un limoncello all'inferno (quinta stazione)

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Quel 27 gennaio mio papà mi ha liberata dalle zavorre della nostalgia; mi ha permesso di accettare la mia identità composta da due anime, da due culture, da due patrie: non potrei consistere senza una delle due. Storia di un reduce dai campi di sterminio nazisti, fra i molti che racchiude, è questo forse il messaggio conclusivo del libro memoria-romanzo di Centonze. Quello che condensa i caratteri del suo animo esuberante e mette in luce il legame profondo con il padre. Legame che non è banale attaccamento al genitore preferito, ma elogio della paternità – il senso acuto della responsabilità sopravvissuto in uomo pur così ferito e segnato da una esperienza atroce - e della maternità. Perché Cosetta (colei che scrive in prima persona) l’ha preso veramente per mano, come quei bambini che si sono persi in un contesto non più familiare, e che il sentimento materno spinge a raccogliere per “riportare a casa”. Rapporto unico ed esemplare sul quale fiorisce come sentimento maturo il perdono di Lui ai suoi aguzzini e la sapiente - sperimentata sulla sua carne - fraternità di Lei.

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n occasioni delle festività erano invitati Giorgio e sua madre, cognata di zia Renata.

Alcune volte Giorgio si presentava con la sua innamorata che, però, non era più Lidia, la brunetta con cui l'avevo visto sulla rotonda. La prima volta quell'invito mi scombussolò non

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tanto per la vista di Giorgio, ma perché temevo che succedesse un altro quarantotto come il giorno del battesimo. Io impallidivo e arrossivo per l'ansia e quei segni furono notati cosicché le zie si convinsero che ero sempre innamorata di Giorgio. Benché ciò mi seccasse, preferivo attirare la loro attenzione su di me, purché non ti schernissero per via del viaggio in Germania. Ma erano passati dieci anni e nessuno mostrò di ricordare più le minacce e le promesse apocalittiche di quel pomeriggio. Anzi fu proprio Giorgio ad interessarsi alle novità della viabilità, del doppio binario, dell'orario e tu potesti avere una volta tanto un interlocutore giacché le zie non intervenivano in quei discorsi da uomini. Tra le altre cose Giorgio disse: "Per me, con tutte le macchine che ci saranno in giro, le ferrovie scompariranno. Sai, zia Renata, ho in progetto proprio l'acquisto di un'automobile." L'annuncio suscitò scalpore e ammirazione tra le zie che si sbracciarono ad esaltare quella testa quadrata di Giorgino. Giorgio acquistò la macchina e venne a farsela benedire da don Antonio sotto casa. Volle chiamare l'auto Fernanda come la sua nuova ragazza. Zia Renata osservò: "Si vede che è una cosa seria: io dico che

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questa se la sposa." E mi guardò con un sorrisetto. Io arrossii per il dispetto che mi procurava l'idea che i miei familiari fossero convinti di sapere tutto della mia vita sentimentale; il mio rossore, però, non fece che confermarli in quella idea. L 'acquisto dell'automobile da parte di Giorgio suscitò anche nelle zie il bisogno di averne una: Zia Renata: "Oggi come oggi una famiglia non può farne a meno." Zia Estrella: "Smetteremmo di tornare dalla spesa cariche come muli." E ti guardavano: "Tu, Palmiro, non prenderesti la patente? Ad acquistare l'automobile provvediamo noi..." "Io? Con i miei orari non posso promettere niente... e poi grazie al mio lavoro giro tanto in lungo e in largo tutta la provincia che dopo ho bisogno di starmene tranquillo." La faccenda restò sospesa tra i sospiri delle zie. Io ti guardavo andare via inforcando con grande energia la tua vecchia bicicletta e pedalavi, pedalavi come volando libero. Di lì a poco riportasti un tuo trionfo, grazie ad una vincita che ti permise di acquistare un televisore. Tutti i locali di elettrodomestici ne esponevano ed io facevo in modo di uscire con Miranda per

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fermarmi a guardare la tv dei ragazzi attraverso la vetrina. Nei locali, come bar e sale cinematografiche, si raccoglieva la gente di fronte all'apparecchio televisivo. Con quell’acquisto noi anticipammo e sorprendemmo gli amici. Ora nella casa delle zie arrivavano parenti e conoscenti per assistere agli spettacoli televisivi. A te interessava poter seguire solo gli avvenimenti sportivi e ti mostravi generoso lasciando l'apparecchio per il resto del tempo agli altri. Zia Renata dovette ammettere che, almeno, la televisione non presentava i rischi dell'automobile e fece mille raccomandazioni a Giorgino. Comunque toccò proprio a lei la malasorte: ebbe un "colpo" che le lasciò la parte sinistra un po' offesa. Gli impegni di mia madre divennero ancora più gravosi perché dovette assisterla. Zia Estrella era andata in pensione dal suo lavoro di modista, ma non si sentiva portata ai sacrifici familiari e decise che a lei sarebbe toccato il compito di portare Miranda in giro nelle varie stazioni termali per curare la sua asma. Ogni estate zia Estrella partiva con Miranda e ci mandavano delle bellissime cartoline.

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Il mese di ferie per te divenne una vera tortura anche perché coincideva con la sospensione del campionato di calcio. Avrei voluto che la nostra scacchiera rispuntasse: io avrei finto di non saper giocare a dama e tu mi avresti insegnato. Io continuavo a rinserrarmi tra le mie letture mentre tu eri alle prese con le parole crociate. Per via di quel nuovo passatempo la casa riecheggiava delle domande che mi rivolgevi: "Uno orizzontale, Cosetta: l'eroe della saga dei Nibelunghi." "Sigfrido." "Otto verticale, Cosetta ascolta: il volatile oggetto di ricerca di un famoso romanzo." "L'uccello azzurro." "Il paladino celebrato per la sua pazzia." "Orlando." "Ehi sei proprio brava! Le hai imparate a scuola tutte queste cose?" "Ho letto tanti libri da quando ho iniziato a leggere, non solo quelli di scuola. Non ti ricordi che in prima elementare mi regalasti tutte le serie della Scala d'oro?" "Senti questa: cittadina italiana la cui cattedrale è celebre per il mosaico. A questa sappiamo rispondere tutti e due." - Otranto- dicemmo all’unisono. E subito il pensiero corse a padre Pantaleo, alla sua conversazione dotta e pia; al consiglio che ti aveva dato.

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Io mi ero avvicinata alle tue spalle per sbirciare l'enigmistica e vidi ancora una volta linee nere che si incrociavano come tanti anni prima sulla scacchiera e dopo sui tuoi quaderni del lotto. "Senti quest'altra e, se rispondi esattamente, ci andiamo a comprare un gelato: famoso scultore del neoclassicismo nato a Possagno. Be'? " "Canova." Ti accorgesti che ti ero alle spalle: "Allora andiamo a comprare il gelato. Tu leggi di meno, però, e divertiti di più. Uscimmo alla ricerca di un bar aperto o del carrettino dei gelati. Erano le primissime ore del pomeriggio d'agosto e tutta la calura spadroneggiava nella città deserta incalzando ogni sbavatura d'ombra: non c'erano locali aperti né il gelataio ambulante. La pietra ocra, in cui erano stati costruiti chiese e palazzi barocchi, esalava un fiato arroventato come fosse stato il respiro stesso di quegli esseri grifagni che reggevano le colonne tortili. Cosicché mi sembrò che la città, nell'abbandono estivo, fosse più minacciosa che in piena notte. Ma tu allontanasti le mie fantasie dicendomi con un’espressione furba : "Non immagini dove andiamo." L'emporio di donna Rirì aveva la saracinesca abbassata a metà e sapevamo che la nostra amica d’estate si limitava a ritirarsi nel

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retrobottega dove aveva una brandina. Tu insistesti a bussare finché la signora del citrato non venne ad aprirci. "Tarde non furono mai grazie divine!" Ci accolse così con una di quelle citazioni dotte che chissà da dove attingeva. "E' questo il momento di venire a fare visita, finalmente, ad una vecchia vicina? Ne avete avuto di faccia tosta!" Tu non parlavi ed eri un po' imbarazzato, così ti venni in soccorso: "Anche voi, donna Rirì, non vi siete fatta viva e avevate promesso..." "Ma figlia mia, non vedi come mi sono fatta vecchia e succhiata come un confetto? Magra fino alla vita e gonfia dalla vita in giù. Cosa sarà poi? Non mi pare un buon segno. Ma ditemi, ditemi di voi e delle altre. " "Donna Rirì, se aspettiamo ancora un po' Cosetta dimenticherà il sapore delle vostre grattate. Ce ne volete preparare due, per favore?" "Ah le mie grattate sono fuori moda oramai, ma ho del ghiaccio e il vecchio arnese: farò in un momento." Tirò fuori dalla ghiacciaia un grosso blocco di ghiaccio e lo grattò con un utensile finché non si formarono dei bioccoli bianchi. Ne mise in tre bicchieri e versò lo sciroppo di amarene. Tutti e tre ci accomodammo dove potemmo e

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gustammo in silenzio per un tempo lunghissimo quel refrigerio. La padrona del citrato, però, non poteva tacere a lungo: "Che peccato! -disse rivolta a te- Che peccato! Mi stringe il cuore vedere la vostra casa sprangata; mi sembra che l'anima di tua mamma Cosetta ci sospiri anche lei." Mio padre si strinse nelle spalle. "Lo so -continuò la commerciante- che ci vorrebbe una bella somma per rimetterla a nuovo: innanzi tutto occorrerebbe una disinfestazione per via dei topi; e poi l'allacciamento alla fognatura per non utilizzare più il pozzo nero; e poi le tubature e il pavimento completamente rifatto. Tanti soldi sì, ma ne verrebbe fuori un quartierino come si deve. Ci pensate: il cortiletto esterno con tutta una cimasa di ibisco e buganvillea. Quello interno dissodato e tenuto ad aranci e limoni." Noi due, alle parole della nostra amica, vedevamo i fiori e sentivamo il profumo degli agrumi. Tu ti difendesti dicendo: "Ma c'è la parietaria che procura allergia alla piccola. "Eh cosa sarà mai? Non se ne sono mai strappate erbacce a questo mondo! Ci sono preparati chimici che farebbero

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scomparire la parietaria." "E l'umido?" Insistesti facendo la parte dell'avvocato del diavolo. "Per l’umido si mettono i termosifoni e si fanno asciugare gli ambienti come un bucato al sole." Donna Rirì non si arrese al punto che nell'andare via ci sentimmo colpevoli di fronte alla porta sprangata della nostra vecchia abitazione, tanto più che la donna aggiunse alle nostre spalle: "Le case, se non sono abitate, marciscono!" Prendemmo la strada del ritorno e per un po' ce ne rimanemmo in silenzio; poi dicesti: "Donna Rirì ha ragione: non si lasciano marcire così le case dei genitori. Ti fermasti come colpito da un'idea: "Cosetta, ti ricordi cosa mi ha detto padre Pantaleo?" "Ti ha parlato di debiti...mi pare..." "Ma io non ho capito cosa fossero questi debiti. E' vero che in passato ho avuto delle sommette da restituire alle mie cognate, ma da quando abitiamo insieme e i conti vengono divisi meticolosamente da tua madre, debiti non ne ho contratto. E così mi lambiccavo il cervello per capire a che cosa don Pantaleo si riferisse. Adesso è chiaro che il debito di cui parlava il prete di Otranto era proprio quello che ho nei confronti dei miei genitori che mi lasciarono la casa e io ho permesso che andasse in rovina."

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Apparivi sollevato come quando risolvevi i giochi di enigmistica. "E' un debito che ho con loro e con voi! Vedrai come ci farà bene tornare a vivere noi quattro soli in una casa nostra, rimessa a nuovo! Non potranno trovare niente da ridire, né appellarsi alla salute di Miranda. Mi dispiaceva proprio che tua sorella crescesse senza conoscere donna Rirì e la sua bottega! Basta con le vincite meschine: occorre un colpo grosso!" "Papà ti prego, impegnati di più con il sistema: vedrai che ce la farai." Dovesti rimuginare su questo nuovo progetto per tutta la strada perché come altre volte mi camminavi davanti come se io non ci fossi, fumando una sigaretta dopo l'altra. Io, intanto, sognavo la nostra casa restaurata proprio secondo i suggerimenti di donna Rirì. Ma riflettevo anche sull'aspetto della mia amica che non era affatto sano. Pensai malinconicamente al citrato con cui aveva curato per anni noi bambini, ma, oramai, ero troppo grande per credere che il citrato fosse sufficiente a guarire anche il suo malanno. Tu ti rimettesti con più foga a giocare per il nuovo scopo. Con il passare dei mesi ci giungevano spesso notizie preoccupanti riguardo alla salute di donna Rirì.

