unità del sistema tributario tra pluralismo delle fonti e ... · comunità e soggettività ......

116

Upload: phungtram

Post on 16-Feb-2019

217 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

COMITATO SCIENTIFICO Prof. Raffaele Perrone Capano (direttore) Prof. Andrea Amatucci Prof. Raffaele Balbi Prof. Agostino Carrino Prof. Benedetto Conforti Prof. Pasquale De Sena Prof.Silvano Labriola Prof. Cesare Dell'Acqua Prof. Massimo Iovane Prof. Vincenzo Lippolis Prof. Roberto Mastroianni Prof. Emilio Pagano Prof. Flavia Petroncelli Hubler Prof. Luigi Sico Prof. Giuliana Stella Prof. Mario Tedeschi Prof. Talitha Vassalli Prof. Elisabetta De Franciscis Prof. Luciana Di Renzo Prof. Marinella Fedeli Prof. Francesco Janes Carratu' Prof. Vincenzo Pace Prof. Manlio Ingrosso COMITATO DI DIREZIONE Prof. Andrea Amatucci (Diritto finanziario) Prof. Carlo Amatucci (Diritto commerciale interno ed internazionale) Prof. Viviana Barone (Lingua inglese) Prof. Raffaello Capunzo (Diritto pubblico dell'economia) Prof. Alfonsina De Felice (Diritto della previdenza sociale) Prof. Pasquale De Sena (Diritti umani) Prof. Luciana Di Renzo (Diritto degli Enti locali) Prof. Stefano Fiorentino (Diritto tributario) Prof. Massimo Iovane (Organizzazioni economiche internazionali) Prof. Giovanni Marino (Filosofia del diritto) Prof. Paolo Nunziante (Cibernetica del linguaggio) Prof. Marinuccia Pellegrino (Lingua francese) Prof. Pasquale Pistone (Diritto tributario internazionale e dell'Unione europea) Prof. Francesco Santoni (Diritto del lavoro) Prof. Luigi Sico (Diritto dell'Unione europea) Prof. Sandro Staiano (Diritto costituzionale) Prof. Mario Tedeschi (Diritti dell'uomo e libertà di religione) Prof. Talitha Vassalli (Diritto internazionale) Dott.ssa Maria Modesta Minozzi

DIRETTORE RESPONSABILE Maurizio Migiarra RESPONSABILI DI REDAZIONE Roberta Alfano Filippo Perriccioli Chiara Fontana Caterina Nicolais Giordano Di Meglio REDAZIONE Gino Buonauro Germana Carobene Anna Di Lieto Antonio Lanzaro Rita Mazza Fulvio Maria Palombino

INNOVAZIONE E DIRITTO – rivista on line http://www.innovazionediritto.unina.it Registrazione Tribunale di Napoli n. 45 del 22 giugno 2005 ISSN 1825-9871

GRAFICA Sebastiano Romitelli PDF EDITING Vittorio Mostacciuolo

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI

NAPOLI FEDERICO II

FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

Innovazione

e

Diritto

Innovazione e Diritto è una rivista open. La rivista è consultabile e scaricabile liberamente

attraverso le pagine del suo sito web all’indirizzo http://www.innovazionediritto.unina.it

La rivista e tutti i suoi contenuti possono essere riprodotti liberamente a condizione che se ne citi sempre la fonte, riportando il web address. Per contattare la redazione utilizzare il seguente indirizzo email: [email protected] La rivista è edita dal laboratorio LARIGMA presso il Dipartimento di Scienze Internazionalistiche e Studi sul Sistema Politico ed Istituzionale Europeo

Numero finito di stampare il 14 novembre 2005

INDICE

Comunità e Soggettività di Mario Tedeschi ...................................................................................................1 Programma del Convegno...................................................................................4 Finanza pubblica e riforme istituzionali tra occasioni di scontro politico e garanzie del sistema di Raffaele Perrone Capano......................................................................................6 Die Verwirklichung der Steuerrechtsordnung di Andrea Amatucci...............................................................................................41 La riforma del patto di stabilità: restyling sabotaggio? di Mario Iuzzolino .................................................................................................46 Piccole e Medie Imprese (PMI): profili nazionali e comunitari in evoluzione di Eugenia Vitetti ..................................................................................................54 Indennità meccanografica e videoterminali di Michelangelo Pascali ..........................................................................................63 SEGNALAZIONI GIURISPRUDENZIALI .............................................................95 NEWS ................................................................................................................99 LEGGE 4 novembre 2005, n. 230 Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari ........................................101 Le nuove vie alla cattedra, più problemi che soluzioni di Dario Antiseri..................................................................................................107

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Comunità e Soggettività

(Presentazione di Mario Tedeschi1 dell’omonimo convegno in Napoli, Castel dell’Ovo “Sala

Compagna”, 14-16 novembre 2005)

Il concetto di comunità, studiato principalmente dai sociologi, ha una valenza

interdisciplinare e una dimensione teorica, religiosa, filosofica e giuridica, di gran rilievo,

solo che si pensi che i giuristi parlano sul piano del diritto interno di comunità statuale e

su quello esterno di comunità internazionale o di Comunità Economica Europea. Su un

piano più squisitamente privatistico le comunità, giuridicamente riconosciute o meno,

costituiscono un momento di intermediazione tra l’individuo e lo Stato, per meglio

consentire ai singoli di rapportarsi al potere politico e di rappresentare i loro interessi. Le

varie comunità religiose vivono all’interno di tali ordinamenti. Con ogni probabilità il

termine comunità ha una radice religiosa e si rinviene nelle sacre scritture.

In capo a questi ordinamenti i singoli hanno sempre minore valore, per cui è stato

necessario ricorrere ai modelli comunitari, con un preciso significato: da un lato quello di

rompere il rapporto tra individuo e Stato, senza di che qualsiasi potere o rappresentanza

politica diventa arbitraria, dall’altro di non svuotare lo Stato dei propri tradizionali e

precipui compiti. Ciò avviene in presenza dei più diversi tipi di ordinamenti giuridici, quelli

anglosassoni, che si basano su una acclarata tradizione comunitaria, di stampo

congregazionale, nella quale le dinamiche interne ai gruppi sociali -democrazia,

rappresentatività, omogeneità, anche nei fini da perseguire, rispetto delle minoranze-

sono sicuramente rispettate, o quelli latino americani, o quegli ordinamenti che solo da

pochi anni sono pervenuti a un sistema rappresentativo e di tipo democratico, o che a tali

modelli sono dichiaratamente estranei.

Lo stesso concetto di comunità internazionale, -che tradizionalmente coincideva

con quello della comunità degli Stati, unici soggetti di diritto internazionale- si è espanso

prima attraverso l’attribuzione di una soggettività internazionale a enti diversi dagli Stati,

come le organizzazioni internazionali, poi con il riconoscimento di comunità di Stati

portatori di interessi diversi da quelli dei singoli ordinamenti, per cui è la stessa

concezione della pluralità degli ordinamenti giuridici primari che andrebbe rivista, perché

1

1 Professore Ordinario di Diritto Ecclesiastico, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Federico II

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

non esprime più quanto, dall’inizio del secolo scorso a pochi anni fa, è stato funzionale a

delineare i rapporti tra tali realtà. In tal senso e su un piano unicamente teorico, che

comporta un declino delle teorie istituzioniste a vantaggio di quelle pluraliste, i contributi

che possono provenire da un’analisi di tipo internazionale sono fondamentali.

Si deve, com’è noto, al Rescigno l’utilizzazione del concetto di comunità quale

termine intermedio tra l’individuo e lo Stato, su un piano giuridico, che non si limita

soltanto a quello civilistico. Riprendere tali studi, a distanza di oltre trent’anni, anche per

verificare quale riscontro abbiano avuto sul piano teorico e fattuale, non sarebbe cosa

inutile, anche se non è facile rapportarsi a modelli di tale rilievo culturale.

Anche sul piano religioso un’indagine appare certamente opportuna, in capo alle

singole confessioni e al loro interno. Momenti di aggregazione spontanea sono alla base

del sorgere dei vari ordini religiosi; la Chiesa primitiva valorizzava certamente più di ora il

momento comunitario; la Chiesa stessa è considerata una comunità d’anime. La disamina

religiosa viene subito dopo quella sociologica e precede in parte la qualificazione

giuridica.

La contrapposizione, all’interno del mondo c.d. occidentale, tra Paesi di common

law e di civil law, appare anch’essa superata. I problemi attuali sono piuttosto quelli del

rapporto tra la tradizione occidentale di stampo illuminista -che vede nella tripartizione

dei poteri, nel momento costituente e nelle garanzie dei diritti di libertà i principali poli di

riferimento- e quella orientale, molto variegata e certamente estranea sia alla tradizione

illuminista che a quella romanista.

2

Se si vuole garantire al mondo attuale un futuro, non si potrà prescindere da

alcune acquisizioni del mondo occidentale che il momento comunitario rappresenta con

estrema efficacia, e cioè il rispetto delle tradizioni storiche, religiose, giuridiche e politiche

di ciascun popolo, sulla base dei principi di libertà -prima di tutte quella religiosa-, del

rispetto delle minoranze, del non ricorso alla guerra come mezzo estremo di

composizione dei conflitti internazionali, dell’abbandono di ogni idea di uno Stato guida,

così com’è venuta meno quella dell’equilibrio bipolare. Non c’è una concezione del mondo

che sia preferibile alle altre, ma tante e diverse concezioni che debbono coesistere se si

vuole appunto che questo mondo abbia un futuro.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

E’ per tali motivi che si è pensato di dare inizio ai lavori dell’Osservatorio partendo

da un Convegno sul significato del termine comunità. che chiama in causa studiosi di

varia estrazione e cultura e di diversi credi religiosi, siano essi storici o filosofi, politologi o

sociologi, giuristi o economisti. Mi rendo conto che non è facile, che il termine comunità

ha assunto significati e contenuti diversi nel corso dei secoli e in capo ai singoli

ordinamenti, ma è questo un passaggio obbligato se si vuole dare alle iniziative

dell’Osservatorio una base seria in modo da rendere possibili, in futuro, maggiori e

ulteriori approfondimenti.

3

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI JNAPOLI FEDERICO II FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

COMUNITA’ E SOGGETTIVITA’

NAPOLI, 14-16 novembre 2005

Programma del Convegno

Introduzione ai lavori 14 novembre 2005, ore 9 00 - Castel dell'Ovo "Sala Compagna" ,

r

Teoria e storia della Comunità Presidente Michele Scudiero - Mario Tedeschi

La comunità come concetto giuridico - Boris Ulianich

Le comunità cristiane. Snodi storici di un concetto e di una realtà - Generoso Melillo

Persona, status e condicio nell'esperienza giuridica romana - Raffaele Ajello

Lo Stato come "regimen ad bonum multitudinis ordinatum modello francese e particolarismo italiano

Interventi

Colazione di lavoro

14 novembre 2005, ore 16.00 - Castel dell'Ovo "Sala Compagna" Presidente Luigi Capozzi - Pasquale Colella

Il concetto di comunità nel movimento ecumenico - Giuseppe Cantillo

Il fondamento intersoggettivo dell'etica - Roberta Sala

Libertà individuale e appa tenenza comunitaria. I limiti del multiculturalismo

4

Interventi

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

La dimensione giuridica 15 novembre 2005, ore 9.00 - Castel dell'Ovo `Sala Compagna" Presidente Piero Bellini - Pietro Rescigno

Comunità e diritto privato - Orazio Abbamonte

S a o e comunità in ermedia t a fascismo e cos ituzionet t t r t

t

tt

- Mario Ricca Soggettività giuridica e comunità culturali

- Maria D'Arienzo Confessioni religiose e comunità

- Sergio Ferlito Le comunità hanno diritti?

Interventi

Colazione di lavoro

L'ambito internazionale 15 novembre 2005, ore 16.00 - Castel dell'Ovo "Sala Compagna" Presidente Gaetano Catalano - Fulvio D'Amoja

La dialettica tra sistema e comunità internazionale. Fase di transizione o ennesima rottura? - Luigi Sico

La comunità internazionale - Carlo Panico — Maria Olivella Rizza

Le concezioni dello sviluppo come obiettivi delle comunità - Pasquale De Sena

Comunità internazionale e individui nella prassi recen e del CdS dell'ONU - Emilio Pagano

L'individuo, la comunità e il diritto internazionale privato

Il pluralismo confessionale nel Mediterraneo 16 novembre 2005, ore 9.00 - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Presidente Talitha Vassalli di Dachenhausen - Patrick Valdrini

Comunità ca olica e istituzioni in diritto canonico- Rav. Giuseppe Laras

Comunità ebraica: caratteri e rapporti con la società - Joseph Maìla

Comunità e società in Libano: le problematiche del comunitarismo Ahmad ‘Abd al Waliyy Vincenzo

La umma islamica e i suoi rapporti con le altre comunità - Emre Okten

La Turchia, dall'epoca ottomana a quella moderna Interventi

5

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Finanza pubblica e riforme istituzionali tra occasioni di scontro politico e garanzie del sistema di Raffaele Perrone Capano1 Sommario: 1) Legge finanziaria, indirizzo politico e politica tributaria; 2) Ridurre le tasse fa bene alle casse (dei contribuenti e del Fisco); 3) La riforma elettorale; 4) I precedenti della riforma costituzionale e il limite dell’interesse nazionale; 5) I limiti del processo di decentramento: l’esperienza tedesca; 6) Il federalismo fiscale tra utopie e limiti del sistema tributario; 7) Indirizzo politico e procedimento legislativo; 8) L’autonomia finanziaria degli Enti Territoriali e i limiti ai poteri di intervento dello Stato in campo finanziario. 1) Legge finanziaria, indirizzo politico e politica tributaria

Quest’anno il mese di ottobre vede affiancati al tradizionale appuntamento con la

legge finanziaria due passaggi politico legislativi di grande rilievo: la riforma della legge

elettorale e le modifiche alla IIa parte della Costituzione, eventi questi ultimi strettamente

connessi anche dal punto di vista politico.

L’esperienza del processo di formazione della legislazione finanziaria e di bilancio,

dalla presentazione da parte del Governo fino all’approvazione parlamentare,

caratterizzato da consistenti elementi di cogestione, ignoti ad altri ordinamenti, rende

vano qualsiasi tentativo di analisi di aspetti specifici della manovra di finanza pubblica,

prima dell’approvazione parlamentare.

La questione dei limiti al potere di intervento del Parlamento sulla legislazione di

bilancio, che viene da più parti periodicamente riproposta durante l’esame della legge

finanziaria da parte delle Camere merita di essere approfondito perché presenta aspetti

complessi che non si risolvono con proposte semplicistiche quali la previsione di

limitazioni al potere di emendamento parlamentare alla legge finanziaria, che non

potrebbero comunque essere generalizzate.

La legge finanziaria ha nel nostro ordinamento natura di atto complesso; accanto

agli elementi che compongono il quadro macro economico, ossia la cornice entro cui il

Governo intende gestire l’insieme della finanza pubblica per l’anno di riferimento, la legge

finanziaria prevede una serie di misure legislative sia relative alla spesa pubblica, sia alla

politica tributaria, considerate dal Governo essenziali per conseguire gli obiettivi prefissati

con la legge di bilancio, la cui emendabilità dovrebbe quindi essere possibile solo se

consentita espressamente dal Governo, che ne assumerebbe la responsabilità politica: in

6

1 Professore Ordinario di Diritto finanziario, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Federico II

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

tutte le altre ipotesi gli emendamenti dovrebbero essere considerati inammissibili, come

avviene ad esempio nell’ordinamento francese.

Affiancano queste scelte che caratterizzano l’indirizzo politico del Governo, e ne

qualificano l’azione, ulteriori interventi modificativi o integrativi della legislazione

sostanziale di spesa che, per il loro carattere di disposizioni di dettaglio, ben sì prestano

ad essere oggetto di uno scrutinio parlamentare più penetrante, che comporti anche

ampie modifiche, purché compatibili con il quadro di riferimento finanziario proposto dal

Governo.

In queste ipotesi le limitazioni al potere parlamentare di emendamento non

avrebbero motivazioni ragionevoli e quindi non sarebbero compatibili con il nostro

sistema parlamentare.

Queste considerazioni si riferiscono sia ai grandi aggregati che costituiscono la

spesa pubblica, sia soprattutto agli interventi di politica tributaria, i cui vincoli di sistema

mal si conciliano con le iniziative, spesso estemporanee di singoli parlamentari, ed hanno

acquistato ulteriore rilievo per il ruolo centrale assunto dal Governo nella definizione degli

equilibri finanziari, tra vincoli comunitari e decentramento dopo la riforma del Titolo V del

2001.

Il settore tributario nel sistema di bilancio vigente in Italia è sicuramente quello più

negativamente influenzato dalla tradizionale debolezza di indirizzo politico del Governo

nel settore della politica fiscale.

La complessità delle Società democratiche specie se economicamente avanzate,

affida essenzialmente al Governo l’iniziativa legislativa in campo tributario, sia per i limiti

alla discrezionalità delle scelte e per esigenze di coerenza del sistema che devono essere

comunque garantite, trattandosi di interessi costituzionalmente protetti, sia per la

necessità di disporre di adeguate informazioni circa gli effetti diretti e indiretti, non solo

distributivi, delle decisioni di politica tributaria; elementi questi che non sono

normalmente nella piena disponibilità delle rappresentanze parlamentari.

In Italia, e questo incide anche sul ruolo della legge finanziaria si è ben lontani

dall’aver raggiunto in questo campo un ragionevole punto di equilibrio.

7

Lo dimostra l’esperienza delle ultime due legislature, che hanno prodotto prima

imposte discutibili, come l’IRAP, o dagli esiti imprevedibili ed arbitrari come la dual

income tax, che ha concentrato nel 2001 dodicimilaseicento miliardi di lire di risparmi di

imposta, su sei grandi gruppi industriali; ed in questa legislatura ha visto delegare il

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Governo ad attuare una riforma tributaria con ambizioni di sistematicità, sostanzialmente

abbandonata a metà percorso dallo stesso Governo che l’aveva proposta.

In definitiva quindi il problema non è quello di rendere immodificabile la legge

finanziaria in ogni suo aspetto, ma di definire con precisione oltre ai grandi aggregati

macroeconomici che caratterizzano annualmente la manovra di finanza pubblica, gli

interventi di politica tributaria e quelli sui principali comparti di spesa che concorrono a

determinare la politica finanziaria del Governo; separando gli interventi integrativi o

modificativi della legislazione di entrata e di spesa, che il Governo assume essere

indispensabili per conseguire i propri obiettivi programmatici, ne esprimono l’indirizzo

politico e non dovrebbero essere quindi emendabili, dalle altre disposizioni in cui è il

Governo stesso a consentire che la normativa di dettaglio sia definita attraverso la

dialettica Governo-Parlamento.

L’amplissimo decentramento di funzioni previsto dalla riforma del Titolo V a favore

di Regioni ed Enti Locali, in larga parte neppure avviato, sottolinea l’urgenza di definire

un modello di legge finanziaria che tenga conto delle esigenze evidenziate. In futuro

infatti sarà la legge finanziaria lo strumento per stabilire le compartecipazioni al gettito

dei tributi erariali a favore degli Enti di decentramento e a determinare le risorse da

assegnare al fondo perequativo ed i relativi criteri di ripartizione; e sarà la legge

finanziaria a definire gli ulteriori interventi da finanziare a favore dei territori per obiettivi

di sviluppo, di perequazione, di supporto alla realizzazione di infrastrutture di interesse

nazionale, ai sensi del V Comma dell’articolo 119 della Costituzione.

Con questa necessaria premessa va dato atto al ministro Tremonti, nel brevissimo

lasso di tempo intercorso tra il suo ritorno a Via 20 settembre e la presentazione della

legge finanziaria, di avere delineato, a grandi linee, una manovra credibile, nella

eliminazione di privilegi fiscali e di pratiche elusive da parte delle imprese, negli obiettivi

di contenimento del deficit e nella concentrazione delle poche risorse disponibili su

obiettivi realmente prioritari (riduzione del cuneo fiscale e interventi e sostegno delle

famiglie).

8

Da questo punto di vista le reazioni polemiche di alcuni autorevoli amministratori

locali per la riduzione dei trasferimenti alle autonomie territoriali, evidenziano un

problema, quello dell’attuazione del decentramento finanziario, la cui soluzione non è

stata certo resa più semplice dalla riforma del titolo V della Costituzione attuata nella

precedente legislatura.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

L’eccesso di materie e funzioni trasferite alla legislazione regionale, da un lato ha

moltiplicato i conflitti tra Stato e Regioni, alimentando un imponente contenzioso davanti

alla Corte Costituzionale; dall’altro, l’abolizione di qualsiasi tipo di controlli sulle attività

amministrative degli Enti Territoriali, non ha certo facilitato un processo di decentramento

fiscale dagli esiti imprevedibili, per l’assenza di certezze sulla dinamica della spesa.

D’altra parte il contenimento dei costi per l’acquisto di beni e servizi da parte della

P.A. la cui spesa nel 2005 supererà i 108 miliardi di euro, è un obiettivo che non può non

coinvolgere accanto allo Stato, anche gli Enti Territoriali, la cui dinamica di spesa appare

ormai fuori controllo e non ne lede l’autonomia, se la scelta dei mezzi per raggiungere gli

obiettivi quantitativi fissati nella legge finanziaria, è lasciata alla libera determinazione dei

poteri locali.

Tra la centralizzazione degli acquisti, attraverso lo schema rigido delle convenzioni

CONSIP, sperimentato per altro con efficacia in passato, e la liberalizzazione senza reale

concorrenza degli ultimi 2 anni, è forse possibile esplorare soluzioni diverse, più flessibili,

comunque idonee a ridurre i costi unitari, tagliando privilegi e sprechi senza incidere sui

servizi offerti.

2) Ridurre le tasse fa bene alle casse (dei contribuenti e del Fisco)

Se dal punto di vista degli equilibri finanziari (27 miliardi di euro tra riduzioni di

spesa, maggiori entrate o tagli di agevolazioni fiscali), la manovra di bilancio appare nel

complesso equilibrata e dovrebbe centrare gli obiettivi di contenimento del deficit al 4,3%

nel 2005 e al 3,8% nel 2006 rispetto al PIL, un discorso in parte diverso richiede la

politica tributaria che appare in sofferenza per le ragioni richiamate in precedenza tra le

quali spicca, per l’indubbio significato politico l’abbandono del progetto di riforma del

sistema tributario dello Stato, per il quale il Governo aveva ottenuto un’ampia delega con

la legge 80/2003.

Qui, a parte il colpo di teatro dell’istituzione della tassa sul tubo (e sui cavi dell’alta

tensione) in cui l’obiettivo ragionevole di incidere su alcune posizioni di rendita

monopolistica, mal si concilia con esclusioni incomprensibili (vedi le autostrade) e con un

livello di approssimazione che la rende incommentabile, appare evidente la rinuncia da

parte del Ministro dell’Economia, almeno in questo scorcio di legislatura, ad adottare

misure riformatrici in campo tributario.

9

Si tratta a mio parere di una scelta debole perché l’esperienza dell’ultimo decennio,

ha evidenziato, anche in seguito all’abbandono di politiche flessibili del cambio, una

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

interconnessione molto stretta tra ciclo economico e politica fiscale, che impone la

riforma del sistema tributario, sia per motivi di equità distributiva, sia per renderlo

competitivo rispetto al processo di mondializzazione dell’economia, che appare

irreversibile e con cui ci si deve necessariamente confrontare.

Da questo punto di vista i primi dati disponibili sull’andamento delle entrate

tributarie nel periodo gennaio-luglio 2005, evidenziano una serie di elementi che, pur

essendo suscettibili di qualche variazione nelle seconda parte dell’anno, indicano

comunque un trend di notevole interesse che dovrebbe far riflettere quanti considerano

ineluttabile una fiscalità particolarmente aggressiva, anche per il differenziale di costo

rappresentato dal debito pubblico.

In particolare i dati sull’andamento del gettito dell’imposta personale (IRE), nei

primi sette mesi del 2005, oggetto nella finanziaria 2005 di una serie di interventi

correttivi su aliquote e deduzioni che hanno comportato sgravi per oltre 6 miliardi di euro,

pari al 4,2% dell’IRE, evidenziano un aumento degli incassi pari al 3,9%, ben oltre

l’incremento del PIL nominale e il coefficiente di elasticità dell’imposta.

I dati disaggregati offrono ulteriori interessanti spunti di riflessione. L’incremento

del gettito delle ritenute sui redditi da lavoro dipendente è stato nel periodo del 3,1%;

quello dell’autoliquidazione (saldo ed acconto) dell’8,7%.

La concentrazione degli sgravi prevalentemente sui redditi medio bassi, attraverso

l’ampliamento delle deduzioni e la rimodulazione degli scaglioni e delle aliquote ha

comportato un calo delle ritenute relative ai dipendenti pubblici pari all’11,9%; (il che

dimostra, contrariamente all’opinione del presidente di Confindustria, che il nostro datore

di lavoro forse non si ispira più a Quintino Sella, ma non è improvvisamente diventato

prodigo) un aumento di quelle sui dipendenti non statali del 4,4% e del 5,3% per i redditi

da lavoro autonomo.

Ancora più evidente è l’effetto di trascinamento sull’IRAP il cui gettito cresce

complessivamente del 7,6%, con un incremento del 10,9% nel settore privato e del 2,3%

in quello relativo alle amministrazioni pubbliche.

10

Anche il gettito dell’IVA, il più influenzato dalla recessione che ha colpito l’Italia a

cavallo tra la fine del 2004 e il primo quadrimestre del 2005, offre elementi di qualche

interesse: l’andamento dell’IVA evidenzia infatti aumenti del 2,4% del gettito sulle

importazioni, meno soggette all’evasione, e del 3,9% per l’insieme delle attività svolte sul

mercato interno.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Come interpretare questi dati? Il filo conduttore che lega l’andamento degli incassi

IRE, IRAP e IVA è rappresentato da un incremento degli imponibili dei contribuenti che

autodeterminano il proprio debito di imposta, superiore di oltre il 50% rispetto a quello

dei lavoratori dipendenti.

Nell’IVA l’incremento del gettito sulle importazioni è inferiore di circa il 70%

rispetto a quello registrato per le operazioni interne; nell’IRAP relativa al settore privato,

la cui base imponibile è più influenzata dall’incremento delle basi imponibili IRE e da

quello dell’occupazione, l’aumento degli introiti è di circa l’11% contro il 2,3% registrato

dalle amministrazioni pubbliche.

In cifre si può stimare in via prudenziale che il taglio di 6 miliardi di euro nell’IRE

determinerà nel 2005 maggiori entrate dirette, nell’IRE, IRAP e IVA, pari a 4 miliardi e

ottocento milioni di euro e quindi compenserà l’80% delle minori entrate connesse alla

riforma (nota bene: l’incremento del gettito dell’IRE nel 2005 pari al 3,9% è stato

calcolato sul gettito 2004 del tributo pari a 141 miliardi e cioè al lordo della riduzione di 6

miliardi stabilita dalla finanziaria 2005).

Non appare quindi azzardato sostenere che la manovra IRE non solo abbia

recuperato i 6 miliardi di euro di sgravi, ma abbia determinato incrementi di gettito nelle

tre imposte esaminate pari a 4 miliardi e ottocento milioni di euro e quindi si sia più che

finanziata integralmente.

La spiegazione di questi dati si ricava dalla struttura dell’IRE, dalla composizione

delle diverse classi di reddito assoggettate all’imposta e dall’impatto su queste ultime di

una progressività marginale eccessiva che incoraggia e premia l’evasione.

Una revisione anche profonda dell’imposta personale che determini per i

contribuenti consistenti risparmi nel prelievo, se attuata con metodologie che

determinano l’allargamento degli imponibili (più no tax area personale e familiare, più

deduzioni mirate alle attività svolte dal contribuente, scaglioni molto ampi con aliquote

marginali ridotte) sostanzialmente si autofinanzia.

11

Ovviamente questi dati vanno letti con prudenza, perché una parte degli

incrementi di gettito è stata probabilmente determinata dall’aumento dell’occupazione,

(prevalentemente regolarizzazione di lavoro sommerso) ma proprio la diminuzione della

disoccupazione negli ultimi anni, all’interno di un trend economico tuttaltro che

favorevole, evidenzia la connessione molto stretta che esiste in Italia tra struttura del

prelievo e diffusi fenomeni di fuga davanti alle imposte.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Negli ultimi trent’anni in Italia le imprese sono passate da circa 2.400.000 a quasi

4.500.000 con un incremento di oltre 2 milioni di unità.

Il numero medio di addetti per impresa è diminuito da 5 unità agli inizi degli anni

’70 a 3,7 oggi, con un trend inverso a quello dei principali paesi industrializzati. La

connessione di questi fenomeni con il costante incremento dell’imposta sui redditi

personali e di impresa particolarmente accentuato a partire dalla riforma Visco del 1997,

evidenzia gli effetti positivi diffusi della riforma dell’IRE del 2003-2005, che ne rende,

specie dopo i dati qui richiamati, francamente incomprensibile l’abbandono.

Il risultato è tanto più interessante se si considera che la riduzione dell’IRE,

introdotta con la finanziaria dell’anno scorso, non fu il prodotto di scelte meditate di

politica fiscale ma il frutto di una felice intuizione del Presidente del Consiglio, imposta ad

un Ministro dell’Economia poco convinto e ad alleati recalcitranti. La riduzione dell’IRE fu

infatti accolta con freddezza dai mass-media e commentata con sufficienza da un noto

economista sul principale quotidiano nazionale che parlò con irrisione di una manovra che

valeva lo 0,4% del PIL, senza neppure porsi il problema degli effetti distributivi reali della

riduzione dell’IRE, e delle connessioni tra imposte dirette, economia irregolare e evasione

all’IVA, che condizionano pesantemente la struttura sociale e produttiva dell’Italia e

rappresentano probabilmente la principale causa della perdita di competitività del

sistema.

La riforma, proprio per il carattere improvvisato è tuttavia rimasta a metà strada e

richiederebbe interventi di razionalizzazione sia sugli scaglioni, sia sulle deduzioni, il cui

carattere decrescente ereditato dalla riforma Visco del ’97, vanifica almeno in parte gli

effetti positivi della riduzione dell’imposta, perché incrementa irragionevolmente la

progressività marginale, e mantiene in vita un forte incentivo ad evadere.

Che il tema della coerenza fiscale incontri difficoltà ad imporsi, trova conferma

nella vicenda degli interventi previsti dalla finanziaria a favore delle famiglia; il fondo di

oltre un miliardo e centomila euro destinato a questa finalità, è stato spezzettato in una

serie di bonus, a favore dei figli nati negli ultimi due o tre anni, che non costituisce

neppure un avvio di politica fiscale a favore delle famiglie più numerose, non inciderà

quindi sulla propensione ad avere figli ed avrà comunque un impatto sociale limitato.

12

Più logico sarebbe stato aumentare la quota di reddito deducibile per i figli anche

attraverso il riconoscimento di alcune spese che gravano sulle famiglie con figli nella

prima età (pannolini, latte in polvere, asili, ecc.) da rendere anch’esse deducibili dal

reddito.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Se poi il Governo avesse voluto utilizzare il miliardo e cento milioni di euro destinati

alle famiglie per obiettivi elettorali, è indubbio che l’aumento di una sessantina di euro al

mese a favore di un milione e settecentomila pensionati al minimo avrebbe avuto un più

forte significato di solidarietà sociale e avrebbe procurato probabilmente anche maggiore

consenso elettorale!

Naturalmente non sfuggono le motivazioni di opportunità politica che hanno

orientato il Ministro dell’Economia ad escludere qualsiasi misura che comportasse anche

tagli all’IRE nella finanziaria di fine legislatura, che pota molti privilegi fiscali a carico delle

imprese, resi possibili dal nuovo regime impositivo dei redditi societari connesso con

l’introduzione dell’IRES.

Proprio l’esperienza della riforma dell’imposta sui redditi delle società (IRES)

attuata frettolosamente nel 2004 in alternativa all’avvio del secondo modulo delle riforma

dell’imposta personale, con la motivazione inespressa che avrebbe comportato perdite di

gettito molto minori, evidenzia la superficialità ed improvvisazione con cui il governo ha

gestito il tema della riforma tributaria, di cui pure era stato con la legge 80 del 2003 il

promotore.

La riforma dell’imposta sulle società, prima del completamento della riforma

dell’imposizione personale, in una economia caratterizzata dalla polverizzazione delle

imprese (oltre 4.500.000) e da un numero elevatissimo di contribuenti IRES, ha

determinato confusioni, sovrapposizioni ed interferenze tra IRE ed IRES che potevano

essere facilmente evitate ed ha reso evanescenti gli effetti positivi delle legge 80/2003 di

riforma tributaria.

Un solo dato è sufficiente per chiarire i termini del problema, relativo alla riforma

fiscale. In Italia il gettito dell’IVA è pari al 6,1% del PIL, come in Spagna che ha

un’aliquota inferiore alla nostra di ben 5 punti (15%); in Francia con un’aliquota inferiore

di qualche decimo di punto a quella italiana (19,7%) la TVA rende oltre il 7,9% del PIL.

In base al dato francese mancano al gettito dell’IVA oltre 30 miliardi di euro

sottratti dall’evasione; una somma superiore di un terzo al gettito dell’IRAP riscossa nel

settore privato, un’imposta che al contrario dell’IVA penalizza le esportazioni mentre le

importazioni ne sono esentate.

13

Un dato questo che da solo spiega la perdita di competitività nell’ultimo decennio

del Sistema Italia, che ha visto scendere la propria quota del commercio mondiale dal 4,7

al 3,8%.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Naturalmente per assorbire un’evasione all’IVA di queste dimensioni, la riforma

dell’IRE è un mezzo necessario ma non sufficiente. Serve agire anche sull’accertamento

consentendo, attraverso un impiego razionale del concordato preventivo, maggiore

flessibilità nell’applicazione degli studi di settore, altrimenti destinati ad irrigidirsi verso il

basso e a legalizzare un’ampia area di evasione. Avendo ben chiaro che il concordato

preventivo non è un condono, ma lo strumento razionale per riappropriarsi della gestione

dell’imposta personale da parte dell’amministrazione finanziaria, ed estendere al nostro

ordinamento il sistema francese della “declarátion contrôleé”, che è applicata su base

annua, ma interessa un numero di soggetti pari a meno della metà di quelli italiani.

Questi pochi dati evidenziano tutta l’inconsistenza del dibattito circa le priorità da

assegnare a politiche fiscali di sostegno della domanda piuttosto che dell’offerta; se non

si rende competitivo il sistema tributario attraverso la sua riforma, qualsiasi manovra

delle imposte avrà effetti limitati e probabilmente, almeno in parte indesiderati.

Del resto, proprio le misure di razionalizzazione e di coordinamento fiscale

introdotte a fine ottobre dal Ministro dell’Economia, per eliminare alcuni privilegi a

beneficio delle imprese in tema di ammortamenti e contrastare in modo esplicito le

pratiche elusive di dividend washing proliferate dopo l’introduzione dell’istituto della

partecipation exemption nella nuova imposta sui redditi societari, IRES, evidenziano le

incongruenze ed i limiti di modifiche parziali di disposizioni a carattere fiscale, non inserite

in un disegno sistematico di riforma, che incoraggiano la diffusione di concezioni

elettoralistiche in campo tributario.

3) La riforma elettorale

Gli aspetti politici contingenti che legano insieme gli altri due appuntamenti, la

riforma elettorale e quella costituzionale, non sono ovviamente oggetto di queste note,

pur non potendo certo essere del tutto ignorati.

Tuttavia, tenendo anche conto della diversa portata delle due leggi, costituzionale

l’una, ordinaria quella elettorale, mi sembra utile evidenziare alcuni profili giuridici che, al

di là delle soluzioni adottate, appaiono problematici e richiederanno anche in futuro

un’attenta riflessione, in vista di possibili ripensamenti imposti dall’esperienza.

14

Con riferimento alla legge elettorale, gli aspetti su cui si sono maggiormente

incentrate le critiche, e cioè il profilo temporale scelto (fine legislatura) ed il ritorno al

proporzionale, che implicherebbe il definitivo abbandono dell’attuale sistema bipolare,

non mi sembrano particolarmente persuasive.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Una legge elettorale, può al più favorire le aggregazioni premiandole

elettoralmente, ma il buon funzionamento del sistema politico dipende assai più dal

modello istituzionale che da interventi di ingegneria elettorale.

