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Variabilità Individuale nelle risposte farmacologiche Abbiamo notato che, a causa della variazione individuale, bisogna tagliare su misura la terapia farmacologica su ciascun paziente. Qui discutiamo i principali fattori che possono determinare una risposta farmacologica diversa da un paziente ad un altro. Con queste informazioni, ci sarà una migliore preparazione a ridurre la variazione individuale alle risposte farmacologiche, massimizzando, quindi, i benefici del trattamento e riducendo i danni potenziali. Peso corporeo e composizione In assenza di aggiustamenti del dosaggio, le dimensioni del corpo possono essere un determinante significativo degli effetti farmacologici. Ricorda che l’intensità della risposta ad un farmaco è determinata in gran parte dalla concentrazione del farmaco nel sito d’azione – più alta è la concentrazione, più intensa è la risposta. Il buon senso ci dice che, se la stessa quantità di farmaco viene data ad una persona piccola e ad una persona grande, il farmaco raggiungerà una concentrazione maggiore in una persona piccola, e quindi produrrà effetti più intensi. Per compensare questa potenziale sorgente di variazione individuale, le dosi devono essere adattate alle dimensioni del paziente. Quando si modifica la dose per tenere in conto il peso corporeo, il clinico deve basare la modificazione sull’area della superficie corporea piuttosto che sul peso corporeo. Perché? Perché la determinazione dell’area della superficie non rappresenta solo il peso corporeo del paziente ma anche la sua grassezza o magrezza. Dal momento che la percentuale di grasso corporeo può cambiare la distribuzione del farmaco nel sito d’azione, l’aggiustamento del dosaggio in base all’area della superficie corporea fornisce un mezzo più preciso per controllare le risposte farmacologiche rispetto ad un aggiustamento basato solo sul peso corporeo. Età La sensibilità ad un farmaco varia con l’età. I bambini piccoli sono molto sensibili ai farmaci, così come gli anziani. In una persona molto giovane, l’aumento della sensibilità al farmaco è il risultato della immaturità degli organi. Nella vecchiaia, l’aumento della sensibilità risulta largamente dalla degenerazione degli organi. Altri fattori che influenzano la sensibilità nella vecchiaia sono l’aumentata severità delle malattie, la presenza di molteplici patologie, ed il trattamento con molti farmaci. Patofisiologia Una fisiologia anormale può alterare le risposte ai farmaci. In questa sezione esaminiamo l’impatto sulle risposte farmacologiche prodotto da quattro condizioni patologiche: (1) malattie del rene, (2) malattie del fegato, (3) squilibrio acido-base, e (4) stato elettrolitico alterato. Malattie di Rene Le malattie del rene possono ridurre l’escrezione del farmaco, causando l’accumulo dei farmaci nell’organismo. Se il dosaggio non viene abbassato, i farmaci si possono accumulare fino a livelli tossici. Quindi, se un paziente sta assumendo un farmaco che viene eliminato dal rene, e se si sviluppa insufficienza renale, il dosaggio deve essere abbassato. L’impatto delle malattie renali sui livelli plasmatici dei farmaci è illustrato in figura 1. La figura mostr a il declino dei livelli plasmatici di kanamicina (un antibiotico) in seguito alla sua iniezione in due pazienti, uno con reni sani ed uno con insufficienza renale. (L’eliminazione della kanamicina è esclusivamente renale).

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Page 1: Variabilità Individuale nelle risposte farmacologiche Didattico... · farmaco. Questa forma di tolleranza è dovuta alla capacità di alcuni farmaci (per es., i barbiturici) di indurre

Variabilità Individuale nelle risposte farmacologiche

Abbiamo notato che, a causa della variazione individuale, bisogna tagliare su misura la terapia

farmacologica su ciascun paziente. Qui discutiamo i principali fattori che possono determinare una risposta

farmacologica diversa da un paziente ad un altro. Con queste informazioni, ci sarà una migliore

preparazione a ridurre la variazione individuale alle risposte farmacologiche, massimizzando, quindi, i

benefici del trattamento e riducendo i danni potenziali.

Peso corporeo e composizione

In assenza di aggiustamenti del dosaggio, le dimensioni del corpo possono essere un determinante

significativo degli effetti farmacologici. Ricorda che l’intensità della risposta ad un farmaco è determinata

in gran parte dalla concentrazione del farmaco nel sito d’azione – più alta è la concentrazione, più intensa è

la risposta. Il buon senso ci dice che, se la stessa quantità di farmaco viene data ad una persona piccola e

ad una persona grande, il farmaco raggiungerà una concentrazione maggiore in una persona piccola, e

quindi produrrà effetti più intensi. Per compensare questa potenziale sorgente di variazione individuale, le

dosi devono essere adattate alle dimensioni del paziente.

Quando si modifica la dose per tenere in conto il peso corporeo, il clinico deve basare la

modificazione sull’area della superficie corporea piuttosto che sul peso corporeo. Perché? Perché la

determinazione dell’area della superficie non rappresenta solo il peso corporeo del paziente ma anche la

sua grassezza o magrezza. Dal momento che la percentuale di grasso corporeo può cambiare la

distribuzione del farmaco nel sito d’azione, l’aggiustamento del dosaggio in base all’area della superficie

corporea fornisce un mezzo più preciso per controllare le risposte farmacologiche rispetto ad un

aggiustamento basato solo sul peso corporeo.

Età

La sensibilità ad un farmaco varia con l’età. I bambini piccoli sono molto sensibili ai farmaci, così come gli

anziani. In una persona molto giovane, l’aumento della sensibilità al farmaco è il risultato della immaturità

degli organi. Nella vecchiaia, l’aumento della sensibilità risulta largamente dalla degenerazione degli

organi. Altri fattori che influenzano la sensibilità nella vecchiaia sono l’aumentata severità delle malattie, la

presenza di molteplici patologie, ed il trattamento con molti farmaci.

