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Università di Pisa
Facoltà di Farmacia
Corso di Laurea Specialistica in Farmacia
Tesi di Laurea
Associazione tra polimorfismi genici di UGT e tollerabilità clinica del
trattamento con irinotecano dei tumori avanzati del colon-retto
Candidata
Michela Santoro
Relatore
Chiar. mo Prof. Romano Danesi
Anno Accademico 2010/2011
Indice
Riassunto 1
Premessa 2
Introduzione 4
1. Il carcinoma del colon-retto 4
1.1 La sequenza adenoma-carcinoma 7
1.2 Stadiazione 10
1.3 Il trattamento della malattia avanzata 14
1.3.1 Pazienti con metastasi resecabile 15
1.3.2 Pazienti con metastasi marginalmente o potenzialmente resecabile 15
1.3.3 Pazienti con metastasi mai resecabile 18
1.3.3.1 Pazienti non operabili con malattia diffusa/indolente e senza
deterioramento del PS dovuto alla malattia 20
1.3.3.2 Pazienti con elevato rischio di tossicità per comorbidità o età o
entrambe 22
2. Irinotecano 22
2.1 Anabolismo 25
2.2 Meccanismo d’azione 27
2.3 Catabolismo 30
2.4 Farmacocinetica 31
2.5 Impieghi terapeutici 33
2.6 Reazioni avverse 34
3. Farmacogenetica del CPT-11 37
3.1 UDP-glucuroniltransferasi (UGT) 38
3.2 UDP-glucuroniltransferasi 1 (UGT1) 39
3.3 UDP-glucuroniltransferasi 1 A (UGT1A) 40
3.4 UDP-glucuroniltransferasi 1 A1 (UGT1A1) 42
3.5 UDP-glucuroniltransferasi 1 A7 (UGT1A7) 45
Scopo della tesi 46
Materiali e Metodi 47
1. Pazienti 47
2. Estrazione del DNA genomico 47
3. Amplificazione PCR del DNA genomico 48
4. Analisi dei polimorfismi del gene UGT con sequenziamento automatico 51
Risultati 56
Discussione 59
Bibliografia 64
1
Riassunto
L’irinotecano (CPT-11), un chemioterapico utilizzato per il trattamento del carcinoma del
colon-retto e per altri tumori solidi, è un profarmaco e viene trasformato nel suo metabolita
attivo SN-38 dalla carbossilesterasi. L’uridina-glucuroniltransferasi (UGT) è il principale
enzima del metabolismo dell’SN-38 e agisce inattivandolo tramite una reazione di
glucuronidazione.
Esistono varianti genetiche dell’UGT ed il paziente portatore del deficit enzimatico può
manifestare gravi tossicità in seguito al trattamento chemioterapico, tra cui: diarrea,
neutropenia, iperbilirubinemia (sindrome di Gilbert) causata dalla variabilità genetica a
livello della regione TATA BOX del promotore del gene UDP-glucuroniltransferasi A1.
Lo studio farmacogenetico in questione consiste nel valutare i polimorfismi per chiarire i
motivi di una tossicità manifestata dopo le prime somministrazioni del farmaco.
I 58 pazienti affetti da carcinoma del colon-retto, presi in esame, sono stati trattati con
FOLFOXIRI, un’associazione di farmaci chemioterapici: acido folinico, 5 fluorouracile,
oxaliplatino e irinotecano, o FOLFIRI (acido folinico, 5 fluorouracile e irinotecano). E’
stato prelevato sangue periferico ed è stato estratto DNA genomico, amplificato con PCR,
purificato e sequenziato. Sono stati evidenziati 4 polimorfismi maggiormente associati a
tossicità: UGT1A*28 (TA) 6/7, UGT1A1*93 -3156 G>A, UGT1A7*3 387 T>G/ 391C/A,
UGT1A7*12-57T>G.
L’obiettivo di questo studio è quindi analizzare la correlazione tra i polimorfismi e la
tossicità dell’irinotecano in pazienti affetti da cancro colon-rettale.
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Premessa
Il carcinoma del colon-retto rappresenta la seconda causa di morte per tumore ed in Italia
l'incidenza varia nelle diverse regioni da 30 a 53 nuovi casi/anno ogni 100.000 abitanti. I
pazienti deceduti per questa neoplasia sono circa 18.000/anno e le proiezioni future
ipotizzano un progressivo aumento. Esistono chiare evidenze che la riduzione della
mortalità per carcinoma del colon-retto può essere ottenuta attraverso l'identificazione e il
trattamento della neoplasia in stadio precoce e soprattutto con l'asportazione dei polipi
adenomatosi che rappresentano la condizione di maggiore rischio per lo sviluppo del
carcinoma del colon-retto. Infatti la maggior parte dei tumori maligni intestinali sono
adenocarcinomi e sono il risultato della trasformazione di un polipo adenomatoso attraverso
la sequenza adenoma - carcinoma.
La sopravvivenza a 5 anni è correlata allo stadio della neoplasia: 90% circa nello stadio A
di Dukes, 50 - 60% nel B, 35% circa nello stadio C e <5% nello stadio D che corrisponde
alla malattia metastatica. Nel carcinoma del colon-retto la prognosi è in parte correlata alle
dimensioni del tumore primitivo ed in modo particolare al grado di atipia istologica,
all'invasione linfonodale e parietale. È acquisizione recente che lo sviluppo, la crescita e
l’eventuale trasformazione maligna dei polipi adenomatosi sono associate all'accumulo di
alterazioni attivanti di oncogeni e silencing di geni oncosoppressori. Talune alterazioni
genetiche, quando ereditate e presenti in tutte le cellule dell'organismo, predispongono
all'insorgenza dei carcinomi del colon-retto ereditari. Più frequentemente i fattori
ambientali alterano direttamente, nel corso della vita, il DNA delle cellule epiteliali della
mucosa intestinale, inducendo e sostenendo la progressione tumorale.
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Il trattamento chemioterapico dopo resezione completa della neoplasia (terapia adiuvante) e
della malattia avanzata si è arricchito nel tempo di nuovi farmaci ma ancora oggi la
categoria più importante è costituita dall’irinotecano.
Il meccanismo di azione consiste nell’inibizione della topoisomerasi I, enzima ubiquitario
in grado di alterare la topologia del DNA, ovvero il numero di avvolgimenti di un filamento
sull’altro, rompendo transitoriamente una sola delle catene di DNA.
Tuttavia l’effetto del trattamento è variabile e limitato ad una percentuale della popolazione
trattata. La variabilità di risposta e tollerabilità alla terapia con irinotecano può dipendere da
varie cause, tra cui fattori specifici del paziente (stato generale, età) e della malattia (stadio
di diffusione, grading istologico). Da un punto di vista farmacologico l’interazione del
farmaco con il bersaglio cellulare rappresenta l’elemento più rilevante per spiegare, da un
punto di vista farmacodinamico, gli effetti cellulari del farmaco. Tuttavia anche la tossicità
dei farmaci chemioterapici riveste un ruolo molto importante sia per la qualità di vita del
paziente che per la risposta clinica. I polimorfismi nelle regioni 5’ e 3’ non trascritte (3’- e
5’-UTR) e nelle regioni codificanti del gene che codifica per l’UGT hanno significato
funzionale poichè influenzano l’attività trascrizionale del gene e la quantità di proteina
prodotta. La revisione della letteratura suggerisce che l’analisi del DNA possa
rappresentare un metodo affidabile per accertare il valore prognostico della uridina-
glucuronitransferasi sullo sviluppo di tossicità in seguito a trattamento con irinotecano nei
pazienti con neoplasia del colon retto. Per tali motivi in questa tesi sono stati analizzati
alcuni polimorfismi del gene UGT ed il risultato è stato correlato con la tossicità legata al
trattamento con irinotecano manifestata nei pazienti in terapia.
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Introduzione
1.Il carcinoma del colon retto
Il termine “carcinoma del colon-retto” comprende propriamente le neoplasie del colon, del
retto, della giunzione retto-sigmoidea e dell’ano. Nel mondo si stimano circa un milione di
nuovi casi di carcinoma colorettale (CRC) all'anno con circa 500.000 decessi annui (Jemal
et al, 2007). Questa neoplasia si colloca al terzo posto per incidenza sia nel sesso maschile
che femminile negli Stati Uniti (American Cancer Society, 2007) , mentre in Europa, risulta
essere al terzo posto nel sesso maschile e al secondo in quello femminile costituendo l’8%
di tutte le diagnosi di neoplasia maligna in età adulta, con circa 300000 nuovi casi e
140.000 decessi complessivi (Ferlay et al, 2007). A livello mondiale esiste una notevole
differenza nell’incidenza di questa neoplasia essendo 4 volte superiore nei paesi
industrializzati, dove si riscontrano 20-30 casi ogni 100.000 abitanti, rispetto ai paesi in via
di sviluppo. Questa variabilità è spiegata dall’eterogeneità delle abitudini di vita ed
alimentari delle differenti culture e dalle diverse potenzialità di screening e diagnosi nei
vari contesti socioeconomici.
A partire dagli anni ´50, si è assistito ad una stabilizzazione o riduzione di incidenza nei
Paesi ad alto rischio (Europa, Nord-America ed Australia) ed a un graduale aumento di
incidenza di CRC nei Paesi a basso rischio, Africa, Asia ed America del Sud (Bonadonna et
al, 2007).
Le stime per l’Italia indicano un totale di circa 20.500 casi tra gli uomini e di 17.000 tra le
donne. Esiste una certa variabilità geografica nell’incidenza di CRC nel nostro paese con un
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rapporto tra le aree con i tassi più alti e quelle con i più bassi, rappresentate dall’Italia
meridionale e insulare, di circa 2 sia tra gli uomini che tra le donne.
Per quanto riguarda l’andamento nel tempo esiste una tendenza all’aumento dell’incidenza,
dovuto al sensibile miglioramento dell’accuratezza e della sensibilità delle tecniche
diagnostiche e all’aumento percentuale della popolazione anziana.
Il CRC presenta infatti un’incidenza maggiore nelle fasce di popolazione di età più elevata,
per cui si passa dai 2-3 casi di neoplasia su 100.000 abitanti di età inferiore ai 45 anni, ai
275/100.000 tra gli ultrasettantacinquenni, con un'età mediana di insorgenza di circa 70
anni (Coebergh et al, 1998).
Riguardo alla distribuzione tra i sessi, si nota una maggiore prevalenza nel sesso maschile,
giustificata in particolare dalla maggiore incidenza tra gli uomini delle forme rettali
(M:F=1,5:1). Oggi, escludendo i casi con forte componente di familiarità o ereditarietà, la
probabilità di ammalarsi di CRC nelle zone ad elevato tenore di vita è del 4,5% per gli
uomini e del 3,2% per le donne.
La forbice tra incidenza del CRC e mortalità ad esso correlata si sta costantemente
allargando, grazie all’importante apporto della diagnosi precoce, all’ampliamento delle
opzioni terapeutiche ed al conseguente miglioramento dei risultati di sopravvivenza, che a 5
anni si attesta attorno al 60% (Epidemiologia & prevenzione, 2006).
L’aspetto macroscopico del CRC viene distinto nella classificazione di Bormann in 4
forme:
carcinoma polipoide ben circoscritto – forma vegetante;
carcinoma ulcerato a margini rilevati – forma ulcerata;
carcinoma ulcerato a margini rilevati ed estesi – forma ulcero-infiltrante;
carcinoma diffuso, infiltrante e stenosante – forma anulare-stenosante.
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Mentre i tumori a sede prossimale tendono ad avere più frequentemente aspetto vegetante e
crescita all’interno del lume intestinale, quelli che insorgono nei tratti distali dell’intest ino
si presentano più spesso sotto forma di carcinomi infiltranti con esiti stenosanti a seguito
della diffusione circonferenziale e dell’intensa reazione desmoplastica peritumorale.
Microscopicamente secondo la classificazione istologica WHO (Jass et al, 1989) troviamo:
adenocarcinoma, costituito da strutture ghiandolari di variabili dimensioni e
configurazione;
adenocarcinoma mucoide (o mucinoso), caratterizzato dalla presenza di abbondante muco
extracellulare, che costituisce più del 50% del volume tumorale;
carcinoma a cellule con castone (signet-ring cell carcinoma), costituito per il 50% da
cellule con castone, contraddistinte da un voluminoso vacuolo intracitoplasmatico di muco
che sposta il nucleo in periferia;
carcinoma midollare, prevalentemente costituito da lamine e trabecole solide di cellule in
genere regolari e con modeste atipie nucleari e caratterizzato dalla presenza di numerosi
linfociti intraepiteliali;
carcinoma indifferenziato, privo di aspetti morfologici di differenziazione epiteliale;
carcinoma a piccole cellule, con caratteristiche morfologiche e biologiche simili a quelle
del carcinoma a piccole cellule polmonare;
carcinoma adenosquamoso;
carcinoma squamoso.
Il grading caratterizza le neoplasie in base alla differenziazione cellulare, distinguiamo:
neoplasie di grado 1 (G1) ben differenziate; di grado 2 (G2) moderatamente differenziate;
di grado 3 (G3) scarsamente indifferenziate e di grado 4 (G4) indifferenziate. I parametri
considerati sono la conservazione della polarità del nucleo, la configurazione delle
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ghiandole, il pattern di crescita, l’infiltrazione infiammatoria e la reazione desmoplastica.
Altri parametri istologici che vengono prese in considerazione nel CRC, soprattutto in
funzione di una correlazione con il decorso clinico, sono l’invasione vascolare e perineurale
(Gagliardi et al, 1995), il tipo di crescita (espansiva od infiltrativa), il grado di infiltrazione
linfocitaria al margine di invasione, la presenza di aggregati nodulari linfocitari
peritumorali (reazione linfocitaria “tipo Crohn”), il numero di linfociti compenetranti le
cellule neoplastiche (tumor infiltrating lymphocytes o TIL).
