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Università degli Studi di Bergamo Corso di studi triennale in Scienze dell’educazione – A.A. 2014-2015 Antologia di testi per il corso di Storia della pedagogia 2B a cura di Evelina Scaglia

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  • Università degli Studi di Bergamo

    Corso di studi triennale in Scienze dell’educazione – A.A. 2014-2015

    Antologia di testi per il corso di Storia della pedagogia 2B

    a cura di Evelina Scaglia

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  • 3

    Sommario

    JOHN DEWEY (1859-1952) .................................................................................................................................5

    ROSA AGAZZI (1866-1951) ................................................................................................................................9

    MARIA MONTESSORI (1870-1952) ................................................................................................................ 13

    GIOVANNI GENTILE (1875-1944)................................................................................................................... 15

    GIUSEPPE LOMBARDO RADICE (1879-1938) ............................................................................................ 16

    ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960) ................................................................................................................ 22

    MARIA BOSCHETTI ALBERTI (1879-1951) .................................................................................................. 27

    CÉLESTIN FREINET (1896-1966)................................................................................................................... 30

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    JOHN DEWEY (1859-1952)

    J. Dewey, Il mio credo pedagogico, in Id., Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti

    sull’educazione, [1897], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2004, pp. 3-31.

    Articolo I- Cos’è l’educazione, pp. 3-9

    «Io credo che

    - ogni educazione deriva dalla partecipazione dell‟individuo alla coscienza sociale della specie. Questo

    processo s‟inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà

    dell‟individuo, saturando la sua coscienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e destando i

    suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l‟individuo giunge

    gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l‟umanità è riuscita ad accumulare. Egli

    diventa un erede del capitale consolidato della civiltà. L‟educazione più formale e tecnica che esista al

    mondo non può sottrarsi senza rischio a questo processo generale. Può soltanto organizzarlo o

    trasformarlo in qualche direzione particolare.

    - La sola vera educazione avviene mediante lo stimolo esercitato sulle facoltà del ragazzo da parte delle

    esigenze della situazione sociale nella quale esso si trova. Tali esigenze lo stimolano ad agire come

    membro di un‟unità, a uscire dalla sua originaria angustia di azione e di sentire, e a pensare a se stesso

    dal punto di vista del benessere del gruppo del quale fa parte. Attraverso le reazioni degli altri alle sue

    attività esso arriva a capire che cosa queste significano in termini sociali. Ad esse ritorna riflesso il

    valore che esse hanno. Ad esempio, attraverso la risposta che si fa all‟istintivo balbettare del fanciullo

    questi giunge a comprendere il significato di questo balbettio. Esso si trasforma in linguaggio articolato

    e in tal modo il fanciullo ha accesso alle ricchezze di idee e di emozioni che sono accumulate e

    consolidate nel linguaggio.

    - Il processo educativo ha due aspetti, l‟uno psicologico e l‟altro sociologico, e che nessuno dei due può

    venire subordinato all‟altro o trascurato senza che ne conseguano cattivi risultati. Di questi due aspetti

    quello psicologico è basilare. Gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e

    danno l‟avvio a tutta l‟educazione. Se gli sforzi dell‟educatore non si riallacciano a qualche attività che

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    il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall‟educatore stesso, l‟educazione si

    riduce a una pressione dall‟esterno. Essa può dare dei risultati esterni, ma non può essere veracemente

    chiamata educativa. Senza una penetrazione della struttura e delle attività psichiche dell‟individuo il

    processo educativo sarà, perciò, accidentale e arbitrario. Se coincide fortuitamente coll‟attività del

    fanciullo, ne verrà stimolato; altrimenti risulterà in un ostacolo o in un agente di disintegrazione o di

    arresto della natura del fanciullo.

    - La conoscenza delle condizioni sociali, o dello stato attuale della civiltà, è necessaria per potere

    interpretare esattamente i poteri del fanciullo. Questi possiede i suoi istinti e le sue tendenze, ma noi ne

    ignoriamo il significato finché non possiamo tradurli nei loro equivalenti sociali. Dobbiamo essere

    capaci di riportarli ad un passato sociale e di vederli come l‟eredità di precedenti attività della specie.

    Dobbiamo essere capaci altresì di proiettarli nel futuro per vedere quel che sarà il loro risultato e il loro

    fine. Riferendoci all‟esempio fatto sopra, è la capacità di scorgere nel balbettio del fanciullo la

    promessa e la potenza di una futura attività di contatti e scambi sociali che permette di tenere in giusto

    conto quell‟istinto.

    - L‟aspetto psicologico e quello sociale stanno fra loro in un rapporto organico e che l‟educazione non

    può venir considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell‟uno

    sull‟altro. Si afferma che la definizione psicologica dell‟educazione è nuda e formale, che ci dà soltanto

    l‟idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D‟altra

    parte si insiste che la definizione sociale dell‟educazione come “adattamento” alla civiltà ne fa un

    processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell‟individuo a una situazione sociale e

    politica presupposta.

    - Ciascuna di queste obiezioni è vera quando viene affacciata contro uno dei due aspetti isolato

    dall‟altro. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine, l‟impiego o la

    funzione, e ciò non è possibile se non si concepisce l‟individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma

    d‟altra parte il solo possibile “adattamento” che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è

    quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Coll‟avvento della democrazia e

    delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà da qui a

    venti anni. È perciò impossibile preparare il fanciullo a un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla

    vita futura significa dargli la padronanza di se stesso; significa educarlo in modo che egli arrivi a

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    conseguire l‟impiego intero e pronto di tutte le sue capacità; che il suo occhio, il suo orecchio e la sua

    mano possano essere pronti strumenti di comando, che il suo giudizio possa essere capace di afferrare

    le condizioni nelle quali deve lavorare e le forze che egli deve sviluppare per poter agire

    economicamente ed efficientemente. È impossibile raggiungere questo adattamento se non si tien conto

    di continuo dei poteri, dei gusti, e degli interessi propri dell‟individuo, cioè se l‟educazione non è

    costantemente convertita in termini psicologici.

    Riassumendo, io credo che l‟individuo che deve essere educato è un individuo sociale e che la società è

    un‟unione organica di individui. Se eliminiamo il fatto sociale dal fanciullo si resta solo con

    un‟astrazione; se eliminiamo il fatto individuale dalla società, si resta solo con una massa inerte e senza

    vita. Perciò l‟educazione deve iniziarsi con una penetrazione psicologica delle capacità del fanciullo,

    dei suoi interessi e delle sue abitudini. Essa deve essere controllata ad ogni punto con riferimento a

    queste stesse considerazioni. Tali facoltà, interessi e abitudini devono essere continuamente

    interpretate; noi dobbiamo sapere qual è il loro significato. Esse devono esser tradotte nei loro

    equivalenti sociali e mostrare la loro capacità come organi di servizio sociale».

    J. Dewey, Democrazia e educazione, [1916], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2000.

    Cap. XXIII, L’educazione professionale, pp. 393-395

    1. Il significato di professione

    «Attualmente il conflitto delle teorie filosofiche è concentrato sulla discussione circa il posto e la

    funzione che hanno i fattori professionali nell‟educazione. L‟affermazione nuda e cruda che le

    differenze significative nelle concezioni filosofiche fondamentali hanno in questo argomento il loro

    punto focale può risvegliare l‟incredulità; sembra che vi sia una separazione troppo grande fra i termini

    astratti e generali in cui sono formulate le idee filosofiche, e i dettagli pratici e concreti dell‟educazione

    professionale. Ma un esame mentale dei presupposti intellettuali che stanno alla base dell‟opposizione

    nel campo educativo fra lavoro e svago, fra la teoria e la pratica, fra il corpo e la mente, mostrerà che

    essi culminano nell‟antitesi fra l‟educazione professionale e la culturale. Tradizionalmente, la cultura

    liberale è stata congiunta con le idee di otium, di conoscenza puramente contemplativa, e di un‟attività

    spirituale che non implicava l‟uso attivo degli organi del corpo. La cultura ha anche teso, ultimamente,

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    ad essere associata a un raffinamento puramente privato, la coltivazione di certi stati ed atteggiamenti

    di coscienza, separati tanto dall‟interesse che dalla funzione sociale. È stata un‟evasione dal primo e un

    conforto all‟ineluttabilità del secondo.

    Questi dualismi filosofici sono così profondamente intrecciati con tutto l‟argomento dell‟educazione

    professionale, che si rende necessario definire il significato di professione in modo abbastanza

    completo da poter evitare l‟impressione che un‟educazione che si concentri su di essa sia ristrettamente

    pratica, se non puramente pecuniaria. Professione non significa altro che direzione delle attività della

    vita in un senso che le renda percepibilmente significative per chi le pratica in virtù delle loro

    conseguenze, ed anche utili ai suoi associati. Il contrario di attività professionale non è né l‟ozio né la

    cultura, ma la mancanza di scopo, il capriccio, l‟assenza di acquisizioni cumulative nell‟esperienza, dal

    lato personale, e, dal lato sociale, il lusso vano, la dipendenza parassitaria dagli altri. Occupazione è un

    termine concreto per continuità. Include tanto lo sviluppo della capacità artistica di ogni genere,

    dell‟abilità scientifica specializzata, dell‟interesse politico attivo, quanto le professioni e gli affari, per

    non parlare del lavoro meccanico o delle occupazioni lucrative.