Patofisiologia

Una fisiologia anormale può alterare le risposte ai farmaci. In questa sezione esaminiamo l’impatto sulle

risposte farmacologiche prodotto da quattro condizioni patologiche: (1) malattie del rene, (2) malattie del

fegato, (3) squilibrio acido-base, e (4) stato elettrolitico alterato.

Malattie di Rene

Le malattie del rene possono ridurre l’escrezione del farmaco, causando l’accumulo dei farmaci

nell’organismo. Se il dosaggio non viene abbassato, i farmaci si possono accumulare fino a livelli tossici.

Quindi, se un paziente sta assumendo un farmaco che viene eliminato dal rene, e se si sviluppa insufficienza

renale, il dosaggio deve essere abbassato.

L’impatto delle malattie renali sui livelli plasmatici dei farmaci è illustrato in figura 1. La figura mostra il

declino dei livelli plasmatici di kanamicina (un antibiotico) in seguito alla sua iniezione in due pazienti, uno

con reni sani ed uno con insufficienza renale. (L’eliminazione della kanamicina è esclusivamente renale).

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Come è mostrato nella figura, i livelli di kanamicina si abbassano rapidamente nel paziente con una buona

funzione renale. In questo paziente, l’emivita del farmaco è breve – solo 1,5 ore. Al contrario, i livelli del

farmaco declinano molto lentamente nel paziente con insufficienza renale. A causa della malattia renale,

l’emivita della kanamicina è aumentata di circa 17 volte – da 1,5 ore a 25 ore. In queste condizioni, se la

dose non viene ridotta, la kanamicina si accumulerà rapidamente fino a livelli dannosi.

Malattie di Fegato

Come per le malattie renali, le malattie al fegato possono causare accumulo di farmaci. Bisogna ricordare

che il fegato è il principale sito del metabolismo dei farmaci. Quindi, se il fegato smette di funzionare,

cadrà il ritmo del metabolismo ed i livelli del farmaco saliranno. Per prevenire l’accumulo fino a livelli

tossici, i pazienti con epatopatie dovrebbero diminuire il dosaggio. Ovviamente, queste linee guida si

applicano soltanto solo a quei farmaci che vengono eliminati principalmente attraverso il fegato; la

disfunzione epatica non influenza i livelli plasmatici dei farmaci che sono eliminati principalmente da

meccanismi extra-epatici (per es. escrezione renale).

Squilibrio acido-base

Alterando la ripartizione da pH, le modificazioni dello stato acido-base possono alterare l’assorbimento, la

distribuzione, il metabolismo, e l’escrezione dei farmaci.

La figura 2 illustra l’impatto dell’alterato stato acido-base sulla distribuzione del fenobarbital (un

acido debole) in un cane. La curva in alto mostra i livelli plasmatici di fenobarbital. La curva in basso

mostra il pH plasmatico. Lo stato acido-base era alterato dall’inalazione da parte del cane di una miscela di

gas ricco in biossido di carbonio (CO2), causando quindi acidosi respiratoria. Nella figura, l’acidosi è indicata

dall’abbassamento del pH plasmatico. Nota che il declino del pH è associato con un contemporaneo

abbassamento nei livelli di fenobarbital. Con l’interruzione della CO2, il pH plasmatico ritornava alla

normalità ed i livelli di fenobarbital tornavano a salire.

Perché l’acidosi altera i livelli plasmatici di fenobarbital? Rammenta che, a causa della ripartizione

da pH, se c’è una differenza di pH ai due lati di una membrana, un farmaco si accumula dal lato in cui il pH

favorisce maggiormente la sua ionizzazione. Quindi, poiché i farmaci acidi si ionizzano in un mezzo alcalino,

i farmaci acidi si accumuleranno nel lato alcalino. Al contrario, i farmaci basici si accumuleranno nel lato

acido. Dal momento che il fenobarbital è un acido debole, tende ad accumularsi in un ambiente alcalino.

Di conseguenza, quando il canne inala CO2, determinando un declino del pH extracellulare, il fenobarbital

lascia il plasma ed entra nelle cellule, dove l’ambiente è meno acido (più alcalino) che nel plasma. Quando

cessa la somministrazione di CO2 ed il pH plasmatico ritorna nella norma, l’effetto di ripartizione da pH

porta il fenobarbital ad uscire dalle cellule per ritornare nel sangue, e ciò porta ad una risalita dei livelli

plasmatici.

Alterazione dell’equilibrio elettrolitico

Gli elettroliti (per es., potassio, sodio, calcio, magnesio) hanno ruoli importanti in fisiologia. Di

conseguenza, quando i livelli elettrolitici vengono alterati, diversi processi cellulari possono essere alterati.

Soprattutto i tessuti eccitabili (nervi e muscoli) sono sensibili alle alterazioni dell’equilibrio elettrolitico.

Dato che le alterazioni dell’equilibrio elettrolitico possono avere effetti diffusi sulla fisiologia cellulare,

potremmo aspettarci che lo squilibrio elettrolitico possa causare effetti profondi e diffusi nelle risposte ai

farmaci. Tuttavia, non sembra che questo avvenga; sono rari gli esempi in cui le modificazioni elettrolitiche

hanno un impatto significativo sulle risposte ai farmaci.

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Forse l’esempio più importante di un effetto farmacologico alterato avvenuto in risposta ad uno

squilibrio elettrolitico coinvolge la digossina, un farmaco usato per trattare malattie cardiache. La più grave

tossicità da digossina è l’insorgenza di aritmie potenzialmente fatali. La tendenza della digossina a

disturbare il ritmo cardiaco è correlato ai livelli di potassio: quando i livelli di potassio sono depressi, la

capacità della digossina di indurre aritmie è aumentata di molto. Di conseguenza, tutti i pazienti che

ricevono digossina devono sottoporsi a misurazioni regolari del potassio serico per assicurarsi che i suoi

livelli rimangano all’interno di un intervallo di sicurezza.

