomma, qualcosa di simile a quanto avviene per il virus dell’influenza,

per cui basterebbe uno starnuto o un colpo di tosse per diffondere il contagio.

Ma l’ipotesi viene smentita da altri studiosi, i quali fanno notare che il fenomeno potrebbe

applicarsi soltanto a Reston e in particolare alla varietà Andromeda.

Lo scienziato Tom Skinker ha detto: «Le possibilità che Ebola riesca a diffondersi “per via

aerea” sono ridotte, anzi ridottissime, ma non inesistenti». Quel «non inesistenti» insinua un dubbio

atroce. In tal caso, infatti, non sarebbe umanamente possibile tenere il virus sotto controllo.

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EBOLA A KIKWIT

Che cosa è avvenuto

Kikwit, una cittadina di poco più di quattrocentomila abitanti, incastonata in un paesaggio

bellissimo attraversato dal fiume Kwilu (assai popolato di coccodrilli), è stata sicuramente

l’epicentro dell’epidemia scatenatasi nel 1995.

Secondo l’opinione del prof. Jean-Jacques Muyembe8, Ebola si sarebbe introdotto a Kikwit nel

gennaio del 1995, allogandosi in una famiglia del quartiere denominato Poto-Poto, nella zona di

Lukolela. Quindi, dopo essersi infiltrato nell’ospedale stesso, avrebbe provocato vittime in serie.

Pare, secondo alcune testimonianze, che suor Floralba denunciasse il fatto che alcuni uomini

morivano senza che ci si preoccupasse di accertare la causa dei loro decessi che risultavano

piuttosto misteriosi.

Diciamo subito che l’allarme internazionale è scattato soltanto quando a rimanere vittime del

virus furono dei bianchi, e precisamente delle suore.

Il virus a Kikwit ha raggiunto la sua punta parossistica nei giorni 13 e 14 maggio 1995.

II 24 agosto 1995, giorno in cui è stata dichiarata la fine dell’epidemia, si potevano fare dei

calcoli sufficientemente precisi: il mostro aveva provocato 244 morti su un totale di 315 persone

colpite. Quindi si era registrato un tasso di letalità del 77 per cento.

La vittima più anziana è stata suor Floralba, coi suoi 71 anni, la più giovane un bambino di due

mesi. Le famiglie colpite sono state 180, con un numero impressionante di orfani: 367 al di

8

Ricavo le notizie per questo capitolo dal volume dell’abbé Fansaka Biniama Bernard, Les chrétiens de Kikwit face

au virus d’Ebola, Kikwit 1996.

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sotto dei quattordici anni, e 133 fra i quattordici anni e la maggiore età.

Il secondo focolaio dell’epidemia è stato Mosango.

Si è perso molto tempo a discutere sull’origine virale o bacillare della malattia.

Il contagio si è diffuso certamente dalla sala operatoria dell’ospedale. Non si può stabilire con

sicurezza, tuttavia, quale sia stata la persona infetta sottoposta a intervento chirurgico: si parla

genericamente di una donna, ma anche di un inserviente, e poi del famigerato «cercatore di

diamanti» venuto dall’Angola. Il «fattaccio» comunque si sarebbe verificato il 10 aprile, e suor

Floralba partecipava come al solito all’operazione.

Anche nella cittadina del Bandundu tutto cominciava con la febbre. Ma allorché suor Floralba

annuncia in comunità di stare poco bene e di avere la febbre, nessuno si preoccupa più di tanto. La

febbre, in quei posti, rappresenta quasi la normalità. Solo quando la temperatura continua a

rimanere su picchi elevati, serpeggia l’apprensione e la suora viene trasportata all’ospedale di

Mosango, che sarebbe più affidabile.

Durante i solenni funerali, svoltisi il 27 aprile nella cattedrale di Kikwit per volere espresso del

Vescovo, nessuno poteva sapere che cosa si nascondesse dietro la morte di «mama mbuta», né

tantomeno sospettava che si fosse ormai entrati in un «ciclo infernale».

Anche qui i sintomi della malattia sono quelli soliti: febbre sui 40°-41°, vomiti sanguinolenti,

emorragie congiuntivali, macchie rosse sul tronco, gli avambracci e poi sulla lingua, le pupille che

si accendono fino a diventare color rubino.

Qualche volta il virus, apprendista stregone, concede alla vittima una brevissima tregua,

facendole balenare l’illusione di una ripresa, per poi assestarle subito dopo il colpo decisivo.

Si sa ormai che il virus viene contratto attraverso il sangue, la saliva, il vomito, le urine, lo

sperma, oppure manipolando un morto infettato.

A questo proposito, un grosso enigma rappresenta la morte delle ultime due «Palazzoline», che

pure avevano adottato tutte le

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precauzioni imposte dai medici e suggerite dalla loro stessa esperienza professionale. Il prof.

Muyembe insinua il sospetto che sarebbe bastata la maniglia della porta toccata da una suora già

malata a trasmettere il contagio a quella che veniva dopo e la afferrava a mani nude.

Imperversa il virus, ma anche le favole e i pregiudizi

La gente, comunque, più che fidarsi della scienza, ricerca altre cause affidandosi alle favole e ai

pregiudizi. E allora, siccome l’epidemia colpisce le religiose, ecco scoccare la diagnosi: si tratta di un

castigo di Dio perché non hanno la fede. Quello sarebbe il peccato capitale dei cattolici (e poco

importa vengano colpiti anche membri di altre confessioni religiose).

Circolano anche leggende che hanno dell’inverosimile. Quella che viene spacciata più di

frequente ha per protagonista l’individuo malato venuto dall’Angola, dove era andato a cercare

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fortuna, e che teneva depositato nei visceri un diamante di parecchi carati, per sfuggire ai controlli

della dogana. Si tratta di un trucco abbastanza noto e praticato da coloro che vengono definiti come

«Banaya Lunda» (figli di Lunda; Lunda è una provincia dell’Angola dove si sarebbero arricchiti

parecchi di questi avventurieri).

All’ospedale, prima dell’operazione, avrebbe rivelato il suo segreto e i medici si sarebbero poi

spartiti quella fortuna (magari con la complicità delle suore!). Per cui il morbo non sarebbe che la

terribile vendetta di quel talismano depredato.

La morte arriva... dopo il funerale

A Kikwit, durante la liturgia funebre, si intona un famoso canto in lingua Mbala, dalla melodia e

dalle parole struggenti «Mulongodi... malembe» che si può rendere con «Guardalo... dolcemente».

A poco a poco, però, la dolce nenia sarebbe stata striata dai brividi della paura che finiva per

paralizzare la gente.

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Già durante i funerali della seconda Poverella (suor Clarangela) si notava una vistosa rarefazione

dei fedeli in cattedrale, per la Messa di suffragio9, a motivo del panico che stava serpeggiando.

Intanto il Vescovo, nell’omelia, aveva lanciato un drammatico appello: «Si tratta di una malattia

contagiosa. Verranno trovati dei medici disposti a venire in nostro soccorso?».

Particolarmente agghiacciante la sepoltura di suor DanielangeIa. Morta verso le 14, vennero

decisi i funerali per la sera della stessa giornata.

Al cimitero, i portatori, stremati, si limitarono a depositare il feretro nella fossa, e se ne andarono

lasciandolo scoperto.

Le suore avevano dovuto provvedere loro a rivestire di stoffa una bara rudimentale, che il

cappellano dell’ospedale aveva recato per un certo tratto sulla propria testa.

C’era una sola pala, e i medici avevano diffidato sia le suore che i becchini dall’utilizzarla,

perché non infettasse persone sane.

A un certo punto, però, non potendo resistere a quello spettacolo umiliante, una suora aveva

afferrato la pala, presto imitata da altre religiose che impugnarono bastoni e altri mezzi di fortuna

per ricoprire di terra la bara.

«Sepolta come una povera», commenterà semplicemente suor Annelvira, provinciale, ricordando

il pensiero (e il desiderio) del Palazzolo.

Ma un prete zairese non ci sta e recita il mea culpa gridando: «Suor Daniela, perdonaci!».

Castigata la pietà

Paradossalmente, durante l’epidemia, proprio i gesti d’amore vengono spietatamente «puniti». Al

di là delle Poverelle, vittime della loro generosità, tipico è il caso dell’infermiere Willy Mubiala,

che ha contaminato parecchi operatori all’interno dell’ospeda-

9 Sarà opportuno tener presente che, dopo suor Floralba, in seguito nessuna suora è stata portata in chiesa per le

esequie. Normalmente, il giorno dopo la sepoltura, veniva celebrata una Messa di suffragio.

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le, oltre che i familiari. Personaggio dotato di una carica umana irresistibile e di grande

professionalità, godeva della simpatia generale e tutti, in occasione della sua malattia, si erano

prodigati per soccorrerlo (lo seguiranno nella tomba il figlioletto di pochi mesi e diversi familiari).

Le ultime sue vittime saranno, paradossalmente, tre amici che ne avevano composto con grande

delicatezza la salma.

Anche la morte di suor Eugenia Kabila, delle suore di san Giuseppe di Torino, va attribuita a lui,

oltre che alla prontezza della religiosa nel servire. Infatti era intervenuta per aiutare un infermiere

che intendeva praticare un’iniezione a Willy e aveva rotto la fiala ferendosi a una mano.

Quasi non bastasse, il virus puniva ancora più duramente la pietà verso i morti. I riti collettivi del

lutto erano l’occasione propizia per l’Ebola di colpire inesorabilmente.

Non c’è da stupire, allora, e nemmeno da scandalizzarsi, se in certe case, quando un congiunto

veniva a morire, ci si sbarazzasse in fretta del cadavere. Vergogna e terrore, a braccetto,

provocavano queste reazioni.

Fede alla prova della ragionevolezza

Al di fuori dell’ospedale, l’epidemia di Ebola ha fatto strage soprattutto in due ambiti religiosi:

nella «Legione di Maria» della parrocchia Yesu-Ngulunsi (diretta dall’animatore Madioko Médard)

e nella comunità cristiana di obbedienza protestante della Cadz.

Sorprendente soprattutto il numero delle vittime tra le legionarie, che si dedicavano in particolare

alla cura dei vecchi e dei «marginalizzati»: 21. E dire che parecchie di queste donne, a motivo della

loro preparazione, erano state selezionate per operare nelle varie sottocommissioni mediche.

All’origine di tutto, forse, c’è la morte della presidente, Annie Ngalula, la cui infermità, in un

primo tempo, era stata attribuita ai malesseri della sua tredicesima gravidanza.

Si può affermare che «mama Annie Ngalula» abbia provocato

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direttamente la morte di quattordici persone che l’avevano avvicinata durante la malattia (e alle

quali lei aveva garantito che la Vergine Maria le avrebbe protette dal virus), contravvenendo

ottusamente agli ordini dei medici, e che, altrettanto ottusamente, avevano lavato, rivestito e

vegliato il cadavere di Annie, senza adottare alcuna precauzione.

Il fanatismo dei figli, uno dei quali aveva sfidato dottori e portantini armato di machete per

imporre una sepoltura «normale», secondo le tradizioni, aveva fatto il resto.

Proprio in questa occasione si è potuto accertare che la Madonna non poteva funzionare da anti-

virus senza un adeguato discernimento nella pratica della fede e della carità.

Il prof. J.J. Muyembe-Tamfum, presidente del comitato internazionale di coordinamento

scientifico e tecnico della lotta contro Ebola, dichiarerà senza mezzi termini: «Le sorelle delle

Poverelle di Bergamo e la suora di san Giuseppe di Torino erano state colpite dall’infezione

curando altri malati... Ma alcuni cristiani sono morti per aver voluto sfidare temerariamente la loro

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fede, e per aver irriso alle direttive del corpo medico: è il caso dei membri della Legione di Maria e

degli adepti del pastore protestante che aveva imposto le mani su un caso di Ebola».

A proposito del pastore protestante, vale la pena riassumere brevemente la sua vicenda. Dunque.

Quando ormai i pericoli dell’epidemia erano avvertiti da tutti, lui si ostinava a diffondere l’opinione

secondo cui Ebola era una punizione che colpiva esclusivamente coloro che non credevano in Dio.

Finì per imporre le mani sul capo di una donna malata del suo gruppo. Il fatto che quella

vomitasse sangue venne interpretato come espulsione dello spirito impuro.

Il pastore, col suo diacono e un altro che possedeva al pari di lui il dono delle guarigioni,

digiunarono e pregarono tutta la notte. La malata morì. Gli altri seguirono poco dopo, a cominciare

dal pastore al quale inutilmente un medico cercò di far capire che il virus poteva pur essere una

punizione divina, tuttavia, dal momento che il Signore aveva suscitato degli uomini intelligenti per

indicare la via della lotta, bisognava seguirli. Tutto vano. Il medi-

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co non riuscì a convincere il pastore che la volontà di Dio non era in contrasto con l’impegno della

scienza animata dalla buona volontà di portare la guarigione.

Almeno una trentina di morti sono da addebitare a una fede mal compresa.

Naturalmente, il caso delle Poverelle è diverso. Le prime hanno contratto il virus dedicandosi ai

malati e poi alle consorelle, quando ancora non si sapeva di che cosa si trattasse. E le ultime due lo

contrassero, come abbiamo già detto, in modo quasi inspiegabile, nonostante le precauzioni.

Bisognava, dunque, combattere su diversi fronti, compreso quello della superstizione e dei

pregiudizi più grossolani. Dapprima la popolazione spiegava tutto ciò che accadeva con «Landa

Landa», un’espressione che metteva in evidenza la stupefacente successione dei casi che colpivano

i membri di una stessa famiglia. Ossia, si attribuiva ciò che accadeva a una specie di cattiva sorte, al

malocchio, a qualche fattura.

Poi si incolparono i medici di Rosa Croce, attribuendo loro la pratica di sacrifici umani per fini

inconfessabili.

Allorché il virus seminò la morte tra le Poverelle, i protestanti tirarono l’acqua al proprio mulino

confessionale, spiegando che il flagello era dovuto alla mancanza di fervore dei cattolici. E quando

pure la comunità protestante venne colpita, tutti infine vennero ruvidamente richiamati alla ragione.

Così, attraverso molte sofferenze supplementari, si recuperò faticosamente l’unità dei cristiani

ammettendo che il flagello che si era abbattuto su Kikwit non era una punizione di Dio, bensì una

prova terribile che l’intera popolazione doveva superare integrando, nell’ambito della fede, le

norme igieniche stabilite dall’équipe medica.

In tal modo la vittoria, relativamente rapida, ottenuta contro l’Ebola, sarà la vittoria del popolo di

Dio, animato dalla fede e guidato dalla ragionevolezza, su una calamità naturale.

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Le bastonate a Maradona

Bisogna anche citare il dramma vissuto da tanti bambini. Un caso emblematico fra tutti: quello di

Kimbamba, soprannominato Maradona, di cinque anni. I suoi genitori adottivi vengono colpiti dal

virus e muoiono. Il piccolo, stravolto, esce di casa per avvertire il vicinato.

Qualcuno gli mette in mano un bastone imponendogli di colpire i suoi genitori in modo da

accertare se per caso siano ancora vivi. Quando Maradona esce, lasciando capire che quelli non

danno più alcun segno di vita, viene quasi lapidato e aggredito a legnate. Riesce a scampare per

miracolo a quella furia selvaggia.

Viene raccolto dal Vescovo di Kikwit e condotto all’ospedale generale, dove, insieme ad altri

orfani, sarà affidato alle cure del dottor Philippe Callain.

Verrà poi creato un centro apposito che accoglierà Maradona e altri bambini che avevano avuto

una sorte simile alla sua.

La faticosa catechesi del prof. Muyembe

Occorre segnalare anche atteggiamenti discriminatori nei confronti delle religiose di ogni ordine.

Posta l’equazione che Ebola=mancanza di fede dei cattolici e in particolare delle suore, si è arrivati

a rifiutare loro un posto in taxi al grido di «Ebola» oppure «Diarrea rossa». Poco ci mancò non si

scatenasse la caccia alle streghe e all’untore.

Comunque, riassumendo, si possono identificare alcuni atteggiamenti tipici della popolazione di

fronte all’epidemia.

Il primo, abbastanza naturale, è stato il panico. Specialmente nei primi giorni, non c’era una

macchina che circolasse a partire dalle prime ombre della sera.

Poi, specialmente nell’ambito delle sette, saturo di fanatismo irresponsabile, si è verificato un

rozzo fenomeno di scetticismo nei confronti della scienza medica e perfino di denigrazione nei

confronti dei dottori, accusati talvolta di pratiche abominevoli.

In compenso, pullulavano i visionari, gli apocalittici, e circola-

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vano le chiacchiere più inverosimili a riguardo di riunioni sataniche (con il virus Ebola in persona

che presiedeva...) e venivano praticati i più svariati riti magici.

In questi ambienti, la miscela tra ignoranza e fanatismo religioso, provocava l’istigazione a

trasgredire ostentatamente le proibizioni mediche e a cercare pervicacemente il contatto fisico

specialmente nel saluto.

Occorre tener presente che, nello Zaire, come del resto in altri Paesi africani, il saluto assume

una rilevanza particolare. Non ci si accontenta del nostro «buongiorno», ma si accompagnano le

parole con un gesto significativo, che può variare dalla comune stretta di mano, al contatto dei

pollici e poi dell’intera mano, ai buffetti sulle guance, agli abbracci, e perfino al congiungimento

delle teste, il tutto accompagnato da formule speciali.

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Il prof. Muyembe, durante l’epidemia a Kikwit, aveva messo a punto una forma di saluto che

conciliasse la tradizionale gentilezza con la necessaria precauzione per evitare il contatto fisico. Il

gesto poteva apparire un po’ bizzarro e suscitare il sorriso, ma risultava abbastanza efficace.

Consisteva nel portare la mano sulla spalla e puntare il gomito in direzione dell’interlocutore che si

manteneva a debita distanza.

Ma è soprattutto nella manipolazione dei cadaveri che in certi irriducibili nostalgici della

tradizione si è manifestata l’ostilità – talvolta perfino violenta – nei confronti dei medici, fino a

demonizzare le loro disposizioni. Così spesso venne ripreso il costume del «Mulongodi» col

risultato, abbastanza prevedibile, che a trionfare non era tanto la tradizione ma il virus Ebola.

In campo cristiano, il ricorso alla preghiera nell’infuriare della pestilenza era frequente.

Particolarmente impiegate le formule semplici e ripetitive, in kikongo o in lingala: «Ndimela kaka,

okobika», «Kwikila kaka».

Ma non ci furono solo riunioni di preghiera. Gruppi laicali e religiosi (in prevalenza femminili)

si distinsero in un’opera assidua di informazione e sensibilizzazione, anche attraverso opuscoli che

presentavano le norme di prevenzione in modo chiaro e comprensibile per tutti.

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Parecchi cristiani erano arruolati nelle vane commissioni che combattevano in prima linea. Si

trattava di convincere la popolazione credente che le istruzioni dei medici dovevano essere

osservate quasi fossero volontà di Dio e che, oltre a indossare «l’armatura della fede», bisognava

calzare i guanti raccomandati dal dottor Muyembe. Una catechesi che, tenuti presenti gli ostacoli

contro cui andava a cozzare, richiedeva sforzi non indifferenti.

I protagonisti

Ed è giusto citare alcuni protagonisti di quelle giornate terribili. Spicca fra tutti la figura del

professor Jean-Jacques Muyembe-Tamfum, di Kinshasa, epidemiologo di autorità indiscussa,

chiamato d’urgenza dal Direttore Generale dell’ospedale di Kikwit.

Ha svolto un ruolo fondamentale, dapprima nella definizione dell’epidemia, e poi nel predisporre

i mezzi per combatterla e circoscriverla. La conoscenza della psicologia della gente, unita al

prestigio personale, lo favoriva nell’opera di convincimento e responsabilizzazione. Ma ha dovuto

scontrarsi anche lui con resistenze non indifferenti.

Tutti, comunque, finiscono per dargli atto di aver agito con grande umanità oltre che rigorosa

scientificità.

E quindi alcuni medici dell’ospedale e periferici, obbligati a operare in situazioni assai difficili,

con mezzi assolutamente inadeguati, in una casa il cui tetto era già in fiamme. Non è possibile

citarli tutti, perché l’elenco sarebbe assai lungo. Uno di loro, e precisamente un anestesista, ci ha

lasciato la vita.

Quindi vanno ricordati gli infermieri e le infermiere che hanno accettato volontariamente di

entrare nel temutissimo 3° Padiglione, dove stavano reclusi i malati di Ebola. Ciò che hanno fatto in

quel luogo, in un quadro di squallore e desolazione e orrore indescrivibili, per curare e confortare,

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lo si può soltanto intuire più che raccontare. Il loro sacrificio, comunque, entra di diritto nelle

pagine più luminose firmate dalla gente semplice.

Una delle infermiere, Sofia Mvokolo, di 35 anni, aveva prete-

PAGINA 60:

so, quale unica assicurazione prima di mettere i piedi in quel recinto, che qualcuno si occupasse dei

suoi figli da cui doveva separarsi.

Non avevano neppure il tempo di prepararsi il pasto. Le emergenze erano continue. Un malato

anche di costituzione robusta poteva accusare un calo di pressione fino a zero e bisognava

rianimarlo.

Più di una volta le infermiere vennero sorprese dal sonno con una siringa in mano.

Allorché il secondo turno di volontari penetrò nel 3° Padiglione per sostituirlo, quelle del primo

drappello ebbero quale premio tre giorni di riposo.

Vanno ancora segnalati i dottori Pierre Clause e Philippe Callain, giunti dagli Stati Uniti, e che si

sono imposti all’ammirazione generale per tatto ed esperienza. Il dottor Pierre si è accollato

personalmente il compito di assistere, con squisita delicatezza, suor Annelvira e suor Vitarosa.

Figura di spicco, infine, è senza dubbio quella del Vescovo di Kikwit, mons. Kasiala Edouard

Mununu, che ha fornito uno straordinario esempio di fede, di coraggio e di amore. Ha voluto

benedire personalmente e accompagnare alla tomba tutte le vittime di Ebola.

Ha fatto, per così dire, da cassa di risonanza della tragedia del suo popolo presso l’opinione

pubblica internazionale. Ha ottenuto e gestito con oculatezza i contributi di vari organismi. Ma,

soprattutto, è sempre stato in prima linea contro il virus, sia all’ospedale che nelle case dei

moribondi, e quindi nei conventi delle religiose cui era imposta la quarantena, infine al cimitero.

Allorché le Poverelle sono state trasferite a Mbuka-Nzundu, lui non ha mai lasciato mancare la

sua presenza.

Significativo pure il suo impegno per animare e, quando era il caso, dare una mano ai

«sécuristes», spossati dal lavoro, per inumare i cadaveri. E, dopo aver inflitto una dura reprimenda a

chi aveva opposto un rifiuto, ha provveduto con le proprie mani, debitamente guantate (e mai guanti

vescovili sono apparsi più splen-

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didi e accettabili), a seppellire i cadaveri abbandonati nel cimitero in quel fatidico 13 maggio.

Insomma, ha dimostrato che neppure un Vescovo è dispensato dall’opera di misericordia

corporale che consiste nel «seppellire i morti». Virus o non virus.

A chi lo accusava di aver esagerato in allarmismo risponderà di aver sentito l’elementare dovere

di captare il grido della sua gente e scuotere l’opinione pubblica internazionale. «L’unico mandato

che ho ricevuto è stato il grido del mio popolo espresso con lacrime di sangue». Comodo criticare,

specialmente quando chi lo fa se n’è rimasto al riparo dal virus.

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Mons. Mununu, senza iattanza, sa di aver contribuito a limitare l’estensione dell’epidemia in

tempi relativamente brevi. E, attraverso l’intervento di ricercatori accorsi da ogni parte, di aver

favorito l’opera di identificazione del flagello.

Una pianta che non c’entra

Si è favoleggiato a lungo a proposito del mupeshi-peshi. Questa pianta, a cui tutti riconoscono

proprietà terapeutiche quasi magiche per numerosissimi mali, secondo alcuni avrebbe procurato

guarigioni durante l’epidemia di Ebola.

Si tratta di un arbusto assai conosciuto che cresce nelle foreste dei dintorni di Kikwit. Per uso

medicinale viene utilizzata la radice, debitamente seccata (che si può trovare anche al mercato), che

viene messa a macerare in un bicchiere d’acqua. Si ottiene così un liquore denso, dal sapore

decisamente amaro e sgradevole. Anche l’odore è ripugnante e lo si avverte stando vicino a chi lo

assume.

I suoi effetti benefici sono generalmente riconosciuti nella cura della malaria – grande

maledizione dei paesi tropicali – della tosse, della febbre gialla, dei dolori articolari e della schiena.

Il mupeshi-peshi viene anche impiegato dalla medicina tradizionale per la cura di certe malattie

veneree.

Si è tentato di inserire nella già lunga lista dei successi conseguiti da questa pianta prodigiosa

anche l’eliminazione del famige-

PAGINA 62:

rato virus. Tuttavia, in occasione della grande calamità, nonostante l’alone di mistero che circonda

il mupeshi-peshi, e perfino la sua mitizzazione, non si è riusciti ad accertare alcun influsso positivo

su un piano rigorosamente scientifico.

I suoi meriti, quindi, almeno nel caso di Ebola, restano tutti da dimostrare.

Un silenzio che uccide più delle pallottole

C’è il pericolo che, dopo questa tragedia e tutto il clamore che ha sollevato nell’opinione

pubblica internazionale, sullo Zaire torni a calare una pesante coltre di silenzio. «Questo –

ammonisce mons. Faustin Ngabu, vescovo di Goma – è un silenzio che uccide. Sì, uccide più di

migliaia di pallottole».

PAGINA 63:

IN CASA DELLE POVERELLE

Una drammatica successione di fax

Dopo aver guardato in faccia il terribile mostro di nome Ebola, e aver tracciato il percorso della

sua azione devastatrice nell’epicentro di Kikwit, concentriamo l’attenzione sulle sei Poverelle che,

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in rapida successione, ne sono state vittime. Inseriremo il loro dramma in quello vissuto da tutta la

loro famiglia religiosa.

Seguiremo diverse tracce, rifaremo la loro storia da punti di osservazione diversi, col rischio di

qualche inevitabile ripetizione.

Cominciamo dalla via «ufficiale». Si tratta dei fax partiti da Kinshasa (Limete) e firmati da suor

Amelia e suor Donata (alternativamente o insieme).

Il 25 aprile 1995, alle ore 10,20, si comunica alla Madre Generale: «Restiamo unite nella

sofferenza, nella preghiera e nell’offerta. Suor Floralba ci ha lasciate per il cielo proprio in questo

momento. Il Padre, la Madonna e il Palazzolo l’avranno già abbracciata. Ci proteggerà dal cielo.

«Dall’interno, dicono che non è possibile portarla a Kinshasa...».

Tre giorni dopo: «Il funerale è stato un vero trionfo. Tantissima gente... Suor Floralba, schiva di

tutto ciò che poteva attirare l’attenzione su di lei, durante tutta la sua vita, questa volta non ha

potuto scappare...».

A proposito dei funerali di suor Floralba, celebrati nella cattedrale di Kikwit, qualcuno sostiene

che quella forma solenne, con una grande partecipazione di popolo, è stata un’imperdonabile

imprudenza, se non un atto temerario. Ciò significa ragionare col senno di poi. In realtà, a fine

aprile nessuno era in grado di affermare che responsabile del decesso fosse il virus Ebola, e quin-

PAGINA 64:

di come si poteva impedire che la popolazione di Kikwit rendesse omaggio a una «mamma» che per

43 anni aveva servito i loro malati?

Si riteneva poi che il suo corpo non potesse diffondere il contagio perché era stato

immediatamente imbevuto di formolo, in attesa che arrivassero dall’Italia le due sorelle.

Comunque la morte per cause misteriose di suor Floralba contribuisce in maniera determinante a

far scattare l’allarme10

come testimonia questo fax del 4 maggio (allorché suor Clarangela e suor

Danielangela si sono già ammalate): «Dopo una giornata di un duro e lungo silenzio, percepisco con

molta difficoltà la voce di suor Anna11

che con tono grave mi comunica quanto nella giornata è

stato deciso con i medici e i professori specialisti inviati da Kinshasa.

«1° Tutte le suore che sono venute a contatto con la sorella defunta devono sottoporsi a un

periodo di contumacia. Ciascuna deve restare in casa senza nessun contatto con l’esterno...

«2° I prelievi del sangue saranno inviati domani mattina, tramite una persona, ad Anversa, per

uno studio approfondito e i risultati verranno comunicati non appena possibile...

«3° Non si sa ancora quale tipo di microbo o virus produca l’epidemia. Si fanno molte ipotesi,

ma sarà esclusivamente Anversa ad esprimersi con certezza...

10

Precisiamo che, oltre alla morte di suor Floralba (per cause non chiaramente diagnosticate), ci sono stati altri

segnali inquietanti e decisivi, come la morte concomitante di altre persone, soprattutto tra il personale degli ospedali di

Kikwit e di Mosango, che presentavano sintomi analoghi a quelli rilevati in alcuni malati. La diagnosi fatta dal prof.

Muyembe il 5 maggio è stata, per così dire, facilitata dalle malate «di pelle bianca», in quanto su di esse si

evidenziavano meglio le terribili «macchie rosse» tipiche di Ebola. 11

Occorre tener presente che, non essendo possibili le comunicazioni dirette tra Kikwit e l’Italia, le notizie

passavano necessariamente «via radio» (abitualmente con notevoli difficoltà tecniche) da Kikwit alla capitale Kinshasa,

e di qui venivano smistate, «via fax» (in quel tempo il fax funzionava meglio del telefono) alla Casa Madre di Bergamo.

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«4° Quanto alle sorelle di suor Floralba; speriamo possano partire domani sera. Sono molto

preoccupate... Starà a voi avvertirle di essere prudenti ed eventualmente consultare il Negrar12

».

Fax del 5 maggio: «Suor Daniela è stata trasportata a Kikwit. Il suo stato di salute, come quello

di suor Clara, resta allarmante. Le due sorelle presentano gli stessi sintomi di suor Floralba.

Informate le famiglie. Qui si fa appello ad organismi internazionali. Non ci sono medicine e non è

possibile il trasporto. Le sorelle di Kikwit sono in isolamento. Chiediamo un “miracolo”. Che il

Signore ci sostenga nella fede... Le sorelle di suor Floralba partono stasera. Saranno alle 9 a Milano

Linate».

Ed ecco, il giorno dopo, un drammatico appello: «Suor Clarangela ci ha lasciato all’una di notte.

Signore, abbi pietà! Suor Danielangela è gravissima. Dobbiamo procedere immediatamente per

cercare aiuti tramite ambasciata belga per Anversa in modo da salvarla. Sosteneteci! Suor Donata».

Nello stesso giorno, 6 maggio: «Abbiamo ricevuto notizie da Anversa. Non trovano plasma con

anticorpi...

«Servono con urgenza indumenti protettivi e maschere per le persone che stanno a contatto

diretto con le malate...

«Cosa vuole mai il Signore? Gli occhi continuano a riempirsi di lacrime ».

7 maggio: «Abbiamo appena parlato con le sorelle di Kikwit. Sono le ore 6,40. Suor Daniela ha

avuto una leggera ripresa, ma lo stato permane gravissimo. Non è ancora entrata in coma e non ha

emorragie. Tale è stato il decorso per le altre sorelle: dopo la febbre, vomito e diarrea. Strappiamo il

miracolo al Fondatore! Suor Dinarosa ha sempre febbre molto elevata, nausea... Le altre sorelle non

presentano per il momento dei sintomi... Si sta lottando per smuovere organismi internazionali.

Servono con urgenza mezzi di protezione.

«Suor Clarangela, deceduta ieri 6 maggio alle ore 1,30 di notte, è stata sepolta ieri pomeriggio

alle 14,30.

«Nessuno ha potuto entrare nel recinto della comunità né tan-

PAGINA 66:

tomeno in casa. È terribilmente duro. La vera solitudine per le sorelle di Kikwit. Ci chiediamo come

poterle sostenere in questo dramma. Restiamo unite...».

Frattanto i campioni di sangue inviati ad Anversa e ad Atlanta il 5 maggio, sono stati esaminati e

la prima risposta sicura giunge dagli Stati Uniti l’8 maggio: non ci sono dubbi, si tratta di Ebola.

Il 10 maggio la Madre Generale, suor Gesuelda Paltenghi, informa la Congregazione:

«Carissime Sorelle, dopo la rapidissima morte della missionaria suor Floralba Rondi che a tutte ha

lasciato in cuore tanta sofferenza e un esempio di carità eroica, sono partita per la Costa d’Avorio in

visita alle sorelle, niente supponendo di quanto ancora doveva accadere.

«Sabato 6 maggio suor Guglielma mi raggiunge con una telefonata ad Agnibilekrou

comunicandomi con angoscia il decesso di un’altra missionaria, suor Clarangela Ghilardi, colpita

12

Ospedale tenuto dai Padri di don Calabria, nei dintorni di Verona.

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anch’essa dal virus micidiale. Non ho più resistito e la sera stessa, con suor Flora che mi

accompagnava, siamo ripartite da Abidjan per Milano.

«Nel frattempo mi hanno comunicato l’aggravarsi di altre due sorelle, suor Danielangela Sorti e

suor Dinarosa Belleri.

«La situazione nella regione di Kikwit è gravissima per la popolazione già così provata dalla

miseria, dalla malattia, dall’oppressione. Le nostre sorelle di Kikwit sono in isolamento, avendo

tutte avuto contatti con le due ammalate. La Superiora Provinciale, essendo infermiera, è là che le

assiste e le incoraggia assieme ad altre sorelle.

«Le sorelle di Mosango, Tumikia e Lusanga sono pure in isolamento per precauzione, ma finora

stanno bene. A Kinshasa non c’è allarme, essendo lontana 500 chilometri da Kikwit. Tuttavia suor

Danila, che aveva assistito suor Floralba e altre tre suore che avevano partecipato al funerale, sono

in isolamento per precauzione...

«L’offerta della vita delle nostre due sorelle espressa in una carità eroica verso i malati, ha fatto

sì che l’opinione pubblica si scuotesse e si muovesse, ed ora vengono organizzati aiuti e predisposti

mezzi a livello internazionale, ed è stata allestita una équi-

PAGINA 67:

pe di ricercatori per debellare il male. Suor Donata e suor Amelia, partecipando alle riunioni

dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Kinshasa, hanno fatto sentire la voce di chi non ha

voce e qualcosa si sta muovendo a favore di tutta la popolazione. Speriamo che questi aiuti risultino

efficaci per tutti...

«Mi ha commossa la disponibilità di alcune sorelle, infermiere e non, a partire per lo Zaire al fine

di aiutare le sorelle di laggiù. Grazie di vero cuore per questa generosità. Al momento non è

possibile andarci, perché sarei io la prima a partire; più tardi si vedrà l’evoluzione e saranno

esaminate le possibilità...».

Intanto da Kinshasa si susseguono a ritmo incalzante i fax: «Siamo sempre in attesa della buona

novella, non ci lasciamo abbattere... Noi crediamo al di là di tutto...

«Cerchiamo di essere presenti alla comunità di Kikwit. Devono riuscire a tener duro...

«Ore 14,05: mentre scriviamo, riceviamo la triste notizia che suor Daniela non è più di questo

mondo... Continuiamo a sperare nel Signore, a implorare per suor Dina. Il cuore si spezza, ma

guardiamo a Lui...» (11 maggio).

E lo stesso giorno: «...Dunque, anche suor Danielangela ci ha lasciate per il Paradiso dopo tredici

giorni di lotta che abbiamo combattuto insieme contro questo terribile virus... Ora c’è suor Dina che

dal 4 maggio ha gli stessi sintomi. Tutti i test ematici prelevati, dunque anche il suo, confermano la

forma virale di febbre emorragica (di Yambuku)...».

Una lettera inviata da Kikwit lo stesso giorno 11 maggio, a firma suor Anna, informa: «È un

flagello terribile! In questi giorni muoiono due infermieri al giorno. C’è pure una giovane suora di

S. Giuseppe di Torino che non sta bene... Ora suor Dina... Temo perché è fragile. Chi pensava più

all’epidemia di Yambuku in modo da adottare tutte le precauzioni nell’assistenza?... Siamo molto

affrante ma il coraggio non manca...».

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Ancora comunicazioni da Kinshasa il 13 maggio: «Abbiamo sentito con estrema chiarezza suor

Anna... Una voce ferma, una fede salda e un coraggio stupendo. Saluta tutte e dice di restare

coraggiose e ricche di speranza. Loro non presentano nessun sin-

PAGINA 68:

tomo. La carissima suor Dina è sempre molto grave. Ieri sera ha ricevuto il sacramento dei malati e

si è confessata; era cosciente.

«Nella cattedrale, sempre ieri alle ore 15, è stata celebrata la Messa di suffragio per suor Daniela.

Tre sorelle di Tumikia e una di Mosango hanno ottenuto il permesso di partecipare. Nel frattempo

le sorelle di Kikwit (in isolamento) sono rimaste in preghiera e in adorazione. Al termine della

celebrazione, le suore delle tre comunità si sono scambiate notizie parlandosi dal portone chiuso. È

un momento duro ma “Fiat”...».

Lo stesso giorno: «Suor Dina permane grave, ma è sempre presente a se stessa. Ha chiesto di

suor Daniela e le è stato detto che è stata portata all’ospedale... Sono tutte molto coraggiose, e per il

momento non accusano nessun sintomo, solo tanta stanchezza...».

Comunicazioni a ritmo incalzante il 14 maggio. Ore 7,50: «Abbiamo appena sentito suor

Vitarosa. Il Signore vuole proprio strapparci suor Dinarosa. Stanotte è entrata in coma. Continuiamo

a gridare al Signore la nostra fede e la nostra speranza. Il suo volere misterioso ci mette in

ginocchio».

Poco dopo: «La quarta martire della carità ha raggiunto le altre alle 9,17... Il Signore ha

veramente marcato la nostra storia con pagine di fede, di speranza, di abbandono...».

La mattina del giorno dopo: «Suor Dinarosa sarà sepolta subito! La Messa sarà celebrata alle ore

17, ma suor Anna ha chiesto che ogni comunità celebri sul posto perché a Kikwit si stanno

moltiplicando i casi e non è prudente entrarvi... Il cuore si spezza per il dolore...».

Ed ecco ancora un messaggio della Madre (16 maggio): «L’angelo della morte ha bussato per la

quarta volta in 19 giorni alla porta della nostra famiglia religiosa, portando in Paradiso le altre due

carissime sorelle missionarie: suor Danielangela, deceduta l’11 maggio, e suor Dinarosa, il 14 dello

stesso mese.

«Non posso passare sotto silenzio la testimonianza di una nostra comunità di Bergamo, le cui

Sorelle, presentandomi le condoglianze e l’offerta, scrivono: “Le mandiamo quanto avremmo speso per

la passeggiata comunitaria e che, volentieri, abbiamo deciso di trasformare in giornata di supplica e

di adorazione”.

PAGINA 69:

«Sostenute da diverse persone della Diocesi di Bergamo, abbiamo attivato in proprio, ma anche

sollecitato ogni aiuto possibile da parte di organismi nazionali e internazionali, a favore di tutto il

popolo zairese in mezzo al quale le nostre sorelle hanno dato e stanno dando la vita. Il Vescovo di

Bergamo ha lanciato un appello; la Caritas diocesana ha avviato una sottoscrizione; il Ministero

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degli Esteri ha assicurato l’invio di aiuti. Speriamo e operiamo perché la solidarietà non venga

meno.

«...Suor Annelvira, Superiora Provinciale, è rimasta sulla breccia e come infermiera, con fede

forte, coraggio e grande speranza, ha assistito e curato fino all’ultimo, a una a una, le quattro sorelle

che ora sono nella gloria dei beati...».

Ed ecco un’altra successione di fax dallo Zaire. 20 maggio: «Questa mattina, alle ore 7, a suor

Anna che l’aveva chiesto insistentemente, è stato amministrato il sacramento dell’unzione degli

infermi. Così pure a suor Rosa. Le sorelle della comunità hanno partecipato dall’esterno con il canto

che ci è tanto caro: “Oh Marie! aide nous a dire oui, chaque jour de notre vie...”13

.

«Suor Anna non va molto bene, tutti i sintomi della febbre emorragica sono là. Suor Rosa, per il

momento, ha solo febbre ma è ancora in forza...

«Le sorelle della comunità aspettano che suor Maria e suor Béa arrivino a prenderle per andare

in un’altra casa».

23 maggio: «Suor Anna è sempre molto grave, suor Rosa stazionaria... Il Signore sa e ci ama,

vogliamo crederlo...».

Lo stesso giorno, ore 17,10: «Suor Annelvira è appena entrata nella pace del Signore. “Fiat!”.

Nel silenzio adorante, lo sguardo fisso al Gesù ignudo sulla croce, diciamo: “Sì, Padre!”... Suor

Vitarosa va meglio, e suor Béa cerca di fare in modo che non lo sappia subito».

Alle 21 dello stesso giorno: «Un forte temporale ci ha impedito di comunicare ancora, via radio,

con suor Béa. Non sappiamo

PAGINA 70:

perciò nulla del funerale, della Messa, della reazione di suor Rosa e delle altre sorelle...».

Il giorno seguente: «Suor Anna è stata sepolta alle ore 7. C’erano il Vescovo, suor Béa, suor

Vincenzia, alcune Suore di altre congregazioni, parecchi medici e il medico curante, e poi la gente

che usciva dalla Messa della cattedrale...

«...Suor Vitarosa sta abbastanza bene. Ieri pomeriggio ha intuito la morte di suor Anna perché ha

sentito un rumore insolito nella stanza vicina e lei era solita arrivare fino alla porta per vedere suor

Anna. Il suo medico curante glielo ha detto esplicitamente. Suor Béa dice che i medici si

dimostrano molto umani. Sono rimasti con lei, l’hanno consolata, incoraggiata a reagire

positivamente. Suor Rosa ha dormito tutta la notte. Non ha febbre, né vomito, né diarrea. Stamane

ha voluto l’uovo col marsala. Si è alzata un po’ ed è tornata a letto... Il Signore ci dà la forza per

portare il peso di questa prova... È già un miracolo la fede con cui possiamo vivere questo

momento...».

24 maggio: «La situazione di suor Rosa appare molto critica. Non ha alcun sintomo particolare

(pressione normale, niente febbre, né vomito, né diarrea), ma accusa tanta, tanta debolezza. Il

medico è preoccupato. Anche se mangia qualcosa, non riesce a recuperare le forze... Il cuore freme

ancora e silenziosamente grida al Signore: “... Anche questa?”. Non abbiamo forza per “discutere

con Lui”... Lo guardiamo e imploriamo. Non vogliamo perdere fede e speranza. Ci sono alcuni

13

La stessa scena si era ripetuta per ciascuna sorella che riceveva l’unzione degli infermi. Le consorelle, che stavano

fuori, in giardino, intonavano col groppo in gola quel canto.

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infermieri che sono guariti e passano a vedere suor Rosa per incoraggiarla, per dirle che anche lei

può venirne fuori. Lei però ha detto: “Penso di non farcela...”. Insieme viviamo questa nuova

angoscia, questa offerta che ci consuma tutte, questo mistero che chiede solo adorazione e

accoglienza. È terribilmente duro, ma vogliamo credere e sperare».

Ed ecco le ultime comunicazioni del 28 maggio 1995: «“Tutto è compiuto!”. Il Signore si è

portato con Sé nella gloria dei beati anche suor Rosa, alle ore 2 di stanotte... Il mistero è grande, ci

avvolge, e in uno sforzo supremo diciamo: “Padre, nelle tue mani mettiamo le loro e le nostre vite.

Abbi pietà di noi”».

E, poco dopo: «Abbiamo avuto alcuni particolari. Ieri sera, ver-

PAGINA 71:

so le 22, la pressione è scesa, l’astenia è cresciuta, alle ore 24 la respirazione risultava superficiale.

Si è spenta silenziosamente, si è addormentata nel Signore. Se le sorelle non fossero state vicine a

guardare ogni tanto, non si sarebbero neanche rese conto. I medici non hanno cessato di fare il

possibile per salvarla... Sarà sepolta alle 13,30 e la Messa sarà celebrata domani. Le sorelle delle

diverse comunità potranno essere presenti, tranne quelle in isolamento. Il Signore ci renda salde

nella fede».

Nessuna sbavatura di commento, che finirebbe per intaccare la semplicità di queste righe e

offuscarne la luminosità.

Lasciamo, piuttosto, sia la «Madre» a fare un bilancio: «Abbiamo sperato tanto in questo mese di

maggio! Abbiamo invocato a lungo, con fervore e insistenza, l’intercessione del nostro Fondatore: il

beato Luigi Maria Palazzolo. Il rapido succedersi degli eventi ci ha profondamente colpite. Siamo

sgomente per questa durissima prova, ma non distrutte; siamo sconvolte, ma non spezzate, perché

Dio ci è Padre tenerissimo e sa il perché di questa sofferenza, di queste morti, di questi vuoti; e, nel

cocente dolore, abbiamo fissato ancor più il nostro sguardo sul Crocifisso Risorto con grande

speranza.

«La morte delle Sorelle martiri di carità ci ha fatto e ci fa profondamente meditare per capire,

raccogliere e custodire il segreto della loro testimonianza: la loro morte è stata la conclusione di una

vita donata giorno dopo giorno con amore, gioia, umiltà e disponibilità totale a Dio e ai fratelli.

Questa è la vera “profezia”!

Siamo certe che la vita donata con amore e per amore dalle nostre Sorelle a Kikwit è seme che

genera altra vita alla Chiesa zairese, all’Africa, alla Chiesa tutta e anche alla nostra Congregazione.

Quando un giorno, noi o altri dopo di noi, vedranno i frutti, non si potrà che benedire il Signore»

(28 maggio 1995, festa dell’Ascensione).

La superstite

Lei, suor Annamaria Arcaro, Superiora di Mosango, si sente quasi in colpa per essere stata

risparmiata, pur avendo assistito –

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finché i medici glielo hanno consentito – le Sorelle inferme. Era accorsa subito dalla sua sede per

rimpiazzare la Superiora di Kikwit che si trovava in Italia.

Dice: «Io... la superstite... Solo il Signore sa perché sono ancora qui; certamente non ero ancora

pronta per le nozze...».

Una sua prima relazione, messa giù quale lettera alle consorelle, in una forma concitata «con

male espressioni ed errori», risulta fondamentale, come è facile intuire, trattandosi di una testimone

oculare dei fatti. Ne stralciamo alcuni brani:

«Abbiamo vissuto assieme giorni di lotta tremenda, tra fede e tutto ciò che è umano, affetto, e

tanto amore di sorelle... Ci siamo aiutate, incoraggiate, sgridate, perché ci sembrava che ognuna

esagerasse nel lavoro, nel donarsi. In ogni caso, suor Anna e suor Rosa hanno proprio esagerato

nell’Amore. Non hanno mai voluto che io facessi la notte, solo le rimpiazzavo durante il giorno

perché riposassero e loro venivano immancabilmente prima dell’ora convenuta. Suor Anna doveva

stare fino a mezzanotte14

e poi avrebbe cominciato suor Rosa; ma suor Rosa alle 22 era sempre là...

Una cosa voglio dire con forza: dal momento che il prof. Muyembe ha comunicato che era una

malattia contagiosa, abbiamo usato con il massimo scrupolo tutte le tecniche e il materiale di

protezione (in nostro possesso in quel momento). Veramente nessuna superficialità o leggerezza per

la disinfezione o protezione, anzi...

«Il 1° maggio suor Costanzina è venuta a chiamarmi al Sanatorio tutta agitata: “Suor Daniela non

sta bene da sabato: ve l’ho portata”. Subito mi ha preso una tale angoscia e paura che non riuscivo

più a tornare a casa... Già ero andata il giorno prima a Kikwit a trovare suor Clara che non stava

bene e anche suor Dina aveva la febbre... La dott. Bonnet ha voluto incominciare a curarla a

Mosango perché sembrava malaria o una ricaduta della sua

PAGINA 73:

infezione renale. Gli esami erano normali, solo febbre e un vomito continuo, da straziare il cuore a

sentirla, e che sarebbe durato fino a due giorni prima della morte...

«Dunque, si è iniziato subito con perfusioni, antimalarici, antibiotici e tutti gli antiemetici

possibili... Venerdì 5, dopo aver costatato che il tempo di coagulazione non era più normale,

immediatamente ho avuto la conferma della terribile malattia... Subito, con suor M. Luisa, abbiamo

preso suor Danielangela, l’abbiamo sistemata in macchina con il materasso e portata a Kikwit... Già

suor Clara era isolata nella piccola casetta e suor Daniela ha preso l’altra camera; suor Clara

respirava molto male ed aveva il corpo e il volto ricoperti di una porpora emorragica.

