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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO CORSO DI MASTER UNIVERSITARIO BIENNALE DI II LIVELLO IN PSICONCOLOGIA TESI I TUMORI GENITOURINARI: IL DISAGIO PSICOLOGICO E I BISOGNI DEL PAZIENTE Candidata: Dott.ssa Piera Rosso Anno Accademico 2003-2005

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

CORSO DI MASTER UNIVERSITARIO BIENNALE DI II LIVELLO IN

PSICONCOLOGIA

TESI

I TUMORI GENITOURINARI:

IL DISAGIO PSICOLOGICO E I BISOGNI DEL PAZIENTE

Candidata: Dott.ssa Piera Rosso

Anno Accademico 2003-2005

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INDICE

Presentazione….………………………………………………………………… pag. 3

CAPITOLO 1

CENNI DI ONCOLOGIA UROLOGICA

1.1 IL TUMORE DELLA PROSTATA

1.1.1 Che cos’è, come si contrae, come si diagnostica…………………………... pag. 6

1.1.2 Come si cura………....................................................................................... pag. 11

1.1.3 Gli stadi del tumore della prostata…............................................................. pag. 15

1.1.4 La prognosi.................................................................................................... pag. 22

1.1.5 Cosa fare dopo il trattamento........................................................................ pag. 24

1.2 IL TUMORE DELLA VESCICA

1.2.1 Che cos’è, come si contrae, come si diagnostica........................................... pag. 26

1.2.2 Come si cura………………………………………………………………... pag. 29

1.2.3 Gli stadi del tumore della vescica................................................................... pag.32

1.2.4 La prognosi…………………………………………………………………. pag.36

1.2.5 Cosa fare dopo il trattamento…………………………………………........ pag.36

3 IL TUMORE DEL RENE

1.3.1 Che cos’è, come si contrae, come si diagnostica………………………….... pag.38

1.3.2 Come si cura………………………………………………………………... pag.41

1.3.3 Gli stadi del tumore della vescica…………………………………………… pag.43

1.3.4 Cosa fare dopo il trattamento……………………………………………… pag.46

2

CAPITOLO 2

LE CONSEGUENZE DEI TRATTAMENTI:

IMPOTENZA, INFERTILITA’, INCONTINENZA. ASPETTI PSIC OLOGICI

2.1 L’IMPOTENZA……………………………………………………………….. pag. 47

2.2 L’INFERTILITA’……………………………………………………………… pag. 58

2.3 L’INCONTINENZA…………………………………………………………… pag. 60

2.4 GLI INTERVENTI PSICOLOGICI…………………………………………… pag. 64

CAPITOLO 3

I BISOGNI DEL PAZIENTE OSPEDALIZZATO

3.1 I VISSUTI SOGGETTIVI DEI PAZIENTI OSPEDALIZZATI………… pag. 72

3.2 IL NEQ…………………………………………………………………… pag. 80

3.3 LA COMUNICAZIONE TRA PERSONALE SANITARIO E PAZIENTE pag. 85

3.3.1 Le definizioni…………………………………………………………….. pag. 85

3.3.2 Gli obiettivi della comunicazione…………………………………………. pag. 92

3.3.3 Le funzioni della comunicazione………………………………………….. pag. 94

3.3.4 Le strategie della comunicazione…………………………………………. pag. 96

3.3.5 La trasmissione delle informazioni……………………………………….. pag. 100

3.3.6 Il sostegno e l’educazione………………………………………………… pag. 103

CAPITOLO 4

I PROGETTI

4.1 PROGETTO DI SUPPORTO PSICOLOGICO A FAVORE DI PAZIENTI AFFETTI

DA CANCRO DELL’APPARATO UROGENITALE……………………….. pag. 106

4.2 IL CENTRO DI ASCOLTO PSICO-SOCIALE PER MALATI

ONCOLOGICI ……………………………………………………………… pag.113

Conclusioni……………………………………………………………………. pag. 123

Bibliografia……………………………………………………………………. pag. 125

3

Presentazione

Questo lavoro nasce dall’esperienza di tirocinio svolta presso il reparto di Urologia

dell’Ospedale di Rivoli.

Il mio operato, in qualità di psicologa, in accordo con il Primario e l’quipe dei medici, si è

svolto all’interno di due ambiti: l’ambulatorio e (principalmente) il reparto.

Presso l’ambulatorio ho svolto un’attività di affiancamento del medico nelle prime visite:

l’obiettivo è stato l’offerta di uno spazio psicologico al paziente che affronta la

comunicazione di diagnosi di cancro e di un supporto alle strategie per affrontare la

situazione che si presenta.

Le implicazioni psicologiche del paziente oncologico sono notevoli e riguardano tutto il

ciclo della malattia, dalla comparsa dei primi sintomi, alla diagnosi, alle cure mediche.

Le principali reazioni emotive provocano nei pazienti:

� profondo senso di paura e stress

� vissuto di sconvolgimento del progetto esistenziale con la perdita della proiezione

nel futuro

� caduta della propria immagine

� spiacevole alterazione del vissuto corporeo

� angoscia di disgregazione

� modificazioni imposte dello stile di vite

� perdita del ruolo famigliare

� riduzione delle capacità lavorative

� dubbi sulla capacità di mantenere un ruolo attivo nei legami affettivi e sessuali

� senso di perdita del gruppo di appartenenza sociale

� senso di frustrazione e depressione più o meno profonda per il senso di perdita

� ostilità e aggressività verso l’ambiente circostante

� sensori colpa, invidia, ingiustizia

� senso di impotenza

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Il trattamento psicologico deve innanzitutto stabilire con il paziente una relazione di

comprensione empatica che costituisca uno spazio nel quale il paziente si senta

riconosciuto e accettato con i suoi bisogni di rassicurazione, con le sue ansie, le sue paure e

la possibilità di esprimere le proprie emozioni.

Allo scopo di chiarire al paziente e ai suoi famigliari chi è e cosa può offrire la figura dello

psiconcologo, è stato riadattato un opuscolo informativo realizzato dalla Lega Italiana

contro i Tumori (in allegato).

Questo opuscolo dovrebbe essere consegnato al paziente durante la prima visita in

ambulatorio; questo momento è particolarmente difficile per lui che, ancora in una fase di

shock iniziale per la diagnosi, deve “assorbire” tutte le informazioni che gli vengono date

dal medico rispetto alle possibilità di cure. Non si può pensare che possa prestare

attenzione anche alle parole dello psicologo, che in quel momento riveste sicuramente per

la maggior parte dei pazienti un ruolo di secondaria importanza.

Solo in un secondo momento, il paziente potrebbe richiedere la consulenza dello

psiconcologo, poiché ha bisogno di elaborare il trauma della diagnosi di tumore, di

acquisire elementi che gli consentano di rompere dentro il suo schema cognitivo,

l’equazione cancro = morte e di trovare un progressivo adattamento alla malattia.

Presso il reparto ho svolto un’attività di sostegno al paziente in regime di ricovero e ai suoi

famigliari.

Più precisamente ho utilizzato il counselling cercando, attraverso il dialogo e l’interazione,

di aiutare le persone a risolvere e gestire problemi e a prendere decisioni; principalmente

mi sono trovata di fronte alla necessità dei pazienti di ricevere informazioni più adeguate

rispetto alla diagnosi, ai trattamenti e al loro futuro.

I colloqui con i pazienti sono stati condotti seguendo le linee guida dell’Informative

Counselling:

una richiesta di informazioni quasi mai è finalizzata al solo soddisfacimento del bisogno di

sapere, ma nasconde speso dubbi, incertezze, paure, preoccupazioni e implicazioni

personali di vario genere. E’ necessario quindi cercare di comprendere che cosa davvero

induce la persona a chiedere informazioni.

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Prima di dare informazioni è essenziale prestare attenzione a quello che la persona dice e

come lo dice, a cosa effettivamente già sa e cosa desidera sapere.

Le informazioni dovranno essere fornite in modo chiaro e comprensibile, adeguandole ai

bisogni della persona, al suo livello culturale, ai suoi schemi cognitivi, al suo stato emotivo

e al tipo di difese attuate.

A questo punto è necessario valutare con il paziente quali implicazioni avranno per il suo

futuro le informazioni ricevute, lasciando il tempo necessario per esprimere le emozioni, i

vissuti personali e per elaborare i significati personali della situazione.

Obiettivo dell’equipe medica, attraverso l’introduzione della figura dello psiconcologo, è

stato quello di favorire un approccio globale al paziente, rivolgendosi allo stesso modo alle

necessità fisico- organiche ed ai bisogni emotivi e psicologici.

Il primo capitolo descrive le principali patologie oncologiche a carico della prostata, della

vescica, dei reni e i relativi trattamenti.

Nel secondo capitolo sono descritte le principali (possibili) conseguenze dei trattamenti e

le loro implicazioni a livello psicologico.

Segue una breve esposizione degli interventi psicologici secondo l’approccio cognitivo-

comportamentale.

Nel terzo capitolo vengono presentati i risultati del questionario relativo ai bisogni dei

pazienti ospedalizzati (NEQ), somministrato in collaborazione con un infermiere

professionale del reparto. Sulla base di questi risultati viene approfondita la tematica della

comunicazione tra medico e paziente.

Infine, nel quarto capitolo vengono presentati due “progetti” di sostegno psicologico a

favore dei pazienti e dei loro famigliari.

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CAPITOLO 1

CENNI DI ONCOLOGIA UROLOGICA

1.1 IL TUMORE DELLA PROSTATA

1.1 .1 Che cos’è, come si contrae, come si diagnostica

La prostata è una ghiandola simile a una castagna, del peso di circa 20-25 grammi. Si trova

nel bacino, subito dietro l'osso pubico, al di sotto della vescica (che contiene l'urina) e

davanti all'ampolla rettale. Al suo interno scorre il tratto iniziale dell'uretra, il canale che

porta l'urina all'esterno. E' per questo motivo che le malattie della prostata, di qualunque

natura esse siano, si manifestano quasi sempre con un deflusso dell'urina ostacolato. Dietro

alla prostata, e prima del retto, sono localizzate le vescicole seminali che producono,

insieme alla prostata, la quasi totalità del liquido seminale (sperma), in cui sono immersi

gli spermatozoi prodotti dai testicoli.

La storia naturale del carcinoma prostatico è quella di una progressiva crescita all’interno

della ghiandola sino a coinvolgerne la capsula e sconfinare al di fuori della stessa

interessando le vescichette seminali, infiltrando la vescica e gli organi adiacenti. Nel 95%

dei casi ha origine dalle cellule ghiandolari (adenocarcinoma).Una volta fuoriuscito dalla

ghiandola il tumore metastatizza per vai linfatica ai linfonodi otturatori ed iliaci, ai

linfonodi pre sacrali e di lì alle altre sedi linfonodali a distanza. Tipica della neoplasia

prostatica è una diffusione delle metastasi preferenzialmente alle ossa. A questo livello le

metastasi sono prevalentemente di tipo osteo addensante e più raramente osteo addensanti

ed osteolitiche. Meno frequente, ed in genere tardiva, è la metastatizzazione al fegato ai

polmoni ed agli altri organi addominali. Sono al contrario frequenti, nelle forme

localmente avanzate, i segni di ostruzione delle vie urinarie con ostruzione meccanica dell’

uretra (con conseguenti problemi di svuotamento vescicale) e degli ureteri (con comparsa

di ostruzione mono o bilaterale delle alte vie urinari e compromissione della funzionalità

renale).

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Secondo stime recenti in Italia ogni anno si ammalano di tumore della prostata più di

18.500 uomini (la probabilità di ammalarsi, dai zero ai 74 anni, è pari circa al 4%). Questo

numero è in continua crescita, soprattutto nei paesi occidentali, dove questo tumore

rappresenta il 15% circa dei tumori del sesso maschile.

Ogni anno in Italia muoiono circa 7.000 uomini per tumore della prostata.

Il tumore della prostata è raro al di sotto dei 45 anni e non frequente tra i 45 e i 54 anni,

inizia a manifestarsi intorno ai 55 anni e raggiunge la massima incidenza (numero di nuovi

casi) nelle fasce di età superiori ai 65 anni.

Per il tumore della prostata non esistono fattori di rischio identificati con certezza (anche

se alla base della malattia c'è una causa ormonale), ma solo fattori di rischio sospetti. I

principali tra questi sono:

� le diete ricche di grassi (soprattutto di origine animale), carne (soprattutto carne rossa),

latte e suoi derivati; Al contrario diete ricche in fitoestrogeni (soia, frutta e verdura),

licopeni (pomodori), acido retinoico e vitamina D ridurrebbero il rischio di sviluppare

una patologia prostatica;

� l'esposizione prolungata ad alcune sostanze (soprattutto insetticidi, erbicidi, alcuni

metalli pesanti e alcuni derivati cancerogeni del petrolio) con le quali è possibile

venire a contatto durante certi tipi di attività lavorativa;

� esiste un possibile, anche se infrequente, rischio genetico. Vi è l’evidenza

epidemiologica di una maggior incidenza della patologia in determinate razze con un

aumento del rischio negli afro americani ed una riduzione nelle popolazioni dell’estremo

oriente. E’ inoltre stata segnalata, in alcuni gruppi di pazienti, una spiccata familiarità.

Questi pazienti si caratterizzano per la precoce insorgenza del tumore ( entro i 55 anni) e

per la presenza di due o più casi nello stesso gruppo familiare. Un'eventuale storia

familiare di carcinoma della prostata va tuttavia valutata con prudenza, a causa

dell'elevata incidenza di fattori confondenti.

La diagnosi di tumore della prostata avviene spesso per caso, in seguito al riscontro di un

alto valore di PSA (antigene prostatico specifico) nel sangue durante un controllo generale.

Scoperto nel 1979 da Wang e Kuriyama, il PSA rappresenta un ottimo marcatore dell’

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attività della ghiandola prostatica. Esso infatti è prodotto esclusivamente dalle cellule

prostatiche sia normali, che neoplastiche. Si tratta di una glicoproteina presente nel

citoplasma delle cellule epiteliali prostatiche. Il PSA ha un importante ruolo nella

fecondazione. La sua principale funzione è la liquefazione del coagulo seminale, che

favorisce la motilità degli spermatozoi. Si ritiene che, in presenza di una alterazione

strutturale della ghiandola (da infezioni o modificazioni della crescita della ghiandola) si

abbia una perdita di coesione tra le cellule epiteliali ed il lume dei dotti con conseguente

immissione nel sangue dell'antigene normalmente presente nel sangue in quantità ridotte.

Va sottolineato infatti che il PSA è un marcatore specifico per la prostata ma non specifico

per la neoplasia, nel senso che la sua concentrazione sierica può aumentare anche per cause

non neoplastiche come l'ipertrofia prostatica o le prostatiti. Non esistono pertanto dei valori

“normali” ma piuttosto dei valori cui corrisponde una ridottissima probabilità di riscontrare

un carcinoma prostatico e che pertanto sono definiti “normali”. Il range di normalità è in

genere identificato in valori tra 0 ng/ml e 4,0 ng/ml. Per valori tra 4 ,0 e 10,0 ng/ml vi è il

25% di probabilità di riscontrare un carcinoma alla biopsia, questa percentuale sale ad oltre

il 50% per valori superiori a 10 ng/nl. I valori tra 4 ,0 e 10,0 ng/ml rappresentano la

cosiddetta “zona grigia” all’interno della quale vi è la maggiore incertezza diagnostica.

Questo gruppo di pazienti è , per altro, estremamente importante se si considera che oltre l’

80% delle neoplasie maligne confinate all’ organo hanno PSA inferiore a 10 ng/ml. Queste

neoplasie rappresentano la maggior parte dei tumori che, se adeguatamente trattati,

possono essere guariti. Nella realtà quotidiana esistono quindi molte situazioni diverse che

possono determinare un incremento del PSA e pertanto non è ammissibile fare diagnosi di

tumore valutando unicamente i valori di PSA. Il PSA oltre che per le già citate patologie

non neoplastiche, può aumentare per l’ attività fisica, il sesso, l’ uso di biciclette o manovre

strumentali come l’ ecografia transrettale, il cateterismo uretrale, la rettoscopia o la

cistoscopia.

In generale possiamo però affermare che per livelli di PSA maggiori di 4,0 ng/ml esiste

l'indicazione ad una valutazione specialistica urologica. Anche una volta posta la diagnosi

di carcinoma prostatico il PSA è un marcatore estremamente utile perché consente di

seguire l’ evoluzione clinica della malattia.

Un incremento del PSA a distanza dopo trattamento chirurgico radicale (prostatectomia

radicale), radioterapia, brachiterapia interstiziale, crioterapia o terapia ormonale deve

essere considerato come un possibile segno di ripresa di malattia locale o a distanza e

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impone una rivalutazione specialistica precoce per instaurare i più adeguati presidi

terapeutici.

I sintomi attraverso cui può manifestarsi un tumore della prostata in fase iniziale non sono

distinguibili da quelli di una comune prostata ingrossata (iperplasia prostatica). In fase

avanzata, invece, possono essere presenti:

- dolore, in genere causato dalla presenza di metastasi ossee (dolore osseo persistente);

- riduzione di forza agli arti inferiori (a causa della compressione che le metastasi esercitano sul midollo osseo);

- difficoltà o impossibilità a urinare (per ostruzione dell'uretra, canale che porta l'urina dalla vescica all'esterno);

- insufficienza renale ostruttiva (per ostruzione dell'uretra o degli ureteri, i canalini che portano l'urina dai reni alla vescica).

Questi ultimi tre sono segni di ostruzione causati dalla crescita del tumore a livello locale o dei linfonodi.

Di fronte al riscontro di alti valori di PSA nel sangue il primo passo da compiere è:

� misurare i livelli di PSA (se il dato non è già disponibile), per almeno due volte al fine

di ridurre la probabilità di errori dovuti al laboratorio o ad altri eventi occasionali (per

esempio infezioni), ed effettuare una esplorazione digitale rettale della prostata (ER).

Può essere associato il valore del cosiddetto PSA libero (o free PSA) il cui rapporto

con il PSA totale (dato dalla somma del PSA libero con quello legato) può fornire

qualche informazione supplementare.

� in casi dubbi o in presenza di valori molto alti di PSA è indicato effettuare una

ecografia prostatica per via transrettale, in grado di visualizzare l'intera ghiandola,

compresa la parte anteriore non raggiungibile con la visita.

� nel caso venga rilevata un’ area dubbia, o in presenza di alti valori di PSA, è indicata

l'effettuazione di una biopsia prostatica eco-guidata (effettuata cioè con guida

ecografica transrettale). Nel corso della biopsia, effettuata generalmente con paziente

sveglio in anestesia locale, saranno prelevati con un ago 8-12 (o più) piccoli frammenti

di tessuto prostatico. Questi frammenti saranno analizzati al microscopio (esame

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istologico) da un anatomo-patologo per accertare la presenza del tumore (diagnosi isto-

patologica) e, in caso positivo, per definirne il tipo. Nel caso della prostata, il 95%

circa dei tumori (adenocarcinomi) si sviluppano a partire dalle cellule delle ghiandole

prostatiche.

In caso di biopsia positiva possono essere prescritti esami radiologici che permettono

di completare la diagnosi (cioè valutare l'estensione della malattia ed assegnarle uno

stadio). I principali esami radiologici eseguiti sono i seguenti:

� radiografia tradizionale: fotografa parti interne del corpo mediante l'uso di raggi X;

� tomografia computerizzata (TC): utilizza un computer, collegato a una macchina a

raggi X, per riprodurre, da vari punti di vista, dettagliate immagini delle strutture

interne degli organi;

� risonanza magnetica (RM): utilizza onde magnetiche che rilevano immagini di organi

interni del corpo;

� scintigrafia ossea: si inietta nel paziente una sostanza radioattiva capace di fissarsi

nella sede di eventuali metastasi ossee e se ne rileva la presenza attraverso uno

strumento detto gamma camera.

La TC e la RM non sono esami pericolosi né invasivi, cioè non provocano alcun dolore.

Solo gli esami endoscopici possono arrecare qualche fastidio al paziente.

Per scegliere la terapia più appropriata il medico considera diversi fattori relativi:

• al paziente (età, condizioni generali, preferenze individuali, aspettative del paziente per

quanto riguarda la preservazione della funzione sessuale);

• alla malattia (estensione o stadio del tumore, compresa l'eventuale presenza di malattia

nei linfonodi, aggressività o grado del tumore).

Per questo motivo è preferibile che gli specialisti, esperti in diverse discipline, chiamati a

curare pazienti affetti da tumore della prostata, formino un gruppo di lavoro in cui

confrontarsi e decidere quale terapia o combinazione di terapie seguire. Per il tumore della

prostata, il gruppo multidisciplinare può includere oncologi medici, radioterapisti,

chirurghi urologi e anatomo-patologi.

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1.1.2 Come si cura

Esistono diversi tipi di cura del tumore della prostata, queste possono essere impiegati

singolarmente o combinati tra di loro: la chirurgia (prostatectomia radicale), la

radioterapia, l'ormonoterapia e la chemioterapia. Fa inoltre parte di queste opzioni, per

alcune forme di tumore poco o per nulla aggressive, la cosiddetta attenta osservazione.

La scelta della strategia terapeutica è dettata da diversi fattori: l'estensione del tumore

(compresa l'eventuale presenza di malattia nei linfonodi), l'età del paziente e le sue

condizioni generali, le aspettative del paziente per quanto riguarda la preservazione della

funzione sessuale.

� L'attenta osservazione

Si decide di non intervenire, limitandosi a controllare la malattia. Questa scelta viene di

solito riservata a pazienti con tumore localizzato (stadi T1-T2), forme non aggressive (di

grado medio-basso, con Gleason Score inferiore a 7), valori di PSA medio-bassi e,

preferibilmente, età pari o superiore a 70 anni. In questi casi la malattia spesso non

progredisce. Tuttavia se nel corso dei controlli (obbligatori) si ha prova o dubbio di

peggioramento, il non-trattamento va riconsiderato (va cioè iniziata una terapia).

� La chirurgia

Con la chirurgia si toglie il tumore contenuto all'interno della prostata. Non esistono al

momento interventi di chirurgia conservativa (cioè parziale) per il tumore della prostata,

anche perché è dimostrato che il tumore si trova in più punti all'interno della ghiandola

(multi-focalità). L'intervento chirurgico, definito prostatectomia radicale, ha due obiettivi:

togliere in blocco prostata e vescicole seminali con ripristino del canale uretrale (che porta

l'urina dalla vescica all'esterno). L'intervento, molto diverso da quello per malattia

prostatica benigna che toglie solo la parte centrale della ghiandola, trova indicazioni nei

casi di malattia localizzata, l'indicazione può essere forzata nei casi in cui inizia a essere

coinvolta la capsula, cioè quando il cancro compare nelle cellule che formano il

rivestimento della prostata. I migliori risultati si ottengono nei casi di malattia localizzata

(stadi T1-T2), basso livello di PSA (antigene prostatico specifico) e basso grado (basso

Gleason Score).

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Esistono diversi tipi di prostatectomia radicale:

• classica, definita retropubica perchè dall'addome si arriva alla prostata, localizzata dietro

all'osso pubico; consente, se necessario, la contemporanea asportazione di alcuni linfonodi

pelvici, il cui esame permette di valutare meglio l'estensione della malattia

(linfadenectomia di stadiazione);

• trans-perineale: si raggiunge la prostata attraverso un foro praticato tra scroto e ano;

• trans-coccigea;

• laparoscopica (cioè senza taglio, o mini-invasivo).

Gli effetti collaterali che possono seguire a alla chirurgia dipendono dal tipo di intervento

subito, dall'età, dalle condizioni generali della persona ammalata, dall'estensione della

malattia e dall'esperienza dell'equipe chirurgica.

Le principali possibili complicazioni della chirurgia sono:

• l'incontinenza urinaria (la perdita di urine), poco frequente (di più col crescere dell'età) e

inoltre lieve o temporanea nella maggioranza dei casi;

• l'impotenza sessuale, frequente (di più col crescere dell'età), poiché la chirurgia può

danneggiare i nervi responsabili dell'erezione, molto vicini alla prostata;

• la stenosi uretrale (restringimento dell'uretra);

• l'incontinenza fecale, rara.

� La radioterapia:

La radioterapia viene utilizzata in alternativa alla chirurgia nei casi di tumore localizzato

(radioterapia radicale); inoltre è, insieme alla terapia ormonale, la cura più adatta nei casi

di malattia che comincia a diffondersi al di fuori della prostata (cioè estesa oltre ai margini

della prostata, nei tumori in stadio T3). Negli stadi più avanzati la radioterapia può servire

a ridurre il dolore (trattamento palliativo): per esempio quando le metastasi ossee

provocano dolore o comprimono il midollo spinale indebolendo le gambe.

La radioterapia utilizza le radiazioni (la radiazione è la propagazione di energia nello

spazio) per uccidere le cellule tumorali. Viene somministrata dall'esterno del corpo,

attraverso una macchina (Acceleratore Lineare). In alcuni casi può essere impiegata anche

la brachiterapia, un particolare metodo radioterapico nel quale aghi o grani radioattivi

vengono posizionati all'interno della prostata con ecografia. La qualità della cura che si può

ottenere con la brachiterapia dipende dall'aggressività del tumore e dall'abilità ed

esperienza dell'operatore.

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Gli effetti collaterali che possono conseguire a un trattamento radioterapico vanno distinti

in acuti (cioè effetti immediati destinati a scomparire) e cronici (a lungo termine).

Quelli acuti possono essere:

• cistite (infiammazione della vescica urinaria);

• proctite (infiammazione del retto);

• enterite (non frequente) (infiammazione dell'intestino tenue);

Gli effetti cronici possono essere:

• disturbi intestinali;

• impotenza sessuale;

• incontinenza urinaria (non frequente);

• stenosi uretrale (restringimento dell'uretra) (rischio alto nei pazienti sottoposti a TURP

(Resezione TransUretrale della Prostata) nelle 4-6 settimane precedenti l'inizio della

radioterapia);

• meno frequenti: ematuria (presenza di sangue nelle urine), cistite, contrattura vescicale;

proctite, diarrea, sanguinamento o stenosi rettale;

Tra le persone sottoposte sia al trattamento chirurgico sia a quello radioterapico è più

frequente la comparsa di effetti collaterali, in particolare edema (accumulo di liquido).

� La cura con ormoni:

L'ormonoterapia è scelta nei casi di tumore avanzato (cioè in presenza di metastasi) o in

caso di ricaduta dopo chirurgia o radioterapia non altrimenti trattabile.

L'ormonoterapia agisce sottraendo alla malattia gli ormoni maschili (in particolare il

testosterone), principali responsabili della crescita del tumore. Questa sottrazione può

essere ottenuta tramite:

• intervento chirurgico (castrazione, cioè orchiectomia bilaterale);

• farmaci (analoghi LH-RH, disponibili sotto forma di iniezioni mensili, bimestrali o

trimestrali e/o farmaci antiandrogeni, disponibili sotto forma di compresse. Questi due

trattamenti possono, a volte, essere associati). Nel caso di utilizzo di analoghi LH-RH da

soli (in monoterapia) è importante associare, almeno per il primo mese, un farmaco

antiandrogeno per prevenire possibili temporanei peggioramenti legati al meccanismo

d'azione del farmaco.

La terapia ormonale riesce a ottenere un controllo della malattia nell'80-85% dei casi.

Tuttavia dopo 12-18 mesi di cura si ha un'alta probabilità di sfuggire al controllo del

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trattamento ormonale (malattia androgeno-indipendente). A questo punto vanno effettuati

tentativi di terapia ormonale di seconda linea (alla quale risponde positivamente il 20-40%

dei pazienti) e quindi, o in caso di insuccesso, ricorrere a una chemioterapia.

Gli effetti collaterali che possono seguire a un trattamento ormonale sono causati della

carenza di ormoni maschili. Nei pazienti sottoposti a intervento chirurgico (castrazione,

cioè orchiectomia bilaterale) o a trattamento con analoghi LH-RH (goserelin, buserelin,

leuprolide, triptorelin) gli effetti collaterali più comuni sono rappresentati da:

• perdita della libido (cioè del desiderio sessuale);

• impotenza;

• vampate di calore;

• osteoporosi;

Nei pazienti sottoposti a trattamento con soli antiandrogeni puri (flutamide, bicalutamide)

gli effetti collaterali più frequenti sono invece rappresentati da:

• diarrea;

• nausea;

• senso di tensione e/o dolore ai capezzoli (mastodinia);

• calo del desiderio sessuale e possibile impotenza;

• tossicità epatica (flutamide)

� La chemioterapia

Al momento attuale la chemioterapia, terapia con farmaci antitumorali, viene effettuata nei

pazienti con tumore della prostata che non risponde più alla terapia ormonale (tumore

ormono-refrattario). I risultati recentemente ottenuti con alcuni farmaci sono abbastanza

incoraggianti sia per efficacia (aumento della sopravvivenza) che per scarsa tossicità del

trattamento.

