una vita perfetta

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Carmen Maria Zardo, romance psicologico. Una donna irreprensibile, sicura di sé e a tratti cinica. Un fratello minore scapestrato, irruente e passionale. La severità e la freddezza di Giulia gelano i rapporti familiari e innalzano un muro di indifferenza, al di là del quale Luciano finirà per perdersi e distruggersi. La lettura segreta del diario del fratello apre, però, una breccia sulle certezze della vita: si può vivere nel pregiudizio e nell’indifferenza senza mai venirne scossi? E poi, è giusto sentirsi artefici del destino degli altri, oltre che del proprio? Giulia troverà risposta solo quando la “sua vita perfetta” verrà sconvolta dalla verità, suo malgrado.

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Page 1: Una vita perfetta
Page 2: Una vita perfetta

In uscita il 30/9/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2015

(3,99 euro)

AVVISO

Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita.

La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi

preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione

dell’anteprima su questo portale.

La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.

Page 3: Una vita perfetta

CARMEN MARIA ZARDO

UNA VITA PERFETTA

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Page 4: Una vita perfetta

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www.facebook.com/groups/quellidized/

LA PSICOLOGIA DEL VIOLA

Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-912-8

Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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A Paolo, il mio amore, che si è opposto all’idea di lasciare nel cassetto questa storia.

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“…Il significato d’ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono

e la seguono…”

Italo Calvino, a proposito de Il castello dei destini incrociati

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1. ODORE DI MORTE

Quella maledetta notte in cui tutto cominciò fui svegliata dal trillo insistente del

telefono di casa. O forse dovrei dire in cui tutto finì, perché da quel preciso mo-

mento si è chiuso un capitolo della mia vita e ne è iniziato uno nuovo. Non riusci-

vo a sollevare le palpebre, ma anziché risprofondare nel sonno, fui costretta da

quello squillo scocciante a uno sforzo disumano per destarmi. Doveva essere an-

cora dannatamente notte fonda, pensai, e ancora incredula, girai la testa sul cuscino

dall’altra parte, verso la radiosveglia del mio comodino e poi di nuovo verso mio

marito, avvertendo un fastidiosissimo dolore al collo. Lui dormiva di un sonno in-

dubbiamente profondo accanto a me, dal momento che non si scosse di un milli-

metro. Erano le tre e quarantacinque, il telefono si ostinava a squillare in modo o-

dioso e parte di quell’odio assurdo lo provavo in quel preciso momento anche per

Riccardo, mio marito. Era sempre stato così tra noi due: io mi svegliavo anche al

soffio di una mosca sonnambula, mentre lui avrebbe continuato a dormire anche

sotto un bombardamento aereo. Era una cosa che trovavo profondamente ingiusta,

ma che faceva ormai parte del mio ruolo di brava donna di casa, moglie devota e

premurosa, madre irreprensibile. Ed era così che allora mi piaceva pensarmi e de-

scrivermi.

Quindi toccava a me alzarmi dal letto e, mentre mi trascinavo insonnolita e rasse-

gnata verso il telefono che si trovava nel soggiorno, ebbi ancora qualche secondo

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per pensare con sollievo che i miei due figli, Chiara e Paolo, stavano dormendo

sereni nelle loro rispettive stanze, che mio marito Riccardo era a letto con me e non

fuori in una delle sue uscite nottambule con amici di cui avevo sempre poco da

fidarmi, che io sapessi nessuno dei miei familiari e parenti più stretti stava male. E

soprattutto non attendevo la telefonata di nessuno, tanto meno a quell’ora di notte.

Alzai il cordless dalla base, scocciata per essere stata svegliata così brutalmente,

ma quasi certa che si trattasse di un errore o di uno stupido e crudele scherzo not-

turno. Domandai con tono seccato chi fosse e dall’altra parte sentii dei rumori stra-

ni, dei singhiozzi, come se qualcuno stesse cercando di dire qualcosa e non gli riu-

scisse. Chiesi a chiunque fosse di calmarsi perché non stavo capendo proprio nien-

te di quello che andava blaterando, altrimenti avrei messo giù. Mi ascoltò e solo

allora riuscii a riconoscere quell’inconfondibile timbro graffiante a me familiare.

Era mia sorella Rita. Stava cercando di dirmi che era successo qualcosa di grave,

una tragedia, era nel panico più totale per qualcosa di brutto, capitato a chi? Non

riuscivo davvero a comprendere:

«Stai calma per favore, Rita, se non ti calmi un po’ non riesco a capire niente di

quello che dici. Cosa è successo?».

«Nostro fratello… Luciano… si è impiccato». Rita si mise a singhiozzare ancora

di più biascicando qualcos’altro che non riuscii proprio a decifrare.

Le poche parole comprese mi rimbombarono nella testa, facendomi trasalire e

perdere l’equilibrio. Mi ritrovai in un imbarazzo spaventoso. Cercai di rimanere

calma e di fare appello a tutto il mio risaputo self-control; in tanti anni di insegna-

mento nella scuola pubblica avevo consolidato e affinato una grande capacità di

autocontrollo, indispensabile forma di difesa, che molti colleghi mi invidiavano,

per non capitolare sotto gli schiamazzi e le petulanze di centinaia di alunni preado-

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lescenti. La situazione era diversa, ma per me poco importava. Mi sedetti sul brac-

ciolo della poltrona e inspirai profondamente:

«Adesso dove ti trovi esattamente?».

«A casa di Luciano, ti prego vieni subito qui. È una scena orribile».

«Chi c’è con te, sei sola?».

«Sì, ho chiamato il 118, non sapevo cosa fare… è morto… è morto».

«Stai calma, mi vesto e vengo lì, non fare niente e non toccare niente».

Era un mio ordine e sapevo che Rita avrebbe ubbidito, come un cagnolino remis-

sivo e spaventato. Con l’orecchio ancora attaccato al telefono sentii dall’altra parte

un pianto strozzato, e per un istante mi sembrò che si materializzasse in due pos-

senti mani che uscivano dal cordless per bloccarmi il respiro. Ero allucinata e ave-

vo veramente tanto sonno.