TOLLERANZA

La tolleranza può essere definita come una sensibilità diminuita ad un farmaco come conseguenza di

somministrazioni ripetute del farmaco stesso. I pazienti che sono tolleranti ad un farmaco hanno bisogno di

dosi più elevate per ottenere effetti equivalenti a quelli che si ottengono con dosi più basse prima che si

sviluppi tolleranza. Ci sono tre categorie di tolleranza ai farmaci: (1) tolleranza farmacodinamica, (2)

tolleranza metabolica, e (3) tachifilassi.

Tolleranza farmacodinamica

Il termine tolleranza farmacodinamica si riferisce al tipo familiare di tolleranza associato con la

somministrazione a lungo termine di farmaci come morfina ed eroina. La persona che è

farmacodinamicamente tollerante necessita di livelli aumentati di farmaco per produrre effetti che

precedentemente si ottenevano con livelli inferiori dello stesso farmaco. Mettendola in un altro modo, in

presenza di tolleranza farmacodinamica, la concentrazione minima efficace (MEC) di un farmaco è

anormalmente elevata. Si pensa che la tolleranza farmacodinamica sia il risultato di processi adattativi che

intervengono in risposta ad occupazione cronica del recettore.

Tolleranza metabolica

La tolleranza metabolica è definita come una tolleranza che risulta da un metabolismo accelerato del

farmaco. Questa forma di tolleranza è dovuta alla capacità di alcuni farmaci (per es., i barbiturici) di indurre

la sintesi di enzimi epatici metabolizzanti i farmaci, causando quindi ritmi aumentati di metabolismo dei

farmaci. A causa dell’aumentato metabolismo, il dosaggio deve essere aumentato per mantenere livelli

terapeutici del farmaco. Differentemente dalla tolleranza farmacodinamica, che determina un aumento

della MEC, la tolleranza metabolica non influenza la MEC.

L’esperimento riassunto nella tabella 1 dimostra che lo sviluppo della tolleranza metabolica in risposta a somministrazioni

ripetute di pentobarbital, un depressore del sistema nervoso centrale. Lo studio ha impiegato due gruppi di conigli, un gruppo di

controllo ed un gruppo sperimentale. I conigli nel gruppo sperimentale sono stati pretrattati con pentobarbital per 3 giorni (60

mg/kg/giorno per via sub cutanea) e poi sono stati trattati con una dose di stimolo IV (30 mg/kg) dello stesso farmaco. Sono stati

quindi misurati sia l’effetto del farmaco (il tempo di sonno) che i suoi livelli plasmatici. I conigli di controllo ricevevano una dose di

stimolo di pentobarbital ma nessun pretrattamento. Come indicato nella tabella 1, la dose di stimolo di pentobarbital ha avuto un

effetto minore nei conigli pretrattati rispetto ai controlli. Specificamente, mentre i conigli di controllo dormivano una media di 67

minuti, il tempo medio di sonno degli animali pretrattati era di soli 30 minuti – meno della metà dell’effetto visto nei controlli.

Perché il pentobarbital era meno efficace negli animali pretrattati? I dati di emivita suggeriscono una risposta. Come

mostrato nella tabella, l’emivita del pentobarbital era molto più breve nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. Dal

momento che il pentobarbital è eliminato principalmente dal metabolismo epatico, la ridotta emivita indica un metabolismo

accelerato. Questo aumento del metabolismo, che è stato determinato dal pretrattamento con pentobarbital, spiega perché i

conigli sperimentali erano più tolleranti dei controlli.

Ci si potrebbe chiedere, “come possiamo sapere se i conigli sperimentali non abbiano sviluppato una tolleranza

farmacodinamica?” La risposta sta nei livelli plasmatici di farmaco quando i conigli si sono svegliati. Nei conigli pretrattati, i livelli

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del farmaco al risveglio erano leggermente al di sotto dei livelli del farmaco nei conigli di controllo al loro risveglio. Se gli animali

sperimentali avessero sviluppato tolleranza farmacodinamica, avrebbero avuto necessità di un aumento della concentrazione del

farmaco per mantenersi addormentati. Quindi, se fosse stata presente tolleranza farmacodinamica, i livelli del farmaco sarebbero

stati anormalmente alti nel momento del risveglio, piuttosto che ridotti.

Tachifilassi

La tachifilassi è una forma di tolleranza che può essere definita come una diminuzione della sensibilità al farmaco dovuta a dosi

ripetute in un breve periodo di tempo. Quindi, differentemente dalla tolleranza farmacodinamica e metabolica, che ha bisogno di

giorni ed anche di più tempo per svilupparsi, la tachifilassi si sviluppa rapidamente. La tachifilassi non è un meccanismo frequente

di tolleranza.

La nitroglicerina transdermica da un buon esempio di tachifilassi. Quando la nitroglicerina è somministrata tramite

cerotto transdermico, gli effetti scompaiono in meno di 24 ore (se il cerotto è mantenuto per il tempo giusto). La perdita di effetto

è dovuta alla deplezione di un cofattore richiesto per l’azione della nitroglicerina. Quando la nitroglicerina è somministrata

intermittentemente, invece che in modo continuo, il cofattore si riforma e non c’è nessuna perdita di effetto.

EFFETTO PLACEBO

Un placebo è una preparazione che non possiede attività farmacologica intrinseca. Quindi, qualsiasi

risposta che un paziente può avere verso un placebo si basa soltanto sulla propria reazione psicologica

all’idea di prendere un medicamento e non su azione fisiologica o biochimica diretta del placebo stesso.

L’uso principale del placebo è come preparazione di controllo durante gli studi clinici.

In farmacologia, l’effetto placebo è definito come quella componente di una risposta farmacologica

determinata da fattori psicologici e non dalle proprietà biochimiche o fisiologiche del farmaco. Nonostante

sia impossibile determinare con precisione il contributo che i fattori psicologici danno alla risposta finale a

qualsiasi specifico farmaco, si crede comunemente che, con praticamente tutti i medicamenti, una frazione

della risposta totale sia dovuta all’effetto placebo. Nonostante l’effetto placebo sia determinato da fattori

psicologici e non fisiologici, la presenza di una risposta placebo non implica che la patologia originaria del

paziente sia “solo nella sua testa”.