La chemioterapia utilizza farmaci in grado di uccidere le cellule tumorali (chemioterapici

antitumorali), che possono essere somministrati per bocca o essere iniettati nel muscolo o

nelle vene. I farmaci possono essere utilizzati singolarmente o, più spesso, in

combinazione tra loro. Una volta entrati nel sangue, i farmaci vengono trasportati

attraverso tutto l'organismo.

15

Gli effetti collaterali che possono seguire a un trattamento chemioterapico derivano dal

tipo e dalla dose di farmaci impiegati, quelli impiegati nel trattamento del carcinoma

prostatico sono generalmente ben tollerati.

• nausea, vomito, diarrea (bassa incidenza);

• riduzione dei globuli bianchi, delle piastrine e dei globuli rossi, con conseguente

maggiore rischio di infezioni, sanguinamento e anemia (bassa incidenza);

• infiammazioni della vena nella quale si iniettano i farmaci o in altre vene;

• sofferenza dei nervi periferici con disturbi della percezione o, più raramente, perdita

della forza - è causata solo da alcuni tipi di farmaci;

• danni al cuore

• diradamento dei capelli (transitorio).

Il dover fare una chemioterapia può accentuare lo stato di ansia e di depressione del

paziente, e avere conseguenze sui rapporti familiari, sociali e lavorativi.

E' importante instaurare un buon rapporto col medico per affrontare in modo consapevole e

informato i possibili effetti collaterali della terapia e i modi per affrontarli, sapendo che la

maggior parte scompare una volta concluso il trattamento.

1.1.3 Gli stadi del tumore della prostata

Una volta scoperto un tumore della prostata, è necessario stabilirne alcune caratteristiche, e

in particolare:

� quali organi sono stati colpiti (sedi di malattia);

� se le cellule tumorali si sono diffuse ai linfonodi;

� se ci sono metastasi.

In base a questi parametri è possibile definire lo stadio del tumore (cioè l'estensione della

malattia), e di conseguenza scegliere la terapia più appropriata. Per determinare questi

parametri, possono essere prescritti i seguenti esami:

� ecografia transrettale: valuta l'estensione locale della malattia mediante una sonda

ecografica (che emette e riceve ultrasuoni) inserita nell'ampolla rettale;

16

� radiografia torace standard: si tratta di una tecnica radiografica tradizionale che

fotografa parti interne del corpo (in questo caso il torace) mediante l'uso di raggi X;

� tomografia computerizzata (TC): utilizza un computer, collegato a una macchina a

raggi X, per riprodurre, da vari punti di vista, dettagliate immagini delle strutture

interne degli organi;

� risonanza magnetica (RM): utilizza un magnete collegato a un computer per

riprodurre immagini dettagliate di aree interne del corpo;

� scintigrafia ossea: si inietta nel paziente una sostanza radioattiva capace di fissarsi nella

sede di eventuali metastasi ossee e se ne rileva la presenza attraverso uno strumento

detto gamma camera.

Gli stadi del tumore della prostata sono quattro e sono ordinati secondo una classificazione

internazionale denominata TNM (Tumore primitivo, Linfonodo, Metastasi a distanza).

17

Stadio I

Descrizione

né il medico né gli strumenti (ecografia,

TC, RM) riescono a trovare il tumore, che

in genere viene scoperto casualmente dopo

l’intervento per curare il semplice

ingrossamento della prostata

Terapia

Dimensione

T1a

Grado

Gleason 2-4

Diffusione

Tessuto

intorno alla

prostata: no

Linfonodi:

no

- l’osservazione attenta soprattutto

nei pazienti anziani che abbiano anche

un grado medio-basso;

- la chirurgia (asportazione totale della

prostata) associata alla asportazione dei

linfonodi se il paziente presenta fattori

di rischio;

- la radioterapia;

- la terapia ormonale, scelta quando

esistano controindicazioni alle altre

terapie.

T1 Tumore clinicamente non

apprezzabile, non palpabile né visibile

con la diagnostica per immagini

T1a Tumore scoperto casualmente nel

5% o meno del tessuto asportato

T1b Tumore scoperto casualmente in

più del 5% del tessuto asportato

T1c Tumore diagnosticato mediante

agobiopsia (ad esempio, a causa del

PSA elevato)

18

Stadio II

Descrizione

il tumore è più esteso rispetto allo stadio 1,

ma è comunque localizzato all’interno della

prostata

Terapia

Dimensione

T1, T2

Grado

Gleason

può essere

alto:

Gleason 2-

10

Diffusione

Tessuto

intorno alla

prostata: no

Linfonodi:

no

- l’osservazione attenta soprattutto

nei pazienti anziani che abbiano anche

un grado medio-basso;

- la chirurgia (asportazione totale della

prostata) associata alla asportazione dei

linfonodi se il paziente presenta fattori

di rischio;

- la radioterapia;

- la terapia ormonale, scelta quando

esistano controindicazioni alle altre

terapie.

Tumore limitato alla prostata

T2a Tumore che interessa la metà o

meno di un lobo

T2b Tumore che interessa più della

metà di un lobo ma non entrambi i lobi

T2c Tumore che interessa entrambi i

lobi

19

Stadio III

Descrizione

il tumore si è esteso al di fuori della

prostata, superando la capsula esterna e/o

interessando le vescicole seminali (vicine

alla prostata)

Terapia

Dimensione

T3a, T3b

Grado

In genere

alto:

Gleason 7-

10

Diffusione

Tessuto

intorno alla

prostata: sì

Linfonodi:

no

Altri organi:

no

- la radioterapia più terapia

ormonale che dà i risultati migliori;

- la chirurgia (asportazione totale della

prostata associata alla asportazione dei

linfonodi) che offre in genere risultati

inferiori.

- la sola terapia ormonale, scelta nei

casi in cui esistano controindicazioni alle

altre terapie.

T3 Tumore che si estende attraverso la

capsula prostatica

T3a Estensione extraprostatica (mono o

bilaterale)

T3b Tumore che invade la/e

vescichetta/e seminale/i

20

Stadio IV

Descrizione

il tumore è molto esteso e può aver

raggiunto i tessuti vicini alla prostata, e/o i

linfonodi e/o sedi distanti (metastasi)

Terapia

Dimensione

T4,

o N1

o M1a, M1b,

M1c

Diffusione

Organi vicini alla prostata:

no/sì (T4).

- vescica;

- retto;

- muscoli o parete interna

del bacino;

- ossa del bacino;

Linfonodi vicini alla

prostata: no/si (N1)Organi

distanti dalla prostata: no/sì

- linfonodi (M1a);

- ossa (M1b);

- altri organi (M1c).

- la sola terapia ormonale: costituita

dai farmaci analoghi LH-RH, associati o

meno ad antiandrogeni. Risultati

equivalenti può avere la castrazione.

- quando non ci sono metastasi a

distanza (M0) possono essere utilizzati i

soli farmaci antiandrogeni a dosaggio

adeguato;

- radioterapia più terapia ormonale

quando non ci sono metastasi a distanza

(M0). Sarebbe opportuno, tuttavia,

sottoporsi a questo approccio

terapeutico nell’ambito di uno studio

clinico;

- la radioterapia andrebbe utilizzata

solo a fini palliativi, anche se viene

talora proposta nei casi N1.

T4 Tumore fisso che invade strutture

adiacenti oltre alle vescichette seminali: collo

della vescica, sfintere esterno, retto, muscoli

elevatori e/o parete pelvica.

21

Malattia metastasica ormono

refrattaria

Descrizione

Tumore con metastasi che è diventato

resistente alla terapia ormonale

Terapia

- terapia ormonale di seconda linea:

consiste nell’aggiunta o sottrazione del

farmaco antiandrogeno;

- chemioterapia: solo dopo la terapia

ormonale di seconda linea; è attiva sulla

malattia e ne controlla i sintomi

(soprattutto il dolore). I risultati di due

recenti studi in cui è stato impiegato il

docetaxel®; hanno inoltre dimostrato

un aumento di sopravvivenza. E’

consigliabile, quando possibile,

l’inclusione in studi clinici;

- radioterapia a scopo palliativo:

soprattutto nelle metastasi alle ossa,

per diminuire il dolore e per evitare

fratture o danni al midollo spinale;

- radioterapia metabolica: per

diminuire il dolore causato da lesioni

ossee diffuse non responsivo ad altri

trattamenti;

- chirurgia: viene utilizzata solo a fini

palliativi;

- terapia di supporto: comprende

l’uso di farmaci antidolorifici,

bisfosfonati e quant’altro sia necessario

per controllare i sintomi della malattia.

22

Tumore della prostata recidivato

In caso di ricaduta locale

Se dopo l’intervento chirurgico il

tumore si riforma nella stessa sede

Se dopo la radioterapia radicale il

tumore si riforma nella stessa sede

(recidiva locale post-radioterapia radicale)

Terapia

radioterapia associata o meno a

terapia ormonale

terapia ormonale;

la chirurgia è possibile, va però

considerata l’alta frequenza di effetti

collaterali che può derivare da questo

difficile tipo di intervento.

Altri possibili trattamenti locali, non

ancora definibili standard sono:

- la crioterapia (congelamento locale

della zona in cui si è riformato il

tumore);

- la HI-FU (ultrasuoni focalizzati ad alta

intensità che colpiscono il tumore).In

entrambe i casi vengono utilizzate

macchine e sonde particolari.

1.1.4 La prognosi

La prognosi indica le probabilità che la cura offerta al paziente abbia successo. Si tratta di

dati statistici che osservano l'andamento della malattia in molti pazienti. E' importante

ricordare che queste statistiche sono indicative: nessun medico è in grado di dire

esattamente quale sarà l'esito della cura in un singolo paziente o quanto tempo questo

paziente vivrà. La prognosi, infatti, dipende da diversi fattori (fattori prognostici), che

hanno a che vedere con il singolo paziente.

23

Nel caso del tumore della prostata i principali fattori necessari a definire una prognosi

sono:

a) Lo stadio del tumore. Indica l'estensione del tumore che può essere:

� localizzato alla prostata;

� localmente avanzato, cioè esteso alla capsula prostatica e/o alle vescicole seminali

e/o ad altre strutture vicine alla prostata e/o ai linfonodi del bacino, prossimi alla

prostata;

� avanzato, con metastasi ai linfonodi fuori dal bacino (lontani dalla prostata), alle

ossa o, più raramente, ad altri organi.

b) Il grado di differenziazione del tumore. Indica l'aggressività del tumore e viene espresso

attraverso una scala, definita Gleason Score, che va da 2 a 10:

� i tumori con valori da 2 a 4 non sono aggressivi;

� i tumori con valori 5 e 6 hanno una aggressività medio-bassa;

� i tumori con valori da 7 a 10 sono clinicamente importanti.

c) Il PSA. Il valore iniziale del PSA indica grossolanamente la potenziale estensione della

malattia. E' importante soprattutto nei tumori localizzati: in questi casi i pazienti con valori

di PSA fino a 10 ng/ml (nanogrammi per millilitro) hanno la prognosi migliore.

La prognosi del carcinoma prostatico localizzato è strettamente correlata allo stadio, al

grado e ai livelli di PSA. Sono stati sviluppati nomogrammi che combinano questi tre

fattori fornendo una valutazione prognostica più accurata. Globalmente, la sopravvivenza a

5 anni dei pazienti con carcinoma prostatico localmente avanzato è intorno al 40%, mentre

quella dei pazienti con malattia disseminata è di circa il 20%. Bisogna, tuttavia,

considerare che gli esami attualmente disponibili (DRE, ecografia, RM) per valutare lo

stadio clinico non consentono di determinare in maniera accurata l’estensione patologica

della neoplasia e che il cancro della prostata è così eterogeneo da rendere difficile una

corretta previsione del suo potenziale biologico. Come riportato in precedenza, l’incidenza

del carcinoma istologico è maggiore di quella del carcinoma clinico suggerendo che non

24

tutti i tumori istologici evolvono verso una malattia clinicamente evidente. Il ricorso

sempre più frequente a resezioni trans-uretrali per ipertrofia prostatica benigna comporta

un incremento della diagnosi di carcinoma incidentale, mentre altri tumori prostatici

vengono diagnosticati in seguito a biopsia effettuata per semplice elevazione del PSA. Il

risultato di queste procedure è una diagnosi in eccesso di neoplasie prostatiche che di fatto

vengono trattate, ma che potrebbero essere clinicamente senza significato. Si è, pertanto,

fatto ricorso a vari altri metodi nel tentativo di definire meglio il potenziale biologico della

neoplasia. Dei vari parametri finora usati (volume del tumore primitivo, ploidia, Ki67,

p.53, E-caderina, densità dei microvasi), nessuno si è rivelato utile al fine di aumentare

l’accuratezza della valutazione prognostica dei pazienti con malattia localizzata.

1.1.5 Cosa fare dopo il trattamento

Dopo aver completato tutti i trattamenti, lo specialista pianificherà una serie di visite

successive e di esami ulteriori, per controllare gli effetti delle terapie e accertarsi che il

tumore non si riformi. Questa pianificazione di controlli nel tempo prende il nome di

follow-up (controlli clinici periodici).

Tipo di terapia e stadio

del tumore

Quando effettuare i

controlli clinici

Esami

Durante

il primo

anno

Durante

il

secondo

e il

terzo

anno

Dal

quarto

anno in

poi

prostatectomia o

radioterapia radicali per:

- malattia localizzata o

- localmente avanzata

ogni 3-4

mesi

ogni 6

mesi

una

volta

all’anno

A ogni visita:

- valutatazione del

<BPSA;

- effettuazione di un

profilo emato-biochimico.

- esplorazione digitale

rettale della prostata (ER)

trattamento ormonale ogni 3-6 mesi A ogni visita:

25

per:

-malattia avanzata

- valutatazione del PSA;

- effettuazione di un

profilo emato-biochimico.

- esplorazione digitale

rettale della prostata

(ER);

- valutatazione di

eventuali sintomi

correlabili alla malattia

(esempio dolore osseo)

Situazione clinica Tipo di terapia e stadio del

tumore

Esami

Se esistono dubbi di

recidiva o progressione di

malattia (ad esempio

rialzo del PSA)

Nei pazienti con Gleason

elevato

Dopo Prostatectomia o

radioterapia radicali per

malattia localizzata o

localmente avanzata. Dopo

Trattamento ormonale

ecografie transrettali;

- scientigrafie ossee;

- altre metodiche di

diagnostica per immagini

(TC, RM).

effettuazione periodica di

una ecografia transrettale

Un’altra opzione radiologica, oltre a quelle sopra riportate, è costituita dalla PET

(Tomografia ad Emissione di Positroni): viene iniettato in vena glucosio (zucchero)

radioattivo (o colina) e attraverso un computer vengono elaborati i segnali provenienti

da una macchina che rileva la distribuzione delle cellule che emettono positroni in

risposta alla presenza del glucosio/colina radioattivi. Questa tecnica permette di

evidenziare più chiaramente le cellule tumorali, poiché esse reagiscono più delle altre.

Al fine di verificare che non ci siano metastasi o che non si siano formati altri tumori in

altri organi, lo specialista potrà inoltre prescrivere, periodicamente, una lastra del

torace.

26

1.2 IL TUMORE DELLA VESCICA

1.2.1 Che cos’è, come si contrae, come si diagnostica

Il tumore della vescica si forma quando le cellule della vescica si moltiplicano in modo

anomalo, fuori dal controllo.

I tumori maligni della vescica si distinguono a seconda della profondità che raggiungono e

a seconda che siano limitati alla superficie interna della vescica (tumori superficiali o non

invasivi), oppure che abbiano invaso i muscoli della vescica (tumori invasivi).

La vescica è un organo cavo, a forma di sacca, che si trova nella zona pelvica, la parte più

bassa dell'addome. La sua funzione è quella di raccogliere l'urina. Questo consente di

urinare in modo controllato. La parete muscolare vescicale é elastica, in modo da

permettere la fuoriuscita dell'urina. L'urina è il prodotto del processo di purificazione del

sangue, che avviene all'interno dei reni.

La vescica fa parte del tratto urinario, composto da:

� reni,

� ureteri,

� vescica,

� uretra.

L'urina prodotta dai reni arriva alla vescica attraverso due condotti (gli ureteri) e viene

espulsa attraverso un altro condotto (uretra). Il tratto urinario è ricoperto da uno strato di

cellule che formano l'urotelio. Una banda sottile, la lamina propria, separa lo strato interno

(urotelio) dai muscoli della vescica.

Secondo dati recenti, che risalgono alla fine degli anni Novanta, in Italia si verificano oltre

20.000 nuovi casi all’anno, di cui oltre 16.000 nuovi casi tra gli uomini e poco meno di

4.000 nuovi casi tra le donne.

Il numero di decessi per tumore della vescica in Italia è di circa 4.000 uomini e 1.000 donne

in un anno, con una probabilità di ammalarsi (da zero a 74 anni) del 4% circa per gli uomini

e di meno dell’1% per le donne.

27

In tutta l’Unione europea la mortalità annua è in media di 9 persone su 100.000 (11 per gli

uomini, 4 per le donne).

In Europa (Unione dei Paesi Europei) il tumore della vescica è il quarto tumore più

frequente tra gli uomini, e rappresenta il 7% tra tutti i tumori maschili. Il numero di nuovi

casi all’anno su 100.000 persone è di 32 uomini e di 9 donne. L’incidenza (numero di nuovi

casi all’anno) del tumore della vescica è in moderato aumento, o pressoché costante, in quasi

tutti i Paesi sviluppati.

Il tumore della vescica è molto più frequente tra gli uomini, inoltre per gli uomini

l’incidenza per età cresce rapidamente con l’aumentare dell’età. Circa il 70% dei pazienti

(uomini e donne) affetti da tumore della vescica ha più di 65 anni.

Alcune persone presentano un rischio più alto rispetto ad altre di sviluppare un tumore della

vescica. Ciò può dipendere da diversi fattori di rischio. Per il tumore della vescica i

principali sono:

� il fumo di tabacco: è responsabile del 65% di casi di tumore della vescica;

� fattori occupazionali: i lavoratori impiegati nel campo dei coloranti organici, delle

raffinerie metallurgiche e della lavorazione della gomma, esposti in generale ad agenti

cancerogeni industriali e nello specifico ad agenti chimici quali le amine aromatiche,

corrono un rischio maggiore rispetto agli altri di sviluppare un tumore della vescica. Il

rischio imputabile a cause occupazionali è compreso tra il 10 e il 20%: ciò significa che

fino al 20% dei casi sono riconducibili a fattori occupazionali;

� la dieta: una dieta ricca di frutta e verdura diminuisce il rischio di sviluppare un tumore

della vescica;

� condizioni di salute della persona:

a) disturbi cronici alla vescica o un precedente tumore della vescica sono fattori che possono

aumentare il rischio di sviluppare il tumore;

b) la schistosomiasi: è una malattia causata da un parassita, lo schistosoma, presente nel

bacino mediterraneo (soprattutto in Iraq, Egitto e Sud-Africa); chi ha contratto questa

malattia corre un rischio maggiore di ammalarsi;

� chemioterapia con il farmaco ciclofosfamide: le persone che si sono sottoposte negli anni

precedenti a una chemioterapia con il farmaco ciclofosfamide corrono un rischio più alto.

28

Il tumore della vescica difficilmente dà segno di sé nella fase iniziale della malattia.

E' consigliabile comunque recarsi da un medico in presenza delle seguenti condizioni, che

possono indicare la presenza di un tumore della vescica:

� presenza di sangue nelle urine (ematuria): è la ragione più frequente per la quale le

persone si rivolgono al medico;

� irritazione vescicale;

� dolore nella zona pelvica o dolore persistente a un fianco;

� difficoltà a urinare anche in presenza dello stimolo a urinare (tenesmo vescicale).

Di fronte a sintomi sospetti, il medico dovrà arrivare a formulare una diagnosi precisa:

dovrà cioè stabilire se si trova realmente di fronte a un tumore della vescica e, in caso

affermativo, quali caratteristiche ha quel tumore. Per fare questo può ricorrere a una serie

di esami:

� ecografia: è una tecnica radiologica particolarmente indicata nella fase precoce

della diagnosi. Permette di visualizzare le parti interne del corpo: utilizza onde

sonore ad alta frequenza (ultrasuoni) che rimbalzano contro gli organi o le parti

che si vogliono indagare producendo un'eco, che viene tradotta in immagini a due

dimensioni;

� urografia : è un particolare tipo di radiografia, eseguita dopo aver somministrato

al paziente un mezzo di contrasto, cioè una sostanza che rende la vescica più

visibile;

� cistoscopia: è la visualizzazione diretta della vescica attraverso un cistoscopio (un

tubicino flessibile con un'estremità che illumina) introdotto nella vescica

attraverso l'uretra. Se durante l'esame un tessuto genera il sospetto di un tumore, è

possibile che lo specialista proceda a una biopsia, cioè prelevi un campione di

tessuto, che viene analizzato poi al microscopio per ricercare l'eventuale presenza

di cellule tumorali;

� Tomografia Computerizzata (TC) o Risonanza Magnetica (RM): si tratta di

esami radiografici sofisticati, che fotografano parti interne del corpo attraverso

l'uso di un computer; questi esami sono spesso eseguiti previa somministrazione

endovenosa di un mezzo di contrasto

29

� scan osseo: è l'esame dello scheletro. Viene somministrata al paziente una

sostanza radioattiva, a cui segue dopo alcune ore un esame radiografico per

individuare aree di possibile diffusione della malattia.

Si tratta di esami tendenzialmente ben tollerati e non dolorosi. Al momento della

prescrizione, è opportuno che il paziente riceva le necessarie informazioni in relazione ai

diversi esami a cui verrà sottoposto

1.2.2 Come si cura

Per scegliere la terapia (o la combinazione di terapie) più appropriata il medico considera

diversi fattori:

� la sede in cui si è formato il tumore,

� lo stadio del tumore, ovvero lo spessore e l'eventuale diffusione nei linfonodi e

negli organi più o meno vicini,

� la velocità con la quale il tumore cresce,

� le condizioni di salute generale del paziente.

Le diverse strategie terapeutiche per il trattamento del tumore della vescica sono scelte a

seconda dello stadio della malattia e del fatto che si tratti di un tumore superficiale o di un

tumore invasivo che coinvolge la parete muscolare della vescica. Le terapie attualmente

impiegate sono la chirurgia, l'immunoterapia o la chemioterapia endovescicale, la

chemioterapia per via enovenosa e la radioterapia.

� La chemioterapia

La chemioterapia, terapia con farmaci antitumorali, può essere applicata prima

dell'intervento chirurgico (chemioterapia primaria), al fine di ridurre le dimensioni del

tumore, oppure può essere somministrata dopo l'intervento chirurgico (chemioterapia

adiuvante). Negli stadi più avanzati del tumore e/o dove non è possibile intervenire

chirurgicamente, il ruolo della chemioterapia è palliativo.

La chemioterapia utilizza farmaci in grado di uccidere le cellule tumorali (chemioterapici,

antitumorali), che possono essere somministrati per bocca o iniettati, per via

30

intramuscolare o per via endovenosa. I farmaci possono essere somministrati

singolarmente o, più comunemente, in combinazione tra loro. Una volta entrati nel flusso

sanguigno, i farmaci vengono trasportati attraverso tutto il corpo, per questo la

chemioterapia viene definita un trattamento sistemico.

Gli effetti collaterali della chemioterapia dipendono principalmente dai farmaci e dalle dosi

in cui questi sono somministrati. Possono manifestarsi:

Nausea e vomito: sono dovuti all'azione diretta dei farmaci e delle radiazioni sullo

stomaco o sulla zona del cervello che controlla il vomito. Oltre ai farmaci antiemetici che

bloccano i recettori per la serotonina, un mediatore cerebrale coinvolto nello scatenamento

del vomito, per ridurre i sintomi è opportuno:

• evitare pasti abbondanti o grassi, fritture e odori penetranti;

• mangiare e bere lentamente, masticando bene per favorire la digestione;

• non sdraiarsi nelle due ore successive al pasto;

• succhiare lentamente cubetti di ghiaccio, caramelle o mentine;

bere acqua o succhi di frutta non gasati;

Perdita di capelli: alopecia in termine tecnico, può interessare non solo i capelli, ma tutti i

peli del corpo, che comunque ricrescono dopo la fine delle cure. Questo tipo di alopecia

non è curabile con farmaci, molti scelgono quindi di usare cappelli, turbanti, sciarpe o

parrucche. Durante la chemioterapia o radioterapia è opportuno:

• usare spazzole morbide;

• non tingere i capelli o fare la permanente;

• usare shampoo neutri per lavarli e aria tiepida per asciugarli.

Anemia, infezioni ed emorragie: sono conseguenze degli effetti delle cure anticancro sul

midollo osseo, con riduzione del numero di globuli rossi, bianchi e piastrine nel sangue.

Per questo si eseguono controlli periodici degli esami del sangue durante la terapia

antineoplastica ed eventualmente si ricorre a trasfusioni o si usano sostanze che

stimolano la produzione di cellule del sangue.

Diarrea e stipsi: più frequente la prima, dovuta all'azione diretta sull'intestino delle

radiazioni e dei farmaci antineoplastici. Per combatterle possono essere usati, sotto

31

controllo medico, gli antidiarroici o i lassativi. Se la diarrea è intensa è necessario bere

grandi quantità di acqua per rimpiazzare i liquidi perduti.

La maggior parte degli effetti collaterali della chemioterapia scompare una volta

concluso il trattamento, anche se alcuni, per esempio formicolio, intorpidimento e caduta

dei capelli, possono persistere anche dopo la conclusione della chemioterapia.

I risvolti psicologici sono simili a quelli riscontrati in persone malate di altri tumori e

sottoposti a terapie simili, legati soprattutto agli effetti collaterali (come la nausea, il

vomito, la perdita di capelli, l'anoressia). Questi effetti indesiderati possono accentuare lo

stato di ansia e di depressione della persona malata, con conseguenze sui rapporti familiari,

sociali e lavorativi. E' importante instaurare un buon rapporto col proprio medico per

affrontare in modo consapevole e informato i possibili effetti collaterali della terapia e i

modi per affrontarli.

� La radioterapia

Come la chemioterapia, anche la radioterapia può essere prescritta prima dell'intervento

chirurgico, al fine di ridurre le dimensioni del tumore, dopo l'intervento chirurgico (in

questo caso si parla di trattamento radioterapico adiuvante), oppure può essere impiegata

come trattamento palliativo.

Sfrutta le radiazioni dei raggi X o di altre fonti radianti per uccidere le cellule tumorali e

viene somministrata dall'esterno del corpo, attraverso una macchina.

Gli effetti di tossicità legati alla radioterapia possono comprendere una diminuzione della

funzionalità vescicale, cistite, ematuria (presenza di sangue nell'urina). I fattori che

predispongono all'insorgenza di tali complicanze sono:

• la ripetizione di un intervento chirurgico;

• una patologia ostruttiva della vescica;

• un'infezione vescicale;

• un tumore esteso ulcerato o necrotico.

A un anno dal trattamento con radioterapia la maggior parte dei pazienti lamenta la

comparsa, moderata, di piccoli vasi sanguigni - capillari, venule o arteriole - sulla

32

superficie cutanea o sulle membrane mucose, in seguito a una dilatazione permanente

degli stessi (telangectasia); a volte è associata a un sanguinamento limitato.

Tra le complicanze più rare ci sono la cistite emorragica e la fibrosi, che riduce la

capacità della vescica a soli 50 ml nei casi più severi.

Immediatamente dopo la radioterapia possono inoltre formarsi delle fistole (la fistola

è una comunicazione anormale tra due organi) tra vescica e vagina, tra vescica e retto

oppure uretrale.

� L’immunoterapia

Un'altra terapia impiegata è l'immunoterapia, che consiste nella stimolazione del

sistema immunitario: attraverso sostanze prodotte dal corpo stesso, oppure preparate in

laboratorio, vengono stimolate e ripristinate le difese naturali del corpo. Quando

l'immunoterapia si avvale di farmaci chemioterapici, si parla di

chemioimmunoterapia.

Il tumore della vescica può avere un forte impatto negativo sulla qualità della vita della

persona colpita: la perdita della continenza urinaria e l’alterazione dell’immagine corporea

a cui può andare incontro chi viene sottoposto a trattamento chirurgico o chemioterapico

possono avere conseguenze psichiche rilevanti. Proprio per questo la scelta della terapia

deve tenere conto anche degli effetti psicologici legati agli interventi, e delle loro

conseguenze sulla vita sociale e relazionale del paziente. E’ importante stabilire un buon

rapporto con il proprio medico e lo specialista, in modo da poter affrontare insieme anche i

disagi psichici legati alla malattia e alla terapia.

