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Uomini e lavoro alla Olivetti A cura di Francesco Novara Renato Rozzi, Roberta Garruccio Con una postfazione di Giulio Sapelli Bruno Mondadori

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Uomini e lavoro alla Olivetti

A cura di Francesco NovaraRenato Rozzi, Roberta Garruccio

Con una postfazione di Giulio Sapelli

Bruno Mondadori

La ricerca che ha portato all’edizionedi questo volume è stata realizzatagrazie al coordinamento scientificodel Centro per la Cultura d’Impresae grazie a un finanziamentodella Fondazione Adriano Olivetti.

© 2005, Paravia Bruno Mondadori Editori

È vietata la riproduzione, anche parziale o ad usointerno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata.Le riproduzioni a uso differente da quello personalepotranno avvenire, per un numero di pagine non superioreal 15% del presente volume, solo a seguito di una specificaautorizzazione rilasciata da aidro, via delle Erbe 2,20121 Milano; posta elettronica: segreteria @aidro.org

Progetto grafico: Massa & Marti, Milano.Realizzazione editoriale: Sandra Holt (ForPublishers).La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro.La foto di copertina è stata gentilmente concessa dall’Archivio Storico Olivetti.

www.brunomondadori.com

Indice

9 Prefazionedi Roberta Garruccio

19 Una guida ai temi e agli argomenti del volumedi Francesco Novara e Renato Rozzi

63 Nota al testo

65 Profili biografici dei testimoni

Testimonianze

71 1. Le relazioni aziendali73 1.1 Alberto Gobbi

103 1.2 Giannorio Neri125 1.3 Sandro Sartor

147 2. Le relazioni sindacali149 2.1 Giovanni Avonto165 2.2 Umberto Chapperon183 2.3 Cleto Cossavella209 2.4 Fiorenzo Grijuela

225 3. La produzione227 3.1 Dionisio Albertin239 3.2 Alberto Berghino265 3.3 Pier Carlo Bottino287 3.4 Giuliano Bracco307 3.5 Gianfranco Ferlito329 3.6 Umberto Gribaudo345 3.7 Massimo Levi

357 3.8 Ettore Morezzi381 3.9 Luigi Pescarmona395 3.10 Giovanni Truant

419 4. La Ricerca & Sviluppo421 4.1 Gastone Garziera455 4.2 Alessandro Graciotti

477 5. I servizi commerciali479 5.1 Nicola Colangelo499 5.2 Giovanni Maggio525 5.3 Mario Torta

551 6. L’Alta Direzione553 6.1 Ottorino Beltrami

579 7. I servizi culturali e sociali581 7.1 Adriano Bellotto591 7.2 Cornelia Lombardo

607 Postfazione. Lo “scandalo” della memoria olivettianadi Giulio Sapelli

615 Cronologia

Questo libro è dedicato a tutti coloroche hanno lavorato insieme nell’impresa di Adriano

Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indicedei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante,

una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?

Adriano Olivetti, Ai lavoratori di Pozzuoli,inaugurazione dello stabilimento, 23 aprile 1955.

E voglio anche ricordare come in questa fabbrica, in questi anni, nonabbiamo mai chiesto a nessuno a quale fede religiosa credesse, in quale partitomilitasse o ancora da quale regione d’Italia egli e la sua famiglia provenissero.

Adriano Olivetti, Ai lavoratori di Ivrea,per i sei anni di vita della fabbrica, 24 dicembre 1955.

Eh […] mi dicono che lei va a vedere le fabbriche.Ma non va mica bene, sa, perché poi ci si affeziona…

Enrico Cuccia, citato in Edmondo Berselli,Quel gran pezzo dell’Emilia, Mondadori, Milano 2004.

La réussite ne se joue pas sur les grandes stratégies, les financiements.Elle se joue sur les personnes. C’est seulement en s’identifiant à

ses collaborateurs, en voyant en eux les véritables acteurs, les artisansde son destin, que l’entreprise peut assurer son succès.

Pasquale Pistorio, citato in rh, les meilleurs entreprises du cac 40,Editions d’Organisation, Paris 2004.

The Day After

Vasti spazi deserti, negli stabilimenti e nei palazzi. La celebre parete di vetro diuna fabbrica è coperta da ponteggi: si staccano pezzi. Sigillato l’esagono dellamensa, sgombro il Centro Studi. Polvere, chiazze, ruggine. Tombe vuote di unlavoro scomparso (delle quali la celebrata bellezza impedice la demolizione). Persalvare quella vita di lavoro dall’oblio, persone che hanno avuto il privilegio dicondividerla, in una varietà di ruoli aziendali, hanno inteso evocarla sulla tracciadelle loro traiettorie lavorative. Si sono affidati a mani capaci di disegnare l’ordi-to delle domande entro cui calare la trama delle loro risposte. Saranno i limiti diquesto microcosmo di testimonianze. Ne mancano alcune, impedite della mortedella persona (come di Pier Giorgio Perotto, entusiasta di questo impegno collet-tivo) e diviene evidente che questo compito non era dilazionabile. Il successo del-l’impresa di Camillo e Adriano (e Roberto, cui si deve il perseverare nella con-versione all’elettronica) e la sua decadenza sono sincroni con lo sviluppo e il di-leguamento dell’Italia industriale (ossia della grande impresa, della sua prospet-tiva strategica e della sua capacità d’innovazione in settori di tecnologia avanza-ta). Agli imprenditori costruttori di futuro sono andati subentrando cacciatori divalori azionari, speculatori del mercato borsistico, arraffatori di monopoli, arte-fici di partecipazioni incrociate e di piramidi societarie. A un mondo del lavoroumiliato in una società lacerata e disorientata, succube delle vicende aleatorie diun’economia finanziarizzata, si rivolge il coro di queste testimonianze. Esse ricor-dano il valore permanente delle ragioni di quel successo d’impresa: la responsa-bilità e capacità di costante innovazione e anticipazione, realistica e audace, ra-zionale e immaginativa, votata all’eccellenza dei prodotti, alla qualità della vitalavorativa, all’elevazione della vita sociale.