Sperai tanto di svegliarmi ancora, volevo che quello fosse solo un maledetto incu-

bo. Andai in bagno e mi guardai allo specchio. Era tutto reale. Mia sorella mi ave-

va appena chiamato per dirmi che nostro fratello si era impiccato. Mi lavai il viso

con l’acqua fredda e fissai la mia immagine sonnambula allo specchio, alla ricerca

di un qualcosa che non veniva fuori. Perché? Perché Rita si trovava lì alle quattro

di notte? Cosa dovevo fare? Provai un odio profondo per mio fratello perché aveva

scelto di morire nel peggiore dei modi, lasciando noi sorelle a patire ancora una

volta le amare conseguenze delle sue cattive azioni. Era il tormento che si ripeteva

inesorabile, nonostante avessi fatto di tutto per cancellarlo.

Luciano aveva sempre dato problemi, a me e agli altri componenti della famiglia,

sin da quando era piccolo. Era la pecora nera della famiglia e io mi vergognai in

diverse occasioni di averlo come fratello. Da tempo avevo tagliato i ponti con lui,

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non sapevo e non volevo sapere cosa stesse combinando; avevo la mia famiglia, la

mia casa e il mio lavoro a cui pensare e di lui non me ne importava ormai più nien-

te. L’avevo sempre considerato colpevole della morte di papà prima e di mamma

poi. Aveva dato loro troppi dispiaceri fino a farli invecchiare precocemente e am-

malare; a mio padre fece crepare letteralmente il cuore e alla mamma tolse ogni

speranza di ravvedimento morale.

Mi vestii svogliatamente mentre provavo a svegliare Riccardo:

«Cosa succede? Che ore sono?».

«È successo qualcosa a Luciano, devo andare a casa sua. Rita è lì che mi aspetta.

Tu pensa ai bambini. Poi ti chiamo, appena capisco che diavolo succede».

«Qualcosa di grave?».

«Credo gravissimo». Indossai la giacca marrone che avevo lasciato sulla poltron-

cina davanti al letto poche ore prima. Eravamo stati a cena da amici ed ero tornata

a casa molto stanca. Non l’avevo riposta nell’armadio, al suo posto accanto alla

giacca blu, come tutto nella mia vita di allora doveva andare al proprio posto.

«Stai attenta però. Vuoi che vada io al posto tuo?».

«No, tesoro. Pensa ai bambini. Preparali e portali a scuola, poi ci sentiamo al tele-

fono».

«Come… portali a scuola, ma cosa è successo? Non torni a casa?».

«Rita era molto scossa, blaterava, ho capito e non capito quello che diceva. Ti fac-

cio sapere. Devo andare».

Presi la borsa e scesi in garage a prendere la mia macchina. L’aria gelida di quella

notte mi investì la faccia come uno schiaffo inatteso e il buio mi fece molta paura.

Stavo andando a conoscere la verità e a rimestare vecchie acque putride nelle quali

avevo immerso il mio egoismo, la mia indifferenza e la mia ipocrisia. Se fossi stata

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meno insensibile e cinica avrei potuto già odorare l’olezzo fetido che avrebbe im-

pregnato i miei bei vestiti firmati e tutta la mia vita perfetta.

Avevo toccato da poco i quarantacinque anni ed ero riuscita a ottenere tutto ciò che

volevo nella vita: mi ero laureata in Lettere, avevo vinto il concorso ordinario per

l’abilitazione all’insegnamento e, dopo pochi anni di precariato, ero entrata in ruo-

lo come docente di Italiano, Storia, Educazione civica e Geografia nella scuola

media. Mi ero innamorata del collega di matematica e lo avevo sposato. Con lui

avevo fatto due meravigliosi figli di cui ero e sono particolarmente orgogliosa:

Chiara, che oggi ha dieci anni e adora la danza moderna, e Paolo, otto, portato per

la musica e la play station. Siamo andati a vivere in una casa spaziosa e conforte-

vole, circondata da un bel giardino pieno di fiori e piante curati con passione da

Riccardo. Io ero invece la letterata della famiglia, amante della letteratura classica e

di chi faceva le cose per bene. Come le due cose si abbinassero perfettamente lo

dovevo alla convinzione e concezione che solo il classico fosse sinonimo di perfe-

zione, la massima espressione di valori e risultati artistici che l’uomo aveva rag-

giunto a forza di tentativi, studio e dedizione. E tempo. Il mio stile di vita a quel

tempo doveva quindi essere classico, e di conseguenza anche intransigente e con-

servatore. Regole prima di tutto, perché solo esse tracciano la via di un destino glo-

rioso. Questo nel mondo del lavoro mi comportava non pochi problemi. Non sop-

portavo chi lasciava a metà o chi faceva tanto per fare; i miei alunni lo sapevano

molto bene e mi avevano affibbiato qualche soprannome tipo “La Pignolona” o

qualcosa del genere, che per me non era affatto un’offesa, semmai motivo di van-

to.

Sapere che mio fratello si era tolto la vita mi innervosì parecchio. Ebbi la stessa

spiacevole sensazione di quando rimproveravo un alunno per non aver completato

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il compito a causa di continue perdite di tempo. Mio fratello non aveva fatto altro

che perdere tempo nella sua vita, dimenticandosi dei compiti importanti da svolge-

re e adesso si era consegnato così, con una fine miserevole. Impreparato, quattro!

Fui presa dalla tentazione di tornarmene indietro dalla mia famiglia, nel calduccio

del mio letto tra le braccia rassicuranti di mio marito. Non volevo saperne niente di

Luciano e della sua morte. Solo il pensiero di Rita, sola e in preda al panico, e la

maledetta curiosità di sapere, a quel punto, come si erano svolti i fatti e soprattutto

perché lei si trovasse lì, mi impedirono di fare una manovra di inversione Doveva

aver spezzato i legami con il fratello da tempo, come me e per merito mio: allora,

perché era lì? Per un attimo mi sentii tradita e quell’assillo mi teneva stretta la men-

te, mentre la notte sferzava sul cristallo anteriore del mio fuoristrada, strusciando

contro i miei pensieri interrotti.