    Dobbiamo evitare non solo che per occupazione s‟intenda qualcosa di limitato alle occupazioni che

    producono cose utili immediatamente tangibili, ma occorre evitare anche l‟idea che le professioni siano

    distribuite in modo esclusivo, di guisa che una persona non possa averne che una sola. Uno specialismo

    così ristretto è impossibile; niente potrebbe essere più assurdo che cercare di educare gli individui ad un

    unico genere di attività. In primo luogo, ogni individuo ha necessariamente una varietà di aspirazioni

    cui può dare opera intelligente; e in secondo luogo qualsiasi occupazione perde il suo valore e diventa

    una routine che asservisce a una data cosa, nella misura in cui è isolata dagli altri interessi.

    1) Nessuno è solamente artista e niente altro, e quanto più uno si avvicina a questa condizione, tanto

    più lo fa a detrimento della sua umanità; è una specie di mostro. In qualche periodo della sua vita egli

    deve essere membro di una famiglia, deve avere amici e compagni; deve essere o finanziariamente

    indipendente o dipendente da altri, e perciò occuparsi di affari. Egli è membro di qualche unità politica

    organizzata, e così via. Naturalmente noi lo qualifichiamo professionalmente in base a quella delle sue

    occupazioni che lo distingue, piuttosto che in base a quelle che ha in comune con tutti gli altri. Ma non

    dovremmo lasciarci talmente legare dalle parole, da ignorare e virtualmente negare le altre sue

    occupazioni, quando si tratta di considerare gli aspetti professionali dell‟educazione.

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    2) Come l‟attività di un artista professionista rappresenta il momento specialistico di una gamma di

    attività professionali, così la validità della sua arte sul piano umano è determinata dalla sua connessione

    con altri interessi. Uno deve avere esperienze, deve vivere, se la sua arte deve essere qualcosa di più di

    un risultato tecnico. Egli non può trovare l‟argomento della sua attività artistica nella sua arte; questa

    deve essere un‟espressione di quel che egli soffre e gode in altre relazioni, e questo dipende a sua volta

    dalla prontezza e dalla vivezza dei suoi interessi. Ciò che è vero per un artista è vero anche per

    qualsiasi altra forma speciale di attività. Senza dubbio ogni professione distintiva tende (conforme alla

    legge dell‟abitudine) a divenire troppo predominante, troppo esclusiva e troppo assorbente nel suo

    aspetto specializzato. Il che significa che viene accentuata specialmente la prassi, l‟aspetto tecnico, a

    scapito del significato. Perciò compito dell‟educazione non è già di incoraggiare questa tendenza, ma

    piuttosto di mettere in guardia contro di essa, di modo che ricercatore scientifico non sia semplicemente

    lo scienziato, maestro semplicemente il pedagogo, sacerdote chi indossa la tonaca e così via».

    ROSA AGAZZI (1866-1951)

    R. Agazzi, Guida per le educatrici dell'infanzia (dalla rivista "Pro Infantia", annata 1929-1930),

    [1932], II ristampa, La Scuola, Brescia 1959.

    L'assistenza dei maggiori ai minori, pp. 42-43

    «Quando noi mettiamo un bambino di cinque anni nella condizione di osservare un altro bambino

    inferiore a lui per età e per intelligenza, e gli diciamo: vedi, egli qui in alto non può arrivare, perché è

    basso di statura; vuoi tu aiutarlo? Egli non sa quello che tu sai; vuoi insegnargli qualche bella cosa?

    Egli è debole e tu sei forte; vuoi tu proteggerlo?

    Quando noi facciamo questo, applichiamo un principio della morale cristiana - l'amore per il prossimo -

    mettiamo cioè le basi del sentimento della fratellanza. Chi non vede tutta la bellezza spirituale che in sé

    racchiude l'incontro di due minuscole esistenze, di cui una prova l'impressione della propria pochezza,

    l'altra la gioia nell'intuire che, avendo già superato quello stato di debolezza, si sente in grado di

    insegnare ad altri a superarlo? Il maggiore dei due guidato dall'educatrice a ricordare il cammino

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    percorso. "E' vero", pensa: "Io pure un giorno ero piccolo di corpo e di mente, io pure ebbi chi mi aiutò

    a intendere; poi appresi a fare da me solo; ora posso anche insegnare a chi non sa".

    Ecco che il bambino si accorge di percorrere una via che lo conduce verso un progressivo

    miglioramento della propria individualità; ogni giorno che passa egli vede dietro di sé un altro se stesso

    in proporzioni ridotte. Questo fatto può risolversi per l'educando in salutare compiacimento, quando

    l'educatrice sappia farlo rivivere nei rapporti di benevolenza fra il maggiore e il suo pupillo.

    "Vedi? Questo lavoro che tu hai fatto, ieri non lo sapevi fare; ma oggi la tua mano, un poco meno

    ignorante di ieri, ha imparato a muoversi con destrezza; gli occhi, più attenti, hanno veduto meglio; e

    sei stato tu a comandare alla mano e agli occhi di essere un po‟ più bravini, perché oggi anche tu hai un

    pò più di giudizio di ieri... Il tuo piccolo nel vedere questo lavoretto penserà: 'Oh, guarda, il mio grande

    cosa sa fare!... Lui sì, io no!...'.

    Si inizia, per tal modo, la virtù della longanimità.

    Come avviene di ogni esercizio che più si ripete e più lascia traccia di sé, la frequente vicinanza del

    maggiore al minore alimenta in ambedue il vincolo di una fraterna simpatia. Nulla di più bello del

    vedere i bambini di tre anni intenti ad ammirare, nelle pose più varie, i loro tutori in faccende a

    preparare un giocattolo proprio per loro uso. Guardano in silenzio, compresi delle azioni che vedon

    succedersi nella fabbricazione del modesto oggetto, compresi anzitutto della bravura di chi lo compie.

    Nulla di più grazioso di un maggiore che insegna al piccolo a innaffiare, senza bagnarsi, una

    pianticella; a sollevarlo, perché possa con più agio osservare un disegno sulla lavagna; a rimboccargli

    le maniche prima della lavatura; a insegnargli a pronunciare il nome di un fiore, ad allacciargli il

    bavaglino, a spezzargli il pane; a vestirlo, a condurlo in guardaroba a riporre cose con ordine; a

    segnargli il tempo mentre gli insegna un passo ritmico.

    L'educatrice, anziché cercare di ridurre le occasioni di codesti avvicinamenti, dovrebbe proporsi di

    moltiplicarle: ridurle, significa rinunciare a innumerevoli occasioni di aiutare la sensibilità affettiva de'

    suoi alunni, mentre è specialmente dallo svolgersi di questa convivenza che ella dovrebbe far scaturire

    il programma di una morale in azione. Con fine accorgimento ella porterebbe alla ribalta, senza darsi

    l'aria di colpire, difetti e pregi della sua coorte, guidata sempre dall'intento di sottrarre i piccoli cuori

    alle scorie dell'istinto, per renderli atti a intendere la gioia che ogni anima nobile prova volendo bene e

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    giovando al proprio simile».

    Ordine, libertà e intraprendenza negli esercizi di vita pratica. (Ricordando l'asilo di Mompiano), pp.

    265-268

    «Quell'insigne educatore e didatta che era il Prof. Pietro Pasquali (di cui fortunatamente potei essere

    discepola), lasciò scritto: "Tutti siamo convinti che l'ordine materiale influisce potentemente sull'ordine

    morale, perché agisce direttamente sulla intelligenza, sull'igiene, sui costumi, sulla condotta, sul

    carattere. Il disordine è causa di deplorevoli conseguenze; la vita disordinata sparge intorno miserie,

    guai, dolori. Lo sappiamo tutti, ma non tutti sappiamo quali mezzi si devono mettere in opera.

    Partiamo da un principio pedagogico: per far acquistare delle abitudini all'educando, bisogna farlo

    agire: per farlo agire, occorrono cose e condizioni favorevoli. Questa è norma di scuola nuova, in

    sostituzione del vecchio sistema, tutto precetti e massime.

    L'esercizio dell'ordine è possibile solo dove persone, cose e azioni rendono probabile il disordine.

    "Quali cose dobbiamo porre intorno al bambino della scuola materna per educarlo al senso dell'ordine?