1.1 La sequenza adenoma-carcinoma
Vi è ormai accordo fra clinici e patologi nel ritenere che la maggioranza dei CRC si
sviluppi a partire da lesioni inizialmente benigne, i polipi adenomatosi. La sequenza
adenoma-carcinoma è stata inizialmente suggerita da dati morfologici, poi consolidata da
dati clinici ed epidemiologici, infine confermata da osservazioni biomolecolari.
Questo non esclude che una parte minore di CRC possa anche svilupparsi senza essere
preceduta da adenomi. L’importanza della sequenza adenoma-carcinoma è intuitiva;
essendo i polipi facilmente asportabili per via endoscopica, è teoricamente possibile
interrompere tale sequenza e quindi prevenire lo sviluppo di un tumore maligno, attraverso
periodici controlli endoscopici dei soggetti a rischio.
Gli adenomi colorettali sono molto frequenti nella popolazione generale; non sono noti
quali e quanti di questi adenomi siano destinati ad evolvere verso lesioni maligne ed il
tempo richiesto per tale trasformazione. Si ritiene tuttavia che il rischio di evoluzione verso
una forma cancerosa sia dipendente da:
istotipo (rischio maggiore per i polipi villosi);
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dimensioni del polipo (sono più soggetti alla trasformazione maligna i polipi di diametro
superiore a 1 cm);
numero di polipi (rischio maggiore per i polipi multipli);
grado di displasia.
Attualmente si ritiene che esistano due vie di sviluppo del carcinoma colico
patogeneticamente distinte (Kinzler et al, 1996) entrambe dovute all’accumulo progressivo
di mutazioni.
La prima è la via dell’APC/β-catenina, caratterizzata da un’instabilità cromosomica che
determina il graduale accumulo di mutazioni in oncogeni e oncosoppressori.
I geni coinvolti nel processo di cancerogenesi sono raggruppati in anti-oncogeni o geni
oncosoppressori (p53, APC, DCC, MCC), che modulano in senso negativo il processo di
proliferazione favorendo invece la differenziazione cellulare, e in proto-oncogeni, cioè geni
coinvolti ancora una volta nel processo di proliferazione cellulare perché codificanti per
recettori dei fattori di crescita (c-SYS, c-ERB-B/Neu, c-ERB-A), fattori di trascrizione
nucleare (c-MYC, c-FOS, c-JUN) e proteine intracellulari trasduttrici del segnale di crescita
(RAS, c-ABL) (Calvert et al, 2002).
Fearon and Vogelstein (Fearon et al, 1990) hanno descritto le basi molecolari
dell’insorgenza del tumore colorettale sporadico come un processo di “multistep
cancerogenesis”, alla base del quale vi è un accumulo di mutazioni geniche, ognuna delle
quali conferisce un vantaggio di crescita selettivo ad una certa popolazione cellulare colica.
Questi cambiamenti portano come effetto finale alla crescita cellulare incontrollata e allo
sviluppo del clone tumorale.
La mutazione del gene oncosoppressore APC (presente nell’80 % dei carcinomi sporadici)
è considerata il primo passo per la cancerogenesi ed è presente nelle lesioni neoplastiche
precoci. Questo gene codifica una proteina che si lega ai fasci di microtubuli e favorisce la
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migrazione e l’adesione cellulare. Regola inoltre i livelli di β-catenina che si accumula nel
nucleo e si lega ad una famiglia di recettori proteici di trascrizione (TCF T-Cell Factor) che
attiva una serie di geni che regolano la proliferazione cellulare. Quindi il gene mutato causa
un’adesione cellulare deficitaria e un’eccessiva attività proliferativa. Il gene KRAS, che si
trova sul cromosoma 12, codifica per una proteina di trasmissione del segnale di crescita
extracellulare che agisce nel nucleo. La sua mutazione, presente nel 40% dei tumori del
colon dà luogo all’attivazione costitutiva della proteina che provoca una continua
stimolazione della crescita cellulare. Altri elementi caratteristici sono la perdita delle
SMAD, localizzate in 18q21, coinvolte nella via di segnalazione del TGF-β (Taketo et al,
2000), la perdita di p53, sul cromosoma 17p, presente nel 70-80% dei carcinomi e
l’attivazione della telomerasi che mantiene la stabilità del telomero e rende la cellula
immortale.
La seconda via di sviluppo del carcinoma colico è detta “via dell’instabilità dei
microsatelliti”, sequenze di DNA ripetitivo che possono andare frequentemente incontro a
disallineamento durante la replicazione del DNA (Kinzler et al, 2002). Tratto costitutivo di
questa via sono le lesioni nei geni riparatori degli errori di allineamento (mismatch) del
DNA, che si trovano nel 10-15% dei CRC sporadici e nella HNPCC. Si verifica
l’inattivazione di uno dei 5 geni (hMSH2 2p22, hMLH1 3p21, MSH6 2p21, hPMS1 2q 31-
33, hPMS2 7p22) deputati alla verifica genetica della corretta riparazione del DNA che
causa l’instabilità dei microsatelliti. Per l’individuazione del grado d'instabilità bisogna
analizzare almeno 5 loci ed il panel di riferimento è costituito da due markers
mononucleotidici (BAT26 e BAT25) e tre markers dinucleotidici (D2S123, D5S346 e
D17S250).
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Secondo le indicazioni del Workshop Internazionale di Bethesda del 1997, per quanto
riguarda lo status MSI si distinguono tre categorie di CRC:
MSI-H (MSI di grado elevato):instabilità presente nel 30% o più dei loci esaminati;
MSI-L (MSI di basso grado): instabilità presente in < 30% dei loci esaminati;
MSS (microsatellite stabili): assenza di MSI.
I carcinomi MSI-H hanno caratteristiche clinico-patologiche, biologiche e genetiche
distintive, si trovano prevalentemente nel colon prossimale hanno un unico aspetto
istopatologico e sono associati ad un decorso clinico meno aggressivo, mentre i tumori
MSI-L (5-10% dei casi) presentano un profilo biopatologico e molecolare sovrapponibile a
quello dei carcinomi MSS. Per questo motivo parte dei ricercatori preferisce suddividere i
tumori colorettali in due sole categorie: microsatellite instabili (corrispondenti agli MSI-H)
e microsatellite stabili (Boland et al, 1998).
Mentre la sequenza adenoma-carcinoma è operante anche nella genesi dei tumori MSI-H
ereditari, nei quali la progressione da adenoma a carcinoma si verifica più rapidamente,
l’istogenesi dei carcinomi MSI-H sporadici è ancora indeterminata. Recenti studi sembrano,
in ogni modo, indicare nei polipi iperplastici e negli adenomi serrati i principali precursori
morfologici di queste neoplasie (“serrated neoplasia pathway”).
1.2 Stadiazione
Un’importante classificazione utilizzata in passato per il CRC in Europa e negli Stati Uniti
è quella di Dukes (Tab.1a) modificata da Astler-Coller nel 1954 e successivamente da
Turnball nel 1967.
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Stadio A Tumore limitato alla mucosa
Stadio B1 Tumore non esteso oltre la muscolare propria
Stadio B2 Tumore esteso oltre la muscolare propria senza coinvolgimento
linfonodale
Stadio C1 Presenza di metastasi ai linfonodi regionali
Stadio C2 Presenza di metastasi ai linfonodi apicali
Stadio D Presenza di metastasi a distanza
Tabella 1a. Classificazione di Dukes modificata
Fondamentale è la valutazione attraverso il sistema TNM, dove T (Tumor) indica
l’estensione locale della malattia, N (Nodes) il numero di linfonodi coinvolti e M
(Metastasis) la presenza di localizzazioni a distanza secondo il sistema stadiativo
raccomandato dall’American Joint Committee on Cancer (AJCC). Esiste una
classificazione clinica che viene utilizzata per la scelta terapeutica e una patologica post
operatoria che ha valore prognostico, indicata dal prefisso “p” (Tab.1b).
Viene utilizzato inoltre il prefisso “y” per indicare la stadiazione patologica dopo terapia
neoadiuvante del carcinoma del retto.
T-Tumore primitivo
Tx Tumore primitivo non definibile
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T0 Nessuna evidenza di tumore primitivo
Tis Carcinoma in situ: intraepiteliale o con invasione della tonaca propria della mucosa
T1 Tumore che infiltra la sottomucosa
T2 Tumore che infiltra la tonaca muscolare
T3 Tumore che infiltra a tutto spessore la tonaca muscolare con invasione della
sottosierosa o dei tessuti pericolici o perirettali non rivestiti da sierosa
-pT3a Minima invasione (< 1 mm oltre la muscolare propria)
-pT3b Invasione (> 5 mm oltre la muscolare propria)
-pT3c Invasione moderata (da 5 a 15 mm oltre la muscolare propria)
-pT3d Invasione estesa (> 15 mm oltre la muscolare propria)
T4 Tumore che infiltra direttamente altri organi o strutture e/o il peritoneo viscerale
N- Linfonodi regionali
N0 Linfonodi regionali liberi da metastasi
N1 Metastasi in 1-3 linfonodi regionali
N2 Metastasi in 4 o più linfonodi regionali
M- Metastasi a distanza
M1 Presenza di metastasi a distanza
Tabella 1b. Stadiazione TNM
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Dopo la resezione chirurgica, i tumori operati radicalmente vengono indicati R0, quelli con
margini positivi R1, mentre la persistenza di tumore macroscopico viene classificata come
R2.
Esiste poi una distinzione della malattia in base allo stadio, nella quale possono essere
unificate le altre due classificazioni, che tiene conto della prognosi (Tab.1c).
Dukes T N M Stadio
OS a 5
anni
A
Tis N0 M0 0 100%
T1 N0 M0
I
90-100%
B1 T2 N0 M0 93,2%
B2 T3 N0 M0 Iia 84,7%
B2 T4 N0 M0 IIB 72,2%
C1
T1-2 N1 M0 IIIA 83,4%
T3-4 N1 M0 IIIB 64,1%
C2 ogni T N2-3 M0 IIIC 44,3%
D ogni T ogni N M1 IV 8,1%
Tabella 1c. Confronto tra classificazione di Dukes, TNM, stadiazione chirurgica e tassi di
sopravvivenza
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1.3 Il trattamento della malattia avanzata
Negli ultimi anni è emerso come il mCRC sia una condizione patologica eterogenea dal
punto di vista clinico, chirurgico e biomolecolare, il suo trattamento necessita quindi di un
approccio multidisciplinare, che si avvalga di nuovi agenti citotossici e biologici così come
di tecniche interventistiche innovative, chirurgiche e non, sempre più efficaci per il
trattamento della malattia metastatica limitata.
Il farmaco cardine è stato ed è tuttora il 5FU, generalmente in associazione a LV, e la
somministrazione infusionale si è dimostrata vantaggiosa rispetto a quella in bolo, sia in
termini di efficacia che di sicurezza. Negli ultimi dieci anni è stato dimostrato che
l’aggiunta di irinotecano o oxaliplatino, alla monochemioterapia con 5FU/LV aumenta
l’attività della chemioterapia, tanto che i regimi di combinazione con due farmaci sono
universalmente accettati come opzione standard per il trattamento di prima linea del mCRC
(Douillard et al, 2000; Saltz et al, 2000; Giacchetti et al, 2000).
Nella gestione dei pazienti, le scelte del clinico devono tener conto dell’obiettivo che è
ragionevole immaginare di poter raggiungere con la terapia, che può variare, sulla base
delle caratteristiche del paziente e della neoplasia, dalla guarigione completa, all’aumento
della sopravvivenza e al miglioramento della qualità della vita, fino alla sola palliazione.
In relazione al paziente sono determinanti: l’età, il performance status (PS), la funzionalità
epatica, le comorbidità e le sue aspettative. In relazione alla neoplasia è opportuno stimarne
principalmente l’attuale o potenziale resecabilità e l’aggressività.
In base a questi parametri possiamo distinguere:
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Pazienti con metastasi resecabili immediatamente;
Pazienti con metastasi marginalmente o potenzialmente resecabili;
Pazienti con i) malattia diffusa/aggressiva e mai operabili per estensione di malattia o con
ii) deterioramento del PS dovuto alla malattia o entrambe le caratteristiche;
Pazienti con malattia diffusa/indolente e senza deterioramento del PS dovuto alla malattia;
Pazienti con elevato rischio di tossicità per comorbidità o età o entrambe. L’appartenenza a
ciascuno di questi gruppi condiziona profondamente la strategia di trattamento.
1.3.1 Pazienti con metastasi resecabili
Il 10-20% dei pazienti con CRC si presenta con metastasi epatiche immediatamente
resecabili al momento della diagnosi. In linea generale, rientrano in questo gruppo pazienti
con interessamento epatico limitato (fino a circa 4 lesioni confinate ad un unico lobo),
margini adeguati da un punto di vista radiologico e assenza di coinvolgimento dei linfonodi
portali.
In questi pazienti ad oggi, in attesa dei risultati di specifici studi randomizzati, è possibile
effettuare indifferentemente una chemioterapia adiuvante post resezione o una
chemioterapia peri-operatoria (in ogni caso basata sulla combinazione di fluoropirimidine e
oxaliplatino e per 6 mesi complessivi di trattamento).
1.3.2 Pazienti con metastasi marginalmente o potenzialmente resecabili
In questo gruppo troviamo sia i) pazienti in cui la resezione è tecnicamente fattibile ma i
margini appaiono inadeguati radiologicamente e sono presenti uno o più importanti fattori
prognostici negativi (pazienti marginalmente operabili) sia ii) pazienti in cui la chirurgia
sulle metastasi potrebbe essere attuabile ma solo a patto di una riduzione del volume
tumorale e/o della scomparsa di alcune lesioni (epatiche o extra-epatiche).
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È stato dimostrato che una chemioterapia di prima linea aggressiva con regimi di
combinazione (doppiette o triplette o doppiette + farmaci biologici) può condurre, in caso
di risposta, alla resezione radicale delle metastasi, dando a questi sottogruppi di pazienti
una chance di sopravvivenza a lungo termine o di guarigione.