Francesco Novara Torino, ottobre 2005

Prefazionedi Roberta Garruccio

Questo libro è nato da una sollecitazione di Francesco Novara e di Rena-to Rozzi, una sollecitazione rivolta a Giulio Sapelli e al Centro per la Cul-tura d’Impresa. Io, che da tempo collaboro con il Centro sui progetti re-lativi alla costruzione e archiviazione di fonti orali e che da subito sonostata coinvolta nel progetto, vi ho partecipato prima realizzando le diver-se interviste che ora lo costituiscono e poi trasformandole in testi scritti. L’ossatura del volume è costituita dalla narrazione a più voci della para-bola che descrive le vicende e i protagonisti di una grande impresa mul-tinazionale italiana, l’Olivetti, nelle sue trasformazioni di prodotti, dimercati, di strategie e strutture, ma anche negli avvicendamenti di pro-prietà e controllo, stile di direzione e di relazioni industriali, di cultureaziendali. Olivetti infatti è un’impresa che nel corso del Novecento s’in-serisce in diversi mercati internazionali e muta molte pelli: dalla mecca-nica di precisione (che l’aveva connotata sin dalla sua origine, nel 1908)all’elettromeccanica, tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, dall’elettro-nica all’informatica, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, dalla tecnolo-gia dell’informazione a quella delle telecomunicazioni, tra gli anni ottan-ta e gli anni novanta; un passaggio, quest’ultimo, che ne segna la fine.

Si tratta di una parabola lunga se consideriamo che un terzo delle im-prese elencate da “Fortune 500” nel 1970, dieci anni dopo non esisteva-no più. Olivetti, invece, non solo sopravvive ma sopravvive nel settoredelle macchine per ufficio in un torno di tempo che vede radicalmentestravolgersi le proprie coordinate quanto a stabilità dei mercati e conti-nuità tecnologiche.

A freddo, quella dell’Olivetti potrebbe anche apparire un’evoluzionenon sorprendente se, appoggiandoci ai calcoli di Leslie Hannah, consi-derassimo che «the average half-life of big companies—the time takento die by half of the firms in the world’s top 100 for market capitalizationin any five years—was 75 years during the 20th century». 1

Eppure, il drammatico declino e infine la dissoluzione di fatto dell’Oli-vetti industriale (di cui nel 2005 resta poco più che un ologramma: unmarchio) ha sollevato e solleva, in molti di coloro che hanno collettiva-

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mente contribuito alla sua più grande stagione, e non solo in loro, una le-gittima reazione di sdegno. Quell’esito rivela un senso di oltraggio per ilsuo carattere non necessario, o meglio: non necessario dal punto di vistadegli assets interni e della capacità di mobilitarli, ma che dopo la mortedi Adriano Olivetti, nel 1960, sconta la mancata soluzione della “questio-ne proprietaria” a livello dell’intero sistema capitalistico italiano.2 E ri-vela al contempo una profonda privazione di senso, la percezione di unamenomazione nel proprio destino personale oltre che nel destino mani-fatturiero del Paese.

Nessuna impresa italiana, e nessuna istituzione comparabile, ha mobi-litato la memoria dei suoi protagonisti tanto quanto ha fatto l’Olivetti. Sisofferma approfonditamente su questo fenomeno la postfazione di Giu-lio Sapelli, a cui mi ricollego, ma qui vorrei semplicemente sottolinearela mole della produzione editoriale di memorialistica olivettiana, più omeno autobiografica, che si è registrata anche solo negli ultimi dieci an-ni (e che si è ulteriormente addensata in tempi più recenti, soprattuttoattorno al centenario della nascita di Adriano Olivetti). Memorie plura-li, talvolta anche memorie in conflitto. 3

Questo nostro volume ha voluto tentare un’operazione diversa, non ca-suale e organica: una raccolta sistematica di testimonianze che costitui-scono assai più un’etnografia che una storia dell’impresa. Tale raccoltanon è casuale, nel senso che le persone intervistate costituiscono una“comunità di sentimento”,4 una comunità che si percepisce trasformatada forze esterne e che produce, innestando questo su una precisa forma-zione identitaria collettiva, una narrazione fluida, coerente e dotata di si-gnificato sociale, politico e affettivo. A parlare sono persone che sponta-neamente condividono sguardi e giudizi sul passato che raccontano. In-fatti, in molti casi, le loro diasporiche biografie olivettiane sono collega-te e in qualche modo interdipendenti, come il lettore si accorgerà facil-mente dai molti reciproci richiami delle diverse interviste. Organica que-sta collezione lo è nel senso che nel progettarla abbiamo inteso rappre-sentare percorsi differenziati (e quindi punti di vista altrettanto diversi-ficati), sia anagraficamente sia per professionalità, sia per ruoli e posizio-ni ricoperte nella gerarchia aziendale, nella maggiore ampiezza di venta-glio che è stato possibile raggiungere. 5

Nel raccogliere queste narrazioni, a me è spettata la parte di una con-trofigura omerica: quella dell’aedo cieco che consente di far conoscere levicende della guerra di Troia presso la corte dei Feaci, mentre Ulisse, chene è stato protagonista, è presente in incognito e le riascolta, così comegli olivettiani le rileggeranno.6 L’aedo è cieco perché non è presente sul-la scena sulla quale l’azione accade, e può vedere, con i suoi occhi ciechi,solo la storia che risulta dalla memoria, una memoria che procede anchedimenticando, selezionando, rielaborando e censurando, ma che non è

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Uomini e lavoro all’Olivetti

mai invenzione. Personalmente, considero l’intensa soggettività e la lun-ga spanna di tempo che molte volte contrassegna la distanza tra gli even-ti descritti e il momento della narrazione come i punti di forza e di uni-cità di questo libro. 7 Le interviste, infatti, hanno sollecitato soprattuttol’elemento autobiografico e hanno preso la forma di “storie di vita”.

Come recita il titolo che abbiamo scelto, qui si parla di uomini (e spiaceche si debba intendere l’espressione in senso letterale: siamo infatti riu-sciti a raggiungere e a interpellare una sola signora) e si parla di lavoro: siparla più precisamente del senso che questi uomini hanno potuto trova-re nel lavoro e nella disciplina del lavoro industriale. Una disciplina rigo-rosa, che in Olivetti veniva appoggiata alla responsabilità individuale ealla cooperazione dei soggetti. Un lavoro degno della persona, come erastato pensato e realizzato nelle condizioni volute dal fondatore Camillo eportate all’eccellenza da suo figlio Adriano.