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Tu avesti una nuova tornata di fortuna che ti confermava che avevi visto chiaro individuando il debito che avevi da saldare; mettevi via le somme delle vincite che sarebbero servite per il restauro della casa. Avesti proprio un buon tempo: da una parte un lavoro che ti piaceva perché ti consentiva di stare tanto fuori dalla casa in cui ti sentivi ospite; dall'altra la gratificazione delle vincite; anche se quella straordinaria che cambiava la vita, da così a così, si faceva aspettare. Ma tu eri soddisfatto perché si era fatto chiaro in te e mi dicevi che eri stato uno sciocco a non capirlo prima e che padre Pantaleo era un grand’ uomo e che un giorno o l'altro saremmo tornati ad Otranto per fargli visita e per ringraziarlo. Non ci fu tempo né modo di tornarvi. Nel giro di un anno la malattia di donna Rirì si manifestò in tutta la sua gravità. Infine la nostra amica fu ricoverata in ospedale: mamma andò a trovarla più volte e al suo ritorno scoteva la testa senza dire niente. Mi baciava quasi per consolarmi già della perdita imminente. Io ripensavo con rimorso a quanto era accaduto al povero Porfirio. Ti guardavo per parlartene, ma poi ricordavo che quello era l'unico segreto che non condividevo con te, ma con mamma. Mi ritornava in mente la passeggiata di quel

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pomeriggio, il motivo per cui scacciavo di casa il pappagallo e la sua fine violenta. Quando donna Rirì morì tu volesti mandare dei fiori e partecipare al suo funerale e, benché fossero atti di normale gentilezza, essi provocarono un putiferio in famiglia. Il caso volle, infatti, che il giorno del funerale della signora del citrato coincidesse con quello del matrimonio di Giorgino. Il funerale avrebbe preceduto solo di un'oretta, se pure in un'altra chiesa, il matrimonio. Eh sì: il mio innamorato di un pomeriggio metteva su famiglia. Era stato anche molto compito mandando due partecipazioni: una per le zie ed una indirizzata a te. La sera precedente si discusse a lungo, giacché zia Estrella e Zia Renata, che al matrimonio non voleva rinunciare benché trascinasse oramai tutta una metà del corpo e usasse come bastone mia madre, erano quasi isteriche per via della nostra decisione. Tu, invece, una volta tanto non ti facesti guidare dalla rabbia: la bontà della causa che difendevi ti rendeva fermo e pacato. Poche parole che disorientavano le zie. Io tentai una mediazione: "Verremo appena finito." Ma l'idea sembrò pessima. Zia Renata: "No, non sta bene. Mi sembra di cattivo augurio

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per Giorgino." Zia Estrella: "Con il tanfo della morte ancora addosso!" Tu ribattesti: "Guarda che ci cambieremo d'abito." Zia Estrella si sentì presa in giro e alzò la voce: "Chi volete che se ne accorga se non andate al funerale: per quei quattro parenti che aveva la vecchia." Tu solennemente: "Lo saprà donna Rirì, in ogni caso." Zia Estrella esasperata: "Ma che donna Rirì e donna Rirì: Amalia Turrini si chiamava e non era un gran personaggio. Vi ha forse fatto del bene? Vi ha prestato denaro o altro?" Di nuovo presi la parola io: "Per noi era una grande amica, più grande di certe persone che prestano denaro." "Ha parlato tuttasuopadre!" "Donna Rirì- disse timidamente Prisca- capirà certamente che abbiamo dei buoni motivi per non andare al suo funerale." "Sono sicuro che lo capirà - intervenisti tu tranquillo come non mai- perché era una donna intelligente e piena di umanità. E per questo dobbiamo renderle omaggio. Tanti anni fa, fu grazie a lei che potesti goderti la vita per un po'. " Mamma arrossì al tuo rimprovero che aveva tante valenze.

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Le sue sorelle non capirono e andarono avanti a discutere. Tu fosti irremovibile e diventasti addirittura sfacciato abbozzando una ribellione ironica: "Ascoltate, per farvi contente non vi raggiungeremo nemmeno quando il funerale sarà finito. Va bene? Così non potrete dire che abbiamo arrecato qualche ombra di tristezza sulla gioia di Giorgio. Avete ragione voi: sarebbe fuori luogo far seguire ad un funerale un matrimonio." Zia Estrella vedendoti irremovibile si prese la rivincita con una malignità: "Sai, Palmiro, Giorgio e la sposa andranno in viaggio di nozze a Capri." Tu la guardasti per quella strana uscita e lei continuò: "Veramente la sposa insisteva a voler visitare i castelli sul Reno, ma Giorgio le ha detto che in Germania, prima o poi, ce li porterai tu." Facesti una smorfia e per un attimo ti piegasti su te stesso come se avessi ricevuto un pugno. Tuttavia ti riprendesti presto; andasti in camera e ne uscisti vestito come il giorno del funerale di zia Estrella. Così ancora una volta la famiglia era divisa: da una parte noi con il cuore acciaccato per via della perdita della nostra amica; dall'altra mamma che, dopo essersi presa cura di zia Renata, indossava il suo bell'abito blu a pois bianchi.

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Zia Estrella, a muso duro, faceva vestire Miranda elegantemente e poi sceglieva uno dei suoi famosi cappelli. Noi due ce ne andammo verso la chiesa del nostro rione per il funerale di Amalia Turrini. Alla cerimonia parteciparono molte più persone di quello che pensassimo. Feci un esame di coscienza e ammisi che vi erano altri motivi che ci spingeva lì, oltre il rendere omaggio alla defunta padrona del citrato; per te non condividere una giornata di gala con le tue cognate e per me, forse, un attimo di rimpianto dovendo liquidare il mio amore di un pomeriggio, un pomeriggio di dieci anni prima oramai. Dopo il funerale e i saluti ai parenti della morta in quello scartare, chi a destra chi a sinistra, e un rimandarsi ad occasioni più liete, ci ritrovammo soli. Mi ripetevo che mi ero recata al funerale di Amalia Turrini e che donna Rirì era ancora nel suo emporio a fare grattate. La giornata non era né carne né pesce: ora sembrava che le folate di vento fossero in grado di spazzare via il grigiore e, ora certe nuvole sottili si allungavano da scirocco fino a velare il cielo. Noi due provavamo un certo imbarazzo a ritornarcene a casa, la casa delle zie a cui avevamo osato disobbedire, e decidemmo, tacitamente, che oramai che c'eravamo

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potevamo andare fino in fondo. Mi portasti un po' fuori città dove aveva sede la società di bocciofili che frequentavi. Anche questo era una cosa che non avevi mai detto in famiglia. Al campo da bocce erano annessi dei locali e una piccola trattoria per gli iscritti. I ristoratori curavano un numero limitato di piatti e rigorosamente tradizionali. Così mangiammo un baccalà gustoso con un contorno di cavoli fritti in pastella. Ogni giocatore che arrivava, man mano che il pomeriggio avanzava, ti faceva festa: tutti ti mostravano una cordialità che ti dava una piacevole disinvoltura come mai ti accadeva in famiglia. Dopo il pranzo e le chiacchiere ti mettesti a giocare. Io un po' seguivo, ammirando la tua bravura, un po' pensavo ai fatti miei: per esempio all'esame di maturità, che mi attendeva a breve, e al mio futuro. Molti dei miei compagni di classe parlavano già, con qualche supponenza, delle università lontane che avrebbero frequentato e delle città in cui si sarebbero trasferiti: Roma, Torino, Padova, Pisa, Bologna. Alcuni si sarebbero iscritti a Bari. Io sarei stata l'unica a rimanere in sede. E anche così cominciavo a pensare che i costi sarebbero stati alti per te e avremmo dovuto

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dare l'addio alla ristrutturazione della nostra casa. Fu quel giorno che decisi che all'università non ci sarei andata. Pensavo tra me: "Il prossimo anno mi diplomerò maestra presentandomi da privatista. Appena sarà bandito il concorso magistrale parteciperò. Lo vincerò e comincerò a lavorare. In poco tempo avremo i soldi per risistemare la vecchia casa e tornarcene lì." Ero molto contenta del mio progetto come la donnetta che va al mercato a vendere la sua ricottina. Passai bene gli esami di maturità classica e lasciai che trascorressimo un'estate tranquilla prima di rivelare le mie intenzioni. Quando lo dissi, una domenica a pranzo -ed era sempre a tavola che avvenivano le grande spiegazioni e le grande litigate- ci fu silenzio. Solo Miranda chiese: "Che cos'è l'università?" Mia madre spiegò con un sospiro: "E' una scuola per ragazzi grandi." Estrella: "E' una scuola molto difficile dove va solo chi è veramente intelligente." Miranda: "E Cosetta non è veramente intelligente?" Mamma:

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"Chiedilo a lei, cocca mia." Estrella: "E' una scuola per gente che vuole studiare sodo. E le signorine, si sa, sono distratte da qualche innamorato segreto." Miranda: "E Cosetta ha un innamorato segreto?" "No." Mi precipitai a rispondere in modo che tutte mi guardarono con mezzi sorrisetti pensando a Giorgio. Solo mamma mi guardò e pensò a qualcun altro. Finalmente parlasti tu: "Insomma si sa che dal liceo classico è obbligatorio andare all'Università. Che novità ti salta in mente? Quando facciamo insieme le parole crociate sei sempre pronta a rispondere! Non ho mai visto una ragazza della tua età che ama leggere e studiare più che andare a spasso." Io, benché mi sentissi mortificata, ostentavo sicurezza e non rispondevo a tutte quelle obiezioni. Insistesti: "E si può sapere il motivo?" Io parlai un po' a casaccio adducendo che non c'era nessuna facoltà, tra quelle che potevo frequentare a Lecce, che mi interessasse veramente; che ero stanca di stare sempre con

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la testa sui libri, che volevo godermela un po', che avrei continuato ad approfondire per conto mio. In effetti l'anno dopo conseguii il diploma magistrale. A casa non ci furono congratulazioni per questo successo, anzi mamma, un momento che zia Renata era assopita e che zia Estrella era in bagno, cogliendo quell'attimo di intimità di cui da anni eravamo state private, espresse chiaramente la proprio opinione: "Mi sembra che vuoi camminare come i gamberi, d’altra parte lo hai appreso da tuo padre.” E quasi stava per piangere. Che cattiva ispirazione ti ha preso?" Io non le risposi anche perché era sopragiunta zia Estrella. Mi misi ad attendere che venisse bandito il concorso magistrale da un momento all'altro. Intanto certi pomeriggi ci mettevamo insieme a disegnare la nostra casa: ricavavamo corridoi, modificavamo la cucina; decidevamo di aggiungere un altro servizio. Anzi su questo andammo avanti per un po' a discutere incerti se preferire il doppio servizio o una veranda coperta che potevamo usare come piccola serra. Rimandammo la decisione: tanto, per il momento, si trattava solo di fantasie. Ma erano fantasie che ci entusiasmavano e

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riempivano la nostra vita. Un giorno incontrai casualmente Erminia, una nipote di donna Rirì, che mi propose di andare a darle una mano nell'emporio che conoscevo bene. L'esercizio non aveva perduto in clientela, aveva solo aggiornato un po' i vari prodotti che vendeva: per dirne una, invece del citrato, le gomme da masticare e poi patatine e sfiziosità varie di cui i ragazzini del rione si riempivano la pancia cosicché all'ora dei pasti non avevano più appetito. E poi si vendevano detersivi, biancheria intima e aguglieria. La signora Erminia mi propose di prendere la patente per poter sbrigarle più rapidamente i suoi affari, utilizzando la sua vecchia giardinetta. Io accettai e divenni patentata suscitando molta ammirazione in Miranda, raccomandazioni di prudenza da parte tua e di mamma e qualche complimento condiscendente dalle zie. Tu continuavi a pizzicare, ma mai abbastanza per iniziare i lavori di restauro. Venivi a trovarmi in negozio e chiacchieravi con me e con la nipote di dona Rirì che cominciò a chiamarti don Palmiro. Tu ti schernisti, semplice com'eri, ma io compresi che era il don di rispetto che si dà a chi comincia ad essere avanti con gli anni. Ci restai male e mi accorsi di colpo che, a furia