Elemento chiave in questo caso è rappresentato dalla riduzione di volume della neoplasia,
come sottolineato da un’interessante analisi retrospettiva che ha dimostrato una
correlazione diretta tra il tasso di risposta alla chemioterapia di prima linea e il tasso di
resezioni radicali postchemioterapia (Folprecht et al, 2005).
Nello studio del Groupe Cooperateur Multidisciplinaire en Oncologie (GERCOR) pazienti
con mCRC sono stati randomizzati a ricevere un trattamento in prima linea per la malattia
metastatica con FOLFIRI ogni 2 settimane seguito da FOLFOX-6 ogni 2 settimane alla
progressione (braccio A) oppure a ricevere prima FOLFOX-6 e poi FOLFIRI (braccio B).
Entrambi i bracci hanno dimostrato efficacia ed attività sovrapponibili con una
sopravvivenza mediana di 21.5 mesi nel braccio A e di 20.6 mesi nel braccio B. Il tasso di
resezioni era più alto nel braccio B (9% vs 22%, p=0.029) ma l’aumento di resezioni R0
non si è dimostrato statisticamente significativo (7% vs 13%, p=0.26). Le doppiette quindi
possono essere considerate sostanzialmente equivalenti nel setting neoadiuvante.
Lo studio GERCOR ha inoltre suggerito che l’esposizione dei pazienti con mCRC a tutti e
tre i farmaci più attivi, indipendentemente dalla sequenza con cui vengono utilizzati, è
associata a risultati decisamente positivi in termini di sopravvivenza. Inoltre un’analisi
combinata di sette studi di fase III (Grothey et al, 2004) ha dimostrato che se i pazienti
ricevono tutti e tre i farmaci attivi (in maniera concomitante o sequenziale) durante la
malattia hanno un vantaggio in sopravvivenza. La stessa analisi mostra come nel
trattamento sequenziale, non tutti i pazienti che progrediscono dopo la chemioterapia di
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prima linea potranno ricevere il trattamento di seconda linea e quindi non saranno esposti ai
tre farmaci.
Sulla base di queste considerazioni e ed allo scopo di migliorare l’attività dei regimi
convenzionali di trattamento di prima linea Falcone e Coll hanno condotto, in pazienti con
metastasi inizialmente non resecabili, uno studio di fase I-II per valutare l’attività di un
regime chemioterapico a base di irinotecano e oxaliplatino, LV e 5FU in infusione crono
modulata (Falcone et al, 2002), seguito poi da uno studio di fase II in cui è stato sviluppato
un regime di associazione semplificato con la tripletta (FOLFOXIRI) (Masi et al, 2004).
Lo studio pilota ha arruolato 42 pazienti, di cui 11 sono stati sottoposti a resezione della
malattia residua, il trattamento ha dimostrato di avere tossicità accettabili e maneggevoli,
sono state riscontrate una PFS e un OS rispettivamente di 10.4 e 26.5 mesi. Nello studio di
fase II è stato riscontrato un RR del 72% ( 95% CI 0.53- 0.86), un tasso di resezione
radicale delle metastasi post chemioterapia del 25% e dopo un follow up mediano di 18.1
mesi, una PFS mediana di 10.8 mesi e una OS mediana di 28.4 mesi.
L’analisi combinata di entrambi gli studi ha dimostrato inoltre che nel 26% dei pazienti è
stato possibile effettuare dopo la chemioterapia una resezione secondaria R0 da sola (16%)
o associata a RFA (10%) della malattia residua (Masi et al, 2006), permettendo di ottenere
un tasso di sopravvivenza a 4 anni del 37%.
Partendo da questi risultati il Gruppo Oncologico Nord Ovest (G.O.N.O.) ha messo a
confronto, in uno studio multicentrico di fase III il regime semplificato di FOLFOXIRI con
il regime standard FOLFIRI, arruolando 244 pazienti con CRC con metastasi inizialmente
non resecabili. (Falcone et al, 2007) Va detto che nei pazienti che ricevevano FOLFIRI era
raccomandato un trattamento a base di oxaliplatino al momento della progressione.
Il trattamento con la tripletta ha dato luogo a un RR del 66% vs 41% del braccio di
controllo con solo FOLFIRI (p=0.002) e ad un maggior numero di resezioni radicali delle
18
metastasi (15% vs 6%; p=0.033); nei pazienti con metastasi confinate al fegato il tasso di
resezioni R0 è risultato del 36% per la tripletta vs 12% per la doppietta. Anche all’analisi
multivariata è stato confermato il ruolo determinante della tripletta nel condurre a resezioni
R0 (HR 3.1, 95% CI 1.2-7.9, p=0.018). E’ stato osservato inoltre un aumento della PFS (9.8
vs 6.9 mesi; HR 0.63, p=0.006) e dell’OS (22.6 vs 16.7; HR 0.70, p=0.032), il trattamento
ha comportato un aumento della neurotossicità di grado 3 (19% vs 0%; p<0.001) e della
neutropenia di grado 3/4 ( 50% vs 28%; p<0.001). Una nuova analisi retrospettiva condotta
sui 196 pazienti trattati nell’ambito dei tre studi citati con il regime FOLFOXIRI, ha
mostrato che il 19% dei pazienti sono successivamente andati incontro a chirurgia
secondaria R0 (+/-RFA) sulle metastasi (tale percentuale saliva al 34% considerando
pazienti con malattia confinata al fegato). Dopo un follow up mediano di 67 mesi la
sopravvivenza a 5 e 8 anni era rispettivamente del 42% e 33% (Masi et al, 2009).
È bene tenere presente nella gestione globale del paziente che la terapia sistemica può
causare specifiche tossicità epatiche, in particolare, il trattamento con oxaliplatino è
associato a dilatazione sinusoidale (Rubbia-Brandt et al, 2004), quello con irinotecano a
steatoepatite
(Vauthey et al, 2006), anche se in realtà non è mai stata dimostrata
chiaramente una relazione diretta tra intensità della chemioterapia e morbidità o mortalità
postresezione (Scoggins et al, 2009), le complicanze sembrano aumentare con trattamenti
prolungati (Karoui et al, 2006).
1.3.3 Pazienti con metastasi mai resecabili
Pazienti con i) malattia diffusa/aggressiva e mai operabili per estensione di malattia o con ii)
deterioramento del PS dovuto alla malattia o entrambe le caratteristiche
19
Tra i fattori prognostici negativi da considerare per stimare l’aggressività della malattia
bisogna valutare: la modalità di comparsa delle metastasi, sincrone o metacrone, il numero
delle sedi di malattia, livelli elevati di LDH, ALP e leucociti, bassi livelli di emoglobina,
condizioni generali scadute a causa della neoplasia (Sorbye et al, 2007).
Goldberg e Coll (Sargent et al, 2009) hanno mostrato in un’analisi combinata di nove studi
di prima linea in pazienti con mCRC che il PS 2 è un fattore prognostico negativo ma non
influenza il beneficio ottenuto con le terapie di combinazione. Infatti, nei pazienti con PS di
grado 0-1 la PFS mediana era di 7.2 vs 4.9 mesi nei pazienti con PS 2 (HR 1.52, 95% CI
1.38-1.66, p<0.0001), ma i soggetti con PS 2 trattati con terapia di combinazione
ottenevano una PFS mediana di 5.8 mesi, significativamente superiore rispetto alla mediana
di 3.6 mesi dei pazienti trattati in monoterapia (HR 0.78, 95% CI 0.62-0.98, p< 0.0001). In
particolare, le doppiette con 5FU infusionale e oxaliplatino o irinotecano confrontate con il
trattamento con 5FU in monochemioterapia hanno mostrato una maggiore attività in tutti i
soggetti trattati, ma i pazienti con PS 2 ne hanno tratto il beneficio relativo maggiore
(pazienti PS 0-1 PFS 8.7 mesi vs 6.3 mesi HR 0.72, 95% CI 0.67-0.77, p< 0.0001; pazienti
PS 2 PFS 6.9 mesi vs 3.2 mesi, HR 0.64; 95% CI 0.50-0.81, p< 0.0003; all’analisi di
interazione p=0.039) a prezzo di un incremento di nausea, vomito e mortalità a 60 giorni.
Grothey e Coll hanno valutato l’effetto terapia di combinazione più aggressiva in prima
linea nei pazienti che a causa del cattivo PS o dell’aggressività della malattia avranno poche
possibilità di ricevere un trattamento di seconda linea.
Anche in questo gruppo di pazienti una terapia di combinazione a 2 o 3 farmaci in prima
linea risulta essere la strategia preferibile. L’utilizzo della tripletta può permettere ai
pazienti di beneficiare degli effetti dei tre farmaci più attivi contemporaneamente. Anche in
questo caso bisogna tener conto dell’obiettivo che si vuole raggiungere con la terapia, la
strategia più efficace infatti può determinare una rapida riduzione dei sintomi e ritardare
20
l’insorgenza dell’insufficienza epatica, se c’è un coinvolgimento importante del fegato a
prezzo però di un’aumentata tossicità.
1.3.3.1 Pazienti non operabili con malattia diffusa/indolente e senza deterioramento
del PS dovuto alla malattia
I pazienti con queste caratteristiche rappresentano un gruppo consistente dei soggetti affetti
da mCRC. L’obiettivo primario della terapia in questo caso è di prolungare il più possibile
la sopravvivenza senza compromettere la qualità di vita, posticipando la comparsa della
fase sintomatica e non esponendo i pazienti a tossicità inutili.I trial FOCUS e CAIRO
hanno mostrato che in questi gruppi selezionati di pazienti le strategie che utilizzano un
singolo farmaco in prima linea seguito poi da una doppietta non sono inferiori in termini di
OS a strategie che utilizzano la doppietta in prima linea.
Il trial FOCUS
(Seymour et al, 2007) ha assegnato 2135 pazienti a 3 strategie di
trattamento:
Strategia sequenziale a singolo agente: 5FU seguito alla progressione da irinotecano
(Braccio A);
Strategia sequenziale con doppietta in seconda linea: 5FU seguito da FOLFIRI (Braccio B)
o da FOLFOX (Braccio D);
Strategia di combinazione con doppietta in prima linea: FOLFIRI (Braccio C) e FOLFOX
(Braccio E).
I pazienti nel braccio A hanno avuto l’outcome peggiore con un OS di 13.9 mesi vs 15.0
mesi dei pazienti nel braccio B, 15.2 del braccio D, 16.7 mesi del braccio C e 15.4 mesi del
braccio E. Il confronto di ogni gruppo con il braccio di controllo ha mostrato che solo i
pazienti del gruppo C avevano un vantaggio statisticamente significativo (p=0.01), il
confronto globale di non inferiorità tra braccio B+D (terapia sequenziale con doppietta in
21
seconda linea) e braccio C+E (terapia di combinazione con doppietta in prima linea) ha
mostrato un HR di 1.06, 90% CI 0.97-1.17.
Sulla base di questi dati gli autori hanno proposto che nel setting non curativo in prima
linea bisogna utilizzare il trattamento più tollerabile, l’approccio sequenziale con la
doppietta in prima o seconda linea sono entrambi validi e possono essere proposti al
paziente.
Confronti con altre casistiche in popolazioni analoghe fanno considerare come i risultati in
termini di OS ottenuti in questi studi siano piuttosto deludenti (OS mediane decisamente
inferiori ai 20 mesi ottenute con i trattamenti con doppietta o tripletta in prima linea). E’ da
notare che solo pochi pazienti inseriti in questo studio abbiano ricevuto i tre farmaci: il 19%
nei bracci B e D e il 33% nei bracci C ed E.
Lo studio CAIRO
(Koopman et al, 2007) ha randomizzato 820 pazienti a ricevere
sequenzialmente capecitabina (1a linea), irinotecano (2a) e capecitabina+oxaliplatino (3a)
oppure capecitabina+irinotecano (1a) e capecitabina+oxaliplatino a progressione (2a).
La differenza tra i due gruppi in termini di OS mediana non ha raggiunto la significatività
statistica (16.3 vs 17.3 nei due bracci rispettivamente, p=0.3281, HR 0.92, 95% CI 0.79-
1.08).
In conclusione, ad oggi, una strategia che preveda l’impiego up-front di una doppietta
rimane nonostante i dati degli studi FOCUS e CAIRO la più praticata anche in pazienti non
resecabili con un buon PS e con malattia poco aggressiva, sebbene sia un dato di fatto che
strategie meno aggressive possano essere considerate delle alternative percorribili in casi
selezionati.
1.3.3.2 Pazienti con elevato rischio di tossicità per comorbidità o età o entrambe
22
I dati relativi a questo gruppo di pazienti sono piuttosto scarsi, infatti i pazienti anziani o
con insufficienza epatica o renale o altre comorbidità importanti sono spesso esclusi o poco
rappresentati nei trials clinici. In questa categoria di pazienti elementi decisionali
fondamentali sono l’esperienza del medico e le aspettative del paziente. Le strategie
utilizzate possono essere: la terapia di supporto, la chemioterapia con singolo farmaco o di
combinazione entrambe con dosaggi modificati empiricamente.
2. Irinotecano
L’irinotecano (CPT-11 Fig. 1) è uno dei farmaci antitumorali utilizzati in oncologia; esso è
impiegato da solo o in associazione con altri farmaci nel trattamento di varie neoplasie ma
in particolare nel carcinoma colon-retto.
Figura 1. Irinotecano
L’irinotecano è un derivato della Camptotecina, capace di inibire la topoisomerasi I
coinvolta nella replicazione del DNA.
Le topoisomerasi I sono l’unico bersaglio di una classe di droghe della famiglia dei
quinoloni, che hanno come capostipite la camptotecina (Hsiang et al., 1985; Hsiang et al.,
1988). La camptotecina è un alcaloide indolo monoterpenoide presente nella corteccia, nel
legno e nei frutti di una pianta asiatica della famiglia delle Nyssaceae, la Camptotheca
acuminata (Wall et al., 1966). Questa molecola presenta un sistema di anelli pentaciclico
23
che comprende una subunità chinolinica (anelli A e B) fusa attraverso due anelli interposti
(C e D) ad un anello terminale α-idrossi-δ-lattone con un centro chirale nella posizione C-
20 (E) (Fig. 2) (Wall et al., 1966). Studi di rimozione degli anelli A, A-B o A-B e C hanno
mostrato che i composti tetra, tri e biciclici che si vengono a formare sono privi di attività
inibitoria (Wall et al., 1995); mentre l’aggiunta di un ulteriore anello, con la formazione di
derivati esaciclici, non determina alcuna alterazione dell’efficacia. Quindi lo scheletro di
cinque anelli la struttura minima richiesta per l’attività del farmaco (Wani et al., 1980) e la
sua configurazione planare è essenziale per l’inibizione della topoisomerasi I.