Per questo abbiamo voluto concentrare il focus delle interviste sullapolitica del personale che ha caratterizzato la grande stagione (e la gran-de eccezione) dell’Olivetti, e i cui pilastri sono richiamati dall’articolataintroduzione tematica di Francesco Novara e Renato Rozzi: una politicadel “personale” che puntava alla gestione e allo sviluppo delle personepiù che a preoccuparsi delle tecnicalità e degli specialismi della funzioneoggi chiamata “risorse umane”.

Sempre per questo abbiamo chiesto a ciascuno degli intervistati di of-frire la propria periodizzazione della storia Olivetti. È una storia epica,che viene continuamente e spontaneamente raccontata e ri-raccontata daciascuno degli intervistati. 8 Ma se c’è una tesi forte che emerge trasver-salmente al libro, questa sostiene che la decadenza di questa visione delpersonale appare più come causa che come conseguenza del declino del-l’impresa d’Ivrea. Quello che troviamo acutamente descritto è quando ecome la direzione del Personale (la direzione delle Relazioni Aziendali,come si chiamavano in Olivetti quando alla sua testa c’erano personaggicome Paolo Volponi) sia stata prima progressivamente allontanata, e al-la fine definitivamente divaricata, dal management strategico dell’azien-da, due “province” che invece Adriano Olivetti aveva immaginato e ge-stito come indivisibili, coerenti, allineate ai prodotti e ai mercati.

A essere descritti con particolare efficacia dalle voci di questo volumesono un processo sussultorio e l’apertura di una faglia: una faglia che ca-ratterizza oggi molte realtà organizzative. Non è raro, infatti, che la fun-zione dei professionisti delle risorse umane finisca con l’essere percepita,in una caricatura non troppo lontana dalla realtà, in modo da essere as-similata alla funzione che ha il compito di sorvegliare acquisizione, stan-dard e uniformità delle dotazioni interne di tecnologia dell’informazio-ne: «The it folks bear responsibility for inventoring purchases of new

Prefazione

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hardware and software, delivering and installing new equipment (anddecommissioning equipment once it outlives its uselfulness), answeringspecialized questions and providing forms of internal consulting, main-taining relations with hardware and software vendors, and assessingbusiness units to ensure that employees receive the ongoing training theyneed to utilize the technology. To a large extent the traditional hr roleconsists of doing comparable activities with respect to employees: pro-mulgating hr standards that are uniform throughout the company; “in-stalling” new employees (ensuring that they have been given the neces-sary orientation and training); helping to “de-install” employees whenthey leave, voluntay or otherwise; mantaining an inventory of employeesand their skills; providing specialized assistance and internal consulting(including helping to solve the hr equivalent of “bugs” and “crushes”);maintaining relations with sources of labour supply; and providing vari-ous form of training». 9 E tutto questo quando la funzione del persona-le dovrebbe e potrebbe fare al contempo molto meno e molto di più: of-frendo una guida strategica alla direzione d’impresa, ponendosi al fiancodel line management, garantendo profondità, spessore di visione e condi-zioni di riproducibilità nel tempo alle organizational capabilities.

Ma credo ci sia una cornice più ampia in cui possiamo collocare questolibro. Credo che i suoi apporti di maggiore originalità riguardino il perio-do della storia Olivetti che è meno conosciuto e indagato, quello che vadagli anni settanta agli anni novanta, 10 quello che segue l’esaurimentodell’isteresi adrianea e l’arrivo di Carlo De Benedetti alla proprietà e alcontrollo dell’azienda fino alla sua cessione a Roberto Colaninno. Un ar-co temporale che non dispone al momento di altre fonti primarie apertealla ricerca, mentre trova nelle fonti orali qui raccolte uno speciale archi-vio di evidenza. Un arco temporale che registra, tra gli altri, un duplicepassaggio.

Si tratta del passaggio di questa particolare impresa dalla forma fun-zionale e unitaria, caratterizzata da un’elevata integrazione verticale e daun’ampia stratificazione gerarchica, alla forma divisionale, con la riorga-nizzazione in consociate delle attività non ritenute strategiche, con sceltedi crescita esterna e di make or buy di volta in volta diverse a livello in-ternazionale e con un’ampia politica di accordi e acquisizioni. 11 Questocoincide a sua volta con il definitivo venir meno di quel monopolio tec-nologico che aveva a lungo garantito all’azienda di amministrare prezziche soddisfacevano capitale e lavoro: 12 le inedite caratteristiche struttu-rali con cui l’Olivetti si confronta, tra gli anni settanta e ottanta, vedonol’accelerazione dei processi innovativi nella microelettronica e la forma-zione di nuove fasce di domanda, e impongono una ristrutturazione fi-nanziaria. 13

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Uomini e lavoro all’Olivetti

Ma si tratta anche del passaggio globale del capitalismo dalla formatecnocratica alla forma proprietaria. 14 Possiamo seguire tale passaggionelle pagine di questo volume. Gli intervistati appartengono a generazio-ni diverse (entrate in azienda tra l’inizio degli anni cinquanta e la fine de-gli anni sessanta), ma condividono l’esperienza di una stagione aziendaleunitaria: dirigenti e capi vantano con orgoglio l’eccellenza tecnocraticapropria dei rispettivi ruoli, consapevoli di avervi portato la propria par-ticolare conoscenza e la propria particolare abilità, ma nella piena socia-lizzazione di quella e di questa con i collaboratori. 15

Fino agli anni settanta, l’Olivetti è infatti un’azienda in cui il manage-ment svolge un ruolo di “broker onesto e neutrale” nell’allocazione dellerisorse tra gli stakeholders (pensiamo solo alla straordinaria ampiezza diquello che s’intendeva per “responsabilità d’impresa” in Olivetti: dallaqualità dei servizi aziendali per i dipendenti alle attenzioni per le condi-zioni di lavoro e dei livelli di occupazione, allo stile condiviso nei rappor-ti con i sindacati, al permanere dell’attenzione al territorio e al paesag-gio). 16 Questo meccanismo s’interrompe – affermano molti tra gli inter-vistati – quando, mutato profondamente lo scenario economico e tecno-logico mondiale, anche in Olivetti appaiono per la prima volta sistemi dicompensazione “per obiettivi”, si stringono i criteri di efficienza e d’indi-viduazione di centri di costo e di profitto, s’instaura una struttura di prez-zi interni di trasferimento.17