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di fare il capofamiglia solo a tavola, eri ingrassato, che i capelli si andavano diradando ed ingrigendo, che la tua vista non era più buona. A quella scoperta, dovetti andare nel retrobottega per calmarmi. La notte feci un sogno in cui litigavo con te; ti rimproveravo, risentita: "Caro papà, come ti permetti di invecchiare! Come puoi farmi questo?" Tu mi guardavi con un viso ironico e ribattevi: "Ma che vecchio e vecchio... sto per partire per la Germania." E ti davi da fare attorno alla tua bicicletta come se la stessi preparando per il viaggio. Ti incamminavi, ma, invece di montarvi, te la caricavi sulle spalle. Lavoravo nell'emporio da un paio di anni quando anche zia Renata morì. Mia mamma, disfatta dopo tutta l’assistenza che aveva prodigato con lei, era diventata un po' bolsa e aveva ceduto le armi su tutto a zia Estrella. I bastoni della zia Renata li conservammo accanto al telaio di zia Naida. Ma non sentivo lo spirito di zia Renata aleggiare nella casa come invece avevo percepito quello di zia Naida attorno al telaio. Ci fu una nuova ondata di visite di condoglianze e Giorgio con sua moglie e la figlioletta venne a portarsi via qualche cosarella che zia Renata gli

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aveva lasciato: un lume, una consolle dell'ottocento, un anello da uomo appartenuto al marito. Un giorno donna Rirì ti venne in sogno e ti diede tre numeri dicendo: "Questi sono per le grattate." Tu ci raccontasti il sogno e giocasti i numeri, ma il terno non venne fuori. "Si sa.- disse mamma -Sono cose che non si devono raccontare. Si vede che di lotto non

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t'intendi, Palmiro." E zia Estrella: "Donna Rirì avrà voluto prenderti in giro." Ma alla prima vincita che tu facesti al totocalcio ti ricordasti delle parole del sogno e acquistasti un frigorifero nuovo perché quello precedente cadeva a pezzi. E l'estate era torrida. Zia Estrella, che nonostante il lutto recente si preparava ad andare in villeggiatura per il bene di Miranda, disse che c'erano cose più serie come la malattia di Miranda che si mangiava tanti soldi per via delle visite agli specialisti e le medicine e la villeggiatura, ogni anno in luoghi salubri. Tu impallidisti come sempre, quando una rabbia impotente ti toglieva le parole e lei incalzava: "Non lo dico per la piccina -Miranda aveva compiuto quindici anni- ma per il principio. Se tu smetti di giocare e di buttare via i soldi in cose inutili, quello che faccio per Miranda è un regalo, ma se continui a sperperare il tuo denaro tanto vale che lo usi per lei..." La sua logica non faceva una grinza e vi fronteggiaste dimostrando tutta la reciproca antipatia. Mia mamma apparecchiava con l'aiuto mio e di mia sorella e tutte e tre tacevamo. Finalmente trovasti il fiato: "Va bene- dicesti calmissimo- dimmi subito a quanto ammonta quello che hai speso per la

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salute e le villeggiature di mia figlia." Zia Estrella sparò una cifra esorbitante e tu senza batter ciglio rispondesti: "Ti restituirò tutto." Pranzammo in silenzio e io ti facevo l'eco dentro di me: "Sì, le restituiremo tutto papà." E di nuovo mi persi nel sogno della donnetta della ricottina. Al compenso che percepivo per il mio lavoro mattutino potevo aggiungere qualche lezione privata: nel rione ce n'erano di bambini le cui mamme, le donne ora lavoravano anche loro, mi avevano chiesto di dare una mano a svolgere le lezioni! Una stanza dell'appartamento annesso al negozio sarebbe stata adatta. Come sempre mi associavo ad ogni tua impresa e specialmente ammiravo quel tuo modo caparbio di ribadire la tua paternità su Miranda e la dignità orgogliosa nel non dover niente a zia Estrella. Mi accompagnasti mentre mi recavo a lavoro: "Mi ero sbagliato.- dicesti senza guardarmi in faccia- I debiti di cui parlava padre Pantaleo non sono soltanto quelli che ho creduto, ma anche quelli che io non pensavo di avere con tua zia Estrella. D'altra parte non mi hanno mai messo al corrente, nemmeno tua madre, di tutte queste visite di specialisti, né di medicine.

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Quanto poi alla villeggiatura mi sembrava che Estrella portasse con sé Miranda per avere una compagnia. Ho sbagliato e chiedo scusa, ma non sono certo uno scroccone, un approfittatore, un mangiapane a tradimento. Ma a te cosa pare della salute di Miranda? Mi sembra che sia tanto bella e sana." "Certo papà, da quando è sviluppata, come aveva detto il medico, l'asma è scomparsa e ai cambiamenti di stagione ha solo un piccolo raffreddore allergico. Sarà senz'altro merito delle cure che le sono state fatte. Per quel che riguarda i debiti ho una buona notizia: la signora Erminia mi cederà una stanza dell'appartamento per dare lezioni ai ragazzini del rione: in due faremmo prima a pagare." "E tu riuscirai a conciliare il lavoro con lo studio per la preparazione al concorso magistrale?" La tua voce era speranzosa: "Certo che sì: anche le lezioni che do ai ragazzini servono a mantenermi in allenamento." Sospirasti sollevato e mi stringesti la mano: "Meno male che posso contare su di te." Inforcasti la bicicletta sveltamente e te ne andasti via a lavoro. Certo che così la ristrutturazione della nostra vecchia casa avrebbe dovuto aspettare e avremmo dovuto rimandare ancora il nostro

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ritorno lì. L'anno dopo comperai la vecchia cinquecento da Giorgino che cambiava macchina. Persino zia Estrella fu contenta e quando ero libera si faceva accompagnare da me in cimitero, o a fare spese e visite. Insisteva a pagare la benzina. "Perchè- disse- debiti, io, non ne ho mai avuti; anzi ho crediti!” Avrei voluto rifarle il discorso di padre Pantaleo su debiti e crediti, ma non ero sicura di averlo capito fino in fondo. Accompagnavo e andavo a prendere Miranda dalle lezioni di pianoforte, di danza, e su e giù dalle festicciole che frequentava. Avevo ventiquattro anni e la mia vita era divisa tra il lavoro nell'emporio al mattino, i pomeriggi a fare lezione a qualche ragazzino e il mio ruolo di autista di famiglia. C'erano i momenti di libertà in cui tornavamo a progettare la nostra casa. Tuttavia ce ne dovemmo distogliere: forse fu un colpo d'aria preso mentre giocavi a bocce a procurarti la paresi facciale. Così, grazie alla macchina, potei accompagnarti in ospedale per fare le applicazioni che occorrevano e, man mano, il tuo aspetto tornò quasi normale a parte per l'occhio destro leggermente più chiuso. Ridendo, dicevi, che era segno che eri cresciuto e che avevi imparato a chiudere,

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almeno un po’, un occhio sulle cose che non digerivi. Anche io risi, ma intanto ricordavo il sogno che avevo fatto e mi veniva di dirti chiaro e tondo: "Caro papà, come ti permetti di invecchiare? Che non ti venga in mente anche la bella idea di morire." D'altra parte era vero che stavi imparando a prendertela di meno e forse in ciò eri aiutato dal gioco delle bocce. Oltre il lavoro nella sud-est c’erano anche i tornei a cui partecipavi -giacché come in tutti i giochi eri diventato bravo- che appagavano il tuo bisogno di andare per il mondo. Io, intanto, guardavo con curiosità i giovani degli anni settanta diventare sempre più scapestrati e irridenti. Mi scandalizzavo come un'adulta, giacché mi pareva che la giovinezza fosse qualcosa che riguardava gli altri. Nei primi anni dalla fine del liceo qualcuno dei compagni mi aveva cercato e ogni anno in luglio avevamo preso l'abitudine di incontrarci per festeggiare l'anniversario del diploma. I miei amici avevano tanto da raccontare sulle città in cui vivevano, sugli esami universitari, su quello che avrebbero fatto dopo la laurea. Ascoltavo e domandavo, ma finivo con il trovare noiosa la loro vita tutta ancora impregnata di aspettativa. Io, con le responsabilità che mi ero accollate,

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mi sentivo tanto più adulta e trovavo i loro argomenti di conversazione stucchevoli. Così finii per rifiutare l'invito annuale e man mano amicizie e relazioni si allentarono riducendosi a poche telefonate e qualche bigliettino di auguri a Natale. Ero così presa dalle mie attività, mi sentivo così indipendente per il fatto che guadagnavo e guidavo la macchina che non presentai nemmeno la domanda per il concorso magistrale. Ancora una volta fu a tavola che mamma se ne uscì come folgorata: "Cosetta, oggi abbiamo incontrato una cugina di Giorgio e ci ha raccontato di quanto studia per prepararsi al concorso magistrale. Va addirittura a lezione da un professore: gli scritti saranno tra un mese. E' mai possibile? E tu quando studi?" Io arrossii e gli occhi di tutti furono su di me: quelli addolorati di mamma, quelli sorpresi di Miranda, quelli pungenti di zia Estrella. Ma soprattutto i tuoi. "La domanda è scaduta da un pezzo. Non mi interessava...ho deciso che mi va benissimo il mio lavoro. Il concorso, poi, si tiene ogni due anni. Studierò per il prossimo." "Evviva la sincerità, Cosetta, -dicesti- fai e disfi di testa tua!

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Non chiedi mai il nostro consiglio. Eri così brava negli studi. I tuoi professori ti vedevano già con la toga..." Estrella: "Altro che toga: era il camice da bottegaia!" "Non è una tragedia: lavoro." Mamma aveva gli occhi rossi e zia Estrella intervenne: "Se dovevi fare la bottegaia era inutile frequentare il liceo classico. Miranda non farà certo la tua fine." Anche mia sorella disse la sua: "Ma Etti, è un lavoro senza futuro: in un negozietto preistorico che prima o poi chiuderà e tu ti ritroverai senza niente in mano." Di nuovo zia Estrella. "Me l'ero immaginato: quella Erminia è taccagna come sua zia Amalia. I proprietari della modisteria in cui lavoravo io, invece, erano persone oneste! Terminato di essere piccinina, l'apprendistato insomma, mi hanno messo subito in regola e con il tempo ho potuto rilevare il negozio. Ed oggi ho una buona pensione. Tu, invece, lavori in nero." Io non risposi perché in effetti avevo cominciato senza impegno reciproco e la signora Erminia non aveva mai proposto di mettermi in regola: avevamo pensato tutte e due che era una soluzione provvisoria. Intanto erano passati alcuni anni.

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Lo scoramento dei miei familiari era palpabile: "Ti sei messa in una trappola.”- dicesti tu- “Prima quella sciocchezza di non iscriverti all'università ed ora quest'altra ragazzata. Asina testarda!" Ti mettesti a fumare a tavola cosa che non ti eri mai permesso di fare. Estrella sospirò compunta e prese la parola: "Forse posso fare qualcosa io: quando ero modista ne ho conosciute di vere signore perché, allora, una vera signora fuori di casa indossava sempre il cappello. Io, poi, sapevo stare al mio posto e tutte chiedevano che fossi io a portare il cappello, una volta confezionato, a domicilio. Quante case signorili ho visto, quante persone influenti ho conosciuto... Mi viene in mente che ora il figlio di una delle mie clienti, che si è fatto lui pure la sua età, è il direttore di una scuola privata parificata. Io parlerò con la signora che era sempre gentile e disponibile, lei parlerà con il figlio direttore e per il prossimo anno scolastico potrebbe assumerti. Andiamo da loro e vedrai che qualcosa salterà fuori." Accondiscesi: un po' perché non sostenevo il dispiacere dei miei genitori, un po' perché tutto sommato non mi ci vedevo per sempre nell'emporio.

