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1 Universitá Iuav di Venezia Materiali per il Corso di Antropologia Culturale Corso di laurea specialistica sostenibilitá A.a. 2009/2010 Gennaio 2010 A cura di Ludovica Scarpa Contiene: Introduzione e programma Alcuni testi: -Estratto riassuntivo: La comunicazione efficace secondo Thomas Gordon, pag. 5 -Lo schema dell’esercizio: „Il bilancio quotidiano“, pag. 9 -Ludovica Scarpa, Identità narrativa, immaginazione, finzione e fraintendimenti, pubblicato in: Federico Batini (a cura di), Le storie siamo noi. Teorie e pratiche narrative nelle scienze umane, Liguori, Napoli 2009, pag. 10 -, Che cos’è la competenza sociale, manoscritto inedito pag. 17 -, Una besciamella di sofferenza. Ragionare intorno alla mente e al comunicare, manoscritto inedito, pag. 21 -, paura e altre emozioni (estratto) pag. 24 Per sostenere l’esame, requisiti minimi: -lo studente studia questa dispensa e almeno tre testi (vedi bibliografia) e -consegna di un elaborato (in formato: .doc) di un massimo di 4.000 battute per e-mail ([email protected]), almeno un mese prima della data di esame; in questo testo descrive, avendo cura di evitare il piú possibile il dare giudizi e valutazioni, una scena qualsiasi in un luogo non familiare; nell’ultima parte descrive inoltre come è stata la sua esperienza personale, nel farla.

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Universitá Iuav di VeneziaMateriali per il Corso di Antropologia CulturaleCorso di laurea specialistica sostenibilitá

A.a. 2009/2010

Gennaio 2010

A cura di Ludovica Scarpa

Contiene:

Introduzione e programmaAlcuni testi:

-Estratto riassuntivo: La comunicazione efficace secondo Thomas Gordon, pag. 5-Lo schema dell’esercizio: „Il bilancio quotidiano“, pag. 9-Ludovica Scarpa, Identità narrativa, immaginazione, finzione e fraintendimenti,pubblicato in: Federico Batini (a cura di), Le storie siamo noi. Teorie e pratiche narrativenelle scienze umane, Liguori, Napoli 2009, pag. 10-, Che cos’è la competenza sociale, manoscritto inedito pag. 17-, Una besciamella di sofferenza. Ragionare intorno alla mente e al comunicare,manoscritto inedito, pag. 21-, paura e altre emozioni (estratto) pag. 24

Per sostenere l’esame, requisiti minimi:-lo studente studia questa dispensa e almeno tre testi (vedi bibliografia) e-consegna di un elaborato (in formato: .doc) di un massimo di 4.000 battute per e-mail([email protected]), almeno un mese prima della data di esame; in questo testo descrive,avendo cura di evitare il piú possibile il dare giudizi e valutazioni, una scena qualsiasi inun luogo non familiare; nell’ultima parte descrive inoltre come è stata la sua esperienzapersonale, nel farla.

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Introduzione

Gli esseri umani sono le uniche creature dotate di libero arbitrio e di libertáinterpretativa; di linguaggio, di immaginazione, di cultura. Siamo gli unici in grado diraccontarci storie, in tutti i sensi, e a crederci, o meno. A promettere, a fingere, acostruire e demolire. A dare significati, a valutare, a dare importanza, a mettere indubbio e a svalutare.Viviamo cosí in una rete fitta e complessa di concetti e rappresentazioni mentali, nei„pre-giudizi“, i giudizi dati in passato nella nostra cultura, in credenze e certezze che ci fapiacere avere: preferiamo, in genere, non avere dubbi.Il primo antropologo ad interessarsi non solo degli usi e costumi di un popolo (gli abitantidi Bali), ma di studiarli assieme alle loro convinzioni intorno a come „dovrebbe-essere“ ilmondo, è stato Gregory Bateson negli anni precedenti la seconda guerra mondiale.Partiremo da questa sua osservazione generalizzandola, a lezione, e facendone unmodello di interpretazione che ci aiuti ad osservare il modo di funzionare della nostrastessa mente di esseri umani.Il nostro tentativo: una antropologia pratica, utile nella nostra vita quotidiana.

In particolare, nella prepararsi a professioni che hanno a che fare col progetto in sensolato non puó mancare la capacitá di farsi mediatori culturali tra i bisogni dei cittadini e lacultura del design e dell’architettura, intesa nel senso piú largo.Ció implica il saper ascoltare e comprendere modi di esprimersi a volte molto diversi dainostri, anzi nel mondo globalizzato di oggi richiede quasi una competenza incomunicazione interculturale, ed inoltre il saper bilanciare dentro di sé la tendenzaall’innovazione e l’attenzione per la tradizione, l’accettare incomprensioni e critiche, e ilsaper lavorare in team. Tutte situazioni a cui non si puó piú far fronte in modosemplicemente intuitivo, e che possono essere fonte di una frustrazione che possiamoimparare a fronteggiare in modo professionale.Questi aspetti richiedono la cosiddetta „competenza sociale“: una preparazione specificabasata sulla conoscenza di alcuni elementi di psicologia della comunicazione.Quest’ultima fa parte della cosiddetta psicologia umanistica, la cosiddetta „terza forza“che si è sviluppata in America dopo il comportamentismo e la pasicoanalisi a partire dailavori di Carl R. Rogers (col suo approccio centrato sulla persona), Thomas Gordon ealtri. Questo approccio si prefigge di migliorare la societá civile attraverso lavalorizzazione delle competenze delle persone e il rispetto gli uni verso gli altri. In questocorso ci concentriamo in particolare sulle competenze comunicative, alla ricerca di unequilibrio tra efficacia ed autenticitá.Affermando la prioritá della persona sulle teorie, l’attenzione di questo approccio sifocalizza sui bisogni, tenendo conto dell’analisi di Maslow e del suo modello della„piramide“ dei bisogni degli esseri umani, e in particolare del bisogno di riconoscimentodel proprio valore e del desiderio generale di poter vivere in pace, sentendosi a proprioagio. Ci sentiamo, in particolare, a nostro agio quando ci sentiamo accettati: unacomunicazione improntata sul „linguaggio del rifiuto“ o su giochi di potere non puó quindiche produrre frustrazione in tutti i coinvolti. Tuttavia non tutti comportamenti sonosempre accettabili e abbiamo bisogno di strumenti cognitivi per poter esprimere in modoefficace, costruttivo ed autentico critiche, ad esempio, per risolvere situazioni difficili.Con la comunicazione consapevole possiamo contribuire alla realizzazione di ambienti dilavoro e di vita adatti a rispondere in modo positivo a questi bisogni degli esseri umani.Per riuscirci non basta la teoria, ma alleneremo in aula, in particolare:-ascolto attivo-parafrasi-alcuni modelli della psicologia della comunicazione-alcuni elementi di gestione di conflitti.

Da qualche anno si parla inoltre di „progettazione partecipata“, quella che vede lapartecipazione attiva dei diretti interessati al processo di progettazione dei suoi spazi, siareali che virtuali.

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Questo approccio ha numerosi vantaggi, e si basa sull’assunzione che i cittadini sono gli“esperti” (esistenziali, dato che li hanno) dei loro problemi.Con la loro partecipazione alla soluzione degli stessi l’esperto ha dunque assicurata lacollaborazione di persone con punti di vista molto diversi, o opposti, dai propri, punti divista che arricchiscono il processo di ricerca di soluzioni. Una pluralitá di menti arricchisceinfatti i processi progettuali garantendo una pluralitá di soluzioni proposte, ma cióavviene solo se nessuno si sentirá intimidito e rimarrá in silenzio, per evitare l’umiliazionedi non venir preso sul serio – una situazione questa purtroppo tuttora tipica di molteassemblee gestite in modo forse autorevole, ma non partecipativo.Il processo partecipativo, come il lavoro in un team, puó funzionare solo in un climasereno e caratterizzato da vero rispetto dei punti di vista e dei modi di fare di tutti, e avolte vivere nel concreto questo rispetto puó non risultare facile.A mio parere è possibile per il professionista gestire simili situazioni solo grazie aconoscenze almeno elementari di psicologia della comunicazione.Infatti il rapporto tra cittadinanza, o clientela, e professionisti non è simmetrico: proprioper questo motivo i „clienti“ possono sviluppare addirittura diffidenza verso gli specialisti,non comprendendone le assunzioni e il linguaggio. Paradossalmente: tanto piú lospecialista è tale, ed utilizza un linguaggio specifico della professione, tanto piú habisogno di strumenti per gestire l’irritazione e il conflitto latente che si creanoinvariabilmente. Lo stesso linguaggio scientifico puó venir infatti vissuto come una formadi autoritarismo o di arroganza, nella misura in cui mette a disagio e irrita chi non locontrolla.Si tratta allora di accettare la conflittualitá intrinseca di simili situazioni e di essere ingrado di gestirla in modo professionale e distaccato.La calma e il distacco non sono in nessun caso una sorta di „optional“, ma una dellecaratteristiche fondative della nostra professionalitá: la mente calma, che non sente ilbisogno di stare sulla difensiva né quindi di attaccare, presenta inoltre il vantaggio diessere piú aperta ai bisogni degli altri, ma anche alla creativitá, al gioco e all’ispirazione.

Programma del corso

Noi esseri umani costruiamo il nostro mondo comunicando, attraverso i modi della nostracomunicazione creiamo atmosfere di qualità, o meno. In questo corso possiamo allenarciin giochi di ruolo a vivere le conseguenze pratiche di un approccio cognitivo e sistemicoalla comunicazione interpersonale.Non si tratta di pure „tecniche“: allenarci ad una comunicazione consapevole aumenta lasensibilità per il nostro ruolo all’interno dei sistemi di esseri umani di cui facciamo parte,non solo nel lavoro. Sviluppiamo la cosiddetta „competenza sociale“: la capacità dicomunicare e comportarsi in modo congruente ai propri interessi di breve, medio e lungoperiodo.Assumiamo che gli esseri umani condividano il desiderio di vivere in una società in cui sisentono a proprio agio, e la competenza sociale è la capacità di contribuire a costruirlacomunicando in modo costruttivo, chiaro, pacifico, per quel vivere etico che tutti ciauguriamo.Nella odierna crisi di fiducia le occasioni di qualità per sviluppare consapevolmente questotipo di “soft skills” sono ancora troppo rare.Di fronte a stress e frustrazione ci guida la parte ancestrale del cervello che condividiamocon gli animali, quel „cervello rettile“ che garantisce reazioni immediate salvavita(scappare e/o attaccare) e che impedisce la calma necessaria per poter riflettere eascoltare gli altri con attenzione. Malintesi, conflitti, malessere e perdite di tempo (edenaro) ne sono la conseguenza.Gli strumenti e i modelli che alleniamo ci aiutano ad assumerci la nostra responsabilitànei confronti dei significati che noi assegniamo ad ogni cosa, nonché ad essere una guidaresponsabile del nostro “team interno”, ad essere buoni registi di noi stessi.Impariamo ad utilizzare “in tempo reale” i modelli mentali, per cui il conoscerli implica uncambiamento di comportamenti.

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Possiamo utilizzare strumenti della comunicazione interculturale nel nostro quotidiano,prendendo sul serio l'assunto secondo il quale ogni mente costruisce un proprio “paese”,con una sua cultura, interessante da scoprire e comprendere.La mia offerta didattica si sviluppa in seminari esperienziali, in cui si partecipaattivamente e ci si mette in gioco in un ambiente "protetto", in cui è possibile allenareassieme nuovi modi di interazione sociale, vivendo situazioni "per prova", senza correre irischi connessi allo sperimentare nuovi comportamenti nella vita reale.Si tratta di un lavoro che implica la disponibilità dei partecipanti a lavorare sulla propriasoggettività, implica una crescita personale in termini di consapevolezza di scopi, timori,desideri, credenze implicite. Importante è la partecipazione volontaria.