Non tutte le risposte placebo sono positive; le risposte placebo possono anche essere negative. Se

un paziente crede che un medicamento possa essere efficace, è probabile che le risposte placebo aiutino a

promuovere la guarigione. Al contrario, se un paziente fosse convinto che uno specifico medicamento sia

inefficace o addirittura perfino dannoso, allora è probabile che gli effetti placebo rallentino i progressi nella

guarigione.

Poiché l’effetto placebo dipende dall’atteggiamento del paziente verso la medicina, stimolare un

atteggiamento positivo può aiutare a promuovere effetti positivi. A questo proposito, è desiderabile che

tutti i membri della squadra sanitaria si presentino al paziente con una valutazione ottimistica (anche se

realistica) sugli effetti che la terapia è probabile possa produrre. Inoltre è importante che i membri della

squadra siano in accordo tra di loro; l’effetto benefico delle risposte placebo può essere diminuito di molto

se, per esempio, l’infermiere di giorno rassicura ripetutamente un paziente sulla probabilità di trarre

benefici dal regime terapeutico, mentre l’infermiere di notte esprime pessimismo sugli stessi farmaci.

Fino a qualche tempo fa, il potere dell’effetto placebo era considerato indiscutibile da molti clinici e

ricercatori. Tuttavia, nuove evidenze suggeriscono che le risposte ai placebo possano essere molto minori

di quello che si pensava in passato (vedi il box 1).

VARIABILITA’ NELL’ASSORBIMENTO

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Sia il ritmo che l’entità dell’assorbimento dei farmaci può variare tra pazienti diversi. Di conseguenza, sia il

tempo che l’intensità delle risposte possono essere modificate. Le differenze nella produzione sono la

causa principale di variabilità nell’assorbimento dei farmaci. Altre cause includono la presenza o l’assenza

di cibo, diarrea o costipazione, e differenze nello svuotamento gastrico.

Biodisponibilità

Il termine biodisponibilità si riferisce alla capacità di un farmaco di raggiungere la circolazione sistemica dal

proprio sito di somministrazione. Preparazioni diverse dello stesso farmaco possono modificare la

biodisponibilità. Questi fattori come il tempo di disintegrazione delle compresse, i rivestimenti enterici, e le

formulazioni a rilascio protratto possono alterare la biodisponibilità, e quindi possono rendere le risposte ai

farmaci variabili.

Le differenze di biodisponibilità avvengono principalmente con le preparazioni orali e non con le

preparazioni parenterali. Fortunatamente, anche con gli agenti orali, quando esistono differenze di

biodisponibilità tra diverse preparazioni, queste differenze sono così piccole che non hanno alcun

significato clinico.

Le differenze di biodisponibilità determinano delle forti preoccupazioni per farmaci con un

intervallo terapeutico stretto. Perché? Perché con questi agenti, una modificazione relativamente piccola

del livello plasmatico può produrre una significativa modificazione della risposta: un piccolo declino del

livello del farmaco può causare il fallimento terapeutico, mentre un piccolo aumento del livello del farmaco

può causare tossicità. In queste condizioni, le differenze di biodisponibilità possono avere un impatto

significativo.

Altre cause di assorbimento variabile

Molti altri fattori oltre alla biodisponibilità possono alterare l’assorbimento dei farmaci, e quindi portare a

variazioni delle risposte farmacologiche. Le alterazioni del pH gastrico possono influenzare l’assorbimento

attraverso l’effetto di ripartizione da pH. Per farmaci il cui assorbimento avviene nell’intestino,

l’assorbimento sarà ritardato quando lo svuotamento gastrico è prolungato. La diarrea può ridurre

l’assorbimento accelerando il trasporto dei farmaci attraverso l’intestino. Al contrario, la costipazione può

aumentare l’assorbimento prolungando il tempo disponibile per l’assorbimento. La presenza di cibo nello

stomaco tende a rallentare l’assorbimento di molti farmaci, senza ridurre la quantità totale assorbita.

Tuttavia, in alcuni casi, il cibo può diminuire anche l’entità dell’assorbimento. Per esempio, l’assorbimento

delle tetracicline sarà sostanzialmente ridotto se il farmaco è ingerito insieme al latte o ai latticini che

contengono calcio. Infine, ci sono molteplici meccanismi attraverso cui le interazioni farmacologiche

possono diminuire o aumentare l’assorbimento.

GENETICA

La composizione genetica unica dei pazienti può portare a risposte farmacologiche che sono

quantitativamente o qualitativamente differenti da quelle della popolazione in toto. Gli effetti avversi e

quelli terapeutici possono essere modificati. Le principali cause responsabili di risposte alterate sono

alterazioni di geni che codificano per enzimi del metabolismo farmacologico e per bersagli farmacologici

(per es. i recettori).

La farmacogenetica – lo studio di come l’ereditarietà influenza le risposte individuali ai farmaci – è

un’area attiva di ricerca. In futuro, l’analisi farmacogenetica dovrebbe consentirci di scegliere un farmaco e

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una dose che sono i migliori per il genotipo di un determinato paziente, riducendo quindi il rischio di

reazioni avverse, aumentando la probabilità di una forte risposta terapeutica, e diminuendo il costo, la non

convenienza, ed il rischio associati con la prescrizione di un farmaco a cui è improbabile che il paziente

risponda.

Alterato metabolismo farmacologico

Il meccanismo più frequente attraverso cui le differenze genetiche modificano le risposte farmacologiche è

attraverso la produzione di enzimi alterati del metabolismo farmacologico. Queste modificazioni dovute ai

geni possono sia accelerare che ritardare il metabolismo di molti farmaci, come è illustrato dai seguenti

esempi:

• Circa 1 Europeo in 3500 metabolizza la succinilcolina (un rilassante muscolare) molto lentamente, a

causa della produzione di una forma alterata di butirrilcolinesterasi, l’enzima che, nella

maggioranza delle persone, metabolizza il farmaco molto velocemente. Se viene data la

succinilcolina, le persone con l’enzima anormale possono andare incontro ad una paralisi che si può

prolungare pericolosamente.

