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1 UNIVERSITADEGLI STUDI DI VERONA LAUREA IN SCIENZE DELLA FORMAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI TESI DI LAUREA LE RADICI ETICHE DELLA CRISI FINANZIARIA GLOBALE Relatore: Prof. CARLO CHIURCO Laureando: THOMAS MINIO matricola n. VR357367 ANNO ACCADEMICO 2013-2014

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI VERONA

LAUREA IN SCIENZE DELLA FORMAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI

TESI DI LAUREA

LE RADICI ETICHE DELLA CRISI FINANZIARIA GLOBALE

Relatore: Prof. CARLO CHIURCO

Laureando: THOMAS MINIO matricola n. VR357367

ANNO ACCADEMICO 2013-2014

2

INTRODUZIONE

THE GHOST OF TOM JOAD

Men walkin’ ’long the railroad tracks

Goin’ some place, there’s no goin’ back

Highway Patrol choppers comin’ up over the ridge

Hot soup on a campfire under the bridge

Shelter line stretchin’ round the corner

Welcome to the new world order

Families sleepin’ in their cars in the Southwest

No home no job no peace no rest

The highway is alive tonight

But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes

I’m sittin’ down here in the campfire light

Searchin’ for the ghost of Tom Joad

He pulls a prayer book out of his sleeping bag

Preacher lights up a butt and takes a drag

Waitin’ for when the last shall be first and the first shall be last

In a cardboard box ’neath the underpass

Got a one-way ticket to the promised land

You got a hole in your belly and gun in your hand

Sleeping on a pillow of solid rock

Bathin’ in the city aqueduct

The highway is alive tonight

Where it’s headed everybody knows

I’m sittin’ down here in the campfire light

Waitin’ on the ghost of Tom Joad

Now Tom said “Mom, wherever there’s a cop beatin’ a guy

Wherever a hungry newborn baby cries

Where there’s a fight ’gainst the blood and hatred in the air

Look for me Mom I’ll be there

Wherever there’s somebody fightin’ for a place to stand

Or decent job or a helpin’ hand

3

Wherever somebody’s strugglin’ to be free

Look in their eyes Mom you’ll see me.”

Well the highway is alive tonight

But nobody’s kiddin’ nobody about where it goes

I’m sittin’ down here in the campfire light

With the ghost of old Tom Joad.

Bruce Springsteen (1995)

IL FANTASMA DI TOM JOAD

Uomini a piedi lungo i binari della ferrovia

Vanno da qualche parte, è una via senza ritorno

Elicotteri della stradale spuntano dall’orizzonte

C’è zuppa calda sul fuoco per chi bivacca sotto i ponti

La fila per il ricovero fa il giro dell’isolato

Benvenuti nel Nuovo Ordine Mondiale

Famiglie che dormono in macchina nel Sudovest

Niente casa niente lavoro niente pace niente riposo

L’autostrada è viva stanotte

Ma nessuno si fa troppe illusioni su dove porti

Io sto seduto quaggiù nella luce davanti al fuoco

Cerco il fantasma di Tom Joad

Tira fuori un libro dal sacco a pelo

Il predicatore accende un mozzicone e fa una tirata

Aspettando il giorno che gli ultimi saranno i primi ed i primi saranno gli ultimi

In uno scatolone nel sottopassaggio

Ho un biglietto di sola andata per la terra promessa

Hai un buco in pancia e una pistola in mano

Dormi su un cuscino di sasso

Ti lavi nell’acquedotto municipale

L’autostrada è viva stanotte

Ma dove va a finire ognuno lo sa

Io sto seduto quaggiù nella luce davanti al fuoco

4

Aspetto il fantasma di Tom Joad

Dunque Tom disse: “Ma’, dovunque c’è un poliziotto che pesta un ragazzo

Dovunque c’è un neonato che piange per la fame

Dovunque si combatte sangue contro sangue e si respira odio

Tu cercami, Ma’, e mi troverai li

Dovunque ci si azzuffa per un posto in cui stare

O un lavoro decente o una mano soccorrevole

Dovunque qualcuno si batte per la propria libertà

Tu guarda nei loro occhi, Ma’, e vedrai me. ”

Dunque l’autostrada è viva stanotte

Ma nessuno si fa troppe illusioni su dove porti

Io sto seduto quaggiù nella luce davanti al fuoco

Con il fantasma di Tom Joad.

Ho scelto di iniziare la mia tesi con la canzone che Bruce Springsteen ha scritto nel 1995; a

me per primo è servita da stimolo per cercare di capire cosa c’è che non va in questo mon-

do. L’autore scrive «benvenuti nel Nuovo Ordine Mondiale», frase tanto dura, quanto vera.

Questa ballata parla di Tom Joad, un personaggio del notissimo libro di John Steinbeck The

grapes of wrath, uscito in Italia con il titolo Furore. Libro considerato un capolavoro dalla cri-

tica mondiale, racconta i drammi familiari di migliaia e migliaia di persone dopo la crisi del

1929.

Springsteen ha tradotto in versi questo libro, adeguandolo ai nostri tempi e lo ha fatto nel

1995, anzitempo rispetto la crisi finanziaria scoppiata un decennio dopo, con uno sguardo

lungo sul futuro. Parla di Nuovo Ordine Mondiale, dopo aver descritto una scena che si

commenta da sola e non lo fa a caso: il presidente Bush aveva usato questo termine parlan-

do alle Nazioni Unite nel 1990:

«[…] la forza collettiva che esprimerete è qualcosa di storico che guarda al Nuovo Ordine

Mondiale e questa unione sembra dimostrare che il genere umano abbia finalmente iniziato

a guardarsi negli occhi: iniziamo assieme il cammino verso la nuova era.»

….ed anche in un’altra occasione:

5

«Non si parla di un solo piccolo Paese, ma di una grande idea, di un Nuovo Ordine Mon-

diale che consenta di realizzare le aspirazioni dell’umanità intera, basato su principi condivi-

si e sul rispetto delle leggi […] mille punti di luce che compongono una luce sola […] il

vento del cambiamento è con noi.»

La seconda parte della canzone mi ha colpito nel passaggio in cui l’autore fa parlare il pro-

tagonista, egli esprime alla madre il desiderio di essere in ogni luogo in cui ci saranno ingiu-

stizie. Leggo questa parte del brano pensando che ognuno di noi dovrebbe essere un po’

come Tom Joad; ciascuno a modo proprio. Chi sul campo, chi nello studio, chi con la co-

municazione, ma più di tutto tenendo tutti un comportamento amorevole e solidale verso il

prossimo.

Il romanzo di Steinbeck uscito nel 1939 racconta della crisi del 1929. Springsteen scrive la

canzone nel 1995, sembra che poco o nulla sia cambiato nel frattempo. Eppure in quella

parte di mondo, che siamo soliti definire occidente civilizzato e che sfrutta le maggiori ri-

sorse del pianeta, ci siamo accorti di quello che narrano Steinbeck e Springsteen solo quan-

do l'attuale crisi finanziaria ci ha portato in tanti a constatare la dura realtà: il nuovo ordine

mondiale non ha risolto tutto e non ha mantenuto le promesse fatte con tanta determina-

zione.

È importante ripercorrere la storia, a partire dal 1929 e fino all'inizio del XXI secolo, per

comprendere le radici comportamentali che ci hanno portato a questa crisi finanziaria

mondiale. Intendo illustrare questa tesi proponendo un’analisi storico-politico-economica

in primis, seguita da una sociologica. Proporrò un’alternativa, quella di una società della de-

crescita, grazie all’illuminante testo di Serge Latouche, La scommessa della decrescita. Con-

cluderò con una intervista che ho fatto ad un ex manager e amico, che in questi ultimi anni

è stato un esempio per me e che mi ha coinvolto e reso attore in un’avventura, quella del

volontariato, che mi ha e mi sta formando ogni giorno.

6

1. POLITICA ED ECONOMIA POST NEW DEAL

La Scuola di Chicago. Dopo la seconda guerra mondiale, la paura che potesse verificarsi

nuovamente un terzo conflitto fu la prima cosa che i paesi vincitori del nazismo vollero af-

frontare e risolvere. Fu chiaro subito che rendere gli sconfitti incapaci di creare nuovamen-

te i presupposti per la nascita di nuove dittature, non poteva non passare attraverso un pia-

no economico e politico basato sugli aiuti, in modo da rendere le situazioni sociali abba-

stanza stabili.

Il grande economista John Mainard Keynes fu ascoltato e palesò la sua linea. Il pensiero

keynesiano proponeva una democrazia con una forma di governo in cui lo Stato doveva es-

sere attore protagonista sulla scena sociale ed economica di un paese; spazio alle libere im-

prese, ma con un mercato fortemente regolamentato da leggi dello Stato, con una sorta di

monopolio nel campo della sanità e dell’istruzione. C’era chi però questa visione non la

condivideva affatto, per motivi ideologici o di profitto. Nei paesi delle grandi dittature co-

muniste (URSS e Cina) lo Stato era l’unico attore e gestore di tutto, con limitazioni delle li-

bertà personali in moltissimi campi della vita, se non in tutti. L'alternativa opposta a questi

pensieri era che lo Stato non dovesse affatto essere attore sul mercato in quanto

quest’ultimo, lasciato vivere di vita propria senza interferenze, si sarebbe autoregolato con

un conseguente equilibrio sociale ed economico e una libertà sostanziale per tutti.

Milton Friedman, economista e guru del capitalismo senza regole in quanto autoregolante,

è considerato il fondatore di una scuola di pensiero, la cosiddetta “scuola di Chicago”, la

maggior parte degli economisti fedeli a questa linea provenivano dalla Facoltà di Economia

dell’Università di Chicago. Il pensiero di questi studiosi, economisti (Friedman in primis) di

fama mondiale con conoscenze ad altissimi livelli politici e finanziari (governo americano,

Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale per citare i più importanti), era tutto

sommato semplice: privatizzare, deregolamentare e tagliare la spesa sociale quasi comple-

tamente (Laissez-faire era il nome per identificare questo approccio politico-economico).

Non erano tempi facili per loro, nonostante vivessero negli Stati Uniti nel periodo della

guerra fredda contro il comunismo, la popolazione ed i politici del tempo non erano affatto

disposti ad abbracciare questa seppur apparentemente democrazia, in quanto estrema. Ed

anche se Friedman era molto considerato negli ambienti politici, non riusciva a far breccia

7

ed imporre questa linea al governo americano. Fu così che decisero di esportare e speri-

mentare all’estero le loro teorie, precisamente in Cile. La cosa fondamentale per poter im-

porre questa nuova forma di capitalismo estremo era, per Friedman, crearne i presupposti.

Uno shock, una situazione di crisi sociale che permettesse ai governanti di attuare misure

drastiche, sfruttando lo stato di confusione della popolazione. La situazione del Cile ad ini-

zio degli anni settanta si presentò propizia. L’allora nuovo presidente eletto, Allende, stava

creando paure e perplessità negli ambienti politici e soprattutto economici degli Stati Uniti;

questo socialismo democratico non era ben visto, si era ancora in piena guerra fredda. Co-

me ben noto la CIA e la multinazionale americana ITT (International Telephone Tele-

graph) hanno sostenuto il colpo di Stato in Cile dell’11 settembre 1973, storia documenta-

ta1. Quello che molti non sanno è che prima, durante e dopo il drammatico 11 settembre, la

Scuola di Chicago ha ospitato e istruito molti futuri economisti cileni, divenuti in seguito

membri del governo del dittatore Pinochet. A partire dal 1956 infatti, grazie al “Progetto

Cile”, un centinaio di studenti cileni seguirono i corsi di laurea avanzati presso l’Università

di Chicago fino al 1970; le loro rette erano pagate dai contribuenti e da fondazioni statuni-

tensi2. Non è segreto poi, Pinochet stesso ha raccontato vantandosene, che Friedman fu il

suo più importante consigliere3.

Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976, sostenne che il New Deal era sta-

to un fallimento totale. Affermò che fu proprio allora che tanti Paesi, «compreso il mio,

hanno sbagliato strada». 4 Nel suo primo libro, Capitalismo e Libertà, enunciò quelle che sa-

rebbero state le nuove regole del liberismo globale: deregulation, privatizzazione e tagli.

Importante, vista l’elevatura culturale mondiale che ha avuto e considerando che lui più di

tutti fu l’ambasciatore della Scuola di Chicago, sottolineare il fatto che nel 1989, dopo i fatti

di Tienanmen (quando il governo cinese soppresse violentemente un movimento filode-

mocratico a Pechino, impedendo così la protesta contro un regime che voleva aprire agli

1 Subcommittee on Multinational Corporations, «The international Telephone and Telegraph Company and Chile, 1970-71»,Report to the committee on Foreign Relations United States Senate by The Subcommittee on Multinational Corporations,21 giugno 1973, p.13. 2 Valdés, Juan Gabriel Pinochet’s Economists: The Chicago School in Chile.Cambridge University Press, 1995, pp.110. Orlando Letelier, The Chicago Boys in Chile: Economic Freedom’s Awful Toll, «The Nation», 28 giugno 1976. 3 Lettera di Milton Friedman al Generale Augusto Pinochet, del 21 aprile 1975. 4 Friedman e Friedman, Two Lucky People: Memoirs. Chicago: University of Chicago Press,1998 p. 594.

8

investimenti privati in Cina, continuando a mantenere il potere politico in modo dittatoria-

le), il Nobel per l’economia condannò l’uso della repressione da parte del governo cinese,

ma considerò la Cina un esempio «dell’efficacia del libero mercato nel promuovere prospe-

rità e libertà».5

Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. La Banca internazionale per la ri-

costituzione e lo sviluppo (BIRS o Banca Mondiale) è un’istituzione finanziaria internazio-

nale creata nel 1944 a seguito degli accordi di Bretton Woods. L’obiettivo iniziale di finan-

ziamento della ricostruzione postbellica si è ampliato nel tempo, fino a comprendere la ri-

duzione della povertà, la promozione dello sviluppo equo e sostenibile, la gestione di pro-

blematiche a livello regionale e mondiale. Tali finalità sono perseguite mediante

l’erogazione di prestiti e sovvenzioni, la concessione di garanzie e l’offerta di prodotti di ge-

stione dei rischi e di servizi di consulenza e assistenza tecnica. 6 Il Fondo monetario inter-

nazionale (FMI) è un’istituzione finanziaria internazionale creata nel 1944 a seguito degli

accordi di Bretton Woods con l’obiettivo di promuovere la cooperazione monetaria inter-

nazionale, la crescita del commercio mondiale, la stabilità degli scambi e del sistema valuta-

rio; sostenere la crescita economica, la creazione di occupazione e la riduzione della pover-

tà; offrire assistenza finanziaria ai paesi che presentano squilibri della bilancia dei pagamen-

ti.

Questi obiettivi sono perseguiti attraverso cinque strumenti principali: (a) la sorveglianza

sulle politiche economiche e di cambio; (b) le attività di ricerca e raccolta di informazioni

statistiche finalizzate all’analisi degli sviluppi economici nazionali, regionali e globali; (c)

l’erogazione di prestiti a paesi in difficoltà e a quelli in via di sviluppo con l’obiettivo di so-

stenerne le politiche di contrasto alla povertà; (d) la fornitura di servizi di assistenza tecnica.

7

Nel 1994 il partito Africal National Congress (ANC), con a capo Nelson Mandela uscito

dal carcere quattro anni prima, vinse le elezioni in Sud Africa. Quell’orribile cosa, chiamata

Apartheid, sembrava potesse finire del tutto con la vittoria di Mandela. Ma sebbene avesse

5 Friedman e Friedman, Two Lucky People: Memoirs, cit., p. 516. 6 www.worlbank.org 7 www.imf.org

9

vinto le elezioni e si apprestasse a governare, le cose non andarono come speravano. Il par-

tito vincitore voleva rendere tangibili i sogni della Freedom Charter, una sorta di program-

ma politico il quale, oltre all’abolizione dell’apartheid, comprendeva diverse riforme tra le

quali il controllo statale diretto della Banca Nazionale ed in generale una politica che ren-

desse il Sud Africa autonomo e libero dopo anni di segregazione razziale. La preoccupazio-

ne principale di Mandela era quella di evitare una guerra civile, ed il paese era molto vicino

a causa di una situazione economico-sociale pessima. Pertanto una delegazione dell’ANC

dovette sedersi ad un tavolo con l’opposizione (i leader dell’apartheid) e trattare le riforme

ed il passaggio di consegne dal vecchio al nuovo governo; e questa trattativa portò ad una

serie di azioni che in pratica “smontarono” il programma politico ed economico scritto nel-

la Freedom Charter.

La redistribuzione della terra in primis, non fu possibile in quanto i negoziatori accettarono

una clausola alla nuova costituzione che proteggeva ogni forma di proprietà privata e ren-

dendo di fatto impossibile una riforma agraria.

La creazione di nuovi posti di lavoro fu resa altrettanto impossibile in quanto nel frattempo

l’ANC si era iscritto al GATT (il precursore del WTO8), che rese illegale finanziare le fab-

briche di automobili e gli stabilimenti tessili.

L’acquisto massiccio di farmaci per curare i malati di AIDS, per curare le migliaia di perso-

ne nelle township (i ghetti creati dall’apartheid popolati dalla popolazione nera), fu diffici-

lissimo in quanto le medicine erano molto costose e non potevano essere acquistate da case

farmaceutiche che le vendevano a prezzi bassi, a causa di un accordo promosso dal WTO

per i diritti di proprietà intellettuale, al quale l’ANC si era associato (senza alcun dibattito

pubblico).

La costruzione di nuove case nelle township e la possibilità di fornirle di elettricità fu

un’altra azione resa impraticabile: il debito pubblico ereditato dal governo dell’apartheid.

Portare l’acqua gratis per tutti? difficile. La Banca mondiale, con il suo vasto contingente

operativo di economisti, ricercatori e insegnanti, stava trasformando le partnership del set-

tore privato nello standard di servizio.

8 World Trade Organization, www.wto.org

10

Imporre controlli sulla valuta per evitare speculazioni selvagge fu vietato, in quanto avreb-

bero violato un contratto da 850 milioni di dollari siglato dal Fmi, firmato prima delle ele-

zioni. Così come fu impossibile aumentare il salario minimo per ridurre il divario creato

dall’apartheid, in quanto il contratto del Fmi prevedeva il “controllo dei salari”.9 Vishnu

Padayachee, un economista che era al servizio dell’ANC, sostiene che niente di tutto quello

accadde fu a causa di tradimenti da parte dei leader dell’ANC, ma semplicemente perché

furono sopraffatti da una serie di questioni che all’epoca non apparivano cruciali, ma che

poi avrebbero messo a repentaglio la futura libertà del Sudafrica.

Di sicuro il ruolo svolto dalla Banca mondiale, dal Fmi e WTO, fu molto importante nel

definire e potremo dire “suggerire” al nuovo governo la linea politica ed economica da se-

guire. Banca mondiale e Fondo monetario internazionale si trovano oggi, dopo oltre cin-

quant'anni, a confrontarsi con una realtà che, dal punto di vista economico, politico e socia-

le, presenta caratteristiche notevolmente diverse da quelle che aveva al momento della loro

istituzione. Si sono trasformate in agenzie di sviluppo. Questo è un fatto positivo, si sono

adeguate al cambiamento; ciò che però è preoccupante, visto che si parla di istituzioni nate

per essere imparziali, è il fatto che sono arrivate ad avere un’influenza tale nella progetta-

zione e sviluppo delle politiche economiche dei Paesi che richiedono il loro aiuto, che sem-

bra si sostituiscano ai governi stessi.

9 Mark Horton “Role of fiscal Policy in Stabilization and Poverty Alleviation”, in Post-Apartheid South Africa:

The First Ten Years, a cura di Michael Nowak e Luca Antonio Ricci, International Monetary Fund, Washing-ton, DC 2005, p. 84.

11

2. LA SOCIETA’ DELLA CRESCITA

La quantità di foreste, acqua e terra disponibile è li-

mitata. Se tutto viene trasformato in climatizzatori,

patatine fritte e automobili, si arriverà al momento in

cui non resterà più niente.

ARUNDHATY ROY10

La nostra società si è legata ad un destino che la condanna a crescere senza mai fermarsi; è

fondata sull’accumulazione illimitata e non può permettersi di rallentare perché ogni volta

che ciò accade, è il panico. Infatti la necessità dell’accumulazione illimitata fa della crescita

un circolo vizioso: la capacità di mantenere in piedi la spesa pubblica presuppone il costan-

te aumento del Prodotto Interno Lordo (P.I.L.). Contemporaneamente, l’uso della moneta

e soprattutto del credito, per poter permettere il consumo e gli investimenti a chi altrimenti

non potrebbe, impongono la crescita. Il Nuovo Ordine Mondiale non ha mantenuto le

promesse, si potrebbe affermare, in quanto questa nostra società:

- Produce disuguaglianze

- Crea un benessere illusorio

- Sviluppa una “antisocietà” malata della sua ricchezza e poco armoniosa per gli stes-

si ricchi

La prima questione è abbondantemente illustrata nei rapporti dell’Unpd (Programma delle

Nazioni Unite per lo sviluppo). Nel 2004 il Pil mondiale è arrivato a oltre 40.000 miliardi di

dollari, ossia una ricchezza sette volte superiore rispetto a quella di cinquant’anni prima.

Nel 1970, il divario di ricchezza tra il quinto della popolazione più povero e il quinto più

ricco era di 1 a 30, ma nel 2004 questo rapporto era di 1 a 74. Nel 1960, il 70 per cento dei

redditi globali era appannaggio del 20 per cento degli abitanti più ricchi; trent’anni dopo,

10 A. Roy, Defaire le developpement, sauver le climat, “L’Ecologiste”, 6, inverno 2001, p. 7.

12

questa quota è salita all’83 per cento, mentre quella del 20 per cento dei più poveri è dimi-

nuita dal 2,3 all’1,4 per cento. Inoltre, il 5 per cento degli abitanti del pianeta dispone di un

reddito 114 volte superiore a quello del 5 per cento dei più poveri. 11

Come si può dunque mettere fine a queste disuguaglianze continuando a spingere

sull’acceleratore della crescita, quando è proprio la macchina della crescita che ha portato a

crearle? Questa nostra società è in crisi, in quanto non permette alla maggior parte delle

persone di guadagnarsi da vivere in modo onesto.

La seconda questione è altrettanto vera ed importante: l’ossessione del Pil porta e conside-

rare positiva ogni produzione ed ogni spesa, includendo perciò anche quelle relative a pro-

duzioni nocive e conseguenti spese per neutralizzare le prime. Osserva Hervé-René Martin

: «A onor del vero, bisogna però dire che i disastrosi effetti sociali e ambientali provocati

dal sistema di produzione industriale (materie plastiche in testa) e dai modi di vita che indu-

ce, uccidono infinitamente più persone di quanto filtri e protesi in plastica riusciranno mai

a salvarne». 12

Esistono probabilità che oltre una certa soglia la crescita del Pil si traduca in una diminu-

zione del benessere, se analizziamo razionalmente quanto affermato sopra.

La terza questione è ancor più paradossale a mio avviso, in quanto la stessa parte di popo-

lazione (quella ricca del pianeta) che ha voluto e creato il Nuovo Ordine Mondiale, si trova

ad essere “vittima” della propria ricchezza. Se consideriamo la felicità un bene che aumenta

all’aumento del consumo, saremo sempre legati a quest’ultimo; non saremo mai pienamen-

te soddisfatti in quanto se non consideriamo la felicità come il fine ultimo ed il bene più

grande, come si parla nei libri degli antichi filosofi morali, saremo sempre alla ricerca di un

nuovo oggetto o un nuovo potere. Il sociologo Emile Durkheim sostiene che questo pre-

supposto utilitarista della felicità è costituito da un insieme di piaceri legati al consumo

egoista. Questa felicità può portare all’anomia, ovvero quella mancanza di norme sociali en-

11 Unpd (United Nation Development Program), La libertà culturale in un mondo di diversità, Rosenberg & Sellier, Torino 2004 12 H.-R. Martin, La Mondialisation racontée à ceux qui la subissent. La Fabrique du diable., vol. 2, Climats, Parigi 2003. p. 79.