Un esempio illuminante, lo abbiamo visto, è offerto dalla legge finanziaria e di

bilancio, il principale atto di indirizzo politico del Governo, che richiede in Italia per

l’approvazione tre mesi di serrato confronto e cogestione parlamentare. Situazione che

non ha riscontro in nessun altro paese europeo.

Assai più problematica, a mio avviso è invece la reintroduzione del voto di lista e le

liste bloccate per l’elezione del Parlamento.

È vero che 12 anni fa un referendum si era espresso, in un contesto per altro assai

diverso, per l’abolizione del voto di preferenza; ma a parte il fatto che quest’ultimo è già

previsto per le elezioni per il Parlamento Europeo e per le Amministrative, mi pare che le

questioni da approfondire siano quelle dei limiti all’esercizio effettivo dell’elettorato

passivo in un sistema a liste bloccate, e alle possibilità reali di scelta offerte agli elettori,

alla luce del principio di ragionevolezza.

Si tratta a ben vedere di due aspetti che, considerati separatamente, rientrano

entrambi nell’ambito di quelle scelte discrezionali del Parlamento non sindacabili in sede

di giudizio di legittimità costituzionale. Più discutibile è invece, ad un attento scrutinio di

ragionevolezza, l’utilizzazione di tutti e due i criteri all’interno di un unico sistema

elettorale, perché il voto di lista a liste bloccate rappresenta un ostacolo all’esercizio

dell’elettorato passivo assai più penetrante rispetto ai sistemi fondati sul collegio

uninominale, che consentono un esercizio meno condizionato del diritto di elettorato

passivo.

È stato rilevato ad esempio che il premio di maggioranza previsto dalla legge

elettorale è esiguo per cui, se un certo numero di ministri e sottosegretari non partecipa

alle votazioni, la maggioranza può essere messa in difficoltà. Ma basterebbe stabilire il

principio che ai parlamentari che entrano a far parte del Governo, come in Francia,

subentrano i primi non eletti per risolvere il problema, senza la necessità di squilibrare in

misura eccessiva il rapporto tra rappresentanza e scelte degli elettori.

Va comunque sottolineato che, quale sarà in futuro il sistema elettorale adottato,

esso dovrà essere necessariamente sostituito in tempi brevi dal voto elettronico, unico

modo per garantire in concreto la segretezza del voto nella stagione dei videotelefonini e

delle microcamere digitali.

15

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

4) I precedenti della riforma costituzionale e il limite dell’interesse nazionale

Problemi assai più complessi pone invece la riforma della seconda parte della

Costituzione, giunta ormai all’ultimo giro di boa parlamentare.

Senza pretesa di sistematicità, dato il carattere di queste note, che attengono

essenzialmente ai profili finanziari e fiscali delle riforme costituzionali, si possono

evidenziare alcuni problemi aperti dalla riforma del Titolo V del 2001, relativi al modello

attuativo dell’autonomia finanziaria degli Enti Territoriali, che non vengono risolti dal

nuovo testo costituzionale che anzi, come vedremo ne crea di nuovi e di più gravi.

La prima osservazione è che il decentramento amministrativo avviato con le leggi

Bassanini della seconda metà degli anni ’90, abbia tracimato in modo pressoché

automatico nella riforma del Titolo V, anche per l’esigenza di dare copertura

costituzionale a trasferimenti disinvolti di funzioni amministrative in aree coperte da

riserva di legge. Non ha quindi risolto il problema di una ripartizione della potestà

legislativa tra lo Stato e le Regioni, funzionale all’obiettivo di decentrare materie

caratterizzate in modo esclusivo o prevalente da interessi locali, senza lasciare privi di

tutela gli interessi unitari, non frazionabili, presenti in molte materie attribuite alla potestà

legislativa regionale, così come evidenziato da ultimo anche dalla Giurisprudenza

Costituzionale.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 203 del 2003, interpretando

estensivamente il principio di sussidiarietà verticale ha riconosciuto che esso può

assumente anche carattere ascendente quando lo richieda la cura di istanze unitarie

altrimenti prive di tutela e rappresenta l’elemento di flessibilità idoneo ad attrarre allo

Stato, in base ai principi di sussidiarietà ed adeguatezza non solo determinate funzioni

amministrative, ma previa intesa con le Regioni nella fase attuativa, anche il parallelo

esercizio della funzione legislativa, in base al principio di legalità.

16

Una sentenza coraggiosa, che ha posto rimedio a una grave lacuna nel testo

dell’articolo 117 Cost., ma che non si presta ad applicazioni estensive generalizzate. La

mancata previsione di norme di coordinamento tra le materie a contenuto economico di

competenza regionale, evidenzia un’esigenza insopprimibile: quella di consentire che la

politica economica nazionale rappresenti qualcosa di diverso e meno frammentato della

semplice sommatoria delle diverse politiche regionali; obiettivi legittimi che per altro

potranno avere adeguata tutela solo attraverso una nuova specifica previsione

costituzionale.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Sotto questo profilo la polemica sulla esclusione nel Titolo V novellato dell’interesse

nazionale, quale limite della potestà legislativa delle Regioni, di cui è prevista la

reintroduzione nel nuovo testo di riforma costituzionale, all’articolo 127 II comma, appare

una questione prevalentemente politica, il cui significato sotto il profilo giuridico non può

essere amplificato al punto da creare pericolose confusioni ed illusioni.

Il tema dell’interesse nazionale come limite all’esercizio della potestà legislativa da

parte delle Regioni è stato reintrodotto in Costituzione dalla destra per giustificare la

propria adesione al nuovo modello istituzionale, fortemente voluto dalla Lega Nord, che

rappresenta una frattura radicale non solo rispetto alla tradizione liberale unitaria, ma

anche nei confronti della Costituzione del ’48, che ha innervato quella tradizione con le

culture solidariste di matrice cattolica e socialiste, senza stravolgerla.

Da un lato infatti gli art. 118, 119, e 120 della Costituzione nel testo novellato

contengono disposizioni che riconducono esplicitamente ad esigenze di tutela degli

interessi unitari la cui cura è affidata alla legislazione statale, anche dopo la riforma del

Titolo V.

Dall’altro il limite dell’interesse nazionale, che nel quadro degli equilibri tra Stato e

Regioni fissato nella Costituzione del 1948 aveva consentito allo Stato di emanare, in

molte materie, norme generali limitative della potestà legislativa delle Regioni, motivate

dalla necessità di tutelare interessi unitari non ha più, nell’attuale ripartizione delle

competenze legislative una effettiva portata pratica e rappresenta al più una norma di

chiusura del sistema, del cui reinserimento in Costituzione, sono per altro ben lieto, se

non altro per ragioni estetiche.

Nella Costituzione del ’48 la potestà legislativa generale era affidata alle Camere,

mentre alle Regioni era consentito nelle materie indicate dall’art. 117 della Costituzione di

emanare norme legislative nei limiti dei principi fondamentali, stabiliti dalle leggi dello

Stato.

In quel quadro caratterizzato dalla titolarità di una potestà legislativa primaria

molto ampia da parte dello Stato, l’interesse nazionale oltre a rappresentare un limite

negativo nei confronti delle leggi regionali, attribuiva implicitamente una riserva di

competenza allo Stato, finalizzata alla cura di interessi unitari, che si concretizzava nella

possibilità, motivata con ragioni di interesse nazionale, di emanare norme generali, anche

in materie attribuite alla potestà concorrente delle Regioni.

17

La riforma del Titolo V ha mutato radicalmente i termini della questione, perché

ormai la potestà legislativa primaria e residuale appartiene alla Regione.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

L’interesse nazionale, reintrodotto dalla riforma costituzionale in corso di

approvazione, nell’articolo 117 II comma, rappresenta ormai solo un limite negativo che

si rivolge ormai solo al legislatore regionale. Non è quindi di per sé uno strumento idoneo

ad attrarre alla legislazione statale la tutela attiva di quegli interessi unitari non

frazionabili, che l’esperienza ha evidenziato sussistere anche in materie attribuite dalla

riforma del Titolo V alla legislazione regionale, che oggi sono prive di tutela e che

rimarranno tali anche dopo la reintroduzione dell’interesse nazionale!

Più discutibile semmai è la scomparsa nel Titolo V dell’interesse delle altre Regioni,

quale limite alla potestà legislativa regionale, perché, almeno in astratto, sembra

prefigurare, nel quadro del nuovo bicameralismo differenziato, che indebolisce

ulteriormente i profili ordinamentali unitari senza ridurre i conflitti, un modello di

regionalismo competitivo, utile in sistemi federali di dimensioni continentali, non

facilmente adattabile alla scala dimensionale di una società complessa, quale quella

italiana, fortemente differenziata dal punto di vista economico e sociale e dei modelli

culturali, insediata su un territorio inferiore per superficie a quello della California.

D’altra parte, l’aspetto disarmante del processo di riforma costituzionale in atto da

oltre un decennio, è a mio avviso rappresentato dall’incapacità, che investe l’insieme del

panorama politico, di maggioranza e opposizione, di individuare una serie di obiettivi

condivisi, capaci di rendere più funzionali le istituzioni e più competitivo il sistema Italia al

servizio dei suoi cittadini. Sotto questo angolo visuale la nuova riforma costituzionale

presenta infatti gli stessi limiti istituzionali di quella del Titolo V votata dal centro-sinistra

nel 2001.

È vero che nel nuovo testo vi sono scelte condivisibili in tema di premierato e di

recupero alla competenza dello Stato di materie in cui gli interessi strategici sono di

dimensioni sovraregionali; tuttavia a queste scelte sicuramente opportune e condivisibili,

si affianca una riforma del processo di formazione delle leggi assai discutibile, che

interviene in modo poco meditato sui delicati equilibri che regolano l’attività legislativa,

che rappresenta uno dei pilastri di ogni democrazia, parlamentare o meno.

18

A questa debolezza di fondo ha d’altra parte contribuito l’assenza di un dibattito

approfondito da parte della cultura non solo giuridica, sulle implicazioni determinate dalla

scelta di ciascuno dei diversi modelli di decentramento possibili, che ha consentito

l’affermarsi, come verità indiscutibili di una serie di luoghi comuni sul tema del

federalismo, fiscale e non, sulla spinta di movimenti politici a carattere localistico.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Ora, indipendentemente dall’esito dell’iter di riforma costituzionale (approvazione

parlamentare più referendum), l’Italia nel prossimo futuro dovrà interrogarsi su almeno

quattro questioni centrali ai fini dell’avvio di un ciclo virtuoso nel percorso riformatore del

proprio assetto economico ed istituzionale.

5) I limiti del processo di decentramento: l’esperienza tedesca

La prima questione fondamentale è quella delle dimensioni che dovrà assumere a

regime il processo di decentramento avviato con le leggi Bassanini, proprio per consentire

uno sviluppo effettivo della cultura autonomistica.

Il principio di sussidiarietà, senza l’integrazione con i principi di differenziazione ed

adeguatezza, entrambi previsti dall’art. 118 della Costituzione nel testo novellato, non

consente di prefigurare un assetto non solo coerente, ma anche economicamente

sostenibile del processo di decentramento.

La tesi che il decentramento sia di per se un processo virtuoso che razionalizza e

rende più efficiente la spesa pubblica, rappresenta piuttosto una petizione di principio che

una realtà dimostrata. Specie se, come è avvenuto in seguito alla riforma del Titolo V,

non esista più alcun meccanismo di controllo sulla spesa degli Enti Territoriali.

L’esperienza ci dice al contrario che la maggior parte dei processi di decentramento

comporta costi aggiuntivi; per cui è conveniente decentrare le funzioni dallo Stato agli

Enti Territoriali solo nei limiti in cui l’incremento dei costi dovuto alle minori economie di

scala, sia compensato dalla maggiore efficienza e quindi dalla riduzione dei costi sociali

determinato dal decentramento.

I profili di potere connessi con l’ampliamento delle funzioni trasferite sono evidenti,

perché a maggiori funzioni corrispondono necessariamente maggiori opportunità di

spesa. Quindi si comprendono le spinte ad ottenere maggiori competenze da parte degli

Enti Territoriali. Ma a parte la considerazione che il principio di adeguatezza condiziona

limitandolo quello di sussidiarietà, perché il trasferimento di funzioni non può estendersi

al punto di determinare diseconomie di scala a carico dei contribuenti, è del tutto

indimostrato l’assunto di una maggiore, generalizzata, efficienza della spesa decentrata.

19

Al contrario se si ampliasse oltre ogni limite di ragionevolezza la spesa di Regioni

ed Enti Locali, (e tale a mio parere è la previsione a regime di una spesa decentrata pari

a 265-280 miliardi di euro ai valori 2003 che assorbirebbe quasi l’80% delle entrate

tributarie) si vanificherebbe qualsiasi effetto di responsabilizzazione degli amministratori

locali, perché la quota di finanziamenti rappresentata dal gettito di tributi non solo

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

attribuiti agli Enti locali come l’IVA, ma percepiti dagli elettori come tributi il cui onere è

deciso a livello locale, diventerebbe inevitabilmente marginale.

Il fatto che il processo di decentramento finanziario sarà necessariamente graduale

non risolve ma anestetizza soltanto il problema: con poco più del 20% delle entrate

tributarie effettivamente disponibili, lo Stato non solo non sarà in grado di sostenere gli

oneri del servizio del debito pubblico e di assolvere alla propria funzione essenziale di

perequazione orizzontale e verticale imposta dall’art. 3 della Costituzione, ma non avrà i

mezzi per adempiere ai propri impegni istituzionali.

Quindi in assenza di significativi correttivi, il decentramento finanziario comporterà

necessariamente ulteriori incrementi della pressione fiscale, che già oggi soffoca

l’economia determinando tassi di crescita da prefisso telefonico.

Un esempio clamoroso in questo senso si è avuto negli ultimi mesi con la vicenda

delle Fregate Multifunzione progettate dalla nostra Marina Militare in coproduzione con la

Francia, essenziali per sostituire le navi degli anni ’80 ormai al limite della loro vita

operativa, anche per i gravosi impegni in teatri lontani a cui sono state sottoposte negli

ultimi 15 anni: sono mesi che non si riescono a trovare i soldi per finanziare neppure la

costruzione delle prime 2 navi!

Proprio la necessità di realizzare un processo di decentramento caratterizzato da

un rapporto costi efficacia di segno positivo, che non comporti cioè ulteriori aumenti della

spesa pubblica e della pressione fiscale, ci porta ad affrontare il secondo aspetto ancora

aperto; quello del modello di decentramento più utile al nostro Paese per contribuire in

modo positivo al processo di integrazione in Europa e alle sfide della mondializzazione.

La riforma del Titolo V del 2001 e soprattutto il nuovo schema di riforma delle

seconda parte della Costituzione in via di approvazione, delineano un modello di

derivazione tedesca, la cui esperienza meriterebbe un assai maggiore approfondimento e

andrebbe adeguatamente storicizzata.

Il federalismo, imposto alla Germania dai vincitori della seconda guerra mondiale,

specie dagli americani dopo la fine del terzo Reich, è stato gestito dai tedeschi nel corso

di un cinquantennio con molto pragmatismo, realizzando un sistema politico coeso,

caratterizzato da consistenti elementi consociativi ed un modello di welfare che coniuga

economia di mercato ed un’ampia e diffusa tutela sociale.

20

Dall’altra parte il modello tedesco di competenza legislativa concorrente tra Bund e

Land, in cui la funzione legislativa è ripartita nelle diverse materie tra Stato Federale e

Regioni, è caratterizzato da un ragionevole grado di flessibilità e ha permesso, sulla base

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

della “Konkurriende Gesetzgebund”, che consente l’intervento della Federazione per

finalità di tutela dell’unità giuridica o economica nell’interesse dello Stato, anche sulla

spinta della riunificazione della Germania e del processo di mondializzazione

dell’economia, di avviare un percorso invertito di attrazione allo Stato di parti di funzioni

precedentemente decentrate ai Lander, per esigenze di migliore tutela di interessi unitari.

Questo fenomeno, pur essendo in atto da circa un ventennio, anche in campo

finanziario, evidenzia comunque la difficoltà del sistema federale tedesco a realizzare

rapidamente le trasformazioni indispensabili per aumentare la competitività del sistema

pubblico, senza rinunciare al nucleo centrale del proprio modello di equilibri sociali.

Un esempio recente si è avuto con le proposte di riforma del sistema scolastico,

approvate dal Parlamento federale, ma bloccate dal Bundesrat, la Camera delle Regioni,

per il timore di un ridimensionamento dei poteri locali.

Che il modello di federalismo alla tedesca presenti delicati problemi di equilibrio tra

Stato e Lander, mai completamente risolti ed evidenzi rigidità ed inefficienze, è

dimostrato dalle oltre 50 modifiche alla Costituzione apportate dal Parlamento federale in

meno di 50 anni.

Non è un caso che uno degli elementi qualificanti del governo di grande coalizione

in corso di formazione nella Repubblica Federale, è rappresentato da una riforma del

federalismo orientata a riportare allo Stato ampie competenze e le relative risorse

precedentemente decentrate.

Non si vede quindi il motivo che dovrebbe spingere l’Italia su un sentiero

accidentato almeno quanto quello imboccato dalla Germania 50 anni fa, che mentre in

passato è stato per i tedeschi occasione di coesione e di crescita, oggi di fatto ingessa la

Germania e non le consente le innovazioni necessarie per affrontare le sfide della

mondializzazione. Avendo per altro un tessuto produttivo polverizzato in qualche milione

di micro imprese e quindi strutturalmente più debole di quello tedesco e più esposto alla

concorrenza internazionale.

21

In Italia, in ogni caso, la situazione è ancora più bloccata di quella tedesca, perché

dopo la riforma del Titolo V un processo di attrazione ascendente di funzioni dalle Regioni

allo Stato come quello in atto in Germania non sarebbe neppure ipotizzabile, perché con

la nuova formulazione dell’art. 117 Cost., lo Stato nelle materie di competenza

concorrente regolate dal terzo comma ed in quelle non nominate disciplinate dal IV

comma dello stesso articolo, non ha più la potestà legislativa, salvo che per la

determinazione dei principi fondamentali.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Ne deriva quindi l’impossibilità per lo Stato di adottare leggi di sistema e di

destinare risorse finalizzate alla cura di quegli interessi unitari non frazionabili specie

economici che la stessa Corte Costituzionale ha più volte, dopo la riforma del Titolo V,

riconosciuto essere presenti anche in materie e funzioni attribuite dall’art. 117 alla

legislazione regionale; in queste materie infatti lo Stato non avendo competenza

legislativa non può destinare risorse e gestirle direttamente, se non per le finalità

regolate dal V comma dell’art. 119 Cost., che non prevede interventi a carattere

generale. L’interesse nazionale, nel nuovo riparto della funzione legislativa tra Stato e

Regioni, non rappresenta più il grimaldello per attrarre allo Stato competenze a carattere

generale nelle materie attribuite alla potestà legislativa delle Regioni.

Questa realtà, i cui effetti sono stati fino ad ora in parte mitigati dall’avvio del

processo attuativo della riforma del Titolo V secondo la formula nautica avanti adagio,

quasi ferma, dovrebbe far riflettere; anche per le obiettive difficoltà di assicurare in forme

ragionevoli il decentramento finanziario e fiscale, nelle dimensioni almeno che questo ha

assunto dopo la riforma del 2001.

L’attuale immobilismo infatti solo apparentemente non produce danni: basti

pensate all’esempio del turismo in cui la presenza dell’Italia nel mercato mondiale è in

forte ritirata da diversi anni, proprio per la debolezza di un modello in cui la promozione

turistica è ormai affidata esclusivamente alle Regioni, con sovrapposizioni, inefficienze ed

aumento dei costi evidenti.

Sul punto occorre una precisazione: chi scrive non propone di riportare in modo

semplicistico allo Stato materie o loro parti trasferite, forse con troppa disinvoltura, alla

competenza legislativa delle Regioni con la riforma del Titolo V della Costituzione oltre

quanto già previsto nel testo dell’art. 117 in corso di definitiva approvazione.

Sottolinea invece una necessità, quella della cura degli interessi unitari trasversali

specie in campo economico che il modello vigente di ripartizione della potestà legislativa

tra Stato e Regioni non consente e non è stato risolto nel nuovo testo di riforma; ed

evidenzia come i maggiori elementi di difficoltà si riferiscano al campo finanziario, ed

abbiano rappresentato una delle non ultime ragioni della troppo lunga fase di stallo in cui

si è impantanato il decentramento finanziario dopo la riforma del 2001.

22

Non sembra invece avere avuto sufficiente attenzione il modello spagnolo, la cui

Costituzione del 1978 ha delineato un modello di regionalismo flessibile, che ha corretto

alcuni dei più evidenti limiti del regionalismo italiano senza stravolgere l’impianto unitario

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

dello Stato, ed in cui l’esperienza delle Comunità Autonome si inserisce in un sistema

costituzionale, assai più vicino al nostro, rispetto a quello tedesco.

Il decentramento regionale spagnolo si basa su un modello differenziato di

distribuzione dei livelli autonomia a tre velocità che meglio si adatta al diverso grado di

sviluppo delle Comunità Autonome e consente a tutti i cittadini spagnoli di accedere ai

servizi sociali resi dallo Stato o dalle Regioni, con standard uniformi, senza penalizzazioni

dal punto di vista fiscale o nei servizi, per le popolazioni residenti in aree

economicamente meno favorite. Il decentramento flessibile spagnolo valorizza quindi i

profili autonomistici all’interno di un modello che appare francamente più funzionale ed

equilibrato rispetto a quello in parte velleitario, delineato dalla riforma costituzionale

italiana del 2001.

6) Il federalismo fiscale tra utopie e limiti del sistema tributario

Il terzo aspetto che richiede approfondimento è rappresentato dal federalismo

fiscale.

In genere gli economisti, all’interno di una visione idealistica caratterizzata da

qualche eccesso di semplificazione, ed avendo a modello il sistema nord-americano,

attribuiscono al decentramento fiscale una serie di pregi, a carattere quasi taumaturgico,

perché la finanza decentrata consentirebbe un rapporto più diretto tra costi del prelievo e

benefici attesi dalla spesa pubblica, e quindi aumenterebbe il controllo dei cittadini sulla

spesa, mentre la concorrenza fiscale tra Enti Territoriali migliorerebbe l’allocazione delle

risorse, senza prestare attenzione alle caratteristiche del sistema fiscale, tutt’altro che

indifferenti ai fini di un ragionevole processo di responsabilizzazione dei contribuenti.

Il condizionale è tuttavia d’obbligo sia perché il principio di beneficio, non può

essere utilizzato come criterio di riparto generalizzato dei tributi, dovendosi tenere anche

conto della capacità contributiva di ciascuno, in modo da assicurare in termini ragionevoli

la progressività del sistema tributario e l’eguaglianza dei contribuenti davanti alle

imposte; sia perché la concorrenza fiscale incontra una serie di difficoltà e di costi sociali

che ne limitano quanto meno la possibilità di impiego e l’efficacia.

23

E questo per i vincoli che caratterizzano i sistemi fiscali delle democrazie mature e

che oltre certi limiti rendono impraticabili i processi di trasferimento di quote di tributi

dalla Stato al sistema periferico, conservando al tempo stesso un ragionevole grado di

responsabilizzazione dei destinatari del gettito.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Il quadro dunque, nella realtà europea si presenta in generale alquanto diverso, e

meno favorevole al federalismo fiscale rispetto all’esperienza nord-americana.

L’assunto che sia possibile finanziare in Italia, attraverso il federalismo fiscale una

spesa decentrata che a regime inciderà sul PIL in misura superiore a quella degli States,

negli Stati Uniti, come previsto dalla riforma del Titolo V e successive integrazioni è

impresa praticamente impossibile; a meno di non dare per scontati ulteriori consistenti

aumenti della pressione fiscale.

Le imposte sugli scambi, il cui gettito ormai rappresenta la prima voce di entrata

nei paesi più avanzati, che ogni Stato nord-americano può disciplinare come crede,

realizzando quindi una piena autonomia fiscale, in Europa ed in Italia, possono essere

una fonte importante per il finanziamento degli Enti Territoriali; ma non uno strumento di

autonomia fiscale: l’IVA infatti è interamente disciplinata a livello dell’Unione Europea, ed

il suo regime condiziona fortemente l’autonomia fiscale dei Paesi Membri, con effetti

indiretti anche su altri tributi, come dimostra il problema della compatibilità dell’IRAP,

quanto meno nelle forme vigenti, con l’ordinamento comunitario attualmente all’esame

della Corte di Giustizia europea, e quindi non può essere fonte di autonomia tributaria.

D’altra parte anche la compartecipazione al gettito dei tributi erariali da parte degli

Enti di Decentramento, la cui determinazione in concreto è demandata periodicamente

alla legge di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ha, per ragioni

intrinseche al modello, scarsa efficacia sotto il profilo della responsabilizzazione degli

amministratori perché non viene percepita dai cittadini come un tributo locale. Lo stesso

può dirsi per le altre imposte indirette ed accise (lotto e lotterie, tabacchi, assicurazioni,

super alcolici) il cui gettito dovrebbe in futuro essere attribuito agli Enti di

Decentramento, almeno fino a quando non diventeranno in tutto o in parte tributi propri.

Non a caso dopo la riforma del Titolo V Giuseppe Guarino aveva sostenuto che

tutto il sistema tributario dovesse essere rivoluzionato su basi regionali; lucida

provocazione di un anziano Maestro, ma ipotesi irrealizzabile sul piano pratico, per le

dimensioni assunte in Europa da prelievo fiscale e spesa pubblica, e per il carattere

necessariamente statale delle principali imposte sui redditi personali, societari e sul valore

aggiunto.

24

Restano quindi come strumento di reale autonomia finanziaria degli Enti

Territoriali, la modulazione delle aliquote IRAP, un tributo dal futuro assai incerto che

incentiva le importazioni e penalizza le esportazioni, la cui razionalità in una economia

mondializzata è concetto che solo menti raffinate di economisti possono spiegare; e di cui

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

significativamente l’Alta Commissione sul federalismo fiscale propone di attribuire il

gettito allo Stato, per il carattere eccessivamente sperequato della sua distribuzione

territoriale; la gestione dell’imposta comunale sugli immobili e la modulazione delle accise

sui carburanti, i tabacchi e gli alcolici, le imposte sui giochi e le assicurazioni.

Imposte il cui gettito, pur significativo in assoluto, offre margini di autonomia

fiscale assai contenuti rispetto ad una spesa locale complessiva che dovrebbe attestarsi a

regime su valori prossimi ad un quarto del PIL.

Appare quindi evidente, se l’obiettivo è quello di rendere realmente più efficiente la

spesa pubblica, attraverso il controllo dei contribuenti la necessità di rimodulare il

processo di decentramento delineato nella passata legislatura con la riforma del Titolo V,

trasferendo a livello regionale e locale solo quelle spese, e non sono poche, la cui

determinazione è motivata da obiettive esigenze autonomistiche; lasciando allo Stato la

responsabilità finanziaria degli interventi sulle infrastrutture a rete e la cura di interessi

unitari o comunque sovraregionali.

In questo quadro potrebbe assumere ad esempio un ruolo di grande rilievo una

diffusa ed ampia applicazione degli interventi previsti dall’articolo 119 V comma

Costituzione. Lo Stato mediante intese tra le Regioni e gli Enti Locali potrebbe partecipare

al cofinanziamento di interventi speciali finalizzati a migliorare le condizioni economico

sociali dei territori secondo logiche che valorizzino i processi di responsabilizzazione degli

amministratori nell’impiego delle risorse.

Un esempio per tutti viene dal comparto dell’istruzione: è evidente la necessità che

la spesa per gli investimenti ed il funzionamento delle infrastrutture, l’innovazione

didattica, la ricerca, siano trasferite a livello regionale, per evidenti ragioni di efficienza,

flessibilità, rapidità di attuazione degli interventi.

Molto meno che a queste seguano quelle relative al personale tecnico

amministrativo ed all’insieme del corpo docente, le cui retribuzioni sono regolate da

contratti nazionali, ed i cui oneri appesantirebbero inutilmente i bilanci regionali, senza

alcun vantaggio dal punto di vista dell’autonomia non solo finanziaria.

25

In definitiva, poiché delle tre principali fonti di finanziamento locale regolate

dall’art. 119 Cost., tributi propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali e fondo

perequativo, solo i primi costituiscono uno strumento di piena autonomia finanziaria e

tributaria, appare evidente l’esigenza di realizzare un sistema di finanza locale che si basi

prevalentemente su tributi propri e compartecipazioni ai tributi erariali.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

È infatti inevitabile che, se la compartecipazione al gettito dei tributi erariali e i

trasferimenti dal fondo perequativo a favore dei territori con minori capacità fiscali per

abitante, rappresentassero a regime l’elemento preponderante della finanza locale, lo

Stato si vedrebbe costretto a porre ai destinatari, nella ripartizione dei finanziamenti, una

serie di vincoli di mezzi ed indirettamente, di risultato, tali da condizionarne anche

pesantemente l’autonomia, per armonizzare la dinamica della spesa decentrata agli

obiettivi di finanza pubblica fissati con la legge finanziaria, e più in generale per

elementari esigenze di tenuta del sistema.

In definitiva la fiducia da più parti conclamata sugli effetti taumaturgici del

federalismo fiscale, deve essere fortemente ridimensionata; la quota maggioritaria delle

risorse finanziarie dopo la riforma verrà agli Enti Territoriali dalle compartecipazioni al

gettito dei tributi erariali, e quindi attraverso l’impiego di misure fiscali, il cui onere non è

percepito dai cittadini come collegato alle attività degli Enti di Decentramento.

Da questo punto di vista, l’annuncio dell’accordo (elettorale?) tra il Governo

nazionale e quello siciliano per l’applicazione dell’art. 37 dello Statuto regionale, che

attribuisce alla Regione tutto il gettito dell’imposta sul reddito d’impresa prodotto sul suo

territorio ma riscosso altrove, articolo non a caso ibernato per quasi 60 anni, offre

ulteriori elementi di incertezza perché prefigura, un federalismo fiscale à la carte,

incompatibile prima ancora che con i principi costituzionali, con il buon senso.

L’art. 119 della Costituzione, nel testo vigente prevede un meccanismo di

finanziamento degli Enti Territoriali basato su tributi propri, compartecipazioni al gettito di

tributi erariali riferibile al territorio e fondo perequativo, destinato quest’ultimo a integrare

le risorse dei territori con minore capacità fiscale per abitante. Prevede poi ulteriori

interventi diretti dello Stato o attraverso l’attribuzione di specifiche risorse a favore di

determinate regioni o Enti Locali, con obiettivi di perequazione nella dotazione di

infrastrutture, o per finanziare opere di interesse generale.

Lo schema di finanziamento della spesa decentrata prefigurato dall’articolo 119

della Costituzione rappresenta un modello equilibrato: dando più spazio ai tributi propri e

alla compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio, risponde alla

domanda di maggiore autonomia finanziaria delle Regioni più sviluppate del Paese.

26

D’altra parte la minore capacità fiscale delle regioni del Mezzogiorno, che incide sul

gettito dei tributi propri e quindi sulla capacità di investimento, è compensata dalla

funzione di responsabilizzazione connessa con l’autonomia fiscale e dal ruolo centrale

assunto dal Governo e dal Parlamento con la legge finanziaria nella determinazione delle

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

compartecipazioni al gettito dei tributi statali, nella ripartizione del fondo perequativo e

negli ulteriori interventi speciali, disciplinati dal V comma dell’articolo 119 della

Costituzione.

Quindi l’idea stessa che una o più Regioni, non importa se ordinarie o speciali

possano in base a disposizioni del proprio Statuto pretendere di attingere al gettito di

tributi quale quello sui redditi societari, che strutturalmente non si presta ad essere

gestito su basi territoriali, se non a patto di notevoli complicazioni gestionali ed aumento

dei costi per i contribuenti, è, al di fuori del quadro istituzionale rappresentato dalle leggi

finanziarie non solo disgregante, ma dimostra che il progetto di riforma istituzionale è

sfuggito di mano ai suoi promotori.

7) Indirizzo politico e procedimento legislativo

L’ultimo tema aperto, il più delicato e dai risvolti più problematici, è quello del

rapporto tra funzione di indirizzo politico e procedimento legislativo.

Già oggi il carattere intrinsecamente consociativo del nostro sistema politico,

soltanto attenuato dall’introduzione della legge elettorale maggioritaria, rende il

procedimento di formazione della legge lento e defatigante, con riflessi negativi sul

sistema economico; l’iter della legge sul risparmio, dopo i recenti scandali finanziari, ne è

solo l’ultimo clamoroso esempio.

Con la riforma costituzionale l’obiettivo di superare il bicameralismo perfetto, senza

svuotare il ruolo del Senato, dei cui componenti occorreva assicurarsi il voto, ha indotto il

centro destra a prefigurare un modello che solo formalmente può essere assimilato al

Bundesrat.

Assemblea, come è noto, composta in Germania dai rappresentanti dei Governi

locali, e non eletta a suffragio universale come nel Senato Federale Italiano, il che non

costituisce differenza di poco conto.

27

Per il conseguimento di questi obiettivi il legislatore ha prefigurato una ripartizione

delle competenze tra le due Assemblee quanto meno discutibile proprio dal punto di vista

dell’indirizzo politico (non si vede, ad esempio, il motivo di sottrarre alla competenza

quanto meno congiunta della Camera dei Deputati e del Senato la determinazione dei

principi fondamentali nelle materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni). Il

nuovo modello di bicameralismo differenziato destruttura infatti il contrappeso unitario

caratterizzante la riforma del Titolo V: l’unità della finanza pubblica e la perequazione

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

delle risorse come momento necessario di riequilibrio rispetto ad un processo di

decentramento di dimensioni molto ampie.

Il raccordo tra le due Assemblee nel nuovo procedimento legislativo si basa su un

complesso sistema di doppie letture eventuali tra Camera dei Deputati e Senato Federale,

secondo le rispettive competenze, che non migliorerà la già certo non esaltante

tempistica del nostro sistema parlamentare.

Nei casi in cui il Governo ritenga che proprie modifiche ad un disegno di legge

sottoposto all’esame del Senato, siano essenziali per l’attuazione del proprio programma

approvato dalla Camera dei Deputati, ovvero concernano la determinazione dei livelli

essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, regolati dall’articolo 120 II

comma della Costituzione, che devono essere comunque garantiti su tutto il territorio

nazionale, può chiedere, previa verifica dei presupposti di costituzionalità da parte del

Presidente della Repubblica, che il testo proposto sia approvato in via definitiva dalla

Camera dei Deputati a maggioranza assoluta dei suoi componenti, anche senza il voto del

Senato.

Un procedimento, come si vede complesso e inutilmente farraginoso che inserisce

in modo improprio il Capo dello Stato nel processo di formazione delle leggi, ed in cui la

clausola di supremazia a favore della Camera titolare dell’indirizzo politico ha portata

molto limitata. È ad esempio significativamente esclusa tutta la disciplina dell’articolo 119,

che regola l’autonomia finanziaria degli Enti Territoriali e che coinvolge al pari dell’articolo

120 II comma significative prerogative dello Stato.

Questo articolo, che nel sistema del Titolo V rappresenta uno snodo cruciale,

perché valorizza sia l’autonomia e il decentramento finanziario a favore dei territori, sia le

responsabilità proprie dello Stato persona in tema di perequazione e di attuazione in

concreto dell’uguaglianza di fatto (art. 119 III e V comma – art. 3 II comma Cost.) non

ha subito formalmente modifiche nel nuovo testo costituzionale.

28

Il suo ruolo nel sistema viene tuttavia profondamente alterato dal nuovo riparto

delle competenze legislative tra Camera e Senato, delineato dalla riforma della seconda

parte della Costituzione. Infatti le scelte relative alla perequazione e al coordinamento al

sistema tributario dello Stato, dei tributi propri degli Enti Territoriali, che non

dimentichiamo è strumento essenziale per attuare la perequazione non solo finanziaria,

pur rimanendo formalmente competenza esclusiva dello Stato, sono sottratte

direttamente o in modo indiretto alla determinazione dell’Assemblea cui in Costituzione è

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

affidata la più ampia rappresentanza dell’insieme degli interessi che caratterizzano la

comunità nazionale, la Camera dei Deputati.