1.2.3 Gli stadi del tumore della vescica

Una volta scoperta la presenza di un tumore della vescica, è necessario stabilirne alcune

caratteristiche, secondo le quali ne viene determinato lo stadio. La classificazione tiene

conto dei seguenti aspetti:

� la sede in cui è localizzato il tumore;

� la dimensione della massa tumorale;

33

� la diffusione delle cellule tumorali nei linfonodi regionali (nella stessa area

in cui è presente il tumore primitivo);

� la presenza di metastasi a distanza: le cellule tumorali vengono trasportate

in altri organi lontani dalla sede originaria attraverso il sangue.

Per determinare questi parametri e stabilire a che stadio si trova il tumore

della vescica, ci si avvarrà degli esami citati per la diagnosi.

Oltre agli esami radiologici, si può definire lo stadio in modo corretto

attraverso procedure chirurgiche:

� resezione endoscopica transuretrale (detta anche TURB): il chirurgo

introduce un cistoscopio nella vescica attraverso l'uretra e, tramite asporta i

tessuti sospetti, che verranno poi analizzati al microscopio per determinare

di che tipo di tumore si tratta, a seconda del tipo di cellule tumorali.

Stadio 0

Descrizione Trattamento

tumore papillare superficiale o non invasivo

Diffusione

Sì: parete interna della vescica

no: parete muscolare

L’approccio standard è la chirurgia:

• resezione endoscopica transuretrale (TURB);

• TURB seguita da chemioterapia endovescicale, per

evitare la ricaduta o la progressione del tumore verso

strati più profondi o altri organi;

• TURB seguita da immunoterapia con

somministrazione di Bacillo di Calmette-Guerin (BCG)

nella vescica, per evitare la ricaduta o la progressione

del tumore verso strati più profondi o altri organi;

• cistectomia radicale per:

� i pazienti con un alto rischio di progressione d

del tumore

� ricadutao i pazienti con tumore di grado G3,

con lesioni multiple

� i pazienti con malattia persistente dopo

trattamento con BCG

recidivata o in presenza contemporanea di un tumore

in situ

La radioterapia è indicata:

� per i pazienti in cui la cistectomia sia

controindicata a causa dell’età o delle cattive

condizioni del paziente,

� in presenza di lesioni multiple non

34

controllabili con TURB, né con terapia

intravescicale

Stadio 0is (tumore in situ)

Descrizione Trattamento

tumore piatto non invasivo - più aggressivo rispetto

allo stadio precedente

Diffusione

Sì: parete interna della vescica,

No: parete muscolare

• Asportazione chirurgica (TURB) seguita da

Immunoterapia: somministrazione di Bacillo di

Calmette-Guerin (BCG).

• Cistectomia radicale: per i pazienti con tumore

resistente a BCG.

Stadio I

Descrizione Trattamento

Diffusione

Sì: cellule più in profondità nel tessuto connettivo

no: parete muscolare

no: linfonodi

no: altri organi.

l’approccio standard è la chirurgia:

• TURB eventualmente seguita da chemioterapia

endovescicale, per evitare la ricaduta o la

progressione del tumore superficiale a tumore

invasivo o da immunoterapia con somministrazione

di Bacillo di Calmette-Guerin (BCG) nella vescica,

per evitare la ricaduta o la progressione del tumore

superficiale a tumore invasivo

• Cistectomia radicale: è indicata per i pazienti con

un alto rischio di progressione o ricaduta, per quei

pazienti con tumore G3 oppure, ancora, in presenza

contemporanea di un carcinoma in situ.

• Radioterapia: è indicata per i pazienti in cui la

cistectomia sia controindicata dall’età o dalle cattive

condizioni del paziente, oppure in presenza di lesioni

multiple non controllabili con TURB, né con una

terapia intravescicale.

35

Stadio II

descrizione trattamento

Diffusione

Sì: parete muscolare intorno alla vescica (nello strato

più superficiale o in quello più profondo)

no: linfonodi

no: altri organi.

La terapia standard è chirurgica:

• cistectomia radicale, che può essere

accompagnata da dissezione se all’intervento

chirurgico si riscontrasse la presenza di linfonodi

interessati dal tumoreIn casi molto selezionati, la

chirurgia può essere preceduta da chemioterapia, da

sola o in combinazione con radioterapia.

Stadio III

descrizione trattamento

Diffusione

Sì: parete muscolare della vescica

Sì: strati di tessuto attorno alla vescica

Possibile diffusione a organi adiacenti (prostata

negli uomini; utero o vagina nelle donne)

no: linfonodi

no: altri organi.

La terapia standard è chirurgica:

• cistectomia radicale.In casi molto selezionati, la

chirurgia può essere preceduta da chemioterapia, da

sola o in combinazione con radioterapia.

Stadio IV

descrizione trattamento

Diffusione

Sì: parete pelvica o parete addominale

Possibile diffusione ai linfonodi e a organi a

distanza (metastasi).

sì: diffusione ai linfonodi e ai tessuti vicini alla

vescica,

no: diffusione a organi a distanza

la terapia standard è:

• cistectomia radicale, eventualmente seguita da

chemioterapia

sì: diffusione ai linfonodi e ai tessuti vicini alla

vescica

sì: diffusione a organi a distanza

le terapie possibili sono:

• chemioterapia

• radioterapia palliativa

Oltre allo stadio, il grado è un'altra caratteristica del tumore fondamentale nella scelta

terapeutica. Il grado del tumore indica quale aggressività hanno le cellule che compongono

il tumore.

36

1.2.4 La prognosi

La prognosi indica le probabilità che la cura offerta alla persona malata di tumore abbia

successo. Si tratta di dati statistici ricavati da studi che osservano l'andamento della

malattia in un alto numero di pazienti.

E' importante ricordare che queste statistiche sono indicative: nessun medico è in grado di

dire esattamente quale sarà l'esito della cura in un singolo paziente o quanto tempo questo

paziente vivrà. La prognosi, infatti, dipende da diversi fattori, che hanno a che vedere con

il singolo paziente.

La prognosi, in caso di tumore della vescica, dipende dai seguenti fattori:

� lo stadio

� il grado

� le dimensioni

� la presenza di altre alterazioni della forma, delle dimensioni e dell'organizzazione

delle cellule (displasie) della vescica.

1.2.5 Cosa fare dopo il trattamento

Dopo aver completato tutti i trattamenti, lo specialista pianificherà una serie di visite

successive e di esami ulteriori, per controllare gli effetti delle terapie e accertarsi che il

tumore non si riformi (follow-up).

Nel caso di tumore della vescica il follow-up sarà pianificato a seconda che il paziente

abbia subito un trattamento per un tumore superficiale oppure per un tumore invasivo.

37

Diffusione della malattia Esame suggerito periodicità controlli

clinici

Tumore superficiale

G1 e G2

Cistoscopia e/oEsame

urine

da 3 a 4 volte all’anno

durante il primo anno

ogni 6 mesi

successivamente.

Tumore superficiale

G3

Cistoscopia e/oEsame

urine

ogni 3 mesi nei primi 3 anni

ogni 6 mesi

successivamente

Dopo cistectomia

Urografia o TC una volta all’anno

Per individuare eventuali

metastasi a distanza nei

linfonodi, nel fegato, nei

polmoni e nello scheletro

TC addominale, lastra del

torace o scan osseo

una volta all’anno

38

1.3 IL TUMORE DEL RENE

1.3.1 Che cos’è, come si contrae, come si diagnostica

Il cancro del rene (detto anche tumore a cellule renali o adenocarcinoma renale) è un

tumore che origina nelle cellule della mucosa dei tubuli renali. I reni sono due organi

simmetrici situati a ciascun lato della colonna vertebrale. Ogni rene è costituito

internamente da tubuli sottili che filtrano e depurano il sangue, privandolo delle scorie ed

eliminando queste con l’urina. L’urina secreta dai reni scorre attraverso l’uretere nella

vescica, dove viene trattenuta fino al momento della minzione.

Il tumore del rene è uno dei tumori più imprevedibili. Talvolta può impiegare decenni

prima di manifestarsi, mentre in altri casi la sua crescita è rapida e aggressiva. Prima che

l’ecografia diventasse un esame di routine, la diagnosi risultava spesso tardiva a causa

della natura silente di questo tumore. Infatti spesso la massa tumorale è inaccessibile alla

palpazione del medico, il rene funziona come prima nella gran parte dei casi, e l’unica spia

di allarme può essere qualche goccia di sangue nelle urine.

Rappresenta circa il 3% dei tumori maligni dell’adulto ed è il terzo tipo più frequente di

tumore urologico, dopo quelli della prostata e della vescica. La sua frequenza è stabile, con

circa 155 nuovi casi all’anno per ogni milione di abitanti. Il suo picco d’incidenza è intorno

alla sesta-settima decade di vita.

È stata di recente introdotta una classificazione dei tumori renali sotto il profilo genetico-

molecolare: in questo senso due sono i tipi fondamentali, caratterizzati da un’alterazione

del gene VHL o del gene MET. La prima alterazione si associa al carcinoma renale a

cellule chiare sporadico,del carcinoma a cellule chiare ereditario (HCRC) e della sindrome

di Von Hippel-Lindau. L’alterazione del gene MET è invece alla base del carcinoma

papillare ereditario e del carcinoma papillare sporadico. Le mutazioni di entrambi questi

geni potrebbero essere usate come spie precoci di presenza e di ripresa del tumore.

39

I fattori di rischio sono:

� fumo;

� abuso continuato di alcuni farmaci analgesici, compresi i farmaci da banco che

non richiedono prescrizione medica;

� essere affetti da alcune patologie genetiche quali la sindrome di Hippel-Lindau

o il carcinoma papillare renale ereditario.

Potenziali segni di malattia sono la presenza di sangue nelle urine e di una massa nella

regione addominale

Questi e altri sintomi possono essere causati dalla presenza di un tumore o di altre

patologie. Negli stadi iniziali, il tumore potrebbe essere asintomatico fino a quando

raggiunge dimensioni tali da causare una sintomatologia:

� presenza di sangue nelle urine (ematuria);

� presenza di una massa addominale;

� dolore al fianco che non si placa;

� inappetenza;

� perdita di peso senza motivo;

� anemia.

La diagnosi si formula sulla base di esami che consentano di esaminare lo

stato dell’addome e dei reni, tra cui:

• esame fisico e storia clinica: il medico vi visiterà le vostre condizioni generali e

accertare la presenza di eventuali segni di malattia, quali presenza di masse o

qualunque altra manifestazione che possa sembrare anomala. Il medico compilerà

la vostra storia clinica con riferimento a malattie di cui ha sofferto e relativi

trattamenti e indicazioni sulle abitudini di vita;

• esami ematochimici: si eseguono su un campione di sangue allo scopo di misurare

i livelli di alcune sostanze immesse nel circolo ematico da organi e tessuti

dell’organismo. La presenza di livelli anomali (superiori o inferiori alla norma) di

una sostanza può essere il segno di una patologia a carico dell’organo o tessuto che

la produce;

40

• analisi delle urine: si esamina un campione di urine in laboratorio per

determinarne il colore e il contenuto, misurando i livelli di glucosio, proteine e

sangue e accertando l’eventuale presenza di batteri;

• prove di funzionalità epatica: si eseguono su un campione di sangue allo scopo di

misurare i livelli degli enzimi epatici. Un'eventuale variazione dei livelli degli

enzimi epatici rispetto alla norma può essere il segno della presenza di un tumore

del fegato; tuttavia, gli enzimi epatici possono risultare alterati anche a causa di

altre patologie diverse dal cancro;

• pielografia i.v. (IVP): una particolare tecnica radiografica che consente di

visualizzare i reni, gli ureteri e la vescica per accertare o escludere la presenza di

cellule neoplastiche a questi organi. Si somministra per endovena un mezzo di

contrasto contenente iodio, che è assorbito dai reni, dagli ureteri e dalla vescica, che

appaiono più chiari ai raggi X, evidenziando eventuali occlusioni;

• ecografia: tecnica che sfrutta le rifrazioni degli ultrasuoni per visualizzare le

strutture interne dell’organismo. Le rifrazioni formano un’immagine dei tessuti

corporei detta sonogramma;

• TAC (tomografia computerizzata o tomografia assiale computerizzata):

consiste in una serie di immagini dettagliate delle strutture interne dell’organismo,

prese da angoli diversi. Le immagini sono rilevate da un computer collegato a

un’apparecchiatura a raggi X. In alcuni casi, si usa un mezzo di contrasto (che vi

sarà iniettato in vena oppure dato da assumere oralmente) per migliorare la

visualizzazione degli organi e dei tessuti;

• risonanza magnetica nucleare (RMN): è una particolare tecnica radiografica che

utilizza i campi magnetici per trasmettere a un computer i dati, che poi questi

rielabora per dare immagini dettagliate delle strutture interne del nostro corpo.

• biopsia: consiste nel prelievo di un campione di tessuto che sarà esaminato al

microscopio per accertare l’eventuale presenza di cellule neoplastiche. Il prelievo si

esegue inserendo un ago sottile all’interno del tumore. Il campione di tessuto viene

poi analizzato al microscopio dall’anatomo-patologo per verificare la presenza di

cellule atipiche.

La probabilità di guarigione e la scelta del trattamento dipendono dallo stadio del tumore,

dall’età e dalle condizioni generali.

41

1.3.2 Come si cura

- Esistono trattamenti diversi per i pazienti portatori di cancro del rene.

- Esistono quattro opzioni terapeutiche standard:

• chirurgia

• radioterapia

• chemioterapia

• terapia biologica

- Sono attualmente in corso alcuni studi clinici miranti a valutare l’efficacia di altre

modalità terapeutiche, tra le quali il trapianto di cellule staminali.

La scelta del trattamento più indicato è una decisione che, nel caso ideale, deve

coinvolgere il paziente, i familiari e l’équipe medica.

� Chirurgia

La chirurgia consiste nell’asportazione di una porzione o di tutto il rene. Il chirurgo potrà

decidere di asportare il tumore attuando uno dei seguenti tipi di intervento:

• nefrectomia parziale: consiste nella resezione del tumore con un margine di tessuto

sano circostante. La nefrectomia parziale può essere eseguita per evitare la perdita

della funzione renale se il rene controlaterale è compromesso o è già stato

asportato;

• nefrectomia semplice: consiste nell’asportazione di tutto il rene solamente;

• nefrectomia radicale: consiste nell’asportazione del rene, del surrene e,

usualmente, dei linfonodi adiacenti.

Si può vivere anche con un rene solo, ma nel caso in cui sia necessario asportare entrambi

gli organi o questi non funzionino regolarmente, sarete sottoposti a emodialisi, una

procedura che consente di depurare il sangue tramite un macchinario esterno

all’organismo, o a un trapianto, sostituendo l’organo malato con quello sano di un

donatore compatibile. Si ricorre al trapianto di rene quando la malattia è circoscritta al rene

42

e si riesce a trovare l’organo da trapiantare. Nell’attesa del trapianto, sarete sottoposti ai

trattamenti del caso.

Quando la chirurgia non è attuabile, si potrà procedere ad un intervento di embolizzazione

arteriosa per ridurre il volume del tumore. Il chirurgo praticherà una piccola incisione,

attraverso la quale introdurrà un catetere, un tubicino sottile, nel grasso vaso che alimenta

il rene (arteria renale). Quindi inietterà attraverso il catetere una speciale spugna gelatinosa

allo scopo di bloccare l’irrorazione dell’organo. In questo modo le cellule neoplastiche non

riceveranno più ossigeno né altre sostanze di cui hanno bisogno per crescere.

Anche se il chirurgo rimuove tutto il tumore visibile ad occhio nudo all’epoca

dell’intervento, in alcuni casi l’oncologo potrà ritenere opportuno attuare una

chemioterapia o radioterapia postoperatoria allo scopo di distruggere eventuali cellule

neoplastiche residue. Il trattamento che si attua dopo la chirurgia al fine di accrescere le

probabilità di guarigione si definisce adiuvante.

� Radioterapia

La radioterapia consiste nell’applicazione di radiazioni ad alta frequenza per distruggere le

cellule neoplastiche e ridurre le dimensioni del tumore. Esistono due tipi di radioterapia :

radioterapia esterna: le radiazioni possono essere erogate da una macchina esterna

all’organismo e orientate sulla zona interessata dal tumore; oppure radioterapia interna o

intracavitaria: la sostanza radioattiva (radioisotopo) può essere immessa direttamente

nella lesione o vicino ad essa per mezzo di cateteri, aghi o semi. La modalità di attuazione

della radioterapia dipende dal tipo e dallo stadio del tumore.

� Chemioterapia

La chemioterapia è la modalità terapeutica che distrugge le cellule neoplastiche attraverso

la somministrazione di farmaci, che possono essere assunti per bocca in forma di

compresse, oppure iniettati per via endovenosa o intramuscolare. In questi casi, la

chemioterapia si definisce trattamento sistemico, perché il farmaco entra nella circolazione

sanguigna, si diffonde nell’organismo e in questo modo può raggiungere e distruggere le

cellule neoplastiche che si sono diffuse a distanza. Quando il farmaco chemioterapico è

somministrato direttamente nella colonna spinale, in una cavità organica, quale l’addome,

o in un organo, esso agisce principalmente sulle cellule neoplastiche presenti in quella

regione. La modalità di attuazione della chemioterapia dipende dal tipo e dallo stadio del

tumore.

43

� Terapia biologica

La terapia biologica mira a stimolare le difese naturali dell’organismo per combattere il

tumore attraverso la somministrazione di sostanze prodotte dall’organismo stesso oppure di

origine sintetica. La funzione di tali sostanze è quella di stimolare, orientare o ripristinare il

sistema immunitario dell’organismo a difendersi dalla malattia La terapia biologica è detta

anche bioterapia o immunoterapia.

� Trapianto di cellule staminali

Le cellule staminali (cellule ematiche immature) si prelevano dal sangue o dal midollo

osseo di un donatore e si reimpiantano successivamente nel paziente per infusione. Le

cellule staminali reimpiantante attecchiscono nell’organismo e crescono dando vita a

nuove le cellule ematiche

1.3.3 Gli stadi del tumore del rene

Una volta dimostrata la presenza del tumore, saranno necessari ulteriori accertamenti per

verificare se le cellule neoplastiche si sono diffuse all’interno del rene o ad altre parti

dell’organismo

Questo processo, che si definisce stadiazione, è importante per la scelta del trattamento più

indicato per ciascun caso. La stadiazione comprende una serie di analisi e procedure, tra

cui le seguenti:

• TAC

• risonanza magnetica nucleare (RMN

• radiografia del torace

• scintigrafia ossea

44

STADIO I

DESCRIZIONE TRATTAMENTO

Il tumore è circoscritto al rene e misura meno

di 7 cm di diametro

Le opzioni terapeutiche standard saranno le

seguenti:

• chirurgia (nefrectomia radicale,

nefrectomia semplice o nefrectomia

parziale);

• radioterapia palliativa per alleviare i

sintomi nei pazienti inoperabili;

• embolizzazione arteriosa come terapia

palliativa.

STADIO II

descrizione trattamento

Il tumore è circoscritto al rene e misura più di

7 cm di diametro.

Le opzioni terapeutiche standard saranno le

seguenti:

• chirurgia (nefrectomia radicale o

parziale);

• chirurgia (nefrectomia) prima o dopo la

radioterapia;

• radioterapia palliativa per alleviare i

sintomi nei pazienti in operabili;

• embolizzazione arteriosa come terapia

palliativa.

STADIO III

descrizione trattamento

Nello stadio III il tumore:

• ha invaso un rene e un linfonodo

adiacente; oppure

• ha invaso un surrene o il tessuto

adiposo che circonda il rene e un

Le opzioni terapeutiche standard saranno le

seguenti:

• chirurgia (nefrectomia radicale). Nella

stessa sede il chirurgo potrebbe

decidere di rimuovere anche i vasi

45

linfonodo adiacente; oppure

• ha invaso i principali vasi sanguigni

che alimentano i reni e un linfonodo

adiacente.

sanguigni del rene e alcuni linfonodi;

• embolizzazione arteriosa seguita da

chirurgia (nefrectomia radicale);

• radioterapia alliativa per alleviare i

sintomi e migliorare la qualità di vita;

• embolizzazione arteriosa come terapia

palliativa;

• chirurgia (nefrectomia) a scopo

palliativo;

• radioterapia prima o dopo chirurgia

(nefrectomia radicale).

Non è stata ancora confermata l’efficacia della

terapia biologica in questo stadio.

STADIO IV

descrizione trattamento

Nello stadio IV, il tumore:

• si è diffuso oltre lo strato di tessuto

adiposo che circonda il rene e ha

invaso un linfonodo adiacente;

• ha invaso 2 o più linfonodi adiacenti;

si è diffuso ad altri organi, quali intestino,

pancreas o polmoni, e ai linfonodi adiacenti.

• radioterapia palliativa per alleviare i

sintomi e migliorare la qualità di vita;

• chirurgia (nefrectomia) a scopo

palliativo;

• chirurgia (nefrectomia radicale, con o

senza exeresi delle metastasi in altri

organi).

Carcinoma del rene recidivante

descrizione trattamento

Si definisce recidivante il tumore del rene che

si ripresenta dopo il trattamento. La recidiva

può svilupparsi nella stessa sede del tumore

primitivo oppure in un altro organo anche a

distanza di molti anni dal primo trattamento.

Le opzioni terapeutiche standard saranno le

seguenti:

• terapia biologica;

• radioterapia palliativa per alleviare i

sintomi e migliorare la qualità di vita;

• chemioterapia.

46

1.3.4 Cosa fare dopo il trattamento

Deve sottoporsi a controlli periodici per evidenziare con prontezza un’eventuale ripresa del

tumore, a livello locale o in altre regioni dell’organismo. In genere viene suggerita una

radiografia del torace, TAC addome completo e una visita medica ogni 6 mesi. Un po’ più

intensi sono i controlli per i pazienti a maggior rischio di recidiva come, per esempio,

coloro che hanno subito un intervento per neoplasie in stadio più avanzato o di tipo più

aggressivo. Per questa categoria di pazienti i controlli vanno intensificati tra il secondo e il

quarto anno dopo l’intervento chirurgico.

47

CAPITOLO 2

LE CONSEGUENZE DEI TRATTAMENTI:

IMPOTENZA, INFERTILITA’, INCONTINENZA.

ASPETTI PSICOLOGICI

Introduzione

Infertilità e perdita delle funzioni sessuali, fatigue e depressione, senso di precarietà sociale

e discriminazione. Sono queste, dopo la lotta per sopravvivere, le battaglie più importanti

che deve affrontare il paziente oncologico. Negli uomini il problema sessuale è

particolarmente pesante: circa il 60 per cento dei 50 mila italiani operati ogni anno per un

tumore della prostata, della vescica o del testicolo, a causa dell’intervento chirurgico o

della chemioterapia, perdono la capacità erettile e la fertilità.

Queste problematiche assumono una valenza diversa in relazione all’età del paziente.

L’adulto

Si può partire a calcolare l’età adulta convenzionalmente dal terzo decennio di vita fin

verso il sessantesimo anno di età.

Nel mondo maschile la malattia incide su un’immagine, da un lato di efficienza del proprio

corpo e, dall’altra su un’idea di autonomia e di indipendenza nel “fare”, nel dispiegare

azioni, nell’accentuare decisioni, con conseguente progressiva lontananza dalle emozioni

che diventano espressione di una vulnerabilità insopportabile e spesso di impedimento

nell’agire.

La malattia porta in primo piano un corpo non più macchina inespugnabile.

Questo corpo così piegato alle esigenze del soggetto, quando riemerge con prepotenza con

la malattia, trova il soggetto impreparato e di frequente non adattabile ai condizionamenti

della malattia e delle sue conseguenze.

Questo corpo che per espletare le proprie funzioni deve essere “integro”, là dove tradisce il

soggetto e denuncia una propria vulnerabilità , propone all’attenzione del maschile quel

rapporto con se stesso e con la propria interiorità che era stato “temporaneamente” precluso

e interpretato come sviante dagli obiettivi “alti” che si dovrebbero perseguire.

Una delle differenze più significative tra il maschile e il femminile nell’”accogliere

l’evento malattia” sembra appartenere alle reciproche modalità del “prendersi cura” di tale

48

evenienza.

Fin dall’individuazione diagnostica della malattia sembrano modularsi risposte adattive

diverse.

Nel mondo femminile si evidenzia il tentativo di ricomporre da subito in unità il corpo con

le sue passioni e la mente con i suoi affanni, le sue ansie, le sue angosce.

E’ questo prendersi carico dell’inaspettato, dell’insolito imprevisto, che delinea la modalità

tutta femminile di contenimento, di ascolto e di interpretazione di quei contenuti personali

che, prima della malattia, potevano non essere selezionati, percepiti e continuamente

rimandati.

Se nel mondo femminile appare una tendenza a farsi carico da subito della complessità

della malattia e delle sue conseguenze, pur nella consapevolezza della gravità del compito

a cui il soggetto è chiamato, nel mondo maschile si evidenzia una maggiore difficoltà a

farsi carico precocemente della situazione inattesa introdotta dall’esperienza della malattia.

Se partiamo dal dato che l’identità maschile nella cultura odierna si definisce soprattutto

attraverso il ruolo e le immagini di ruolo che discendono dai percorsi professionali

acquisiti, la perdita seppur temporanea in molti casi, di uno status professionale ed

economico socialmente riconosciuto, determina una messa in crisi della propria

“credibilità” personale e di una propria autostima che si diffonde a macchia d’olio al

sistema di relazioni anche familiari, in cui il soggetto è inserito.

Spesso l’individuo è talmente disorientato da affidare le proprie paure, le proprie angosce,

la propria fragilità psicologica ad una figura femminile di riferimento che l’accompagna

nell’iter di cura e che appoggia ed orienta la sua vita in quella fase.

Nel momento in cui decide di affidarsi a qualcuno che, insieme a lui, lavori per attraversare

la sua malattia, tentando di riconciliarsi con essa fino a dare un senso per sé, per i suoi

familiari e magari anche per gli operatori; in questo lavoro per l’accoglienza e

l’acquisizione di significati della malattia, sta la prima guarigione.

L’anziano

Dal punto di vista biologico e medico viene generalmente considerato anziano chi ha

un’età superiore ai 65 anni.

Il paziente anziano presenta peculiarità di cui si deve tener conto nell’ambito delle

valutazioni cliniche.

Nell’esaminare la condizione dell’anziano, va preliminarmente considerato che nella terza

età i più diversi piani e livelli, da quelli biologici a quelli psicologici, da quelli esistenziali

49

a quelli familiari e sociali, sono strettamente interconnessi in un intreccio quasi

inestricabile.

Essi vanno dall’invecchiamento cerebrale al vissuto della perdita, dai sentimenti di

mutamento del proprio corpo all’affievolirsi della sessualità, dall’insicurezza dei supporti

sociali al timore dello scacco esistenziale, dalla scomparsa del partner al distacco dei figli,

dall’esaurimento del ruolo riproduttivo alla possibile marginalità familiare e sociale, dalla

difficoltà di programmare il futuro all’incapacità di controllare e dominare l’ambiente, dai

pregiudizi antisenili ai processi di esclusione.

In una dimensione strettamente psicologica, l’aspetto più caratterizzante della condizione

senile, alla luce del quale va letto anche l’impatto dell’evento cancro, sembra comunque il

problema del progressivo accorciamento della vita, del “tendere al punto zero”.

In sostanza, il problema dell’inevitabile confronto con l’idea della morire.

In effetti viene comunemente ritenuto che, dal punto di vista psicologico, mentre nelle

persone in età giovanile o adulta la malattia venga frequentemente vissuta come estranea al

soma e come tale un male da rigettare, nelle persone in età più avanzata essa sia più spesso

vissuta come “intrinseca” al soma, una sorta di realtà ineluttabile legata

all’invecchiamento.

Questa presunta maggiore “aspettativa” della malattia nulla toglie, comunque, al profondo

impatto che la malattia e il cancro in particolare, ha sull’anziano che appare non meno

coinvolto da manifestazioni di disagio psichico di quanto lo siano le persone più giovani;

circa il 68% di esse presenta manifestazioni di natura depressiva, ansiosa o mista definibili

come disturbo dell’adattamento, e quasi il 13% manifesta un vero e proprio disturbo

depressivo maggiore.

Esistono alcuni aspetti che sono specificamente correlati al cancro, che vanno

ulteriormente considerati per la loro potenziale importanza nella terza età.

Innanzitutto, la diagnosi di cancro comporta una estrema incertezza per il futuro, in una età

nella quale quest’ultima è già oltremodo presente è immanente.