13

tro cui si mantengono i comportamenti individuali, e al suicidio. 13 Secondo

l’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno nel mondo quasi un milione di persone si

toglie la vita, un dato di gran lunga superiore al numero di omicidi (500.000) e alle vittime

di guerra (250.000). 14 Sempre secondo l’Ocse, all’interno dei suoi paese membri, negli ul-

timi trent’anni il tasso di suicidio è aumentato in media del 10 per cento. 15

Il disvalore. Come detto precedentemente, il Pil è fondamentalmente un flusso di ricchez-

za puramente mercantile e monetario. Mentre la crescita è la progressione del Pil, quindi

tutto ciò che essere venduto e che ha un valore monetario, contribuisce ad aumentare il Pil

e la crescita, indipendentemente che questo contribuisca o meno al benessere individuale

collettivo. «Il nostro Pil, » dichiarava Robert Kennedy, «comprende anche l’inquinamento

dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono feriti sulle

strade. Comprende la distruzione delle nostre foreste e la distruzione della natura. Com-

prende il napalm e il costo dello smaltimento delle scorie radioattive. Per converso, il Pil

non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione, del diverti-

mento dei loro giochi, della bellezza della nostra poesia o della solidità dei nostri matrimo-

ni. Non considera il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra sag-

gezza. Misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta».16

E’ stato cosi dominante ed imperante l’economicismo, che solamente nel 1968 grazie al no-

to scrittore, storico e pedagogista austriaco Ivan Illich è stato concettualizzato il termine

“disvalore”, vale a dire «quel genere di perdita […] che non può essere valutato con catego-

rie economiche». Illich cita l’esempio di chi perde l’uso effettivo dei suoi piedi in seguito al

monopolio radicale imposto dalle auto nell’ambito della locomozione, affermando giusta-

mente a mio avviso, che i piedi non sono dei semplici mezzi di locomozione come ritengo-

no alcuni ingegneri del traffico. Ma siamo talmente sopraffatti dal dominio culturale eco-

13 C. Laval, L’ambition sociologique, Saint-Simon, Comte, Tocqueville, Marx, Durckheim, Weber, La Découverte, Parigi

2002, pp. 255-258. 14 J.-P. Besset, La scelta difficile. Come salvarsi dal progresso senza essere reazionari, Dedalo, Bari 2007, p. 258. 15 S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2012 p. 41.

16 Citato da D. Rasmussen, The priced versus the priceless, “Interculture” (Montreal), 147, ottobre 2004.

14

nomicista, che non ci accorgiamo nemmeno di questa perdita, che l’autore austriaco chiama

appunto “disvalore”. 17

Il problema di come misurare la felicità. A questo punto è necessario stabilire come e se

è possibile misurare la felicità. Abbiamo visto che il Pil e la sua crescita non sono degli indi-

catori affidabili, nel senso che i dati affermano che l’aumentare del Pil non ha prodotto un

aumento della felicità. Forse è necessario aggiungere ed usare degli indicatori alternativi del

benessere, come l’Indicatore dello sviluppo umano, GPI (Genuin Progress Indicator) 18o

l’indicatore del progresso autentico, ISS (Indicatore di sanità sociale)19, in modo da estende-

re la valutazione ad aspetti “dimenticati” nella valutazione del benessere. Le convenzioni

sulle quali si fonda il calcolo del Pil sono pertanto arbitrarie, in quanto non contengono al-

cuni indicatori come ad esempio quelli appena citati.

Sondaggi fatti negli Stati Uniti nel 2005 da Gallup per il “Financial Times” affermano che

sebbene “la ricchezza media è più che triplicata nel secondo dopoguerra, passando da

15.000 a 35.000 dollari costanti l’anno […] la percentuale di persone particolarmente felici è

in continua diminuzione dal 1960”. 20 Già nel 1968, l’istituto francese dei sondaggi ha inter-

vistato i cittadini di otto grandi paesi industrializzati: per il 49 per cento degli americani la

felicità è in diminuzione, mentre per il 26 per cento è in aumento; per il 69 per cento au-

menta la propria inquietudine, per il 15 per cento diminuisce […]; per il 79 per cento degli

olandesi la propria serenità diminuisce, mentre per il 4 per cento aumenta. In tutti i paesi

studiati aumenta l’inquietudine dei cittadini. 21 E’ possibile concepire che l’evoluzione del

Pil e dell’Iss e Gpi crea una “forbice” inversa: il Pil diminuirebbe mentre l’Iss e il Gpi au-

menterebbero o resterebbero stabili. Da questa concezione nasce la possibilità della costru-

zione di una società della decrescita; organizzare il ribasso del Pil e il miglioramento dell’Iss

e del Gpi, vale a dire scindere il miglioramento della situazione delle singole persone

dall’aumento della produzione materiale ed occuparsi quindi non più del “ben-avere” ma

17 I. Illich, Nello specchio del passato, Red, Como 1992, pp. 43-44.

18 Calcolato dal 1995 dall’istituto californiano Redefining Progress. Contempla una stima monetaria del volon-

tariato e del lavoro domestico e sottrae una stima monetaria degli affetti negativi ecologici e sociali. 19 Formulato nel 1996 da Marc e Marque-Luisa Miringoff.

20 Dati forniti da E. Le Boucher, “Le Monde”, 16-17 giugno 2005. 21 F. De Closets, En danger de progres, Denoel, Parigi 1970, p. 43.

15

del “ben-vissuto”. 22 Pertanto non si tratta di cambiare solamente il modo di valutare il be-

nessere, la felicità, introducendo nuovi parametri; non sarebbe sufficiente. Ciò che è neces-

sario è un cambiamento culturale radicale, una rivalutazione a 360 gradi. E’ necessario tro-

vare altri indici, non solamente quantitativi. Per rivoluzione, sostiene Latouche, si intende

uscire dagli schemi di valutazione attuali, quelli puramente economici, e abbracciare quelli

sociali. Uscire cioè dal paradosso del pensare all’uscita dall’economia in termini economici.

22 S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit. , p. 56.

16

3. UN’ALTERNATIVA: LA SOCIETA’ DELLA DECRESCITA

Non siamo obiettori di crescita perché non abbiamo

niente di meglio da fare, né per dispetto, ma perché

non sarà più possibile continuare con le dinamiche

seguite fino a oggi. Anche nel caso in cui esistesse la

possibilità di una crescita infinita, per noi questo sa-

rebbe un motivo in più rifiutarla, noi vogliamo rima-

nere semplicemente umani […] La nostra battaglia è

anzitutto una battaglia di valori. Rifiutiamo questa

società di lavoro e di consumo nella mostruosità del-

la sua ordinarietà e non solo nei suoi eccessi.

PAUL ARIES23

Ciò che serve è una rivoluzione culturale, che deve partire proprio dai valori, ecco perché

Aries parla di battaglia di valori. Oggi i valori positivi dominanti sono l’aggressività, il cini-

smo per il raggiungimento degli obiettivi, l’indifferenza per la sofferenza degli altri, vicini e

lontani. La battaglia sta nel fatto di rinforzare altri valori e far si che l’altruismo prenda il

sopravvento sull’egoismo, la cooperazione sulla competizione sfrenata, il piacere di diver-

tirsi sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il locale

sul globale, il gusto per il bello sull’efficienza produttiva, il ragionevole sul razionale, il rela-

zionale sul materiale ecc. La proposta può essere sinteticamente descritta nella regola delle

8 R: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare,

Riciclare. Tutte azioni che devono formare un cerchio chiuso, un circolo virtuoso, in quanto

legate l’una all’altra. Innanzitutto è importante capire come si è arrivati al punto in cui ci

troviamo, cioè com’è stata possibile questa “colonizzazione delle nostre anime”. Essa ha

preso forma in tre modi e cioè attraverso l’educazione, la manipolazione mediatica e il con-

sumo quotidiano, ovvero il modo di vita concreto. Bisogna rivalutare e di seguito riconcet-

23 P. Aries, La décroissance est-elle soluble dans la modernité?, “Silence”, n. 302, ottobre 2003 p. 31.

17

tualizzare ciò che viene insegnato attraverso l’educazione, vale a dire ciò che permette al

bambino di diventare adulto, cittadino, persona. Essa è tradizionalmente compito delle isti-

tuzioni scolastiche, ma non deve fermarsi a questo. Se anche gli educatori sono educati ma-

le, come se ne esce? Mettere in pratica valori più consoni a formare cittadini migliori, passa

attraverso tutti noi. Per poter realmente essere rivoluzionari e cambiare, bisogna tutti fare

pratica ogni giorno ed in ogni ambito della nostra vita. Per crescere i nostri figli nella spe-

ranza che non commettano gli stessi errori e che diano più importanza a certi valori piutto-

sto che ad altri, non imponiamoglielo ma diamogli gli strumenti per pensare in modo criti-

co e diamo loro la nostra fiducia affinché essi possano costruire un proprio senso critico.

In questo modo si potrà contrastare la manipolazione mediatica, altra forma che ha costrui-

to questa società. Essa è uno strumento fondamentale di veicolazione di informazioni,

creazione di bisogni. Si possono fare innumerevoli esempi, dai manipolatori lampanti come

le società multinazionali e le lobby economiche (Monsanto, Novartis, Bayer), gli stati na-

zionali e i loro servizi specializzati (Cia, KBG): quando è stata diffusa la presenza di armi di

distruzione di massa che ha dato il pretesto al governo Bush per dichiarare guerra all’Iraq.

L’inganno è stato poi svelato, ma la disinformazione aveva ormai raggiunto il suo scopo. E’

interessante la dichiarazione del direttore dell’emittente privata francese TF1, Patrick Le

Lay: «Ci sono molti modi di parlare di televisione. Ma all’interno di una prospettiva di ‘bu-

siness’, dobbiamo essere realisti: fondamentalmente, il compito di una televisione come la

nostra, è aiutare Coca-Cola, per esempio, a vendere il suo prodotto. Ora, affinchè un mes-

saggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponi-

bile. Le nostre trasmissioni hanno il compito di renderlo disponibile divertendolo e di-

straendolo tra un messaggio e l’altro. Noi vendiamo a Coca-Cola tempo di cervello umano

disponibile». 24 Infine agire sul modo di vita concreto è basilare, perché se l’educazione e la

manipolazione hanno formato cittadini malati, indubbiamente è il comportamento costan-

te, attraverso il consumismo, che ha consolidato e reso difficile da invertire il nostro modo

di vivere.

La terza fase, in seguito alla rivalutazione e riconcettualizzazione, è quella della ristruttura-

zione, ovvero adattare il sistema di produzione e i rapporti sociali in funzione di un cam-

24 P. Viveret, Riconsiderare la ricchezza, Edizioni Terre di Mezzo, Milano 2005 p. 32.

18

biamento di valori. In questo momento è in gioco la costruzione della società della decre-

scita. Passando alla quarta R, quella della ridistribuzione, è una logica conseguenza del pas-

saggio precedente in quanto ristrutturare è già una forma di ridistribuzione. La ridistribu-

zione deve essere fatta sull’insieme degli elementi del sistema: la terra, i diritti di attingere

dalla natura, il lavoro, i redditi, le pensioni ecc. Per ciò che riguarda i rapporti tra Nord e

Sud, non si tratta di dare di più al Sud, ma di attingere di meno.