Sul punto va sottolineato con chiarezza che non si tratta di un semplice errore

come i tanti che hanno caratterizzato la riforma del Titolo V del 2001. Si tratta invece a

mio parere di una irragionevole esclusione dal processo decisionale della Camera titolare

della rappresentanza politica, che stravolge i delicati equilibri su cui si basa l’articolo 119

della Costituzione; e determina una vera e propria invasione di campo del Senato

federale in materie necessariamente di competenza delle due Assemblee, in cui la

decisione ultima andrebbe comunque, affidata, attraverso la clausola di supremazia, alla

Camera dei Deputati.

Analogo ragionamento può farsi per la politica di bilancio. Dalla lettura del nuovo

testo dell’articolo 81 della Costituzione non si capisce bene chi si occupi di che cosa.

Il nuovo riparto delle competenze legislative lascia tuttavia intendere che gli aspetti

relativi ai rapporti tra Stato ed Autonomie, nella legge finanziaria, siano attribuiti

collettivamente alla competenza della Camera dei Deputati e del Senato Federale, mentre

l’approvazione del bilancio rimarrebbe riservata alla Camera.

Ipotesi questa priva di senso perché la legge finanziaria introdotta con la riforma

del bilancio del 1978 non è qualcosa di diverso o estraneo al bilancio; rappresenta al

contrario lo strumento amministrativo per adattare, integrandola o modificandola, la

legislazione di spesa e quella tributaria, agli obiettivi di finanza pubblica indicati dal

Governo con la presentazione della legge di bilancio.

Attraverso la cogestione della legge finanziaria il Senato riformato riacquisisce

infatti non solo una competenza legislativa trasversale in molti ambiti di legislazione

statale regolati dalla legge finanziaria; esso diviene titolare di un singolare potere di veto

in tema di finanza locale e di perequazione finanziaria, che travolge in radice il principio

costituzionale di unità della finanza pubblica: principio non a caso rinforzato negli articoli

117 e 119 della Costituzione con la riforma del Titolo V, proprio per controbilanciare

l’ampliamento del decentramento funzionale e finanziario, che pone in condizioni di

vantaggio le aree più sviluppate del paese, che esprimono maggiore capacità

contributiva.

29

La competenza esclusiva dello Stato nelle politiche di perequazione, non

rappresenta nella riforma del Titolo V del 2001 un residuo centralistico; costituisce al

contrario un elemento di equilibrio ed una garanzia di tenuta del sistema, che non può

essere sottratta, neppure condizionandola indirettamente ed in modo surrettizio, alla sola

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Assemblea titolare dopo la riforma della seconda parte della Costituzione, dell’indirizzo

politico, la Camera dei Deputati.

Il nuovo modello istituzionale espropria il Governo e la maggioranza che lo sostiene

del nucleo centrale della funzione di indirizzo politico, che si esprime nelle scelte in tema

di bilancio ed in particolare nella ripartizione delle risorse finanziarie tra lo Stato e gli altri

Enti di Decentramento Territoriale; lasciando il Governo in balia di un’Assemblea, il

Senato svincolato da qualsiasi rapporto politico funzionale con il Governo stesso ed il cui

potere istituzionale sarà proprio quello di paralizzare il Governo per ottenere vantaggi

settoriali senza risponderne a chicchessia.

Conseguenza prevedibile del nuovo assetto della potestà legislativa sarà quindi un

ulteriore aumento della pressione fiscale, perché il Governo, per attuare i propri obiettivi

di politica nazionale sarà costretto non a contemperarle con quelle del sistema finanziario

decentrato, secondo priorità condivise dalla maggioranza politica, di cui è espressione la

Camera dei Deputati, ma semplicemente a sommarle.

L’idea che viene riproposta periodicamente, che la perequazione sarebbe

espressione non del generale principio di eguaglianza, ma di una non meglio definita

solidarietà interregionale non trova significativamente alcun appiglio nel Titolo V della

Costituzione.

La potestà tributaria è infatti attribuita (art. 117 II comma) in via principale allo

Stato, che ha competenza esclusiva non solo nella disciplina dei singoli tributi statali, ma

non incontra altro limite nel suo esercizio se non quelli che la legge statale di

coordinamento riterrà di dover fissare, determinando principi, limiti ed ambiti di esercizio

della potestà tributaria regionale (art. 117 III comma). Con l’obiettivo anch’esso

costituzionalmente protetto di assicurare il coordinamento delle leggi tributarie regionali

all’unico sistema tributario previsto in costituzione: quello dello Stato.

È ancora lo Stato a determinare con legge, periodicamente, la compartecipazione

degli Enti di Decentramento al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio; ed è sempre

lo Stato ad istituire un fondo perequativo, destinato a riequilibrare le risorse dei territori

con minore capacità fiscale per abitante e a determinarne la ripartizione.

30

Un percorso come si vede discendente finalizzato ad assicurare che il concorso di

ciascuno alla spesa rispetti il vincolo della capacità contributiva in una logica di sistema; e

che evidenzia uno schema di perequazione di tipo verticale che, data la struttura dei

sistemi tributari delle società avanzate non ha alternativa.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Ed in cui il problema del trasferimento equilibrato di risorse fiscali agli Enti di

Decentramento si intreccia con la difficoltà di individuare strumenti impositivi percepiti

come locali da parte dei contribuenti. Temi tuttaltro che secondari sui quali, come

dimostrano le vicende dell’Alta Commissione sul Federalismo Fiscale, non è stato neppure

avviato il confronto

La nuova ripartizione delle competenze legislative tra Camera dei Deputati e

Senato Federale incide in modo surrettizio su questi complessi equilibri, condizionando e

indebolendo il ruolo di indirizzo politico della Camera dei Deputati, e quindi del Governo,

negli assetti complessivi nella politica di entrata e di spesa.

Ed è significativo che, mentre le disposizioni relative alla tutela dei livelli essenziali

dei diritti civili e sociali sono attribuite collettivamente alla Camera dei Deputati e al

Senato Federale, la perequazione delle risorse finanziare, competenza statale esclusiva ai

sensi dell’art. 117 II comma, rientri attraverso l’art. 119 in coordinamento con l’art. 70 nel

testo novellato, in quelle proprie del Senato Federale.

Gli obiettivi politici di questa scelta sono chiarissimi, assai meno come si concilino

con una ragionevole tutela delle aree meno favorite del Paese, caratterizzate queste

ultime da interessi diffusi deboli a cui il nuovo modello istituzionale sottrae

significativamente strumenti decisivi di rappresentanza e tutela dei propri interessi;

espropriando la Camera dei Deputati, titolare assieme al Governo della funzione di

indirizzo politico, della possibilità di concorrere ad attuare in concreto la perequazione

finanziaria tra i diversi livelli di governo, centrale o locali.

Un modello in definitiva solo apparentemente assimilabile quindi a quello tedesco,

di cui conserva tutti i limiti accentuandone i difetti, aggravato dal fatto che la Camera

delle Regioni, il Bundesrat, al contrario del Senato riformato, non è una assemblea

elettiva come il Senato Federale italiano, ma un’assemblea che rappresenta i Governi e

non è comunque titolare di alcun potere di veto in materia di bilancio.

31

Se a questo si aggiunge che il dlgs 56/2000 sul finanziamento del federalismo

amministrativo prevedeva una serie di parametri per la determinazione dei trasferimenti

alle Regioni che hanno penalizzato negli ultimi anni in misura crescente alcune regioni,

specie del Sud tanto da obbligare il Governo a sospenderne parzialmente gli effetti, si

comprendono meglio le ragioni che hanno sin qui frenato il processo di decentramento

amministrativo e finanziario dallo Stato agli Enti Territoriali previsto dalla riforma del

Titolo V della Costituzione; per le obiettive difficoltà di realizzare un sistema che ne

assicuri il finanziamento, senza comprimerne in maniera inaccettabile l’autonomia.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Le proposte formulate dall’Alta Commissione sul federalismo fiscale accentuano

questa situazione di difficoltà, perché evidenziano l’impossibilità di assegnare alle Regioni

e agli altri Enti Territoriali risorse autonome di consistenza tale da valorizzarne il processo

autonomistico, responsabilizzandone contemporaneamente le decisioni di spesa.

Il nucleo centrale delle proposte dell’Alta Commissione ruota infatti intorno

all’attribuzione a regioni ed Enti Locali della compartecipazione al gettito dell’IVA

(secondo il modello tedesco che riguarda per altro solo i Lander).

Si tratta indubbiamente di risorse consistenti ma prive di reale efficacia dal punto

di vista del rapporto tra cittadini, spesa pubblica e imposte.

Non vi è infatti sotto il profilo dell’autonomia tributaria e finanziaria alcuna

significativa differenza tra l’assegnare alle Regioni il gettito di una parte dell’IVA, riscossa

sul proprio territorio, sulla cui consistenza la Regione non ha alcuna possibilità di incidere,

ed il distribuire finanziamenti attingendo ad un fondo del bilancio dello Stato, utilizzando

parametri distributivi ad effetto equivalente.

In definitiva quindi, anche se il Senato Federale con la legge di coordinamento

della finanza pubblica e del sistema tributario, da emanare ai sensi dell’art. 117 III

comma Cost., dovesse determinare con criteri di larghezza le aree e i parametri di

riferimento per l’esercizio da parte delle Regioni di una potestà tributaria propria, gli spazi

di autonomia sarebbero comunque limitati dal fatto che nei sistemi fiscali moderni, anche

federali, le principali imposte dirette non possono non essere di pertinenza dello Stato,

per elementari ragioni di efficienza.

Di qui la previsione costituzionale della compartecipazione degli Enti Territoriali al

gettito dei tributi erariali; strumento di possibile autonomia finanziaria, ma non tributaria.

Anche l’Alta Commissione sul federalismo fiscale si è resa conto della difficoltà di

realizzare un processo di decentramento fiscale delle dimensioni richieste dal nuovo

riparto di competenze stabilito dall’art. 117 della Costituzione.

È stato quindi posto l’accento sulla opportunità di concentrare le compartecipazioni

previste dall’art. 119 II comma Costituzione, essenzialmente sull’IVA, sia per la

dimensione del gettito sia per il più equilibrato rapporto rispetto ai grandi tributi sul

reddito in relazione al PIL regionale.

32

La Commissione al tal fine ipotizza anche poteri di intervento sulle aliquote IVA da

parte delle Regioni, previa autorizzazione della UE, nella logica della responsabilizzazione

dei destinatari del gettito.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Ipotesi questa che, anche a prescindere dalle complicazioni che comporterebbe

nella gestione dell’IVA, con ulteriori incentivi all’evasione di non si sente alcun bisogno,

andrebbe in controtendenza rispetto agli indirizzi in atto nell’UE ed appare quindi

francamente fantasiosa.

La questione posta dalla Commissione sul federalismo fiscale evidenzia tuttavia un

problema serio del decentramento fiscale che è quello della responsabilità degli Enti

dotati di autonomia finanziaria, nel rapporto tra autonomia di entrata e di spesa:

autonomia che non può prescindere da strumenti di coordinamento finalizzati ad

assicurare in concreto le finalità della finanza pubblica, in una logica di sistema.

Più realistiche e condivisibili appaiono invece le proposte relative all’IRES e all’IRAP,

il cui gettito, molto diversificato sul territorio dovrebbe rimanere (IRES) o essere

accentrato allo Stato (IRAP). Nell’imposta sul reddito personale la Commissione prevede

di mantenere invece un sistema di sovrimposte o addizionali che a mio parere si prestano

a critiche proprio per la scarsa efficacia dimostrata dal punto di vista della

responsabilizzazione degli enti beneficiari.

Credo invece, che in parallelo al trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni,

dovrebbe essere avviato un processo di sostanziale riduzione delle imposte sul reddito

personale e sulle società, di pertinenza dello Stato, secondo modelli di flat-tax

all’europea, incentrato su un’aliquota comune alle due imposte, moderata, (18-20%) e su

ampie deduzioni mirate (famiglia, spese sociali, previdenza), per assicurare la

progressività del tributo.

Alle Regioni potrebbe essere assegnata invece un’imposta autonoma (IRER), con la

stessa base imponibile dell’IRE e le stesse modalità di dichiarazione e accertamento, ma

con differenti modalità di riscossione (ad esempio versamenti semestrali con la possibilità

di rateizzazioni mensili) ed ampia autonomia di manovrarne il gettito, anche attraverso

l’impiego di strumenti di sussidiarietà fiscale, allo scopo di differenziare, nella percezione

degli elettori il ruolo della fiscalità statale da quella regionale e locale (la legge statale di

coordinamento dovrebbe limitarsi a fissare solo un tetto massimo al prelievo) e di

aumentare il grado di responsabilizzazione degli amministratori.

33

È pur vero che la ripartizione del reddito su base regionale è notevolmente

sperequata e richiederebbe di essere compensata da una compartecipazione al gettito

dell’IVA con una modulazione di segno opposto. Tuttavia la larghissima autonomia di

spesa riconosciuta a Regioni ed Enti Locali dall’art. 119 Costituzione, sia pure nell’ambito

di principi di coordinamento che potranno correggere ma non stravolgere l’impianto

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

autonomista, pone in evidenza la necessità di individuare forma di imposizione regionale

e locale maggiormente efficaci per responsabilizzare la spesa e porre qualche freno alle

degenerazioni clientelari di quest’ultima.

In ogni caso si dovrebbe evitare di trasferire a livello locale spese quali quelle

relative al personale della scuola, irrilevanti dal punto di vista dell’autonomia, se non nei

profili clientelari, ma particolarmente impegnative per le dimensioni: essendo chiaro che

la possibilità di avere un sistema di tributi locali i cui oneri siano direttamente percepiti

come tali dai cittadini elettori è inversamente proporzionale alle dimensioni delle spese

trasferite.

8) L’autonomia finanziaria degli Enti Territoriali e i limiti ai poteri di intervento

dello Stato in campo finanziario

Un nuovo aspetto del decentramento finanziario, nel nuovo assetto delle

competenze legislative tra Camera dei Deputati e Senato Federale, è rappresentato dai

residui poteri statali di coordinamento nella determinazione delle compartecipazioni al

gettito dei tributi erariali e nella ripartizione del fondo perequativo, che dovrebbe

comunque avere carattere pluriennale.

Ora, che per la parte di risorse non prelevate direttamente a livello locale mediante

imposte, lo Stato possa condizionare in tutto o in parte, al rispetto di determinate

condizioni e parametri di riferimento, le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali

nonché i trasferimenti agli Enti di Decentramento, a valere sul fondo perequativo purché

non comportino vincoli di destinazione, è non solo possibile ma indispensabile. E ciò per

rendere effettivo il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario regolato

dagli articoli 117 e 119 della Costituzione: i cui obiettivi di principio devono

necessariamente essere stabiliti dal legislatore titolare della rappresentanza degli interessi

politici generali.

La Corte Costituzionale, chiamata a valutare la legittimità costituzionale di

disposizioni delle leggi finanziarie adottate dopo la riforma del 2001, che hanno inciso in

vario modo sulla finanza decentrata, ha riconosciuto la legittimità costituzionale delle

norme statali che introducono limitazioni alla spesa corrente degli Enti Territoriali, purché

si tratti di vincoli di mezzi e non di risultato, avendo lo Stato competenza esclusiva nella

quantificazione del “fabbisogno da funzioni” degli Enti di Decentramento.

34

Contrastano invece con la Costituzione le disposizioni che impongano la riduzione

di determinate spese specificamente individuate, così come quelle che prevedano

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

distribuzioni indifferenziate di risorse dal bilancio dello Stato agli Enti Locali, in materie

attribuite dall’articolo 117 terzo e quarto comma alla competenza regionale, al di fuori

delle specifiche ipotesi regolate dal V comma dell’articolo 119 della Costituzione, perché

ne limitano irragionevolmente l’autonomia di spesa.

Questo quadro è coerente con l’attuale fase transitoria in cui i rapporti tra Stato,

Regioni ed Enti Locali sono regolati in prevalenza in base al “fabbisogno da funzioni”

determinato secondo la spesa storica, dallo Stato con trasferimenti a carico del proprio

bilancio.

In assenza della legge statale che, ai sensi dell’articolo 117 III comma Cost., dovrà

fissare i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, legge

che è chiamata a regolare i rapporti finanziari tra lo Stato, che come abbiamo sottolineato

ha competenza esclusiva nella determinazione del “fabbisogno da funzioni” e il sistema

delle autonomie, lo Stato può legittimamente porre limiti quantitativi sia ai trasferimenti a

carico del proprio bilancio, sia al gettito di tributi a destinazione delle Regioni e degli altri

Enti Territoriali, disciplinati con proprie leggi.

Non può invece assegnare risorse, al di fuori della previsione del V Comma

dell’articolo 119, o imporre riduzioni di singole tipologie di spesa, attraverso disposizioni

che introducendo norme di dettaglio, si porrebbero in contrasto con l’articolo 117 III

comma.

Un discorso almeno in parte analogo può farsi per la riduzione o al limite per la

soppressione del gettito di tributi a destinazione regionale o locale. In questa ipotesi, ma

il problema riguarda a mio parere essenzialmente l’abrogazione di un tributo, la Corte

Costituzionale con la sentenza n. 37/2004, anticipando uno dei criteri che dovrebbero

essere disciplinati dalla legge statale di coordinamento del sistema tributario, sul modello

delle legge organica sulla finanza delle comunità autonome in Spagna (LOFCA), ha

ritenuto l’illegittimità di interventi statali che incidano negativamente sul gettito dei tributi

a destinazione locale.

La mia opinione è che in questa materia il potere di intervento dello Stato rimanga

ampio e differenziato. Ampio, nel senso che la legge di coordinamento del sistema

tributario, debba consentire allo Stato di poter sospendere o abrogare oltre ai tributi a

destinazione locale anche un tributo regionale proprio, per esigenze di unità del sistema,

garantendo integralmente le risorse sostitutive del gettito soppresso.

35

Nel caso invece di riduzioni del gettito queste dovrebbero limitarsi esclusivamente

ai tributi disciplinati con legge dello Stato e la loro legittimità andrebbe valutata caso per

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

caso al metro della ragionevolezza. Riduzioni consistenti del gettito di tali tributi, per

compensare paralleli incrementi di tributi statali, allo scopo di non aumentare la pressione

fiscale, si porrebbero sicuramente in contrasto con il sistema delineato dall’articolo 119

della Costituzione. Non mi pare invece ragionevole escludere la possibilità per il

legislatore statale di manovrare le aliquote dei tributi disciplinati con legge dello Stato,

ancorché destinati gli Enti di Decentramento, se le modifiche delle aliquote si inseriscono

con un’intrinseca coerenza in un più ampio indirizzo di politica tributaria, che investa cioè

anche gli altri tributi statali.

Questo è il quadro nell’attuale, troppo lunga fase transitoria, nella quale, va

sottolineato, gli Enti Territoriali, non sempre hanno fatto un uso irreprensibile della

maggiore autonomia finanziaria attribuita dalla riforma costituzionale.

Ritengo invece che, la legge statale di coordinamento, a valenza necessariamente

pluriennale, nel determinare gli strumenti per assicurare all’insieme del sistema delle

autonomie ai sensi del IV comma dell’articolo 119 Costituzione, le risorse necessarie al

finanziamento integrale delle funzioni loro attribuite, possa, nell’esercizio della

competenza statale esclusiva in tema di quantificazione del “bisogni da funzioni”,

legittimamente prevedere norme finanziarie di indirizzo, per conseguire gli obiettivi

generali di finanza pubblica, fissati ogni anno con la legge finanziaria.

È la stessa dimensione della finanza decentrata, pari a regime ad oltre un quarto

del PIL, a legittimare l’impiego di norme che, pur senza assumere il carattere cogente di

disposizioni di dettaglio, attraverso strumenti flessibili di determinazione delle risorse

relative alle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, orientino Regioni ed Enti Locali

ad adottare politiche finanziarie coerenti con gli obiettivi di finanza pubblica fissati dal

Governo.

Chiunque abbia una qualche idea sia pur approssimata di cosa comporti

l’attuazione di un modello di decentramento finanziario delle dimensioni determinate dalle

riforme costituzionali del Titolo V della Costituzione, sa bene che si tratta di un processo

molto complesso, che dovrà necessariamente essere caratterizzato da notevoli elementi

di flessibilità, per correggere le anomalie, i danni e le sperequazioni insite nella spesa

storica, non eliminabili in modo semplicistico, con la sola adozione di costi standard.

36

Lo strumento per realizzare questi obiettivi è a mio parere la legge statale di

coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Essa dovrà

necessariamente distinguere le spese discrezionali, espressione dell’autonomia dell’Ente e

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

quindi non sottoponibili a vincoli di nessun tipo neppure indiretti, dalle altre in cui gli Enti

Territoriali sono vincolati nei fini, non nei mezzi.

Si tratta infatti di spese per le quali lo Stato non è tenuto a fissare il “fabbisogno da

funzioni”, e da finanziare quindi al pari delle spese di investimento esclusivamente con il

gettito di tributi propri. Le altre spese che essendo vincolate quantomeno nei fini,

dovranno essere finanziate attraverso la fiscalità generale (compartecipazione al gettito

dei tributi erariali ed eventuali trasferimenti a valere sul fondo perequativo) potranno

invece essere oggetto di norme di indirizzo finalizzate al concreto esercizio dei poteri

statali di coordinamento nel campo della finanza pubblica.

In conclusione occorre sottolineare che il complesso sistema di equilibri finanziari

delineato dagli articoli 117 e 119 della Costituzione valorizza da un lato il principio

autonomistico, attraverso l’attribuzione agli Enti Territoriali di una effettiva autonomia

fiscale; garantisce dall’altro l’unità della finanza pubblica, con la determinazione delle

compartecipazioni degli stessi Enti al gettito dei tributi erariali e la ripartizione del fondo

perequativo in modo da assicurare il finanziamento integrale delle funzioni attribuite agli

Enti di Decentramento Territoriale.

Di questo equilibrio, nella riforma costituzionale 2001, è garante il Parlamento

massima espressione della Comunità e della sovranità popolare, che assicura il

contemperamento dei diversi interessi, nel rispetto dei principi costituzionali che

disciplinano il decentramento finanziario senza mettere in discussione, ma anzi

rafforzando il carattere unitario e di sistema proprio della finanza pubblica in genere e

dell’ordinamento tributario in particolare.

Nel nuovo modello di riforma della II parte della Costituzione, come abbiamo

sottolineato in precedenza, questo equilibrio non viene formalmente toccato. Tuttavia il

nuovo riparto della competenza legislativa tra la Camera dei Deputati, titolare

dell’indirizzo politico, e il Senato Federale, determina notevoli conseguenze, sia in tema di

perequazione sia sul sistema tributario.

È mia opinione che la legge di coordinamento della finanza pubblica e del sistema

tributario prevista dal III comma dell’articolo 117 assuma, nel sistema delineato negli

articoli 117 e 119 Cost., un ruolo assai più penetrante rispetto all’individuazione dei soli

principi fondamentali riservata allo Stato nelle altre materie attribuite alla competenza

concorrente e residuale delle Regioni ai sensi dell’articolo 117 III comma.

37

È evidente infatti che l’attività di coordinamento presuppone l’adozione di

normative statali che, pur senza assumere carattere di dettaglio tali da incidere

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

negativamente sull’esercizio in concreto dell’autonomia tributaria regionale, realizzino il

coordinamento della legislazione tributaria regionale con l’ordinamento tributario dello

Stato.

Sottrarre tali scelte quantomeno alla competenza congiunta delle due Assemblee,

mi pare francamente un errore che non tiene conto che la politica tributaria comporta

una serie di scelte e di vincoli di sistema che incidono in ambiti, materie ed interessi tipici

dello Stato persona e non possono essere del tutto sottratti alla competenza della

Camera dei Deputati titolare della rappresentanza politica.

Analoghi rilievi devono essere estesi al tema della perequazione, materia riservata

in via esclusiva allo Stato, ma attribuita alla legislazione del Senato Federale. Senza dire

della legislazione di bilancio, in cui i diversi aspetti relativi all’autonomia finanziaria degli

Enti Decentrati dovrebbero essere regolati ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, con

disposizioni a carattere pluriennale, in base ai principi fissati dalla legge di coordinamento

della finanza pubblica e del sistema tributario. Mentre la manovra annuale relativa al

bilancio e alla legge finanziaria dovrebbe, per evidenti ragioni sistematiche, essere di

pertinenza esclusiva dell’Assemblea politica, la Camera dei Deputati.

Alle considerazioni critiche che precedono si deve aggiungere che la riforma

costituzionale contiene anche una serie di modifiche opportune all’art. 117 che precisano

meglio il riparto di competenze tra Stato e Regioni in alcune materie e restituiscono allo

Stato la competenza esclusiva in alcune aree strategiche quali le grandi reti di

comunicazione, la produzione e il trasporto dell’energia, le professioni, la promozione

internazionale del sistema economico e produttivo nazionale, tutte norme

immediatamente operanti se il referendum confermerà il nuovo testo dei riforma della II

parte della Costituzione.

Ritengo tuttavia che l’assetto del procedimento legislativo delineato dalla riforma

costituzionale, presenti troppi elementi di criticità per potersi rifugiare nel fatto che non

sarà operativo prima di dieci anni. E che le criticità siano particolarmente evidenti in

campo finanziario, in cui la riforma della seconda parte della Costituzione destruttura i

delicati equilibri che regolano nel Titolo V i rapporti tra finanza decentrata e Stato, senza

costruirne nuovi che appaiano in grado di funzionare meglio.

38

Negli ultimi anni anche in Italia il processo di mondializzazione è stato interpretato

più volte, confondendo cause ed effetti, come un portato della crisi dei modelli di stato

nazionale; coltivando l’illusione che il decentramento comunque attuato possa di per se

rappresentare una risposta a questa tendenza.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Si tratta evidentemente di un’illusione, che non tiene conto che la spinta

determinata dal progresso tecnologico e dalla rivoluzione nel sistema dei trasporti ha

costruito un modello di mondializzazione economica basato su scenari continentali, che

hanno per principali protagonisti alcuni grandi Stati Nazionali, dalla Cina all’India, dagli

Stati Uniti alla Russia ex sovietica.

Il processo unitario, nell’Europa a 25, che pure conosce tanti problemi è la risposta

europea a questa sfida; esso presuppone un’evoluzione profonda degli Stati che vi

partecipano; che hanno il compito da un lato di costruire e consolidare un modello

continentale e europeo che, a prescindere dalla capacità o meno di rilanciare l’itera

Europa, inciderà comunque sulle abitudini di vita di circa 500 milioni di persone, dall’altro

di guidare i processi di modernizzazione dei singoli Stati.

In questo quadro, tra i grandi Stati europei l’Italia ha il compito più difficile, per le

criticità del modello politico istituzionale, e per la frammentazione e debolezza di un

sistema economico, per giunta duale, che ha difficoltà a crescere e ad espandersi nei

mercati extra europei.

Modernizzazione della società e decentramento territoriale rappresentano quindi le

due componenti essenziali di un processo riformatore che vedrà nei prossimi anni ancora

protagonista lo Stato nazionale, perché ne investe il nucleo essenziale: il rapporto con i

cittadini nella determinazione dei nuovi assetti della politica finanziaria di entrata e di

spesa, in un sistema a più livelli, capace di integrare in modo armonico e nel rispetto di

ineludibili garanzie costituzionali l’insieme dei diversi interessi, individuali e collettivi

coinvolti.

In conclusione ritorna quindi in evidenza il tema della predeterminazione delle

dimensioni delle entrate e delle spese da decentrare agli Enti Territoriali, calcolate sulla

base di parametri che consentano agli stessi di conservare un ragionevole grado di

autonomia, a prescindere dal reddito pro capite che caratterizza, differenziandole, le

diverse aree del paese.

Evitando di inseguire il miraggio di un federalismo di stampo nord-americano, che

non serve al nostro paese, perché avrebbe costi insopportabili e lungi dall’aumentarne il

grado di competitività ed efficienza ne accentuerebbe solo i difetti e i localismi.

Bibliografia essenziale

39

Antonini L., Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, Guerini e Associati,

2005;

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Barbero M., Dalla Corte costi uzionale un ''vademecum'' per l'attuazione dell'articolo 119

della Costituzione (Nota a Corte Cost. n. 37/2004), 2004, in http://www.federalismi.it;

t

,

t

t

t

I t t t . t r , t

t

Brancati A., Per “congelare” la potestà impositiva delle Regioni la Corte Costituzionale

mette in pericolo la loro autonomia finanziara, Giurisprudenza Costituzionale, III, 2005;

Ceccanti S., I “nuovi” sistemi elettorali: regolarità, anomalie, u ilizzazioni previste e

impreviste, 2005, in http://www.federalismi.it;

Covino F., Costi uzione e federalismo fiscale in nove ordinamenti dell'Unione europea,

2005, in http://www.federalismi.it;

D’Auria A., Funzioni amministrative e autonomia finanziaria delle regioni e degli enti

locali, Il Foro Italiano, V, 2001;

Fleiner T.- Hottinger J.T., La pertinence du fèderàlisme dans la gestion desdiversitès

nationales, in Rev. Int. Pol. Comparèe, I, 2003, p. 79 ss.;

Gambino S., Le régionalisme i alien et la réforme constitutionnelle, 2005, in

http://www.federalismi.it;

Giarda P. L'esperienza italiana del federalismo fiscale, Il Mulino, 2005;

Modugno F. Appunti dalle lezioni sulle Fonti del Diritto, Giappichelli, 2005;

Morrone A., Principi di coordinamento e “qualità” della potestà tributaria di regioni ed Enti

locali, in Giurisprudenza Costituzionale, I, 2004;

Pasquino G., l sis ema poli ico i aliano Au o ità is ituzioni, società, Bologna, Il Mulino,

2002, p.104;

Perrone Capano R., L’imposizione e l’ambiente, in Annuario di Diritto Tributario diretto da

A. Amatucci, CEDAM, Padova, 2002;

Piratino A., Linee per l'attuazione dell'art. 119 Cost, 2001, in http://www.federalismi.it;

Antonio Ruggeri, Riforma del Titolo V ed esperienze di normazione, attraverso il prisma

della giurisprudenza costi uzionale: profili processuali e sostanziali, tra continuo e

discontinuo, 2005, in http://www.federalismi.it;

Staiano S., , La legge di revisione: crisi e trasfigurazione del modello costituzionale, 2005,

in http://www.federalismi.it;

40

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Die Verwirklichung der Steuerrechtsordnung

(Intervento di Andrea Amatucci1 in occasone del convegno Verwirklichung der

Steuerrechtsordnung, Bonn, 11 novembre 2005, degli autori degli scritti in onore del prof.

Klaus Tipke per i suoi 80 anni)

Nur wenn die Sachverhalte - die mit den gesetzlichen Tatbeständen nicht

übereinstimmen – gemeinsame Elemente haben und die nicht gemeinsamen im Vergleich

zu der „Ratio“ des Gesetzes irrelevant sind, erlaubt die Ausdehnung der Rechtsordnung,

die Ziele des Gesetzes zu erreichen.

Ein solches, analoges Verfahren wirkt im Innern der Ratio, um sie zu bilden; die

perfekte qualitative Identität zwischen der Analogieuntersuchung und der Interpretation

verursacht eine quantitative Identifizierung. Die interpretative Art des analogen

Verfahrens betont seine Verwandtschaft zu der erweiterten Interpretation. Trotzdem

findet diese letzte nur dann statt, wenn die Norm, – von dem Untersuchungsverfahren

abstrahiert – einen grösseren Anwendungsbereich als ihre wörtliche Bedeutung

ermöglicht - und das auch dank eines ihrer möglichen Ergebnisse.

Die Interpretation, – die grundsätzlich durch ihre Anwendung bedingt ist – ist im

Gegenteil analog, wenn der Sachverhalt – welcher nicht ausdrücklich vom Gesetz

vorgesehen wurde – außerordentliche Elemente hat, die – wie gesagt – im Vergleich zu

der Ratio – irrelevant sind. Das Interpretationsverfahren ist vollständig, auch wenn wir

von der Analogie absehen, die einer Notwendigkeit der Anwendung folgt; es bleibt aber

unvollständig, wenn wir von der erweiterten Interpretation absehen, da sie eine logische

Phase nicht beachtet. Die Analogieinterpretation erweitert sich deswegen – bei der

Produktion von Werturteilen, die von den gesetzlichen Werturteilen hergeleitet werden –

zu ihrem äußeren Verhältnis, d.h. zu ihrer Stellung zu den Elementen des Sachverhaltes,

der Nichts mit dem gesetzlichen Tatbestand gemeinsam hat. Wir können aus diesem

Grund nicht akzeptieren, dass der Unterschied zwischen erweiterter Intepretation und

Analogie unwesentlich sei.

Aus den genannten Gründen, können wir uns mit den Problemen der Zulässigkeit

der Steuergesetzanwendung nach Analogie und der Bildung nach Analogie der

41

1 Professore Ordinario di Diritto finanziario, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Federico II

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

spezifischen, hermeneutischen Kanons auseinandersetzen, die in der Rechtsordnung

lange verhandelt worden sind.

Unsere Überlegungen sind folglich ausreichend, um die Unbegründetheit der These

zu beweisen, dass die erweiterte Interpretation für einige Steuergesetze unzulässig ist.

Paragraph 2 des Artikels 24 der spanischen „Ley general tributaria“, der z.B. die

Ausdehnung des Gesetzes jenseits der engen Grenzen des steuerpflichtigen Objekts oder

der Steuerbefreiung oder der Vergünstigungen nicht gestattet, kann sich deswegen nicht

auf die erweiterte Interpretation beziehen.

Die Analogie stellt in Folge keinen technischen Ausweg (keine Strategie) dar, den

die Steuerverwaltung beim Kampf gegen die Steuerhinterziehung und die

Gesetzesumgehung anwenden kann. Die analoge Anwendung gehört nämlich nicht zur

Verfügungsgewalt der Steuerverwaltung. Die analoge Anwendung ist automatisch, wenn

die Bedingungen vorliegen; in jedem Fall beruht das Gesetz auf dem Prinzip der

Teilnahme aller Bürger an den Staatsausgaben. Aus demselben Grund können wir nicht

der Theorie zustimmen, die der Analogie ihren Untersuchungsaspekt versagt. Die Ratio

der Norm, die erweitert wird, stellt ein ausreichendes Element dar, weil sie die gleiche

Zielsetzung als Grundbedingung enthält und kann somit aus dem grundlegenden

Charakter der normgebenden Sprache hergeleitet werden, die ein Minimum an

Textualität in der eingesetzten Steuergestaltung erklärt.

Das Verbot der Analogie, das auf den gesetzlichen Vorbehalten beruht, erscheint

folglich unbegründet, weil sie die Strenge des gesetzlichen Inhalts braucht. Die Analogie

akzeptiert nämlich ausschließlich Ausdrücke der gesetzlichen Ratio und bietet deswegen

keine Innovation hinsichtlich der Ratio.

Aus diesem Grund wird auch die Rechtssicherheit von der analogen Anwendung

nicht in Frage gestellt.

42

Die Anwendung der Analogie wird auch nicht vom Prinzip der Steurkraft verboten.

Die Analogie verursacht nämlich die Ausweitung des Steuercharakters auf alle ähnlichen

Tatbestände, die ausdrücklich vorgesehen und ebenso Zeichen der Steuerkraft sind.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Die Verfassungsordnung zwingt das Steuergesetz, Sachverhalte als gesetzliche

Tatbestände zu sehen, die sich in ihrer Steuerkraft ausdrücken lassen; dann mit Bezug

auf die Steuerlast, die sich genau im Voraus berechnen lässt, zwingt sie es weiter, eine

bestimmte Wirtschaftspolitik zu verfolgen.

Die analoge Anwendung, wenn sie auf einer wirkungsvollen Rechtsgrundlage

beruht, verstößt auch nicht gegen das Gleichheitsprinzip, denn sie lässt verwandte und

wesentlich nicht ungleiche Sachverhalte auf gleicher Weise disziplinieren, und behindert

nicht die Erreichung der vorschriftlichen Ziele, d.h. deren , die von der „Ratio“ geäußert

wurden. Als zulässig lässt sich auch die analoge Anwendung der Völkerrechtsnormen mit

steuerlichem Inhalt betrachten, da sie dazu beiträgt, das Staatsinteresse und das der

Mitglieder „uti singuli“ und „uti civis“ zu schützen.