    Naturalmente le cose che gli occorrono nella vita domestica, poi nella vita collettiva; sono le cose che

    rispondono ai suoi bisogni; egli ha bisogno di tenersi pulito, di nutrirsi, d'imparare a vestirsi e

    spogliarsi, di giocare e lavorare; ha bisogno d'apprendere il rispetto alla roba altrui; ed ecco la necessità

    d'un corredo abbondante di indumenti, d'un materiale ad uso di pulizia ed arredi da refettorio, e

    giocattoli e strumenti da lavoro. Quante saranno le cose? Fatene voi l'inventario, dividendole in due

    categorie: cose permanenti, di cui si rende necessaria l'opera di manutenzione; e cose di consumo, che

    richiedono la continua rinnovazione. Avute le cose, bisogna fissare a ciascuna il suo posto: ed ecco gli

    esercizi d'ordine: uso, manutenzione, movimento, collocamento, e via"1.

    Provveduto un numero considerevole di cose attinenti alla vita, stabilito nell'ambiente un ordine

    inappuntabile, organizzate le azioni dei bambini a base rigorosamente logica e naturale, viene bandito

    ogni convenzionalismo per far posto alla libertà di parola e d'azione, condizione indispensabile per

    1 Cfr. P. Pasquali, Il nuovo spirito dell'Asilo, ed. Vallardi, La Voce delle maestre d‟asilo Unione Tipografica, Milano 1910.

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    mettere il bambino in rapporto diretto coll'educatrice e manifestarle tutto l'essere suo.

    In un ambiente educativo dove il moto è libero e la libertà è diretta dalla responsabilità personale,

    l'intelligenza ha parte attivissima. Osservazioni di mezzo e di fine, di causa e di effetto, di principio e di

    conseguenza, confronti, impulsi d'iniziativa nascono ad ogni momento, promuovendo nei bambini

    l'azione, la riflessione, il linguaggio.

    Nell'opera citata, il Prof. Pasquali dice ancora: "Si nota, ed è naturale, che i bambini sono

    intraprendenti dove maggiore è la libertà che loro concede di sperimentare l'uso delle cose. Per

    esempio, chi è bene esercitato ad empire, vuotare e trasportare vasche, è pure addestrato a maneggiare

    tali recipienti in modo da non versare l'acqua sui piedi; e dove sarà necessario l'aiuto di forza e

    destrezza, sarà quello stesso il primo ad accorrere; chi è solito tuffare e sciacquare catinelle, ha

    imparato l'arte di tuffarle meglio e presto, felice quando in tale faccenda occorrerà la prontezza

    dell'opera sua. Anche nei piccoli atti il bimbo dà a scorgere le acquistate abilità; a veder con quale

    accorgimento le sue manine si prestano a staccar fiori col gambo lungo, a non pungersi dove ci sono

    spine, a non rovinare bottoncini, a entrare fra i cespi con grazia, si dice subito: questo bimbo è stato

    esercitato, ha imparato ed è solito coglier fiori, anche da solo.

    Le prime lezioni d'iniziativa e d'intraprendenza, a base di abilità, non sono pane per tutti i denti e non

    s'imparano sui libri; bisogna che l'educatrice faccia a proposito uno studio speciale".

    Tra gli esercizi di vita pratica che maggiormente rispondono ai suesposti concetti, hanno il primato le

    lavature con arredi di mobili e la preparazione delle mense. E' veramente meraviglioso questo andare e

    venire disciplinato e gaio di bambini che stanno preparando un refettorio per il pranzo e una sala per le

    lavature.

    Io credo che il più apatico degli individui dovrebbe sentirsi scosso davanti a quel succedersi di azioni

    dove l'intelligenza, la spontaneità, la grazia, il buon senso si danno la mano nell'addestrare una società

    infantile e conciliare la libertà coll'ordine.

    Una educatrice che sa raggiungere questa finalità non può che avere ben chiaro il concetto della propria

    missione, e se il profano che vede non è in grado di capire quanto ognuna di quelle azioni che il

    bambino compie sia il risultato di intelligente ricerca e di pazienti prove da parte dell'educatrice, chi

    non ignora l'arte di educare dovrebbe nonché approvare, gustare e ammirare. Talvolta invece è

  • 13

    accaduto che questo miracolo dell'educazione venisse da presunti educatori accolto col sorriso dello

    scherno. Ma oggi chi non sa quale importanza hanno assunto nella scuola materna gli esercizi di vita

    pratica? [...]».

    MARIA MONTESSORI (1870-1952)

    M. Montessori, L’autoeducazione nelle scuole elementari, [1916], Garzanti, Milano 1950.

    [Il fenomeno della polarizzazione dell’attenzione è uno degli aspetti costanti dei fatti per la formazione

    interiore], pp. 61-63

    «Il mio lavoro sperimentale sui piccoli bambini da tre a sei anni è stato appunto un contributo pratico

    alla ricerca delle cure di cui ha bisogno l‟anima del bambino: cure analoghe a quelle che l‟igiene trovò

    per il suo corpo.

    Credo però necessario di far rilevare il fatto fondamentale che mi condusse a determinare questo

    metodo.

    Io stavo facendo le mie prime prove nell‟applicare i principî e parte del materiale che mi erano serviti

    molti anni prima all‟educazione dei bambini deficienti, sopra i piccoli bambini normali di S. Lorenzo,

    quando mi accadde di osservare una bambina di circa tre anni, che rimaneva profondamente assorta

    sopra un incastro solido, sfilando e infilando i cilindretti di legno nei loro posti rispettivi. L‟espressione

    della bambina era di una sì intensa attenzione che mi sembrò quella una manifestazione straordinaria: i

    bambini fino allora non avevano mai mostrato una tale fissità sopra un oggetto: e la mia convinzione

    sulla instabilità caratteristica dell‟attenzione nel piccolo bambino, che passa senza posa da cosa a cosa,

    mi rendeva ancor più sensibile al fenomeno.

    Io osservai intensamente la piccina senza disturbarla in principio e cominciai a contare quante volte

    ripeteva l‟esercizio: ma poi, vedendo che continuava molto a lungo, presi la poltroncina su cui era

    seduta, e posi poltroncina e bambina sulla tavola; la piccolina raccolse in fretta il suo incastro, poi lo

    posò attraverso i braccioli della poltroncina, e mettendosi in grembo i cilindretti, continuò il suo lavoro.

  • 14

    Allora invitai tutti i bambini a cantare: essi cantarono, ma la bambina continuò imperturbata a ripetere

    il suo esercizio anche dopo che il breve canto fu cessato. Io avevo contato quarantaquattro esercizi; e

    quando finalmente cessò, cessò in modo affatto indipendente dagli stimoli dell‟ambiente che potevano

    disturbarla: e la bambina si guardò intorno soddisfatta, quasi svegliandosi da un sonno riposante.

    La mia impressione indimenticabile credo che somigliasse a quella provata da chi ha fatto una scoperta.

    Quel fenomeno divenne poi comune nei bambini: esso poté dunque essere stabilito come una reazione

    costante che si presenta in rapporto a certe condizioni esterne, le quali possono determinarsi. E ogni

    volta che avveniva una simile polarizzazione dell‟attenzione, cominciava il bambino a trasformarsi

    completamente, a farsi più calmo, quasi più intelligente e più espansivo: egli mostrava qualità interiori

    straordinarie, che ricordavano i fenomeni di coscienza più alti, come quelli della conversione.

    Sembrava come se, in una soluzione satura, si fosse formato un punto di cristallizzazione, intorno al

    quale poi tutta la massa caotica e fluttuante andava a riunirsi in un cristallo di forma meravigliosa.

    Analogamente, avvenuto il fenomeno di polarizzazione dell‟attenzione, tutto quanto di disordinato e

    fluttuante esisteva nella coscienza del bambino, sembrava andasse organizzandosi in una creazione

    interiore, i cui caratteri sorprendenti si riproducevano in ogni individuo.

    Ciò faceva pensare alla vita dell’uomo che può restare dispersa tra cosa e cosa, in uno stato inferiore di

    caos, fin che una cosa speciale intensamente l‟attrae, la fissa, e allora l‟uomo ha la rivelazione di se

    stesso, sente di cominciare a vivere.

    Questo fenomeno spirituale che può coinvolgere tutta la coscienza dell‟adulto, non è dunque uno degli

    aspetti costanti dei fatti di “formazione interiore”. Esso si riscontra come inizio normale della vita

    interiore dei bambini; e ne accompagna lo svolgimento, in modo da divenire accessibile alle ricerche,

    come un fatto sperimentale.

    Fu così che l‟anima del bambino dette le sue rivelazioni, e, sulla guida di queste, sorse un metodo ove

    libertà spirituale venne illustrata.

    Il racconto di questa storia iniziale si è sparso rapidamente per tutto il mondo; e sembrò al suo primo

    apparire come la storia di un miracolo. Poi a poco a poco, moltiplicandosi gli esperimenti tra le razze

    più diverse, si sono venuti rischiarando i principî semplici ed evidenti di questo “trattamento”

  • 15

    spirituale».

    GIOVANNI GENTILE (1875-1944)

    G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. 1 Pedagogia generale, [1913], V ediz.

    riveduta, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 135-136.