Nel decennio successivo, il perimetro dell’autonomia manageriale chepreesisteva all’avvento del moderno capitalismo finanziario (ora sostenu-to a livello teoretico dal nuovo paradigma dell’agency theory e dei proper-ty rights, paradigma incarnato a Ivrea dalla figura di Carlo De Benedet-ti), cambia la sua geometria. 18 Il management Olivetti subisce un drasti-co ricambio, non sempre volontario. Con l’avvicendamento proprieta-rio, molti lasciano l’azienda. Per chi resta mutano radicalmente e rapida-mente i criteri di Bildung e di self-selection. Con l’estendersi delle prati-che d’incentivazione attraverso lo strumento delle stock-options, muta ilquadro intellettuale che definisce l’impresa e i suoi attori. «What is mostimportant […], is not corporate greed. After all, top managers have al-ways had the incentive, and for the most part the opportunity to paythemselves quite well. I doubt that executives became more greedy inthe 1980s and 1990s than before, or suddenly woke up to the fact thatthey were self-interested. What had to change in compensation to chan-ge was the intellectual framework defining the firm».19

Anche in Olivetti il manager di fine secolo non è più un neutrale por-tatore di eccellenza socio-tecnica che risponde a tutti i portatori d’inte-resse, ma è un partigiano dello shareholder ; anche in Olivetti il credo ma-nageriale degli anni novanta non è più un credo socio-tecnocratico ma ilnuovo credo proprietario, perché i manager stessi sono trasformati dai

Prefazione

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sistemi d’incentivazione in una speciale categoria di shareholders. È que-sto il fenomeno che molti dei testimoni interpretano come un vero e pro-prio tradimento del management, un tradimento che appare tale soprat-tutto nei confronti dell’ideale processivo che era stato dell’Olivetti diAdriano.

Ringraziamenti

Devo – unendomi in questo a Francesco Novara e a Renato Rozzi – unospeciale ringraziamento all’ingegner Alfredo Tradardi, che ci ha affianca-to per il primo tratto di strada di questo progetto e soprattutto ci ha ge-nerosamente affidato i risultati del suo minuzioso lavoro di ricerca pres-so l’Archivio Storico Olivetti, e in particolare dello spoglio sistematicodei promemoria organizzativi dell’Ing. C. Olivetti & C. Spa per gli anni1952-1993. Le informazioni da lui raccolte, in merito alle nomine dei di-rigenti e dei direttori centrali e alle dimissioni, hanno permesso la mag-gior parte delle verifiche da noi realizzate sui testi delle interviste e laconseguente notazione.

Un ulteriore ringraziamento va a Cinzia Colapinto, che ha messo a no-stra disposizione una serie importante di dati di bilancio relativi al perio-do 1978-2003, in particolare relativi alle spese per la Ricerca & Sviluppo,ai risultati economici e all’indebitamento del Gruppo (e ora contenutinella “Cronologia”).

Personalmente ringrazio Fabio Lavista per il suo essenziale appoggiodurante tutte le interviste nel Canavese, e Barbara Biagini e Sara Ronca-glia per il loro aiuto nella lunga fase di revisione dei testi.

Ultimo, ma non ultimo affatto, un grazie di cuore da parte dei tre cura-tori va a coloro che hanno reso possibile realizzarlo: a tutti gli intervista-ti che vi hanno aderito con disponibilità di tempo e di attenzione; al Cen-tro per la Cultura d’Impresa che ne ha curato l’organizzazione; alla Fon-dazione Adriano Olivetti che l’ha appoggiato e finanziato, e in modo par-ticolare a Laura Olivetti.

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Uomini e lavoro all’Olivetti

Note

1 The Business of Survival. What’s the Sense of Corporate Longevity, in “The Eco-nomist”, 18 dicembre 2004.

2 Uso l’espressione “questione proprietaria” in senso lato, mutuandola da P.Bianchi, La rincorsa frenata. L’industria italiana dall’Unità nazionale all’unifica-zione europea, il Mulino, Bologna 2002, pp. 297 ss.

3 Ricordiamo innanzi tutto, senza poterle elencare, le testimonianze raccolte alconvegno “Adriano Olivetti e la Comunità del Canavese”, convegno organizzatoper il ventesimo anniversario della morte di Adriano Olivetti (1901-1960), di cuisuccessivamente sono stati pubblicati gli atti in F. Giuntella, A. Zucconi (a c. di),Fabbrica, comunità, democrazia, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti,Roma 1984; M. Bellisario, Donna & Top Manager. La mia storia, Rizzoli, Milano1987; M. Caglieris, Olivetti, addio, edizione fuori commercio in 250 esemplarinumerati, s. l.1991; P. G. Perotto, Programma 101. L’invenzione del personal com-puter: una storia appassionante mai raccontata, Sperling & Kupfer, Milano 1995;A. Pizzorno, Seconda Università o primi passi nella realtà?, nota autobiograficaposta come postfazione a D. Della Porta, M. Greco, A. Szakolczai (a c. di), Iden-tità, riconoscimento e scambio, Laterza, Roma-Bari 2000; G. Soavi, Adriano Oli-vetti. Una sorpresa italiana, Rizzoli, Milano 2001; F. Ferrarotti, Un imprenditoredi idee. Una testimonianza su Adriano Olivetti, a cura di G. Gemelli, Edizioni diComunità, Torino 2001; L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adria-no Olivetti, a cura di P. Ceri, Torino 2001; O. Beltrami, Sul ponte di comando, dal-la Marina militare alla Olivetti, a cura di A. De Macchi, G. Maggia, Mursia, Mi-lano 2004; S. Sartor, Via Jervis n. 11. Alla ricerca della Olivetti perduta, Manni,Lecce 2003; M. Bolognani, Bit Generation. La fine della Olivetti e il declino del-l’informatica italiana, con un’introduzione di M. Vitale, Editori Riuniti, Roma2004; G. Casaglia, Olivetti leader tecnologico, Pino Partecipazioni Spa, Milano2004; E. Piol, Il sogno di un’impresa. Dall’Olivetti al venture capital: una vita nel-l’information technology, prefazione di L. Gallino, Il Sole-24Ore, Milano 2004;infine vorrei ricordare le brevi note olivettiane di A. Projettis, P. Rebaudengo, E.Renzi, T. Savi, M. Torta, G. Dallolio, D. Gentili, M. Pacifico, G.C. Vaccari, tut-te raccolte in M. La Rosa, P. Rebaudengo, C. Ricciardelli (a c. di), Storia e storiedelle risorse umane in Olivetti, Franco Angeli, Milano 2004.