I modelli e gli strumenti mentali che alleniamo sono in particolare:

- Realtà di primo e secondo ordine nell’approccio sistemico- La differenza logica tra descrizioni e desideri- Frustrazione e dolore cognitivo: la mente divisa- Parafrasi e ascolto attivo- La libertà interpretativa: come usare il „quadrato della comunicazione“- Come utilizzare il modello dello „sguardo etnografico“- Essere membro consapevole di un team: chiedere, dare e ricevere Feedback

Bibliografia:

-Ludovica Scarpa, La capra canta. Per vivere sempre sopra la panca. 52 scelte perimparare a vivere meglio con la competenza sociale, Ponte alle Grazie, Milano 2009;almeno tutta la prima parte.-Alla ricerca di un’etica delle proporzioni, postfazione di: Heinrich Wölfflin, La psicologiadell’architettura, a cura di Davide Fornari e Ludovica Scarpa, edizioni Et al., Milano, 2010-John Searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006.

A scelta uno fra i testi seguenti:Thomas Gordon, Leader efficaci. Ed. La meridiana, Molfetta, Bari 1999Ludovica Scarpa, Strumenti mentali, Cafoscarina, Venezia 2004, oppure in alternativa:-, L’Arte di essere felici e scontenti, Bruno Mondadori, Milano 2006,-, Registi di se stessi. Idee per manager, insegnanti, genitori, Bruno Mondadori, Milano2008,-, Micro-etica portatile per gente carina, Arca, Grosseto 2008,

www.ludovicascarpa.it

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Estratto riassuntivo

LA COMUNICAZIONE EFFICACE SECONDO THOMAS GORDON

Per ogni persona con cui siamo in rapporto ci formiamo una "finestra percettiva"attraverso cui osserviamo i suoi comportamenti. Ne abbiamo una diversa per ognipersona con cui siamo in rapporto. Questa "finestra percettiva" la possiamo disegnarecome un "Rettangolo del comportamento".

Per "comportamento" si intende qualcosa che possiamo udire o vedere concretamente,non il nostro giudizio su quella persona. Un modo molto utile per identificare ilcomportamento è chiedersi: "Potrei fotografarlo o inciderlo su nastro? Potrei ascoltarloalla radio o vederlo alla TV ?" Non si può fotografare l’ "irresponsabilitá" ad esempio, datoche questo termine fa capo ad un nostro giudizio, alla nostra interpretazione, che diamoad un comportamento.

La prima competenza da sviluppare per comunicare in modo efficace è quella di impararea distinguere bene i comportamenti dai giudizi.

Tutti gli esseri umani vivono di volta in volta sentimenti diversi nelle relazioniinterpersonali, quelle di base sono: accettazione e non accettazione. Ci saranno adesempio comportamenti di un amico, di un collega, del partner, di un insegnante ecc. chesaranno accettabili ed altri che saranno (dal nostro punto di vista) non accettabili.

Nel RETTANGOLO DEL COMPORTAMENTO disegniamo le aree in cui comprendiamo:

TUTTI I COMPORTAMENTI e distinguiamo quelle occupate da:

Comportamenti accettabili

---------------------------------------------------------------------------------------------------

o invece:

Comportamenti inaccettabili

Le linee di suddivisione non sono mai statiche; si muovono su e giù, spesso moltorapidamente nel corso di una giornata e variano da persona a persona. Nessuno puòaccettare tutto incondizionatamente. Due persone possono vedere lo stessocomportamento in modo molto diverso, assegnando ad esso significati diversi. E la stessapersona puó, se ad esempio è stanca, non accettare comportamenti che in altre occasioninon considera problematici.

I tre fattori che influenzano il livello di accettazione sono:

• Fattori interni alla persona: condizionamenti culturali, la personalità, stato d’animo,condizioni di salute, impegni di lavoro, stanchezza, ecc. Ad esempio ci possono esserevariazioni nel mio stato d’animo, indipendenti dal comportamento dell’altro, che

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possono influire sulla mia accettazione o non accettazione di tale comportamento.Ad esempio, se ho appena vinto alla lotteria, ottenuto una promozione o semplicementeho passato una splendida giornata, mi parrá accettabile tutto quello che mio figlio fa odice.

• l'ambiente: il luogo in cui si svolge il comportamento può determinare i mieisentimenti di accettazione o meno.

Per esempio, va benissimo che i bambini giochino a pallone in cortile, ma probabilmentenon mi sembrerá accettabile che lo facciano in salotto, o in una chiesa. • l’altro: i miei sentimenti di accettazione variano ad esempio da una persona all'altra, a

seconda dell'età, personalità, sesso, e soprattutto della mia posizione mentale neiriguardi di questa persona.

L’Area di accettazione può essere ulteriormente suddivisa per rappresentare due tipidiversi di comportamento. In primo luogo, l’altra persona può assumere uncomportamento che non da problemi, cioè non ci sono problemi di relazione (area nonproblematica).In questa stessa area si possono collocare tuttavia quei comportamenti che non sonoproblematici per voi, ma segnalano la presenza di un problema nell’altro. È lui/lei che haun problema, che vive un’esperienza. Il problema è suo, non vostro. Allora, forse vorreteaiutarlo a risolvere il suo problema.

Comportamenti accettabili (per noi):

L’altra persona è in difficoltà, ha un problema

Comportamenti accettabili (per tutti):

Area non problematica, la situazione ideale per la comunicazione

Comportamenti inaccettabili (per noi):

noi siamo in difficoltà, abbiamo un problema

Lo scopo del modello di Gordon è quello di fare acquisire le competenze necessarie perridurre il più possibile le due aree problematiche nella relazione interpersonale. Diconseguenza, l’Area non problematica diventa più grande. L’Area non problematicarappresenta tutte le volte in cui potete stare con l’altro insieme in modo piacevole evantaggioso per entrambi.

Una competenza fondamentale da sviluppare è quella di imparare a individuare di chi èil problema.

Per distinguerlo: possiamo ricordare che un comportamento è accettabile se posso dire:"Mi piace, lo accetto, sono a mio agio, oppure non mi sento minacciato, irritato,arrabbiato, deluso; posso accettare che l’altro sia com’è; mi sento neutrale; i miei bisognisono soddisfatti, non mi sento messo in pericolo".

Un comportamento è inaccettabile quando potrei dire: "Non mi piace, non lo accetto; misento minacciato (o irritato, arrabbiato, spaventato, deluso); voglio che i miei bisognivengano soddisfatti (e mi pare che non lo siano). COMPETENZE COMUNICATIVE utili quando l’altro ha il PROBLEMA:

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In tal caso usiamo l’ascolto attivo e la parafrasi e abbiamo cura di evitare le barriere dellacomunicazione (elencate di seguito).Quando l’altro ha un problema, di frequente cerchiamo di aiutare con dei "buoni consigli",con dei "suggerimenti" tratti dalla nostra stessa esperienza. Nonostante le buoneintenzioni, spesso questi tentativi creano più problemi di quanti ne risolvano e finisconoper bloccare la voglia di comunicare. Questi tentativi vengono definiti "barriere dellacomunicazione" e sono le dodici modalitá seguenti, da evitare:

1. dare ordini, comandare, dirigere;2. minacciare, ammonire, mettere in guardia;3. moralizzare, far prediche;4. offrire soluzioni, consigli, avvertimenti;5. argomentare, persuadere con la logica;6. giudicare, criticare, biasimare;7. fare apprezzamenti, manifestare compiacimento;8. ridicolizzare, etichettare, usare frasi fatte;9. interpretare, analizzare, diagnosticare;10. rassicurare, consolare;11. indagare, investigare;12. cambiare argomento, minimizzare, ironizzare. L’ASCOLTO ATTIVO

Carl Rogers, uno fra i maggiori rappresentanti della psicologia umanistica, che lo hainventato, ha individuato le condizioni che devono essere presenti perché una persona indifficoltà si senta aiutata. Quest’ultima deve sentire che chi si offre di aiutarla è unapersona:

1. Accettante: mi lascia essere quello che sono, con il mio modo di pensare, sentire,parlare e agire. Non mi chiede di essere diverso o di cambiare i miei sentimenti.

2. Empatica: Mi comprende, intuisce i miei veri sentimenti, mi fa capire che mi staascoltando con attenzione. Sa mettersi nei miei panni e mi comunica la sua percezione diquell’esperienza.

3. Autentica: antepone la sincerità, l'onestà e la genuinità all’assunzione di un ruolo, nonfa interpretazioni. L’ascolto attivo comporta l’interazione attenta con l’altro, e fa in modo che questi abbiaun feedback che gli faccia capire che chi lo ascolta lo capisce, sia nei sentimenti che neicontenuti.L'Ascolto Attivo è un modo particolare di rispecchiare ciò che l’altro ha espresso per farglicapire che lo ascoltate e dargli modo di verificare se e quanto avete compreso il suomessaggio.L'ascolto Attivo richiede che vi mettiate nei panni dell’altro cercando di cogliere i suoipensieri e sentimenti, e che gli esprimiate quanto avete compreso con accettazione.

COMPETENZE COMUNICATIVE quando sono „io“ ad avere un problema:

E’ utile in tal caso esprimere quel che percepisco, distinguendolo da quel che sento e daquel che interpreto, esprimendomi in prima persona (io mi sento..., quando vedo..., epenso che... e invece vorrei...).

Secondo il modello della scuola di Amburgo diremmo che in tal caso „parliamo dal latoverde del quadrato“.

Un messaggio in prima persona puó contribuire a rafforzare il rapporto quando non cisono problemi, comunica sentimenti positivi e descrive gli effetti concreti positivi che ilcomportamento di un altra persona ha su di voi.

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Invece, anche quando sono animati da buone intenzioni, i messaggi in seconda personapossono lasciare una brutta impressione:

"Sei sempre così gentile e tranquilla". Secondo il modello di Amburgo diciamo in tal casoche esprimmiamo una frase „gialla“ (=tu sei x).

Un messaggio in prima persona positivo evita valutazioni e giudizi. Si focalizza suisentimenti e le esperienze nostre, e informa l’altro.Ci si può comprendere molto meglio se impariamo a condividere spesso e apertamenteidee, opinioni e sentimenti.Si evitano cosí malintesi e problemi, e il rapporto diventa più sereno e sincero.Anche se esprimo una percezione che è un problema per me, per l’altro è piú facileascoltarmi, se non uso frasi del tipo „tu sei x“, ad esempio dire:„Non mi piace ascoltare l'hard rock“, o invece:„Tu con la tua musica mi dai fastidio!“ hanno esiti probabilmente diversi.