Altre caratteristiche possono però alterare la citotossicità evidenziando un decremento
nell’efficacia, quali modificazioni dell’anello E, che coinvolgono il 20-(S)-idrossile o il
gruppo α-idrossilattonico, modificazioni del gruppo piridone dell’anello D, sostituzioni
nella posizione 12 dell’anello A o la saturazione dell’anello B (Hertzberg et al., 1989; Wall
et al., 1977; Wani et al., 1987; Nicholas et al., 1990) al contrario, ben tollerate e spesso
stimolatrici della tossicità del farmaco sono le sostituzioni nelle posizioni 9, 10 e 11
dell’anello A (Sawada et al., 1996; Crow et al., 1992). Ad esempio la camptotecina presente
in natura nella forma 20 (S) è in grado d’inibire la topoisomerasi I 10-100 volte più
potentemente dell’isomero 20 (R) (Garcia-Carbonero et al., 2002). Un’ulteriore
caratteristica strutturale importante riguarda il gruppo α-idrossilattonico dell’anello E che è
soggetto ad idrolisi spontanea e reversibile portando all’apertura dell’anello, forma
carbossilata, a pH neutro o alcalino. Quindi in soluzione si viene a creare un equilibrio
dinamico pH dipendente tra la forma lattonica ad anello chiuso e quella carbossilica (Fig.
2).
24
Figura 2. Struttura della molecola della camptotecina
La forma carbossilica, molto più solubile, è considerata quasi del tutto inattiva, mentre la
forma lattonica è quella che presenta un’attività citotossica più elevata, ma una solubilità
inferiore (Fassberg et al., 1992; Pizzolato et al. 2003). In alcuni distretti dell’organismo
umano in cui vi è un’alta acidità (ad esempio la vescica), l’acido carbossilico si converte in
lattone, comportando forti effetti collaterali come gravi cistiti emorragiche. Inoltre, la sua
scarsa solubilità ha comportato problemi nella somministrazione, tanto che la sua
sperimentazione clinica è stata fermata nel 1972. Per questi motivi la camptotecina non è
impiegata nella cura di alcuni tumori come quello delle ovaie e quello colon-rettale, ma si
preferiscono dei suoi derivati maggiormente solubili come il topotecano e l’irinotecano.
L’irinotecano (7-etil- 10[4-(1-piperidin)-1-piperidin] carbonilossicamptotecina), o
Camptosar è attivo contro il cancro dei polmoni, della cervice e delle ovaie (Ulukan et al.,
2002). La caratteristica peculiare di questa droga è la sua estesa catena laterale
dipiperidinica, che rende il farmaco molto solubile, ma sostanzialmente inattivo, e
l’eliminazione di questa, grazie all’attività di carbossilesterasi (soprattutto nel fegato e nel
distretto gastrointestinale), determina la formazione del metabolita attivo SN-38, che è 1000
volte più potente dell’irinotecano (Fig.3).
25
Figura 3. Equilibrio della CPT-11 e dell’ SN-38 in forma lattonica e carbossilata
L’attivazione dell’ irinotecano avviene tramite l’attacco della Ser-OH della carbossilesterasi
(Step 1) con formazione dell’SN-38 e 4PP carbossilato; quest’ultimo idrolizza
spontaneamente a 4PP e CO2 dopo la fase 2. (Fig.4) (Bencharit et al, 2002).
Figura 4. Attivazione di CPT-11
2.1 Anabolismo
L’attivazione del metabolita SN-38 dipende dalle isoforme della carbossilesterasi 1 (hCE1)
e 2 (hCE2), la cui attività rimuove il gruppo dipiperidinico dalla molecola (Fig.5). L’hCE1
differisce solo per sei aminoacidi dall’hCE2 (Bencharit et al, 2002).
26
L'importanza di hCE (in particolare l'isoforma 2) nell'attivazione del farmaco e nell' effetto
citotossico è stata dimostrata in studi preclinici (Danks et al, 1998; Yano et al, 1998).
Tuttavia, uno studio recente dimostra che l'alta espressione della hCE1 nel fegato
contribuisce l’attivazione del CPT-11 fino al 50%, nonostante che l’ isoforma è 100 volte
meno efficiente che hCE2 (Hatfield et al, 2011). Gli stessi autori riferiscono che nei
fumatori, gli estratti microsomiali polmone sono più efficienti nella attivazione della droga,
e quindi sosteniamo il ruolo di fumo come un possibile fattore di variabilità nei CPT-11
farmacocinetica. L'attività di misura del plasma hCE non sembra associato con
l'esposizione relativa di tessuti in SN-38 (Guemei et al, 2001), nonostante l'espressione
hCE2 in cellule periferiche mononucleate del CPT-11 prevede l'attivazione in SN-38
(Cecchi net al, 2005). Il rapporto della concentrazione plasmatica di CPT-11/SN-38 è di
circa 10:1, ma vale la pena notare che l'irinotecano ha un'attività citotossica trascurabile se
confrontato con il principale metabolita SN-38 (100-1000 volte più potente del farmaco
profarmaco) (Chabot et al, 1997).
Figura 5. Meccanismo di attivazione metabolica del CPT-11 che deve essere trasformato
(mediante de-esterificazione) in SN-38 per esercitare la sua attività citotossica
27
I percorsi alternativi del metabolismo del CPT-11 coinvolgono le isoforme CYP
(principalmente 3A4) (Santos et al, 2000), con la produzione di 7-etil-10-[4-N-(acido 5-
aminopentanoico)-1-piperidino]-carbonilossi-camptotecina (APC) e 7-etil-10-(4-amino-1-
piperidino)-carbonilossi-camptotecina (NPC), essendo quest'ultima ulteriormente
trasformato in SN-38 dai microsomi del fegato e carbossilesterasi del fegato. Altri 4
metaboliti minori, denominato M1 fino a M4, sono stati identificati in campioni di urine dei
pazienti trattati con CPT-11, e studi in vitro hanno dimostrato che le isoforme CYP3A4 e
CYP3A5 contribuiscono alla loro produzione partendo dall’ irinotecano (Fig.6) (Santos et
al, 2000).
Figura 6. Biotrasformazione del CPT-11
2.2 Meccanismo d’azione
Le DNA topoisomerasi sono una classe di enzimi ubiquitari presenti in tutti gli organismi
viventi (Wang et al, 1985). Il ruolo fondamentale delle topoisomerasi deriva dalla struttura
a doppia elica del DNA: per molti processi che richiedono l’accesso alle informazioni
contenute nell’acido nucleico, i due filamenti devono essere separati temporaneamente –
28
come nel caso della trascrizione o della ricombinazione – o permanentemente – come nella
replicazione; durante questi eventi, il DNA subisce degli stress torsionali che portano a dei
superavvolgimenti della molecola e, per poter essere correttamente processato, deve
diventare accessibile alle polimerasi o ai componenti del complesso della trascrizione. Le
DNA topoisomerasi risolvono i problemi topologici permettendo la conversione di un
isomero topologico in un altro: reazione comune a tutte le topoisomerasi è il taglio
temporaneo del DNA con conseguente formazione di un legame fosfodiestereo transiente
tra un residuo tirosinico presente nell’enzima e l’acido nucleico, la conversione della
molecola di DNA in un suo isomero topologico e la successiva saldatura della rottura
precedentemente introdotta (Fig.7).
Figura 7. Meccanismo d’azione della Topoisomerasi I
La DNA topoisomerasi umana I appartiene alla sottofamiglia delle topoisomerasi di tipo IB.
Strutturalmente la proteina di 91 KDa è divisa in quattro domini distinti (Fig.8):
- un dominio N-terminale di 214 amminoacidi, responsabile dell’attività di
rilassamento, che costituisce una regione idrofila, non strutturata e altamente
sensibile alle proteasi;
- un core domain di 421 amminoacidi, altamente conservato, che contiene tutti i residui
catalitici ad eccezione della tirosina del sito attivo;
29
- un linker domain di 77 amminoacidi, sensibile alle proteasi e poco conservato;
- un dominio C-terminale altamente conservato, di 53 amminoacidi, che comprende la
tirosina in posizione 723 del sito attivo.
Figura 8. Domini strutturali della topoisomerasi I umana: si possono distinguere un
dominio N-terminale (bianco), un core domain (grigio), un linker domain (righe diagonali)
e un dominio C-terminale (nero)
In vivo l’azione di tale farmaco porta all’arresto del ciclo cellulare in fase G2 o ad apoptosi
in fase S. Irinotecano e SN-38 esercitano un effetto citotossico contro le cellule vincolante
la topoisomerasi I (topoi), enzima nucleare, compromettendo la sua funzione ligasi (Moore
et al, 1977). Il complesso ternario (metabolita) / topoI / DNA diventa presto stabilizzato e si
rompe il singolo filamento all'interno della doppia elica del DNA e porta alla morte
cellulare (Fig.9).
L’identificazione delle topoisomerasi come bersaglio critico di farmaci antitumorali risale a
metà degli anni ’80: in seguito all’osservazione che certi composti inducevano delle lesioni
al DNA in cellule di cancro in vivo (Kohn et al, 1981), tali lesioni vennero identificate come
rotture a singolo e a doppio filamento associate alle topoisomerasi. I farmaci erano in grado
di interferire con il meccanismo di rottura-saldatura proprio del ciclo catalitico dell’enzima,
bloccandolo in una conformazione intermedia chiamata “cleavage complex” (Nelson et al,
1984). In questa conformazione, l’enzima è legato covalentemente al DNA, mascherando il
sito di taglio: gli inibitori delle topoisomerasi I stabilizzano il legame covalente tra l’enzima
e l’estremità 3’ del DNA (Hsiang et al, 1985).
30
Durante la fase S, SN38 interagisce con il transitorio cleavable complex tra DNA e
topoisomerasi I (Top-I), stabilizzando e impedendo la ricucitura del filamento tagliato e la
dissociazione del complesso DNA-Top-I, procurando danni al DNA, l'arresto G2, o
apoptosi (Crea et al, 2009).
Figura 9. Meccanismo d’azione dell’irinotecano
2.3 Catabolismo
SN-38, il metabolita attivo del CPT-11, è substrato di uridina-glucuroniltransferasi (UGT)
isoforma 1A1 (Ando et al, 1998), e, come riportato da alcuni autori, di isoforme 1A7 e 1A9
(Lankisch et al, 2008; Cecchi et al, 2009). L’ SN-38 glucuronide (SN-38glu) è
principalmente escreto per via biliare, mentre la clearance renale rappresenta solo il 30%
del totale della clearance dell’SN-38 (Slatter et al, 2000). Il passaggio di CPT-11 e SN-38
dal fegato al sistema biliare è assicurato dalla presenza di trasportatori transmembrana
appartenenti alla superfamiglia ABC (Sugiyama et al, 1998; de Jong et al, 2006); ma
ABCG2 sembra giocare un ruolo limitato della farmacocinetica di irinotecano (de Jong et
al, 2004). All'interno del lume intestinale, CPT-11 e SN-38 vengono rilasciati dai
31
trasportatori e sono glucuronati dalle beta-glucuronidasi prodotte dalla flora intestinale, e il
metabolita attivo può essere ulteriormente assorbito o può esercitare un effetto citotossico
contro l'epitelio intestinale con la comparsa seguenti di diarrea. Nel plasma, le
concentrazioni di SN-38 sono superiori a quelli della specie non coniugata, ma entrambi i
metaboliti hanno emivita terminale (47,0 ± 7,9 e 39,2 ± 24,3 h, rispettivamente) più lungo
di quello calcolato per il farmaco di origine (Kehrer et al, 2000). L’SN-38G è escreto per
via biliare e de-coniugato anche esso da beta-glucuronidasi in SN-38 nell’intestino (Ooi et
al, 2008).
2.4 Farmacocinetica
Lo studio della farmacocinetica del CPT-11 riveste particolare importanza per quanto
riguarda la scelta di modalità e vie di somministrazione disponibili per questo farmaco.
Chiaramente, la disponibilità di una adatta formulazione orale di CPT-11 permetterebbe un
uso più conveniente. Quando il fegato e intestino umano sono state incubate con CPT-11, il
farmaco è stato per lo più idrolizzato in SN38 dal fegato, duodeno, digiuno e ileo e meno da
colon e retto (Ahmed et al, 1999; Takasuna et al, 1996).
Poiché è stato scoperto che le CEs sono ampiamente espresse nel fegato umano e nel tratto
gastro-intestinale, può essere possibile somministrare l’irinotecano per via orale (Ahmed et
al, 1999; Drengler et al, 1999), in modo efficace, prendendo in considerazione che potrebbe
avere luogo il sostanziale metabolismo presistemico. Il basso pH dello stomaco può essere
favorevole per la conservazione del CPT-11 nella sua forma lattonica (Drengler et al,
1999).
La somministrazione intraperitoneale (i.p.) del CPT-11 è stata studiata di recente e può
avere qualche vantaggio oltre alla via i.v. .Se la somministrazione i.p. di CPT-11 non
dimostra di avere maggiore tossicità locale, questa via potrebbe essere una risorsa per la
32
terapia adiuvante del tumore del colon-retto. La via endovenosa è quella più usata per la
somministrazione del CPT-11. Molti studi hanno esaminato l’escrezione di CPT-11 nella
bile, feci, e urine sia sull’uomo che sugli animali.