    «5. Necessità di entrare nell’anima dell’educando

    Per intendere la vera indole, i bisogni, la vita del suo scolaro, il maestro non deve fermarsi alla astratta

    idea che egli sia, poniamo, uno scolaro di una certa classe, in cui si suppone l‟attitudine a seguire uno

    svolgimento d‟un certo programma: questo è uno scolaro astratto, che non ha vita, e non può seguire

    nessun programma; è una cosa, creata dal pensiero inconsapevole della propria natura; non è una

    persona. Né basta che lo guardi in faccia, in cui pur lampeggia in una luce ad ogni istante nuova

    l‟interno del fanciullo; ma deve entrare a studiarlo pacatamente nel suo animo, dove si raccoglie e

    concentra la vita di quel fanciullo. E per entrare bisogna che lo segua nel suo processo spirituale,

    perché quell‟animo non è appunto se non un processo. Seguirlo, tenergli dietro, senza stancarsi, senza

    dir mai: – Ho capito, ormai, te ti conosco – Che sarebbe certo un sacrifizio troppo grave pel maestro:

    ridursi spia fida, continua, instancabile di ogni individualità commessa alla sua opera educativa,

    rinunziando del tutto a ogni slancio spontaneo e indipendente del suo proprio essere. Ma cessa il

    sacrifizio e la rinuncia, se si considera che questo entrare dell‟educatore nel processo spirituale

    dell‟educando non è punto un uscire da se medesimo, non è come un distaccarsi da sé, per aderire a un

    processo estraneo, ma è né più né meno che realizzare il proprio processo. Realizzarlo, s‟intende

    sempre, nella determinatezza della propria soggettività.

    6. Farsi, non essere maestro.

    E qui è la chiave così della vita dell‟educatore, come dell‟intelligenza di essa. Se tutto è spirito, tutto è

    spirito in quanto si fa spirito. Educatore ed educando sono spiriti, ma in quanto si fanno, nel loro farsi.

    Rispetto a un momento ulteriore ogni farsi è qualche cosa di fatto, non è unità ancora, ma dualità; e in

  • 16

    generale, molteplicità. Maestro e scolaro, nel loro primo incontrarsi, possono, di certo, dissentire e

    sentire ciascuno l‟altro fuori di sé, repellente, chiuso, impenetrabile: non quale spirito, che, come

    sappiamo, è assoluta permeabilità e trasparenza intima, ma quale materia: una cosa e magari un coso.

    Ma ancora non sono veri maestro e scolaro, devono farsi; e il loro essere, nella loro correlazione

    educativa, è farsi.

    7. Processo indefinito della formazione del maestro.

    Ho detto che ancora non sono veri maestro e scolaro. Ma il vero maestro, si badi, non è un termine

    fisso; né il vero scolaro. Non è possibile additare un punto, oltre il quale si abbia il vero maestro o il

    vero scolaro. Il maestro vien diventando sempre più vero maestro; e così lo scolaro. Empiricamente, si

    può dire che il primo incontro sia già l‟inizio dell‟educazione. Perché, sebbene allora lo scolaro non

    abbia se non una prima incerta e vaga immagine o conoscenza dell‟aspetto esteriore di chi poi gli verrà

    aprendo sempre di più l‟anima sua, quell‟aspetto già conosciuto è esteriore in paragone di ciò che ne

    conoscerà più tardi con la consuetudine della scuola, ma è già il principio di quello stesso processo

    spirituale, in cui si verrà attuando tutto il suo profitto.

    Ma c‟è veramente un primo incontro dello scolaro col maestro? Ciò apparirà meglio appresso, quando

    approfondiremo il concetto dell‟educatore. Qui ci basti conchiudere, che un atto educativo non è

    concepibile se non ad un patto: che cioè attraverso di esso si realizzi l‟unità degli spiriti che vi

    concorrono; e che perciò vero maestro è solo colui che si sente solo nella sua scuola, risolvendo nella

    propria l‟individualità degli scolari».

    GIUSEPPE LOMBARDO RADICE (1879-1938)

    G. Lombardo Radice, Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, [1913], XXIX ediz.,

    Sandron, Firenze 1952, pp. 11-25.

    «L'educando vero è quello che sente nel maestro se stesso, ciò che egli guardando dentro di sé e

    scontento di sé, vuol divenire. Se non ci fosse nello scolaro la scontentezza di sé, che lo spinge a

  • 17

    guardare il maestro, come al suo io migliore che vuol sorgere, ma trova difficoltà e angustie da cui gli

    convien districarsi; se non ci fosse nello scolaro la lotta contro se stesso, come elemento essenziale di

    vita, lo scolaro stesso non ci sarebbe se non come un quid estraneo, ciecamente, immutabilmente

    ribelle, anzi sordo come questo foglio di carta, che non capisce e non capirà mai in eterno le parole che

    vi sono vergate, cioè lo spirito di chi le scrive.

    Ma lo scolaro come un quid estraneo al maestro non esiste, perché non esiste l'uomo estraneo all'Uomo

    [...]

    Si può ora definire la disciplina come un interiore conformarsi dell'alunno alla legge che sente viva e

    operosa nel maestro, o meglio; la formazione di una legge di vita, che si genera nella coscienza del

    maestro e dell'alunno, nell'atto della loro comunione spirituale che è l'educazione.

    [...]

    Ma l'alunno di tenera età, cioè l'alunno che ha quasi solo una coscienza immediata, il bambino che si

    lascia vivere nel mondo delle sue sensazioni, tutto riempiendosene, ed avverte solo, con crepuscolare

    coscienza, che quel suo mondo non è tutto - e cerca fuori di sé, negli adulti, la regola di cui ha

    oscuramente bisogno - se non sente la coerenza dell'adulto che dovrebbe dirigerlo, si smarrisce e si

    attarda nell'infantilità sua, prendendo come norma la stessa assenza di norma; amando e odiando a

    seconda che il suo bisogno sia secondato o contrariato.

    [...]

    Il bambino non è quello che si dice imitatore, quasi ripetitore passivo degli altri; egli invece cerca negli

    adulti se stesso, quel sé migliore e superiore al suo essere presente, verso il quale aspira oscuramente

    (se l'aspirazione fosse chiara, pienamente cosciente, egli non avrebbe bisogno di maestro!); e quel

    copiare gli altri non è che sviluppare se stesso: un cattivo maestro gli fa perdere, in parte almeno, il

    dominio di sé, o meglio, non gli fa trovare la norma che egli cerca; si oblierà, perciò e sarà quello che

    solo potrà essere: indisciplinato, cattivo.

    Si può dunque ripetere qui quella che è la più pregnante delle sentenze didattiche: il metodo è il

    maestro; la disciplina è il maestro; la sua anima che domina, nella quale gli alunni obliano il loro

    piccolo mondo chiuso, individuale, dimenticando quasi di essere quello che sono, nel sentirsi quello

  • 18

    che è per tutti loro il maestro.

    [...]

    La disciplina in genere si riduce perciò ad autoeducazione (integrazione nell'animo del discente degli

    esempi e della regola; dei castighi, dei premii, etc. etc., e del concetto del dovere). Ma quando si dice

    autoeducazione si intende sempre parlare dello spirito umano, non dello spirito individuale, isolato.

    Giacché l'individuo è l'umanità stessa: l'insieme delle influenze che egli ha organizzato per modo da

    farne la sua coscienza. Nell'autoeducazione dell'alunno c'è anche il maestro, anzi tutti i maestri che egli

    ha fatto suoi, organizzandoli in un solo maestro: l'animo suo. La formula che si conviene

    all'autoeducatore (all'uomo) è: discepolo di tutti, maestro di sé».

    G. Lombardo Radice, Athena fanciulla. Scienza e poesia della scuola serena, [1925], Bemporad,

    Firenze 1926.

    I fanciulli di Alice Franchetti, pp. 44-72

    «Il contadinello de La Montesca è uno scolaro che sa prendere appunti di tutto ciò che lo interessa, a

    scuola e fuori. E' ristretto, perché la vita del podere tosco-umbro isola gli uomini in piccolissimi gruppi,

    lontani l'uno dall'altro. Per anni ed anni si può dire, come mi scrive la Marchetti: 'la sua esistenza si

    svolge fra la casa e i campi dove conduce al pascolo pecore o maiali, in mezzo alla natura, sì, ma con

    occhi che senza la scuola non vedrebbero, cioè non saprebbero ammirare'.

    La Montesca gli presenta ogni cosa come un miracolo gentile, che bisogna comprendere ed amare; lo

    collega col mondo sociale, lo trasforma in un piccolo conversatore, in pittore del suo mondo.

    Il risultato, a scuola finita, è documentato da questi passi di lettere scrittemi da varie serene

    osservatrici, maestre. C'è un profondo buon senso. Scrivendo, Dio ci liberi, a un 'pedagogista' quelle

    brave figliole non parlano di scuola, di esami e di promossi. Oh no, e si vede proprio da ciò che sono

    maestre de La Montesca.