Entrando nel lungo e stretto cortile della casa dove viveva mio fratello, fui accolta

dalle luci blu dell’autoambulanza, che in quel cielo tetro gettavano tutt’intorno

ombre paurosamente intermittenti. La macchina di mia sorella era parcheggiata lì a

fianco e la mia dovetti fermarla un po’ più indietro, altrimenti avrei bloccato il pas-

saggio. Sperai che fosse ancora vivo e che se lo portassero via prima che io potessi

vederlo, ma non c’erano movimenti che avvalorassero il mio riprovevole deside-

rio. Entrai in casa. Rita piangeva con la faccia tra le mani, seduta sul divano di finta

pelle marrone, e vicino a lei un uomo con il giubbotto catarifrangente di color a-

rancione cercava di calmarla senza tanta convinzione. Quando mi vide, si mise a

piangere ancora di più, mi venne incontro e si gettò letteralmente su di me. In quel

momento realizzai che era tutto vero, non era un sogno e non c’era più speranza.

Altri due uomini sempre con il catarifrangente scesero dalla ripida scala che porta-

va ai piani superiori:

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«È sua sorella? Qui c’è bisogno di interpellare i carabinieri, noi non possiamo fare

niente adesso, lo abbiamo steso a terra e constatato il decesso».

L’uomo che parlò mi guardò come se si aspettasse da me una maggiore capacità di

decisione. Rita mentalmente non c’era più.

«Vorrei sapere cosa è successo, cioè cosa è successo esattamente» mi apprestai a

chiedere, prima che quei tre se ne andassero via, e mi parai davanti alla porta, per-

ché non volevo assolutamente rimanere lì da sola con un’isterica e un cadavere.

«Suo fratello pare si sia impiccato. Se ha intenzione di salire non tocchi nulla. Noi

dobbiamo andare. Poi lo faranno portare via…».

«Cosa? Perché non lo portate via adesso? Perché i carabinieri?» mi stavo agitando,

anche perché non sapevo cosa si dovesse fare in quei casi, sentendomi una perfetta

imbecille.

«Non adesso, non noi. Mi dispiace signora. Il mio collega sta avvisando i carabi-

nieri, per il momento non possiamo fare altro».

L’uomo parlava a fatica, evidentemente scosso dalla visione della morte alla quale

non ci si abitua mai e quando è volutamente architettata ancora meno, perché su-

bentrano tante domande alle quali non si sa rispondere, rimane quel senso di impo-

tenza e di fragilità che ognuno di noi si porta dentro.

Nello sguardo di quei tre angeli della morte, lo vedevo bene, c’era pietà, compas-

sione. Io invece ero solo seccata perché non sapevo cosa dovevo fare e Rita non

mi era di aiuto. Li ringraziai e attendemmo l’arrivo di qualcuno che ci spiegasse

quali erano le procedure burocratiche da seguire. Io ero assolutamente impreparata

e la cosa mi causò uno stress insopportabile, abituata com’ero ad avere tutto sotto

controllo. Quando morirono i miei genitori, le cose furono molto, ma molto diver-

se. Chiamai mio marito sul cellulare:

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«Riccardo, è successa una tragedia. Luciano si è tolto la vita e io non so cosa fare»

spiegai quello che sapevo a mio marito con la speranza e la quasi certezza che lui

mi sapesse consigliare. Mi disse di aspettare i carabinieri e di contattare, appena

fatto giorno, l’agenzia funebre che si sarebbe occupata di tutto. Con la sua voce

dolce e calda mi tranquillizzò; mi assicurò che avrebbe pensato lui ai bambini e

avvertito la scuola della mia assenza. Dovevo rimanere lì, in quella casa tetra fin-

ché non si fosse risolto tutto, dal punto di vista burocratico almeno.

Mi sedetti sul divano con Rita abbracciata a me; io ero la sorella maggiore, lei la

più piccola e Luciano era venuto nel mezzo. Trovarmi in quella casa mi fece orro-

re. Era fredda e cupa e io sentivo un tanfo di chiuso, umidità e morte. Ebbi la tenta-

zione di alzarmi per andare ad aprire una finestra e verificare se il termosifone fun-

zionasse. Erano i primi di marzo, ma faceva ancora molto freddo e fuori era ancora

terribilmente buio. Ma subito dopo pensai che quella non era casa mia e che era

meglio, come avevo sentito prima, non mettere le mani da nessuna parte. Avrei

sopportato ancora un po’. L’idea che ci fosse un cadavere sopra la mia testa, anche

se quello di un mio consanguineo, mi fece rabbrividire. Mi strinsi a Rita. Ero stata

lì dentro pochissime volte, e sempre per litigare con Luciano, perché non la finiva

di perseguitare nostra sorella con insistenti e ingiustificate richieste di denaro. Lui

sapeva benissimo che da me non avrebbe mai avuto niente, anzi lo avrei cacciato

immediatamente con un calcio nel sedere, ma Rita, invece, si lasciava ancora ab-

bindolare e convincere. E io non lo sopportavo. Gli avevo urlato in faccia di la-

sciarla stare, che anche lei doveva pensare alla sua famiglia e che si arrangiasse

con i suoi problemi. La famiglia aveva già fatto abbastanza in passato per lui, era

ora che imparasse a vivere sul serio. Le mie sfuriate erano un mordi e fuggi e non

ebbi mai modo di accorgermi di quanto povera fosse quella casa. Non c’erano

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quadri alle pareti, ma solo un calendario tutto scarabocchiato con la biro e una mi-

sera targhetta di qualche premio di cui ignoravo completamente la provenienza. E

niente tende alle finestre. Il mobilio era essenziale e molto vecchio, fuori moda;

tutta roba che Luciano si era fatto dare da qualche buona anima intenzionata a di-

sfarsene. Di nuovo e moderno c’era solo un televisore a schermo ultrapiatto e uno

stereo con quattro casse, forse un home theatre. I soprammobili facevano pena:

erano degli animali di ceramica di pessima fattura, messi qua e là senza un qualsia-

si criterio estetico. Una porta a vetri di vernice bianca mezza scrostata mi separava

dalla scala che portava di sopra, alle camere e in soffitta, dove probabilmente Lu-

ciano aveva compiuto l’ultimo insensato e macabro gesto di tutta la sua vita disso-

luta. Forse si era reso conto di quello che era e di quel niente che aveva combinato.