Nelle urine, CPT-11, APC e SN-38G sono i composti principali rilevati entro 24 ore dopo
la somministrazione dell’irinotecano (Slatter et al, 2000; Sparreboom et al, 1998). Il CPT-
11 rappresenta circa il 10-22% della dose somministrata e SN-38 contribuisce solo per
0,18-0,43% (Slatter et al, 2000; De Forni et al, 1994; Lokiec et al, 1995). Coerente con la
natura altamente polare del gruppo dell’acido glucuronico e una maggiore solubilità in
acqua, SN-38G può essere escreto rapidamente per via renale (Sparreboom et al, 1998).
L'escrezione cumulativa di APC e NPC è molto basso, pari a meno di 1% della dose
(Sparreboom et al, 1998). Questo suggerisce che la maggior parte del CPT-11 e dei suoi
metaboliti sono escreti durante le prime 24 ore dopo la somministrazione, mentre la
valutazione del recupero urinario radiomarcato del CPT-11 oltre 196 ore ha inoltre
dimostrato che l'escrezione è pressoché completa entro 48 ore (Slatter et al, 2000) (Tab.1).
In alcuni pazienti sono stati misurate le concentrazioni di CPT-11 e SN-38 nella bile
(Slatter et al, 2000; De Forni et al, 1994; Lokiec et al, 1995). La secrezione biliare di CPT-
11, SN-38 e SN-38G varia rispettivamente tra 3-22%, 0,1-0,9% e 0,6-1,1% (100). L’ NCP è
stato rilevato anche nella bile in concentrazioni molto basse (Dodds et al, 1998).
L'escrezione fecale è la principale via di eliminazione del farmaco, con 63,7% del farmaco
somministrato recuperato(Slatter et al, 2000). Le concentrazioni inaspettatamente elevate di
SN-38 e le concentrazioni basse di SN-38G nei campioni fecali sono suggestivi per
l’attività sostanziale della beta-glucuronidasi nell’intestino umano e, di conseguenza, il
rapporto SN-38/SN-38G era relativamente alto in tutti i pazienti (Slatter et al, 2000;
Sparreboom et al, 1998). SN-38, APC e NPC sono escreti principalmente con le feci; 2,5%
e 1,7% rispettivamente per SN-38 e NPC (Sparreboom et al, 1998).
33
Tabella 2. Escrezione urinaria e fecale del CPT-11 e metaboliti
2.5 Impieghi terapeutici
Il CPT-11 è approvato per l’uso clinico nel trattamento del carcinoma colo-rettale in
seconda linea dopo trattamento con fluoropirimidine. In un ampio studio di fase III
multicentrico su 385 pazienti, il trattamento con la combinazione CPT-11/5-FU/LV si è
associata ad una più alta percentuale di risposta (35 vs 22%), maggiore durata del tempo
alla progressione (86,7 vs 4,4 mesi) e più lunga sopravvivenza (17,4 vs 14,1 mesi) rispetto
alla terapia con solo 5-FU/LV (Bonadonna et al, 2007). Nonostante la maggiore incidenza
di tossicità ematologica di grado 3-4 (29 vs 21%) e diarrea (23 vs 11%), l’aggiunta di CPT-
11 non ha comportato un peggioramento della qualità di vita. Un secondo studio
randomizzato ha invece confrontato CPT-11 in associazione a 5-FU/LV e in bolo con un
regime standard di 5-FU/LV in bolo e con CPT-11 da solo (Bonadonna et al, 2007).
L’aggiunta di CPT-11 si è tradotta in un vantaggio statisticamente significativo in termini
di risposte obiettive (39 vs 21%), tempo alla progressione (7,0 vs 4,3 mesi) e sopravvivenza
mediana (14,8 vs 12,6 mesi) (Bonadonna et al, 2007).
Uno studio multicentrico del North Central Center Treatment Group ha invece confrontato
IFL (CPT-11 e 5-FU/LV) con FOLFOX e IROX (CPT-11 e oxaliplatino ogni tre settimane)
nel trattamento di prima linea della malattia avanzata (Bonadonna et al, 2007). Il regime
FOLFOX ha dimostrato un prolungamento significativo della sopravvivenza mediana (15
34
vs 19,5 mesi) rispetto a IFL mentre lo schema IROX si è dimostrato lievemente superiore a
IFL ma significativamente meno efficace di FOLFOX in termini di tempo alla
progressione, risposte obiettive e sopravvivenza mediana (Bonadonna et al, 2007). Inoltre
IROX e IFL hanno presentato una maggiore incidenza di tossicità (soprattutto diarrea e
neutropenia) ad eccezione della neuropatia periferica. Uno studio randomizzato ha
confrontato invece FOLFIRI seguito da FOLFOX alla progressione di malattia con la
sequenza inversa. Nei 226 pazienti trattati non si sono evidenziate differenze significative
in termini di tempo alla progressione dopo la prima linea , tasso di risposte obiettive in
prima linea e sopravvivenza mediana (Bonadonna et al, 2007). FOLFOX dopo
progressione si è invece dimostrato superiore a FOLFIRI per quanto riguarda tempo alla
progressione (4,2 vs 2,5 mesi) e risposte obiettive (15 vs 4,5%). Da segnalare che in
entrambi gli studi una maggiore percentuale di pazienti trattati con FOLFOX in prima linea
ha potuto sottoporsi a chirurgia epatica radicale in sede di metastasi, rispetto a pazienti
trattati in prima linea con CPT-11. Sono inoltre in corso studi di valutazione sull’impiego di
CPT-11 come terapia adiuvante. In associazione a CDDP il CPT-11 ha dimostrato attività
nel carcinoma gastrico e nel carcinoma del polmone non a piccole cellule (Bonadonna et al,
2007).
2.6 Reazioni avverse
La diarrea e la mielosoppressione rimangono le tossicità clinicamente più significativi e
comuni causate dall’irinotecano (Rothenberg et al, 2001). La tossicità dose-limitante del
CPT-11 è rappresentata da neutropenia reversibile e non cumulativa: una neutropenia di
grado III-IV si verifica nel 40-50% dei pazienti trattati con CPT-11, con un nadir all’ 8°
giorno. La somministrazione di CPT-11 è associata alla comparsa , durante o
immediatamente dopo l’infusione, di una sindrome colinergica acuta attribuita alla
35
liberazione di sostanze ad attività colinergica o comunque vasoattiva. Le manifestazioni più
frequenti di tale sindrome sono diarrea acuta, sudorazione e dolori addominali crampiformi;
meno frequentemente si osservano disturbi visivi, lacrimazione, miosi, salivazione,
ipotensione e bradicardia. Questi disturbi sono in genere di modesta entità e di breve durata
e possono essere prevenuti o controllati mediante la somministrazione anticolinergica
(atropina 0,25 mg ev o sc). Oltre alla diarrea acuta associata alla sindrome colinergica nei
pazienti trattati con CPT-11 si osserva una diarrea tardiva che compare in media da 5 a 11
giorni dopo la somministrazione, dura mediamente 5 giorni e nella maggior parte dei casi
può essere controllata con la somministrazione di loperamide (Bonadonna et al, 2007). Il
riconoscimento precoce della diarrea e l'inizio del trattamento con loperamide hanno ridotto
significativamente l'incidenza di diarrea di grado 4 dal 24% al 9% e ha migliorato la
tollerabilità clinica dell’ irinotecano, anche se più dell'80% dei pazienti sviluppano alcuni
gradi di diarrea dopo il trattamento con irinotecano (Rothenberg et al, 2001).
I pazienti a rischio per neutropenia e/o diarrea grave sono i pazienti anziani e con
comorbilità, performance status > 2, pregressa irradiazione in sede addomino-pelvica,
moderata insufficienza epatica (bilirubina totale tra 1 e 2 mg/dl), sindrome di Gilbert e altre
alterazioni del processo di glucuronidazione della bilirubina. Il CPT-11 causa inoltre
alopecia, vomito e astenia in un’elevata percentuale di pazienti (Bonadonna et al, 2007).
L'interleuchina 15 (IL-15) è una citochina che promuove la proliferazione di modesta
cellule epiteliali intestinali (Grabstein et al, 1994). Quando somministrato ripetutamente
prima e durante irinotecan, IL-15 ha ridotto l'incidenza di diarrea dal 93% al 8% e mortalità
correlata al trattamento da 86% a 0% nei ratti Fisher 344 (Cao et al, 1998).
Il trombossano A2 stimola la secrezione di ioni cloruro e diminuisce l'assorbimento d'acqua
a livello intestinale, provocando diarrea. I farmaci che inibiscono la produzione di
trombossano A2 (come gli inibitori della cicloossigenasi) potrebbero, in teoria, ridurre la
36
diarrea indotta dal CPT-11. La valutazione clinica di inibitori COX-2 è interessante non
solo per la possibilità di riduzione di tossicità, ma anche perché l'inibizione della COX-2
può anche promuovere l'apoptosi delle cellule tumorali e potenzialmente aumentare
l'efficacia antitumorale di irinotecano e altri farmaci citotossici (Rothenberg et al, 2001).
Le relazioni tra parametri farmacocinetici e effetti collaterali indotti da CPT-11 sono stati
studiati ampiamente. Per crampi addominali, nausea, vomito e anoressia non è stato trovata
alcuna correlazione con qualsiasi parametro (Rowinsky et al, 1994). Per la
mielosoppressione e diarrea in relazione alle AUC di CPT-11 e SN-38, i risultati sono
molto variabili e le conclusioni finali non possono essere ancora tracciate (Tab. 3). (Canal
et al 1996; Herben et al, 1999; Ma et al, 2000).
Il prodotto del rapporto AUC plasmatica di SN-38 a SN-38G e l’AUC plasmatica di CPT-
11 può essere una variabile cinetica importante. Pazienti con alti indici biliare, in alcuni
studi hanno avuto diarrea più grave rispetto a quelli con bassi indici delle vie biliari (Gupta
et al, 1997; Gupta et al, 1994), ma questo non poteva essere confermato in altri studi (Canal
et al 1996; de Jonge et al, 2000; de Jonge, Verweij et al, 2000). E’ stato ipotizzato che la
considerazione delle differenze interindividuali nell’ attività della beta-glucuronidasi fecale
porterebbe ad una previsione più accurata degli effetti collaterali indotti dal CPT-11, e può
fornire una base per modulare la tossicità (Sparreboom et al, 1998).
37
Tabella 3. Correlazione tra tossicità e AUC del CPT-11 e SN-38.
3. Farmacogenetica del CPT-11
La farmacogenetica è la disciplina che studia le basi genetiche della risposta ai farmaci. Le
cause più frequenti di variabilità genetica consistono in polimorfismi della regione 5’-UTR
e degli esoni. Cause meno importanti di variabilità di risposta ai farmaci sono i
polimorfismi intronici e della regione 3’-UTR (Figura 10).
Figura 10. Cause di variabilità genetica
L’attore principale della farmacogenetica dell’ irinotecano è rappresentato dall’UGT,
perché la sua attività enzimatica influenza fortemente la farmacocinetica del farmaco e dei
suoi metaboliti (Di Paolo et al, 2011).
Figura 11. Principale determinante molecolare della farmacocinetica del CPT-11
38
3.1 UDP glucuroniltransferasi (UGT)
Le UDP-glucuroniltransferasi (UGT) sono una superfamiglia di enzimi responsabili della
glucuronidazione di xenobiotici e endobiotici (Thomas et al, 2006). Sono stati identificati
nel genoma dell’essere umano, topo, ratto e in altre specie di mammiferi (Mackenzie et al,
2005).La glucuronidazione porta alla formazione di metaboliti solubili in acqua per una
serie di composti, tra cui ormoni steroidei, bilirubina, e degli acidi biliari, una vasta gamma
di farmaci terapeutici, sostanze organiche e ambientali, compresi i noti mutageni umani
(Tukey Strasburgo, 2001). I farmaci più importanti che subiscono glucuronidazione sono la
morfina (Coffman et al., 1997), acetaminofene (Bock et al., 1993), cloramfenicolo (de
Wildt et al., 1999), immunosoppressori come la ciclosporina A e il tacrolimus (Strasburgo
et al., 2001), ma anche l’irinotecano,farmaco antitumorale (Haaz et al, 1997;. Ciotti et al,
1999; Lankisch et al, 2005).
I membri della superfamiglia UGT sono stati nominati sulla base di una evoluzione
divergente; l’acronimo UGT è seguito da un numero arabo che rappresenta la famiglia, poi
da una lettera per specificare la sottofamiglia, e da un un numero arabo per indicare il
singolo gene all'interno di tale famiglia o sottofamiglia (Mackenzie et al, 1997). I geni dei
roditori sono in minuscolo dopo la prima lettera (ad esempio Ugt), come raccomandato dal
Topo Genome Informatics database, ma tutti i prodotti genici sono in alto caso, a
prescindere dalla specie. L’ultimo aggiornamento sulla nomenclatura per i geni dell’UGT è
stato pubblicato nel 1997 (Mackenzie et al, 1997) e include 49 geni dei mammiferi. Dopo
quel tempo, la maggior parte del genoma umano, ratto e del topo sono stati sequenziati, e
diversi geni UGT (e le loro cromosomiche posizioni, una rispetto all'altra) sono stati
scoperti. I geni UGT sono stati identificati in altre specie di mammiferi. Fino ad oggi, 117
39
geni di mammiferi sono stati identificati. Alcuni di questi nuovi geni non sono stati
nominati, mentre ad altri sono stati dati i nomi da singoli ricercatori che sono in contrasto
con le sequenze già pubblicate (Mackenzie et al, 2005). La superfamiglia dell’UGT ha
attualmente 117 membri che possono essere divisi in quattro famiglie, UGT1, UGT2,
UGT3 e UGT8 (Mackenzie et al, 2005).
Il gene umano della famiglia UGT2 è localizzato sul cromosoma 4q13 ed è suddiviso in
due sottofamiglie UGT2A (che comprende tre membri) e UGT2B (che comprende 12
membri: sette geni e cinque pseudogeni).
La famiglia UGT3 è stata recentemente identificata solo attraverso sequenziamento dei
genomi umani, ratti e topi. I due membri della famiglia umana UGT3, UGT3A1 e 3A2, si
trovano sul cromosoma 5p13.2.