«Suor Daniela, mentre continuava a vomitare diceva: “Quanta pena mi fa suor Clara a sentirla

respirare così...”. E suor Clara, a sua volta: “Povera suor Daniela! Mi si spezza il cuore a sentirla

vomitare così...”. E noi, con le lacrime che cadevano a terra scendendo dalla maschera, ci

preoccupavamo di rassicurare e aiutare sia l’una che l’altra».

14

C’è da segnalare che suor Annamaria Arcaro era rientrata in Zaire dall’Italia soltanto da un mese, dopo essersi

sottoposta a un intervento chirurgico per l’asportazione di un tumore. Per questo motivo si voleva risparmiarle lo

strapazzo dell’assistenza notturna.

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Suor Annamaria parla con accenti strazianti del funerale delle consorelle: «Veramente il funerale

dei poveri, tra i più poveri... Tutta la gente in quel momento ci sfuggiva, e se ci vedeva attraverso la

siepe si metteva un fazzoletto davanti alla bocca. Abituate a dare, ad aiutare, ci sentivamo umiliate,

ma ci rendevamo conto che il momento era drammatico per tutta la popolazione.

«Dall’ospedale ci giungevano in continuazione grida, pianti di morte, e noi avremmo voluto

essere là ad aiutare quella gente, soprattutto nelle prime settimane, allorché quei poveretti morivano

uno dopo l’altro e restavano insepolti per giorni e giorni. Invece il Signore voleva facessimo

esperienza di essere povere, infette, malate, isolate, sfuggite noi stesse... Era la prima volta che

capivo qualcosa del nostro carisma: “Essere configurate a Cristo morto, ignudo sulla croce”...

«Nell’assistere all’agonia delle Sorelle ho compreso che, forse, è stato più difficile per Maria

stare ai piedi della Croce che essere lei stessa inchiodata alla Croce…

«Non è possibile descrivere i sentimenti provati in quei giorni.

PAGINA 74:

Tra tante lacrime, suppliche e preghiere ci dicevamo parole di fede, di speranza. Suor Anna è

sempre stata meravigliosa, con una forza e un coraggio incredibili. Insieme gridavamo: “Perché,

Signore, ci hai abbandonato?...”. “La tua volontà sia fatta...”. Quanta preghiera, in quei giorni. Notte

e giorno, con le giovani suore zairesi15

, anch’esse in isolamento, ci si dava il turno davanti al SS.

Sacramento sempre esposto.

«Mi veniva sovente in mente il canto della Passione: “On attendait... Le ciel n’a pas répondu. La

prière s’est perdue... dans la nuit” (“Aspettavamo... Il cielo non ha risposto. La preghiera si è

persa... nella notte”). Solo il Signore conosce il perché di questo grande silenzio.

«Il pomeriggio del 14 (dopo i funerali di suor Dinarosa, morta lo stesso giorno), quando il grande

dramma sembrava ormai compiuto, e tutti – da Limete e Bergamo – compreso il Vescovo, ci

dicevano di riposare, di dormire, era invece il momento in cui iniziava un altro, indescrivibile

dramma. Suor Anna, fin da ieri mi diceva di sentirsi poco bene e aveva la febbre. Suor Rosa alle 16

mi viene a dire di avere pure lei trentotto e mezzo di febbre... Ho avuto un presentimento: “Ancora

due sorelle afferrate da quel terribile mostro...”.

«Non ho più potuto chiudere occhio la notte, mi sentivo morire, ma dovevo farmi forza,

incoraggiare e curare suor Anna e suor Rosa. È stato il momento in cui ho chiesto aiuto a Kinshasa

e in Italia, perché vedevo che non ce la facevo più.

«Il dottor Philippe e il dottor Pierre (medici di Atlanta) dal giorno 15 maggio sono stati i nostri

angeli custodi. Prima di loro nessun medico aveva messo piede nel nostro cortile, solo una volta il

dott. Muyembe era venuto per prelievi di sangue. Tutte sole avevamo dovuto curare e individuare i

farmaci che potessero aiutare le nostre ammalate.

15

Le suore zairesi sono state meno esposte al contagio – almeno nella fase in cui si trattava di assistere le consorelle

– perché, essendo le più giovani della comunità (quasi tutte ancora juniores), suor Annelvira aveva ritenuto giusto

fossero risparmiate.

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PAGINA 75:

«Sabato 20, dopo che suor Anna e suor Rosa, trasportate nella casetta dell’isolamento, avevano

ricevuto i Sacramenti degli infermi, abbiamo saputo che erano arrivate suor Maria e suor Béa, ma

non hanno potuto entrare in casa. Le abbiamo scorte da lontano: erano vestite come astronauti.

«A tutte noi della comunità il Vescovo era venuto ad annunciare che dovevamo lasciare la casa e

partire per un altro luogo, non si sapeva dove... Ho cercato di convincerlo a lasciare suor Saverina e

me, per assicurare la vicinanza alle sorelle e provvedere ai loro bisogni, ma è stato tutto inutile.

«Alle 21 di sabato 20 maggio, i “Medici senza frontiere” sono venuti a prenderci. Dopo aver

raccolto qualcosa in tutta fretta, siamo partite verso una casa disabitata, che le suore di diverse

Congregazioni avevano cercato di ripulire un po’.

«Il dolore di tutte nel lasciare suor Anna e suor Rosa sole con gli infermieri era immenso.

Pensavo agli ebrei fuggiti nella notte...

«Suor Maria e suor Béa si sono organizzate e hanno assicurato la loro presenza notte e giorno,

sedute là fuori, dietro la cappella...

«Noi, frattanto, arrivavamo in quella casa assolutamente vuota, senza acqua e senza luce, solo

con un materasso, una sedia e un secchio. Ma non badavamo ai disagi, perché il nostro cuore e la

nostra mente erano in quelle due camerette dove veramente si stava consumando il sacrificio, ed

eravamo solo ansiose di avere notizie.

«Per tre mattine il Vescovo è venuto a celebrare la S. Messa, e fin dal primo giorno ci ha lasciato

il SS. Sacramento dentro la sua valigia, perché non avevamo posto migliore dove metterlo.

«La morte di suor Anna sono venuti ad annunciarcela alle 9 di sera e la morte di suor Rosa il

mattino dell’Ascensione. Vedo le carissime sorelle, passate dall’altra parte del fiume ed entrate

nella verità “toute entière”...» (Kikwit, 30 maggio 1995).

Successivamente suor Annamaria Arcaro stenderà un diario dettagliato di quelle giornate che

l’hanno vista protagonista straziata. Sono pagine che rimarranno nella storia dell’Istituto e che si

concludono con questa osservazione: «Come poteva il Signore

PAGINA 76:

fare un miracolo solo per noi, mentre c’erano molti altri che stavano morendo dello stesso male?

Avrebbe dovuto fare un miracolo generale!».

Un grande spavento

Nella grande tragedia si inserisce anche la vicenda che vede protagoniste Rosanna e Angiolina

Rondi. Riassumiamola a grandi linee: partono dall’Italia il 26 aprile per partecipare ai funerali della

sorella, suor Floralba, avvenuti il 27. Pensano di trattenersi un po’ in Zaire, ma allorché cominciano

a circolare notizie sempre più inquietanti sul morbo, in preda a comprensibile apprensione,

chiedono di poter anticipare il ritorno in patria. Vengono «bloccate» all’aeroporto di Linate il 6

maggio e ricoverate in isolamento agli Ospedali Riuniti di Bergamo, più che altro per misura

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precauzionale. Dichiarate perfettamente sane, verranno dimesse due settimane dopo. Comunque lo

spavento dev’essere stato notevole.

Spigoliamo qualche notizia dal loro racconto: «Il tragitto fra Kinshasa e Kikwit l’abbiamo fatto

su un piccolo aereo con altre cinque persone. L’assetto era talmente precario che ci facevano

spostare per bilanciare il peso...

«Il giorno dopo il funerale, la gente veniva a farci le condoglianze: chi ci portava una gallina, chi

un cocco... Magari erano le uniche cose che possedevano, ma intendevano esprimere così la loro

riconoscenza per quello che la nostra sorella aveva fatto per loro.

«Per strada incontravamo gente che ci diceva: “Io e i miei familiari stiamo bene grazie a suor

Floralba che ci ha curato”.

«Una donna ci ha fermato e ci ha detto: “Vi raccomandiamo a nome di tutti: dateci un’altra suor

Floralba”. Suor Annelvira, che era vicina a noi, ha risposto: “Volentieri, se l’avessimo! Ma siccome

non si può fabbricare una vocazione...”.

«...Prima di partire per Mosango io (Rosanna) ho voluto visitare l’ospedale accompagnata da

suor Nathalie. La sala operatoria era chiusa per disinfezione, e anche un padiglione era chiuso per lo

stesso motivo. In un altro padiglione ho visto un ammalato con

PAGINA 77:

la flebo, seduto sul letto, tutto sporco di sangue. Suor Nathalie ha osservato: “Questo,

probabilmente, ha quella malattia...”.

«All’ospedale di Mosango c’era un infermiere malato, portato da Kikwit per curarsi, e di notte è

morto. Abbiamo sentito i tamburi dei parenti che dal villaggio venivano a prenderlo. La dottoressa

però ha ordinato di seppellirlo subito sul posto, perché infetto. Ma si pensava più che altro alla

diarrea rossa, di Ebola non si parlava ancora...».

Circa lo stato d’animo delle suore, le sorelle Rondi riferiscono che, fin dal loro arrivo nella

capitale, avevano notato che erano preoccupate e lasciavano trasparire il sospetto che stesse

succedendo qualcosa di strano: «Sfogliavano le pagine delle enciclopedie cercando di capire che

virus fosse. Ma erano al buio, non ne sapevano niente. Un giorno una di loro è andata a Kinshasa,

all’ambasciata, e ha visto un libro in italiano che parlava di Ebola16

, riconoscendo i sintomi che le

consorelle avevano descritto: lì è scattato l’allarme».

Ultimo dettaglio in riferimento alla partenza dallo Zaire: «Suor Vitarosa ci ha salutate

all’aeroporto di Kikwit: lei arrivava e noi partivamo con lo stesso piccolo aereo. Siccome ci

sembrava poco sicuro, le abbiamo comunicato i nostri timori, e lei ci ha risposto: “Ma io ci ho

perfino dormito! Quindi state pur tranquille...”».

Quelle due vicino al muretto

Suor Maria Cassiani (Fiorisalba), la Superiora della comunità di Kikwit, ossia quella che non

c’era... Lei stava in Italia, per un periodo di riposo, dal 1° aprile. Ogni notizia che giungeva da

16

Quasi certamente si tratta del volume di Richard Preston, Area di contagio (Rizzoli), abbondantemente citato

all’inizio.

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laggiù provocava in lei una lacerazione profonda e, insieme, quasi un senso di vergogna. Sì, il

rimorso di non esserci, di non partecipare direttamente, di non rischiare come tutte le altre. Lei, poi,

che era la responsabile delle sorelle...

Supplicava, scongiurava, implorava con le lacrime agli occhi

PAGINA 78:

che la lasciassero partire, perché quella situazione, per lei, diventava sempre più insostenibile. Tutto

inutile. C’erano ragioni di prudenza che prevalevano su quelle del cuore.

Dopo la morte della quarta suora (suor Dinarosa, 14 maggio), intensificò le suppliche. La Madre

finalmente si arrese. Suor Maria Cassiani partì da Bergamo insieme a una giovane suora zairese,

suor Béatrice Ngwaka (chiamata familiarmente da tutte Béa), che studiava in Inghilterra. Spiega,

semplicemente, a chi sembra aver bisogno di spiegazioni per il suo gesto: «So che vado incontro

alla morte, ma la mia missione è là».

Le due sbarcano all’aeroporto di Kikwit a mezzogiorno del 19 maggio, e da quel momento è

tutto un susseguirsi di delusioni cocenti. Si accorgono che per loro non c’è posto...

Mons. Mununu, dopo averle invitate come ospiti a pranzo, le avverte che non avrebbero dovuto

entrare in casa, dal momento che le suore della comunità erano in quarantena (e due già ammalate).

I medici, poi, lasciano capire senza ombra di dubbio che non hanno gradito il loro arrivo, che

crea qualche problema supplementare per il già faticoso sistema di sicurezza che stanno

approntando per circoscrivere il flagello.

Vengono ospitate presso le suore «Annonciades» di Gagwa. Prima di recarvisi, però, riescono a

strappare il permesso di poter almeno salutare da lontano le consorelle «recluse». La condizione

preliminare è però quella di passare dall’ospedale a munirsi di tute protettive, camici, guanti e

stivali. Racconta suor Maria: «Così vestite abbiamo potuto entrare nel cortile di casa; le suore sono

uscite sulla porta e solo a grande distanza ci siamo salutate tra le lacrime e i singhiozzi da ambedue

le parti».

Subito dopo devono assistere allo spettacolo straziante del trasporto di suor Annelvira e suor

Vitarosa nella casetta destinata alle suore contagiate dal virus: «Vediamo passare suor Anna in

carrozzella... Aveva il viso come gonfio e un po’ rossastro. Sempre mantenendoci a distanza,

l’abbiamo chiamata: lei ci ha guardato, ha abbozzato un lieve sorriso e ci ha salutate con la mano.

Da quel viso traspariva una grande sofferenza fisica e morale... Suor

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Rosa è passata poco dopo, camminando da sola; pure lei aveva il viso leggermente rossastro. Ci ha

salutate con lo sguardo triste e sofferente... Cosa avranno avuto nel cuore quelle due sorelle? Loro

che fino a qualche giorno prima avevano assistito tutte le altre fino al sacrificio supremo?

L’abbiamo potuto solo immaginare... Vedendole passare, mi è sembrato di vedere come “l’agnello”

che, docile, senza ribellarsi, va al macello... Erano pienamente coscienti che da quella casetta non

sarebbero più uscite».

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Nei ricordi scritti di suor Maria ricorre un termine che dev’essere stato come uno spillone

conficcato nella sua carne: distanza. D’ora innanzi avrebbero sempre dovuto stare a distanza.

Potevano assicurare una presenza, ma a distanza. Captare un grido, un lamento, un’invocazione di

aiuto, ma senza poter intervenire direttamente.

L’assistenza alle due Sorelle morenti era affidata a un infermiere, un’infermiera, e a uno dei

medici di Atlanta. Il dottor Pierre Clause si era mostrato irremovibile: aveva visto il modo in cui

quelle suore si amavano tra di loro, intuito l’intensità del loro rapporto fraterno, e quindi... non si

fidava. Aveva ragione di sospettare che non avrebbero osservato scrupolosamente le tecniche di

protezione, ma si sarebbero abbandonate a qualche gesto dettato dall’affetto. Bisognava

assolutamente interrompere quella catena.

Le due si sono acquartierate vicino alla cappella, davanti al muro della sacrestia. E non hanno

più abbandonato quella postazione che permetteva di intercettare le voci che arrivavano dalla

finestra e far sentire la loro presenza viva alle sorelle «recluse». Così giorno e notte, dandosi

regolari turni di guardia.

«Il Signore solo sa quanto ci è costato ogni volta dover ricorrere all’infermiere perché prestasse

alle malate l’uno o l’altro servizio. Con tanta fatica e sofferenza ci siamo rassegnate al fatto di poter

almeno star lì, in quello spazio esterno».

Senso di impotenza, prima di tutto. Una volta suor Annelvira chiede un’aranciata fresca, e non si

riesce, nonostante tutte le acrobazie, a trovarla. D’altra parte non è possibile entrare in casa, perché

sottoposta a disinfezione e la comunità è stata trasferita altrove per completare la quarantena.

PAGINA 80:

Pur con la massima buona volontà, tutto viene effettuato con ritardo. E così l’acqua fresca non è

più fresca e il latte caldo non è più caldo quando viene recapitato. Per di più, comunicare con i

medici e gli infermieri non è agevole, perché con quegli scafandri addosso risulta impresa ardua

farsi capire.

«Il primo giorno suor Anna mi chiese di tagliarle i capelli perché faceva molto caldo e le davano

fastidio. Ma anche questo servizio non ho potuto prestarlo io direttamente come avrei voluto, ma ho

dovuto ricorrere all’infermiera. Come avrà interpretato suor Anna questo rifiuto? Certamente era

cosciente che non era per cattiva volontà, ma deve aver sofferto per questo e ancora di più per gli

altri servizi più delicati».

Ancora un piccolo episodio significativo: «Una notte suor Vitarosa ci ha chiesto un limone.

Siamo andate nel nostro giardino e l’abbiamo staccato da una pianta, ma ci siamo poi accorte che

mancavamo di un coltello per tagliarlo a metà. Così abbiamo dovuto ricorrere a una lama di rasoio

debitamente pulita...».

Le comunicazioni «a distanza» sono quanto mai difficoltose. Ci si limita, per lo più, a qualche

cenno di saluto con la mano. Specialmente nel caso di suor Annelvira, le cui condizioni si stanno

aggravando e si assopisce sempre più di frequente, captare le sue parole «da lontano» diventa

praticamente impossibile.

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Bisogna anche precisare che le due sentinelle, oltre a conservare la postazione dietro la sacrestia,

devono anche preoccuparsi di rifornire di acqua e cibo le consorelle trasferite in un altro quartiere

della città. In quest’opera vengono provvidenzialmente aiutate da religiose di altre Congregazioni.

«La notte del 22 maggio, alle 3 del mattino, con suor Béa abbiamo commemorato la nascita della

nostra congregazione, abbiamo pregato a lungo sperando proprio in un miracolo del Fondatore.

Invece, niente: i cieli sembravano proprio chiusi alle nostre suppliche».

A riguardo della sepoltura di suor Annelvira (morta alle 16,45 del 23 maggio), suor Maria

riferisce che la salma è stata composta nella bara dagli stessi dottor Pierre e Philippe. Ma ecco il

racconto del seguito, che mette addosso i brividi: «Bisognava far presto

PAGINA 81:

presto per seppellirla perché stava calando la notte. Si è cercato in tutta fretta di trovare qualcuno

che provvedesse a scavare la fossa. Intanto ci siamo incamminate verso il cimitero. La bara era

trasportata su una barella dell’ospedale da alcuni uomini della Croce Rossa, che in quei giorni

assicuravano questo servizio. Noi, ossia suor Vincenzia, suor Béa e io la seguivamo a qualche

passo, rispettando la distanza obbligatoria e piangendo.

«Arrivati al cimitero, ci siamo resi conto che la buca non era pronta: la terra era dura e si faceva

fatica a scavare. Allora i dottori Pierre e Philippe non hanno esitato a dare una mano agli spalatori

in modo che si sbrigassero, dal momento che era già sceso il buio.

«Improvvisamente si è scatenato un furioso temporale, per cui risultava impossibile procedere

alla sepoltura. Precipitosamente rientrammo in casa, sotto la pioggia battente, e deponemmo la bara

nell’atrio. Ci posi davanti il cero pasquale acceso... Era la prima volta che rimettevo i piedi in casa

nostra, ora vuota e abbandonata. Non riesco a descrivere ciò che ho provato: comunque, tutto meno

che paura...».

E poi si tratta di avvertire le sorelle della comunità della morte di suor Annelvira. Scortata dal

dottor Pierre Clause, suor Maria ci va quando è già notte e le suore sono a letto. Non c’è stato

bisogno di parole...

E bisogna subito tornare da suor Vitarosa e informarla. Lo fa, con molta delicatezza, il dottor

Philippe Callain. Lei si è limitata a commentare: «Adesso è il mio turno».

Prosegue suor Maria: «Nei giorni successivi non abbiamo fatto altro che darle coraggio, anche

perché i medici speravano proprio che ce la facesse. L’abbiamo sollecitata perché si sforzasse di

mangiare... Ora tutte le piccole attenzioni erano per lei. Abbiamo chiamato alcune persone guarite

perché le raccontassero la loro storia in modo si convincesse che anche lei poteva farcela...

«...Non posso dimenticare la sua voce, erano innumerevoli le volte che mi chiamava “Maria!”,

con un tono che sembrava dirmi “Fai presto, vieni...”. Purtroppo ciò avveniva sempre attraverso la

finestra e la zanzariera. Io poi dovevo chiedere all’infermiere o al-

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PAGINA 82:

l’infermiera di entrare nella stanza a provvedere. Ma soltanto per l’abbigliamento di protezione

occorrevano almeno cinque minuti...

«Un giorno – non potrò mai dimenticarlo – la porta era rimasta aperta e io ero contentissima

perché potevo veder meglio suor Vitarosa pur rimanendo al di fuori. L’infermiere si era allontanato

e lei mi chiese dell’acqua fresca. Le feci presente che non potevo entrare, ma lei ha insistito un po’

e si è avvicinata alla porta, pur rimanendo a una certa distanza. Ha allungato il braccio più che

poteva e io ho fatto altrettanto, lì sulla soglia, e le ho versato l’acqua nel bicchiere. Provai tanta

pena nel cuore: sarei entrata, l’avrei abbracciata, invece ho dovuto limitarmi a compiere solo quel

gesto che forse può essere stato interpretato da lei negativamente, quasi che io avessi paura di

infettarmi. Ma non era così... Anzi, tale era la sofferenza che avrei preferito in quel momento essere

io dall’altra parte, al suo posto, purché tutto fosse finito. Purtroppo sentivo dentro il peso

dell’obbedienza al Vescovo e a quanti avevano insistito perché osservassimo tutte le prescrizioni...

«Il penultimo giorno il dottor Philippe le ha messo di nuovo la perfusione, perché le sue

condizioni erano di sempre maggior debolezza. Spesso le veniva da vomitare. Mentre il medico le

praticava la perfusione, alcune gocce di sangue hanno sporcato la mano della sorella. Il dottore,

allora, con tanta delicatezza ha provveduto a ripulirla. Io, dal di fuori, osservavo la scena e mi

compiacevo della delicatezza con cui il dottore prestava questo servizio. A un certo punto notai che

il medico era scoppiato a ridere. Quando uscì, gliene chiesi il motivo. Lui, quasi arrossendo, spiegò:

“Mi ha detto che ho la delicatezza di una donna”. Devo dire che anch’io avevo avuto la stessa idea

osservandolo in azione... Di giorno e di notte lui è sempre stato pronto ad accorrere ad ogni

chiamata. Anche quando andava a vedere gli altri ammalati in ospedale, rimanevamo in contatto

con lui attraverso la “Motorola”. Si è offerto più volte di restare al mio posto durante la notte per

permettermi di andare a riposare. Ma non potevo accettare, sapendo come suor Rosa mi chiamasse

continuamente anche di notte. Lui pure si è reso conto di ciò allorché, una volta, avendo

dimenticato le chiavi, è rimasto sotto le stelle insieme a noi...

PAGINA 83:

L’abbiamo sentito come un nostro fratello, e forse qualcosa di più».

Il 27 sera il dottor Philippe comunica a suor Maria che ormai lui non spera più. Nelle primissime

ore del giorno dell’Ascensione il cuore di suor Vitarosa cessa di battere. Commenta la sua

Superiora: «Umanamente, l’ultima sconfitta».

Ma non era una sconfitta. Quelle due suore rimaste di sentinella, tra il muro e la chiesa, a fissare

una finestra, a captare una voce, a trasmettere un segnale di partecipazione, sono state il simbolo più

evidente di un amore che non si arrende, e alla fine, nonostante l’apparente sconfitta, risulta

vittorioso.

Ed ecco la descrizione dell’epilogo: «Verso le 13 della festa dell’Ascensione ci siamo

incamminati verso il cimitero. Tutto si è svolto nella povertà più assoluta e nell’isolamento più

crudo. Come per le altre Sorelle, erano presenti il Vescovo, père Francois, i due medici di Atlanta,

dottor Philippe e dottor Pierre, più qualche suora di altre Congregazioni. Proprio il funerale dei

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poveri, come dice il Fondatore: senza alcuna tomba... Allontanate, sfuggite come persone

pericolose, infette, perfino considerate peccatrici (secondo una certa credenza ancestrale)... Anche

questo ha contribuito ad aumentare la nostra sofferenza...

«...Due giorni dopo, suor Vincenzia, suor Béa e io siamo rientrate a casa nostra per rimanervi. In

questa casa, che poco più di un mese prima era vivace, chiassosa, movimentata, ora regna il vuoto e

la solitudine, anche perché il resto della comunità è ancora in isolamento, e vi rimarrà fino al 9

giugno...

«Quando finalmente abbiamo potuto riunirci, avevamo l’impressione di ritornare da un altro

mondo. Ci sembrava tutto un sogno, un’allucinazione.

«Tutte le volte che andiamo a visitare le tombe non facciamo che sperimentare e rinnovare

questa misteriosa realtà... Anche se per ora siamo ancora nel buio, crediamo fermamente che tutto

ciò che è avvenuto è per la più grande gloria di Dio, per il bene di ciascuna di noi, della nostra

amata Congregazione, della Chiesa intera. Speriamo anche ardentemente che serva pure per un mi-

PAGINA 84:

glioramento delle condizioni inumane di questo popolo che soffre terribilmente per la fame, le

ingiustizie sociali, ad ogni livello».

Suor Maria conclude così la sua toccante relazione: «È stata un’esperienza dolorosissima quella

che abbiamo vissuto, ma anche di tanto amore e tanta fraternità. Ci siamo sentiti veramente fratelli

con il mondo intero, anche con quelli di religione diversa.

«Un giorno, forse, diremo “Grazie per questa durissima prova che abbiamo vissuto».

PAGINA 85:

PER UNA VOLTA LA COLPA NON È DEI GIORNALI…

Hanno fatto il loro dovere

Per favore, no. Almeno stavolta non diamo addosso ai giornali. Hanno fatto il loro dovere. Non

c’è stato bisogno di ricorrere al sensazionalismo. Ebola è già fin troppo terrificante: nel descrivere

la sua azione, non si rischia tanto di esagerare o amplificare, quanto piuttosto di rimanere al di qua

della realtà.

Qualche inesattezza, data la situazione un po’ confusa degli inizi e la difficile identificazione del

virus, era inevitabile.

Cito tra tutti «L’Eco di Bergamo» con le sue cronache puntuali, serie, documentate, rispettose, i

commenti appropriati, e il sostegno offerto alle iniziative di aiuti per lo Zaire promossi dalla

Caritas.

E poi i settimanali, in prima linea «La nostra Domenica», quindi «Oggi», «Gente», «Famiglia

cristiana», «Visto», «La voce del popolo»...

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C’è stato anche qualcuno, come M. A. Alberizzi, inviato de «Il Corriere della Sera», che è partito

e si è unito al plotone di giornalisti, telecronisti e fotoreporter presenti a Kikwit, per descrivere dal

vivo ciò che accadeva in quei giorni terribili. Ecco ampi stralci della sua corrispondenza.

«Sono stato nell’inferno della città maledetta»

«Vestiti con un lungo camice verde coperto da un grembiule bianco, la maschera sul volto e un

elmetto con una grande croce rossa in fronte, guanti gialli che arrivano quasi all’ascella, i monatti di

Kikwit setacciano la città per raccogliere i cadaveri di quanti sono morti di febbre emorragica, la

micidiale malattia provocata

PAGINA 86:

dal virus Ebola. Sembra di assistere a una scena tratta dai Promessi sposi. Il gruppo avanza verso

una casa, spinge la porta ed entra. Poco dopo ne esce con un corpo, avvolto da un cencio bianco. Il

macabro fardello viene depositato su una barella a rotelle. Il viaggio verso l’ospedale viene fatto a

piedi. La gente è tenuta a distanza dai campanelli agitati dal primo dei monatti del corteo. Nessuno

si azzarda ad avvicinarsi a quel tremendo funerale.

«Siamo nella “città maledetta”. I cadaveri vengono portati all’Ospedale generale. Il loro sangue

deve essere analizzato per controllare se sono stati uccisi dal micidiale Ebola. I monatti li scaricano

con tutte le precauzioni del caso in una stanza apposita tenuta in isolamento e trasformata per

l’occasione in obitorio. I loro gesti sono lenti e misurati. Qualsiasi errore può costare carissimo...

«...Gli effetti di Ebola sono talmente devastanti e impressionanti che spaventano molto più di

quelli provocati da una malattia “normale”, seppure letale. A Kikwit la gente che ha visto familiari,

amici o vicini di casa morire così, è terrorizzata. Vede passare i convogli dei monatti e si domanda

cosa fare.

«“Portateci via di qui” implorava Clementine Mukaladudu chiedendo conforto ai giornalisti. La

sua casa è proprio davanti al cimitero, un ritaglio di terra sul ciglio della strada dove sono stati

seppelliti i morti di Ebola. “Con la pioggia”, racconta la donna, “il camposanto diventa una melma

di fango e nessuno mi toglie dalla testa che i corpi tumulati laggiù non vengano a contatto con

questi liquami e il virus maledetto non risalga in superficie”.

«La gente, che dal momento in cui ha saputo dell’epidemia era scappata, ora torna a casa ma è in

preda al panico. “Hanno detto di non aver contatti intimi e rapporti tra di noi”, dice Ado Mufenghe.

“Si può evitare di abbracciare la propria moglie, ma come si fa a negare un bacio ai propri

bambini?”.

«Le strade di Kikwit sono percorse di auto dotate di altoparlanti che invitano a osservare rigorose

regole comportamentali e igieniche. “Il contagio non è aereo ma avviene solo attraverso i liquidi

corporei: dal sudore allo sperma, dalla saliva all’urina”, grida un uomo nel suo microfono. Poi

lancia volantini in cui ci sono

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tre vignette che spiegano di non toccare gli ammalati, non adoperare siringhe già usate, non lavare i

morti (una pratica molto diffusa in Africa e che propizia l’ingresso in paradiso: obbligare la gente a

rinunciarvi è veramente un’impresa), bollire i vestiti prima di lavarli.

«I medici di Kikwit hanno cercato di compilare un “albero genealogico” della malattia,

individuando il primo colpito di Ebola. Si tratta di un giovane, certo Kimfumu di 36 anni che era

stato in Angola a raccogliere clandestinamente diamanti. È lì che è stato infettato da un animale. Da

una scimmia o più probabilmente, sostengono gli scienziati, da un topo. Quando Kimfumu torna a

casa, a Kikwit, dopo la sua gita, sta male.

«La colpa viene immediatamente data ai diamanti finiti in pancia. I medici tentano di operarlo

due volte, il 10 e l’11 aprile, ma in entrambi i casi, subito dopo averlo aperto, i chirurghi lo

richiudono: i suoi organi sono già in putrefazione. Ma intanto il maledetto virus ha già cominciato il

suo viaggio attraverso il corpo di altri disgraziati. I familiari di Kimfumu, uno dopo l’altro, muoiono

tutti, come muoiono anche gli infermieri che l’hanno curato. Tra questi c’è anche suor Floralba, la

prima delle religiose italiane dell’ordine delle Poverelle, stroncate da Ebola.

«Da suor Floralba il virus passa alle consorelle che l’hanno in cura17

: Clarangela, Danielangela e

Dinarosa che muoiono tra dolori atroci. Ma a questo punto a qualcuno viene in mente che possa

trattarsi di uno dei virus pericolosissimi che ogni tanto si fanno vivi con micidiale risultato in

Africa. Ma Ebola è già passato in altri corpi. Chi è stato contagiato ha viaggiato e ha trasferito fuori

Kikwit la bomba esplosiva che si porta con sé. Casi di infezione si verificano nei villaggi attorno a

Kikwit fino a Kenke, una città a 200 chilometri da Kinshasa.

PAGINA 88:

«Kinshasa è un agglomerato di 5 milioni di persone la maggior parte delle quali vive in baracche

o casette in muratura. Le condizioni igieniche sono pessime: non c’è acqua né servizi. Le fogne

sono a cielo aperto e emanano un fetore insopportabile. Se Ebola dovesse raggiungere uno dei

quartieri poveri di Kinshasa sarebbe la catastrofe, nessuno riuscirebbe a fermare un’epidemia che

potrebbe diffondersi in tutto il mondo.

«Le autorità zairote decidono di creare un cordone sanitario attorno alla capitale e non far entrare

nessuno che venga da Kikwit. In 15 giorni a ’Mbankala, 150 chilometri da Kinshasa, sulla via per

Kikwit, si forma una lunga fila di 300 autocarri. Ma bloccare i veicoli rischia di aggravare la

situazione, non risolverla. L’improvvisato bivacco di 3.000 camionisti e delle loro famiglie, diventa

un’altra bomba. Anche qui non c’è acqua, non ci sono servizi, non c’è cibo.

«Una visita al campo lascia stupefatti. Il puzzo è micidiale e penetra, senza problemi, nella

mascherina da chirurgo, consigliata a chi va a Kikwit e dintorni. È appena piovuto... In questo

ambiente le mogli degli autisti preparano da mangiare per i loro uomini e per i loro bambini. Un

17

Questo particolare non è del tutto esatto. Infatti è stata con certezza contagiata da suor Floralba unicamente suor

Danielangela. Si pensa che suor Clarangela e suor Dinarosa siano state contagiate all’ospedale di Kikwit, stando tra gli

ammalati. Invece suor Annelvira e suor Vitarosa sono state probabilmente infettate durante una grossa e inarrestabile

emorragia di suor Clarangela, che si è verificata la notte precedente alla morte della suora.

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piccolo fuoco dove sistemare una bacinella d’acqua nella quale sminuzzano foglie di manioca, il

cibo principale dello Zaire. Una donna seduta per terra in mezzo a questa fanghiglia allatta

sorridendo.

«Finalmente qualcuno si rende conto che mantenere una carica esplosiva di tali proporzioni alle

soglie di Kinshasa può favorire il diffondersi dell’epidemia, anziché arginarla. Il blocco viene

levato e trecento camion si precipitano in città carichi dei loro approvvigionamenti. Porteranno

l’Ebola?

«I medici dell’Organizzazione mondiale della sanità sono ottimisti. Secondo loro il virus, dopo

una serie di passaggi nel corpo umano, si attenua e perde quell’aggressività che lo contraddistingue:

“Abbiamo dato via libera ai camion e abolito il cordone sanitario attorno alla capitale”, spiega il

capo dell’Oms a Kinshasa, il nigeriano Abdul Moudi, “e sappiamo che stiamo correndo un rischio

gravissimo. D’altro canto sapevamo che chi voleva passare passava lo stesso e che il campo

spontaneo di ’Mbankala poteva

PAGINA 89:

esplodere all’improvviso. Magari non di Ebola, ma di diarrea, colera, tifo...”»18

.

«È peggio della guerra»

Si chiama Gian Micalessin, è un triestino trentacinquenne e di mestiere fa l’inviato di guerra. È

uno dei pochissimi giornalisti che ha avuto il fegato di penetrare nell’area di contagio. E dice

subito: «Non è un fronte, non c’è guerra qui, ma è peggio».

Anche lui si rifà alle immagini manzoniane della peste: «Al posto del carretto c’è un grosso

camion, che sembra quello dei rifiuti che gira per le nostre città italiane. Arancione, con le paratie

alte. Da esse sporgono delle specie di monatti del Duemila, vestiti tutti di verde, con i guanti, le

mascherine, gli occhiali di plastica, l’elmetto bianco con la croce rossa sopra. Sono dei volontari

locali che lo fanno per guadagnarsi il pane. Vanno di casa in casa a raccogliere i morti o gli

agonizzanti...».

Descrive l’ospedale: «...Una tipica costruzione africana, con bassi padiglioni, molto diversi da

quelli europei. Adesso l’ospedale è praticamente deserto. Il padiglione 3 è isolato, circondato da

grandi teloni di nylon nero che creano una zona di decontaminazione tra l’interno e l’esterno, una

specie di limbo tra la vita e la morte. Lì sono concentrati un centinaio di ammalati di Ebola. È una

zona dell’orrore... I medici sono altamente protetti, entrano con doppi guanti, tute Racal da

astronauta: il rischio è enorme. Il controllo dell’area calda è in mano al CDC di Atlanta, gli

americani sono i più esperti; con loro ci sono anche dei virologi zairoti che hanno seguito già

l’epidemia del 1976, dei sudafricani e alcuni francesi dell’Istituto Pasteur. Le zone di accesso sono

circondate da fosse con il cloro, in cui entri con i piedi. C’è qualche militare, ma chiunque, se vuole,

è libero di entrare in qualunque zona dell’ospedale. Qualche giornalista l’ha fatto. I loro racconti

sono raccapriccianti. Io moralmente non me la sono sentita. Perché? Ecco, ne ho discusso a cena

con Ingrid, un’inviata della Cnn

18

Corrispondenza da Kikwit apparsa su «Oggi», 31 maggio 1995.

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PAGINA 90:

che si è rifiutata persino di mettere piede a Kikwit. È immorale che noi giornalisti per andare a

informare rischiamo di portare il contagio in Europa, o anche solo a Kinshasa, mettendo a

repentaglio la vita di molte altre persone».

Spiega ancora: «Quando siamo arrivati a Kikwit, da una parte c’era il libro di Preston che dava

un’immagine veramente catastrofica della malattia; dall’altra erano i medici i primi a chiederci:

“Perché tenete i guanti e le mascherine? Non serve a niente, il contagio non avviene per via aerea”.

Alla fine si arrivava a sottovalutare il contagio, e finiva che all’ospedale c’era una gran via vai...».

Conclude Micalessin: «Ho ancora paura. In guerra, quando torni in albergo la sera e le pallottole

non ti hanno preso, dici: “Mi sono salvato, mi è andata bene”. Qui ti porti dietro il rischio di questa

morte tremenda, l’angoscia. Di fatto non sai niente, perché non è chiaro come si propaghi questo

virus. Certo, i medici ti dicono che avviene solo a stretto contatto, però li vedi che entrano solo tutti

bardati in ospedale... E poi non sai mai chi tocchi, la sera ti chiedi che cosa hai fatto durante la

giornata, ripassi la scena come in un film. Adesso per 20 giorni mi porterò dietro questa paura.

Provi un senso di inadeguatezza totale, non puoi far niente per difenderti, ti rendi conto di essere

completamente in balia della natura.

«Questo è un po’ il senso della grande paura di Ebola: l’uomo del Duemila, che con la scienza

può far tutto, di fronte a questo virus che emerge dal nulla dal cuore dell’Africa si trova

improvvisamente come l’uomo di 2000 anni fa che moriva per un’infezione»19

.

PAGINA 91:

UN PO’ DI GLORIA ANCHE DA QUAGGIÙ

Qualcuno si è ricordato di loro…

Il 13 luglio 1995, il Presidente della Repubblica Italiana, on. Oscar Luigi Scalfaro, che ai primi

di giugno aveva parlato direttamente al telefono con la Superiora Generale, indirizzava alle

Poverelle il seguente telegramma:

«Ringrazio Dio che mi ha dato la possibilità di conferire al vostro Istituto la medaglia al valor

civile. Di fronte all’eroismo umile, semplice, nascosto, fedelissimo alle sofferenze umane, delle

vostre ammirevoli suore, il massimo riconoscimento dello Stato pare poca cosa. Ma voi credete in

un premio che trascende ogni premio umano e non perde valore con il passare del tempo. Grazie a

nome dell’Italia».

Pure la Provincia di Bergamo ha conferito la medaglia d’oro alla memoria delle sei Poverelle

vittime di Ebola. La cerimonia si è svolta nella sala consiliare della Provincia il 16 ottobre dello

stesso anno, alla presenza del Vescovo, Mons. Roberto Amadei. È stato il Presidente stesso, prof.

Giovanni Cappelluzzo, a consegnare la medaglia alla Superiora Generale, suor Gesuelda Paltenghi.

Tra gli altri riconoscimenti, va segnalata una targa alla memoria delle Suore assegnata

dall’Associazione Nazionale Carabinieri, sezione di Ceprano.

19

Intervista a cura di Carlo Dignola, «L’Eco di Bergamo», 30 maggio 1995.

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Inoltre, il 10 giugno 1995, papa Giovanni Paolo II riceveva in udienza la Superiora Generale

insieme alle sue Consigliere, che parteciperanno anche alla S. Messa celebrata nella cappella privata

e riceveranno in dono dal Pontefice una casula rossa che verrà portata a Kikwit.

PAGINA 92:

Una catena di solidarietà da Bergamo allo Zaire

Non appena si sono avute notizie della tragedia che si stava abbattendo sullo Zaire e su Kikwit in

particolare, la Caritas diocesana, in collaborazione con il Centro Missionario e con le suore delle

Poverelle, ha teso la mano ai bergamaschi, che hanno risposto con una prontezza e una generosità

che sono proverbiali presso quella gente.

In breve si è superato il miliardo di lire. Inoltre sono stati raccolti aiuti di ogni genere,

specialmente in medicinali.

Le Poverelle, con un gesto che la dice lunga sul loro stile, non hanno voluto fosse riservata loro

neppure una parte dei fondi dell’operazione «Pro Zaire», ma che tutto confluisse nel conto della

Caritas. Gran parte di quegli aiuti saranno consegnati alla diocesi di Kikwit e saranno amministrati

da una speciale commissione composta dal Vescovo mons. Mununu, dal Vicario Generale, da

alcuni medici e missionari.

Richiesta accolta

Cessata l’emergenza-Ebola, il Direttore Generale dell’ospedale di Kikwit lanciava alle Poverelle

un accorato appello: «Vi supplichiamo di non abbandonarci, dopo tanti anni di presenza in mezzo a

noi. Non possiamo fare a meno della vostra opera».

La Madre Generale, ottenuto finalmente il segnale di via libera il 18 giugno, partiva per lo Zaire

per abbracciare le sorelle scampate al flagello, e per rassicurare tutti che la loro presenza laggiù non

avrebbe subito interruzioni. Anzi, non era mai stata messa in discussione.

Le sei Poverelle, dal cielo, avranno certamente considerato questa assicurazione come qualcosa

di più prezioso di tutte le medaglie.

PAGINA 93:

CHI

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PAGINA 95:

SUOR FLORALBA

QUELLA CHE VOLEVA

ATTRAVERSARE IL MARE

Il chiodo della missione

Aveva fatto parte della prima spedizione. L’anno 1952 rappresenta una data storica per la

famiglia delle suore delle Poverelle: cinque sorelle partono per la missione in terra d’Africa,

destinazione Zaire (che, allora, si chiamava Congo Belga). Tra esse c’è, appunto, suor Floralba, che

quand’era ancora ragazzina aveva dichiarato con stupefacente ingenuità:

– Quando mi faccio suora, attraverso il mare, salvo un’anima e poi muoio.

Rosina Rondi nasce a Pedrengo (provincia di Bergamo) il 10 dicembre 1924, prima di otto figli

(dopo di lei verranno tre fratelli e quattro sorelle), di cui dovrà occuparsi, appena quindicenne, a

causa della morte precoce della mamma.

Sperimenta ben presto che cosa vuol dire dimenticare se stessa e le legittime esigenze personali

per occuparsi degli altri. Ed è proprio in famiglia che impara ad assumersi precisi e pesanti compiti.

Voce del verbo sacrificarsi. Per un certo tempo va anche a lavorare in filanda, in modo da portare

qualche soldo in più a casa. Nove bocche da sfamare non sono uno scherzo.

Quel ruvido apprendistato le tornerà molto utile e costituirà la base insostituibile delle sue

responsabilità future.

Rosina è un tipo che riesce a mettere insieme parecchie cose, rivelando notevoli doti di equilibrio

e rispettando una precisa gerarchia di valori: famiglia e apostolato nell’Azione Cattolica, Chiesa e

fatica quotidiana, preghiera e preparazione del pranzo, Messa al mattino e lavoro di rammendo

quando è già notte.

Nel suo cuore sta maturando la vocazione religiosa. O, più precisamente, la vocazione

missionaria. Sì, perché Rosina non riesce

PAGINA 96:

a concepire l’essere suora senza essere missionaria. Verrebbe da dire che, per lei, l’aspirazione

missionaria preceda la scelta stessa della vita religiosa. Ma, forse, è più esatto affermare che, per

Rosina, la suora e la missionaria fanno tutt’uno.

Voce del verbo aspettare

Comunque, per ora, è costretta dalle circostanze a soffocare quegli ideali. Concretamente, deve

occuparsi della numerosa famiglia. È quello il compito primario cui non può e non vuole sottrarsi.

Sarebbe ingiusto, oltre che crudele, lasciar ricadere esclusivamente sulle spalle del babbo, che deve

già tirare una carretta boia per garantire il necessario, tutto il peso dell’educazione degli altri sette

figli rimasti orfani di madre.

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Aspirazioni ideali o necessità concrete? Il problema, certo, si poneva in maniera anche lacerante,

e non era possibile eluderlo. Rosina deve averne sofferto, senza tuttavia lasciar trapelare nulla

all’esterno della trama di pensieri che tesseva nel proprio intimo. Si affidava al suo ormai

consolidato buonsenso o, se si preferisce, senso pratico.

Si trattava di rimanere a casa, lasciando tuttavia aperta la porta verso il mare... Dedicarsi

totalmente alla realtà che sta sotto gli occhi, e insistere nello stesso tempo a guardare lontano.

Rinunciare a partire, senza tuttavia strappare il biglietto di viaggio e aspettando il segnale.

Il segnale si produsse in una maniera inaspettata e per una serie di circostanze fortunate. Il babbo

si risposò ed ebbe ancora due figlie. Rosina intrecciò ottimi rapporti con la matrigna, e proprio

questa divenne la depositaria del segreto che lei custodiva nel cuore, le fornì tutto il suo appoggio

per la realizzazione, superando le resistenze e la diffidenza del padre.

Particolare significativo. La seconda della sorelle «acquistate», Rosanna, parteciperà

intensamente, pur stando in famiglia, al sogno missionario di Rosina. Infatti adotterà una bambina

zairese per la quale suor Floralba manifesterà sempre un vivo interessamento, come dimostrano le

lettere indirizzate alla sorella.

PAGINA 97:

Dove suona la campana?

Rimaneva la scelta dell’Istituto. Il cuore batteva indubbiamente dalla parte delle Poverelle. Ma

c’era una difficoltà pressoché insormontabile da superare: le «figlie» del Palazzolo non avevano le

missioni, le Suore di Maria Bambina invece sì. Rosina ripiegò su queste ultime, che tra l’altro

tenevano la Casa a distanza di suono di campana da quella delle Poverelle. Proprio quella campana

avrebbe costituito una trappola provvidenziale.

Dopo pochi mesi, però, senza neppure ripassare in famiglia, Rosina traslocò dalle Poverelle.

Spiegherà che, quando sentiva suonare la campana del Palazzolo, il suo cuore si metteva in tumulto.

Non riusciva ad avere pace, le sembrava di aver consumato un tradimento. I Superiori capirono il

suo dramma e non ostacolarono il trasloco, rendendolo indolore.

Allorché Rosina si presentò alla porta delle Poverelle aveva ventun anni, e l’Italia stava

sgomberando le macerie provocate dalla guerra.

La scelta missionaria? Beh, Rosina non ci aveva rinunciato. Intuiva che anche quella strada,

presto o tardi, si sarebbe aperta. E lei aveva imparato ad aspettare, ossia a sperare.

Non dovrà attendere molto il nuovo segnale di partenza: sette anni, un’inezia.

Rosina, frattanto, è diventata suor Floralba e ha frequentato la scuola per infermieri

professionali. È stata anche spedita in Belgio a seguire un corso sulle malattie tropicali.

Suor Floralba sbarca in Zaire dopo una navigazione di venti giorni. Prima di partire si è limitata,

con poche parole «materne», a raccomandare ai fratelli di rimanere uniti.

Ha realizzato metà del suo proposito infantile: si è fatta suora e ha attraversato il mare. Restano

gli altri due punti del programma («salvare un’anima», e «morire»).

Ben presto suor Floralba, che è tipo da coltivare pazientemente gli ideali più elevati spazzando

via però le illusioni, si rende conto che lì la salvezza delle anime passa attraverso la salvezza dei

corpi aggrediti dalla denutrizione e dalle malattie più impossibili.

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PAGINA 98:

Quanto alla morte, bisognerà aspettare il segnale che, come tutti gli altri, dipende da Qualcuno

che tiene in mano la corda della campana. E, stavolta, l’attesa si rivelerà piuttosto lunga: quarantatré

anni.

La suora che non riesce a dire no

Il campo d’azione assegnato è Kikwit, un centro piuttosto importante nel territorio del

Bandundu. Qui suor Floralba non deve più aspettare nessun segnale: non c’è che da rimboccarsi le

maniche, perché le necessità sono sterminate e hanno carattere di urgenza.

L’attività missionaria di suor Floralba si esprime nei grossi numeri: venticinque anni

nell’ospedale civile di Kikwit, sei in quello della capitale Kinshasa, e dieci nel lebbrosario di

Mosango.

A osservarla in azione, e a coglierne gli atteggiamenti caratteristici, la si potrebbe definire come

«la suora che non riesce a dire di no». Viene in mente Paolo: «Dio è testimone che la nostra parola

verso di voi non è “sì” e “no”. Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi... non fu

“sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute

“sì”» (2 Cor 1, 18-20).

In suor Floralba c’è soltanto il «sì». O, più esattamente: dice ininterrottamente «sì» a Dio e agli

altri, riservando il «no» a se stessa e alle proprie esigenze.