Chiesi a Rita di raccontarmi cosa era successo, ma sembrava non volersi calmare.

Le ordinai di smettere di piangere.

Consideravo mia sorella Rita una donna fragile e io mi sono sempre sentita in do-

vere di proteggerla. Anche in quel momento avrei voluto risparmiarle il dolore sin-

cero che stava provando, nonostante Luciano gliene avesse fatto passare di tutti i

colori, sin da piccola. Come non ricordare il taglio dei capelli. Lei aveva tredici an-

ni e lui quindici. Era piena estate e faceva molto caldo. Rita e Luciano avevano

appena litigato per l’ultimo bicchiere di aranciata rimasto che lui si prese con la

solita prepotenza. Rita uscì dalla cucina e si diresse inviperita verso il garage, pas-

sando prima per la stalla, e con una forca tridente colpì il motorino nuovo di Lu-

ciano, autografandolo con diversi sfregi. Quando perdeva il controllo, la mia sorel-

lina era proprio una furia. Sentendo i colpi, accorremmo tutti in garage. Così Lu-

ciano poté ammirare l’oltraggio inferto al suo caro due ruote, ottenuto peraltro a

suon di suppliche fatte alla mamma. Con un forbicione che nostro padre usava per

tagliare il fil di ferro, si scaraventò sulla povera Rita e, immobilizzandola a uno de-

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gli angoli del garage, le tagliò una lunga ciocca di capelli. I capelli di Rita! Erano

una cascata di grano maturo:

«Così impari!» le ringhiò rabbioso, gettando le forbici sul bancone degli attrezzi e

andandosene via, sprezzante. Rita si accovacciò piangendo disperata e io rimasi lì

sul portone a seguire la scena, dispiaciuta, ma completamente inerme.

Il giorno dopo aveva già dimenticato tutto e andò con lui dal meccanico per far

sistemare il motorino. Non la capivo e la detestavo quando faceva così. Tra loro

c’era amore e odio. Tra lui e me solo odio. Con la maggiore età, quando diventai

più consapevole di me stessa e di quello che doveva essere il mio posto nella so-

cietà, ho cominciato a percepire la presenza di Luciano sempre più fastidiosa e ho

cercato di tenermene lontana il più possibile, ma non sempre è stato possibile, al-

meno fino a quando abbiamo vissuto tutti sotto lo stesso tetto, noi tre con i nostri

genitori.

Non arrivava nessuno, ormai erano le quattro e mezza e io avevo un sonno terribi-

le. Prima di uscire quella sera avevo supplicato Riccardo di portarmi a casa presto

e di non fermarsi troppo a chiacchierare con i suoi amici; invece, come sempre,

avevamo fatto tardi. Era stata una bella serata davvero, ma il ricordo si andava

sfumando troppo velocemente in quella notte sconvolgente.

Rita si asciugò il viso e mi raccontò finalmente come erano andate le cose.

Anche lei come me non vedeva né sentiva Luciano da parecchio tempo, mesi for-

se. Quella notte verso le tre e un quarto aveva ricevuto una sua chiamata sul cellu-

lare che non spegneva mai per abitudine. Luciano era strano, farneticava, diceva di

voler morire, che la vita faceva schifo e che noi sorelle lo odiavamo:

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«Tu Rita sei buona, ma ti fai influenzare da quella lì, Giulia... Giulia è molto catti-

va, ha il cuore di pietra. Non ascoltarla più. A me ha fatto tanto male. Che Dio la

stramaledica!».

Luciano le aveva parlato così e lei aveva creduto che fosse solo ubriaco o fatto,

pertanto non gli diede retta e chiuse il telefono. Tornò a letto e raccontò a Silvio, il

suo compagno, quello che aveva appena sentito e anche lui le disse di non pensarci

perché Luciano era solo un matto. Il convivente di mia sorella conosceva abba-

stanza bene i particolari della nostra famiglia e una volta, durante un litigio con

mio fratello, gli aveva pure messo le mani addosso, lui che era l’uomo più pacifico

che io conoscessi. E questo per dire quale fosse il potere irritante di Luciano. Rita

però non si diede pace. Non capiva il perché di quello sfogo a quell’ora della notte

e le parole che aveva usato nostro fratello le fecero davvero paura. Si convinse al-

lora che quello era stato un appello, l’ultima richiesta di aiuto prima di farla finita

per sempre. Rita dopo un quarto d’ora si precipitò da Luciano in piena notte. Du-

rante il tragitto in auto provò a chiamarlo sul cellulare insistentemente, ma a vuoto.

Arrivata davanti alla porta, la trovò chiusa; suonò il campanello, batté forte con i

pugni contro il legno indurito dal tempo. Nessuna risposta. Indietreggiò per vedere

meglio le finestre del secondo piano. Fu allora che si accorse che c’era una luce

accesa in alto, in soffitta. Rita non gridò perché non voleva svegliare il vicinato, ma

con un calcio fortissimo riuscì a scardinare la porta già parecchio sgangherata e

rovinata dalle intemperie. Corse sulle scale inciampando, aggrappandosi al corri-

mano, al muro, a tutto quello che trovava. Arrivò in soffitta affannata. Gridò. Un

corpo pesante penzolava nel vuoto, agonizzante. Luciano non era ancora morto. A

Rita parve di sentire un rantolo di respiro. Cercò di sollevarlo nel vano tentativo di

allentare la stretta della corda che gli stava tagliando il collo, ma le fu praticamente

impossibile. Mia sorella Rita è alta un metro e cinquantatré e pesa quarantadue chi-

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li, mio fratello ne pesava circa novanta. Quando capì che i suoi sforzi erano del tut-

to inutili si affacciò alla finestrella della soffitta per chiamare aiuto, ma si accorse di

non avere neanche più fiato per chiamare. Digitò il 118 sul telefonino e attivò i

primi soccorsi. Era finita.