Il gene della famiglia UGT8 è costituito da 5 esoni sul cromosoma umano 4q26 (Mackenzie
et al, 2005).
3.2 UDP glucuroniltransferasi 1 (UGT1)
Il gene umano della famiglia UGT1 è localizzato sul cromosoma 2q37 e si estende per circa
200 kb e contiene 13 singoli promotori /primi esoni e una serie di esoni (2-5) separati (Fig.
12) (Gong et al, 2001).
Figura 12. La famiglia UGT1. Ogni esone 1 è rappresentata da un rettangolo colorato,
etichettati A1, A2, A3, ecc, ed è indicato la sua posizione rispetto a 2-5 esoni. Esoni 2-5,
che fanno parte di ogni esone prima nella trascrizione maturi, vengono visualizzati in grigio
40
Un sito promotore e donatore di RNA, fiancheggiando le estremità 5’ e 3’ di ogni primo
esone, rispettivamente, dirigono la sintesi di trascritti di RNA contenenti il primo esone,
che viene poi congiunto ai comuni esoni 2-5. In questo modo, 13 potenziali trascrizioni
possono essere generati dal locus UGT1, contenente l’unica estremità 5’ e identica
estremità 3’. Tuttavia, quattro dei 13 esoni primo umani (UGT1A2P, UGT1A11P,
UGT1A12P e UGT1A13P) contengono mutazioni e sono designati come pseudogeni. Il
locus UGT1 contiene anche molti residui delle sequenze dell'esone UGT sparsi in tutto
circa 200 kb che comprendono il locus, indicando la presenza di numerose duplicazioni
geniche, delezioni nel corso della sua evoluzione, questo stesso fenomeno ha stato descritto
in dettaglio per alcune delle citocromo P450 (CYP) cluster sottofamiglia dei geni (Nelson
et al, 2004). Come deciso in precedenza, ogni esone 1 congiunto a 2-5 esoni è considerato
come un unico gene e chiamato UGT1A1, UGT1A2P UGT1A3,…, UGT1A13P. L'intento
originale era di nominare i geni in base alla loro posizione a monte, rispetto agli esoni 2-5,
da 1A1 essendo più vicini e 1A13P essendo più lontano agli esoni 2-5. Tuttavia, la
sequenza successiva completa del gene UGT1 ha rivelato che l'ordine degli esoni primo,
l’estremità 5’ dell'esone 1A7, è diverso dal nome UGT1A designato (Gong et al, 2001). La
corretta disposizione 3’ 5’ è stato determinato successivamente alla nominare i geni
UGT1A è: UGT1A9, 1A13P, 1A10, 1A8, 1A11P e 1A12P (Fig. 11) (Mackenzie et al,
2005).
3.3 UDP glucuroniltransferasi 1A (UGT1A)
L’UGT1A è una famiglia di enzimi glucuroniltransferasi responsabile della
glucuronidazione di substrati endogeni e xenobiotici. Gli enzimi catalizzano il trasferimento
di residui glicosilici (zucchero) a substrati lipofili, rendendoli più solubili in acqua,
41
facilitando così la loro eliminazione biliare o renale. Il locus UGT1A è stato mappato sul
cromosoma 2q37 e si compone di 13 geni. Ci sono nove esoni unici prima (quattro
pseudoesoni), ciascuna preceduta da un promotore, e ogni esone funzionale è congiunto a
quattro esoni consecutivi (esoni 2 a 5) che sono comuni a tutti gli mRNAs dell’UGT1A
(Zhang et al, 2007; Strassburg et al, 2008). Gli enzimi hanno domini identici carbossi-
terminale (a causa degli esoni condiviso 2 a 5), e regioni variabili amino-terminale (a causa
di unico esone 1). L’Espressione dei geni tessuto-specifico di UGT1A1, 1A3, 1A4, 1A6, e
1A9 è esclusivo nel fegato, l’ UGT1A7 è riportato nell'esofago e nello stomaco,l’UGT1A8
nel esofago e colon, e UGT1A10 nell'esofago, stomaco, colon, e condotti biliari (Zhang et
al, 2007). Notevoli differenze etniche nella variazione genetica del locus UGT1A sono stati
segnalati. Per esempio, popolazione dell’Asia dell’Est hanno una frequenza allelica più
bassa di UGT1A1 * 28 rispetto ai bianchi e persone di discendenza africana. Infatti, la
variante genetica principale responsabile della sindrome di Gilbert nelle popolazioni
asiatiche è un polimorfismo contrario a UGT1A1 c.211G>A che porta ad una sostituzione
della glicina con l’arginina nell’amminoacido 71 (UGT1A1 * 6). La Genotipizzazione sia
dell’UGT1A1 * 28 e UGT1A1 * 6 è raccomandato nei pazienti dell’Asia orientale per
prevedere la tossicità indotta dall’irinotecano (Hoskins et al, 2009).
Sono state identificate 12 isoforme di UGT1A (Innocenti et al, 2004). L’ analisi delle
sequenza di acidi nucleici analisi indica che UGT1A2, UGT1A11 e UGT1A12 codificano
pseudogeni (Innocenti et al, 2004). Le nove funzionali isoforme UGT1A (UGT1A1,
UGT1A3, UGT1A4, UGT1A5, UGT1A6, UGT1A7, UGT1A8, UGT1A9, UGT1A10) sono
codificati da un singolo locus genico UGT1A con più esoni prima, localizzato sul
cromosoma 2q37 (Fig.13) (Amado et al, 2008; Lie` vre et al, 2008).
42
Figura 13. Rappresentazione grafica del locus umano genico UGT1A che codifica gli
enzimi UGT1A (non in scala). Gli esoni primi individuali sono posizionati nella regione
5'del cromosoma e esoni comuni 2-5 all’estremità del 3'
Gli esoni 2-5, che codificano i 254 amminoacidi della regione carbossilica, sono situati
nella regione 3’ del locus (Zhang et al, 2007).
3.4 UDP glucuroniltransferasi 1 A1 (UGT1A1)
I dati che emergono sul ruolo delle varianti genetiche nell’ UGT1A1, così come altri geni
UGT1A, permettono un’indagine per determinare se UGT1A1 * 28 è l'unico polimorfismo
in grado di provocare effetti farmacologici sull’ irinotecano. Altri polimorfismi genetici
possono influenzare l'efficacia enzimatica dell’UGT1A1, quindi gioca un ruolo nell’
efficienza della disintossicazione di SN-38. Due di loro (3156G>A-UGT1A1 * 93 e
3279T>G-UGT1A1 * 60), in linkage disequilibrium (LD) con UGT1A1 * 28, sono
frequenti nella popolazione bianca (Cecchin et al, 2009).
Tra tutte le variabili genetiche, l’UGT1A1 * 93 sembra avere il più forte effetto. Per prima
cosa questa variante è stata scoperta durante uno studio di risequenziamento della regione
5’ all'esone 1 UGT1A e si ipotizza che UGT1A1 * 93 è la migliore causa di neutropenia
rispetto all’ UGT1A1 * 28 (Innocenti et al, 2004). Questa variante ha sconosciute funzioni
a livello molecolare. Nonostante sia in LD con l’allele UGT1A1 * 28, recenti risultati di
uno studio di identificazione UGT1A1 * 93 lo individuano come l'unico che provoca gravi
43
tossicità ematologiche nei pazienti con cancro del colon-retto trattati con fluorouracile,
leucovorin e CPT-11 (Innocenti et al, 2009).
L’UGT1A1 catalizza il trasferimento di un residuo di acido glucuronico dal cofattore acido
uridina-difosfoglucuronico (UDPGA) di bilirubina e xenobiotici insolubili (es. SN-38).
Questa reazione si traduce in un prodotto glucuronidato che spesso è inattivo e più
facilmente eliminato con le urine o la bile. Variazione genetica nel gene UGT1A1 è stato
ampiamente analizzato (Kiang et al, 2005; Guillemetteet al, 2003; Skarke et al, 2004). Il
polimorfismo UGT1A1 * 28 è dovuto ad un cambiamento nel numero di ripetizioni TA
nella TATA box del promotore UGT1A1 dalle 6 ripetizioni (wild-type) alla variante di 7
ripetizioni . La gamma complessiva di ripetizioni TA è di 5 a 8. Circa il 7% al 19% della
popolazione bianca è omozigote (7 / 7) per l'allele variante, che porta alla riduzione
dell’espressione dell'enzima (Kiang et al, 2005). La sindrome di Gilbert, una forma lieve di
iperbilirubinemia non coniugata, senza apparenti conseguenze patologiche, è associato al
genotipo UGT1A1 * 28 (Bosma et al, 1995; Bosma et al, 1994). Anche se la sindrome di
Gilbert è considerata benigna, vari fattori come lo stress, esercizio fisico, le mestruazioni, e
l'infezione può portare a concentrazioni di bilirubina sierica (Schmid et al, 1995; Bosma et
al, 2003). Si è evidenziato che quando ai pazienti con il genotipo * UGT1A1 28 viene
somministrato un alto dosaggio di irinotecano, è alterato l’SN-38G e si osserva un
incremento delle tossicità (Stewart et al, 2007). La probabilità che una grave tossicità
ematologica (cioè, neutropenia) potrebbe verificarsi è il più alto tra i pazienti adulti
TA7/TA7, e questa evidenza la genotipizzazione di quegli individui che sono candidati a
ricevere irinotecano (Ruzzo et al, 2008). Tuttavia, i pazienti omozigoti TA7 visualizzano
anche un migliore tasso di risposta globale e il tempo alla progressione rispetto ad altri
pazienti (Cecchin et al, 2009), suggerendo che una inattivazione inferiore dell’ SN-38
tramite UGT1A1 può portare ad un aumento dell'effetto citotossico contro le cellule
44
tumorali. Al contrario, McLeod e colleghi ha scoperto che * 28 di individui omozigoti
hanno un tasso di risposta più basso anche in presenza di una neutropenia grave con più
eterozigote rispetto a pazienti omozigoti e wild-type (McLeod et al, 2010). La spiegazione
di questi risultati contrastanti può risiedere nella presenza di altri SNP lungo il gene UGT o
il coinvolgimento di altre isoforme UGT nell'inattivazione di SN-38. Per esempio, tra i
pazienti Est-asiatico, l'alterazione del CPT-11 farmacocinetica e l’aumentato rischio di
grave neutropenia (grado 4) sono stati significativamente correlati con la presenza di
UGT1A1 * 6 allele, da solo (Jada et al, 2009; Han et al, 2009) o in combinazione con allele
* 28 (* 6 / * 6 * 6 / * 28 * 28 / * 28) (Di Paolo et al, 2011).
45
3.5 UDP glucuroniltransferasi 1 A7 (UGT1A7)
L'isoforma UGT1A7 è espressa prevalentemente nel tratto gastrointestinale, e varianti
genetiche con alterata funzione enzimatica sono UGT1A7 * 2, * 3, * e 4 (Cecchin et al,
2009). Il cDNA dell’ UGT1A7 è stato clonato nel 1997 (Strasburgo et al. 1997b) come il
risultato di una analisi dell’espressione dell’UGT1A nel fegato e nel tratto gastrointestinale
riportando il tessuto specifico dell’espressione e quindi la regolazione dei geni UGT1A.
(Strasburgo et al 1998a, b, 1999a, b; Ockenga et al. 2003). L’UGT1A7 non è espresso nel
fegato umano, ma le trascrizioni vengono rilevate nel tessuto orolaringeo, nell’esofago,
nello stomaco, e pancreas. L’UGT1A7 catalizza la glucuronidazione di fenoli, antrachinoni,
flavoni, strutture naftoliche (Strasburgo et al 1998a;. Fang et al. 2002; Malfatti e Felton
2004). Importante, l’UGT1A porta alla detossificazione di mutageni compresi gli
idrocarburi policromatici come benzo (alfa) pirene idrossilati e ammine eterocicliche come
2 - ammino-1-metil-6 fenilimidazol [4,5 -] piridina (Strasburgo et al. 1998a; Fang et al.
2002; Malfatti e Felton 2004), che sono stati epidemiologicamente identificati come
cancerogeni per l'uomo per una varietà di tumori (Esumi et al. 1989; Kadlubar 1991;
Wakabayashi et al. 1992; La Vecchia et al. 1995; Kuper et al. 2000). L’UGT1A7 è anche
un importante transferasi per la glucuronidazione del metabolita irinotecano, SN-38 (Ciotti
et al 1999;. Lankisch et al 2005; Strassburg et al, 2008).
La frequenza dell’allele UGT1A7 * 3 è considerevolmente inferiore a Gruppi dell'Asia
orientale (cinese, Taiwan 0,15 e Giappone 0,26) rispetto bianchi (0,36) (Hoskins et al,
2009).
46
Scopo della tesi
L’identificazione di fattori genetico-molecolari predittivi della tossicità ai farmaci
antitumorali ed il possibile sviluppo di un test genetico per la personalizzazione della
terapia nei pazienti, rappresenta uno degli aspetti più innovativi della ricerca clinica in
campo oncologico. I dati della letteratura scientifica suggeriscono che la genotipizzazione
possa rappresentare un metodo più affidabile, rispetto all’analisi farmacocinetica e alla
valutazione dell’attività enzimatica nei tessuti periferici, per identificare i pazienti
oncologici a rischio di sviluppare gravi reazioni avverse.
Lo scopo di questa tesi è stato quello di esaminare, in una coorte di pazienti oncologici che
manifestavano tossicità di grado ≥ 2 a seguito del trattamento con regimi standard a base di
irinotecano, la presenza di polimorfismi nel gene che codifica per l’enzima uridina-
glucuroniltransferasi (UGT), valutando le principali isoforme metabolizzatrici del farmaco
UGT1A1 ed UGT1A7 ed i loro polimorfismi con maggiore frequenza nella popolazione
caucasica: UGT1A1*28, *93, UGT1A7*3, *12.
47
Materiali e Metodi
1. Pazienti
Il reclutamento dei pazienti affetti da carcinoma del colon-retto è stato effettuato presso
l’U.O. di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Pisa diretta dal Prof.