Dopo una lunga filza di anni di missione, lei non riesce proprio a fare il callo alla miseria, ad

abituarsi alla sofferenza altrui. Di fronte a certi spettacoli che la sconvolgono come il primo giorno,

non ce la fa a dire «no». Ed eccola mettersi in tasca, furtivamente, una pagnotta, un uovo (frutto del

«no» opposto al proprio stomaco) e camminare a passi rapidi nel viale dove è fissato

l’appuntamento con un poverocristo avvolto negli stracci di un malato di tubercolosi o di un

lebbroso. Così pure per le medicine e altri generi di prima necessità.

I suoi infiniti gesti di umanità, compiuti quotidianamente nella clandestinità (ma qualcosa,

nonostante lei adotti tutte le precau-

PAGINA 99:

zioni, trapelava sempre) la facevano considerare, nel Bandundu, una specie di copia, o di

controfigura, di Madre Teresa di Calcutta. Ma lei si accontentava di essere una Poverella. Era suor

Floralba e niente altro. L’abito e la nicchia di un’altra le andavano decisamente larghi (o, forse,

stretti). Quanto all’aureola, non ci pensava neppure, e poi l’avrebbe impacciata.

Riusciva a far dire «sì» anche alla generosità della sua gente di Pedrengo e zone vicine,

provocando una commovente catena di solidarietà che allacciava il bergamasco con lo Zaire.

Tutt’altro che timida, suor Floralba, quando si tratta di tendere la mano per soccorrere i suoi

poveri e reclamare giustizia per loro. Non esita, infatti, a presentarsi davanti al generale Mobutu a

patrocinare, umilmente ma con estrema decisione, la causa dei ricoverati nell’ospedale di Kinshasa,

le cui condizioni offendono le regole più elementari dell’umanità.

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Allorché raggiungeva Pedrengo, dove i suoi parenti possiedono un’azienda agricola, e vedeva

sacchi di pane raffermo, esclamava: «Ah, se li avessi io per i miei bambini!».

La sorgente della forza

È opportuno anche spazzar via un equivoco. Sarebbe riduttivo, infatti, presentare suor Floralba

come una incontenibile faticatrice, un’attivista frenetica, una faccendona inarrestabile. Si

commetterebbe un torto colossale nei suoi confronti se si appiattisse la sua figura esclusivamente

sul terreno caritativo e sociale.

In lei c’è qualcos’altro, che poi e il più. Per scoprire la dimensione interiore che fa da supporto e

spiega la dedizione totale di questa suora al servizio dei poveri, sarà sufficiente citare un episodio

significativo. La trovavano spesso in chiesa, inginocchiata sul nudo pavimento, col tabernacolo a

portata di sguardo. Si sapeva che era reduce da lunghe e spossanti ore di sala operatoria oppure da

chilometri percorsi scarpinando assiduamente in corsia o per i vialetti che sapeva lei. Le consorelle,

immancabilmente, le facevano presente che doveva andarsi a riposare, o

PAGINA 100:

comunque poteva anche sedersi. E lei, altrettanto immancabilmente, replicava:

– E dove pensate che prenda la forza se non da qui?

Ritorno amaro

Nel 1994, inaspettatamente, era stata richiamata a Kikwit, sua culla missionaria. Trovò una

situazione piuttosto deludente e comunque assai diversa da quella che aveva lasciato sedici anni

prima. Ciò le provocò notevole delusione e amarezza. Lo sta a testimoniare questa lettera, dai toni

confidenziali, indirizzata alla Madre Generale:

«Perdoni se non le ho scritto prima, ma non me la sono sentita: volevo aspettare un po’. Essendo

stata tanti anni a Kikwit, appena giunta ho avuto l’impressione di essere sempre stata qui...

«Tuttavia, quando ho visitato l’ospedale, mi sono cadute le braccia... Comunque mi sono detta:

io non ho chiesto di tornare in questo luogo, anzi non ho mai pensato che mi ci mandassero di

nuovo, dal momento che c’ero già rimasta venticinque anni.

«Dunque sono sicura di essere nella volontà di Dio, e ciò mi dà pace e gioia. Io cerco di stare

vicina ai malati e di seguire i più gravi. Avendo meno lavoro, mi sono proposta di essere più

paziente, più buona, più gentile con tutti.

«Voglio, in questi pochi anni che mi restano, testimoniare la bontà e l’amore misericordioso del

Padre. Penso di frequente alla morte e sento il desiderio di essere più buona, di cercare solo il

Signore in tutto, in modo che Egli sia sempre al centro della mia vita».

Le possono anche cadere le braccia. Ma subito, passato il primo momento di sconforto, si mette

al lavoro. La praticità di suor Floralba si esprime perfettamente in questo suo atteggiamento.

E poi: «Sono sicura di essere nella volontà di Dio, e questo mi dà pace e gioia». La spiritualità di

suor Floralba è tutta racchiusa in questa semplice frase.

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La sua pedagogia, poi, è sintetizzata in questi consigli che dava a una giovane suora zairese:

«Nel povero c’è il Cristo che tu ser-

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vi; che esso sia un ladro, un bandito, un mendicante... se ti chiede qualcosa, daglielo; se ti si

avvicina, accoglilo. È la carità quella che tu fai; se quello mente o ti ruba, è lui che compie il

peccato, ma tu vivi la carità....

La conoscevano solo come mamma

Quando cade malata si pensa a una febbre tifoidea. Il virus di Ebola non è stato ancora

individuato, e lui circola camuffato sotto falso nome, iniziando così a compiere, indisturbato, la sua

azione devastatrice. Lei sicuramente ne è stata aggredita in sala operatoria, ed è possibile perfino

stabilire una data abbastanza precisa: 10 aprile.

Suor Floralba, dopo che il male si è aggravato in maniera preoccupante, viene riportata il 20

aprile, in seguito a un suo esplicito desiderio, a Mosango nella sua «cittadella della carità»,

miracolosamente avvolta nel verde. Si ritrova in mezzo alla sua famiglia di lebbrosi, tubercolotici,

denutriti e malati vari.

Nei giorni successivi continua a preoccuparsi degli altri e, pur costretta a letto, rivolge consigli,

raccomandazioni, suggerimenti pratici agli infermieri.

Riferisce suor Annamaria Arcaro: «Non ha mai emesso un lamento. La sua preoccupazione era

la scheda per la consultazione20

. “Dobbiamo pensare per l’avvenire”, diceva. Mi ha chiesto

consiglio, e poi mi ha invitata a scrivere per lei il nome che desiderava. Per tutta la giornata di

sabato 22 è rimasta in delirio e ha continuato a “curare i malati”... Verso le quindici è venuto, per

l’Unzione degli infermi, padre Mario Cogliati, che era assai commosso, perché le voleva molto

bene. Al termine suor Floralba ha detto: “Oh, avete cantato molto bene”».

Lei è la prima vittima, tra le suore, di quel virus assassino per ora senza nome. Muore il 25 aprile

1995 (ore 9,45), all’età di set-

PAGINA 102:

tantuno anni. Manco a dirlo, ha captato prontamente il segnale ultimo.

Certamente non è riuscita a fare il conto dei corpi salvati in quarantatré anni di missione, dopo la

fatidica traversata del mare. Quanto alle anime, quello è un conto che soltanto Dio sa fare.

Il Vescovo mons. Mununu pretende che i funerali si svolgano a Kikwit. Ancora suor Annamaria:

«Quando la salma è giunta a Kikwit, è stato un “urlo unico”. Da allora la gente se ne è

impossessata. Noi non ne eravamo più padrone. È stata portata in tutti i padiglioni. La stessa notte

di mercoledì 26 è stata vegliata nella cattedrale...».

20

In estate doveva tenersi il Capitolo Generale dell’Istituto, poi rimandato all’ottobre 1995.

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I funerali vengono celebrati il 27, nel duomo di Kikwit gremito di folla e autorità. Il Vescovo

dirà semplicemente: «Voi non la conoscete come suor Floralba Rondi, la chiamavate mamma». Di

fatto la gente la riconosceva come «mamma mbuta», ossia «mamma anziana» (il titolo veniva

attribuito a suor Floralba, in quanto era la suora arrivata per prima a Kikwit).

Sì, mamma può bastare. Del resto, lei aveva cominciato a fare da mamma quando aveva appena

quindici anni...

Qualcuno attende in fondo al viale...

Scommetto che, se qualcuno è andato a frugare nelle tasche della sua veste, probabilmente vi ha

trovato un uovo o un pezzo di pane...

Comunque, da parte nostra, il modo migliore di ricordarla consiste nel rendersi conto che,

appiattato in qualche angolo del viale, c’è sempre un povero in attesa.

Sta a noi captare quei segnali che suor Floralba non si è mai lasciata sfuggire.

La campana suona anche per i sordi.

E il capo della corda è tenuto da Uno che non tollera ritardi.

Suor Floralba è in grado di fornirci informazioni al riguardo.

PAGINA 103:

SUOR CLARANGELA

QUELLA CHE ARRIVAVA FISCHIETTANDO

«Ma dove vuole andare?»

Quando, in paese, si diffuse la notizia che Sandra andava a farsi suora tra le Poverelle, alcune sue

compagne commentarono:

– Ha scelto le suore delle Poverelle: ma più povera di così dove vuole andare?

Indubbiamente la povertà Sandrina la conosceva e viveva già in famiglia. I suoi abitavano in una

casetta alla periferia di Trescore Balneario (Bergamo), dove il padre faceva il mezzadro alle

dipendenze dei Gonzembag, specie di signorotti locali, e la madre lavorava in filanda.

Ma Sandra prendeva la strada del convento non semplicemente per vivere ancora più

poveramente, ma per servire i poveri, ossia per combattere la povertà.

Certo, godeva del vantaggio di non aver bisogno di imparare la povertà sui libri e sui documenti

o costruirsene un’immagine ideale, col rischio di cadere nella retorica della povertà. Lei i poveri li

conosceva perché apparteneva, fin dalla nascita, alla loro stessa categoria. Ne aveva sperimentato e

condiviso la fatica, l’insicurezza, i disagi, le privazioni, gli innumerevoli bocconi amari da

inghiottire.

Le sarebbe stato agevole, perciò, mettersi sulla loro stessa lunghezza d’onda, senza bisogno di

tanti discorsi e spiegazioni.

Era nata a Trescore, da Michele e Angiolina Ghilardi, il 21 giugno 1931, ultima di quattro

fratelli. Una ragazza ammodo, senza grilli per la testa. D’altra parte, in quella casa il grosso

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problema era assicurare il pane quotidiano e non ci si poteva consentire il lusso di coltivare grilli di

sorta. I grilli venivano lasciati a fare i can-

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terini nei campi. Forse, in famiglia, non li sentivano nemmeno, storditi com’erano, la sera, dal duro

lavoro.

La ragazza dalle lunghe trecce bionde

Una compagna delle elementari ne traccia questo ritratto essenziale: «Sandra aveva delle lunghe

trecce bionde ed era una ragazza buonissima. Non si lamentava mai. Frequentava la nostra stessa

classe e la domenica veniva a giocare all’oratorio femminile».

La vita si srotolava nella massima semplicità. La bontà, la disponibilità verso gli altri, la

modestia facevano parte del clima familiare. Coi vicini ci si dava una mano quand’era il caso (e lo

era sovente). In quegli ambienti le necessità del prossimo vengono avvertite, quasi «fiutate»

d’istinto, senza neppure bisogno scocchi la richiesta esplicita. Lo scambio di favori, i piccoli gesti di

solidarietà, gli interventi fuori programma per rimediare a un guaio imprevisto, l’aiuto per superare

una difficoltà, sono all’ordine del giorno e vengono forniti con la massima naturalezza, senza

proclami altisonanti. E tutto viene saldato con un semplice «grazie», borbottato nell’ispido dialetto

bergamasco composto, come osservava con acutezza Giovannino Guareschi, unicamente dalle

cinque vocali che, però, sono conficcate in gola, e ne vengono espulse di forza, raddoppiate, come

«colpi di tosse fonetici». Più o meno cosi: «Haa...hii...hee:...», che vuol dire, appunto, «grazie».

Di proseguire gli studi, dopo le elementari, neppure a parlarne. Sandra va a imparare il mestiere

di sarta dalla mitica signora Ercolina, con la quale manterrà anche in seguito rapporti improntati alla

massima spontaneità e confidenza. Quei dieci anni di apprendistato in una sartoria di paese si

riveleranno assai utili quando sarà nello Zaire.

Da parte sua Ercolina, novantenne, ricorderà così la sua diligente allieva: «Era una santa, come

sua mamma. Ha lavorato da me per molti anni e non l’ho mai sentita lamentarsi una volta, e

neppure parlar male di qualcuno. Era sempre contenta...

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Un giorno è venuta la mamma a dirmi che sua figlia entrava in convento. Da allora l’ho rivista

suora...». Come a dire: un carattere d’oro. Sandra lavorerà anche in una fabbrica di bottoni.

Un «sì» che dura tutta la vita

Entra a far parte della famiglia del Palazzolo a 21 anni. Superfluo precisare che è matura ben

oltre la sua età. Quando si cresce in un ambiente come quello in cui è vissuta lei, se non si è maturi

a vent’anni non lo si diventerà mai. Suor Clarangela (questo, infatti, è il suo nuovo nome) riceve

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piuttosto una formazione specifica per la missione: scuola per infermieri a Roma, e il solito corso

per malattie tropicali ad Anversa.

Allorché viene destinata alla missione dello Zaire, nel 1959, non ha ancora fatto la professione

perpetua. Lei, però, fin dall’inizio ha giurato fedeltà al Signore e ai poveri (secondo la sua logica

elementare, un’unica fedeltà). E il «sì» di creature come suor Clarangela, magari formulato

mentalmente in dialetto bergamasco (senza consonante ma con due o tre «i» precedute dalla

«acca»), non può che avere la durata della vita intera.

Presta il suo servizio infermieristico dapprima a Kikwit, poi a Mosango, quindi ancora a Kikwit.

Nel 1970 si trattiene in Italia giusto il tempo per guadagnarsi il diploma in ostetricia, e ritorna tra i

malati a Tumikia, e successivamente a Mosango. Infine, due anni prima della morte, torna a Kikwit.

In totale fanno trentasei anni di vita missionaria.

Gli spostamenti continui da una sede all’altra, a seconda delle necessità, per lei non costituivano

un problema: i poveri erano gli stessi da per tutto. E questo le bastava. I poveri, laggiù, non le

mancavano certo. E lei non mancava ai poveri.

Spiccava per concretezza, che deve aver assorbito dalla sua terra. Sapeva coniugare dolcezza con

fermezza. Riservava per sé la scorza aspra e spinosa del sacrificio e della rinuncia, regalando agli

altri unicamente la polpa della carità più squisita e sorridente.

Proverbiale era la sua prontezza a rispondere alle chiamate. In

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un reparto di maternità la vita non può attendere. E lei, per raggiungere più in fretta il suo

padiglione, si serviva di un motorino scatarrante. Il carburante ce l’aveva dentro suor Clarangela.

Anche le chiamate notturne, per parti difficili, erano piuttosto frequenti. E lei si liberava

facilmente delle pesantezze del sonno. Ormai c’era avvezza, attraverso un allenamento continuo.

Da questa disponibilità, da questa donazione totale, riservava per sé solo il diritto di essere felice.

Il suo arrivo in comunità, per i parti e la preghiera, era segnalato, in lontananza, da un

inconfondibile canticchiare o fischiettare.

«Con spirito umile e povero»

Possiamo aprirci uno spiraglio nel mondo interiore di suor Clarangela, sfogliando

rispettosamente un suo quadernetto di appunti.

A conclusione di un Corso di Esercizi, fatto in Zaire (a Kasanza), nell’ottobre del 1978, scrive:

«Signore, qui davanti a te, in questo ultimo giorno di Esercizi, formulo questi propositi:

1. Vita di preghiera più profonda e più curata. L’Eucarestia sarà la sorgente per attingere la

forza giorno per giorno. Anche quando il mio pregare incontrerà aridità, voglio restare, nonostante

tutto, fedele.

2. Carità senza misura, solo per il puro tuo amore. In primo luogo, in comunità, tra le mie

consorelle, considerandomi l’ultima di esse e vivendo la vera comunione. E poi carità verso i miei

fratelli: essere accogliente, disponibile con tutti, specialmente con gli ammalati, i poveri, gli

abbandonati, e con quelli in cui a volte è difficile riconoscerti.

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Infine ti dico grazie, Signore, per il tuo amore. Ti offro la gioia della mia donazione, gioia che mi

sforzerò di vivere tra questi fratelli con spirito umile e povero, consapevole del nulla che sono e del

tutto che sei. Gesù, mite e umile di cuore, rendi il mio cuore simile al tuo».

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Bastano, al di là delle note scarne, quelle due espressioni «gioia della mia donazione» e «con

spirito umile e povero» per comporre il ritratto di suor Clarangela.

«Lottando per aiutare i poveri»

Adotta uno stile confidenziale, scrivendo alla Madre Generale, come testimoniano queste righe

stralciate da due sue lettere:

«...Di me le dico subito che sono contenta di essere qui a Kikwit, in questa comunità, e di

compiere così la volontà del Signore, giorno per giorno, accettando le pene e le difficoltà dovute a

questi tempi critici, lottando per aiutare i poveri. Chi li può ancora contare?...

«Oltre al servizio della clinica, do un aiuto alla farmacia e a suor Maria nella contabilità

dell’ospedale. In questo sono proprio una povera aiutante, ma spero, con il tempo e l’esercizio, di

essere maggiormente utile. Ancora un altro aiuto è quello di pasticciera della comunità per le feste

di circostanza. E adesso, con l’assenza di due sorelle, ci aiuteremo nei vari servizi...» (12 giugno

1994).

E ancora, in occasione di un Corso di Esercizi:

« ...Mi ha colpito la domanda: come amare Dio? Si tratta di amarlo con una misura senza misura.

Così mi sono lasciata penetrare dalla ricchezza di questo insegnamento, che risulta grandioso per

questo orizzonte di amore sconfinato che spalanca. Quante volte mi sono posta la domanda: “cosa

ho fatto, così misera che sono, per meritarmi che Dio mio Padre mi ami con tanta tenerezza?...”» (7

settembre 1994).

In quest’ultima lettera si firma: «la sua povera suor Clara, felice».

«Lasciami andare dal mio Signore».

L’agonia straziante e gloriosa di suor Clarangela ci viene descritta dalla Provinciale suor

Annelvira:

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«Il 29 aprile a mezzogiorno suor Clarangela dice che sente febbre: ha 38°. Il medico le fa fare gli

esami, che rivelano leucocitosi con neutrofilia. Si cura anche la malaria, poiché questa terribile

malattia si presenta in modo subdolo e come paludismo. Febbre e vomito non la lasciano in pace;

appare un’astenia, un calo pressoché giornaliero (cioè un peggioramento). Si prelevano esami per il

Belgio, nel timore di una febbre emorragica virale, come quella avvenuta a Yambuku... Flebo,

vitamine, premura e vicinanza perché sentivamo che la cosa si faceva seria...

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«Suor Clarangela ci ha lasciato il 6 maggio (1° sabato) all’una di notte. Il cuore ha ceduto! È una

forma tremenda! Non c’è una normale coagulazione del sangue, per cui le lascio immaginare le

emorragie... Suor Clara ha offerto anche lei per la Congregazione, la Chiesa dello Zaire, il Capitolo,

le giovani suore. In quell’ultimo venerdì continuava a ripetere: «Vieni, Signore Gesù, vieni presto a

prendermi. Abbi pietà, Signore, della nostra comunità, del nostro popolo. Tu vedi i bisogni, ma io

voglio fare solo la Tua Volontà!».

«Ero lì con suor Vitarosa, ci è morta tra le braccia... ma non dimenticherò questo suo ardente

desiderio di vedere il Signore! Poche ore prima mi disse:

– Anna, lasciami andare...

Le domandai:

– Dove?

E lei:

– Dal mio Signore».

Le creature del silenzio che fanno funzionare il mondo

Suor Clarangela era una di quelle creature che, non fosse intervenuta quella morte clamorosa,

non avrebbe mai fatto parlare di sé.

Lei stessa non desiderava altro che passare inosservata. Una presenza discreta, eppure necessaria.

Un servizio umile, poco ap-

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pariscente, eppure tanto più utile, e perfino indispensabile, quanto meno appariscente.

Di persone come lei, per nostra fortuna, ce ne sono decine di migliaia... E sono precisamente

quelle che «fanno funzionare il mondo».

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SUOR DANIELANGELA

QUELLA COL CIUFFO RIBELLE

I diritti della «minore età»

Quello che si dice un caratterino. Determinata, capace di puntare i piedi, decisa ad avanzare

verso una certa porta quando tutti la stanno strattonando perché arretri, eviti di commettere quella

sciocchezza, non compia un passo di cui avrebbe potuto pentirsi. Tutti coalizzati contro di lei, e lei

che tiene testa (una testa caratterizzata da un ciuffo ribelle e sbarazzino) a tutti.

Sa quello che vuole... e lo vuole. Ad ogni costo. E ciò a diciotto anni. Gli altri le buttano addosso

il solito argomento della «minore età». Ma lei rivendica, per certe scelte di vita, non certo per un

capriccio, i diritti delle minorenni.

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E poi pensa che uno può essere immaturo anche a quarant’anni, mentre c’è chi, molto prima dei

venti, è allenato a far funzionare il cervello e a muoversi dopo aver ponderato bene ogni cosa. E lei

non è tipo da agire alla leggera, non bisogna badare alle apparenze, ossia al ciuffo: riflette, si pone

delle domande, prega, medita, non scansa nessuna delle questioni più difficili.

I fratelli, quando lei manifesta l’intenzione di entrare in convento a diciotto anni, scatenano un

putiferio anche giudiziario. Mobilitano tutte le persone autorevoli che hanno a portata di mano,

prevosto compreso.

Per carità, si tratta di brava gente che non ha nulla contro la religione, ci mancherebbe altro, nella

parentela non mancano preti e suore. Tuttavia, nel caso di Anna, la cosa è diversa: lei è troppo

giovane, adesso è troppo presto, aspetti ancora un po’. Se, fra tre anni, non avrà cambiato idea, non

saranno loro ad ostacolarla nella sua vocazione.

Insomma, si forma una specie di catena di salvataggio della

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«sconsiderata». Si cerca dapprima di convincere la tutrice. Quella, però, non ha nulla da obiettare al

fatto che Anna vada suora.

Promesse, suppliche, minacce, toni duri e «mozione degli affetti», discussioni interminabili con

urla e lacrime e pugni martellati sul tavolo. Lei è irremovibile come un macigno.

Allora si va in tribunale. A questo punto la catena ha perso qualche pezzo, sono rimasti in sei

fratelli, ma questi sono decisi a spingersi fino in fondo pur di sbarrare la strada alla sorellina

testarda. Il giudice per i minorenni non bazzica la chiesa, e poi lui stesso ha in casa una brutta gatta

da pelare come quella che gli viene messa in mano.

Anna non si scompone. Alla fine, l’uomo armato di codice e scarso di fede allarga le braccia e

tira le conclusioni rivolgendosi ai fratelli in rivolta:

– Avete ragione, Anna è giovane, e voi il vostro dovere l’avete fatto. Però dovete tener conto che

è una ragazzina molto preparata. Io non posso oppormi, non so cosa dirvi...

Un’identica sentenza viene emessa dal parroco monsignore:

– La ragazza è sicura della sua decisione e si dimostra molto preparata.

Insomma, la spunta lei contro tutta la parentela e dintorni coalizzati.

Le lungaggini legali sono riuscite a ritardare il passo fatidico soltanto di pochi mesi. Infatti,

quando Anna entra tra le Poverelle, il 1° marzo 1966, è sulla soglia dei diciannove anni.

Volevano tenersi il gioiello di famiglia

Per comprendere i rapporti burrascosi coi fratelli, bisogna tener conto della situazione familiare.

Anna, paradossalmente, è la prediletta, tutti si sentono in dovere di tutelarla, di evitare che prenda

decisioni avventate. In altre parole: è il gioiello più prezioso di una famiglia povera e loro

pretenderebbero di tenerselo il più a lungo possibile.

C’è spesso una maternità (o paternità) possessiva. In questo ca-

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so si verifica il fenomeno di una «fraternità» gelosamente, ferocemente e pateticamente possessiva.

Lei era l’ultimo, delicato anello di una catena di tredici figli nati dal matrimonio tra Daniele e

Angela Sorti, originari di Lallio, ma abitanti nella città di Bergamo, in zona Loreto. Tra Anna e il

primogenito ci sono ventitré anni di differenza.

Poteva essere considerata un’intrusa, una concorrente pericolosa, dal momento che le condizioni

economiche dei Sorti non erano certo floride. Un posto in più a una tavola già abbastanza avara, in

quelle situazioni, obbliga gli altri a stare più stretti e a ridurre le dimensioni del piatto.

Invece, no. Assicura la sorella Maria: «È stata considerata come l’angelo della famiglia. Quando

è nata abbiamo fatto una gran festa in casa».

Tutto viene compiuto in gran fretta. Anna nasce il 15 giugno del 1947, una domenica mattina,

quand’è ancora buio. Si decide di battezzarla il giorno stesso. L’ostetrica ha stabilito che il

battesimo amministrato di domenica procura l’indulgenza. L’unica difficoltà è che la madrina

prescelta abita lontano e non è possibile raggiungerla subito con i mezzi a disposizione (di telefono,

manco a parlare).

Dovendo scegliere tra madrina predestinata e l’indulgenza, si opta per l’indulgenza, ossia... per

la sorella più grande, Maria, diciassettenne. Farà lei da madrina vicaria. Ciò spiega il rapporto

particolare, piuttosto complesso, che si stabilirà tra le due. Maria si sentirà sempre qualcosa più di

una sorella nei confronti della «piccina» e, allorché si scatenerà la «guerra dei diciotto anni», sarà

lei la combattente più ostinata, anche se destinata a soccombere. Infatti, tra due «irriducibili», la

spunterà quella «più irriducibile».

La famiglia deve registrare lutti penosissimi in serie, che incidono sulla vita di tutti. Papà

Daniele muore nel 1955, quando Anna ha otto anni. L’anno successivo muore anche la mamma.

Passano due anni ed ecco che, in un tragico incidente, perde la vita il fratello Tarcisio.

Anna frequenta le elementari alla scuola «Armando Diaz».

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Non brilla particolarmente negli studi, tuttavia si arrangia. Fin dall’adolescenza, è costretta a

sbrigare le faccende domestiche. In Casa, con tutti quei fratelli, il lavoro non manca certo, e ognuno

deve fare la sua parte.

Forbici crudeli

Anna ama la musica e lo sport. Le piace andare a cavallo (ma non bisogna pensare

all’equitazione, che è roba da ricchi) e in bicicletta (una delle mete abituali è il santuario di

Caravaggio).

Ci tiene alla cura della persona, con un tocco di eleganza e perfino di stravaganza (per quel

tempo). Per esempio, non è disposta per nessuna ragione al mondo a rinunciare a un ciuffetto

sbarazzino che lei si lascia scendere sulla fronte. La sorella Maria continua a rimbrottarla e, infine, a

minacciarla:

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– Va a finire che una buona volta te li taglio io quei ridicoli capelli...

Lei da quell’orecchio non ci sente e stavolta la battaglia, a colpi secchi di forbice, viene vinta

dalla sorella maggiore, che in seguito non si darà pace per quel gesto.

Trova un lavoro come rammendatrice in una ditta. Poi passa in una legatoria di libri. Si tratta di

impieghi piuttosto precari e qualcuno si dà da fare per cercarle un posto più sicuro.

Viene finalmente trovata una sistemazione adeguata presso l’Ospedale Maggiore di Bergamo,

ma proprio quando le arriva il sospirato invito a presentarsi, lei oppone un rifiuto. Si limita a dire:

– È inutile.

Ormai ha scelto un’altra strada, mettendo sul piede di guerra – come abbiamo visto – tutta la

famiglia.

Nel Diario di quelle settimane c’è una notazione che lascia trapelare il travaglio interiore che ha

dovuto combattere nel proprio intimo: «Tu mi chiami, ma io non rispondo. Tu mi tenti, ma io non

sono disposta».

Nell’ultima pagina, però, compare una spiga accompagnata da due righe di didascalia: «Signore,

sono pronta. Questo è il tuo raccolto».

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Stavolta ha trovato Qualcuno più testardo di lei.

La lotta interiore riguardava anche la forma di vita: Anna avvertiva una certa attrattiva verso la

clausura e non sapeva decidersi. Alla fine, dopo parecchie esitazioni, aveva optato per la vita attiva.

L’esigenza contemplativa, tuttavia, rimarrà sempre come una spina tormentosa conficcata nel suo

animo.

Durante gli anni della missione riuscirà a conciliare, non senza fatica e superando difficoltà

facilmente comprensibili, le due dimensioni. Ciò però, evidentemente, non le bastava. Qualcuno

addirittura sostiene che suor Danielangela, non fosse stata stroncata precocemente dal virus di

Ebola, avrebbe finito per realizzare il sogno antico della clausura.

Il mazzo di fiori dello spasimante deluso

Quando entra fra le Poverelle (1° marzo 1966) è costretta a incassare l’ultimo ricatto del fratello

Zenone:

– Vai suora? E allora, me non mi vedi più...

Allorché farà recapitare a tutti i familiari l’invito per la festa della vestizione religiosa, l’unico a

impuntarsi sarà proprio Zenone, che dichiara solennemente ai fratelli:

– Al Palazzolo, se volete, andateci voi, io di certo non ci vengo. Quella ha voluto fare di testa

sua, come al solito... e io non mi muovo da casa.

E invece non resisterà. A mezzogiorno, Anna vede spuntare, in fondo al cortile, anche se un po’

rabbuiato, con l’aria tra l’indifferente e l’impacciato, il «duro» Zenone.

Quel giorno riceve anche un singolare omaggio floreale accompagnato da una lettera. È Sergio,

un suo spasimante, forse quello che ha sofferto più di tutti per la scelta di Anna. Nel biglietto

assicura che avrebbe aspettato tre anni prima di rassegnarsi definitivamente...

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Per ricordare ambedue i genitori defunti, Anna; nel giorno dei voti, assume il nome di suor

Danielangela.

Dopo il noviziato, viene destinata a Milano, tra gli anziani. Quindi scocca la decisione di andare

in missione. Ma anche sta-

PAGINA 115:

volta c’è una leggera titubanza. Riferisce la Superiora suor Silviangela:

«Aveva il desiderio della clausura. Diceva che doveva dedicare tutta la sua vita alla

contemplazione; dava tantissimo tempo alla preghiera personale, anche notturna, e ogni anno

andava a fare gli esercizi in clausura. Io però avevo il dubbio che questa fosse un po’ una “fuga”, e

abbiamo detto: “Fai un’esperienza in missione. Se poi davvero questa è la strada che il Signore ha

preparato per te, Lui te l’aprirà”. Ha fatto la domanda ed è stata subito accolta».

E anche stavolta, manco a dirlo, c’è battaglia coi fratelli. Maria, che ha assunto, com’era

prevedibile, il comando delle operazioni, si mette a urlare:

– Vai in missione? Ma cosa ti sei messa in testa? C’è bisogno anche qui.

Suor Danielangela risponde imperturbabile:

– Là c’è più bisogno che non qui. Io ci vado.

Discorso chiuso. Stavolta Maria mica può afferrare le forbici. Certe idee che spuntano in testa

alla sorellina non si possono tagliare come lei ha fatto con la frangetta impertinente...

Da parte sua, suor Danielangela annuncia di aver modificato il testamento:

– I miei soldi me li porto tutti là.

Ma non è una vendetta. Semplicemente una valutazione serena delle priorità.

Nei primi anni di missione, nessuno dei fratelli andrà a trovarla. Successivamente sarà lei a non

volerlo, a motivo delle continue turbolenze politiche che si registravano nel paese, e che potevano

costituire un pericolo.

Tuttavia, quando suor Danielangela tornava in patria per le vacanze, trovava sempre qualcuno ad

attenderla a Linate. E il problema, di non facile soluzione, era quello di «dividersi» in parti eguali

tra i fratelli, per non scontentare nessuno. Segno evidente che i rapporti si erano definitivamente

rasserenati. O, forse, più verosimilmente, al di là di qualche temporale appariscente e chiassoso, in

profondità non si erano mai guastati. Si sa, l’eccesso di

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affetto, tante volte, conduce al tentativo di soffocamento della libertà altrui.

Il rimedio contro la stanchezza

Suor Danielangela è stata chiamata d’urgenza nello Zaire, senza neppure aver potuto completare

il corso per malattie tropicali in Belgio.

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Arriva a Mosango, sua prima comunità, scortata da suor Floralba. Vi rimarrà dieci anni, quindi

passerà a Kikimi (periferia della capitale). Alla fine la troviamo Superiora a Tumikia.

Da per tutto si segnala per competenza professionale, capacità di animazione, entusiasmo,

disponibilità.

I problemi che deve sbrogliare non riescono ad alterare la sua serenità. Avverte la stanchezza,

come tutti, ma ha scoperto il sistema infallibile per combatterla. Confida: «Certe volte sono stanca,

però al vedere il bisogno mi passa».

I fratelli, anche se non si fanno vedere, si fanno sentire con doni e aiuti di ogni genere. Lei,

abitualmente, vende i regali e li trasforma in denaro da distribuire ai poveri.

Coltiva anche un hobby: il mercato. Ci gode un mondo a trattare gli acquisti con abilità

consumata e naturalmente discutendo sul prezzo.

Non ha deposto definitivamente il sogno della clausura, e anche in Africa tiene i collegamenti

con un paio di monasteri locali. Le consorelle la chiamano scherzosamente «trappistina».

Significativa, a questo proposito, la predilezione per la Casa di Esercizi di Eupilio, «la collina

dello Spirito». Durante le soste in Italia vi soggiornerà almeno un paio di volte per corsi di

meditazione.

Stralciando alcuni brani dalle lettere, è possibile intuire la sua statura spirituale. Definisce la vita

missionaria come «una presenza che testimonia l’amore del Signore».

Scrive a una consorella: «Colui che ti ama vuole che tu entri in profondità con Lui,

contemplandolo e offrendogli del tempo che

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sia per Lui solo». E insiste: «Ricordati che bisogna passare diverse ore in questo atteggiamento per

incontrare Lui».

Non viaggia tra le nuvole

Ma la sua spiritualità non è certo di evasione. Suor Danielangela non veleggia tra le nuvole di un

misticismo vacuo. Tiene i piedi ben piantati sulla terra africana.

Si distingue per una spiccata passione per la giustizia In quel paese di ingiustizie ne vede

parecchie, e il coraggio per parlarne non le fa certo difetto. Testimoniano i suoi familiari: «Ci

spiegava le cose dal punto di vista politico. Ci riferiva cose che tutti sanno ma che nessuno dice».

Con Lallio, che è il paese di origine dei suoi genitori, riesce a stabilire dei rapporti costanti, in

particolare con il locale «Gruppo Missionario», assai vivace e impegnato. Da quella gente suor

Danielangela viene considerata come l’inviata speciale sul fronte dello Zaire. E lei spedisce

relazioni abbastanza regolari che contengono lucide analisi sulla situazione di quel paese.

In occasione dei festeggiamenti per il 25° di vita religiosa, nel luglio 1993, le regalano anche una

macchina fotografica, grazie alla quale riuscirà a corredare la sua documentazione con immagini

assai efficaci.

Stralciamo da quei rapporti alcuni brani che dimostrano la lucidità di analisi di questa suora,

capace di individuare e denunciare, senza mezzi termini, i mali che affliggono to Zaire.

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Parla con evidente soddisfazione del catechismo che viene insegnato nella lingua locale, il

kikongo (il francese lo si impara soltanto nelle scuole medie e superiori). Ma affonda il bisturi della

sua penetrante analisi in quella che, dopo la miseria (ma tra le due c’è un legame molto stretto) è la

piaga più preoccupante, che corrode tutti i tessuti della vita sociale: il regime tirannico di Mobutu.

Ma andiamo con ordine.

Scrive da Kinshasa, dove opera in una specie di baraccopoli: «Pur essendo nella capitale, il

quartiere Zelo è situato all’estrema

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periferia. Il nostro centro ospedaliero, dispensario, scuola di cucito, è situato vicino alla parrocchia.

«Il nostro servizio è diretto a ottantamila abitanti. La zona è poverissima, siamo senz’acqua e

senza corrente, ma possediamo un gruppo elettrogeno che ci permette la luce due ore al giorno e

l’acqua per i bisogni più indispensabili. Il numero dei bambini denutriti è elevato, così quello dei

tubercolosi. In questa zona il servizio che assicuriamo noi è praticamente l’unico, dal momento che

il grande ospedale generale è accessibile a pochi» (giugno 1984).

E ancora: «Ciò che mi edifica ogni giorno è constatare che della gente povera, che soffre la fame,

riesce sempre a condividere con gli altri il poco o nulla che riesce ad avere dalla Provvidenza.

«C’era un bambino gravissimo per la denutrizione, che io amavo in modo particolare e seguivo

con attenzione per tentare di recuperarlo dal suo stato di marasma, dandogli un po’ di cibo. Spesse

volte questo piccolo lasciava una parte di quanto gli davo per donarlo agli altri bambini che sapeva

affamati. Di esempi come questi ce ne sono tanti...» (Kinshasa, 20 agosto 1985).

Annuncia: «Il 10 dicembre è stata inaugurata la nuova maternità con trenta letti. Ora le mamme

non partoriscono più in terra, ma in condizioni umane. Potete immaginare la gioia della

popolazione!» (dicembre 1987).

Tuttavia non riesce a cullarsi in facili illusioni: «La gente non ha soldi per potersi curare in

privato. I denutriti aumentano un po’ dovunque. Noi continuiamo ad essere una presenza che

consola e aiuta, ma è ben poco e i bisogni sono immensi...» (27 giugno 1992).

Il quadro che traccia sovente appare desolante: «...Nello Zaire nulla di nuovo. Da alcuni mesi

regna un clima di staticità nell’insicurezza. La gente è nauseata di politica, di promesse, di attese

senza realizzazione...

«Per la povertà estrema, in campo sanitario, dove non esistono mutue, ed ogni persona deve

pagarsi tutto, la gente ritorna alla tradizionale medicina indigena. Naturalmente una medicina sen-

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za dosi è portatrice di morte per intossicazione, specie nei bambini.

«Lo scoraggiamento è il peggiore dei mali nella situazione attuale, perché porta molti cristiani

all’abbandono della religione, per aderire a sette che nascono un po’ dovunque. Ci si rifugia in

danze, canti, fanatismi e speranze fasulle.

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«Un altro pericolo è il ritorno ai “fetiches”, l’aiuto chiesto agli stregoni... che esigono grosse

ricompense... C’è bisogno più che mai di spargere il seme: c’è chi semina e chi raccoglie.

L’efficacia del nostro apostolato è ancora un sogno, almeno nel campo dell’educazione della massa,

ma crediamo anche che il grano che cade in terra, prima di portare frutto deve anche morire. Il

marcire per noi è il lavorare senza vedere frutti...» (maggio 1994).

Il suo animo si svela soprattutto in queste righe scritte poco prima di morire: «La gente è

veramente animata da buona volontà, ma tutto è reso spesso inefficace da un regime perverso. La

tentazione dello scoraggiamento mina anche le persone bene intenzionate.

«Mi piace pensare a Madre Teresa di Calcutta che non si è mai arresa. Le biografie parlano di lei

come di una donna dall’intensa preghiera e contemplazione Eucaristica. Il suo segreto sta

nell’amare pazzamente il Cristo per trovare l’energia necessaria per aiutare piccoli e grandi in nome

suo.

«È con questi sentimenti che cerco e cerchiamo di lottare per una liberazione... del nostro paese

d’adozione. Il Signore ascolti il nostro grido e ascolti il grido dei poveri inviando un nuovo

Mosè...» (18 marzo 1995).

«Una suora che sorride: è tutto qui ciò che è venuta a fare?».

Significativa anche questa lettera inviata da Tumikia agli amici di Lallio, dove parla con molto

realismo del senso della missione toccando il tema della sua apparente inutilità: «...Proprio vero: è

dando che si riceve. È sacrificandosi che si ritrova la vita. C’è più gioia nel dare che nel ricevere.

«Nella mia piccola esperienza ho potuto costatare che quando

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si è poveri di mezzi, o bloccati da una politica dittatoriale, quando umanamente parlando la mia

presenza sembra inutile, il mio donarmi uno sciupio, il mio servizio sfruttamento di una certa classe

benpensante, e qualche volta anche il povero sembra non recepire il tuo messaggio, ebbene, proprio

in questa linea di povertà e di fallimento si ritrova il senso della missione...

«...È da quel fondo di delusioni che si scopre la vera identità: quella di seguire il Cristo in un

cammino di non trionfo, in un cammino duro, fatto di delusioni e tradimenti, ma nello stesso tempo

un cammino che redime e salva.

«La gente anche quaggiù attende dal missionario e dalla missionaria gesti grandi, opere

prodigiose, costruzioni, un continuo dare e fare. E quando questo non avviene scopri in loro la

delusione sullo stile dei due di Emmaus: speravamo in una missionaria che risolvesse tutti i nostri

problemi, mi desse questo e quello, e invece mi guarda con tenerezza, mi parla solo di Amore:

amare come Lui, perdonare, essere segno trasparente. È solo una suora che sorride, aiuta... Ma è

tutto qui quello che è venuta a fare?

«Poi, piano piano, ti accorgi che il sospetto, il rispetto, si trasformano in comprensione,

condivisione, stimolo a fare noi, a essere noi, a non attendere i gnocchi dalla luna come diceva il

nostro Beato Fondatore, don Luigi Palazzolo. Essere poveri, ma di una povertà che arricchisce

l’altro, con l’ascolto, l’attenzione, la presenza, la comprensione, e tutto ciò all’infinito...».

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Si tratta di una delle pagine più autentiche, più concrete, più sincere, che io abbia mai letto

sull’argomento.

Rastrella denaro senza sporcarsi le mani

Quando tornava in Italia per il «riposo», non si concedeva soste. Era sempre in giro a informare,

sensibilizzare, raccontare, inquietare e... rastrellare soldi.

Trattandosi di denaro destinato ai bisognosi, non aveva falsi pudori. Ad esempio, quando la sua

famiglia vendette la vecchia casa nel quartiere di Loreto, lei pretese immediatamente la sua quota.

Quale spiegazione si limitò a ripetere:

PAGINA 121:

– Questi soldini mi occorrono, mi occorrono...

Avutili, si era precipitata a Verona ad acquistare apparecchiature per i raggi X.

Con chiunque le capitasse a tiro, commentava:

– Non sai che bello, per la mia gente là...

Amore vuole amore

Non appena viene a sapere che suor Floralba sta male ed è stata ospitata a Mosango, a una

quindicina di chilometri da Tumikia, suor Danielangela la raggiunge per prestarle assistenza.

La natura del male è ancora sconosciuta, ma suor Danielangela non è abituata a chiedere

documenti né alle persone né alle malattie. Lì il male ha il volto di una consorella, e ciò le basta.

L’ultima veglia accanto a suor Floralba morente la fa lei. Non volendo disturbare le consorelle

assai affaticate, sbriga tutto da sola: iniezioni, cambio della biancheria sporca di sangue, e altro

ancora.

Al mattino comunica a suor Annamaria:

– Ho fatto tutto, sai?... ma non sta bene...

Quella scuote il capo:

– Come mai tutti quegli stracci già puliti?

E lei, arrossendo un poco, si giustifica:

– Mah, così... per non darvi lavoro... Li lavavo a mano a mano... Allorché le sorelle di suor

Floralba, subito dopo il funerale, l’avvicinano per ringraziarla, lei si limita a commentare:

– È semplicemente quello che mi sentivo di fare.

Non una parola in più.

Poco dopo viene messa in isolamento. Soccombe al termine di 13 giorni di lotta accanita col

nemico ancora senza nome, l’11 maggio 1995.

La sorella Maria, che ha passato una notte insonne, rigirandosi nel letto in preda a una strana

agitazione, apprende la notizia in maniera un po’ brutale:

«Quella mattina mi sono seduta qui, al tavolo tra le foto e le lettere. Arriva in macchina mio

figlio Franco, più presto del soli-

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PAGINA 122:

to: «Mamma, ormai hai solo quelle foto lì da guardare: l’Anna non c’è più».

Lei commenta: «A noi manca, ma anche là, in Africa, mancherà qualcosa».

Suor Danielangela aveva scritto: «L’Amore vuole amore». Niente altro.

Chi pretendesse altre spiegazioni per capire, dimostrerebbe di non capire niente.

E poi non ci sono altre spiegazioni…

PAGINA 123:

SUOR DINAROSA

QUELLA CHE PEDALAVA IN SALITA

Esperta in bulloni

Da quelle parti, in Valtrompia, nel bresciano, è normale che una ragazza vada a lavorare in uno

stabilimento. E si tratta, per lo più, di fabbriche in cui le mani non vengono impiegate a contatto con

materiale particolarmente morbido, ma sono costrette a carezzare il ferro.

Teresì non sfugge alla regola: il suo lavoro consiste nel produrre bulloni, che non è il massimo

della delicatezza per una giovane donna. E dire che, prima, si era familiarizzata con ago, filo e

forbici, imparando il mestiere di sarta. Dalla stoffa ai bulloni, il passo... per le mani, è notevole. Ma

Teresì non sta a sottilizzare troppo.

Al mattino inforca la bicicletta e punta in direzione di Lumezzane. Per raggiungere l’officina

bisogna affrontare alcuni chilometri di una salita che spezza le gambe e toglie il fiato. È giocoforza

abbandonare la bici e salire su un pullman che facilita il percorso.

Ma lei si tiene in tasca i soldi del biglietto, regolarmente forniti dalla mamma, e affronta l’erta a

piedi. Dice che deve risparmiare per la dote. Ma non è detto debba trattarsi del corredo da sposa.

Insomma, deve ancora decidere di che dote si tratti.

Teresa Belleri era nata a Cailina (che allora faceva parte della parrocchia di Villacarcina), in

provincia di Brescia, l’11 maggio 1936. Il babbo si chiamava Battista, la mamma Maria. Era stata

preceduta da Domenica. Dopo di lei verrà un maschio, Pierino.

Proprio il fratello abbozza un ritratto che spiega il carattere di Teresì: «Era allegra, sorridente.

Con lei non c’era gusto a litigare. Rendeva tutto semplice con una scrollata di spalle».

PAGINA 124:

Se la mamma la rimproverava per qualcosa, lei si limitava a commentare:

– Me lo sono meritato.

Tutto lì: nessuna scusa, nessuna giustificazione, nessun piagnucolamento.

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Uno spettacolo pirotecnico nel cielo scuro.

La cugina, suor Tersilla Corti, anche lei delle Poverelle, riferisce di alcuni momenti

particolarmente drammatici legati all’esperienza della guerra che volgeva ormai all’epilogo:

«Mentre le bombe degli alleati si abbattevano come grandine sulla città di Brescia, noi stavamo

sdraiate per terra, scaraventate qua e là dagli spostamenti d’aria. Ci tenevamo strette l’una all’altra,

nella notte senza luce, con la terra che tremava sotto di noi. Urlavamo, piangevamo e pregavamo

anche a voce alta cercando di superare il fragore degli schianti dirompenti...».

Teresina aveva otto anni e, nella sua ingenuità – stando al racconto della cugina – non poteva

trattenersi dall’intercalare la recita delle «Ave Maria» con esclamazioni di ammirazione per lo

spettacolo fantasmagorico allestito nel cielo buio squarciato dai bagliori dell’esplosione delle

bombe e striato dalle scie e dalle cascate luminose della contraerea.

Insomma, fuochi artificiali pagati a prezzo di molto spavento e parecchie «Ave Maria».

Giocherellona, allegra, Teresì prediligeva i giochi di gruppo purché fossero movimentati. E

l’oratorio delle Suore delle Poverelle le forniva spazio e materia prima più che sufficienti per la sua

esuberanza.

Ogni tanto si rimorchiava in casa un’amica che abitava lì vicino, destinata a fare da cavia per i

suoi esperimenti infermieristici. E quella, compiacente, si adattava al ruolo di paziente fingendosi

malata e consentendo in tal modo a Teresì di prestarle tutte le cure del caso e praticarle le terapie di

pronto intervento. Lei, molto compresa della parte che si era assegnata, ritagliava con le forbici

strisce di carta bianca e le applicava delicatamente sugli occhi o la

PAGINA 125:

testa della compagna remissiva, accompagnando il tutto con parole di conforto e consigli

appropriati.

Certi bambini, una volta, manifestando sintomi di vocazione precoce, giocavano a fare il prete

avvolti in improbabili sottovesti arraffate alla nonna, e armeggiavano con turibolo, aspersorio,

attizzatoio e attrezzi vari, davanti ad un altarino improvvisato.

Lei si divertiva a fare l’infermiera, senza sospettare che per circa trentacinque anni avrebbe

svolto proprio quel servizio, che sarebbe stato una cosa estremamente seria, non semplicemente un

gioco (e neppure un mestiere). E la materia prima non avrebbe avuto bisogno di andarsela a cercare:

si sarebbe presentata spontaneamente, ogni giorno, in lunghe file...