• Tra i bianchi Americani, il 52% circa metabolizzano l’isoniazide (un farmaco per la tubercolosi)

lentamente ed il 48% lo metabolizzano rapidamente. Perché? Perché, a causa di differenze

genetiche, queste persone producono due forme diverse di N-acetiltransferasi2, l’enzima che

metabolizza l’isoniazide. Se il dosaggio non viene modificato per obbedire a queste differenze, i

metabolizzatori rapidi potranno andare incontro ad un fallimento terapeutico ed il metabolizzatori

lenti possono andare incontro a tossicità.

• Negli Stati Uniti, l’1% circa della popolazione produce una forma di diidropirimidina deidrogenasi

che metabolizza poco il fluorouracile, un farmaco usato per trattare il cancro. Molte persone con

questa diversità ereditaria, quando hanno ricevuto dosi standard del farmaco, sono morte per

danno al sistema nervoso centrale a causa dell’accumulo del farmaco fino a livelli tossici.

Per farmaci che hanno un elevato indice terapeutico (IT), un ritmo alterato del metabolismo può

influenzare il risultato clinico. Tuttavia, se l’IT è basso, allora aumenti dei livelli farmacologici relativamente

piccoli possono portare a tossicità, e diminuzioni relativamente piccole possono portare a fallimento

terapeutico. Chiaramente, in questi casi, ritmi alterati del metabolismo possono avere un grande

significato clinico.

Bersagli farmacologici alterati

Le variazioni genetiche possono alterare la struttura dei recettori farmacologici e di altre molecole

bersaglio, e possono quindi influenzare le risposte farmacologiche. Per esempio, gli effetti positivi della

pravastatina (usata per abbassare il colesterolo) sono fortemente ridotti in pazienti con una forma variata

del gene che codifica per l’HMG-CoA reduttasi, l’enzima che la pravastatina inibisce per produrre i propri

effetti. Altri esempi includono le risposte farmacologiche alterate a causa di variazioni nei geni che

codificano per i recettori β2-adrenergici (importanti per la terapia delle cardiopatie e dell’asma). I recettori

per la dopamina (importanti nel trattamento della schizofrenia), ed i recettori degli estrogeni (importanti

per il trattamento dell’osteoporosi).

Altri modi in cui la genetica può influenzare le risposte farmacologiche

Alcune risposte farmacologiche geneticamente determinate sono basate su fattori diversi dal metabolismo

farmacologico o dai bersagli farmacologici. Per esempio, alcuni individui hanno globuli rossi che sono

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deficienti di un enzima chiamato glucoso-6-fosfato deidrogenasi. Questa deficienza li espone al rischio di

emolisi (distruzione dei globuli rossi) se viene data aspirina, sulfanilamide (un antibiotico), primachina (un

agente antimalarico), e alcuni altri farmaci. Il 10% circa di Afroamericani di sesso maschile e molti maschi

mediorientali e mediterranei sono soggetti a questa reazione su base genetica. Di seguito altri cinque

esempi:

•Approssimativamente 1 Caucasico su 14 ha una forma di citocromo P450 che è incapace di convertire la

codeina in morfina, la forma attiva della codeina. Di conseguenza, in queste persone la codeina non ha

effetto anti-dolorifico.

•Il Trastuzumab [Herceptin], un farmaco per il tumore del seno, funziona solo contro i tumori che

esprimono la proteina HER2 in eccesso.

•Il tamoxifene [Nolvadex] può prevenire lo sviluppo del cancro del seno in donne ad alto rischio – ma solo

in donne con mutazioni nel gene BRCA2, e non del gene BRCA1.

• Differenze ereditarie dei fattori della coagulazione aumentano il rischio di trombosi venosa profonda in

donne che usano contraccettivi orali.

•Pazienti con variazioni genetiche dei trasportatori di ioni sodio e potassio presentano un rischio

aumentato di sindrome della QT lunga indotta da farmaci.

GENERE

Uomini e donne possono rispondere diversamente allo stesso farmaco. Un farmaco può essere più efficace

negli uomini rispetto alle donne, o viceversa. Allo stesso modo, gli effetti avversi possono essere più intensi

negli uomini rispetto alle donne. Perché? Perché, fino a poco tempo fa, essenzialmente tutta la ricerca

farmacologica era compiuta sull’uomo. Nonostante ciò, è stata fatta abbastanza ricerca per indicare che le

differenze di genere esistono realmente. Di seguito tre esempi:

• L’alcol è metabolizzato più lentamente dalle donne rispetto agli uomini. Di conseguenza, una

donna che beve la stessa quantità di un uomo (normalizzata per il peso) si intossicherà di più.

• Alcuni analgesici oppioidi (per es. pentazocina, nalbufina) sono molto più efficaci nelle donne che

negli uomini. Di conseguenza, l’effetto antidolorifico si ottiene con dosi più basse nelle donne.

• La Quinidina causa un prolungamento dell’intervallo QT maggiore nelle donne rispetto agli uomini.

Di conseguenza, le donne che prendono questo farmaco hanno una maggiore probabilità di

sviluppare torsione di punta, un’aritmia cardiaca potenzialmente fatale.

Ne 1977, la Food and Drug Administration (FDA) ha messo sotto pressione le aziende farmaceutiche per

includere anche le donne negli studi clinici sui nuovi farmaci, specialmente i farmaci verso malattie gravi o

potenzialmente fatali. Le informazioni generate da questi studi consentiranno che la terapia farmacologica

nelle donne sia la più razionale possibile. Nel frattempo, i clinici dovrebbero considerare che le

informazioni disponibili al momento potrebbero non predire accuratamente le risposte nelle pazienti di

sesso femminile. Quindi, i clinici dovrebbe essere attenti sui fallimenti terapeutici e su effetti avversi

inaspettati.

E’ importante apprezzare che le differenze nelle risposte farmacologiche correlate al genere o alla

razza sono, in ultima analisi, su base genetica. Quindi, questi fattori devono essere considerati

un’estensione della discussione sui fattori genetici.