L’esito della malattia nel caso dei tumori non è inoltre correlato in modo evidente con il

livello di impegno personale del paziente, come può avvenire in altre condizioni come il

diabete o la malattia coronarica, nelle quali ad esempio la modificazione dello stile di vita o

della dieta può offrire serie possibilità di stabilizzazione clinica; inoltre, il cancro, in quanto

malattia invalidante, può costituire causa di ulteriore dipendenza fisica e psicologica da

terzi, alla quale l’anziano appare particolarmente vulnerabile.

Il senso d’impotenza che ne può derivare rischia di essere un ulteriore, potente fattore

50

depressogeno.

In oncologia geriatrica la scelta terapeutica deve avere come obiettivo non solo l’aumento

della sopravvivenza ma soprattutto la qualità del tempo aggiuntivo che viene offerto al

paziente.

In altri termini, è il miglioramento della qualità della vita l’obiettivo principale.

2.1 IMPOTENZA: IL VISSUTO SOGGETTIVO E LA QUALITÀ DI VITA

La disfunzione erettile (DE) è l'incapacità di raggiungere e/o mantenere un'erezione

sufficiente per un attività sessuale soddisfacente. In seguito alla connotazione negativa

comunemente attribuita al termine "impotenza", a questa definizione si è sostituita quella,

più appropriata, di "disfunzione erettile".

Numerosi fattori fisici e psicologici sono coinvolti nella normale funzione erettile,

compresi i fattori neurologici, vascolari, ormonali e cavernosi.

Alterazioni in uno o più di questi fattori possono provocare una DE. Per semplicità, la DE

frequentemente è classificata come:

� organica

dovuta ad alterazioni o a lesioni vascolari, neurologiche, ormonali o cavernose

� psicogena

dovuta ad un'inibizione centrale dei meccanismi dell'erezione in assenza di una causa

organica rilevabile

� mista organica + psicogena

dovuta a una combinazione di fattori organici e psicogeni.

La probabilità di disfunzione erettile aumenta dopo un intervento di prostatectomia

radicale. Si stima che il 57% dei pazienti sottoposti a questo tipo di intervento chirurgico

manifesta disfunzione erettile. E’comune, dopo aver subito un intervento di prostatectomia

51

radicale oppure TURP, notare un cambio significativo nella capacità di raggiungere o

mantenere l'erezione. Fortunatamente la maggior parte dei casi di disfunzione erettile è

trattabile, che sia associata o meno a traumi da intervento chirurgico o a farmaci prescritti.

Le cure per l'impotenza al giorno d'oggi, si basano sostanzialmente sull'uso di alcuni

farmaci. Nei casi in cui vi sia una causa prevalentemente psicologica all'origine del

disturbo erettivo, è consigliabile affiancare una terapia psicologica di sostegno.

� Farmaci da assumere per via orale

Attualmente sono in commercio tre tipi di farmaci orali per il trattamento del deficit

erettile: il sildenafil, il tadalafil e l'apomorfina. Questi farmaci che si differenziano tra loro

per durata d'azione e modalità di assunzione, presentano una caratteristica che li accomuna:

vanno assunti solo all'occorrenza (non sono cioè terapie "croniche") e facilitano l'erezione

solamente se vi è una stimolazione sessuale.

� Sildenafil. Meglio noto come Viagra, su questo farmaco si è detto e scritto

moltissimo e spesso a sproposito. Non si tratta nè della "pillola dell'amore", nè

"dell'afrodisiaco del 2000", ma, è bene ricordarlo, di un farmaco. Come tutti i

farmaci, presenta indicazioni, controindicazioni ed effetti collaterali legati al suo

meccanismo d'azione e, pertanto, va assunto solo su prescrizione del Medico. Il

sildenafil è un farmaco che agisce determinando vasodilatazione e quindi un

maggiore afflusso di sangue in alcuni distretti del corpo, tra cui il pene. L'azione

di maggiore afflusso sanguigno al pene è sfruttata per permettere un'erezione più

valida. Essendo un vasodilatatore la sua assunzione potrà determinare, in alcuni

casi dei particolari effetti collaterali tra cui i più frequenti sono costituiti da:

cefalea, arrossamento del viso, palpitazioni, vertigini. Tali effetti cessano con

l'eliminazione del farmaco dall'organismo. L'unica importante controindicazione

all'uso del sildenafil è rappresentata dalla contemporanea assunzione di altri

farmaci vasodilatatori. Il sildenafil và assunto lontano dai pasti circa 30 minuti

prima del rapporto sessuale. Và ricordato ancora una volta che il Viagra è un

farmaco e, come tale, deve essere assunto solo dietro indicazione del Medico che

sarà in grado, inoltre di precisare e spiegarne le modalità di assunzione.

� Tadalafil. Farmaco recentemente entrato in commercio con il nome di Cialis e

subito battezzato come "pillola del week-end". Il meccanismo d'azione è

sovrapponibile a quello del sildenafil (Viagra) da cui si differenzia per la durata

d'azione. Questo farmaco è infatti attivo per più di 24 ore. Un'unica

52

somministrazione di questo farmaco "copre" quindi il paziente per più di una

giornata. Modalità d'assunzione, controindicazioni ed effetti collaterali sono

sovrapponibili a quelli del sildenafil.

� Apomorfina. Farmaco recentemente commercializzato in Italia (Ixsense, Taluvian,

Uprima) ha un azione vasodilatatrice mediata da recettori situati principalmente

nel Sistema Nervoso Centrale. Anch'esso, come il sildenafil e tadalafil, determina

vasodilatazione e di conseguenza un maggiore afflusso di sangue al pene. Si

differenzia dal sildenafil e dal tadalafil per la modalità d'assunzione: l'apomorfina

viene assunta infatti per via orale sublinguale. Ciò determina un più veloce

assorbimento del farmaco nel sangue e di conseguenza un'azione più rapida. La

durata d'azione è più breve rispetto al sildenafil e tadalafil, consentendo una

ripetizione della dose nel corso della giornata. Gli effetti collaterali e le

controindicazioni sono sovrapponibili a quelli del sildenafil. Anche per questa

sostanza vale quanto detto a proposito del sildenafil: si tratta di un farmaco che

deve essere assunto solo dietro prescrizione medica nel rispetto di corrette

indicazioni e modalità di assunzione.

� La terapia intracavernosa: le prostaglandine

In alcuni casi il sildenafil, il tadalafil o l'apomorfina (il cui vantaggio è rappresentato

dall'assunzione per via orale) possono non essere efficaci. In queste situazioni è indicato

l'uso di alcuni particolari farmaci (prostaglandine) che vengono iniettate direttamente nei

corpi cavernosi del pene. La tecnica di iniezione è molto semplice e viene facilmente

appresa dal paziente. A differenza dei farmaci assunti per via orale che determinano

un'erezione solo in presenza di una stimolazione sessuale, le prostaglandine intracavernose

provocano un'erezione spontanea dopo circa 10-15 minuti dall'iniezione. Con questi

farmaci l'erezione può mantenersi per qualche ora.

Và ricordato che esistono alcune situazioni in cui la terapia psicologica e farmacologica

non sono in grado di risolvere il problema: in questi casi (fortunatamente molto rari)

possono essere necessarie alcune particolari terapie chirurgiche.

Un articolo pubblicato sull’International Journal of Men’s health (2004) evidenzia come il

concetto di mascolinità abbia un ruolo di notevole importanza all’interno dei processi

53

decisionali sui trattamenti per il cancro alla prostata, spesso rimpiazzando la paura della

morte e influenzando significativamente le decisioni sui trattamenti.

Le analisi sociali sulla mascolinità si sono focalizzate sulla comunicazione e sulle

relazioni sociali degli uomini, mentre l’impatto della diagnosi di cancro, prognosi e

trattamenti sull’esperienza della mascolinità sono state raramente prese in considerazione

(Kaplan & Marks, 1995; Kiss & Meryn, 2001; White, 2002). Ci sono ancora significativi

vuoti nella nostra conoscenza attuale riguardo i legami tra tecnologie e procedure mediche

e costruzioni culturali della mascolinità, particolarmente nel caso del cancro alla prostata.

Come si intersecano le tecniche diagnostiche, i trattamenti e i loro effetti collaterali con

l’identità di genere e un desiderio di aderire ad una certa versione di mascolinità?

Quali fattori, legati all’esperienza di malattia, influenzano il processo decisionale rispetto

ai trattamenti?

Che cos’è la mascolinità? Fino agli anni ’60 si assumeva che mascolinità e femminilità

fossero agli estremi di un’unica dimensione; poiché l’identità sessuale appropriata è quella

congruente con tale differenziazione, compito della società era di aiutare i maschi e le

femmine a sviluppare e acquisire tratti, interessi e valori congruenti con il proprio sesso,

garantendone la felicità e il benessere. A partire dagli anni ’70 si iniziò invece a

concettualizzare mascolinità e femminilità come dimensioni distinte e complementari, e a

ritenere che il possesso di caratteristiche sia maschili che femminili, sia più funzionale allo

sviluppo armonioso della personalità.

Tra i tratti stereotipici maschili sono stati individuate la competenza, la razionalità e

l’assertività (vale a dire il ruolo “ strumentale”). Il maschio ideale e tipico è indipendente,

attivo, competitivo, deciso, non si arrende facilmente, tollera bene le pressioni, ha fiducia

in sé, è avventuroso ed è estroverso più della femmina. Il maschio tipico è però anche

descritto come egoista, aggressivo, ostile, arrogante e cinico. Alcune rappresentazioni della

mascolinità sono più “dure” di altre e conducono le persone su strade spesso

problematiche.

Infatti, alcuni studi hanno evidenziato un maggiore tasso di mortalità in quegli uomini che

presentavano un’aderenza ad uno stereotipo di mascolinità “dominante” , sottolineando le

conseguenze negative per quei soggetti che cercano di esibire quelle caratteristiche legate

54

al ruolo maschile come indipendenza, aggressività, inespressività delle emozioni, ecc.

(Cameron & Bernardes, 1998; Connell, 1995; Courtenay, 2000; Kaplan & Marks, 1995;

Kiss & Meryn, 2001; White, 1997; 2002). Le ricerche sulla salute degli uomini e la

mascolinità si sono ampiamente focalizzate sulla loro riluttanza a parlare della loro salute,

ad informarsi sui rischi per la salute, e a ricercare aiuto se sperimentano problemi di salute.

Pochi studi si sono occupati degli effetti di una diagnosi di cancro alla prostata e dei

relativi trattamenti sulla mascolinità, mentre esiste una vasta gamma di ricerche sugli

effetti di interventi chirurgici demolitivi sulle donne (es. mastectomia).

Per la maggior parte degli uomini sono le procedure di esplorazione quelle che mettono più

a repentaglio la loro identità di genere, poiché sono tutte procedure rettali, ad esempio

l’esplorazione digitale rettale, la biopsia prostatica e l’ecografia prostatica per via

transrettale. In particolare la biopsia prostatica sembra interferire con la percezione degli

uomini di “essere uomini” (Oliffe, 2004). Essa viene spesso definite come vergognosa,

imbarazzante e umiliante.

L’opposizione da parte di alcuni soggetti a sottoporsi a questi esami è dovuta alle

connotazioni associate con la penetrazione rettale, generalmente associata ad un

comportamento omosessuale che si contrappone alle forme dominanti di mascolinità

eterosessuale. C’è una chiara relazione tra come la loro mascolinità potrebbe essere

compromessa e la natura delle procedure.

Le più importanti implicazioni sulla mascolinità sono legate ai trattamenti veri e propri e

alle loro conseguenze. La prostatectomia radicale o la radioterapia possono causare

impotenza e incontinenza. Come detto precedentemente, gli ideali culturali di mascolinità

sono legati all’eterosessualità, e particolarmente alla penetrazione (potenza) eterossessuale

e al desiderio, entrambi difficoltosi, se non impossibili, dopo i trattamenti. Per questi

motivi ci sono uomini che scelgono il trattamento meno compromettente per la vita

sessuale piuttosto che la cura migliore. Infine ci sono uomini che sostengono di non

sentirsi più uomini completi dopo l’asportazione della prostata.

Le problematiche sessuali dovute alla terapia medico-chirurgica possono far perdere al

paziente la sicurezza nella propria sessualità. Questo timore fa aumentare, paradossalmente, il

suo bisogno prestazionale ed è proprio questo carattere di pretesa, di obbligazione, ad avere

effetti patogeni.

55

La disfunzione erettile può avere un impatto significativo sulla vita dell'uomo, minando la

fiducia in se stesso e mettendo in discussione la propria virilità; può essere causa di

distacco emotivo da familiari, amici - persino dalla propria moglie o partner - innescando

inutili tensioni nella propria relazione e compromettendo drasticamente la qualità di vita.

Quindi è importante per i pazienti e le loro partner conoscere la disfunzione erettile, così

che possano essere preparati ad affrontarla, se e quando si manifestasse.

Si può valutare anche l’opportunità di coinvolgere la propria partner in questa discussione:

ciò aiuterà a ricevere un valido supporto psicologico e a scegliere il trattamento più

soddisfacente per la coppia.

L'intervento ha come perno centrale la malattia. Se una coppia ha già problemi relazionali

preesistenti alla malattia, questi minacciano di peggiorare il rapporto fino alla rottura.

Compito dello psiconcologo è mettere ordine fra le cause del nuovo malessere messo a

nudo dalla malattia.

E’ utile insegnare al paziente e alla propria partner a fare i conti con la malattia, a gestire

l'ansia che ne consegue attraverso appropriate tecniche di rilassamento. Se la malattia fa da

detonatore o da scusa per altri problemi, è attraverso un lavoro sulla coppia che si può

trovare un nuovo equilibrio fra i due, sollecitandoli entrambi a trovare un'intesa a un livello

emozionale un poco più alto, fondato su valori spesso rinnovati.

Il sesso è un problema. Si assiste a un'alta percentuale di disturbi di vario tipo a carico

della sessualità della coppia. C'è un calo reciproco del desiderio con conseguente riduzione

dei rapporti, del piacere, dell'orgasmo. Forse perché la persona malata, sentendosi meno

desiderabile, si autocensura nel desiderio, trasferendo gli stessi effetti nel proprio partner?

Questo è vero per gli interventi fisicamente visibili.

Il terapeuta deve aiutare la coppia a trovare un punto in comune, a costruire una nuova

sessualità assieme, riequilibrando i sentimenti.

Il concetto di sessualità si impara, è un processo di crescita, di acquisizione di

competenze, anche se si è perso la vecchia sessualità. La prima tappa è quella

56

dell'accettazione della perdita, della ferita, della limitazione. E questo aspetto riguarda

principalmente chi ha subito il danno, però il partner può aiutarlo sensibilmente a superare

questo impasse. Il compagno non deve essere troppo preso da questo malessere e

tantomeno essere troppo ottimista, deve acquisire quella capacità di essere nello stato

emotivo intermedio.

Il lavoro più ampio avviene sulla coppia. Occorre conoscere la loro sessualità precedente,

e vedere cosa è possibile salvare, appurare cosa è stato danneggiato e quello che si può

mantenere. E poi superare il concetto di trasformazione corporea a seguito di

un’operazione ai genitali.

Il messaggio da elaborare è questo: il corpo non è solo visivo, ma è fatto di sensi, di

pensieri, di emozioni. Se si ha vergogna del proprio corpo si può anche fare l'amore al

buio, ma piano piano occorrerà accettare il proprio fisico e soprattutto apprendere questo

nuovo concetto di sessualità positiva. La coppia che ha subito una prova così tremenda ha

voglia di uscire dal dolore, di recuperare la vita, di ritornare alla quotidianità, in modo da

sentirsi viva. E' necessario quindi che affronti anche il discorso sessuale, che riveste un

ruolo di primaria importanza. Non dimentichiamo che il sesso combatte il tema della

morte, del lutto, della depressione, reca sempre con sé un elemento di energia.

La terapia sessuale è piuttosto breve, perché si pone sempre un obiettivo e lo

psicoterapeuta discute con la coppia il modo di poterlo raggiungere. Di solito sono

sufficienti 15-20 sedute, ma tutto dipende dalla capacità reattiva della persone. Se la coppia

reagisce bene possono essere sufficienti anche dieci sedute.

L’intervento terapeutico prevede, oltre alla tecniche proprie di ogni modello da usare a

seconda della condizione psicopatologica attivata dal tumore, la “dereflessione” che può

aiutare il paziente almeno nella fase acuta, eliminando l’ansia da prestazione.

Il successivo passaggio prevede il coinvolgimento nella terapia del partner. Il principale

obiettivo è quello di ridurre l’egocentrismo e l’iperiflessione, rafforzando la capacità di

autogestione e autoriferimento.

La tabella 1 mostra il contenuto potenziale degli interventi che hanno come obiettivo il

trattamento dei problemi relativi all’immagine di sé e alla sessualità.

57

Tabella 1 – Interventi psicologici per i disturbi relativi all’immagine di sé e alla sessualità

- trattare l’ansia e l’eventuale depressione latente;

- informare il/la paziente di certi miti o paure (contagio, disseminazione…);

- consigliare il/la paziente e, se necessario, il suo partner;

- discutere delle considerazioni pratiche che possono compensare o

nascondere i problemi;

- iniziare una terapia sessuologia, se necessario;

- desensibilizzazione delle fobie e delle paure causate dal vedere o toccare i

cambiamenti intervenuti nel corpo.

Da quanto detto sinora risulta evidente una significativa correlazione tra la disfunzione

erettile e la qualità di vita; la disfunzione erettile ha infatti un effetto negativo sulla qualità

di vita dei pazienti e può essere associata a depressione, perdita di autostima, immagine

negativa di sè paura e stress mentale. Tutti questi elementi hanno una ricaduta negativa sui

rapporti con la partner, con la famiglia e con gli amici. La disfunzione erettile può spingere

il paziente ad evitare i rapporti sessuali, e persino i semplici rapporti sociali; ne deriva

quindi un declino del benessere generale.

Obiettivo dell’intervento terapeutico è quello di aiutare il paziente a individuare qualche

aspetto di sé positivo interno alla stessa sofferenza, cioè spostare l’ottica da che cosa si è

perduto a che cosa è rimasto intatto. Il paziente con tumore all’apparato urogenitale, se

guarda solo a ciò che ha perduto, sentirà minacciato il nucleo profondo della sua identità di

genere, confronterà costantemente la sua situazione attuale con quella di una persona sana,

sentirà che qualsiasi sforzo di recupero è inutile e potrà lasciarsi andare a sentimenti di

autosvalutazione, di autodenigrazione davvero difficili da gestire.

L’esasperazione di un unico ruolo (marito, moglie, padre, madre) o di un unico valore

personale non permette di far uso per sé delle altre potenzialità spesso disponibili, ma

latenti. Se il paziente trova il coraggio a fare riferimento a quello che rimane, può riuscire

ad essere più sereno e rendersi disponibile per una psicoterapia che lo aiuti a ridefinire il

proprio ruolo, la propria identità di genere, la propria esistenza.

58

2.2 INFERTILITA’: VISSUTI SOGGETTIVI E QUALITA’ DI VITA

La malattia tumorale diminuisce comunque la fertilità con le sue angosce di sofferenza e

di morte, con l'impatto dei ricoveri, dei controlli e delle cure, tutte circostanze che hanno

un'influenza negativa sulla vita sentimentale, sessuale e riproduttiva del paziente. Tuttavia

la disponibilità dei metodi di conservazione degli spermatozoi, di ovuli e di embrioni, ha

reso possibile mantenere un futuro riproduttivo in pazienti in età fertile che desiderino

gravidanze.

La maggior parte delle neoplasie maligne insorge dopo la quarta decade di vita, quando

molte coppie hanno già realizzato il loro desiderio di avere un figlio. Purtroppo alcuni

tumori colpiscono in età giovanile e possono interferire con le possibilità di concepimento.

L'interferenza tra tumori e fertilità può essere diretta, come nel caso di tumori che

colpiscono le gonadi richiedendone la rimozione, oppure indiretta quando trattamenti

radianti o chemioterapici riducono la fertilità in modo transitorio, oppure distruggono il

patrimonio ovarico o del testicolo. Per assicurarsi un futuro riproduttivo occorre depositare

gli spermatozoi od ovociti, e lo dovrebbero fare tutti quei pazienti che devono sottoporsi

alla rimozione chirurgica delle gonadi, oppure che necessitano di terapia radiante dei

quadranti addominali inferiori, o che assumono farmaci gonado-tossici e che quindi siano

esposti al rischio di rimanere sterili. La conservazione degli spermatozoi in azoto liquido

comporta una procedura abbastanza semplice data la resistenza delle cellule germinali

maschili al congelamento ed è quindi sufficiente un test pre-deposito per valutare la qualità

dell'eiaculato e la percentuale di spermatozoi recuperabili dopo scongelamento. Gli

spermatozoi possono essere conservati per numerosi anni in appositi contenitori ad azoto

liquidi senza apprezzabile perdita di capacità fecondante. Quando i pazienti desiderano

avere un figlio si scongelano e si trasferiscono mediante un sottile catetere nella cavità

uterina della compagna in fase ovulatoria. Per cercare di ovviare a questo problema di

infertilità si interviene, allora, con delle elettrostimolazioni, oppure con un'alcalizzazione

delle urine, in pratica si recuperano gli spermatozoi separandoli dalle urine. Ma nel

paziente giovane che deve affrontare un intervento di questo tipo si preferisce procedere

con la raccolta del liquido seminale, prima dell'operazione. Un'altra metodica è la Mesa

(Micral Epididial Surgery aspiration) dove si recuperano gli spermatozoi dall'epididimo

(zona dei testicoli un cui maturano e vengono conservati gli spermatozoi) per poi

impiantarli nell'utero. Con questa tecnica di prelievo si è ottenuta un elevata percentuale di

59

gravidanza, più del 40% per ogni ciclo di cura. Questi risultati dimostrano che sono state

superate nuove frontiere nella cura dell'infertilità maschile.

Lasciarsi alle spalle la malattia e ricominciare a vivere, lottare contro il tumore, le fasi

invalidanti e cercare con tutti i mezzi di guarire. Questo è quello che dovrebbe fare una

persona che ha avuto un tumore, compito ancora più difficile soprattutto se la malattia ha

colpito gli organi genitali, ha minato in un certo modo l'identità sessuale, vuoi per il tipo di

intervento, vuoi per le terapie alle quali ci si è sottoposti, provocando così un'infertilità, se

non addirittura un'impotenza.

Mentre gli studi riguardanti i fattori psicologici nell’eziologia dell’infertilità sono

discordanti e richiedono approfondimenti futuri, pochi dubbi ci sono invece sugli effetti,

sulle conseguenze psicologiche dell’infertilità, in termini di ansia, stress psicosociale,

frustrazione, disadattamento coniugale, ecc.

Menning (1975) descrive una serie di reazioni che vanno dalla sorpresa e shock iniziali, al

rifiuto, alla collera, all’angoscia, ai successivi sensi di colpa, di dolore e di perdita.

L’infertilità può essere vissuta come un trauma narcisistico, il superamento del quale

dipende non solo dalle possibilità concrete di risoluzione del problema, ma anche dalla

struttura caratteriale dell’individuo e dall’equilibrio che la coppia riesce a mantenere o

ristabilire.

Il compito intrapsichico include l’accettazione del problema, il far fronte alle pressioni

sociali, il lavoro di lutto rispetto alla perdita dell’ideale del sé e della propria immagine

corporea, il riflettere sull’importanza della genitorialità e sulla propria motivazione ad

avere un figlio.

A livello di coppia la “crisi di infertilità” può inficiare le sfere della comunicazione,

dell’attività sessuale e dei progetti futuri e dare luogo a una condizione di conflitto e di

isolamento sociale.

Qualunque fosse la condizione emotiva e relazionale prima dell’emergere di un problema

infertilità, il suo insorgere può esacerbare o attivare ex-novo conflitti individuali e di

coppia.

Accettare la sterilità permanente diventa molto difficile, anche per chi ha già avuto figli.

Sapere che non esiste più la possibilità di averne viene vissuto come una coercizione, un

60

obbligo. Ma ancora più grave è quando coinvolge la coppia che pensava di avere figli e

invece non può averne. In questo caso le reazioni sono piuttosto pesanti. L'uomo vive la

sua sterilità associandola erroneamente all'impotenza, è purtroppo un luogo comune non

dividere questi due concetti, ma legarli assieme. Occorre quindi lavorare sulle capacità

residue (il sesso è legato alla testa) e trasformale in grandi risorse. Inoltre valutare con

coscienza quanto effettivamente si vuole un figlio: per sé oppure perché lo stereotipo

collettivo lo impone? Lo si fa per i nonni, i parenti, la gente? E' importante avere il

coraggio di ammettere che non si desiderano dei figli, magari perché si è scelto altri

percorsi di vita. Nel caso estremo se si vuole proprio realizzare il desiderio di maternità e

paternità, rimane sempre l'adozione.

2.3 INCONTINENZA: IL VISSUTO SOGGETTIVO E LA QUALITÀ DELLA VITA

L’incontinenza descrive l’incapacità totale o parziale, della vescica o del retto di

controllare l’espulsione dell’urina o delle feci (a seconda che si tratti di incontinenza

urinaria o fecale). Da bambini siamo tutti incontinenti: la continenza è una funzione che si

acquisisce successivamente e che riveste una fondamentale importanza nel processo di

socializzazione dell’individuo, al di là della sua valenza igienica.

L’incapacità più o meno grave di urinare a tempo e luogo può avere un impatto devastante

sulla qualità di vita, sia per quanto riguarda il vissuto soggettivo sia i rapporti

interpersonali. Basti pensare ai campi dell’esistenza che possono essere compromessi da

questo disturbo: sociale, psicologico, professionale, familiare, fisico, sessuale... I relativi

costi economici, ma soprattutto umani, sono assai difficilmente quantificabili ma senza

dubbio molto elevati, dato che alcune varietà di incontinenza urinaria (per esempio quella

dovuta a vescica iperattiva) possono insorgere in persone relativamente giovani e quindi

ancora pienamente inserite nell’attività produttiva. In ogni caso, oggi il criterio anagrafico

ha valore relativo, specie in una realtà come quella italiana, che si colloca al secondo posto

nel mondo (dietro il Giappone e a pari merito con i Paesi scandinavi) per speranza di vita

alla nascita (oltre 74 anni gli uomini e più di 81 le donne), ma è saldamente al primo per

indice di invecchiamento (rapporto fra residenti over 65 e under 15). In questa realtà,

l’utilità socio-economica di un anziano capace di dare ancora alla famiglia e alla società il

suo contributo produttivo è intuitiva.

61

Sul piano sociale, per esempio, il mancato controllo vescicale si traduce nella riduzione

delle interazioni sociali, cui si accompagnano la modificazione degli spostamenti abituali e

- spesso - l’abbandono di alcuni hobbies.

Sul piano psicologico compaiono spesso depressione reattiva e/o perdita dell’autostima,

cui si accompagnano frequentemente apatia, senso di colpa e negazione; sempre sul terreno

psicologico, la sensazione di mancato controllo sulla funzionalità vescicale si espande

talvolta fino alla sensazione di essere un peso e di emettere odore di urina.

Sul piano professionale, l’incontinente di sesso maschile diventa spesso (e suo malgrado)

un assenteista e può andare incontro a conseguente perdita del lavoro, mentre nella donna

si manifesta con relativa frequenza trascuratezza dei doveri domestici, cui possono far

seguito problemi coniugali e/o familiari.

In ambito familiare possono rappresentare un problema anche le necessità di usare

particolari tipi di lenzuola e/o di biancheria intima e di adottare speciali precauzioni nel

vestire.

Non meno importante, per chi è ancora in buona forma fisica, è la limitazione o cessazione

dell’attività sportiva, mentre per coloro che sono già in condizioni precarie o più avanti

negli anni la perdita del controllo vescicale può essere il fattore che decide per

l’istituzionalizzazione.

Per concludere, essendo purtroppo molto comune nell’incontinente la perdita di urina al

momento dell’orgasmo, tutt’altro che rari sono anche i disturbi della sfera sessuale:

disfunzione erettile nell’uomo e secchezza vaginale nella donna, tali entrambe da rendere

difficili o impossibili i rapporti sessuali.

L’incontinenza urinaria è un fenomeno molto diffuso, anche se è difficile valutare con

precisione assoluta qual’è la dimensione del problema e il numero di soggetti

effettivamente interessati. In Italia, si ritiene che il problema riguardi oltre 3 milioni di

persone.

L’incontinenza urinaria incide pesantemente sulla qualità della vita penalizzando le

relazioni nel contesto familiare,e socio-lavorativo e per gli spostamenti nel Territorio, a

causa della grave carenza di bagni pubblici.