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Qualche pomeriggio dopo Il direttore mi ricevette. Spinsi il grande portale socchiuso che immetteva nella corte interna e salì la scalinata che in cima si divideva in due rampe: da un lato quella che portava agli appartamenti; dall’altro quella su cui si apriva la scuola privata

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parificata. C’ ero già stata assieme ad Estrella per parlare con la madre del direttore, la signora che aveva frequentato la modisteria. La signora ci aveva messo subito a nostro agio ricevendoci in cucina che ferveva di lavori domestici. Ci aveva ascoltato mentre continuava ad impartire ordini alle due donne impegnate a preparare il pranzo e mettendosi lei stessa a spennare una gallina e a sgranare piselli. Di tanto in tanto mi guardava e infine sospirò: "Che dispiacere all'idea di queste giovani forze condannate alla disoccupazione! Ce ne sono di giovani a spasso! Il direttore- parlò sempre del figlio con quel titolo- il direttore è molto sensibile e fa quello che può. Abbiamo sacrificato l'altro nostro appartamento, qui di fronte per adibirlo a scuola. Si tengono soprattutto corsi di recupero per lavoratori. Il direttore vuole personale serio e preparato e per questo la nostra scuola ha un buon nome. Le domande di insegnamento sono tante, ma parlerò io al direttore e vedrete che vi arriverà una risposta quanto prima.” Io le lasciai il curriculum che altro non era che il mio diploma di maturità classica Quindi si salutarono con grande effusione e la signora aggiunse:

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“Che figuroni che ho fatto con i tuoi cappelli, cara Estrella! Certo allora eravamo giovani! Anche se te li facevi pagare…” “Vi ho sempre trattato d’amica, con un occhio di riguardo.” Ora, quindi, sapevo che dovevo salire l’altra rampa di scale. Il direttore mi ricevette in uno studio pieno di busti. Indossava un doppio petto di un verdone scuro che sottolineava la sua carnagione olivastra. Mi salutò cortesemente e mi chiese il permesso di continuare a mangiare: "Sa, con i miei impegni, non ho orari e oggi mi capita di dover mangiare alle undici." Il direttore si prese il mio permesso sottinteso e si ingolfò in un piatto di polpo che odorava di aglio e che gli imbandiva sulla monumentale scrivania una delle donne che avevo visto nella cucina della madre. Intanto io prestavo orecchio ai rumori della scuola che era dislocata nell'appartamento dagli altissimi soffitti. Qualche studente venne anche a bussare per andare nel bagno a cui si accedeva passando attraverso lo studio del direttore. Questi mi spiegò che in tal modo poteva tenere meglio tutta la situazione sotto controllo e continuò a mangiare di gusto. Quando ebbe terminato scorse il mio curriculum:

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"Vedo che ha conseguito la maturità classica. Addirittura sei anni fa! Ed in questi anni non avete mai fatto esperienza di insegnamento?” “Privatamente sì.” “Immagino che si riferisca a qualche doposcuola: in verità a me occorrerebbe un insegnante elementare che tenga un corso serale per adulti che non hanno la licenza, titolo che ora è indispensabile per tutti i lavori. L'insegnante che c'era prima è passata in una scuola statale e sono sfornito. Sapete, gli emolumenti qui non sono che un "pour boir", ma il punteggio è assicurato. Se la sente di tenere una specie di pluriclasse nelle ore serali? Le do un segno di fiducia scegliendo lei, che non ha esperienza; le do la preferenza di fronte a tanti altri che mi implorano, padri di famiglia! Ma mammà ci tiene tanto! E facciamo contenta mammà. La risposta la voglio subito." Io accettai anche perché considerai che l'impegno, essendo serale, mi avrebbe consentito di continuare il mio lavoro nell'emporio. Al ritorno a casa tu mi chiedesti con ansia: "Sei contenta? Ti è piaciuto il posto, i colleghi, il direttore?" Io risposi di sì a tutto con grande soddisfazione di zia Estrella. Poiché mi era stata assegnata la pluriclasse del

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corso serale non vedevo colleghi, ma soltanto i miei "allievi", tutti più adulti di me. Alcuni erano pieni di buona volontà, altri venivano soltanto per fare presenza ed avere l'attestato di frequenza. Appresi molto sui loro lavori. Dopo una settimana il direttore mi mandò a chiamare e mi parlò alzandosi spesso dalla poltrona e guardando fuori dalla finestra. "Giacché lei è l'ultima a lasciare la scuola ho pensato di poterle chiedere di dare una riassettata alle aule e al bagno al termine delle lezioni. Sa, in genere se ne occupa una delle nostre serve, ma attualmente è ammalata e non è il caso di assumere un bidello. Si tratterà di poco tempo. Siamo intesi? Metterai a posto le aule e il bagno e... anche questa stanza. Si tratterà, ti ripeto, di pochissimo tempo." Di questo, e dell’improvviso passaggi al tu, non riferii niente a casa; dissi solo che mi era stato allungato l'orario di servizio e zia Estrella fu ancora più soddisfatta dei suoi meriti. Fortunatamente al mattino continuavo ad andare in bottega che mi sembrava un vero lavoro, decoroso e remunerato, ma neanche con Erminia mi lasciai scappare una parola sulle mie incombenze di donna di pulizie che continuarono per tutto il resto dell'anno. Gli "emolumenti" erano veramente miserabili e

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quindi continuavo a dare lezione nel primo pomeriggio. Avevo stabilito che nessun ostacolo si frapponesse al nostro progetto di far restaurare la casa. Per questo tolleravo il direttore, il mio lavoro ufficiale e quello di nettacessi. Pensavo che era proprio il castigo che meritavo per non aver presentato la domanda di concorso. Sospiravo e contavo i mesi che mi separavano dalla fine dell'anno scolastico; di certo non avrei ceduto allo sconforto purché tu fossi rimasto all'oscuro di tutto. Invece non fu così: riuscisti a trovare una sera in cui non eri di turno per venire a guardarmi nella mia veste di insegnante. Nella tua intenzione c'era solo un moto d'orgoglio di godersi la figlia docente. D’altra parte il portale del palazzo gentilizio era lasciato sempre accostato fino a quando io non andavo via tirando il battente con energia sia perché essa era pesante, sia perché il fragore che produceva mi dava una qualche soddisfazione come se avessi preso a calci la scuola ed il direttore. E qualcuno degli allievi aveva dimenticato aperto anche l’uscio dell’appartamento adibito a scuola. Io ero troppo presa dalle pulizie, dal rumore dello straccio che grondava acqua, dallo

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strepito dello sciacquone: fosti un’apparizione che mi fece trasalire. Eri seduto nello studio del direttore e da lì potevi vedere benissimo i bagni e chi li puliva… Te ne stavi con il corpo abbandonato sulla poltrona del direttore, le mani incrociate tra le ginocchia, una faccia impietrita di rabbia e di dolore. Ti vidi con la coda dell'occhio; ma feci finta di niente; anzi mi accanii nelle pulizie pur di tenere la testa piegata e non incontrare di nuovo quel tuo terribile sguardo. Rispetto a tanti anni prima, quando ero venuta a strapparti dal cral, le parti si erano invertite. Io continuai nel mio lavoro ignorandoti, tu continuasti a stare seduto. Infine rimisi stracci, arnesi e detersivi al loro posto passandoti davanti come se tu non ci fossi. Infilai il cappotto, feci un giro per le aule a controllare che non rimanessero luci accese: il direttore era pronto ad andare su tutte le furie davanti agli sprechi! Soltanto al momento di spegnere il lampadario dello studio in cui tu ancora te ne stavi seduto, ti rivolsi un cenno della testa: "Andiamo." Mi chiusi alle spalle la porta dell'appartamento e tirai il portale con lo stemma gentilizio. Fuori ci mettemmo a camminare l'una accanto all'altro senza parlare.

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Era una giornata di marzo umida e ventosa ed io ti dissi: "Non ti fa bene prendere tutto questo vento, giacché sei appena guarito dalla paresi. Entriamo in un bar e tu mi aspetterai mentre andrò a prendere la macchina. Sono venuta via da casa a piedi perché non sembrava che si preparasse un tempo così." Mi avviai verso la pasticceria, ma quando entrai vidi che tu rimanevi fuori e così tornai fuori anch'io e non insistetti più. Facemmo la strada più lunga per ritornare a casa. Camminammo in silenzio fino a quando mi feci coraggio e ti rivolsi la parola: "Andiamo al cinema? -Tentai di scherzare prendendoti sotto braccio- Come quando ero bambina, vuoi papà?" Mi guardasti e sotto le luci del Politeama vidi che il tuo viso era segnato da un’espressione di ostilità e di amarezza. Nonostante ciò camminavamo sempre sotto braccio. "Perché non mi hai detto niente?" "Di cosa?" Fingevo di non capire. "Che hai accettato… non so nemmeno come dirlo… di fare la schiava. Devi smettere subito! "Non posso, ho firmato un contratto." "Vuoi dire che hai firmato sapendo di che razza di lavoro si trattava?"

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"E' così che vanno le cose in certe scuole private." "Chi l'avrebbe mai detto, chi l'avrebbe mai detto che ti rassegnassi così! " Scuotevi la testa incredulo, poi divenisti sarcastico: "E che bella esperienza didattica ti stai procurando! Il punteggio che avrai alla fine dell’anno non riguarderà la tua capacità di insegnare, ma attesterà che sei brava a pulire il cesso!" Avevi alzato il tono della voce e ti fermasti con un po’ di affanno. "E' tutta una conseguenza di quel colpo di testa di non proseguire con gli studi universitari." Prevenisti le mie obiezioni e tirasti avanti: "Tanto i debiti non finiscono mai: qualche milione in più o in meno che differenza vuoi che faccia? Io...tu devi liberarti!" “Per insegnare, insegno: questo… è una cortesia in più…” Cercai di sorriderti, di sorridere, ma la faccia mi si increspava a sproposito. Quella notte né tu, né io dormimmo. Mentre ascoltavo il respiro tranquillo di mia sorella dal lettino gemello accanto al mio, percepii suoni. Nonostante le porte chiuse, sentii che scendevi dal letto, che andavi in bagno, che ti avviavi verso il tuo studiolo, ma poi cambiavi idea e

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venivi verso la camera mia e di Miranda. Hai socchiusa e, sicuro che io fossi sveglia, mi hai chiamata in un bisbiglio: "Cosetta!" "Che c'è papà?" "Adesso so chi è quel qualcuno con cui ho contratto un debito." Io non risposi. "Mi hai sentito? Le parole di padre Pantaleo volevano dire cose più complicate di quelle che avevo inteso in un primo momento." "Vai a dormire, papà." "Vorrei cantare perché adesso ho tutto chiaro." "Vai o sveglierai Miranda." "Meglio, così parlerò anche per lei." "Sveglierai mamma." "Benissimo: è tempo!" Non vidi altro mezzo affinché tornassi in camera che lo spauracchio di zia Estrella. "Sveglierai zia Estrella." "Vado, vado: ma sarebbe bello andarcene via tutti e quattro subito, anche in pigiama. Amalia Turrini ci approverebbe." Il mattino dopo facesti in modo di uscire da casa assieme a me. Mentre inforcavi la bicicletta mi dicesti deciso: "Questa sera, all'uscita da quel posto, ti aspetto al bar." Per nulla al mondo avresti chiamato scuola il luogo in cui lavoravo.

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A sera, quando c’incontrammo nella pasticceria dove c’eravamo dati appuntamento, senza preamboli apristi la discussione. Eri esaltato e rosso in volto tanta era l’agitazione interna e l'indignazione che ti eccitava: “Al termine dell'anno scolastico dirai chiaramente al signor direttore- e calcasti sui titoli- che può tenerselo il suo bel posto di lavoro: negriero!" Io sorridevo, ma non promettevo, cercavo di prendere tempo; ti trattai come se facessi i capricci. "Esageri: tutte le gavette sono dure." "Non discuto questo: ma è lo sfruttamento, la mancanza di dignità, la prevaricazione che non devi accettare. Se incontrassi uno dei tuoi compagni, dimmi la verità, o un tuo professore glielo diresti cosa ti tocca fare, oltre che insegnare, in quel tipo di scuola?" Io arrossii e sbuffai. "Rispondimi ti dico." "Ai miei compagni non glielo direi soltanto perché sono tutti ragazzetti che non conoscono la realtà, che si adagiano sugli allori: figli di papà, insomma." "E tu di chi sei figlia?" Mi ero messa in trappola con le mie stesse parole: "Io sono una persona realistica."