Si era fatta le ossa nell’Azione Cattolica, campo in cui aveva percorso con diligenza e

convinzione tutta la trafila, da «Piccolissima» a «Beniamina» a «Giò».

Compatibilmente con gli orari di lavoro, partecipava alle preghiere della sera nella cappella delle

suore.

Per un certo tempo deve aver valutato anche la possibilità di formarsi una famiglia, e c’era nei

paraggi un giovane dispostissimo a partecipare al progetto. Ma, a poco a poco, si era convinta che la

sua strada era un’altra.

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Due mani come dote

Nel 1957, all’età di 21 anni, Teresì entra nell’Istituto delle Suore delle Poverelle di Bergamo,

portando in dote, oltre a dosi notevoli di semplicità, buon senso, praticità, due mani allenate a...

darsi da fare. Diventerà suor Dinarosa, senza rinunciare al suo temperamento gioioso e cordiale.

Dopo aver conseguito il diploma di infermiera professionale a Roma, viene destinata a Cagliari

per prestare servizio ai malati di tubercolosi.

Cinque anni dopo, nel 1966, si imbarca per lo Zaire. Il primo campo di attività è Mosango, a

circa 400 chilometri da Kinshasa. Vi rimarrà diciassette anni, dedicandosi in prevalenza ai malati di

Tbc (che, in quelle plaghe, sono i più poveri tra i poveri). Ma il

PAGINA 126:

suo raggio di azione comprende anche i lebbrosi e individui affetti da infermità particolarmente

gravi.

Dove c’è pericolo, lei è presente. Se c’è bisogno di qualcuno che si accolli i compiti più ingrati,

lei non si tira indietro. Le sue mani si sono addestrate a trattare il ferro. In lei coabitano queste

componenti: decisione, robustezza interiore, forza d’animo e delicatezza, tenute insieme dal

silenzio. Si riserva i servizi più penosi, e perfino ripugnanti, quasi fosse la cosa più naturale di

questo mondo.

Nel 1983 la troviamo a Kikwit. Manco a dirlo, il suo reparto è quello dei tubercolotici. Ma si

occupa anche di malati di AIDS. Ecco come lei stessa descrive la situazione, due anni prima della

morte, scrivendo ai suoi compaesani della parrocchia di Cailina di Villacarcina:

«...Lavoro in un grande ospedale civile che comprende undici padiglioni. Vi sono con me altre

consorelle europee e zairesi, otto medici e personale del luogo in numero sufficiente.

«L’ospedale può disporre complessivamente di 450 posti letto, ma gli ammalati ricoverati si

aggirano ogni giorno sui 1.200-1.400.

«A Kikwit ci sono infermi colpiti da malattie di ogni genere: dai lebbrosi ai denutriti, dagli affetti

da malaria e da verminosi ai sofferenti di AIDS e di tanti altri mali.

«C’è grande miseria e battaglia per vivere. Si lotta per l’acqua, in quanto le sorgenti sono lontane

e non esistono condutture. Si lotta contro le malattie, senza medicinali adeguati.

«A Kikwit si trova poco di tutto e quello che si trova viene pagato molto caro...

«I meno fortunati si recano nella savana a caccia di topi, di grilli, di formiche, oppure cuociono

dei bruchi simili alle processionarie, ricchi di proteine. Quando li vedo nutrirsi in tal modo, mi

prende una grande compassione e non posso trattenermi dal confrontare la situazione dello Zaire

con le nostre cosiddette “crisi economiche” d’Italia, dove i magazzini sono pieni di ogni ben di

Dio...

«Qui a Kikwit ci sono tanti bambini, ma molti di loro non han-

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no la possibilità di andare a scuola, perché non tengono soldi per pagare i maestri. L’istruzione,

infatti, non è gratuita e obbligatoria come da noi...».

Su un cumulo di miserie, il miracoloso zampillo dell’allegria

L’ambiente è piuttosto deprimente. Suor Dinarosa, tuttavia, riesce sempre a far emergere da

quella palude di desolazione lo zampillo dell’allegria e a creare un’atmosfera di serenità.

Anche in comunità si preoccupa di animare le ricreazioni. Si improvvisa pagliaccio, ballerina,

attrice comica, adottando i travestimenti più incredibili e trovando una valida spalla per le sue gag

in suor Clarangela. È convinta che la fraternità si consolida non solo con le prediche ma anche con

l’allegria contagiosa. Una risata scoppiettante ha il potere di rasserenare atmosfere cupe, dissipare

l’aria stagnante di tedio che domina in certi ambienti religiosi, mettere in rotta i nuvoloni neri forieri

di tempesta, attenuare tensioni, sdrammatizzare problemi e preoccupazioni.

Suor Dinarosa non aveva studiato il latino, ma era sicura che «servite Dominum in laetitia» non

andava tradotto, come purtroppo si ostinano a fare parecchi, che pure hanno frequentato le scuole,

con «servite il Signore e il prossimo nella cupezza e nella musoneria».

Suor Dinarosa, ossia la naturalezza della carità, la facilità delle cose più difficili, la quotidianità e

l’ordinarietà dello straordinario, e l’anti-eroismo... dell’eroismo.

Angelina Rondi l’ha avvicinata nei giorni in cui si stava addensando la bufera. Il suo racconto

mette perfettamente a fuoco la personalità di suor Dinarosa:

«Io e mia sorella Rosanna, alla fine di aprile, siamo andate a Kikwit per il funerale di nostra

sorella, suor Floralba. In quei giorni ci si cominciava ad allarmare, ma non si sapeva ancora che si

trattava di Ebola.

«Io ero seduta in casa vicino a suor Dinarosa, che non aveva

PAGINA 128:

ancora la febbre, mentre suor Clarangela già cominciava a star male e quel giorno le avevano fatto

un prelievo.

«Suor Dina dice a suor Clara:

– Ti è andata bene, perché sembra sia solo una forte malaria, e hai anche gli anticorpi del tifo:

forse lo hai fatto tempo fa...

«Allora io ho detto a suor Dinarosa:

– Stia attenta, non si ammali anche lei che deve ritornare in Italia presto. L’aspettiamo a casa

nostra a mangiare le costine!

«Mi ha risposto:

– Ma io sono qui a servire i poveri: il Padre Eterno mi aiuterà...

«Io ho insistito:

– Ma non ha mica paura lei che lavora la in mezzo a tutti quei malati che non si capisce bene

cosa hanno?

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«Risposta:

– La mia missione è quella di servire i poveri! Cosa ha fatto il mio Fondatore? Io sono qui per

seguire le sue orme:

«E dicendo così rideva un po’... Suor Dina era sempre contenta».

Quei passi lungo l’erta

Già, lei si era proposta di seguire le orme del Fondatore. Non era cosa agevole, perché tener

dietro a quell’infaticabile Samaritano rappresentava un’impresa da spezzare gambe e schiena,

strozzare il fiato, assai più che la salita che conduceva alla fabbrica di bulloni di Lumezzane.

Il Palazzolo raccomandava anche di «avvolgersi tra i poveri». Un gesto ancora più impegnativo

di quello, pur emblematico, di Martino, che ha diviso il mantello col mendicante barbellante di

freddo.

Non è questione soltanto di donare il mantello, ma di «avvolgersi tra i poveri», ossia di vivere

con loro, fare di loro il proprio habitat naturale. I pesci vivono nell’acqua, gli uccelli nell’aria, e le

Poverelle nei luoghi della sofferenza e della miseria. Fuori da quegli ambienti, boccheggerebbero

per mancanza di ossigeno. Così

PAGINA 129:

pensava suor Dinarosa, senza dirlo (ma le cose più importanti non è necessario dirle).

Da parte sua, lei sta sempre «avvolta tra i poveri» con semplicità e letizia. E quando la strada è in

salita (e lo è sempre, in quelle zone piatte), non bisogna stare ad aspettare l’autobus. Ci si

arrampica, e talvolta si arranca, a piedi. Possibilmente senza lasciar mancare il canto e il guizzo

dell’umorismo.

I piedi ci sono stati dati per camminare, la schiena per curvarsi sulle sofferenze altrui, e le mani

per ritagliare bende di pietà e tenerezza da posare, delicatamente, sui volti sfigurati e sui corpi

devastati. E i soldi vanno risparmiati per la dote dei poveri.

Così pensava suor Dinarosa. Ma anche questo non lo diceva. Questione di pudore, che è

inseparabile dall’amore.

Calvario con vista sul Paradiso

Durante il primo anno di permanenza in Africa, le era morto il babbo, da tempo sofferente di

cuore, e lei, ovviamente, non aveva potuto né voluto abbandonare il posto. Il dolore per certe

perdite, quando si è lontani migliaia di chilometri, si avverte in maniera ancora più acuta e la

lacerazione si rimargina molto più lentamente.

Per fortuna, durante il congedo quadriennale in Italia, nell’inverno 1990-1991, ha la possibilità di

investire la sua tenerezza anche nell’assistenza alla mamma, che muore nel gennaio del 1991.

Prima del ritorno alla base di Kikwit, compie una specie di «esproprio terzomondista» nella casa

della sorella Domenica: requisisce vestaglie, camicie, lenzuola, asciugamani e affini,

impacchettandoli per la missione. Si limita a spiegare:

– Tanto tu potrai sempre ricomprarle, ad una ad una, tutte queste cose.

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Domenica vorrebbe protestare:

– Teresì, mi spogli la casa!

Ma si vede che, in fondo, è contenta di fare contenta la sorella, la quale è felice quando può

rendere felici gli altri.

PAGINA 130:

Sarebbe dovuta tornare in Italia, per il solito periodo di vacanze, nel luglio 1995.

Invece, il 9 maggio inizia la tremenda, devastante salita del Calvario. Giungerà in cima il 14.

Di lassù c’è la vista sul Paradiso.

PAGINA 131:

SUOR ANNELVIRA

QUELLA CHE COLTIVAVA I PUNTI ESCLAMATIVI

Anche un ceffone serve a piantare i chiodi

Suo padre, venditore ambulante di frutta e verdura, sognava per lei un futuro tranquillo di

magliaia con tanto di atelier in proprio. Ma lei aveva conficcato in testa un chiodo, e teneva in cuore

un sogno diverso, che aveva comunicato esclusivamente a mamma Elvira. Nessun altro, neppure

nella cerchia delle amiche più intime, era stato messo al corrente di quel segreto, che lei si guardava

bene dal lasciar trapelare.

Un giorno Celestina – diciassettenne – stava nell’orto col padre, la schiena piegata a sradicare

erbacce. Durante una sosta, mentre si detergeva il sudore, papà Ludovico adottò, con evidente

impaccio, un tono confidenziale:

– Adesso che hai imparato bene il mestiere di magliaia, e sei in grado di cavartela da sola, ti

compro una macchina per maglieria.

Doveva essere una sorpresa, almeno così pensava il brav’uomo. Invece la sorpresa rimbalzò

imprevista, dall’altra parte:

– Papà, non comprarmi nessuna macchina, perché io vado suora.

Una frazione di secondo, e le arrivò, in piena faccia, un sonoro ceffone. La delusione per

Ludovico risultava troppo bruciante e lui era andato giù con la mano pesante, tanto da far saltare un

dente in bocca alla figlia.

Anche in seguito, per alcuni giorni, non riuscirà a darsi pace. Quella ragazza aveva la possibilità

di non girare più da un mercato all’altro, in qualsiasi condizione di tempo, poteva starsene in casa a

fare un lavoro pulito, per proprio conto, e lei, incosciente, si era messa in testa di andarsi a

rinchiudere in un convento. Chissà cosa aveva nel cervello...

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PAGINA 132:

Alla fine si lasciò convincere e si arrese. D’altra parte, quella figlia non era tipo da rinunciare ai

propri sogni, ceffoni o non ceffoni. Poteva anche ingoiare un dente, ma non era disposta a ringoiare

i propri ideali. Incassava senza fiatare lo schiaffone, ma il chiodo si conficcava ancora più in

profondità. E poi contava sulla complicità della mamma. Cosa può fare un uomo, sia pure sostenuto

da un manrovescio che lascia il segno, contro due deboli donne coalizzate? Tanto più che c’era di

mezzo un Altro (ma questo Ludovico Ossoli, ambulante di frutta e verdura, non era in grado di

sospettarlo).

Il segreto per vendere gelati

Era nata il 6 agosto 1937 a Orzivecchi, un paesino con le case seminate sui bordi della strada per

Brescia, a poca distanza dalla sponda sinistra dell’Oglio. Era stata preceduta da una sorella e da due

fratelli (ma uno era morto prematuramente). Dopo di lei sarebbero venuti due altri maschietti, di cui

solo uno sopravvissuto.

In famiglia bisogna darsi da fare per campare dignitosamente. Oltre al commercio ambulante,

viene gestito un piccolo negozio dove si trovano i generi più disparati: merceria e gelateria, salumi e

detersivi, pane e spago, quaderni e formaggio.

Celestina si dimostra una ragazzina dalla personalità vivace, esuberante, con un’allegria

trascinatrice. A scuola se la cava ottimamente. Dopo la quinta elementare, frequenta le suore per

imparare il ricamo e il cucito. Ma il suo impegno principale è in casa e al mercato.

Racconta la vecchia mamma: «Era così gioiosa che emanava un fascino speciale. Le piaceva

molto la lettura e amava i bambini. Molti giovanotti, quando era lei di turno a vendere il nostro

gelato, se ne stavano a guardarla, era proprio bella... Non sarebbero più andati via». Difficile

accertare fino a che punto riuscirà in seguito a coltivare la passione per i libri. Quanto ai bambini,

ne avrà una moltitudine.

La primogenita, Maria, viene spedita a Verona per frequentare i corsi da ostetrica. Per lei,

invece, viene progettato, come abbia-

PAGINA 133:

mo visto, un futuro da maglierista. Paradossalmente, non soltanto manderà in frantumi il progetto

paterno, entrando tra le Poverelle nel 1954, ma in Africa «ruberà» il mestiere alla sorella Maria.

Laggiù si nasce facilmente. Il problema è sopravvivere

Fa la sua professione religiosa nel 1956 assumendo il «nome nuovo» di Annelvira. Dopo aver

conseguito il diploma di infermiera e caposala (1957-1959), presta il suo servizio a Milano nella

Casa di riposo di via Aldini.

Parte per lo Zaire nel 1961, destinata all’ospedale di Kikwit. Negli anni 1967-1968 sta a Roma

dove si specializza in ostetricia.

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Impossibile fare un calcolo, anche approssimativo, di quanti minuscoli marmocchi urlanti

consegnerà nelle braccia di madri felici in Africa. Certo, sono diverse migliaia i bambini che lei ha

aiutato a vedere la luce. Basti pensare che in quell’ospedale si registrano dalle settecento alle

ottocento nascite al mese. Verrà giustamente definita dagli indigeni (che nell’appioppare i

soprannomi ci azzeccano sempre) «la donna della vita».

L’unico suo rammarico: laggiù il problema non è nascere. Il problema serio è sopravvivere.

Suor Annelvira tiene i collegamenti con il paese d’origine, cercando di coinvolgerlo nella sua

missione. Durante le brevi rimpatriate si dà da fare per sensibilizzare parenti, amici, oltre che

parrocchiani, ai problemi della sua terra d’adozione. E dà l’avvio, così, a un rivolo ininterrotto di

aiuti in cibo, vestiti, medicinali e denaro. Certo, c’è una sproporzione abissale tra le necessità dello

Zaire e le possibilità della gente di Orzivecchi e dintorni. Ma a suor Annelvira sta a cuore che tutti

si sentano corresponsabili. E poi è convinta che anche poche gocce riescono a far fiorire quel

deserto sterminato di miserie e ad attenuarne almeno un po’ la sete.

Di suo ci mette una dedizione totale e un amore spinto fino ai confini dell’esagerazione.

Il ritornello che ripete anche nei giorni del dramma finale, e che tradisce una fede smisurata, è: «Il

Signore è buono! Il Signo-

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re provvede! Il Signore fa bene ogni cosa!» (sì, lei, nel suo temperamento gioioso, metteva i punti

esclamativi anche quando parlava).

Intanto, personalmente, si preoccupa di fornire una mano robusta alla Provvidenza (e tanto più

robusta in quanto viene da un fisico non eccezionale), dandosi instancabilmente da fare. Non si

risparmia e il suo organismo ben presto ne paga le conseguenze. Dapprima una seria malattia

polmonare (dopo appena sei anni di missione). Successivamente si manifestano seri problemi alle

articolazioni delle ginocchia che fanno prospettare l’ombra della carrozzella.

Viene tentato, dopo parecchie perplessità, un intervento chirurgico, che invece dà esiti

soddisfacenti, cosicché suor Annelvira torna a camminare.

Nel 1992 il suo servizio in terra di missione ha una svolta non prevista dall’interessata, che viene

eletta Superiora Provinciale delle Suore delle Poverelle in Africa.

Si tratta di un compito delicato e non certo agevole. I viaggi spossanti, con relativi disagi e

imprevisti, sono all’ordine del giorno: Zaire, Malawi, Costa d’Avorio e Italia... Le pare di essere

tornata agli anni della giovinezza, quando girava per i mercati. Solo che adesso non va a vendere

prodotti ortofrutticoli, ma a recare conforto e incoraggiamento, a risolvere problemi assillanti e

sempre nuovi.

Nonostante una salute piuttosto fragile e le giunture che scricchiolano, non si tira mai indietro.

Sperimenta un altro tipo di maternità. Si prodiga dando prova di una maturità umana e spirituale di

prim’ordine: sensibilità, capacità di ascolto, attenzione delicata alle persone e alle loro difficoltà

concrete. Ha così modo di riversare sulle sorelle la sua ricchezza interiore.

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Dalle profondità...

Qualche spiraglio sul suo mondo spirituale viene socchiuso dagli scritti e soprattutto dalle lettere.

Eccone qualche scampolo. Un appunto messo giù dopo il mese ignaziano: «L’annientamento del

PAGINA 135:

Verbo è un abisso di Amore! Grazie, o mio Signore, per essere Tu quello che sei: Dio, Santo!».

Scrive: «Vedendomi più o meno handicappata, sento in me due forze: da una parte la mia natura

soffre per l’impossibilità di camminare e per il timore di essere di peso agli altri... D’altra parte

nasce nell’intimo tanta pace e il desiderio di abbandonarmi alla volontà, inspiegabile, ma sempre

paterna e Divina del Signore che, specie da qualche mese, mi fa sentire la grande importanza di

essere sempre più Sua e come vuole Lui. Allora, fino a che punto importa il poter camminare o no?

L’essenziale è vivere ogni momento per la sua gloria. Grazie, Signore, di questa tua luce. Quanti

passi e salti ho fatto fino ad oggi per la mia soddisfazione personale e la mia ansia di fare bella

figura! Perdonami, o Gesù. Non ti domando nulla, Tu sai quello che è meglio per me» (1° gennaio

1980).

Anche dopo anni di «mestiere» in ostetricia, mantiene intatto lo stupore di fronte al miracolo

della vita.

Manifesta una riconoscenza quasi infantile di fronte a qualsiasi cosa le venga donata: «Che

bello! Che buono!» (e, magari, i punti esclamativi sono due e anche più...). Ma subito un’ombra

passa sul suo volto raggiante: «Ah, se l’avesse la mia gente!...».

La penna intinta nel sangue

E, soprattutto, negli scritti, rapidi – per forza di cose – degli ultimi mesi, tra marzo e metà

maggio del 1995, quelli con cui metteva al corrente la Madre Generale del dramma che si stava

vivendo laggiù, che suor Annelvira si rivela in tutta la sua statura e maturità, sia umana che

spirituale. La sua fede resta incrollabile, la sua Speranza non viene meno neppure in quelle giornate

strazianti che lei vive in prima persona e con addosso una tremenda responsabilità nei confronti

delle Sorelle (e non solo).

«Qui, malgrado la situazione, si va avanti con tanta fiducia nel Signore, anche se a volte, per

nostra poca fede, Lui sembra lontano, oppure addormentato...» È il 28 marzo, e non viene ancora

pronunciato il nome di Ebola.

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«È Gesù che deve essere al centro della nostra vita e del nostro apostolato. Allora faremo tutto

con amore, trovando e scoprendo, e facendo conoscere, Chi e per Chi siamo a servizio» (20 aprile

1995).

Documento struggente si rivela in particolare la lettera indirizzata alla Superiora Generale, suor

Gesuelda Paltenghi, anche a nome delle Consorelle, in data 11 maggio 1995.

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Sarà opportuno inquadrarla nella cornice degli avvenimenti che l’hanno ispirata. Suor Annelvira,

non appena era stata informata che suor Floralba dava serie preoccupazioni per la salute, aveva

abbandonato la sede provincializia di Kinshasa e si era precipitata a Kikwit (ormai a quel viaggio di

500 chilometri era avvezza). L’aveva assistita sino alla fine, raccogliendo i suoi ultimi pensieri e

vivendo con lei quell’agonia straziante.

Aveva servito personalmente, nella piena consapevolezza del rischio che stava affrontando – pur

prendendo le doverose precauzioni suggerite dai medici e dalla sua esperienza professionale – le

altre tre Sorelle che stavano soccombendo allo stesso male, ormai sufficientemente delineato nei

suoi terribili contorni. Quello di essere presente nel momento estremo del pericolo, era un privilegio

della Madre, e non intendeva per nessuna ragione al mondo, rinunciarvi.

Lei, abituata per parecchi anni a mettersi al servizio della vita, assistere migliaia di nascite,

adesso era chiamata ad assistere, impotente, all’opera devastatrice di quel virus mortale che

aggrediva senza pietà le sue «figlie». Sperimentava una lacerante «maternità nella morte».

«Lui è con noi anche in questa durissima prova»

Ecco dunque la sua relazione inzuppata di lacrime:

«Carissima Madre Generale, col cuore affranto dal dolore tento di mandarle qualche notizia.

Purtroppo alle ore 14, circa mezz’ora fa, anche suor Danielangela ci ha lasciate per il Paradiso dopo

tredici giorni di lotta, combattuta insieme, contro questo terribile virus.

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«Il 29 aprile a mezzogiorno suor Clarangela dice che sente febbre: ha 38°...

«...Suor Clarangela ci ha lasciato il 6 maggio...

«...Come non bastassero le due sorelle, ecco il turno di suor Danielangela. I Sacramenti le sono

stati amministrati dal nostro Vescovo, che ci è molto vicino, come pure tutte le parrocchie e la gente

di Kikwit, domenica 7 maggio. Mai un lamento nemmeno lei, ma tredici giorni di lotta senza

riuscire a fabbricare delle difese specifiche! Speravamo tanto che giungesse in tempo del plasma

con anticorpi, ma invano! Solo protezioni... È vero che è importantissimo pure quel materiale, ma

noi speravamo anche il resto!

«È solo nella fede che si trova il senso profondo di tanto dolore! Noi siamo impietrite.

L’abbiamo ricomposta: sembrava un angelo! Distesa nella pace dello Sposo, il Quale in questi

giorni ultimava, con la loro offerta serena e totale, la loro corona con le gemme più preziose, da

portare sul loro capo al loro arrivo nella Casa del Padre.

«Ora c’è suor Dinarosa che dal 4 maggio manifesta gli stessi sintomi e tutti i test ematici

prelevati, dunque anche il suo, confermano da Anversa la forma virale di febbre emorragica (di

Yambuku).

«Grazie, Madre, della sua vicinanza, grazie a tutte le consorelle, sia quelle che hanno scritto sia

le altre, grazie per le preghiere e per il conforto spirituale. Grazie alle Madri Provinciali e alle loro

comunità. Grazie al Malawi e alla Costa d’Avorio. Con Maria ai piedi della croce vogliamo

ravvivare la nostra fede e ripetere... con tutte le nostre Sorelle, con lei, cara Madre Generale, il

nostro “Fiat”. Certo Lui sa tutto ed è con noi anche in questa durissima prova.

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«Ciao! Saluti! GRAZIE! Sua suor Annelvira e consorelle tutte».

Notare quell’ultimo «grazie» scritto a caratteri maiuscoli, una specie di sigla finale, di chiave

decisiva per comprendere l’intera vita di suor Annelvira.

E non mancano neppure i soliti punti esclamativi. Indubbiamente, in quei giorni, davanti a lei

sono affiorati inquietanti punti

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interrogativi. Ma è riuscita a estirparli, trapiantando al loro posto i punti esclamativi.

Due giorni dopo, il 13 maggio, comunica a una sorella di Kinshasa: «Il tempo per vivere può essere

corto, e allora intensifichiamo il nostro vivere... Nelle condizioni in cui ci troviamo, il valore del vivere

assume tutt’altra dimensione. Ci rimettiamo a Dio».

Solitudine finale

Dopo aver accompagnato suor Dinarosa lungo il suo Calvario, fino al culmine, (14 maggio),

dichiara con semplicità: «Penso sia arrivato il mio turno». Ma già il giorno prima aveva comunicato

a suor Annamaria Arcaro, di non sentirsi bene. Quel persistente mal di testa e la febbre sono

«segni» che non lasciano troppi dubbi. Ormai i sintomi li conosce e sa che cosa l’aspetta.

Commenta suor Annamaria: «Suor Anna, sabato 13, mi dice che non si sente bene; suor Rosa

viene a dirmi: “Ho 38° di febbre...”.

«Abbiamo cercato di sdrammatizzare, ma nel mio cuore è scesa un’angoscia mai provata, che mi

toglieva il respiro, e il cuore mi batteva all’impazzata... Il presentimento era là, chiaro davanti a me:

ancora due sorelle afferrate dal terribile mostro...

«Mi sentivo morire, ma dovevo farmi forza, incoraggiare e curare suor Anna e suor Rosa...

«Suor Annelvira è stata sempre meravigliosa, con una forza e un coraggio incredibili. Anche

quando ha capito (al secondo e al terzo giorno) che il virus l’aveva contagiata, è stata di una forza

eccezionale, anche se si notava sul suo volto il duro combattimento che stava vivendo...

«A un certo momento suor Annelvira, così come suor Danielangela, non volevano più il siero e

neppure il plasma. Raccomandavano di riservarlo per i poveri che non avevano soldi per

comprarli».

Lei, come pure suor Vitarosa, dovrà affrontare quella lotta spaventosa senza poter avere accanto

le consorelle, con l’assistenza

PAGINA 139:

soltanto di due infermieri coordinata dal dottor Philippe Callain del CDC di Atlanta. Quella misura

dolorosissima si era resa necessaria per risparmiare altre vittime.

Ma seguiamo il racconto di suor Annamaria, «la sopravvissuta»:

«Il giorno 17, suor Annelvira mi dice:

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– Sai che penso di avere il virus? È il quarto giorno che prendo antibiotici e la febbre non

scende...

«Il giorno seguente, suor Anna presentava le prime chiazze rosse alle mani, alle braccia... Il

dottor Philippe Callain le dice:

– Adesso, suor Anna, è confermato che avete il virus di Ebola. Da questo momento, le vostre

sorelle e io dobbiamo mettere in atto tutte le precauzioni, con l’isolamento stretto.

«E lei:

– Merci, docteur... Je comprends bien!

«Quando si è trattato di trasferire anche suor Annelvira nella casetta dell’isolamento dove erano

morte tutte le altre, i medici, il Vescovo e tutti hanno obbligato noi sorelle a non assisterle più.

Venerdì 19 maggio due medici e due persone della Croce Rossa sono venute a prenderla per

trasportarla nella casetta. Non potrò più dimenticare quel passaggio di suor Anna, davanti a noi, che

eravamo tutte in singhiozzi...

«Subito ho pensato all’Agnello che andava verso il sacrificio fuori dalla città e lontano dai suoi...

«Nel pomeriggio dello stesso giorno suor Anna ha richiesto il Padre per il sacramento degli

infermi. Anche suor Vitarosa ha voluto riceverlo insieme a suor Anna e si è assistito ancora una

volta a una scena commovente: tutta la comunità stava al di fuori e seguiva il rito cantando “Marie,

Mère du grand’oui!”...».

L’unico cruccio per lei, in quei giorni: non poter intrecciare nel silenzio completo il dialogo col

suo Signore, interrotto spesso com’era dagli interventi medici o infermieristici.

Incontrerà l’angelo della morte il 23 maggio verso le 18.

I testimoni riferiscono di una pioggerellina fine che scende dal cielo proprio in quegli ultimi

istanti, e che cessa subito dopo. Suor

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Béatrice Ngwaka commenterà: «Quasi una pioggia delle grazie che vuol far scendere su di noi pace,

consolazione e accettazione».

Una fioritura di punti esclamativi

L’anno precedente, in occasione della Pasqua, aveva spedito, quale augurio all’anziana e

indimenticata mamma Elvira, una fotografia di un bimbo africano, ponendo questa scritta nel retro:

«Carissima Mamma, Buona Pasqua! Te la dà questo bellissimo pupo del Malawy! Cerca di star

bene, ti ricordo tanto nelle preghiere... A te auguroni e un grosso bacio. Tua figlia Celestina».

Anche per noi, d’ora innanzi, è possibile ritrovare suor Annelvira nel sorriso di qualsiasi

bambino.

Il messaggio della «donna della vita» non può che essere un messaggio di vita. E pure l’ombra

sinistra della morte viene assorbita dalla luce pasquale.

Chissà quanti punti esclamativi avrà dovuto tirar fuori suor Annelvira all’arrivo nella Casa del

Padre.

Lassù avrà trovato una sterminata fioritura di punti esclamativi. E qualcuno l’avrà lasciato cadere

anche qui in terra, senza dubbio.

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Sarà bene che afferriamo un fascio di quei suoi immancabili punti esclamativi, per piantarlo al

centro del nostro cuore, a soppiantare i troppi punti interrogativi che lo invadono, e far germogliare

una voglia insopprimibile di lode.

PAGINA 141:

SUOR VITAROSA

QUELLA CHE ANDAVA DAI «NON RAGGIUNTI»

Va’ dove ti porta il lavoro…

Si chiamava Maria Rosa. Da religiosa aveva assunto il nome di suor Vitarosa. Ma in comunità

veniva indicata abitualmente come «la Zorza», a motivo del suo legame particolarissimo con la

famiglia.

Tuttavia, in quella confusione di nomi, lei era sempre quella, inconfondibile, facilmente

riconoscibile per il faccione attraversato da un largo sorriso.

Strana famiglia quella degli Zorza. Numerosa, di condizioni assai modeste, e anche un po’

nomade. Infatti il padre fa il bracciante e il lavoro deve andarselo a cercare dove c’è, e i nove figli

lo seguono nei suoi spostamenti.

Racconta Adele, una delle sorelle: «Soldi ce n’erano pochi, ma eravamo felici lo stesso.

Conducevamo una vita semplice e ricca di affetto».

Se i soldi scarseggiavano, in compenso il capitale di fede era piuttosto consistente. Papà Angelo,

uomo religiosissimo, la sera, radunava la nidiata per la recita del Rosario. Gli altri appuntamenti

fissi erano le preghiere del mattino e quelle prima dei pasti.

Maria Rosa era nata per ultima a Palosco, provincia di Bergamo e diocesi di Brescia, il 9 ottobre

1944.

Quando ha appena due anni, le muore la mamma Maria. Sarà la signora Faustina, nonna paterna,

a svolgere il ruolo di seconda mamma.

Ma poi il babbo decide di risposarsi e la famiglia ben presto aumenta perché arrivano due altri

fratellini. Maria Rosa, frattanto, ha dovuto crescere in fretta perché deve occuparsi dei nuovi

arrivati, dal momento che la matrigna è spesso malata.

PAGINA 142:

Appena terminate le scuole, trova lavoro (nero) in un’azienda di Telgate che produce manici di

ombrelli. La paga è miserabile, ma in una famiglia come quella rappresenta pur sempre una manna

provvidenziale. Papà Angelo – che morirà nel 1964 – apprezza.

«Meglio non pensarci troppo…»

Le compagne la ricordano come una ragazza mite, remissiva, non invidiosa, serena, disposta a

lasciar correre, e soprattutto sempre col sorriso a illuminarle quel faccione simpatico.

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Ma lasciamo, per una volta, sia lei a raccontare la propria vita e gli inizi della sua vocazione.

Possediamo, a questo riguardo, una specie di relazione autobiografica, scritta da suor Vitarosa

Zorza in occasione del suo 25° di professione, circa un anno prima della morte, per il bollettino

della parrocchia di Palosco. È un racconto piano, in tono dimesso, senza forzature retoriche,

secondo lo stile del personaggio. Ecco alcuni passaggi:

«...Avevo sette anni quando, per motivi di lavoro, la mia famiglia si trasferì alle Bettole di

Cavernago, nel 1950. Vi rimasi fino a 17 anni. Le Bettole, allora, contavano tre case e Cavernago –

se non erro – ne contava otto, compreso il bellissimo Castello. Era un paese piccolo, tranquillo; non

c’era l’attrattiva della televisione né occasione di altri divertimenti.

«La mia vita trascorreva semplicemente tra impegni di famiglia, di lavoro e di parrocchia. Mi

piaceva fare catechismo, andare dalle Suore, fermarmi nella bella chiesetta di Cavernago dove c’era

Qualcuno che esercitava su di me una certa attrattiva.

«Avvertivo che la vita è un dono di Dio, che tutto quello che ci circonda è fatto da Lui con amore

e che ogni persona era pure un segno dell’amore di Dio.

«Capivo che su ogni persona il Signore ha un progetto particolare: è compito di ciascuno di noi

conoscere questo progetto e realizzarlo secondo i doni di cui siamo colmati.

«Ma quale era il mio progetto? Cominciò dentro di me una lotta: sentivo che il Signore mi

chiedeva di essere dono di amore e

PAGINA 143:

nello stesso tempo avvertivo forte l’attrattiva per la vita matrimoniale. Come poteva Dio scegliere

me per la vita religiosa, se io ero così imperfetta e se avevo interesse per le cose a cui ogni ragazza

tiene tanto?

«Per il momento decisi di non pensarci troppo, per non avere delle noie. A 18 anni conobbi un

ragazzo che mi propose di condividere la vita con lui. Ci frequentammo per due anni e mi sembrava

molto bello l’amore che nasceva tra noi. Nel rispetto reciproco cercavamo di conoscerci e fare

progetti per il futuro. Ma dentro di me qualcosa non era chiaro: sarà proprio questo che Dio vuole

da me?».

Su quest’ultimo episodio le versioni sono contrastanti. Secondo alcuni sarebbe stato il ragazzo,

Giuseppe, a rompere il fidanzamento perché avverte il richiamo della vita monastica e si rifugia per

un certo tempo in un convento piemontese. Secondo la testimonianza di Antonella Sbernini, «Rosa

ne soffre, ma non ne fa una tragedia. Solo una volta la sorella Adele l’ha vista piangere a causa di

Giuseppe e la conforta tra le sue braccia».

La verità, probabilmente, ancora una volta, sta nel mezzo: ossia ambedue si rendono conto che la

loro strada è diversa. E quella che deve lottare di più, per obbedire alla sua vera vocazione, è Rosa.

Ma riprendiamo il filo del racconto: «Cominciai a pregare con più intensità e a chiedere

consiglio al Parroco. Un po’ per volta cominciò a farsi luce dentro di me: la mia attenzione si

posava più spesso sull’amore che il Signore aveva per me e sulla necessità di raggiungere i fratelli

più poveri per parlare loro della bontà del Padre che sta nei cieli.

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«A 21 anni mi resi conto che era arrivata l’ora di dare la mia risposta a Dio, diventando tutta sua

nella vita religiosa. Feci un serio cammino di ricerca e di discernimento per conoscere in quale

Congregazione avrei potuto vivere la mia appartenenza al Signore e la missione in mezzo ai poveri.

«Sempre per motivi di lavoro, la mia famiglia aveva lasciato Cavernago e si era trasferita a

Palosco. Lì conobbi le Suore delle Poverelle... Fui subito colpita dallo stile di vita di queste Suore:

PAGINA 144:

nella povertà, semplicità, disponibilità e gioia si avvolgono tra i poveri, quelli non raggiunti da altri,

come diceva il Fondatore.

«Per meglio conoscere e sperimentare il loro carisma, che si ricollega alla contemplazione e

imitazione di Cristo, povero e obbediente al Padre per amore degli uomini, fino allo spogliamento

della croce, andai a lavorare in una loro comunità che prestava servizio agli ammalati psichici21

».

«A 23 anni entrai come postulante nella Congregazione; dopo il noviziato feci la professione

religiosa: ero Suora, appartenevo al mio Dio in modo tutto singolare!

«Ultimati gli studi di infermiera professionale, prestai servizio tra gli anziani e di nuovo tra gli

ammalati psichici: a contatto con tanta sofferenza e solitudine, sentii nascere dentro di me un

desiderio, quasi una nuova vocazione: andare in terra di missione dove la povertà è ancora più vasta

e gli aiuti meno solleciti. Sentivo che dovevo lasciare la vita abbastanza sicura che conducevo qui in

Italia per condividere la situazione dei fratelli “non raggiunti” nella lontana Africa».

La letizia di suor «Tappabuchi»

Resta da precisare che suor Vitarosa, prima di sbarcare nello Zaire, presta servizio dapprima a

Milano, poi passa a Tone Boldone, e quindi nuovamente a Varese, luogo del suo primo

apprendistato.

Gli spostamenti sono continui, ma lei c’è avvezza fin da piccola. I Superiori sanno che, in ogni

emergenza, possono contare a occhi chiusi sulla sua disponibilità. E con lei si può formulare una

richiesta secca, senza troppi preamboli.

Così diventa una «suora tappabuchi»: qualche giorno in quella comunità, un paio di settimane in

quell’altra, perché c’è da sostituire qualche consorella. E lei parte badando a non lasciarsi dietro il

sorriso, e attirandosi ovunque la simpatia generale.

Non si sente per nulla diminuita da quel pendolarismo, indi-

PAGINA 145:

gesto ai più. Lei appartiene alla categoria dei «servi inutili», che non si tirano mai indietro quando

viene richiesta la loro opera oscura quanto preziosa (quelli, invece, che si ritengono indispensabili,

riescono sempre a defilarsi allorché si profila un compito sgradevole e poco appariscente).

21

Si tratta dell’ospedale psichiatrico «Bizzozzero» di Varese.

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Quando il francese non funziona, basta il sorriso per farsi capire

Nell’ottobre 1982 suor Vitarosa parte per lo Zaire, dopo una preparazione piuttosto sommaria. In

Belgio, oltre che frequentare le lezioni sulle malattie tropicali, avrebbe dovuto imparare il francese.

Ma, per quanto si mettesse di buzzo buono, quella lingua le rimaneva indigesta. Lei se la faceva di

più col dialetto bergamasco. E comunque, laggiù, se la sarebbe cavata sparando le vocali doppie e

illustrandole col suo impareggiabile sorriso. E tutti l’avrebbero capita perfettamente.

La sua prima destinazione è Kikwit. Così descrive, semplicemente, la situazione che trova:

«L’ospedale ha una capienza di 500 persone, ma in ogni letto ci sono sempre due o tre ammalati,

quindi pensate voi le condizioni...».

Lei si dedica in modo particolare ai bambini denutriti. Nel suo animo sensibile, però, registra e

condivide profondamente la sofferenza di quello che considera ormai il «suo» popolo. E trova

accenti accorati per dare conto di quella situazione che sfiora la tragedia. Scrive, per esempio, alla

Madre Generale, durante un Corso di Esercizi:

«Ormai la miseria è arrivata al culmine, la gente non sa più che cosa fare... Arrivano malati gravi

privi di ogni mezzo, rifiutati dagli altri dispensari od ospedali, perché non possono pagare. Se anche

da noi non trovassero aiuto, sarebbero destinati a morire...

«Arrivano tanti bambini denutriti, e ora anche adulti; sono aumentati i tubercolotici; sono più di

450 gli ammalati che vengono ogni giorno a prendere le medicine. Malaria cerebrale e meningite

uccidono tanti bambini. L’AIDS fa strage...

«Io torno tra loro con un grande desiderio di amare più intensamente Dio, servendolo negli

infermi, negli abbandonati... A noi

PAGINA 146:

non resta che mettere tutto nelle mani di Dio e pregare tanto perché non succeda il peggio».

Più tardi, nel già citato articolo, non esita a scuotere la coscienza tranquilla di tanti cristiani

occidentali, scaraventando loro in faccia un quadro allucinante che lei ha davanti agli occhi:

«Forse noi, abituati a mangiare tre volte al giorno, dormire in camere arredate e comode, avere a

disposizione denaro e comfort vari, non riusciamo neppure ad immaginare che milioni di fratelli

vivano in capanne di fango e paglia, dormano per terra, mangino una volta al giorno se sono

fortunati, e quelli che lavorano abbiano una paga da miseria...».

E concluderà, lanciando un appello ben mirato:

«Io sono certa che anche oggi il grido di questi fratelli è capace di suscitare la solidarietà di noi

che stiamo bene e che ci diciamo cristiani; ma sono anche sicura che la voce del Signore bussa al

cuore di tanti ragazzi e ragazze chiedendo loro di mettere la loro vita a sua disposizione per andare

tra questi fratelli a dire concretamente, con la vita spesa per amore, che in cielo c’è un Padre Buono

per tutti.

«Auguro a questi giovani di aprire il cuore a Cristo, di ascoltare il suo invito, di non aver paura a

scegliere la vita religiosa come proprio stato di vita: chi perde la propria vita per me la ritrova, dice

Gesù. E io vi posso garantire che vale la pena vivere insieme con Gesù la meravigliosa esperienza

dell’amore che si rende visibile nel servizio agli ultimi!».

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«Sorrideva sempre»

Giorgio Fornoni, di Ardesio, è un fotografo giramondo. Un giorno è capitato a Mosango e ha

incontrato suor Vitarosa. La ritrae così:

«Mi aveva colpito quella suora. La cosa che la distingueva dalle altre è che sorrideva sempre,

sempre, sempre: una persona di una serenità e di una forza estrema. Ispirava un senso di solidità, sia

fisica che morale...

«Vitarosa Zorza in quei giorni mi ha accompagnato al carcere

PAGINA 147:

di Kinshasa, al manicomio, in giro per i villaggi. Le suore danno ogni genere di aiuto a quella gente,

che ha tanti bisogni. È la loro missione, molto al di là del lavoro sanitario in ospedale. Le Poverelle

hanno libertà d’accesso in molti posti, sono rispettate, non solo dai militari, ma da tutti. Il governo

si fida di loro, concede una certa libertà.

«Tre volte alla settimana suor Vitarosa caricava un pulmino di viveri e andava a trovare i

carcerati. Li chiamava uno per uno, portava da mangiare, che è la cosa più semplice per aiutarli. Era

capace di visitare cento persone al giorno. Ce n’erano anche di pericolosi, alcuni sono legati con

catene, trattati come animali. Di umano c’era ben poco in quel posto. L’unica nota di umanità era

data dal lavoro di queste suore.

«...Mi ha accompagnato anche al manicomio, che è un luogo aperto, molto diverso dai nostri:

non ci sono guardiani, e la gente sta dentro perché non ha altre alternative. Il mondo per loro non

esiste più.

«In questo quadro le suore sanno mantenere un certo equilibrio di pulizia e di igiene... Mi ricordo

come suor Rosa sapeva accogliere i malati, come li sapeva trattare... Conservava una straordinaria

serenità»22.

Paura sì...

Dopo dieci anni, suor Vitarosa viene colpita da un attacco di ischemia ed è costretta a riparare in

Italia, giusto il tempo per rimettersi in sesto. Per il sorriso non c’è bisogno: quello non è mai in

restauro.

Il collaudo della salute ritrovata viene fatto a Kingasani, uno sterminato quartiere alla periferia

della capitale.

La situazione politica dello Zaire, in quegli anni, diventa ancora più preoccupante, che è tutto

dire. Un po’ da per tutto si accendono focolai di rivolta, esplode la rabbia di gente che non ne può

più, con le inevitabili code di saccheggi, uccisioni e violenze

22

«L’Eco di Bergamo», 29 maggio 1995.

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di ogni genere. I sibili delle pallottole lacerano l’aria in continuazione.

Suor Vitarosa ne rimane scossa, sperimenta la paura, e non fa nulla per nasconderla. Lei vuol

essere semplicemente suora, e non intende giocare a fare l’eroina. Scrive:

«Anche se l’insicurezza non manca mai e la paura qualche volta si fa sentire, mi affido a Dio...».

Paura no…

Ignora, invece, totalmente la paura quando si tratta di accorrere a Kikwit non appena viene a

sapere dell’emergenza che si è determinata laggiù dopo la morte di suor Floralba.

Ha cacciato, alla rinfusa, in una valigia, le sue poche cose insieme a tutti i medicinali che è

riuscita ad arraffare, e lascia la sicura Kingasani per raggiungere la comunità di Kikwit, così

duramente provata.

Suor Antoinette premurosa, la mette in guardia:

– Non hai paura? Sembra che ci sia una malattia contagiosa...

Lei non ha esitazioni:

– Paura di che? Le altre sorelle sono là: perché non posso andarci anch’io? In questo momento

hanno bisogno di me.

Un infermiere, suo collaboratore, le si inginocchia davanti e con la voce strozzata dall’angoscia,

la supplica:

– Ma sœur, non andare, perché a Kikwit è già morto un mio amico e tanti altri stanno morendo!

Per tutta risposta, suor Rosa, secondo il suo stile inconfondibile, sfodera un bel sorriso e intona il

ritornello di una canzone in lingala: «Se il Signore ti manda, va’, e non temere...».

E così, a fianco di suor Annelvira, si prodiga accanto alle sue consorelle colpite dal virus.

Quando anche lei viene aggredita dal male, i medici cercano di darle speranza. Lei, però, che ha

visto morire, pochi giorni prima, suor Annelvira, non si fa illusioni:

– Ora tocca a me.

Alle due di domenica mattina, 28 maggio 1995, solennità del-

PAGINA 149:

l’Ascensione, suor Vitarosa porta il suo faccione attraversato dall’abituale largo sorriso, che non ha

mai ammainato, a contemplare la gloria di quel Dio che predilige i piccoli come lei.

«Dio ama i piccoli»

Aveva scritto: «Ho percepito che Dio mi ama di un amore infinito. Più riconosco di avere tanti

limiti ed essere tanto povera, più sento che Dio mi ama. Sì, perché Dio ama i piccoli!».

Una consorella, suor Danila, testimonia da Kinshasa:

«Quando ci è giunta la notizia della morte che si è diffusa in un baleno, abbiamo sentito quanto

suor Rosa fosse amata dal personale, dalla gente, dai poveri. Attraverso il pianto, le grida, ciascuno

esprimeva la propria angoscia di fronte a questa scomparsa... Ieri sera il personale e la gente della

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parrocchia hanno organizzato una veglia... A un certo punto è giunto anche il Cardinale che ha

pregato con noi, lodando il Signore per il dono di queste martiri fatto alla Congregazione e alla

Chiesa...».

Quand’era ancora studente, aveva allacciato rapporti di amicizia con una compagna dello Zaire,

suor Béatrice. Insieme avevano percorso tutto il cammino della formazione alla vita religiosa,

condividendo ideali e passione missionaria. Quel legame non verrà mai spezzato neppure in seguito.

Alla morte di suor Vitarosa, la mamma di suor Béatrice commenterà:

– Mi è morta la figlia bianca.

E non era la sola a considerarla tale.

PAGINA 150:

RITRATTO DI FAMIGLIA

Alcune linee per comporre un’immagine unitaria

Sei personalità diverse, con alle spalle storie, vicende, esperienze differenti. Viene da

domandarsi: che cosa avevano in comune, al di là della morte provocata dalla medesima causa che

le ha assimilate nella stessa sorte in uno spazio di tempo assai ristretto? Ci sono tra loro delle

rassomiglianze, e quali?

Proviamo a individuare alcuni tratti caratteristici che compongano un’immagine unitaria, pur

nella varietà dei volti.

Alla fine, dovrebbe venirne fuori un ritratto di famiglia.

I documenti arrivano solo all’ultimo istante

Il loro Fondatore aveva coniato una formula singolare: «Avvolgersi tra i poveri». Era il suo

chiodo fisso, il suo programma, la divisa inconfondibile della sua famiglia religiosa, il segno di

riconoscimento delle Poverelle.

Paradossalmente, il vero abito delle Poverelle è il vestito dei poveri, in cui devono essere

«avvolte». Se appaiono «fuori» da quel rivestimento, se si spogliano di quell’abito che le avvolge,

se si sottraggono a quella «copertura» (oserei dire coperta; sì, perché si tratta della coperta del

povero), diventano irriconoscibili, non identificabili.

Loro erano andate in Missione nella certezza che laggiù sarebbe stato facile «avvolgersi tra i

poveri», identificarsi totalmente con loro. Nello Zaire la coperta della povertà era decisamente

ampia, quasi smisurata, e loro vi avrebbero trovato riparo senza eccessive difficoltà.

Ben presto, però, avevano dovuto rendersi conto che la cosa

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non era tanto semplice. Pur «avvolte» tra i poveri, e perfino tra i più poveri tra i poveri, la differenza

rimaneva, e risultava piuttosto marcata.