    1. - In genere i nostri alunni rimasti a casa, dopo aver compiuto la sesta, si dimostrano attenti al loro

    lavoro e pronti ad accettare di provare cose nuove. Le ragazze disimpegnano bene i lavori di massaia. -

  • 19

    2. - Gli uni e gli altri acquistano un tratto gentile, che li distingue dagli altri piccoli contadini. -

    3. - I ragazzi che hanno seguito la nostra scuola sono più pronti a seguire consigli (in materia agricola)

    e a tentare migliorie al podere. -

    4. - Quando venni qui non avevo fatto mai scuola... Rimasi commossa nel vedere questi bambini così

    affettuosi e franchi. -

    5. - I bambini insegnano anche a me molte cose. E' una gran gioia a sentirli discutere con me degli

    esperimenti che fanno. -

    6. - Dopo aver terminato il corso elementare le bambine vengono sovente a trovare le insegnanti (il

    giovedì spesso vengono alla sera); fanno loro gran festa incontrandole; sono felici che la maestra visita

    le loro case; ricorrono alla maestra in ogni bisogno; continuano a leggere i libri della biblioteca. I

    ragazzi frequentano per diversi anni la scuola serale; se vanno soldati scrivono di tanto in tanto, e in

    questo momento diversi sono quelli che ci scrivono dal fronte con gratitudine ed esprimendo nobili

    sensi circa il loro dovere. -

    7. - I bambini che provengono da altre scuole diventano ben presto i più entusiasti ammiratori della

    scuola e della maestra, e si interessano molto al disegno, anche se, rispetto ai compagni già sveltiti,

    incontrano difficoltà. Si dimostrano più espansivi. Dicono che questa è una vera scuola. -

    - Le famiglie si dimostrano più deferenti di quelle i cui figli vengono nelle nostre scuole fin dall'inizio

    dell'insegnamento.

    Vien da ridere a pensare come tanta gente attribuisce la bontà della scuola alla ricchezza del materiale

    didattico! Come se i sussidi didattici non fossero sempre in funzione dell'anima di chi li adopera! Ma

    per molti anni "il giudizio fatto" era quello. Me lo conferma questa lettera di una insegnante de La

    Montesca:

    - Molti maestri e visitatori hanno attribuito al materiale didattico il merito delle nostre scuole e molto

    leggermente hanno esclamato: Eh! Con questo materiale, sfido che si possono fare tante cose! Eh! Non

    tutti possono avere scuole fornite come quella del barone Franchetti. Noi, anche volendo, non

    potremmo far nulla. -

  • 20

    Ma, ammettiamo che "il materiale" abbia giovato a facilitare la buona maturazione del frutto didattico;

    il vantaggio era tolto da un danno: l'orario.

    - A La Montesca ogni classe rimane affidata all'insegnante per tre ore; a Rovigliano da due ore a due

    ore e mezzo. In quelle ore, ogni momento ha la sua occupazione e guai se l'insegnante non ha ben

    chiaro nella mente quel che farà!

    Insegnanti ed alunni hanno le ore contate. -

    Del resto né la bella sede, né il ricco (e pressoché inutile, dico io) materiale didattico giovarono a

    trattenere tutte le insegnanti: ed alcune di esse si allontanarono per accettare sedi incomparabilmente

    inferiori. Perché?

    Non resistevano alla fiamma di Alice Franchetti. Alice Franchetti era una santa della attività, non una

    protettrice della pigrizia! Una persona autorevole mi comunicava che "dopo un anno di lavoro, si

    stancarono di dover rifare la propria cultura, specialmente scientifica e si cercarono una delle solite

    scuole, dove basta leggere e scrivere".

    Povere creature, sperdute nella scuola, senza preparazione e vocazione! Quante, purtroppo, ve ne sono

    ancora, per cui la scuola è un mezzo per campare e null'altro! Quel che importa è il senso di

    responsabilità che assume il bambino con questi esercizi. Egli formula i pensieri, egli ha da dettarli ai

    compagni, dopo il buon lavoro di pulitura stilistica e grammaticale, cui viene sottoposto (quasi senza

    parere), nella conversazione scolastica, tutto ciò che egli dice.

    Non scompare affatto l'individualità del bambino, ma è più che altro la sua logica che viene esercitata.

    Tutta la carità di Alice Franchetti mira a formare questo spirito logico. Il sentimento non è soffocato

    (tutt'altro), ma non trova un posto negli scritti, se non quando vien da sé, ed è contenuto entro limiti,

    togliendo le parole inutili. La gran virtù del contadino è il parlar poco, quasi il rispetto della parola,

    come cosa che non è da sprecare. Il bambino con questo suo pensare e dettare per i compagni e ai

    compagni cerca, da sé, ciò che può essere pensiero di tutti, sentimento di tutti, in una circostanza

    ipotetica, ma già verificatasi. Quindi quella obiettività del suo spirito, che si attacca alle cose precise,

    controllate da tutti i compagni, accertate molte volte in comune. L'importante per lui diventa di non

    dimenticar nulla di essenziale, che anche un altro bambino dovrebbe dire e di non far nulla di

  • 21

    superfluo. Il suo scritto piglia sapore di "formula", ma la formula è trovata dal bambino; l'espressione

    del sentimento assume il carattere "rituale", ma la ritualità è sentita davvero come la manifestazione

    dell'anima di tutti, e il rito non è imparato, manierato, meccanico; ma anche esso trovato, come cosa

    necessaria a tutti.

    Tutto questo è veramente rurale: nobilmente rurale. E' propria del contadino dell'Italia centrale la

    serietà e la sobrietà del discorrere che esso chiama sempre "ragionare". ("Si ragionava della stagione

    che fa quest'anno"). E del resto il contadino, di tutti i paesi, è conciso e sentenzioso; il cittadino è

    chiacchierone. Il contadino saluta e ringrazia e prega, sempre con le stesse parole, che paiono "frasi

    fatte" e sono invece sentitissime, comecché rituali; il cittadino invece va cercando le parole e le varia, e

    bene spesso le diluisce.

    Il contadino ha uno spirito ordinativo, nonostante tutte le sue superstizioni; ha bisogno di esser munito

    di qualche cosa da credere per ogni caso della vita; non ha dubbi; ma quando li ha e chiede è per lo più

    credulo verso chi ne sa più di lui, mentre quando ha la sua idea, è incredulo verso chiunque lo

    contraddica. Perché ha bisogno di camminare sul sodo e per sentirsi tranquillo rifugge dal rifare le sue

    idee.

    Ciò denota non pigrizia mentale, ma prudenza del suo intelletto. E' una certa forma mentale-morale che

    si dice posatezza; e tutti intendiamo subito che cosa sia. Questa non va scombussolata, ma aiutata.

    L'educazione rurale de La Montesca è perciò essenzialmente scientifico-pratica. La pietosa creatura

    francescana che fu Alice Franchetti non voleva la limitatezza del contadino, ma non voleva rovinare il

    valore morale che è in quella apparente limitatezza. L'educazione scientifica (osservazione personale;

    osservazione continuata dello stesso oggetto della natura, per settimane e settimane; voler toccar con

    mano la verità; chiarirla dimostrandola, rendersi conto dei fenomeni più comuni che ci lasciano per

    solito indifferenti e incuriosi) ha la sua parte di valore come educazione estetica (lucidus ordo della

    esposizione; disegno accurato che accompagna via via le osservazioni).

    Esaminando questi compiti fanciulleschi, che valgono sempre come collettivi, sebbene siano

    genuinamente individuali, sorprende però una certa uniformità, che a lungo andare diventa anche un

    poco freddezza. Si sente che qui è il pregio massimo, ma anche il difetto de La Montesca.

    La Montesca, difatti, ispirata da Alice Franchetti e tecnicamente in buona parte da Lucia Latter, mentre

  • 22

    dà un grande valore alla regione, come vita agricola, non arriva a sentire il valore del dialetto, della

    tradizione popolare, dei proverbi, della poesia di popolo. E lo stesso disegno è sempre da un pò troppo

    regolato e riproduce, in cicli di osservazioni, presso a poco gli stessi fenomeni, di anno in anno. Non

    diventa mai disegno-giuoco (scopritore della personalità del bambino), ma è sempre disegno-

    composizione dello studio elementare della scienza fatto sul vero. E perciò ogni disegnatore somiglia

    molto agli altri.

    Arriva, specie nelle bambine, ad una sua perfezione di coloritura, ma limita la scelta. Ed è strano che

    mentre il bambino d'ordinario si prova a disegnar tutto, il contadinello de La Montesca non disegna che

    piante, o "particolari" illustrativi delle piante studiate. Quando sorpassa questi limiti, il disegnatore è di

    carattere geometrico (la casetta, la porta, il ponte, la bandiera, ecc.) o geografico.

    Lo spirito Franchetti-Latter rimane in questo un po‟ troppo anglosassone. Dà risultati mirabili, ma non

    ha germinazioni nuove né prosecuzioni.