4 Mutuo la definizione da A. Appadurai, Practices of the Self, in C.A. Lutz, L.Abu-Lughod (a c. di), Language and the Politics of Emotions, Cambridge Uni-versity Press, Cambridge 1990; definizione poi ripresa in Idem, Modernità in pol-vere. Espressioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Milano 2001 (ed. orig.1996 ), p. 22.

Prefazione

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5 Rimando alla “Nota al testo”, infra, per ulteriori precisazioni di metodo.6 Il riferimento a questa metafora, e al paradosso che richiama, è tratto da A.

Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltri-nelli, Milano 1997, pp. 27 ss. Per una riflessione fondamentale sulla funzione so-ciale e culturale dello story-telling, cfr. J.D. Niles, Homo Narrans. The Poeticsand Anthropology of Oral Literature, University of Pennsylvania Press, Philadel-phia 1999. Per ulteriori considerazioni sul valore euristico delle fonti orali nella ri-cerca storica, e sulle cautele metodologiche che implica la costruzione e utilizza-zione di questa evidenza, rimando invece a R. Garruccio, Memoria: una fonte perla mano sinistra. Letteratura ed esperienze di ricerca su fonti e archivi orali, in “Im-prese e storia”, n. 29, gennaio-giugno 2004, pp. 101-146.

7 Come lo è per tanti libri suscitati da progetti di oral history; pensiamo, adesempio, ai contributi che negli anni settanta hanno dato alla storiografia ameri-cana le ricerche di Studs Terkel sul mondo del lavoro e sulla grande depressione.

8 «L’epica nega il tragico […]. L’epopea tende all’eroico, se con questo termi-ne s’intende l’esaltazione di un super-io collettivo. Si è potuto osservare che essatrova il suo terreno più favorevole nelle regioni di frontiera, dove regna un’ostili-tà prolungata tra due razze o due culture, nessuna delle quali domina nettamen-te l’altra. Il canto epico cristallizza l’ostilità e compensa l’incertezza della lotta; an-nunzia che tutto finirà bene o almerno che noi abbiamo la ragione dalla parte no-stra. In questo modo l’epica incita potentemente all’azione», P. Zumthor, La pre-senza della voce. Introduzione alla poesia orale, il Milano, Bologna 1984 (ed. orig.1983), p. 133.

9 Questo fenomeno di avvicinamento tra human resources e information tech-nology e il parallelo divorzio tra hr e general management è così descritto e stig-matizzato da J.N. Baron, D.M. Kreps, Strategic Human Resources. Frameworksfor General Managers, Wiley, New York 1999, p. 504.

10 Anche la recentissima e puntuale ricostruzione di Paolo Bricco – Olivetti,prima e dopo Adriano. Industria cultura, estetica, L’ancora del Mediterraneo, Na-poli 2005 – si ferma alla fine degli anni settanta.

11 Cfr. G. Berta, A. Michelsons, Il Caso Olivetti, in M. Regini, F. Sabel (a c. di),Strategie di riaggiustamento industriale, il Mulino, Bologna 1989, pp. 158-169.

12 L’Olivetti è la prima impresa innovatrice in Italia, nel decennio 1963-1972(138 brevetti); resta la terza nei due decenni successivi registrando rispettivamen-te 265 brevetti nei decenni 1973-1982 e 1983-1992, mentre non la si ritrova nep-pure tra le prima dieci nel periodo 1993-1999; cfr. R. Giannetti, M. Vasta, Storiadell’impresa industriale italiana, il Mulino, Bologna 2005, p. 138.

13 G. Berta, A. Michelsons, Il Caso Olivetti, cit. p. 135.14 E. Englander, A. Kaufman, The End of Managerial Ideology: From a Corpo-

rate Social Responsibility to Corporate Indifference, in “Enterprise and Society”,vol. 5, no. 3, September 2004, pp. 404-450.

15 G. Sapelli, Gli organizzatori della produzione. Tra struttura d’impresa e mo-delli culturali, in Storia d’Italia, Annali 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino1981, poi ripreso in Idem, Economia, tecnologia e direzione d’impresa, Einaudi,Torino 1994, p. 267.

16 L. Gallino, L’impresa responsabile, cit.17 G. Berta, A. Michelsons, Il Caso Olivetti, cit., p. 136, i quali precisano che

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Uomini e lavoro all’Olivetti

«il sistema d’incentivi [per il management] coinvolge anche il sesto e il settimo li-vello impiegatizio e poco burocratico, in quanto aumenti e riduzioni possonoavere entità notevole».

18 Come “l’ora dei manager” era rintoccata con le tesi di Adolf Bearle e Gardi-ner Means negli anni trenta, e quelle di James Burnham all’apertura degli anniquaranta, così il paradigma di agency inaugura gli anni ottanta con i contributiseminali di Eugene Fama: E.F. Fama, Agency Problems and the Theory of theFirm, in “Journal of Political Economy”, no. 88, April 1980; E.F. Fama, M.C.Jensen, The Separation of Ownership and Control, in “Journal of Law and Eco-nomics”, no. 26, June 1983. Per un’ottima stilizzazione, cfr. J. Roberts, The Mo-dern Firm. Organizational Design for Performance and Growth, Oxford Univer-sity Press, Oxford 2004, pp. 126-135; per una prospettiva storica, cfr. invece J.Barron Baskin, P. Miranti, A History of Corporate Finance, Cambridge Universi-ty Press, Cambridge (uk) 1997 (trad. it. 1999) pp. 258-303.

19 K. Lipartito, Business History from the Perspective of a Cutting Edge Journal,dattiloscritto presentato agli “Incontri di storia dell’impresa”, Università Bocco-ni, maggio 2005, p. 12, a commento del lavoro di E. Englander, A. Kaufman, TheEnd of Managerial Ideology, cit.