Das Verbot der analogen Anwendung wurde auch mit Bezug auf eine andere

Ebene motiviert, und d.h. mit Bezug auf die Art des Steuergesetzes. Aus der

Verwandtschaft zum Strafgesetz und aus seinem vermutlich widerwärtigen und

außerordentlichen Charakter lässt sich ein Verbot der analogen Anwendung des

Steuergesetzes herleiten.

Das Gesetz für das Verwaltungsverfahren darf nicht durch die Anwendung von

vermutlichen Faktoren oder Sektorenstudien – die die Tatbestände nur virtuell

darstellen und die sich ihrer Wahrheit annähern, doch sie nicht erreichen können - das

Gleichgewicht zwischen dem konkreten Tatbestand und dem Steuergründungsgesetz

stören.

Die Steuerverwaltung darf nicht beim Ausführen ihrer eigenen Handlungen vom

Verwaltungsverfahrensgesetz durch die Opferung des Übereinstimmungsprinzips des

Aktes mit der konkreten Tatsache begünstigt werden.

43

Diese grundlegende Bedingung erlaubt es dem wesentlichen Steuerrecht, auf die

ausdrücklich vorgesehene Sache angewendet zu werden und konsequent seine delikaten

Ziele zu verfolgen, und zwar nicht nur was die Auswirkung auf die (mögliche)

Steuerzahlung des Bürgers betrifft, sondern auch aus der Sicht der Steuerkraft des

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

einzelnen Bürgers, sondern auch hinsichtlich der sozial-wirtschaflich (aussersteuerlichen)

Ziele, deren Verwirklichung das einzelne Gesetz anstrebt.

Eine solche Notwendigkeit begründet ein Verfassungsprinzip, das den Gesetzgeber

an das Steuerverfahren bindet.

Wenn das Gesetz dazu verpflichtet, dass das Verfahren sich diesen Prinzipien

anpasst, nach denen der Verwaltungsakt den Tatsachen entsprechen muss, ist die

Gesetzgebung in der Lage, dem Steuerrichter in der Auseinandersetzung zwischen den

Parteien die Feststellung zu ermöglichen, ob das Verfahren durch die Darstellung der

wirklichen Hergänge, so wie sie stattgefunden haben, durchgeführt wurde, so dass das

Gesetz, wo Steuertatbestände entdeckt wurden, genau angewendet wird.

Andernfalls muss der Steuerrichter ein Verfahren für gesetzmäßig erklären, sobald

es nicht gegen das Gesetz verstößt, das angenommene Koeffizienten oder Studien in

diesem Bereich festlegt, auch wenn es eine Tatsache darstellt, die nicht der Realität

entspricht.

44

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Sehr geehrte Damen und Herren,

ich freue mich sehr, an dieser Versammlung teilzunehmen, an der Versammlung

der Autoren der Schriften zu Ehren Professor Tipkes.

Es sind Schriften, die anlässlich seines achtzigsten Geburtstages in der Festschrift

„Steuer und Wirtschaft“ herausgegeben worden sind.

Ich möchte gern ihm gegenüber meine größte Hochachtung äußern, die größte

Hochachtung der italienischen Professoren auch für den größen Meister Klaus Tipke,

dessen persönliches Engagement, dessen wissenschaftliche Strenge und Ausdauer, wir

alle sehr schätzen.

Besonders mein Handbuch über öffentliches Steuerrecht – das seine siebente

Herausgabe erreicht hat und in der Tradition der Neapolitaner Universität entstanden ist

– was ich eben in dieser Nummer der Festschrift beschreibe – besonders mein Handbuch

ist reich an Hinweisen auf die drei Bände „Die Steuerrechtsordnung“ Professor Tipke ;

ebenso ist es reich an Hinweisen auf das Handbuch „Steuerrecht“ der Professoren Tipke

und Lang.

Zum Schluß - muss ich sagen - wir alle sind Herrn Professor Tipke für seinen

bemerkenswerten und wertvollen Beitrag zur Entwicklung der Steuerrechtswissenschaft

dankbar.

Danke!

45

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

La riforma del patto di stabilità: restyling sabotaggio? di Mario Iuzzolino1

L’intesa raggiunta sulla riforma del Patto di Stabilità e di crescita (d’ora in avanti

PSC), sofferta e tribolata come quasi tutti gli accordi raggiunti in sede comunitaria, apre

probabilmente più interrogativi e solleva più problemi di quanti ne risolva e, a dispetto

dalle prevedibili affermazioni rilasciate a caldo, rischia seriamente di scontentare tutti,

fautori e detrattori del Patto.

Il Patto di Stabilità nasce quale strumento indispensabile per l’attuazione della

politica monetaria che ha portato alla creazione dell’Euro. E’ superfluo ricordare che,

allorché a Maastricht, nell’ormai lontano 1992, si affermò l’idea della realizzazione della

moneta unica europea (l’idea in verità era nata oltre un ventennio prima, ma contingenze

economiche internazionali ne impedirono la realizzazione) i Governi riuniti in Consiglio

stabilirono i parametri ai quali ciascun candidato all’Euro avrebbe dovuto uniformarsi

quale precondizione per l’ammissione ad Eurolandia. La definizione di quei paletti non fu

scevra da aspri scontri al tavolo dei negoziati né da feroci critiche successive. A ciò non si

sottrasse neppure il parametro, che qui ci interessa, del rapporto tra prodotto interno

lordo e disavanzo di bilancio2.

Il controllo delle politiche fiscali fu giudicato un fattore vitale per la realizzazione

della valuta continentale, poiché finanze pubbliche troppo disinvolte possono scaricare i

propri effetti negativi sui governi degli altri Stati membri, nella più classica politica in stile

beggar your neighbour: “un disavanzo di bilancio provoca un aumento del debito che

dovrà essere ripagato in futuro; se il tasso d’interesse sul debito pubblico supera il tasso

di crescita dell’economia si mette in moto una dinamica che provoca un continuo

aumento del debito pubblico in rapporto al PIL. Ciò diventa insostenibile e richiede

un’azione co ettiva”3. Ma concordi sul fine, i Governi non lo furono affatto sul metodo. Al

tavolo dei negoziati di Maastricht, ad esempio, la posizione britannica, infatti, che

rispecchiava una parte sostanziale della dottrina economica, fu di aperta ostilità alla

fissazione di qualsiasi vincolo in materia di disavanzi pubblici, o quantomeno di livelli

predeterminati di guardia. Le argomentazioni avanzate, tutt’altro che deboli, fondavano

sull’asserita impossibilità di unificare sotto vincoli uniformi realtà economiche nazionali

tanto distanti, sull’indifferenza di tali vincoli rispetto al buon andamento dell’Unione

rr

t t

1 Dottorando di ricerca in Istituzioni e politiche ambientali, finanziare e tributarie presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Federico II 2 Cfr. C. CURTI GIALDINO, Il trattato di Maastricht sull’UE, Roma 1993

46

3 P. DE GRAUWE, Economia dell’in egrazione mone aria, Bologna 1993

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

economica e monetaria e sui danni, in luogo dei benefici, che tali parametri avrebbero

potuto portare in contingenze economiche sfavorevoli. Non sono pochi gli studiosi i quali

sostengono che la disciplina delle politiche nazionali di bilancio è imposta ed in questo

modo assicurata dai mercati finanziari. I vincoli imposti per Trattato sarebbero così

addirittura dannosi perché troppo rigidi, insensibili alle necessità anche contingenti

(eventi naturali imprevisti ed imprevedibili ad esempio) che un’accorta politica di deficit

spending può soddisfare4.

Queste critiche, pur non essendo in pieno accettate dal consesso dei Governi,

portarono però alla formulazione di limiti soltanto per i disavanzi pubblici eccessivi,

respingendo le proposte di limitare il disavanzo tout court. Cosa s’intenda per disavanzo

eccessivo, vedremo, non si può dire una volta per sempre. E ciò non perché non vi siano

dei parametri oggettivi per stabilirlo, ma perché le procedure disegnate dall’art. 104

dicono scopertamente che in ultima analisi l’esistenza di un disavanzo pubblico eccessivo

è una verità politica e non una verità storica5.

Ciò è in buona parte dovuto al lavoro svolto con tenacia dalla delegazione italiana

lungo tutto il corso della conferenza sull’Unione Monetaria Europea, che portò gli allora

dodici Ministri delle finanze riuniti a Lussemburgo il 7 ottobre 1991 a respingere la

proposta del Comitato economico e monetario, basata su criteri meramente quantitativi. I

Ministri stabilirono che la valutazione del deficit sarebbe stata fatta in considerazioni di

tutti i fattori macroeconomici, dell’eventuale avvicinamento del disavanzo alle soglie

convenzionali, della eventuale contingenza od eccezionalità del superamento della soglia

e così via. In sostanza si rifiutò un meccanismo automatico e si preferì un’analisi

complessiva della situazione economica6.

Il risultato fu una normativa formata dall’art. 104 TCE e dal Protocollo allegato al

Trattato ed intitolato alla procedura per i disavanzi eccessivi. Vediamo cosa stabilisce tale

normativa7.

La disposizione si apre con la secca imposizione secondo la quale “Gli Stati membri

devono evitare disavanzi pubblici eccessivi”. Cosa si debba intendere per disavanzo

pubblico eccessivo non è chiarito dall’art. 104 TCE, ma piuttosto dal Protocollo sulla

l.

lit

4 Ulteriori critiche si appuntarono sulla scelta di parametri esclusivamente monetari, con l’esclusione di altri fattori economici quali, ad esempio, il tasso di crescita del PIL, le dinamiche della disoccupazione ecc 5 Cfr. G. COGLIANDRO, Finanza sana e buona gestione finanziaria: una introduzione ai principi comunitari delbuon governo, in Riv. It. Dir. Pubb com., 1997, p. 1183ss 6 Cfr. S. CAFARO, Moneta unica europea e criteri di convergenza. Una valutazione giuridica delle norme del Trattato in materia di po ica economica e monetaria, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, n. 3/1996, p. 481ss

47

7 F. DEL GIUDICE (a cura di), Trattati dell’Unione e della Comunità Europea, Napoli 2001

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

procedura per i disavanzi eccessivi, il quale definisce all’art. 1 le soglie del 3% nel

rapporto tra deficit di bilancio e prodotto interno lordo e del 60% nel rapporto tra stock di

debito pubblico e prodotto interno lordo, quali spartiacque il superamento dei quali

accende le spie d’allarme della Commissione. La precisazione di tali valori in un protocollo

piuttosto che nel Trattato si spiega col fatto che la modifica di un protocollo non richiede

la convocazione di una nuova Conferenza Intergovernativa. Da questo si ricava una

prospettiva di maggiore fluidità legata ai cicli economici e politici che possano rendere

necessaria la modifica dei parametri in tempi relativamente ristretti.

La Commissione europea, confermando anche per questa via il suo ruolo di

‘custode dei Trattati’ è depositaria dei poteri necessari ad attivare le procedure

predisposte dallo stesso art. 104 per riportare sulla retta via gli Stati colpevoli di aver

trasgredito il divieto di disavanzo pubblico (e di debito pubblico) eccessivo. L’attività della

Commissione non si limita ai casi di superamento della soglia, ma si concreta in una

costante sorveglianza (il Trattato parla proprio di sorveglianza!) degli Stati sul rispetto

della disciplina di bilancio. In questa attività la Commissione lavora in collaborazione con

gli stessi Stati che deve controllare, beneficiando di un flusso di dati trasmessi dai

Governi nazionali, obbligati in questo senso dall’art. 3 del Protocollo sulla procedura per i

disavanzi eccessivi. Due volte l’anno infatti una serie d’informazioni relative al disavanzo

pubblico effettivo e previsto ed allo stock di debito pubblico, viene trasmessa alla

Commissione da ciascun esecutivo nazionale8.

L’analisi delle situazioni di bilancio deve appuntarsi principalmente sul rispetto dei

due valori di riferimento, tenendo conto delle eventuali circostanze giustificative, per le

quali i parametri possono essere stati superati per casi eccezionali ed entro limiti

accettabili oppure sia in corso comunque un trend positivo che faccia pensare ad un

prossimo rientro nel futuro nei limiti prefissati dal Protocollo. Essi possono quindi in linea

di principio essere superati, ma solo se il superamento sia eccezionale e temporaneo o

comunque rientri in un trend complessivamente favorevole, in cui l’avvicinamento alle

soglie limite sia fuori discussione.

Gli Stati poi dal canto loro sono sottoposti ad un vero e proprio obbligo di risultato,

nel duplice senso che spetta a loro la scelta delle misure di finanza pubblica da mettere in

atto per rientrare nei propri obblighi comunitari (scelta che l’esperienza ha insegnato

essere assai limitata e sempre molto dolorosa per i Governi) e che essi rimangono

48

8 Quest’obbligo è stato introdotto, con decorrenza a partire dal 1994, del Regolamento CE 22 novembre 1993, n.3605/93

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

responsabili per la trasgressione dei parametri qualunque sia l’organizzazione interna ed il

riparto di competenze finanziarie tra Stato centrale e livelli periferici di governo. A tal

proposito gli Stati si sono impegnati ad adottare procedure interne adeguate9.

Dall’analisi della Commissione può emergere una situazione non conforme alla

disciplina o un semplice rischio di violazione. In entrambi i casi, valutati tutti i fattori

significativi, la Commissione redige una relazione. Se esiste o è minacciato lo

sfondamento dei limiti, essa prepara anche un parere per il Consiglio10. E’ il Consiglio che

decide, al termine di una discussione e valutando le osservazioni dello Stato interessato,

se esiste un disavanzo eccessivo. Tutta la prima fase della procedura, come fin qui

descritta, si svolge in via confidenziale, non è cioè resa pubblica. Il contraccolpo che uno

Stato subisce sui mercati finanziari internazionali al solo diffondersi di voci relative ad una

procedura in atto può essere tale da scoraggiare la pubblicazione di queste notizie,

almeno fino ad uno stadio successivo, come vedremo tra poco.

Se l’esame del Consiglio rileva l’esistenza di un’irregolarità, quel consesso

formulerà delle raccomandazioni rivolte allo Stato ‘colpevole’ per ‘riportarlo sulla retta

via’. Non bisogna sottovalutare l’impatto di questi ‘consigli’, poiché pur se formalmente

non obbligatorie, queste raccomandazioni sono munite di sanzioni: se lo Stato le ignora,

tutto il procedimento sarà reso pubblico, con le conseguenze di cui poco sopra si parlava;

se, nonostante ciò, l’atteggiamento dello Stato non muta, ecco che il Consiglio passa alle

maniere forti. Il primo stadio è l’intimazione a riallineare i conti pubblici entro un termine

perentorio, non superiore comunque a quattro mesi, accompagnata da una serie di

misure ‘suggerite’ ed eventualmente dall’obbligo di presentare relazioni a scadenze

prefissate in merito agli sforzi compiuti per risanare il deficit del bilancio.

A questo punto, dopo aver chiarito che le azioni ex art.226 e 227 TCE non possono

essere esercitate, il Trattato assegna al Consiglio determinati poteri coercitivi: “chiedere

che lo Stato membro interessato pubblichi informazioni supplementari [...] prima

dell’emissione di obbligazioni o altri titoli; invitare la Banca Europea degli Investimenti a

riconsiderare la sua politica di prestiti verso lo Stato membro in questione; richiedere che

lo Stato membro in questione costi uisca un deposito infruttifero di importo adeguato

t

t

9 Ancora l’art. 3 del Protocollo sulla Procedura per i disavanzi eccessivi: “Gli Stati membri assicurano che le procedure nazionali in materia di bilancio consentano loro di rispettare gli obblighi derivanti dal Tratta o in questo settore”

49

10 Nella procedura interviene anche un altro organo, il Comitato economico e finanziario previsto dall’art.114 TCE, che formula parere sulle relazioni della Commissione

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

presso la Comunità, fino a quando, a parere del Consiglio, il disavanzo eccessivo non sia

stato corretto; infliggere ammende di entità adeguata”.

Come può vedersi, la progressione delle sanzioni che è possibile infliggere lascia il

tempo e la possibilità di sfruttare i canali diplomatici per trovare una soluzione al

problema. Il Consiglio, inoltre, non perde mai il controllo del procedimento, poiché non

esiste un automatismo che, una volta attivato, vada fino in fondo meccanicamente, quale

sarebbe potuto essere uno speciale ricorso alla Corte di Giustizia (estromessa da qualsiasi

ruolo in questa materia): in ogni momento una decisione del Consiglio può arrestare la

procedura e revocare le sanzioni eventualmente già irrogate. Ciò, se può considerarsi

condivisibile da un certo punto di vista, data la delicatezza delle questioni di bilancio, su

cui possono giocarsi le sorti di compagini governative, lascia sorgere l’interrogativo circa

la parità che ci si può aspettare nel trattamento di tutti gli Stati dell’Unione. Peraltro, le

decisioni in materia di disavanzo eccessivo sono prese dal Consiglio deliberando con la

maggioranza di due terzi dei voti (voto ponderato) e con l’esclusione dal calcolo dei voti

dello Stato sotto osservazione. Anche quest’ultima norma lascia intuire la delicatezza di

decisioni che hanno un profondo impatto sulla politica interna degli Stati e consegnano

alla diplomazia la chiave del gioco: la minoranza di blocco in questi casi è

sufficientemente bassa da consentire alle grandi potenze di ‘scambiarsi’ favori ed alleati e

bloccare l’iter della procedura.

La severità delle sanzioni raggiunge il suo apice nel caso del mancato rispetto delle

intimazioni del Consiglio, e può arrivare all’istituzione di un deposito infruttifero presso la

Comunità. La misura di tale deposito si determina sulla base di due fattori: una parte

fissa, corrispondente allo 0,2% del prodotto interno lordo dello Stato in questione, ed una

parte variabile, pari allo 0,1% del PIL per ogni punto (o frazione di punto) di

sfondamento del limite del 3%. La determinazione in decimali di punto non deve trarre in

inganno: si tratta di cifre ragguardevoli (nel caso dell’Italia circa 2,5 miliardi di euro per la

parte fissa e 1,25 miliardi per ogni decimale sulla parte variabile) che rimangono bloccate

fino all’abrogazione della decisione che ha istituito l’obbligo. Se neppure questa misura

risulta sufficiente, il Consiglio può deliberare di trasformare il deposito in ammenda.

50

Sull’opportunità di misure di tal genere si può ampiamente opinare. Un governo

che si trovi in situazioni finanziarie difficili può non disporre di simili cifre, e soprattutto il

drenaggio di una così cospicua fetta delle (normalmente scarse) risorse pubbliche proprio

nel momento in cui presumibilmente ci si sforza di rientrare nei parametri rischia

seriamente di trasformarsi nel classico ‘colpo di grazia’.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

In ogni caso la regola generale è temperata da due eccezioni, formulate in

considerazione della possibilità di una recessione economica di cui lo Stato osservato

possa essere vittima: se l’entità di tale recessione comporta un caduta del PIL reale

superiore al 2% nessuna sanzione potrà essere applicata, mentre se la misura della

caduta del PIL è compresa tra lo 0,75% ed il 2% l’applicazione delle sanzioni sarà

discrezionale (quest’ultima precisazione appare invero superflua, atteso che comunque

tutti i passaggi precedenti sono a discrezione del Consiglio).

Una ulteriore osservazione in merito alla procedura appare a questo punto

doverosa. Non si può fare a meno di notare l’assoluta marginalità del ruolo del

Parlamento Europeo. Come per altre materie (ad esempio la politica commerciale), lo

spazio che è concesso all’assemblea è ridotto ai minimi termini. In genere anche nelle

procedure che escludono l’assemblea dal vero e proprio potere decisionale, quello che

non manca (ma neppure questo è vero in tutti i casi) è l’informazione. Storicamente,

partendo da un diritto ad essere informato, il Parlamento Europeo è riuscito in qualche

caso a obbligare le altre istituzioni ad ascoltare la sua voce: la legittimazione democratica

di cui gode, di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altro organo comunitario, è stata

sempre un argomento di forte peso politico, non lasciando indifferente neppure la Corte

di Giustizia, ed ha portato sul medio periodo a modifiche dei Trattati in senso più

democratico. Ma qui anche la Corte, potenziale alleato del PE, è tagliata fuori, troncando

sul nascere, o perlomeno rendendo assai più arduo qualunque tentativo di forzare la

lettera del Trattato.

La normativa del Trattato pare dunque apprestare un sistema che, pur non esente

da critiche, pare idoneo a costringere gli Stati a raggiungere e mantenere il rapporto

disavanzo/PIL entro il limite del 3%. In realtà l’evoluzione della normativa ha fatto si che

gli obiettivi dell’Unione Monetaria divenissero ben più ambiziosi11. Con la risoluzione del

Consiglio europeo sul Patto di Stabilità e di Crescita, adottata nel Consiglio Europeo di

Amsterdam del 17 giugno 1997, gli Stati s’impegnano a perseguire dei saldi di bilancio

vicini al pareggio o addirittura positivi. Questa affermazione è di capitale importanza,

poiché rivela una filosofia della finanza pubblica completamente diversa da quella che si

ricava dalla semplice lettera del Trattato. La lotta contro il disavanzo pubblico eccessivo

infatti si giustifica senz’altro con l’esigenza di assicurare un ‘virtuosismo’ della finanza

51

11 Cfr. S. CAFARO, cit

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

statale come presupposto essenziale di una moneta stabile e solida12. E’ chiaro che un

Euro sano richiede il contributo di tutti, cosicché non è consentito ai partner dell’UME

scaricare sugli altri il peso economico delle loro finanze dissestate. Ma la richiesta del

pareggio di bilancio o addirittura di un saldo attivo significa invece bandire dalla scena

continentale la politica di deficit spending, che, a ragione o meno, è considerata da molti

come il vero motore che ha portato l’Europa ad essere l’unico sistema economico che

unisce la ricchezza della società ad elevati standard di sicurezza sociale.

La rigidità di questi precetti si spiega con le motivazioni politiche sottintese: in

fondo essi sono dettati da una sostanziale sfiducia di alcuni paesi (i grandi, Francia e

Germania soprattutto) nei confronti della capacità di altri (i più piccoli) di rispettare gli

impegni. Ma l’analisi della ‘giurisprudenza’ (meglio, della casistica) del PSC rivela una

disparità di trattamento tutta politica: l’inflessibilità nell’applicazione del Patto si è avuta

solo quando sotto inchiesta si sono trovati Irlanda e Portogallo, mentre il suo volto più

‘umano’ è subito stato preminente quando a violare i parametri sono stati proprio Francia

e Germania. Le difficoltà di queste ultime è stato il fattore scatenante della corsa alla

modifica del Patto. Le loro istanze hanno trovato terreno fertile in un’Europa stremata

dalla prolungata depressione economica e sono state contrastate solo dai pochi paesi

finanziariamente davvero virtuosi, troppo piccoli e deboli per arrestare il maremoto delle

richieste altrui.

Così dopo un negoziato non avaro di colpi di scena13, il PSC ha subito alcune

modifiche che, se minimizzate dai Governi, fanno già parlare di Patto-214. Cosa è

cambiato? Le modifiche introdotte riguardano tre aspetti: i criteri di interpretazione del

deficit eccessivo, che non sarà più considerato tale se superiore al 3% del PIL ma se

“vicino al 3%” (cosa questo voglia dire sarà terreno d’interpretazione); l’obbligo della

Commissione di valutare (di fatto scorporare) alcune voci di bilancio come irrilevanti ai

fini del computo del deficit. In particolare, le partite da scomputare sono sostanzialmente

quelle richieste (imposte secondo molti osservatori) da Francia e Germania, quali le spese

per l’unificazione tedesca, gli oneri aggiuntivi per la difesa dettate anche dagli impegni

internazionali, i contributi versati all’UE, gli oneri dettati da riforme strutturali (specie

I l

ttf

12 Cfr. G. COGLIANDRO, cit., p.1188, secondo il quale però “nell’impostazione del Trattato di Maastricht la politica di bilancio, oltre ad essere finalizzata a garantire la stabilità dei prezzi, e a svolgere conseguentemente un ruolo strumentale rispetto alla politica monetaria, ha anche una propria autonomia, ponendosi come valore in sé”. Critico invece ANONIMO EUROPEO, l rischio di un’era glaciale per l’economia europea, in Il Mu ino, n. 2/1997, p. 71 13 Sull’intensità del dibattito sollevato dalle richieste di revisione del PSC vedi tra molti, E. FELLI G. TRIA, Il Pa o da ri are, Il Foglio del 26 gennaio 2005

52

14 Vedi ad esempio F. GALIMBERTI, Patto 2: il rigore apre alla fiducia, Il Sole24 Ore del 23 marzo 2005

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

previdenziali); infine, i casi in cui non sarà possibile applicare sanzioni agli Stati che

superano le soglie consentite si arricchiscono della fattispecie del “periodo prolungato di

crescita molto bassa”.

Non è facile dare un giudizio su queste modifiche. Da un lato è legittimo sostenere

che il PSC sia stato in qualche modo violentato, che non abbia retto (né poteva) ai colpi

infertigli dalla recessione economica e dalle difficoltà dei Governi in carica, che con

l’ultimo negoziato si è appalesata la disparità di trattamento tra il nucleo duro dell’Europa,

rappresentato dal tandem franco-tedesco (che ben sfrutta la sponda offerta di volta in

volta dalla convergenza di interessi contingenti con altri membri)15, e gli altri Stati,

costretti a piegare la testa ed ostentare ipocrita soddisfazione per la ‘ritrovata concordia’

continentale. Ma è altrettanto fondata l’opinione di chi sostiene che la disciplina

previdente già aveva in sé sufficienti margini di flessibilità da consentire alla Commissione

europea di valutare le difficoltà transitorie e proporre soluzioni graduali ai problemi

economici degli Stati.

Francamente, le dichiarazioni rilasciate dai Governi, secondo le quali il PSC è

tornato ad essere un Patto di Crescita e non solo un Patto di Stabilità, appaiono

strumentali ad una malcelata volontà di ricorrere a politiche di deficit spending più

marcate, con il rischio concreto, in anni di crescita economica quasi nulla, di innescare

dinamiche di incremento del debito pubblico rovinose, che brucino in pochi mesi anni di

sforzi tesi alla diminuzione dello stock di debito accumulato. Naturalmente l’allarme è

tanto più forte per l’Italia, che associa una crescita bassa ad un debito gigantesco.

In ogni caso, sia che si voglia acclamare la riforma del PSC come superamento

della politica di bilancio restrittiva, sia che si difenda la forza degli obblighi residui, un

dato appare certo: l’Europa ha dimostrato di non saper fare altro che rifugiarsi nel deficit

spending, incapace di proporre strade nuove che non si limitino a spostare in avanti il

momento in cui i debiti contratti dovranno essere pagati. Ancora una volta l’Europa ha

dimostrato di essere un nano politico. Ancora una volta, meglio un uovo oggi che una

gallina domani.

r

53

15Una sorta di che ry-picking policy

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Piccole e Medie Imprese (PMI): profili nazionali e comunitari in evoluzione di Eugenia Vitetti1

Il settore delle Piccole e Medie Imprese è caratterizzato, attualmente, da profondi

e sostanziali mutamenti, derivanti principalmente dall’introduzione della nuova disciplina

comunitaria, la quale, recando fondamentali variazioni alla materia nel suo complesso, ha

prodotto una serie di effetti di carattere diversificato, meritevoli di esame non solo sotto

l’aspetto economico e giuridico, ma anche e soprattutto politico e sociale.

È per tale ragione che l’illustrazione della tematica relativa alle PMI deve fare

precipuo riferimento al dato normativo comunitario, ossia alla Raccomandazione n.1422

del 6 maggio 2003, (che sostituisce quella del 3 aprile 1996, n. 280/CE); con tale

provvedimento la Commissione Europea ha presentato una nuova definizione di PMI ed

ha stabilito, così, nuove regole che influenzeranno tutti i futuri provvedimenti U.E. e che

condizioneranno, in particolare, la spinosa materia degli aiuti di Stato, la prossima

programmazione dei fondi strutturali, nonché le norme contabili e di bilancio di tutte le

imprese europee. L’obiettivo condiviso è quello di pervenire all’applicazione di regole

uniformi all’interno dell’Europa allargata.

La revisione della citata definizione, la cui entrata in vigore è prevista per il 1°

gennaio 2005, scaturisce, tra l'altro, dalla necessità:

di superare le difficoltà di carattere interpretativo, sorte in vigenza della precedente

Raccomandazione 96/280/CE;

di fissare soglie più realistiche con riferimento all'evoluzione complessiva del

mercato unico;

di difendere le PMI dall’imperante e massiccia globalizzazione in cui sono sempre

più coinvolte;

di garantire alle stesse PMI servizi tali da consentire loro le medesime possibilità di

scambi internazionali delle quali fruiscono le grandi imprese;

di evitare alle PMI una forte penalizzazione, derivante dalla inferiore capacità a

concludere accordi di natura commerciale, finanziaria e tecnica.

La nuova disciplina comunitaria fa rientrare nell’ampia accezione d’impresa ogni

struttura esercente un’attività economica, a prescindere dalla forma giuridica che la

stessa riveste ed attua, altresì, una modifica dei parametri finanziari delle PMI, le quali

54

1 Funzionario amministrativo, Ministero dell’Economia e delle Finanze

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

vengono distinte a seconda del numero dei dipendenti, del fatturato e del totale di

bilancio, rispettivamente, in:

Media impresa = numero dei dipendenti inferiore a 250; fatturato non superiore

a 50 milioni di euro; totale di bilancio non superiore a 43 milioni di euro;

Piccola impresa = numero dei dipendenti inferiore a 50; fatturato non superiore

a 10 milioni di euro; totale di bilancio non superiore a 10 milioni di euro;

Micro impresa2 = numero dei dipendenti inferiore a 10; fatturato non superiore a

2 milioni di euro; totale di bilancio non superiore a 2 milioni di euro.

La scelta relativa ai valori del fatturato e del totale di bilancio è stato operata con

riferimento all’incremento della produttività delle imprese ed alla modifica dell’indice dei

prezzi al consumo nel periodo 1994/2000, nonché dei tetti del totale di bilancio annuo, in

base alle variazioni statistiche osservate nel rapporto tra questo valore e quello del

fatturato delle imprese stesse.

Sempre la stessa Raccomandazione definisce più puntualmente la specifica nozione

di indipendenza, che si concretizza nell’ipotesi in cui la stessa non risulti essere

controllata, direttamente o indirettamente, almeno per il 25%, da un’altra impresa che

non rientra nei parametri previsti per le PMI, e vi ricomprende anche i rapporti di

partenariato tra imprese, a condizione, però, che un’impresa partner non eserciti sulle

altre un controllo effettivo, sia di tipo diretto che indiretto.

Con riferimento ai legami che possano sorgere tra diverse imprese, è invece

interessante segnalare che la nuova definizione d’imprese collegate riprende i contenuti

della Settima Direttiva 83/349/CEE e successive modificazioni in tema di bilanci

consolidati. Tale riferimento impedisce il fenomeno dell’aggiramento delle regole e tiene

conto delle esperienze compiute in tema di controllo di aiuti pubblici.

Ulteriore significativa novità introdotta dalla nuova disciplina è la c.d. dichiarazione

sull’onore, costituita da un’autocertificazione che gli imprenditori possono rendere sullo

status dell’impresa (autonoma, associata o collegata) e sui dati relativi ai parametri

numerici dimensionali che la riguardano, e ciò anche nel caso in cui la dispersione del

capitale sociale non permetta l’individuazione esatta dei suoi detentori ma l’impresa

55

2 La Raccomandazione prevede l’estensione a due esercizi consecutivi del periodo di tolleranza di“sforamento” della soglia prevista per la qualifica di PMI, mentre per il computo degli occupati dell’impresa, si fa riferimento al numero di unità lavorative-anno (ULA) e cioè ai dipendenti che hanno lavorato a tempo pieno e durante tutto l’anno. Per i dipendenti che abbiano lavorato a tempo parziale, o come lavoratori stagionali, il lavoro è contabilizzato in frazioni di ULA

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

stessa supponga, in buona fede, di non essere detenuta al 25% o più da una o più

imprese collegate fra loro, o attraverso persone fisiche o gruppi di persone fisiche.

Considerato che soltanto l’esame del quadro complessivo in cui operano le PMI ed

il contesto politico ed economico che le supporta consente di comprendere il senso

intrinseco che è alla base della modifica comunitaria, si ritiene necessario analizzare,

anche se brevemente, il Programma pluriennale per le imprese e l’imprenditorialità

(2001-2005) dell’Unione europea, il quale, prestando particolare attenzione proprio alle

PMI, indica alcuni obiettivi volti a riequilibrare l’economia e le condizioni di vita in ambito

europeo e ad accrescere la competitività dell’intero sistema economico comunitario nei

confronti del resto del mondo, con riferimento sia alle aree più forti del continente che a

quelle in via di sviluppo.

Non può, infatti, trascurarsi la considerazione che un’insufficiente concorrenzialità

delle PMI europee nei confronti del resto del mondo potrebbe produrre una penetrazione

economico-commerciale nei mercati europei da parte di imprese site in Paesi extra U.E,

né il fatto che le PMI e le microimprese soffrano di gravi problemi di competitività anche

quando le stesse siano localizzate in aree avanzate, difformemente da quanto avviene

alle imprese di grandi dimensioni, le quali, pur nei territori “depressi,”presentano,

comunque, un livello concorrenziale positivo.

D’altra parte, le stesse PMI e microimprese più efficienti ed evolute nel mercato,

nello sforzo di mantenere il livello di competitività raggiunto, delocalizzano spesso in

paesi extracomunitari le proprie produzioni, creando, in tal modo, occasioni di sviluppo

esterne al mercato comunitario e originando possibili preoccupazioni, soprattutto se la

conseguenza di tale fenomeno dovesse essere l’aumento del trasferimento in uscita

dall’Unione di tecnologie e di professionalità elevate ivi presenti.

È segnalato nel sopra citato Programma che il grave ostacolo alla nascita ed alla

crescita delle PMI dei Paesi europei è costituito certamente dalla loro debolezza

finanziaria, derivante anche dalla dimensione ridotta e dalle risorse limitate di cui le

stesse dispongono; la maggior parte delle imprese in esame presenta, infatti, una

struttura finanziaria fortemente squilibrata verso l’indebitamento (equity gap)3 ed in

particolar modo verso quello di tipo bancario. Non va sottaciuto, peraltro, che la

capitalizzazione delle PMI costituisce un problema complesso di non facile soluzione, che

si è tentato di risolvere attraverso il ricorso ai mercati borsistici speciali per la quotazione

56

3 Mercato globale e competitività delle PMI italiane, a cura di O.Tronconi

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

e le negoziazioni d’azioni delle PMI, nonché mediante regole fiscali volte a favorire la

capitalizzazione e lo sviluppo di società di venture capital.

Un primario strumento di supporto per superare queste complesse difficoltà è

costituito dal sostegno ai finanziamenti, in relazione al quale occorre menzionare, con

riferimento particolare all’accesso ai finanziamen i gestiti dalla FEI per conto della

Commissione, tre strumenti finanziari agevolativi che, pur non essendo rivolti alla

concessione diretta alle singole imprese di investimenti e di garanzie, sono indirizzati ad

intermediari finanziari che si occupano di gestione di sistemi nazionali di garanzia dei

prestiti e dei capitali di rischio, offrendo, in tal modo, sostegno e finanziamenti alle PMI.

t

Questi gli strumenti finanziari in questione:

Meccanismo di garanzia per le PMI;

Meccanismo europeo per le tecnologie (MET);

Azione di capitale di avviamento.

Con riguardo alla situazione italiana, caratterizzata da una massiccia presenza

d’imprese medie, piccole e piccolissime, va segnalato che esse si finanziano, nelle varie

fasi del ciclo economico, attraverso operatori, mercati e strumenti eterogenei; le stesse

registrano anche un positivo aumento dei rapporti inter-aziendali e delle relazioni

informali tra imprese, attraverso accordi di cooperazione, di subfornitura e

d’appartenenza a distretti4.

Tra questi, utilissimo si è rivelato, dal lato dell’offerta nel mercato, il sostegno

fornito alle PMI dalle anticipazione fornite dagli intermediari finanziari, i quali assumono

partecipazioni al capitale di rischio di piccole e medie imprese, di nuova o recente

costituzione (al massimo tre anni), operanti nei settori delle tecnologie dell’informazione e

della comunicazione5, mentre, in campo comunitario, sono previsti ulteriori programmi

volti a potenziare la partecipazione delle PMI a nuovi strumenti finanziari, quali i progetti

integrati e le reti di eccellenza di ampie dimensioni. Ciò in quanto il ruolo “nevralgico”

delle PMI rende le stesse veri e propri “pilastri” dell’economia globale.