Rilocalizzare significa utilizzare lo strumento strategico più importante della decrescita e

realizzarne uno dei principale obiettivi. Pensare globalmente, agire localmente. Negli ultimi

anni sono nati moltissime associazioni senza scopo di lucro o almeno non esclusivamente a

tale scopo: imprese cooperative di autogestione, comunità agricole, banche del tempo, co-

mitati di quartiere ecc. ma queste imprese sono destinate a fallire o fondersi nel sistema

dominante, se non vengono sostenute attraverso un cambiamento economico e politico. Se

pensiamo all’esempio delle banche locali, fortemente radicate nelle economie locali, quasi

scomparse con l’espansione delle banche nazionali, a loro volta inglobate da quelle transna-

zionali. Il cambiamento invece dovrebbe partire proprio dal locale, rivitalizzandolo, al Nord

come al Sud. Rilocalizzare significa produrre localmente la maggior parte dei prodotti ne-

cessari alla soddisfazione dei bisogni della popolazione e a partire dalla aziende locali finan-

ziate dal risparmio raccolto localmente. Ciò che può essere prodotto localmente, perché

produrlo al di fuori? Questo è un principio di buon senso più che economico e razionale.

Afferma Lefebvre: «Che cosa importa guadagnare qualche soldo su un oggetto, quando bi-

sogna stanziare grandi somme per garantire la sopravvivenza di una frazione della popola-

zione che non è più in grado di partecipare alla produzione dell’oggetto». 25

Un altro tema importante che deve affrontare la rilocalizzazione, è quello

dell’autoproduzione energetica. Le energie rinnovabili (solare o eolica) sono adatte alla pro-

duzione e all’uso locale ancor di più che su scala nazionale. Con l’inevitabile esaurimento di

alcune energie, prima fra tutte il petrolio, diventerà una necessità agire localmente per poter

risolvere il problema globalmente. Infine non posso non concordare e di seguito citare il

25 Y. Mignon-Lefebvre, M. Lefebvre, Les patrimoines du futur. Les sociétés aux prises avec la monopolisation,

L’Harmattan, Parigi 1995, p. 235.

19

professore Alberto Magnaghi, docente di pianificazione territoriale presso l’Università di

Firenze: «La riterritorializzazione prende avvio dalla restituzione al territorio della sua di-

mensione di soggetto vivente ad alta complessità […] E’ un processo complesso e lungo

(cinquanta, cento anni? ) che riguarda la costruzione di una nuova geografia fondata sulla

rivitalizzazione dei sistemi ambientali e sulla riqualifica dei luoghi ad alta qualità dell’abitare

come generatori di nuovi modelli insediativi capaci di rivitalizzare il territorio dalle ipotrofie

della megalopoli. Questo processo non può avvenire in forme tecnocratiche; esso richiede

nuove forme di democrazia che sviluppino l’autogoverno delle comunità insediate, poiché

riabilitare e riabituare i luoghi significa nuovamente prendersene cura quotidianamente da

parte di chi ci vive, con nuove sapienze ambientali, tecniche e di governo». 26 La rilocalizza-

zione deve avvenire anche sul piano politico ovviamente, ecco perché in questo momento

storico è forse più importante candidarsi nei governi locali; per una rivoluzione che deve

partire dal basso. Come precedentemente scritto: agire localmente, pensando globalmente.

E’ questa anche l’unica strategia democraticamente possibile, per non incorrere nell’utopia;

non è possibile pensare di scontrarsi frontalmente con i colossi dominanti a livello globale,

ma è invece possibile agire localmente e creare la formazioni di “bioregioni”, ovvero regio-

ni naturali in cui greggi, piante, animali, acque, terra e uomini formano un unicum armonio-

so. Per rispondere a chi volesse liquidare tutto questo come semplice utopia, possiamo dire

che considerare la democrazia radicale locale o la democrazia partecipativa come la solu-

zione di tutti i problemi è eccessivo, certamente. Ma rivitalizzare la democrazia locale è un

primo passo verso la costruzione di una serena società della decrescita. Il passo successivo

sarà quello di, una volta moltiplicate le esperienze, coordinarsi con tutte le iniziative che

vanno nel senso di una rivitalizzazione del locale, per articolare una resistenza e giungere

alla nascita di una società autonoma che partecipi alla decrescita conviviale. 27

Veniamo ora alle ultime tre R, ovvero ridurre, riutilizzare e riciclare. Ridurre significa ridi-

mensionare, ce lo impone il pianeta stesso dal punto di vista ecologico e quindi dei consu-

mi e dello sfruttamento delle risorse, soprattutto quelle non rinnovabili. Nel fare ciò, inevi-

26 A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000 p. 213.

27 Per cominciare, seguendo la suggestione di Yves Cochet, bisognerebbe sostituire il Wto con l’Oml (Orga-

nizzazione mondiale per la localizzazione), con lo slogan: “Proteggere il locale globalmente”. Y. Cochet, Pétrole apoca-

lypse, Fayard, Parigi 2005 p. 225.

20

tabilmente dovremo ridimensionare il nostro stile di vita e l’unico modo possibile è quello

di pensare ad un cambiamento dei nostri bisogni. Questo è un argomento molto delicato,

in quanto i “bisogni” si costruiscono a livello culturale e storico. Pensare che al giorno

d’oggi molti oggetti potrebbero essere considerati superflui per il solo fatto che un secolo

fa’ non c’erano, non è la strada giusta. Bisogna invece continuare a pensare che dobbiamo

inventarci una nuova società pensante, per costruire una nuova cultura, il cui pilastro prin-

cipale dovrà essere la sobrietà. Francesco Gesualdi (attivista e saggista italiano, allievo di

Don Milani) riassume la sobrietà in cinque parole d’ordine, che cominciano anch’esse tutte

per R : ridurre, riutilizzare, riparare, riciclare, rallentare. 28 Ed è proprio questo approccio

che l’autore, Serge Latouche, prende come punto di partenza per la costruzione di una so-

cietà della decrescita.

Volendo affrontare un tema importante, che da qualcuno potrebbe giustamente essere sol-

levato: come si può proporre la decrescita nel Sud del mondo, che già hanno poco o nulla?

pensare che la decrescita sia solo appannaggio del Nord e quindi dei “ricchi” non è realisti-

co e andrebbe contro gli stessi principi che hanno partorito l’idea stessa della decrescita. La

decrescita non deve essere intesa come una decrescita in tutto e per tutto. Si tratta, come

scritto nelle pagine precedenti, di un cambiamento culturale che abbraccia il modo di vivere

di un intero pianeta, Nord e Sud compresi. Pertanto la prima cosa a cui pensare è quella di

rendere il Sud autonomo, rompendo la dipendenza che ha nei confronti del Nord (e a cau-

sa del Nord aggiungo io). Creare la decrescita nel Sud potrebbe non necessariamente dover

portare la prospettiva delle otto R di cui abbiamo scritto sopra, bensi utilizzare altre “R”

alternative e complementari, come rompere, riannodare, ritrovare, reintrodurre, recuperare

ecc.

Un abbozzo di programma politico. In questo periodo storico possiamo affermare che

vi è quasi un’unanimità nel voler salvare il pianeta, ma contemporaneamente vi è

un’altrettanta unanimità a favore della crescita. Il problema forse è che la maggioranza delle

persone è molto restia a voler cambiare i propri stili di vita, soprattutto se si tratta di dover

rinunciare a qualcosa. E l’avversario politico della decrescita, il sistema economico attuale, il

Nuovo Ordine Mondiale, continua il suo lavoro di delocalizzazione, deterritorializzazione,

28 F. Gesualdi, Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti, Feltrinelli, Milano 2005, p. 54.

21

deculturizzazione e distruzione dell’ecosistema, con l’appoggio delle istituzioni internazio-

nali (Fmi, Banca mondiale, Wto), dall’Unione europea e dagli stati nazionali che smantella-

no il settore pubblico, privatizzano i beni comuni e deregolamentano tutto ciò che possono

e che gli viene richiesto. Riposto di seguito uno schematico e sintetico programma politico,

alcune misure semplici per poter avviare il circolo virtuoso della decrescita. Il programma

proposto dall’autore Serge Latouche, è una ovvia conseguenza di quanto analizzato fin

d’ora:

1. Tornare a un impatto ecologico sostenibile per il pianeta, ovvero a una produzione materiale equi-

valente a quella degli anni sessanta-settanta.

2. Internalizzare i costi dei trasporti.

3. Rilocalizzare le attività.

4. Ripristinare l’agricoltura contadina.

5. Trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi, fi-

no a quando esiste la disoccupazione.

6. Incentivare la “produzione” di beni relazionali.

7. Ridurre lo spreco di energia di un fattore 4.

8. Penalizzare fortemente le spese per la pubblicità.

9. Decretare una moratoria sull’innovazione tecnologica, tracciarne un bilancio serio e orientare la ri-

cerca scientifica e tecnica in funzione delle nuove aspirazioni. 29

Riguardo a quest’ultimo punto, l’autore si sofferma a precisare che non si vuole limitare il

sapere o imporre alcuna dittatura culturale, ma semplicemente bisognerebbe seguire un

paio di principi, ovvero quello di pensare che innanzitutto l’economia dev’essere uno stru-

mento e non il fine della vita umana; e quello della ragionevolezza nell’espansione del sape-

re. Sottolinea altresì il fulcro cardine del programma, cioè l’internalizzazione delle diseco-

nomie esterne (i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla col-

29 S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 169.

22

lettività). Questa misura permetterebbe di realizzare, se usata con estrema forza, quasi

completamente il programma di una società della decrescita. 30

30 «Teoricamente, in regime di economia di mercato, tutte le ‘esternalità’ devono essere internalizzate sia at-

traverso una tassazione, sia attraverso la creazione dei diritti di proprietà, i meccanismi di mercato portereb-

bero allora a una situazione socialmente migliore» (C. Aubertin, F.-D- Vivien [a cura di], Le Développement du-rable. Enjeuxpolitiques, économiques et sociaux, La Documentation fran caise, Parigi 2006, p. 64.

23

4. INTERVISTA AD UN AMICO

Di seguito riporto l'intervista fatta a un amico, ex manager che ha deciso di cambiare vita. Il

suo nome è Marcello Girone Daloli. Lo scopo di questo faccia a faccia è entrare nel pro-

fondo della sua esperienza fino alle considerazioni personali.

Quando è iniziata la tua esperienza di marketing?

«Da bambini vendevamo giornalini usati per strada. A fine giornata avevamo raccolto qualche spicciolo dai

pochi passanti di via Leopardi, dove vivevo a due passi dal tribunale minorile di Milano, forse mossi a pie-

tà dopo aver assistito a qualche sentenza. Pochi soldi racimolati e gran partite a calcio sul marciapiede.

Raccolto quanto bastava con un amico comperavamo a buon prezzo molti giornalini di altri bambini per

poi spingerci sino alla scalinata di Piazza Cadorna dove migliaia di pendolari transitavano tutti i pomerig-

gi per uscire dalla città con i treni delle Ferrovie Nord. Il target perfetto! Persone che, dopo una giornata di

lavoro potevano gradire leggere un fumetto in treno, a cui duecento lire di differenza sul prezzo di copertina

facevano pure comodo e che forse si rispecchiavano nei bambini di strada che li vendevano. Ben presto si rive-

lò una miniera d’oro! Comperavamo a man bassa dai bambini della zona ed eravamo divenuti uno spiace-

vole concorrente del giornalaio che più volte chiamò i vigili.

Facevamo marketing. Un marketing che nasceva dalla spontanea attitudine alle relazioni sociali volte al

proprio profitto. Anni dopo ho scoperto che le fondamentali strategie di vendita, alla cui base c'è l'attento

studio del target, il bersaglio da colpire per vendergli un prodotto, rispecchiavano quella facoltà che può sor-

gere spontanea in chi è predisposto a un'osservazione speculativa del mondo.

Che si tenti di imprimere nel target di riferimento l’immagine del prodotto attraverso massicci investimenti

mediatici, magari legando la propria immagine a eventi o personaggi (testimonial) a lui graditi, o di stimo-

lare nuovi desideri generando nuovi consumatori, le strategie, sempre più sofisticate, partono prevalentemente

dalla conoscenza delle inclinazioni delle persone».

Dove hai avuto la percezione che il marketing fosse un potente mago nel commer-

cio senza scrupoli con trucchi e inganni?

