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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI Ver. 01 CAP. 58 - MECCANISMI DI DEGRADO NEI VEICOLI IN AMBIENTE SPAZIALE Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini prese nti nel testo senza autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633. G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 1 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale Politecnico di Milano 58. MECCANISMI DI DEGRADO NEI VEICOLI IN AMBIENTE SPAZIALE Sinossi materiali impiegati su veicoli spaziali e satelliti ed in particolare sulle superfici esterne, sono soggetti a numerose situazioni che possono indurre degradazione. Queste situazioni includono l'esposizione a radiazioni fotoniche o di particelle cariche, a temperature estreme o cicli termici (che comportano comunemente per un veicolo orbitante variazioni a +/- 100 °C), a impatti da micrometeoriti o detriti, a contaminazioni e a ossigeno atomico. I potenziali danni indotti dall'ambiente spaziale variano ampiamente a seconda del materiale e dell'ambiente operativo. Le variabili ambientali includono i parametri orbitali della missione, la durata, i cicli solari ed i relativi eventi, l'orientamento delle superfici rispetto al sole e rispetto al vettore velocità nelle missioni in bassa orbita (LEO - Low Earth Orbit). Ciascuna missione ha il proprio caratteristico insieme di condizioni di esposizione che deve essere compreso per la selezione dei materiali da impiegare o per l'interpretazione dei fenomeni degradativi osservati. Così, ad esempio, mentre missioni orbitali LEO richiedono attenta considerazione agli effetti dell'ossigeno atomico, missioni in alta orbita o interplanetarie richiedono maggiore attenzione agli effetti di radiazioni o di particelle ad alta energia. Situazioni critiche per l'operatività di un sistema spaziale (veicolo o satellite) possono derivare dalla variazione delle proprietà meccaniche dei componenti impiegati, quali ad esempio l'assottigliamento o infragilimento dei materiali destinati a sopportare sollecitazioni meccaniche oppure la rottura e asportazione di materiale di protezione termica. Le proprietà fondamentali per la funzionalità di un sistema spaziale comprendono l'integrità strutturale e le proprietà termo-ottiche delle superfici esterne. Le temperature operative di un sistema spaziale sono affidate anche ai valori di assorbanza ed emissività termica delle superfici esterne, cioè alla capacità delle superfici di assorbire o irradiare energia termica. La variazione delle proprietà termo-ottiche può causare una variazione delle temperature del sistema spaziale o di alcuni suoi componenti. La perdita di trasmittanza attraverso i materiali di protezione di celle solari, ad esempio a seguito di contaminazione, può determinare una riduzione della resa dei generatori di energia e della potenza dell'intero sistema. L'esposizione a radiazioni spaziali di conduttori elettrici può indurre degradazione nei materiali di isolamento elettrico, in genere polimerici. Lo studio dei fenomeni degradativi di materiali spaziali può essere affrontato sia mediante esposizioni reali in ambiente spaziale che in prove a terra. Tuttavia, la CAPITOLO 58 I

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 58 - MECCANISMI DI DEGRADO NEI VEICOLI IN AMBIENTE SPAZIALE

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza

autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 1 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

58. MECCANISMI DI DEGRADO NEI

VEICOLI IN AMBIENTE

SPAZIALE

Sinossi

materiali impiegati su veicoli spaziali e satelliti ed

in particolare sulle superfici esterne, sono soggetti a

numerose situazioni che possono indurre

degradazione. Queste situazioni includono

l'esposizione a radiazioni fotoniche o di particelle

cariche, a temperature estreme o cicli termici (che

comportano comunemente per un veicolo orbitante

variazioni a +/- 100 °C), a impatti da micrometeoriti o

detriti, a contaminazioni e a ossigeno atomico. I

potenziali danni indotti dall'ambiente spaziale variano

ampiamente a seconda del materiale e dell'ambiente

operativo. Le variabili ambientali includono i

parametri orbitali della missione, la durata, i cicli

solari ed i relativi eventi, l'orientamento delle superfici

rispetto al sole e rispetto al vettore velocità nelle

missioni in bassa orbita (LEO - Low Earth Orbit).