«È tutta colpa mia, perché non ho capito subito che faceva sul serio. Se fossi arri-

vata prima…».

«Non sarebbe cambiato niente, cosa potevi fare… la colpa è solo sua. È lui che ha

deciso così e scommetto che ti ha chiamato proprio perché tu ti sentissi in colpa.

Ha sempre fatto la vittima, lo sai».

«Sei troppo dura Giulia. Nostro fratello è morto e tu potresti fare finta almeno che

ti dispiaccia».

«Mi dispiace perché è triste che una persona arrivi a tanto».

«Ma che ne sappiamo noi di cosa gli passasse per la testa, lo abbiamo abbandona-

to…».

«Ti prego Rita, non cascarci ancora. Non glielo permettere. Adesso basta».

Mi sembrò di assistere per l’ennesima volta alla stessa scena: Rita che si inteneri-

sce per il vittimismo di Luciano e lui che se ne approfitta per ottenere quello che

vuole. Questa volta voleva il rimorso a vita di mia sorella, che non aveva nessuna

colpa se non quella di essere un po’ ingenua. Anche se la situazione era tragica,

dovevo essere dura e forte e rimanere lucida e obiettiva. Nel giro di qualche giorno

avremmo sistemato tutto e poi saremmo tornate alla nostra vita di sempre. Almeno

così credevo.

Erano le cinque meno un quarto; non facevo altro che guardare l’orologio al polso

causando l’effetto contrario a quello che volevo. Più guardavo e meno il tempo

passava. Presto sarebbe arrivato qualcuno dei vicini per vedere cosa stava succe-

Page 21: Una vita perfetta

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dendo e per curiosare. Non conoscevo quella gente, ma abitiamo in piccoli paesi di

campagna, dove episodi di questo genere suscitano ancora una commiserazione

collettiva. Finalmente arrivò l’auto lampeggiante. Andai ad aprire. Erano venuti il

maresciallo e due sottoufficiali. Dissi le poche cose che sapevo e presentai loro mia

sorella, che sarebbe stata, questo lo sapevo, la loro interlocutrice principale. Era da

lei che volevano sapere come si erano svolti i fatti, cosa aveva visto sentito e fatto.

Prima però i tre andarono di sopra, da soli, dal momento che io non avevo nessuna

intenzione di vedere l’orrore e Rita era già piuttosto provata. Ero convinta che a-

vrebbero fatto presto a fare le loro rilevazioni, non c’era poi tanto da capire ed era

tutto chiaro. Invece impiegarono molto tempo a scendere e la cosa mi preoccupò.

Chiesi a Rita come mai ci mettessero tanto e lei mi rispose che la scena era orribile,

impressionante, e che non andassi a vedere perché ne sarei rimasta sconvolta.

Quella mattina ero già stata sconvolta, avevo la nausea e mi veniva da vomitare.

Telefonai a Riccardo per dirgli che erano arrivati i carabinieri e per sapere se i

bambini dormivano beatamente ancora ignari di tutto. Mio marito, che non era più

riuscito a chiudere occhio, si era alzato e si stava preparando per affrontare la nuo-

va giornata che sarebbe stata molto lunga anche per lui. Rita decise di mettere sul

gas un caffè. Ne avevamo assolutamente bisogno.

Il maresciallo ci raggiunse in cucina e chiese di parlare con mia sorella. Mi occupai

io del caffè, cercando di farmi strada tra cassetti e dispense per reperire tutto quello

che serviva. Sentii Rita raccontare ancora una volta la nera cronaca di quella notte

infinita al maresciallo, che nel frattempo si era seduto con un fare non molto diver-

so da quello degli avventori di una vecchia e brutta osteria. Mi venne un conato,

ma loro non si accorsero. Mandai giù un cucchiaino di zucchero. Arrivarono anche

gli altri due che rimasero in silenzio e in piedi. Preparai il caffè per tutti.

Page 22: Una vita perfetta

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Dopo aver ascoltato l’intero triste resoconto dell’accaduto, il maresciallo ci spiegò

che dovevamo attendere il sopralluogo del magistrato e del medico legale perché

c’erano delle ferite sospette su mani e braccia del cadavere che chissà che cosa vo-

lessero dire…. E questi non sarebbero arrivati prima di un’ora, no di sicuro… for-

se anche due… E poi avremmo dovuto attendere e attendere quasi di certo i risul-

tati dell’autopsia che forse…. Quello seguitava a parlare, ma a me sembrava in-

concludente in ogni suo enunciato:

«Scusi maresciallo, ma quanto tempo ci vorrà prima che possiamo preparare il fu-

nerale?».

Rita mi guardò male: nostro fratello aveva ancora il sangue caldo e io pensavo solo

a seppellirlo nella gelida terra. Quando sentii la parola autopsia realizzai che le co-

se sarebbero andate per le lunghe e che il mio desiderio di chiudere in fretta quella

ripugnante parentesi non sarebbe stato esaudito. Il maresciallo mi rispose di atten-

dere le decisioni del magistrato, se non c’erano intoppi, avremmo potuto fare le

esequie dopo qualche giorno. Nessun intoppo, pensai, nessuno. Non capivo nean-

che il perché del magistrato, ma non me ne importava, purché tutto finisse. Do-

mandai anche se era necessaria la nostra presenza in quella casa. Volevo andarme-

ne ad abbracciare i miei cari e respirare il profumo così gradevole di violetta di ca-

sa mia. Anche Rita doveva allontanarsi da lì, da quel posto lugubre dove si respi-

rava aria malsana. Ci disse che al magistrato servivano due testimoni per il ricono-

scimento. Quale riconoscimento? Cosa stava succedendo? Mi vennero in mente i

telefilm polizieschi che ogni tanto guardo alla tv. Il riconoscimento si fa in caso di

grave deturpazione del viso, proprio quando non è possibile identificare il morto.