Alfredo Falcone. La partecipazione allo studio consisteva esclusivamente nella donazione
di 3 ml di sangue. In totale sono stati arruolati 58 pazienti di cui è stato esaminato il DNA
proveniente dai campioni di sangue. I pazienti sono stati trattati come segue: 5- FU, acido
folinico e irinotecano; capecitabina e irinotecano; 5-FU, acifo folinico, oxaliplatino e
irinotecano; 5-FU, acifo folinico, oxaliplatino, irinotecano e bevacizumab; 5-FU, acifo
folinico, oxaliplatino, irinotecano e panitumumab.
2. Estrazione del DNA genomico
L’estrazione di DNA da 200 µl di sangue, fresco o scongelato, è stata effettuata con kit
QIAamp® DNA Mini Kit (QIAGEN). Il campione è stato trasferito in una provetta da 1,5
ml contenente 20 µl di Proteasi Qiagen e lisato con 200 µl di buffer di lisi. I campioni sono
stati agitati su vortex per 15 secondi, quindi incubati per almeno 10 min a 56°C. Dopo
raffreddamento a temperatura ambiente, sono stati aggiunti 200 µl di etanolo assoluto, i
campioni sono stati agitati di nuovo su vortex per 15 secondi e il lisato è stato trasferito
nella provetta contenente la colonna Qiamp. Dopo aver centrifugato per 1 min a 8 000 rpm
(6 000 g), è stato eliminato il filtrato e sono stati aggiunti 500 µl del primo buffer di
lavaggio e i campioni sono stati centrifugati nuovamente per 1 min a 8 000 rpm. Senza
eliminare il filtrato, sono stati aggiunti 500 µl del secondo buffer di lavaggio e le colonne
sono state centrifugate per 3 min a 14 000 rpm. Successivamente le colonne, trasferite su
provette da 2 ml, sono state centrifugate nuovamente a 14 000 rpm (20 000 g ) per 1 min.
48
Infine il campione è stato trasferito in provette da 1,5 ml e vi sono stati aggiunti 200 µl di
buffer di eluizione; dopo un’eluizione di 1 min a temperatura ambiente, le colonne sono
state centrifugate per 1 min a 8 000 rpm. Il DNA eluito è stato quindi trasferito in una
provetta sterile da 1.5 ml e quantificato allo spettrofotometro. La concentrazione del DNA
nella soluzione ottenuta, espressa in ng/μl, è stata determinata attraverso la misurazione
della densità ottica per mezzo di uno spettrofotometro Nanodrop 2000 alla lunghezza
d’onda di 260 nm.
La concentrazione di DNA, espressa in μg/μl, è stata calcolata per mezzo della seguente
formula:
concentrazione = (A260nm×50×500)/1000
dove A260nm rappresenta il valore dell’assorbanza misurata alla lunghezza d’onda di 260
nm, 50 il coefficiente di assorbimento del DNA a doppio filamento a 260 nm e 500 il
fattore di diluizione della soluzione di DNA.
È stata inoltre effettuata una stima della purezza del DNA estratto, sulla base del rapporto
tra l’assorbanza alla lunghezza d’onda di 260 nm e quella alla lunghezza d’onda di 280 nm,
che sono rispettivamente le lunghezze d’onda di assorbimento degli acidi nucleici e delle
proteine. Il DNA è considerato puro quando tale rapporto è compreso fra 1,6 e 2,0. Infine,
l’integrità del DNA genomico è verificata tramite elettroforesi su gel di agarosio al 2%. Il
DNA è stato utilizzato per l’analisi dei polimorfismi del gene codificante per la uridina-
glucuroniltransferasi.
3. Amplificazione PCR del DNA genomico
L’analisi del polimorfismo della 5’-untranslated region (UTR, Fig. 14) del gene che
codifica per l’enzima uridina-glucuroniltransferasi (UGT) è stata effettuata sul DNA
genomico proveniente dai campioni ematici con la tecnica della polymerase chain reaction
49
(PCR). La PCR permette l’amplificazione esponenziale in vitro di una sequenza di acido
nucleico. Lo stesso metodo può essere usato per modificare la sequenza amplificata
(mutagenesi). È necessario che le estremità della sequenza da amplificare siano conosciute
con precisione per poter sintetizzare oligonucleotidi che saranno ibridizzati ad esse, e che
una piccola quantità della sequenza da amplificare sia disponibile per dare inizio alla
reazione. Non è necessario che la sequenza da sintetizzare enzimaticamente sia inizialmente
presente in forma pura; essa può anche essere una frazione minoritaria di una miscela
complessa, come un segmento di un gene a singola copia nel DNA totale. Il prodotto della
reazione sarà una molecola di dsDNA con estremità corrispondenti a quelle 5’ degli
oligomeri utilizzati.
GCCAGTTCAACTGTTGTTGCCTATTAAGAAACCTAATAAAGCTCCACCTTCTTTATCTCTG
AAAGTGAACTCCCTGCTACCTTTGTGGACTGACAGCTTTTTATAGTCACGTGACACAGTCA
AACATTAACTTGGTGTATCGATTGGTTTTTGCCATATATATATATATAAGTAGGAGAGGGC
GAACCTCTGGCAGGAGCAAAGGCGCCATGGCTGTGGAGTCCCAGGGCGGACGCCCACTTGT
CCTGGGCCTGCTGCTGTGTGTGCTGGGCCCAGTGGTGTCCCATGCTGGGAAGATACTGTTG
ATCCCAGTGGATGGCAGCCACTGGCTGAGCATGCTTGGGGCCATCCAGCAGCTGCAGCAGA
GGGGACATGAAATAGTTGTCCTAGCACCTGACGCCTCGTTGTAC
Figura 14. Polimorfismi della regione 5’-UTR e della regione codificante dell’UGT e
sequenza del frammento amplificato con PCR. I primers sono indicati in
grassetto/sottolineato all’inizio e alla fine della sequenza.
Le sequenze dei primers utilizzati sono state le seguenti:
50
La reazione di PCR è stata eseguita in un volume totale di 50 μl comprendenti:
DNA genomico (0,2 μg) 5 µl
Acqua DNAsi/RNAsi free 31,75 μl
tampone per Taq DNA polimerasi (10 X) 10 μl
Deossinucleotidi trifosfati (dNTPs10 mM) 1 μl
primer senso (20 pmol/μl) 1 μl
primer antisenso (20 pmol/μl) 1 μl
AmpliTaq pol Gold 0,25 µl
L’amplificazione è stata eseguita nelle seguenti condizioni: denaturazione iniziale a 95 °C
per 5 minuti, seguita da 35 cicli di denaturazione a 95 °C per 30 secondi, annealing ad una
temperatura di 60°C per 30 secondi per UGT1A1*28, 62° per 30 secondi per UGT1A1*93,
62° per 30 secondi per UGT1A7*3, 61° per 30 secondi per UGT1A7*12, sintesi a 72 °C
per 30 secondi (Fig. 15), con un tempo di estensione finale a 72 °C di 7 minuti.
51
Figura 15. Schema del ciclo termico per amplificazione dell’UGT
Per la reazione è stato utilizzato un termociclatore GENE AMP PCR SYSTEM 9700
(Applied Biosystems).
Il prodotto di PCR è stato visualizzato tramite elettroforesi su gel di agarosio al 3%.
4. Analisi dei polimorfismi del gene UGT con sequenziamento automatico
Il principio sul quale si basa il sequenziamento automatico è il metodo enzimatico di
Sanger. Per far avvenire la reazione si usa un’enzima, la DNApol del fago T7 caratterizzato
da elevata processività, attività esonucleasica 3’>5’ e 5’>3’ praticamente nulla e bassa
discriminazione tra ddNTPs e dNTPs.
Il materiale di partenza è un frammento di DNA amplificato tramite PCR: si utilizza un
oligomero che viene usato come primer, per permettere l’inizio della reazione di
polimerizzazione della DNApol. Dal momento che la DNApol sintetizza nella direzione
5’>3’, il primer dovrà avere un’estremità 3’-OH libera da cui inizierà la polimerizzazione.
Nella miscela di reazione vengono aggiunti i quattro dNTPs naturali che consentono di
52
sintetizzare il nuovo filamento di DNA. Nel corso della polimerizzazione i nucleotidi
vengono aggiunti all’estremità 3’-OH del nucleotide precedentemente inserito. Insieme ai
dNTPs naturali verranno aggiunti nella miscela di reazione anche i dideossiNTPs (ddNTPs)
ovvero i terminatori di catena. Questi, non presentando il gruppo OH sul C3’ del ribosio;
una volta inseriti nel filamento nascente di DNA bloccano la DNApol e la reazione si
arresterà in corrispondenza del ddNTP inserito. La concentrazione dei ddNTPs sarà
inferiore ai dNTPs naturali in quanto la reazione deve essere parziale per permettere
comunque un’elongazione del DNA sintetizzato. Il risultato sarà quello di avere una
miscela di nucleotidi che terminano la sintesi del DNA in tutte le posizioni in cui sul
template era presente una T, A, G o C.
I ddNTPs vengono marcati con 4 diversi fluorocromi che assorbono tutti alla stessa
lunghezza d’onda (λ1) in modo da permettere l’uso di 1 solo laser per l’eccitazione. I
fluorocromi riemettono la radiazione fluorescente a λ2 distinguibili tra di loro con spettri di
emissione non sovrapposti; questo permette di eseguire la marcatura di un singolo
campione di DNA con le quattro basi contenute nella stessa miscela di reazione e
distinguere i nucleotidi in base alle diverse emissioni.
I frammenti di DNA risultanti vengono separati con elettroforesi capillare e le emissioni
fluorescenti, risultanti dall’eccitazione dei fluorocromi legati ai ddNTPs, vengono
trasformate in segnali leggibili per mezzo di algoritmi di rilevazione. Il tracciato
elettroforetico risultante sarà costituito da una serie di picchi di fluorescenza parzialmente
sovrapposti l’uno all’altro corrispondenti ciascuno ad un segnale che viene emesso da un
singolo frammento di DNA. L’algoritmo di base-coding (rivelazione) è un algoritmo di
analisi del segnale che consente di identificare con precisione i picchi, separarli e attribuire
loro direttamente le basi. Il DNA risultante dalla reazione di PCR deve essere purificato per
rimuovere elementi contaminanti come dNTPs liberi, primers, enzima Taq pol e sali delle
53
soluzioni tampone prima della reazione di Cycle sequencing. Senza purificazione il
sequenziamento viene compromesso da rumore di fondo, da picchi sovrapposti e da segnale
generalmente debole e non leggibile. La purificazione del prodotto di PCR viene eseguito
mediante “Purification Kit Qiagen” utilizzando colonne Centricon-100 alle quali vengono
aggiunti 20 µl di campione di PCR e 200 di buffer di lavaggio PB. Le colonne vengono
poste su centrifuga ad angolo fisso a 13.000 rpm per 1 minuto ed il filtrato raccolto nella
provetta inferiore viene eliminato; successivamente, vengono aggiunti 750 µl di un secondo
buffer di lavaggio PE ed il campione viene nuovamente centrifugato a 13.000 rpm per 1
minuto. Infine, viene inserita la provetta di raccolta del DNA, si aggiungono 15 µl di buffer
di eluizione AB e si centrifuga a 13.000 rpm per 1 minuto.
Il template di DNA purificato viene successivamente sottoposto alla reazione di Cycle
sequencing per amplificare il prodotto di PCR con inserimento dei ddNTPs marcati ed
assicurare un segnale sufficientemente intenso nella fase di elettroforesi e rivelazione.
Come reagenti per la marcatura e amplificazione (Cycle Sequencing) è stato utilizzato il
BigDye Terminator Cycle Sequencing kit v. 1.1 di Applied Biosystems. I primers utilizzati
per il sequenziamento sono gli stessi utilizzati per l’amplificazione con PCR e descritti nel
precedente paragrafo. La reazione di sintesi e marcatura è stata eseguita in un volume di
12,4 μl utilizzando lo stesso primer senso (o antisenso) della PCR:
Template di DNA da PCR (3–10 ng) 6 µl
H2O DNAsi/RNAsi free 5,8 µl
Tampone BigDye Sequencing 3 μl
Ready Reaction Premix 2 μl
Primer (5 pmol/μl) 3,2 μl
54
Le provette contenenti i campioni di DNA e le miscele di reazione sono state sottoposte al
seguente ciclo termico (Fig. 16) in un termociclatore GENE AMP PCR SYSTEM 9700
(Applied Biosystems):
denaturazione iniziale a 96 °C per 1 minuto
seguita da 25 cicli di denaturazione a 96 °C per 10 secondi
annealing a 50 °C per 5 secondi
sintesi a 60 °C per 4 minuti
Figura 16. Schema del ciclo termico per amplificazione e marcatura di UGT
I campioni marcati sono stati nuovamente purificati con colonnine CentriSep contenenti un
gel, per eliminare sostanze contaminanti che possono interferire con la lettura in
fluorescenza. Le colonne vengono preparate con aggiunta di 0,8 ml di acqua deionizzata e
successivamente agitate su vortex per permettere l’idratazione del gel per 30 minuti. Deve
essere posta particolare attenzione all’eliminazione completa di bolle d’aria nel gel che
deve essere poi lasciato depositare sul fondo della provetta.
L’acqua, aggiunta alle provette per l’idratazione del gel, è stata completamente rimossa e la
colonna inserita nella provetta di lavaggio, posta in microcentrifuga a 750×g per 2 minuti
55
per eliminare il liquido residuo. La colonna è stata, infine, rimossa dalla provetta di
lavaggio e inserita in una nuova provetta da 1,5 ml per la raccolta del campione.
Il campione è stato trasferito nella colonna di purificazione che viene centrifugata a 750×g
per 2 minuti. A 10 µl di campione purificato sono stati aggiunti 5 µl di formammide per
permettere la separazione del doppio filamento di DNA, successivamente denaturati a 95°C
per 2 minuti; il prodotto della reazione è stato processato con ABI PRISM® 3100-Avant
Genetic Analyzer, il cui output grafico (elettroferogramma) è rappresentato in Fig. 17.