RISOLVERE I CONFLITTI

L’ascolto attivo come pratica abituale assieme al parlare in prima persona modificanol’ambiente e possono ampliare l’Area cosiddetta non problematica, risolvendo cosíconflitti. Ma l’ascolto attivo non aiuterà l’altro a risolvere tutti i problemi; alcuniinevitabilmente rimarranno.Alcuni comportamenti resteranno inalterati principalmente per due ragioni:• il bisogno dell’altro di persistere nel suo comportamento è troppo forte: c’è un conflitto

di bisogni.• L’altro non crede che il suo comportamento influisca negativamente sul vostro in modo

concreto e tangibile: c’è una collisione di valori.A volte si tratta di accettare i mondi degli altri, ed eventualmente di decidere, per se, di

non farne parte. Da: Thomas Gordon, Leader efficaci. Ed. La meridiana, Molfetta, Bari 1999

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Il bilancio quotidianoL’esercizio del bilancio quotidiano è uno strumento utile per allenarci a distinguere gli unidagli altri i propri pensieri, le proprie emozioni, e i propri giudizi continui e per vivere ilproprio potere di influenzare l’umore della giornata, di „manipolare“ il bilancio a nostrovantaggio. E di accorgerci che sono i giudizi che noi diamo a produrre il nostro umore difondo.Possiamo imparare a prenderci cura del nostro „bilancio interiore“, di renderci conto diavere sia il diritto di star bene che la capacitá di farlo.I fatti sono sempre „fatti“ da noi: hanno esattamente la qualitá che noi diamo loro, se cene accorgiamo possiamo occuparcene meglio e osservare se abbiamo altre scelteinterpretative, piú adatte alla vita che vogliamo fare e alla persona che vogliamo essere.

Si disegna una tabella (ill. ) , in cui si assegna una colonna-ai „fatti“, una-ai nostri pensieri, valutazioni e giudizi associati a questi fatti,-una alle emozioni/sensazioni corrispondenti, ed una-alla valutazione soggettiva, mettiamo in una scala da –5 a +5, ma si puó anche usareun’altra scala, mettiamo da –10 a +10.E procediamo al bilancio della giornata: ad esempio

Fatto Pensiero/giudizio sensazione valutazionesuona la sveglia troppo presto! inadeguatezza -3

m i m e t t o alavorare_

T a n t o d a ambivalente_ + 1 / -

telefonata_ Simpatico..._ Curiositá_ +3__ _ _ __ _ _ __ _ _ __ _ _ __ _ _ __ _ _ __ _ _ __ _ _ __ _ _ __ _ _ _

Eccetera; nel complesso, mi rendo conto di aver passato una buona giornata; se nonfosse cosí, potrei migliorarla in due modi: o riflettendo se ho altre possibilitáinterpretative rispetto ai „fatti“, o aggiungendo punti, cioé facendo cose che mirallegrano: sentire musica, leggere un bel libro, vedere un bel film, telefonare a unamico.Con la pratica, dopo aver preso l’abitudine di vedere ben distinti i propri giudizi e leproprie emozioni, potró utilizzare lo strumento del bilancio per chiedermi „che cosa stoassumendo/credendo, per riuscire a dare questo giudizio e a sentirmi cosí?“ e cominciarea vedere le proprie convinzioni, assunzioni e credenze nascoste dietro ai propri pensieri egiudizi, quelli che danno le qualitá che noi sentiamo, nel nostro vissuto.Vedere bene, in quanto tali, quelle credenze che hanno unicamente l’effetto di farci starmale, ci aiuta a disinnescare questo automatismo.

©Ludovica Scarpa

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Identità narrativa, immaginazione, finzione e fraintendimenti

L’essere umano è l’unico “animale simbolico“ (Cassirer 2004): non è pensabile per noiuna vita che non sia immaginabile e narrabile, e lo facciamo con i simboli linguistici. Lanostra identitá stessa, quello strano fenomeno per cui „sentiamo“ di essere individuicostanti nel tempo, malgrado continui cambiamenti, è fatta di immaginazione enarrazione, la nostra. Ma giá prima di essere in grado di averne coscienza, appena nati,altri ci assegnano un nome: ed entriamo cosí nel mondo di quel linguaggio che ciaccoglie.Siamo gli unici esseri viventi che nel corso dell’evoluzione hanno sostituito la guida sicuradell’istinto con un tessuto culturale, anzi con numerosi tessuti culturali, fatti di significati.E a loro volta i significati sono fatti di immaginazioni, individuali e collettive, di parole eparabole che ci lanciamo, accettandole o rifiutandole, l’un l’altro.L’immaginazione, la facoltà che ci permette di viaggiare nel tempo e nello spazio senzamuoverci, nel corso della evoluzione ci ha liberato dalla immediatezza del vivere confinatial reagire al qui e ora fisico. Reagiamo con uguale immediatezza a pensieri e fantasie checi portano con la mente nel passato e nel futuro, e possiamo anzi restare del tuttoindifferenti a quel che percepiamo qui ed ora, ad esempio guardando fuori, dalla finestra,se stiamo fissando la nostra attenzione invece su un ricordo. Il „ricordo“ stesso è unarappresentazione della mente che lo produce, una immaginazione, e le neuroscienze sonoin grado di spiegarci che nell’immaginare un futuro e nel ricordare si attivano lemedesime sinapsi.Il ricordare è un processo creativo attivo basato sull’immaginazione, e non un andare ariprendere una qualche documentazione da una specie di archivio della mente: in ogninuovo ricordare procediamo a nuove selezioni, generalizzazioni, semplificazioni, eadattiamo ció che ricordiamo al nostro attuale stato d’animo. Come ogni epoca riscrive lastoria alla luce delle tematiche che ritiene attuali, cosí ogni individuo riscrive la propria,alla luce di avvenimenti attuali.

La qualitá dell’esistenza

La nostra vita individuale è il risultato della nostra interazione tra il mondo e le nostrescelte, e la qualitá che essa ha per noi è quella che le assegniamo nel ricordo, nelraccontarla. La libertá di scelta è ció che ci caratterizza come esseri umani, e nonpotrebbe esistere senza immaginazione e simboli linguistici: pensiamo al concetto dipotenzialitá, che indica qualcosa che esiste solo e unicamente per chi lo immagina. Solose le immagino, mi si aprono strade nuove, sotto ai piedi, mentre cammino.Il mondo, a cui mi riferisco nel percepirlo, è l’insieme delle scelte degli altri, che sonointrinsecamente imprevedibili, nel dipendere dalle immaginazioni di altre menti. Il mondoche percepisco ha sempre („per me“) le qualitá che gli assegno, nel mio confrontarlo adaltre immaginazioni di come potrebbe o addirittura dovrebbe-essere-invece. Le scelte, informa di comportamenti, sono sempre funzioni di scelte interpretative. Le scelteinterpretative sono quelle con cui gli esseri umani assegnano significati, e sono possibilisolo grazie all’ immaginazione e al suo operare con concetti, simboli linguistici. Gli esseriumani aggiungono allora al mondo naturale i significati che assegnano, vivonodistribuendo (e scambiandosi) didascalie a ció che è-come-è.Ció significa, in pratica, che siamo noi stessi ad aggiungere al nostro vissuto, al nostroesistere in sé, la qualitá che la nostra vita ha per noi – anche se di solito non ce nerendiamo conto.Per poter assegnare un valore a qualcosa devo essere in grado di immaginare alternativenel suo modo di essere: ognuno di noi ha un intero set, una collezione di „figurinementali“ di come le cose dovrebbero-essere, a suo parere e nelle coordinate pensabilinella sua cultura, e ad esse ognuno confronta la selezione di ció che percepisce nelmondo, per poter vedere un senso in quel che ci circonda, e condividerlo, parlarndone.Come orientarmi, altrimenti? Come poter prevedere a quali comportamenti ne possonoseguire altri?

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Se ad esempio racconto di „una cosa straordinaria, eccezionale che mi è capitata l’altrogiorno in treno“, per poterci riuscire devo avere a disposizione uno sfondo diimmaginazioni di come sia un viaggio „normale, senza nulla di strano“ in treno. Ognigiudizio interpretativo si basa su intere collezioni di implicite assunzioni e immaginazioni.Non solo: se ad esempio sono un ingegnere minerario intenderó qualcosa di diverso, coltermine „risorse“, che se sono un pedagogo o uno psicologo. Nelle pieghe del linguaggiove ne sono altre e altre ancora, a fisarmonica, e alcune non le notiamo affatto, dal nostropunto di vista. Se le notassimo, cambierebbe il nostro punto di vista, o cambieremmo noistessi?

Selezioni del mondo

La mia esperienza del mondo si costruisce attraverso le selezioni del mio percepirlo, delmio pensarlo con questi significati e non con altri, e del mio dirlo con questi termini e noncon altri, con i miei tentativi narrativi, e non mi rendo nemmeno conto della differenzafondamentale tra il mondo-di-cui-parlo e il mondo in sé, al di lá delle mie aspettative epercezioni, della mia esistenza stessa: ne parlo, rifletto e riesco ad articolare ciò in cuicredo, come se ciò non costituisse di per sé un problema.I significati che assegno alla mia esperienza costituiscono minuto per minuto la mia vita:la sensazione forte di essere io stessa e non un altro, nella mia realtà, quella che vivocome la vivo. Nella misura in cui posso osservare come assegno significati, nella miamente, sulla base di quali sfondi di aspettative, posso accorgermi quindi di avere unavasta scelta a disposizione, fra piú possibilitá interpretative: e i significati che scelgo diassegnare costituiscono la mia vita, la sua qualitá esistenziale, quella che sento. Inquesto senso posso lavorare sul copione della mia esistenza, e riscriverlo, sempre,adesso.Non sappiamo esattamente cosa sia, in noi, che ci fa “sentire” di essere noi stessi,individui specifici e con la sensazione di essere “speciali”: la consapevolezza di essere unsoggetto, la sensazione di avere una identità precisa.La filosofia occidentale e quella buddhista si è occupata da tempo di questo problema.David Hume nel cercare dentro di sé non trovava che il ricordo di esperienze, senza“l’addizione” di un “sé”. Le molecole, gli atomi e le cellule fisiche che costituiscono il miocorpo si rimpiazzano nel corso della vita, le fotografie di quando ero bambina non miassomigliano più di quanto non lo faccia mia figlia, anzi a ben guardare quelle fotoassomigliano ora molto più a lei: eppure dico senza problemi “questa sono io all’età di...”.Siamo in grado di sentire una sorta di continuum, nella sequenza spazio-temporale diesperienze che chiamiamo la nostra vita, ci sembra cosí ovvio che di solito non cifacciamo nemmeno caso. Non abbiamo esperienze sparse e insensate, ma le ordiniamo,diamo loro un senso e un significato, da un punto di vista: il nostro. Abbiamo lasensazione, in una certa misura, di essere liberi e di poterci prendere le nostreresponsabilità, di poter scegliere tra varie interpretazioni delle cose, tra diversicomportamenti possibili. Ricordiamo quanto è accaduto, ci riflettiamo e ci identifichiamocon quanto abbiamo “capito”, e cioé con i significati che abbiamo assegnatoall’esperienza.La memoria e la capacità di riflettere, di comunicare con noi stessi pensando, hanno unruolo insostituibile, essenziale nel nostro sentire di essere individui, anche se non vi èalcuna differenza sensibile, per ognuno di noi e nella propria soggettività, tra il ricordaree il credere di ricordare, tra l’essere-se-stessi e il credere di esserlo.La dimensione del „credere di“ apre l’immaginazione alla possibilitá di sbagliare,all’errore. Ma per esistere un concetto come „errore“ devo poter fare riferimento ad unaoggettivitá, indipendente dal soggetto che la percepisce: se sostengo che „2+2=5“questo è un errore, se „credo che questo sará un anno sereno“ non puó esserci errore:credo questo, e mi sento in modo corrispondente al mio crederlo – non ci sono indicatorioggettivi di che cosa significhi „un anno sereno“. Altri possono tuttavia credere che misbagli, e sostenere il contrario. Nell’ascoltarli, posso pensare che dal loro punto di vistasia francamente cosí come dicono, o posso svalutare la loro posizione, e ritenerlimalinformati o in malafede, o pensare che scherzino, o che mi prendano in giro, o che mi

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sfidino – nel dare queste interpretazioni uso la libertá, tipica di ogni mente umana, diassegnare significati, quelli prodotti dalla mia mente, a quel che percepisco e provienedalla mente degli altri.