Fissai perplessa il maresciallo e i suoi uomini e poi Rita, mi aspettavo da qualcuno

di loro una risposta.

«Signora, suo fratello non è messo proprio bene. Il peso del corpo…».

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«La prego…» implorò mia sorella che evidentemente non voleva sentire le spie-

gazioni fisiche di ciò che non era riuscita a fare e di cui ora si sentiva terribilmente

in colpa. Poi si girò verso di me e mi chiese perdono. Io non capii. Bevemmo il

caffè e poi il maresciallo e uno dei due che erano con lui se ne andarono lasciando

l’altro a piantonare.

Arrivarono, non prima delle sette e mezza, anche il magistrato, il medico e altre

due persone. Un’altra processione di uomini fin lassù, nella soffitta della morte. Mi

girava la testa e la vista mi si andava offuscando. Dovevo assolutamente mantene-

re un’apparenza di autocontrollo finché c’era quella gente in casa.

Prima di entrare in classe Riccardo mi chiamò per sentire le ultime novità e per

dirmi che le mie ore erano state coperte da altri colleghi. Alle undici lui avrebbe

terminato le lezioni e sarebbe venuto da me. Lo amavo tanto, senza di lui mi sarei

sentita persa. Rita, a sua volta, chiamò Silvio.

Gli uomini scesero. Il magistrato era un omaccione con pochi capelli in testa, un

tipo molto nervoso con la erre moscia. Fece poche domande ma molto dirette a me

e mia sorella e la situazione gli sembrò piuttosto limpida:

«Ha sfondato lei la porta?» si rivolse a Rita che non rispose nulla. Allora intervenni

io: «Sì…ha detto così, anche al maresciallo!».

«Per favore, signora…ci avete chiamato…lasciateci almeno fare il nostro lavoro».

Non capivo quell’uscita stizzosa, come se fosse colpa nostra, e rivolsi lo sguardo al

carabiniere dal quale mi aspettavo un intervento. E invece niente.

«Allora diciamo che vostro fratello prima di impiccarsi ha tentato di tagliarsi le ve-

ne, ma qualcosa…insomma…ha cambiato idea…».

«Non sopportava la vista del sangue» irruppe ingenua mia sorella, sdegnata per il

linguaggio crudo che aveva usato quell’uomo ingombrante.

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«La lametta è stata trovata nel cestino del bagno» aggiunse il carabiniere, che

all’improvviso si ricordò di possedere facoltà fabulatorie.

«Allora è tutto chiaro, la situazione è limpidissima. Dobbiamo solo procedere con

il riconoscimento, è solo una prassi. Potete farla adesso o prima dell’autopsia».

«È proprio necessario fare l’autopsia?» azzardai a chiedere, timidamente perché

quell’uomo mi incuteva soggezione.

«In questo caso si potrebbe anche non farla, ma io dispongo che si faccia. Avete

qualcosa in contrario?».

Mi rivolse quella domanda mentre scriveva qualcosa su alcuni fogli che gli veni-

vano passati con tanta riverenza dal medico, senza guardarmi direttamente in viso.

Io mi sentii una scolaretta impertinente che vuole sapere più del maestro.

«E allora andiamo avanti, per favore!».

Non capii cosa volesse dire, sembrava che ci rimproverasse di qualcosa; sì, di esse-

re le sorelle di quel disgraziato che aveva mobilitato un casino di gente quella notte

per la sua ennesima e fortunatamente ultima cazzata.

«Allora procediamo con il riconoscimento?».

Quell’uomo grande e grosso, sicuro di sé e di ciò che rappresentava, mi fece senti-

re una donnicciola debole e insicura, cosa che chi mi conosce sa che non sono af-

fatto.

Non avrei voluto vedere Luciano, ma sembrava che non avessi alternative.

A un cenno del magistrato, si fecero avanti gli altri due che sembrava attendessero

impazienti quel momento. Il magistrato era uno che si faceva capire a gesti. Sali-

rono con una bara metallica fredda e anonima; finalmente avrebbero riposto quello

che era mio fratello in un luogo perlomeno pulito e sano, incontaminato. Mia so-

rella aveva parlato di una scena raccapricciante lassù in soffitta e io mi immaginai

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anche sporcizia, muffe, topi, ragni. Così doveva essere la soffitta di una casa, o

meglio una porzione di casa vecchia, fatiscente e non curata come quella.

I due uomini, coadiuvati dal carabiniere, incontrarono delle difficoltà a portare giù

la bara perché la scala era molto ripida e stretta.

Quando arrivarono in quella specie di ingresso salotto, il magistrato fece segno di

fermarsi, di posare un attimo il feretro e di scoprire il lenzuolo che avevano appog-

giato sopra il cadavere. Aveva tutta l’aria di un rituale:

«Questo è vostro fratello» il magistrato lesse su alcuni fogli che stavano in mano al

carabiniere, il quale gentilmente e con riverenza glieli porse, «Luciano Molinaro

nato il…?».

Era una domanda inutile che mi costrinse a guardare in faccia tutti i miei errori;

Luciano era riconoscibile, ma ridotto a una maschera deforme di se stesso. Mi

chiesi com’era possibile che in così poco tempo la natura violentata lo avesse stra-

volto in quel modo. Gli occhi erano ancora spalancati e fissavano immobili e pie-

trificati l’orrore di un’esistenza riprovevole. Il naso era piegato di lato e la bocca

asciutta e semiaperta a implorare pietà. Era dello stesso colore grigio della bara.