Con riferimento, poi, al processo produttivo riferibile al mercato nazionale, una

netta divisione del lavoro fra grandi imprese e PMI fa sì che spesso le imprese piccole,

medie e piccolissime siano destinate a soddisfare, attraverso accordi di subfornitura,

t r r r f

,

4 Industria, tirano le”piccole” dei poli produttivi, da Miaeconomia del 9 luglio 2003

57

5 Le azioni o quote sot oscritte devono essere di nuova emissione e rappresentare almeno il 20% del capitalesociale. La misura dell’anticipazione è pari al 50% della partecipazione e la du ata può ar iva e ino ad un massimo di sette anni. E’ previsto al riguardo, l’intervento del Fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese ai sensi della legge 662/96 e della legge 266/97

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

quote crescenti di produzione delle grandi imprese, con conseguente riduzione del costo

del lavoro e di investimenti in capitale circolante da parte di queste ultime a favore

dell’allargamento delle funzioni finanziarie svolte dalle medesime.

Per questo particolare considerazione va rivolta ai c.d. Confidi (Consorzio di

garanzia collettiva fidi), organismi territoriali questi che agevolano le piccole e medie

imprese nell’accesso al credito, mediante un sistema di garanzie, che si realizza

prevalentemente attraverso finanziamenti, per lo più a breve termine, ma a volte anche

di medio e lungo periodo.

Più nello specifico, il meccanismo utilizzato dai Confidi opera su scala locale

attraverso la seguente procedura: le organizzazioni industriali e artigiane, le associazioni

di categorie, le singole imprese, alcune banche, le camere di commercio, le province, le

regioni ed altri enti si consorziano per costituire una serie di fondi di garanzia destinati

alla copertura parziale (a volte, anche totale) di eventuali insolvenze da parte dei clienti

verso gli istituti di credito convenzionati. I Confidi si occupano anche di certificare il

“merito creditizio” di ciascuna richiesta di finanziamento da parte delle PMI da loro

garantite e curano l’accesso delle imprese ad eterogenee tipologie di facilitazioni

normative e fiscali legate al credito d’impresa, concordando, tra l’altro, tassi d’interesse

più vantaggiosi rispetto a quelli di mercato e fissando consistenti riduzioni degli oneri

accessori relativi alla fruizione dei contributi regionali.

Talvolta, l’accesso ai suddetti benefici viene addirittura facilitata dalla costituzione

di Interconfidi, che riuniscono i Confidi di diverse province allo scopo di creare un’entità in

grado di ricevere notevoli capitali erogati da organismi internazionali. Ne è un esempio il

caso di Interconfidi nordest che ha ottenuto, in passato, oltre 133 miliardi di vecchie lire

di finanziamento per le PMI da parte del FEI.

Ultimamente, i Confidi si occupano anche di prevenzione dell’usura, attraverso

Fondi Speciali appositamente costituiti, e forniscono consulenza nel rapporto tra le

imprese e le banche ed altri eventuali finanziatori.

Proprio con riferimento agli istituti bancari, è stato rilevato da molti autori6, in

dottrina, che le banche locali hanno una capacità di selezione maggiore rispetto a quella

delle banche esterne all’area o nazionali, che consente di diminuire i costi di transazione,

58

6 In letteratura economica, sul punto si veda: Finali Russo, P. e Rossi, Costi e disponibilità del credito per le imprese nei distretti industriali, Temi di discussione, Banca d’Italia, n.360, dicembre 1999; Quintieri F. , Il nesso finanza crescita: il ruolo delle banche locali nei distretti industriali, in Il capitale nello sviluppo locale e regionale, Franco Angeli, 2002

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

le asimmetrie informative ed anche il razionamento del credito7, producendo, al

contempo, effetti positivi sul costo del denaro8.

Da quanto illustrato, si evince che l’attività di tali Confidi diviene sempre più

necessaria per facilitare l’accesso al credito, sia per quelle aziende che non dispongono di

sufficienti garanzie personali, che per accompagnare le imprese nelle future fasi di

sviluppo ed infatti, proprio per valorizzare il ruolo dei Confidi, sono stati stipulati diversi

accordi.

Tra questi il nuovo accordo internazionale denominato Basilea 2 sui requisiti

patrimoniali delle banche, del quale peraltro sono stati richiesti, da parte di diversi

operatori interessati, alcuni interventi correttivi.

Detto accordo, la cui attuazione è prevista per il 2006, si fonda, come noto, su tre

pilastri9:

requisiti patrimoniali minimi;

controllo delle banche centrali;

disciplina del mercato e trasparenza .

Sempre lo stesso accordo prevede una vasta gamma di opzioni per misurare il

rischio di credito: accanto al metodo base standard, si potrà così far ricorso a strumenti di

rating interni di base e i rating interni avanzati, effettuati dalle singole banche, i quali,

secondo alcuni, penalizzerebbero le PMI nell’accesso al credito; altri, tuttavia, stimano

che il nuovo accordo rappresenti un’opportunità per le banche che saranno chiamate a

perfezionare il sistema di controllo e di gestione del rischio.

Sempre nell’ambito degli strumenti di promozione per le PMI, ed in particolare di

quelli riguardanti l’occupazione e volti a favorire la creazione d’iniziative d’autoimpiego,

soprattutto in forma di microimpresa, attraverso l’incentivazione dell’inserimento nel

mondo del lavoro di soggetti disoccupati, una maggiore qualificazione della

professionalità degli stessi e la promozione della cultura d’impresa,vanno ricordati diversi

tipi di sostegno che possono assumere forme variegate, principalmente sintetizzabili in:

contributi in conto capitale, a fondo perduto, per gli investimenti;

contributi in conto capitale, a fondo perduto, per le spese di gestione;

mutuo a tasso agevolato, con con ributo in conto interessi per le spese

d’investimento.

t

7 Le dinamiche creditizie a livello provinciale- Un’analisi per gli anni 1998/2002 da “Le ricerche dell’Istituto Guglielmo Tagliacarte per la promozione della cultura economica” 8 Scarpe S.A. , 1990; Stiglitz E. e Weiss, A. 1991

59

9Banche dati on line- Sole 24 ore del 9 luglio 2003

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

E’ ormai opinione consolidata, e peraltro pienamente condivisibile, che l’evoluzione

dell’impresa passi obbligatoriamente attraverso gli investimenti nel settore della Ricerca

e dello Sviluppo, i quali, nel nostro Paese, sono destinati principalmente ad attività svolte

da strutture interne (circa il 72%), mentre più ridotto è il ricorso a strutture esterne, quali

Università, centri di ricerca ed “altre imprese”, scelta quest’ultima che prevale nelle aree

geografiche del Mezzogiorno e riguarda soprattutto i settori più convenzionalmente

tradizionali. E’ quindi un segnale positivo il loro notevole incremento, soprattutto negli

ultimi anni, da parte delle PMI ed è con questo spirito che va segnalato il progetto “Inno

PMI” il cui obiettivo, nelle aree depresse del meridione, è quello di migliorare il livello

tecnologico delle PMI e di fornire alta formazione agli esperti in gestione dell’innovazione

nelle piccole e medie imprese, creando al contempo figure professionali che si comportino

da “sollecitatori” dei processi innovativi, con funzioni di assistenza e di servizio. Sempre

nel Meridione, svolge la sua attività l’Agenzia per la promozione della ricerca europea

(APRE) che opera attraverso l’ ECIPA nazionale (l’ente di formazione della CNA).

Al momento attuale, le piccole e medie imprese detengono un ruolo essenziale

soprattutto nei settori dell’innovazione e dei progressi tecnologici europei, ma è

indubbiamente necessario che esse abbiano accesso più agevole ai finanziamenti ed

anche ai partenariati tra imprese. Proprio a questo proposito, sono stati presentati di

recente, in ambito comunitario, alcuni progetti volti a garantire che le imprese più

innovative vengano orientate verso programmi adeguati di finanziamento della ricerca

comunitaria e soprattutto verso l’istituzione di canali diretti tra le PMI e le varie

opportunità nel campo della ricerca medesima.

Grazie a progetti del genere, le PMI potranno partecipare pienamente all’istituzione

di uno Spazio europeo di ricerca (SER) ed essere, contestualmente, protagoniste dello

sviluppo di un mercato unico della scienza, della ricerca e dell’innovazione.

60

A conclusione della trattazione e con riferimento alla nuova definizione di PMI

introdotta dalla Raccomandazione del 6 maggio 2003 sopra citata, sia consentito di

segnalare che da parte di alcune organizzazioni, che pur concordano con le premesse

poste a base della revisione, ossia con la necessità di provvedere all’adeguamento dei

parametri finanziari agli sviluppi economici, vengono sollevate precise critiche avverso la

decisione della Commissione di introdurre una distinzione tra i vari tipi d’imprese

(autonome, con partecipazioni che non implicano posizioni di controllo, associate,

collegate ad altre imprese) e la possibilità di considerare, ai fini dell’individuazione dei

legami societari, anche le relazioni esistenti tra le imprese che agiscono sullo stesso

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

mercato o su mercati contigui tramite persone fisiche, siano esse singoli individui o gruppi

di persone che agiscono di concerto.

Si oppone in proposito, basandosi sul presupposto fondamentale che il fenomeno

dei raggruppamenti d’impresa è spesso il frutto di scelte legate alla necessità di

“aggirare” gli ostacoli alla crescita, più che il risultato di un’elezione di una precisa

strategia aziendale, che solo operando significativamente sulla legislazione nazionale,

sarebbe possibile favorire un vero processo di sviluppo delle imprese, evitando che

queste fuoriescano dall’ambito della “ legalità comunitaria ”.

Si aggiunge, inoltre:

a) che i meccanismi introdotti dalla modifica si presentano, in realtà,

piuttosto complessi da verificare e da dimostrare e che, pertanto, gli stessi rischiano di

tradursi non solamente in nuovi oneri amministrativi per le imprese, ma anche in

situazioni d’incertezza del quadro normativo; cosicché, invece di semplificare e fare

chiarezza, come peraltro auspicato dalla Carta europea per le PMI, la nuova definizione

potrebbe accrescere i vincoli e la complessità interpretativa, creando, al contempo,

grosse difficoltà alle imprese che devono applicare la disciplina stessa;

b) con riferimento alle microimprese, che la previsione di un limite di valore

di 2 milioni di euro per il fatturato o il totale di bilancio potrebbe essere considerata

sproporzionata ed irrealistica rispetto all’effettiva redditività delle piccolissime imprese e

che, qualora le nuove disposizioni fossero interpretate non, come auspicato, unicamente

a fini statistici, ma al fine di creare un’ulteriore classe dimensionale destinataria di

specifici aiuti e agevolazioni, questa tipologia di imprese non avrebbe alcuna convenienza

a crescere. La fissazione del nuovo parametro dimensionale rischierebbe, quindi, di

tradursi in un rafforzamento della catena dei vincoli e gravami che impediscono

all’impresa di esprimere pienamente le sue potenzialità e la sua capacità di sviluppo e

miglioramento;

c) che, d’altra parte, la nuova classe dimensionale relativa alla micro

impresa, con riferimento alla disciplina generale sugli aiuti di Stato, la rende possibile

fruitrice di maggiori benefici e, quindi, non le farebbe avvertire la necessità di crescere,

in palese contrasto con le linee guida comunitarie in materia di piccole e medie imprese

che considerano prioritari proprio lo sviluppo e la crescita dimensionale di questi soggetti

economici.

61

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Solo quale spunto di riflessione, si segnala che l’attuazione a livello nazionale della

nuova disciplina comunitaria dovrà necessariamente collimare con le nuove disposizioni

relative alla “Riforma del diritto societario” (cfr. D.Lgs. nn.5 e 6 del 17.1.2003), con

peculiare riguardo alle norme che disciplinano i gruppi d’imprese (in particolare:

definizioni d’attività di direzione e coordinamento, obblighi di pubblicità e comunicazioni

tra organo sociali delle società del gruppo, ed altro)

62

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Indennità meccanografica e videoterminali (Riflessioni in tema di applicazione senza interpretazione del dettato normativo) di Michelangelo Pascali1

Sommario: 1. Indennità <<meccanografica>> e perfezione (inequivocità) della

terminologia ‘giuscibernetica’. Sulla conversione informatica del dettato normativo: spunti

distintivi tra interpretazione ‘meccanicistica’ della norma e decisione algoritmica. - 2. La

babele terminologica: terminologia pseudo-informatica e incertezze interpretative. - 3.

Confusio nominis non immutat rei naturam. Riflessioni in tema di copyright. -

1. Indennità <<meccanografica>> e perfezione (inequivocità) della terminologia

'giuscibernetica'. Sulla conversione informatica del dettato normativo: spunti distintivi tra

interpretazione ‘meccanicistica’ della norma e decisione algoritmica.

La voce enciclopedica semplifica alla perfezione il concetto di meccanografia come

<<l'insieme delle tecniche per la raccolta, l'elaborazione e la distribuzione automatica dei

dati, basato su supporti meccanici, di archiviazione (schede e nastri perforati) utilizzati in

sistemi specialmente a carattere amministrativo prima dell'avvento dei supporti magnetici

utilizzati nella moderna tecnologia di elaborazione elettronica>>2. L'avvento dei "supporti

magnetici" con la "moderna tecnologia di elaborazione elettronica" dei dati (insomma,

l'avvento del computer) segna la cesura tra schede (perforate) meccanografiche ed

elaborazione informatica. Le schede perforate meccanografiche cessano, formalmente e

sostanzialmente (spariscono fisicamente, per ragioni tecniche, per obsolescenza), con

l'avvento dell'informatica giuridica mediante computer.

Il Lessico italiano poi - nel volume XIII del 1974 (si tenga a mente tale anno, il

1974, nel quale entrerà in vigore una legge, che è alla base della questione trattata) -

con la voce <<meccanografico>> riassume l'evoluzione della macchina di Hollerith dalle

schede perforate (e dai meccanismi di input, p ocessing e output) alla moderna

elaborazione elettronica dei dati3.

r

1 Dottorando di ricerca in Diritto del lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Federico II 2 Enciclopedia Zanichelli, voce Meccanografia, Milano, 1995 (edizione speciale fuori commercio), p.1139 (corsivo e rilievo aggiunti).

63

3 Ciò, con graduale evoluzione, fino all'elaborazione dei dati in tempo reale (teleprocessing), come descritto in Lessico italiano, voce Meccanografico, volume XIII, Roma, 1974.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Proprio in tale anno, infatti, mentre veniva pubblicato il volume del Lessico

contenente tempestivamente la voce citata, il legislatore italiano, nel provvedere al

riordino del trattamento economico del personale delle Ferrovie dello Stato, mediante la

legge del 16 febbraio 1974, n.57, disponeva, al secondo comma dell'art.20, che al

personale applicato in via continuativa agli impianti dei centri meccanografici poteva

<<essere corrisposta una particolare indennità>>4, la cui misura non poteva essere

superiore a quella stabilita in applicazione dell'art.4 della legge del 15 novembre 1973,

n.7345.

Successivi decreti ministeriali (d.m. n.274 del 23 marzo 1983, in particolare con

l'art.2; d.m. n.256 del 2 maggio 1985) e circolari applicative (circolare dell’8 maggio 1985

e circolare del 22 aprile 1987) diedero vita e disciplina attuativa all'indennità in questione.

La questione immediata qui trattata, banale nella sua semplicità, è se detta

indennità debba essere conferita a tutti gli addetti ai videoterminali, ossia anche a quei

lavoratori, che, pur svolgendo il medesimo lavoro, ma in contesti diversi, della stessa

Azienda (nel nostro specifico, le Ferrovie dello Stato) siano applicati al medesimo

schermo “videoterminale” e che operino, con modalità identiche o fortemente similari,

anche al di fuori dei cosiddetti <<Centri meccanografici>> (tecnicamente non più

esistenti, rispetto alla funzione ‘meccanografica’, ma storicamente identificabili con i

cosiddetti “uffici schedari” delle FS, ove si faceva originariamente uso - esclusivo o

pressoché esclusivo - delle schede perforate dette appunto ‘meccanografiche’). Si pone in

tal guisa (come sempre per le questioni di lettura del diritto) il problema di applicare la

norma secondo il significato proprio delle parole (letterale, sistematico, evoluto) nel

rispetto dei criteri ermeneutici classici).

Stante la chiarezza delle espressioni normative in esame, viene da notare come vi

sia un’importante dottrina, che suggerisce al legislatore, per l’immediato futuro, per

4 Legge 16 febbraio 1974, n. 57, art.20, secondo comma: <<Al personale applicato in via continuativa agli impianti dei centri meccanografici può essere corrisposta una particolare indennità le cui modalità di corresponsione saranno stabilite con decreto del Ministro per i trasporti e l'aviazione civile di concerto con il Ministro per il tesoro, sentito il consiglio di amministrazione dell'Azienda autonoma Ferrovie dello Stato. La misura dell'indennità non può comunque essere superiore a quella che sarà stabilita in applicazione dell'art.4 della legge 15 novembre 1973, n.734>>.

64

5 L'art.4 della legge 15 novembre 1973, n.734, pubblicata in G.U. 24 novembre 1973, dispone che: <<Con regolamento da approvarsi con decreto del Presidente della Repubblica, da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio, sentite le organizzazioni sindacali a carattere nazionale maggiormente rappresentative, saranno determinate le misure e le modalità di corresponsione delle indennità per compensare prestazioni di lavoro che comportino continua e diretta esposizione a rischi pregiudizievoli alla salute o all'incolumità personale, ovvero che richiedano un maneggio di valori di cassa quando possano derivarne rilevanti danni patrimoniali o comportino una continua applicazione agli impianti dei centri meccanografici o, infine, siano effettuate durante le ore notturne>>.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

evitare ambiguità e incertezze, di offrire già tradotte, in forma di algoritmo, le disposizioni

normative. Conseguentemente, se, per il caso in esame, al posto del giudice-interprete vi

fosse un algoritmo a definire mansioni e funzioni lavorative, certamente non vi sarebbero,

come viceversa vi sono, decisioni diverse e contrapposte in tema.6 In tal modo, se

l’espressione <<Centro meccanografico>> fosse una definizione terminologica (espressa

come algoritmo e perciò) sottratta ad analisi critica e la parola <<videoterminale>>

fosse pur essa insuscettibile di interpretazione, perché egualmente espressa dal

legislatore in termini intrinsecamente incontestabili, queste riflessioni critiche non

avrebbero ragione di esistere. Dura sed lex.

Se un soggetto non lavorasse in quello che il titolare della norma-algoritmo ha già

definito <<Centro meccanografico>>, egli non solo non avrebbe ragione sostanziale di

doglianza per un trattamento eventualmente differenziato, ma non avrebbe neppure la

possibilità tecnica di vedersi accolta una domanda giudiziale temerariamente proposta.

Avrebbe un bel dire che egli svolge le stesse, sostanziali mansioni, con le medesime

modalità di lavoro, con gli stessi strumenti (i cosiddetti “videoterminali”), insomma con gli

stessi compute (medesimo modello e medesima ditta fornitrice) applicato <<in via

continuativa>>7 alla macchina, per le medesime ore di lavoro, magari consecutive, come

vorrebbero8 le disposizioni testé citate, egli non avrebbe possibilità alcuna di ottenere dal

giudice quello che, in termini formali, sarebbe stato concesso solo ai lavoratori addetti ai

<<Centri meccanografici>>, noti e definiti tali per legge (anche se il lavoro

meccanografico è sparito da decenni, sostituito dal lavoro al compu er).

r

t

,

6 Cfr., nel senso del riconoscimento dell’indennità, la sentenza della Pretura di Milano 13 aprile 1991 (estensore Santosuosso), Jori c. R.A.S., in Orientamenti svolgimento del rapporto di lavoro, 1992, p.359: <<L’indennità meccanografica compete ai dipendenti che svolgano mansioni comportanti l’uso di videoterminali, indipendentemente dall’inquadramento contrattuale degli stessi>>. L’indennità in discorso è stata riconosciuta contro la tesi della <<resistente [che la] applica[va] soltanto ai lavoratori inquadrati nella categoria e nel livello indicati nella espressione letterale e nel livello indicati nella espressione letterale adottata dal contratto>> (p.360, corsivo aggiunto), in conformità con <<l’orientamento espresso dal Tribunale di Venezia, la cui sentenza [14.12.87, n.4/88] è confermata dalla Corte di Cassazione>> (ivi). In senso contrario, Tribunale di Napoli 30.4.2004, sent. n.15004/04, depositata il 30.12.04, che propone una nuova e insospettata definizione sia del Centro Meccanografico (che in realtà sono i centri periferici aziendali di raccolta, immissione e comunicazione anche a terzi dei dati, per esempio sulla circolazione dei carri e delle merci trasportate su essi) sia del videoterminale (che è lo schermo terminale dell’elaboratore elettronico). In motivazione <<osserva il Tribunale che per Centro Meccanografico deve intendersi il reparto della Azienda che provvede, con l’impiego di sistemi a schede perforate o sistemi elettronici, alla elaborazione dei dati per i vari servizi aziendali (V. voce del dizionario Zingarelli). Il Centro Meccanografico è dunque un centro che gestisce servizi diretti alla Azienda e non già ai terzi-utenti. Il videoterminale è invece l’apparecchio ricevente dal “Centro” che lo serve>>. A parte l’arbitraria definizione del C.M. (e non solo) è evidente che nella seconda sentenza (a differenza della prima, che dà rilevanza alla prestazione lavorativa oggettiva) si sposta la considerazione sulla rilevanza dalla mera attività lavorativa (ai videoterminali) all’Ufficio (al luogo) dove il lavoro ai videoterminali viene svolto e ai destinatari della prestazione o comunicazione dei dati (Azienda e non terzi). 7 Cfr. la citata l. 16 febbraio 1974, n.57, art.20, comma secondo.

65

8 Più precisamente, come prevedevano all’origine le disposizioni menzionate, successivamente integrate e modificate da innovazioni normative e dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. ampiamente infra passim).

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Ogni disposizione (per esempio, quella appena citata, sull’obbligo presupposto dei

percipienti, per il ‘godimento’ dell’indennità meccanografica, di lavorare, in via

continuativa, agli impianti meccanografici) sarebbe da considerare, necessariamente e a

priori, valida di per sé, a prescindere (come se fosse avulsa) dal contesto normativo,

perché ogni problema di indagine interpretativa sarebbe già stato risolto, una volta per

tutte, dal legislatore o dai suoi tecnici, preoccupatisi di esprimere, irrevocabilmente, in

termini simbolici, la volontà di quella specifica legge: una voluntas legis, sempre

coincidente, per definizione, con la vox legis. Se tutto ciò fosse legge dello Stato o

prescrizione prevalente nello Stato (tenuto conto dell’esistenza di una normativa

comunitaria che però in tema di applicazione ai “videoterminali” si esprime diversamente

- e con forza appunto prevalente9 - dalla normativa interna in considerazione) questo

lavoro – ripetesi - non avrebbe ragione di essere proposto.

E’ venuta subito alla mente questa teoria per due ragioni, per il linguaggio tecnico-

informatico ricorrente nella questione (e che merita di essere interpretato) e per il fatto

che la giurisprudenza sembra voler privilegiare una lettura così piatta e acritica delle

disposizioni, quasi a inconsapevolmente rincorrere quegli automatismi, che vengono

auspicati dagli estimatori della ‘sentenza’ informatica.

Naturalmente, le cose non stanno proprio così. Si ha un bel dire che anche l’attuale

giurisprudenza (prevalentemente contraria a una concessione generalizzata dell’indennità

in discorso in favore di chi opera al videoterminale) sembra talora così coerente, nel non

voler approfondire le ragioni che reclamano un trattamento egalitario nella retribuzione

dei lavoratori parimenti addetti – in uffici e mansioni diverse - ai videoterminali, che si ha

la sensazione che essa tenda, seppure inconsapevolmente, ad anticipare i tempi

dell’avvento del processo come strumento di diretta emanazione del potere (una sorta di

Grande Fratello, comunque denominato). In realtà, la differenza è comunque così netta

da non potersi ridurre in una semplice sfumatura. Nel caso contrario, appare infatti

scontato che la critica avrebbe evidentemente finalità (e magari pregi) solo dialettici,

rimanendo comunque ferma – e sotto gli occhi di tutti - la distinzione tra decisione

giudiziale e applicazione decisoria mediante algoritmo.

La sentenza emessa mediante computer, dichiarativa ed esecutiva a un tempo,

dovrebbe viceversa costituire, nella futuribile ipotesi prospettata da una parte della

dottrina giuridico-informatica, un mero strumento al servizio della cieca (e mai

66

9 Sul primato del diritto comunitario, cfr. BARBERA A. - FUSARO C., Corso di diritto pubblico, Bologna, 2004, pp.92 ss.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

sistematicamente valutata) osservanza della norma, così come dal legislatore-regista

(omessa ogni interpretazione) irrefragabilmente fissata.

La tesi, cui si è accennato, per quanto possa apparire audace, non riguarda scenari

da futuro remoto ma l’hic et nunc: questo diritto e questo tempo. Futuribili, ma assai più

consapevoli della gravità dei problemi sono le riflessioni di Ronald Arkin sui rapporti tra

uomo (identificato nella persona dello scienziato) e la robotica e l’intelligenza artificiale.

Con un’asserzione, che non trova alcun riscontro allo stato delle ricerche (di cui insomma

non può essere data alcuna verifica, per cui deve ritenersi, sino a oggi, mera –

indimostrata e indimostrabile - ipotesi), Arkin ritiene che <<l’evoluzione della robotica è

talmente veloce che entro qualche anno sarà un fatto abituale usare un robot, magari

antropomorfo, come un compagno e un collega di lavoro>>10.

Prescindendo dal fatto che gli scienziati informatici, non sappiamo, anche qui, con

quale fondamento, ipotizzano in genere una tale prospettiva in un futuro molto più

remoto (100-150 anni), quel che importa é l’interrogativo sul che fare qualora <<un

robot cominci a mostrare comportamenti vagamente umani, se si evolve cioè al punto di

avere paure ed emozioni, magari anche un inizio di volontà autonoma>>. Pare evidente

che una tale prospettiva (il rapporto dell’uomo con un androide dotato in qualche misura

di parvenza di coscienza e volontà autonoma) pone problemi e scenari assai diversi da

quelli rilevati da Borruso, per cui rimangono del tutto estranei alle considerazioni, che

seguono.

Rispetto al tempo presente, più nello specifico, chiunque abbia sfogliato un testo di

informatica giuridica, con buona probabilità, potrà essersi imbattuto nella tesi, variamente

espressa, cui abbiamo fatto cenno, secondo cui, opportunamente istruito, al computer

potrebbe essere affidato non solo il compito di contribuire (in funzione di consultazione e

di archivio) a risolvere problemi giuridici (e già non sarebbe poco), ma perfino quello

specifico di emana e sentenze. Si tratta di una tesi audace e inquietante, certo non priva

di suggestione, che è stata attentamente esaminata e proposta in Italia con riferimenti

colti e assai raffinati, in particolare dal Borruso11. Il computer sarebbe assai più affidabile

dell'interprete togato a svolgere il ruolo di autentica <<bocca della legge>> e al

magistrato sarebbe riservato il ruolo, certo assai circoscritto e riduttivo, e

r

l

10 TARISSI F., Nostro fratello robot (Colloquio con Ronald Arkin), ne L’Espresso del 7 ottobre 2004, pp.182 ss. Entrambi i passi citati sono a pagina 183.

67

11 Renato Borruso, autorevole studioso di diritto dell’informatica, coautore del manuale BORRUSO R. - TIBERI C., L'informatica per il giurista, Milano, 2001; da Presidente di Cassazione, ha curato la formazione del C.E.D. della Cassazione stessa ed è direttore della Rivista Il diritto de l’informazione e dell’informatica,.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

prevalentemente "ancillare", di tradurre i fatti in termini cibernetici, in guisa da consentire

all'elaboratore di potersi pronunciare con un provvedimento decisorio od ordinatorio

(sentenza o ordinanza) finalmente obiettivo (neutrale e indifferente, almeno

apparentemente) immune dalle manipolazioni interpretative: a) delle parti processuali; b)

dello stesso giudice; c) della dottrina, ove invocata.

Insomma, una decisione rispettosa unicamente della rigorosa osservanza e

applicazione della legge-algoritmo.

L’incubo di ogni sovrano (la violazione o l'elusione della legge sub specie

interpretationis, mediante l’interpretazione da parte dei giudici) finalmente svanito o, se si

vuole, il sogno di ogni legislatore (ma anche degli illuministi francesi e del nostro

Filangieri) tradotto finalmente in realtà.

Si tratterebbe, appunto e testualmente, della prospettiva della legge-software. Si

chiede infatti questa dottrina: <<Non potrebbe il legislatore provvedere egli stesso a

formulare la legge sotto forma di software applicativo della medesima, eliminando, così,

non solo qualsiasi incertezza di interpretazione, ma l'interpretazione stessa come

operazione intellettiva a sé stante? (…) Il legislatore interagirebbe direttamente col

destinatario della norma bypassando, per quanto attiene all'interpretazione della legge,

non solo l'avvocato e il pubblico funzionario, ma il giudice stesso>>12. Siamo, dunque,

alla (proposta) applicazione di un principio nuovo: Ubi regula ibi computer13.

Come si vede si tratta di una tesi almeno astrattamente (e comunque prima facie)

assai suggestiva (col suo espresso richiamo a criteri di velocità, efficienza e obiettività

nelle decisioni giudiziali). Non per nulla il citato volume di Borruso e Tiberi riporta subito

dopo il titolo, in seconda pagina. l'espressione di Thomas Jefferson: <<Io preferisco il

sogno del futuro alla storia del passato>>.

Sempreché, tuttavia, non divenga un incubo.

Infatti, quella medesima tesi, nel medesimo tempo, ci appare assai preoccupante

ed è, in ogni caso, meritevole di una ben diversa ed esaustiva analisi, specie rispetto alla

frettolosa attenzione che sinora (da ben oltre un decennio) le è stata solitamente

riservata dalla dottrina.

Qualora questa tesi dovesse mettere radici effettive, in una società altamente

informatizzata come l’attuale, incline spesso a confondere la velocità con la perfezione, la

r 12 BORRUSO R. Informatica giuridica, in Enciclopedia del diritto, Aggio namento, Milano 1997, p.664

68

13 BORRUSO R. - TIBERI C., op. cit., pp.253 ss.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

dottrina non potrebbe dire di non essere stata debitamente avvertita e informata nello

specifico – in innumerevoli scritti - dai suoi stessi autorevoli cultori.

Per quanto ci riguarda, sentiamo perciò l’obbligo di dover dire che a questa tesi,

che riconosciamo colta, interessante e suggestiva (e quindi ancor più pericolosa, per chi

l'avversa) noi siamo (come peraltro si sarà già compreso) totalmente ostili e siamo ostili

non in via astratta e pregiudiziale (essendo il rigoroso rispetto della legge il fine di ogni

giurista) ma per le precise ragioni che esponiamo (sia pure in sintesi) e che ci appaiono,

oltre che pur esse dal retaggio colto, raffinato, necessariamente da esporre (nel senso

che queste ragioni pretendono di essere delibate, un po’ come i personaggi pirandelliani

chieggono irrefragabilmente di essere variamente, ma specificatamente, interpretati,

secondo la rigorosa ideazione formale dell'autore, di cui sono in cerca).

Ragioni quindi ritenute non solo non immeritevoli di attenzione, ma che ci

appaiono assai più lungimiranti e convincenti e dotate di migliori approfondimenti, in

ordine sia alle premesse sia alle prevedibili conseguenze di un eventuale affidamento

(comunque configurato) all'intelligenza artificiale della funzione decisoria. Il confronto

(ove possibile) tra linguaggio informatico e linguaggio tradizionale, con tutte le sue

ambiguità e incertezze (e in virtù proprio di esse) diviene elemento dirimente di giudizio,

offrendoci la lingua corrente (anche quella giuridica e persino manipolativa), almeno

potenzialmente, maggiori (anzi infinite) possibilità interpretative. Si tratta di comprendere

se questo sia un bene o un male per il senso stesso del diritto (per la sua ontologia).

69

Insomma, si parva licet componere magnis, il nostro argomento di studio, almeno

in parte (e dando per scontata la diversità del linguaggio, qui tradizionale, anche se tratta

di un argomento che interessa certamente la scienza giuscibernetica) può contribuire a

dimostrare come anche una semplice qualificazione tecnica (indennità "meccanografica")

tratta - sia ben chiaro - dal linguaggio dell'archeologia dell'informatica (dall'informatica

delle origini) possa essere fonte di ambiguità e - a parer nostro - di erronea e riduttiva

applicazione della legge, quando non interpretata con quella sensibilità peculiare che solo

un accorto giurista sembra possedere. Anzi, abbiamo l'ardire di ritenere che è possibile

dimostrare che proprio e solo la tradizionale funzione interpretativa affidata

riservatamente all’uomo (e incompatibile con un’intelligenza artificiale, anche "esperta" e

"avanzata", come suol essere qualificata) può rappresentare i termini e i dubbi della

questione giuridica. Viceversa, sia la meccanica acquisizione di una (apparente)

terminologia tecnica, per di più ritenuta intangibile, proprio in quanto tale (ossia il dato

tecnico ritenuto come presupposto non suscettibile di valutazione da parte dell’interprete)

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

sia - peggio - l’applicazione (astrattamente ipotizzata) dei criteri cibernetici, con la

traduzione in linguaggio algoritmico dei termini del sillogismo giuridico, portano entrambi

spesso (come nel caso in esame) a soluzioni non convincenti e non condivisibili, con una

verità giuridica, per quanto apparentemente irrefutabile (perché paludata di tecnicismo,

reputato obiettivo) non solo non coincidente con la verità storica, ma ad essa opposta,

con l'esito irrimediabilmente pregiudizievole (per quanto manifestamente ingiusto,

rispetto alla lettera della norma e all'intenzione del legislatore, come tradizionalmente

interpretata) di una sorta d’inadeguata o denegata risposta alle doglianze e ai dubbi

formulati in una determinata istanza giudiziale.

Insomma, se veramente ancor oggi si voglia che un <<giudice sia a Berlino>>,

occorre proprio pretendere che esso non rivesta i panni della (apparente) perfezione

algoritmica. Certo, è auspicabile che non vi sia anche nell’operatore umano del diritto uno

svilimento della sua funzione a mera meccanica applicazione del sillogismo giuridico

(senza un adeguato approfondimento del significato delle parole).

Tuttavia, anche se ciò dovesse accadere, anche se l’interpretazione, in qualche

caso o nella generalità dei casi, fosse ridotta a mera meccanica applicazione di norme,

certo rigidamente fissate, ma altrettanto rigorosamente meritevoli di essere lette

sistematicamente e in armonia con l’incessante dinamica normativa complessiva,

egualmente ogni comparazione negli esiti sarebbe intollerabile, perché non si tratterebbe

del medesimo fenomeno. Potrebbe, infatti, sempre accadere nell’operatore umano (in un

diverso operatore umano o nel medesimo operatore in altro momento) una

riconsiderazione (e quindi un mutamento) del suo ruolo e della sua funzione e una

diversa riflessione, con l’emanazione di una diversa sentenza (cosa che evidentemente –

per definizione - non potrebbe essere per l’algoritmo giudiziario, correttamente redatto).

70

Viceversa, la tecnica giuscibernetica che ritiene di poter affidare al compu er la

funzione decisoria (in tutto o in parte) non ammette ripensamenti e varietà di

interpretazioni: essa richiede che un programmatore elettronico traduca le norme di

legge in algoritmo e, una volta informatizzato il dettato legislativo, che al giudice sia

riservata la funzione di introdurre gli elementi di fatto nel modello precostituito, facente

parte del programma, al fine della decisione “obiettiva”, non influenzabile dalle incertezze

proprie dell'intelligenza umana.

t

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Essenziale, per la traduzione delle disposizioni in algoritmico, il ricorso alle tecniche

riduzionistiche14.