    E non dico che sia stato torto di alcuno, perché con quelle poche ore e con i programmi vecchi da

    rispettare non c'era da fare molto di più; anzi non dico che sia stato un male, perché era bellissimo

    acquisto quella stessa vigorosa limitazione della spontaneità, senza uso di artifici».

    ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960)

    A. Ferrière, La scuola attiva, [1920], tr. it., V ediz., Marzocco, Firenze 1950.

    Cap. 1- Le fondamenta psicologiche su ci si edifica la scuola attiva, pp. 24-26

    […]

    II

    «Lo slancio vitale dello spirito sta alla radice della vita, è la sorgente di ogni attività degna di questo

    nome; senza di esso trionfa il meccanismo; in lui tutto è splendore, calore, amore e luce. Vi è forse un

    tesoro più prezioso in tutti gli esseri viventi? Rispettiamolo, adunque, nell‟uomo! Maxima debetur

  • 23

    puero reverentia! Questo impulso alla vita, questa forza che dirige la vita dello spirito è già, per noi,

    non soltanto un fenomeno conosciuto e studiato, ma è ormai l‟oggetto d‟ogni nostra cura in educazione;

    il suo sviluppo è un fine da raggiungersi e, al tempo stesso, rappresenta il solo mezzo che l‟uomo

    possegga per avvicinarsi sempre di più alla meta suprema: l‟arricchimento delle proprie energie

    spirituali, il potenziamento di se stesso. Nelle pagine seguenti noi vedremo quanto sia importante per

    l‟educazione conservare ed accrescere questa sorgente di vita che è in noi, ma non potremmo

    accingerci a questa ricerca senza prima porci un altro problema, tentando di risolverlo: come si

    manifesta questo potentissimo impulso? Per quali vie, con quali mezzi esso opera e si fa palese? In

    fondo, rispondere a queste domande, posto che per noi il “progresso” è questo cammino in avanti verso

    l‟arricchimento delle proprie energie spirituali, non significa rispondere all‟altra, quale sia la legge del

    progresso? Non esaminerò, qui, il problema dal punto di vista biologico e fisiologico come ho già fatto

    lungamente nell‟opera già citata. Ivi il lettore troverà descritto come l‟esperienza, che è, poi, il contatto

    tra l‟individuo ed il mondo esteriore, operi, per mezzo del piacere o del dolore che essa porta con sé,

    una scelta tra le reazioni; come la reazione, incerta dapprima sulla direzione da prendere, divenga poi

    appropriata, tale, cioè, da contribuire all‟adattamento dell‟individuo all‟ambiente; in quale modo la

    nostra reazione si fissi, si meccanizzi, si imprima nell‟incosciente così da liberare la forza vitale

    consentendole nuovi adattamenti; per che vie lo slancio vitale discerna sempre meglio e sempre meglio

    impieghi a suo profitto quello che di costante si nasconde sotto l‟apparente molteplicità dei fenomeni.

    Fare questa conoscenza empirica, appropriarsela, arricchendosi per suo mezzo sempre di più; crearsi

    delle possibilità d‟azione sempre più svariate; guardarsi e difendersi sempre meglio dalle cause di

    distruzione; ecco quello che si vuol significare con l‟espressione legge del progresso. Essa, dunque,

    vuol compendiare due elementi complementari: 1°) la divisione del lavoro che si stabilisce tra le varie

    attività, siano esse di percezione, di discriminazione o d‟azione; 2°) quel potere di unificazione sempre

    crescente che riunisce in un sol fascio tutte le forze dell‟organismo altrimenti divergenti.

    Per chiarire il processo con una immagine, si può dire che la differenziazione, o divisione del lavoro, va

    dal centro alla periferia, mentre la concentrazione, od unificazione, va dalla periferia al centro. Così si

    forma lentamente, ma con un progresso continuo, il nostro spirito; le varie funzioni al suo servizio

    formano una gerarchia che potremmo dire a piramide e così pure potremmo raffigurarci la gerarchia dei

    valori nel seno stesso dello spirito. Io non posso ripetere qui tutto quello che ho già scritto; basti aver

    ricordato, poiché parliamo di educazione, che la legge del progresso, vale a dire l‟equilibrarsi della

  • 24

    differenziazione e della concentrazione, vige anche in psicologia».

    […]

    Cap. 3- L’attività manuale nella scuola attiva, pp. 96-99

    «Fondamenti basilari della Scuola attiva sono dunque lo slancio vitale del fanciullo e la sua attività

    spontanea; la meta a cui mira la Scuola nuova è l‟infinito accrescimento di questa energia spirituale,

    accrescimento non di sola quantità, ma soprattutto di qualità nel contatto sempre più stretto coi valori

    universali e permanenti dello spirito. L‟educazione si svolge tra quel punto di partenza e questo punto

    di arrivo. Essa prende, dunque, le mosse dal fanciullo vivo, cioè non da quello concepito in abstracto, o

    visto attraverso le statistiche della psicologia sperimentale. Questa non voglio negarlo, è una

    ammirabile scienza ma come ogni scienza stabilisce delle leggi, ed una legge è proprio quanto si può

    concepire di più lontano da una individualità concreta: la legge è sempre ed ovunque uguale o non è più

    legge, mentre l‟individuo è sé stesso, originale, unico; fra milioni di individui abitanti la Terra non se

    ne troverebbe un altro che gli fosse identico. Ogni energia che si manifesta nell‟individuo obbedisce

    certamente a delle leggi, ma egli, come punto di convergenza di milioni di forze, è un “complesso” che

    si modifica continuamente, si trasforma, progredisce o regredisce, progredisce in un certo campo e

    regredisce in un altro, che concentra sino all‟esaurimento le sue energie sotto l‟egida del suo io, o che

    al contrario assiste alla dissociazione, alla dissoluzione dei suoi centri d‟energia. Tale è l‟essere in

    apparenza molto semplice ma di fatto assai complesso, che l‟educatore ha innanzi a sé, l‟essere ch‟egli

    deve conoscere, deve guidare. Sotto lo sguardo diritto, franco, semplice, gioviale del fanciullino che

    giuoca al sole, si nasconde ai nostri occhi una personalità così ricca, un sistema gerarchico di forze e di

    tendenza subcoscienti così complicato che nessuno può sperare di coglierne il meccanismo

    sconosciuto. Trascinato talvolta da una forza interiore che gli fa compiere, con suo grande stupore,

    delle prodezze di cui egli non si sarebbe mai creduto capace, oppure posto di fronte alle tendenze

    distruttive, scaturite dalle profondità oscure del suo essere, che, attraverso mille lotte di cui le sorti sono

    alterne, tendono a condurlo al dolore e alla disperazione, egli sarà come il capitano d‟una nave che sia

    soltanto di nome capo del suo naviglio e del suo equipaggio e che per poterli dirigere è costretto a

    conoscerli a fondo, ad accettare l‟inevitabile e, talvolta, a tendere in uno sforzo supremo tutto il suo

    essere per far valere la sua volontà.

    Se questo è il fanciullo, che cosa dovrà fare il maestro? Egli deve, l‟ho già detto, prender le mosse dalla

  • 25

    realtà, vedere l‟essere che gli sta innanzi quale esso è, non quale esso potrebbe essere e, meno ancora,

    quale dovrebbe essere secondo il suo giudizio; il maestro che si lamenta dell‟alunno accusa se stesso.

    Se il fanciullo è affetto da incoordinazione mentale, compiangetelo, non lamentatevi; osservatelo,

    cercate, e quasi certamente finirete per scoprire in lui almeno un punto attorno a cui egli coordina le sue

    forze per agire spontaneamente, ove un vivo interesse lo spinga. Avete scoperto questa sorgente

    nascosta? Siete solo per questo sicuri della riuscita; non cercate più lontano, od almeno non cercate

    altro per il momento, giacché con la sorgente avete scoperta la forza motrice che metterà in moto il

    molino, a condizione che voi non le chiediate più di quanto può dare; voi avete raggiunta la possibilità

    di coordinare e concentrare sempre meglio quest‟attività spontanea ed altresì di arricchirla o di

    differenziarla sempre più.

    Riassumendo. Punto di partenza d‟ogni azione educativa sia l‟attività spontanea dei fanciulli: occorre

    partire dalle loro attività manuali e costruttive, da quelle intellettuali, dai loro interessi, dalle loro

    preferenze, dalle loro tendenze dominanti; bisogna prendere le mosse dalle loro manifestazioni morali e

    sociali quali si presentano nella vita libera e naturale d‟ogni giorno, secondo le circostanze, compresi

    gli avvenimenti previsti o imprevisti che sopravvengono.

    Educare significa rispettare la natura dell‟educando per condurla (ex-ducere) a mete più alte e quindi è

    necessario che l‟adulto abbia una sicura conoscenza del fine a cui tende, che questa consapevolezza si

    faccia gradualmente più profonda nel fanciullo stesso, perché, come abbiamo detto, l‟adulto non sta

    accanto al fanciullo per imporre il suo volere, per usufruire di un‟arbitraria autorità, ma gli è accanto

    per sostenere la buona volontà del fanciullo, in nome dei valori spirituali, amore, ragione, verità, bene.