Immaginazione e stati mentali

Ogni significato ed ogni assunzione, ogni credenza produce stati mentali: le qualitá delnostro sentire come ci sentiamo. Osservando bene i termini con cui le descriviamopossiamo renderci conto del loro essere interconnesse ai nostri modi di raccontarci.Ma altre consapevolezze, altri „io“ assegnano a loro volta i loro significati a quel chepercepiscono, comprese le nostre stesse parole e azioni. E questo apre le porte allarisorsa del fraintendimento. Risorsa: in quanto apre a variabili nuove, a interpretazionipotenziali, al confronto tra punti di vista, al conflitto e all’innovazione. E a storie infinite ealla poesia.L’immaginazione ci permette di farci un’idea delle cose, di credere, o di non credere, aquel che percepiamo, sia nel mondo fuori di noi che nella nostra mente: siamo in gradodi farlo confrontando costantemente le nostre idee a quel che percepiamo nel mondo. Nel“non credere” a quel che vediamo o sentiamo dire, ad esempio, preferiamo tener fermoall’idea alternativa che abbiamo in mente, che ha il pregio di essere la nostra e diconfermare le nostre assunzioni, per cui ci fa piacere averla e conservarla, sentire che„abbiamo ragione“.Siamo sempre in grado di immaginare diverse versioni, compresi i punti di vistadell’altro, o almeno di immaginare di poter immaginare il mondo dal punto di vistadell’altro, realizzando quel “pensare allargato” di cui scriveva Kant.Questi riteneva che il difetto che più impedisce l’essere umano, nel vivere appieno lepotenzialitá della propria ragione, è la sua capacità di mentire, per prima cosa a sestesso.Il concetto di „mentire“ ci conduce su di un terreno minato: se infatti sostengo che “credoche x”, solo un “altro” può dire di me che “mento a me stessa”, o che non dico la veritá;ma un altro non può mai sentire come mi sento, soggettivamente, nel mio dire di credereche x. Per cui la sua interpretazione sará sempre una forma di insinuazione, unetichettare e incasellare il mio dire, una mancanza di rispetto verso il mio sentiresoggettivo.Ci sono concetti – come menzogna, ipocrisia e simili – caratterizzati dal venir usati disolito per parlare di altri, di cui non comprendiamo le azioni, non riuscendo a sentirecome si sentono, che intenzioni e che bisogni hanno.Il concetto di mentire implica un giudizio, che di solito si da su di un’altra persona. Nelmio mondo, allora, „so“ che la persona x „mente“: il che condiziona le mie scelte nei suoiconfronti. Di solito non ci accorgiamo che il mio dire di lei che mente sia giá una sceltainterpretativa, la scelta di una narrazione possibile, in cui compaiono circostanze cheimmagino io stessa e aggiungo a quel che percepisco, come la manipolazione: „lapersona x mente per... farmi credere... e farmi fare...“, per controllare le mie risposte, lemie possibilitá di dare un senso all’accaduto.

Finzioni e simulazioni come risorse

Tuttavia sappiamo che possiamo, consapevolmente, mentire. E che ció fa parte delnostro repertorio di competenze di esseri umani: possiamo fingere; ma mentre nelconcetto di „menzogna“ si evoca un giudizio negativo, questo non è presente in quello difinzione. Ecco che i simboli linguistici ci mettono a disposizione „immagini“ di qualitá bendiverse, per poter narrare e quindi dare un filo logico all’esistente, e farne una selezioneche abbia un senso per noi, che dia un orientamento alla nostra esistenza. Se diciamo adesempio, di noi stessi, che abbiamo mentito, una parte di noi nel farlo sta criticandoquesto atteggiamento, mentre se non lo fa diremo infatti che abbiamo „fatto finta di“...Facendo finta i bambini imparano a immedesimarsi nei ruoli e nei comportamenti degliadulti: far finta è una prerogativa importantissima della mente. Immaginando, comediceva il filosofo Popper, gli umani fanno morire le loro idee al loro posto, simulando nellamente le conseguenze delle scelte possibili. Un vantaggio evolutivo straordinario, per la

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nostra specie. Nel valutare le responsabilitá che ci prendiamo con le nostre scelte lacapacitá di far finta è fondamentale. E’ fondamentale quindi per una vita libera: libera divedere piú alternative, nell’immaginarle, e di sceglierle.La nostra capacità di finzione/menzogna è un effetto della fantasia. La menzogna, con isuoi costi sociali, è il prezzo da pagare dunque per essere in grado di pensare sempre“immaginazioni” alternative a ció che è-come-è: di occuparci di concetti astratti, di “cose”e situazioni che attualmente non sono (ancora) davanti ai nostri occhi fisici, non sonopresenti nel qui e ora, ma solo nella nostra mente, e quindi anche di progetti, diinvenzioni e di visioni.Ma con la capacità di mentire, di produrre immaginazioni che non hanno alcun riscontroné con la realtà di primo ordine (quella misurabile e condivisibile oggettivamente nenmondo fisico) né con quella di secondo ordine (quella che vivo e che sento essere proprio„cosí“, nel qualificarla con gli aggettivi e le etichette che distribuisco a ciò che esperisco),con questa capacità inventiva ci complichiamo la vita ulteriormente: ogni asserzione puóvenir non creduta, svalutata, rifiutata.Ci sono sempre numerose narrazioni possibili, numerose potenzialitá di assegnazione disenso. Interpretazioni, finzioni, menzogne, varianti attivabili nella mente e nellanarrazione. Non siamo soli, a tessere le narrazioni delle nostre vite: nella possibilitá dellafinzione i significati assegnati da tutti gli altri si moltiplicano in fitte nebbie interpretative.Noi stessi possiamo istantaneamente cambiare la qualitá della nostra esperienzasoggettiva se la interpretiamo (=la immaginiamo) come un grande gioco, unasimulazione 1:1, un campo intersoggettivo di esperienze, un teatro in cui ognuno di noi èsia protagonista che regista, e puó riscrivere il copione, usando altri termini.Ogni parola, ogni simbolo io usi nel farlo è una scelta interpretativa.

Le parole e la qualitá del nostro sentire

Per cui: facciamo molta attenzione alle parole che usiamo nel parlare della nostra vita.Dico ad esempio che è stata un’esperienza da cui ho imparato, o un fallimento? Che sonoriuscita a gestire la frustrazione e sono sopravvissuta (infatti sono qui a parlarne, e possofocalizzare la mia attenzione su questo piccolo particolare, se voglio!) o mi dispero,identificandomi con la antica sensazione di impotenza, ricreandola con l’immaginazioneogni volta che ci ripenso, nella mia mente? Dico che al momento mi sento depressa, omolto piú tranquilla del solito?Abbiamo vari livelli possibili di “falsificazione” della realtà, e alcuni sono consapevoli, altrino. Per cui non sappiamo mai se possiamo “fidarci” del mondo, degli altri. Se infattisappiamo che noi siamo in grado di mentire, assumiamo che lo facciano gli altri. E sesiamo diffidenti abbiamo paura: non sappiamo come orientarci, cosa credere, e latensione si sente: preferiamo star bene e temiamo che ciò, qui e ora, non si dia. Latensione ha a che fare col desiderio: l’ansia esiste solo in base al desiderio che le cosesiano e rimangano come preferiamo, alla sensazione che sia quindi sempre preferibilecercare di controllarne l’andamento. Ma come controllare alcunché, se non so chesignificati dare a quel che l’altro dice? Scherza? Davvero intende x, o vuol farmi capireche y? Che assunzioni implicite usa, nel tessere significati? Che sia il caso di fidarsi?Ma in preda all’ansia la mente conosce solo le reazioni automatiche di fuga o di attacco(quel comportamento che, se lo attiviamo noi stessi, chiamiamo „difesa“, di „attacco“parlerá allora l’altro, definendolo dal suo punto di vista). Le capacità della mente siriducono per focalizzarsi a garantire un eventuale sforzo massimo, in vista della purasopravvivenza. E il mentire è una forma di fuga in versioni alternative del mondo, quelledella nostra fantasia. In questo senso risponde a un bisogno forte degli esseri umani, chein quanto tale va rispettato.Ma chi coltiva una propria immagine di sé che sa essere diversa da quel che sente,pagherá un prezzo elevato: non potrà sentirsi accettato e amato per quello che è (=checrede di essere), dato che per primo non si accetta e non si ritiene amabile, se preferiscemettere una maschera e mostrare delle alternative “versioni ufficiali” di sé. Chi mente asé e agli altri si autocondanna a vivere dunque nell’ansia, credendo all’esistenza di realtàdi secondo ordine “pericolose”, quelle create dalla propria stessa fantasia. Ma chi „fabuon viso a cattivo gioco“ sta mentendo? Se mi adatto anche se so che preferirei

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qualcos’altro, sto mentendo? Ecco che la menzogna è una ipotesi traballante, checomunica piú sull’atteggiamento giudicante di chi la usa, che sulla persona di cui si parla.Chi giudica un’altro „un bugiardo“ lo fa spinto dal proprio bisogno di chiarezza, diorientamento, di semplicitá: perché non parlare di questo, invece di distribuire etichette?

La tendenza ad esagerare lede la fiducia

Prendere sul serio e condividere con gli altri il bisogno di smettere di vivere in automaticoe di stare sulla difensiva in nome della paura, implica quindi in prima persona la sceltaconsapevole di non mentire, né con se stessi né con altri, di non parlare di cose che nonsappiamo con certezza se siano vere, di non esagerare né di riportare dicerie, per fareattivamente la propria parte nel costruire un mondo in cui sia possibile vivere la fiducia.Se infatti già comunicando ciò che pur ci sembra sia “vero” forziamo variamente la realtà,con le nostre interpretazioni e selezioni di essa, il consapevolmente falso la complicaulteriormente, moltiplicando per tutti la quantità complessiva di ansia diffusa e di sfiduciache circola nel mondo.Il bisogno nascosto dietro alle “bugie” è quello di evitare la sensazione spiacevole dipaura legata al credere di non essere degni di affetto, così come “in realtà” crediamo(=immaginiamo) di essere: prendiamo cosí sul serio una narrazione della mente, senzaaccorgerci che non è che una delle tante possibili; sono numerosi gli “strati” di realtà disecondo ordine che, una volta costruiti dalla nostra mente, ci condizionano.Tuttavia sembra che a volte non ci accorgiamo di mentire a noi stessi (ma ancora: chi lopuó dire?) e crediamo sinceramente nelle realtà di secondo ordine di cui parliamo come sitrattasse della “realtà”, quella che crediamo vera, sotto gli occhi di tutti.