62

L’incontinenza determina spesso un sentimento di inferiorità legato alla consapevolezza

della perdita, sia pure parziale, della propria autosufficienza, e si trasforma in uno stato

fisico inconfessabile tanto che, chi ne è affetto, tende all’isolamento, limitando i rapporti

familiari e sociali.

E’necessario, quindi, aumentare la conoscenza di questa patologia, definire linee guida per

la prevenzione precoce dei fattori di rischio, la diagnosi, la terapia appropriata, e

promuovere campagne di informazione per i cittadini.

Il confezionamento di una stomia modifica l’immagine corporea del paziente, il suo

equilibrio psicologico (presenza visibile della malattia, perdita del controllo sfinterico,

riduzione dell’autostima, difficoltà nelle relazioni interpersonali), la sua sessualità

(disfunzione erettile chirurgica e psicologica, modifiche nel ruolo di partner).

Anche il partner del paziente stomizzato vive in prima persona la stomia e i suoi problemi

di impatto corporeo.

I principali ostacoli che si frappongono nella coppia possono riconoscersi in alterazioni

nell’erotismo, modifiche nei ruoli sessuali e di coppia e un altro importante fattore che

interviene nella relazione, la gestione fisica della stomia.

I principali presupposti per una buona riabilitazione devono tenere conto di differenti

variabili: l’ambiente del paziente è molto importante (famiglia, amici, lavoro, cultura) per

il risultato della riabilitazione.

Restituire la soddisfazione sessuale conduce il paziente ad una normalità e una identità

recuperata (fisica, psicologica e nel ruolo di partner sessuale), una buona relazione sessuale

è, insieme alle altre terapie mediche, capace di costruire un positivo feedback per la salute

psicologica e fisica.

Il modo di affrontare la malattia da parte del paziente è centrato sul significato che egli

attribuisce ad un evento così traumatico come il tumore e la sua modalità di far fronte agli

eventi stressanti della vita viene rimessa in gioco in un momento così delicato. Il

significato attribuito alla malattia e la modalità individuale di reagirvi sono fattori

determinanti nell’influenzare la reazione psicologica e la qualità della vita dopo la

63

diagnosi, oltre all’aderenza del paziente ai trattamenti antitumorali.

Una diagnosi di tumore, con le conseguenze che comporta, rompe il delicato equilibrio

della vita sessuale, è normale che il desiderio si attenui o si spenga, l’attenzione e il

coinvolgimento sono diretti altrove.

Le ragioni non sono solo psicologiche ma anche fisiche. Per molti pazienti l’intervento

chirurgico, gli effetti collaterali di alcuni trattamenti, eventuali cambiamenti di peso o di

immagine fisica, come nel confezionamento di una stomia, possono causare, non solo

disagio al solo pensiero di essere coinvolti in un rapporto sessuale, ma anche cambiamenti

nella risposta sessuale sia fisica che psicologica, sia nell’uomo che nella donna.

Le tecniche chirurgiche nerve-sparing, che rispettano le strutture nervose, permettono di

ridurre in modo considerevole le complicanze uro-genitali preservando le funzioni di

questi organi.

Attualmente, per i pazienti sottoposti a chirurgia nerve-sparing dei tumori del retto, la

perdita dell’eiaculazione e i problemi di erezione sono ridotte rispetto al passato.

E’ importante per la coppia comprendere che il tumore colpisce l’intero senso di sé e che

il senso di sé integro è essenziale per l’intesa sessuale. Ci sono casi in cui, superata la crisi,

si ristabilisce l’intesa di coppia e diviene anche più intensa. Anche il manifestare i propri

sentimenti o il bisogno di rassicurazione, di aiuto, di vicinanza fisica può alleviare la

sensazione di sconforto e di inadeguatezza e permette di evitare atteggiamenti difensivi di

chiusura che rendono maggiore la sofferenza interiore.

Una malattia che può mettere a rischio la vita amplifica nel paziente il bisogno di rapporti

autentici con gli altri. Il timore che una persona possa disperarsi e il fatto di sentirsi

impreparati a farsi carico di questi sentimenti sono alcuni dei motivi che fanno sentire in

difficoltà gli operatori sanitari che devono confrontarsi con le difficoltà e le angosce

relative alla propria vulnerabilità.

Il ruolo dei medici e degli infermieri è considerato importantissimo nel fornire un supporto

psicologico al paziente. A volte semplici interventi di chiarimento e di rassicurazione sugli

aspetti relativi all’intervento chirurgico possono ridurre la comparsa di sintomi di

sofferenza psicologica, strategie di organizzazione di percorsi per il paziente dopo

64

l’intervento e comunicazioni efficaci circa indicazioni su dove e a chi rivolgersi possono

evitare al malato un senso di abbandono.

Di fronte a situazioni complesse caratterizzate da quadri depressivi, problemi relazionali e

sessuali radicati, ansia intensa e angoscia, gli interventi di counseling devono essere

integrati da percorsi psicoterapeutici e psicofarmacologici effettuati da specialisti.

Il paziente, in questi casi, va aiutato a trovare la motivazione a intraprendere un trattamento

specialistico, aiuto che può essere attivato e favorito dalle figure dei chirurghi specialisti e

del medico curante e anche dall’infermiere di fiducia che lo ha seguito per la gestione della

stomia dopo l’intervento.

2.4 GLI INTERVENTI PSICOLOGICI

Le numerose conseguenze psicologiche e sociali delle neoplasie hanno reso necessario lo

sviluppo dei trattamenti psicosociali già esistenti e il loro adattamento all’oncologia, per

risolvere le crisi, i problemi e le complicazioni che sopraggiungono nel corso della malattia

tumorale. Le psicoterapie (individuali, di gruppo o famigliari) sono trattamenti che,

insieme alle terapie mediche convenzionali, cercano di dare ai malati e ai loro famigliari

una migliore qualità di vita.

Le malattie tumorali differiscono nei sintomi, nei trattamenti e nella loro evoluzione;

queste differenze comportano l’uso di modalità e contenuti diversi negli interventi

proposti. La soluzione migliore è un tipo di approccio specifico in ciascuna fase della

malattia. Il tutto si complica ancora a causa dei diversi modi di adattamento dei malati e

dei diversi bisogni che essi esprimono.

I due concetti che ispirano l’evolversi degli interventi psicoterapeutici in oncologia

riguardano, dunque, da una parte l’adattamento allo stress della malattia e dei trattamenti,

dall’altra il mantenimento o il recupero della qualità di vita precedente alla malattia.

Gli interventi psicologici più frequenti in oncologia sono l’informazione e l’educazione del

paziente e della sua famiglia, il sostegno e il counseling.

Le psicoterapie si propongono di agire a livello cognitivo emozionale e comportamentale

con tecniche diverse, più o meno direttive. L’integrazione di varie tecniche

psicoterapeutiche è usata spesso nella psicologia della salute in genere, e in oncologia in

particolare.

65

In questo lavoro verranno approfonditi gli interventi rivolti all’individuo, al gruppo e alla

famiglia, secondo un approccio cognitivo-comportamentale.

Psicoterapia individuale

Gli approcci cognitivi

Questi approcci comprendono interventi che vano dall’informazione all’educazione, dal

counseling alla psicoterapia cognitiva propriamente detta.

L’informazione è senza dubbio il tipo di intervento più frequentemente utilizzato dal

personale curante. La sua funzione essenziale è quella di diminuire l’incertezza e

permettere al paziente di gestire al meglio le implicazioni somatiche, emotive, famigliari,

sociali e professionali della malattia e dei trattamenti. Una delle difficoltà relative

all’informazione riguarda i pazienti che usano meccanismi di esitamento, di rifiuto e di

repressione delle emozioni.

L’educazione è il momento che spesso segue l’informazione del malato. Essa comporta un

chiarimento sulle procedure diagnostiche e terapeutiche, i loro effetti collaterali e la

possibilità di controllarli. Implica anche un rinforzo delle informazioni date dalle quipe

curanti, un’identificazione delle risorse psicosociali del paziente e una spiegazione delle

reazioni emotive abitualmente associate alla situazione.

Il counseling è un tipo particolare di psicoterapia basato sull’ascolto; aiuta il paziente ad

esprimere e comprendere le sue reazioni e le sue difficoltà di fronte alla malattia o di fronte

a un problema della vita quotidiana, e lo incoraggia ad agire per risolvere il problema in

questione.

L’utilizzo della psicoterapia cognitiva sembra particolarmente adatto in ambito oncologico

per i suoi interventi di breve durata e per la sua focalizzazione su sintomi specifici. Essa si

basa sull’ipotesi teorica secondo cui alcuni sintomi, o le loro conseguenze, sono in stretta

relazione con le rappresentazioni mentali e gli schemi del pensiero. Questi possono

generare o alimentare angoscia psicologica o stati psicopatologici.

La terapia consiste, quindi, nell’insegnare al paziente ad identificare le proprie

rappresentazioni mentali e a controllare i propri pensieri automatici negativi, nel fargli

comprendere l’impatto dei suoi sintomi o di alcune conseguenze sul loro sviluppo, e

nell’aiutarlo a modificare i suoi schemi di pensiero attraverso nuove strategie di

adattamento. La psicoterapia cognitiva può essere utile nei casi di angoscia psicologica

66

causata da situazioni particolarmente stressanti, come dolori che non si possono alleviare

con i farmaci o con altre tecniche.

Spesso sono necessari degli interventi psicologici perché i malati e i loro famigliari vivono

una quotidianità dominata dall’incertezza. La tabella 2 mostra in dettaglio il contenuto

potenziale degli interventi che hanno lo scopo di facilitare la gestione dell’incertezza.

Tabella 2– Interventi psicologici: il caso specifico dell’incertezza

Lavoro di chiarificazione dell’incertezza

- chiarire il tipo di incertezza (fonte, intensità) e le sue conseguenze (paura, ansia…)

- verificare l’esistenza in passato di sentimenti dello stesso tipo

- precisare il modo in cui in passato questi sentimenti sono stati gestiti e risolti

Lavoro di chiarificazione dell’anticipazione

- chiarire ciò che è anticipato

- chiarire ciò che è anticipato per far fronte al rischio immaginato

Lavoro di modificazione degli obiettivi

- chiarire i vecchi obiettivi

- chiarire ciò che è realmente anticipabile

- elaborare obiettivi in rapporto alla realtà

Lavoro di ri-orientamento sul presente

- riconoscere i settori su cui si è investito

- ampliare ad altri settori che potrebbero essere investiti

Lavoro di sviluppo dell’evitamento di emozioni e pensieri legati all’incertezza

- chiarire i pensieri e le emozioni da evitare

- insegnare alcuni metodi ( distrazione, rilassamento)

Lavoro sulle credenze e sulle attribuzioni legate all’incertezza

67

- chiarire attribuzioni e credenze

- chiarire il significato attribuito alla malattia

- chiarire gli atteggiamenti relativi alla vita e alla morte

- indagare sulla loro efficacia per ridurre l’incertezza

- suggerire nuove attribuzioni

- suggerire convincimenti realistici (riguardanti l’influenza dei trattamenti)

Gli approcci comportamentali

Gli approcci comportamentali si concentrano essenzialmente sui sintomi dei malati e

partono dal presupposto che alcuni sintomi o comportamenti possono derivare da risposte

inadeguate e da condizionamenti operanti. Gradualmente sono state elaborate anche delle

tecniche comportamentali in un’ottica coadiuvante ai trattamenti oncologici, finalizzate

principalmente a migliorare la qualità della vita delle persone che vivono lo stress del

cancro.

Il rilassamento costituisce uno degli interventi più utilizzati nei programmi di trattamento

psicologico in oncologia. M. Sapir (1974) definisce rilassamento ogni tecnica che agisce

sul tono muscolare, finalizzata alla sua distensione, e capace di agire anche sulla

personalità nel suo complesso. Sul piano fisico, il rilassamento permette di prendere

consapevolezza del corpo, di tornare ad uno stato di benessere e sensazioni gradevoli, e di

controllare le tensioni imparando l’autodistensione. Sul piano psicologico, la distensione

mentale favorisce il miglioramento dell’attenzione e della concentrazione, la presa di

coscienza e il controllo dei pensieri, delle emozioni e dei sentimenti, e la presa di distanza

dagli avvenimenti vissuti.

Bisogna distinguere due tipologie di tecniche di rilassamento:

� I metodi neuromuscolari, introdotti da Jacobson (1974)

� I metodi che utilizzano l’autoconcentrazione e l’autoipnosi, introdotti da Schultz

(1959)

Altre tecniche di rilassamento utilizzate per controllare i sintomi da stress sono:

� L’imagerie mentale

Si basa sul suggerimento di immagini a pazienti in stato di rilassamento. La

visualizzazione ha come obiettivo quello di approfondire il rilassamento inducendo una

68

percezione gradevole, di permettere un ritorno alle esperienze passate o un’anticipazione

del futuro, di stimolare l’immaginazione e l’acquisizione di nuovi meccanismi di

adattamento.

� Il bio-feedback

È una tecnica che offre al soggetto la possibilità di controllare e percepire meglio alcuni

suoi parametri fisiologici relativi allo stress (ritmo cardiaco, conduttività

elettrodermica,ecc.).

� La desensibilizzazione sistematica

È una tecnica basata sul metodo del rilassamento muscolare progressivo di Jacobson;

permette al paziente di sperimentare uno stato di rilassamento mentre immagina situazioni

associate agli effetti anticipatori indesiderati

� La distrazione

Psicoterapia di gruppo

La tecnica del gruppo permette di evitare il ripiegamento su se stessi dei malati e dei loro

famigliari attraverso lo sviluppo della comunicazione e la condivisione delle esperienze,

riducendo così la sensazione di isolamento sociale associata al cancro. Il gruppo potrebbe

diminuire l’impressione di abbandono, rendere possibile l’espressione delle emozioni e

permettere di relativizzare i sentimenti di vergogna.

Il senso di appartenenza ad un gruppo può dare ai partecipanti una nuova identità e

permette la loro “rivitalizzazione” tramite gli scambi emozionali che avvengono durante le

sedute. Le tecniche di gruppo favoriscono, per mezzo dell’osservazione e dell’ascolto

reciproco, l’apprendimento di nuove strategie di adattamento.

Gli interveti psicologici di gruppo hanno anche altri obiettivi, ripresi nella tabella 3.

69

Tabella 3 – Interventi psicologici di gruppo: gli obiettivi specifici

- favorire la creazione di legami

- favorire l’espressione delle emozioni

- intensificare il sostegno

- desensibilizzare (paure)

- aiutare ad utilizzare il tempo in modo ottimale

- aiutare ad utilizzare le risorse famigliari

- aiutare ad utilizzare le risorse mediche

Le psicoterapie di gruppo sono abitualmente riservate ai pazienti e alle loro famigli. I

gruppi sono raccomandati in particolare a quei pazienti che si trovano in uno stadio

precoce della malattia e a quelli guariti dal cancro.

Le psicoterapie di gruppo costituiscono un insieme molto variegato di interventi

psicologici che si differenziano nei contenuti, negli obiettivi, nelle modalità organizzative.

I gruppi organizzati dagli specialisti sanitari sono speso proposti per promuovere il

sostegno emotivo, l’informazione e l’educazione dei pazienti e delle loro famiglie. Questi

gruppi mettono principalmente l’accento sui bisogni emotivi dei partecipanti.

L’approccio cognitivo ha come obiettivo quello di aiutare i partecipanti al gruppo agendo

sulle loro rappresentazioni della realtà della malattia neiplastica, dei trattamenti e delle loro

implicazioni psicosociali.

Esso comprende interventi come l’informazione, l’educazione e la terapia cognitiva. La

sua utilizzazione deve essere riservata agli specialisti competenti, in grado di dare risposte

sfumate a pazienti che sono spesso di fronte al rischio di morte e si sforzano di affrontare

le incertezze.

70

Le psicoterapie famigliari

Le psicoterapie famigliari sono indirizzate ai pazienti e a coloro che hanno con essi

rapporti di parentela. Sono state descritte sei forme di terapie famigliari:

� strutturale, con lo scopo di riorganizzare la struttura famigliare;

� strategica, con lo scopo di risolvere i problemi tramite l’interruzione di “circoli

viziosi” che possono mantenere e consolidare un comportamento sintomatico;

� esistenziale, basata sullo sviluppo individuale e famigliare attraverso un’esperienza

condivisa;

� comunicativa, con lo scopo di favorire una comunicazione chiara e diretta;

� “boweniana”, basata sulla maturazione emotiva dell’individuo attraverso il sistema

famigliare;

� psicodinamica, con lo scopo di risolvere attivamente antichi conflitti famigliari.

I problemi famigliari che sopraggiungono nel decorso delle malattie croniche sono

principalmente dovuti a strutture disfunzionali che si sviluppano quando la famiglia tenta

di affrontare la malattia di uno dei membri.

Nel caso specifico dell’oncologia, la terapia famigliare deve includere, oltre alle forme

sopra elencate, un modello d’intervento di crisi, completato dalla trasmissione di

informazioni e di istruzioni.

Mettere l’accento sul conforto della famiglia dei malati comporta varie conseguenze. La

prima, indiretta, è che il paziente ne beneficia immediatamente grazie al miglioramento

quantitativo e qualitativo, del sostegno che la famiglia può offrirgli; la seconda

conseguenza, questa volta più diretta, è il beneficio che può trarre ciascun membro della

famiglia dalla ripartizione del carico emotivo nel corso dei trattamenti, e molto di più nella

fase di riabilitazione o del lutto. Gli interventi psicologici famigliari hanno anche obiettivi

specifici, riportati nella tabella 4.

Tabella 4 – Interventi psicologici sulla famiglia: gli obiettivi specifici

- aiutare le famiglie a non ripiegarsi su se stesse

- aiutare le famiglie a creare nuove relazioni

- favorire la comunicazione paziente/ambiente famigliare

- favorire la comunicazione tra i membri della famiglia del malato

71

Di solito le famiglie provano una sensazione di abbandono e di impotenza di fronte alla

perdita di ogni capacità di controllo di tutta o di parte della malattia e dei sintomi che

colpiscono il loro famigliare ammalato. Spesso un sostegno valido, completo di

informazioni, o perfino di un’educazione a determinate cure o tecniche, favorisce la loro

partecipazione attiva alla situazione e combatte il loro senso di isolamento di fronte ad una

medicina sempre più tecnologica. La partecipazione della famiglia giova al malato, il quale

si sentirà meglio sostenuto dalla percezione che, attraverso il coinvolgimento dei famigliari

ai trattamenti, può ancora partecipare al processo decisionale e alla vita della famiglia

72

CAPITOLO 3

I BISOGNI DEL PAZIENTE OSPEDALIZZATO

Introduzione

Nella prima parte di questo capitolo verrà presentata una parte del lavoro svolta durante il

periodo di tirocinio presso il reparto di Urologia dell’Ospedale di Rivoli.

Partendo da un’analisi delle problematiche relative alla patologia uro-oncologica in sé e

alle problematiche relative all’ospedalizzazione, è stata proposta ai pazienti la

compilazione di un questionario auto-somministrato, il NEQ (Needs Evaluation

Questionnaire, Tamburini, 2000) composto da 25 item, a risposta dicotomica (Si/No),

relativi a bisogni specifici del paziente oncologico ospedalizzato. Il questionario indaga le

seguenti aree: Informazione, Comunicazione, Assistenza, Cura e Relazione.

L’interesse per i bisogni dei pazienti e il significato attribuito loro da questi ultimi, è

indirizzato alla realizzazione di interventi che soddisfino le necessità dei pazienti, per

favorire un miglioramento della qualità di vita non solo durante il delicato periodo del

ricovero ma anche nella successiva fase di dimissioni.

Il questionario viene lasciato nella cartella clinica in modo che il personale sanitario possa

prenderne visione e rispondere, in base alle proprie competenze, alle esigenze del paziente.

Nella seconda parte verrà approfondito il tema della comunicazione tra medico e paziente.

Pare infatti, dai risultati del questionario, che la maggior parte dei bisogni riguardi la

richiesta di maggiori informazioni sia sulla diagnosi che sui trattamenti.

3.1 I VISSUTI SOGGETTIVI DEI PAZIENTI OSPEDALIZZATI

Nonostante il ricovero in ospedale abbia come obiettivo la cura e possibilmente la

guarigione del paziente, tale evento porta con sé lo stress di un grande cambiamento. Il

paziente, già menomato dalla malattia, si trova a dover fronteggiare diversi aspetti della

sua nuova condizione: l’ospedale come ambiente fisico e sociale; il rapporto con il

73

personale ospedaliero; le paure e il conseguente bisogno di rassicurazioni ed infine, in

alcuni casi, i problemi psicologici legati alle malattie progressive e terminali. Esistono,

dunque, una serie di fattori oggettivi che ogni ospedalizzato deve fronteggiare ed esistono

una serie di fattori personali –psicologici e sociali- che vanno ad interagire coi primi dando

luogo a reazioni differenti.

Il paziente internistico

L’ambiente fisico dell’ospedale provoca ansia ed irritazione, senso di minaccia,

frustrazione e depressione per una serie di fattori: lontananza dalla famiglia, abbandono

delle vecchie abitudini, organizzazione e orari dell’ospedale, rumori, limitazioni dello

spazio personale ed infine perdita della propria intimità. Dal momento in cui entra in

ospedale, e in particolare nella sua camera, il paziente, mentre è già preoccupato per la sua

malattia e quindi pieno di ansie, è obbligato a sperimentare una serie di situazioni nuove:

deve indossare un camice rinunciando a simboli di identità personale come i vestiti, fare

conoscenza con gli altri degenti della camera, entrando a far parte di un ordine sociale

nuovo e a lui sconosciuto, relazionarsi al personale medico e infermieristico, sottoporsi ad

esami, deve essere infine collaborativo e passivamente disponile a tutti gli interventi

invasivi e alle volte anche dolorosi che verranno decisi per lui. Ne consegue un impatto

psicologico, che si può manifestare con reazioni difensive come ansia, aggressività,

regressione, depressione, isolamento, che fanno parte di un processo (che se non sostenuto

può rimanere un tentativo fallito) di adattamento alla nuova realtà.

L’ansia è un vissuto molto comune, anche perché può essere manifestata in relazione a tutti

gli aspetti e le fasi dell’ospedalizzazione. Si esprime attraverso alterazioni fisiologiche

come quella del sonno, elevati livelli di eccitabilità ed irritabilità. E’ necessario abbracciare

queste reazioni procurando rassicurazione, mentre ansiolitici e ipnotici non comprendono il

bisogno sottostante e quindi non risolvono il problema.

L’aggressività può essere una reazione al vissuto di ansia, alla paura di diagnosi e terapie e

più in generale alla percezione che i propri bisogni e necessità non vengano capiti e

soddisfatti.

Per regressione s’intende il ritorno ad uno stadio di sviluppo precedente, con l’attuazione

74

di comportamenti tipici di tale stadio. La persona diventa passiva e dipendente dalle cure

degli altri e tale situazione è funzionale al processo di guarigione, perché comporta un

risparmio di energie, sempre a condizione che non si prolunghi troppo a lungo.

La depressione è una reazione normale alla perdita dell’ immagine positiva,

invulnerabilmente sana e indipendente di sé. E’ adeguato favorirne il superamento

attraverso un atteggiamento di comprensione e condivisione.

L’isolamento si realizza attraverso comportamenti o parole che rendono difficoltosa la

relazione terapeutica. In nessuno di questi casi è adeguato opporsi in modo diretto, sembra

invece che l’instaurare una relazione di fiducia e condivisione con il paziente favorisca il

processo di adattamento.

Da queste considerazioni risulta necessario un cambiamento di approccio al malato. Spesso

infatti il personale ospedaliero si relaziona alla patologia, anziché alla persona,

dimenticando e soprattutto sottovalutando il fatto che un successo terapeutico dipende

anche dalle risorse e dal vissuto del soggetto. La proposta è un cambiamento da una

visione tradizionalmente medica del concetto di malattia e di cura focalizzato sulla

patologia ad un approccio orientato alla salute e alla persona, con la presa di

consapevolezza dei bisogni non solo fisici, ma anche psicologici e sociali, caratteristici di

ogni singolo individuo.

Viene da chiedersi quali sono tali bisogni, così come percepiti dai ricoverati stessi.

Secondo uno studio di Yen (2002), sei sono i fattori sentiti maggiormente come necessità

da soddisfare: condizione fisica, rapidità ed efficacia dell’assistenza infermieristica, la

responsabilità e l’attitudine del personale a prendersi cura di loro, l’alimentazione e le

spese mediche.

Il paziente cronico

Il paziente cronico vive la progressione della malattia. Questa affermazione così breve e

netta porta con sé una serie di implicazioni psicologiche e comportamentali di grande

portata, che vanno ad incidere sull’autostima e sull’identità personale, perché la persona si

trova obbligata ad adattare costantemente stile di vita e progettualità al proprio stato di

salute. Intenzioni ed azioni della persona sono per la maggior parte rivolte alla cura del

proprio corpo, per affrontare con sperato successo i disagi inflittigli dalla malattia. La

75

malattia cronica con il suo progredire assume dimensioni sempre più rilevanti costringendo

costantemente la persona a modificarsi, talvolta in maniera inconsapevole, sia nel rapporto

con gli altri e con se stessi, sia nell’accettazione del nuovo modo di vivere e delle

progressive perdite (salute, integrità fisica, normalità, libertà, autonomia).

Sono state individuate tre fasi specifiche attraversate dal malato cronico durante il decorso

della malattia, dal momento della diagnosi fino alla morte:

1. la fase della “crisi”: il malato durante il periodo immediatamente precedente e

successivo alla diagnosi inizia a sperimentare i sintomi della patologia;

2. la fase cronica: il malato attua continui tentativi per adattare la sua vita ai limiti e

alle menomazioni in continuo aumento;

3. la fase terminale: il malato esperisce vissuti di dolore e di morte.

Poiché la malattia cronica richiede un maggior numero di ricoveri ospedalieri rispetto alla

malattia internistica o a quella chirurgica, e analizzati i disagi psicologici e sociali che il

ricovero in tutti e tre i casi comporta, è intuitivo immaginare come l’ospedalizzazione

possa alla lunga causare un indebolimento della spinta motivazionale del paziente nei

confronti del suo iter terapeutico.

Non aiuta il fatto che da parte degli operatori sanitari non vi è un riconoscimento della

specifica problematicità psicologica affrontata da parte del malato cronico e della sua

famiglia. Spesso vengono fornite informazioni solo parziali del decorso, omettendo la

comunicazione di esami da fare o della data di dimissioni, etc. Tutto questo non fa che

aumentare l’ ansia che il paziente vive già quotidianamente e il senso di incertezza quasi

fisiologica insita nella malattia cronica.

Anche in questo caso la necessità che sembra imporsi è quella di un processo interattivo

incentrato al paziente. Una proposta viene dall’OMS (Organizzazione Mondiale della

Sanità), secondo cui bisogna avvicinarsi al paziente con un intervento di tipo educativo,

mirato ad aiutare la persona a conoscere la malattia di cui è affetta, a comprenderne la

terapia, a condividere tale comprensione anche con la famiglia, in modo da gestire le cure

in maniera consapevole, aumentare la capacità di autovalutazione, poter prevenire possibili

complicazioni derivanti da comportamenti inadeguati con il grande obiettivo finale di

migliorare la qualità della vita.

76

Ma come si realizza nella pratica l’educazione terapeutica?

Innanzitutto deputato a questo tipo di intervento non è un’unica figura professionale,

medico, infermiere o psicologo, ma un’equipe di tutti questi, per andare incontro nella

maniera più completa possibile alle richieste del paziente e per trasferire a lui tutte le

competenze necessarie per ridurre i sentimenti di frustrazione, ansia, incertezza.

Il paziente chirurgico

Le prove diagnostiche e gli interventi chirurgici, con l’incognita dei loro esiti, provocano

disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, timori sulla propria sorte. Spesso queste

risposte emotive vengono aumentate dalla mancata o scarsificata comunicazione con il

paziente da parte del personale ospedaliero. Si è osservato che pazienti correttamente

informati sul proprio stato di salute, sulle prescrizioni mediche, sulle modalità di

somministrazione dell’anestesia, sui rischi dell’intervento e sugli eventuali dolori post-

operatori, hanno una degenza inferiore in termini di tempo e di uso di analgesici.