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Pur vivendo con loro, dedicandosi a loro, soffrendo con loro, sposando senza riserve la loro

causa, c’era pur sempre una distanza. L’identificazione si rivelava impossibile. E non era solo

questione di pelle.

Un conto è vivere in mezzo ai poveri, servirli, spendersi senza risparmio per loro, e un conto

essere povero. Emerge sempre una linea di confine che separa chi ha fatto voto di povertà, chi ha

scelto i poveri, e chi, semplicemente, è povero. E quella linea, per quanti sforzi facessero, non si

poteva cancellare.

«Avvolte», ma loro di qua, e quelli di là. Era il loro cruccio, quasi un rimorso tormentoso, una

ferita perennemente aperta. Le sei Poverelle si portavano dentro una specie di peccato originale (e

non esiste battesimo di «inculturazione» che possa cancellarlo): stavano con loro, per una scelta di

amore, ma non riuscivano ad essere come loro. Ed erano i poveri stessi a farglielo capire in mille

maniere, senza per questo attribuirgliene una colpa, beninteso.

Era, quella, la loro spina fastidiosa conficcata nella carne (2 Cor 12,7).

Bisognava rassegnarsi: i documenti di «identificazione» non li avrebbero mai ottenuti.

Poi, all’improvviso, si è affacciato alla frontiera il nemico, l’Ebola, e ha prodotto quel risultato

inatteso, ha compiuto quella specie di miracolo. Ha portato i documenti.

L’identificazione «impossibile» è stata resa possibile per contagio. Non c’è stato bisogno

neppure di una trasfusione di sangue. È bastato il contatto epidermico; forse, addirittura, il respirare

la stessa aria.

E così, per colpa (o per merito) di un maledetto virus, che secondo l’opinione corrente doveva

essere riservato agli africani, le sei Poverelle si sono ritrovate finalmente come loro.

«Avvolte tra i poveri», perché «avvolte» dallo stesso virus. So-

PAGINA 152:

lo che l’avvolgimento non era all’esterno, ma all’interno dell’organismo, dentro la carne.

Quanto parlare si è fatto, in questi ultimi tempi, di «inculturazione»... Loro l’inculturazione

l’hanno realizzata, non nella mente, ma nel corpo. Il virus di Ebola è stato il fattore determinante di

questa stupefacente «incarnazione» (che è qualcosa di più dell’inculturazione).

E tutto ciò – sarà bene sottolinearlo – non è avvenuto attraverso una scelta personale, un

dibattito, una programmazione apostolica.

Il contagio non si trasmette nel corso di una discussione, di un dibattito «impegnato», ma nel

corso di un servizio.

Non c’è stata una loro decisione esplicita. Si sono ritrovate improvvisamente povere, in maniera

radicale, scarnificante, nel modo che non avrebbero mai immaginato.

La distanza non l’hanno annullata le sei Poverelle attraverso particolari tecniche missionarie

suggerite dagli esperti del ramo. Ha provveduto a colmarla l’Ebola. E l’ha fatto in una maniera

brutale, senza nessuna consultazione preliminare.

Paradossalmente, la spina è stata estirpata proprio quando si ritrovano con la carne straziata in

quel modo crudele.

Dunque. Hanno alla fine scoperto che se risultava impossibile vivere come loro, restava pur

sempre la possibilità di morire come loro.

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La «grazia» tanto sospirata è arrivata proprio all’ultimo istante. E non era, beninteso, la

sospensione della sentenza, ma l’esecuzione.

Si sono presentate lassù «avvolte nell’Ebola», insieme a tanti altri.

Più che documenti di identità, potevano esibire un prezioso, raro documento di identificazione.

«Ero stato colpito dal virus di Ebola e... vi siete lasciate contagiare...».

E così, lassù, hanno scoperto che Qualcuno li aveva preceduti nell’identificazione. Anche Lui,

prima di loro, si era lasciato «avvolgere dall’Ebola».

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La naturalezza della carità

Ha visto giusto Abramo Levi: «...del tutto naturalmente». Ossia, hanno fatto quello che hanno

fatto come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Qualcosa che va da sé, sempre che ci si

collochi in una certa ottica, si segua una certa logica.

Non si sono atteggiate e non si sono sentite delle eroine, e nemmeno delle martiri. Erano e

rimanevano delle povere donne, anzi delle Poverelle.

Hanno compiuto quel gesto con spontaneità, naturalezza, semplicità. Qualcosa che non rientrava

nel registro dell’eccezionale, ma in quello delle cose da fare. «Niente di speciale» avrebbero potuto

dire.

Avessero saputo dal nostro sbalordimento, dello scalpore che la loro vicenda ha scatenato anche

sui giornali e alla televisione, certamente si sarebbero stupite... della nostra meraviglia.

Contente, probabilmente, che si parlasse e si scrivesse di loro solo a patto servisse a far

conoscere il dramma di quella gente in mezzo alla quale si confondevano e «si avvolgevano».

Insomma, niente di straordinario. O, se si preferisce, anche lo straordinario apparteneva al

programma «ordinario» della loro esistenza. Anche l’eccezionale era la regola.

D’altra parte, tutta la loro vita missionaria è stata «avvolta» nel silenzio, nel nascondimento,

nell’oscurità, nella non appariscenza.

Si erano specializzate – così come voleva don Luigi Palazzolo – nel «niente e tutto», riferendosi

al modello offerto da san Giuseppe.

Nessun protagonismo, nessuna posa da personaggio. Nessuna preoccupazione di far parlare di sé,

di far sapere.

Il massimo della pubblicità che si concedevano era, per alcune, qualche raro articolo destinato al

bollettino parrocchiale del loro paese di origine, e scritto in uno stile dimesso, senza forzature

retoriche, e immune da ogni forma di autocelebrazione, di culto della personalità.

Loro lasciavano volentieri a certi propagandisti di se stessi la presunzione di scrivere pagine

fondamentali di storia del Regno

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(ci è stato dato di ascoltare, recentemente, un pittoresco «pavone» e trombone di una radio con

marchio cattolico parlare delle proprie «trasmissioni storiche», dando quasi a intendere che le sue

«catechesi storiche» avessero convertito il mondo intero...).

Loro, le sei Poverelle, si accontentavano di consegnarsi alla cronaca quotidiana del Regno,

recitata – più che scritta – a bassa voce, tutta a lettere minuscole. Liete di essere ignorate, trascurate

dai più. Soddisfatte di avere il loro nome scritto nei cieli (Lc 10,20), e non sulle pagine dei giornali.

Appagate per il fatto di appartenere alla categoria dei piccoli, dei «nessuno», privilegiata dal

Vangelo, e quindi immunizzate dal bisogno di elemosinare popolarità, consensi, notorietà.

Vogliamo rispolverare, nel loro caso, una parola, una virtù che oggi viene spesso confinata tra le

anticaglie? E allora diciamo pure umiltà.

Il Fondatore aveva raccomandato con martellante insistenza che stessero «giù basse». Diceva

anche: «Sedete in terra, e allora non cadrete». E loro non avevano alcuna velleità di arrampicarsi sui

monumenti. D’altra parte, chi lavora seriamente per i poveri, non trova più il tempo di fabbricarsi il

monumento, né la voglia di arrampicarvisi sopra. Chi scarpina tutto il giorno in una corsia

d’ospedale, è improbabile gli resti la forza per fare passerella o salotto televisivo.

Era proprio l’umiltà la sorgente segreta della loro gioia inalterabile, della loro serenità anche in

mezzo alle prove e alle incomprensioni. La gioia, appunto, dei «servi inutili» (Lc 17,10).

L’umiltà era la cornice preziosa che inquadrava la loro carità. Una cornice fatta apposta per

nascondere, non per esibire.

Si assiste, oggi, alla scomparsa del comune senso del pudore in certa carità esibita, sbandierata,

pubblicizzata, strumentalizzata. Gesù raccomanda: «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere

davanti agli uomini per essere da loro ammirati... Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la

tromba davanti a te... Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua

destra, perché la tua elemosina resti segreta» (Mt 6,1-4).

Oggi si ha l’impressione che la famosa tromba, condannata e

PAGINA 155:

messa a tacere dal Vangelo, sia stata richiamata in servizio, lucidata, rivalutata, e siccome era

ritenuta insufficiente, ha ottenuto il rinforzo di tamburi, piatti, tromboni, pifferi, corni, violoncelli,

grancasse, altoparlanti fragorosi e affini. Col risultato di produrre un concerto assordante,

decisamente sgradevole.

Invece della carità «segreta», nascosta, schiva, modesta, umile, abbiamo una carità spettacolare,

chiassosa, fatua, presenzialista, reclamizzata al di là dei confini della decenza, o almeno del buon

gusto.

È vero che Gesù ha detto: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le

vostre opere buone». Ma non ha mancato di precisare: «...e rendano gloria al Padre che è nei cieli»

(Mt 5,16).

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Ci sono, invece, «produttori di opere buone» che riscuotono loro, spudoratamente,

sfacciatamente, in termini di culto della personalità, popolarità, applausi, presenzialismo

incontinente, quella gloria che andrebbe dirottata verso Dio.

E così assistiamo a spettacoli penosi di divismo, a fenomeni indigesti di protagonismo nel campo

della carità e delle iniziative di tipo sociale.

L’equivalente delle esposizioni del SS. Sacramento, in chiesa, per certi individui, è diventata

l’esposizione regolare di se stessi negli studi televisivi, nelle sale delle conferenze, e perfino negli

stadi.

Con la scusa che bisogna fornire «buone notizie», far conoscere il bene, e non solo il male

presente nel mondo, c’è gente che non appena decide di far qualcosa, crea prima di tutto un ufficio

stampa incaricato di trasmettere l’informazione a tutti i mezzi di comunicazione che ci sono nei

paraggi. più che di fare, ci si preoccupa di far sapere.

Tra informazione ed esibizione, tra comunicazione e sensazionalismo, ci deve pur essere una

linea di demarcazione che non va superata impunemente.

La carità, ci ricordano le sei Poverelle e le loro «complici», come certi preziosi affreschi

antichissimi, è qualcosa di delicato, che finisce per sbiadire e perdere il proprio splendore (davanti a

Dio

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e ai destinatari) allorché viene sottoposta alla luce del sole o dei riflettori.

Abbiamo bisogno che si spengano le luci della ribalta, si chiudano i microfoni, venga azzerato il

volume degli altoparlanti, cessi il concerto fracassone, si interrompano le marce trionfali, perché

possiamo percepire la musica silenziosa di tanta carità nascosta, seminata sotto la dura crosta del

mondo.

La vera generosità – ci ricordano ancora le Poverelle – è rifiuto del palcoscenico, la dedizione

autentica è gusto del lavoro oscuro.

L’amore ha tutto da guadagnare quando circola in incognito «avvolto» nella copertura necessaria

del pudore e nel mantello liso dell’umiltà.

L’amore non ha bisogno di essere pubblicizzato. Basta poterlo intuire, sospettarne la presenza.

Quando l’amore esce di casa, e va a raccontarsi, esibirsi, celebrarsi, autoesaltarsi, si concede

all’ammirazione, provoca l’applauso, quello che «esce» non è l’amore, ma l’orgoglio (con

l’accompagnamento dei parenti stretti: vanità, spocchia, ambizione, ricerca di sé) travestito da

carità. Il travestimento più grossolano e indecente.

Osservando lo stile delle sei Poverelle ci rendiamo conto che ritroveremo la carità evangelica e la

riconosceremo senza possibilità di equivoci, solo quando la vedremo nella compagnia rassicurante

dell’umiltà.

Le sei Poverelle non avevano alcuna pretesa di imporsi all’attenzione del pubblico (e avrebbero

volentieri fatto a meno anche di una morte che, necessariamente, «faceva notizia»). Si

accontentavano di «mostrare» ai poveri dello Zaire la misericordia del Signore. Riscuotere fama?

Manco ci pensavano.

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Se si parla veramente dell’amore del Padre, non si ha alcun bisogno di far parlare di sé. Diceva

Gandhi: «L’amore è l’ultimo limite dell’umiltà».

Le sei Poverelle sono pervenute a quell’amore eccessivo, a quell’esagerazione di amore, proprio

perché si sono spinte sulle frontiere estreme dell’umiltà.

PAGINA 157:

La follia dell’amore appartiene alla normalità della vita cristiana

E allora occorre anche parlare di «normalità». Sì, perché uno dei tratti inconfondibili, comuni

alle sei Poverelle, è proprio la normalità.

Sono sei suore normali, che non rientrano nella categoria dell’eccezionale. Normali nel servizio,

normali nella fedeltà, normali nel «perdere la vita», normali nella dimenticanza di sé.

Normali nel coraggio, ma anche nella paura. Normali negli slanci, ma anche nelle debolezze.

Normali in un amore «senza misura».

La loro vita era la somma di tante cose normali, tante occupazioni ordinarie, tante faccende

comuni, tanti compiti per nulla esaltanti.

Oggi il palcoscenico è totalmente occupato da protagonisti, primattori, che sgomitano per stare in

primo piano. Non si riesce più a reclutare individui disposti a recitare la parte modesta – ma pur

sempre esaltante – di semplici uomini, di cristiani e religiosi «normali».

Ho l’impressione che il mondo, oggi, sia popolato quasi esclusivamente di gente straordinaria,

individui fuori dal comune, personaggi eccezionali, uomini importanti (o che si ritengono tali), preti

«che non sono come gli altri».

Si stanno assottigliando paurosamente le fila della gente comune. E anche se sopravvive qualche

raro esemplare, non desta alcun interesse.

Sembrerebbe che l’uomo normale appartenga a una razza minacciata di estinzione. Occorre,

perciò, salvarlo. Cominciando con l’attribuirgli tutto il valore che merita.

Si crea un interesse morboso attorno alle «celebrità», e si trascurano gli oscuri faticatori.

Personalmente avverto una gran voglia di normalità. Voglia di normalità, ossia voglia di

incontrare delle persone più che dei personaggi famosi.

Di individui famosi ce ne sono anche troppi in circolazione. E finiscono per intralciare il traffico,

provocando ingorghi fastidiosi.

PAGINA 158:

Viene il sospetto che la ricerca dell’eccezionale e del sensazionalistico rappresenti una comoda

via di fuga dalle responsabilità «ordinarie», dagli impegni sgradevoli dei giorni feriali.

Loro, le sei Poverelle, non si ritenevano «suore diverse dalle altre». Al contrario, si

consideravano uguali alle loro consorelle, e a tutte le altre suore del mondo impegnate sul fronte

della miseria.

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La testimonianza delle sei suore delle Poverelle appare tanto più inquietante e scomoda per noi

proprio perché appartiene al campo della normalità.

Non ci è consentito rifugiarci nel solito alibi che quelle sono creature «eccezionali», con una

vocazione speciale, quasi con una predisposizione ereditaria all’eroismo.

No. Quelle sono creature normali, in carne e ossa come noi, che avvertivano la nostra stessa

stanchezza, provavano le nostre stesse ripugnanze nell’affrontare certe situazioni sgradevoli e

ricorrenti. Minacciate di scoraggiamento come noi. Artigliate dai nostri stessi dubbi.

Sperimentavano le medesime difficoltà contro le quali ci scontriamo abitualmente.

È proprio questo aspetto che ci rende indigesto – al di là di una scontata ammirazione e di una

facile commozione – il loro esempio, «insopportabile» la loro provocazione. Siamo di fronte,

infatti, alla provocazione della normalità.

L’amore come norma. E anche il sacrificio, la rinuncia, la fedeltà più costosa, la carità

sorridente, il servizio gioioso come norma.

L’aspetto paradossale della loro lezione sta proprio qui: la follia dell’amore, e la follia stessa dei

paradossi evangelici, in campo cristiano, appartiene alla categoria della normalità.

«Eccomi», ossia l’incontro dei volti

Dovessimo riassumere in una formula concisa il senso del loro servizio, che è poi il senso della

loro obbedienza, potremmo dire così: erano creature capaci di dire, in ogni circostanza «Eccomi!».

Proprio come ha detto, al momento dell’Annuncio, Maria di Nazaret (Lc 1,38).

PAGINA 159:

Sicuramente non avevano letto E. Lévinas e ciò che il grande filosofo ebreo teorizza a riguardo

dell’amore e in particolare del rapporto tra amore e volto. In compenso, hanno attuato

spontaneamente, intuitivamente, quel programma, senza neppur bisogno di passare attraverso la

fase di elaborazione concettuale.

Erano convinte che l’amore non è possibile se non tra volti; che l’amore è, prima di tutto,

incontro tra volti23

. Si sono lasciate interpellare dal volto dell’altro, dal volto dei malati, dei

denutriti, degli «inguardabili», dei lebbrosi, dei «non raggiunti» (loro raggiungevano principalmente

col volto i «non raggiunti»). Da questo incontro col volto del fratello zairese nasceva il senso della

loro responsabilità. Venivano toccate dal volto, non all’indicativo, ma all’imperativo. Per cui al suo

comando non potevano che rispondere: «Eccomi». Si sentivano obbligate nei confronti del volto del

prossimo.

«La prossimità dell’altro è la mia responsabilità per lui: farsi prossimo significa essere custode

del proprio fratello; essere custode del proprio fratello significa essere il suo ostaggio» (E. Lévinas).

Ciò implica, prima di tutto, «vulnerabilità», che vuol dire tenere, nel proprio essere, un punto

debole, una zona scoperta, un territorio indifeso, per cui si viene toccati, feriti dalla miseria

dell’altro. È questo il punto di partenza della misericordia.

Ancora Lévinas: «Solo un io vulnerabile può amare il suo prossimo».

23

Ricavo alcune di queste riflessioni dallo splendido volume di Bruno Chenu, Tracce del volto, Qiqajon, 1996.

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Il che comporta la scomparsa, anzi addirittura la morte dell’io. L’io muore a se stesso, viene

sloggiato dalle proprie comodità, dalle proprie sicurezze, dalle proprie abitudini e schemi mentali.

L’io, allora, non è più protagonista. Perché l’altro ha sempre la precedenza, la priorità. È come se

dicesse al fratello: «Prego, dopo di te...».

L’«io» diventa servo del «tu».

«Eccomi» sta a indicare che l’io non è più soggetto, ma è di-

PAGINA 160:

ventato complemento oggetto: «Ecco-me», sono a tua disposizione. Puoi disporre di me (ecco-me!).

Purtroppo parecchi individui, malati di protagonismo nel campo della carità, riescono

incredibilmente a dire: «ecco-io».

Chi ama di un amore esagerato, come quello delle sei Poverelle, arriva ad amare l’altro prima di

se stesso, più della propria vita.

Chi ama ha sempre una responsabilità in più rispetto a tutti gli altri. E non hai mai finito di

sdebitarsi nei confronti del prossimo.

Chi ama è sempre fuori-di-sé per l’altro. La carità implica necessariamente un decentramento.

Ma anche un’espropriazione, una spoliazione, un non appartenersi.

Se è vero che «l’etica è un’ottica», come sostiene il pensatore che abbiamo citato, ciò vale anche

per l’amore. Le sei Poverelle hanno saputo guardare in un certo modo il prossimo, l’hanno visto in

maniera diversa. Dall’incrociare lo sguardo dell’altro, hanno sentito emergere l’imperativo

dell’attenzione, del rispetto, della carità senza limiti, della responsabilità, del «prendersi a carico» il

fratello.

Dall’incontro col volto dell’altro si sono sentite spinte in avanti, spinte «oltre». Oltre ogni

confine, compreso quello della ragionevolezza, del calcolo, della prudenza umana, del preciso

dosaggio, della saggia amministrazione di sé. Perché, se incontri il volto dell’altro, non riesci più ad

amministrare, a controllare giudiziosamente la tua vita (compresa quella spirituale).

Oserei dire che non sono state tanto loro ad andare verso gli altri, quanto piuttosto che si sono

lasciate raggiungere dai fratelli dello Zaire. L’amore ha l’altro come punto di partenza: ecco ciò che

Gesù ha cercato di far capire al dottore della legge con la parabola del samaritano (Lc 10,25-37).

Paradossalmente si sono fatte raggiungere dai «non raggiunti»!

Le loro vite, da quel momento, erano per così dire, occupate, sequestrate, prese in ostaggio dal

prossimo. Messe a disposizione. Le sei Poverelle non si appartenevano più.

Senza questa spoliazione radicale, risulta impossibile «avvolgersi» tra i poveri.

PAGINA 161:

Hanno detto «Eccomi» allorché sono state convocate per la partenza.

Hanno ripetuto «Eccomi» rispondendo agli innumerevoli appelli della loro esistenza missionaria.

Allenate a dire «Eccomi» nella quotidianità, sono state capaci di dire, del tutto naturalmente,

«Eccomi» anche di fronte all’imperativo estremo del contagio.

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Non facciamoci illusioni al riguardo. Una morte come quella non s’improvvisa, e non è neppure

casuale. È, piuttosto, la conseguenza, quasi naturale, dell’abitudine a dire «Eccomi».

Solo chi si è abituato a donare la vita, in moneta spicciola, giorno per giorno, spendendosi per gli

altri, diventa capace di «dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Voglio dire: solo chi è capace

di vivere per gli altri, diventa anche capace di morire per loro.

E, di fronte alla «convocazione» ultima, non hanno più avuto bisogno di parlare. In quelle

condizioni, non trovavano più la forza di cavar fuori le parole. Ma non era necessario. L’«Eccomi»

era ormai stampato in faccia.

E anche questa volta c’è stato un incontro di volti.

Condividere la morte

Un altro lineamento comune è senza dubbio il senso comunitario. Nessuna di loro si atteggiava a

fuoriclasse, a campionessa impegnata in un’impresa solitaria, isolata dalle compagne, staccata dalle

consorelle.

Ognuna, invece, respingendo qualsiasi atteggiamento individualistico ed esclusivistico,

testimoniava l’appartenenza a una famiglia. E la famiglia era quella della comunità locale, ma anche

quella, allargata, dell’Istituto.

Basta leggere certe lettere indirizzate ai Superiori, per accertare quanto fosse spiccato in loro il

senso di «appartenenza».

Non agivano a titolo personale, ma insieme alle altre, e a nome di tutte le altre (comprese quelle

rimaste in Italia).

Non facevano alcuna distinzione tra chi stava in prima linea e quelle che rimanevano nelle

retrovie. L’opera era «comune».

PAGINA 162:

La missione non è mai una faccenda privata, e non si riduce all’impresa di un singolo. La

missione è, prima di tutto, un fatto ecclesiale. Ed è anche un fatto comunitario.

Nessuna delle sei Poverelle agiva in nome proprio, per conto proprio, né tantomeno cercava di

imporsi all’attenzione a titolo personale.

Certo, ognuna recava la propria impronta, le proprie capacità, la propria unicità, perfino la

propria inventività, ma senza mai pretendere di essere considerata una pedina autonoma, avulsa dal

contesto, che segue traiettorie indipendenti.

Voce del verbo condividere. E voce del verbo partecipare.

Ciascuna al proprio posto, con un compito particolare, una responsabilità precisa in un

determinato settore. Ma con la consapevolezza di far parte di un tutto, di portare avanti un’impresa

comune. Insomma, specificità e complementarietà dei compiti.

Nessuna di loro ha mai pensato di ricavarsi una nicchia personale di popolarità, considerazione,

fama. E nemmeno di attribuirsi meriti che andavano messi sul conto di tutte le altre, e facevano

parte del «bilancio familiare».

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Come condividevano fatiche, problemi, difficoltà, lavoro, ansie, dubbi, lacrime, pene, speranze,

scoramenti, progetti, così anche i frutti andavano ripartiti, non certo nel senso che ognuna incassava

la propria quota, ma nel senso che quei frutti appartenevano al raccolto comunitario.

Anche quando un risultato veniva conseguito da una singola Poverella, c’era viva la

consapevolezza dell’apporto di tutte le altre.

Non c’è atteggiamento più sfasato rispetto allo spirito autentico della missione evangelica di

quello che porta certi individui a recitare la parte del primattore, concentrando su di sé i riflettori

dell’attenzione generale, e relegando nell’ombra, dietro le quinte, i collaboratori, quasi che l’opera

silenziosa e nascosta di questi ultimi fosse trascurabile. Ossia, gli altri ridotti al ruolo di comparse

insignificanti, semplice cornice destinata a mettere in evidenza il protagonista indiscusso, che deve

sempre stare in primo piano.

Tengo un ricordo assai fastidioso al riguardo. Un brillante gior-

PAGINA 163:

nalista, specializzato nel ricamare bellurie, sbarca, armato di taccuino e macchina fotografica, in

una missione della Tanzania dove si rompono la schiena decine di silenziosi operai del Vangelo,

che non hanno mai fatto parlare di sé prima di allora. Ne adocchia uno, il più disinvolto nel ciarlare,

e ne fa un eroe cucendogli addosso un monumento di carta (da cui l’autore ricava un bel gruzzolo, il

che non guasta mai...). Tutti gli altri vengono ignorati, o diventano figure irrilevanti, evanescenti, di

contorno. I lavoratori oscuri non contano, tutta la luce viene concentrata sull’eroe solitario. Questa,

oltre al resto, rappresenta una colossale ingiustizia, una intollerabile mistificazione, un falso

scandaloso.

Le sei Poverelle non si sarebbero mai prestate a un’operazione del genere. Loro hanno evitato

questo rischio, non sono incappate in questo clamoroso e abbastanza frequente equivoco.

Indubbiamente, hanno scritto una pagina «gloriosa» nella storia del loro Istituto. Ma in calce a

quella pagina non c’è soltanto la loro firma. Si tratta, infatti, di un’opera «in collaborazione», di una

storia scritta «a più mani», di una vicenda in cui sono coinvolte diverse persone, tutte impegnate in

una parte «principale».

Le sei Poverelle, in fondo, sono delle spie preziose. Spie che ci permettono di sospettare tante

altre presenze, anche oltre i confini della famiglia religiosa del Palazzolo. Spie che tradiscono

l’esistenza, sovente ignorata o dimenticata, di un capitale enorme di generosità, servizio

disinteressato, sacrificio, lavoro «nero», pulizia, dedizione appassionata alla causa dei poveri della

terra.

Oserei dire che la loro stessa morte non è stata semplicemente un fatto individuale, ma assume

una dimensione collettiva, una prospettiva comunitaria.

Loro l’hanno messa a disposizione. Della propria famiglia religiosa, della Chiesa (soprattutto

della Chiesa locale dello Zaire), ma anche di tutti noi. Per cui, se ce l’attribuiamo, non ci rendiamo

colpevoli di appropriazione indebita.

Le sei Poverelle non si sono appartenute in vita, e non si sono appartenute neppure in morte.

Quella morte è di tutti. Anche di quelli che se ne stanno rimpiattati nella tana blindata

dell’indifferenza, che li rende immuni

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dal virus diffuso dal samaritano, quel giorno, quando si è fermato lungo la strada che porta da

Gerusalemme a tutti gli Zaire del Terzo mondo.

Dopo averci offerto la loro vita, le Poverelle ci fanno dono della loro morte. È qualcosa che ci

appartiene. Patrimonio comune.

E, grazie appunto a questo dono, ci sentiamo un po’ meno «abusivi» della vita.

Esagerate

Chissà quanti inviti alla prudenza, quante raccomandazioni ad aversi dei riguardi, quanti

ammonimenti a non esagerare...

Come se la cosa dipendesse da loro. In realtà, il fuoco è incontrollabile. Ne aveva fatto

esperienza il povero, sprovveduto Geremia:

«Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,

chiuso nelle mie ossa;

mi sforzavo di contenerlo,

ma non potevo» (Ger 20,9).

Una volta attizzata la fiamma, non resta che bruciare, lasciarsi «avvolgere» dall’incendio.

Un tratto piuttosto appariscente, che accomuna le sei Poverelle, è senza dubbio quello

dell’esagerazione. Erano esagerate nell’amore. La loro era una carità «eccessiva».

Avevano intuito che, in quel campo, se si vuole essere sicuri che la misura sia quella giusta,

occorre abbandonare ogni misura. Se ci si voleva mantenere nel «giusto mezzo», bisognava

spingersi a un estremo. Loro erano delle «estremiste». Estremiste nella carità. Estremiste, non a

parole, ma nei fatti.

Avevano capito che l’equilibrio sta nella follia.

Citiamo due espressioni popolari a riguardo dell’amore. Quando qualcuno s’innamora, c’è

immancabilmente chi commenta: «Quello (o quella) ha perso la testa». Un’altra frase che viene

spesso rivolta alla persona amata «Ti amo da pazzi...». Con una variante: «Sono impazzito per te».

Niente di strano. Le due espressioni traducono una caratteri-

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stica del tutto naturale nell’amore. Non si può amare se non perdendo la testa. E non ci può essere

che un amore da pazzi. Le sei Poverelle non avevano esitato a perdere la testa, e hanno continuato a

perderla, ad amare fino alla follia.

L’amore si apparenta alla follia. Per amare veramente occorre uscir fuori di sé, rinunciare a

«controllare» la propria vita, smetterla di fare calcoli prudenti, e seguire una logica che non è quella

del senso comune. Dice Michel Quoist: «L’amore è una strada a senso unico: parte sempre da te per

andare verso gli altri. Ogni volta che prendi qualcosa o qualcuno per te, smetti di amare, perché

smetti di dare. Cammini contromano».

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L’egoista è precisamente uno che cammina contromano. Anche quando dichiara di fare del bene,

l’egoista pensa a se stesso, intende fare del bene a se stesso. È totalmente occupato con se stesso.

L’egoista si rivela costituzionalmente inadatto ad amare, perché incapace di abbandonarsi,

consegnarsi all’altro. Può essere disposto a tutto, meno che alla follia, meno che a perdere la testa, o

la faccia.

Nell’amore autentico, invece, c’è una componente di rischio, eccesso, esagerazione.

Oggi il pericolo, nel campo della carità cristiana, può essere quello di una prevalenza

dell’organizzazione, delle strutture, delle forme esteriori. La burocratizzazione finisce per soffocare

la spontaneità, annullare la ricerca dei rapporti personali, azzerare l’attenzione ai singoli individui.

Guai quando una fredda razionalità non permette al cuore di uscire allo scoperto.

Certa carità asettica, burocratica, impassibile, rigidamente funzionale, neutrale, regolata da criteri

amministrativi, da schemi psicologici, da teoremi sociologici, rischia di oscurare l’amore di Dio.

La carità va affidata a degli esseri appassionati, come le sei Poverelle e le loro complici, non a

più o meno diligenti funzionari che sanno tutto di tecnica ma sono degli sprovveduti in fatto di

umanità. Ha bisogno di innamorati, non di imperturbabili e inappuntabili impiegati.

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L’amore è fuoco, non cenere di pratiche, carte, schede, casi, indagini, statistiche.

È luce – anche dell’intelligenza –. Ma luce calda, prodotta con la collaborazione del cuore, non

luce smorta e gelida delle lampade al neon.

Il romanziere greco Kazantzakis racconta la storia di un eremita che insisteva a chiedere a Dio

qual era il suo vero nome. Un giorno percepì una voce che gli diceva: «Il mio nome è “non-

abbastanza”, perché è quello che io grido in silenzio a tutti coloro che osano amarmi...».

Anche l’amore delle Poverelle poteva chiamarsi «non abbastanza».

Hanno interpretato in questa ottica il senso del comandamento di Gesù: «Vi do un

comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi

gli uni gli altri» (Gv 13,34). Loro sapevano che il Signore esige un amore «come» il suo: eccessivo,

prodigale, folle.

Il «come» imposto da Cristo apparentemente è una misura. In realtà, quel comparativo ci colloca

in una vertiginosa «dismisura». Ci troviamo confrontati con qualcosa che non ha misura. Per cui si

tratta di adeguare le nostre misure, forzatamente ridotte, a una misura... infinita.

La nostra misura sarà di non averne!

In fatto di amore, il cristiano è nel giusto solo quando esagera, si mostra eccessivo.

In riferimento al comandamento dell’amore, uno non potrà mai dire «sono a posto», «mi sento

soddisfatto», «più di così non sono obbligato». Queste espressioni non appartenevano al

vocabolario e nemmeno al pensiero delle sei Poverelle.

«È meglio che non s’innamori mai colui che è predisposto ad amare veramente» (Ajmatov, Il

patibolo). Sì, perché se ami veramente, allora non ti appartieni più, non controlli la situazione, non

riesci a gestire giudiziosamente la tua vita e il tuo tempo, e paghi l’amore in termini di sofferenza

spropositata.

Le sei Poverelle erano coscienti del fatto che il Signore non sta-

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bilisce il minimo indispensabile per sentirsi a posto (non vuole che ci sentiamo a posto), ma un

superamento continuo.

Nessuno potrà mai dire: basta, ho già fatto fin troppo.

Loro erano consapevoli che Cristo, e l’altro, è sempre in diritto di esigere «di più», «ancora»,

«meglio».

Sapevano che non esiste un calmiere per l’amore.

E anche quando si sono spinte fino a quel limite estremo, almeno mentalmente hanno

riconosciuto: «non abbastanza...».

Quelle suore ci ricordano che per amare, bisogna «uscire» da una logica prudenziale,

utilitaristica, ed entrare nel territorio della pazzia, nel campo della gratuità.

Non il calcolo, ma lo spreco. Proprio come la donna del profumo, biasimata dalla gente

«equilibrata», ma difesa e apprezzata da Gesù (Mc 14,1-11).

Ci suggeriscono che solo chi è disposto a «sprecare» l’amore, allo stesso modo della vita, lo

mette in salvo.

Esperte in umanità

Le sei Poverelle costituiscono una clamorosa smentita al luogo comune che stabilisce un

rapporto – quasi di causa ed effetto – tra verginità consacrata e aridità, tra castità e congelamento

dei sentimenti, tra purezza e azzeramento dell’affettività.

Proprio all’opposto, attraverso il voto di castità, esse hanno acquisito una capacità più accentuata

di amare. La donazione totale ed esclusiva a Dio, la consacrazione a Lui anche del proprio corpo,

non le rendeva fredde, distanti, estranee, preoccupate ossessivamente di non lasciarsi «contaminare»

dal contatto con gli altri.

Erano, invece, partecipi, sensibili, sacramento dell’amore materno di Dio.

Non avevano paura di arrischiare il proprio cuore, oltre che le mani e i piedi, nel servizio dei

poveri. Non si vergognavano dei sentimenti.

Non distaccate, ma solidali, coinvolte totalmente nelle situazioni e nei problemi della loro gente.

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Un amore all’insegna della purezza non vuol dire un amore evanescente, esangue, asettico,

gelido, ma un amore caratterizzato sia dalla trasparenza che dall’incandescenza. Il loro era un amore

bruciante e universale, senza esclusioni né discriminazioni.

Le sei Poverelle non hanno mai rinnegato la propria femminilità. Non si sono limitate a un amore

impersonale, «controllato», protetto da una ruvida scorza, ma si sono rese testimoni di una carità

improntata alla tenerezza.

Vere donne, non creature neutre e smorte, non impassibili manichini religiosi. L’abito religioso,

lungi dal nascondere, rivelava luminosamente delle donne in carne e ossa e viscere di misericordia,

dotate di intelligenza e cuore.

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Il contatto con Dio, nella preghiera e nella contemplazione, non le rendeva semplicemente più

spirituali, ma anche più umane.

Sì, la loro lezione è anche una lezione di umanità, con sfumature di delicatezza, sensibilità,

rispetto, creatività.

Assistenza

Per quanto possa sembrare riduttivo, le Poverelle non hanno fatto altro che «assistenza». Si tratta

di una parola che oggi gode di cattiva fama, appare screditata, soprattutto quando la si applica a un

atteggiamento pietistico oppure a dei comportamenti all’insegna della passività, per cui «assistere»

vorrebbe dire essere spettatori inerti (in questo senso si assiste a uno spettacolo, a una partita di

calcio, a un incidente).

Eppure «assistenza» è una parola nobile, anche se un po’ decaduta, di cui non c’è affatto da

vergognarsi, e che le sei Poverelle e le creature come loro hanno contribuito a rivalutare. Deriva da

un verbo latino: adsistere composto da ad (presso, davanti) e sistere (stare) e ha il significato di

curare, aiutare, soccorrere.

Si tratta, dunque, di «stare presso», «stare davanti» a qualcuno, essere presenti. Ma essere

presenti in senso attivo, compromettendosi, lasciandosi coinvolgere con tutta la persona.

Assistenza significa, appunto, coinvolgimento.

Assistenza è il contrario di fuga.

PAGINA 169:

Assistere, in questo senso preciso, significa, in fondo, «farsi trovare».

Assistere non vuol dire «apparire». Assistenza, invece, significa essere presenti, non nel

momento del trionfo, dello spettacolo, delle celebrazioni, ma quando si tratta di fare, faticare,

impegnarsi, sacrificarsi.

Paradossalmente assistenza significa capacità di «scomparire». Proprio come il seme evangelico

che scompare sotto terra e porta molto frutto (Gv 12,24).

Assistere vuol dire assicurare una presenza non occasionale, non episodica, ma all’insegna della

continuità e della fedeltà quotidiana.

L’assistenza è il contrario del velleitarismo, dell’entusiasmo passeggero, dello sfarfalleggiare

alla ricerca di gratificazioni emotive.

Coloro che, come le Poverelle, si dedicano all’assistenza, non si occupano degli altri per fare del

bene a se stessi, per risolvere i propri problemi personali, ma soltanto per procurare il bene altrui.

Le sei Poverelle, allenate ad assistere, ossia ad essere presenti, a non mancare gli appuntamenti

decisivi con la sofferenza e il bisogno del prossimo, sono state presenti anche al contagio.

Mentre si profilava all’orizzonte l’ombra minacciosa di Ebola, loro non si sono tirate indietro,

non hanno ripiegato su comodi rifugi. Non si sono accontentate di pregare perché venisse

allontanato il terribile flagello.

Allorché il virus si è scatenato con tutta la sua furia in mezzo alla gente, loro «c’erano».

Specialiste nell’assistenza. Impegnate a restituire splendore a una parola svalutata. Capaci di

compromettersi o, se si vuole, di assicurare una presenza «compromettente».

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Le sei Poverelle ci suggeriscono che assistenza implica il coraggio di dire: «Io c’entro con i guai

del prossimo».

Ci ricordano che per essere missionari occorre, prima di ogni altra cosa, non essere dimissionari.

PAGINA 170:

Che per combattere sul fronte della povertà bisogna non essere disertori.

Che, quando si tratta di quella battaglia, non c’è alcuna assenza giustificata.

Che, per rispondere all’appello, è necessario essere presenti.

Che il rimedio più sicuro per resistere alla tentazione di tirarsi indietro, consiste nel farsi avanti...

L’amore riconsacrato

Lo confesso. Sono andato a indagare tra le carte. Ci tenevo a mettere insieme un capitolo che

registrasse i loro pensieri spirituali e permettesse così di completare il loro profilo religioso.

Il materiale che ho rintracciato è ben poca cosa. Scarne riflessioni, neppur troppo originali e frasi

abbastanza scontate. Insomma, cose ovvie. Nessuna formula brillante, incisiva, di quelle

appartenenti a un linguaggio pseudo-mistico che oggi va tanto di moda e che, a ben guardare,

appare banalmente ripetitivo e suona piuttosto sospetto, se non proprio stonato.

Le frasi caratteristiche delle sei Poverelle, quando non ricalcano le espressioni tipiche del

Fondatore, si collocano più sul versante devozionale che su quello mistico.

Qualcuna, prima di entrare in convento, teneva il Diario. In seguito, specialmente nel periodo

missionario, se ne perdono le tracce. Forse l’hanno bruciato prima della partenza.

Mi sono reso conto che la mia era una pretesa assurda. Quelle adoperavano le mani per

un’infinità di usi, meno che per impugnare la penna.

Chi vive in quella maniera normalmente non ha bisogno di scrivere.

Se c’è, però, una parola «sacra» che le sei Poverelle hanno contribuito a rivalutare, questa parola

è senz’altro: amore. Ce l’hanno restituita splendente, quasi intatta, perché ripulita dalle chiacchiere,

comprese quelle religiose, che sono le più devastanti.

L’amore è una parola che oggi viene ripetuta, martellata, nelle maniere e nelle sedi più diverse –

dalle canzoni alle prediche, dai

PAGINA 171:

rotocalchi sfacciati alle riviste di tipo religioso, dalle riunioni devote delle «beatine» (per usare un

termine caro al Palazzolo) ai salotti televisivi. Una parola usurata, logora, estenuata.

«Tutte le parole sono logore / e l’uomo non può più usarle» si lagnava il Qohelet (1,8). L’amore

più di ogni altra.

Le nostre orecchie rimbombano continuamente di questo vocabolo, che ci viene scaraventato

addosso a brancate generose senza ci si possa difendere, che siamo costretti a ingoiare, a dosi

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massicce, almeno un centinaio di volte al giorno. Verrebbe voglia di protestare: «Non se ne può più!

Concedeteci una tregua!».

Il guaio è che si tratta, nella maggior parte dei casi, di una parola che, proprio per l’uso smodato

e improprio che se ne fa, appare largamente svalutata, perfino sospetta, si presta a ogni sorta di

equivoci, risulta disponibile per le operazioni più spregiudicate, comprese quelle di mercato.

La parola viene sconsacrata disinvoltamente, prostituita nella maniera più sfacciata, violentata a

fare da supporto e copertura a comportamenti per lo meno discutibili e che sono in contraddizione

col significato autentico del termine, e finisce quindi per mostrarsi lacera, sporca, irrimediabilmente

compromessa, impresentabile.

Usurata, e quindi scarsamente affidabile. Sfilacciata, e dunque priva di senso. Sospetta, a motivo

dell’eccessiva facilità di impiego.

Si ha l’impressione di un guscio vuoto, anche se molto appariscente, ma che, a osservarlo da

vicino, lascia delusi. E, comunque, là dentro si può trovare di tutto, eccetto ciò che sarebbe le-

gittimo attendersi.

L’amore scompare, e il suo posto viene preso di prepotenza da goffe controfigure, o

dall’immagine orribilmente deformata, oppure dalla caricatura disgustosa. Quella che circola, o

cade sotto tiro degli occhi e degli orecchi, è l’imitazione grossolana, la copia infedele, la parodia. Si

può parlare di nome usurpato, di firma falsificata.

Il prodotto genuino è stato sostituito dai surrogati più pacchiani, dalle contraffazioni più

spudorate, e perfino da merce avariata

PAGINA 172:

che provoca danni gravissimi sia nell’organismo individuale che in quello collettivo.

Il tutto, naturalmente, «avvolto» in involucri pretenziosi, con etichette scintillanti, nastrini

colorati, immagini ammiccanti, e immancabile accompagnamento musicale. Vengono concessi

perfino sconti generosi sul prezzo originario nel corso di regolari, spregiudicate, chiassose, insistite

azioni promozionali.

Uno sguardo attento, tuttavia, non dovrebbe lasciarsi ingannare dalle confezioni eleganti, dalle

apparenze menzognere, e sarebbe in grado di scoprire la nostra desolante povertà in fatto di amore.

Si avverte l’esigenza di mettere a tacere l’insopportabile chiacchiericcio. Il nostro, infatti, troppo

spesso, è un amore chiacchierato, cantato, urlato.

Anche la carità viene praticata da tanti individui esclusivamente con la bocca. Giovanni, nella

Prima lettera, ammonisce: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella

verità» (3,18).

Le sei Poverelle, da parte loro, ci avvertono che non basta dire, non è sufficiente proclamare, non

ci si può accontentare di dichiarare solennemente.

Non chi dice amore... Non chi sospira amore...

Il peccato più evidente contro l’amore, è rappresentato dall’inconsistenza. Un certo amore risulta

posticcio, esile, fragile, logoro, sempre sul punto di sfasciarsi, perché non sufficientemente

collaudata dalla sofferenza, non rafforzato dal sacrificio, non garantito dalla dimenticanza di sé.

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Le sei Poverelle ci avvertono che non ci si può illudere di trovare e conservare l’amore sul

versante della facilità, della leggerezza, della fatuità, seguendo le inclinazioni e gli istinti,

abbandonandosi al vento favorevole, scansando gli ostacoli, evitando le scelte dolorose e perfino

drammatiche. Ci ricordano che la sofferenza, lungi dal costituire una minaccia per l’amore, lo rende

solido, che la Croce gli assicura profondità e fecondità.

Osservando la prassi (non la teoria!) delle Poverelle, dobbiamo prendere atto che l’amore

implica una lotta incessante con se stes-

PAGINA 173:

si. L’amore ha sempre bisogno di purificazione. È necessaria la rinuncia perché l’amore non si

corrompa e degradi in ricerca di sé.

Oggi certe concezioni dell’amore sono all’insegna della leggerezza, della superficialità, della

spensieratezza, dell’irresponsabilità. Ma l’amore non è entusiasmo epidermico o passeggero, è

qualcosa di serio, di estremamente esigente.

L’amore dev’essere disposto a dare tutto, ma rivendica il diritto di pretendere tutto. «Riamato

l’Amor, l’Amor vuol tutto» osserva il poeta Clemente Rebora. Gli fa eco suor Danielangela:

«Amore chiede amore». Unicamente sul piano della totalità l’amore trova la sua vera dimensione e

il suo significato più luminoso.

Imparare ad amare significa avere il coraggio di imboccare la strada di una donazione senza

riserve, di una spoliazione continua, di una costosa ascesi. L’amore, certo, è all’insegna della

gratuità, eppure comporta un prezzo da pagare. E nessuno può pretendere di venirne esentato

oppure ottenere sconti.

L’amore cresce... in perdita. Si sviluppa attraverso una serie interminabile di lacerazioni

profonde. L’amore non va da sé. E cammina aspro, contrastato. L’amore si irrobustisce solo quando

qualcosa fa resistenza.

Guardando in direzione delle sei Poverelle, ritroviamo l’amore «serio». Certo, non ci dovrebbe

essere bisogno di appiccicargli addosso quell’aggettivo, perché l’amore o è una cosa seria o non è

amore. Ma siccome ci viene spesso spacciato come amore un prodotto adulterato che viene

fabbricato nei laboratori della facilità, per scoprire e apprezzare quello genuino, si rende necessario

riconoscerlo grazie al marchio inconfondibile che non può essere contraffatto. La serietà, appunto.

Le sei Poverelle ci restituiscono precisamente un amore all’insegna della serietà. Perché loro –

pur abitualmente allegre e comunque serene – erano persone serie. D’altra parte, la serietà è uno dei

frutti più apprezzati che cresce nella terra bergamasca.

Fatica, impegno, lavoro ostinato, sacrificio, generosità.

In Svizzera, che ha visto una consistente immigrazione berga-

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masca, mi tocca sentire ancor oggi certi anziani che sentenziano, con ammirazione:

– I bergamaschi non sono italiani...

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Intendendo rilevare che si distinguono per la serietà dell’impegno e una capacità di lavoro quasi

«mostruosa».

Le sei Poverelle hanno testimoniato l’amore piegando la schiena. Al posto dei fronzoli

sentimentali, delle sbavature pie, l’umile servizio quotidiano. Non tanto le dubbie «elevazioni»

mistiche, ma i piedi ben piantati in terra, ossia: concretezza, realismo. Non tanto il chiacchiericcio

devoto, i sospiri, le sdolcinature canterine, le espressioni vaporose, le teorizzazioni di una teologia

dal fiato corto e dalla lingua lunga, gli schematismi pretenziosi di una psicologia d’accatto, ma le

azioni, i gesti, i comportamenti ispirati al Vangelo e allo spirito assorbito dai Fondatori.

Insomma, si sono spiegate con i fatti più che con le parole. Ci hanno presentato le opere

dell’amore, non dei discorsi sull’amore.

E così ci restituiscono quella parola «riconsacrata», riscattata dalle chiacchiere, ricollocandola

nella sua cornice più naturale: il silenzio. Sì, l’amore «avvolto» nel manto luminoso del silenzio.

Per fortuna le sei Poverelle non avevano facilità di parola...

«Non possiamo fidarci di voi: vi volete troppo bene»

L’hanno immediatamente intuito i medici americani, spalleggiati da quelli dell’Organizzazione

Mondiale della Sanità.

Bisognava, a costo di apparire crudeli, sbarrare il passo a quelle due suore (suor Maria e suor

Béatrice), che pretendevano assistere direttamente suor Annelvira e suor Vitarosa, rinchiuse nella

casetta di isolamento.

Potevano anche indossare le tute più sofisticate e adottare la complessa attrezzatura di

protezione, ma c’era qualcosa dentro di loro che risultava incontenibile e poteva rivelarsi

pericoloso.

«Vi volete troppo bene tra di voi e va a finire che non prendete le precauzioni necessarie,

lasciandovi prendere la mano (meglio, il cuore) dall’affetto» avevano sentenziato i dottori venuti da

lontano. E non si poteva dare loro torto. Era proprio così.

PAGINA 175:

«Vi volete troppo bene tra di voi»: è l’elogio più bello, e tanto più significativo in quanto

formulato da osservatori esterni.