Libido sociale

Questo meccanismo di autoillusione, del credere ingenuamente che ciò che noi vediamosia chiaro per tutti, risponde al nostro bisogno di un significato condiviso in ciò cheviviamo, è una sorta di libido sociale alla base della sensazione di superiorità morale delproprio gruppo (religioso, politico, etnico?), sensazione pericolosa nella sua potenzialelegittimazione della scelta di danneggiare gli altri, quelli che, svalutandoli, giudichiamo“inferiori”.Non solo, con il nostro vivere attratti dalla forza di gravità di ciò che ci fa star beneabbiamo costantemente desideri, e siamo quindi per principio in contrasto col mondo(quella selezione delle nostre percezioni che chiamiamo cosí: „mondo“, e che non sa checosa farsene dei nostri desideri), e le nostre produzioni di realtà di secondo ordinepossono risultare incomprensibili agli altri, o addirittura non credibili, e, se pur possiamoscegliere di non mentire, non possiamo scegliere di non sbagliarci e nemmeno di nonvenir malintesi o addirittura accusati, e l’altro è in sé libero di non credere alla sinceritàdelle nostre scelte, o alla nostra capacità di viverle, o non condividerne la validità. E per ilnostro “altro” di turno il significato di ciò che facciamo o diciamo è sempre il significatoche egli stesso assegna a ciò che noi facciamo o diciamo, quello che produce nella suamente, a partire dalle sue assunzioni sul mondo e su di noi nel mondo.Come tanti ragni, viviamo dunque in tessuti di significati e narrazioni che tessiamoinsieme, l’uno con l’altro e l’uno contro l’altro (per riprendere l’immagine di Geertz e MaxWeber). Se per l’altro “sto mentendo” oppure „sto dicendo sciocchezze“, questo è partedella sua realtà di secondo ordine, che ha conseguenze precise su di lui, sulle sue sceltenei miei riguardi, sul suo sentire e sull’equilibrio mobile del sistema di esseri umani cheinsieme creiamo.L’interazione con gli altri, per ognuno di noi, comporta dunque molteplici rischi: quel chesento e che dico puó venir respinto, o non creduto, o ridicolizzato.Gli altri possono narrare narrazioni ben diverse dalla nostra: ma se la mia identitá sifonda sulla mia narrazione, questa mia identitá si puó sentire in pericolo dalla tuanarrazione. Ed ecco il motivo del nostro litigare in modo cosí aggressivo intorno asemplici opinioni, a scelte interpretative, a visioni del mondo. Tuttavia è ben difficilerinunciarci; sentiamo il bisogno degli altri per confermarci a vicenda il nostro valore diesseri umani e la questione che ci pare fondamentale: chi siamo.

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Il nostro sé è narrativo e provvisorio, un tessuto costruito dalla nostra facoltàimmaginativa: dai nostri pensieri e dalle interazioni con gli altri, e dal nostro renderceneconto. Questo spiega la nostra ipersensibilità alla idea che gli altri si fanno di noi, alla lorodisponibilità a condividere le nostre storie con noi.

Promesse e perdoni

Nel delicato gioco di conferme e sconferme vicendevoli che costituisce il cuore dellacomunicazione fra esseri umani, la costruzione di memorie comuni, condivise econfermate da un altro essere umano, di cui ci fidiamo e che amiamo, è una risorsafondamentale, una fonte di grande rassicurazione. Se il tessuto dei significati checostituiscono la qualitá, il vissuto soggettivo della nostra vita, è fatto di immaginazioni:perché non immaginare qualcosa che ci puó aiutare a superare la diffidenza e ilmalessere conseguente? Nel perdonare, ad esempio, elimino dalla mia vita il peso disignificati che avevo assegnato io stessa – per riuscire a „prendermela“ che le cose sianoandate allora in un certo modo invece che in un altro. I concetti di promessa e di perdononon sono pensabili infatti che con tutta la nostra umana immaginazione. Con la primaforzo il futuro, progettandone una versione possibile, che non solo desidero ma checerco, con la mia promessa, di impegnarmi a realizzare (per cui la promessa = desiderio+ impegno). La promessa è un dispositivo di resistenza, contro l’impermanenza di tuttele cose: sappiamo che nulla sopravvive, che se siamo in vita significa che moriremo, el’intenzione dell’impegno e della promessa ci consolano, magicamente ci bastano, egrazie alla promessa di chi ci vuol bene, ad esempio, sopportiamo assieme, e perfino congioia, la caducità di tutte le cose. Con il perdono ristrutturo il significato di eventi passati,cambiandone la qualità e il significato, e quindi le conseguenze per l’oggi, nel mio sentire.Di promesse e perdoni è fatto il tessuto della gestione pratica nel tempo della nostrapreferenza principale, il vivere bene insieme agli altri, continuando nel confermarci avicenda il nostro valore. Al desiderio si aggiunge la dimensione dell’impegno e dellaaspettativa reciproca; e quindi il perdono, il dispositivo necessario a superare ledelusioni. In presenza di aspettative (che sono una sorta di desiderio speciale, che sireputa legittimo) queste infatti non possono mancare: nessuno può riuscire ad esseresempre come noi ci aspettiamo che sia, dato che ogni persona, in quanto tale, è libera equindi imprevedibile.

Ma che significato può avere il concetto di perdono, se ci rendiamo conto che grazie allaimmaginazione viviamo comunque in una realtà di secondo ordine, che è sempre unanostra creazione personale, che costruiamo nel percepirla attraverso i nostri filtri fatti dibisogni, preferenze, convinzioni, paure, ma anche degli stessi concetti che usiamo nelparlarne e nel pensarci?La realtà di secondo ordine è quella del “bicchiere mezzo vuoto” o “mezzo pieno”, quelladi primo ordine ci dice la quantità di liquido che contiene il bicchiere, è la sua dimensionemisurabile. Quest’ultima, la realtà di primo ordine, non dipende da cosa ne pensano gliesseri umani implicati, l’altra invece cambia immediatamente al cambiare delle idee chese ne fanno questi ultimi.Ma ogni qualità che io ritenga caratteristica della mia vita soggettiva è una realtà disecondo ordine, dato che dipende dal mio sentirla e valutarla tale per esistere per me,per cui possiamo dire che con quella che noi definiamo senz’altro “realtà” intendiamosempre la realtà di secondo ordine: quella che noi crediamo di descrivere mentre invecela costruiamo nel raccontarla, attraverso le nostre valutazioni di essa ed i termini ed iconcetti che usiamo, invece di altri.Per cui non potrò “perdonare” che me stessa, per il fatto di non poter fare che del miomeglio, come essere umano, e niente di più, e di aver assegnato così etichette tali allarealtà, e ad alcuni fatti e persone in particolare, da averne tratto per me una sensazionedi rabbia, o di dolore. O potremmo esplicitare per noi come ogni nostro giudizio non siache un confrontare cose e persone con le nostre idee di come “dovrebbero essereinvece”, dicendo dentro di noi la frase paradossale, pensando ad una persona per noi“difficile”: “ti perdono di essere come sei e non come vorrei che tu fossi” (Williamson

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1996). Il concetto di perdono stesso si dissolve dunque se lo osserviamo, e si stemperain quello del lasciar andare, dello smettere di prendere troppo sul serio le costruzioninarrative della nostra mente.Fritz Perls sottolineava l’importanza di perdonare i propri genitori per aver fattosemplicemente del loro meglio, come hanno potuto, per smettere di ossessionarci con ciòche la nostra percezione, sempre selettiva e critica, col senno di poi, vede mancare. Perlschiama quella nei riguardi dei genitori la tipica situazione non conclusa, che rimane allaricera della “Gestalt”, di una forma equilibrata e ultimata, disegnata e armonica, di unsenso compiuto, dentro di noi. Se non “perdoniamo” chi ci ha voluto bene come hapotuto e non come a noi sembrerebbe “giusto”, non viviamo la dimensione dellagratitudine per il nostro stesso essere al mondo in sé, svalorizzando e impoverendo cosìla nostra stessa esistenza. Chi perdona si libera: del proprio risentimento verso cose epersone che si permettono, di solito, di essere del tutto indipendenti dalle nostrepreferenze.

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Che cos’è la competenza sociale?

Come l’intelligenza e l’empatia, e un poco come tutte le caratteristiche checontraddistinguono gli esseri umani, anche la competenza sociale non è facile da definire.Infatti non ha a che fare con norme, quanto con modalitá, e non servono nemmenonozioni, ad esempio intorno ad essa, per „averla“, ma una attenzione sensibile alleinterazioni, al nostro modo di porci con „l’altro“ di turno.Ma il nostro modo di porci e di comunicare con l’altro ha a che fare con quel che nepensiamo, dell’altro e della situazione, e con le nostre assunzioni implicite. Ecco quindiche entriamo nel complesso territorio dei significati che ognuno assegna alle proprieesperienze e in quello della comunicazione interpersonale, che crea la qualitá dei sistemisociali di cui facciamo parte, l’“atmosfera“ di un luogo, di un ufficio.La competenza sociale è un tema relativamente recente e legato alla nostra epoca dipassaggio da una cultura basata su regole, tradizioni, norme, nozioni „oggettive“ ad unain cui i singoli sentono il bisogno di realizzarsi come persone autonome, cercando diconiugare nella loro vita le due esigenze di efficacia e autenticitá. Efficacia nelraggiungere i propri scopi ed autenticitá nel proprio sentire.La competenza sociale la possiamo collegare al termine „empowerment“: il sentirsicompetenti, e cioé in grado di farcela, il sentire di avere il potere di vivere la propria vitain modo autonomo e di poter fare affidamento sulle proprie risorse. Prima fra tutte quelladi poterne sempre imparare di nuove.La mia definizione di competenza sociale è la seguente: è la capacitá di comportarsi ecomunicare in modo congruente ai propri scopi di breve, medio e lungo periodo.Il vantaggio di questa definizione è il suo rapportare capacitá comunicative ecomportamentali con i propri scopi, e il porre questi scopi in una esplicita prospettivatemporale: gli scopi di breve, medio e lungo periodo possono essere infatti ben diversi ein concorrenza fra loro, e fa parte della competenza sociale sapersi rendere conto di ció,stabilire prioritá e prendersi la responsabilitá delle proprie scelte assieme ai prezzi dapagare per realizzarle.Un altro suo vantaggio è che non vi compare alcuna norma: non è infatti possibileconfrontare a „norme“ precise i comportamenti degli esseri umani – e infatti esiste unadisciplina chiamata „Antropologia“, ma non puó esistere una „Antroponomia“ (comeinvece esiste una astronomia ed una astrologia). L’essere umano, in quanto tale, è libero,libero dalla „normativitá“ di un istinto automatico: quel che ogni essere umano è, lo deveper prima cosa diventare e imparare, e lo puó sempre cambiare, riflettendo, scegliendonuove vie, migliorandosi.La societá è il risultato di una rete fittissima delle conseguenze (sia volute che nonvolute) di scelte e comportamenti di individui, tutti motivati da desideri, progetti, bisogni.La competenza sociale implica anche il rendersi conto delle conseguenze complessive peril proprio e l’altrui benessere: nessuno sente il bisogno di vivere in una societá fatta dipersone che lo evitano e non si fidano di lui, ad esempio, per cui scelte che sul breveperiodo sembrerebbero convenienti, ma in seguito mettono in discussione il proprio„buon nome“ non sono „competenti“. Il bisogno generale di sicurezza e benessere implicaallora, per chi è „socialmente competente“ il vivere con gli altri comportandoci come ciauguriamo che gli altri facciano con noi.Ottenere ad esempio con la forza e l’aggressione „vantaggi“ per sé, danneggiando gli altrinon puó che costituire un comportamento socialmente incompetente, dato che cosí sicrea un mondo in cui i comportamenti aggressivi, che temiamo e ci auguriamo di nonincontrare, sono possibili: ma come augurarsi di non incontrarli in altri se li usiamo noistessi? Se il nostro scopo è vivere in un mondo pacifico il comportamento competente adesso collegato è comportarci per primi come le persone che vi vorremmo incontrare.Il concetto implica un cambio di paradigmi: invece di pensare in termini „medici“ eparlare di disturbi della personalitá – come ad esempio di fronte ad ansia e timidezza, maanche ad aggressivitá eccessiva – si puó passare ad interpretarli come comportamentiinadeguati agli scopi che la persona vuole ottenere. E concentrarsi sull’apprendimento el’allenamento di comportamenti più adeguati, in processi costruttivi di apprendimento, enon necessariamente terapeutici.