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"Un conto è il realismo, un altro il cinismo. Insomma, Cosetta, perché devi tradire te stessa? Non ti accorgi che l’umiliazione che ricevi mi fa sentire l’inutilità di quegli anni e di quei patimenti? Gli orrori della guerra, del lager erano sopportabili soltanto per la speranza che nutrivamo di costruire un’Italia giusta: forse non tutti ne eravamo consapevoli, ma in tutti c’era, se pure alla cieca, la fermezza istintiva di rifiutare ogni oppressione. Se non vuoi pensare a me, pensa agli altri, tutti giovani e giovanissimi, che non sono tornati più!" Non erano parole, ma pietre monumentali che sollecitarono la mia memoria tanto che io risposi: “Dei morti alle Termopili bella è la sorte, glorioso il destino.” Tacemmo e quel silenzio voleva essere un omaggio alle vittime del più stupido degli sport umani: la guerra! Ritornati alla realtà, addussi altre ragioni ragionevoli: "Zia Estrella si offenderà; povera! Si è data tanto da fare per il mio bene ed è così orgogliosa di se stessa per il lavoro che mi ha procurato!" "Lascia che si offenda, ma sono sicuro che persino lei, se ti avesse visto pulire i cessi, non

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troverebbe da ridire se tu tornassi a lavorare all'emporio: meglio "bottegaia", come dice lei." Sospirai un po' scoraggiata: ed io che credevo di aver dato prova di saggezza e di maturità! E pensai ad alta voce: "La verità è che, a volte, quando si cerca di accontentare gli altri si scontenta tutti." "Brava che l'hai capito: allora tu, d’ora in poi, accontenta te stessa." Il mio tè poteva essere alla rosa canina o al bergamotto: non ne sentivo il gusto sotto il tuo sguardo severo ed esaltato. Era come se ti fossi risvegliato percepissi le omissioni che avevi compiuto e volessi assumerti le responsabilità di padre. "Ti ricordi quello che ti ho detto la notte scorsa?" "Hai parlato tanto che stavi per svegliare tutti..." "Le parole di padre Pantaleo erano misteriose come il suo mosaico ed io ogni volta trovo un significato diverso e sempre più profondo. Lui parlò dei miei debiti e dei miei crediti. Mi sono un po' perso sulla faccenda dei debiti. Prima le parole di donna Rirì mi hanno convinto che si trattasse della casa dei miei genitori. Forse era quello che volevo capire io... credevo che tornare a vivere noi quattro da soli era molto importante, più importante del viaggio in Germania. E da quel momento ho messo via le mie vincite per rimettere in sesto la casa.

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Poi è saltato fuori i debiti che ho con Estrella. Quando tua zia mi ha rinfacciato le spese sostenute da lei per Miranda; allora ho creduto che onorare quel debito, che non sapevo di avere, era altrettanto fondamentale per la mia dignità e per l'unità della famiglia. E così ho deciso tra me e me di dividere le mie economie su quelle due voci. Ed ecco che scopro che il debito vero l’ ho nei tuoi confronti: la tua devozione mi ha accecato al punto da non distinguere più la mia vita dalla tua!” Mi osservavi, ma io sentivo chiaramente che il tuo sguardo mi oltrepassava. Cercai di scuoterti: “Scommetto che padre Pantaleo diceva le stesse cose a tutti quelli che entravano nella cattedrale: parole che vanno bene per ogni circostanza.” Mi guardasti con ironia: “Non mi fai nemmeno il solletico con le tue parole da studiata! Nello specchio del mosaico- ricordo bene le parole del prete- ognuno vede se stesso. Per me ha funzionato così e lascio a te, che sei studiata, le ragioni della tua ragionevolezza.” Tacemmo di nuovo: ti vedevo per la prima volta sicuro, tanto sicuro da non sprecare tempo a convincermi. Quel tuo darmi della “studiata”, come già aveva fatto la padrona del citrato, mi rivelavano che

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avevi fatto passi da gigante, a mia insaputa; anche quella che tu avevi chiamato la “tua ragionevolezza” in bocca si era trasformata da qualità a calcolo meschino. Procedevi, oramai, con le tue gambe, dopo che per tutta la mia vita ti avevo prestato le mie. “Quando penso a quanto sono stato cieco ed egoista!" Vederti così mortificato mi era insostenibile e, accarezzandoti la mano, ti dissi: "Non è vero, papà: ci siamo cresciuti a vicenda. Si sa che tocca ai primogeniti far esercitare i genitori nel mestiere." Tu, però, rifiutavi ogni attenuante tanto salde ti apparivano le certezze che avevi raggiunto: "I debiti sono questi tre.” Prendesti il posacenere, la tua tazzina, il pacchetto di sigarette e desti un nome a ciascuno: “Questa è la casa dei miei genitori e capisco quanto sarebbe indispensabile tornare lì per ricomporci come famiglia; questi sono i soldi che devo ad Estrella per Miranda; e questo è il debito che ho con te. Si tratta solo di stabilire in quale ordine pagarli." Ti eri immerso nelle tue riflessioni, mentre io pensavo, forse per via della ragionevolezza, che, nonostante ti amassi, nel mio intimo dubitavo che saresti mai riuscito ad onorare le tue pendenze. "Non pensarci più, papà."

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Tu continuavi a cambiare di posto i tre oggetti. Ti salutai ed uscii dal locale. Ti sbirciai dalle vetrate del bar: mi sembravi velleitario come un fanciullo generoso su cui gli anni erano passati inutilmente, tranne che per la pinguedine, i capelli radi, la dentiera... Mentre andavo verso l'emporio continuai a voltarmi per guardarti come se volessi imprimermi bene la tua immagine cara, come se sfogliassi un album di fotografie animate, come se la parte di me che, come in tutti, conosce il futuro, si preparasse al nostro lungo addio. L'addio iniziò la mattina d'aprile in cui mi dicesti: "Oggi non sono di turno, liberati anche tu, una volta tanto, e andiamocene a fare una gita verso il mare. In questa stagione, in giorno settimanale specialmente, non ci sarà quasi nessuno." Avvisai Erminia che non sarei andata

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all'emporio e ti feci da chauffeur come quell' altro di tanti anni prima. La mattina era tiepida e calma, senza il vento turbolento che soffia così spesso dall'Adriatico. Lasciammo l'auto e camminammo sul lungo mare. "E' un mese con la -r- e i ricci saranno pieni di uova." Le tue parole mi rassicuravano: in quell'improvvisa gita non c'erano secondi fini, ma soltanto la voglia di bighellonare e assaggiare i primi ricci. Non dovevo aspettarmi di sentirti nuovamente accusare te stesso e voltare e rivoltare il discorso dei debiti. Quindi ci avvicinammo ad un pescatore che stava sistemando i frutti di mare sulla panca di marmo del mercatino e intanto decantava la sua pesca. I ricci erano neri e luccicanti: ancora vivi si muovevano tra le alghe. "Guardate -ci invitò il venditore- guardate come sono pieni." E per dimostrazione ne aprì uno con una forbicetta, lo sciacquò in un secchio pieno di acqua di mare, ce lo offrì. Tu mangiasti le uova del riccio con la punta del coltellino con gli occhi socchiusi per il piacere. Il pescatore continuava: "Non ho ragione a dire che sono speciali? Ci vuole il pane, però, ci vuole il pane! La

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signorina lo può comprare a quel chiosco. E' pane di casa che se è vecchio di un giorno, è più buono." Io andai verso il chiosco e tornai con una pagnotta. Il marinaio ci preparava i ricci che noi svuotavamo con tocchi di pane e non smetteva di commentare: "Sentite? Altro che aragoste, altro che triglie! Che sapore eh? Il mare in bocca avete! Il sapore del mare dopo che dentro si sono tuffati tutti i soli e tutte le lune di un intero mese. E le uova si sono nutrite, gonfiate, maturate al fuoco di quei due astri." Noi facevamo di sì, seduti sul parapetto del lungomare con il pescatore-poeta che descriveva i sapori come se li gustasse assieme a noi. Quando ci sembrò che quel sapore meritava il rispetto di una breve degustazione, pagammo le poche lire che il poeta ci chiese ed egli restò ad esaltare da innamorato, solo per se stesso, il mare e i suoi frutti. Riprendemmo a passeggiare sottobraccio, un po' insonnoliti dal tepore, dal sole, dal frangersi mite delle onde. In lontananza vedevo il faro da cui avevamo guardato la striscia lontana-vicina dell'Albania. Tu tossivi la tua tosse di fumatore, poi mi

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conducesti verso la rotonda. Al posto di ristoro evitammo il caffè per conservare più a lungo il sapore di mare e ordinammo semplicemente acqua. Mentre tutto era così armonioso, tirasti fuori tre pezzi di carta stretti e lunghi. Abituata dal mio lavoro di commerciante, li riconobbi subito: tre assegni. Li lisciasti sorridendo prima tra te e te e poi alzando il viso a guardarmi. "Sono tre assegni da cinque milioni l'uno." Gustasti le tue parole e la mia aria sorpresa. "Hai vinto al totocalcio, Papà?!" Scuotesti la testa, ma continuavi ancora a sorridere: "No." "E allora, da dove vengono? Il prestito di una banca? E poi perché tre assegni?" Sorridevi sempre con un’espressione furba come quella di padre Pantaleo. Parlavi senza alcuna esaltazione: "Ho concluso un affare, una vendita." Procedevi con il contagocce e ti interrompesti di nuovo per osservare i tre pezzi di carta. Poi ne spingesti uno verso di me: "Questo è il tuo!" "Come mio? Insomma da dove vengono questi soldi?" Cominciavo a spazientirmi e a sentirmi in ansia perché tu avevi la stessa aria sorniona e beata delle volte in cui eri tornato a casa

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annunciandoci di aver cambiato lavoro. La tua contentezza era, quindi, sospetta. "Ehi ragazzina, non starai pensando che tuo padre è capace di fare qualcosa di disonesto?" "Ma dimmi..." "E’ semplice: io possedevo una casa vecchia e così mal messa che per rimetterla a posto avrei dovuto spendere la mia vita e la tua. Qualcuno mi ha cercato per acquistarla giacché sventrandola, se ne ricaverà l’area da adibire a garage a pagamento. Nel rione, infatti, ora che tutti hanno la macchina e le vecchie abitazioni sono prive di garage, è un bel problema lasciare le auto, di notte, per strada. Mi hanno fatto la proposta e ho capito subito che era l’occasione che avevo cercato con il gioco. Quindici milioni! Che ho voluti così, divisi in tre assegni: il tuo; l’altro è di Miranda, e questo è un anticipo del debito che ho con Estrella; il resto dei miei debiti con lei lo estinguerò quando andrò in pensione, con la buona uscita." Ti appoggiasti soddisfatto alla spalliera della sedia. "Ma papà, e la nostra casa? Dovevamo tornarci tutti e quattro." Neanche questo ti scosse: "E a fare che? Tornare a fare che? Tornare chi? Miranda ci è vissuta troppo poco per amarla,

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tua madre, oramai, non lascerebbe più sua sorella che va invecchiando; io e te allora? Mammalucca! Sei matta se credi di poter fermare il tempo." Ti esprimevi in modo sentenzioso, convertito al tuo nuovo ruolo di uomo saggio. Mi porgesti l’ assegno e mettesti via accuratamente gli altri due. Ma non era finita. Sfilasti dalla tasca un giornale e lo apristi, lisciandolo, sul tavolino sotto i miei occhi: "Vedi, ragazza, l'affare lo avevo concluso già da quindici giorni e aspettavo il momento opportuno per dare l’annuncio. Proprio ieri ho visto qualcosa in edicola: un giornale dei concorsi con il bando di quello magistrale. Datti da fare! Questi soldi ti serviranno ad andartene via per sostenere l'esame in una provincia in cui ci sono più posti di lavoro. Lo sapevi che il numero dei posti messo a concorso varia da una provincia all'altra? Be' c'è tutto scritto sul giornale. Guarda tu stessa." Ascoltavo incredula, mentre tu mi leggevi i nomi delle province e ora me ne proponevi una, ora, un'altra. Io insistevo nel far finta che fosse tutto uno scherzo o una forma di esaltazione da parte tua che pian piano sarebbe sfumata, riportando te e me all'equilibrio precedente. Ma tu continuavi:

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"Che te ne pare di Bologna? Ho amici nelle ferrovie di Stato e tutti hanno parenti sparsi per l'Italia: ti daranno le indicazioni per una pensione o un affittacamere. E studia. Mi raccomando!" "Ma papà: Bologna! Così lontano? Mi scacci?" "Se proprio vuoi saperlo sono stanco di dovermi preoccupare ancora per te! Fatti il tuo avvenire così come è giusto. A te devi pensarci tu!” Tornammo indietro: tu canticchiavi per i fatti tuoi, evitavi persino di sfiorarmi. "Pensa al tuo avvenire." Diventò una sorta di ritornello: quando cercavo di tornare sull'argomento, sollevavi lo sguardo, ma subito scrollavi la testa come se la mia fosse testardaggine puerile e ripetevi la tua sentenza prima di tornare ad ingolfarti nei dati del sistema. Il gioco non era più un assillo, ma rimaneva un esercizio matematico che ti appassionava. Sempre piena di perplessità, assistei, qualche giorno dopo, alla cerimonia un po' solenne con cui consegnasti gli altri due assegni: "Questo è per te, Miranda, ma vale anche per quando compirai diciott'anni e per quando conseguirai il diploma . Cosetta ha già avuto il suo. E questo è per te, Estrella, con tanti ringraziamenti e scuse per il ritardo. Certo è solo un acconto, il resto lo avrai quando

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andrò in pensione." Miranda fece il giro del tavolo per abbracciarti e baciarti. Zia Estrella arrossì, non so bene perché, mentre prendeva l'assegno. Eri contento e anche mamma pareva fiera di te. Non chiese niente e quindi capii che la faccenda della vendita della casa doveva esserle già nota come pure ad Estrella giacché non fece domande; tuttavia non si trattenne dal dire: "In tutti i modi, Palmiro non ti intendi di affari: quindici milioni per tutta quell'area... ti sei fatto fare fesso..." Temetti una tua reazione: al contrario fosti molto conciliante: "Non importa, non importa: io avevo urgenza di avere questi soldi e l'acquirente me li ha dati subito; va bene così." Ero indispettita da quel terremoto che mi scombussolava la vita, anche se tra me ammettevo che non potevo tollerare un altro anno in quella specie di scuola. Ma d’altro canto cercavo scappatoie all’emigrazione: immaginavo per me un'altra scelta e sfogliavo i modelli femminili che avevo frequentato: sarei diventata moglie come Prisca? Ma come avrei potuto essere moglie giacché non ero signora di una qualche prelibatezza come il limoncello?