Mentre molte obiezioni rivolte contro la tesi della "sentenza informatica" sono state

esaminate e confutate dagli stessi autori, che propongono il potenziale affidamento al

computer della funzione decisoria (dai sottintesi nel significato corrente delle parole – che

ci riporta, peraltro, alle più generali e inevitabili questioni sul significato e sul significante

- alla mancanza di previsione nella legge degli infiniti casi particolari che nella vita

possono verificarsi, dalla interconnessione imprevista di norme alle incertezze della

sintassi, della grammatica e della semantica, ai giudizi indeterminati di valore, presenti

talora nelle leggi senza alcuna indicazione di parametri per emetterli, sino alla stessa

storicità delle espressioni)15 proprio il riduzionismo delle disposizioni, non risulta

adeguatamente considerato come strumento manipolativo di (ulteriore) potere16.

Si può ipotizzare che questo ulteriore potere "tecnico" possa essere almeno

influenzato presumibilmente dall'esecutivo o dal detentore della maggioranza del potere

politico (da chi altri sennò?). Non è neppure necessario pensare alle ipotesi estreme del

monopolio o dell'affidamento della funzione all'esecutivo per avvertire che comunque si

tratta di un potere sempre approssimativo e in qualche modo arbitrario, perché richiede

la riduzione del dettato normativo nella traduzione algoritmica. L’esercizio relativo a tale

potere non è da ritenersi mai neutro o innocente rispetto a scelte potenzialmente anche

precostituite e vincolanti. Comunque, si configura irrimediabilmente limitativo della

possibilità propria della mente umana di adattare, mediante interpretazione, il caso

giudiziario, alle astratte previsioni normative. In tal guisa, si perverrebbe, non solo al

superamento dell'incertezza di interpretazione, ma, come sopra riferito, alla testuale

<<eliminazione dell'interpretazione stessa>>17.

f

14 Le tecniche riduzionistiche nella formulazione legislativa (così come nella statuizione di qualsiasi regola in qualsivoglia campo), costituiscono un’applicazione pratica, la “naturale” inversione di obiettivi, della filosofia designata col termine di riduzionismo, la quale ha un approccio teorico esclusivamente epistemologico. Tale teoria, che è stata adottata in svariati ambiti, da quello biologico (riduzionismo meccanicista o fisicalista) a quello psicologico (comportamentismo) a quello sociale (dai teorici dell’individualismo metodologico) a quello linguistico, enuncia che fenomeni di un certo tipo sono identici a fenomeni di tipo diverso e più fondamentale, che concetti applicabili ai fenomeni del primo tipo possono in linea di principio essere tradotti in concetti applicabili ai fenomeni del tipo secondo, che le leggi che spiegano i primi sono in linea di principio derivabili dalle leggi che spiegano i secondi: verificandosi le precedenti condizioni si può affermare che la scienza dei fenomeni del tipo primo è riconducibile alla scienza dei fenomeni del secondo tipo. 15 BORRUSO R. Informatica giuridica, cit., pp.656 ss. 16 Per il riduzionismo giuridico, vedasi CAPOZZI G., Filosofia scienza e <<praxis>> del diritto, Napoli, 1992, pp.65 ss. Più in generale, sul fenomeno considerato, si veda la voce “riduzionismo” dell’Enciclopedia della filoso ia, Milano, 2003.

71

17 BORRUSO R., op. ult. cit. loc. cit.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Come si vede, si va ben al di là di quanto profeticamente preconizzato da Orwell

nel suo 1984, con il Grande Fratello volto alla riduzione delle parole e alla riduzione e

alterazione del loro significato al fine di immiserire i confini della libertà di comprensione

della realtà, limitando alla radice la capacità adeguatrice del linguaggio. Qui sparisce del

tutto la funzione di trarre dal testo la norma, una volta che essa - mediante sof ware - sia

stata, secondo un'ottica fatalmente conservatrice, irrimediabilmente fissata.

t

t

Il linguaggio, compreso quello giuridico, ha una illimitata capacità espansiva di

adeguarsi ai mutamenti di tutte le regole della società per comprenderle integralmente

(giusta l’interpretazione sistematica). Impedire o finanche semplicemente "ingessare" il

linguaggio (così come impedire l'interpretazione - anche giuridica - della realtà) significa

impedire la comprensione della realtà nel suo incessante divenire, privilegiando un'ottica

oscurantista, volta ineluttabilmente a ridurre la libertà come capacità di comprensione dei

fenomeni e, in definitiva, lo sviluppo stesso della civiltà del diritto.

D’altra parte, se la <<Neolingua>> del Grande Fratello era <<intesa a diminuire le

possibilità del pensiero, col ridurre al minimo la scelta delle parole>>18 e ogni

<<riduzione (nel numero delle parole del vocabolario e delle stesse sillabe)

rappresentava (per il potere) una conquista, perché più piccolo era il campo della scelta e

più limitata era la tentazione di lasciar spaziare il proprio pensiero>>19, pare evidente che

il riduzionismo delle parole, nell’elementare e rigido linguaggio algoritmico, costituisce un

peso intollerabile nella ricerca di una conoscenza perfetta della norma. La perfetta

identità del termine ‘riduzionismo’ - dagli opposti significati in Orwell e nell’informatica

giuridica e variamente inteso dalla filosofia del diritto - è assai sorprendente. E’ anzi

sorprendente che su una tale coincidenza terminologica la dottrina specifica, che propone

l’uso del compu er nell’emanazione delle sentenze, non abbia speso non dico un

approfondimento, ma nemmeno una parola, come se la stessa notizia le dovesse risultare

del tutto ignota o irrilevante.

Il mondo giuridico, al pari del mondo informatico, è pur esso un universo virtuale,

fondato sul rigoroso rispetto delle convenzioni. Tuttavia, mentre per l’algoritmo il

significato è unidimensionale, inflessibile, invariabile (o non è algoritmo), per

l’interpretazione giuridica la duttilità del linguaggio è per la funzione stessa della

comprensione. La flessibilità diviene criterio di distinzione e contrapposizione. La norma

per essere applicata deve essere infatti necessariamente compresa e l’interpretazione

r18 ORWELL G., 1984, Milano, 1997, p.316. La parola “diminui e” è in corsivo nel testo originale.

72

19 ORWELL G., op. loc. cit. Alla parola “riduzione” il carattere corsivo è stato aggiunto da noi.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

giuridica non è (almeno non dovrebbe) certo essere volta a “manipolare” il significato del

dettato normativo. Con una vera “manipolazione”, del significato della norma, si

realizzerebbe, a parer nostro, una sorta di “abuso di funzione” da parte del magistrato,

per quanto autorevole esso possa apparire, volto a creare una sorta di diritto “imposto”,

spesso eufemisticamente denominato “diritto vivente”, che non ci appare coerente, sotto

il profilo dommatico, col sistema “a diritto scritto”, proprio del diritto italiano. Altra cosa è

l’interpretazione giuridica, volta a meramente comprendere il significato delle parole e la

volontà del legislatore.

Essa deve essere così flessibile da potersi adattare in maniera (potenzialmente)

perfetta al dominio della norma sulla realtà storica, che essa è chiamata a comprendere e

disciplinare, per quanto oscura e mutevole detta realtà possa rappresentarsi. Un’assoluta

coerenza lessicale tra lettura del fatto e traduzione in termini giuridici è la premessa

stessa del sillogismo della decisione. Se l’univocità è il pregio e il limite della traduzione in

termini algoritmici della disposizione, la flessibilità è il presupposto di una comprensione e

applicazione tendenzialmente perfetta della norma. Migliore, più ampia, più ricca, più

varia, più raffinata e sensibile è la terminologia, maggiori sono le possibilità dell’interprete

di non incorrere in errori.

Questo sul piano della riflessione generale. Sennonché, qui, per il nostro piccolo

argomento di studio (senza con ciò voler sottovalutare la gravità del tema, cui si è

astrattamente accennato, sui limiti - occulti e inderogabili – che un’interpretazione

vincolata, espressa in termini di simbolismo informatico, impone alla cognizione stessa del

rapporto fatto-diritto) persino e proprio la terminologia appare meritevole di censura.

2.- La babele terminologica: terminologia pseudo-informatica e incertezze

interpretative.

73

Senza attendere il Grande Fratello, che cela il proprio potere tendenzialmente

assoluto e la propria volontà affidando la funzione decisoria ad uno strumento

apparentemente innocente, oggettivo e neutro come il computer, la giurisprudenza che

qui si annota si autolimita nella propria potenzialità interpretativa, assumendo le poche

parole tecniche alla base della questione (a cominciare dall'espressione "Centro

meccanografico" sino al concetto di “programmatore”) come se fossero presupposti non

discutibili (non esaminabili) nel loro effettivo significato, dei vincoli pressoché preclusi alla

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

funzione di controllo del magistrato. Ciò, anche quando tale terminologia sia usata - come

vedremo – palesemente in senso improprio (insomma, ‘a sproposito’, volendolo proprio

dire). E' da chiedersi come tutto ciò sia potuto avvenire.

A parer nostro l'espressione (pseudo) tecnica ha fatto velo sull'accertamento del

significato vero delle parole, in relazione a un'attività lavorativa radicalmente mutata

dall'evoluzione dei tempi, passando dallo strumento meccanografico al computer.

La giurisprudenza relativa20 ripropone direttamente e immediatamente

(risolvendola talora negativamente21, talora nel senso dell’accoglimento della domanda22)

la vexata questio dell’applicabilità dell'indennità prevista dalla legge e dai dd.mm. citati

(appena 800 lire giornaliere, da convertire oggi in centesimi di euro) al personale non

inquadrato in posti di lavoro definiti Centri meccanografici dal datore di lavoro (le Ferrovie

dello Stato, queste ultime in più e vari modi denominate nel corso degli anni)23.

Si tratta quindi di una vicenda minima (il conferimento della modesta indennità

giornaliera ad ogni lavoratore addetto ai videoterminali) ma che coinvolge migliaia di

unità lavorative. Poco per il singolo lavoratore, molto per il datore di lavoro e per la

categoria (complessivamente intesa) dei <<videoterminalisti>>. Naturalmente, è

implicato - come sempre, verrebbe da dire - anche (e soprattutto) il principio del rispetto

delle regole, intese sia come leggi formali (che disciplinano la fattispecie) sia come regole

contrattuali e convenzioni di carattere collettivo. A prescindere quindi dalla vigenza

nell’ordinamento del principio di completezza (non si può dire: de minimis non curat

praetor) si comprendono bene gli interessi materiali e formali in gioco, compreso il

rendere giustizia e renderla effettivamen e (art.3 Cost., comma secondo). t

r t

t i

20 Si vedano, per esempio, la sentenza n. 520 dell’11 febbraio 2003 e la sentenza n.502 del 2 febbraio 1999 (inedite, per quanto ci risulta), emesse dal Tribunale di Napoli sezione IX (Lavoro), entrambe relative a giudizi di appello ed entrambe risoltesi in senso sfavorevole all’accoglimento della domanda, a distanza di oltre un lustro l'una dall'altra. 21 Si rinvia pure alla sentenza del 28 settembre 1993 del Tribunale di Milano (può leggersi in O ien amenti della giurisprudenza del lavoro, Milano, 1993, pp.887 ss.) nonché alla sentenza emessa il 25 febbraio 1995 dal Tribunale di Milano (in Gius izia civ le, Milano, 1996, pp.3295 ss., con nota di ISENBURG L.). Entrambe le sentenze negano l’attribuzione dell’indennità prevista per i lavoratori addetti ad apparecchiature munite di vdt in base a requisiti esclusivamente temporali: richiedeva l’uso dello strumento del videoterminale <<in maniera prevalente e continuativa>> la prima, in modo <<assiduo e costante durante tutto l’orario di lavoro>> la seconda. 22 Ad esempio, si veda, oltre le decisioni citate in prosieguo (nota 34), la già menzionata (nota 5) sentenza del 13 aprile 1991 della Pretura di Milano (nonché la giurisprudenza ivi citata), la quale – come s’è visto - afferma che l’indennità meccanografica compete ai dipendenti che abbiano svolto mansioni comportanti l’uso di videoterminali, indipendentemente dall’inquadramento contrattuale degli stessi. In Orientamenti, cit., pp.359 ss..

74

23 “Azienda autonoma Ferrovie dello Stato”, “Ente F. S.”, “Ferrovie dello Stato s.p.a.”, “Rete Ferroviaria Italiana s.p.a.”, “Trenitalia s.p.a.”

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Sullo sfondo comunque questioni gravi, come la pura "monetizzazione" del rischio

alla salute, il rispetto della normativa comunitaria, i rapporti della stessa con la normativa

interna, la gerarchia tra fonti eterogenee e omogenee (appartenenti sin dall'origine al

medesimo ordinamento, perché è evidente che tutte le norme recepite sono di natura

interna, quanto agli effetti), la parità effettiva tra lavoratori, la disparità, pur essa di fatto,

della tutela giuridica tra datore e prestatore di lavoro, i dubbi di costituzionalità (senza

peraltro voler sottovalutare – col riferimento ad altre questioni gravi - l'importanza

dell'elemento retributivo).

t

Dunque, da mihi factum dabo tibi ius: <<dammi il fatto, ti darò il diritto>>, nel

senso che lo cercherò. Tuttavia, qualche volta c'è da chiedersi come venga rappresentato

il fatto e - soprattutto - come venga recepito in sentenza. Per quanto strano possa

sembrare, a distanza di oltre mezzo secolo dalla nascita del compu er (la cibernetica

nasce nel 1946 con Wiener, proprio come giuscibernetica - comunque denominata - come

accenno ad <<una possibile applicazione della teoria dei servomeccanismi al

funzionamento del diritto>>)24 c'è ancora chi (una rilevante e articolata struttura

datoriale, come le Ferrovie dello Stato, a finanziamento pressoché integralmente

pubblico) può concedersi l'opportunità di impostare disinvoltamente la propria linea

difensiva con un linguaggio improprio, rappresentando alla Giustizia quella che è una

normale situazione di lavoro in termini pressoché favolistici, diversi e opposti da quelli

effettivamente esistenti (con la mirabile presenza - presupposta in sentenza - di migliaia

di programmatori informatici e di almeno alcuni “Centri meccanografici”, in realtà del

tutto inesistenti).

Ciò, non solo senza (praticamente) tema di smentita (anzi, di immediata

contestazione, dovendo essere di comune cognizione il concetto di elaboratore elettronico

e di programmatore informatico) e meno che mai di subire o temere adeguata sanzione

per una punta (o qualcosa di più) di temerarietà nella impostazione difensiva, che

corrisponde al diniego datoriale di conferimento di un'indennità apparentemente dovuta

da chi, come appunto il datore di lavoro, conosce perfettamente la situazione lavorativa

(mentre si oppone alla pretesa del singolo lavoratore, forte quasi solo della propria

esperienza sul posto di lavoro), ma anche con buona possibilità e con la ragionevole

75

24 TADDEI ELMI G., Corso di informatica giuridica, Napoli, 2000, p.9.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

aspettativa (fondata su sentenze emesse) di vedersi premiato (perfino con la condanna

alle spese del lavoratore)25.

Nel caso in esame, al di là della vicenda della (peraltro modesta) indennità

retributiva negata, sembra che la vera dominatrice della questione sia la babele

terminologica, un linguaggio improprio e abusivo26, coinvolgente certo la difesa

dell'Impresa, ma, par di capire, anche (ed è meno comprensibile) quella del lavoratore.

Nessuna meraviglia se poi alla fine l'improprietà di qualificazione dei fatti lambisca, con

effetti negativi determinanti, chi sia tenuto al giudizio.

t

t

25 Come nel caso della citata sentenza n. 502 del 1999 del Tribunale di Napoli risoltasi con la condanna alle spese di primo grado confermata in appello e con la compensazione per le spese di gravame. A riguardo, sembra esservi incoerenza quanto al regime delle spese. Essendo sia la sentenza di primo grado che la sentenza di appello decisioni di rigetto e condividendo la sentenza di appello la decisione di primo grado, non si comprende la diversità nel regime delle spese di lite. La questione è puntualmente trattata nelle motivazioni della decisione di appello. Avendo il lavoratore impugnata la statuizione relativa alla condanna alle spese di primo grado, sostenendo che la lite non era temeraria (ma tale non era stata qualificata dalla sentenza appellata) nel qual caso sarebbe stata giustificata la condanna alle spese, il Tribunale ha giustamente respinto tale censura in quanto la condanna alle spese deriva normalmente dalla mera soccombenza, anche in giudizio non temerario (la lite temeraria ha tra l’altro un suo specifico regime in ordine alla condanna alle spese, con la condanna anche al risarcimento del danno, su richiesta di parte). La sentenza ha poi motivato la compensazione delle spese di secondo grado con la sussistenza <<di giusti motivi, in considerazione anche della natura delle questioni trattate>>. A parer nostro, <<la natura delle questioni trattate>> avrebbe dovuto comportare la compensazione delle spese anche (o solo) di primo grado (magari con la condanna alle spese per il solo secondo grado, in relazione alla censura, palesemente errata, sulla condanna alle spese anche in assenza di temerarietà della lite). 26 Ancora recentemente, nel 2004, in relazione ad una pagina informatica (www.autistici.org/zenmai23/trenitalia) ospitata nel sito www.autistici.org, a cura dell’Associazione Inves ici, scoperta in ritardo dall’ufficio legale di Trenitalia, che, secondo questa, avrebbe avuto contenuto diffamatorio nei confronti dell’azienda, rifacendo ironicamente la sua Home page, per finalità di satira mossa dalla critica verso la Trenitalia s.p.a. a causa del servizio <<di trasporto armi effettuato dall’azienda italiana al debutto della guerra in Iraq>>, armi occorrenti pure per la successiva occupazione militare (trasporto, peraltro, secondo gli autori della critica e della successiva difesa legale, non giustificato dal regime di monopolio in cui opera l’azienda, posta l’illegalità del detto traffico d’armi ai sensi della legge 9 luglio 1990, n.185, in particolare dell’art.6 della stessa, che a sua volta fa riferimento all’art.51 della Costituzione) con immagini (in un popup) di carri armati con su impressa l’immagine simbolica di un teschio e frasi del tipo <<la morte viaggia comoda>>, <<i legali hanno esibito una discreta ignoranza del Web e persino della sua terminologia>>, chiedendo - tra l’altro – la condanna del provider, laddove normative italiane ed europee attribuirebbero la responsabilità semmai all’autore delle pagine <<e non già a chi si limita a offrire il servizio di hosting>>, oltre, peraltro, in un primo momento processuale, ma subito smentiti, ad aver tentato di negare la verità della notizia alla base della contestazione. Sul punto, CARLINI F., Trenitalia boomerang (ne l’Espresso n.36 anno L, 9 settembre ’04, p.149).

76

Con ordinanza emanata dal Tribunale di Milano il 7 settembre 2004, in ogni modo, in ordine al reclamo exart.669 terdecies proposto nell’interesse dell’Associazione Investici avverso il provvedimento emesso dallo stesso Tribunale in data 3 agosto 2004 all’esito di procedimento cautelare promosso dalla Trenitalia, provvedimento che di questa ne aveva accolto le lagnanze, è stata rilevata la sussistenza dei presupposi del diritto di critica espresso in forma satirica, assorbendo in tale positiva valutazione ogni profilo di doglianza e così integralmente riformando l’atto impugnato, revocando del tutto la suddetta misura cautelare, con condanna di Trenitalia alle spese del procedimento in favore della controparte. L’intera vicenda processuale (compresi tutti gli atti delle parti e le decisioni giudiziarie) può essere letta agevolmente in http:www.artistici.org/ai/ renitalia.html e in http:www.italy.indimedia.org/news/2004/09/23808.php, siti ove v’è pure una trattazione di ampio respiro della questione (oltre a contenere collegamenti alla pagina informatica oggetto della stessa).

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

3. Con usio nominis non immu a rei na uram. Riflessioni in tema di copyright. f t t t

Spendiamo allora qualche parola sull’adozione sistematica di linguaggio improprio

nelle decisioni negative relative alla questione esaminata e sull'esigenza di un

accertamento sul significato attuale delle parole, espresse dal dettato normativo. A parer

nostro, infatti, nella letteratura esaminata, si nota come sovente sia stata condivisa dalla

giurisprudenza la posizione della parte datoriale del lavoro, che sembra aver privilegiato,

certo intenzionalmente (per ridurre la platea degli utenti, meno probabilmente per mera

pigrizia burocratica) l’adozione di un linguaggio tecnico in modo divenuto da tempo

insignificante ("Centro meccanografico”) o grossolanamente improprio (i termini di

“analista” e “programmatore") con il risultato di aver attribuito l'indennità in discorso, non

tanto a discrezione (viene conferita infatti a tutti gli addetti ai Centri – definiti –

“meccanografici”) ma in maniera selettiva e discriminatoria, rispetto alla funzione

(l’applicazione ai videoterminali) sulla base di stretti e superati riferimenti lessicali,

assolutamente avulsi dalla effettiva realtà lavorativa, con l’esito di veder attribuita

l’indennità stessa a chi magari ne ha minor diritto e di vederla negata a chi ne avrebbe

sicuro o maggiore diritto. Tutto ciò, non senza contraddizioni.

La sentenza n.502 del 1999 del Tribunale di Napoli, in funzione di giudice di

appello, per esempio, severa nel confermare la condanna del lavoratore al pagamento

delle spese di giudizio del primo grado, contiene stranamente un richiamo (col riferimento

alla normativa comunitaria e alla necessità di adeguare ad essa la disciplina nazionale)

che è integralmente a favore del ricorrente, senza trarne in alcun modo le debite

conseguente. Non solo ciò, ma, asserendo una indimostrata diversità qualitativa e

d’intensità d’applicazione tra mansioni lavorative, eventualmente identiche, quanto all'uso

del videoterminale, diversità non suffragata da alcun accertamento istruttorio, e piuttosto

fondata su meri pregiudizi linguistici (l'esistenza di “Centri meccanografici”, spariti da

decenni, in senso tecnico, seppure esistenti come espressione burocratica; una diversità

di collegamento con elaboratori centrali delle medesime macchine, a seconda delle

funzioni lavorative; confondendo lo ‘schedarista’, ormai sparito dal mondo informatico, col

programmatore o analista), ha avvalorato in ogni modo una possibile applicazione

affievolita della tutela generale del lavoratore comunemente addetto ai videoterminali

(denominati pure, correntemente, “vdt”: “visual display terminals”).

77

Tutela, del resto, già suscettibile di criticabilità.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

La giustizia comunitaria ha, infatti, al proposito, sullo sfondo di un graduale

abbandono da parte della disciplina della Comunità del criterio della massima sicurezza

“reasonable praticability” e di una progressiva adozione del criterio della massima

sicurezza tecnologicamente possibile27, reiteratamente condannato lo Stato italiano - da

ultimo con la sentenza della Corte di Giustizia Europea (Sesta Sezione) del 24 ottobre

200228 - per non essersi adeguato sul tema alla normativa comunitaria (così come non è

stato adeguato al rispetto della disciplina comunitaria il rapporto di lavoro dei ferrovieri

addetto ai videoterminali, che rimane in ogni caso lacunoso): rivestendo, la normativa

italiana, secondo le censure mosse dalla citata sentenza, natura “ambigua e imprecisa”,

di fronte ad una materia, quale quella della protezione della sicurezza e della salute dei

lavoratori, che richiederebbe, nella definizione dei diritti, un’assoluta chiarezza, palesando

poi una manifesta confusione tra i “dispositivi speciali di correzione” e i “dispositivi di

protezione individuale”, i primi riguardanti la correzione di danni già esistenti, i secondi

diretti a prevenire tali danni e, per di più, così come da testuali parole della Corte,

venendo meno al principio, di consolidata giurisprudenza, secondo cui, in relazione alla

trasposizione di una direttiva nell’ordinamento giuridico di uno Stato membro, è

indispensabile che l’ordinamento nazionale di cui trattasi garantisca effettivamente la

piena applicazione della direttiva, che la situazione giuridica scaturente da tale

ordinamento sia sufficientemente precisa e chiara e che i destinatari siano posti in grado

di conoscere la piena portata dei loro diritti e, eventualmente, di avvalersene dinanzi ai

giudici nazionali.

r

it I t

t

27 Criterio, del resto, elaborato e accolto con favore sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina del nostro paese. In ogni modo, per una testimonianza dei contrasti sul punto, ci si riferisca alla sentenza n.312 emessa dalla Corte costituzionale il 25 luglio 1996 (in Massimario di giurisprudenza del lavoro, Roma, 1996, pp.503 ss.) e alla relativa nota di VALLEBONA A. (in Massimario di giurisp udenza del lavoro, Roma, 1996, pp.829 ss.), il quale loda la pronunzia in quanto un’interpretazione rigida del criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile (definito come del fare “tutto il possibile”) finirebbe per minare il principio della certezza del diritto. Viceversa, per un’idea di come il principio per cui l’obbligazione di sicurezza deve conformarsi alla massima sicurezza tecnologicamente possibile sia grandemente, molteplicemente (e rigidamente) acquisito, ci si riferisca, a mo’ d’esempio, a quanto disposto da orientamento giurisprudenziale ormai costante in materia di macchine e attrezzi per il lavoro. Sul tema, difatti, responsabilità, pure penale, è sancita anche quando una macchina, conforme astrattamente alle disposizioni specifiche di legge, sia però obsoleta rispetto alle nuove tecnologie di sicurezza: in proposito, la sentenza n.10164 emessa il 27 settembre 1994 dalla sezione penale della Cassazione afferma che “il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza; pertanto, non è sufficiente che la macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più significativi presidi per rendere la stessa sempre più sicura; l’art.2087 c.c., infatti, (...) spinge obbligatoriamente il datore ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche”. In Ced. Cass., rv.175356 e in Foro ., Rep. 1995, voce nfor uni sul lavoro(prevenzione e sicurezza sul lavoro), n.241, Bologna.

78

28 Il testo (quasi integrale) di tale sentenza può leggersi in: Tutela dei lavoratori addet i ai videoterminali: la normativa italiane e i rilievi della Corte di giustizia (con commento di NUNIN R.), in Il lavoro nella giurisprudenza, Milano, 2003, pp.130 ss.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Insomma, non v’è ancora una netta cesura rispetto a quel criticabile approccio

legislativo (ed interpretativo) testimoniato dalla quasi decennale contraddizione tra

(tendenza all’) estensione degli ambiti d’applicabilità delle norme di prevenzioni sul lavoro

(ricomprendendo, difatti, pure particolari settori quali quelli relativi alle forze armate, alla

polizia, alla protezione civile, alle strutture giudiziarie e penitenziarie, alle università, alle

scuole, alle rappresentanze diplomatiche e consolari, ai mezzi di trasporto aereo e

marittimo) e incomprensibili esclusioni soggettive. Tanto più, che il superamento, su di un

piano oggettivo, dell’esclusività del sistema tabellare (chiuso) di tutela nei confronti delle

malattie professionali (rilevando adesso la discriminazione tra fattispecie ricomprese nelle

tabelle ed escluse da esse soltanto dal punto di vista probatorio, d’inversione o no

dell’onere della prova), passaggio avvenuto pure ad opera di pronunce in sede di

controllo di legittimità costituzionale (Corte cost., sentenza n.179 del 18 febbraio 198829),

anche grazie ad indicazioni comunitarie europee (ad esempio con raccomandazione del

23 luglio 1962), e che, senza eliminare i vantaggi del precedente assetto, ha alfine

colmato i vuoti di tutela nascenti dalla restrittiva nozione legale di malattia professionale,

mal si concilia con le ben poco comprensibili succitate esclusioni.

Del resto, notiamo incidentalmente, la tutela della salute e della sicurezza sul

lavoro è materia che riveste sempre più importanza nell’ottica comunitaria, ove oramai si

tende, in un “innalzamento verso l’alto” piuttosto che in un “livellamento verso il basso”,

ad avvicinare fortemente e rendere omogenee le legislazioni nazionali e a traslatare in

concreto quei diritti sociali europei, “naturale” superamento e completamento di un

assetto incentrato da punto di vista solo economicistico. E materia, manco a dirlo, ove si

sprecano le censure anche pesanti nei confronti del Governo italiano, quest’ultimo spesso

sbilanciato più verso il contenimento degli oneri e degli obblighi in capo ai datori

(insomma, delle spese), che verso l’effettivo realizzo del fondamentale (e costituzionale)

diritto alla salute: si veda, in proposito, anche la condanna inflitta dalla Corte di Giustizia

CE (Quinta Sezione) con sentenza del 15 novembre 200130, motivata dall’assenza nel

nostro ordinamento di prescrizioni secondo cui il datore debba valutare tutti i rischi per la

salute e la sicurezza esistenti sul luogo di lavoro, dall’aver consentito al datore di decidere

se fare ricorso o meno a servizi esterni di protezione e di prevenzione, quando le

competenze interne all’impresa sono insufficienti e dal non aver definito le capacità e le

I

29 In Foro italiano, Bologna, 1988, p.1031 ss. Con nota di ROSSI A.

79

30 Può leggersi in: Sicurezza sul lavoro: una dura condanna per Italia (con nota di commento di PASQUARELLA V.), in l lavoro nella giurisprudenza, Milano, 2002, pp.1041 ss.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

attitudini di cui devono essere in possesso le persone responsabili delle attività di

protezione e di prevenzione dei rischi professionali per la salute e la sicurezza dei

lavoratori.

Tra l’altro – vien da ricordare – nella stessa emanazione d’una normativa

prevenzionistica di carattere generale si evidenziano gravi ritardi e sconcertanti

inadempienze del nostro legislatore: per esempio, disattendendo le previsioni della legge

n.833 del 24 dicembre 1978 (sulla riforma sanitaria, istitutiva del servizio sanitario

nazionale), la quale prevedeva all’art.2431 specifica delega all’Esecutivo all’emanazione di

un testo unico, riordinatore e innovativo, in tema di sicurezza sul lavoro, delega non

80

31 Interessante può essere la lettura di alcuni criteri direttivi previsti da detto articolo (legati, poi, alla previsione della determinazione di graduate sanzioni per i casi d’inosservanza delle disposizioni da emanare), al fine d’evidenziare come la consapevolezza della necessarietà d’una riforma “seria” e completa della materia della sicurezza e igiene sul lavoro fosse ben precisa e già “articolata”. Era stabilita, difatti, la necessarietà di: 1) assicurare l’unitarietà degli obiettivi della sicurezza negli ambienti di lavoro e di vita, tenendo conto anche delle indicazioni della CEE e degli altri organismi internazionali riconosciuti; 2) prevedere l’emanazione di norme per assicurare il tempestivo e costante aggiornamento della normativa ai progressi tecnologici e alle conoscenze derivanti dalla esperienza diretta dei lavoratori; prevedere l’istituzione di specifici corsi, anche obbligatori, di formazione antinfortunistica e prevenzionale; 4) prevedere la determinazione dei requisiti fisici e di età per attività e lavorazioni che presentino particolare rischio, nonché le cautele alle quali occorre attenersi e le relative misure di controllo; 5) definire le procedure per il controllo delle condizioni ambientali, per gli accertamenti preventivi e periodici sullo stato di sicurezza nonché di salute dei lavoratori esposti a rischio e per l’acquisizione delle informazioni epidemiologiche al fine di seguire sistematicamente l’evoluzione del rapporto salute-ambiente di lavoro; 6) stabilire: a) gli obblighi e le responsabilità per la progettazione, la realizzazione, la vendita, il noleggio, la concessione in uso e l’impiego di macchine, componenti e parti di macchine, utensili, apparecchiature varie, attrezzature di lavoro e di sicurezza, dispositivi di sicurezza, mezzi personali di protezione, apparecchiature, prodotti e mezzi produttivi per uso lavorativo ed extralavorativo, anche domestico; b) i criteri e le modalità per i collaudi e per le verifiche periodiche dei prodotti di cui alla precedente lettera a); 7) stabilire i requisiti ai quali devono corrispondere gli ambienti di lavoro al fine di consentirne l’agibilità, nonché l’obbligo di notifica ad autorità competente dei progetti di costruzione, di ampliamento, di trasformazione e di modifica di destinazione di impianti e di edifici destinati ad attività lavorative, per controllarne la rispondenza alle condizioni di sicurezza; 8) prevedere l’obbligo del datore di lavoro di programmare il processo produttivo in modo che esso risulti rispondente alle esigenze della sicurezza del lavoro, in particolare per quanto riguarda la dislocazione degli impianti e la determinazione dei rischi e dei mezzi per diminuirli; 9) stabilire le procedure di vigilanza allo scopo di garantire la osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro; 10) stabilire le precauzioni e le cautele da adottare per evitare l’inquinamento, sia interno che esterno, derivante da fattori di nocività chimici, fisici e biologici; 11) indicare i criteri e le modalità per procedere, in presenza di rischio grave e imminente, alla sospensione dell’attività in stabilimenti, cantieri o reparti o al divieto d’uso di impianti, macchine, utensili, apparecchiature varie, attrezzature e prodotti, sino alla eliminazione delle condizioni di nocività o di rischio accertate; 12) determinare le modalità per la produzione, l’immissione sul mercato e l’impiego di sostanze e di prodotti pericolosi; 13) prevedere disposizioni particolari per settori lavorativi o per singole lavorazioni che comportino rischi specifici; 14) stabilire le modalità per la determinazione e per l’aggiornamento dei valori-limite dei fattori di nocività di origine chimica, fisica e biologica di cui all’ultimo comma dell’articolo 4, anche in relazione alla localizzazione degli impianti; 15) prevedere le norme transitorie per conseguire condizioni di sicurezza negli ambienti di lavoro esistenti e le provvidenze da adottare nei confronti delle piccole e medie aziende per facilitare l’adeguamento degli impianti ai requisiti di sicurezza e di igiene previsti dal testo unico; 16) prevedere il riordinamento degli uffici e servizi della pubblica amministrazione preposti all’esercizio delle funzioni riservate allo Stato in materia di sicurezza del lavoro; 17) garantire il necessario coordinamento tra le funzioni esercitate dallo Stato e quelle esercitate nella materia delle regioni e dai comuni, al fine di assicurare unità di indirizzi e omogeneità di comportamenti in tutto il territorio nazionale nell’applicazione delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro; 18) definire per quanto concerne le omologazioni: a) i criteri direttivi, le modalità e le forme per l’omologazione dei prototipi di serie e degli esemplari unici non di serie dei prodotti di cui al precedente numero 6), lettera a), sulla base di specifiche tecniche predeterminate, al fine di garantire le necessarie caratteristiche di sicurezza; b) i requisiti costruttivi dei prodotti da omologare; c) le procedure e le metodologie per i controlli di conformità dei prodotti al tipo omologato.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

attuata nonostante le sue varie reiterazioni, e attendendo solamente prescrizioni di

stampo comunitario che nettamente, improcrastinabilmente, esigevano tal opera

d’innovazione, ha impiegato quasi quarant’anni nell’adeguamento (se non

giurisprudenziale) normativo della delicata materia.

In buona sostanza, riportandoci ancora allo specifico oggetto del nostro

commento, la parte datoriale sembra aver avuto buon gioco a difendersi fidando

nell'ignoranza informatica degli stessi ricorrenti (nessuno è entrato nel merito

dell'inesistenza di "programmatori" tra gli addetti al lavoro, cui veniva pacificamente

riconosciuta l'indennità in questione, né sulla sparizione del sistema "meccanografico") e

comunque degli operatori di giustizia, rappresentando apoditticamente una realtà, che è

diversa e contraria rispetto a quella che sarebbe emersa quando qualificata con stretto

riferimento alla precisa e inequivoca terminologia informatica esistente.

In tal guisa, nel caso di specie (in una delle sentenze esaminate) si nega che

l'addetto alle prenotazioni dei posti e al rilascio dei titoli di viaggio operi su videoterminali,

preferendosi parlare (del tutto a sproposito e in materia sicuramente telematica, per il

collegamento costante con un operatore centrale) di personal 'computers' (rec ius, in

italiano, compu er, invariabile). Ora, a parte il fatto che anche un personal computer,

specie quando collegato ad Internet usa lo schermo e la tastiera come videoterminale - in

senso tecnico - certamente costituisce videoterminale il sistema di tastiera e schermo,

collegati ad un elaboratore centrale, cui operano continuativamente ed esclusivamente,

gli addetti alle teleprenotazioni e al rilascio dei titoli di viaggio, sia quando collegati ad

Internet, sia quando collegati ad Intranet.

t

t

Altro che 'bigliettai', come, forse dispregiativamente, certo affrettatamente, si è

scritto in una delle decisioni. Si tratta di impiegati, spesso qualificati ‘sovrintendenti’,

comunque d’elevata specializzazione, per la delicatezza e la ponderosità della materia,

regolata sovente da norme cogenti, come sanno bene gli studiosi di diritto dei trasporti.