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Come mai molte persone si comportano in modo „inefficace“, in modo tale da dovercontare, per il futuro, in svantaggi sicuri? Ogni comportamento è frutto di un imparare, enon sempre i modelli a disposizione sono stati „efficaci“, in ogni occasione e fin dall’inizio.Oppure comportamenti che sono adeguati in una situazione non lo sono in altre, ma sonodiventati, senza che ce ne rendessimo conto, ormai un repertorio automatico.Gli esseri umani posso imparare per tutta la vita, e allargare i loro repertori diinterpretazioni delle situazioni e di comportamenti.Rinuncio consapevolmente ad una terminologia che comporti valutazioni negative, come„sbagliato“: un comportamento è „poco efficace“, se lo scopo è ad esempio star bene conil risultato dello stesso, non „sbagliato“ – questa categoria implica che io possa,nell’usarla, decidere sulla base di una norma che cosa sarebbe invece „giusto“; mentrenel definire un comportamento „adeguato“ (o meno) allo scopo lo circoscrivoall’esperienza concreta e non generalizzo.Ci sono alcuni convinzioni che possono risultare „disfunzionali“, restringendo la rosa diinterpreatzioni della realtá, e quindi di comportamenti, di chi li ha:-Sforzati! Sbrigati! Devi farcela sempre!- non devo avere mai paura,

- devo essere perfetto,- devo fare sempre bella figura,- devo dimostrare il mio valore,- devo riuscire a piacere a tutti,- il mondo è un posto pericoloso: devo stare in guardia.

E simili „devo“ interni, inadeguati allo scopo di vivere con una certa tranquillitá di base leproprie esperienze e relazioni, senza sentire il bisogno di essere in una sorta di costanteconcorrenza per ottenere attenzione dagli altri. Chi ha in sé simili convinzioni inoltre sarápoco disponibili ad accettare l’umana imperfezione e potrá contribuire tendenzialmente acreare un clima, ad esempio sul posto di lavoro, stressante.Non si tratta di un ennesimo appello al „comportarsi bene“, o, in nuova terminologia acomportarsi „in modo adeguato“, dato che simili appelli non servono a nulla, se non aprodurre (sul breve periodo) in chi li esprime una sensazione di superioritá. Chi sicomporta in modo socialmente incompetente non ha ancora a disposizione modelli –interpretativi e quindi comportamentali – „piú adeguati“ a raggiungere lo scopo di viveremeglio in relazione a se stesso e agli altri.

Da un punto di vista di allenamento alla autonomia, al vivere le proprie risorse e allacompetenza sociale anche il tradizionale richiamo al „senso del dovere“ è inadeguato: nelsotttolinare il dovere infatti si perde la caratteristica principale dell’essere umano adulto eautonomo, del prendersi consapevolmente le proprie responsabilitá nel fare una scelta enel viverla. Se scelgo volontariamente ogni giorno quello che sento come il mio compito,il „senso del dovere“ diventa allora un senso del mio potere e del mio volere, e saró benpiú motivato a vivere una qualsiasi scelta, se solo me ne rendo conto.Nell’allenare la competenza sociale si lavora, in giochi di ruolo e grazie a modelli, sulleassunzioni implicite dietro ai nostri giudizi e interpretazioni della realtá e dell’altro. Loscopo è vedere i bisogni e le aspettative alla base delle nostre asssunzioni e notare ilcarattere di costruzione personale di ogni giudizio.Ci si allena cosí ad una intersoggettivitá che lascia spazio al bisogno dell’altro, adesempio di conferma della sua identitá, senza per questo sentirci in pericolo. In tal modocontribuiamo nel realizzare sistemi ed ambienti in cui non si viva alcuna ansia o paura.Il primo passo per riuscirci è allenarci a vedere il valore dell’altro e a non fare mai, innessun caso, assunzioni che implichino uno svalutarne le intenzioni, le motivazioni el’identitá. Non è una impostazione semplice, condizionati come siamo da una societáconcorrenziale e sottilmente aggressiva, caratterizzata da malessere e da diffidenzadiffusi.Da questo punto di vista la competenza sociale si avvicina all’approccio sistemico, chenon vede, anch’esso, alcuna utilitá nel concetto di „colpa“: tutti gli implicati in un sistemane tengono insieme i circoli viziosi e virtuosi, reagendo non ai comportamenti gli uni deglialtri ma alle interpretazioni che ne danno. Per dirimere quindi situazioni „disfunzionali“ al

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benessere si lavorerá sulla rosa dei significati a disposizione, a loro volta alla base deicomportamenti.Essere un dirigente, o un insegnante, che riesce a motivare le persone con cui lavora,esprimere il proprio parere e le proprie preferenze senza timidezze, le proprie esigenze easpettative senza ferire gli altri, stare dalla parte dei propri diritti senza sentire il bisognodi scusarci per questo, renderci conto dell’effetto che facciamo agli altri – questi e similicomportamenti „socialmente competenti“ si possono allenare e conttribuiscono allacrescita personale in termini di autonomia.La competenza sociale è ormai riconosciuta a livello istituzionale come una competenzafondamentale, tanto che il Parlamento europeo le ha dedicato una Raccomandazione,trasformando un appello sociale in un auspicio politico, e il concetto stesso in unostrumento per riuscire a vivere valori di base condivisi.Esprimersi in termini di dovere, come nel testo originale fa il Parlamento europeo, mipare tuttavia incoerente con il messaggio di autonomia e responsabilità che si vuoleinviare, ed esprime a mio parere una implicita mancanza di fiducia nei cittadini, o diconsapevolezza nel potere costruttivo del linguaggio. Le persone hanno il potere, sediamo loro fiducia, e possono o possono imparare a impossessarsi di competenze sociali,se in ciò vedono la possibilità di vivere meglio: si impara nel sentire soddisfazione e nelvedere un senso in quel che si fa. E non certo perché una qualche autoritá ci dice che lo„dobbiamo“ fare.Nella citazione che segue, pertanto, ho sostituito le voci del verbo dovere con quelle delverbo potere. I corsivi sono miei.

Raccomandazione del Parlamento europeo sulla competenza sociale (estratto):

„La competenza sociale è collegata al benessere personale e sociale che richiede laconsapevolezza di ciò che gli individui possono fare per conseguire una salute fisica ementale ottimali […] quali risorse per se stessi, per la propria famiglia e per l’ambientesociale immediato di appartenenza e la conoscenza del modo in cui uno stile di vita sanovi può contribuire.Per un’efficace partecipazione sociale e interpersonale è essenziale comprendere i codicidi comportamento e le maniere generalmente accettati in diversi ambienti e società […] Èaltresì importante conoscere i concetti di base riguardanti gli individui, i gruppi, leorganizzazioni del lavoro, la parità e la non discriminazione tra i sessi, la società e lacultura. È essenziale inoltre comprendere le dimensioni multiculturali e socioeconomichedelle società europee e il modo in cui l’identità culturale nazionale interagisce conl’identità europea.La base comune di questa competenza comprende la capacità di comunicare in modocostruttivo in ambienti diversi, di mostrare tolleranza, di esprimere e di comprenderediversi punti di vista, di negoziare con la capacità di creare fiducia e di essere inconsonanza con gli altri.Le persone possono imparare a venire a capo di stress e frustrazioni e a esprimere questiultimi in modo costruttivo […] La competenza si basa sull’attitudine a collaborazione,assertività e integrità.Le persone […] possono, con la competenza sociale, apprezzare la diversità e rispettaregli altri ed essere pronte a superare i pregiudizi e a cercare compromessi.(Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, relativaa competenze chiave per l’apprendimento permanente, in “Gazzetta Ufficiale dell’UnioneEuropea”, p. 8).

Bibliografia minima sul tema:-Judy Dunn, La nascita della competenza sociale, Cortina Raffaello, Milano 1980-Thomas Gordon, Relazioni efficaci. Come costruirle, come non pregiudicarle, LaMeridiana, Molfetta.

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Una besciamella di sofferenzaRagionare intorno alla mente e al comunicare.

Che cosa possono mai aver in comune la besciamella e la sofferenza?Per prima cosa ci chiederemo che cosa intendiamo con queste parole. Il termine stesso„parola“ rimanda a „parabola“: il percorso nel cielo che fa un oggetto, una volta lanciato,forse per raggiungere qualcun’altro. Lo faccio notare per riuscire assieme a usare le„parole“ come se le sentissimo usare per la prima volta, senza alcun rischio di ritenerle„ovvie“. E se pure lancio qualcosa nell’aria, facendo in modo di realizzare cosí unaparabola, una parola, chi ascolta/legge è sempre libero di riconoscerla e raccoglierla, o dilasciarla cadere.Che cosa intendo dunque per „besciamella“? Intendo proprio quella cosa di consistenzacremosa che facciamo in casa in un pentolino, con latte, acqua, burro, farina; sempliciingredienti quotidiani. La possiamo acquistare giá pronta, ma ognuno puó riuscire a farlada sé, senza sforzo. E spalmarla poi sulle cose che sta cucinando.Lo stesso vale per la sofferenza, quella che, senza alcuno sforzo e senza nemmenorendercene conto, riusciamo a creare nella mente da soli, in modo del tutto autonomo.Con il termine sofferenza intendo il „dolore cognitivo“, quello che sentiamo quando lecose si permettono di non andare come noi vorremmo. Non il dolore fisico immediato,dunque: non il mal di denti, ad esempio. Ma la mia contrarietá ad averlo. Il mio sentirmiirritata, infastidita, contrariata, nel sentirlo. La mia avversione e la mia rabbia.Lavorando con gruppi di studenti, di insegnanti e di formatori cerco di sottolineare ladifferenza tra dolore e dolore cognitivo e di esplicare con visualizzazioni schematichecome la nostra mente funzioni, nel creare quest’ultimo.Con il mio schema dello sguardo etnografico, in particolare, cerco di illustrare come lamente ci avvisi con una sensazione/emozione che allora definiamo „negativa“ (perchépreferiamo star bene, per cui assegniamo questa descrizione „negativa“ a una emozioneche non ci piace sentire, come l’avversione) che ció che percepiamo è diverso da come„dovrebbe essere“ per soddisfare le nostre aspettative.La sensazione negativa non è allora che un utile segnale della mente, il risultato del suoscandagliare costantemente ció che ci sta intorno per avvertirci se è il caso di prendercicura di qualcosa, di attivarci nei confronti di quello che allora ci parrá un „problema“.La mente stessa degli esseri umani la posso schematizzare come intrisecamente divisa,come costantemente e contemporaneamente in grado di vedere il mondo cosí-come-è,da una parte, e come „dovrebbe-essere-invece“, dall’altra, nel suo continuo paragonareció che percepisce con modellli alternativi: le immaginazioni prodotte dalla mente stessa.La razionalitá che ci caratterizza implica infatti l’immaginazione, il concetto di„possibilitá“, un concetto „potenziale“, che esiste solo per chi lo immagina.Con i nostri desideri noi esseri umani siamo in costante „resistenza“ al mondo „cosí-come-è“: nella nostra mente ne produciamo una versione alternativa, quella chedesideriamo, appunto, e che preferiamo alla realtá.E se le cose per una volta vanno esattamente come noi ci auguriamo, prima o poi ciabitueremo e la nosra percezione selettiva individuerá nuovi campi in cui produrre„desideri“, nuove preferenze alternative al mondo cosí come è.Questo spiega la nostra inquietudine di esseri umani e la sua necessitá.Siamo l’unica specie attraverso la quale la natura, con la sua evoluzione, si rende conto,vede, osserva, studia se stessa. Facciamo anche noi infatti parte della natura e la nostramente osserva se stessa, riflette, ha preferenze e osserva le proprie preferenze, e si puóchiedere che cosa significhi averne, essere costantemente tesi a nuovi „progetti“. Averpreferenze rispetto alle proprie preferenze.In quanto persone che si occupano di altre persone, è molto importante riuscire adosservare il processo continuo della nostra mente, il nostro saper autonomamenteprodurre „la besciamella di sofferenza“.Se infatti non ci rendiamo conto dell’autoreferenzialitá del processo, ma lo viviamo inautomatico, potremmo tendere a dare la colpa della nostra frustrazione ad altri o allecircostanze e sentire il bisogno di nascondere la nostra frustrazione stessa dietro allarabbia, ad esempio, dicendo „sono arrabbiato perché tu x“....