    […]

    Due sono i poli tra cui corre la Vita, lo slancio della vita spirituale e la “Ragione divina”, e due sono i

    poli tra cui corre l‟educazione: le attività spontanee del fanciullo e la sua preparazione alla vita, alla

    vita quale è realmente ed alla vita quale potrebbe essere se tutti gli individui sapessero, potessero, e

    volessero renderla socialmente e moralmente migliore.

    Noi abbiamo, sino ad ora, visto le attività spontanee dei giovani sboccianti alla vita rivelarsi sotto il

    triplice aspetto di attività manuali, sociali ed intellettuali. Ci occuperemo partitamente di ciascuna nelle

    pagine seguenti, ma vogliamo fissare qui, alle soglie di questa trattazione, una norma generale

  • 26

    d‟educazione dalla quale non potremo derogare che a condizione di smarrire il senso della vita, di

    turbare l‟equilibrio della nostra opera. Vogliamo, cioè, affermare che la nostra azione educativa dovrà

    innestare sulle attività spontanee altre che potranno e dovranno condurre l‟essere all‟adattamento alla

    vita quale gli si presenterà. Con la parola adattamento non intendo affatto significare una passiva

    sottomissione; tutt‟altro. Vivere non è sinonimo di subire ma, piuttosto, di conquistare. Facciamo che la

    volontà di vivere sbocchi nella volontà di meglio vivere come un fiume sbocca in un lago in cui la sua

    forza energetica sarà centuplicata.

    Teniamo presente che l‟adattamento, per se stesso, non implica un progresso: lo si è dimostrato

    all‟evidenza, un essere potrà, sì, adattarsi a condizioni che gli siano meno favorevoli delle sue abituali,

    ma, anziché progredire, come avverrebbe in condizioni normali di sviluppo, egli regredirà.

    D‟altra parte non va dimenticato che non è possibile il progresso senza l‟adattamento. Essere padroni di

    se stessi: che altro significa se non sottomettersi alle leggi che reggono l‟organismo fisico e psichico?

    Questo è, però, un adattamento che vuole sboccare nel dominio, è, cioè, un adattarsi in un primo tempo

    perché queste leggi si pieghino a lor volta in un tempo ulteriore ad un più alto ideale di vita, è, infine,

    un piegarsi alle leggi inevitabili, necessarie della natura vivente per vincere, con la loro alleanza, tutti

    gli ostacoli superabili ch‟essa ci oppone.

    Nella stessa conquista del mondo fisico (che è l‟opera della scienza) assistiamo ai due atti del dramma:

    il conoscere che implica, dapprima, un adattamento è, poi, il mezzo d‟asservimento delle forze cieche.

    Nel mondo sociale altresì (sarei tentato di scrivere: nel mondo sociale soprattutto) si potranno

    rintracciare facilmente le vicende d‟un reciproco adattamento fra azioni e reazioni, in ogni individuo,

    tendenti ad un equilibrio che è incessantemente perduto, ritrovato e ristabilito sempre meglio».

  • 27

    MARIA BOSCHETTI ALBERTI (1879-1951)

    M. Boschetti Alberti, Il diario di Muzzano, [ediz. it. 1951], La Scuola, Brescia IX ediz. 1963, pp. 23-

    27.

    Lo zio Pep

    «Fu certamente lo zio Pep a indirizzarmi verso le “scuole nuove”. Lo zio Pep era fratello di mia madre

    (ora son morti entrambi) ed era un grande lavoratore, uomo pieno di buon senso. Amava istruirsi, e la

    sua conversazione era assai interessante. Ma quando aveva un po‟ bevuto (per bere trovava il tempo

    anche in mezzo ai suoi gran lavori), allora, se lo incontravo, eran guai.

    “La maestra! Eccola „la maestra‟! (E che disprezzo metteva in questa parola!). Una volta che uno si

    dice „maestro‟, crede di conoscere già tutto lo scibile umano; non pensa più a studiare, a leggere: è

    „maestro‟! Hanno ragione i Francesi che dicono: „Bête comme un maȋtre d’école…‟. I maestri moderni,

    poi, con tutte le loro pretese!... Hanno più criterio gli allievi dei maestri. Almeno, hanno più criterio

    prima di andare a scuola: perché quando sono a scuola, i maestri li incretiniscono. Provate ad entrare in

    una scuola: si alzano tutti in piedi come burattini ai quali sia stato tirato il filo; belano tutti insieme il

    medesimo saluto; poi restano lì tutti, in piedi come babbei. Hanno tutti l‟impressione chiusa e ristretta

    del loro maestro…”.

    […]

    Al pensiero del nonno, si chetava il risentimento per le parole dello zio Pep.

    Ma al mattino, quand‟entravo nella scuola, non potevo fare a meno di riflettere: “Eppure lo zio Pep ha

    ragione: questi ragazzi si alzano tutti come burattini ai quali si tiri lo spago dietro: belano tutti il

    medesimo saluto; hanno precisamente facce tutte eguali, sguardi senza espressione, occhi di vetro”.

    E li osservavo. Fuori, sul piazzaletto (era il piazzaletto del villaggio ticinese di Muzzano) erano pieni di

    brio, esuberanti di vitalità. Ma appena suonava l‟ora delle lezioni salivano le scale levandosi il berretto,

    e prendevano un‟espressione di rassegnata passività: quando poi varcavano la soglia della classe, erano

  • 28

    altri ragazzi: voci senza colorito (fin la voce cambiavano!), occhi senza espressione, maschere

    senz‟anima…

    “Ma perché – mi domandavo – ma perché cambiano così? Siamo veramente noi maestri che li

    incretiniamo?”.

    In cerca di novità

    Allora mi venne volontà di sapere se in tutte le scuole gli alunni subivano questa trasformazione. E

    quando lessi che la Società Demopedeutica prometteva un sussidio al maestro che avesse voluto andare

    all‟estero a studiare i nuovi metodi d‟insegnamento per i deficienti, con grande ansietà scrissi al

    Presidente della Demopedeutica, prof. Tamburini. Fui felicissima quando egli mi rispose

    concedendomi il sussidio: felicissima perché pensavo: “Studierò per gli anormali; ma nel medesimo

    tempo visiterò molte scuole di normali, e forse troverò la soluzione del problema che mi preoccupa”.

    Domandai dunque al mio papà il permesso di recarmi in Italia per seguire quel corso di studi.

    Egli mi rispose: “Vedremo”.

    Quella risposta così vaga mi fece male. Ma sapevo per esperienza che col papà (son tutti morti ora, tutti

    morti!) dovevo sempre attendere le risposte. Difatti mi chiamò due o tre giorni dopo e mi disse: “Ho

    parlato col tuo Ispettore. Dice che tu fai benissimo scuola: ch‟egli non ti domanda né crede che tu possa

    far meglio. Dunque anch‟io, come lui, credo che non sia il caso che tu vada in Italia a far corsi e altre

    novità”.

    Tentai di spiegargli che non ero contenta dei risultati che ottenevo. Ma non m‟arrischiai a dirgli che

    quel che più m‟interessava era sapere perché gli alunni fossero fuori di scuola vivi, e dentro morti.

    Ripeté: “La mia risposta te l‟ho data. Se vuoi andare a far corsi inutili, va pure. Io non te lo proibisco:

    ma non ti do neanche un centesimo”.

    […]

    Ma qui voglio fermarmi, e fare alcune osservazioni.

  • 29

    In quei tempi, non avevo amore per i miei scolari. Eravamo anzi nemici. Io, da una parte, sulla cattedra,

    ritta, severa, come una divinità antica: loro dall‟altra, separati da me da un muro di ghiaccio. Io, sola,

    con la mia forza che consisteva tutta nei castighi: essi, tutti uniti in una segreta società, tutti uniti contro

    di me. Nemici.

    Non potendo amare i miei alunni, non amavo neanche la scuola. Ogni giorno aspettavo con impazienza

    l‟ora dell‟uscita: aspettavo con impazienza i giorni di vacanza. Non amando i miei alunni, non amando

    la scuola, si può figurarsi che lezioni io facessi! L‟onorario mensile era il mio „solo‟ ideale. E confesso

    (e nel confessarlo, arrossisco) che quando il romanzo che stavo leggendo era proprio interessante, lo

    portavo in iscuola e finivo di leggerlo nascondendolo nel cassetto semiaperto della cattedra.

    Dio mi perdoni tutto il male fatto a quelle anime di ragazzi, in quegli anni!

    Ebbene: il signor Ispettore trovava che io facevo scuola benissimo: la Demopedeutica mi largiva

    sussidi: il Dipartimento “Educazione” mi dava lettere di raccomandazione.

    Oggi, che sento di fare la scuola con vera passione, che amo i fanciulli, che prendo la più minuziosa

    cura della loro educazione ed istruzione, credete che l‟ispettore direbbe ch‟io faccio benissimo la

    scuola? Che le Società pedagogiche mi largirebbero ancora sussidi? Che otterrei ancora dal lod.