Figura 17. Tracciato grafico di sequenziamento automatico (elettroferogramma)
56
Risultati
Sono stati genotipizzati 58 pazienti dei quali è stato correlato il dato genetico con quello
clinico in 53 pazienti.
I pazienti esaminati sono stati trattati come è riportato in Tabella 4.
Trattamento Numero pazienti
FOLFIRI 9
FOLFIRI-BAVACIZUMAB 17
CAPIRI 1
FOLFOXIRI 3
FOLFOXIRI-BAVACIZUMAB 13
FOLFOXIRI-PANITUMUMAB 10
Tabella 4. Trattamento chemioterapico
La frequenza dei genotipi riscontrata nella nostra popolazione è riportata in Tabella 5.
UGT1A1*28 Frequenza genotipica
*1/*1 52%
*1/*28 31%
*28/*28 17%
UGT1A1*93 Frequenza genotipica
*1/*1 27%
*1/*93 55%
*93/*93 17%
57
UGT1A7*3 Frequenza genotipica
*1/*1 16%
*1/*3 48%
*3/*3 36%
UGT1A7*12 Frequenza genotipica
*1/*1 22%
*1/*12 47%
*12/*12 31%
Tabella 5. Frequenze genotipiche dei singoli polimorfismi
Per l’analisi delle tossicità i pazienti sono stati stratificati dividendoli in due gruppi, il
primo conteneva i genotipi wild-type ed eterozigoti ed il secondo conteneva i genotipi
omozigoti mutati.
L’isoforma UGT1A1 ha mostrato una maggiore correlazione con lo sviluppo di tossicità di
tipo gastrointestinale ed ematologica, affermando il suo ruolo principale nel metabolismo
dell’irinotecano rispetto all’isoforma UGT1A7.
I pazienti portatori del genotipo UGT1A1*28/*28 e *93/*93 risultavano essere
maggiormente associati allo sviluppo di tossicità sia gastrointestinale che ematologica
rispetto ai pazienti portatori dei genotipi UGT1A1*1/*1 e *1/*28 ed UGT1A1*1/*93.
Per quanto riguarda invece il ruolo dell’UGT1A7, questo riveste un ruolo maggiore nello
sviluppo di tossicità di tipo non ematologico (Tab. 6).
58
Gene Polimorfismi Tossicità
cumulativa
G2/G3
Tossicità G2
non ematologica
Tossicità G3
ematologica
UGT1A1 *1/*1 + *1/*28 46% 31% 17%
*28/*28 70% 40% 30%
*1/*1 + *1/*93 43% 37% 17%
*93/*93 70% 50% 40%
UGT1A7 *1/*1 + *1/*3 49% 38% 19%
*3/*3 48% 48% 48%
*1/*1 + *1/*12 38% 31% 18%
*12/*12 58% 42% 16%
Tabella 6. Prevalenza (%totale) della tossicità G2 non ematologica e G3 ematologica
nella popolazione dei pazienti in relazione al genotipo
In Tabella 7 sono riportati esempi di casi clinici per i quattro polimorfismi del gene UGT.
Trattamento UGT1A1 Ciclo Diarrea Neutropenia Piastrinopenia Anemia
FOLFIRI-BEVA *28/*28 2
4 2 2
FOLFIRI-BEVA *93/*93 2 2 3
UGT1A7
FOLFOXIRI-PANITUMUMAB
*3/*3 3 3 3
FOLFIRI-BEVA *12/*12 2 1 3
3
59
Discussione
L’indice terapeutico della maggior parte degli agenti citotossici rappresenta ancora oggi un
elemento critico di sicurezza del trattamento poiché l’attività farmacologica contro le
cellule tumorali è associata quasi invariabilmente a fenomeni di tossicità nei confronti dei
tessuti sani. Inoltre i nuovi chemioterapici disegnati per inibire specifiche vie molecolari
determinanti per la sopravvivenza delle cellule neoplastiche, come imatinib e gefitinib,
sono teoricamente suscettibili di fallimento terapeutico a causa di mutazioni del bersaglio o
downregulation con attivazione di sistemi alternativi di trasduzione del segnale. I recenti
progressi delle metodologie analitiche e il sequenziamento del genoma hanno permesso la
scoperta di varianti alleliche di geni coinvolti nel metabolismo dei farmaci, nella
farmacocinetica o nella farmacodinamica; queste alterazioni possono essere correlate alla
chemiosensibilità o alla tolleranza nei confronti dei farmaci.
Sono emerse due nuove discipline farmacologiche: la farmacogenetica, che studia le basi
genetiche delle risposta ai farmaci, e la farmacogenomica, che consiste nell’analisi
dell’intero genoma di cellule e tessuti per identificare le complesse alterazioni genetiche
responsabili delle risposte terapeutiche che non sono spiegabili con il metodo
farmacogenetico del gene candidato o per scoprire nuovi bersagli da utilizzare per lo
sviluppo dei chemioterapici.
Una semplice classificazione della variabilità genetica comprende 1) mutazioni geniche,
poco frequenti, i cui effetti si manifestano inaspettatamente e influenzano negativamente la
funzione cellulare (i.e., mutazioni che inattivano geni che codificano per enzimi coinvolti
nel metabolismo dei farmaci), e 2) varianti delle sequenze geniche, situate in posizioni ben
definite lungo i geni, tra cui i polimorfismi del singolo nucleotide o single nucleotide
polymorphisms, (SNPs), che sono presenti a più alta frequenza nella popolazione rispetto
alle mutazioni. Gli SNPs possono interessare esoni (i.e., l’effetto può essere il cambiamento
60
della sequenza aminoacidica), introni (ad esempio possono causare l’inserzione di siti
alternativi di splicing) o la porzione regolatoria dei geni (con conseguente alterazione
dell’espressione genica). La scoperta di correlazioni fra mutazioni geniche e differenti
profili di espressione e suscettibilità dei tumori nei confronti dei farmaci dovrebbe rendere
possibile una scelta più razionale del tipo di trattamento. Le analisi genetiche possono
essere effettuate con un’ampia gamma di tecnologie adatte ad individuare le alterazioni del
materiale genico (SNP, delezioni o duplicazioni di geni o riarrangiamenti cromosomici).
Infine, il recente sviluppo della metodologia dei microarray del DNA permette lo screening
dell’intero genoma con finalità diagnostiche. L’identificazione di geni candidati per le
analisi farmacogenetiche è un processo complesso poichè l’attività dei chemioterapici
antitumorali è influenzata da 1) attivazione e inattivazione metabolica, 2) espressione dei
bersagli farmacologici, 3) integrità dei sistemi di trasduzione che riconoscono le lesioni
cellulari e promuovono o inibiscono l’apoptosi, 4) efficacia dei sistemi di riparazione del
DNA, e 5) attività dei trasportatori attivi dei farmaci al di fuori delle cellule.
Un numero rilevante di determinanti genetici sono stati identificati nelle neoplasie ma la
rilevanza clinica di molti di questi deve essere ancora confermata. Infatti, la correlazione
delle alterazioni genetiche tumorali con la sopravvivenza e la risposta alla terapia è stata
limitata dal a) basso numero di pazienti esaminati, a causa della difficoltà di ottenere
campioni tissutali tumorali adeguati, b) mancanza di studi disegnati per verificare le
correlazioni tra l’anomalia genica e la risposta ai farmaci o la prognosi, c) variabilità delle
metodiche analitiche utilizzate e d) mancanza di controlli di qualità. TP53 e ErbB2
rappresentano un buon esempio dei problemi legati alla scelta della metodologia di
riferimento per la determinazione dell’utilità clinica di questi importanti marcatori. TP53 e
ErbB2 geni possono essere analizzati in diversi modi, tra cui sequenziamento,
ibridizzazione in situ e immunoistochimica, ma anche per un singolo tipo di analisi la
61
specificità della procedura metodologica e i criteri di interpretazione possono essere
soggetti ad una considerevole variabilità. TP53 è il gene più studiato nei tumori
gastrointestinali; non è stato tuttavia ancora validato come un fattore prognostico
nonostante il grande numero di articoli pubblicati nella letteratura scientifica su questo
argomento e l’ interesse nel miglioramento metodologico con la finalità di realizzare un test
genetico per l’utilizzo in clinica. Infatti, non esiste una singola linea guida nell’oncologia
gastroenterica che raccomandi l’analisi di TP53 in modo routinario per la valutazione della
risposta e della prognosi, nonostante l’alta percentuale di mutazioni di TP53 nei tumori
colo-rettali (fino al 73,4% dei casi) e l’evidenza statistica che la mutazione di TP53 è un
indicatore indipendente e significativo di prognosi negativa nei tumori del colon-retto. Per
facilitare la transizione dei marker molecolari dal laboratorio alla clinica sono richieste
rigorose standardizzazioni dei metodi analitici, delle banche di tessuto e la loro
applicazione in studi clinici con numerosità campionaria adeguata. La realizzazione di
accurati profili genetici del tumore e di trials clinici ottimali sono condizioni essenziali per
applicazioni future della farmacogenetica alla gestione del paziente oncologico. In
riferimento al profilo genico del tumore, sarà importante identificare a) le anormalità
genetiche coinvolte nella carcinogenesi e nella prognosi, b) i geni collegati alla risposta ai
farmaci, c) il grado di sovrapposizione tra i due gruppi. In relazione al disegno degli studi
clinici, la rilevanza dei markers genetici associati alla progressione e prognosi della malattia
può essere definita per mezzo di studi caso-controllo, mentre studi retrospettivi sono
utilizzati per identificare le alterazioni associate all’efficacia dei farmaci. Per esempio,
recenti risultati ottenuti in una popolazione di pazienti di uno studio caso-controllo ha
dimostrato la presenza di un polimorfismo comune A870G nel gene della ciclina D1
(CCND1); la variante genetica CCND1 870A è associata ad una maggiore aggressività del
tumore colo-rettale. Studi retrospettivi hanno mostrato un’importante correlazione tra MSI,
62
sopravvivenza e beneficio della terapia adiuvante con 5-FU del cancro del colon-retto in
stadio II e III. I pazienti che non hanno ricevuto la chemioterapia adiuvante, i cui tumori
manifestavano alta frequenza di MSI (H-MSI), hanno avuto una sopravvivenza a 5 anni
migliore rispetto ai pazienti con bassa frequenza di MSI (L-MSI) o stabilità dei
microsatelliti (MSS). Al contrario, la chemioterapia adiuvante con 5-FU aumenta la
sopravvivenza tra i pazienti con tumori con MSS o L-MSI mentre non è stato ottenuto
nessun beneficio con la chemioterapia adiuvante nel gruppo con H-MSI. Una rivalutazione
critica del ruolo clinico delle numerose anomalie genetiche rilevate nei tumori solidi è
quindi necessaria. Nonostante lo straordinario avanzamento nella comprensione dei
meccanismi molecolari e genetici alla base dei tumori solidi, tali progressi conoscitivi non
sono ancora stati trasferiti nella regolare gestione del paziente con il cancro e il ruolo
predittivo della farmacogenetica è stato messo in discussione. È auspicabile che la difficoltà
a trasferire le nuove conoscenze nella routine clinica possa essere superate dai risultati di
studi clinici prospettici, ben disegnati, in cui si esegua un confronto diretto tra la scelta del
trattamento sulla base dei criteri convenzionali e in base al genotipo del tumore e
dell’ospite.
Prima di essere stabilmente integrata nella pratica clinica, deve ancora essere provata la
capacità della farmacogenetica di migliorare la risposta e la tollerabilità dei trattamenti
affinché si possano accettare gli alti costi dell’applicazione delle tecniche di genetica alla
gestione dei pazienti. L’identificazione dei geni implicati nella risposta ai farmaci
antitumorali ha creato la basi scientifiche per nuove tecnologie, in particolare la
proteomica, per valutare il ruolo dei prodotti genici nella risposta al trattamento
farmacologico. Il razionale può essere riassunto nel modo seguente: a) molte mutazioni
sono silenti e non interferiscono con la funzione dei prodotti genici; b) gli SNP di un gene
possono essere molti e la loro combinazione (aplotipo) può essere così complessa che la
63
valutazione della funzione della proteina può essere più semplice e più informativa; c)
ciascun gene è caratterizzato da una regolazione post-trascrizionale, come la timidilato-
sintetasi, perciò l’espressione genica può non essere direttamente correlata alla sintesi
proteica; d) molti elementi possono contribuire alla funzione della proteina, rendendo
difficile la valutazione dell’effetto finale di tutti i fattori considerati nella loro interezza
soltanto sulla base del genotipo.
In questa tesi è stata valutata un’associazione tra polimorfismi del gene UGT e tossicità
grave da irinotecano in combinazione con altri chemioterapici. I nostri risultati indicano che
i polimorfismi UGT potrebbero avere un significato funzionale importante e potrebbero
essere impiegati nella diagnosi causale di tossicità, in modo da poter scegliere la dose di
chemioterapico da modificare personalizzando la terapia per ogni singolo paziente. Benchè
i dati presenti in letteratura siano molto contrastanti su questo argomento, nella casistica
esaminata in questo lavoro si può vedere come, nonostante alcuni polimorfismi siano
presenti anche in soggetti che non hanno sviluppato tossicità, la loro frequenza sia
notevolmente maggiore in pazienti che vanno incontro a reazioni di tossicità gravi in
seguito al trattamento chemioterapico.
In conclusione, l’avanzamento delle tecniche molecolari ha permesso di individuare i fattori
genetici collegati alla sensibilità o resistenza delle cellule tumorali nonché alle reazioni
avverse. Il fine ultimo della farmacogenetica sarà la stratificazione dei pazienti in categorie
in base alla loro probabilità di rispondere al trattamento e al rischio di tossicità in seguito al
trattamento chemioterapico, resta inteso che la farmacogentica rappresenta uno strumento
che deve essere opportunamente integrato con altre valutazioni, specialmente di ordine
fenotipico, grazie alle quali è possibile definire con maggiore precisione i criteri di
personalizzazione del trattamento.
64
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