«A New York quando ero in BBDO, uno dei colossi pubblicitari mondiali, lavoravo sul cliente worldwide

Pepsi Cola, nei brainstorming, i meeting dove si creano le nuove campagne, assaporavo la demoniaca adre-

nalina che scaturisce dal creare un prodotto mediatico che in genere condiziona milioni di persone e dallo spi-

rito competitivo. La battaglia senza regole con Coca Cola andava ben oltre la “creatività” delle campagne

pubblicitarie, tutti sapevamo della compravendita di informazioni strategiche sulle campagne appena sforna-

te da ambo le parti. No, “non era un paese per vecchi” e tanto meno per saggi. Si viaggiava a mille all'ora

dall'isola che governava il mondo. Almeno così ci si immaginava a Manhattan. Una spanna sopra tutti.

Illusione potentissima. In Italia e in Spagna nei primi anni 90, lavorando nelle tele-sponsorizzazioni, ho

iniziato a cogliere l'impeto di quel che Orson Welles nel 1941 definì il “Quarto potere”. Il potere mediati-

co, lo strumento di divulgazione/propaganda che oggi erroneamente chiamiamo “comunicazione”, è in grado

di determinare non solo il potere di Parlamento, Magistratura e Governo, ovvero della politica, ma anche

dell'economia che la controlla e delle istituzioni religiose che sono forse state le prime a utilizzarlo. In demo-

24

crazia l'esito del successo dipende dalla qualità, e soprattutto dalla quantità, di propaganda apparentemente

volta a informare, che in realtà deve indottrinare, vendere idee come prodotti».

Presa consapevolezza che il tuo lavoro 'creava' illusioni, come hai cambiato l'uso

delle tue conoscenze del settore?

«Oggi ne parlo in conferenze, dibattiti pubblici e lezioni nelle scuole che preferisco chiamare incontri e condi-

visioni dove, partendo dalle famose cinque P del marketing, attraverso case history e aneddoti poco conosciuti

ai non addetti ai lavori, cerco di portare l'attenzione sugli aspetti fondamentali inerenti il potere persuasivo

delle campagne pubblicitarie anche a livello inconscio, in particolare sui bambini, e il potere economico delle

multinazionali anche sull'informazione. Cerco di offrire una panoramica di base del Media per eccellenza,

la televisione, che raggiunge più facilmente il target e lo colpisce quando è più rilassato-vulnerabile, quando le

difese mentali sono basse ed è più facile accedere all’inconscio, là dove si radicano quelle associazioni di desi-

deri che garantiranno poi l'acquisto di un prodotto che apparentemente non ha nulla a che vedere con il de-

siderio reale. L'uomo vede la ragazza mezza nuda e il suo sguardo registrerà anche il brand che le sta ac-

canto, vede l'attore, il cantante o il calciatore che apprezza bere, mangiare o usare un prodotto e, se quando

dovrà scegliere quella tipologia di prodotto non sarà attento e responsabile nell'acquisto, con grande probabi-

lità comprerà proprio quello pubblicizzato. Tutto avviene nell'inconscio: nessuno comprerebbe i biscotti o

l'acqua minerale perché realmente crede che li mangi o la beva il testimonial della campagna, eppure i nume-

ri dimostrano che a tot investimento pubblicitario corrisponde un incremento di fatturato, ovvero un condi-

zionamento inconscio del target. Bersaglio colpito! »

Pensi che l'individuo medio conosca i meccanismi della pubblicità?

«Parlando con la gente ho scoperto che in pochissimi sanno del ruolo che le concessionarie delle reti televisive

in Italia, ovvero gli enti che le gestiscono economicamente, hanno sulla qualità del prodotto televisivo e

sull'informazione. Le due più grosse in Italia sono SIPRA e Publitalia concessionarie rispettivamente di

RAI e Fininvest».

Come producono profitto queste società?

«Le concessionarie con il ricavato della vendita di spazi pubblicitari e sponsorizzazioni coprono le spese di

produzione e gli acquisti di film e fiction esterne di tutto il palinsesto/programmazione.

Il parametro di vendita degli spazi è il “costo contatto”, ovvero il costo per ogni singola persona che il pro-

gramma, in cui è inserito lo sponsor e/o intervallato da reclam, riesce a raggiungere/colpire. Queste, se il

reparto programmazione media ha bene interpretato il target del prodotto da pubblicizzare, saranno i po-

tenziali consumatori. In genere ci prendono».

Le società che investono in pubblicità come riconoscono l'efficacia del prodotto

pubblicitario e come si struttura un modello efficace?

«L'incremento di fatturato dell'azienda ne è il parametro. Ecco perché il valore commerciale di un pro-

gramma televisivo è dato dall'audience. Quel numero garantisce la sopravvivenza o meno del programma. Il

sistema più semplice per fare audience è offrire un prodotto di facile recezione che attiri il telespettatore. Per

garantirsi ciò si fa leva sugli istinti più bassi dell'uomo e della donna: sessualità e denaro facile. Il prime

time, o prima serata, dalle 21 alle 22, ora di massima audience, dove il target è stanco e debole dopo la

giornata di lavoro, il format, la struttura del programma, più comunemente offerto contiene quasi sempre

donne sessualmente intriganti e giochi a premi di facile risposta in modo da illudere il telespettatore che lui

25

stesso, conoscendo la risposta, potrebbe essere il vincitore della cifra in palio. I vecchi quiz con Mike Buon-

giorno richiedevano una preparazione da parte dei concorrenti che li allontanava troppo dal target. Questo

format a quest'ora garantisce audience, ovvero denaro, pressoché a livello mondiale».

Viene usato solo il canale televisivo?

«Oltre alle fiction e a tutto il palinsesto/programmazione le concessionarie pagano anche le redazioni dei

telegiornali, contrariamente a quanto avviene nei paesi del nord Europa dove l'informazione è sovvenzionata

direttamente dallo Stato, in modo indipendente da poteri politici ed economici, così come in Italia sanità,

pensioni, istruzione, sicurezza eccetera. In Italia l'informazione televisiva e della stampa è invece vincolata

ad ambedue i poteri che la utilizzano, in modo spesso subliminale, per far passare idee politiche o promuo-

vere aziende che investono molto in spazi pubblicitari».

Puoi farci qualche esempio di questo tipo di strumentalizzazione?

«Così accade che scandali di livello internazionale di aziende molto potenti passino sotto silenzio. Per esem-

pio lo scandalo Coca Cola che ha indotto una campagna di boicottaggio soprattutto negli USA per il com-

portamento, che persiste da decenni, in Colombia, dove si registrano da anni licenziamenti, pestaggi e assas-

sinii tra i sindacalisti che, oltre alle condizioni di lavoro dei dipendenti, denunciano l'abbassamento della

falda acquifera dei villaggi limitrofi agli stabilimenti.

In Italia però Coca Cola detiene l'85% del mercato delle cola!

Neppure è dato conoscere all'opinione pubblica l'operazione di stampo mafioso che proprio in Italia ha visto

il colosso delle cola affossare la distribuzione di “One o One”, la cola messa sul mercato da San Pellegrino

nel 1987. O il caso del rapporto Philip Morris al governo della Repubblica Ceca in cui nel 2001 dimo-

strava gli enormi risparmi che l'azienda garantiva allo Stato in termini di assistenza medica e pensioni. In

pratica lo slogan avrebbe potuto essere “ve li ammazziamo prima che diventino un costo”, lasciando in vita

gran parte dei fumatori in età contributiva.

Di esempi taciuti dalla cosiddetta “informazione televisiva” dell'aberrazione della logica del profitto ve ne

sono molti. Ancora oggi i media non possono raccontare dell'orrore delle guerriglie in Congo per accaparrarsi

il Coltan, la preziosa miscela di minerali indispensabile per le apparecchiature elettroniche (playstation, cel-

lulari, videocamere...). Dal 1998 ad oggi sono state uccise 4 milioni di persone, un olocausto di cui non

siamo tenuti a sapere.

La lista delle news taciute è lunga e comprende quasi tutte le multinazionali dei cui misfatti nei paesi del

sud del mondo, ma anche in Occidente, il cliente, noi, il target, i consumatori non dobbiamo essere informa-

ti».

Qual’ è l'esperienza che ti ha fatto entrare più di tutto nell'ingiustizia sociale?"

«Nel 2003 ho lavorato in una fabbrica di jeans a Bangalore e ho toccato con mano un'altra espressione del

degrado umano in nome del marketing, quel sistema di ingiustizia sociale che chiamiamo “globalizzazione

economica”, scaturita dalle politiche liberiste di un presunto libero mercato, in realtà nelle mani di pochi,

come spiega in modo dettagliato il primo studio sulle connessioni delle multinazionali dell’Eth, il Politecnico

federale di Zurigo, tra i più importanti centri di ricerca a cui sono legati 31 premi Nobel. Pubblicato nel

settembre 2011, e del quale naturalmente non è stato dato alcun risalto dai media, lo studio, partendo da

37 milioni di imprese e investitori, smaschera il fenomeno delle Blue chips, un nucleo di 1.318 imprese con-

26

nesse da intrecci societari e di azionariato attraverso meccanismi di partecipazione reciproca che sfuggono a

qualsiasi regola e controllo».

Come e dove si muove il pachiderma 'globalizzazione'?

«Il club dei ricchi, la cupola della multinazionali, in grado di offuscare il flusso di capitali grazie ai trust,

controllando tutti i mercati, dall'energia all'agroalimentare, dal farmaceutico agli armamenti, di fatto decide

le sorti economiche ed ambientali del pianeta. Nell'elenco dei 50 soggetti economici più influenti al mondo

40 sono di carattere finanziario e le loro interconnessioni fanno sì che se salta uno salti il sistema. Questo il

motivo per cui nel 2008 il governo statunitense ha dovuto salvare le banche in fallimento. Idem per i recenti

interventi monetari UE diretti non tanto a salvare gli Stati e le imprese per “risollevare l'economia” quanto

le banche creditrici che persistono nella logica della speculazione finanziaria negando il credito alle imprese.

Non ci vuole invece una laurea in economia per capire che la cosiddetta “globalizzazione economica” è una

truffa sul piano etico. Fondandosi sulle differenze tra i popoli e sfruttando la sempre più libera circolazione

delle merci, ha di fatto messo al bando i diritti dei lavoratori conquistati in decenni di dure lotte in Occiden-

te. Fondata sulla banale logica della riduzione dei costi di produzione, così da vincere la concorrenza, ga-

rantita dall'assenza di diritti per i lavoratori (sindacati, pensioni, sanità, istruzione pubblica, ferie…) in

gran parte dei paesi del sud del mondo consente ai potenti, oggi multinazionali, di produrre a bassissimo

costo e incrementare incredibilmente i profitti.

Con il conto terziario persino il problema dell'apparenza etica è stato risolto. Queste aziende non producono

più in stabilimenti propri, ma fanno produrre ad altri, naturalmente imponendo loro il prezzo. Ciò li solle-

va dalla responsabilità diretta di scomodi inconvenienti, come la morte di oltre mille operai nella fabbrica di

jeans crollata a Decca il 24 aprile 2013. I nostri media riportano magari i dettagli della tragedia ma non

osano fare i nomi di Benetton, Primark, Bon Marche, Mango, Cato... che lì dentro producevano, parlando

genericamente di “marchi occidentali».

Cosa succede quando una fabbrica di jeans trasferisce la produzione in India?

«Nello stabilimento a Bangalore ho potuto vedere una realtà di sfruttamento che si traduce in un dato: il

costo della manodopera nel tessile. In Italia era di $ 15,6 l’ora, in linea con Francia e Stati Uniti, nel nord

Europa superava i $ 20 mentre in India, in linea con i paesi dell’area asiatica, era $ 0,57. Il 300% di

spread rende impossibile qualsiasi concorrenza. Ma qual' è il reale prezzo del low cost? Cosa c'è dietro un

capo di abbigliamento che ci illudiamo, magari vantandoci, di aver pagato poco? »

Che effetti produce la delocalizzazione produttiva e come la globalizzazione diven-

ta protagonista d'impresa?