Contrariamente a quanto ritenuto di frequente dal personale, infatti, alcune ricerche

dimostrano che in mancanza di informazioni precise sul proprio stato di salute, è facile

pensare che la propria condizione sia più grave di quanto non lo sia in realtà. In uno studio

di Leo D. Egbert, dell’Università dell’Oregon, un campione di 97 ricoverati per un

intervento di chirurgia addominale è stato suddiviso in due gruppi: uno veniva informato in

modo dettagliato sulle varie fasi dell’intervento (durata, effetti anestesici, dolori post-

operatori), l’altro non riceveva alcuna informazione. I risultati hanno dimostrato quanto il

ricevere informazioni sull’intervento migliori le strategie di coping: i pazienti del primo

gruppo, infatti, dopo l’intervento richiesero un dosaggio di antidolorifici e sedativi

inferiore del 50% rispetto a quelli del secondo gruppo, presentarono minor livello di

preoccupazione, irrequietezza e dipendenza dal personale ospedaliero e vennero dimessi in

media tre giorni prima.

Molte ricerche confermano l’importanza delle informazioni oggettive sull’andamento dei

processi organici, ma includono nella preparazione psicologica altri mezzi per ridurre

l’ansia prima e dopo l’intervento: il training autogeno, utilizzato come tecnica di

77

rilassamento, o una psicoterapia breve, per imparare a vivere in modo diverso le sensazioni

spiacevoli, ne sono due esempi.

Quindi i fattori che vanno trattati adeguatamente per favorire i presupposti di una risposta

positiva all’intervento e di una guarigione più rapida sono le informazioni oggettive fornite

al paziente e alla sua famiglia e la gestione dell’ansia e delle paure (di morire, di non

risvegliarsi dopo l’anestesia, di esito negativo, del dolore post-operatorio), più o meno forti

a seconda di alcuni fattori individuali, quali capacità cognitive, stile di coping, età, variabili

psicosociali.

Potremmo distinguere tre fasi durante la degenza di un paziente chirurgico, con relative

problematiche:

� Una fase preoperatoria, in cui il paziente, nella maggior parte dei casi, vive un

elevato livello di distress psicologico. Questo particolare tipo di “stress

negativo” caratterizzante tutti i tipi di ricovero, in questa situazione si acuisce e

l’intervento chirurgico assume un carattere di ambivalenza, in quanto oscillante

tra l’essere potenzialmente portatore di guarigione oppure di ulteriore

sofferenza. Se questa ansia non viene ridotta, si rischiano reazioni aggressive da

parte del malato, con ulteriore aumento del distress, prima, e difficoltà di

riduzione del dolore, dopo. Se l’organizzazione dell’Io dell’individuo non è

sufficiente, il vissuto di timore per un pericolo incontrollabile può causare nel

malato un grave stato di depressione, insicurezza, irrequietezza, insonnia e

incubi; in alcuni casi, a causa della situazione di forte dipendenza e passività, si

possono attivare forti modalità di regressione. In questa fase è importante per il

futuro andamento della malattia, capire e valutare se il paziente necessita di

interventi preventivi per rendere questo periodo il meno stressante possibile.

Essere fumatori o no, scolarità, sesso, presenza di dolore ed esperienze

precedenti hanno influenza sul vissuto di ansia. Più specificamente i soggetti

più colpiti sembrano essere: i fumatori, le donne, coloro che hanno un livello di

scolarità superiore, coloro che non hanno mai subito un intervento (ma anche

coloro che lo hanno già subito, ma che hanno vissuto un’esperienza negativa), e

infine gli interventi che comportano una mutilazione. Soprattutto se l’intervento

è di questo tipo, infatti, suscita fantasie connesse alla perdita di organi, che

“coinvolgono l’investimento lipidico relativo a quell’organo e a quella parte,

nonché la modificazione dell’immagine corporea” .

78

� L’anestesia, che costituisce uno degli aspetti più preoccupanti dell’intervento

per il paziente. Le paure scaturiscono dal fatto che il paziente non è cosciente,

non è sveglio, ma si deve abbandonare completamente alle mani del chirurgo e

della sua equipe. Il paziente ha paura di sentire dolore, di svegliarsi durante

l’intervento o anche di non svegliarsi mai più. E’ corretto e adeguato per ridurre

queste paure un’informazione il più possibile dettagliata.

� La fase post-operatoria è condizionata dalle informazioni fornite prima

dell’intervento. Come spiegato all’inizio, la durata della degenza e del dolore

post-operatori e l’uso di farmaci è indirettamente proporzionale alla quantità e

alla correttezza delle informazioni fornite al paziente sul suo stato di salute e

sull’intervento chirurgico.

Il paziente con prognosi infausta

Nonostante gli indiscutibili progressi che la scienza ha fatto e continua a fare in materia di

salute, sia a livello diagnostico che terapeutico, rimane il problema della morte e del

trattamento del malato terminale. Anche in questo caso, anzi, la tentazione è di dire

soprattutto in questo caso, sembra fondamentale mettere al centro degli obiettivi della

medicina non più il debellamento della malattia, ma il malato nella sua globalità .

La serie di problemi psicologici che si generano durante una degenza con prognosi infausta

sono di diversa natura: da quelli relativi alla propria identità (derivanti dalla perdita del

ruolo professionale ed economico, la perdita del ruolo nell’ambito familiare, declino delle

capacità intellettuali); alle conseguenze emotive prodotte dalla malattia e dalle terapie

(paura di morire, paura che il dolore diventi insopportabile, paura di perdere

l’autocontrollo mentale e/o fisico, paura di diventare un peso per la famiglia, paura di

morire prima di aver risolto problemi rimasti in sospeso, soprattutto relazionali).

Naturalmente c’è una fase che anticipa tutto questo e che riguarda i medici della

comunicazione di prognosi infausta o gli operatori che danno la notizia al malato.

Comunicare a qualcuno che è portatore di prognosi infausta è un compito delicato e

79

difficile, ci sono la paura di portare dolore, di sentirsi accusati perché messaggeri di una

cattiva notizia, di dirlo nel modo sbagliato perché non si ha ricevuto alcun insegnamento a

riguardo, la paura di non contenere le proprie emozioni mantenendo la calma, la personale

paura della morte. Così ancora una volta l’operatore è portato a informare in modo

insufficiente il malato circa la propria prognosi, fornendo informazioni solo parziali o

ambigue, attraverso omissioni. In questo modo l’operatore può far generare false illusioni

nel paziente, invece che speranze legate a obiettivi realistici, come l’assenza di dolore.

Esiste tuttavia il diritto di non sapere. Una volta accertata la volontà del malato di non

avere notizie sullo stato della malattia per non aumentare l’angoscia, è doveroso rispettare

le sue difese, in modo che alla persona sia data la possibilità di confrontarsi con la verità

che in quel momento della sua vita è in grado di comprendere e accettare.

Secondo Elisabeth Kubler-Ross, quasi tutti i pazienti percorrono cinque fasi di

adattamento, non necessariamente nell’ordine qui di seguito:

• la negazione o rifiuto, che è inizialmente funzionale all’elaborazione;

• la rabbia, diretta in tutte le direzioni;

• il patteggiamento, con Dio o la sorte, in cui il desiderio di vita viene limitato agli

ultimi desideri;

• la depressione, che sostituisce le prime due fasi, nel momento in cui il paziente non

può più negare l’aggravarsi della sua malattia. La depressione è reattiva, ovvero

secondaria alla situazione, e preparatoria, correlata ai vissuti anticipatori di

separazione dalla vita, dalle persone care, da luoghi e cose amate;

• Infine, se il paziente ha avuto il tempo e l’aiuto per superare queste fasi, c’è

l’accettazione. La debilitazione fisica può trasformare la stanchezza in desiderio di

riposo, non più temuto, ma quasi desiderato.

Alla luce di queste informazioni, sembra necessario per gli operatori dell’area sanitaria

poter contare su una solida competenza psicologica, per dare un contributo alla guarigione

o almeno al miglioramento della qualità della vita di chi, come il paziente ospedalizzato, si

trova in una condizione di disagio e debolezza.

80

3.2 IL NEQ

Non è facile per il malato esprimere le proprie necessità e non è facile per l’equipe curante

comprenderle appieno. Differenze personologiche, conoscitive, culturali e linguistiche

possono costituire un vero e proprio muro alla comprensione reciproca. Per poter favorire

una più chiara comprensione da parte dell’equipe delle richieste del malato oncologico

ricoverato e quindi per una presa in carico globale del paziente, che prenda in

considerazione non solo il “fisico” ma anche la “mente”, è stato predisposto un

questionario denominato NEQ (Needs Evaluation Questionnaire). Il campione a cui è stato

possibile somministrare il questionario presso il reparto di Urologia è composto da 33

pazienti con un’età compresa tra i 24 e gli 84 anni, in prevalenza di sesso maschile.

Caratteristiche del Campione

Età

anni N° pazienti

70-79 7

60-69 16

50-59 4

40-49 3

30-39 1

20-29 2

Diagnosi

N° pazienti

K prostata 16

K vescica 5

K rene 3

Coliche renali 3

Calcoli renali 3

Stenosi uretrale 1

Stenosi uretroprostatica 1

Ingrossamento prostata 1

81

Nella Tabella 5, relativa ad alcune frequenze dei bisogni nel campione totale, si evidenzia

che i pazienti chiedono di avere maggiori informazioni su prognosi, diagnosi e trattamenti.

Questo non sempre significa che l'informazione non sia stata data, ma che i pazienti si

trovano molto spesso nelle condizioni di non recepire tutto quello che viene detto loro: le

"cattive notizie" possono creare un black-out nell'ascolto rendendo difficile la

comprensione, da cui l'indicazione a dire le cose semplicemente e più volte. Ciò che i

pazienti rifiutano è la generalizzazione basata su statistiche, richiedendo informazioni il più

possibile personalizzate ai propri bisogni.La richiesta di maggiori informazioni non

significa che i pazienti richiedano anche un ruolo più attivo nelle decisioni terapeutiche;

ciò che viene richiesto è l’impatto della malattia e dei trattamenti sulla vita quotidiana, con

particolare riferimento alla vita sessuale, lavorativa, sociale.Emergono anche bisogni legati

alla relazione con il medico, come il maggior dialogo e la maggiore rassicurazione. Il NEQ

non permette di definire in modo preciso a cosa quest'ultima sia riferita, se alla guarigione

o ad aspetti più contingenti della malattia e dei trattamenti. Al di là del personale

significato attribuito al termine dal paziente e al di là delle specifiche informazioni sulle

quali egli desideri essere "rassicurato", si ritiene che essa debba basarsi su una relazione

contenitiva (umana, empatica, partecipativa).

Tabella 5 – Principali frequenze dei bisogni dei pazienti ospedalizzati

Ho bisogno di avere maggiori informazioni sulle mie condizioni

future 72,7%

Ho bisogno di avere maggiori informazioni sugli esami che mi

stanno facendo 66,7%

Ho bisogno di avere maggiori spiegazioni sui trattamenti 60,6%

Ho bisogno di maggiori informazioni sulla mia diagnosi 57,6%

Ho bisogno che medici ed infermieri mi diano informazioni più

comprensibili 54,5%

Ho bisogno di parlare con persone che hanno avuto la mia stessa

esperienza 54,5%

Ho bisogno di essere più coinvolto nelle scelte terapeutiche 48,5%

Ho bisogno che i medici siano più sinceri con me 48,5%

Ho bisogno di avere un dialogo maggiore con i medici 45,5%

Ho bisogno di essere più rassicurato dai medici 42,4%

82

Per completezza dei dati viene qui di seguito presentato il NEQ con le relative percentuali

di risposte.

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------

DURANTE IL RICOVERO

Nome e cognome

Data di nascita

Reparto

Gent.le Signora/Gent.le Signore,

il seguente questionario riporta un elenco di bisogni, legati alla

condizione di salute, che alcune persone hanno detto di avere.

Le chiediamo di mettere una croce sul SI per i bisogni che Lei ritiene di

avere in questo momento e sul NO per i bisogni che pensa di non avere.

SI NO

1. Ho bisogno di maggiori informazioni sulla mia diagnosi

57,6%

42,4%

2. Ho bisogno di avere maggiori informazioni sulle mie

condizioni future

72,7%

27,3%

3. Ho bisogno di avere maggiori informazioni sugli esami

che mi stanno facendo

66,7%

33,3%

4. Ho bisogno di avere maggiori spiegazioni sui

trattamenti

60,6%

39,4%

5. Ho bisogno di essere più coinvolto nelle scelte

terapeutiche

48,5%

51,5%

83

6. Ho bisogno che medici ed infermieri mi diano

informazioni più comprensibili

54,5%

45,5%

7. Ho bisogno che i medici siano più sinceri con me

48,5%

51,5%

8. Ho bisogno di avere un dialogo maggiore con i medici

45,5%

54,5%

9. Ho bisogno di ricevere meno informazioni sulla mia

malattia (diagnosi, trattamenti, evoluzione)

12,1%

87,9%

10. Ho bisogno di partecipare di meno alle decisioni

terapeutiche

24,2%

75,8%

11. Ho bisogno che alcuni miei disturbi (dolore, nausea,

insonnia, ecc.) siano maggiormente controllati

51,5%

48,5%

12. Ho bisogno di maggiore aiuto per mangiare,vestirmi e

andare in bagno.

15,2%

84,8%

13. Ho bisogno di maggiore rispetto della mia intimità

18,2%

81,8%

14. Ho bisogno di maggiore attenzione da parte del

personale infermieristico

24,2%

75,8%

15. Ho bisogno di essere più rassicurato dai medici

42,4%

57,6%

16. Ho bisogno che i servizi offerti dall’ospedale (bagni,

pasti, pulizia) siano migliori

18,2%

81,8%

17. Ho bisogno di avere maggiori informazioni medico

assicurative legate alla mia malattia (ticket, invalidità,

ecc.)

48,5%

51,5%

84

18. Ho bisogno di un aiuto economico

15,2%

84,8%

19. Ho bisogno di parlare con uno psicologo

27,3%

72,7%

20. Ho bisogno di parlare con un assistente spirituale

18,2%

81,8%

21. Ho bisogno di parlare con persone che hanno avuto la

mia stessa esperienza

54,5%

45,5%

22. Ho bisogno di essere maggiormente rassicurato dai

miei famigliari

30,3%

69,7%

23. Ho bisogno di sentirmi maggiormente utile in famiglia

36,4%

63,6%

24. Ho bisogno di sentirmi meno abbandonato a me

stesso

15,2%

84,8%

25. Ho bisogno di essere meno commiserato dagli altri

36,4%

63,6%

-------------------------------------------------------------------------------------------------------------

85

3.3 LA COMUNICAZIONE TRA PERSONALE SANITARIO E PAZIENTE

La comunicazione curante-paziente in oncologia è caratterizzata da diversi aspetti: implica

un’interazione sbilanciata tra due persone; è attivata non per volontà delle parti, ma per la

necessità di far fronte alla malattia e alle sue conseguenze; tratta questioni d’importanza

vitale e di conseguenza ha una forte carica emozionale; è, insieme, fonte di stress, di

frustrazione, di aggressività, di soddisfazione e di gratificazione. Infine essa alimenta e

facilita tra l’operatore sanitario e il paziente quel legame relazionale necessario a un buon

andamento della terapia.

La comunicazione tra personale curante e paziente include idealmente l’apporto di

informazioni appropriate, l’educazione alla salute e il sostegno emotivo che agevolano

l’andamento del paziente.

Una carenza in questa comunicazione è all’origine di un numero non trascurabile di

problemi, come la mancata adesione al trattamento, l’insoddisfazione rispetto alle cure, il

mancato riconoscimento dei bisogni psicosociali e la frustrazione dei curanti.

Molti autori affermano che una buona parte dei problemi e dei bisogni presentati dai

pazienti malati di cancro rimane nascosta, e quindi non affrontata; soltanto dal 15 al 25%

dei casi di angoscia emozionale viene diagnosticato e affrontato correttamente. Tale

carenza nel riconoscimento dei problemi dei malati sembra dovuta principalmente a una

conoscenza insufficiente delle problematiche psicosociali associate alle malattie tumorali, e

alla mancanza di competenze nell’ambito della comunicazione.

Sottolineare l’importanza della comunicazione tra curante e paziente presuppone il

riconoscimento del diritto e del bisogno dei malati di essere informati e di partecipare

attivamente al processo decisionale che riguarda i trattamenti prescritti.

3.3.1 Le definizioni

L’etimo latino “comunicare” nella forma transitiva del verbo significa “mettere in comune

– avere in comune con qualcuno – dare una parte di – condividere – mettere in rapporto “.

Nella sua forma intransitiva “comunicazione” indica l’azione di “essere in relazione con –

frequentare – prendere parte a”. Dal XVI secolo “comunicare” inizia a significare anche

“trasmettere”.

L’approccio della psicologia sociale, rispetto allo studio della comunicazione tra curante e

paziente, definisce la comunicazione come il fondamento dei fenomeni che reggono

86

l’elaborazione e la continuità delle relazioni sociali e i loro risultati ( atteggiamenti,

rappresentazioni, ideologie; prestazioni di gruppo, cambiamenti sociali,…). La

comunicazione, sia essa interpersonale o di massa, è dunque uno strumento destinato a

produrre un effetto. Si può definire un atto comunicativo rispondendo alle seguenti

domande: chi dice cosa, tramite quale canale, a chi, con quale effetto? La comunicazione

interpersonale può dunque essere definita come il meccanismo di mediazione tra due

individui che interagiscono.

Con il passare degli anni si sono delineati abbastanza nettamente due approcci

fondamentali della comunicazione:

� La prima prospettiva si fonda sull’individuo e sul processo intrapsichico.

Fanno parte di questo gruppo le teorie di Edward Sapir.

Quando la comunicazione è concepita come un’attività individuale, il meccanismo su cui si

basa è quello della trasformazione, grazie al linguaggio, delle idee interiori in parole

esteriori. Così, oggi, comunicare ha assunto il significato di informare e trasmettere

l’informazione.

Approssimativamente, comunicare consiste nel trasmettere le informazioni che l’emittente

– colui dal quale parte la comunicazione – ha in mente. Egli emette dei segnali. Il segnale

sarà ogni elemento portatore di informazione, a condizione che sia stato deliberatamente

prodotto dall’emittente sperando che fosse compreso in quanto tale dal ricevente. Si tratta

di un’intenzione.

� La seconda prospettiva si fonda sul gruppo e la società.

Fanno parte di questo gruppo le teorie di Bateson e dei suoi allievi del Mental

Research Institute di Palo Alto, tra cui P. Watzlawick.

Questo secondo approccio considera la comunicazione un fenomeno globale in cui ogni

scambio è inserito in una matrice molto più vasta, quella culturale. Questa matrice,

chiamata comunicazione sociale, costituisce l’insieme delle regole che rendono possibile e

mantengono nella regolarità e nella prevedibilità le interazioni e la relazioni tra i membri di

una stessa cultura.

La tabella 6 riprende gli aspetti generali della comunicazione interpersonale.

87

Tabella 6 – La comunicazione interpersonale: gli aspetti generali

Emittente Ricevente

messaggio

cultura e contesto

Variabili

� Fisiche � Attitudinali � Cognitive � Emotive

Modo

� Verbale/digitale

� Non verbale/analogico

Codice

� Linguistico � Gestuale � Interattivo � sociale

88

Questo secondo approccio permette di ricordare, nel settore particolare dell’oncologia,

l’importanza del contesto culturale della comunicazione interpersonale. Il codice è

l’insieme delle regole che rendono possibile il sistema (linguistico, gestuale, interattivo,

sociale). Il contesto può essere definito come l’insieme delle informazioni che permettono

di ridurre il numero dei significati possibili di una parola, di un atto, di un evento. La

comunicazione, processo interattivo, sarà ovviamente influenzata dalle caratteristiche degli

interlocutori: variabili psicologiche (stato emotivo, meccanismi di difesa), variabili

cognitive (funzionamento intellettivo, sistema rappresentazionale), variabili sociali (ruolo e

status sociale, atteggiamenti, pregiudizi, stereotipi).

La comunicazione interpersonale è dunque una serie di sequenze lineari in cui il messaggio

è codificato e inviato dall’emittente, ricevuto, decodificato e compreso o meno dal

ricevente. La ricezione del messaggio scatena a sua volta l’emissione di un secondo

messaggio. Ogni messaggio implica due modi complementari, il verbale e il non verbale,

detti anche digitale e analogico.

La comunicazione digitale-verbale è il modo di comunicare sulle cose (sul contenuto),

mentre l’analogico è il modo di comunicare sulle relazioni.

La comunicazione può quindi essere concepita in termini di interazione; è un processo

dove ogni messaggio di un protagonista produce, come reazione, un messaggio che a sua

volta conduce ad un nuovo messaggio. Questo è ciò che esprime efficacemente la nozione

di feedback. Tale nozione d’interazione è influenzata dal contesto. In questo contesto

teorico si inseriscono gli originali lavori di un gruppo di psichiatri di Palo Alto

(Watzlawick et al., 1972). Essi danno della comunicazione una definizione molto ampia

che include tutte le relazioni, verbali e non verbali, tra un emittente e un ricevente.

Secondo questa teoria, è impossibile non comunicare. Anche quando due individui non

dicono nulla, emettono dei significati corporei. La comunicazione non verbale è un mezzo

privilegiato per gli scambi di natura emozionale. Essa interagisce con la comunicazione

verbale rinforzandola o invalidandola; utilizza i movimenti corporei, facciali, oculari, la

distanza spaziale, il tatto, il paralinguaggio (dimensione vocale ma non verbale della

parola), alcuni elementi materiali (vestiti, colori).

Nel particolare settore delle cure sanitarie la comunicazione interpersonale è caratterizzata

da tre dimensioni fondamentali:

89

� L’utilizzo di più canali

� La plurifunzionalità

� La contestualizzazione

Queste tre caratteristiche sono riportate in dettaglio nella tabella 7.

Tabella 7 – Comunicazione e cure: le caratteristiche

Canali:

� Elaborazioni verbali

� Modalità vocali

� Mimica

� Gesti

� Sguardi

Funzioni:

� Valutativa

� Informativa

� Relazionale

Contesti:

� Disposizione dell’ambiente

- spaziale

- temporale

� Storia della relazione

- primo contatto

- incontri successivi

� Caratteristiche delle persone

coinvolte

- variabili psicologiche

- variabili cognitive

- variabili professionali

- variabili sociali

� Tipo di servizio

90

La comunicazione nel settore sanitario utilizza canali plurimi: essa è costituita da scambi

dove le produzioni verbali, la modalità vocale, la mimica, i gesti e gli sguardi si combinano

in parti variabili secondo regole associative e sequenziali. Secondo le particolari

circostanze, possono intervenire nella comunicazione altre modalità, per esempio il tatto o

l’odorato nel contatto fisico. Il corpo, oggetto di relazioni e cure, interviene nel contenuto

degli scambi anche attraverso il tatto e la palpazione. In questo modo, la maggior parte

delle convenzioni che riguardano la distanza considerata intima nella vita quotidiana nella

relazione clinica vengono trasgredite. Ogni interazione comunicativa comporta inoltre dei

segnali coordinatori che permettono di regolare i turni nel prendere la parola e mantenere

gli interlocutori in “sincronia”, ponendo costantemente quattro domande: “mi senti?”, “mi

ascolti?”, “mi capisci?”, “che ne pensi?”.

La dimensione affettiva tiene conto delle difficoltà che il personale sanitario ha nel

rispondere alle ultime due domande.

In secondo luogo, la comunicazione interpersonale è plurifunzionale. Molti autori hanno

proposto delle categorizzazioni delle funzioni del linguaggio nella consultazione medica

(Hall, 1987; Cohen-Cole, 1991; Cosnier, 1993). La funzione informativa è di gran lunga la

più importante, caratterizzata sia dalla richiesta di informazione (funzione valutativa), sia

dall’apporto di informazione e consiglio (funzione informativa ed educativa). La

comunicazione, peraltro, ha anche una funzione regolatrice della relazione. Tutte queste

funzioni determinano un’organizzazione sequenziale degli scambi. La consultazione

medica comprende così, secondo uno schema tradizionale, l’inizio della relazione, la

definizione del problema, l’esame, la diagnosi, la discussione della diagnosi e gli eventuali

esami complementari, la prescrizione e la chiusura.

In terzo luogo, la comunicazione potrà essere interpretata solo in relazione al contesto

(Norton, 1994). Ciò comprende quattro elementi: l’ambiente (situazione spazio-temporale),

le caratteristiche delle persone coinvolte (variabili psicologiche, cognitive, professionali e

sociali), la natura della relazione (tipo di servizio) e la sua storia (primo contatto, follow-

up).

Il funzionamento della comunicazione può essere appreso in primo luogo a partire dagli

elementi generali della comunicazione: un emittente, o locatore, trasmette un messaggio ad

91

un ricevente, o destinatario, attraverso un canale utilizzando un codice in un determinato

contesto.

Nel dialogo il locatore e il destinatario si scambiano alternativamente la posizione. Gli

interlocutori sono a portata di voce e di sguardo. Questo contatto stabilisce e mantiene la

comunicazione. I gesti, lo sguardo e ciò che viene detto sono in concordanza o in

discordanza.

Gli elementi della comunicazione paradossale si riscontrano nella comunicazione tra

operatori sanitari e paziente. Gli esempi di discordanza sono frequenti: il medico che dà

un’informazione al suo paziente quando questi ha già una mano sulla maniglia della porta

ne è un esempio.

La comunicazione implica anche un codice, cioè un vocabolario, e delle regole di

linguaggio comuni, totalmente o parzialmente, agli interlocutori. Ciò pone il problema,

nella relazione “medico-paziente”, dell’ermetismo del gergo. Da una parte, le parole non

hanno lo stesso significato per tutti: termini tecnici per alcuni, dotati di una forte carica

emozionale per altri. Aggettivi comuni per tutti tendono perfino a cambiare significato:

pensiamo ai termini “positivo” o “negativo” in un contesto non scientifico, e al valore

accordato agli stessi termini in medicina (esempio: radiografia “negativa”, gangli

“positivi”).

La comunicazione è un processo che integra la parola, il gesto, la mimica e la distanza

interpersonale. C’è, così, una concomitanza e una complementarietà delle modalità

espressive. Il significato di ciascuna modalità non è univoco e la comunicazione acquista

un senso nel contesto dell’insieme di tali modalità. Questo contesto e i suo ruolo, cioè lo

sfondo culturale e le immagini socio-culturali ad esso legate, sono importanti. Ognuno

parla e ascolta sempre, su certe basi, del suo ambiente, della sua cultura, delle sue

esperienze. Il linguaggio, i gesti e gli atteggiamenti sono anche il riflesso di una

determinata identità socio-culturale. Fin dal primo contatto gli interlocutori si valutano in

funzione di diversi punti di riferimento socio-culturali, si collocano in gruppi sociali di

appartenenza, partendo da immagini a priori che spesso diventano criteri di valutazione

(l’accento, il modo di vestire, ecc.).

Le persone stabiliscono, quindi, dei rapporti che implicano scambi emotivi. Tali rapporti

inducono delle variazioni nella formulazione dei messaggi trasmessi e ne intralciano

l’interpretazione. Così, la comunicazione tra medico e paziente può essere

significativamente influenzata dal desiderio del curante di informare e dal bisogno del

malato di essere informato.

92

3.3.2 Gli obiettivi della comunicazione

La comunicazione in medicina è caratterizzata da due tipi di comportamenti: il

comportamento strumentale e quello socio-affettivo (Hall, 1987). Essi corrispondono agli

scopi fondamentali della consultazione: da una parte, lo scambio di informazioni – che

comprende l’acquisizione e l’apporto di informazioni – e dall’altra, la relazione terapeutica

necessaria per ottenere la fiducia del paziente e per sostenerlo.

Carl Rogers, sviluppando la sua teoria centrata sul cliente, distingue tra i principi di base di

una relazione terapeutica il rispetto, l’autenticità, il calore umano e l’empatia.

L’approccio centrato sul curante implica che questi favorisca attivamente, anzi in maniera

direttiva, l’espressione, da parte del paziente, dei motivi e delle circostanze del colloquio,

dei sintomi, dei pensieri, dei sentimenti, delle aspettative.

Il colloquio ideale integra i due approcci, centrati contemporaneamente sul cliente e sul

curante: ognuno dà il proprio contributo, il paziente con la propria esperienza di sintomi,

preoccupazioni e preferenze, il medico con la propria conoscenza della malattia e delle

terapie.

Per il malato la comunicazione del medico contiene anche un significato e un potere:

ermetica e dominatrice, rimanda il malato nella sua solitudine; esplicita e umana, spiega il

mistero della cura e riconosce il paziente nella sua dimensione personale. Quanto al

malato, egli è portatore di due tipi di richieste: una richiesta esplicita di cure indirizzata alla

medicina organicistica e al professionista, e una implicita di aiuto, che è di ordine

psicologico, ed è indirizzata all’uomo.

Nella comunicazione medico-paziente hanno luogo tre dialoghi sovrapposti:

� un dialogo sociale tra interlocutori in posizione sbilanciata che usano un linguaggio

ordinario;

� un dialogo medico che riguarda i sintomi e i trattamenti;

� un dialogo sottinteso dove s’incontrano il non detto, il supposto, l’implicito e

l’affettivo.