Ma la cosa che più faceva ribrezzo era la strangolatura violacea della corda che gli

aveva marchiato a fondo la pelle. Una visione repellente! Mi venne un altro conato

e mi girai dall’altra parte. Al magistrato risposi con un cenno della testa. Quello era

mio fratello, Luciano, e quella sarebbe stata l’immagine feroce della mia coscienza

che sarebbe venuta a tormentarmi nei mesi successivi. Il medico legale, un uomo

sulla cinquantina dagli occhi piccoli e ravvicinati, a quel punto con i guanti ancora

addosso, chiuse gli occhi al cadavere e ci disse che avremmo dovuto attendere il

nullaosta per il funerale, che sarebbe arrivato solo dopo l’autopsia.

Lo portarono via, finalmente, mentre Rita si abbandonò ancora a un pianto stra-

ziante di dolore. E con Luciano se ne andarono tutti ponendo fine a quell’ andiri-

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vieni di persone che mi causò un enorme mal di testa. Avevo fame. Fuori era gior-

no. Io e Rita dovevamo fare il punto della situazione; dovevamo pensare al funera-

le e alle cose di Luciano, disdire il contratto d’affitto della casa, decidere cosa fare

con quel poco che gli apparteneva. Visionammo la rubrica telefonica del cellulare

che Rita tolse dalla tasca dei pantaloni di Luciano prima che arrivassero i primi

vani soccorsi. Cercavamo qualcosa, non sapevamo neanche noi cosa di preciso,

forse un nome, un motivo, un perché di quel tragico gesto. La rubrica era piena di

nomi a noi completamente sconosciuti. Rita volle tenere il telefonino di Luciano,

così avrebbe risposto a chi eventualmente avesse chiamato e io la lasciai fare. Si-

stemammo alla meno peggio la porta che mia sorella quella notte aveva sfondato e

ritornammo alle nostre case. Ci saremmo trovate a casa di Rita nel pomeriggio.

Prima che ce ne andassimo, un paio di vicini si fecero avanti con un’aria molto

preoccupata. Credo che abbiano seguito tutti i movimenti di quella mattina, ma

che solo allora abbiano avuto il coraggio di farsi avanti. Demmo le informazioni

strettamente necessarie non volendo prolungare ancora la nostra presenza in quel

posto. Ci fecero le condoglianze. Erano le dieci e mezza del mattino ed ero com-

pletamente stralunata.

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2. PROFUMO DI VIOLETTA

Mio fratello Luciano si era tolto la vita impiccandosi a una vecchia trave della sof-

fitta della casa in cui viveva da alcuni anni, solo. Aveva quarantadue anni, nel fiore

della vita. Una vigliaccata, un gesto insulso e imperdonabile che da lui ci si poteva

anche aspettare. Ecco perché la sua morte non mi turbò più di tanto: nella sua bre-

ve vita spericolata mi aveva abituato a gesti clamorosi e sconcertanti, che avevano

suscitato sempre la mia riprovazione e il mio sdegno.

Rita si sentiva in colpa, io per nulla.

Dal giorno in cui compresi che mio fratello era irrecuperabile, che non sarei mai

riuscita a cambiargli la testa, decisi di interrompere ogni tipo di rapporto con lui e

glielo comunicai ufficialmente il giorno in cui seppellimmo nostra madre. Durante

la veglia funebre di quei tristissimi giorni riuscii a mantenere, almeno esternamen-

te, un contegno di rispetto, ma una volta terminate le sacre esequie gli sentenziai

che lo ritenevo colpevole della morte dei nostri genitori, che la mia casa sarebbe

stata da quel momento in poi sempre chiusa per lui e gli intimai di non avvicinarsi

mai più alla mia famiglia.

Era passato più di un anno e da allora io non avevo saputo e non avevo avuto mo-

do di sapere cosa avesse fatto lui nel frattempo.

Con la morte, Luciano era rientrato nella mia vita; lo avevo cacciato dalla porta e

lui si era introdotto di nuovo attraverso le fessure della mia anima diroccata, dap-

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prima come un fievole spiffero impercettibile, ma divenendo poi una raffica di

vento devastante.

A casa mi aspettava un compito non facile di cui avrei fatto volentieri a meno: do-

vevo spiegare ai miei bambini cosa era successo a quello zio che loro conoscevano

molto poco. Sapevano della sua esistenza dai discorsi che a volte io e Riccardo fa-

cevamo su di lui a tavola, sempre più rari e negativi. Se lo ricordavano forse come

lo zio pazzo, quello che passava a farci visita con l’auto color cioccolata, di rado e

senza mai avvertire, e che portava regali assurdi. Quando Chiara compì sei anni,

lui venne a casa mia con un’iguana che spaventò a morte mia figlia e mandò inve-

ce in estasi Paolo. Gli ordinai di portarsela via immediatamente. Un’altra volta por-

tò un modellino di budda che se gli schiacciavi la testa emetteva peti in varie tona-

lità; i bambini risero un mondo, io mi arrabbiai. Luciano non aveva rispetto per

nessuna forma di spiritualità e io pensavo che quei regali li facesse apposta per

mandarmi in escandescenza e mettermi in difficoltà con i miei figli. Mi detestava

perché ero la sorella più brava, quella per bene, la bigotta, perfettina e ipocrita; in

gioventù me lo ripeteva continuamente, ma dette da lui a me quelle parole sem-

bravano dei complimenti.

Non volevo che i miei ragazzi provassero simpatia per un modello di uomo nega-

tivo, superficiale e immorale come ritenevo fosse lui, pertanto impedii a mio fratel-

lo di frequentarli. Chiara e Paolo per un po’ di tempo continuarono a chiedermi

dello zio, poi se ne dimenticarono.

Dovevo trovare le parole giuste per far capire loro, senza turbare troppo la loro in-

nocenza di bambini, come a volte le persone arrivano in fondo al tunnel e non ve-

dono più l’uscita, dovevo spiegare come non immettersi mai in quel tunnel della

disperazione. Io e Riccardo avevamo già affrontato il tema della morte con i nostri

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figli quando morirono i nonni, ma allora fu relativamente più semplice perché po-

temmo dire che le anime dei nonni non erano morte e continuavano a esserci vici-

ne e ad aiutarci, anche più di prima. I bambini sanno trovare consolazione nel sa-

pere che un’entità buona veglia sempre su di loro. Il tema del suicidio non lo avevo

ancora messo in conto, era troppo presto e terribilmente innaturale, per non dire

blasfemo. Odiai ancora una volta di più mio fratello perché mi costringeva a fare

cose che non rientravano nei miei piani, di madre soprattutto.