«La globalizzazione economica è garantita dalla mancanza di una regolamentazione internazionale del la-

voro e dall'ignoranza-complicità del compratore. In Occidente la globalizzazione sta facendo tabula rasa

delle piccole imprese e ha costretto le medie alla dislocazione produttiva in Paesi economicamente più deboli,

l'unico modo per sopravvivere alla spietata concorrenza delle multinazionali.

L'inesorabile incremento della disoccupazione e le conseguenti ricadute sul piano sociale dato dall'impoveri-

mento delle popolazioni occidentali, sta conducendo al calo dei consumi e quindi al rischio del collasso del

sistema».

Ci sono altri effetti collaterali causati da questo processo produttivo sregolato?

27

«Non dobbiamo pensare poi che l'iperproduzione abbia arricchito le popolazioni dei nuovi produttori. Solo

le multinazionali, che peraltro, sfruttando i benefici dei paradisi fiscali, non hanno pagato in Occidente il

reale valore in tasse dei loro profitti, si sono arricchite a tal punto da creare delle lobbies di potere finanzia-

rio in grado di condizionare elezioni e decisioni dei governi, se non addirittura di appropriarsene. Come ci

svela lo studio dell'Eth la loro egemonia sul mercato globale e la loro influenza sui flussi finanziari rappre-

senta una vera e propria dittatura che inneggia al libero mercato. Una contraddizione in termini.

Essendo noi occidentali i cosiddetti “responsabili d'acquisto”, l'immensa truffa è stata imbastita dalla pro-

paganda del benessere per l'uomo occidentale che in realtà, acquisendo prodotti realizzati senza regole, a

basso costo, contribuisce alla rovina del suo stesso sistema economico. Un boomerang che fa leva sulla brama

di possedere beni materiali in quantità, sull'idea che più acquistiamo più siamo felici e sull'indifferenza o

l'ipocrisia di non voler sapere come sono prodotti».

Quali sono secondo te le conseguenze sociali di questo consumo indotto e smisura-

to?

«Un sistema fondato sulla logica della costante crescita produttiva e sull'aumento dei consumi ha, di fatto,

aumentato le disuguaglianze e sta affossando le economie occidentali che non sembrano in grado di reagire

persistendo ad occultare la realtà, anche dinnanzi all'evidenza, grazie a sempre più sofisticate forme di di-

strazione e propaganda di un fantomatico benessere psicofisico. Il mantenimento dei consumatori occidentali

nell'ignoranza affinché non sviluppino una coscienza critica atta ad esigere una regolamentazione globale del

lavoro prolunga il calvario. Fintanto che non ci sarà un'inversione di rotta la valanga non si fermerà».

E come vedi il futuro?

«Verrà un tempo in cui diranno di noi: “vivevano in un'epoca in cui si valutava il benessere sulla base di

quanto si era in grado di comperare ignorando il caro prezzo che pagavano sul piano psicologico (depressio-

ne, ansie, senso di inutilità e solitudine). Restarono ingabbiati nel fraintendimento che la ricchezza materia-

le potesse rendere felici senza comprendere che quel desiderare non aveva fine».

Pensi che chi gestisce questo potere immane consideri la sofferenza che sta gene-

rando nell'uomo, barattando la vita degli individui con il denaro?

«Il marketing, la logica dei consumi, della competitività, che governano incontrastati le economie mondiali,

non tengono conto del dolore che generano.

I poteri forti, sul piano economico e politico, attraverso il potentissimo strumento mediatico persistono nella

miope e unica logica del profitto che si è rivelata un fallimento sul piano della reale ricchezza dell'essere.

Dieci anni fa un giovane erudito, lucido e coraggioso, mettendo a repentaglio la sua vita, ha deciso di opporsi

al regime delle multinazionali. Il suo messaggio è volto a mettere in luce il sopruso anziché l'aiuto all'uma-

nità da parte di questo sistema economico:

“Nella globalizzazione il denaro costruisce negozi dove prima esistevano paesi. E allora, siccome il paese

non è più un paese ma è un negozio, la gente non è più gente, ma compratori o venditori…

La lotta contro la globalizzazione del potere (e contro il suo supporto ideologico: il neoliberismo) non è esclu-

siva di un pensiero o di una bandiera politica o di un territorio geografico, è una questione di sopravvivenza

umana…

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Citiamo dunque i dolori dell'umanità non solo perché sono anche nostri Dolori, ma anche perché citandoli ci

rendiamo un poco più umani. Perché davanti a queste ferite, il silenzio è rinuncia, resa, claudicazione, mor-

te…

dalle montagne del Chiapas, nel sudest messicano” Subcomandante Marcos».

Ho chiesto poi a Marcello di raccontare cosa secondo lui si può concretamente fare. Gli ho

chiesto di parlare dell’associazione non profit da lui creata, della quale faccio parte anche io

da tre anni.

Una nuova direzione, una diversa globalizzazione: secondo te è possibile e come

possiamo cambiare il corso di questa nostra storia che sembra portarci a un baratro

sociale ed economico?

«Il cambiamento è possibile. E' possibile invertire la rotta. Lo strapotere delle multinazionali è vincolato al

profitto e alle vendite che dipendono dal consumatore, per ora ancora libero di comperare quel che crede.

E' possibile, una volta presa coscienza del nostro stato di dipendenza, liberarcene?

Lo è. Pensare che “tanto non cambierà mai e i potenti l'avranno sempre vinta...” è una trappola del siste-

ma, una manipolazione del pensiero per inibire l'emancipazione. La storia dimostra che l'unione dei singoli

può cambiare il corso degli eventi in tempi ben più rapidi di quel che si creda.

Un antidoto alla dittatura mediatica è tornare a comunicare in modo diretto, a condividere idee e testimo-

nianze che possano offrire spunti di riflessione. Si sta già facendo. Negli ultimi anni ho partecipato a diversi

incontri con economisti ed esperti di vari settori che mi hanno dato la possibilità per esempio di addentrarmi

nelle dinamiche macroeconomiche».

Ti senti in solitaria corsa in questa avventura contro il tempo e contro il potere e co-

sa vorresti lasciare alle generazioni di tua figlia?

«Siamo in molti a domandarci come affrontare questi tempi difficili sul piano economico e ancor prima etico,

evolutivo. Sono convinto che si debba fare in modo di offrire alle nuove generazioni una chance di emancipa-

zione lasciando aperte le porte al cambiamento, riconoscendo la nostra superficialità, cecità, disinformazione

o egoismo nell'abbuffata di consumi che non ci hanno reso né più felici né migliori. Nelle scuole ho riscontra-

to in molti ragazzi una gran voglia di cambiamento, spesso inibita da un sistema che non consente loro di

confrontarsi, offrendo sedativi mediatici per una comunicazione solo virtuale. Credo che dovremmo sostenere

la loro protesta in quanto è dal cambiamento del modo di pensare, come gridava duemila anni fa un sovver-

sivo vestito di pelli sulle rive del Giordano, che scaturirà una società migliore. Lui avrebbe detto “per acco-

gliere il regno dei cieli».

Le teorie economiche avevano previsto qualcuno degli eventi in atto?

«Nelle facoltà di economia già da decenni chi non si è limitato a studiare acriticamente teorie fondate sul

sistema consumistico-capitalistico, ma si è domandato dove sarebbe arrivato tale sistema, è giunto alla con-

clusione che in tempi relativamente brevi sia destinato a cannibalizzarsi, quindi ad implodere. Due i motivi

principali: semplici calcoli legati allo sfruttamento delle risorse energetiche globali in relazione all'incremento

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della popolazione (sestuplicata negli ultimi 190 anni) e l'espansione del divario tra ricchi e poveri, laddove

l'economia dovrebbe avere come scopo l'esatto contrario, ovvero assicurare benessere a un sempre maggior

numero di persone. La globalizzazione economica ha condotto tale divario all'esasperazione. Le crisi finan-

ziarie non sono che l'ultima espressione virtuale della lenta agonia di questo sistema».

Mi sembra di capire che la parola d'ordine del futuro è consapevolezza. Come usar-

la?

«La presa di coscienza e la conseguente presa di posizione da parte dei consumatori è in grado di imporre

nuove regole. Come? Attraverso la scelta consapevole delle aziende che vogliamo sostenere-sovvenzionare e

viceversa (boicottaggio) per le aziende che non rispecchiano i valori etici in cui crediamo. Se la logica dell'evo-

luzione umana passa attraverso la condivisione tra individui perché la logica dell'impresa, di per sé costitui-

ta da individui e che dovrebbe servire a migliorarne la vita, dev'essere improntata solo su profitto e competi-

tività? Oggi è più che mai evidente che tale approccio si è rivelato, non solo immorale, ma anche illogico e

controproducente.

L'inversione di rotta deve partire dal consumatore che, come individuo, è il solo ad essere libero di scegliere.

Per poter decidere però dev'essere informato e questo è il problema principale. In Italia, oltre al Web, libero,

ma di conseguenza esposto a ogni tipo di manipolazione, esistono tante iniziative culturali presenti su quasi

tutto il territorio. Abbiamo il Manuale per un consumo responsabile che si trova, grazie a Dio in ogni li-

breria, costa poco, è aggiornato e attendibile».

Ci sono già stati i primi effetti di questo cambiamento di pensiero/azione?

«Ricordo che vi sono diversi casi di multinazionali che a seguito di una forte campagna di boicottaggio su

scala globale per le gravi condizioni di produzione nei paesi poveri hanno cambiato comportamento. Non

certo per una questione etica, ma di calcolo. Conveniva tamponare, magari provvisoriamente, lo scandalo che

perdere in vendite e immagine. Ciò non le scagiona affatto, ma dimostra la potenza dell'unione di consuma-

tori consapevoli.

Dev'essere chiaro che nel momento in cui contribuiamo alla crescita/aumento del fatturato di un'azienda la

cui produzione genera sofferenza attraverso soprusi sulla linea produttiva, concorrenza sleale o addirittura

sostegni economici a guerre, siamo corresponsabili di tale sofferenza a causa del moderno reato di “violenza

dell'apatia”. Dire a noi stessi: “Per non compromettere la mia coscienza preferisco non sapere” è viltà».

Come si muove il cambiamento?

«Molte persone stanno mettendo in pratica un cambiamento di rotta in grado, da un lato di garantire la

sopravvivenza del sistema sociale fondato sui diritti delle persone e dall'altro di interagire con i paesi del sud

del mondo in modo equo, con la formidabile ambizione di fondare l'economia su una globalizzazione cultu-

rale, di scambio reciproco di idee e di merci partendo dal piccolo, dal singolo. Solo una nuova direzione, con-

sapevole, porterebbe a una reale globalizzazione.

In Occidente molti movimenti popolari hanno individuato e intrapreso percorsi alternativi alla logica del

profitto. Francesco Gesualdi, fondatore con Alex Zanotelli di Rete Lilliput e autore di vari libri tra cui il

Manuale per un consumo responsabile con il Centro di nuovo sviluppo, propone come formula alternativa

alle 5 P del marketing 5 R: ridurre, riutilizzare, riparare, riciclare, rallentare. Partendo dall'odierno pre-

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supposto che per “crescita” s'intenda il progressivo aumento dei consumi le 5 R sono invece in linea con la

teoria della decrescita economica di Serge Latouche.

Per iniziare a mettere in pratica il cambiamento si deve partire dal controllo degli sprechi e da acquisti pon-

derati. Si può partire anche da soli! Le alternative economiche ci sono.

Da diversi anni le frange più consapevoli delle popolazioni occidentali per difendersi dall'urto dell'economia

globalizzata sulle realtà locali si sono organizzate per ristabilire un rapporto equo con i produttori locali. Il

fenomeno dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) e in genere la politica del chilometro zero stanno dando i

primi frutti.

Attività culturali e di concreta economia locale da parte di associazioni, movimenti, gruppi di cittadini di

prepararsi al dramma annunciato che sta solo iniziando a travolgere l'Occidente».

Le armi pacifiche per smontare i poteri forti?

«E' in moto un processo evolutivo fondato sull'equità, la condivisione e la solidarietà che si manifesta tra le

persone senza l'interferenza della comunicazione e dell'informazione istituzionali.