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Escludevo zia Renata e zia Estrella. Mi sarebbe piaciuto essere un’altra Amalia Turrini, ma anche per quello era oramai tardi perchè il citrato, le mignatte, i chiodi di garofano avevano da tempo rivelato la loro natura effimera. Per essere una vera bottegaia avrei dovuto avere il monopolio di qualche misteriosa sostanza, altrimenti sarei stata soltanto una commerciante tra tante. Ecco che zia Naida faceva capolino: mi sarebbe piaciuto essere un’altra zia Naida: famosa come lei per la bellezza tanto che tutti sarebbero venuti per vedermi; avrei avuto proposte di matrimonio che i miei genitori avrebbero vagliato con attenzione; ci sarebbe stato un altro barone Francesco che mi avrebbe inanellato per poi morire? E poi un altro giovane d’avvocato che sarebbe caduto in guerra per una causa in cui credeva? Infine avrei conteso a Miranda il suo spasimante? No! Questo non era il mio romanzo: io non possedevo una bellezza speciale in un mondo in cui ormai tutte le ragazze erano belle ed imbronciate. A me era toccato essere la studiata della famiglia e a Miranda, la bella. Mi passò per la testa l’idea che potevo accordarmi con mia sorella: avrei accudito i

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bambini di lei che avrebbe sposato certamente un partito che l’avrebbe obbligata ad una vita di rappresentanza e a trascurare i figli. Sapevo che nessuno di questi era il mio ruolo, ma fantasticarci su mi permetteva di abbozzare una qualche forma di opposizione alla strada che tu volevi impormi e che io vivevo come un esilio. Mentre io mi consolavo con le fantasie, tu procedevi nel disegnarmi il futuro. Una sera, mentre mamma e zia Estrella erano appisolate di fronte al televisore, mi dicesti: “Indovina!” “Cosa?” “Non indovineresti mai!” “Allora spiegami!”

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“Ho scoperto che Piazza Sant’Oronzo si chiamava un tempo Piazza dei mercanti! Mercanti veneziani! Addirittura esisteva nel millecinquecento una fiorente colonia veneziana! Quello che chiamiamo il Sedile era il loro palazzo del governo e la borsa delle merci! . Fu fatto costruire dal sindaco veneziano Pietro Mocenigo nel 1592. Che te ne pare?” “Ma dove le hai pescate tutte queste leggende?” “Sono stato in biblioteca perché tutti quei nomi veneziani che ci sono da noi, Palazzo Foscarini, Palazzo Morosini, Corte dei Mocenigo, mi frullavano nella mente. Sono andato in biblioteca per cercare un libro di storia, non sapevo bene se di Venezia o di Lecce. L’addetto, che era più colto di Salomone, mi ha raccontato a voce tutto per filo e per segno ed io poi mi sono segnato date e nomi. Fatti storici, non leggende!” Sbandierasti un foglietto! “Pensa Piazza Sant’Oronzo altro non è che una piazza di Venezia.” “Abbassa la voce: sveglierai mamma e zia Estrella.” “Dimmi tu se questo non è un segno! Annessa al sedile c’è una chiesetta, ora in disuso, intitolata a San Marco voluta appunto dai

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mercanti veneziani. Dimmi tu- ti ripeto- se questo non è un altro segno.” “Dove vuoi arrivare?” “Che per il concorso non devi scegliere Bologna, ma la provincia di Venezia! E’ chiarissimo! Vai in piazza e vedrai con i tuoi occhi!” Ero irritata con te: “E’ possibile che ultimamente non fai altro che andare in cerca di segni fatidici? Per scegliere al posto mio, per giunta! E’ il colmo!” Tu sorridevi: “Credo che, segni o meno, sia un’ottima scelta: mare Adriatico di là come qua! E se io mi impiccio è perché tu non ti decidi a fare qualcosa di concreto per la tua futura professione.” Lasciai perdere e per farti un dispetto la mattina dopo non andai in piazza Sant’Oronzo, ma ci andai dopo qualche giorno… Sedetti al bar più centrale ed ordinai: -Mi porti qualcosa- al cameriere che restò perplesso. D’altra parte ero lì soltanto per osservare piazza Sant’Oronzo per verificare se era possibile che un tempo avesse preso il nome dai mercanti veneziani; che il Sedile fosse stato la loro sede di governo fatto costruire da un Pietro Mocenigo, e che non era un caso se la chiesetta vicina aveva stesso nome della

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celebre basilica: San Marco. Non so quale prova cercassi al di là di ciò che dicevano gli storici locali. Il leone di San Marco era lì, sul portale della chiesa; scolpito nel tufo leccese vibrava le ali. Ma sì: Bologna o Venezia che importanza aveva? Entrambe lontane ed estranee. “Che sia Venezia!” Mi lasciai, quindi, sospingere dalla tua determinazione. Quasi per farti dispetto presentai, oltre la domanda per il concorso, anche quella di supplenza, per l'anno successivo, nella provincia di Venezia. Con quelle carte firmate da me mettevo un picchetto irrevocabile sulla mia vita. Ora non fantasticavo più seguendo le orme delle donne della famiglia, ma mi esercitavo ad immaginare me stessa destreggiarmi a Venezia. Fino ad allora il suo nome era collegato a conoscenze scolastiche o immagini di documentari: le sue origini, i ponti, lo sposalizio con il mare, le gondole, i dogi, la regina del commercio delle spezie. Formule, stereotipi, concetti scontati che non dicevano nulla, anzi erano poco più di un paravento su una vertigine ignota. Avrei voluto anch’io specchiarmi nel mosaico di Otranto per riconoscermi e conoscere se la mia essenza fosse conciliabile con l’anima e

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l’animus di Venezia che nessun libro o documentario potevano far percepire. Durante uno di quegli esercizi si mescolò l’immagine di Otranto. Sentivo che le due città avevano qualcosa in comune: il mare, l’Adriatico, certo; le lotte contro i Turchi, verissimo, ma non soltanto. Mi convincevo che ciò che le accumunava intimamente fosse la doppia vita a cui entrambe erano condannate. Quella che si offriva rassegnata e prezzolata ai turisti durante la stagione e l’altra con le sue peculiarità che soltanto nel silenzio e alla presenza di rari intenditori si lasciano cogliere. Avevo forse bisogno di quel gemellaggio per ritrovare qualcosa di noto e non sentirmi smarrita? Con il nuovo autunno ero tornata ad abbinare al lavoro nell'emporio, e alle lezioni private. Il direttore della scuola cadde dalle nuvole quando io mi licenziai e sua madre inviò una lettera, un vero e proprio trattato sulla mia ingratitudine; a zia Estrella che mi tenne il broncio per un po’. La mia firma sui documenti che credevo smarriti tra tanti nelle graduatorie del provveditorato di Venezia, si animò come un amo che mi attrasse verso di sé: a metà ottobre giunse una comunicazione che mi assegnava una supplenza annuale. Non ebbi o non volli avere il tempo di pensare:

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spedii il telegramma di accettazione, preparai una valigia piena, soprattutto, di libri e mamma mise altri miei effetti in un pacco che mi avrebbero fatto pervenire non appena avessi trovato una sistemazione. La sera stessa partii. "Pensa al tuo avvenire." Me lo ripetesti mentre salivo sul diretto Lecce-Trieste e mentre me ne stavo schiacciata contro il vetro con un atteggiamento da orfana. Era proprio a me che tutto ciò stava accadendo? Fortuna che il viaggio durava dodici ore: avrei cercato di dormire per tutto il tempo oppure sarei scesa alla prima stazione? Mi ripetevo il nome del paese, in provincia di Venezia, dove avrei dovuto insegnare: Treporti; e il nome della persona che sarebbe venuta alla stazione di Mestre a prelevarmi. Era un conoscente anche lui trasferito nel nord; lo ricordavo vagamente, lo stretto necessario, almeno speravo, per riconoscerlo. E quando il treno si mosse, dovetti controllare l'impulso di tirare il freno. Volevo scendere e dirti: "Abbiamo scherzato, papà: facciamo che tutto torni come prima." Invece tutto cambiò vorticosamente: innanzi tutto, all'arrivo a Mestre, venne a prelevarmi il conoscente che se n'era incaricato. Si grattò la testa quando gli dissi la mia

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destinazione. "Se ti facessi vedere la località sulla cartina, ti sembrerebbe vicinissima in linea d'aria, ma con la laguna di mezzo tutto è un po' complicato. Ma vieni, vieni, non spaventarti. Non facciamo nemmeno in tempo per una brioche...." Riprendemmo il treno e dopo una ventina di minuti eravamo a Venezia. La laguna di novembre con una infreddolita e affamata popolazione di colombi ci aspettava, mi sembrò, all'uscita dalla stazione. I procacciatori dei vari hotels, con il loro sguardo esperto, non ci presero in considerazione. Intanto il mio ospite mi sospingeva verso l'imbarcadero. Nella nebbiolina leggera che rimaneva a mezz'aria vidi caracollare un vaporetto, seguii le manovre dei marinai, la gente ravvolta che scendeva e l'altra che si imbarcava e tra questi io e la mia guida che portava una delle mie valigie. Il vaporetto solcò tutto il Canal Grande: io guardavo l'acqua sotto, la nebbia sopra, lo zoccolo nero dei palazzi, le rare gondole con qualche turista giapponese, i ponti. Percepivo lo schiudersi dell’anima di Venezia e, subito dopo, la sua guardinga ritrosia. Ci misuravamo a vicenda. La città voleva decidere se poteva fidarsi di me, ennesima forestiera; io quanto lei fosse vicina e

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quanto lontana dalle mie fantasticherie. Attraccammo in piazza San Marco, ma ebbi soltanto il tempo per una sbirciatina perché già dovevamo salire sulla motonave per Treporti. L’incontro a tu per tu con la città che aveva avuto una piazza a Lecce era rimandato per via di tutto quel susseguirsi di sali e scendi da mezzi di trasporto. I campanili delle isole della laguna sembravano beccheggiare sulle onde, mentre in verità ero io che beccheggiavo assecondando il movimento della motonave: come quando da bambina dondolavo su me stessa per consolarmi. A Treporti, la mia guida mi sistemò in una trattoria con alloggi, ma mi consigliò di cercare una soluzione più economica; per esempio una stanza in famiglia con l'uso di cucina. Scappò via ed io lo immaginai mentre ripercorreva all'incontrario quella serpentina che fugacemente avevo intravisto. Presi servizio a scuola e, quasi subito, la bidella mi trovò una sistemazione in famiglia: si trattava di una gentile famigliola formata da padre, madre e tre ragazzetti di età assortita. I ragazzi mi accolsero come una bella novità interrogandomi su Lecce, sulle spiagge ed il mare del Salento, sul cibo fino a quando la signora Antonella, la loro madre, non li scacciò rimproverandoli per la loro indiscrezione. "Vieni con me- disse- Non te la prendi a male se ti do il tu, vero?