81

Probabilmente, sulla base di suggerimenti ingannevoli delle difese del soggetto

datoriale, fuorvianti intenzionalmente, per mera arguzia e legittima accortezza difensiva,

dall’effettiva rappresentazione della realtà lavorativa, vengono sovente adottati in

giurisprudenza i termini di "analista", "programmatore", oltre che "Centro

meccanografico" in senso manifestamente improprio (anche se alcune di queste

espressioni, nel loro significato corretto, sono entrate nel linguaggio comune ed è quindi

censurabile un’adozione terminologica palesemente approssimativa).

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Anzi, reputiamo che la violazione della norma contrattuale riflette - in qua par e -

una ben più grave violazione, quella della normativa comunitaria e della norma penale

interna, a tutela della salute del lavoratore. Tutto infatti lascia pensare che il ricorso a

sistematiche CTU, appena approfondite - traendo spunto dalla violazione della norma

contrattuale – avrebbe suscitato pochi dubbi sulla coincidente violazione (almeno

pregressa e parziale) della norma lavoristica e della norma penale.

t

t t

Il problema non riguarda una singola categoria, ma tutta una serie di categorie di

lavoratori, che operano, per di più continuativamente, ai videoterminali. Le Ferrovie dello

Stato e con esse la giurisprudenza in materia, prevalentemente avversa al riconoscimento

indifferenziato dell'indennità in discorso a tutti i lavoratori che operano ai videoterminali,

ha sempre sostenuto che il trattamento richiesto spetti esclusivamente agli "analisti e ai

programmatori informatici" delle FS. In tal guisa, la sentenza n.520 del 2003 conferma

che l'indennità in questione spetterebbe a chi è "addetto esclusivamente ai terminali" e

non a "tutti [gli altri] dipendenti che invece fanno uso anche frequente di questo

strumento", cui viceversa non spetterebbe.

Da notare che nessuna indagine o consulenza tecnica o istruttoria (né in primo

grado né in sede di gravame) risulta essere stata effettuata per accertare il criterio della

esclusività e della continuità dell'applicazione. Si deve, in ogni caso - aggiunge la

giurisprudenza qui censurata - trattare di un'applicazione "in via continuativa ai terminali"

e, in particolare (ma è cosa evidentemente diversa, nella sua specificazione), di

un'<<applicazione in via continuativa agli impianti dei Centri Meccanografici>>32. Si

tratta di mansioni distinte da "quelle diverse di addetto a carico e scarico contabile" (ove

mai si effettuerà il carico e scarico con abile, se non al compu er, non è dato sapere) e

comunque diverse da quelle degli "addetti alla programmazione delle procedure

informatiche", e alla "elaborazione e trasmissione dei dati". Inoltre, proprio sulla

definizione della “continuità” occorre soffermarsi un momento ancora, poiché tale

concetto è molto più complesso, connesso a problemi anche molti gravi e fecondo di

rilevanti conseguenze33, assai più significative di quanto le sentenze qui esaminate e,

chiaramente, la difesa datorile lascino intendere.

32 Si veda ancora sul Lessico la voce “Meccanografico”.

82

33 In primo luogo, certamente, riferendoci ad un’ottica di tutela della salute, in base alla quale, in luoghi di lavoro “informatizzati”, sono stati frequentemente, e da oramai lungo tempo, emanati provvedimenti d’urgenzaex art.700 c.p.c. Si veda, per esempio, l’ordinanza, in materia d’idoneità delle condizioni di lavoro avverso eventi dannosi per i lavoratori addetti a videoterminali, emessa il 19 maggio 1986 dalla Pretura di Roma (in Foroitaliano, Bologna, 1988, pp.1033 ss., con commento di ROSSI A.).

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Anche nello stesso incontestato ambito dei videoterminali la lettura di tale carattere

è tutto fuorché riduttiva: allo scopo di valutare la possibile sussistenza di una

conseguente malattia professionale, ad esempio, studiando appunto il rapporto di causa-

effetto tra mansioni svolte e patologia accusata, è oramai indiscutibilmente affermato

come un’esatta distinzione tra lavoro di tipo continuo da lavoro di tipo discontinuo allo

schermo sia analisi, oltreché difficile, necessaria ma non sufficiente (materia

sdrucciolevole se troppo rigidamente affrontata), giacché talune mansioni collaterali,

inevitabilmente collegate ad un lavoro su e con video, richiedono un impegno visivo

altrettanto elevato quanto quello del lavoro al vdt, per cui devono essere non solo

considerate obbligato prolungamento e antecedente del “lavoro video”, ma pure fattori

causali dell’evento imputato34.

Altra sentenza (la n.502 del 1999) è assai più elaborata, probabilmente perché nel

1999 non si era ancora consolidata una giurisprudenza del Tribunale di Napoli (quale

giudice di appello) sfavorevole alla tesi di un'applicazione diffusa a tutti i lavoratori

operanti comunque ai videoterminali con quella continuità ed esclusività propria degli

addetti ai cosiddetti "Centri meccanografici"35. Le motivazioni sono ricche di spunti

interessanti, seppure non adeguatamente approfonditi e più di una volta confliggenti con

la soluzione definitivamente accolta nel dispositivo. In ogni caso, pur essa respinge le tesi

proprie del ricorrente, secondo cui l'indennità in questione spetterebbe a tutti gli addetti

ai centri meccanografici ed elettronici (qui l'espressione è generica, nel senso che per il

lavoratore - par di capire - vi sarebbero più centri elettronici e meccanografici).

t

34 Si rinvia, in merito, a quanto esaurientemente esposto nelle pregevoli motivazioni della sentenza del 2 maggio 1996, emessa dalla Pretura circondariale di Torino, avente ad oggetto un’imputazione di reato ex artt.590, commi 1, 2 e 3, e 583, comma 1 n.1, c. p., connessa alla presunta violazione di norme d’igiene e sicurezza del lavoro nell’utilizzo lavorativo di videoterminali, che possono leggersi agevolmente in: http://www.rinascita.it/mascare ti/Enelsent.htm.

83

35 A mo’ di esempio, si veda la sentenza n.289 dell’11 novembre 1993, emessa dalla Pretura di Napoli (inedita). Tale sentenza testualmente affermava che “[…] con l’introduzione del videoterminale nella biglietterie, il lavoro degli addetti alle medesime si svolge essenzialmente operando sul terminale, con le uniche pause costituite dalla consegna del biglietto, e pertanto l’esclusione dal suddetto beneficio [di cui alla circolare del 22 aprile 1987 prodotta dalle FS, sul presupposto che la consultazione del video costituisse solo uno dei momenti operativi di un’attività più complessa] non appare minimamente giustificata, non potendosi più considerare, l’applicazione al video, un momento di una funzione composita, ma essendo, al contrario, caratterizzata dalla continuità; inoltre, stando così le cose, tanto più appare ingiustificata la citata esclusione, ove si consideri che gli operatori del C. C. R., i quali, come è pacifico tra le parti, in quanto non contestato dalla società, operano sugli stessi videoterminali, usufruiscono dell’indennità de quo. D’altronde la stessa Direzione Generale dell’Ente FS, nel dettare, con la circolare del 13 ottobre 1992, disposizioni di aggiornamento della circolare precedente, partendo dalla considerazione che oggi l’uso del videoterminale nelle biglietterie è oramai normale, ha statuito non più valida l’esclusione delle biglietterie dalla disciplina dell’igiene e sicurezza del lavoro ai video terminali, ritenendo evidentemente che l’ambiente di lavoro delle biglietterie fosse uguale a quello esistente presso i Centri Elettronici e Meccanografici: pertanto dalla affermata applicabilità agli addetti alle biglietterie della suindicata disciplina, ne deriva che anche ai medesimi spetta l’indennità in parola”.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Solo la normativa di applicazione dell'art.20 della l. n.57/74 e del d.m. 5.2.85,

n.256 (emesso per l'attuazione della legge) ossia le circolari delle FS dell'8.5.1985 e del

22.4.1987, avrebbero operato scriminando tra lavoratori operanti, con medesima

continuità ed esclusività, sui medesimi terminali specificati (il MAIL 401, espressamente

nominato). Identico sarebbe stato il pericolo per la propria salute (si apre uno spiraglio in

tema di semplice quantificazione economica dei rischi alla salute) tra lavoratori ammessi

ed esclusi al godimento dell'indennità in questione, identico il videoterminale utilizzato

quale strumento di lavoro. Solo che agli <<addetti allo schedario>> (si rammenti che le

preesistenti schede perforate erano progressivamente sparite con l'introduzione degli

elaboratori elettronici e certamente nel 1985 e nel 1987, quando erano state emanate le

circolari discriminatorie) veniva assicurata l'indennità in discorso, nonché "rotazioni" e

"pause lavorative", mentre gli altri lavoratori, tra cui gli addetti all'emissione dei titoli di

viaggio e alla teleprenotazioni dei posti, erano costretti a operare continuativamente

(senza rotazioni né pause) su quei medesimi videoterminali. Il d.m. 274/83 avrebbe, poi,

contenuto una definizione di “centro meccanografico” in base alla quale non era

consentiva l’esclusione dell’indennità in discorso al ricorrente (si adombra qui – in modo

inadeguato – al tema essenziale della corrispondenza tra le espressioni normative e il

corrente significato delle stesse).

84

Si tratta, tanto per cominciare, di comprendere quale significato attribuire

all’espressione “centro meccanografico” dopo la sparizione del sistema meccanografico

con l’avvento dei computer. Può l’espressione certamente essere assunta con riferimento

al linguaggio storico-burocratico, identificandosi in tal guisa gli uffici dove – alla fine degli

anni ’60 e all’inizio degli anni ‘70 - si lavorava col sistema delle schede perforate. Diverso

discorso ove si guardi alla concreta attività lavorativa. Tutto, infatti, lascia credere che

l’espressione, se riferita alla oggettiva attività lavorativa, abbia assunto un ruolo surreale.

Parlare oggi di lavoro “meccanografico”, notoriamente inesistente, e da circa tre decenni,

significa ricostruire il fatto storico come in una ‘finzione scenica’ (anzi come in una farsa,

per chi ritenga che non sia dato sorridere quando siano in gioco la salute e i diritti dei

lavoratori, come tutelati dalla giustizia). Si tratterebbe comunque di muoversi come in

una sorta di messinscena, posta in essere da un abile datore di lavoro, per negare una

assai misera indennità ai suoi dipendenti, mentre contemporaneamente svuota le esauste

casse erariali distruggendo il sistema tradizionale delle Ferrovie dello Stato. In realtà,

volendo accennare, Trenitalia spa - ex Ferrovie dello Stato, comunque successivamente

denominate - si presenta formalmente in attivo, avendo, in un sistema di ‘scatole’

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

parallele, ‘divisionalizzato’ la sua struttura in ‘divisione trasporto regionale’, ‘divisione

trasporto passeggeri’, ‘divisione cargo’ (trasporto merci, fortemente passivo) e RFI, che

ha acquisito il patrimonio della Rete e delle stazioni, trasferendo certamente le voci

passive prevalentemente sui bilanci regionali dei trasporti (le Regioni essendo i suoi reali

clienti, quanto al trasporto passeggeri) e attingendo comunque fortemente al bilancio

dello Stato, specie per le innovazioni. Quanto ai mutamenti del tradizionale sistema

ferroviario, essi coinvolgono il tema della sicurezza dell’ <<esercizio>> ferroviario; di

riduzione del personale, compresi i “macchinisti”, ridotti ad operare come <<agente

unico>>, mentre si preconizza l’avvento dell’<<agente solo>> nella cabina di guida

(sottile distinzione, quella tra ‘agente unico’ e ‘agente solo’, quest’ultimo da intendersi

come macchinista operante appunto da solo, supportato da un rudimentale sistema

sostitutivo di vigilanza, denominato appunto ‘vigilante’ e che prevede l’obbligo del

macchinista di tastare un pulsante ogni sessanta secondi, per tacitare un allarme

acustico, che, se non tacitato, arresta automaticamente il treno, annullati la presenza e

l’ausilio di un capotreno, oggi previsto, che in caso di malore del macchinista, possa

tentare fortunosamente – per esempio, spegnendo la macchina o azionando una

frenatura d’emergenza – cui è abilitato - di evitare un disastro ferroviario, evento già da

tempo degradato da esito tecnicamente imprevedibile, salvo errore umano, a ‘rischio

statisticamente prevedibile’ e astrattamente calcolato negli eventuali ‘costi’); e ancora: il

tema della minor certezza del posto di lavoro, dei mutamenti nella gestione previdenziale

del rapporto, del trasferimento delle risorse e del personale ad altri enti. Ma, questo,

come suol dirsi, è un altro, discorso (in larga parte, tutto diverso e, nella sua scontata

complessità, certo essenzialmente assai più grave).

In ogni caso, entrambe le sentenze appena citate insistono nel parlare di

elaborazione elettronica connessa alla concessione dell’indennità in questione.

Non è dato sapere a noi, estranei alle FS, quanti e dove saranno mai detti

programmatori e analisti (che poi – almeno questo lo sappiamo - sono la stessa cosa e

sono gli addetti all'elaborazione algoritmica di programmi, secondo la logica di Boole36)

dal momento che i software delle FS sono previamente acquistati sul libero mercato e

solo applicati (non elaborati) dai singoli operatori, compresi gli addetti ai videoterminali.

O, forse, sbagliamo di grosso quando scorgiamo solo mala fede (o legittimo gioco

dialettico-processuale) nel comportamento della parte datoriale: potrebbe sembrare,

85

36 Fondata su strutture algebriche relative a valori di verità (‘vero’-‘falso’; ‘+’ o ‘-‘) in un sistema assiomatico, basato sulla logica classica.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

infatti, quasi che le FS vogliano in qualche maniera attutire lo storico problema della

mancanza di tutela reale degli autori, specie informatici, concedendo loro la speciale

indennità meccanografica. Ciò, nonostante, tutt’al più, a fronte della mancanza di tutela

di tali “finti” analisti e operatori, null’altro notiamo che un parallelismo con ciò che accade

con i programmatori “veri”. E’ infatti troppo noto, per doverlo qui ricordare, che agli

analisti il mercato – interno e globale - nega di fatto la tutela del diritto d’autore. La SIAE,

per l’Italia, si accontenta – ed è vivamente deplorato dalla dottrina giuscibernetica - del

mero pagamento in suo favore del relativo “bollino Siae” sulle copie dei singoli

programmi. Tanto scarsa è la tutela del diritto d'autore che gli analisti stessi, per dar

conto (in occulto) della propria esistenza, sono costretti a celarsi dietro formule

cibernetiche criptiche, ufficialmente non esistenti (le cosiddette “uova di Pasqua”), che

danno vita – quando rintracciate – a sorprendenti, impreviste (e non volute certo dal

committente,37 costretto a subirle) apparizioni sullo schermo (anche su Win Word). Del

resto - sia consentita una breve parentesi storica – in un’analisi appena dettagliata sulle

sue origini, si vede chiaramente come il così detto copyright nasca a tutela di interessi

ben diversi che da quelli dell’autore. Più nel dettaglio, si può certo affermare che il

copyright storicamente null’altro sia che un sottoprodotto della privatizzazione della

censura governativa nell’Inghilterra del sedicesimo secolo, in un’epoca in cui la recente

diffusione della macchina per stampare faceva sorgere il problema per le troppe opere in

circolazione, potenzialmente fuori controllo governativo. Conseguentemente, fu, nel

1556, prodotta la Charter of the Stationers’ Company (Carta della Corporazione dei Librai)

che istituì la London Company of Stationers (Corporazione dei Librai di Londra), cui fu

attribuito il monopolio in materia di stampa, sia su nuove che su vecchie opere: nessun

libro poteva esser stampato se non fosse stato iscritto nell’apposito registro della

corporazione, e tale iscrizione non era consentita se non si fosse preventivamente

passato il vaglio del censore della Corona. I nuovi libri venivano dunque immessi nel

registro della corporazione sotto il nome di un membro di essa, non dell’autore, e la

Court of Assistants di tale organismo sanava eventuali dispute tra membri interne alla

stessa. Agli Stationers fu dato il potere di fare “ordinanze, condizioni e leggi” per la

gestione dell’”arte o mistero della scrittura”, quello di cercare stamperie, oggetti e libri

illegali e insieme di “requisire, prendere o bruciare i suddetti libri e oggetti, e qualsiasi di

86

37 Le cosiddette “uova di Pasqua” non sono certo volute dal committente, perché appesantiscono il programma, al quale non sono certo funzionali e servono solo a soddisfare l’ego del programmatore, che si propone nella sua esistenza, facendo sfoggio della sua abilità. Anzi, proprio una qualche ingiustificata lunghezza del programma è indizio dell’esistenza della formula criptica.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

essi stampato o da stampare in contrasto con la forma di ogni statuto, atto o

proclamazione”. L’azione che riteniamo più aberrante tra tali facoltà, ovverosia quello del

rogo di libri, ci mostra in modo chiaro la perfetta saldatura di interessi tra i soggetti

protagonisti di tale episodio, rivestendo congiuntamente la veste di strumento di censura

e controllo statale e di arma puramente economica contro la concorrenza. Quando

l’interesse pubblico al mantenimento di tale forma di dominio va progressivamente

scemando, il copyright sopravvive quasi esclusivamente come regola economica e criterio

principalmente di profitto, correlato ad una funzione e successivamente ad una dinamica

che ne fanno, senza ambiguità, più che il prodromo, proprio lo speculum di quell’istituto

oggi così diffuso e “portante” nella sua moderna natura. Difatti, a seguito di pressioni da

parte delle lobby di potere interessate, che pure si atteggiavano falsamente a paladini

degli autori ingiustamente defraudati dinanzi ad un naturale diritto di creazione

misconosciuto e vituperato, mentre in realtà miravano ovviamente a sovvenzionare sé

stesse, fu approvato nel 1710 lo Statute of Anne (Statuto di Anna), in cui formalmente il

“diritto d’autore” spettava propriamente a quest’ultimo, ma, nel concreto, la possibilità

che esso fosse trasferito, al pari di una qualunque altra forma di proprietà, gettava le

premesse per un inevitabile passaggio e sfruttamento economico da parte di un soggetto

altro, l’editore38. Così, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury aveva proiettato (1978)

poeticamente e fantasticamente nel futuro quello che effettivamente era già avvenuto, in

qualche modo, all'origine del copyright. Pure, a voler appena guardar, quel rogo non si è

mai veramente spento, giammai lo si è voluto davvero estinguere, del tutto sedare.

Anche oggi, ogni giorno, nell'epoca di riproducibilità tecnica dell'opera d'arte mirabilmente

analizzata da Walter Benjamin, bruciano in quelle fiamme oltre a lavori invisi alla

'sempreverde' censura (concetto questo pericolosamente disancorato a ferme certezze di

diritto) copie di opere definite testualmente 'illegali' (insomma, copiate senza il

pagamento dei 'diritti d'autore' o, più spesso e rec ius, dei 'diritti d'editore', prive cioè

dell'aver versato la percentuale dell'emolumento editoriale). Ciò, certo non a improbabile

protezione della passata "aura".

t

87

38 Per queste riflessioni: FOGEL K., The promise of a post-copyright world, in http://www.red-bean.com/kfogel/writings/copy ight.htmlr , nonché PATTERSON L. R., Copyright and ‘The Exclusive Right’ of authors, in http://www.lawsch.uga.edu/jipl/old/vol1/patterson.html. Per uno sguardo sugli scenari odierni di tale antica disputa, che oggi vedono la diffusione in Internet come privilegiato luogo di scontro tra una concezione di libera circolazione dei saperi e della conoscenza, con forme indirette di tutela del diritto, anche economico, dell’autore (copyleft) e la vecchia, rigida concezione di opere di cultura come proprietà (copyight, appunto), si rinvia a http://www.gnu.org (in particolare sui nuovi strumenti, tecnici e giuridici, di restrizione alla condivisione di materiale in ambito informatico, si veda: http://gnu.org/philosophy/righ -to read.htmlt - ).

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

In ogni caso, riportandoci nuovamente al cuore della nostra questione,

contraddicendo l’intera dottrina del diritto dell’informatica, la spa relativa alla Rete

Ferroviaria Italiana (comunque di volta in volta denominata) ci informa

sorprendentemente che essa (essa sola, beninteso) conosce viceversa i suoi analisti, li

conosce addirittura dal 1974 (anzi, più precisamente, dalla metà degli anni ‘80, quando si

diede disciplina alla normativa del 1974) e sono appunto quelli (essi solo) a cui spettano

le 800 lire giornaliere (oggi, secondo la necessaria conversione, pari, col doveroso

arrotondamento, a 0,41 centesimi di euro) percepite per l'applicazione, che all’inizio si

pretendeva continuativa e ininterrotta agli schermi dei videoterminali. Se la stessa

ininterrotta applicazione fosse pretesa oggi, bisognerebbe trasmettere gli atti alla Procura

competente stante il divieto penale di una così lunga applicazione al compu er e/o al

videoterminale, che sappiamo causa, già scientificamente confermata in ambito medico e

oftalmologico, di specifiche malattie professionali, quali, per esempio, la cosiddetta

“sindrome astenopica”, detta propriamente anche “astenopia del videoterminalista”, oltre

che di tutta una lunga (e poco definibile) serie di possibili danni e pericoli per la salute e

sicurezza del prestatore di lavoro (variamente manifestabili così come sono variamente

combinabili gli elementi oggettivi del lavoro e soggettivi del lavoratore). Ciò, ovviamente,

va rapportato e coordinato non solo con la generale normativa di tutela, ma anche con le

pause e le rotazioni previste dalle stesse circolari FS, evidenziando, dunque, una

conseguente contraddizione insita nello stesso linguaggio della parte datoriale.

t

Si comprende allora come, nelle decisioni considerate, i ricorrenti, che non erano

analisti né svolgevano il ruolo di “programmatore informatico” – o come dir si voglia -

rivendicavano il pagamento della predetta indennità, ancorché modesta, per essere

addetti pressoché continuativamente e ininterrottamente – e comunque

prevalentemente, secondo i tempi e le modalità della previsione normativa – all’uso dei

videoterminali in un contesto che può anche essere definito "Centro meccanografico",

qualora questa definizione di comodo, artificialmente imposta dalle FS per eludere la

disciplina contrattuale, rappresenti l'unico elemento discriminante per il conferimento

dell'indennità dovuta.

88

Essi, infatti, assumevano di svolgere un lavoro identico, con gli stessi computer, in

collegamento pur essi con elaboratori centrali, e pure con applicazioni indicate come più

intense e più gravi di altri lavoratori (come gli addetti agli ‘Ufficio schedario’) che

percepivano pacificamente l'emolumento in discorso (e che non erano né sono né

analisti, né programmatori, ma addetti, anche, alla ricerca - e anche fuori stanza e ‘sul

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

piazzale’ e presso le ‘gestioni’ e gli ‘uffici veicoli’ - di dati da immettere nel terminale

elettronico). Muta l'oggetto della ricezione e della immissione dei dati (l'uno ricerca i

numeri di carri e vetture, l'altro prenotazioni e biglietti) non le modalità del lavoro e il tipo

di lavoro, abusivamente e con dolosa (nel senso di ingannevole) rappresentazione,

diversamente denominati.

Anche se fosse stato vero che il lavoratore addetto alla teleprenotazione dei posti e

all’emissione dei titoli di viaggio – come pretendono le FS e come talora recepito dalla

giurisprudenza - fosse stato addetto alla sistematica “consultazione delle pubblicazioni di

servizio” (saranno le biglietterie dei nuovi e inaspettati centri di studio e di ricerca? sarà

stata, secondo un’impostazione, sempre più apprezzata, frutto di una collaborazione

azienda-ricerca, un'iniziativa congiunta FS-MIUR?); anche se (in contrasto con le

disposizioni di servizio) avesse fatto concorrenza all’Ufficio informazioni, presente nello

stesso impianto, dando qualche informazione, nel rilasciare il biglietto di viaggio; anche

se il lavoratore aveva sempre a fine giornata chiuso la contabilità, col foglio di consegna

dell’apposito registro, egli sempre per le ore di servizio e per tutte le ore di servizio,

trattandosi di grande impianto, era stato applicato allo schermo del videoterminale (dove

altro sennò?). Lo era stato per un tempo di gran lunga superiore a coloro che

pacificamente percepiscono detta indennità solo per essere addetti all'uso dei

videoterminali (incomprensibile sul punto, ricordiamo ancora una volta, che non risulti –

in numerosissime sentenze – essersi fatto ricorso ad una C.T.U.).

Comunque, è impensabile che un qualsiasi addetto ai videoterminali, lo stesso

“programmatore”, in qualsivoglia modo inteso, per l’intera giornata lavorativa (il che è

penalmente vietato), non abbia avuto la facoltà di volgere lo sguardo dallo schermo, di

rispondere a una domanda, di chiedere qualcosa, di rispondere a una telefonata di

servizio. Impensabile che da queste interruzioni dell’attività (evidentemente necessarie al

servizio stesso e per qualsiasi operatore) si voglia negare o ammettere il riconoscimento

dell’indennità in discorso.

89

Altre attività lavorative, come quelle espletate dai Capostazioni addetti alla

‘circolazione treni’ si svolgono dinanzi ad apparecchi che rappresentano graficamente il

‘fascio’ di binari e ‘il nodo’ della circolazione dei treni, apparecchi che quindi non

sembrano videoterminali, né computer, ma che costituiscono egualmente una raffinata

ed evoluta variante applicativa dell’elaboratore elettronico. Va rilevato solo che si tratta di

prestazioni di estrema responsabilità e molto gravose (si tratta di decidere in ‘tempo

reale’ – e in condizioni normalmen e stressanti - la direttiva del traffico di un intero

t

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

settore della circolazione, come per l’ingresso e la fuoriuscita dei treni in e da un grande

Impianto, quale Roma Termini, Napoli Centrale, ecc.). Anche per tali prestazioni

lavorative riteniamo assolutamente applicabili, necessarie ed operanti le medesime

normative sulla tutela sanitaria di chi sia applicato al computer (coincidenti o in aggiunta

alle normative di tutela degli addetti alla circolazione), compresa l’indennità

‘meccanografica’, ogni volta che sia normativamente e/o contrattualmente prevista

(riguardando evidentemente il problema anche tutti gli addetti alla circolazione dei treni

delle numerose linee ferroviarie diverse da quelle di Trenitalia).

Nessun pregio riveste poi la scriminante secondo cui gli addetti alla biglietteria e al

carico e scarico ‘contabile’ (ossia innanzi all’elaboratore) del materiale operavano sì

innanzi al videoterminale, ma quest’ultimo era <<in sostituzione dei normali strumenti di

lavoro>>. Infatti, anche tutti gli addetti ai ‘Centri meccanografici’ operano innanzi ai

videoterminali, in sostituzione del sistema meccanografico (a schede perforate), che,

come s’è detto, è inesistente da decenni (sostituito dai compu er). A parte la

considerazione che anche i biglietti venivano in origine rilasciati col sistema delle schede

perforate.

t

Occorre allora, dinanzi alla confusa motivazione recepita nella giurisprudenza

esaminata, riassumere brevemente - per apici sommi - i termini della questione, sia con

riguardo a elementari riferimenti di carattere processuale, dommatico e costituzionale, sia

(ancora nel merito) alla luce specifica di tutela della salute, tanto più che l'Italia è stata

condannata il 24 ottobre 2002 dalla giustizia della Comunità europea nella già

menzionata sentenza proprio per non aver ancora oggi <<definito le condizioni alle quali

debbono essere forniti ai lavoratori interessati dispositivi speciali di protezione in funzione

dell’attività svolta>>. Questione certo indipendente e non risolta dall’indennità in

discorso: anzi, non v’è dubbio che tale compenso almeno sfiori (a pieno titolo e per più

versi, quando venga conferito e quando venga negato) profili di “contabilizzazione” del

pericolo per la salute. In linea, peraltro, con la posizione giurisprudenziale,

prevalentemente propria di un tempo ormai passato, secondo cui la questione della tutela

della sicurezza del lavoro andava risolta soprattutto riferendosi ad una salvaguardia di

tipo assicurativo39 (sancita col d.P.R. 30 giugno 1965, n.1124, testo unico delle

90

39 Pur con la tendenza ad un’applicazione non restrittiva (ed anzi propria di una tutela ampia) dell’obbligo assicurativo. Si veda, in proposito, e specificamente in materia di videoterminali, la sentenza n.221emessa dalla Corte costituzionale il 16 ottobre 1986 (in Il diritto del lavoro, Roma, 1986, pp.548 ss., con nota di PICCININNO S.). La Corte, nel respingere la questione di legittimità costituzionale (in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., all’art.3, 1° comma Cost. nonché agli artt.3 e 53 Cost.) dell’art.1, 1° comma e 4 del d.P.R. 30 giugno 1965, n.1124 nella parte in cui impongono l’obbligo assicurativo ai lavoratori addetti alle macchine od occupati ove tali

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie

professionali). Tendenza alla quale, in ogni modo, andava già riconosciuto, in tema di

nuove tecnologie applicate al lavoro, e quindi anche rispetto ai vdt40, il merito di aver

letto la materia in chiave di non tassatività delle ipotesi da ricondurre nell’obbligo

assicurativo, rifiutando forvianti distinzioni tra soggetti che si occupano del

funzionamento di macchine potenzialmente pericolose e soggetti che di tali macchine se

ne avvalgono, nonché ribadendo presunzioni iuris et de iure dell’esistenza del rischio per

coloro che operano a contatto con apparecchiature elettroniche41. Importante, poi, più in

generale, da un punto di visto storico, per l’evoluzione della legislazione in materia di

sicurezza sociale, che ha visto l’abbandono dell’idea di rischio (infortuni) per giungere

all’imposizione di un’assicurazione obbligatoria, sganciata da ogni riferimento, anche

indiretto, alla responsabilità del datore di lavoro, e, ancor più, di un’assicurazione

automatica, garante del lavoratore anche indipendentemente dall’adempimento da parte

del datore di lavoro degli obblighi contributivi42. Dunque, da una natura prettamente

assicurativa ad una più ampliamente solidaristica. Comunque, la predetta indennità

appare certo destinata a rientrare oramai in quell’alveo di “archeologia giuridica”, frutto

remoto d’una stagione tanto <<povera di valori morali>> permeata d’una <<logica

contraria ad ogni principio etico e giuridico>>, volta a consentire la penetrazione

<<nell’area della causa negoziale, quale merce di scambio, [di] diritti fondamentali,

I r t t ttr

t

I t

macchine sono impiegate, anche quando non sussiste in concreto alcun rischio di infortunio, affermava che il rischio scarsamente apprezzabile non coincide né logicamente né giuridicamente con il rischio insussistente. Conseguentemente, come rileva PICCININNO, pur criticando una certa contraddittorietà e artificiosità dell’atto, il pregio di tale sentenza andava riscontrato nell’essere premessa di una (inevitabile) declaratoria espressa della illegittimità costituzionale di ogni norma soggettivamente limitativa della tutela antinfortunistica. Lo stesso A., inoltre, in altra opera ( soggetti p o et i nell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le mala ie professionale, in T attato di previdenza sociale, a cura di BUSSI B. e PERSIANI M., 1991, pp.244 ss.) denunciava la natura sociale e non statistico-assicurativa del rischio dell’evento infortunio tutelato dalla Costituzione. Conforme alla succitata sentenza anche la sentenza n.6838, emessa dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, l’8 agosto 1997 (in Foro italiano, Bologna, 1988, pp.1033 ss., con breve nota di ROSSI A.), la quale, sempre in materia di videoterminali, dichiarava l’irrilevanza, ai fini della soggezione all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, di qualunque accertamento relativo all’entità del pericolo e alla conseguente gravità del rischio, apprezzabile solo in sede di determinazione della misura del premio di assicurazione. In maniera analoga, nell’ottica della necessarietà della predetta assicurazione per i lavoratori facenti uso professionale di vdt, rientrando i terminali collegati con un centro meccanografico nella categoria degli apparecchi elettrici (per cui il pericolo è da premettersi) si era posta la precedente sentenza emanata dalla sezione lavoro della Corte di cassazione il 13 maggio 1985 (in Foro italiano, Bologna, 1986, pp.1397 ss., annotata da ROSSI A.). 40 Specifica in merito: Cass. 10 aprile 1979, in Foro i aliano, Bologna, 1986, p.2087. 41 Ancora, Cass. sez. lavoro, 13 maggio 1985, n.2975, cit.

91

42 TRABUCCHI A., stituzioni di diri to civile, Padova, 1993, pp.315 ss.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

inalienabili e non negoziabili>>43 e incentrata su di una “strana”, ambigua e inaccettabile

commistione tra “obbligo” e “diritto”.

……(segue)

92

43 MONTUSCHI L., La tutela della salute e la normativa comunitaria: l’esperienza italiana, in Rivista italiana di diritto del lavoro, Milano, 1990, p.387. L’A. presenta un’ottima ricostruzione dell’evoluzione dell’obbligo (e del diritto, pieno) della salubrità e dignità sul posto e nello svolgimento del lavoro, evidenziando come essa sia stata densa di contraddizioni e difficoltà, ma pure d’esaltanti e fertilissimi momenti d’esperienza collettiva.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

GIURISPRUDENZA

93

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

94

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

SEGNALAZIONI GIURISPRUDENZIALI 1

Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 13 settembre 2005, causa

C176/03* Ricorso di annullamento art. 29 UE, 31 lett. E) UE, 34 UE, 47 UE - Protezione

dell’ambiente - Sanzioni penali - Competenza della Comunità. La sentenza in questione, su ricorso proposto dalla Commissione delle Comunità

Europee in data 15 aprile 2003, dispone l’annullamento della decisione quadro del Consiglio 27 gennaio 2003 (200380GAI), relativa alla protezione dell’ambiente in campo penale. La questione risulta particolarmente interessante poiché riguarda la parziale armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri al fine della tutela ambientale, sollevando alcune interessanti questioni relative alla ripartizione di competenze fra Comunità e Consiglio.

* La sentenza sarà commentata nel prossimo numero della Rivista CORTE COSTITUZIONALE, 12 ottobre 2005, n. 397 Deposito in discarica dei rifiuti solidi: illegittimità della legge regionale che stabilisce

l’aumento del tributo emanata dopo il 31 luglio dell’anno precedente quello di riferimento.

:

La Corte Costituzionale ha ribadito che le Regioni non possono prevedere, con una legge emanata dopo il 31 luglio 2004, un aumento del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi con decorrenza 1 gennaio 2005, anziché 1 gennaio 2006. Infatti, una norma regionale che dispone la decorrenza dell’aumento del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi a far data dal 1 gennaio 2005, se emanata dopo il 31 luglio 2004, contrasta con l'articolo 3, comma 29, della legge 549/1995, secondo cui la legge regionale che fissa l’ammontare dell'imposta deve essere emanata “entro il 31 luglio di ogni anno per l'anno successivo”, intendendosi in caso contrario “prorogata la misura vigente”. Ciò perché - afferma il Giudice delle Leggi - il tributo in questione è di natura statale e non proprio degli Enti locali. La disciplina sostanziale dell’imposta rientra nella competenza esclusiva dello Stato ex articolo 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione.

CORTE COSTITUZIONALE, 24 ottobre 2005, n. 405 Disciplina delle professioni inellettuali illegittimità della legge regionale per

violazione dell’art. 117, co. 2, lett. g), in virtù della dimensione nazionale e dell’infrazionabilità dell’interesse sotteso.

La Corte costituzionale ha bocciato la legge regionale toscana n. 50/2004, affermando la riserva dello Stato in materia di professioni intellettuali. La legge dettava “disposizioni in materia di libere professioni intellettuali”. Spetta allo Stato prevedere specifici requisiti di accesso e ad istituire appositi enti pubblici ad appartenenza necessaria, cui affidare il compito di curare la tenuta degli albi nonché di controllare il possesso e la permanenza dei requisiti in capo a coloro che sono già iscritti o che aspirino ad iscriversi. La dimensione nazionale – e non locale – dell’interesse sotteso e dalla sua infrazionabilità comporta che ad essere implicata sia la materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”, che l'art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione riserva alla competenza esclusiva dello

95

1 consultabili, in versione integrale, on line nella relativa sezione del sito della rivista

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Stato, piuttosto che la materia “professioni” di cui al terzo comma del medesimo articolo 117 della Costituzione.