Occorre sottolineare l’aspetto di fraternità che animava le comunità delle Poverelle in Africa.

Normalmente si mette in evidenza la dedizione anche eroica agli altri. Ma l’Ebola ha rivelato un

altro aspetto legato strettamente al primo: l’amore fraterno circolante all’interno dell’organismo

comunitario.

La missione regge perché sostenuta da una intensa esperienza di vita comunitaria. Anzi, l’amore

fraterno, tra i membri della comunità, è la prima, insostituibile forma di missionarietà.

Resta da precisare che questa «esagerazione» di amore fraterno non si è prodotta solo

nell’emergenza-Ebola. Atteggiamenti del genere, quella prontezza, quella naturalezza nell’accorrere

a servire le sorelle malate, rischiando la vita, non s’improvvisano, né sono semplicemente episodici.

Ebola, semmai, ha evidenziato una realtà già presente nel tessuto comunitario delle Poverelle.

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Anche quando, nelle religiose colpite dal virus, non c’era più coagulazione del sangue, intorno a

loro permaneva una forza di coagulazione che non sarebbe mai venuta meno.

Anche senza il voto

Ci si è posta anche la domanda: le sei Poverelle erano obbligate in forza di un voto speciale a

fare quello che hanno fatto?

C’è da tener presente, infatti, che nell’abbozzo delle Costituzioni scritte nel 1869 per la sua

famiglia religiosa neonata, il Palazzolo prevedeva che le religiose dovessero emettere sei voti.

L’ultimo le obbligava, appunto ad «adoperarsi (a seconda dell’obbedienza) in servizio degli

ammalati poveri, che giaciono nelle proprie case (anche in tempo di malattie contagiose e di peste).

Questo voto importa che le Suore debbano, a seconda verranno mandate dall’obbedienza della

Madre, prestarsi in servizio di questi ammalati poveri che giaciono nelle proprie case o perché

intrasportabili all’Ospedale, o perché cronici o per qualsiasi causa degna e mancano del necessario

servizio. Quando vi sia la necessità debbono vegliare anche la notte (sempre rette dall’obbedien-

PAGINA 176:

za), in loro servizio. Siccome poi le Suore delle Poverelle devono lavorare di giorno per

guadagnarsi il cibo, così la Madre dovrà usare della sua prudenza risparmiando le giornate alle

Suore ove non vi sia assoluta necessità, e facilitando l’assistenza della notte, che è la più necessaria

e quella che più difficilmente si trova. Di più questo voto importa che debbano generosamente le

Suore offrire la loro vita in pro degli ammalati nell’occasione di malattie contagiose ed anche di

peste...».

Interpellata in proposito, la Superiora Generale, suor Gesuelda Paltenghi, precisava che nelle

attuali Costituzioni, approvate nel 1987, la formula dei voti non contiene più l’espressione primitiva

a proposito del tempo di malattie contagiose e anche di peste. Ma aggiungeva: «Tuttavia ne rimane

lo spirito, che porta in realtà alla stessa espressione di vita... Risulta quindi indispensabile che resti

tale spirito, per la fedeltà al carisma, e che all’occasione, come hanno dimostrato le nostre Sorelle,

venga vissuto nel concreto delle situazioni».

Come a dire che le sei Poverelle, allorché si è affacciato lo spettro di Ebola, si sono

dimenticate... che il sesto voto era stato abolito. E hanno agito come se...

PAGINA 177:

I COLPEVOLI

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110

PAGINA 179:

LE HANNO MESSE SU UNA CATTIVA STRADA

No. Non è stata tutta colpa loro. Se di giallo si può parlare nella vicenda delle sei suore, i

colpevoli sono facilmente individuabili.

Uno, il killer omicida, l’abbiamo scovato e descritto subito all’inizio e ha un nome e una

fisionomia precisa: virus di Ebola.

Ma i colpevoli sono anche altri. Noi, per comodità, li piazziamo alla fine della storia, quale

spiegazione conclusiva, chiave risolutrice del giallo. In realtà andrebbero posti all’inizio, perché

hanno addirittura preceduto il virus assassino.

I veri colpevoli si chiamano don Luigi Palazzolo e madre Teresa Gabrieli. Da loro le sei suore

hanno copiato in maniera fin troppo scoperta e dichiarata.

Da loro hanno imparato ad esagerare in amore.

Da loro si sono lasciate «fuorviare», abbandonando la strada sicura della prudenza umana

calcolatrice, per imboccare la «cattiva strada» evangelica dell’eccesso, della follia, del perdere la

vita. Una strada estremamente rischiosa e avventurosa.

Ho ritenuto opportuno, perciò, inserire a questo punto le figure dei «Fondatori», senza le quali

sarebbe difficile comprendere i ritratti delle «figlie» che ho appena abbozzato.

Non ho la pretesa di presentare dei profili biografici completi. Tra l’altro, non sarebbe questa la

sede, anche per motivi di spazio24

.

PAGINA 180:

Soprattutto per il Palazzolo, ho pensato bene di presentare dei medaglioni che colgono episodi e

atteggiamenti che denunciano il suo stile personalissimo, più che preoccuparmi di ricostruire

cronologicamente il suo itinerario.

24

Per una conoscenza approfondita del Palazzolo, si possono consultare le seguenti biografie:

– Carlo Castelletti, Vita del servo di Dio Don Luigi Palazzolo e memorie storiche intorno agli Istituti di Carità da lui

fondati, Bergamo 1894. II edizione, Bergamo 1920. Ristampa, Padova 1996.

– Dino T. Donadoni, Non dire mai basta! La personalità, l’attività, gli scritti del beato Luigi Palazzolo, Gribaudi,

Torino 1969.

– Gino Lubich, Piero Lazzarin, Don Luigi Palazzolo, La misericordia continua, Queriniana, Brescia 1986.

Per Madre Teresa Gabrieli, l’unica biografia disponibile resta ancora quella di Luigi Frigeni, Vita di suor Maria

Teresa Gabrieli, Cofondatrice delle Suore Poverelle e prima Madre Generale dell’Istituto Palazzolo in Bergamo,

Bergamo 1928.

Per entrambi, risulta fondamentale la scoperta della loro personalità e statura spirituale attraverso le lettere:

– Epistolario di Luigi Maria Palazzolo, Bergamo 1989.

– Epistolario di Teresa Gabrieli, Bergamo 1997.

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DON LUIGI PALAZZOLO

IL PRETE CHE VA A CERCARE I «RIFIUTI»

Un improvvisatore

Prima di assegnare a qualcuno il titolo di beato o di santo, la Chiesa sottopone il candidato a

lunghi e accurati esami per accertare che abbia praticato determinate virtù in grado eroico.

Non mi risulta che nel catalogo di queste virtù indispensabili per la gloria degli altari ce ne sia

una che il Palazzolo ha praticato in modo straordinario lungo tutto il percorso della sua vita:

l’improvvisazione.

Ce l’aveva nel sangue questa virtù, e si può affermare l’abbia manifestata fin da bambino. Più

tardi, confrontandosi col Vangelo, vi avrebbe scovato un modello proposto all’imitazione dallo

stesso Maestro: il samaritano (Lc 10,25-37).

Il samaritano è stato uno stupefacente improvvisatore. Ed è proprio la sua capacità di

improvvisazione che lo distingue dall’atteggiamento «assenteista» adottato dal sacerdote e dal

levita. Costoro erano abitudinari, ripetitivi, rigidi programmatori della loro vita e perfino dei loro

gesti religiosi. Procedevano per schemi, secondo moduli predefiniti. E in quegli schemi non c’era

spazio per il gesto estemporaneo, fuori dalle regole.

Camminavano lungo la strada come su dei binari, seguendo un programma di viaggio stabilito in

partenza. Orari, scadenze, velocità di crociera. Tutto già calcolato. In quel programma non era

prevista la sosta, l’interruzione dell’itinerario.

Non era contemplato l’imprevisto.

Non era inserito l’appuntamento con l’intruso.

Non c’era spazio per la sorpresa.

Non era programmato... il fuori programma.

Hanno adocchiato il ferito, ma quella vista, quell’incontro non

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ha costituito per loro un inciampo che li abbia fatti deragliare dai binari della regolarità.

Hanno scansato l’ostacolo tirando dritto, imperterriti, per la loro strada, senza sentirsi

interpellati, senza avvertire la provocazione della realtà imprevista, senza sentirsi «presi nelle

viscere».

Il samaritano, lui, è stato uno stupefacente improvvisatore. Ha accettato la provocazione

dell’intruso, il richiamo dell’estraneo, inserendo una variante nel suo programma di viaggio,

inventando una sosta non contemplata. Non si è limitato a vedere e proseguire per tenere la media

della velocità stabilita dal ruolino di marcia e rispettare l’agenda degli impegni.

Si è sentito chiamato in causa dall’imprevisto, dal prossimo sconosciuto che aveva fatto la sua

comparsa nella strada senza farsi annunciare.

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A differenza dei due per i quali il poveraccio rappresentava un elemento di disturbo per il loro

panorama religioso, un corpo estraneo per il loro delicato organismo spirituale, ha accettato il

disguido, la variante rispetto all’itinerario stabilito.

E anche i suoi gesti di primo intervento nei confronti del malcapitato sono all’insegna

dell’improvvisazione.

Alessandro Gnocchi, acuto scrittore e giornalista bergamasco, definisce così l’improvvisazione:

«È la capacità di non tentennare, di non indugiare davanti a qualsiasi situazione». Io ci aggiungerei:

non indietreggiare. Ma avverte, a scanso di equivoci che potrebbero collegare l’improvvisazione

alla facilità o alla faciloneria: «Non è una virtù facile da praticare, l’improvvisazione. La vita di tutti

i giorni abilita alla velocità e alla sveltezza. Ma è tutt’altra cosa rispetto alla prontezza e

all’improvvisazione. La velocità è figlia dell’abitudine a svolgere un compito o un’azione. La

prontezza nasce invece da una costante attenzione allo scorrere della vita. Solo chi è pronto può

fermarsi al momento giusto e agire al di fuori degli schemi abituali e delle convenzioni sociali»25

. Il

contrario dell’improvvisazione è la programmazione esasperata, lo schematismo rigido, la

burocratizzazione che uccide la spontaneità,

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l’organizzazione che soffoca la vita. Il modulo, la scheda, le diagnosi di ogni tipo, la fissazione

delle competenze, finiscono per nascondere la persona.

Don Luigi Palazzolo è stato uno straordinario improvvisatore. Tutte le sue iniziative sono nate

dall’improvvisazione e si sono sviluppate attraverso una serie impressionante di improvvisazioni

successive.

Certo, anche lui ha dovuto assicurare alle proprie opere un minimo di organizzazione, accettare

delle forme, impiantare delle strutture. Ma ha sempre vigilato affinché l’apparato esteriore e

giuridico non arrestasse lo «scorrere della vita». Soprattutto, la pur necessaria fase di

organizzazione e programmazione non ha annullato completamente la fase di improvvisazione.

Lui ha continuato a improvvisare anche quando le sue opere avevano ormai acquisito una

fisionomia abbastanza precisa e ben delineata. Nella sua azione c’era sempre spazio per

l’imprevedibile e la creatività. Prontezza, spontaneità, duttilità, caratterizzavano costantemente il

suo stile.

La scelta stessa dei rifiuti, dei «non raggiunti», degli ultimi fra gli ultimi, appartiene

precisamente al registro dell’improvvisazione. Quando un individuo non si inseriva nei moduli

ufficiali, non era contenuto in una casella burocratica, non rientrava nei canoni previsti dalle

strutture esistenti, diventava inevitabilmente «affare suo». Allorché una persona era destinata a

rimanere ai margini, lui se ne faceva carico. Proprio come il samaritano «improvvisatore».

Più che badare ai timbri, alle carte e alle classificazioni, il Palazzolo preferiva «essere preso nelle

viscere».

25

Don Camillo & Peppone, l’invenzione del vero, Rizzoli, Milano 1995.

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Lui non viaggiava con in tasca l’identikit del prossimo. Gli bastava scorgere qualcuno di cui

nessuno si occupava per capire che quello, precisamente, era il prossimo cui avvicinarsi, cui

dedicarsi, verso il quale avere sollecitudine.

Lui non rivendicava un proprio territorio di competenza. Quando un caso esulava dalla

competenza altrui, il Palazzolo era «pronto» ad accollarselo. Il suo interesse si innestava in quelle

situazioni che provocavano il disinteresse generale. Là

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dove tutti «passavano oltre», come il sacerdote e il levita, lui si fermava.

Insomma, proprio non riusciva a copiare.

Era capace solo di inventare.

Lotta su due fronti

C’era una volta la povertà più degradante. C’erano una volta le astruserie. C’erano una volta le

polemiche feroci che avvelenavano gli animi.

La povertà – con il suo penoso codazzo di malattie e vizi di ogni genere – la faceva da «signora»

incontrastata in tutto il bergamasco. Le astruserie Luigi Palazzolo le aveva scoperte sui banchi del

liceo in Seminario, propalate dall’insegnante di filosofia, e ne era rimasto sconcertato. Significativa

questa sua confidenza: «Vedo proprio che io sono un ignorante perché, per quanto mi sforzi di stare

attento e studiare, non vi trovo che astruserie».

Di quel suo insegnante dirà semplicemente: «Andava troppo nelle nubi...».

Scriverà di lui il Castelletti, primo biografo: «Odiava il disputare per il piacere di disputare e

veniva sempre al pratico e voleva che le dispute avessero sempre per conclusione lo stabilire chiaro

“cosa si dovesse dire in predica, cosa consigliare in confessionale e come regolarsi nella direzione

delle coscienze. Tutto il resto – soggiungeva – è buono pei dotti e io non vi capisco nulla”».

Insomma: buon senso pratico contro le astruserie e le discussioni fumose.

Le polemiche anticlericali erano quelle che imperversavano nel clima del Risorgimento, ed erano

spuntate tra i calcinacci di Porta Pia. Sui muri di parecchie canoniche, la notte, comparivano scritte

minacciose: «A morte! Abbasso le sacre teste!» (evidentemente, il mezzo più sicuro per farle

scendere «abbasso» era quello di tagliarle).

A ciò si devono aggiungere le tensioni e i contrasti insanabili tra preti (e vescovi) tradizionalisti e

la fazione opposta dei «liberali».

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Don Palazzolo combatte sia contro la miseria che contro le «astruserie». E si tenne lontano dalle

dispute, non si lasciò invischiare nelle diatribe né travolgere dalle polemiche, rifiutando di

schierarsi sia da una parte che dall’altra.

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Lui aveva scelto di stare nel «giusto mezzo»... della povertà. Temeva, a ragione, che i «piccoli» e

i deboli pagassero le conseguenze delle strumentalizzazioni politiche e religiose. Nel gran

polverone, a lui stava a cuore mettere in salvo il Vangelo annunciato ai poveri.

La lotta contro la miseria e i suoi temibili alleati la condusse affidandosi ad armi improprie e

considerate desuete: fede, mortificazione, cuore, fantasia e obbedienza. A proposito di obbedienza

scriveva: «Ho fissato di ubbidire. A costo della morte». Non avrebbe mai fatto nulla contro

l’obbedienza.

Ma chi era questo pazzo, estraneo a tutti gli schemi e incurante delle mode, questo «irregolare»

obbedientissimo, quest’uomo apparentemente fuori dal suo tempo eppure immerso fino alla testa

nella realtà più bruciante e sconvolgente?

Qualcuno ha detto che la sua opera è cresciuta come un fiore su un cumulo spropositato di

immondizie.

Un immondezzaio di proporzioni mostruose

Non è difficile, purtroppo, farsi un’idea del cumulo di immondizie su cui questo prete andò a

frugare con mani delicate.

La figura del Palazzolo, infatti, si staglia in una situazione storico-sociale particolarmente penosa

e turbolenta. La provincia di Bergamo26

offre uno spaccato della realtà piuttosto deprimente.

Povertà, miseria, e spesso perfino la carestia, stringono la popolazione in una morsa spietata. Le

scarse risorse erano date dalle industrie tessili (e, in particolare, della seta), dall’agricoltura,

dall’allevamento dei bachi da seta, dall’emigrazione, e dalla proverbiale familiarità con la fatica di

quella gente.

Il lavoro nelle numerose filande si rivelava decisamente ingra-

PAGINA 186:

to: turni spietati di 12-13 ore al giorno, in ambienti insalubri, e con paghe derisorie.

Le malattie e le epidemie non davano tregua. Basti pensare che, nell’arco della vita del Palazzolo

(59 anni), il colera farà la sua apparizione, in città e provincia, ben cinque volte, per un totale di

trentasettemila casi e circa diciannovemila morti.

La pellagra, se non riempiva i cimiteri, popolava ospedali, carceri e manicomi.

La mortalità infantile toccava picchi impressionanti. I figli erano molti e, spesso, di troppo,

cosicché si verificavano fenomeni vergognosi di compravendita, di scambio, e perfino di

soppressione. Don Luigi stesso dovette «acquistarne» uno, in piazza, per riscattarlo da un destino

crudele.

L’alcolismo, assai diffuso, per i motivi che è facile immaginare, faceva il resto.

Da dove cominciare? Don Palazzolo cominciò dalla Provvidenza, verso la quale aveva aperto un

credito di fiducia pressoché illimitato, ossia... da se stesso. Mi spiego.

Non so se conoscesse la storia di quel rabbino che, venutosi a trovare in una situazione quasi

disperata, prego così: «Signore, ti ho sempre servito fedelmente per tanti anni, e non ti ho mai

26

Nel 1871 contava 368.152 abitanti.

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chiesto nulla per me. Adesso, però, che sono diventato vecchio, non ce la faccio più a tirare avanti

se non mi aiuti Tu. Il futuro mi fa paura, perché le mie risorse economiche sono quasi inesistenti. Se

cado ammalato, chi si occuperà di me? Per cui, Signore, ti prego: fammi vincere alla lotteria».

Passavano le settimane e i mesi, e il povero e pio rabbino si trovava immerso sempre più in un

mare di guai. Perciò continuava a ripetere la solita litania: «Signore, abbi pietà di me, fammi

vincere alla lotteria».

Un giorno smise di piagnucolare e si spazientì di brutto: «Signore, mi hai proprio deluso.

Nonostante il mio fiducioso pregare, Tu non ti curi di me, mi abbandoni, non mi ascolti. In fondo,

che cosa ti costa farmi la grazia di vincere alla lotteria?».

L’Onnipotente gli rispose: «Vedi, io vorrei proprio aiutarti... Ma tu, quando ti decidi ad

acquistare il biglietto?».

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Il Palazzolo, da bergamasco schietto, aveva coniato una formula scanzonata: «Non bisogna

aspettare i gnocchi dalla Luna». Quindi, occorre darsi da fare per assecondare la Provvidenza.

Per sostenere le prime opere, destinate agli orfani (in poco più di vent’anni, in sei Istituti, ne

vengono ospitati oltre 1.200), non esita a dar fondo al patrimonio avuto in eredità dalla famiglia le

cui condizioni erano decisamente agiate: circa duecentomila lire di allora, una cifra considerevole.

La scelta dei rifiuti

E poi si tratta di scegliere. E lui sceglie i rifiuti (ecco l’immondezzaio), ossia i rifiutati, i «non

raggiunti» dagli altri. Spiegava: «Io cerco, raccolgo il rifiuto di tutti gli altri, perché dove altri

provvede, lo fa assai meglio di quello che io potrei fare. Ma dove altri non può giungere, cerco di

fare qualcosa io come posso».

Discorso abbastanza diplomatico, che io traduco così: le cose che nessuno vuol fare, i poveracci

di cui nessuno intende occuparsi, ciò che provoca ribrezzo o indifferenza da parte delle anime belle,

ebbene, ci penso io, quello è il mio campo privilegiato.

Il suo è un compito di supplenza. Supplisce là dove non c’è niente da guadagnare e tutto da

perdere (si potrebbe dire che quando c’è da perdere, don Luigi Palazzolo non perde l’occasione!).

Interviene nelle situazioni disperate. Si fa avanti nei casi in cui i prudenti e i calcolatori si tirano

indietro.

Lui non esita a tuffare le mani in una certa realtà, superando le paure dei benpensanti e delle

persone tanto pie e tanto schifiltose.

Insomma, se c’è una causa persa, un settore dimenticato, una categoria di persone trascurate, una

grana spiacevole o una serie di grattacapi alle viste, un’opera disertata perché non appetibile, don

Palazzolo vince la gara d’appalto. Non è che superi la concorrenza. È proprio che non ci sono

concorrenti.

Se c’è una strada impervia, dove nessuno si arrischia, lui vi si avventura.

Se ci sono dei non raggiunti, lui non esita a raggiungerli.

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PAGINA 188:

Tutto è cominciato così

I due episodi sono fin troppo conosciuti, ma vale la pena riproporli, perché costituiscono il punto

di partenza dell’opera del Palazzolo e costituiscono la spia di una scelta precisa, che sarà anche

quella della sua famiglia religiosa.

Ecco la ricostruzione che del primo ne fa Dino Donadoni: «Nel 1864, esattamente cent’anni

prima che il Concilio approvasse la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo,

un sacerdote bergamasco, don Luigi Palazzolo, percorrendo una viuzza d’un borgo popolare della

sua città, s’imbatteva in un ragazzo abbandonato e seminudo. Era un orfano. Lo raccolse e,

avvoltolo nel suo mantello, se lo portò a casa “e lui stesso lo ripulì, lo fornì di cibo e se lo tenne

come un suo più caro figliuolo”».

Qualche anno dopo, precisamente il 22 maggio 1869, una ragazza orfana e abbandonata, e per di

più storpia e sciancata, macilenta e sofferente, di nome Molgari, che il Palazzolo da sei mesi le

aveva affidato, veniva condotta dalla Gabrieli nella Casa appena inaugurata. Sarà la primizia

dell’Istituto che avrebbe dovuto accogliere le orfanelle più derelitte, che non avevano ricovero in

altre istituzioni.

Un carretto, un asino e un prete stravagante...

Se c’è una virtù, oltre la carità, che il Palazzolo ha praticato e illustrato in maniera perfino

esagerata è senza dubbio l’umiltà.

Due moderni biografi osservano: «Non fece nulla di nulla per salire anche di un solo gradino

nella carriera ecclesiastica in cui per indole, censo e cultura – se non vogliamo tener conto della

santa vita – avrebbe potuto fare passi rapidi e notevoli. Nemmeno al modesto titolo di monsignore

ambì, si accontentò di quello di bracciante della vigna del Signore, di manovale al servizio dei

poveri, di ultimo assieme agli ultimi nella casa del Signore. Evviva! Contentissimo di occupare quel

posto. E per restarci, per scoraggiare chiunque potesse pensare per lui promozioni od onorifi-

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che patacche con dedica, sapeva bene come comportarsi. Compiva gesti inusitati, stravaganti,

bizzarri, che facevano rizzare i capelli in testa ai benpensanti, e dissuadere i temerari che avessero

pensato davvero di affibbiargli qualche fronzolo con pergamena. “Quel pazzo, per l’amore di Dio,

meglio lasciarlo lì!...”» (Lubich-Lazzarin).

Per capire di che stoffa fosse fatta l’umiltà del Palazzolo, provocatoriamente colorata di

stramberie, sarà bene citare alcuni fatterelli così come li riferisce il Castelletti:

«Essendo egli una volta in tempo d’inverno sdrucciolato per terra nella via più frequentata di

Bergamo, guardossi attorno sorridendo, poi tratta quietamente di tasca la scatola, fiutò un po’ di

tabacco, indi, in mezzo alle risa dei presenti, rizzossi tranquillamente e continuò la sua strada.

«Una volta fu visto viaggiare sopra un carretto tirato da un asino e tenendo in mano, per ripararsi

dalla pioggia, un ombrello lacero e rotto.

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«Recossi un’altra volta con un simile equipaggio da Torre Boldone fino al luogo di Gavarno,

distante non meno di sei chilometri, a visitare mons. Speranza che dimorava allora colà nella sua

villeggiatura. Mons. Speranza lo accolse con grande amorevolezza e lo volle seco a pranzo. Venuta

l’ora della partenza, il Palazzolo, presente il Vescovo, fece attaccare il suo giumento e stava per

montarvi, mentre un suo orfanello pigliava le redini. Allora il Vescovo, certo volendo far prova

dell’umiltà e della obbedienza del Palazzolo, gli disse: “In complesso ella è ben comoda codesta

vostra vantata umiltà. Siete venuto qui senza fatica al mondo col vostro carrettino guidato da mano

altrui. Vorrei vedervi un po’ pigliare voi stesso le briglie del vostro giumento e guidarlo a mano”.

Non ci volle altro pel Palazzolo. Giubilante d’aver avuto un tal comando dal suo Vescovo, collocò

tosto sul carretto il suo orfanello e pigliato con una mano per le briglie il giumento, coll’altra

agitando da bravo carrettiere la frusta e gridando appunto come sogliono i carrettieri, posesi in

viaggio, e sarebbe certamente andato fino a Torre ed in capo al mondo in quella maniera, se

lasciatogli fare così un tratto di via, Monsignore non lo avesse richiamato,

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ordinandogli di montare di nuovo sul carretto e di usare poi parcamente di queste mostre di umiltà.

«...Un giorno presa una certa carretta, che usavasi per trasportare letame e spazzatura, la caricò

di badili, zappe e scope e attaccatovi un rozzo giumento, restio per giunta e ribelle al freno, e date le

redini ad un orfanello posesi a sedere sulla carrettella e partitosi di pieno giorno dalla sua casa di

San Bernardino, incamminossi, attraversando pel tratto di non meno di due chilometri tutta la città,

alla volta di Torre Boldone. Il ciucherello fermavasi ed adombrava e andava di traverso quasi ad

ogni passo. L’orfanello, poco pratico, mal sapeva guidarlo e gridava e bastonava. La gente

accorreva a quello strano spettacolo ridendone, e il Palazzolo, sempre al suo posto, percorse in quel

modo le vie più frequentate della città, passando innanzi alla casa dove era nato e dove giovane

avea vissuto quasi da signore e per quelle contrade, dove era conosciuto da tutti, bevendosi sorso a

sorso quel calice di umiliazioni.

«Il fatto destò grande rumore, se ne occupò, se non erriamo, anche il giornale cittadino liberale,

ponendo in ridicolo il Palazzolo. Tutti ne parlavano. I mondani chiamavano addirittura il Palazzolo

un pazzo o uno sciocco. Anche dei buoni i più lo criticavano, quasi avesse screditata la dignità

sacerdotale».

Commenta puntualmente la coppia Lubich-Lazzarin: «Erano invece ben altre le cose che

secondo don Palazzolo potevano offendere seriamente e gravemente la dignità di un prete: la ricerca

della ricchezza e la sua sfacciata esibizione, la conquista di potere ad ogni costo, il perseguimento

della vita comoda, senza profeti rompiscatole tra i piedi...».

Aggiungendo, subito dopo: «Di solito, nei suoi atti quotidiani, egli limitava la sua “follia”

girando a fare la spesa fra le bancherelle con le servette del rione, sganciando pochi spiccioli ai

bottegai e facendosi chiamare “pitocco”, per servire qualcosina di più ai suoi orfani e curare un po’

meglio i suoi ammalati».

In filigrana, dietro questi episodi, si può leggere una firma inconfondibile: san Filippo Neri. Tra

il «fiorentino spirito bizzarro» del Cinquecento, e il prete bergamasco dell’Ottocento, munito di

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carretto e ciuco, c’è una stretta parentela. Così come si può intravvedere una certa affinità anche con

i «folli per Cristo» della tradizione russa. L’altro nome che viene in mente è quello di Benedetto

Labre. Non per nulla don Luigi, durante il breve soggiorno romano, era andato a cercare proprio la

tomba del «vagabondo» francese. Racconterà, in una lettera, di aver celebrato a Santa Maria dei

monti «nella chiesa del mio beato Labre. È inutile: bisogna che ceda e borli là (che ci cada)».

Il tutto, però, nel caso del Palazzolo, sotto l’ala della più rigida obbedienza. Diceva: «Se

l’obbedienza mi permettesse di fare tutto quello che la mia mente mi suggerisce, benché siano cose

stravaganti, quale nocumento ne porterebbe il mondo? Ciò che porta danno non è che il peccato;

questo debbo fuggire a costo della vita; ma le cattive figure che avessi a fare, facendomi ritenere dal

mondo per pazzo o stolto, queste anzi mi servono per tenermi umiliato. L’umiltà si esercita con la

pratica delle umiliazioni».

La baracca e la famiglia dei gioppini

Ma il Palazzolo è anche inseparabile dalla «baracca». Uomo di grande preghiera, di profonda

vita interiore, di penitenza perfino eccessiva, tuttavia, oltre la chiesa, frequentava assiduamente la

«baracca», che era il laboratorio dove allestiva i suoi spettacoli teatrali coi burattini.

Lì teneva le numerose teste intercambiabili delle marionette. Lì, soprattutto, c’era il suo fedele

Gioppino, il celebre personaggio bergamasco trigozzuto e armato del bastone della polenta.

Aveva messo a punto per questa maschera un linguaggio zeppo di espressioni colorite, battute

esilaranti, facezie irresistibili in purissimo dialetto bergamasco (il tutto ricavato dalla frequentazione

assidua e dall’ascolto della gente comune), capaci di scatenare l’ilarità del pubblico.

Qualche volta era stato chiamato anche in Seminario a «istruire» i chierici con la sapienza dei

burattini.

Durante le ricorrenti crisi di malinconia – che si accentueranno negli ultimi anni – usciva dalla

propria camera dopo orazioni pro-

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lungate, e magari col cilicio ai fianchi, e si recava nella «baracca» dove apriva il fuoco di fila delle

sue spiritosaggini, delle trovate più fantasiose, dei dialoghi più squinternati, degli scherzi e delle

furbate più imprevedibili.

Naturalmente il personaggio maggiormente atteso e curato era quello di Gioppino, contadino un

po’ sempliciotto e bonaccione, ma anche lesto di mano «cui si attagliava la voce bonaria e un po’

stridula nelle sue inflessioni dialettali che don Luigi gli prestava alla perfezione, come gli aveva

perfettamente confezionato il tipico costume, consistente in un largo cappello di feltro sopra la

parrucca nera con un codino ritorto all’insù, la corta giubba verde orlata di rosso, il vistoso

panciotto, nonché, imbracciato, l’immancabile bastone di legno per rimestare la polenta» (Lubich-

Lazzarin).

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Don Luigi era autore dei testi e delle musiche, regista, sceneggiatore, costumista, attore.

Nessuno, evidentemente, poteva sospettare che quel prete stravagante, che sollazzava il pubblico, si

tenesse dentro un magone grosso così...

Ancora pochi mesi prima della morte, il Palazzolo, che stava già male soprattutto a motivo delle

squassanti crisi di asma, non volle rinunciare ad allestire un ultimo spettacolo per le sue suore e le

orfanelle di Bergamo. In quell’occasione risfoderò il suo pezzo forte, di sicuro effetto: La famiglia

dei gioppini, commedia scritta da lui e recitata chissà quante volte.

Dopo quella faticata, le sue condizioni si aggravarono. Al termine della rappresentazione, si

sentiva spossato, sul punto di crollare, con delle fitte dolorosissime – come spade – che gli

trafiggevano il petto e il respiro che si faceva sempre più affannoso fino a trasformarsi in rantolo.

Comunque, anche se stremato, era soddisfatto. Aveva «chiuso» con quella commedia dal titolo

significativo. In fondo, la sua era «una famiglia di gioppini».

E anche le suore facevano parte della «famiglia dei gioppini». In mezzo a personaggi sussiegosi

e supponenti, che si attribuiscono parti importanti, loro si accontentavano di interpretare ruoli

«ridicoli» agli occhi del mondo.

PAGINA 193:

Nessuno le prende sul serio. Il capo stesso della «baracca» continua a essere chiamato il

Palazzolino.

A loro sta bene così. È gente seria, quella. Talmente seria che non si prende assolutamente sul

serio, ed è contenta di non venire presa sul serio. Gente che affronta le realtà più sgradevoli, si accolla i

compiti più ripugnanti, schifati dai più. In allegria.

Già. «La famiglia dei gioppini».

Le origini

Luigi Maria Palazzolo nasce a Bergamo, in una casa signorile di via Prato (l’attuale via XX

Settembre), nella parrocchia di S. Alessandro in Colonna, il 10 dicembre 1827, ultimo di otto

fratelli, quasi tutti morti prematuramente27

, e può considerarsi un «sopravvissuto». I genitori,

Ottavio Palazzolo e Teresa Antoine, godevano di una certa agiatezza. La famiglia di lui era di San

Pellegrino, in val Brembana. Lei era di origine straniera, ma i suoi si erano da tempo trapiantati a

Bergamo, distinguendosi in particolare nell’arte della stampa. Terreni, case, una libreria di fama

consolidata, denari, assicuravano un tenore di vita senza preoccupazioni di carattere economico

tanto che il padre, oltre al commercio, poteva consentirsi di coltivare i prediletti studi di carattere

storico-letterario. Ma, al di là dei «beni», in casa c’era il «bene» della fede.

Papà Ottavio muore all’età di cinquantaquattro anni, quando Luigino ne ha appena dieci. La

mamma, invece, toccherà i settantanove anni e avrà la fortuna (accompagnata dagli inevitabili

crucci) di seguire gli inizi e gli sviluppi delle imprevedibili iniziative del figlio superstite, che la

risarcirà, con centinaia di marmocchi, di quelli perduti nella sua sfortunata maternità.

27

Quando Luigi nasce, solo due sono ancora vivi. Giacomo, che supererà di poco la soglia dei quindici anni, e

Aquilino che raggiungerà i trentun anni.

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Luigino, tuttavia, si rivela ben presto malaticcio – e ciò accentuerà le ansie di Teresa Antoine –,

ma, nonostante la salute cagionevole e i numerosi lutti familiari, rivela, secondo la testimo-

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nianza del suo primo biografo, un carattere dolce e sereno. Il Castelletti completa così il ritratto del

suo personaggio: «La gracilità della sua complessione (massime nella sua prima età) non lasciò

altro vestigio nel suo carattere fuori di una certa apprensione e malinconia che lo assalivano a

quando a quando, allorché vedevasi preso da qualche malore, ancorché leggiero; apprensione però

ch’egli tosto cacciava da sé ridendone e seco stesso e cogli altri. Del resto l’indole sua era oltre

modo gaia e soave, il suo cuore sensibile ed affettuoso, la sua conversazione piacevolissima, e tutto

concorreva a renderlo caro ed amabile a tutti.

«Erano poi caratteristiche in lui, e lo furono per tutta la sua vita, una singolare ingenuità ed una

semplicità quasi infantile; per la quale pareva che nessuno avesse soggezione di lui e molti anche

negli ultimi anni della sua vita lo chiamavano ancora volgarmente il Palazzolino. E anche questo fu

causa in parte, che, massime nella sua città, le sue opere, lui vivente, non fossero da tutti conosciute

ed apprezzate come si meritavano; e solo dopo la sua morte si poté rivelare quale animo generoso e

intraprendente si nascondesse sotto quelle apparenze così umili e, quasi direbbesi, puerili; sicché

molti ne rimasero stupefatti quasi di cosa del tutto nuova e inaspettata».

Vogliamo dire che il Palazzolo non è mai stato preso troppo sul serio? Resta il fatto che lui,

impegnato com’era in cose serie, non si è mai curato troppo dell’opinione degli altri. Parlassero

pure di «Palazzolino» quelli che dovevano muovere la lingua e sentenziare mentre lui faticava e

tribolava...

Un sacerdote che – grazie anche al ruolo di confessore abituale – eserciterà un influsso sulla

formazione di Luigi Palazzolo è senza dubbio don Pietro Sironi. Altro punto di riferimento

essenziale è mons. Alessandro Valsecchi, grande figura di educatore della gioventù, diventato poi

Vescovo.

Le tasche coi buchi non riescono a trattenere la «mezza svanzica»

Fin da bambino era la disperazione della mamma. A motivo delle tasche. La povera (si fa per

dire) signora Teresa non riusciva

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a capacitarsi. Le tasche di Luigino, chissà perché, erano sempre bucate. Infatti non riuscivano a

trattenere le «mezze svanziche» (circa 42 centesimi) che regolarmente lei vi depositava per le

piccole spese e soprattutto per la merenda a scuola.

Un giorno, proprio mentre percorreva il lungo tragitto che separava la casa dal ginnasio, Luigi,

appena dodicenne, ebbe un piccolo malore e fu portato in un vicino caffè dove gli venne fatta

ingollare una bevanda forte. Quando si trattò di pagare, lui si frugò nella tasche con evidente

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impaccio, perché sapeva che erano sfondate e non potevano contenere neppure un soldo. Così

dovettero rimediare i compagni. Ma più mortificata di tutti, quando le riferirono l’accaduto, fu la

madre, che si sentiva umiliata al pensiero che la sospettassero di tirchieria nei confronti del figlio.

La signora Teresa per l’ennesima volta ispezionò le tasche del ragazzo per controllare se le

avesse ancora sfondate. E per l’ennesima volta dovette costatare che le saccocce erano intatte, anche

se, per chissà quale fenomeno misterioso, non trattenevano il denaro.

Il fatto è che le tasche facevano il loro dovere, ma erano le mani di Luigino ad essere... bucate.

Gli bastava scorgere un disgraziato per strada, ed ecco che i soldi passavano, con la complicità delle

mani bucate, dalle sue tasche a quelle del poveraccio.

Teresa, dopo l’episodio increscioso dello svenimento, impose severamente al figlio che tenesse

sempre in scarsella «mezza svanzica». Lui non intendeva in nessun modo trasgredire il comando

materno, ma non riusciva nemmeno a disobbedire al proprio cuore. Così, quando cadeva in

tentazione di fronte a un mendicante, correva immediatamente dalla mamma perché colmasse il

buco e rifornisse le saccocce dei centesimi mancanti fino a ricomporre la fatidica «mezza» svanzica.

La signora Teresa, ormai rassegnata, commentava:

– Questo mio figliolo vuol morire spiantato.

Era una fin troppo facile profezia.

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Anche la casa se ne va...

Pure in seguito, ormai sacerdote, Luigi dovrà ricorrere con frequenza alla mamma perché

provvedesse a rattoppare i buchi vistosi, anche se invisibili, che si producevano inevitabilmente

nelle tasche della talare. Stavolta non si trattava più di ripianare la regolamentare «mezza svanzica»,

ma somme sempre più considerevoli. E la signora Teresa, borbottando un po’, giusto per salvare le

apparenze, apriva generosamente il borsellino.

Con quella torma di ragazzi sbrindellati che don Luigi si prendeva a carico, e con le scuole serali

cui doveva provvedere di persona, era inevitabile che il patrimonio di famiglia venisse

saccheggiato.

Ci fu un momento in cui il figlio prete non ebbe più il coraggio di ricorrere alla mamma per farsi

rattoppare le tasche sfondate. Accadde allorché si trattò di allestire il nuovo Oratorio. Per arrivare a

pareggiare la «mezza svanzica» e le diverse migliaia di lire mancanti, don Luigi decise di vendere la

casa che gli era toccata in eredità a San Pellegrino. Non ebbe, però, il coraggio di comunicare la

cosa a mamma Teresa, temendo sarebbe stato un colpo troppo duro per lei.

Gli amici pensarono allora di organizzare una festa per l’inaugurazione e di invitarvi, quale

ospite d’onore, la signora Teresa. Questa intervenne tutta in ghingheri senza sospettare la trappola

che era stata approntata. Manifestò il proprio compiacimento per quella realizzazione che aveva del

miracoloso. Incassò, commossa, fiori, omaggi poetici, applausi. E soltanto quando apparve

sufficientemente anestetizzata dal profumo dei fiori e dal suono carezzevole delle poesie e dei canti,

la informarono che per realizzare quell’opera era stato necessario far passare attraverso le tasche

bucate di don Luigi la... casa di San Pellegrino.

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Allargò le braccia, felicemente rassegnata, lasciando cadere a terra i fiori. Da tempo si era resa

conto che quel figlio era incorreggibile. Neppure in Paradiso sarebbero riusciti a cucirgli le tasche.

Lui, in un angolo, dopo aver scrutato a lungo, in apprensione,

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la reazione materna, allorché costatò che la pillola debitamente addolcita era stata trangugiata, tirò

un sospiro di sollievo, commentando:

– Anche questa è andata!...

Quanta fatica per scrollarsi di dosso l’etichetta di «signorino»...

Lo chiamavano «il signorino». Forse perché era sempre agghindato a dovere e scortato da una

persona della servitù, attempata e prudente.

Fin da bambino aveva preso l’abitudine di visitare i malati negli ospedali e nei loro tuguri. Con

la tacita complicità della «scorta», recava loro una parte del proprio pasto. E, naturalmente, nei casi

più disperati, non esitava a rovesciare il contenuto delle proprie tasche.

I poveri, per deferenza, si rivolgevano a lui con l’appellativo di «signorino». Luigino non

gradiva. Si sentiva addirittura umiliato.

Si può dire che durante tutta la sua vita cercherà in tutti i modi di smentire quel titolo. Adotterà

uno stile di vita austero, vivendo con i poveri e per i poveri. I poveri saranno il suo ambiente

naturale, il suo habitat. Con loro si troverà «naturalmente» a proprio agio. E anche i poveri si

troveranno a proprio agio con lui, quasi fosse uno di loro. Il Castelletti arriva ad affermare: «Se con

la madre sua egli non ebbe mai tutta quella apertura che suol avere un figlio con sua madre,

pensiamo che non ultima ragione fu il vivere ella da signora. Parea che quel suo fare signorile gli

imponesse soggezione».

Sempre il primo biografo riferisce: «In casa sua c’era sempre qualche cosa per tutti, e cordialità e

vera carità, sicché i poveri, massime del vicinato, vi andavano quando avevano qualche bisogno

come a casa propria».

Saranno più o meno le stesse frequentazioni di quand’era fanciullo, e qualcuna in più. Ma «il

signorino», frattanto, sarà scomparso definitivamente, finito chissà dove.

Morirà povero, angosciato anche dalle strettezze economiche in cui si dibattevano le sue

istituzioni (solo dopo la sua morte le

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cose miglioreranno sensibilmente e in modo abbastanza misterioso: forse il beato Palazzolo,

incorreggibile portatore di tasche sfondate, aveva operato qualche pertugio tra le nuvole...).

Confesserà a un prete amico: «Sono qui malato e bisognoso di tutto e non ho nulla né per me né

per tutta questa famiglia di poveri». E non esiterà a tendere la mano: «Faccia un po’ di carità a

questo povero prete...».

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Con l’aiuto di Gioppino

Nel 1839 Luigi Palazzolo intraprende gli studi classici nel ginnasio della città. Coltiva anche la

passione per la musica: si imporrà come discreto suonatore d’organo e autore di diversi lavori.

Nel 1844 entra, in qualità di esterno, senza vestire l’abito chiericale, nel seminario diocesano, per

compiere gli studi filosofici. Quindi inizia la teologia, questa volta chierico a tutti gli effetti. È

ordinato sacerdote il 23 giugno 1850 da mons. Carlo Gritti Morlacchi, vescovo di Bergamo e che è

stato suo parroco.

Non gode di alcun beneficio ecclesiastico e non ha neppure precisi impegni di cura d’anime. A

quel tempo c’è abbondanza di clero, e i preti appartenenti a famiglie di condizione sociale elevata se

ne stanno a casa loro.

Lui si sceglie, quale primo campo di apostolato, il popolare quartiere Foppa, parrocchia di S.

Alessandro in Colonna, rione San Bernardino. Qualcuno ha abbozzato un quadro suggestivo e

realistico al tempo stesso: «La Foppa era uno dei quartieri più popolari della Bergamo d’una volta:

un agglomerato di case e casupole sedimentate dal tempo una appresso all’altra, una addosso

all’altra, i muri anneriti e gli angoli sbreccati, lungo viuzze anguste e contorte, con piccoli slarghi,

qua e là, su cui s’affacciavano le botteghe degli artigiani e qualche negozietto.

«Quartiere basso, ma d’una povertà non priva di vita, con le donne alle finestre a rilanciarsi

spesso gli ultimi pettegolezzi mentre stendevano i panni a quel po’ di sole che nelle ore buone

riusciva a infilarsi tra i tetti; e gli uomini burberi che tiravano via, senza sprecare troppe parole sulla

situazione sempre più stentata;

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e il rincorrersi vociante dei ragazzini scatenati, e il cigolio dei carri che a tratti si faceva stridore

sull’acciottolato sconnesso; e il tonfo squillante dei magli sulle incudini; e il fruscio dei telai e tutti

gli altri rumori della fatica umana vibranti in quell’aria stantia, che sapeva di miseria, di umori acidi

e anche di sconsolatezza per l’avarizia cruda dei tempi che costringeva a masticar poco pane e

troppa rabbia» (Lubich-Lazzarin).

Grosso talento educativo. Qualcosa di innato, di istintivo, non certo frutto di studi. Giovane prete

ventitreenne, si fa le ossa proprio quale responsabile dell’oratorio della Foppa.

Sbircia in direzione di un prete torinese, don Giovanni Bosco. Ma suo maestro e modello è anche

Gioppino, celebre maschera bergamasca di «sempliciotto castigamatti». Si rivela burattinaio ricco

di risorse e inventività, con uno sterminato repertorio di «teste» intercambiabili, e scenari fantasiosi.

Insomma, insegna e predica facendo ridere a crepapelle. Un predicatore di larga fama, una volta,

non riuscendo a tenere a bada una ghenga scatenata di ragazzi, piuttosto sconsolato rinunciò a

proseguire nel suo dotto e accalorato sermone e chiese soccorso al Palazzolo:

– Per favore, cominciate la vostra predica con Gioppino, che forse farete più frutto.

Quel «forse» era di troppo...

Anche in seguito, insisterà molto sulle rappresentazioni teatrali. A una suora raccomandava:

«Nessuna dell’Oratorio resti fuori perché è povera. Se non ha palanca, non fa niente, entri

ugualmente».

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Tra i suoi impegni primari, spicca quello per l’istruzione. Constatava: «C’è un’ignoranza che fa

spavento». E lui promuove scuole serali per giovani e adulti, operai e contadini, senza distinzione.

In una classe terza, tenuta da lui, si potevano contare anche un centinaio di allievi non certo di

primo pelo.

La materia prima, dunque, non scarseggiava. Per libri e quaderni, manco a dirlo, provvedeva lui.

La sua pedagogia era all’insegna della concretezza. Poteva far sua una celebre battuta: «Qual è la

miglior disposizione per imparare? Aver mangiato».

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Lui era convinto anche che per arrivare all’anima del povero, bisognava necessariamente passare

per lo stomaco...

Le tappe di un itinerario

Devo accontentarmi, per evidenti motivi di spazio, di registrare alcune date significative e

accennare alle tappe più rilevanti che hanno caratterizzato l’itinerario di questo straordinario e

insolito prete bergamasco.

Nel 1859 il proprietario dei locali dell’Oratorio della Foppa si rifiuta di rinnovare il contratto di

affitto. Forse è soltanto una tattica furbastra per alzare il prezzo. Ma, intanto, il Palazzolo è costretto

a vagare per la città con il codazzo dei suoi giovani che lui non intende assolutamente abbandonare

a se stessi.

Nel mese di maggio 1862 mamma Teresa offre al figlio una grossa somma che deve servire

all’acquisto di un terreno e di alcune case per realizzare il nuovo Oratorio, che sarà intitolato a san

Filippo Neri. Poco dopo, a settembre, la mamma muore.

Nel 1863 il Palazzolo si fa costruire una modesta abitazione nell’area dell’Oratorio, in modo da

poter stare sempre vicino ai suoi giovani. Invece, nella casa di villeggiatura della sua famiglia, a

Torre Boldone, accoglie i primi ragazzi orfani e, per il loro sostentamento e quello di tanti poveri,

dà praticamente fondo a tutto il patrimonio ricevuto in eredità.

Il 6 gennaio 1864, nei locali dell’Oratorio viene inaugurata la Pia Opera di S. Dorotea, a favore

della gioventù femminile, fondata da don Luca Passi e diretta dal Palazzolo. Teresa Gabrieli ne

diventerà vice superiora cinque anni dopo.

Il 22 maggio 1869 dà inizio, con la collaborazione di Teresa Gabrieli, alla Congregazione delle

Suore delle Poverelle.

Il 27 giugno 1869 viene giustamente considerata una data fondamentale nell’evoluzione

spirituale e apostolica del Palazzolo, che inizia a Roma, presso i gesuiti di S. Eusebio, un corso di

Esercizi. Un cardinale, poco prima, avendolo visto in compagnia di mons. Valsecchi, l’ha definito

«un buon sacco da notte». Al termine di quell’esperienza, il Palazzolo formula il proposito di vi-

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vere nel disprezzo, ridursi a totale povertà, in modo da imitare Cristo «ignudo sulla croce».

Si può parlare di una svolta radicale, di «conversione», purché si tenga presente che il tutto era

preparato da un lungo apprendistato e una frequentazione assidua dei «bassifondi» della società.