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Sembri più giovane della tua età e spersa. La camera è in mansarda, ma è bella grande e ariosa ed ha il servizio. Ci metteremo d'accordo per gli orari in cui ti occorrerà la cucina: sappi che a me non costerebbe niente preparare per una persona in più, se vuoi..." Io non sapevo cosa dire: avevo voglia di piangere e non vedevo l'ora di restare da sola; quindi risposi un po' vagamente: "Grazie, ma preferisco fare da me." Quasi ogni sera andavo al posto pubblico per telefonare a casa anche se, più che parlare, piangevo come una bambina, ma tu, inesorabile, mi ripetevi la stessa frase: "Pensa al tuo futuro." Mi sentivo così incompresa e ti giudicavo così insensibile che a volte saltavo le telefonate e per mettere un freno alle nostalgie mi tuffai anima e corpo nella preparazione per il concorso. Per l'uso della cucina feci in modo di disturbare il meno possibile: a pranzo me la cavavo con una bistecca, a cena con un panino. La signora Antonella veniva spesso ad invitarmi, ma io ringraziavo e declinavo l'invito adducendo lo studio. Dovetti sembrare a quelle brave persone un essere scostante e misantropo. Quando ero proprio stanca di studiare alzavo lo sguardo fuori dalla finestra.

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Dopo il tramonto mi sembrava che le anatre mute, le folaghe, le poiane, gli aironi si affannassero a trapuntare con i loro becchi la coltre impalpabile di goccioline: più in fretta possibile prima che la foschia precipitassero in nebbia; questa si addensava al punto che, a volte, la motonave da e per Venezia non partiva. Io pensavo con un brivido alla distanza incommensurabile che mi divideva da Lecce, da te, dal telaio di zia Naida, dalla gabbia di Porfirio, dal citrato di Amalia Turrini. Pensavo a Venezia che, nonostante fosse vicinissima, era intangibile per quella cortina di bruma che si infittiva. Forse che Venezia aveva messo le gramaglie per rispetto al mio stato d’animo? Quando proprio non ne potevo più, ti scrivevo lettere compromettenti: "Treporti, 26 novembre 1970 Carissimo, papà Sono qui solo da due settimane e ancora mi è difficile rendermi conto di dove mi trovo e di cosa faccio. Qualche volta dubito anche di chi io sia. Conto i giorni che mi separano dal ponte dell'Immacolata. Partirò giovedì sera e arriverò giusto per l'otto dicembre. Avremo tutto il venerdì, il sabato e la domenica fino alla partenza del Lecce-Trieste. Quasi tre giorni interi!

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Venerdì lo trascorrerò con tutti voi e mi dispiace un po' che ci sia anche il nuovo ragazzo di Miranda perché non saremo proprio in famiglia, ma non posso negare a mia sorella il piacere di presentarmi il suo nuovo amore. Sabato andrò a trovare la signora Erminia e a rivedere l'emporio. Voglio proprio guardare se c'è ancora il segno della gabbia del pappagallo: questa volta racconterò a te e a lei tutta la verità sulla fine del povero Porfirio. Potremmo anche fare una delle nostre gite al mare fuori stagione; sempre che non ci sia troppo freddo per te. Che ne dici di salire di nuovo sul faro: hai ancora la vista buona per indicarmi l'Albania ed io, ora che sono adulta, ascolterò tutta la storia della tua prigionia con un'attenzione maggiore di quando ero bambina. E potremo progettare per la prossima estate quel viaggio in Germania. Non preoccuparti per i soldi: te lo offrirò io se tu, nel frattempo, non avrai vinto al totocalcio la somma adeguata. Mi dite che il tempo da voi è splendido e assolato: qui c'è quasi sempre una nebbia fitta e desolante. Chi ci è abituato non ci fa caso, ma io metto il naso fuori soltanto per andare a scuola. E dopo l'otto di dicembre alle vacanze di Natale mancheranno soltanto quindici giorni.

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Questo mi dà coraggio, ma non voglio pensare a dopo: l'undici febbraio, per i Patti Lateranensi, forse potrò di nuovo venire. Mi sento sola, anzi isolata, fuori dal mio mondo, non faccio che piangere e rimproverarti di avermi mandata tanto lontana per via di quel maledetto debito che ti sei messo in testa di avere nei miei confronti. Andremo insieme a veder dare la prima picconata alla nostra vecchia casa e spero che tu ti renderai conto che hai interpretato male le parole di padre Pantaleo: era la casa e non io il tuo vero debito. Ti abbraccio forte mentre piango fino ad essere sfinita. Quando vai a giocare a bocce evita gli angoli troppo ventilati. E, a proposito di giochi, che fine ha fatto la scacchiera? Ti abbraccio di nuovo Cosetta." Che fortuna, papà, che lettere come questa, che avrebbero sconvolto te e tutta la famiglia, non le abbia mai spedite! Mi addormentavo leggendole e rileggendole fino a quando non le avevo imparate a memoria e immaginavo la tua faccia e i commenti di zia Estrella, i pianti di mamma, il turbamento di Miranda di fronte a lettere del genere.

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Veder mescolarsi sullo stesso foglio una sequela di precisissime date ad un guazzabuglio di ricordi e confessioni incoerenti vi avrebbe fatto temere per me. In realtà quelle lettere non erano scritte da un'adulta, ma da quella parte infantile di me che, non essendosi fatta viva al momento giusto, faceva capolino fuori tempo e fuori luogo. Al mattino successivo era abbastanza rinsavita da strapparle. Vi scrivevo lettere più normali e meno lagnose che bilanciavano, almeno in parte, le lacrime che per telefono non sempre riuscivo a trattenere. Durante quell'anno di supplenza mi preparai al concorso magistrale, lo sostenni e lo vinsi. Ogni passo che mi faceva progredire, mi allontanava da te e dalla mia vita di prima, anche se tornavo "a casa" ad ogni occasione: Natale, Pasqua, le vacanze estive. Ma, pur non volendo, mi estraniavo: riprendere il filo interrotto quando non si condivide la quotidianità è un'impresa impervia. Ero insofferente verso tutti e non mi raccapezzavo: amavo Lecce e voi; spasimavo per tornare e, tuttavia, al mio arrivo mi sentivo fuori posto. Cercavo di essere di buon umore e, per riallacciare le fila dei nostri discorsi, raccontavo le mie esperienze, le mie sensazioni, il

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paesaggio lagunare, i vaporetti e Venezia. Una volta venne anche Giorgio con la moglie e le due figlie a guardarmi come un fenomeno da baraccone per quell'ardimento insospettato che avevo dimostrato andandomene e commentò: "Certo che sei fortunata: tanta gente va lontano in Svizzera, in Germania, in Belgio. Tu, almeno, sei qui in Italia. E gli altri, poi, vanno a fare gli operai, i minatori, i camerieri: tu hai un lavoro che ti dà prestigio." "Ma lontano chilometri- diceva Fernanda lisciando le sue piccole- Io morirei." "Se avesse voluto- si intromise zia Estrella- avrebbe potuto rimanere qua. E' stata una ragazzata; vuol farci morire dal dispiacere. Le avevo trovato un posto in una scuola...ma lei niente...è scappata. E chissà che vita, che pericoli..." E tu placido: "Cara Estrella quella scuola tienila presente per le ragazze di Giorgino, se mai ne avranno bisogno.” Fortuna che Giorgio e la sua famiglia non potevano cogliere il senso di quella osservazione. Inoltre Miranda aveva un moroso ricco e questo rallegrava la zia e mamma e tutti dirigemmo su di lei l'attenzione. Zia Estrella affermò con sicurezza, rivolgendosi

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a mia sorella: "Tu no, non farai l'emigrante." "Ci mancherebbe anche questo." Le diede man forte l'innamorato di mia sorella. Alla fine dell'estate ero impaziente di tornare a Treporti. Così smisi di remare contro corrente. Con il nuovo anno scolastico, che mi vedeva di ruolo in quella sede in cui ero stata supplente, decisi di non rincantucciarmi più in me stessa. Cominciai a stringere amicizia con i colleghi che, nella maggior parte dei casi, abitavano a Venezia. In principio accettai gli inviti dei più anziani come se continuassi a cercare un nido. Per questo fui spesso ospite della mia collega Wally e di suo marito Alvise, una coppia sui cinquant'anni che non aveva figli. Erano due squisiti veneziani: romantici, ma non sentimentali e con un sale di ironia che mi insegnava l'equilibrio che era mancato alla mia educazione permeata da quella venatura di tragedia greca, sempre incombente. Credo che mi abbiano capita: non mi hanno giudicata una primitiva un po' zotica, ma solo una provinciale appena, appena inselvatichita. Mi fecero conoscere Venezia grandiosa e minimalista con i suoi locali pieni di "cicchetti" e di "ombre". E mi convinsero ad abbonarmi assieme a loro agli spettacoli pomeridiani della Fenice, alla

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stagione teatrale del Goldoni. E così divenni espertissima di orari di motonavi e mentre facevo su e giù da Venezia mi sorprendevo e mi chiedevo chi fossi ed imparavo a riconoscere, anche se lentamente, quello che volevo io per me stessa. Fu proprio sulla motonave per Venezia che un giorno conobbi Aldo. Aldo era da Pesaro, aveva vinto un concorso alle poste e lavorava sulla terra ferma, come dicono i Veneziani. Era entrato in una comitiva di giovani tra i quali c'era un compaesano che abitava a Treporti e per questo Aldo frequentava, in certi orari, la motonave. A furia di incontrarci cominciammo a sorriderci e a salutarci con quella disinvoltura propria dei giovani che in me non era istintiva, ma un atteggiamento a cui mi andavo conformando. Un giorno Aldo prese la motonave senza ragione o meglio non per le solite ragioni, ma per stare con me. Me lo disse semplicemente con le sue maniere pacate e dolci, facendomi arrossire. Trascorremmo tutta la serata nella pizzeria vicina all'imbarcadero e mi parlò di se stesso e della sua città senza quella nostalgia ossessiva che a me stringeva il cuore. Andava verso la vita e le esperienze nuove come una scoperta allegra, senza prevenzioni, timori, rimpianti puerili.

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Si meravigliò quando sentì che i miei migliori amici, quelli con cui condividevo i passatempi, era una coppia di cinquant'anni. "Potresti unirti a noi -mi propose- siamo una comitiva di ragazzi e ragazze in parte forestieri, in parte veneziani." Io sorrisi: "Non vorrei disturbare." "Disturbare? Ma come parli? Tra giovani quanti più si è meglio è. Anche noi andiamo ad assistere a concerti e spettacoli intelligenti; certo non sempre facciamo cose impegnate, se no che giovani saremmo. Domani, ad esempio, andiamo alle zattere a prendere il primo sole e a mangiare un gelato buonissimo. Vieni con noi, naturalmente." Io pensavo che Aldo era il secondo uomo nella mia vita ad offrirmi la pizza, mi perdevo nel ricordo del Bar Lux e non rispondevo. Aldo capì che ero un po' particolare, che i miei tempi non erano quelli degli altri giovani, che ero insicura nei rapporti con i coetanei. Quella sera dissi di no che non sarei andata alle zattere. "Ma perché?" "Così." "Ma ci sarà un motivo?" "Non decido mai su due piedi." "Ma dammi una buona ragione?"