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Postfazione.Lo “scandalo” della memoria olivettianadi Giulio Sapelli

Non si tratta [...] di una autobiografia. Questo non avrebbe per me alcuna im-portanza. Ciò che invece mi sta a cuore è il tentativo di una mitobiografia. Conquesto intendo fare affiorare alla luce il mitologema che sta alla base del desti-no del singolo. La biografia personale ha qui interesse soltanto in funzione delmitologema; serve alla conoscenza di quest’ultimo, della sua forma e della suanatura, e viene considerata esclusivamente da questo punto di vista [...] Il con-cetto di mitologema verrà [...] lasciato nel vago e usato come denominazionecomune di contenuti diversi: componenti della coscienza e dell’inconscio col-lettivo, motivi di famiglia, di stirpe, di civiltà e di razza, cosiddetti fenomenikarmici, ecc... in breve, fattori psichici che provengono da una radice non per-sonale [...]. Praticamente, il quesito fondamentale d’una mitobiografia si po-ne così: in quale corrente “mitologica” sta il singolo e in quale punto di essa. 1

Questa citazione è tratta dall’unico testo che Ernst Bernhard abbia la-sciato dietro di sé, grazie alla devota cura della sua allieva prediletta; èun testo che riassume il dramma di una vita – l’ebreo che sopravvive al-lo sterminio programmato – e di una vocazione – quella dello psicoana-lista junghiano. Questo brano non può non venire alla mente di coloro iquali, ripensando ad Adriano Olivetti, ricordano anche il suo percorsodi vita, la sua intima spiritualità, la sua fede e il suo sacrificio: Ernst Bern-hard infatti fu la figura forse più importante per consentire ad Adriano diconvivere e di coevolvere con l’ombra junghiana e quindi con i motiviprofondi del proprio operare.

Ricordare l’intreccio tra biografia personale e destino collettivo incar-nato nell’ambiente di vita e di lavoro, e quindi nella produzione mitolo-gica che esso talvolta genera, è indispensabile allorché si voglia inserirein una cornice culturale la lettura e la meditazione delle storie di vita chein questo volume sono raccolte. In primo luogo, perché non v’è stata en-tità storica industriale e culturale insieme, in Italia e nel mondo, in gra-do di produrre mitologia come Adriano e l’Olivetti. Ciò è accaduto contanta forza e con tanta ambiguità, tipica di tutte le vite associate nell’eco-nomia monetaria e nel potere, da divenire, quella mitologia, non tanto un

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mitologema junghiano, quanto invece un indistinto linguaggio meta-ar-chetipale a cui chiunque può attingere purché lo voglia. Questione es-senziale, come è noto a chi si occupi intellettualmente di questi temi, perla creazione di una memoria sociale. 2 E per quanto riguarda l’Olivetti sitratta di una memoria sociale che, in questo caso, è sorretta da veri e pro-pri siti e riferimenti fisici della memoria: 3 gli stabilimenti d’Ivrea, i pro-dotti più celebri, i negozi Olivetti, il logo e il brand. Questi ultimi sonoesistiti sino a quando i nuovi protagonisti del capitalismo senza morale disostegno non li hanno sradicati dalla Borsa e dal tessuto della comunica-zione industriale. Ma gli stabilimenti rimarranno e saranno sempre fontedi memoria sociale.

Per questo la lettura delle storie di vita degli uomini del personale Oli-vetti è tanto importante: queste storie di vita sono importanti in sé, ossiasingolarmente intese, ma sono importanti anche perché consentono laverifica – à la Halbwachs – di quanto siano potenti le sovrapposizioni tramemoria autobiografica, memoria storica e memoria collettiva. 4 E, co-me è noto dai tempi dello strutturalismo russo e della morfologia dellafiaba di Propp, 5 esistono strutture di riferimento mentale, landscapes 6

affettivi e cognitivi che riannodano la rimemorazione degli eventi e li col-locano in un universo mitologico. Certo parliamo di processi secolari. Ilcaso Olivetti non produce archetipi di tal fatta. Ma qualcosa si è pur de-terminato.

Si è determinata una sorta di mitologia olivettiana che è divenuta terre-no di coltura per improvvisati attori del palcoscenico dell’industria cul-turale e dell’identità di piccoli gruppi di un’industria della comunicazio-ne che è ormai insensibile ai valori profondi del messaggio (perché soloil codice comunicativo, à la Barthes, 7 ha valore). Olivetti, quindi, può es-sere di moda proprio quando il sistema industriale senz’anima trova isuoi cantori: 8 e si scopre che molti di quei cantori si autodefiniscono oli-vettiani senza esserlo... È un segno della negoziazione e della destruttu-razione dello stesso universo mitologico. Ora esso non appartiene più alsacro: appartiene al profano della lotta per la vita e quindi per il potere.

Da un lato troviamo un libro come questo, che testimonia, nelle inter-viste, i mondi vitali autentici della fedeltà ai valori fondativi olivettianiche sono enucleati nell’introduzione di Francesco Novara e Renato Roz-zi e che riassumerei in questa citazione: «Se in altre aziende il lavoratoresi confondeva in una massa indifferenziata, in Olivetti egli era una perso-na con una vita lavorativa ben individuata». 9

Dall’altro, troviamo che quegli stessi valori (richiamati dalla frase ap-pena citata) nella quotidiana vita associata sono sottratti all’universo inti-mo e sacro delle persone e sono scagliati invece nel mondo dei miti d’og-gi. 10 In tal modo divengono il prodotto di un’alterazione desacralizzatadel mito, dove le persone divengono personaggi che perseguono una

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propria strategia di sopravvivenza nell’industria comunicativa e dell’im-maginario collettivo. In questo odierno scenario, essere olivettiani senzanulla condividere dei valori olivettiani non solo è possibile: è un doveressere per essere à la page ; almeno finché conviene nel modo dell’econo-mia dello scambio monetario e simbolico... Magari, tra breve, le ragionidello scambio muteranno, e allora si ritornerà ad essere anti-olivettianiper eccellenza, com’era d’obbligo tra gli anni cinquanta e ottanta del No-vecento... Come successe anche nella stessa Olivetti quando vi giunseCarlo De Benedetti e nulla di quei valori lasciò nell’azienda, ma tutto diessi dissemino fuori di sé, come per una sorta di hegeliana astuzia della ra-gione. Per aver esatta contezza di ciò, senza pregiudizi di sorta ma nellaserena ricordanza, si rilegga qui tanto l’intervista in cui si rimembra la vi-sita del papa agli stabilimenti nel 1990 (e l’assunto comunicativo falsifi-cante e mortifero in cui si disegnò quell’atto, incarnazione del mito reifi-cato nella storia) quanto quella in cui si connota nel ricordo l’arrivo diCarlo De Benedetti e la sua presa di possesso degli uffici: un esempio dimancanza di stile che rimarrà memorabile nelle storie del saper vivere in-ternazionale, con l’ondata di terrore aziendale che ne seguì e con il con-tagio di opportunismo che determinò, dissipando repentinamente il pa-trimonio di lealtà organizzativa costruito in decenni e trasformandolo invuoto di fedeltà zelante di ossequio.