L'informazione asservita ai poteri forti, vincolati al sistema consumistico-capitalistico, tende a persuadere la

popolazione che non vi siano vie d'uscita estranee alla logica competitiva ed è palesemente volta a mantenere

il più ampio numero di cittadini nell'inconsapevolezza. Lo sviluppo delle coscienze deve far breccia tra que-

sti strapoteri per via indipendente, singola e di piccoli gruppi. Incontri e dibattiti, il cui unico libero strumen-

to di divulgazione è il passaparola via mail e i siti internet, sono la via d'uscita che abbiamo. Oggi blog,

forum e fenomeni come “Noinet.it” cercano di prevenire il rischio del controllo dei poteri forti anche sulla

rete».

E l'individuo medio che decide di sostenere questo piano di liberazione globale, da

dove può iniziare? Chi può accreditare come fonte sana e salvifica?

«Ognuno oggi è chiamato ad un impegno attivo prima di tutto sul piano dell'informazione e conseguente-

mente ad agire in modo consono a ciò che gli viene dettato dal buonsenso e da una visione non miope del vi-

cino futuro. Nuovi e precisi segnali arrivano oggi anche da esponenti del mondo religioso, come l'attuale pa-

pa Francesco, su un tema che certamente non è solo materiale».

Come cambierà il mercato?

«Questo nuovo approccio, non più fondato sulla competitività, ma sul libero scambio tra i popoli, è l'unico

possibile deterrente alla formazione di poteri economici in grado di condizionare i governi e la popolazione

attraverso la corruzione dei leader e il controllo sull'informazione.

Una nuova economia fondata sulla solidarietà reciproca non imposta, facente leva sul libero scambio, non

solo di merci, ma culturale, di informazione e di valori fondamentali insiti in ogni cultura, resta un'utopia

fintanto che non siamo disposti a metterci in gioco. I cambiamenti che nascono dalla presa di coscienza sono

indice di evoluzione».

Non abbiamo toccato un tema scottante nel nostro scenario globale, l'ecologia. Co-

sa pensi in merito allo stato attuale del nostro pianeta?

«Un indispensabile accenno alle conseguenze dell'iperproduzione da un punto di vista ambientale: negli ul-

timi 3 anni abbiamo registrato più catastrofi naturali che degli ultimi due secoli. Terremoti, tsunami, inon-

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dazioni, tornado, alluvioni hanno causato milioni di morti ed enormi danni in tutti continenti. L'elenco è

impressionante. Il quadro si aggrava ulteriormente se vi aggiungiamo le gravissime conseguenze, che sembra-

no ormai dimenticate dai media, di due disastri causati direttamente dall'uomo, in particolare dalla sete di

energia al più basso costo possibile: le fughe radioattive dalla centrale atomica di Fukushima e i 2980 mi-

lioni di litri di greggio riversati in mare dalla piattaforma BP nel Golfo del Messico che hanno causato

danni irreparabile all'ecosistema del pianeta.

La WMO, World Meteorological Organization, è la fonte delle Nazioni Unite per meteorologia, clima

e acque. Elabora i dati climatici continuamente raccolti e distribuiti dai servizi meteorologici e idrogeologici

nazionali di 189 paesi membri provenienti dalle reti di stazioni meteorologiche e climatiche terrestri, aeree,

oltre a navi, boe e satelliti. Nel dicembre 2010 alla conferenza mondiale sul clima tenutasi a Durban il

segretario generale Michel Jarraud non usò mezzi termini: “La nostra scienza è affidabile e dimostra senza

ambiguità che il clima mondiale si riscalda e che questo riscaldamento è dovuto alle attività umane. Le con-

centrazioni di gas serra nell'atmosfera hanno raggiunto nuovi picchi e si avvicinano molto rapidamente a

livelli corrispondenti ad un aumento da 2 a 2,4° C della temperatura media sulla superficie del pianeta, la

qualcosa potrebbe comportare, secondo gli scienziati, cambiamenti radicali ed irreversibili del nostro pianeta,

della biosfera e degli oceani”. L'11 gennaio del 2011 un comunicato ufficiale WMO avverte: “Nel dicem-

bre del 2010 la banchisa polare artica ha raggiunto il minimo storico mai registrato”. Insomma se non ci

muoviamo il cambiamento sarà inevitabilmente e drammaticamente imposto dalla natura.

La considerazione che il singolo individuo non può cambiare la situazione da solo non solleva dalla respon-

sabilità. La riduzione, se non l'eliminazione degli sprechi, spesso vissuta come una privazione delle comodi-

tà, un tornare indietro, in realtà è il solo modo di andare avanti e consentire alle generazioni future di non

pagare un prezzo troppo alto per gli errori commessi negli ultimi 50 anni.

Oltre ai dati sull'inquinamento sono la biodiversità del pianeta e la richiesta energetica che ci impongono il

cambiamento di rotta. Mantenendo gli attuali consumi nel 2050 l'uomo avrà bisogno del corrispettivo di 40

Twatt di energia elettrica. Ne mancano 24, il corrispettivo di 24.000 centrali nucleari. Non possiamo limi-

tarci a sperare e aspettare che qualcuno scopra nuove fonti energetiche in grado di sopperire alla mancanza,

per non prenderci le nostre responsabilità. Dobbiamo attivarci cominciando individualmente almeno a ridur-

re i consumi!

Ignorare o soprassedere sugli sprechi è quanto di più moralmente e oggettivamente dannoso il singolo indivi-

duo possa causare.

Oggi prestare attenzione all'utilizzo dell'energia, dell'acqua e delle risorse alimentari (in Italia il 25% degli

alimenti comperati viene buttato, oltre a quanto spreca la grande distribuzione) è l'azione virtuosa più reli-

giosa e morale che l'individuo possa compiere. Forse non arriveremo in tempo, ma la forza dell'uomo può

essere potente e l'esempio è contagioso.

Un sistema economico che rispecchi le necessità primarie dell'uomo e non faccia leva sull'egoismo e la voraci-

tà è l'ambizione a cui dobbiamo tendere.

Il primo contributo è banalmente l'attenzione ai quotidiani comportamenti nella vita domestica che può di-

ventare un'azione creativa, mossa da scelte consapevoli, in grado di plasmare la materia, rigenerare la psiche

e avvicinarci a una migliore conoscenza di noi stessi».

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Ci vuoi parlare del tuo progetto in Zimbabwe? La tua piccola stella, rivoluzione

consapevole in un mondo che sta cambiando?

«Nell'estate del 2006 mi sono recato per la prima volta a St. Albert, un villaggio al nord dello Zimbabwe,

il Paese “a più basso indice di sviluppo umano al mondo”, ovvero tra i più mal ridotti sul piano sanitario,

economico, politico e sociale.

Premetto che da quando ho abbandonato il mondo del marketing pubblicitario ho viaggiato in paesi poveri,

spesso con lo zaino in spalla, a stretto contatto con la popolazione, dormendo ovunque, anche per strada.

Insomma di povertà ne avevo vista, ma mai come in Zimbabwe.

L'aspettativa di vita, crollata di 20 anni dal 1990, è tra le più basse al mondo, il 90% della popolazione

vive sotto la soglia della povertà, il regime di Robert Mugabe, presidente da 33 anni, è tra i più repressivi al

mondo, nel 2009 è crollata la moneta locale, la disoccupazione è al 95%, in tutto il paese l'energia elettrica

è erogata poche ore al giorno, il carburante è reperibile solo al mercato nero, la mortalità infantile ha avuto

un incremento dell'81% dal 1990 e l'AIDS colpisce il 14,7 % della popolazione (nel 2006 era il

24,6%).

L'ospedale di St. Albert, dove lavorava la missionaria italiana Rosalba Sangiorgi, unica bianca presente

nell'area, ha un indotto di 113.000 abitanti, a cui deve sopperire con 3 medici e 26 infermieri. I posti letto

sono 140. Incredibile ma vero lì sono assistiti oltre 360 pazienti al giorno e 6.500 sono la media delle de-

genze ogni anno.

A St. Albert ci sono anche due scuole con 1.700 bambini e la popolazione locale. In tutto 3260 persone.

Nel 2006 l'acqua potabile veniva prelevata dall'unico pozzo attivo qualche ora al giorno. Per sopperire alla

grave carenza idrica a causa dell’abbassamento della falda (sei su sette pozzi artesiani dell'ospedale si erano

prosciugati) nel 2004 avevano inizio i lavori per creare un bacino di raccolta dell’acqua piovana nella sta-

gione delle piogge (4 mesi) in modo da utilizzarla durante gli 8 mesi di siccità. Come spesso avviene in molti

progetti umanitari, i fondi sono finiti e i lavori non erano stati portati a termine. Questo il quadro che avevo

dinnanzi. Due possibili strade da prendere: 1) tornare alla mia vita più o meno normale nel ricco Occiden-

te; 2) darmi da fare per cercare di portare acqua a quelle persone.

Non si trattava solo di una questione di coscienza, ma di coerenza con le mie ambizioni morali. Quando la

vita offre una possibilità come questa è un privilegio coglierla. L'inconsapevolezza è il fondamento dell'indif-

ferenza, ma quando si sa e si vede, allora è la stessa indifferenza a diventare responsabilità. La “violenza

dell'indifferenza” al dolore altrui è una piaga per l'animo umano.

Ma anche quando si decide di muoversi sopraggiungono ostacoli interiori, dubbi. Nel mio caso: “come posso

io, venditore di aria fritta, finire la diga, potabilizzare l'acqua, irrigare i campi...?”. Per cominciare posso

provare a raccontare quel che ho visto, a chiedere aiuto, a divulgare, a vendere un progetto, un sogno.

Ho dato vita al Progetto Diga – Emergenza Zimbabwe, aprendo un conto corrente di cui rendo trasparenti

gli estratti conto e ho iniziato a parlarne. Ho scoperto che il vero Comunicare non passa dall'utilizzo di so-

fisticate strategie, ma si fonda su semplicità e gratuità.

Non mi sono legato a grosse associazioni umanitarie e ho chiesto aiuto agli amici, mettendo una sola regola,

niente spese, tutto volontariato. In 7 anni moltissime persone si sono unite al nostro progetto che, non solo si

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è realizzato, ma si è realizzato con un alto livello di professionalità grazie a ingegneri e tecnici che vanno in

loco a operare e formare il personale locale.

Con molte piccole iniziative di volontari in varie città e paesi (presentazioni, banchetti, cene di solidarietà,

spettacoli...) piano piano sono stati raccolti i fondi necessari per: terminare il muro di contenimento della

diga, scavare e posizionare un chilometro di tubature per portare l’acqua dal bacino alle cisterne del villaggio

(ospedale e scuole), installare un primo impianto di potabilizzazione, realizzare un impianto d’irrigazione

prima di 4 ettari, poi di altri 4, di campi circostanti il bacino, progettare, realizzare in Italia, spedire e in-

stallare un secondo impianto di potabilizzazione in grado di potabilizzare acqua per 10.000 persone, in-

stallare una nuova pompa alla diga, ripristinare 5 pozzi, rifare 300 metri di linee elettriche con tubi inter-

rati, il tutto continuando la fondamentale formazione del personale locale addetto alla manutenzione.

Sì, stiamo dando acqua a migliaia di persone con la forza della solidarietà e del volontariato e senza strut-

ture in Occidente!

Oggi, ahimè, possiamo quantificare il costo delle opere compiute in termini di vite umane poiché a cavallo

tra il 2008 e il 2009 un'epidemia di colera ha provocato in Zimbabwe oltre 4.400 morti e 96.600 conta-

giati in sei mesi. Si è trattato della più grave epidemia degli ultimi 15 anni in tutta l'Africa, di cui i nostri

mass media non hanno dato notizia. Gli ospedali nella capitale Harare sono stati abbandonati con i morti

in putrefazione nelle camere mortuarie. Nel confinante Sud Africa, nonostante le frontiere armate, si sono

registrati 3.000 casi di contagio dai profughi in fuga dallo Zimbabwe. Nel distretto di competenza dell'o-

spedale di St. Albert sono stati 19 i decessi, di cui otto all'ospedale, e 160 i casi di contagio.