    Dipartimento “Educazione” lettere così lusinghiere?

    Io credo di no.

    E perché?

    Forse per questo: quando uno sa di non compiere il suo dovere, se si trova davanti ai suoi superiori, si

    industria il più possibile per convincerli, per ingannarli; mentre quando uno è persuaso di fare del suo

    meglio, sdegna ogni falsità. E la verità sola, nuda, non appoggiata da alcunché di „morbido‟, forse non

    serve a convincere.

    O forse anche per questo: che una faccia giovane, con qualche dote esteriore, convince meglio di una

    faccia già segnata dal marchio del tempo».

  • 30

    CÉLESTIN FREINET (1896-1966)

    C. Freinet, Le mie tecniche, [1967], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 11-16.

    «All‟origine delle mie ricerche vi è dunque la necessità in cui mi trovai di migliorare le mie condizioni

    di lavoro per una possibile maggiore efficacia. E vi fu anche una insensata ostinazione a fare onore a un

    mestiere che amavo e che avevo scelto.

    Mi spinse fuori dei soliti sentieri anche un‟altra caratteristica del mio spirito e delle mie tendenze: un

    bisogno quasi fisiologico e morale di aderire a una classe sociale e più ancora alla corporazione

    insegnante in cui si rispecchiavano massicciamente i dati di un ambiente del quale ero parte integrante.

    Il mio problema si poneva da sé: trovare il mezzo di lavorare meglio senza isolarmi dai miei colleghi.

    Quando scoprii la tipografia scolastica avrei ben potuto, come si procede volentieri oggi, far brevettare

    la mia innovazione e, in seguito, come Maria Montessori, far brevettare un materiale che sarebbe stato

    alla base del nuovo metodo. Ma, ciò facendo, mi sarei allontanato fin dal principio dalla massa degli

    educatori, di cui non avrei più potuto rappresentare l‟espressione, altro che eccezionalmente.

    Presi immediatamente un‟altra direzione; invece di conservare il segreto sulla mia scoperta,

    deliberatamente lo versai nel crogiolo cooperativo. Non eravamo ancora che pochi pionieri, fra i quali

    Ad. Ferrière, quando già davo vita a una cooperativa con circolari, bollettino, una rassegna di testi di

    ragazzi: la Gerbe, scambi di documenti, organizzazione di corrispondenze interscolastiche, prime

    riunioni in occasione dei Congressi della efficiente Federazione dello Insegnamento. Avevamo già

    infranto il cerchio dello sterile individualismo. Avevamo gettato le basi del nostro movimento

    pedagogico cooperativo.

    Ma ritorniamo agli inizi della mia vita di insegnante: bisognava dunque che mi ponessi in cerca, fuori

    della routine scolastica di cui si contentavano più o meno tutti i miei colleghi di una soluzione nuova,

    una tecnica di lavoro che si adeguasse alla misura delle mie ridotte facoltà.

    Procedei allora come tutti i ricercatori. Adottai quello stesso procedimento per tentativo sperimentale

  • 31

    che in seguito diverrà il centro del nostro comportamento pedagogico e delle nostre tecniche di vita.

    Lessi Montaigne e Rousseau, e più tardi Pestalozzi, al quale mi sentivo legato da una stupefacente

    parentela. Ferrière orientò i miei tentativi con la sua École active e la Pratique de l’École active. Visitai

    le scuole comunitarie di Altona e di Amburgo. Un viaggio nell‟URSS, nel 1925, mi pose al centro di un

    fermento di esperienze e di realizzazioni per qualche verso allucinante. Nel 1923 partecipai al

    Congresso di Montreux, indetto dalla Lega internazionale per la nuova educazione, dove si trovavano

    fianco a fianco i grandi maestri dell‟epoca, da Ferrière a Pierre Bovet, da Claparède a Cousinet e a

    Coué.

    Ma quando mi ritrovai solo nella mia classe, nell‟ottobre successivo, senza sostegno e senza l‟appoggio

    morale dei pensatori che ammiravo, mi sentii disperato: nessuna delle teorie lette e capite poteva venir

    trasposta nella mia scuola di villaggio. […] Fui dunque costretto a ritornare bene o male agli strumenti

    e alle tecniche tradizionali, fare lezioni che nessuno comprendeva, dare in lettura testi che, se anche

    semplici, non avevano nessun significato per lo sviluppo educativo dei ragazzi. […]

    In tale logorante atmosfera ero costretto ad arrabattarmi, come un pagliaccio privo di risorse, per

    intrattenere un momento, artificialmente, la labile attenzione dei miei scolari. […]

    La stampa a scuola

    Una schiarita di natura pratica e tecnica in questo disperante cielo scolastico: i maestri militanti nella

    Federazione dell‟Insegnamento cercavano allora, in avanguardia, di far penetrare un po‟ di vita nel loro

    insegnamento. Si erano sperimentate le “lezioni-passeggiate”. Vocabolo evidentemente male scelto,

    infatti i genitori obbiettavano che i ragazzi non sono mandati a scuola per passeggiare, né l‟Ispettore

    aveva nessuna voglia di partire in battuta attraverso i campi per ritrovare il suo gregge.

    La lezione-passeggiata fu la mia tavola di salvezza. Invece di sonnecchiare davanti a un cartellone di

    lettura, alla ripresa della lezione nel pomeriggio, partivamo per i campi circostanti il villaggio. Lungo le

    strade ci fermavamo ad ammirare il fabbro, il falegname o il tessitore, i cui gesti metodici e sicuri ci

    facevano venire voglia di imitarli […]. Al ritorno in classe, scrivevamo alla lavagna il resoconto della

    “passeggiata”.

    Ma si trattava ancora di un angolo luminoso, scavato provvisoriamente nel muro della scolastica. La

    vita si arrestava a questa prima tappa. In mancanza di nuovi strumenti e tecniche adeguate, le mie sole

  • 32

    risorse, per insegnare la lettura di un testo stampato, consistevano nel dire in tono rassegnato: - E ora,

    prendete il vostro libro di lettura, a pagina 38: La Golosa (o qualunque altra pagina, parimente

    estranea all‟interesse del maestro e degli scolari). E mentre leggevamo La Golosa, avevamo ancora in

    testa, vive e parlanti, le immagini della passeggiata. Le parole stesse si rivestivano in funzione dei

    momenti esaltanti che avevamo vissuto. Vi era divorzio totale, e inevitabile, fra la vita e la scuola. Il

    lavoro al quale eravamo così costretti perdeva quindi tutti i vantaggi del lavoro vivo, per divenire un

    compito fastidioso e senza significato.

    Finalmente uno strumento che cambia i dati pedagogici della lezione: la stampa.

    Andavo dicendomi allora: “Se potessi, con un‟attrezzatura tipografica adatta alla mia classe, tradurre il

    testo vivente, espressione della „passeggiata‟, in una pagina scolastica che sostituisse quelle del libro di

    testo, saremmo in grado di riprovare, per la lettura a stampa, lo stesso interesse profondo e funzionale

    che sentivamo nel preparare il testo medesimo. Nulla di più semplice e logico, tanto semplice che mi

    meravigliai perfino che nessuno ci avesse pensato prima di me.

    Mi detti allora da fare per realizzare il mio sogno. Trovai per fortuna, presso un vecchio artigiano

    stampatore, un piccolo materiale di tipografia, con compositoi speciali e pressa in legno che doveva

    permetterci, in teoria almeno, la stampa dei nostri testi. […]

    Non mi aspettavo certo, in quei frangenti, che gli alunni potessero appassionarsi un po‟ durevolmente a

    un lavoro di cui potevo misurare a un tempo la complessità e la minuziosità. Ero talmente abituato al

    lavoro da imporre e che esige lo sforzo, che non immaginavo neanche potesse esistere effettivamente

    un‟altra forma di attività più leggera e più gradevole.

    Mi ingannavo. Gli scolari si appassionarono alla composizione e alla stampa, faccenda, comunque, per

    niente semplice col nostro materiale ancora rudimentale. Vi si appassionarono non soltanto perché

    ordinare i caratteri nei compositoi poteva risultare un gioco attraente, ma perché avevamo ritrovato un

    processo normale e naturale della cultura: l‟osservazione, il pensiero, l‟espressione naturale

    diventavano un testo perfetto. Questo testo lo si era fuso nel metallo, poi stampato. E tutti gli spettatori,

    cominciando dall‟autore, si sentivano quasi emozionati all‟apparire della pagina impressa, di fronte allo

    spettacolo del testo magnificato, che ormai assumeva valore di testimonianza.

    Questa fu la prima scoperta fondamentale che doveva condurci a considerare progressivamente tutto il

  • 33

    nostro insegnamento. Avevamo ristabilito un circuito naturale, prima ostruito dalla scolastica. Il

    pensiero e la vita del fanciullo potevano ormai divenire elementi massimi della cultura».