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Insomma facemmo tiro e molla per un po' e ci lasciammo con un no. La notte mi girai nel letto pentita per quel rifiuto e fui molto felice quando il giorno dopo, all'ora di pranzo, Aldo mi chiamò al telefono: "Non rispondermi nemmeno: arrivo con la motonave delle sedici e trenta e andiamo alle zattere." Così cominciai a tralasciare un po' la compagnia di Wally -che mi prese affettuosamente in giro- ed entrai, finalmente, in un gruppo di coetanei. Ero sempre un po' stonata e fuori posto perché, caro papà, non avendo mai fatto capricci in vita mia e non essendomi mai permessa di pensare a cose futili, non avevo l'allenamento, l'esercizio, l'abitudine- non so come chiamarli- a farlo. Ero diventata saggia senza mai essere stata giovane. E tuttavia questa condizione interiore, che costituiva la mia essenza e trasudava dai miei gesti, attirò Aldo. Si innamorò di me ed io di lui che mi sapeva ascoltare e capire così bene. Capiva tutto Aldo e con lui fin dal primo momento potei parlare di te e della scacchiera, della tua vita, della tua guerra, della tua fragilità e della tua grandezza con i giochi e del sistema del totocalcio. Stavo quasi per parlargli anche del viaggio in

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Germania, ma non lo feci. Restai così colpita dalla sua capacità di comprendere cose che erano lontane e fuori dalla sua esperienza che pensai che sarebbe stato un ottimo compagno. Forse pensai anche che sarebbe stato un ottimo genero per te. Sì Aldo aveva tutto quello che occorreva al mio equilibrio e al tuo quando, dopo che avessimo cumulato un certo punteggio, fossi tornata a Lecce. Da quel momento la vita si avventò su di me. Aldo mi chiese quale pietra preferissi per anello di fidanzamento. “Né zaffiri, né rubini, né brillanti!” Risposi come se fossi ancora in quel pomeriggio della spartizione degli anelli di zia Naida. Ero stata così decisa che Aldo restò un po’ interdetto, poi rise pensando che mi riferissi alle nostre convinzioni alternative. “Né zaffiri, né rubini, né brillanti! – ripeté lui “Che sollievo! Perché dovete sapere, cara principessa, che il vostro innamorato dovrebbe vendere gli occhi per ricoprirvi delle gemme che meritate!” E la sua dolce, dolce bocca si congiunse con la mia. Proseguimmo abbracciati e complici: “Veramente mia madre, a cui sei piaciuta subito, sarebbe pronta a sobbarcarsi perché-

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dice- sei una ragazza che merita.” “Bontà sua, ma non occorre. Comunque sono contenta di piacerle.” “E’ perché non ti conosce quanto me… non sa quanto puoi essere sorprendente e arcaica nello stesso tempo!” “Grazie! Facciamo così: andiamo in giro in certi fondaci di Venezia e vedrai che riconoscerò il mio anello.” Fu così che scelsi una fede sarda di seconda mano. Il matrimonio, poi, che si tenne a Lecce, con i miei suoceri e i miei cognati giunti da Pesaro, fu una grande baraonda. Io e te, papà, continuammo a dirci addio quando mi portasti all'altare. Anche quel breve cammino che percorremmo insieme sulla guida rossa dalla soglia della chiesa, dedicata alla Madonna del Rosario, all'altare maggiore ci allontanava. Anche se tu avevi un aspetto fierissimo ed io pensavo ad Aldo così bello nel suo vestito da sposo che mi sbirciava dall'altare. Si sa che il senso di certi momenti nodali siamo destinati a capirlo solo con il tempo. E tutto andò di conseguenza: Aldo, come avevo intuito, era il genero che ti ci voleva: aveva un'istintiva delicatezza verso tutti, il rispetto degli anziani, l'umanità. Queste doti conquistarono anche te e non avesti alcuna vergogna a metterlo a parte del

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tuo sistema, della vincita grandiosa che prima o poi sarebbe venuta. Mio marito ti guardava in modo penetrante. Aldo ascoltava le basi matematiche del tuo sistema e ti dava ragione, non come si dà ragione ad un vecchio stolido, ma perché provava dell'affetto per te e lo stesso affetto gli permetteva di comprendere anche quella specie di pellegrinaggio che volevi compiere. Ci dividevamo tra Spoleto, dai miei suoceri, e Lecce perché le nostre venute ti rendevano felice. Anche mamma lo era e Miranda, che aveva un nuovo innamorato e frequentava la facoltà di giurisprudenza a Bari. Persino zia Estrella era quasi amabile con Aldo e con me eccetto che quando, con un sospiro, dopo un paio di anni dal matrimonio, cominciò a dire: "E bambini, niente?" Anche nel tuo sguardo vidi brillare quella domanda. D'altra parte io stessa cominciavo a preoccuparmi per il bambino che non veniva e divenni suscettibile sull'argomento al punto da evitare per qualche tempo di tornare a Lecce. Poi ci furono le mie gravidanze andate a monte. Dopo ciascuna mi dovevo rimettere fisicamente e più ancora moralmente. Così per un po' di anni il nostro rapporto si ridusse alle telefonate e alle lettere.

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Miranda si laureò, proprio mentre io ero costretta a starmene a letto per non perdere il bambino e mi dovetti limitare agli auguri per telefono e all'invio di un mazzo di rose. Avevo trentacinque anni quando nacque Giuseppe. Tu e mamma veniste per il battesimo. Arrivaste con tutte le leccornie che potevate portare tanto che io, sapendo che solo tu avresti capito, scherzando dissi: "E i ricci, papà? Li hai dimenticati?" Mia madre che era all'oscuro, cadde dalle nuvole: "I ricci! Quali ricci?" E tu rimettesti le cose a posto con il tuo intervento: "Altro che ricci! Ho portato schei -come dicono qua- Ho fatto un dodici..." "Eh il tredici- intervenne mamma- non lo ha pizzicato nemmeno questa volta." "Ma è ugualmente una bella sommetta e un bel regalo per mio nipote." "Aprigli un libretto di risparmio." Suggerì mamma. A distanza di anni mi sembrasti invecchiato, mentre mamma era solo diventata un po' muscolosa. Il tuo spirito sembrava vivificarsi alla vista del nipote, del figlio maschio che non avevi avuto. Ancora una volta sentii che ero stata all'altezza del compito che tanto tempo prima mi ero

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assunto: farti felice. Gli anni successivi alla nascita di Giuseppe sono stati tutto un dialogo tra te e mio figlio. La sua vista ti riempiva di fierezza e di tenerezza: il bambino che era in te lo coccolavi e lo viziavi attraverso lui. Dialogavate per telefono come vecchi amici. Ogni sua parolina o monelleria ti inteneriva. Non c'era mese che non chiedessi sue fotografie per seguirne la crescita. Oramai eri andato in pensione e fui più volte tentata di chiederti se avevi liquidato i tuoi debiti con zia Estrella. Ma non lo feci e mi meravigliai nel rendermi conto che non c'era tra noi la confidenza di un tempo. Miranda era sempre fidanzata, anche se i suoi legami affettivi andavano inevitabilmente a monte. Questo mi faceva comprendere più chiaramente quanto fosse importante per te il mio ritorno a Lecce. Cominciasti ad accennare timidamente alla nostra domanda di trasferimento. Io ne parlavo con Aldo che non lo escludeva, anzi, come per mettermi alla prova, mi diceva sorridendo con tenerezza: "Decidi tu, io sto bene ovunque: qui, a Pesaro, a Lecce. Tutti i luoghi vanno ugualmente bene per me. Devi scegliere tu il posto in cui ti trovi meglio."

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Giudicai Aldo un marito comprensivo, ma poi cominciai a sentire il peso di quella decisione che dovevo affrontare da sola. Quando tu riprendevi il discorso per telefono o quando ci si vedeva di persona ti rispondevo come un ritornello che richiamava nella mia memoria quello tuo degli anni addietro: "Pensa a farti un avvenire" . Ti rispondevo: "Appena avremo accumulato un buon punteggio" In principio ci credevo e facevo conteggi dei punti per ogni anno di insegnamento, quelli per il marito e per Giuseppe e concludevo che dovevamo aspettare ancora un po'. La tua domanda non cambiò con il passare degli anni, soltanto era la mia risposta che si adattava alle circostanze. Sapevo che erano scuse evasive che mutavano quel tanto che corrispondeva alla crescita di mio figlio. Ti dicevo: "Quando Giuseppe terminerà la scuola materna." E dopo: "Aspettiamo che Giuseppe termini il ciclo della scuola elementare: non possiamo sradicarlo." Poi hai smesso di chiederlo e di crederci. Imparasti ad accontentarti delle nostre venute anche se anche quelle si andavano diradando. Ora che eravamo in tre, tornare per le vacanze

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estive era motivo di disagio perché la casa era comunque la casa di zia Estrella che era diventata tanto anziana, non amava la vivacità di Giuseppe, ed era addolorata per i fidanzamenti che Miranda mandava a monte. Così affrontavamo quel viaggio lunghissimo per trattenerci solo pochi giorni in punta di piedi, quasi, e rimanevamo entrambi con l'amaro in bocca come di fronte a qualcosa di incompiuto e, durante il viaggio di ritorno, a momenti provavo la voglia di tornare indietro per portarti via con noi; a momenti giuravo a me stessa che non sarei tornata mai più. Fu Aldo che con il suo buon senso e il suo amore trovò la soluzione: per trascorrere il mese d'agosto a Lecce, affittammo un appartamento che d'inverno era occupato da universitari. Così nessuno era disturbato dalla nostra presenza e ci potevamo godere quel lungo periodo. Quell’ agosto, al mostro arrivo a Lecce, era appena stata emessa la sentenza su Priebke. Ero ansiosa di vedere se tutta quella faccenda aveva riaperto le tue vecchie ferite, se i ricordi visti nella scacchiera erano tornati a tormentarti. Ma tu, invece, eri tutto preso da Giuseppe sui pattini. Le spericolatezze del ragazzino ti divertivano e ti inorgoglivano. Non ti nascondevi dietro solitari o parole

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crociate, eri diventato capace di farti piccino come mai eri riuscito a fare con me o con Miranda. Non ti saresti distolto da lui se non fossimo stati noi ad interpellarti sul processo Priebke. Seguisti un po' le immagini per televisione e dicesti: "Che la giustizia umana debba fare il suo corso è vero. Ma mi sembra un povero vecchio come me... potrei persino fare una partita a carte con lui con quel po' di tedesco che ricordo ancora, o giocare a bocce. E se fossi ancora in servizio lo porterei in giro a fargli vedere mare e cielo: forse non li ha mai guardati." Ridesti: "Ti ricordi, Cosetta, di quando ero giovane che mi ero messo in testa di tornare a visitare il lager?" "Sì papà: ne parlavi spesso.” "Avrai pensato, che ero proprio un vecchio pazzo." Non attendesti la mia risposta, ti facesti un po' pensieroso e riprendesti abbassando la voce: "Sai, Cosetta, ora ho capito tutto di quello che mi disse padre Pantaleo. Parlò dei debiti, ma anche dei crediti che- disse proprio così- “credevo di avere”. Mentre mi davo da fare per pagare i debiti mi sono dimenticato dei cosiddetti crediti e quindi

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dei miei aguzzini, del mio rancore verso di loro e del famoso viaggio. Solo così ho cominciato a vivere veramente. Che perdita di tempo c'è nel rancore!." E ti rimettesti a giocare con Giuseppe. Eri pacificato. E lo fosti per tutto il mese e così ancora mi apparisti il giorno della nostra partenza alla fine d'agosto. Il tuo sorriso era furbo e dolce nel saluto che ti ricambiammo dal finestrino dell'automobile, mentre Giuseppe si sbracciava. Anch'io ero appagata nel vederti sereno e sollevata perché mi eri apparso finalmente libero. Durante il viaggio, quando Giuseppe si assopì e imboccammo l'autostrada, potei abbandonarmi alle mie fantasticherie. Tornavano tanti fantasmi ed echi del passato, tanti volti come quello di zia Naida e di donna Rirì. E di nuovo mi chiesi quale fine avesse fatto la scacchiera. Forse era rimasta tra le fondamenta della nuova costruzione dopo che la nostra vecchia abitazione era stata sventrata. Cominciai a sognare ad occhi aperti e nel sogno ti vedevo salire le scale diroccate del faro, tirare fuori da sotto la camicia il cartoncino e farlo in mille pezzi che sarebbero volati via, volteggiando assieme ai gabbiani. Prima o poi avrei avuto la faccia tosta di

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chiedertelo, magari per telefono o per lettera o, meglio ancora, di persona: la prossima volta. Non c'è stata più la prossima volta. Il 12 settembre ero nuovamente a Lecce davanti alla tua bara. Avevi avuto un infarto e dopo poche ore di coma eri spirato. E ripensando all'ultimo mese, alle tue parole su Priebke, alla tua pace capivo che doveva essere così, che Dio ti aveva preso quando avevi percorso tutto il cammino fino al perdono non solo nel tuo intimo, ma anche testimoniandolo con le parole a me, ad Aldo, a mio figlio. Ed ero contenta di averti tenuto per mano lungo il tuo lento maturare. C'è un luogo -lo credo- pervaso di Luce- narrano - e la Luce- immagino- prima di condurci Oltre ci lascerà giocare una partita sulla nostra scacchiera. Arrivederci, papà.

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FINE

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