Quanto è costato dare acqua pulita alle generazioni future ed evitare di morire di colera a migliaia di perso-

ne oggi? Avevamo speso 156.000 euro. Incredibile ma vero!

Stiamo andando avanti, c'è molto da fare, insieme a Rock No War spediamo in media 2/3 container

all'anno con, materiale tecnico, farmaci, beni di prima necessità e, ahimè, ancora alimenti.

Infine è attivo un programma di adozioni a distanza, nato spontaneamente dalle richieste delle persone, che

oggi consente ad oltre 640 bambini, per lo più orfani, di avere cibo, assistenza sanitaria e istruzione garan-

tite. Il tutto con €. 320 all'anno di 364 famiglie italiane.

Per informazioni, foto e video sul Progetto Diga-Emergenza Zimbabwe: www.help-zimbabwe.org »

Come avviene il reclutamento dei volontari e quale formazione è richiesta?

«In molti, soprattutto giovani, mi chiedono di andare a St. Albert in Zimbabwe. Quando spiego che è indi-

spensabile una formazione professionale teorica e pratica prima di andare ad operare nei paesi del sud del

mondo mi chiedono le modalità di tale formazione per sapere come agire in modo utile/professionale nel

mondo del volontariato e come relazionarsi con le popolazioni locali.

Avverto un sincero impulso verso l'altro da parte dei giovani, certamente a motivo di pulsioni ideali ancora

fresche, ma forse causato da una presa di coscienza del fallimento dell'attuale sistema di vita. I più capisco-

no chiaramente che fintanto che in Occidente abbiamo l’opportunità di studiare e di prepararci sia da un

punto di vista di cultura generale che professionale negli specifici settori abbiamo il dovere di farlo perché è

proprio questo che dobbiamo esportare. Sembra brutto a dirsi ma il volontariato sostenuto solo dalla buona

volontà si è spesso rivelato un grave ostacolo per i progetti umanitari stessi. Per creare la professionalità ne-

cessaria è essenziale studiare, documentarsi e nel contempo collaborare con le piccole ONG che organizzano

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eventi e campi di lavoro per sostenere i progetti, in cui si inizia ad avere dimestichezza con il mondo del vo-

lontariato. I più ambiziosi possono organizzare essi stessi eventi per la raccolta fondi. In tal caso è essenzia-

le la creazione di una piccola rete di volontari che promuovano l'iniziativa, l'approccio alle strategie di co-

municazione di base e rapporti con i piccoli media locali».

Credo non basti il contributo umano in questi progetti, immagino servano anche

beni primari. Cosa e come spedite in Zimbabwe? Da dove arrivano gli approvvigio-

namenti?

«La spedizione dei container è preceduta da mesi di lavoro per la raccolta di quanto serve in loco. Anche

qui il passaparola è fondamentale per reperire di tutto: alimenti, farmaci, materiale scolastico e tecnico, in-

dumenti...

Una fase successiva, che precede la spedizione dei container, prevede competenze specifiche di stoccaggio, logi-

stica, contatti con trasportatori, capacità di trattativa, rapporti con le dogane e, soprattutto, conoscenza della

realtà locale dove arriverà la merce (problemi di rapporti con le dogane, stoccaggio e distribuzione delle risor-

se in arrivo).

Per chi poi entra nella fase di interazione con le popolazioni del sud del mondo è molto importante che si

accosti con umiltà e curiosità verso i costumi, il pensiero, il modus vivendi e la cultura con cui entra in con-

tatto».

Che impatto ha il fattore culturale in questo scambio socio-economico e quali sono

le condizioni sine qua non per un risultato efficace?

«Fondamentale è quindi avere un approccio conoscitivo e di condivisione che mette a loro agio le persone sto-

ricamente abituate a nutrire soggezione culturale nei confronti dell’occidentale ricco, potente e spesso arrogan-

te. Cercare di conoscere le loro usanze è anche un utile approccio filosofico alla vita. Con quante più culture

differenti entriamo in contatto tanto più saremo liberi nel modellare la nostra.

Assodato tale approccio il lavoro di arricchimento culturale in loco è la sfida più dura nell’ambito delle or-

ganizzazioni umanitarie e d'altronde senza questo passaggio gli interventi pratici possono rivelarsi ben pre-

sto inutili. Non si tratta solo della formazione del personale di manutenzione delle infrastrutture (esempio

pozzi d’acqua), ma di trasmettere un atteggiamento di ordine mentale per preservare le risorse. Se tuttavia

non si è iniziato questo lavoro su se stessi in Occidente sarà impossibile trasmetterlo. Il rispetto per le risorse

alimentari, idriche ed energetiche è la base per la salvaguardia del nostro pianeta. Per questo si è chiamati

alla sobrietà nei confronti di ogni risorsa: acqua, alimenti, corrente elettrica, riscaldamento-combustibile, ve-

stiario... Siamo in grado di insegnare solo quel che siamo!

Infine, alla base di ogni azione umanitaria ci deve essere sempre la lealtà verso chi contribuisce economica-

mente alla realizzazione dei progetti. Lo spreco di risorse, dato dalla mancanza di competenza, è un grave

oltraggio alla fiducia delle persone».

Quali sono secondo te gli effetti benefici di questo progetto che crea ricchezza con

un paradigma di moltiplicazione per divisione?

«Ridurre gli sprechi è indice di consapevolezza delle problematiche globali ed è rispetto per la povertà nel

mondo. Se a ciò aggiungiamo anche tempo, risorse e pensieri dedicati ad altri allora credo stiamo realmente

contribuendo all'evoluzione della nostra specie sulla via della libertà.

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C'è un aspetto straordinario che noi volontari del Progetto Diga-Emergenza Zimbabwe stiamo vivendo sul-

la nostra pelle. E' l'effetto terapeutico che questa esperienza ha su di noi.

In molti, ognuno con le proprie capacità, disponibilità di tempo e risorse, abbiamo contribuito a realizzare

questo sogno. Unendoci abbiamo fatto molto e abbiamo compreso che cercando di aiutare persone “lontane”

abbiamo aiutato immensamente noi stessi. Credo che il primo passo sia stato proprio l'emanciparsi dall'in-

differenza.

Una sera, al termine di una presentazione in cui avevo cercato di trasmettere ai presenti la gioia profonda

che genera in noi volontari il poter lavorare per contribuire a garantire la sopravvivenza di migliaia di per-

sone, un medico, ha esclamato “ma questa è la donoterapia!”. Già, la donoterapia, quella gradevole sensa-

zione di sentirsi utili che pervade nei momenti migliori della vita. Utili ad altri, senza prevedere un persona-

le ritorno economico e neppure d'immagine, visto che si opera nel quasi anonimato, con il semplice passapa-

rola.

Insomma siamo entusiasti di aver scoperto il potere “terapeutico” della gratuità! “L'acqua calda”, direbbero

i saggi che hanno ribadito questa via in tutte le epoche, ma abbiamo bisogno di sperimentarlo di persona.

Così, come sempre avviene quando si vive una gioia, sorge spontaneo il desiderio di condividerla.

Non si tratta di compassione per chi sta peggio sul piano materiale o di elemosina, bensì di voler guardare le

pene altrui e anziché continuare ad accumulare, sempre a scapito di qualcuno - la ricchezza globale è dete-

nuta dal 20% della popolazione - con un semplicissimo gesto libero, realmente libero, siamo in grado di ge-

nerare una duplice gioia, in noi e in colui che riceve.

Chi dona risorse, tempo, denaro o pensieri credo stia mettendo in atto l'espressione più libera del suo essere

perché alleggerita, almeno un po', dal peso dell'ego che opprime e nega l'accesso all'Essenza di noi stessi.

Donare senza aspettarsi un ritorno, può spezzare la pesante catena dell'egocentrismo, della brama egoistica,

causa di ogni male.

La donoterapia può aiutare inaspettatamente anche ad esprimere e comprendere la nostra vera natura per-

ché non è una scelta spontanea. Nella spontaneità opera quasi sempre l'ego, mentre l'atto di offrirsi è una

naturale espressione del Sé, dello Spirito, della nostra Essenza prima.

Ecco che donare, oltre ad essere doppiamente terapeutico perché produce immediatamente i suoi effetti - nel

caso del nostro Progetto Diga l'acqua che disseta e irriga i campi a St. Albert è per chi aiuta qui in Italia

la gioia interiore che cura la piaga dell'indifferenza -, diviene uno strumento conoscitivo, proprio perché mos-

so dalla nostra Essenza.

La donoterapia in fondo è un'espressione della legge spirituale di compensazione o del karma espressa dalle

scritture sacre e dai saggi di ogni tempo. Adoperarsi per chi lo necessita, avvicinarsi interiormente a colui che

è diverso e lontano culturalmente rompe le barriere spazio-temporali, smaschera l'illusione del noi e voi, è

reale globalizzazione, nel senso di condivisione e, oserei dire, di spiritualità applicata. Donarsi, gioire in-

sieme anziché diffidare offre leggerezza.

Ecco che spendersi gratuitamente per aiutare chi ne ha bisogno non solo è moralmente corretto ma si rivela

terapeutico proprio perché sorge in quest'ottica di libertà. Ci sono studi che dimostrano che dedicarsi ad al-

tri, oltre che a se stessi, contribuisce al proprio benessere personale, ma ancor prima è l'esperienza personale

di ognuno che lo dimostra.

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Altra rivelazione per noi del Progetto Diga è stato il legame, la coesione che ha generato tra noi. L'esserci

incontrati per operare insieme questo cambiamento, condividere questa gioia, imparando a lamentarci meno

e a fare di più sono uno stimolo reciproco tra persone che vanno nella stessa direzione. Dietro l'angolo o in

Zimbabwe, non importa dove, ciò che conta è mettersi in marcia.

Per chi vi entra consapevolmente quest'epoca di transizione è l'occasione per fare un salto evolutivo sul piano

della qualità della vita. Un'amica tedesca mi scrive: "Fare del bene ad altre persone non sarebbe più un op-

tional... sarebbe una bella sfida scoprire se stessi in libertà".

La donoterapia è gratuita e l’efficacia è garantita, ma… non si prescrive. Funziona solo se sorge da den-

tro».

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5. CONCLUSIONE

Sono partito da una canzone di Springsteen, per scrivere di ingiustizie e di un comporta-

mento umano che ci ha portati dove era abbastanza prevedibile che ci avrebbe portati. Il

cantante e scrittore americano, che conosco bene, già mi aveva insegnato a guardare non

solo ai sogni personali, ma anche a quelli infranti di migliaia di persone. La canzone che ho

scelto credo sia tra quelle che meglio rappresenta la crisi etica e morale, prima ancora che

sociale ed economica, della nostra società. Una società che non ha di certo avuto scrupoli

nell’attuare comportamenti a dir poco crudeli nei confronti di milioni di persone, abitanti

dello stesso pianeta come lo siamo tutti. Una società che, come mi ha insegnato Latouche,

era ed è destinata a sbattere come un treno contro un muro, mentre quello che per ora si

sta facendo è solamente rallentare il treno, senza capire che bisogna cambiare la direzione!

Ma prima ancora dell’autore francese, ho conosciuto quasi quattro anni fa Marcello Girone,

durante una sua presentazione che si intitolava “Progetto Zimbabwe, dal marketing alla so-

lidarietà”. Ed ho deciso di concludere questa tesi proprio con lui e la sua testimonianza, per

chiudere un cerchio di conoscenze che mi ha permesso di conoscere ed affrontare il pro-

blema che ho trattato, sia in modo ludico con Bruce Springsteen, sia teorico con Naomi

Klein e Serge Latouche, sia pratico ed in prima persona con il volontariato attraverso il

Progetto Diga.

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE

Introduzione p. 2

1. Politica ed economia post New Deal p. 6

2. La società della crescita p. 11

3. Un’alternativa: la società della decrescita p. 15

4. Intervista ad un amico p. 21

5. Conclusione p. 35

6. Bibliografia p. 38