E ciò avvenne con una rapidità impressionante dopo il licenziamentodi decine di dirigenti, a confortare l’ipotesi – espressa tra gli altri da Ot-torino Beltrami nella sua testimonianza – che molto rapidamente, cioèimmediatamente dopo la morte di Adriano nel 1960, con il sopraggiun-gere del gruppo di controllo diretto da Bruno Visentini, di quei valori inazienda s’iniziò la svendita. Sotto questo profilo, l’avvento di Carlo DeBenedetti non fu altro che il definitivo suggello a un processo di dilapi-dazione avviato già da tempo. Ma contestualmente a ciò, per rimarcarela differenza tra storia accaduta e memoria e immaginario collettivi,11 ilmito non si spegne, anzi si carica di nuovi significati che non sono piùquelli delle persone e delle coscienze infelici, ma dei personaggi di unmondo del mito che alle persone viventi in quegli accadimenti più nonappartiene.

È in questo contesto che occorre tener presente (“tenere a mente”,vien da dire) il significato metodologico straordinario di questo corpusd’interviste. È in tal modo che lo si comprende, quel significato. Essorende manifesto il fatto che la memoria può divenire, rispetto alla storiaaccaduta, anche uno strumento di negoziazione di un’identità 12 singolache è a sua volta il frutto di una negoziazione con l’identità collettiva checi si vuole imporre, costi quel che costi, ossia sia avvenuto ciò che è av-venuto. Ha ben compreso questo problema un filone interpretativo mol-to interessante della cultura postmoderna in antropologia culturale. Per

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esso, le norme durkheimiane non sono più intaccabili universi politeistima sono, piuttosto, degli dèi scesi in terra, che rendono possibile la lorostessa destrutturazione nella riformulazione di nuove autosignificazioniculturali:

What is theoretically innovative, and politically crucial, is the need to thinkbeyond narratives of originary and initial subjectivities and to focus on thosemoments or processes that are produced in the articulation of cultural differ-ences. These ‘in-between’ spaces provide the terrain for elaborating strategiesof selfhood-singular or comunal - that initiate new signs of identity, and inno-vative sites of collaboration, and contestation, in the act of defining the idea ofsociety itself. It is in the emergence of the interstices - the overlap and dis-placement of domain of difference - that the intersubjective and collective ex-periences of nationess, community interest, or cultural value, are negotiated. 13

È questo spazio di sottrazione alla realtà mercificata e reificata che questeinterviste occupano, nella relazione intersoggettiva che struttura i nostrimondi vitali. Si sottraggono al mondo e nel contempo a esso completa-mente appartengono, ma per via della soggettività e non della sua nega-zione, come accade continuamente nella comunicazione odierna. È que-sto il valore della riconferma della tradizione orale nel mondo contempo-raneo: essa riconduce all’essere prima della mercificazione e della reifica-zione e lo ridona ai soggetti da cui scaturisce. Abbiamo necessità della co-municazione scritta per la stessa strutturazione del mondo ma, una voltacostituita e compresa nelle forme non orali della comunicazione rese pos-sibili dall’economia monetaria, essa tende a disperdere il valore della re-lazionalità personale. E quando non lo fa è per consegnarla – quella re-lazionalità – agli dèi del profitto e della falsificazione ideologica. Péguyl’aveva ben compreso quando rifletteva sul denaro e sulla cristianità chevoleva salvare e reinverare nella modernizzazione: «Ainsi, dans ce mondemoderne tout entier tendu a l’argent, tout à la tension de l’argent, cettetension de l’argent contaminant le monde chrétien même lui fait sacrifiersa foi et ses moeurs au mantien de sa paix économique et sociale». 14

È lo stesso monito che Marcel Henaff, in un articolo – da cui cito 15 –e altresì in un testo fondamentale, 16 ha lanciato recentemente: «Vingt-cinq siècles après le conflit qui a opposé Platon aux sophistes, et selonune autre perspective, il faut se demander: le savoir a-t-il un prix? Lesidées peuvent-elles se vendre?».

Così, leggendo queste interviste, noi dobbiamo riformulare quella stes-sa domanda: ha, la memoria, un prezzo? E il prezzo non è quello che sipaga per scambiarla con il silenzio, ma quello che si paga per non omo-logarla al senso comune e alla falsa coscienza e per conservare l’integritàdella persona che può esistere con essa e in essa. Io credo che – grazie al-la fiducia creatasi tra gli intervistati, l’intervistatrice e i due mentori delprocesso di costruzione di questa prosopografia orale ora consegnata al-

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le stampe – quel prezzo non sia stato pagato. E credo che la memoria cheora leggiamo – leggere la memoria, ecco un altro tema di straordinariointeresse – ci riconsegni la soggettività e l’individuazione delle personeche ricordano. Che ricordano ora, insieme a noi lettori, e che ricordanomentre noi ricordiamo e apprendiamo con loro, attraverso la lettura.Grazie al rapporto che stabiliamo con e nella lettura, riscattiamo la me-moria dal silenzio e dall’introspezione, ma non precipitiamo nel rumoredel glamour olivettiano di maniera che in questi anni abbiamo udito at-torno a noi, nel frastuono della società dell’immagine e della comunica-zione reificata.

Di una prosopografia, ossia di un’antropologia storiografica fondata suuna biografia collettiva, s’intravede qui – per la verità – soltanto l’inizio.Ciò che ci si presenta alla lettura è una «connecting biography», feno-meno reso possibile dal fatto che: «Individual and collective memorycome together in the stories of individual lives». 17 E vanno insieme al-lorché chi muove alla ricerca della relazione sociale che vuol ricostruirecon le storie di vita, ne individua i potenziali affabulatori rimembranti inun cluster, in un insieme di soggettività le quali, sia che siano disperse dal-la vita oppure ancora unite da essa, sono in ogni caso disponibili a ricor-dare insieme, collettivamente o individualmente. L’essenziale è il ricorda-re, consapevoli di un progetto che dal loro racconto scaturirà. È graziealla consapevolezza dei soggetti narratori di essere attori di un processodi ricostruzione di una memoria che tale memoria diviene sociale. Socia-le perché fondata dal loro volontario associarsi nel progetto. Ecco il si-gnificato della caduta degli dèi: non siamo più dinnanzi a norme socialiche imprigionano la memoria, ma a contenuti espressivi e significati del-l’essere che dal soggetto scaturiscono e a esso soltanto, nella libertà, ap-partengono.