Nel 1870 il Palazzolo dà avvio, con Gian Battista Leidi, alla congregazione dei Fratelli della

Sacra Famiglia per l’educazione degli orfani. L’istituzione avrà però una vita stenta, soprattutto

perché, a differenza di quella femminile per la quale c’è stata la «scoperta» di una Teresa Gabrieli,

qui è sempre mancata una persona all’altezza del compito.

Il 4 ottobre 1874 viene inaugurato il nuovo convento per le suore e per le orfane, cresciute di

numero. Qui, in quella che sarà considerata la Casa Madre dell’Istituto, le religiose traslocheranno

abbandonando l’edificio di via Foppa.

Col 1875 comincia l’espansione dell’Istituto fuori dai confini della bergamasca: dapprima

Vicenza (1875), quindi Brescia (1876).

L’anno 1885 è sicuramente il più fecondo di fondazioni palazzoliane: Breganze (Vicenza), tre

Case a Torre Boldone, S. Chiara a Vicenza.

Il 12 maggio 1886 il vescovo mons. Camillo Guindani reca al Palazzolo, gravemente infermo, le

Regole approvate dell’Istituto.

Don Luigi Palazzolo muore il 15 giugno 1886, nella Casa Madre. Verrà proclamato beato il 19

marzo 1963 da papa Giovanni XXIII, che non ha mai nascosto la propria simpatia per quel prete suo

conterraneo.

Dimmi come scrivi…

Nel mio piccolo l’ho sperimentato diverse volte: se voglio prendere le misure di un personaggio,

non devo fidarmi dell’abito che gli hanno cucito addosso i biografi ufficiali e quelli improvvisati.

Bisogna leggere l’epistolario. Dalle lettere vien fuori il tipo così

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com’è, non il manichino ammodo di certa agiografia compassata e caramellosa.

Alla regola non sfugge il beato don Luigi Palazzolo, che ci ha lasciato un migliaio di lettere, fitte

di osservazioni acute, sfoghi, abbandoni, sfuriate, racconti gustosi, notizie curiose, arguzie,

umorismo scoppiettante. Qui la personalità emerge in tutta la sua ruvidezza, spontaneità,

delicatezza.

Scrive male, il Palazzolo, strapazzando grammatica e sintassi, usando un gergo popolaresco,

mortificando il bello stile. E ciò sorprende se si pensa che negli anni del liceo nutriva una spiccata

simpatia per i classici. Senza mezzi termini, un biografo, Mauro Valoti, sentenziava: «Lingua

poverissima, espressioni dialettali, pensiero poco curato, sgrammaticature, contorsioni, disordine».

Insomma, picchiava sulla carta non certo in punta di penna, ma con vigorosi colpi di zappa (una

zappa neppur troppo affilata). E lo stesso biografo avanza l’ipotesi che «scrivesse anche con

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volontario abbandono di ogni riguardo alla forma, incurante del giudizio poco favorevole che ne

sarebbe venuto, per umiltà, per amore di umiliazione».

Non posso escludere, ovviamente, tale spiegazione. Tuttavia ritengo che nelle lettere il Palazzolo

tradisca soprattutto la fretta. Fretta di uno che ha sempre troppo da fare, e non può permettersi il

lusso letterario di «ricamar bellurie». Ha delle cose importanti da dire, e dice ciò che gli sta a cuore

con immediatezza, d’impulso, quasi con foga, senza badare alla forma. Tira avanti, tracciando

solchi talvolta sghembi, approssimativi, sulla carta, per arrivare direttamente allo scopo. E non ci

vuol molto ad immaginare che i colpi lasciassero il segno. Stile rozzo, raffazzonato, ma

estremamente efficace. E, manco a dirlo, chiaro.

Ecco qualche esempio. Arronciglia di brutto una Superiora, colpevole di scrivere in una maniera

incomprensibile: «Senti, o Madre, e sta’ attenta, e scrivi bene chiaro e netto e capisci quello che

scrivi se no mi metti in pensieri e imbrogli, dacché ne ho tanti».

Minaccia una suora: «Stia su allegra, ma si guardi bene da ogni voglio e da ogni uffa! perché le

costeranno cari».

PAGINA 203:

Non esita a miscelare italiano e dialetto bergamasco: «Ciao, fra Giuliano, sae, sae e sta sö e mia

crapunade». Che tradotto vuol dire: «buono, buono, e sta’ su di morale, e non fare lo zuccone».

E anche un proposito un po’ sbarazzino: «Voglio andare da quelle (suore) del S. Cuore a vedere

se c’è caffè o pasta da scroccare. Se faccio figure men fa tanta a me (non m’importa niente)».

Una raccomandazione fulminante: «Al confessore contate i peccati, e basta, e siate pentite».

Altra raccomandazione: «Invece di digiuni, recitate tre Pater Ave Gloria al SS. Crocefisso e state

più attente a trangugiare amaro e a sputare dolce».

E ancora più spassosa: «Non lasciarti imbalordire da male fanfaluche del demonio».

Esilaranti e taglienti appaiono pure le sue battute sulle «beate», che qualche volta vorrebbero

impaniare anche le suore nella loro melassa devota.

Dichiara con semplicità: «Non so risparmiarmi». Ha sempre tanta fretta («Due parole, ma di

premura...» è l’attacco di tante lettere), ma finisce che fa fatica a staccarsi dal foglio. E ci mette

aggiunte, «post scriptum» e saluti a iosa: «Ciao ciao ciao ciao ciao ciao uno per ciascuno; l’altro a

chi vuoi». Oppure, ancora meglio, in dialetto: «Ciao a mò (ancora ciao)».

Tenerezza

Il Palazzolo, o della tenerezza. Ecco alcune insistenti raccomandazioni destinate a chi deve

curare gli infermi: «Non risparmi spese, faccia tutto per loro: dia buona carne, minestra buona, ma

poca, un po’ di vino e pane in abbondanza...».

Sapeva che le parole non riempivano lo stomaco dei suoi orfani: «Non consigli ma polenta!».

Supplicava una suora: «Sii buona, ti prego, se non vuoi che la casa vada alla malora».

Raccomandava a Madre Teresa: «Non risparmiare spese per le mie orfanelle, ti darò buon

castigo se troverò che hai speso poco. Le parti alle orfanelle le darai tu stessa, e buona porzione, e

man-

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zo e non castrato. A tutte quelle che non sono di buona cera e franche affatto darai di grasso (e bene

e buono) se fosse anche il Venerdì Santo. Hai capito?...

«Alla notte porterai in dormitorio qualche cosa da mangiare e anche un gottin di vino e tu darai

ordine o alle orfanelle che si svegliano o a qualche monaca di svegliarti e darai alle orfanelle che

sono un po’ magre o di mala lena qualche cosetta da mangiare e un gottin di vino...

«...Non farle lavorare quando non sono di lena, lasciarle divertire, lasciarle dormire...

«...Presto verrò io apposta per vedere come trovo le orfanelle. Quanto al vino, ricordati di non

badare a centesimi in più o in meno, ma prendi quello buono».

Accoglienza era la sua parola d’ordine: «La ragazza teatrante la prenda, la accolga con gran

cuore, le darò il mio letto e metà del mio cibo se non avrò niente di più».

Non si limitava, tuttavia, ai consigli. Forniva esempi convincenti e toccanti: «Questa notte ho

mandato a letto e quiete le mie care figlie, ed io ho vegliato su di una scranna accanto alla

Madonna... Ho servito anche la Paolina... e le ho portato il caffè e qualche altra coserella come

facean le monache, con tanta sua consolazione che non le so dire, e con tanto mio gaudio che non lo

cambierei con tutte le allegrezze degli uomini. Ho passato una notte come di una terra di pace e di

carità...».

Sapeva infondere serenità e fiducia anche in mezzo alle prove più crude: «Mangiate allegramente

il poco che vi dona la Provvidenza e non pensate allora al caro prezzo che costa e non

attossicatevela con tali pensieri. Non lasciate intendere, massime alle orfanelle, le nostre

ristrettezze».

Lui stesso andava a fare la spesa con una borsaccia e un pittoresco ombrellone variopinto, che

cedeva volentieri in caso di necessità: «...Se piove, si faccia dare la mia ombrella grande sotto della

quale stanno in quattro col gerlo».

Si preoccupava: «Faccia provviste necessarie per corpetti, coperte e quanto bisogna, non me le

lasci patire». E ancora: «Ti raccomando di fare delle buone minestre e non tanto rare ma un po’

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spesse, e quando dai invece la pietanza di darne una quantità sufficiente». In un caso speciale

specificava: «Ricordati di non mandare al lavoro la Geltrude fino a che è guarita affatto. Dalle

buona carne e del vino, ma non vino di acqua, ma vino di uva e olio di merluzzo, e pane e cibi

sostanziosi». Evidentemente conosceva certi trucchi delle monache, e non solo delle monache...

Alcune volte si mostra apprensivo in maniera perfino esagerata: «Guardino le orfanelle di non

tenere le mani vicine allo sportello (della carrozza) perché non siano schiacciate». Raccomanda a

una Superiora di far coprire una buca di calce «perché già vedo alcune mie orfanelle che vi son

precipitate».

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Povertà

Uno dei suoi tasti preferiti era la povertà. Una povertà gioiosa, prima di tutto, come testimonia

questa raccomandazione a una suora: «E stia allegra, perché l’ho detto che la povertà ride».

E alle novizie: «Non voglio musi. Fuori i musi, che la povertà ride. Su, allegre!».

Non bisogna assolutamente preoccuparsi di accumulare:

«Guardati bene dal tornare a radunare roba temendo che ti manchi. Guarda che radunando troppo

si spiantano le case. Sii povera, sii povera».

La povertà, d’accordo. Ma il primato resta sempre quello della carità: «Conserva la povertà, ma

in certe occasioni ricordati di dare qualche cosa in più da mangiare alle suore ed orfanelle. E quando

mangiate, non attossicate il cibo con pensieri sul denaro speso...».

Manco a dire, la scelta preferenziale resta quella dei poveri. Bisognava assolutamente «riservarsi

per i poveri». Dunque, prima i poveri... e poi i poveri... e poi ancora i poveri.

Non esitava a suonare l’allarme: «Se noi ci allontanassimo dai poveri, guai...». «Ho paura che la

Casa sia andata così in basso per mancanza di povertà».

E anche una morte come i poveri: «...Servire a Dio in tutta la vita, patire per Lui, lavorare per

Lui, salvare le anime a Lui, e poi morire anche in una stalla, ignorati dal mondo e sotterrati nel Ci-

PAGINA 206:

mitero senza alcuna pompa, da poveri, ricevendo la benedizione e le preci dei poveri che pregano

con fede, e intanto avere l’anima in luogo sicuro, e forse già in Paradiso!...

«Rinunciare alla vocazione del Signore per godere la libertà del mondo... far denari... essere

lodati dal mondo... avere grandi posti... essere potenti... essere applauditi, nominati dai giornali... e

poi morire in un bel letto con tre materassi, in una bella sala, circondati da medici... senza prete e

senza compunzione... senza opere buone... ed essere portati alla tomba di marmo, con la banda e

con grande seguito di gente polita... che gusto!...».

«Sia lodata la santa povertà» è l’esordio di alcune lettere. Personalmente, non si accontenta di

predicare e lodare la povertà, ma la vive. Può bastare questa annotazione: «Non posso più scrivere

dal freddo...».

Non ricorre certo a formule diplomatiche quando si tratta di chiarire le idee alle suore su

quell’argomento che gli sta tanto a cuore: «Non so come intenderla. Quando si ha fame e non si ha

il cucchiaio d’argento da mangiare scusa (voleva dire, evidentemente, “si usa”, N.d.R.) quello di

ottone, e se non c’è quello di ottone si mangia con quello di legno, e se non c’è quello di legno si

adopera la forchetta per mangiare il solido e si beve poi dalla scodella il brodo, ma per nessuno

conto si lascia andare in male la minestra. E le mie Suore delle Poverelle, se non hanno le cose

proprio a puntino, non sono buone d’ingegnarsi?».

Esigentissimo con se stesso, prima di ogni altro: «Ho venduto un po’ di lana, ma ho molte cose

ancora che sono da signore. Che abbia io d’andare al Campo Santo senza poter godere la povertà

proprio di proposito? Che debba chiudermi in un convento per goderla, mentre non mi sento voglia

di farmi frate? Faccia Iddio. Il poverissimo Gesù che nasce in una stalla e muore ignudo sulla

croce... mi faccia anche questa grazia».

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Stare bassi

Parallelamente batteva l’altro tasto, quello dell’umiltà. Dichiarava: «Benedico il Signore e lo

prego che ci tenga tutti giù, giù bassi, perché possiamo andare su su, alti in Paradiso».

PAGINA 207:

Picchiava ostinatamente su questo tasto: «Ah, per pietà, suore mie benedette, siate umili, se non

volete spiantare e chiudere la Casa».

Con questa variante: «State giù basse, e sedete in terra, che allora non cadrete».

Concretamente: «Fate la portinaia, istruite le nostre orfanelle, supplite quando mancano le altre,

e questo con allegrezza...».

E alle suore imponeva, senza mezzi termini: «Fate digiunare il vostro amor proprio in grande. Le

Suore siano umili, sincere, semplici colla loro Madre e domandino e ricevano volentieri le

umiliazioni e la penitenza. La Madre stia giù bassa bassa, e non si lamenti se è messa in un cantone

con tutte le sue Suore».

Quanto all’essere messi in un cantone, è rimasta celebre una sua reprimenda. Gli era arrivato

all’orecchio che alcune Suore si lagnavano per non essere troppo considerate in parrocchia e di

venire impiegate come tappabuchi, per il catechismo, soltanto quando mancavano persone più

qualificate. Non esitò a prendere penna e carta: «...Ho sentito l’onore e la stima che hanno di voi, e

come vi hanno onorato, adoperandovi per rimpiazzare le maestre che mancano alla dottrina. Ma con

mio dispiacere ho paura che vi abbiano onorato invano, credendovi umili...

«...Ah, suore benedette, così fate? Dunque il vostro povero ed afflitto superiore vi avrà parlato

invano tante e tante volte della santa umiltà? Ah! per pietà, suore mie benedette, siate umili, se non

volete spiantare e chiudere la casa. State giù basse e sedete in terra, che non cadrete. Fate la

portinaia, istruite le vostre orfanelle, supplite quando mancano le altre e questo con allegrezza

singolare e con volontà pronta, contenta e semplice...

«Se vi dicono di cantare quando mancano gli altri, cantate; se vi taglian fuori di mezzo il canto,

tacete. Se dopo vi dicono di cantare, cantate e non fate da meno dell’organo nel servire a Dio, il

quale tace e canta secondo che lo fanno tacere o cantare. Se volete diventar sante e gradite a Dio,

lasciate che tutti vi trattino da poverelle affatto, che vi tratteranno sempre meglio di quello che

trattarono e trattano tuttora Gesù Cristo tanti tiepidi cristiani...».

Credo, senza esagerazione, che queste righe stupende nella lo-

PAGINA 208:

ro semplicità valgano un intero trattato ascetico sull’umiltà scritto dal più prestigioso maestro

spirituale.

Ancora: «Siate umili davvero e non contentatevi di comparire umili. È l’umiltà che ci merita gli

abbracciamenti e le grazie di Gesù, e non l’apparenza dell’umiltà. Addio, vi metto nei cuori di Gesù

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e Maria e vorrei chiudervi dentro a chiave, da poter proprio respirare e mangiare e bevere umiltà e

così crescere umili. Pregate per me perché sia proprio umile».

Pretendeva che si facesse il bene, ma senza esibirlo: «Non abbiamo smania di contare il bene, ma

di tenerlo nascosto».

Implorava una suora: «Prega per carità, prega che io sia umile, ed umili siam tutti per la grazia di

Dio. La superbia ci farà capitombolare; l’umiltà ci fa mettere radici profonde».

E a tutte diceva: «Consideratevi come spazzatura del forno di tutte le altre istituzioni».

Non aveva mai scordato la lezione ricevuta dal suo maestro, mons. Valsecchi, al quale aveva

domandato se non ci fosse il pericolo di una certa esagerazione nella ricerca dell’umiltà e delle

umiliazioni. Ne aveva avuto questa risposta: «Non è troppo mai. L’amor proprio, per quanto si

faccia, non si arriva mai a schiacciarlo del tutto. Galleggerà ancora sulla nostra fossa, tre dì dopo

che sarem morti!».

«Dio è tutto»

La sua spiritualità può essere sintetizzata con alcune frasi caratteristiche, assai incisive. Vuole le

suore specialiste, come san Giuseppe, del «niente e tutto». E spiega: «niente», se si punta allo

straordinario. «Tutto», se si bada alla sapienza della vita. Dunque, «una vita ordinaria nelle opere e

straordinaria nel modo».

Afferma con sicurezza: «Il Signore ci schiaccia con i suoi benefici. Poveri noi se non ci lasciamo

schiacciare».

Ed ecco una delle sue formule indimenticabili: «Fede, umiltà, confidenza... Quale demonio può

resistere? Nessuno, tutti alla malora».

Si spiega con ruvida schiettezza: «Ben vedi, figlia mia, che ho

PAGINA 209:

bisogno di monache di maschia virtù e non di cuoricini tenerini tenerini...».

E ancora: «Monache, monache, bisogna prepararsi in grande a santificarvi...». «Poche parole,

umiltà, preghiera e voglia di far bene, e buona maniera, e riuscirete in tutto».

Vuole «sodezza», non tollera superficialità. Pretende allegria, ma non «buffonerie».

Non può soffrire quelle che si creano problemi artificiali: «Non cominciare a fare dei monti dove

la strada è piana».

Infine, questa formula riassuntiva: «Dio è tutto, il mondo è nulla».

Inutile precisare che le sei martiri della carità, come le loro Consorelle, si sono nutrite

abbondantemente di questa pedagogia.

Una favola vera da raccontare lassù...

Viene il sospetto abbia trasferito lassù la sua «baracca». In Paradiso, tra molti santi giocherelloni,

un teatrino di marionette dev’essere stato particolarmente apprezzato.

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Avrà esordito con il suo pezzo forte, di sicuro effetto: La famiglia dei gioppini. E poi ha

continuato a sgranare battute, raccontare storie, favole, nell’ispido dialetto bergamasco (lassù non si

parla solo latino).

Poi, un giorno, abbandonando il solito tono scanzonato, ha narrato una favola struggente. La

favola che aveva quali protagoniste sei deboli suore, appartenenti alla sua famiglia, che avevano

affrontato, una dopo l’altra, un drago cattivo di nome Ebola.

Quella favola non l’aveva inventata il Palazzolo. Era una storia vera. Ma anche se non ne

risultava l’autore, lui c’entrava pure per qualcosa. Così come c’entrava per qualcosa madre Teresa

Gabrieli, seduta in prima fila. Lo capivano tutti, lassù.

Storie di questo genere vengono molto apprezzate, lassù.

Il Paradiso è fatto anche di queste storie.

Lui continua a stare in attesa che gli venga fornito il materiale

PAGINA 210:

indispensabile per i suoi racconti. Resta convinto che «la famiglia dei gioppini» non delude.

La «baracca» non può chiudere.

E il Paradiso, che è «un’esagerazione di amore», segue con interesse le persone capaci di

esagerare.

PAGINA 211:

TERESA GABRIELI

IL DIRITTO DI CHIAMARSI AMORE

Esame col batticuore

Ha conseguito il diploma di insegnante all’età di 17 anni. Adesso, però, che è sulla trentina, deve

superare l’esame più difficile. Non tanto un esame, ma una trappola.

Teresa Gabrieli, che conosce bene lo stile di quel prete che tutti ritengono un po’ tocco di

cervello, entra nella casa del maestro con una certa trepidazione. E la trappola è lì, collocata sul

sofà, bene in vista, sotto le sembianze di una bambina con la faccia butterata e decorata di croste,

solcata di piaghe, che si trastulla con giocattoli rimediati chissà dove, inconsapevole di essere stata

prescelta quale... materia d’esame.

Dopo aver salutato rispettosamente don Luigi, la giovane donna non può trattenersi

dall’esprimere la propria sorpresa per quella presenza:

– Dove è andato a pescarla questa bambina?

– È un regalo che mi hanno fatto. Si tratta di un’orfana...

– Come non bastassero gli orfani che tiene a Torre Boldone, anche le bambine si mette a

prendere adesso...

L’esaminatore non si scompone:

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– Non è un’anima di Dio anch’essa?

Teresa replica con un’altra domanda:

– Ed è deciso a tenerla Lei qui?

– No, di certo. L’ho chiamata perché voglio fame dono a Lei, signora Maestra.

Quella trasecola:

– A me?

– E a chi vuole che l’affidi? Gliela manda il Signore.

Teresa, per tutta risposta, dopo una lunga pausa di silenzio,

PAGINA 212:

si avvicina alla ragazza dall’aspetto non certo attraente, e l’accarezza.

Il maestro si sente in dovere di precisare:

– Badi che è anche storpia, sciancata...

La maestra diplomata, che ci tiene a quella promozione più di qualsiasi altra cosa, non può più

tirarsi indietro:

– Poverina! Dal momento che il Signore vuole così, la prenderò. E sarà quello che Dio vuole.

La trappola, «magistralmente» approntata dal Palazzolo, è scattata, e Teresa vi è rimasta

beatamente imprigionata.

Per non essere catturata, avrebbe dovuto evitare di avvicinarsi, o addirittura non entrare in quella

casa pericolosa. Ma lei non chiedeva di meglio che di venire catturata.

Si rimorchia in casa la bambina così sconciata, incurante della disapprovazione delle sorelle, che

ritengono quel gesto un’autentica pazzia.

Don Luigi, manco a dirlo, è soddisfatto, quasi avesse superato lui l’esame. Molti, a Bergamo e

dintorni, lo considerano un mattocchio. Adesso sa che i pazzi sono due e si può dare avvio

all’opera.

Teresa sistema la bambina nel proprio letto, e lei si accomoda sul pavimento, adagiandosi su un

saccone.

In fatto di comodità, i pazzi hanno gusti un po’ difficili...

La figlia dell’ortolano deve studiare

Teresa nasce dieci anni dopo il Palazzolo, il 13 settembre 1837, nella parrocchia di S. Alessandro

in Colonna, rione S. Lucia Vecchia, sesta degli otto figli nati dal matrimonio tra Lucia e Giuseppe

Gabrieli. Il padre fa l’ortolano, ma non è sprovvisto di cultura, essendo stato per un certo tempo in

Seminario. Comunque, una famiglia assai modesta.

Carattere non propriamente docile, anzi decisamente caparbio, con una discreta tendenza alle

impuntature.

A motivo del lavoro del babbo, la casa era una specie di mercato pubblico. Giuseppe Gabrieli ha

la salute minata da un grave

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male, non sempre è in grado di faticare, e la vita si fa dura perché l’orto rimane spesso incolto.

Prima di morire, il babbo esprime la volontà che Teresina frequenti le scuole delle Canossiane. È, in

pratica, il suo testamento. Ha perfino fatto vendere una mucca per sostenere le relative spese.

Teresina ha quindici anni. In casa ci sono ancora due sorelline piccole.

Nel convento delle suore Canossiane di via Rocchetta, Teresa si sente subito a proprio agio e lì

indubbiamente matura la propria vocazione. Non c’è che un passo da fare. Le suore stesse aspettano

quel passo con tranquilla sicurezza.

Ma quel passo non viene mai compiuto. A diciassette anni, Teresa Gabrieli lascia il convento

perché in casa la situazione si è aggravata e hanno bisogno di lei. Ha in tasca una patente che la

abilita all’insegnamento nelle scuole elementari (fino alla terza), quando raggiungerà i vent’anni di

età.

Intanto si dedica alla casa, e si occupa dell’orto e relativo commercio, rivelando indubbie doti di

concretezza.

Ma quanto grida la signora maestra...

Nel 1861 apre una scuola privata e si trasferisce da via Pradello in via Osio con la mamma e la

sorella minore. L’attività precedente viene liquidata definitivamente.

Teresina alla scuola ci crede e vi si dedica con passione e competenza investendo in essa le sue

capacità e una non comune sensibilità. Non si limita a istruire, ma intende educare. Non esita a

imporre la disciplina, quando è il caso. La sua voce, allora assume il timbro (e il volume...) della

severità. Talvolta è portata ad eccedere nei castighi e nelle minacce, ha delle reazioni eccessive,

sproporzionate rispetto alle mancanze delle allieve. In tal caso, non solo la voce, ma anche i modi

sono al di sopra delle righe.

Ed è proprio durante una delle sue «esplosioni» che avviene l’incontro con il Palazzolo. Ce lo

riferisce il primo biografo, don Luigi Frigeni:

«Un giorno D. Luigi Palazzolo andò alla scuola di Teresa per l’insegnamento del Catechismo.

Dal di fuori si sentiva la Maestra,

PAGINA 214:

che garriva in tono solenne. Si trattenne fuori dall’uscio ad ascoltare. Non era obbligato a turarsi le

orecchie dal momento che alla Maestra non importava proprio nulla a farsi udire. Per riguardo

forse, si era trattenuto dall’entrare, per non fare arrossire troppo la Maestrina nel colmo della sua

escandescenza. Passata la burrasca, D. Luigi entrò, che le allieve erano dimesse come alberi

abbattuti dalla grandine e dalla bufera della tempesta, in un silenzio di paura. Teresina ebbe un

sussulto e cercò di comporsi, di dominarsi, di riprendere la sua usata serenità. Avrebbe voluto

giustificarsi, ma non trovava parola. Era impicciata, nell’imbarazzo: a stento salutò. Don Luigi le

sussurrò all’orecchio: Calma, calma: si ottiene di più.

«Era la prima lezione del suo futuro maestro. Non la dimenticò più. Ne trasse profitto».

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Si dedica all’apostolato anche al di fuori dell’ambito scolastico. Reca il proprio contributo

soprattutto nell’opera di Santa Dorotea, che si occupa della educazione morale e cristiana delle

ragazze dei quartieri poveri, con attenzione particolare a quelle «sviate e pericolanti». Qui Teresa si

fa le ossa e compie un prezioso apprendistato per la missione futura che ormai viene delineandosi,

sia pure in maniera ancora confusa.

I molteplici impegni, tuttavia, non le fanno dimenticare il sogno primitivo, anzi accentuano la

sua attrazione verso il chiostro.

Finalmente il passo tanto atteso, ma non nella direzione prevista

La svolta avviene nel 1868, quando Teresa ha 31 anni. Cinque anni prima le era morta la

mamma, ma lei aveva dovuto occuparsi della sorella Elisa, appena sedicenne. Adesso, finalmente,

mentre per questa c’è alle viste il matrimonio, la strada appare sgombra.

Ormai è matura per la vita religiosa. Il suo direttore spirituale, don Alessandri, vince le sue

ultime resistenze. La strada sembra segnata: le Canossiane, destinazione Venezia.

Non ci andrà. Il noviziato lo farà invece, in via Foppa. L’incontro con don Luigi Palazzolo,

infatti, si sta rivelando decisivo.

A osservare il Palazzolo in azione, come abbiamo già rilevato,

PAGINA 215:

si ha una certa idea di improvvisazione. Nel senso che lui non è tipo da progettare, dopo attento

studio, vagliando la situazione e approntando preventivamente i mezzi opportuni, le sue opere.

Queste gli spuntano tra le mani – oserei dire tra i piedi – in maniera imprevista, casuale, per una

serie di circostanze provvidenziali. Lui coglie al volo le occasioni, così come si presentano.

Nota acutamente don Frigeni: «Tutta l’opera del Palazzolo portava l’impronta visibile, il segno

infallibile della mano di Dio. Lui non è tipo che archetipa nella sua testa i disegni che vuole

eseguire, né ha prefissi gli scopi, né preordina studiosamente i mezzi. Le sue opere balzano fuori

quasi occasionalmente. Dio le suscita o all’infuori o anche contro ogni preordinazione, ogni

speranza umana. Sorgono impensate, a quel punto che stan per fallire, trionfano. Sentiva ripugnanza

il Palazzolo a star con le donne, ad occuparsi della gioventù femminile e diviene il Direttore della

Pia Opera. L’opera sta per naufragare e sorge dal suo seno per incanto un’istituzione magnifica. La

causa occasionale di questa istituzione è la nostra Gabrieli, o meglio la virtù della nostra Gabrieli. Il

Palazzolo da tempo l’andava studiando – non era suo Direttore spirituale – la conosceva per quel

che vedeva, per i saggi di virtù che dava nella Pia Opera, per quanto di bene sentiva parlarne tra le

Maestre e fuori».

Così dall’opera di S. Dorotea, minacciata di estinzione per carenza di locali, nasce qualcosa di

radicalmente nuovo, in cui Teresa Gabrieli svolgerà un ruolo importante.

Lo sguardo del Palazzolo non s’inganna: quella donna ormai matura è proprio l’elemento che ci

vuole per realizzare qualcosa che non gli è neppure troppo chiaro, ma non importa. Si chiarirà dopo.

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La pietra fondamentale della costruzione

Tutto avviene alla chetichella, all’insaputa dei più. È il 22 maggio 1869. Nella cappella

dell’oratorio maschile, Teresa Gabrieli pronuncia i voti e si impegna ad adoperarsi a favore «della

gioventù femminile, massime delle povere Orfanelle abbandonate...

PAGINA 216:

e in servizio degli ammalati poveri che giacciono nelle proprie case anche in tempo di malattie

contagiose e di peste». Lei stessa ha scritto la formula che Legge con voce ferma. Ha aggiunto

anche una preghiera supplementare: «...Accetto ogni tribolazione ed ogni patire, desolazione,

aridità, angustie, povertà, ignominie, disprezzi, infermità, derisioni, melanconie, noie, persecuzioni,

abbandono delle creature, tutto quello insomma che Vi piacerà di mandarmi...

«Caro Gesù... se volete anche nasconderVi, se non volete farVi sentire da me, se volete trattarmi

con asprezza, se volete mostrarVi meco severo, fate pure quello che volete e Vi aggrada. Io Vi

protesto che Vi amerò sempre, che Vi servirò con fedeltà e procurerò sempre di cercar in tutto e per

tutto solo il Vostro gusto».

Don Luigi le consegna le chiavi della casa, intendendo con questo gesto affidargliene la

direzione.

Giustamente è stato osservato che Teresa costituisce una pietra fondamentale della costruzione, e

non solo la direttrice.

La divisa sembra fatta per non distinguerle...

Per un certo tempo è una Madre senza figlie. Le due compagne presenti alla veglia del 22

maggio sono tornate a casa, in attesa di tempi migliori. Lei rimane esposta, come il Palazzolo, alle

critiche e alle malignità delle solite «persone pie», chiamate anche da don Luigi «beatine».

Particolarmente importante si rivelerà, dopo sei mesi, l’acquisto di Giuditta Broletti, ventenne.

Soltanto nel 1870 sei giovani si uniranno a Teresa.

«Non erano zitelle dal collo torto, dallo spirito chiuso, dal carattere misantropo; né miserabili,

che non sanno come vivacchiare, trascurate dal mondo, che prendessero quel partito per vivere alla

men peggio. Tutt’altro...».

Quando si recavano al santuario di Borgo S. Caterina per ricevere lumi dalla Vergine a riguardo

della loro scelta di vita, «nessuno certo le avrebbe mai prese per delle candidate al Convento. Non

solo il portamento sciolto da giovani spigliate, ma allegre so-

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nore risate, che destavano l’attenzione nelle contrade, come di chiassose compagnie di

scampagnate, e ciò che è più bello, poiché avevano il borsellino discretamente fornito, non

lasciavano mai di far sosta a qualche caffè che le ristorasse.

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«Queste cotali furono le prime suore che si unirono alla Gabrieli nella casa di via Foppa, che

condivisero le pene e le incertezze dell’avvenire, gareggiando con lei in generosità di virtù e spirito

di carità» (L. Frigeni).

Il vestito, secondo le intenzioni, avrebbe dovuto essere ritagliato su quello delle canossiane. In

realtà si distingueva radicalmente per maggior semplicità e aderenza alla... moda delle donne

povere.

Ancora il primo biografo: «Qui non si trattava tanto di formare delle suore maestre per i poveri,

bensì delle suore che vivessero a contatto dei poveri, nei loro uffici, nei bisogni, nelle indigenze,

nelle ricreazioni, in tutta l’estensione della vita dei poveri. Bisognava accostarsi ancora più

intimamente, accompagnarli ancor più questi poveri lanciati nel turbine impetuoso della nuova

vita...».

C. Castelletti precisa: «Il vestito delle suore consiste in una veste di tela marrone, di taglio e

forma affatto comune, uno scialle nero in testa e il grembiule. Quale unico distintivo religioso, le

suore delle poverelle portano la corona e una croce di legno al collo col Crocifisso. La cuffia

sarebbe un ostacolo per molte giovinette, le quali si vergognerebbero di farsi (vedere) insieme alle

monache. Di più, dovendo le suore avvolgersi fra i poveri ammalati e vegliare anche le notti, mi

pare che sia cosa più conveniente e di maggior confidenza per le suore stesse avere il fazzoletto

anziché la cuffia... Di più, se portano la cuffia, bisogna di conseguenza metterci sopra anche il velo,

e questo non è secondo la povertà di quelle, che sono povere e destinate per le povere».

Commenta il Frigeni: «So, vi è la stranezza che non sembrano nemmeno suore, quelle che

portano quella divisa.

«E ci voleva così. Che le suore fossero in mezzo ai poveri, come donne di loro, che non incutono

suggezione, né soverchia riverenza e ispirano famigliarità e confidenza...».

PAGINA 218:

Insomma, una divisa che, paradossalmente, le fa apparire... poco suore.

Come non bastasse, ecco la corona dalla parte sbagliata. Il tutto nasce da un gustoso equivoco.

Nella commemorazione del 1° anniversario di fondazione, il 22 maggio 1870, il Superiore, durante

una funzione notturna, consegna le corone. Giuditta se la accomoda a destra, invece che a sinistra

come bisognerebbe secondo il costume tradizionale. La Madre si avvede immediatamente

dell’errore, ma invece di correggerlo vi si adatta, e anche lei si acconcia la corona che penzola dal

fianco destro, imitando il gesto sbagliato della «figlia».

Già. Potevano portare la corona dalla parte sbagliata. Ma lo spirito era quello giusto.

Delicatezza e forza

Madre delicata, sensibile, tenerissima, ma non sprovvista di fermezza. Non ha perso neppure

l’abitudine di alzare la voce, quando è il caso. Parla chiaro alle orfane: «Non vi abbiamo raccolto

per darvi solo da mangiare, per crescervi come bestioline. È la vostra anima che ci preme».

Le risorse scarseggiano, le ospiti aumentano, e lei... moltiplica la generosità, il lavoro, il

sacrificio. Non vuole pesare su don Luigi, che ha già fin troppi grattacapi in proprio. E allora taglia

sui propri viveri. Voce del verbo «privarsi». E le suore la imitano.

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Manco a dirlo, riserva per sé i servizi più umili, e per quelli più ripugnanti rivendica una specie

di monopolio.

Va anche a dare un’occhiata alla marmaglia in pantaloncini corti di Torre Boldone. Al suo

occhio penetrante non sfuggono bisogni, esigenze particolari, problemi, difficoltà. Anche quando

don Luigi affiderà ai Fratelli della Sacra Famiglia l’assistenza degli orfanotrofi, la Gabrieli non

desisterà dal fare da mamma. D’altra parte, bisogna riconoscere che il comportamento dei religiosi

era lungi dal corrispondere alle attese del Fondatore: «Con quei benedetti frati è proprio cosa che

mette in pensiero», mugugnava

PAGINA 219:

don Luigi. E suor Teresa ci metteva del suo per impedire che si angustiasse troppo.

Era una donna saggia, assennata, prudente, semplice, schietta, di una trasparenza cristallina,

incapace di infingimenti, incurante delle apparenze. L’ideale per reggere una Casa e alimentare lo

spirito religioso.

E proprio a riguardo dello spirito religioso, qualche volta si ritrovava in disaccordo col

Palazzolo, e non esitava a esprimere con franchezza e umiltà il proprio dissenso. Si trattava, infatti,

di impedire che le suore soccombessero al superlavoro imposto dalle travolgenti iniziative di don

Luigi, a scapito delle pratiche di pietà e della dimensione contemplativa. Lei voleva delle vere

religiose, non semplicemente delle pie e indaffarate massaie. Preferiva vederle trascorrere qualche

ora in chiesa piuttosto che a discutere sul prezzo nelle botteghe e tra le bancarelle dei mercati.

In certe occasioni poteva apparire un po’ tradizionalista rispetto alle idee più avanzate e

«rischiose» del Fondatore. In realtà, lei si preoccupava di mettere in salvo i valori fondamentali

dell’interiorità.

E poi i due finivano per completarsi a vicenda. Pacatezza ed esuberanza si equilibravano.

Dove vien fuori l’educatrice

Anche lei, un talento educativo innato, che si manifesta soprattutto nella formazione delle suore.

Le vuole sveglie, equilibrate, istruite, aperte. Raccomanda: «Altro che occhi bassi con le orfanelle...

e su il fazzoletto dagli occhi. Fronte libera».

Predilige quelle di carattere vivace. Punta sulla sostanza.

Da parte sua, fornisce esempi luminosi di mortificazione, delicatezza, intuizione profonda

dell’animo femminile:

«L’energia l’aveva nel carattere. Nonché essere rigida nel sostenere lo spirito, era rigida anche

nella formazione dei caratteri, che voleva robusti, sostenuti. Non voleva piagnistei, le scuse colle

lacrime, e assolutamente non soffriva sdolcinature, i caratteri molli» (L. Frigeni).

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All’occorrenza, pur nell’assoluto rispetto, non risparmia richiami, anche severi, al Palazzolo.

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Sa inculcare lo spirito di penitenza, ma sempre con discrezione. Suggerisce alle novizie che

pretenderebbero imitarla nelle prolungate veglie notturne: «Quelle che vogliono tener compagnia

alla Madonna e a Gesù nelle ore della notte, si addormentino col pensiero di Gesù e di Maria e poi

si sveglino pensandoci ancora. Siete contente?».

Assai esigente, ma anche capace di capire e compatire. Irremovibile nei principi, ma indulgente e

generosa verso le persone e relative debolezze.

Forte e delicata al tempo stesso. Decisa nel reprimere le mancanze altrui, ma pronta a confessare

e chiedere perdono delle proprie colpe, magari mettendosi in ginocchio di fronte a una suora.

Manifesta le più delicate attenzioni soprattutto nei confronti di chi l’ha offesa e calunniata. Ecco

un episodio significativo. Un emigrante, reduce dalla Francia, va a trovare la figlia ospite

dell’Istituto. Quando se la vede dinanzi, piuttosto emaciata, non può trattenersi dal fare un

confronto con la Madre che è di struttura piuttosto pingue, e dà in escandescenze. Quindi,

rivolgendosi alla figlia, le impone: «Senti: quando al mattino ti chiamano, rispondi: “Nossignore;

prima d’alzarmi portatemi il caffè”. Guarda che bisogna fare così con le persone senza carità e

senza cuore. Obbedisci a tuo padre...».

La Madre assiste a tutta la scena penosa senza battere ciglio. Quindi, rivolgendosi alle suore,

commenta: «Poveretto, se giunge ora dalla Francia, avrà bisogno di qualcosa di caldo...». Poi,

interpellando direttamente quell’uomo esagitato: «Se accetta una zuppa ed un bicchiere di vino,

glielo offro di tutto cuore».

Quello, sbalordito da tanta mitezza, finisce per ammansirsi.

Povertà

Quanto a povertà, non è da meno del Palazzolo, che è tutto dire. Appena stabilitasi nella casa, ad

uso convento, di via Foppa, si precipitò a scegliersi la stanza più misera, umida, scarsamente

PAGINA 221:

arieggiata. Ci stavano dentro, a stento, un lettuccio, un tavolino e una cassa.

Impossibile farle accettare un abito nuovo. D’inverno indossava una vecchia mantellina ricavata

da una veste già piuttosto lisa e stinta appartenuta al suo arciprete.

Una volta, durante la visita a una Casa, incocciò una suora che calzava un paio di scarpe

«sfinite» e non esitò a offrire le proprie che erano in uno stato ancora discreto:

– Prendi, prendi... queste ti dureranno per un pezzo – insisteva. Quella, confusa, resistette più che

poté. Ma la Madre si mostrò intrattabile:

– Cavatele, cavatele... non fare tante storie.

E lo scambio fu fatto.

Un’altra volta, ad Ardesio, trovò la Superiora locale che indossava un abito sdrucito.

Immediatamente le propose lo scambio con la propria veste. Quella si schermì:

– È impossibile, Madre... Non vede come è corta la mia?

– Va’ là, va’ là... stai tranquilla che non me la leveranno lo stesso. Non me la scambieranno per

strada. Da’ qui...

– Bella figura le farei fare. Non sono matta! Anche il Superiore mi rimprovererebbe.

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– E va bene: tu prenderai il rimprovero e io farò la brutta figura, e così guadagneremo tutte e due.

Allorché la Madre fu di ritorno acconciata goffamente in quell’abito impossibile, suscitò uno

scoppio di ilarità generale. E si dovette poi arrivare a proibirle lo «scambio dell’abito» quando

andava in visita alle Case. E lei fu costretta ad accettare quell’imposizione, mal digerita, e si

vendicava scambiando regolarmente crocifissi, mantelline e altre cose che non rientravano nel

divieto.

Pretendeva che nulla andasse perso, si ponesse la massima attenzione a non rompere, non

sciupare alcunché. Esigeva si recuperassero le pezze, i vestiti logori, le scarpe sfondate. Lei stessa

frugava continuamente tra gli stracci, alla ricerca di qualcosa da salvare. Le suore erano autorizzate

a mutare abiti soltanto quando fossero all’evidenza inservibili e indecenti. Raccomandava:

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«State nette e pulite, anche in casa. Ma i vestiti rattoppati non vi fanno disonore».

Faticatrice

Sopportava una mole di lavoro impressionante. Non era raro il caso che, prima della sveglia

mattutina, andasse a bussare alla cella di qualche suora:

– Fa’ presto, levati su e vieni con me, che c’è la tal vecchia che sta male e dobbiamo prepararla

alla Comunione.

Racconta una testimone: «Appena vestita, mi consegnava due palmine di fiori artificiali, due

mozziconi di candela e ci si avviava verso via Foppa, via S. Bernardino, via Osio, e su per abbaini.

Quelle povere stamberghe dai pianerottoli di legno tarlato, che scricchiolavano sotto i piedi, con

tacita minaccia, mi mettevano paura, e mi arrestavo. E la Madre, ridendo:

– Muoviti! Ti devi abituare... ci vuol ben altro!».

L’unico suo scrupolo era che il superlavoro non la distogliesse dal pensiero di Dio e

dall’attenzione a Lui nella preghiera.

Ecco uno scampolo della sua saggezza. Si tratta di un metodo infallibile per distinguere

indisposizione da pigrizia mattutina. Diceva, dunque, alle suore, rifacendosi a un consiglio di

S.Teresa: «Quando vi siate vestite, se non vi reggete, ritornate pure a letto. Ma badate di cominciare

la giornata generosamente, offrendo al Signore in sacrificio grato, le primizie, balzando dal letto

prontamente, come se il letto prendesse fuoco».

Le altre virtù

Quanto all’ubbidienza, seguiva docilmente il solco tracciato dal Palazzolo, ma senza rinunciare

alla propria personalità, libertà e indipendenza di giudizio.

Scriveva al Padre: «Per obbedienza starei sulla cima del più alto monte. Di me, reverendissimo

Padre, faccia quel che vuole, mi metta in basso, mi metta in alto, spero con la grazia del mio caro

Gesù di essere sempre contenta...».

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Dichiarava con tranquilla sicurezza: «Sono cattiva, ma ho vissuto e vivo nell’ubbidienza».

Per quanto riguarda l’umiltà, basterà stralciare alcune espressioni dalle lettere indirizzate a don

Luigi:

«Mi sgridi come una bambina, non si fidi di me, sono priva di virtù, incapace d’ogni piccola

cosa. Come posso dare buon esempio alle compagne?».

E ancora: «Mi faccia la carità, non me ne lasci passare una. Sia più severo che può. La prego: mi

consideri come la più meschina figlia che ha».

Riferisce il Frigeni: «La sua musica prediletta erano le ingiurie che si buscava, particolarmente

nel trattare con gli estranei. Allora stava in silenzio, calma, serena e gioiosa, come un buongustaio

all’audizione di un brano scelto di musica eseguito a regola d’arte».

Quando venne a mancare il lavoro nell’incannatoio della seta e le tempeste più furibonde si

abbattevano sulla Casa, commentava: «I miei peccati... Sono i miei peccati la causa di tutto ciò!».

La perspicacia era una sua dote inconfondibile. Il can. Valsecchi, suo direttore spirituale,

osservava: «Bisognava andare cauti nel contrariarla, perché anche quando sembrava che sbagliasse,

imbroccava nel segno».

È trepidante per le Sorelle che abbandonano il nido materno di Bergamo per emigrare nella

nuova, rischiosa fondazione di Vicenza. Ma sa anche di averle sgrezzate più che a sufficienza. Le

«rifiniture» verranno fatte sul campo di lavoro.

Trascinatrice più che collaboratrice

Restano da chiarire alcuni equivoci. Principalmente quello secondo cui la Gabrieli sarebbe stata

semplicemente la collaboratrice del Palazzolo, colei che lo assecondava nelle sue iniziative, gli

teneva dietro come poteva nelle sue aperture coraggiose e perfino temerarie (secondo alcuni).

Tale ruolo fa torto alla personalità di Teresa Gabrieli, la quale è anche «trascinatrice» e non solo

«esecutrice». Il suo compito non si limita alla copertura delle avanzate altrui. Lei svolge anche

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la funzione di stimolo, incoraggiamento, sostegno e, oserei dire, orientamento.

Osserva con acutezza il Frigeni: «Se don Luigi opera con segreto istinto divino ed abbraccia le

opere, accoglie orfani, mosso quasi inconsapevolmente da arcano impulso, come quando comprò la

Casa dei Pomi a Brescia, la Gabrieli pare guidata da una luce che splende chiara nel suo spirito».

Tutto ciò appare evidente nell’anno che possiamo definire «delle fondazioni»: il 1876. E si

manifesta, poco dopo, quando la neonata casa di Brescia sembra destinata al fallimento.. È lei, in

questa circostanza, che scuote il Palazzolo, minacciato da scoraggiamento e tentato di abbandonare

l’impresa: «Non faccia così... Lasci lavorare il Signore».

D’altra parte, la natura e la finalità dell’Istituto non erano state definite con precisione all’inizio.

Tutto era cominciato per «intuizione», rispondendo alle provocazioni di realtà contingenti. Più che

mettere una pietra istituzionale e giuridica alla base dell’edificio, il Palazzolo e la Gabrieli erano

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inciampati in un sasso collocato in mezzo alla strada, e poi in altri sassi «abbandonati»

(un’orfanella, un povero ragazzo...).

La fisionomia dell’edificio, in definitiva, sarebbe venuta delineandosi a poco a poco, in maniera

imprevedibile. E le regole stesse si sarebbero adeguate allo sviluppo della fondazione. Insomma,

prima la vita e poi la norma. Prima lo spirito, e quindi la forma.

Soprattutto in questa fase, allorché si trattava di captare e poi precisare e attuare l’ispirazione, lo

sguardo penetrante, il discernimento della Gabrieli si riveleranno decisivi.

Ecco allora che pietra d’inciampo dopo pietra d’inciampo, si viene precisando il disegno della

nuova costruzione: Famiglia di poveri per i poveri, che si regge sui pilastri della povertà,

dell’umiltà, del sacrificio, e di una donazione senza riserve.

Ancora il Frigeni: «Famiglia di poveri, come erano, a quel tempo dei Fondatori, le famiglie dei

poveri, quanto al vitto, all’abitazione, al vestito, al letto. Allora non si dormiva su materassi

morbidi, né di crine vegetale. Erano sacconi rimpinzati di cartoc-

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ci, distesi su asse, sollevati da cavalletti. E le suore non devono essere da più: avranno il loro bel

saccone.

«Le donne povere non portavano il velo sul capo, allora: e le figlie della Gabrieli, allo stesso

modo delle popolane, avvolgeranno umilmente e modestamente il loro capo nello scialle nero.

Neppure a parlare poi di cuffie, né di taglio di capelli: sapevano troppo di monastico, di grave, di

riverenziale e, anziché ispirare confidenza e avvicinare, chiudevano gli animi, alienavano...

«...E come le donne povere calzano gli zoccoli in casa, così pure faranno le nostre Poverelle».

Lo stile dei poveri

Proprio gli zoccoli, più che la foggia del vestito, diventano il segno distintivo delle Poverelle. In

quella Casa si entra soltanto calzando gli zoccoli. E si rimane unicamente portando gli zoccoli

(insieme alla croce, naturalmente). Su questo punto non si transige.

Circa lo stare da poveri con i poveri, la Madre si mostra irremovibile, anche quando il Palazzolo

sarebbe incline a fare qualche concessione.