Questi tre dialoghi avvengono simultaneamente, il curante può solo scegliere di

privilegiarne uno in funzione di ciò che la relazione con il malato esige.

93

Da ciò che è stato detto si delineano i tre obiettivi della comunicazione interpersonale in

oncologia:

1) la creazione di un rapporto di qualità.

La qualità del rapporto è un obiettivo essenziale della comunicazione, che può così

essere considerato un prerequisito per la qualità del trattamento. I criteri che

definiscono la qualità del rapporto differiscono a seconda degli approcci teorici.

2) lo scambio di informazioni.

Questo secondo obiettivo comprende l’apporto e l’acquisizione di informazioni. Per il

personale sanitario in genere, e il medico in particolare, la posta in gioco in questo

approccio è di stabilire una corretta diagnosi e un corretto piano terapeutico. Per il

malato la posta in gioco è duplice: da una parte conosce re e comprendere la situazione,

dall’altra sentirsi riconosciuto e compreso dal curante. La quasi totalità dei malati

desidera essere informata, ma questo desiderio è spesso sottovalutato o piuttosto mal

compreso dagli operatori sanitari. Uno dei motivi fondamentali di insoddisfazione

rispetto all’informazione viene da una diversa percezione di ciò che è utile trasmettere

o conoscere. L’informazione data dal medico in genere poggia su dati oggettivi, quella

desiderata dal malato dipende da preoccupazioni personali (possibilità di guarigione,

rischio di dolori o altri inconvenienti). Di fronte a un’informazione che il medico

considera precisa e utile, il malato può, dunque, avere l’impressione di non aver

appreso nulla di nuovo.

3) la decisione relativa al trattamento

A questo proposito, gli ultimi vent’anni hanno visto evolvere il rapporto medico-

paziente da una posizione paternalistica ad un atteggiamento di decisione condivisa.

Tuttavia, la corrispondenza tra desidero di essere informati e quello di partecipare al

processo decisionale non è totale. Prendere decisioni sul trattamento potrebbe

significare per i malato conoscere i risultati e sentirsi responsabile di una cattiva scelta

in caso di fallimento. Così, più che partecipare alla decisione terapeutica, i malati

desiderano essere informati sulle ragioni che giustificano la scelta di un trattamento.

94

3.3.3 Le funzioni della comunicazione

La letteratura scientifica da una parte, e l’esperienza clinica dall’altra, mostrano che

nella cura di un malato la comunicazione ha essenzialmente tre funzioni: la

valutazione, l’informazione e il sostegno. In oncologia i colloqui con il paziente

uniscono spesso queste tre funzioni nella misura in cui l’interazione mira insieme a

valutare la situazione del malato, informarlo, consigliarlo e sostenerlo.

L’obiettivo del colloquio di valutazione è quello di determinare la natura esatta dei

problemi, le percezioni ad essi collegate e il loro impatto sulla vita dei pazienti. Per

raggiungere tale finalità, il colloquio deve focalizzarsi prevalentemente sul presente (le

preoccupazioni qui e ora) e sul futuro (le aspettative, le anticipazioni). Esplorare le

preoccupazioni significa concentrarsi sui problemi attuali del paziente ed esplorare i

sentimenti ad essi associati. Sarà così possibile scoprire le aspettative del paziente.

Questo tipo di colloquio permette di stabilire rapidamente un elenco di preoccupazioni,

e non richiede molto tempo, è ciò è un vantaggio per i malati molto gravi. Il principale

svantaggio è il rischio di tralasciare informazioni importanti che se fossero state

comunicate avrebbero cambiato il trattamento (ad esempio una precedente esperienza

negativa di chemioterapia). Il colloquio centrato sulle preoccupazioni non permette al

medico di comprendere il malato nel suo processo evolutivo. Numerosi clinici

ritengono pertanto necessario conoscere anzitutto la sua storia per comprendere i

problemi che emergono.

Il colloquio di valutazione è favorito da una pianificazione spazio-temporale. Il medico

deve prima parlare con il paziente da solo. Il colloquio individuale permette infatti al

malato di rivelare ed esprimere le proprie paure, poiché può parlare apertamente dei

propri timori senza turbare i suoi parenti.

Il colloquio di valutazione è specialmente quello del primo incontro, o dell’inizio della

presa in carico. Bisogna tuttavia notare che, anche nel contesto di u ulteriore colloquio

informativo o di sostegno, il riesame dei sintomi, delle aspettative e dei bisogni del

malato permette al clinico di riadattare la cura.

Il colloquio informativo correntemente è praticato in oncologia sia per dare la notizia

della malattia, sia per parlare della sua evoluzione, sia per la necessità di un trattamento

e/o dei suoi effetti collaterali. Generalmente è raccomandato ai clinici un approccio

personalizzato al malato, un’informazione progressiva che presenti chiarimenti sulle

95

aspettative, e un ricorso all’empatia. Spesso i curanti dedicano poco tempo ad

informare i malati e sottovalutano il loro desiderio di saperne di più. Questo fenomeno

può essere spiegato attraverso tre categorie di fattori:

2) le caratteristiche del medico

estrazione sociale, ideologia politica, percezione del bisogno del malato di

essere informato;

3) le caratteristiche del malato

età, sesso, estrazione sociale, istruzione,

4) le caratteristiche del contesto

numero di consultazioni al giorno, anzianità della relazione.

Ad ogni modo, tutti sono d’accordo sul fatto che l’informazione dovrebbe avere

almeno una funzione essenziale: ridurre il penoso sentimento d’incertezza vissuto così

frequentemente dai malati

I colloqui di sostegno sono stati poco studiati dalla ricerca empirica. Tuttavia, molte

situazioni cliniche mettono il personale sanitario di fronte alla necessità di sostenere i

pazienti e i loro famigliari. L’annuncio della diagnosi, di una ricaduta, degli effetti

collaterali dei trattamenti, turbano i pazienti e dimostrano la necessità per i curanti di

sviluppare in queste situazioni una certa empatia. Per molti aspetti, il colloquio di

sostegno può essere ricondotto alla prospettiva rogersiana di “terapia centrata sul

cliente”. Lo stato di angoscia in cui si trovano speso i malati e i loro parenti induce il

medico a superare la posizione di non direttività e ad adottare una posizione di

sostegno attivo, includendo informazioni e consigli. Il colloquio di sostegno è un

mezzo privilegiato per assicurare un trattamento di qualità. Anche la componente

affettiva della comunicazione predice la soddisfazione dei malati dopo il colloquio.

96

3.3.4 Le strategie

Una buona comunicazione tra personale sanitario e paziente è oggi considerato un

fattore che determina la qualità della relazione terapeutica. Nella pratica clinica è utile

comunque identificare le strategie o le tecniche che possono essere utilizzate

dall’operatore sanitario, e che facilitano la comunicazione con il paziente.

Le strategie di comunicazione sono fine a se stesse, ma sono dei mezzi per valutare la

situazione del malato, per informarlo, consigliarlo e sostenerlo.

Come mostra la tabella 8, queste strategie sono caratterizzate dal particolare uso di

enunciazioni di forme, di funzioni, di livelli e di contenuti che possono variare secondo

lo scopo che si vuole raggiungere.

Tabella 8 – Comunicazione: obiettivi, forme, funzioni e livelli

Scopi

Forme Funzioni Livelli

Valutazione

richiesta

Diagnosi

Chiarimento

Verifica

Fattuale

Medico

Psicosoaciale

Informazione

Affermazione

Risposta

Introduzione

Informazione

Consiglio

Confronto

Interpretazione

Sintesi

Chiusura

Medico

Psicosociale

Sostegno

Affermazione

Atteggiamento

Empatia

Riconoscimento

Rassicurazione

Psicosociale

97

Questi sono strumenti che dovrebbero permettere di scoprire i bisogni del malato e

di rispondervi, di stimolare la sua fiducia, di invitarlo a collaborare, di favorire la sua

autonomia, di informarlo e di accrescere l’adesione e la soddisfazione rispetto alle

terapie.

Poiché la qualità e la durata della vita del paziente sono gli obiettivi principali, le

strategie comunicative devono mettersi al servizio della loro preservazione e della loro

promozione.

Secondo l’obiettivo che si vuole aggiungere , queste strategie possono essere

raggruppate in tre categorie in funzione degli obiettivi che vogliono raggiungere: la

valutazione, l’informazione, il sostegno. Nella pratica clinica ognuno di tali obiettivi

non esclude gli altri.

Le strategie di valutazione

La valutazione tende a delineare la natura e l’estensione dei problemi del paziente in

relazione alla sua malattia e alla sue percezioni. Essa è particolarmente indicata nei

primi colloqui per raccogliere informazioni di base. E’ utile continuare la valutazione

nel corso dei colloqui che seguiranno per comprendere l’evoluzione delle percezioni

del paziente a proposito della sua situazione. In teoria il curante dovrebbe fare

attenzione a non avere un ascolto valutativo, cioè a non giudicare i discorsi del paziente

come buoni o cattivi, giusti o sbagliati, accettabili o non accettabili e così via. La

valutazione deve riguardare la comprensione dei problemi del paziente e non il giudizio

sui suoi discorsi o sulla sua persona.

L’ascolto

L’ascolto da solo non basta, è anche necessario che il curante comprenda ciò che il

paziente prova. Non è facile, poiché la posizione del curante lo spinge ad affermare se

stesso, e allo stesso tempo a proteggersi. Accettare che il malato parli di sé, e non

soltanto della malattia, comporta che l’operatore accetti di essere qualche volta

interpellato e messo in discussione dal proprio paziente. L’ascolto è quindi un compito

molto difficile per il curante, che è piuttosto incline ad agire.

L’ascolto dà all’operatore sanitario un punto di riferimento che permette di valutare i

problemi del paziente, le sue percezioni, i suoi bisogni e le sue risorse personali.

98

L’ascolto è facilitato da alcune tecniche che incoraggiano il paziente ad esprimersi (

atteggiamento calmo, possibilità di silenzio…). L’ascolto può utilmente essere inserito

nel processo valutativo dei bisogni del paziente ad essere informato. Questo processo

può implicare una valutazione di ciò che il paziente già sa e di quello che desidera

sapere.

La mancata diagnosi dei problemi psicosociali dei pazienti malati di cancro si spiega

verosimilmente più per la mancanza di ascolto da parte del clinico che per l’assenza di

indizi comunicati dal malato. L’attenzione data dall’operatore sanitario ai problemi

presenti e futuri aiuta il paziente nella propria valutazione della situazione, e lo aiuta

anche ad evitare la confusione e l’angoscia che sono conseguenze frequenti della

perdita di controllo su avvenimenti spesso mal valutati e drammatizzati. Un operatore

che assiste il proprio paziente a rivalutare il senso della realtà, lo rende spesso capace

di “riprendere il controllo”.

Le domande

La domanda, come le altre tecniche di comunicazione, deve mirare a uno scopo preciso

e specifico. Quando l’operatore sanitario ha bisogno di capire, è preferibile usare

domande aperte che permettono di conoscere il “come” e di descrivere il processo. Il

“perché”, invece, è spesso associato al rimprovero o alla disapprovazione e richiede

una giustificazione. Può indurre a giustificazioni e spiegazioni difensive. Quando

invece l’operatore ha bisogno di informazioni precise e dettagliate, può essere utilizzata

la domanda diretta.

Bisogna anche sapere che la tecnica del porre domande può suscitare delle reazioni

indesiderate (pianti, aggressività, passività, mutismo), e quindi deve essere utilizzata

con una certa prudenza.

Le strategie di informazione

L’informazione permette al paziente di comprendere meglio la malattia e il trattamento,

e di affrontare le possibili conseguenze sia a livello medico che a livello psicologico e

sociale. Questo intervento a livello cognitivo può aiutare il paziente a ritrovare un certo

controllo sulle sue emozioni e sulla realtà, aiutandolo a prendere decisioni anche

difficili.

99

Se l’informazione è data dopo che il punto di vista del paziente è stato chiaramente

espresso, e se è adeguata e realistica, si può dire che se n’è fatto un uso appropriato. Se

l’apporto di informazioni non si basa su fatti concreti e/o avviene prima di ogni

esplorazione dei sentimenti e delle preoccupazioni latenti, l’informazione stessa può

essere considerata inappropriata e in ogni caso prematura. E ancora, è da evitare l’uso

di termini tecnici o del gergo medico nel momento in cui si danno informazioni. Il

medico dovrà anche guardarsi dall’usare la trasmissione di informazioni per imporre i

propri valori.

Le strategie di sostegno

Le strategie di sostegno sono inseparabili da quelle valutative e informative. Esse sono

utili durante tutti i colloqui poiché favoriscono la fiducia di base necessaria per

instaurare e mantenere una relazione all’interno della quale il paziente potrà esprimere

le proprie difficoltà. L’atteggiamento di sostegno da parte del’operatore agevole nel

paziente l’espressione dei propri sentimenti.

Le componenti generalmente accettate nella nozione di sostegno sociale in senso lato

sono l’aiuto strumentale, l’apporto di consigli e di giuda, il supporto emozionale. In

termini di strategie comunicative in senso stretto, il sostegno comprende la

facilitazione, l’empatia, la rassicurazione.

Insieme agli atteggiamenti, nella strategia di sostegno sono spesso utilizzate modalità

non verbali, ad esempio il curante addotta una postura che indica interesse e apertura

(stare di fronte al paziente, essere leggermente di lato, sedersi più in basso di lui,

evitare di incrociare braccia e gambe, chinarsi leggermente verso il paziente), avendo

un contatto visivo, sorridendo leggermente, accennando dei segni col capo, stando

rilassato, accettando i momenti di silenzio.

Queste tre tipologie di strategie nella comunicazione con il malato, se utilizzate in

modo unicamente tecnico possono avere un effetto perverso. Pertanto, è necessario un

approccio integrato che includa i due valori fondamentali di ogni relazione d’aiuto: il

rispetto e l’autenticità. Il rispetto può essere definito come la stima per l’altro

semplicemente in quanto essere umano. Il rispetto che l’operatore sanitario prova per il

paziente può essere manifestato nei seguenti modi: con una presenza fisica attenta e un

100

ascolto attivo, evitando giudizi critici, manifestando comprensione empatica verso la

situazione del paziente, manifestando calore e cordialità appropriati, aiutando il

paziente a scoprire le sue risorse.

L’autenticità consiste nel restare se stesso durante gli scambi con il paziente. C’è

autenticità se l’operatore sanitario evita di sopravalutare il ruolo legato alla propria

professione, se conserva una condotta spontanea,, se mostra una coerenza tra valori e

comportamento, tra pensieri e parole.

L’ascolto attivo e l’approccio valutativo permettono l’identificazione delle

preoccupazioni dell’interlocutore, della sua rappresentazione mentale della situazione,

degli indizi sul suo umore, del livello di adattamento e delle sue aspettative nei

confronti dell’operatore.

Chiarire i bisogni dell’altro ristabilisce nel rapporto la distanza utile per il sostegno

relazionale.

Le capacità comunicative che favoriscono uno scambio approfondito con il paziente

permettono di assicurare una migliore qualità delle cure.

3.3.5 La trasmissione di informazioni

Quando si tratta di dare informazioni i comportamenti dei medici variano in funzione

di numerosi fattori. Possono essere messe in evidenza tre tipologie di atteggiamenti:

a) la tendenza a cercare attivamente l’occasione per informare il malato;

b) la tendenza attiva a dissimulare ogni informazione;

c) atteggiamenti intermedi che associano una dissimulazione passiva e

un’informazione trasmessa a seconda delle circostanze.

La tabella 9 riprende le principali variabili che intervengono nella trasmissione delle

informazioni ai malati.

101

Tabella 9 – Fattori che influiscono sulla trasmissione di informazione

Fattori temporali

- quando?

Fattori che si riferiscono agli emittenti

- che cosa si conosce?

- Quale decisione sul trasmettere ciò che si conosce?

- Cosa è stato detto-non detto?

- Come è stato detto?

Fattori che si riferiscono ai riceventi

- cosa è già conosciuto?

- Cosa si chiede?

- Cosa è stato capito?

- Cosa viene ricordato?

- Cosa è stato integrato?

Fattori che si riferiscono ai contenuti

- natura della malattia

- prognosi ed evoluzione

- trattamenti/effetti collaterali

- conseguenze psicosociali

102

La tabella 10 mostra in dettaglio i principali fattori che intervengono nella decisone medica

di informare i malati di cancro e le loro famiglie.

Tabella 10 – La decisone medica di informare: fattori condizionanti

Fattori legati ai medici

- età

- esperienza clinica

- responsabilità/status

- fattori personali/emotivi

fattori legati ai pazienti

- età

- livello intellettivo

- fattori personali/emotivi

fattori legati alle famiglie

- presenza o meno di una famiglia

- fattori personali/emotivi

- relazioni famigliari

fattori culturali

- Paesi/continenti

- Aree urbane/aree rurali

Fattori legati alla neoplasia

- prognosi

- possibili effetti collaterali dei trattamenti

- possibili conseguenze dei trattamenti

103

Cosa bisogna comunicare al paziente? C’è in realtà una varietà di contenuti che è

necessario differenziare: è possibile, così, informare il paziente circa la natura della sua

malattia e indicargli il trattamento, descrivergli le procedure mediche che dovrà seguire, le

sensazioni che proverà e gli eventuali effetti collaterali. Anche le possibilità e i diversi

modi di adattamento possono essere oggetto della comunicazione medico-paziente.

Uno stesso contenuto può provocare reazioni diverse a seconda della forma usata per dare

l’informazione. La valutazione del malato da parte del medico influenza senza dubbio la

sequenza dei comportamenti di fronte all’informazione che sta per trasmettere.. peraltro,

quando si tratta di informare il paziente e di aiutarlo a prendere una decisione, è

teoricamente possibile esprimere uno stesso contenuto sia in modo positivo, mettendo

l’accento sulle possibilità di guarigione, sia in modo negativo, enfatizzando il possibile

rischio di non efficacia del trattamento proposto. Queste differenze possono influenzare le

decisioni del malato.

In oncologia la situazione è praticamente resa più difficile dal fatto che i trattamenti

possono avere degli effetti diversi sulla durata e sulla qualità della sopravvivenza. Le

informazioni il più delle volte sono complesse. I trattamenti dei pazienti affetti da cancro

alla prostata sono un esempio di quanto sia importante informare il malato sulle

conseguenze. Così, quando si chiede a un campione di uomini quale trattamento

sceglierebbero – chirurgia o radioterapia – se avessero un cancro alla prostata è

interessante notare che il 32% delle persone interrogate afferma di non voler sacrificare

neanche un minuto della vita che resta per preservare la potenza sessuale. Il 68% afferma

invece di voler accettare una riduzione del 10% in media della propria sopravvivenza per

evitare l’impotenza sessuale (Singer, 1991). Sembra che il livello di istruzione influisca su

questa scelta, non l’età.

Le alternative presentate talvolta includono conseguenze diverse non solo per la qualità ma

anche per la durata della vita.

3.3.6 Il sostegno e l’educazione

Le informazioni trasmesse ai malati nell’esercizio abituale della professione medica sono

sufficienti? In caso contrario, come compensare tale insufficienza? L’insoddisfazione dei

malati per le informazioni ricevute è solo la conseguenza di una insufficiente informazione

da parte dei medici, o piuttosto è un bisogno importante dei malati di cancro?

104

Le risposte a tali domande hanno importanti implicazioni. Se le richieste di informazioni

possono essere soddisfatte nel contesto abituale delle cure, come soluzione ai problemi

esistenti circa la trasmissione di informazioni dovrebbe essere programmata una

sensibilizzazione della classe medica, o, in caso contrario, dovrebbe essere sviluppata una

pluralità di programmi complementari di informazione organizzati dagli operatori sanitari e

dagli ex malati.

Il sostegno e l’educazione sono probabilmente i mezzi in grado di migliorare la

trasmissione delle informazioni.

Il sostegno

Con il termine sostegno intendiamo l’insieme dei sostegni “strumentali” e il sostegno

emotivo vero e proprio.

Si deve infatti tenere conto anche del sostegno materiale necessario al malato e alla sua

famiglia. La perdita del ruolo professionale, se porta con sé una perdita finanziaria, genera

un’angoscia che è spesso aggravata dalla difficoltà di compensare la mancanza di denaro.

Oltre all’aiuto finanziario necessario in questi casi, è indispensabile un aiuto alla famiglia,

sotto forma di “infermiere” o di “bambinaia”, onde evitare il più a lungo possibile

un’ospedalizzazione per ragioni psicosociali. L’insieme di questi sostegni “strumentali”

potenziano e rendono possibile il sostegno emotivo dei pazienti e dei loro famigliari.

L’informazione e l’educazione del malato offerte dall’oncologo e dal medico curante sono

difficilmente dissociabili dal sostegno emotivo da assicurare al paziente. In realtà, queste

tre forme di intervento sono molto spesso complementari. Il sostegno emotivo si basa

principalmente sull’ascolto, l’empatia, l’identificazione dei bisogni, la capacità di

rassicurare e la conoscenza di tecniche psicoterapeutiche applicate all’oncologia.

L’educazione

L’educazione permette al paziente un migliore controllo del suo futuro immediato

(controllo del dolore, degli effetti collaterali dei trattamenti e delle conseguenze famigliari

e professionali della malattia); mira ad una sua maggiore autonomia. L’educazione

costituisce un complemento dell’informazione trasmessa e si giustifica specialmente nelle

malattie con sintomi invalidanti o cronici. Essa permette al malato di valutare meglio gli

sforzi da mettere in pratica e gli strumenti necessari per giungere alla migliore

105

riabilitazione possibile. In effetti, dare istruzioni può rassicurare il paziente, offrendogli la

sensazione di poter riuscire a superare gli ostacoli che sembravano insormontabili.

L’educazione rende possibile l’elaborazione progressiva degli obiettivi che favoriscono

l’adattamento e nello stesso tempo reinserisce la situazione del malato in una prospettiva

temporale, evitando così delle regressioni gravi e incontrollabili.

Al bisogno crescente dei malati e dei loro famigliari di essere informati, si può rispondere

con la creazione e lo sviluppo di servizi paralleli di informazione, come i centri di ascolto.

A questo proposito vengono presentati nell’ultimo capitolo di questo lavoro due “progetti”

di intervento per la promozione dell’informazione e del sostegno al paziente oncologico e

ai suoi famigliari.

106

CAPITOLO 4

I PROGETTI

4.1 4.1 4.1 4.1 PROGETTO DI SUPPPROGETTO DI SUPPPROGETTO DI SUPPPROGETTO DI SUPPORTO PSICOLOGICO A FORTO PSICOLOGICO A FORTO PSICOLOGICO A FORTO PSICOLOGICO A FAVORE DI PAZIENTI AFAVORE DI PAZIENTI AFAVORE DI PAZIENTI AFAVORE DI PAZIENTI AFFETTI DA FETTI DA FETTI DA FETTI DA

CANCRO DELLCANCRO DELLCANCRO DELLCANCRO DELL’’’’APPARATO UROGENITALEAPPARATO UROGENITALEAPPARATO UROGENITALEAPPARATO UROGENITALE

Introduzione

La manifestazione di una malattia comporta sempre una mutamento degli equilibri

precedenti ed una situazione di crisi. Il primo cambiamento riguarda lo status del paziente

che da persona sana diventa un malato; egli è costretto ad adattarsi ad una condizione

psicofisica nuova, che lo costringe a fronteggiare problemi interni ed esterni. Dei primi

fanno parte le reazioni psicologiche alla nuova identità (persona malata); ai secondi,

appartengono quelle modificazioni inevitabili a carico della dieta, delle abitudini di vita e

del lavoro. I due ordini di problemi s'intersecano e si condizionano vicendevolmente,

soprattutto se l'entità del cambiamento avvenuto è rilevante. La persona che diventa

paziente è costretta a rivedere profondamente il rapporto con il proprio corpo che ritorna ad

essere osservato, scrutato e controllato come mai prima.

La diagnosi di malattia e il ricovero in ospedale sono momenti spesso molto critici per i

pazienti e i loro famigliari.

La diagnosi di cancro rappresenta un evento stressante per l'individuo, richiede un intenso

sforzo di adattamento, genera uno sconvolgimento della quotidianità - a causa dei

trattamenti e degli effetti collaterali conseguenti - e un'importante crisi psicologica

derivante dall'incognita dell'evolversi della malattia e dalla minaccia che rappresenta per il

futuro e la vita.

Nello specifico del cancro della prostata, è utile sottolineare le criticità date dalla

possibilità di cure invasive (prostatectomia radicale) e da possibili effetti collaterali:

107

l’incontinenza urinaria ed il deficit erettivo rappresentano le due problematiche

conseguenti alla terapia chirurgica e si aggirano rispettivamente attorno al 5 e 50%,

coinvolgendo organi su cui vi è un maggior investimento affettivo.

L’incapacità più o meno grave di urinare a tempo e luogo può avere un impatto devastante

sulla qualità di vita, sia per quanto riguarda il vissuto soggettivo sia i rapporti

interpersonali. Basti pensare ai campi dell’esistenza che possono essere compromessi da

questo disturbo: sociale, psicologico, professionale, familiare, fisico, sessuale...

Sul piano sociale, per esempio, il mancato controllo vescicale si traduce nella riduzione

delle interazioni sociali, cui si accompagnano la modificazione degli spostamenti abituali e

- spesso - l’abbandono di alcuni hobbies.

Sul piano psicologico compaiono spesso depressione reattiva e/o perdita dell’autostima,

cui si accompagnano frequentemente apatia, senso di colpa e negazione; sempre sul terreno

psicologico, la sensazione di mancato controllo sulla funzionalità vescicale si espande

talvolta fino alla sensazione di essere un peso e di emettere odore di urina.

Sul piano professionale, l’incontinente di sesso maschile diventa spesso (e suo malgrado)

un assenteista e può andare incontro a conseguente perdita del lavoro, mentre nella donna

si manifesta con relativa frequenza trascuratezza dei doveri domestici, cui possono far

seguito problemi coniugali e/o familiari.

In ambito familiare possono rappresentare un problema anche le necessità di usare

particolari tipi di lenzuola e/o di biancheria intima e di adottare speciali precauzioni nel

vestire.

Non meno importante, per chi è ancora in buona forma fisica, è la limitazione o cessazione

dell’attività sportiva, mentre per coloro che sono già in condizioni precarie o più avanti

negli anni la perdita del controllo vescicale può essere il fattore che decide per

l’istituzionalizzazione.

Essendo purtroppo molto comune nell’incontinente la perdita di urina al momento

dell’orgasmo, tutt’altro che rari sono anche i disturbi della sfera sessuale: disfunzione

erettile nell’uomo e secchezza vaginale nella donna, tali entrambe da rendere difficili o

impossibili i rapporti sessuali.

108

Per quanto riguarda la disfunzione erettile non ci sono dubbi sul fatto che presenta un

considerevole impatto sulla qualità della vita. Sono stati identificati quattro ambiti della

qualità di vita correlati alla sessualità maschile:

1) la qualità dell’intimità sessuale,

2) l’interazione quotidiana con le donne,

3) le fantasie sessuali

4) la percezione della propria mascolinità da parte degli uomini.

I problemi erettili hanno un impatto con tutte queste categorie, quindi sia con la vita più

intima che con quella più di relazione, e anche con la visione di se stessi come esseri

sessuali. La disfunzione erettile, il più comune effetto collaterale della terapia del cancro

precoce della prostata, ha pertanto sulle vite degli uomini interessati effetti che giungono

molto lontano.

La sofferenza psicologica riguarda sia il rapporto con se stessi e con il proprio corpo, sia il

rapporto con gli altri: la famiglia, la rete sociale e l'ambiente lavorativo.

Un ruolo importante è giocato dai fattori interpersonali, nell'ambito familiare e nella

relazione paziente-personale sanitario.

Un buon adattamento del paziente presuppone una partecipazione empatica e

un'informazione chiara, corretta e comprensibile da parte del personale sanitario.

Il disagio o distress esprime la risposta psicologica alla diagnosi e ai trattamenti. E' una

situazione spiacevole, di natura emozionale, relazionale e spirituale, che interferisce con la

capacità soggettiva di affrontare l'esperienza della malattia. Può essere più o meno lieve o

severa e va dal comune senso di vulnerabilità, tristezza e paura, a sintomi che risultano

inabilitanti e che sono indicati come "disturbi dell'adattamento", "disturbi d'ansia" e

"disturbi depressivi".

Spesso il disagio del paziente oncologico non è riconosciuto o è sottovalutato.