CORTE COSTITUZIONALE, 24 ottobre 2005, n. 408 Custodia cautelare: illegittimità della disposizione che consente l’adozione in tempi

successivi di più ordinanze applicative di misure cautelari in rapporto a fatti noti fin dall’inizio.

t

t

.

La recente sentenza affronta il problema della legittimità costituzionale dell’articolo 297, comma 3, Codice di Procedura Penale e ne stabilisce la fondatezza nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza siano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza. La Consulta, in tal modo è intervenuta sul problema della conformità a Costituzione della inapplicabilità del divieto della c.d. "contestazione a catena" in rapporto a provvedimenti coercitivi emessi per fatti diversi non in connessione qualificata ai sensi dell'art. 12, comma 1, lettere b) e c), del codice di procedura penale, dichiarando l’illegittimità del terzo comma dell’articolo 297 c.p.p..

CASSAZIONE, V Sez., 27 giugno 2005, n.13810 Principio dell’unicità dell’avviso di accertamento: l’assenza anche di uno solo degli

elementi informativi prescritti dall’art. 42 dpr n. 600/1973 comporta la nullità insanabile dell’intero atto.

La giurisprudenza di legittimità, riaffermando il principio di unicità dell'avviso di accertamento (cfr. conf. Cass., sentt. 4 marzo 1999, n. 1809 e 21 marzo 2001, n. 4061), sottolinea che l’accertamento, anche qualora riguardi più imposte, si estrinseca in un unico atto che non può essere parzialmente nullo sicché la mancanza di uno solo dei requisiti di legittimità previsti dall’art. 42 dpr n. 600/73, pur riferibile ad una sola delle imposte accertate, determina la nullità in toto dell’avviso.

CASSAZIONE, I Sez., 30 agosto 2005, n.17499 Applicabilità del principio della ragionevole durata (cd. legge Pin o) al processo

tributario nel caso di contenziosi che non investano specificamente la determinazione di un tributo.

La Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente sulla questione dell’applicabilità delle norme sulla ragionevole durata dei processi (legge 89/2001 c.d. legge Pinto) al contenzioso tributario affermando incidenter tan um che non si può a priori negare l'applicabilità della legge Pinto anche ai processi delle Commissioni Tributarie poiché le controversie che non investano in maniera specifica la determinazione di un tributo, ma solo aspetti ad essa consequenziali o che riguardino l'applicazione e/o determinazione di sanzioni di carattere tributario, sono sicuramente ricomprese nell'ambito di applicazione di tale normativa. La pronuncia conferma l’orientamento già espresso con le sentt. 17 giugno 2004, n. 11350 e 27 agosto 2004, n. 11350.

CASSAZIONE, V Sez., 9 settembre 2005, n.18012 Solidarietà passiva nel rapporto di imposta: la legge tributaria non opera una

qualificazione autonoma, sono applicabili i principi civilistici ex artt. 1292 ss. c.cI giudici di legittimità hanno chiarito che alla solidarietà passiva tributaria sono

applicabili i principi civilistici e, in particolare, quello ex art. 1306 c.c. ai sensi del quale solo gli effetti favorevoli sono estensibili nei confronti degli altri coobbligati in solido.

96

Secondo la Cassazione, quale che sia il fatto, l'atto o la norma da cui derivi la responsabilità solidale, la disciplina applicabile è quella dettata dagli artt. 1292 e ss. c.c.,

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

ispirata ai principi della piena autonomia dei rapporti sostanziali tra creditore e ciascuno dei condebitori e della non comunicabilità agli altri debitori degli effetti pregiudizievoli (o potenzialmente pregiudizievoli) degli atti compiuti nei confronti di un condebitore solidale. Da ciò discende, in materia di solidarietà passiva tributaria, che non trova alcun fondamento la distinzione tra solidarietà derivante da una norma del codice civile e solidarietà nascente da una norma tributaria.

CASSAZIONE, SS.UU., 13 settembre 2005, n. 18120 Contenziosi in materia di rimborsi: giurisdizione dell’A.G.O. qualora non residuino

questioni circa l’esistenza e la quantificazione dell’obbligazione tributaria. Le Sezioni Unite ribadiscono la competenza del giudice ordinario per le azioni di

ripetizione, qualora l'Amministrazione finanziaria abbia già riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione della somma dovuta, sicché non residuino questioni circa l'esistenza dell'obbligazione tributaria, il quantum del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato (la sentenza si inserisce in un filone consolidato: si vedano Cass., tutte a SS.UU., 22 luglio 2002, n. 10725; 26 gennaio 2001, n. 8; 4 settembre 2001, n. 11403).

CASSAZIONE, Sezione tributaria, 28.settembre.2005, n.19005 Accertamento delle imposte sui redditi d’impresa: l’incidenza del costo del lavoro

non può costi uire l’unico indizio su cui fondare l’accertamento induttivo. t

In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con particolare riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’incidenza del costo del lavoro sui ricavi, anche se ripresa da precedenti dichiarazioni dei redditi presentati dallo stesso contribuente, è un dato variabile, che muta nei vari anni in relazione all'andamento del mercato: pertanto, non può costituire l’unico dato indiziario su cui l’Amministrazione possa ancorare un accertamento induttivo.

CASSAZIONE, V sez., 5 ottobre 2005, n. 19403 Accertamento sintetico: gli indici presuntivi di capacità contributiva possono essere

applicati retroattivamente attesa la natura procedimentale dei dd. mm. 10 settembre e 19 novembre 1992, emanati per fini esclusivamente accertativi e probatori e non sostanziali.

La Corte di Cassazione ribadisce il suo costante orientamento in materia di applicazione degli indici di capacità contributiva, ex art. 38, comma quarto, dpr 600/1973, di cui ai dd.mm. 10 settembre 1992 e 19 novembre 1992.

La determinazione del reddito effettuata sulla base di tali indici dispensa l'A.f. da qualunque ulteriore prova rispetto alla esistenza dei fattori indice della capacità contributiva (già individuati nei decreti) e legittima in tal senso gli accertamenti fondati su tali fattori-indice, provenienti da parametri e calcoli statistici qualificati, restando a carico del contribuente l'onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore

97

La rettifica con metodo sintetico del reddito complessivo delle persone fisiche è legittima anche se retroattiva, cioè mediante l'applicazione agli anni anteriori dei coefficienti di reddito adottati ai sensi dell'art. 1 della L. 30 dicembre 1991, n. 413, attesa la natura esclusivamente procedimentale dei dd. mm. 10 settembre e 19 novembre 1992, la cui emanazione era stata prevista dall'art. 38, comma 4, dpr n. 600/1973 a fini esclusivamente accertativi e probatori, e non sostanziali, essendo tali norme secondarie preposte a fornire indici presuntivi di reddito, contrastabili mediante prova contraria. L'applicazione retroattiva di tali norme secondarie è dunque consentita dal disposto di una norma primaria, quale l’art. 38 cit.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

CASSAZIONE, Sezione tributaria, 07.ottobre.2005, n.19605 Rimborso dei tributi: la domanda proposta all’ufficio territorialmen e incompetente

non consente il decorso dei termini per la formazione del silenzio-rifiuto. t

.t

t.

t t

La domanda di rimborso di una somma, che si assume indebitamente versata all'Amministrazione finanziaria, deve essere prodotta all’ufficio competente in base al luogo in cui il versamento doveva essere effettuato, in quanto la legislazione vigente prevede che i versamenti vadano eseguiti presso l’esattoria nella cui circoscrizione il contribuente ha il domicilio fiscale. Pertanto, la domanda di rimborso presentata all’ufficio del luogo in cui il versamento è stato erroneamente effettuato non è idonea a far decorrere i termini per la formazione del silenzio-rifiuto, con conseguente inammissibilità del ricorso avverso la mancata risposta dell'Amministrazione.

CONSIGLIO di STATO, V sez., 13 settembre 2005, n. 4689 Fermo amministrativo ex art. 86 dpr n 602/73: è uno strumento che, pur non

collocandosi ancora nella fase della esecuzione, o degli atti esecu ivi, costituisce un mezzo cau elativo ed anticipatorio degli effetti espropriativi dell’esecuzione; in caso di contestazione giudiziale è competente l’A G.O.

Sulle controversie in materia di fermo amministrativo di beni mobili registrati (disposto da una concessionaria della riscossione di entrate tributarie) è competente il giudice ordinario. Secondo i giudici amministrativi l’art. 86 dpr n. 602/73 conferisce al soggetto responsabile della riscossione non già un singolare potere autoritativo e discrezionale in vista degli interessi pubblici specifici affidati alla cura dell’Amministrazione concedente, bensì una potestà che si colloca (concettualmente) nel quadro dei diritti potestativi del creditore che trovano nel diritto comune la naturale collocazione e nel giudice ordinario quello naturale. Infatti il fermo amministrativo è atto funzionale alla esecuzione che deve comunque essere inquadrato fra gli strumenti di conservazione dei cespiti patrimoniali sui quali può essere soddisfatto coattivamente il credito; in tale quadro, la cognizione delle controversie ad esso relativo si sottrae alla giurisdizione del giudice amministrativo.

La sentenza del CdS ricompone (almeno per quanto riguarda la giustizia amministrativa) il contrasto di orientamenti in materia, dando seguito a quello prevalente (cfr. TAR Campania, sent. 16.09.04, n. 12025; TAR Emilia Romagna, sent. 25.11.03, n. 2516; TAR Calabria, sent. 20.06.03, n. 2110; TAR Lombardia, sent. 5.05.03, n. 1140; TAR Veneto, sent. 30.01.03, n. 886; Tribunale di Novara, sent. 9.05.03).

TAR Trentino Alto Adige, 18 aprile 2005, n.112 Diritto di accesso agli atti: gli art. 22 e ss. legge n. 241/90 sono applicabili anche

nei confron i dell’A.F., con il solo limi e dei documenti per cui è opponibile il silenzio d’ufficio, individuati dal DM 29 ottobre 1996, n. 603.

I giudici amministrativi hanno precisato che non deve essere negato l'accesso al processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza se esso è richiesto da soggetti titolari di una posizione qualificata, che in virtù della conoscenza della documentazione possono soddisfare un interesse meritevole di tutela.

98

Nell’ambito del procedimento tributario e dopo l’entrata in vigore della legge n. 241/90, l’art. 68 del dpr n. 600/73 (nella parte in cui considera violazione del segreto d'ufficio qualunque informazione o comunicazione riguardante l'accertamento, data senza ordine del giudice, salvo i casi previsti dalla legge, a persone estranee alle rispettive Amministrazioni, diverse dal contribuente o da chi lo rappresenta) è operante in via residuale solo in relazione alle categorie di documenti individuate, ai sensi dell’art. 24 l. n. 241/90, dal Ministro delle Finanze con il D.M. 29 ottobre 1996 n. 603.

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

NEWS

99

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

100

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

LEGGE 4 novembre 2005, n. 230 1 Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari

La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato; IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Promulga la seguente legge: Art. 1. 1. L'università, sede della formazione e della trasmissione critica del sapere,

coniuga in modo organico ricerca e didattica, garantendone la completa libertà. La gestione delle università si ispira ai principi di autonomia e di responsabilità nel quadro degli indirizzi fissati con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca.

2. I professori universitari hanno il diritto e il dovere di svolgere attività di ricerca e di didattica, con piena libertà di scelta dei temi e dei metodi delle ricerche nonchè, nel rispetto della programmazione universitaria di cui all'articolo 1-ter del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 marzo 2005, n. 43, dei contenuti e dell'impostazione culturale dei propri corsi di insegnamento; i professori di materie cliniche esercitano altresì, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, e ferme restando le disposizioni di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517, funzioni assistenziali inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca; i professori esercitano infine liberamente attivitaà di diffusione culturale mediante conferenze, seminari, attività pubblicistiche ed editoriali nel rispetto del mantenimento dei propri obblighi istituzionali.

3. Ai professori universitari compete la partecipazione agli organi accademici e agli organi collegiali ufficiali riguardanti la didattica, l'organizzazione e il coordinamento delle strutture didattiche e di ricerca esistenti nella sede universitaria di appartenenza.

4. Il professore, a qualunque livello appartenga, nel periodo dell'anno sabbatico, concesso ai sensi dell'articolo 17 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, è abilitato senza restrizione alcuna alla presentazione di richieste e all'utilizzo dei fondi per lo svolgimento delle attività.

5. Allo scopo di procedere al riordino della disciplina concernente il reclutamento dei professori universitari garantendo una selezione adeguata alla qualità delle funzioni da svolgere, il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, nel rispetto dell'autonomia delle istituzioni universitarie, uno o più decreti legislativi attenendosi ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca bandisce, con proprio decreto, per settori scientifico-disciplinari, procedure finalizzate al conseguimento della idoneità scientifica nazionale, entro il 30 giugno di ciascun anno, distintamente per le fasce dei professori ordinari e dei professori associati, stabilendo in particolare:

1) le modalità per definire il numero massimo di soggetti che possono conseguire l'idoneità scientifica per ciascuna fascia e per settori disciplinari pari al fabbisogno, indicato dalle università, incrementato di una quota non superiore al 40 per cento, per cui è garantita la relativa copertura finanziaria e fermo restando che l'idoneità non comporta diritto all'accesso alla docenza, nonchè le procedure e i termini per l'indizione, l'espletamento e la conclusione dei giudizi idoneativi, da svolgere presso le università,

101

1 Il testo integrale, comprensivo di note esplicative, è disponibile on line nel sito della rivista

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

assicurando la pubblicità degli atti e dei giudizi formulati dalle commissioni giudicatrici; per ciascun settore disciplinare deve comunque essere bandito almeno un posto di idoneo per quinquennio per ciascuna fascia;

2) l'eleggibilità, ogni due anni, da parte di ciascun settore scientifico-disciplinare, di una lista di commissari nazionali, con opportune regole di non immediata rieleggibilità;

3) la formazione della commissione di ciascuna valutazione comparativa mediante sorteggio di cinque commissari nazionali. Tutti gli oneri relativi a ciascuna commissione di valutazione sono posti a carico dell'ateneo ove si espleta la procedura, come previsto al numero 1);

4) la durata dell'idoneità scientifica non superiore a quattro anni, e il limite di ammissibilità ai giudizi per coloro che, avendovi partecipato, non conseguono l'idoneità;

b) sono stabiliti i criteri e le modalità per riservare, nei giudizi di idoneità per la fascia dei professori ordinari, una quota pari al 25 per cento aggiuntiva rispetto al contingente di cui alla lettera a), numero 1), ai professori associati con un'anzianità di servizio non inferiore a quindici anni, compreso il servizio prestato come professore associato non confermato, maturata nell'insegnamento di materie ricomprese nel settore scientifico-disciplinare oggetto del bando di concorso o in settori affini, con una priorità per i settori scientifico-disciplinari che non abbiano bandito concorsi negli ultimi cinque anni;

c) nelle prime quattro tornate dei giudizi di idoneità per la fascia dei professori associati è riservata una quota del 15 per cento aggiuntiva rispetto al contingente di cui alla lettera a), numero 1), ai professori incaricati stabilizzati, agli assistenti del ruolo ad esaurimento e ai ricercatori confermati che abbiano svolto almeno tre anni di insegnamento nei corsi di studio universitari. Una ulteriore quota dell'1 per cento è riservata ai tecnici laureati già ammessi con riserva alla terza tornata dei giudizi di idoneità per l'accesso al ruolo dei professori associati bandita ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, e non valutati dalle commissioni esaminatrici;

d) nelle prime quattro tornate dei giudizi di idoneità per la fascia dei professori associati di cui alla lettera a), numero 1), l'incremento del numero massimo di soggetti che possono conseguire l'idoneità scientifica rispetto al fabbisogno indicato dalle università è pari al 100 per cento del medesimo fabbisogno;

e) nelle prime due tornate dei giudizi di idoneità per la fascia dei professori ordinari di cui alla lettera a), numero 1), l'incremento del numero massimo di soggetti che possono conseguire l'idoneità scientifica rispetto al fabbisogno indicato dalle università è pari al 100 per cento del medesimo fabbisogno.

6. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge sono bandite per la copertura dei posti di professore ordinario e professore associato esclusivamente le procedure di cui al comma 5, lettera a). Sono fatte salve le procedure di valutazione comparativa per posti di professore e ricercatore già bandite alla medesima data. I candidati giudicati idonei, e non chiamati a seguito di procedure già espletate, ovvero i cui atti sono approvati, conservano l'idoneità per un periodo di cinque anni dal suo conseguimento. La copertura dei posti di professore ordinario e di professore associato da parte delle singole università, mediante chiamata dei docenti risultati idonei, tenuto conto anche di tutti gli incrementi dei contingenti e di tutte le riserve previste dalle lettere a), b), c), d) ed e) del comma 5, deve in ogni caso avvenire nel rispetto dei limiti e delle procedure di cui all'articolo 51, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e all'articolo 1, comma 105, della legge 30 dicembre 2004, n. 311.

102

7. Per la copertura dei posti di ricercatore sono bandite fino al 30 settembre 2013 le procedure di cui alla legge 3 luglio 1998, n. 210. In tali procedure sono valutati come

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

titoli preferenziali il dottorato di ricerca e le attività svolte in qualità di assegnisti e contrattisti ai sensi dell'articolo 51, comma 6, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, di borsisti postdottorato ai sensi della legge 30 novembre 1989, n. 398, nonchè di contrattisti ai sensi del comma 14 del presente articolo. L'assunzione di ricercatori a tempo indeterminato ai sensi del presente comma è subordinata ai medesimi limiti e procedure previsti dal comma 6 per la copertura dei posti di professore ordinario e associato.

8. Le università procedono alla copertura dei posti di professore ordinario e associato a conclusione di procedure, disciplinate con propri regolamenti, che assicurino la valutazione comparativa dei candidati e la pubblicità degli atti, riservate ai possessori della idoneità di cui al comma 5, lettera a). La delibera di chiamata definisce le fondamentali condizioni del rapporto, tenuto conto di quanto disposto dal comma 16, prevedendo il trattamento economico iniziale attribuito ai professori di ruolo a tempo pieno ovvero a tempo definito della corrispondente fascia, anche a carico totale o parziale di altri soggetti pubblici o privati, mediante la stipula di apposite convenzioni pluriennali di durata almeno pari alla durata del rapporto. La quota degli oneri derivanti dalla copertura dei posti di professore ordinario o associato a carico delle università è soggetta ai limiti e alle procedure di cui all'articolo 51, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e all'articolo 1, comma 105, della legge 30 dicembre 2004, n. 311.

9. Nell'ambito delle relative disponibilità di bilancio, le università, previa attestazione della sussistenza di adeguate risorse nei rispettivi bilanci, possono procedere alla copertura di una percentuale non superiore al 10 per cento dei posti di professore ordinario e associato mediante chiamata diretta di studiosi stranieri, o italiani impegnati all'estero, che abbiano conseguito all'estero una idoneità accademica di pari livello ovvero che, sulla base dei medesimi requisiti, abbiano già svolto per chiamata diretta autorizzata dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca un periodo di docenza nelle università italiane, e possono altresì procedere alla copertura dei posti di professore ordinario mediante chiamata diretta di studiosi di chiara fama, cui è attribuito il livello retributivo più alto spettante ai professori ordinari. A tale fine le università formulano specifiche proposte al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca che, previo parere del Consiglio universitario nazionale (CUN), concede o rifiuta il nulla osta alla nomina.

10. Sulla base delle proprie esigenze didattiche e nell'ambito delle relative disponibilità di bilancio, previo espletamento di procedure, disciplinate con propri regolamenti, che assicurino la valutazione comparativa dei candidati e la pubblicità degli atti, le università possono conferire incarichi di insegnamento gratuiti o retribuiti, anche pluriennali, nei corsi di studio di cui all'articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270, a soggetti italiani e stranieri, ad esclusione del personale tecnico amministrativo delle università, in possesso di adeguati requisiti scientifici e professionali e a soggetti incaricati all'interno di strutture universitarie che abbiano svolto adeguata attività di ricerca debitamente documentata, sulla base di criteri e modalità definiti dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca con proprio decreto, sentiti la Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI) e il CUN. Il relativo trattamento economico è determinato da ciascuna università nei limiti delle compatibilità di bilancio sulla base di parametri stabiliti con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro per la funzione pubblica.

103

11. Ai ricercatori, agli assistenti del ruolo ad esaurimento e ai tecnici laureati di cui all'articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, che hanno svolto tre anni di insegnamento ai sensi dell'articolo 12 della legge 19 novembre

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

1990, n. 341, nonchè ai professori incaricati stabilizzati, sono affidati, con il loro consenso e fermo restando il rispettivo inquadramento e trattamento giuridico ed economico, corsi e moduli curriculari compatibilmente con la programmazione didattica definita dai competenti organi accademici nonchè compiti di tutorato e di didattica integrativa. Ad essi è attribuito il titolo di professore aggregato per il periodo di durata degli stessi corsi e moduli. Lo stesso titolo è attribuito, per il periodo di durata dell'incarico, ai ricercatori reclutati come previsto al comma 7, ove ad essi siano affidati corsi o moduli curriculari.

12. Le università possono realizzare specifici programmi di ricerca sulla base di convenzioni con imprese o fondazioni, o con altri soggetti pubblici o privati, che prevedano anche l'istituzione temporanea, per periodi non superiori a sei anni, con oneri finanziari a carico dei medesimi soggetti, di posti di professore straordinario da coprire mediante conferimento di incarichi della durata massima di tre anni, rinnovabili sulla base di una nuova convenzione, a coloro che hanno conseguito l'idoneità per la fascia dei professori ordinari, ovvero a soggetti in possesso di elevata qualificazione scientifica e professionale. Ai titolari degli incarichi è riconosciuto, per il periodo di durata del rapporto, il trattamento giuridico ed economico dei professori ordinari con eventuali integrazioni economiche, ove previste dalla convenzione. I soggetti non possessori dell'idoneità nazionale non possono partecipare al processo di formazione delle commissioni di cui al comma 5, lettera a), numero 3), nè farne parte, e sono esclusi dall'elettorato attivo e passivo per l'accesso alle cariche di preside di facoltà e di rettore. Le convenzioni definiscono il programma di ricerca, le relative risorse e la destinazione degli eventuali utili netti anche a titolo di compenso dei soggetti che hanno partecipato al programma.

13. Le università possono stipulare convenzioni con imprese o fondazioni, o con altri soggetti pubblici o privati, con oneri finanziari posti a carico dei medesimi, per realizzare programmi di ricerca affidati a professori universitari, con definizione del loro compenso aggiuntivo a valere sulle medesime risorse finanziarie e senza pregiudizio per il loro status giuridico ed economico, nel rispetto degli impegni di istituto.

104

14. Per svolgere attività di ricerca e di didattica integrativa le università, previo espletamento di procedure disciplinate con propri regolamenti che assicurino la valutazione comparativa dei candidati e la pubblicità degli atti, possono instaurare rapporti di lavoro subordinato tramite la stipula di contratti di diritto privato a tempo determinato con soggetti in possesso del titolo di dottore di ricerca o equivalente, conseguito in Italia o all'estero, o, per le facoltà di medicina e chirurgia, del diploma di scuola di specializzazione, ovvero con possessori di laurea specialistica e magistrale o altri studiosi, che abbiano comunque una elevata qualificazione scientifica, valutata secondo procedure stabilite dalle università. I contratti hanno durata massima triennale e possono essere rinnovati per una durata complessiva di sei anni. Il trattamento economico di tali contratti, rapportato a quello degli attuali ricercatori confermati, è determinato da ciascuna università nei limiti delle compatibilità di bilancio e tenuto conto dei criteri generali definiti con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro per la funzione pubblica. Il possesso del titolo di dottore di ricerca o del diploma di specializzazione, ovvero l'espletamento di un insegnamento universitario mediante contratto stipulato ai sensi delle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge, costituisce titolo preferenziale. L'attività svolta dai soggetti di cui al presente comma costituisce titolo preferenziale da valutare obbligatoriamente nei concorsi che prevedano la valutazione dei titoli. I contratti di cui al presente comma non sono cumulabili con gli assegni di ricerca di cui all'articolo 51 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, per i quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti. Ai fini dell'inserimento dei corsi di studio

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

nell'offerta formativa delle università, il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca deve tenere conto del numero dei professori ordinari, associati e aggregati e anche del numero dei contratti di cui al presente comma.

15. Il conseguimento dell'idoneità scientifica di cui al comma 5, lettera a), costituisce titolo legittimante la partecipazione ai concorsi per l'accesso alla dirigenza pubblica secondo i criteri e le modalità stabiliti con decreto del Ministro per la funzione pubblica, sentito il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, ed è titolo valutabile nei concorsi pubblici che prevedano la valutazione dei titoli.

16. Resta fermo, secondo l'attuale struttura retributiva, il trattamento economico dei professori universitari articolato secondo il regime prescelto a tempo pieno ovvero a tempo definito. Tale trattamento è correlato all'espletamento delle attività scientifiche e all'impegno per le altre attività, fissato per il rapporto a tempo pieno in non meno di 350 ore annue di didattica, di cui 120 di didattica frontale, e per il rapporto a tempo definito in non meno di 250 ore annue di didattica, di cui 80 di didattica frontale. Le ore di didattica frontale possono variare sulla base dell'organizzazione didattica e della specificità e della diversità dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti, sulla base di parametri definiti con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Ai professori a empo pieno è attribuita una eventuale retribuzione aggiuntiva nei limiti delle disponibilitaà di bilancio, in relazione agli impegni ulteriori di attività di ricerca, didattica e gestionale, oggetto di specifico incarico, nonchè in relazione ai risultati conseguiti, secondo i criteri e le modalità definiti con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sentiti il Ministro dell'economia e delle finanze e il Ministro per la funzione pubblica. Per il personale medico universitario, in caso di svolgimento delle attività assistenziali per conto del Servizio sanitario nazionale, resta fermo lo speciale trattamento aggiuntivo previsto dalle vigenti disposizioni.

17. Per i professori ordinari e associati nominati secondo le disposizioni della presente legge il limite massimo di età per il collocamento a riposo è determinato al termine dell'anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, ivi compreso il biennio di cui all'articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, e successive modificazioni, ed è abolito il collocamento fuori ruolo per limiti di età.

18. I professori di materie cliniche in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge mantengono le proprie funzioni assistenziali e primariali, inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca e ad esse complementari, fino al termine dell'anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, ferma restando l'applicazione dell'articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, e successive modificazioni.

19. I professori, i ricercatori universitari e gli assistenti ordinari del ruolo ad esaurimento in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge conservano lo stato giuridico e il trattamento economico in godimento, ivi compreso l'assegno aggiuntivo di tempo pieno. I professori possono optare per il regime di cui al presente articolo e con salvaguardia dell'anzianità acquisita.

20. Per tutto il periodo di durata dei contratti di diritto privato di cui al comma 14, i dipendenti delle amministrazioni statali sono collocati in aspettativa senza assegni né contribuzioni previdenziali, ovvero in posizione di fuori ruolo nei casi in cui tale posizione è prevista dagli ordinamenti di appartenenza, parimenti senza assegni nè contributi previdenziali.

105

21. Con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, adottato di concerto con i Ministri dell'interno, degli affari esteri e del lavoro e delle politiche sociali, sono definite specifiche modalità per favorire l'ingresso in Italia dei cittadini stranieri non appartenenti all'Unione europea chiamati a ricoprire posti di professore

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

ordinario e associato ai sensi dei commi 8 e 9, ovvero cui siano attribuiti gli incarichi di cui ai commi 10 e 12.

22. A decorrere dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 5 sono abrogati l’articolo 12 della legge 19 novembre 1990, n. 341, e gli articoli 1 e 2 della legge 3 luglio 1998, n. 210. Relativamente al reclutamento dei ricercatori l'abrogazione degli articoli 1 e 2 della legge n. 210 del 1998 decorre dal 30 settembre 2013. Sono comunque portate a compimento le procedure in atto alla predetta data.

23. I decreti legislativi di cui al comma 5 sono adottati su proposta del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la funzione pubblica, sentiti la CRUI e il CUN e previo parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per le conseguenze di carattere finanziario, da rendere entro trenta giorni dalla data di trasmissione dei relativi schemi. Decorso tale termine, i decreti legislativi possono essere comunque emanati. Ciascuno degli schemi di decreto legislativo deve essere corredato da relazione tecnica ai sensi dell'articolo 11-ter, comma 2, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni.

24. Ulteriori disposizioni correttive ed integrative dei decreti legislativi di cui al comma 5 possono essere adottate, con il rispetto degli stessi principi e criteri direttivi e con le stesse procedure, entro diciotto mesi dalla data della loro entrata in vigore.

25. Dall'attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

106

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

Le nuove vie alla cattedra, più problemi che soluzioni1 Lo stato giuridico dei docenti universitari di Dario Antiseri

Se fosse vero che le "nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori

universitari" rappresentano una "riforma meravigliosa", ne conseguirebbe che tutti quei rettori, presidi e docenti che hanno dato vita a una protesta senza precedenti sono o incompetenti o disonesti. O tutt'e due le cose insieme. Non credo affatto che le cose stiano così e ciò, innanzitutto, per la ragione che l'attuale riforma della docenza ha volutamente ignorato la proposta più ragionevole, meno macchinosa e più trasparente: quella della lista aperta di idonei per professore ordinario e professore associato. In cosa consiste? A scadenza prefissata, le diverse commissioni elette dai colleghi dei rispettivi raggruppamenti scientifico-disciplinari dichiarano idonei a occupare cattedre di prima e seconda fascia ( da ordinario o da associato) candidati che hanno dato buona prova nella ricerca scientifica. Saranno poi le diverse Facoltà a chiamare gli idonei considerati più adatti sia per gli sviluppi della ricerca che per le necessità didattiche. In questo modo, le commissioni non si vedrebbero costrette ad arzigogolare cavilli per escludere candidati degni almeno tanto quanto quelli dichiarati idonei per ogni posto messo a concorso (prima tre, poi due e oggi, in base alla nuova normativa, il doppio dei posti messi a concorso nelle prime due tornate di idoneità per professori ordinari e nelle prime quattro tornate per professori associati e, a regime, con l'aumento di un massimo del 40% dei posti messi a concorso).

Per il momento, pertanto, siamo rimasti al sistema della "bina". E l'idea della lista aperta è stata scartata. Eppure, una simile misura inizialmente avanzata dal ministro Berlinguer, appoggiata al.Senato dall'opposizione di allora sotto le indicazioni e le argomentazioni del senatore Pera, fatta propria da moltissimi illustri docenti, a cominciare da Umberto Eco venne successivamente stravolta alla Camera dove si fissò per tre anni il numero di tre idonei per ogni posto messo a concorso, e di due idonei per ogni posto messo a concorso nelle tornate successive. Dunque: la lista aperta fu bocciata dalla sinistra ed è stata ignorata dalla destra.

Che senso ha mettere un limite alle idoneità? Che ne sa il legislatore di quanti sono gli studiosi validi in questo o quel settore? Se in un settore scientifico-disciplinare ci sono, su cento candidati, venti studiosi degni di idoneità, perché mai una commissione dovrebbe essere costretta a promuoverne solo sei, qualora, per esempio, i posti a concorso fossero tre? E, allora, in base a quali ragioni si è avallato un sistema che costringe a umiliare, magari per anni e anni, studiosi ben preparati?

La grande stampa ha esaltato il concorso nazionale, finalmente nazionale! Chiedo: e la proposta della lista aperta che cosa è se non la forma più chiara e trasparente di concorso nazionale? In ogni caso, la reiterata obiezione contro la proposta della lista aperta di idonei è stata ed è che le liste aperte si sarebbero dilatate in maniera tale da inglobare bravi e meno bravi. Qui, però, non si vede la ragione per cui i membri delle commissioni giudicatrici sarebbero irresponsabili se estensori di liste aperte e responsabili, invece, se estensori di liste chiuse. Chi ci dice che nella lista chiusa passerebbero soltanto i migliori, e non anche i meno bravi o addirittura soltanto i meno bravi? E la cosa di maggior rilievo, purtroppo sempre sottovalutata, è che proprio con la lista aperta i bravi non verrebbero esclusi, con la conseguenza di un'ampia libertà da parte delle Facoltà all'atto delle chiamate. Con le «nuove disposizioni» si è inteso ergere

107

1 Articolo pubblicato sul Il Sole 24 ORE del 12 novembre 2005

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

una diga contro il "localismo", vale a dire contro i concorsi banditi dai singoli atenei con l'auspicio della riuscita del candidato locale. Ebbene, a parte il fatto che si sono avuti concorsi con bocciature di candidati locali, e a parte il fatto che se una Facoltà bandisce un posto pensando a un candidato locale, lo fa perché, in linea generale, quel candidato ha dato buona prova di sé, le «nuove disposizioni» comportano, quale conseguenza inintenzionale, non l'eliminazione del localismo quanto piuttosto il suo irrigidimento.

Supponiamo, infatti, che un professore associato si senta pronto per il passaggio a ordinario, va da sé che costui, prima di chiedere alla Facoltà di bandire il posto, s'informerà, per quanto possibile, sull'eventuale consenso di cui gode presso i docenti di ruolo del suo settore scientifico-disciplinare e sul consenso della Facoltà per l'eventuale chiamata, e se non avrà ragionevoli assicurazioni, quel posto, con ogni verosimiglianza non sarà messo al bando. Quindi: il prevedibilissimo esito del tanto sbandierato «nuovo concorso nazionale» sarà il localismo più ferreo o la sostanziale paralisi dei concorsi. Esiti, questi, la cui prevedibilità è rafforzata dalla proposta per cui i commissari non saranno più eletti dai membri dei vari settori scientifico-disciplinari ma pescati a sorte.

Quasi che le commissioni sorteggiate — proprio perché sorteggiate e non elette sarebbero immuni dalle reiterate, anzi eterne, bassezze di cui si sarebbero mostrate capaci le commissioni elette dai colleghi. Disoneste per definizione le commissioni elette; trasparenti e probe, per decreto legislativo, le commissioni con membri sorteggiati ! E qui più d'uno, nei giorni trascorsi, ha reclamato la par condicio: quel che vien fatto valere per gli universitari dovrebbe valere pure per i nostri parlamentari: si aboliscano i sistemi elettorali e si sorteggino, tra le elettrici e gli elettori, i nostri parlamentari...

Non è da oggi che i nostri ricercatori sono sotto tiro. Quel che si è voluto e si vuole far credere è che gran parte dei guai, se non tutti, dell'Università dipendono dai ricercatori. Ecco il ritornello: è un male che il posto da ricercatore sia un posto di ruolo: il posto di ruolo alimenta la fannulloneria; occorrono, quindi, anni di precariato per stimolare lo spirito di ricerca, eccetera eccetera. Va qui subito detto che questi non sono argomenti, ma autentiche sciocchezze, purtroppo cariche di conseguenze nefaste. Ma poi: questi ricercatori di chi sono allievi? Chi li ha guidati? Chi li ha promossi? Se un ricercatore ha smesso di fare ricerca, la colpa è sempre sua? E da quali pulpiti viene spesso la predica! Non esistono ordinari che da anni non fanno ricerca, più intenti a far soldi nei loro studi privati o indaffarati a fungere da strofinacci nella cucina di questo o quel partito? Ed è di una gravità enorme che a migliaia di ricercatori siano stati affidati, all'interno dei vari corsi di laurea, insegnamenti anche fondamentali, e che la nuova legge non abbia riconosciuto la terza fascia dì docenza. Sa di ridicolo il titolo di professore "aggregato" per gli attuali ricercatori con un triennio di insegnamento e per i nuovi ricercatori reclutati da qui al 2013 a tempo indeterminato, escludendo da questo titolo gli attuali ricercatori con meno di tre anni di insegnamento. Ed è illiberale, perché in contraddizione con i più elementari principi meritocratici, aver stabilito quote riservate sia per i concorsi da ordinario che da associato. Un Paese privo di un buon sistema formativo non ha molte speranze per il futuro. E non basta dire di aver fatto una riforma perché la riforma sia ipso facto anche una buona riforma. E questa del reclutamento della docenza universitaria è stata un'occasione perduta, al pari della riforma dell'esame di maturità, ormai ridotto a una sostanziale farsa

108

Innovazione e Diritto – n. 4/2005

109