RAZZA

Le risposte farmacologiche correlate alla razza hanno due determinanti principali: variazioni genetiche e

fattori psicosociali. Quindi, in un certo grado, questa discussione è un’estensione sui fattori genetici.

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Tuttavia, bisogna tenere presente che, oltre alla genetica, i fattori psicosociali sono importanti determinanti

di come gli individui in uno specifico gruppo etnico rispondono ai farmaci.

In generale, la “razza” non aiuta molto come base per predire variazioni individuali nelle risposte

farmacologiche. Perché? Per cominciare, la razza è quasi impossibile da definire. La definiamo per il colore

della pelle ed altre caratteristiche superficiali? O la definiamo attraverso gruppi genetici? Se definiamo la

razza attraverso il colore della pelle, quanto scura deve essere la pelle, per esempio, per definire un

paziente come “nero”? D’altro canto, se definiamo la razza attraverso il gruppo genetico, quanti antenati

neri deve avere un Afro-Americano per essere considerato geneticamente “nero”? E cosa dire della

maggioranza delle persone i cui antenati sono geneticamente eterogenei? I Latino-Americani, per esempio,

rappresentano un miscuglio di molteplici retroterra etnici che provengono da tre continenti. Penso che il

quadro sia sufficientemente chiaro adesso. Quindi, se un prescrittore non può neanche decidere a quale

“razza” appartiene un paziente, sembrerebbe molto difficile usare la razza come base per prendere

decisioni terapeutiche.

Ovviamente, ciò di cui ci dobbiamo curare davvero non è la razza di per sé, ma piuttosto gli specifici

fattori genetici e psicosociali – condivisi da molti membri di un determinato gruppo etnico - che influenzano

le risposte farmacologiche. Con questo tipo di conoscenze, possiamo identificare i membri del gruppo che

condividono questi fattori genetici e/o psicosociali ed, in conseguenza, tagliare su misura una terapia

farmacologica. Forse ancora più importante, è che l’applicazione di queste conoscenze non è limitata a

membri del gruppo etnico da cui derivano queste conoscenze: possiamo usarle per la gestione di tutti i

pazienti, indipendentemente dal retroterra etnico. Come può essere? A causa della eterogeneità etnica,

questi fattori non sono limitati ai membri di una determinata razza. Quindi, una volta che conosciamo un

determinato fattore (per es. una specifica variazione genetica), possiamo valutare tutti i pazienti per quel

fattore, e, se è presente, modificare la terapia farmacologica secondo le dovute indicazioni.

La discussione sulla terapia basata sulla razza sarebbe incompleta senza menzionare BiDil, una

combinazione a dosi fisse di due vadodilatatori: isosorbide dinitrato (ISDN) ed idralazina, entrambi

disponibili separatamente da molti anni. Nel 2005, BiDil è divenuto il primo prodotto approvato dall’FDA

per trattare solo membri di una determinata razza, specificamente, Afro-Americana. L’approvazione si è

basata sui risultati dell’African-American Heart Failure Trial (A-HeFT), in cui si dimostrava che, in pazienti

neri auto-analizzati, aggiungendo ISDN più idralazina alla terapia standard dell’insufficienza cardiaca si

riduceva la mortalità ad 1 anno del 43% - un risultato molto positivamente impressionante. Il BiDil

beneficia gli Afro-Americani di più che i bianchi? Non lo sappiamo: poiché non sono stati arruolati pazienti

bianchi nel A-HeFT, il paragone non può essere fatto. Anche se BiDil è stato approvato per trattare uno

specifico gruppo razziale, non ci sono prove che non potrebbe funzionare allo stesso modo (o anche

meglio) in qualche altro gruppo. Allora perché è stato compiuto lo studio A-HeFT? In parte perché dati più

vecchi suggerivano un possibile aumentato beneficio nei pazienti neri. Tuttavia, la ragione principale

sembra essere una combinazione di incentivi regolatori e di mercato, che ha reso vantaggioso per

NitroMed, l’azienda produttrice di BiDil, limitare la ricerca ai neri. La storia è stata questa. NitroMed

possiede due brevetti su BiDil, una per la combinazione a dosi fisse in sé, ed una per usare questa

combinazione in pazienti di colore. Ottenendo l’approvazione FDA per i soli pazienti neri, la NitroMed ha

acquisito l’esclusività del brevetto fino al 2020 – 13 anni in più rispetto a quanto avrebbe ottenuto senza

un’indicazione specifica di razza. Ovviamente, ora che BiDil è approvato, i medici lo possono prescrivere a

chiunque. Quindi la tattica di ottenere un’approvazione specifica per la razza non limita effettivamente il

numero dei pazienti di cui NitroMed può approfittare. E’ un gran Paese o no?

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NON PRENDERE LE MEDICINE PRESCRITTE

I medicamenti non sono sempre somministrati come prescritto: l’entità del dosaggio e la tempistica

possono essere alterati, le dosi possono non essere assunte, e possono essere prese dosi in eccesso. Il non

somministrare i medicamenti secondo le prescrizioni è una spiegazione frequente della variabilità nella

risposta di una dose prescritta. Di regola, questa mancanza è la conseguenza o di una scarsa aderenza

(compliance) del paziente o di errori terapeutici compiuti dall’equipe sanitaria.

Può essere difficile ottenere l’aderenza. I fattori che possono influenzare l’aderenza sono la

destrezza manuale, acuità visiva, la capacità intellettuale, lo stato psicologico, l’attitudine verso i farmaci, e

la possibilità di pagare i medicamenti. Può essere d’aiuto per migliorare l’aderenza che l’educazione del

paziente sia chiara e convincente, e questo può quindi aiutare a ridurre la variabilità.

Gli errori farmacologici sono una ovvia sorgente di variazione individuale. Gli errori terapeutici

possono avere origine dai medici, infermieri, tecnici, e farmacisti. Tuttavia, dal momento che di solito

l’infermiere è l’ultimo membro della squadra sanitaria a controllare i medicamenti prima della

somministrazione, in ultima analisi è responsabilità dell’infermiere assicurarsi che gli errori terapeutici

vengano evitati.