Una causa del mancato riconoscimento e della sottostima è il ritenere "normale" la

reazione del paziente - "Chi non starebbe male o chi non si dispererebbe se avesse un

109

cancro?" - aspetto che induce famiglia e operatori sanitari a pensare ad una risoluzione

spontanea della stessa.

Altro elemento è il tempo della visita medica, che non è solo il tempo oggettivo - spesso

carente a causa della mole di lavoro - ma anche il tempo soggettivo, ovvero, la

"disponibilità interiore" a stare emotivamente con l'altro.

Un ulteriore ostacolo è la stigmatizzazione di tutto ciò che è "psico". Il paziente stesso è

portato a pensare che il ricorso allo psicologo, o allo psichiatra, sia indice di incapacità

personale nell'affrontare quello che sta accadendo: chiedere l'aiuto di un professionista

equivarrebbe ad ammettere di essere una persona debole, oltre che malata.

Un ultimo elemento che impedisce il riconoscimento del disagio è rappresentato dagli

"stereotipi", considerare cioè la reazione dell'individuo un'espressione della sua personalità

- quindi, immodificabile - piuttosto che una risposta alla specifica situazione di vita.

I fattori elencati ostacolano il riconoscimento del distress e, di conseguenza, impediscono

l'attuazione di adeguate strategie di contenimento e di risoluzione.

I disturbi dell'umore hanno conseguenze su molti aspetti della qualità di vita del paziente -

relazioni, lavoro, salute - ma anche sull'organizzazione sanitaria - numero di

ospedalizzazioni e servizi territoriali utilizzati.

L'individuazione precoce e il trattamento dei disturbi dell'umore diventano ancora più

urgenti se si considera che un cattivo adattamento alla diagnosi è predittivo di sintomi

depressivi ad un anno di distanza.

È la presa in carico del soggetto, piuttosto che della sua malattia , a costituire il motore

della ricerca di una nuova modalità di assistenza che integri l’aspetto emozionale con gli

aspetti biomedici della cura, con tutto ciò che questo comporta.

Cancro significa morte, dolore, lutto per la perdita di parti di sé, angoscia per qualcosa che,

pur essendo parte del corpo stesso, lo distrugge. Tali emozioni possono d’altra parte

costituire una possibilità di crisi/cambiamento per la persona che le sperimenta, laddove le

venga offerto un contenimento efficace. Tale funzione di contenimento può essere assolta

da interventi psicologici di tipo specialistico all’interno di un approccio d’équipe che

costituisce, per il paziente e la sua

famiglia, un’esperienza emozionale importante: il sentirsi accolti nella totalità del proprio

essere bio-psico-sociale e nella continuità della propria storia.

110

La specificità della Psiconcologia consiste quindi nel suo rivolgersi ad un paziente il cui

disagio psicologico non dipende primariamente da un disturbo psicopatologico ma dalla

situazione traumatizzante della malattia.

Se da una parte negli ultimi anni si è assistito ad una espansione della cultura

psiconcologica, dall’altra non esiste una strutturazione definitiva rispetto agli standard di

intervento; di conseguenza le modalità con cui viene creato un Servizio dipendono dalle

singole realtà e/o dagli interessi dei singoli centri.

Requisito base per lo sviluppo dei Servizi di Psicologia nelle strutture sanitarie è

considerare mente e corpo non come entità separate che operano indipendentemente, ma

due aspetti distinti e integrati della persona.

Obiettivo: miglioramento della cura ed il contenimento della sofferenza associata alla

malattia, alle terapie e all’ospedalizzazione. Scopo dell’intervento psicologico è pertanto la

riduzione del disagio e della sofferenza psicologica del paziente, l’individuazione e

valorizzazione delle sue risorse personali, l’elaborazione psicologica degli aspetti più

traumatici della malattia, il sostegno psicologico e psicosociale.

Il programma terapeutico include anche i famigliari.

Metodo: l’intervento dello psico-oncologo si realizza all’interno di un modello operativo di

intervento integrato e si esplica a più livelli:

• intervento psicologico informale;

• psicodiagnosi;

• intervento psicologico su richiesta del paziente e/o dei familiari;

• consulenza psicologica al medico;

• riunioni d’équipe.

• Intervento psicologico informale

Nell’ottica di una presa in carico globale del soggetto e con l’obiettivo di rispondere ai

bisogni del paziente, lo psico-oncologo affianca il medico specialista durante la visita. Il

setting dell’ambulatorio o del reparto viene così trasformato in uno spazio personale del

paziente all’interno del quale il soggetto può raccontarsi, sentirsi ascoltato e riconoscere i

propri bisogni. A tal fine lo psicologo interviene:

111

— sulla relazione medico –paziente per facilitare la comunicazione, esplicitare l’intervento

del medico, decodificare le richieste verbali e non verbali del paziente, intervenire sulla

relazione;

— sul paziente per favorire la comprensione delle informazioni, contenere l’ansia,

facilitare le scariche emotive, individuare e sostenere le risorse interne, ripristinare uno

stato di equilibrio;

— sulla relazione paziente-familiare per facilitare la comunicazione, intervenire su

eventuali conflitti e problematiche che possono insorgere in quella sede.

• Psicodiagnosi

Lo psico-oncologo finalizza il primo o i primi colloqui clinici con il paziente alla

formulazione di una diagnosi psicologica per evidenziare anche i soggetti a rischio, cioè

quei soggetti che potrebbero sviluppare disturbi psicopatologici.

I primi colloqui clinici sono pertanto colloqui semistrutturati e finalizzati anche alla

compilazione di una cartella clinico-psicologica. In particolare, lo psiconcologo mira a

rilevare:

• la dimensione cognitivo-emozionale del paziente;

• la capacità di adattamento;

• la comprensione delle informazioni;

• la capacità di rapportarsi con il suo stato attuale;

• la qualità di vita;

• i bisogni, le richieste, le aspettative;

• la struttura familiare e il suo funzionamento;

• le relazioni con gli operatori (in particolare con il medico).

• Intervento psicologico mirato

Su richiesta del paziente e/o dei familiari lo psico-oncologo mette in atto un intervento

psicologico mirato. Esso consiste spesso in un intervento focalizzato su un evento acuto o

una psicoterapia offerti sia al paziente sia ai suoi familiari durante la malattia.

In particolare lo psico-oncologo mira a:

• fornire informazioni;

• favorire le relazioni medico/paziente, familiare/paziente;

112

• favorire il processo decisionale nel paziente;

• incoraggiare il paziente a verbalizzare pensieri e sentimenti negativi relativi alla malattia;

• contenere lo stato di sofferenza soggettiva;

• promuovere l’adesione e la partecipazione attiva e consapevole del paziente in ogni fase

dell’iter clinico;

• favorire il complesso adattamento del paziente alla nuova realtà, aiutandolo ad integrare

la malattia nella propria esperienza di vita e a dare un senso a ciò che è successo;

• favorire l’adattamento dei familiari alla nuova realtà.

La scelta del tipo di intervento dipende da una serie di fattori quali struttura di personalità

del paziente, fase del ciclo di vita, bisogni e richieste del paziente, tipo di problema, tipo di

tumore e sua localizzazione, fase di malattia, supporto sociale etc.

Le principali tecniche utilizzate sono:

— counselling;

— intervento sulla crisi;

— psicoterapia.

• Consulenza psicologica al medico

Lo psico-oncologo può effettuare consulenze al medico in relazione a tutte quelle variabili

psicologiche rilevate al momento della psicodiagnosi, in particolare rispetto a :

• assetto cognitivo-emozionale del paziente;

• capacità di adattamento del paziente;

• comprensione da parte del paziente delle informazioni ricevute;

• capacità del paziente di rapportarsi con il suo stato attuale;

• bisogni, aspettative e richieste del paziente;

• struttura familiare del paziente;

• modalità comunicativa da utilizzare;

• firma del consenso informato (consenso consapevole).

• Riunioni d’équipe

La presenza dello psico-oncologo nell’équipe curante permette l’analisi dei contenuti

emotivi legati all’attività assistenziale e delle dinamiche relazionali dell’operatore con il

paziente, con la famiglia e tra gli operatori. Tale analisi favorisce una maggiore

113

consapevolezza in ogni operatore sia delle proprie ed altrui risposte emotive alle diverse

situazioni e della possibilità di utilizzare le stesse in modo più adeguato, sia delle

dinamiche relazionali proprie con il paziente, con la famiglia e tra gli operatori.

Tale consapevolezza determina la presa di coscienza di alternative possibili che porta ad un

cambiamento delle modalità relazionali con il paziente, con la famiglia e tra gli operatori e

previene quella forma di stress lavorativo definito burnout.

4.2 IL CENTRO DI ASCOLTO PSICO-SOCIALE PER MALATI ONCOLOGICI

Introduzione

Qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle terapie, non esistono tumori di

scarsa rilevanza. Il cancro infatti rappresenta sempre, per il paziente e per la sua famiglia

ma anche per i terapeuti, una prova esistenziale sconvolgente. Questa prova riguarda tutti

gli aspetti della vita: il rapporto con il proprio corpo, il significato dato alla sofferenza, alla

malattia, alla morte, così come le relazioni famigliari, sociali, professionali.

Il trattamento del paziente oncologico deve avere come obiettivo principale quello di

migliorare

la Qualità della Vita e di limitare il rischio di conseguenze psicopatologiche tali da

condizionare

la vita futura del malato.

Nel momento in cui si pone una diagnosi di cancro, nel paziente si scatena una serie di

risposte emotive tali da richiedere l’intervento di una figura professionale diversa da quella

del medico-oncologo: lo psicologo, o meglio, lo psiconcologo.

La psiconcologia si afferma come disciplina autonoma, che svolge un ruolo di

collegamento fra l’area oncologica e quella psicologico-psichiatrica.

La specificità della psiconcologia consiste nel suo rivolgersi ad un paziente il cui disagio

psicologico non dipende primariamente da un disturbo psicopatologico ma è generato dalla

114

situazione traumatizzante della malattia.

I disturbi psicopatologici non rappresentano una rara evenienza nei pazienti con cancro.

Spesso proprio la tendenza a considerare la sofferenza psicologica del paziente

"comprensibile

e normale date le circostanze" comporta una sottovalutazione dei sintomi ed un loro

mancato

trattamento.

I disturbi più frequentemente riscontrabili in oncologia comprendono i disturbi

dell'adattamento, i disturbi depressivi, i disturbi d'ansia, i disturbi della sessualità, i disturbi

psichiatrici su base organica e, più raramente, i disturbi psicotici.

OBIETTIVI

Il presente progetto intende sviluppare due aree specifiche di intervento della

Psiconcologia, così come indicate dalle linee guida della SIPO (Società Italiana di

Psiconcologia):

� Attività clinica

� Attività di prevenzione primaria

Attività clinica

Una delle premesse da cui muove a questo proposito la psiconcologia, è quella secondo cui

il disagio psicologico che la persona manifesta nel corso di una malattia oncologica non sia

strettamente connesso ad una vulnerabilità o ad una predisposizione psicopatologica della

persona stessa, quanto piuttosto alla condizione di crisi che la malattia - come evento

stressante generalmente imprevisto- porta con sé.

115

Un discorso analogo può essere fatto per i congiunti e/o le persone che compongono la rete

sociale prossima del paziente: anche le eventuali problematiche psico-emotive e relazionali

di questi ultimi possono utilmente inscriversi, dunque, nell’ambito di un contesto

interpretativo che non le “etichetta” come reazioni di per sé abnormi poiché aventi rilievo

clinico bensì come fenomeni affettivi e comportamentali circolarmente collegati

all’insieme dei cambiamenti che la diagnosi di malattia oncologica introduce nel sistema

famigliare.

L'intervento psicologico clinico in oncologia ha, dunque, come principali destinatari il

malato e la sua rete sociale prossima, costituita in primo luogo dai familiari. Per questi

ultimi la possibilità di un supporto psicologico specifico riguarda non soltanto il periodo di

malattia del paziente ma anche il momento successivo all'eventuale decesso, nelle fasi che

caratterizzano l'elaborazione del lutto.

E’ importante che il supporto psicologico sia proposto al paziente come una delle possibili

modalità per affrontare il disagio e la sofferenza soggettiva che la condizione di malattia

porta con sé.

Qualora la richiesta di intervento per il malato venga effettuata da un famigliare, potrebbe

essere utile discutere e valutare a priori insieme al paziente l’iniziativa in oggetto, allo

scopo di appurarne l’effettiva motivazione.

Il malato - Obiettivi:

� aiutare il paziente lungo il tutto il decorso della malattia e nei momenti

particolarmente

destabilizzanti, dalla diagnosi alla guarigione o all'exitus;

� aiutarlo a contenere i sintomi psicologici che lo affliggono;

� aiutarlo a modificare i comportamenti a rischio rispetto al possibile peggioramento

delle sue

condizioni psicofisiche generali (eccessiva assunzione di alcol, tabagismo, disturbi del

comportamento alimentare ecc).

La famiglia –Obiettivi:

� aiutare la famiglia durante tutto l'iter clinico percorso dal membro che si è ammalato,

dal

116

momento della diagnosi fino alla guarigione o all'exitus;

� favorire il processo di elaborazione del lutto dopo la morte del paziente.

In sintesi I servizi che il Centro di ascolto si propone di offrire sono:

� Orientamento per una ottimale organizzazione e gestione della malattia oncologica;

� Intervento psicologico sulla crisi;

� Presa in carico del malato a cui è offerto sostegno psicologico centrato sull’ascolto

attivo dei bisogni;

� Presa in carico dei famigliari a cui è offerto sostegno psicologico e aiuto per

potenziare la loro capacità di mobilitare risorse per la soluzione dei problemi che la

condizione di malattia suscita;

� Gruppi di sostegno per famigliari in lutto per prevenire il cordoglio patologico e

attivare u processo di community care;

� Sostegno psicologico presso strutture di ricovero o ambulatori.

PRINCIPALI CAMPI DI INTERVENTO

Comunicazione della diagnosi o di una recidiva

Comunicare la diagnosi di cancro, una ricaduta o la fase terminale di malattia

rappresentano tre difficili momenti nell'ambito della storia clinica del paziente oncologico,

tanto per il medico quanto per il malato.

Messo a confronto con questa realtà angosciante, il paziente deve ascoltare, comprendere

ed

117

assimilare. Ciò può richiedere anche molto tempo.

La comunicazione infatti non è un "atto unico" ma un processo che si svolge

progressivamente nel tempo ed il cui contenuto deve essere rapportato di volta in volta

all'irripetibilità delle situazioni personali e dei contesti. L'adattamento del paziente, in ogni

fase dell'iter clinico, è favorito da modalità di comunicazione che tengano conto, oltre che

degli aspetti informativi, anche della sfera emotiva.

Pertanto si rendono necessari da parte del medico un dialogo continuo con il paziente,

nonché capacità e disponibilità all'ascolto ed alla comprensione di alcuni caratteristici

meccanismi di difesa propri e dell'ammalato, allo scopo di cogliere i bisogni e le richieste

di quest'ultimo per rispondere adeguatamente ad essi.

Mutilazione fisica

Il cancro ed i trattamenti ad esso legati possono essere all'origine di mutilazioni fisiche

suscettibili di provocare disturbi psichici. Il rapporto con il proprio corpo e turbato in tutte

le

sue componenti (abitudini di vita, sensazioni, immagine corporea); l'avvenuta mutilazione

può

riattivare gli episodi di perdita precedenti, le separazioni, i lutti non risolti ed i fantasmi

infantili

(frammentazione, impotenza e/o onnipotenza)

La presa in carico psicologica si effettua a due livelli:

� interventi pre-operatori informativi finalizzati sia a rendere consapevole il paziente

del problema sia a costruire uno spazio all'interno del quale la persona possa esprimere le

proprie emozioni;

� interventi psicologici finalizzati ad una elaborazione del trauma ed alla riorganizzazione

della vita quotidiana.

Rifiuto del trattamento

II rifiuto del trattamento in oncologia non e così raro, sia negli adolescenti che negli adulti

(circa il 20% dei casi, secondo alcuni studi) . Il medico, preoccupato in primo luogo

dell'urgenza clinica della situazione, rischia di non porsi la domanda relativa alle specifiche

ragioni del rifiuto del trattamento da parte del paziente; la risposta fornita dal medico e

raramente adattata ai motivi del rifiuto stesso.

118

Spesso un cattivo funzionamento della relazione curante - curato è all'origine del rifiuto,

ciò si

può allora intendere come il segnale di una richiesta d'aiuto che a volte può risolversi in un

empasse tale da condurre ad una rottura della relazione con il curante.

È necessario che il medico non si "identifichi" con la tecnica proposta ma si metta in una

posizione di ascolto "attivo" nei confronti del paziente, sforzandosi di fornire le

informazioni in

modo tale da ridurre al minimo la possibilità che si verifichino malintesi. In un secondo

tempo

potrà essere necessaria la consulenza dello psiconcologo, finalizzata all'analisi delle

motivazioni del rifiuto del paziente per favorire e sostenere, nel rispetto della volontà del

paziente stesso,

la decisione di sottoporsi alle cure.

Reinserimento

La differente concezione della malattia oncologica, ieri affezione spesso fatale diventata

oggi

affezione cronica, estende senza alcun dubbio il campo di intervento dei professionisti

della

salute. Le remissioni e le guarigioni permettono una "demarginalizzazione" del malato di

cancro nell'immaginario collettivo; se un buon adattamento familiare e coniugale, sociale e

professionale del paziente ne è la premessa indispensabile, questo per certi malati può

rivelarsi

difficile ed i problemi connessi possono provocare una crisi di ordine esistenziale.

La fine delle terapie e l'entrata nella fase di remissione sul piano medico non sono sempre

concomitanti con la risoluzione della crisi legata alla malattia e al suo trattamento; pertanto

occorre prestare una costante attenzione alla situazione emotiva di angoscia del paziente ed

alle sue multiformi manifestazioni, quando la perdita di una buona relazione con il medico

lascerà il posto ad un reale sentimento di insicurezza.

La sindrome della spada di Damocle e lo stato di preoccupazione e di ansia che ne

derivano

possono infatti assumere le caratteristiche di una vera "seconda malattia".

119

Cure palliative

Le cure palliative sono definite dall'OMS (1990): "cure globali attive, rivolte ai pazienti

la cui patologia non risponde o non risponde più ai trattamenti di tipo curativo".

Attualmente in Italia le Cure Palliative sono per lo più praticate nell'ambito dei Servizi di

Terapia del Dolore che, attraverso un'attività di carattere ambulatoriale e di assistenza

domiciliare, lavorano per il mantenimento del migliore livello di qualità di vita dei malati

presi

in carico.

Lo psiconcologo ha fatto parte dell'equipe fin dalle origini delle Cure Palliative, ricoprendo

ruoli

che si sono delineati e trasformati nel tempo.

C'è ora un generale accordo nel considerare quale ruolo prioritario - anche se non esclusivo

-

dello psiconcologo che opera nell'ambito delle Cure Palliative quello della formazione

psicologica e della supervisione dell'equipe di assistenza. Viene spesso richiesta allo

psiconcologo un'attività di consulenza all'equipe stille problematiche psicologiche e

relazionali

che si presentano Del corso dell'assistenza al paziente.

Supporto alla famiglia

La diagnosi di cancro determina notevoli ripercussioni sull'equilibrio della struttura

familiare. Il

processo di reazione della famiglia al cancro dipenderà da diversi fattori quali età, sesso,

tipo

di patologia e ruolo del paziente all'interno della famiglia, ciclo vitale della famiglia stessa,

eventuale presenza di conflitti fra i membri, modalità di espressione delle emozioni, etc.

Il modo in cui la famiglia e toccata nel presente (e dunque essa reagisce) al tumore può

lasciare delle conseguenze spesso gravi e durature. A volte la malattia può portare un

membro

della famiglia ad esplicitare una richiesta di aiuto sia per le ripercussioni del cancro, sia per

problematiche preesistenti all'evento malattia.

Nel sistema malato-famiglia-équipe, spesso si osservano giochi di alleanza e di esclusione

che

120

a volte possono persino condurre al rifiuto del trattamento, al ricorso a medicine alternative

(e

al rifiuto di tutto ciò che è medico) o, al contrario, ad un'alleanza troppo stretta curante-

famiglia che può escludere il paziente (cose non dette, richiesta di eutanasia da parte di

terzi

ecc.).

Aspetti psicologici specifici in pediatria

Le percentuali di guarigione sono importanti in oncopediatria, dove un 'enorme attenzione

e

riservata allo sviluppo del bambino ed al suo ambiente familiare. Il livello di

partecipazione dei

genitori all'iter clinico del proprio figlio, il rispetto del bambino come interlocutore, le

condizioni

dell' ospedalizzazione (attività ludiche, scolastiche ecc.) sono essenziali per l'adattamento

del

piccolo paziente.

Il rischio di conseguenze psichiche necessita di un' organizzazione particolare delle

condizioni

terapeutiche e dei trattamenti complementari (in particolare del dolore).

In età pediatrica l'intervento psicologico è condotto in una prospettiva di sviluppo, quindi è

orientato a sostenere il paziente nel suo percorso di crescita generale, mantenendo

condizioni

di vita reale e mentale il più possibili normali.

Il lavoro è svolto secondo un'ottica multidisciplinare; si configura come un

accompagnamento

all'esperienza, che parte dalla comunicazione della diagnosi ai pazienti e ai genitori e

prosegue

lungo tutto l'iter terapeutico.

121

MODALITA’ DI INTERVENTO

� CON IL PAZIENTE

Il primo incontro con il paziente si basa essenzialmente su un colloquio clinico volto a

raccogliere informazioni generali. Gli strumenti utilizzati per questo scopo sono la

Cartella Clinica Psicologica (CCP) composta da 8 sezioni ed un diario clinico finale. Le 8

sezioni riguardano: dati anagrafici, condizioni socio-culturali, aspetti medici, valutazione

delle relazioni familiari, consapevolezza e conoscenza relativa alla propria malattia,

valutazione del rapporto con il team curante e con la struttura ospedaliera, aspettative e

richieste, valutazione conclusiva.

Il diario clinico serve ad annotare brevi colloqui successivi al primo incontro.

� CON IL NUCLEO FAMILIARE

L’intervento sul nucleo familiare si basa su un colloquio clinico guidato con la figura di

riferimento o con il familiare che ne faccia richiesta.

Lo strumento utilizzato a tal fine è la Scheda Familiari che si compone di 9 sezioni più gli

Aggiornamenti: fonte dell’indicazione di rivolgersi allo psicologo, grado di parentela, età,

ruolo svolto nell’assistenza, grado di consapevolezza della patologia del paziente,

valutazione delle relazioni intrafamiliari prima della malattia, valutazione delle relazioni

intrafamiliari dopo la scoperta della malattia, grado di soddisfazione rispetto al team

curante e alla struttura ospedaliera, aspettative ed esigenze.

122

Attività di prevenzione primaria

Campagne informative negli interventi di medicina preventiva

Le campagne di informazione al pubblico (fumo, corretta alimentazione, ecc.), purché

adeguate e non terroristiche, hanno un ruolo centrale nella prevenzione primaria e

secondaria dei tumori. Ad esempio, una maggiore conoscenza dei fattori che

contribuiscono all'insorgenza dell'abitudine al fumo o che aumentano il rischio di ricaduta

dopo l'astinenza, dovrebbe permettere di migliorare l'efficacia dei programmi realizzati, in

particolare, nelle scuole. È altresì importante trasmettere ai bambini ed ai ragazzi messaggi

chiari e corretti circa l'adozione di un equilibrato comportamento alimentare, necessario

per il mantenimento della salute.

Alcuni studi hanno dimostrato, sia nel caso dell'informazione sui danni del fumo sia nel

caso della sensibilizzazione della popolazione femminile a campagne di screening dei

tumori al seno, come l'esposizione ripetuta a messaggi che tendono a indurre paura risulti

efficace solo nei soggetti che tendo no ad essere spaventati gia di per se; tali messaggi

possono invece portare altre persone ad una negazione degli stessi per evitare l'angoscia

indotta, fino ad una specie di desensibilizzazione. Appare dunque globalmente più

vantaggioso enfatizzare gli effetti positivi dei comportamenti che si desidera indurre, come

l'importanza di una diagnosi tempestiva nel caso del cancro.

Oltre ad intervenire sul messaggio informativo, nell'ambito dello screening lo psiconcologo

può collaborare all'individuazione delle modalità comunicative più adeguate a garantire un

approccio il più possibile sereno alle iniziative di prevenzione.

123

Conclusioni

Ad oggi, uno dei tumori più temuti è ancora lui, quello della prostata, e non solo per la

patologia in sé, quanto per le potenziali conseguenze negative, come l’impotenza sessuale,

che possono derivare dalle sue terapie. Il cancro della prostata, dopo quello del polmone,

rappresenta la seconda causa di morte maschile. Tutto questo significa che in Italia il 7%

della popolazione fra i 50 e 75 anni viene colpito dalla neoplasia e di questi il 3% muore.

La prostatectomia radicale rappresenta la terapia più efficace del carcinoma prostatico

localizzato; inoltre, per i tumori in stadio precoce e per i soggetti relativamente giovani è la

metodica più sicura e quella che fornisce i migliori risultati a lungo termine. La

prostatectomia radicale è un intervento noto da molto tempo, ma che soltanto negli ultimi

10-15 anni è divenuto molto popolare, tanto che in molti Servizi di Urologia è tra gli

interventi più frequenti. E’ un intervento complesso, che deve soddisfare al meglio due

obiettivi: eradicare il tumore con sufficiente margine di sicurezza e garantire una buona

qualità di vita. Poiché la prostata è implicata in due importantissime funzioni che

riguardano la continenza delle urine e la potenza sessuale, la compromissione di una o

entrambe queste funzioni può incidere sulla qualità di vita dei pazienti sottoposti a questo

tipo di intervento.

Per aiutare il paziente nella difficile scelta del trattamento più efficace dal punto di vista

della salvaguardardia della salute, ma che rispetti allo stesso tempo le esigenze personali da

un punto di vista della qualità di vita, la comunicazione tra medico e paziente assume un

ruolo fondamentale.

Come dimostrato dalle risposte al NEQ, spesso i pazienti lamentano una insufficiente

informazione da parte dei medici.

L’apporto di informazioni è in genere un’aspettativa importante, specialmente nel contesto

dell’oncologia dove l’incertezza è più frequente. Ma le attese, sia riguardo al contenuto

delle informazioni che al modo di trasmetterle, possono variare da individuo a individuo.

Alcuni pazienti desiderano un’informazione completa e precisa riguardo alla malattia e alla

prognosi, e desiderano partecipare alle scelte terapeutiche; altri desiderano essere informati

al massimo livello ma lasciano ai medici ogni decisione di tipo sanitario.

Alcuni desiderano che i medici si accostino ai loro problemi psicologici, altri preferiscono

una discrezione a riguardo.

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L’approccio psico-oncologico integrato (API) è teso alla considerazione del disagio

psichico dei pazienti con una modalità di intervento che promuove la collaborazione di

tutti i ruoli sanitari, poiché integrata nella quotidianità e nella globalità degli altri interventi

convenzionali (clinici ed assistenziali).

L’integrazione tra cultura medica e psicologica è ancora poco considerata ed ha raggiunto

livelli diversi in relazione ai diversi contesti ospedalieri. L’API consiste in un intervento

psicoeducazionale e si caratterizza come un approccio che coniuga l’intervento

strettamente educativo, consistente nel dare informazioni, con il sostegno psicologico che

ha la funzione di supportare il paziente nell’elaborazione affettiva e cognitiva delle

dinamiche emozionali relative alla malattia.

Il principale obiettivo è quello di favorire un miglior adattamento alla malattia attraverso la

comprensione di essa e, dunque, mediante la promozione di un atteggiamento (coping)

attivo e positivo nei confronti del percorso di cura.

Gli obiettivi specifici sono quelli di fornire ai pazienti informazioni chiare e corrette

riguardo ai diversi aspetti della malattia, realizzare una buona comunicazione tra il

paziente e l’équipe curante; stimolare i pazienti ad un coinvolgimento attivo nella gestione

della cura.

Il modello psicoeducazionale si basa su 4 temi fondamentali: educazione alla salute;

gestione dello stress; capacità di coping; sostegno psicologico. Il programma

psicoeducazionale affronta i seguenti argomenti: l’adattamento alla malattia e la gestione

dello stress (psicologo); gli aspetti chirurgici e ricostruttivi (chirurgo); gli aspetti medici

oncologici (oncologo più infermiere professionale); il trattamento radioterapico

(radioterapista più tecnico di radiologia); la riabilitazione fisica (fisiatra più fisioterapista).

Organizzare un intervento psicoeducazionale vuol dire realizzare un approccio pluri ed

interdisciplinare con il fine di rivolgersi alla persona malata nella sua totalità e rispondere

ai suoi bisogni globali.

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