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Ma cosí facendo contribuiremmo a tenere in piedi i soliti circoli viziosi abituali, in cui lepersone, dal proprio punto di vista, si difendono, ma da quello dell’altro di turno„attaccano“.Ma se le cose giá sono semplicemente diverse da come noi preferiremmo, perchépeggiorare la situazione e soffrirne, produrre sofferenza, avversione, spalmarvi sopra „labesciamella di sofferenza“, autoprodotta dalla mente?Se ci alleniamo ad osservare la mente ne possiamo distinguere i passi, per solitoimmediati:-percepiamo, possiamo descrivere un qualcosa che ha colpito la nostra attenzione, uncomportamento, una frase...-la valutiamo: diamo un significato, una interpretazione, sulla base di nostre convinzionie condizionamenti, e del nostro bisogno di sentirci al sicuro,-ci sentiamo di conseguenza, e la sensazione ci vuole avvisare: „attenzione! La situazioneti permette/o meno di sentirti a tuo agio – la tua stessa mente dice: puoi rilassarti, oinvece „stai all’erta!“In particolare dietro alla sensazione di rabbia spesso vi è un senso di desolazione e diimpotenza, di inadeguatezza, che a causa della convinzione (comune dalle nostre parti)„devi farcela!“ sembra difficile da ammettere e da vivere.Se allora (ad esempio come insegnanti) ci troviamo in una situazione in cui ci sembra dinon riuscire a spiegare un qualcosa che per noi riveste grande importanza, in cui ciidentifichiamo, ci sembra di non „raggiungere“, con le nostre parole-parabole, il nostropiccolo pubblico, puó essere che lo stress si trasformi in modo immediato in rabbia, chenasconde la paura di „non farcela“.In tal caso la nostra mente si concentra nel contrapporsi allo stress e riduce le proprieprestazioni alle due modalitá „minime-salvavita“: scappare o attaccare, che nella nottedei tempi e nel corso dell’evoluzione ci hanno preservato dalla scomparsa fisica. Ma oggisentiamo molto spesso il bisogno di attivarle di fronte a „pericoli“ che non mettono inpericolo la nostra esistenza fisica, ma le nostre opinioni, quelle con cui ci identifichiamo –che „crediamo essere noi stessi“, per cui le difendiamo sentendo il medesimo stress che40.000 anni fa sentivamo di fronte ad una tigre che ci voleva eliminare, mangiandoci.Possiamo evitare che queste reazioni automatiche della mente prendano il sopravvento,impedendo cosí la nostra capacitá di riflettere e di poter scegliere in libertá e concompetenza come comportarci, a mio parere solo se ci abituiamo ad osservare i passidella mente, ad esempio con l’aiuto del mio schema dello sguardo etnografico.Lo chiamo cosí perché è lo sguardo, che noi possiamo rivolgere verso l’attivitá dellamente stessa, tipico dell’antropologo e dell’etnografo, uno sguardo privo di ognipreferenza verso ció che osserva, e quindi libero da valutazioni e da pregiudizi, chevuole davvero solo capire cosa sta avvenendo, e sulla base di quali convinzioni ecredenze.Il primo antropologo a studiare una popolazione „esotica“ (gli abitanti di Bali) osservandonon solo i loro usi e costumi, ma il „dover-essere“ della loro cultura fu Gregory Bateson,e dalle sue ricerche nacque la scuola di Palo Alto, in cui con Paul Watzlawick quarant’annifa si sviluppó l’approccio sistemico sia ermeneutico che applicato alla terapia, ripreso ereso noto poi nelle scienze sociali, fra gli altri, da Niklas Luhmann.Nell’approccio sistemico non ha senso parlare di colpa né accusare, visto che ognuno vivein funzione di propri bisogni e significati e cerca, dal proprio punto di vista, di stare ilmeglio possibile, contribuendo cosí a sistemi interconnessi di esseri umani in cui gli esitidelle azioni ben raramente hanno a che fare con le motivazioni, le (buone) intenzioni e gliintenti dei singoli.A noi qui interessano le conseguenze pratiche di questi studi, applicandole alle diverseculture, ai diversi „mondi“ che costituiscono le coscienze delle singole persone: se infattile circostanze si permettono di essere diverse da come noi preferiremmo, possiamoallenarci ad osservarle e ad osservare il lavorio della nostra mente, senza „doverci“automaticamente „arrabbiare“, senza cadere nella avversione, nel dolore cognitivo, senzacrearci, fatta in casa, la besciamella della sofferenza.Io stessa ne fornisco a volte un tipico esempio: quando cerco, assieme ad un gruppo, difare esercizi per allenarci ad usare il modello del „quadrato della comunicazione“, accadead esempio che un partecipante semplicemente interrompa la ricerca comune di frasi da

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„mettere nel quadrato“, dilungandosi in „non sono d’accordo“, nella necessitá di regolecerte e in altre valutazioni che mi impediscono di lavorare.La mia mente interpreta allora l’intervento come una svalutazione di ció che tento dicomunicare, un sistema di comunicazione consapevole in cui credo e in cui mi identifico,per cui, prontamente, mi sento personalmente attaccata e posso reagire con irritazione.La mia mente, mettendosi sulla difensiva, non puó allora nemmeno immaginare dichiedersi di quali bisogni e di quale disagio possano essere espressione quelle parole.Eppure conosco la „regola“: „il disagio ha la precedenza!“ che significa che nel caso sinoti disagio, in un gruppo, prima di poter andare avanti è sempre necessario occuparsi diquesto, o non vi sará spazio per la comprensione comune di quanto si vuole comunicare.Ma una mente umana che sente il bisogno di difendersi dimentica ogni altra „regola“: ilche spiega razionalmente come queste, nel momento del bisogno, non bastino!Una simile esperienza ci serve poi „in diretta“ per analizzare e comprendere meglio ipassi della mente, utilizzandola appunto come esperienza fatta assieme, vera, collettiva eanalizzabile con lo sguardo etnografico.Grazie ad esso posso accorgermi della mia basilare scelta possibile di essere umano, diessere in grado, se solo me ne rendo conto, di non prendere cosí sul serio il mio bisognodi difendere le mie „convinzioni“, di lasciar correre, di ridere di me stessa, e conbenevolenza e tenerezza.A volte per evitare lo scatto dell’automatismo salvavita-ancestrale della rabbia cibasterebbe ricordare che nella interazione con gli altri rivestiamo un semplice ruolo, eche quindi è del tutto „fuori luogo“ sentirsi „personalmente“ attaccati – dato che gli altrila nostra persona non la conoscono, ma reagiscono all’immagine di noi che essi stessi sifanno, dando interpretazioni e significati ai nostri comportamenti.Non puó essere diversamente, dato che la nostra mente qualifica ogni esperienzaassegnando significati e valutazioni, e anche ogni altra persona è per ognuno di noi fontedi una esperienza, che la nostra mente stessa qualificherá: ad osservare bene il processoci rendiamo conto della nostra autoreferenzialitá nel creare la qualitá che ha il nostromondo, compresi i nostri cari. Ognuno vive in una sua isola cognitiva, che haesattamente la qualitá che ognuno assegna al proprio vissuto, narrandolo usando alcunitermini, o altri.Se inoltre ci rendiamo conto che gli altri, come noi, vivono e agiscono in funzione deipropri bisogni – e non ai nostri – questo non ci offenderá piú, al massimo ci stupiremonel notare quanto spesso le diverse realtá non coincidono affatto.Tenere presente l’esistenza delle realtá „di secondo ordine“ (Paul Watzlawick: quella „diprimo ordine“ è quella misurabile con unitá di misura condivise e convenzionali, basatecioé su convenzioni) degli altri serve a renderci conto che questi spesso non mettonoalcuna malizia nel vedere le cose a modo loro e non a modo nostro, e a sentirsiattaccati quando noi, semplicemente, crediamo di „difenderci“. E ci difendiamo dai loropresunti (da noi) attacchi, che loro invece mettono in atto per difendere una idea di sé ouna opnione con cui si identificano e che serve a loro per sentirsi sicuri, nel loro bisognodi vedere un significato condivisibile nelle cose e nel mondo.Cercare quindi di condividere un approccio costruttivista come il mio implica grandeprudenza e non puó essere che un invito, che ha un valore solo se serve ad abbassare lanostra reattivitá di esseri umani.In quanto formatori o insegnanti noi siamo spesso „Team-Leader“ di gruppi che sono connoi per imparare, cioé per allenare modi di vedere le cose che aprono nuove possibilitá,nuovi comportamenti, nuove scelte.Il difetto della normativitá è restingerle e risultare potenzialmente in conflitto con altrenormativitá.E si tratterá per solito di conflitti duri e tenaci, dato che provengono dal bisogno disentirci al sicuro e di avere reagione, quindi, a vedere il mondo esattamente cosí come lovediamo, con le nostre norme e regole.Se ci alleniamo a vedere tutto ció e come la nostra mente si affezioni alle proprieconvinzioni credo ci sia possibile liberarci dagli automatismi e vedere i nostri filtri fatti dibisogni, e intuire quelli degli altri.Ma resta un invito, non puó diventare una regola, se non vuole rischiare di produrrenuovi motivi di scontro, pur alla ricerca di modalitá per comprenderci, gli uni con gli altri.

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E mi posso allora accorgere in tempo della besciamella di sofferenza che la mia mente stagiá per preparare, in quei casi, quando non riesco a condividere queste mie modalitá congli altri, e prendermi cura di lei, con affetto e benevolenza. E rinunciare a „difendermi“,cercando di convincere gli altri ad usare i miei (amati!) schemi.

Paura ed altre emozioni

La paura è la reazione ancestrale che serve a rendere sensibile l'uomo ai pericoli.Imparando a gestirla, la specie si è evoluta fino a oggi.