INTERAZIONI FARMACOLOGICHE

Un’interazione farmacologica è un processo in cui un farmaco altera gli effetti di un altro. Le interazioni

farmacologiche possono essere una sorgente importante di variabilità.

DIETA

La dieta può influenzare le risposte ai farmaci, principalmente influenzando lo stato di salute generale del

paziente. Una dieta che promuove una buona salute può consentire ai farmaci di esplicare le risposte

terapeutiche ed aumentare la capacità del paziente a tollerare gli effetti avversi. Una nutrizione scarsa può

avere effetto opposto.

La fame può ridurre il legame dei farmaci alle proteine (diminuendo il livello delle albumine

plasmatiche). A causa del ridotto legame, si innalza il livello dei farmaci liberi, e ciò rende la risposta

farmacologica più intensa. Per alcuni farmaci (per es., il warfarin, un anticoagulante), il risultante aumento

degli effetti potrebbe rivelarsi disastroso.

Nonostante che la nutrizione possa influenzare le risposte farmacologiche attraverso il meccanismo

generale esposto, ci sono solo pochi esempi di uno specifico nutriente che influenzi la risposta ad un

farmaco specifico. Forse il miglior esempio coinvolge gli inibitori della monoaminossidasi (MAO), farmaci

usati per trattare la depressione. L’evento avverso più grave di questi farmaci è l’ipertensione maligna, che

può essere precipitata da cibi che contengono tiramina, un prodotto della degradazione dell’amminoacido

tirosina. Di conseguenza, i pazienti che prendono gli inibitori della MAO devono evitare rigidamente tutti i

cibi ricchi di tiramina (per es., il fegato di manzo, formaggi stagionati, prodotti dei lieviti, vino Chianti).

Punti Chiave

▪ Per massimizzare il beneficio delle risposte farmacologiche e minimizzarne i danni, bisogna

modificare la terapia tenendo conto delle sorgenti di variabilità individuale.

▪ Di regola, pazienti piccoli hanno bisogno di dosi inferiori rispetto a pazienti di grandi dimensioni.

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▪ Modificazioni del dosaggio fatti tenendo conto delle dimensioni si basano spesso sull’area della

superficie corporea, piuttosto che semplicemente sul peso corporeo.

▪ I bambini piccoli e gli anziani sono più sensibili ai farmaci rispetto ai bambini più grandi ed ai giovani

adulti.

▪ Le malattie del rene possono diminuire l’escrezione dei farmaci, elevando quindi i livelli del

farmaco. Per prevenire la tossicità, i farmaci che sono eliminati attraverso il rene dovrebbero essere

somministrati ad un dosaggio più basso.

▪ Le malattie del fegato possono diminuire il metabolismo dei farmaci, elevando quindi i livelli del

farmaco. Per prevenire la tossicità, i farmaci che sono eliminati attraverso il fegato dovrebbero essere

somministrati ad un dosaggio più basso.

▪ Quando un paziente diventa tollerante ad un farmaco, il dosaggio deve essere aumentato per

mantenere gli effetti desiderati.

▪ La tolleranza farmacodinamica risulta da modificazioni adattative che avvengono in risposta ad una

prolungata esposizione al farmaco. La tolleranza farmacodinamica aumenta la MEC di un farmaco.

▪ La tolleranza farmacocinetica risulta da un metabolismo accelerato del farmaco. La tolleranza

farmacocinetica non aumenta la MEC.

▪ Un effetto placebo è definito come la componente della risposta farmacologica che può essere

attribuita a fattori psicologici, piuttosto che a dirette azioni fisiologiche o biochimiche del farmaco. Non ci

sono prove solide che gli effetti placebo siano reali.

▪ La biodisponibilità si riferisce alla capacità del farmaco di raggiungere la circolazione sistemica dal

proprio sito di somministrazione.

▪ Le differenze di biodisponibilità preoccupano principalmente con farmaci che posseggono un

intervallo terapeutico ristretto.

▪ Alterazioni dei geni che codificano gli enzimi del metabolismo farmacologico possono risultare in

aumento o diminuzione del metabolismo di molti farmaci.

▪ Variazioni genetiche possono alterare la struttura dei recettori farmacologici e di altre molecole

bersaglio, e possono quindi influenzare le risposte farmacologiche.

▪ Gli effetti terapeutici ed avversi dei farmaci possono variare tra maschi e femmine.

Sfortunatamente, per la maggior parte dei farmaci, non ci sono dati sufficienti per stabilire quali differenze

ci possono essere.

▪ La razza non è un buon fattore di predizione delle risposte farmacologiche. Quello che davvero

conta non è la razza, ma piuttosto delle variazioni genetiche specifiche e fattori psicosociali, condivise dal

alcuni membri del gruppo, e che possono influenzare le risposte farmacologiche.

▪ Una scarsa aderenza del paziente è una sorgente importante di variabilità individuale.

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Argomento di interesse speciale

Box 1: Il placebo ha perso il proprio effetto?

Nel 1955, H.K. Beecher ha scritto il suo famoso articolo –“il potente placebo”- che è stato annunciato come

una solida prova della credenza datata da lungo tempo (ma largamente non provata) che il placebo possa

efficacemente alleviare i sintomi in molti pazienti. Questo articolo ampiamente citato non è stato mai

discusso fino al 2001, quando due scienziati Danesi – Hròbjartsson e Gotzsche – hanno scritto il loro articolo

su questo argomento, intitolato “Il placebo è senza potere?” Dalla loro ricerca, i Danesi hanno concluso

che, almeno nel contesto di studi clinici, il trattamento con placebo ha ben poco o addirittura nessun

effetto misurabile. Chi ha ragione? Prendiamo in considerazione entrambi gli articoli per poter decidere.

Beecher ha analizzato i dati di 15 studi clinici controllati con placebo. In tutti questi studi, i pazienti

nei gruppi placebo erano valutati all’inizio, trattati con placebo per il tempo dovuto, e quindi ri-valutati.