Ed è per quella consapevolezza che iniziative scientifiche come quel-la che si presenta in questo libro possono avere un grande significato.Siamo dinnanzi a una costruzione della memoria che non ha come pro-posito il fondare identità, come accadde e accade in molti studi di gran-de ampiezza. Si pensi al lavoro immenso e pionieristico che portò Tho-mas e Znaniecki a ricostruire l’epopea dell’immigrazione polacca negliusa dall’inizio del Novecento alla fine della prima guerra mondiale, gra-zie all’uso delle lettere e delle testimonianze di prima mano.18 Qui nonsi tratta neppure di un lavoro diretto a rifondare identità sociali di classie ceti subalterni 19 o di un lavoro diretto a ricostruire l’operatività di éli-tes che hanno contribuito all’inveramento di processi di trasformazionesociale o scientifica. 20

Siamo dinnanzi invece, in questo caso, al riconoscimento reciproco,transitivo, di una condivisione che nel passato fu possibile, in tempi sto-rici diversi ma non così lontani da impedire un legame tra generazioni ed

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esperienze professionali differenti. Il legame tra i soggetti narranti, infat-ti, non è semplicemente cognitivo. Per definirlo non si può ricorrere adaltro che al concetto di razionalità romantica magistralmente descrittoda Larmore:

Non riusciremo a cogliere l’originalità del tema romantico dell’appartenenzase partiamo dal presupposto che si riferisca semplicemente all’influenza che leforme comuni di vita effettivamente esercitano sulla mente dell’individuo. Ingioco è invece il genere di comprensione di noi stessi che dovremmo avere, ta-le da farci considerare gli impegni più vincolanti non come oggetti (soltanto)di una scelta autonoma, ma come espressione della nostra appartenenza a unadata forma di vita. Una simile comprensione di noi stessi è normativa, proprioperché dipende essenzialmente da un’idea di ragione. Invece di esigere da noil’assunzione di una distanza critica dal nostro modo di vita nel suo complesso,come se l’obiettivo ultimo fosse vedere il mondo sub specie aeternitatis, la ra-gione dovrebbe essere interessata agli obiettivi a cui tendiamo nelle condizio-ni in cui si svolge la nostra vita. 21

È questa idea di ragione romantica portatrice di senso all’essere che uni-sce i narratori; ed è questa unione romantica nel suo senso più alto e de-viante rispetto all’esistente che costruisce la trama di un insieme di viteche ora si ri-pongono in relazione attorno a quell’obiettivo con tanta fru-galità liberatrice reso manifesto da Novara e da Rozzi, da me ripreso al-l’inizio e che di nuovo voglio ricordare: «Se in altre aziende il lavoratoresi confondeva in una massa indifferenziata, in Olivetti egli era una perso-na con una vita lavorativa ben individuata». 22

Ecco che l’individuazione delle personalità diviene – insieme – scopodi una vita e cifra emblematica di un progetto che ha unito e ancora uni-sce più vite. E quindi è stato ed è ancora progetto di trasformazione so-ciale a partire dall’integrità personale transitiva: essenza dello scandaloolivettiano che questo lavoro finalmente restituisce intatto e integro allastoria, e quindi al presente e al futuro.

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Note

1 E. Bernhard, Mitobiografia, a cura di Hélène Erba-Tissot, traduzione di G.Bemporad, Adelphi, Milano 1992, pp. 189-190.

2 M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, postfazione di G. Namer,Albin Michel, Paris 1925 (trad. it., Ipermedium, Napoli 1996).

3 J. Attfield, Wild Things: The Material Culture of Everyday Life, Berg, NewYork 2000.

4 Bello il riferimento cognitivo a questa triade, richiamato in J. J. Climo, M.G.Cattel (a c. di), Social Memory and History. Anthropological Perspectives, Altami-ra Press, Walnut Creek 2002, p. 4.

5 V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fiabe, Boringhieri, Torino 1985.6 A. Appadurai, Disjuncture and Difference in the Global Cultural Economy, in

“Public Culture”, 1990, no. 2, pp. 1-24.7 R. Barthes, Le bruissement de la langue, Editions du Seuil, Paris 1993.8 C. Corduas, G. Sapelli, Reificazione e managerialismo nell’impresa del nuovo

secolo, di prossima pubblicazione in “Aut Aut”.9 F. Novara, R. Rozzi, “Una guida agli argomenti e ai temi del volume”, p. 21.10 R. Barthes, Mitologies, Editions du Seuil, Paris 1970.11 P. Nora, La loi de la memoire, in “Le Débat”, janvier-février 1994, n. 78, pp.

187-191.12 Per me, il riferimento all’insidioso concetto d’identità è sempre mediato dal-

la riflessione di C. Lévi-Strauss, in Idem (sous la direction de), L’identité, puf,Paris 1983.

13 H.K. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, London-New York1994, p. 2.

14 C. Péguy, Notre jeunesse, in Oeuvres en prose 1908-1914, Gallimard-Pléia-de, Paris 1992, p. 604.

15 M. Henaff, L’argent et le hors-de-prix, in “Esprit”, février 2002, p. 166.16 Idem, Prix de la verité. Le don, l’argent, la philosophie, Editions du Seuil, Pa-

ris 2002.17 J. J. Climo, M.G. Cattel (a c. di), Social Memory, cit, p. 22.18 W. I. Thomas, F. Znaniecki, The Polish Peasant in Europe and America, Uni-

versity of Chicago Press, Chicago 1918-1920 (trad. it. Edizioni di Comunità, Mi-lano 1968).

19 Si pensi, per esempio, al lavoro pionieristico di Y. Lequin, J. Metral, A la

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recherche d’une memoire collective: les métallurgistes retraités de Givors, in “An-nales esc”, janvier-février 1980, pp. 149-166.

20 Come dimostrò P. Connerton, How Societies Remember, Cambridge Uni-versity Press, Cambridge (uk) 1989.

21 C. Larmore, L’eredità romantica, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 70-71.22 F. Novara, R. Rozzi, “Una guida agli argomenti e ai temi del volume”, cit., p.

21.

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