Quando arrivai a casa mancava una manciata di minuti alle undici e da lì a breve

sarebbe arrivato anche mio marito. Entrai nel mio mondo perfetto e profumato e

mi lasciai avvolgere dal suo calore così rassicurante e protettivo. Presi dalla di-

spensa qualche biscotto da sgranocchiare e andai in bagno a lavarmi di dosso

l’odore marcio di quella mattina. Sotto il getto vigoroso della doccia ripensai a tut-

to quello che era successo e sperai di poter presto lasciarmi tutto alle spalle. Volevo

tornare alla vita di tutti i giorni, a scuola, alle mie letture, alle mie certezze. Non

potevo prevedere cosa sarebbe successo da lì a poco tempo.

Quella casa bellissima rappresentava il mio mondo. L’abbiamo comprata e arreda-

ta io e Riccardo per il nostro matrimonio, sobbarcandoci un mutuo che abbiamo

estinto da poco. Era la casa dei miei sogni, il nido perfetto dove creare una fami-

glia. Dopo un anno dal matrimonio, infatti, nacque Chiara, la chiamammo così

perché aveva gli stessi miei colori, bionda con gli occhi azzurri, una vera princi-

pessa. Il suo arrivo non aveva fatto altro che coronare i nostri sogni e rinvigorito il

nostro amore. Io e Riccardo ci amavamo profondamente e tra noi avevamo stabili-

to un solido reciproco rapporto di fiducia e complicità. Lui mi era sempre stato vi-

cino nei momenti più difficili, soprattutto quando persi due figure fondamentali

della mia esistenza come i miei genitori. Aveva sempre appoggiato anche i miei

progetti a scuola, dove lavoravamo insieme da molti anni e mi aveva sempre dato

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man forte nelle mie iniziative di ogni genere. Con lui mi sentivo in un porto sicuro.

Quella mattina non vedevo l’ora di vederlo, abbracciarlo forte e annusare il suo

buon profumo di uomo.

Dopo due anni da Chiara arrivò anche il maschietto, Paolo, orgoglio del papà per il

suo coraggio e la sua spontaneità. Chiara è la dolcezza in persona, Paolo è intui-

zione e istintività. Chiara ha preso da me, Paolo da suo padre. Una famiglia perfet-

ta, come tante.

Mi sentivo fiera di quello che ero e di quello che avevo costruito fino a quel mo-

mento nella mia vita. Mi mancavano solo i miei genitori che il destino s’era voluto

portar via a distanza di poco tempo, solo due anni, uno dall’altra. Era passato del

tempo, ma il vuoto che avevano lasciato dentro di me, e credo anche di mia sorella

Rita, era rimasto incolmabile. Erano due pilastri di forza e saggezza con una capa-

cità di amarsi e amare incommensurabile. Loro sarebbero rimasti per sempre il

mio modello di vita familiare. Davanti alla foto di mamma e papà abbracciati, che

custodivo gelosamente sul mobile in soggiorno, quel giorno pregai Dio di non far

sapere alle loro anime ciò che aveva combinato il figlio offendendo ancora una

volta l’amore che nonostante tutto erano riusciti a dargli incondizionatamente, an-

che negli anni più neri, sopportando insulti e umiliazioni. La mia superbia era salita

alle stelle e in quel momento neanche una piccola ombra di pentimento mi passò

davanti.

Quando sentii il motore dell’auto di Riccardo, corsi fuori e gli andai incontro nel

vialetto. Mi guardò come se non mi vedesse da tanto tempo. Mi abbracciò strin-

gendomi forte a sé. Mi sentii molto meglio, mi aggrappai al suo corpo forte tenen-

dolo stretto a me per qualche istante di più. Avevo bisogno di quella realtà. En-

trammo in casa e ci sedemmo sul divano nel salotto. Fu in quel momento che mi

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resi conto che non avevo ancora versato una lacrima; mio marito sembrava più

costernato di quanto lo potessi essere io e la cosa mi lasciò un po’ perplessa. Gli

raccontai quella mattina nei minimi particolari perché volevo la sua approvazione

su come mi ero comportata e lo informai che nel pomeriggio sarei dovuta andare

da Rita per starle vicino e per accordarci su quello che dovevamo fare. Riccardo

approvò la nostra decisione di donare tutto quello che apparteneva a Luciano che,

anche se non era molto, a qualcuno avrebbe fatto piacere ricevere. Decidemmo di

parlare con Chiara e Paolo subito al loro rientro da scuola; Riccardo era sempre

stato dell’idea che i bambini dovevano essere informati su tutto ciò che li riguarda-

va e che si poteva spiegare loro le cose anche più difficili, bastava usare un po’ di

delicatezza e rispettare le loro personalità. Io non sarei stata sempre d’accordo ma

mi adeguavo. Ciò che dovevamo dire quella volta era molto, molto complicato,

ma insieme ce la potevamo fare. La mia paura era che potessero credere che il sui-

cidio fosse una soluzione, estrema e tragica finché si vuole, ma pur sempre una

soluzione a un problema. Quanti ragazzi decidono di togliersi la vita per un brutto

voto, una bocciatura, una situazione difficile che sembra insopportabile! Ogni vol-

ta che sento notizie del genere io piango dentro di me per quel senso di fallimento

che devono provare i genitori di quel giovane. Che Dio mi risparmi una cosa del

genere!

Avrei voluto che anche Luciano non fosse arrivato a tanto e fino a quel momento

non mi interessava neanche sapere il perché lo avesse fatto, cosa di così tragico lo

avesse spinto ad annullare se stesso per sempre. Era depresso o solo uno stupido

fallito.

Fine anteprima.Continua...