C'era una volta, milioni di anni fa, un animale indifeso. Non correva veloce come unatigre. Non aveva la forza dell'orso. Per sopravvivere, doveva affidarsi alle sua paura. Piùera timoroso, più possibilità aveva di sopravvivere abbastanza da riprodursi e prendersicura dei figli. La storia dell'uomo è modellata dalla paura e dalla gestione di quel cheNON vogliamo. Paura del freddo, della siccità, della fame, delle pestilenze, della povertàe della morte. E oggi dell'inquinamento, delle armi chimiche, del terrorismo. Ma cos'è lapaura? "Un sistema per prevedere ed evitare il dolore e la morte", dice Rush W. Dozier,giornalista scientifico di cui Baldini & Castoldi ha recentemente pubblicato I perché dellapaura. Nell'uomo quest'antica emozione segue tre percorsi. Il primo è un circuitoprimitivo che ci accomuna agli altri animali e agisce fuori dal controllo razionale ecosciente. Il suo ruolo è fornire un'immediata e istintiva impressione di ciò che staaccadendo. Questo straordinario sistema di allarme - che entra in azione un decimo disecondo dopo la percezione iniziale dell'ambiente, avvertendoci di un pericolo incombente- si trova nell'amigdala (dal greco "mandorla", per la sua caratteristica forma), situata inprofondità nel cervello. Mentre leggete questo articolo, l'amigdala sta ispezionando imargini esterni del campo visivo per cogliere eventuali rischi. Michael Davis, psichiatradella Yale University, ha riferito di ratti privati dell'amigdala che hanno perso il timore deigatti. Uno studio di Antonio Damasio, dell'Università dello Iowa, ha evidenziato come unadonna che aveva un danno all'amigdala potesse identificare tutte le emozioni sul voltoaltrui, a eccezione della paura. Un secondo circuito, quello razionale, ha sede nellacorteccia prefrontale, appena sopra gli occhi e dietro la fronte. Con un distacco di unafrazione di secondo, analizza le informazioni ricevute dal circuito primitivo, suggerendo idiversi modi per affrontarle. Infine vi è una sorta di decisore supremo, il riflettereconscio, che media i conflitti tra i due circuiti decidendo qual'è la reazione adatta. Dozierfa un esempio eloquente: su un sentiero in mezzo al bosco, intuiamo una sagomasinuosa. Il circuito primitivo della paura dà l'allarme: "Serpente!", e noi indietreggiamoprima ancora di capire che cosa stia succedendo. Il sistema nervoso autonomo, cheregola automaticamente muscoli e nervi, si prepara alla reazione: le ghiandole surrenalicominciano a produrre adrenalina, il sangue viene dirottato verso i muscoli (per cui lapelle impallidisce), il cuore pompa più in fretta, l'apparato digerente smette di funzionare(ce ne accorgiamo dallo stomaco contratto) per non rubare energie, le sensazioni siacuiscono, stimolate da un'ondata di sostanze che affluiscono al cervello. Persino gli occhisi spalancano e le pupille si dilatano per carpire maggiori informazioni dall'ambiente. Labocca si apre per essere pronta, se serve, a gridare (per avvertire altri del pericolo).Tutto è pronto per la lotta o la fuga. Intanto interviene il circuito razionale, che analizzala stessa immagine e frena la reazione: siamo certi che si tratti di un serpente velenoso?A questo punto entra in gioco il circuito cosciente, che decide il da farsi: guardare con piùattenzione. Nel frattempo, però, l'organismo è ancora percorso dalle scariche diadrenalina. Del resto, meglio fornire una risposta esagerata a una situazione innocua cherischiare indifferenza di fronte a un vero pericolo: la natura è generosa. Di fronte a unrischio, dunque, la decisione è tra fuga e lotta. Nel primo caso sembra che predomini unasecrezione di adrenalina, mentre nel secondo aumenta la noradrenalina. Le ghiandolesurrenali di specie aggressive, come i leoni, producono soprattutto noradrenalina, mentrenei conigli è l'adrenalina a prevalere. Lo stesso vale per l'uomo, e per gli altri primati chebasano la sopravvivenza sul cooperare. È infatti la nostra estrema vulnerabilità ad avercireso animali sociali. La paura ha una funzione di adattamento al gruppo perché,attraverso la comunicazione di segnali d'allarme, facilita il contatto con i propri simili.D'altra parte, le società primitive erano ristrette a tribù o piccoli clan: il che spegherebbe

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la paura degli estranei, dei diversi. Gli scimpanzé studiati da Jane Goodall aggrediscono icompagni poliomielitici che si muovono con difficoltà, al contrario di loro. I bambinischerniscono impietosamente gli amichetti che hanno "qualcosa di strano". Secondol'etologo viennese Irenaus Eibl-Eibesfeldt, autore di L'uomo a rischio (edito da BollatiBoringhieri), l'outsider viene rifiutato perché la sopravvivenza della comunità dipendedall'adeguamento alle medesime norme. Norme generate ancora una volta da una paura,quella del disordine sociale. La maggior parte dei timori sono innati. Si tratta di rispostenate nella preistoria dell'umanità, per salvarci dai predatori. Un rumore improvviso,un'ombra che si avvicina, la mancanza di protezione (pensiamo alla tendenza ad avere lespalle protette quando ci sediamo al ristorante) fanno scattare un'immediata reazione."Tra le paure innate c'è quella del buio, che appare verso il secondo anno di vita, con lamaturazione del sistema nervoso", dice Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dellosviluppo all'Università La Sapienza di Roma e autrice, per Bollati Boringhieri, di Psicologiadella paura. Al buio non ci si orienta, si è facilmente vittime, i segnali di allarmediventano ambigui. Anche la paura dei ragni, dei serpenti, o delle altezze e degli spazi,chiusi o aperti, sembrano essere innate. Ma la paura più grande è quella della morte. Persuperarla mettiamo in atto le strategie più disparate. La passione per libri e filmdell'orrore ci permette di esorcizzarla, immedesimandoci nell'azione e confrontandoci conl'avvenimento in uno scenario protetto. Lo stesso discorso vale per certe attrazioni dabrivido nei luna-park, o per il bungee jumping. Tutte le volte che ci fermiamo a guardareun incidente stradale vogliamo sperimentare la paura della morte a distanza. Oltre allapaura che mette in fuga o dà forze inaudite per la lotta, c'è quella che immobilizza. Anchequesta può rivelarsi utile. Lo sa bene il serpente dal naso porcino, abilissimo nel fingersimorto quando è minacciato: si affloscia con la bocca aperta e la lingua che penzola fuori.Ghiandole speciali vicino alle fauci secernono sangue: l'effetto scenico è perfetto. Lostesso fanno uccelli come il piviere quando una volpe riesce ad afferrarli. E spesso accadeche, per cacciare altre vittime, il predatore lasci quella che crede di avere ucciso. Così, ilfinto morto può svignarsela.A volte la paura suscita uno stato di allarme eccessivo, cronico, che sfocia nell'ansia,nelle ossessioni fobiche, nel panico.Che ansia e paura siano strettamente imparentate è evidenziato dai sintomi con cui simanifestano, più o meno gli stessi. "Ma l'ansia è legata a circostanze che normalmentenon valuteremmo come pericolose, impedisce reazioni utili e ostacola il viverequotidiano", spiega Oliverio Ferraris. "Insorge in situazioni in cui è ingiustificata edannosa". Se la paura ci stimola e salva dal pericolo, l'ansia ci blocca e inibisce. Un'altradistorsione della paura è la strumentalizzazione dei timori collettivi da parte del potere,politico o religioso. Per contenere il terrore della morte abbiamo ideato un sistema dicredenze che ci dà l'impressione di un maggiore controllo sul destino. La stessa religione,però, oltre ad alleviare la paura può alimentarla: il timore della dannazione piegaall'ubbidienza. E la paura plasma la storia. I grandi tiranni sapevano bene comesuscitarla, per ottenere sottomissione. "Le tendenze gregarie attivate dalla paura cirendono infantili, cioè bisognosi di cure, ci tolgono autonomia, mettendo cosí in pericolola democrazia", sostiene Eibl-Eibesfeldt.Tutti gli animali hanno paura, ma solo l'uomo è capace di superarla. "È vincendo le nostrepaure che siamo diventati padroni del mondo", afferma Dozier. Se c'è davvero una cosache ci distingue dagli altri animali, è aver superato il timore del fuoco. Gli uomini primitivicon un circuito razionale abbastanza forte da eliminare il terrore di questo elemento nehanno scoperto gli enormi vantaggi: hanno mangiato meglio, allontanato più facilmente ipredatori, trasmesso la conoscenza alla prole. Ma se la capacità di dominare la natura hasconfitto timori ancestrali, ne ha anche creati di nuovi, altrettanto pericolosi. Abbiamobarattato le antiche paure con i potenziali pericoli generati da automobili, aerei, arminucleari. Basta seguire un telegiornale per avere un elenco delle paure moderne: venireuccisi da una pallottola, non avere più una casa, essere investiti da un'auto o scippati,perdere il lavoro, essere avvelenati da cibo contaminato o transgenico, avere figlitossicodipendenti, essere colpiti da un sasso dal ponte di un'autostrada, ma anche ansieesistenziali rispettto agli affetti.

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E’ indubbio che le architetture e gli spazi urbani entrano in risonanza con le persone econtribuiscono a produrrre stati emozionali: quali saranno adatti a far aumentare, odiminuire, l’ansia e la paura?

La sofferenza

Non prendete in giro chi soffre per amore; se vi dice che sta male «fisicamente»,credetegli. Perché amore, nel cervello, fa rima con dolore: le aree cerebrali che siattivano se non veniamo corrisposti sono le stesse accese quando proviamo un dolorefisico. Lo dimostra una ricerca, pubblicata sui Proceedings of the National Academy ofSciences, condotta dalla psicologa californiana Naomi Eisenberger su 122 volontari.Le pene d'amore in realtà sono state ricreate in laboratorio, con un gioco in cui ilpartecipante veniva di volta in volta escluso da altri: una simulazione di rifiuto sociale.Quando la persona era respinta, la risonanza magnetica funzionale mostrava l'accensionedella corteccia cingolata anteriore e dell'insula anteriore sinistra, le aree dove risiede lacomponente affettiva del dolore fisico, che si attivano quando ci facciamo male oabbiamo un fastidio costante. «I pazienti con una lesione in queste aree sentonofisicamente il dolore, ma lo vivono in modo distaccato» chiarisce la Eisenberger.Commenta Donatella Marazziti, del Dipartimento di Psichiatria dell'Università di Pisa, cheda anni studia la biologia dell'amore: «Non mi meraviglia che la base biologica per ildolore fisico e psicologico sia la stessa. Non usiamo infiniti sistemi per le nostre funzioni;per situazioni simili adattiamo» e attiviamo un unico circuito. Del resto il valore profondodel dolore, reale o psicologico, è uno: ci segnala che dobbiamo evitare qualcosa che puònuocerci». Che sia acqua bollente o una relazione sbagliata, insomma, poco importa alcervello: i segnali che invia sono identici. Tanto che si attivano gli stessi recettoricerebrali, quelli per gli oppioidi, in pratica gli interruttori su cui agiscono morfina e simili,che non a caso tolgono il dolore fisico, ma anche lo stress emotivo che lo accompagna.I dati raccolti dalla Eisenberger dimostrerebbero che c'è chi è geneticamente predispostoa soffrire di più. Studiando i suoi volontari si è accorta che una variante del gene per unrecettore degli oppioidi si associava invariabilmente a una tendenza a patire di più ilrifiuto sociale: le aree cerebrali attivate si allargavano, la persona in questione si sentivaproprio a terra. Plausibile, secondo Marazziti. A questo punto, la tentazione di curare lepene d'amore con gli antidolorifici, soprattutto se siamo «anime geneticamente sensibili»,è grande. «Sarebbe mostruoso: star male per amore serve per imparare a scegliere lapersona giusta — dice la psichiatra —. Solo se la sofferenza diventa depressione èdoveroso intervenire. L'amore non deve essere manipolato». I modi per farlo, in teoria, cisarebbero: oltre agli oppioidi, infatti, l'amore modifica i livelli di serotonina, di peptidicome ossitocina e vasopressina, delle neurotrofine che «nutrono» il nostro cervello. Tuttisistemi per cui abbiamo già, o sono allo studio, vari farmaci. Ma le medicine cheinfluenzano l'amore non sono esenti da rischi. «Basta pensare — osserva Marazziti — ache cosa succede quando curiamo i depressi, con farmaci che agiscono anche sui sistemicoinvolti nella biologia dell'amore: alcuni, guariti, tornano a innamorarsi; altri nonrecuperano le capacità affettive». Come dire, meno ci si mettono le mani meglio è,perché è difficile prevedere dove si va a parare. «Quando amiamo, si attivano tutte learee cerebrali "sociali", cioè l'80% del cervello. Intervenire dall'esterno su un'emozionecosì complessa rischia di provocare effetti imprevedibili» conclude la psichiatra.

©Ludovica Scarpa

www.ludovicascarpa.it