Quindi Beecher ha controllato se c’era stato un miglioramento tra l’inizio e la fine del trattamento. In base

alle proprie analisi, ha concluso “è evidente che i placebo hanno un elevato grado di efficacia, un deciso

miglioramento…è stato prodotto nel 35,2% dei casi”. Molto impressionante. Sfortunatamente c’è una

crepa in queste conclusioni: come sappiamo in che modo i placebo hanno prodotto un miglioramento?

Forse il 35,2% dei pazienti sarebbero migliorati comunque anche senza trattamento, a causa

semplicemente del corso naturale della malattia o per altri fattori. Dopo tutto, molte persone stanno

meglio per proprio conto – senza medici, farmaci, placebo, o altro. Inoltre, nonostante Beecher dica di aver

selezionato i 15 articoli in modo casuale, ciò sembra improbabile in quanto ben 7 di questi articoli erano

suoi.

Per rispondere ai dubbi suscitati da Beecher, Hrobjartsson e Gotzsche hanno seguito un approccio

diverso. Per prima cosa, hanno analizzato i dati di 114 studi pubblicati – non solamente 15. Erano coinvolti

più di 8500 pazienti. Era ancora più importante che in tutti questi studi, il trattamento con placebo era

paragonato ad un’assenza di trattamento.

Cioè, in ciascuno studio, alcuni soggetti ricevevano il placebo ed alcuni non ricevevano nessun trattamento.

(ovviamente, nella maggioranza [112] degli studi, c’era un altro gruppo che riceveva un trattamento attivo).

Gli studi coinvolgevano 40 condizioni cliniche, tra cui anemia, asma, ipertensione, iperglicemia, epilessia,

malattia di Parkinson, schizofrenia, depressione, fumo e dolore. In 38 studi, il risultato misurato era

oggettivo (per es., riduzione della pressione arteriosa, aumento del numero dei globuli rossi), ed in 76 il

risultato era soggettivo (per es., miglioramento dell’umore, riduzione del dolore). Di 114 studi, 45

valutavano interventi farmacologici, 26 valutavano interventi fisici, e 43 valutavano interventi psicologici. Il

tipo di placebo impiegato dipendeva dal trattamento attivo: per gli studi farmacologici, il placebo tipico

consisteva nel dare una pillola di lattosio; per gli studi fisici, (per es., valutare l’effetto della stimolazione

elettrica transcutanea dei nervi sul dolore), il trattamento placebo tipico era attuare la procedura a

strumenti elettrici spenti; e per gli studi psicologici (per es., valutare l’effetto della psicoterapia sulla

depressione), il trattamento placebo tipico consisteva in una discussione non indirizzata, neutra tra il

paziente e lo psicoterapeuta.

Che cosa ha rivelato l’analisi ? negli studi con risultati oggettivi, il trattamento con placebo

virtualmente non ha avuto effetti misurabili: i risultati in pazienti che avevano ricevuto il trattamento con

placebo erano identici a quelli di pazienti che non avevano ricevuto nessun trattamento. Tuttavia, in alcuni

studi con risultati soggettivi, il trattamento placebo ha avuto un effetto convincente – ma era piccolo e

limitato principalmente agli studi sul dolore. Nelle loro conclusioni, gli autori hanno affermato, “Abbiamo

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trovato scarse evidenze che i placebo in generale abbiano effetti clinici potenti,” anche se continuano

dicendo che hanno trovato “effetti significativi del placebo … nel trattamento del dolore.” Inoltre,

concedono che la loro analisi “lascia aperto il problema se gli effetti placebo nella pratica clinica

differiscono dagli effetti placebo nei soggetti delle ricerche.”

La storia è quindi alla fine? L’effetto placebo è davvero soltanto un mito? Bene, non si può davvero

dire. Si, lo studio Danese, che era nettamente migliore rispetto a quello di Beecher, non è riuscito a trovare

un effetto potente con il trattamento placebo. Tuttavia, ciò non prova che l’effetto placebo non esista.

Piuttosto, indica semplicemente che non si può misurare facilmente un effetto placebo negli studi clinici. Ci

sono buoni argomenti a sostegno di questa possibilità:

• Se la risposta placebo si basa principalmente sulla relazione medico-paziente, allora, anche se una

risposta placebo esiste, non sarebbe visibile negli studi clinici – in quanto i soggetti che ricevono il

trattamento placebo e quelli che non ricevono alcun trattamento condividono comunque la stessa

relazione con il medico.

• Le risposte placebo (assumendo che esistano) si basano sulla fiducia incondizionata del paziente

che egli stia assumendo un trattamento efficace. Tuttavia, negli studi clinici, c’è sempre il dubbio –

in quanto tutti i partecipanti sono consapevoli che possono aver assunto un placebo, piuttosto che

il farmaco attivo. In presenza di un dubbio significativo, l’effetto placebo potrebbe essere

notevolmente diminuito. Se ciò è vero, non ci si potrebbe aspettare l’effetto placebo negli studi

clinici.

• Se l’effetto placebo esiste solo nella pratica reale – e non negli studi clinici – provare la sua

esistenza potrebbe rivelarsi impossibile. Perché? Perché dobbiamo compiere degli studi clinici per

provare la sua esistenza – e sappiamo già che negli studi clinici non possiamo vederlo.

Qual è quindi il punto? Primo, a causa di una forte debolezza del disegno sperimentale, lo studio di

Beecher non costituisce una prova che il placebo abbia effetti benefici. Secondo, usando un disegno più

appropriato, Hrobjartsson e Gotzsche hanno dimostrato che, nel contesto di studi clinici, gli interventi

placebo sono per lo più privi di effetti misurabili – con l’eccezione che producono una modesta riduzione

del dolore. Terzo, nonostante che Hrobjartsson e Gotzsche non abbiano documentato un effetto placebo, il

loro studio non ha esplorato la possibilità che, nel mondo reale, i trattamenti placebo possano

effettivamente essere di beneficio. Tuttavia, ciò deve ancora essere provato, e forse non lo sarà mai.