«Riguardo all’andare dai signori a fare le notti (ossia le veglie notturne), il mio parere sarebbe di

continuare secondo le nostre prime regole, e non cominciare a fare delle riforme. Stiamo coi poveri,

e allora le Suore conserveranno lo spirito nostro, avranno cara la loro casetta povera e le ragazze

povere. Per di più, abbiamo prove che con queste regole ci benedisse il Signore... Perché dunque

cambiarle?».

Nel 1879 la Gabrieli scrive a don Luigi che sta a Venezia: «Non si avvilisca per il fatto che a

Brescia non avevano zucchero e ne avevano poco pure a Vicenza. Non si perda d’animo. Stiamo da

poveri e non vergogniamoci di comparire da poveri. Questo bisogna raccomandarlo caldamente a

quelle di Vicenza, che mi sembrano un po’ smaniose di fare bella figura. Rimaniamo nel nostro

spirito».

Paradossalmente si può, dunque, affermare che il programma

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PAGINA 226:

viene stabilito... successivamente, a cose fatte, mantenendo però fermi alcuni punti fondamentali.

La Gabrieli badava alla sostanza, puntava dritto allo scopo, senza lasciarsi distrarre da cose

marginali. Scriveva: «Nella nostra Casa c’è gran poco ordine. Ma non è con i tanti ordini che si può

operare. Col nostro spirito, quando ci sia testa e obbedienza, va bene così».

Quanto alla regola, sia lei che don Luigi costituivano la regola vivente cui adeguarsi. E non era

impresa facile...

Reciprocità

«Mi tenga bassa» implora, rivolgendosi al Palazzolo. E lui pretende che la Gabrieli si santifichi

«alla grande» (è un’espressione tipica di don Luigi).

Da parte sua, la Madre non esita a scuoterlo nelle ricorrenti crisi di malinconia, per impedirgli

«gli avvilimenti». Vuole che «sia allegro» anche in mezzo alle prove e alle tempeste più squassanti.

La Gabrieli è, in un certo senso, l’angelo tutelare del Palazzolo, specialmente nei momenti di

esitazione e di smarrimento, tutt’altro che rari.

Significativo il tono da «madre spirituale» di questa lettera: «Riguardo a quello che mi ha

domandato, mi sono consigliata col Signore e sento di dirle che fino a che non è a Bergamo, non

pensi di digiunare, né al mercoledì, né al venerdì, né al sabato. Pensi a terminare bene la sua cura e

a fare bene le sue cose; tutto per obbedienza».

Per quanto lacerante sia stata per lei la perdita del Palazzolo, registrata nel 1886, tuttavia

intreccia subito ottimi rapporti col successore, don Guglielmo Valsecchi, scelta che va incontro ai

suoi desideri.

Il nuovo Superiore, comunque, accusa ben presto problemi di salute, aggravati forse da paure

eccessive. Rivelatrice questa lettera del luglio 1886: «Il Rev. Superiore è sempre lo stesso coi suoi

occhi. Vedendo che non migliora, si avvilisce, pregiudicando così la propria salute. E, non potendo

occuparsi di niente, resta me-

PAGINA 227:

lanconico. Credimi, fa proprio compassione vederlo in Chiesa, con la corona in mano, come una

persona vecchia, che non può impegnarsi in nulla. Egli non può scrivere; fa qualche passeggiata alla

mattina e poi è là tutto il giorno...

«Spesso gli dico: “Andiamo a trovare quelli di Vicenza”. Sembra si risolva, ma poi comincia a

dire: “E se mi ammalo? Se, quando sono là, mi sento poco bene? Andremo la settimana ventura...”.

Ma allorché è il momento non si decide. È una compassione. Preghiamo... Se non si prega, la grazia

non verrà...».

Commenta il Frigeni: «Le preghiere furono esaudite; il Superiore poté in seguito riaversi, ma non

perfettamente. Alla Gabrieli, all’Istituzione, giovò assai col prestigio dell’autorità, col consiglio

assennato, con la dotta esperienza, nei contatti in alto e in basso, nei molteplici negozi, nelle tante

opere intraprese, nell’apertura di numerose Case, con la predicazione assidua, soda, applicata ai

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bisogni, piena di unzione, e coll’esempio della vita di pietà. Anche col lavoro, finché poté e dove

seppe. Certo la Gabrieli dovette supplirlo molte volte e molte volte si accorse di non avere più don

Luigi».

In pratica, il grosso del lavoro ricade sulle spalle della Gabrieli.

Infatti, al di là dei problemi di salute, il Valsecchi ha un temperamento un po’ impulsivo ed è

portato qualche volta a prendere decisioni precipitose, per cui Madre Teresa deve muoversi con

molta circospezione e perfino diplomazia.

Per fortuna, l’approvazione canonica dell’Istituto (1886) dà alla Gabrieli una certa sicurezza.

Tuttavia resta fondamentale e insostituibile la sua pedagogia per mantenere lo spirito. I suoi discorsi

appaiono improntati alla chiarezza. Basti citare questa lettera indirizzata alle suore in procinto di

rinnovare i voti:

«Se vi sentite di fare la vera Suora, rinnovateli pure, ma alla condizione di osservarli ed eseguire

scrupolosamente le promesse che fate al Signore, altrimenti è meglio fare la buona secolare che la

cattiva suora.

«Ascoltate: se la vita religiosa ora troppo vi pesa, se vi pesa quella continua rinnegazione della

volontà, quella vita di continuo sacrificio, eseguendo come si deve i santi voti di obbedienza, di

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povertà e di castità... e di più quella carità che dovete avere fra voi e col vostro prossimo, se ora non

vi sentite più, in tal caso, invece di rinnovarli, i santi voti, spogliatevi dell’abito religioso e uscite...

Noi non vogliamo Suore forzate, come pure il Signore non vuole sacrifici forzati».

Per non svendere l’eredità

Estremamente esigente in fatto di spirito. Lei non è per nulla disposta a dissipare o svendere la

preziosità ricevuta dal Palazzolo. Al contrario: si sforza di potenziarla e consolidarla.

L’approvazione canonica dell’Istituto (concessa nel 1886, un mese prima della morte di don Luigi)

dà alla Gabrieli una certa sicurezza supplementare.

La sua gioia più grande è quando constata che le figlie hanno imparato la lezione, e si prodigano

con generosità, come nel caso dell’epidemia di colera scoppiata a Vicenza.

La scelta preferenziale dei poveri viene mantenuta con fermezza. Scrive alla Superiora di Schio:

«In quanto a quello che mi hai domandato circa l’andare a fare le notti per una signora, il Rev.mo

Superiore ed io non siamo persuasi, perché la nostra Regola non lo permette; e poi, state coi poveri,

e allora il Signore vi provvederà più che i signori...».

Allorché si tratta di correggere, lo fa con decisione. Scrive alla Superiora di Vicenza: «Quando si

ricevono le tue lettere, non si ha il disturbo di voltare il foglio. In quattro righe hai espresso tutto.

Sembra che tu non abbia bisogno di suggerimenti. Va bene tutto quello che sembra bene a te. Ti

pesa il dipendere? Questo è quello che possiamo conoscere in te».

Pretende dalle suore sincerità, assenza di calcoli, spirito di povertà, stile di vita austero.

Soprattutto insiste perché si realizzi, nelle comunità, una autentica fraternità. Ecco alcune

raccomandazioni di stampo paolino: «Suore, figlie mie, compatitevi, correggetevi, abbiate stima

una dell’altra, non giudicatevi l’una l’altra, amatevi in santa carità, gran carità...».

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«Con cuore largo vuol essere servito il Signore»: era un suo ritornello abituale. Non voleva uno

stile di santità tetro, cupo, né sopportava gli spiriti chiusi, gli animi esitanti, gli atteggiamenti

calcolatori, le ipocrisie, i formalismi. Aborriva soprattutto i pettegolezzi.

L’ilarità doveva essere il segno distintivo dell’Istituto. Basterà citare alla rinfusa alcune sue

espressioni: «Raccomando alle Suore: vivano secondo lo spirito del nostro Istituto, sempre allegre e

contente». «Questo è lo spirito del nostro Istituto: sempre allegre e contente in quello che il Signore

vuole». «Il mio timore è che svanisca quella bella impronta che ci lasciò il nostro Caro Defunto

Superiore. Egli era come un fanciullo, e io vorrei che questo spirito si conservasse allegro perché

utile».

Ma la Gabrieli sa che la letizia non è qualche cosa di epidermico, ma è legata strettamente

all’umiltà: «Se sarete superbe strapperete anche la Casa». Voleva dire, evidentemente,

«sradicherete».

Scriveva ancora: «A me non danno fastidio le Suore ammalate. Quelle che mi dispiacciono sono

quelle teste superbe e deboli, che non vogliono piegarsi: queste, sì, mi fanno male. Quella maledetta

superbia è una gran cosa...».

«Santità» era il ritornello più ricorrente, eco fedele del canto intonato dal Palazzolo. Ma la

Gabrieli non tollera caricature, si mostra allergica alle artificiosità, così come attesta questa

descrizione piuttosto tagliente: «Testa china, ristretta nelle spalle, una santità incollata. Ci vuol altro

se vogliamo lavorare con le giovinette...». Un vero gioiello di umorismo bergamasco

quell’espressione «santità incollata»...

Equilibrio

Naturalmente era sempre sorretta dal suo inconfondibile senso della misura. Nota il Frigeni:

«Forse da principio l’ardore della penitenza, della mortificazione, del sacrificio, le aveva fatto

oltrepassare un po’ i confini. Gli atti eroici non si possono imporre ad una comunità, non si possono

esigere da tutti. L’esperienza le fe-

PAGINA 230:

ce stabilire la giusta misura. Quanto era sollecita della santità delle suore, altrettanto lo era della

loro salute corporale».

Scrive a una Superiora: «Mi consolo udendo che l’asilo va bene. Ti raccomando, guarda che la

Suora non si affatichi troppo; essendo il primo anno, si accontenti di poco. Spero che nell’asilo non

sarà sola e vi sarà una donna che l’aiuti. Un’altra cosa voglio dirti: mi sembra che ti sia addossata

troppo lavoro. Avete l’Asilo, le ragazze del lavoro; dunque basta. Perché ricevere ancora del

lavoro?... Sta bene inoltre che facciate qualche passeggiata se volete avere salute; altrimenti vi

ammalerete e non sarete più buone né per voi né per gli altri.

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«Ti raccomando, Madre, abbi cura delle tue Suore, tanto nel cibo, quanto nel non occuparle

troppo. Quando si potrà darti un’altra Suora in aiuto, allora potrai ricevere altro lavoro, ma adesso

no, no, hai capito?...».

E ancora, a un’altra responsabile di comunità: «Non puoi immaginarti come mi siete sempre

presenti, molto più in questi giorni che faceva tanto freddo, specialmente nel vostro dormitorio. Dio

sa che esterminio di freddo dovete patire. Questo mi rincresce molto, non vorrei che vi facesse

male; nel caso, scendete basso...».

Sempre a una Superiora: «Voglio che ti abitui a comperare ciò che ti abbisogna... Non farti

riguardi. Voglio che tutte le mattine beva il tuo caffè, e obbedisci nel tenerti d’acconto. Ricordati

che ti comando di far cuocere due volte la settimana la carne. Tieni d’acconto anche le altre se

devono resistere a far scuola. A me che vi avanzino dei soldi non m’importa. Mi preme che

conserviate la salute. Che si osservi lo spirito di povertà va bene, ma bisogna pure che non lasciate

mancare il necessario, mi hai capito?...».

Questa, come è facile intuire, si chiama saggezza. E anche equilibrio.

Sollecitudine materna

Riferisce una suora: «Una volta fui mandata all’ospedale. La malattia era cagionata soprattutto

da grande debolezza e, siccome

PAGINA 231:

prima di me, altre suore erano state ricoverate, certo per altre malattie, ma tutte in uno stato di

grande sfinimento, il dottore dell’ospedale aveva finito per nutrire una grande antipatia nei confronti

del nostro Istituto, ritenendo che i Superiori non si prendessero abbastanza cura delle suore e le

lasciassero patire indigenza. Questa sua opinione era avvalorata dal fatto che le suore delle

Poverelle, specie a Vicenza, versavano in grandi strettezze, e ciò non era mistero per nessuno.

«Quando la Madre Generale seppe che io ero ammalata, scrisse alla Superiora,

raccomandandomi alle sue cure, e obbligandola a visitarmi di frequente. Venne poi lei stessa, poco

dopo, a Vicenza, per constatare in quale stato mi trovassi. Nel vedermi così deperita, sentì viva

compassione e, dopo avermi consolata, come lei sapeva fare, andò dal medico e con le lacrime agli

occhi gli disse: “Signor dottore, raccomando alla sua bontà la mia figliuola: abbia per lei tutte le

cure, e se per ristabilirla in salute non è sufficiente ciò che l’ospedale somministra, spenda pure di

più, e sarà mio dovere risarcirla di tutto. Siamo poveri, è vero, ma facciamo volentieri qualsiasi

sacrificio pur di vederla guarita”.

«Il dottore, dopo aver preso atto della sollecitudine e dell’amore della Madre, dovette ricredersi e

passò dall’antipatia all’ammirazione».

Quanto all’atteggiamento nei confronti delle orfane e degli orfani, citiamo la testimonianza del

primo biografo: «Erano le pupille dei suoi occhi. Li teneva come il patrimonio spirituale della

famiglia... Ogni volta che veniva portata una nuova bambina, si rallegrava festante con le suore di

casa, bamboleggiando la piccina, proprio come si sorride giocondamente, in una buona casa,

chinandosi su ogni nuova culla...

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«Ancora oggi si continua lo stesso spettacolo di giocondità. Bisognava, però, come essa si

esprime, che la bambina fosse una delle sue. Intendeva dire che fosse proprio un rifiuto. Senza

madre e padre, o che, pur avendo l’uno o l’altro genitore, fosse una derelitta. Quelle di nessuno,

insomma... Non transigeva su questo punto... Non badava poi che fossero bergamasche, bresciane,

vi-

PAGINA 232:

centine o di altre regioni dove non ci aveva Case. Se ne presero anche di calabresi, e perfino di

straniere».

Assicurava a tutti un’istruzione adeguata, fino alla quinta elementare (cosa che, a quei tempi, era

privilegio di pochi, appartenenti per lo più a famiglie ricche).

In compenso, incassava massicce dosi di ingratitudine.

Notevole anche il suo impegno nella scuola, antica e mai spenta passione. A questo campo

specifico assegnava pure le suore, dopo averle dotate di regolare diploma.

«Io qui mi diverto coi poveri»...

Un giorno aveva scritto al Palazzolo per informarlo: «Uno di quei pagliericci l’ho dato a quella

povera donna sortita dall’ospedale, che dormiva sotto le piante. Ora ci sono arrivata a farla venire

con le altre nella stanza dei poveri. Io qui mi diverto coi poveri...».

Non era un esemplare unico. Quella donna faceva parte della «clientela» abituale che fin dagli

inizi aveva frequentato via Foppa: vecchie, ma anche giovani di vita sgangherata, miserabili senza

casa, individui anziani – uomini e donne – respinti dagli ospedali, rifiutati dai ricoveri, reietti dei

manicomi, allontanati perfino dalle proprie famiglie. Insomma, tutti gli abbandonati e gli esclusi, i

derelitti, trovavano accoglienza nell’opera del Palazzolo e di madre Gabrieli.

Quella che è stata definita «la piccola cittadella della carità» assumerà una struttura organica e

verrà inaugurata il 15 giugno 1898.

Anche questo «Ricovero Invalidi» ricalca lo schema di tutte le altre opere dell’Istituto. Qualcosa

di non programmato, non definito, suscitato dalle circostanze, qualcosa insomma di occasionale, ma

che viene colto come un segno della Provvidenza.

Così la Gabrieli accoglie le prime tre vecchie e dà inizio, quasi senza proporselo, al Ricovero.

Lei stessa fa presente che non ha aperto una Casa. Sono quelli che vi entrano che segnalano che la

Casa è stata aperta!

PAGINA 233:

Come non bastasse, c’è la visita e l’assistenza – anche notturna – agli infermi disseminati nei

tuguri più sordidi, «irraggiungibili».

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Naturalmente si rende necessario attrezzare le suore con una robusta formazione, sia su un piano

umano che religioso. La Madre, comunque, per questo campo specifico, non avrà motivo di lagnarsi

della generosità delle figlie. Semmai, dovrà preoccuparsi di arginarne l’ardore.

Descrive la situazione, il Frigeni, con una certa enfasi, ma tracciando un quadro sostanzialmente

veritiero: «Le Poverelle salirono le scale più insidiose dei quartieri popolosi e triviali della città; su

per gli abbaini nefandi, penetrarono negli anditi reconditi, dove non è luce di terra, né di cielo;

avvicinarono i letti immondi e le anime ancor più immonde; stettero e resistettero al dileguarsi, al

fuggire di tutti...».

Da parte sua, la Gabrieli racconta: «La tale è morta alle 10,30. Io stetti tutta la notte, perché

intanto che era in agonia la casa era piena di parenti; spirata che fu, vedendo che andava tutta in

miseria, che le scendeva dal capo, tutti se ne andarono. Io mi fermai, la vestii...».

Lei tira avanti con coraggio perché avverte la protezione celeste di don Luigi, che si manifesta

attraverso numerosi segni impercettibili, ma che la Madre riesce a captare con sicurezza. Perfino la

situazione economica della Casa e migliorata notevolmente ed appare più rassicurante. La

Provvidenza, certo. Ma gli gnocchi, non piovono dal cielo...

Quando muore, la Gabrieli non può ignorare la fioritura impressionante di opere che sta davanti

ai suoi occhi. L’orizzonte delle prime fondazioni, basate essenzialmente sugli orfanotrofi, si è

allargato abbracciando asili, scuole elementari, scuole di lavoro, oratori, ricoveri per anziani,

assistenza negli ospedali, cucine economiche28

. Ma lei commenta, con assoluta convinzione: «È

tutta

PAGINA 234:

opera di Dio; è Dio che ha fatto ogni cosa». E alle figlie impone, senza mezzi termini: «Voglio ed

esigo che le Suore non si credano di essere gran cosa se il Signore le adopera a fare un po’ di bene.

Il Signore non ha bisogno di noi. Ringraziamolo della Carità che ci usa nel servirsi di noi, povere

meschine».

Calvario finale

L’ultima tappa è particolarmente dolorosa: «Anche a lei, come a don Luigi, l’asma toglie il

respiro, la stringe alla gola; l’erpete, quasi risipola, le dissolve la pelle, le incide la carne, le

invermina la persona, le avvelena il sangue. Ha le gambe rigonfie, il ventre obeso... Riesce a

muoversi con estrema difficoltà, non può riposare... Non ce la fa più a trattenere il cibo» (L.

Frigeni).

Ma il suo stile non si smentisce neppure in queste circostanze. Un giorno le portano un piattino

di panna. Lei sembra gradire, ma poi respinge quella che le appare come una leccornia: «È cosa

troppo delicata, troppo delicata per me...».

28

Oltre alle Case istituite, quando era ancora vivente il Palazzolo, e insieme con lui, a Torre Boldone, Lallio,

Vicenza S. Chiara e S. Lucia, in Bergamo Alta e a Brescia, aveva aggiunto le Case di Villanova sul Chiese, Palosco,

Fiumicello, Castrezzato, Provaglio d’Iseo, Botticino Sera, Orzivecchi, Capriolo, Cogozzo, Rivoltella sul Garda, Saiano,

Lumezzane S. Sebastiano, Romano Lombardo, Clusone, Bonate Sopra, Roccafranca, Cazzago, Cossirano, Lumezzane

S. Apollonio, Farfengo.

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È squassata dagli attacchi di asma e il medico ordina di sistemarle una stufa in camera per

renderle meno difficoltoso il respiro. Lei, quando è sola, si trascina fuori dal letto a prezzo di sforzi

sovrumani, butta fuori la legna e spegne i tizzoni ardenti. Poi comanda perentoriamente che nessuno

si azzardi più ad accendere quella stufa.

Si renderebbe necessario un materasso morbido per consentirle un po’ di riposo. Ma lei si mostra

irremovibile. Il saccone su cui è adagiata è fin troppo comodo.

E poi c’è un altro tipo di sofferenza, altrettanto straziante di quella fisica. Ha la sensazione (e più

che una sensazione) che la ritengano non più idonea a reggere l’Istituto. Di fatto, negli ultimi mesi,

dopo l’ictus che l’ha colpita nel settembre 1907 allorché si trovava a Padova, e che si è ripetuto in

forma più grave il 12 di-

PAGINA 235:

cembre, viene praticamente tenuta all’oscuro di tutto e i collegamenti con le suore delle Case

troncati.

In queste condizioni fisiche e morali spesso non può neppure avere il conforto dell’Eucarestia,

perché il suo stomaco ormai non ritiene più nulla, e questa per lei rappresenta la privazione più

insopportabile. Implora a mani giunte: «Datemi la comunione...».

Alla fine sopravviene anche la paralisi totale.

Mons. Castelletti comunicherà così la notizia della morte: «Logorata dalla malattia e più che

tutto dai pensieri, dalle fatiche, dalle penitenze, circa le ore 12 del 6 febbraio, rendeva santamente a

Dio la sua bell’anima Madre Teresa Gabrieli, Superiora delle Suore delle Poverelle». È il 1908.

Aveva 71 anni e aveva governato per 22 anni l’Istituto dopo la morte del Fondatore. Da sempre,

però, aveva guadagnato il diritto di chiamarsi Madre.

PAGINA 237:

HANNO DETTO E SCRITTO DI LORO

PAGINA 239:

COME HAN POTUTO ARRIVARE A TANTO?

Delle Suore Poverelle di Bergamo che hanno perso la vita nello Zaire, uccise dal virus Ebola, si è

scritto e parlato molto... Ma loro cosa dicono di se stesse? O, piuttosto, per essere un po’ meno

presuntuosi, come vorrebbero essere viste e conosciute?

Cerchiamo di arrivare alla verità mediante la finzione. E la finzione sarà di far parlare una di

loro. E perché la verità risulti meglio torchiata dalla finzione, immaginiamo una di queste Suore al

cospetto di Dio, per essere giudicata da Lui.

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Il giudizio naturalmente è brevissimo. Non occorre che Dio convochi la sua Corte. Non c’è

Camera di Consiglio dove stendere la sentenza. C’è una parola del Vangelo che rimpiazza ogni

giudizio e ogni sentenza: «Chi perde la propria vita per me la ritrova».

Giudizio, dunque, istantaneo, ma non per questo sbrigativo. Infatti, se nella maggior parte dei

casi la domanda che Dio rivolge a chi gli sta davanti per essere giudicato è: «Come hai potuto

arrivare a tanto?», e il giudicando si sentirà sprofondare a quella sola domanda, nella identica forma

è rivolta a questa «Poverella»: «Come hai potuto arrivare a tanto?».

«Del tutto naturalmente – risponde l’interpellata –. Mi è bastato superare quel grosso equivoco,

che laggiù è ancora assai radicato, a proposito del Terzo mondo. Mi perdoni il mio Signore se oso

parlare con molta libertà: ma mi pare che la mentalità dei nostri cristiani a riguardo del Terzo

mondo non sia molto diversa da quella che una volta vigeva a riguardo delle anime del Purgatorio

(che è anch’esso a suo modo un terzo mondo). Quelle anime si potevano sollevare dalla loro pena

con pochissimo sforzo. A volte si sentiva addirittura predicare che bastava una visita in chiesa con

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la recita di certe preghiere per liberare un’anima dal Purgatorio. Ma anche fuori di questo caso, era

normalissimo che la recita di una preghiera venisse, se così posso dire, sopravvalutata con una

indulgenza capace di ridurre la pena del Purgatorio fino alla compieta estinzione.

«Adesso queste pratiche non sono più... praticate, e anche pochissimo predicate. Ma la mentalità

che le sosteneva è passata pari pari al rapporto tra il Primo e il Terzo mondo. Il Primo mondo, ivi

compresi i cristiani, che ne formano il nerbo, si sono messi in mente, senza che peraltro nessuno lo

predicasse, che basta pochissimo per portare un enorme aiuto a queste popolazioni...».

A questo punto la Poverella, che aveva parlato sincero e franco, ma con gli occhi bassi come si

conveniva davanti a una tale presenza, osò alzare gli occhi per vedere quale effetto le sue parole

avessero prodotto sulla faccia del Signore, una faccia sensibilissima, variabilissima, cosa che la

suora aveva imparato leggendo (finalmente!) la Bibbia. Quanto più gli uomini di Chiesa insistevano

nel predicare l’immutabilità di Dio, la sua superiorità rispetto ad ogni mutamento, un sereno

immenso sopra la nuvolaglia tempestosa, tanto più la Bibbia insisteva nel presentare autoritratti di

Dio tra loro diversissimi e senza possibilità di discernere quali di essi rappresenti meglio il vero

volto di Dio. Ebbene, la faccia di Dio in quel momento non rimandava altro alla Poverella che una

impressione di grande curiosità di sapere. La suora prese quindi fiducia e continuò:

«A complicare le cose, a portarle all’esasperazione subentra poi la mentalità coloniale. Se non si

sapeva più bene dove fosse il Purgatorio, si sapeva benissimo per contro dove erano i territori

d’oltre mare, la cosiddetta “terza sponda”, dalla quale forse venne la definizione di Terzo mondo.

Mentalità perversa (perversa anche nel senso economico, sottolineò la suora, che aveva fatto i suoi

bravi corsi di aggiornamento) perché significava semplicemente questo: gli aiuti al Terzo mondo

dovevano essere

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sopravvalutati nella stessa proporzione in cui erano stati sottovalutati i prodotti del Terzo mondo,

quando s’era trattato di pagarli. In questa proporzione perversa i conti tornavano, e come

tornavano».

Ora lo sguardo del Signore sulla Poverella esprimeva anche una attesa, come se dicesse: «Non

hai ancora risposto alla mia domanda “Come sei arrivata a tanto?”». La suora ristette silenziosa. Le

pareva di aver già risposto quando aveva detto «Del tutto naturalmente».

Cosa doveva dire d’altro? Ebbene, sì, una cosa la poteva dire. Lei aveva considerato la gente del

posto, a cui prestava da infermiera le sue cure, uguale a se stessa. Ma la gente era lontanissima da

questa idea.

«Avevo voglia – disse – di protestare che siamo tutti figli di Dio, che Dio non fa preferenze di

persone. Ma l’uguaglianza che io predicavo, essi la prendevano come un regalo che io

graziosamente gli facevo. E non c’era verso di uscire da questo corto circuito. Il fatto è che io stessa

mi sentivo superiore a loro, e non serviva niente il darmi mille volte della stupida per questo

sentimento indegno di me, poverella.

«Davvero, non c’è come essere in Missione per sentire la propria superiorità, e pare non esserci

altra scelta che gestirla nel modo migliore possibile. Ho imparato a leggere così il Vangelo, e ho

capito che proprio questo fu il problema di Gesù, venuto ad abitare in questo mondo».

Dio continuava ad ascoltare con un sorriso lieve a fior di labbra. Lei riprese:

«Poi arrivò Ebola, e lui senza tante distinzioni tra Primo e Terzo mondo, senza consultare

documenti di identità, senza tener conto del colore della pelle, senza chiedere permesso, si installò

in alcune di noi, e tra esse ci fui anch’io.

«Fu l’illuminazione improvvisa, la scoperta: finalmente ero uguale a loro. Il virus aveva creato a

suo modo uguaglianza. La mia vita non fu sopravvalutata rispetto a qualsiasi altra vita. Diventai

finalmente quel che dall’inizio avevo voluto essere: una in-

PAGINA 242:

fermiera poverella. Mi fu perfino risparmiata una morte da santa con le consorelle al capezzale, i

ceri accesi... Forse non m’hanno amministrato nemmeno l’olio santo...29

».

Così dicendo, la Suora guardò al Signore. E sentì che diceva: «Qui non c’è altro olio che quello

dell’esultanza, della gioia».

E la Poverella entrò nella grande Porta (Abramo Levi, Parliamone, 1995).

Dove trovare gli ideali

Di fronte al sacrificio di queste suore provo un sentimento di disagio. Non per non avere imitato

il loro gesto sublime (eroi si nasce e io sono nato soltanto buon diavolo). Ma per tutte le quotidiane

29

Evidentemente don Abramo Levi non poteva essere informato che, in realtà, le sei Poverelle avevano avuto la

grazia dell’Unzione degli infermi. Ma il brano, stupendo, è frutto di fantasia e fitto di paradossi.

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futilità che mi irritano e mi distraggono. E per tutto ciò che non faccio a favore di chi non

pretenderebbe gesti eroici, ma si accontenterebbe di una briciola del mio altruismo.

Conosco brava gente che porta a spasso gli inabili in carrozzella, che inventa giochi per i ragazzi

down, che dedica un pomeriggio ai vecchietti del ricovero.

Non so se saprò rinunciare a qualche impegno per farlo anch’io. So però che la morte

consapevolmente affrontata dalle suore di Kikwit mi fa vergognare un po’ di più della mia inerzia.

Vorrei che si vergognassero un poco anche tutti quei ragazzi che mi scrivono denunciando

questa società senza ideali. Gli ideali non ce li danno gli altri. Se vogliamo trovarli, stanno dentro di

noi (Luca Goldoni, «TV Sorrisi e Canzoni», 11 giugno 1995).

Quelle che fanno funzionare il mondo

Le donne e gli uomini che, con le motivazioni più disparate, adottano uno stile di vita che

implica responsabilità e gratuità, so-

PAGINA 243:

no moltitudini e fanno funzionare il mondo. Le suore delle Poverelle di Bergamo, ad esempio... Non

amano che si parli di loro. Hanno scelto di vivere mescolate con le donne e gli uomini in condizioni

di bisogno... Hanno scelto, per statuto, di aiutare coloro di cui nessuno sembra volersi fare carico

(Albino Fascendini, consigliere comunale di Bergamo).

Quanto ingrata sei tu, morte...

Esse hanno saputo donare senza niente attendere in cambio. Che Dio accordi loro la sua pace per

questo amore profondo e disinteressato. Esse sono morte volendo salvare la vita degli altri.

Sfortunatamente, esse sono partite nell’aldilà senza essere riuscite a salvare le persone che erano

già infette, contaminate dal virus di Ebola. Quanto ingrata sei tu, morte.

...Quando si parte come queste religiose dopo aver fatto ciò che si doveva fare, ciò avviene senza

rimorsi. Ed è giusto rendere qui un vibrante omaggio a tutti quegli uomini e a quelle donne,

conosciuti o no, che sono venuti per aiutare gli Africani e hanno sempre dato il meglio di loro stessi

al nostro continente. Che Dio renda loro tutto ciò al centuplo e apra loro, dopo questo passaggio

terreno, le porte del Paradiso.

Da parte sua, l’Africa, sempre riconoscente, dice loro semplicemente: Grazie (Honorine Yaoua

Kouman, «Fraternité Matin»).

Quei quattro lumini rossi

Nella cappella le suore avevano messo in piedi, a modo loro, un piccolo «ricordo» delle quattro

sorelle scomparse. Vicino all’altare era acceso il grande cero pasquale. Ai piedi del cero, quattro

lumini rossi e un vaso di piccole rose, rosse anch’esse. Quella piccola scena così discreta, lasciava

uno straordinario struggimento. Tutto quel rosso richiamava, con una allusione drammatica e

discreta, il terribile scontro con Ebola dal quale le quattro sorelle, nel lontano Paese africano, erano

uscite sconfit-

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PAGINA 244:

te. E il rosso dei quattro lumini era il ricordo del sangue delle emorragie, delle febbri e della morte.

Dall’altra parte, il cero bianco e la sua fiamma, che troneggiava alto, al di sopra dei lumini e del

vaso di rose.

...Il grande cero bianco, grande e vittorioso, mi sembrava che fosse lì a rassicurare che quel

sangue sparso, quello dei quattro lumini messi lì ai suoi piedi, non era sangue sparso inutilmente.

Esiste tanto sangue, in questo tempo, tante immagini di morte e di violenza. Nessuno invece ha

«visto» il sangue delle quattro sorelle morte in un lontano Paese africano. Ma le loro sorelle rimaste

qui hanno sentito il dovere di far «vedere» quel sangue, di ricordarlo. Solo che hanno pensato di

farlo vedere già trasfigurato, cambiato: hanno composto la piccola scena dei lumini rossi, in chiesa,

per ricordare sommessamente il dramma lontano, e li hanno collocati ai piedi di quell’altro lume,

grande, bianco, simbolo del Signore della vita e della morte. Quando il sangue serve a ricordare che

una vita è stata donata, allora non si ha più paura di ricordarlo ma non c’è neppure bisogno di

immagini truculente. Basta un lumino rosso, accanto al grande cero bianco (Alberto Carrara,

«L’Eco di Bergamo», 20 maggio 1995).

Non hanno voluto essere delle eroine

In loro, si ricordano non soltanto quanti – e sono tantissimi – in questi anni hanno perduto la vita

a causa della violenza o delle malattie, ma anche coloro i quali seguitano a rendere testimonianza

della Parola del Vangelo tra i poveri e gli emarginati, della nostra come di altre società. Eppure

queste sei suore non sono mai state, né hanno voluto essere, delle «eroine». Più semplicemente,

anche di fronte al rischio della morte, hanno voluto rimanere fedeli sino all’ultimo alla loro scelta:

la scelta di servire gli altri (Articolo anonimo su «La nostra Domenica», 22 ottobre 1995).

PAGINA 245:

Esistono ancora persone…

C’è un aspetto in questa vicenda che deve scuotere provocatoriamente le coscienze di tutti:

esistono ancora persone che ritengono “normale” dare la propria vita per gli altri» (Gabriele

Filippini, «La voce del Popolo», Brescia, 2 giugno 1995).

Una morte da poveri

Ci sono delle morti in cui il silenzio che è dentro ogni morte sembra già diradarsi: certe morti

serene, piene di speranza, nonostante tutto. Ma ci sono delle morti in cui non si riesce a intravvedere

nulla.

Non sappiamo come suor Annelvira sia morta. Forse per lei il morire non è stata un’esperienza di

silenzio. Ma lo è comunque per coloro che restano e si interrogano...

...In una sua lettera conservata nell’archivio della Casa Madre di Bergamo, il Palazzolo,

rivolgendosi alle sue suore, dice: «Amiamo la santa povertà di Gesù, ma con quell’amore non di

sola ammirazione (questa costa poco), ma con amore di abbracciamento...».

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Curiosa, bellissima espressione: amare non dal di fuori, ammirando, ma immedesimandosi, come

si fa quando si abbraccia qualcuno.

Dove stia poi la santa povertà di Gesù per il Palazzolo non ci sono dubbi: «Servire a Dio in tutta

la vita, patire, per lui, lavorare per lui, salvare le anime a lui, e poi morire, anche in una stalla,

ignorati dal mondo, e sotterrati senza alcuna pompa».

Non so se potremo vedere immagini dei funerali di suor Annelvira, ma si può essere certi che si

sarà ripetuta la scena: gente con la maschera che trasporta la bara, senza quella forma elementare di

carità che è la «compagnia» del funerale, tutti tenuti a distanza per la paura del contagio.

Che stranezza quell’«amore di abbracciamento»! Parlare di abbracci in una solitudine così nera.

Eppure la fede è il tentativo di guardare oltre e di vedere qual-

PAGINA 246:

cuno dove non si vede nessuno (Alberto Carrara, «L’Eco di Bergamo», 26 maggio 1995).

Più facile vivere o morire?

Suor Floralba Rondi, suor Clarangela Ghilardi, suor Danielangela Sorti, suor Dinarosa Belleri,

suor Annelvira Ossoli, suor Vitarosa Zorza...

Sembrerebbe un bollettino di guerra. Invece è un’appendice delle litanie dei Santi. Sei rose del

martirio colte dal Signore nel giardino delle suore, fondate, nel 1869, da un santo sacerdote

bergamasco...

Della loro morte oggi tutti parlano; della loro vita pochissimi prima se ne sono accorti. Eppure la

spiegazione della loro morte la si può trovare solo nelle pagine della loro vita...

...Ciò che, per tanti, non ha saputo dire la loro vita, lo ha rivelato, in questi giorni, la loro morte...

...Le consorelle di tutte le case, durante la loro brevissima malattia, hanno pregato il loro Beato

Fondatore perché le guarisse. Il Signore ha fatto ancora di più: le ha incoronate! E ha scritto il loro

nome nel libro delle martiri della carità (Giuseppe Rinaldi, «La nostra Domenica», 11 giugno

1995).

Ci interpellano sull’alfabeto dei valori

Quella tragica vicenda ha messo in allerta il mondo intero, ha mostrato il volto ambivalente della

nostra società: da un lato le sue straordinarie possibilità tecnico-scientifiche e dall’altra le sue

contraddizioni. Forse Ebola non è un nome a caso: è cifra-simbolo di questa società che cerca e

alimenta la vita come il piccolo fiume zairese e al tempo stesso custodisce e alimenta il virus che

porta la morte. L’Ebola ha messo paura all’Occidente: ha smascherato la sua presunta sicurezza. Il

tabù della morte per un attimo è rientrato dalla porta dopo essere stato buttato dalla finestra. Forse

c’è qualcosa da ripensare nel nostro rapporto con il nascere e il morire.

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PAGINA 247:

Le suore martiri di carità a Kikwit e quanti hanno perso la vita in Zaire a causa dell’Ebola sono

per l’Occidente ricco e pieno di grandi opportunità una salutare provocazione. Ci interpellano

sull’alfabeto dei valori che costellano il nostro universo; ci spingono a controllare accuratamente se

la nostra mentalità sia ormai omologata a quella corrente e a verificare se i parametri di

comportamento siano dettati dal calcolo e se a decidere le nostre scelte sia l’indice del listino di

borsa; ci obbligano a tenere sotto osservazione il nostro cuore e la nostra mente perché non si

robotizzino, divenendo incapaci della tenerezza del samaritano...

...Non basta il battito d’ala di qualche emozione per poi cadere pesantemente a terra accettando

l’ineluttabilità degli eventi. Al contrario, si esige fatica, continuità e tenacia di lavoro per e con

l’uomo: una fatica che sarà pesante e insieme leggera perché sostenuta da «Colui che fa nuove tutte

le cose» (Arturo Bellini, «L’Angelo in Famiglia» ).

Sono spuntate nuove stelle

La retorica è in agguato, le parole risuonano ma non penetrano. Con la sola fede, di chi parla e di

chi ascolta, si possono solo sussurrare alcune cose: loro, le Poverelle, ci chiedono di fare così, come

avrebbero fatto loro. Ci provo: «Parenti e sorelle, ascoltate: gli stipiti delle vostre porte si sono tinti

di rosso; è il sangue delle nuove “agnelle” che, in un mondo di guerre, ricordano che è vivo

l’amore! Si spengano, per pietà, le luci artificiali dei palcoscenici del fatuo e dell’effimero; sono

sorte nuove stelle nel cielo di Kikwit. Più belle e fascinose» (Antonio Bellasio, «Alba», 16-23

giugno 1995).

E poi le chiamano «teste fasciate»...

In una città africana di cui ignoravamo perfino l’esistenza e trasformata in lazzaretto da una

nuova peste che irride alla potenza delle nostre armate antibiotiche, ci sono queste «cap’e pezza»

PAGINA 248:

(come sono a volte chiamate le monache). E non ne sapeva niente nessuno. Perché avremmo dovuto

saperlo? Lo scopriamo perché quella città diventa regno di morte e chi può ne fugge; giustificato

dalla logica: «Tanto, contro l’Ebola non c’è niente da fare. Si può solo sperare che se ne vada com’è

venuto». E allora perché rischiare di contribuire, con la propria, ad innalzare il conto delle vite

perse.

Ma queste Poverelle di Bergamo... non sanno ragionare, non hanno logica. Restano lì, perché

non è vero che non c’è niente da fare e per gl’intoccabili infetti che muoiono, un’ultima carezza,

una parola di conforto e il sussurro d’una speranza di mondo migliore altrove, possono essere il

dono più grande a chiusura d’una vita che non ha dato loro niente.

Hanno paura le suore? Spero di sì, perché è umano averla e perché il loro eroismo sarebbe meno

grande senza la coscienza di quel che costa. Ma se ne hanno, non ne mostrano: non fuggono (Pino

Aprile, «Oggi», n.17, 1995).

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Poverelle senza paura

Il «grido» delle Suore Poverelle ci sta scuotendo, oltre la loro stessa morte.

«Suore delle Poverelle»: così, nella seconda metà del secolo scorso, il beato Luigi Palazzolo ha

voluto che si chiamassero quante erano disposte ad entrare nella congregazione da lui fondata.

«Delle Poverelle», per indicare la radicalità di una scelta specificando il senso della proposta:

appartenere soltanto a quante sono rese povere e senza speranza, condividendone la miseria.

Con il passare del tempo, la forza del loro esempio ha fatto però cadere il «delle»: sono così

diventate, semplicemente, le Poverelle di Bergamo, senza più bisogno di spiegare o distinguere.

Oggi sono più di mille suore, operano nella realtà di emarginazione del nord Italia e sono

presenti in diversi Paesi del Sud del mondo. Non è cambiata, però, la loro attenzione verso gli ultimi

e non è nemmeno venuta meno la loro presenza in scuole, ospedali, dispensari e lebbrosari, dove la

vita umana si presenta debole, malata e calpestata...

PAGINA 249:

...Suor Floralba ha scelto di non «scappare», di continuare il servizio... Ha condiviso fino in

fondo una situazione disperata e il suo gesto, come quello delle consorelle, si carica di un altissimo

significato. È testimonianza di radicamento e fedeltà a realtà consapevolmente scelte e diventate,

ormai, parte integrante della propria vita. È coraggio, dedizione, sacrificio, disponibilità ad essere

«poveri tra i poveri». Ma è anche denuncia, provocazione e «grido», perché alla miseria sempre più

grande di un Sud del mondo, il Nord sappia rispondere con parole e presenze credibili, vere...

...In una terra in cui il Nord spesso si reca per sfruttare o per conquistare, è necessario ed urgente

che qualcuno «gridi» il bisogno di giustizia e il rispetto per la dignità e la cultura che proviene da

quel popolo.

In un momento in cui tutti vorrebbero difendersi da un virus micidiale e dove sono davvero

pochi gli aiuti concreti che arrivano a chi dalla malattia è colpito, è davvero prezioso che qualcuno

«gridi» l’importanza del non abbandonare chi è già schiacciato e reso ulteriormente debole da un

virus, così come da molti altri fattori. Perché in Africa non si muore solo per il virus Ebola, ma

anche per malnutrizione, per dissenteria, per tifo, per tubercolosi, per l’Aids, per l’indifferenza.

È autentico servizio allora che qualcuno «gridi» con la vita che il vero killer dell’umanità è la

miseria generata e favorita da politiche miopi ed egoiste, dalla corruzione che troppo spesso rende

complici banche e multinazionali del Nord del mondo con spregiudicati governanti di Paesi che

proprio per questo continuano a restare «sottosviluppati».

Sono dati che in teoria, ma anche in pratica, erano già in nostro possesso. Spesso però sono

volutamente dimenticati o taciuti nell’ingenuo egoismo che basti allontanare la povertà dal proprio

habitat per risolvere il problema oppure che basti delegare qualcuno – le suore Poverelle di

Bergamo – ad occuparsi di chi è più calpestato, per avere la coscienza a posto. Quanto sta

accadendo ci dice che non basta.

Il loro «grido», la loro testimonianza e l’impegno di tantissimi altri, vanno al di là di ogni

possibile parola. Ci testimoniano, al ca-

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PAGINA 250:

ro prezzo della vita, che alla tragedia di qualsiasi virus o malattia infettiva non basta la sola risposta

della scienza. Questa resta indispensabile, ma ad essa deve affiancarsi quella fame e sete di giustizia

che da sempre il Vangelo ci ricorda e che queste missionarie ci ripropongono con la semplicità

(profonda) dell’essere operatori di pace e di speranza (Luigi Ciotti, «Avvenire», 25 maggio 1995).

Una parola dal silenzio della morte

Seguendo Cristo crocefisso «ignudo» (secondo l’espressione del Palazzolo), cioè spogliato di

tutto per essere spazio aperto ai disegni del Padre e alle necessità dei fratelli, hanno condiviso la

povertà dei fratelli zairesi fino alla debolezza disarmata di fronte alla morte. Senza strepito, nel

silenzio del servizio quotidiano, hanno rivelato e donato l’amore silenzioso e tenero del Crocefisso.

Hanno dato voce ad una porzione di umanità dimenticata dalla nostra indifferenza e dall’ingordigia

prepotente di chi da molti anni li sta sfruttando.

Dipende da noi non lasciar cadere questa parola che, dal silenzio di una morte accettata per

amore di tanti fratelli emarginati, ci rivela l’amore di «Colui che ci ama sino alla fine» e grida la

domanda sofferta di tanti fratelli (mons. Roberto Amadei, Vescovo di Bergamo).

Le ragioni della speranza

La solidarietà di tanti ci ha aiutato e ci aiuta a intravvedere in questo «Venerdì santo» uno dei

momenti più ricchi e fecondi della nostra Famiglia religiosa: le nostre Sorelle decedute a Kikwit,

dando la vita per amore, hanno offerto a tutti le ragioni della speranza cristiana (Suor Gesuelda

Paltenghi, Superiora Generale delle Suore delle Poverelle).

PAGINA 251:

SE TORNERÀ

PAGINA 253:

PRONTE A SVENTOLARE LA LORO BANDIERA

Richard Preston, a conclusione del suo libro sconvolgente, racconta di essere tornato, un giorno

d’autunno, nella famigerata casa delle scimmie a Reston:

«L’intrico dei rampicanti non mi permise di vedere fin nell’ex zona calda. Era come guardare

attraverso i viluppi di foglie e rami della foresta pluviale. Mi spostai sull’altro lato e trovai una

seconda porta contornata da pezzi di nastro. Premetti il viso contro il vetro, schermandomi gli occhi

con le mani per escludere i riflessi, e vidi un secchio incrostato di qualcosa di marrone. Sembravano

escrementi di scimmia secchi. Qualunque cosa fosse, pensai, era certo stata disinfettata col Clorox.

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Un ragno aveva tessuto la sua tela tra una parete e il secchio e per terra, sotto la ragnatela, erano

visibili carcasse di mosche e vespe. Si era in autunno e il ragno doveva aver già deposto le uova,

preparandosi così a concludere il suo ciclo riproduttivo. La vita era tornata a imperare nella casa

delle scimmie. Ebola era comparso in quelle stanze, aveva sventolato i suoi stendardi, si era cibato e

quindi si era nuovamente ritirato nella foresta. Tornerà».

Quanto a loro, sono già tornate. Anzi, non sono mai partite.

Hanno ricominciato a tessere la loro delicata tela di misericordia e tenerezza per «avvolgervi» i

poveri e i sofferenti di quel Paese.

La loro casa non è mai rimasta vuota, e la bandiera dell’amore gratuito non è mai stata

ammainata.

Se tornerà il mostro, non c’è dubbio che loro ci saranno. E lo affronteranno, disarmate, avendo in

corpo quell’altro virus contratto leggendo le pagine di un Libro vecchio di duemila anni.

Se, invece, Ebola se ne rimarrà nella foresta, tanto meglio. Alle Poverelle, comunque, non

mancherà il lavoro. Con tutti i mostri

PAGINA 254:

che continuano a devastare i tanti Zaire del mondo, e la disumanità che guadagna territori sempre

più vasti, loro si ostinano a presidiare le innumerevoli «zone calde», continuando a darsi da fare per

«avvolgere» tante, troppe miserie. E magari – compito ancora più difficile – svegliare tanti, troppi

cristiani...

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PAGINA 255:

INDICE

PRESENTAZIONE 7

AVVERTENZE PRIMA E DOPO L’USO 9

È tutta colpa di un altro virus 11

La salvezza sta nel contagio 13

DOVE 17

Zaire, gigante africano coi piedi di argilla 21

CHE COSA 33

Il virus che esce dalla foresta 35

Ebola a Kikwit 50

In casa delle Poverelle 63

Per una volta la colpa non è dei giornali… 85

Un po’ di gloria anche da quaggiù 91

CHI 93

Suor Floralba, quella che voleva attraversare il mare 95

Suor Clarangela, quella che arrivava fischiettando 103

Suor Danielangela, quella col ciuffo ribelle 110

Suor Dinarosa, quella che pedalava in salita 123

Suor Annelvira, quella che coltivava i punti esclamativi 131

Suor Vitarosa, quella che andava dai «non raggiunti» 141

Ritratto di famiglia 150

I COLPEVOLI 177

Le hanno messe su una cattiva strada 179

Don Luigi Palazzolo, il prete che va a cercare i «rifiuti» 181

Teresa Gabrieli, il diritto di chiamarsi Madre 211

HANNO DETTO E SCRITTO DI LORO 237

Come han potuto arrivare a tanto? 239

SE TORNERÀ… 251

Pronte a sventolare la loro bandiera 253