Ciascuna missione ha il proprio caratteristico insieme

di condizioni di esposizione che deve essere compreso

per la selezione dei materiali da impiegare o per

l'interpretazione dei fenomeni degradativi osservati.

Così, ad esempio, mentre missioni orbitali LEO

richiedono attenta considerazione agli effetti

dell'ossigeno atomico, missioni in alta orbita o

interplanetarie richiedono maggiore attenzione agli

effetti di radiazioni o di particelle ad alta energia.

Situazioni critiche per l'operatività di un sistema spaziale

(veicolo o satellite) possono derivare dalla variazione

delle proprietà meccaniche dei componenti impiegati,

quali ad esempio l'assottigliamento o infragilimento dei

materiali destinati a sopportare sollecitazioni meccaniche

oppure la rottura e asportazione di materiale di protezione

termica.

Le proprietà fondamentali per la funzionalità di un sistema

spaziale comprendono l'integrità strutturale e le proprietà

termo-ottiche delle superfici esterne. Le temperature

operative di un sistema spaziale sono affidate anche ai

valori di assorbanza ed emissività termica delle superfici

esterne, cioè alla capacità delle superfici di assorbire o

irradiare energia termica. La variazione delle proprietà

termo-ottiche può causare una variazione delle

temperature del sistema spaziale o di alcuni suoi

componenti. La perdita di trasmittanza attraverso i

materiali di protezione di celle solari, ad esempio a

seguito di contaminazione, può determinare una riduzione

della resa dei generatori di energia e della potenza

dell'intero sistema. L'esposizione a radiazioni spaziali di

conduttori elettrici può indurre degradazione nei materiali

di isolamento elettrico, in genere polimerici.

Lo studio dei fenomeni degradativi di materiali spaziali

può essere affrontato sia mediante esposizioni reali in

ambiente spaziale che in prove a terra. Tuttavia, la

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difficoltà di recuperare materiali dopo missioni nello

spazio e/o di discriminare l'effetto combinato di diversi

meccanismi di degrado rende a volte problematica la

prima soluzione. D'altra parte, prove in laboratorio,

eventualmente accelerate incrementando i livelli di

esposizione ad ambiente aggressivo, consentono di

separare gli effetti di diversi meccanismi di degrado,

ma richiedono complesse calibrazioni e valutazioni

accurate per potere interpretare i fenomeni e simulare

correttamente il reale effetto dell'ambiente spaziale.

Tutti i materiali possono subire fenomeni di degrado in

ambiente spaziale; tuttavia certamente i materiali

polimerici e i relativi compositi sono quelli

maggiormente suscettibili in questo senso. I materiali

polimerici tipicamente impiegati per queste

applicazioni, grazie alla loro superiore compatibilità

con ambienti critici, sono le polimmidi termoplastiche

o termoindurenti, i polimeri fluorurati, le epossidiche, i

polimeri siliconici.

In questo capitolo vengono descritte le specifiche

cause di pericolo soprattutto nel caso di superfici e

strutture esterne esposte ad ambiente spaziale. Sarà

fatto particolare riferimento agli effetti dell'ambiente in

orbita terrestre; tali condizioni sono state studiate a

seguito delle numerose missioni orbitali effettuate e ai

dati ottenuti sui materiali impiegati e recuperati. In

anni recenti sono stati condotti diversi programmi

sperimentali specifici (sei missioni Misse - Materials

International Space Station Experiment; MISSE 7 è

iniziata nel novembre 2009 ed è attualmente in corso;

missione LDEF - Long Duration Exposure Facility,

durata 69 mesi) che hanno consentito di recuperare,

dopo esposizione di alcuni anni nello spazio in LEO,

materiali e strumenti destinati alla costruzione,

protezione e controllo dei successivi sistemi spaziali.

Va infatti considerato che a fine vita sistemi satellitari

vengono generalmente distrutti o lasciati inutilizzati in

orbita.

In capitoli seguenti saranno invece esaminati materiali

e sistemi di protezione termica per condizioni di

temperature estreme, quali ad esempio quelle

incontrate dalle superfici aerodinamiche durante il

lancio e/o il rientro in atmosfera o dai materiali

impiegati nelle zone più calde dei propulsori.

58.1 Effetti dell'ossigeno atomico

ossigeno atomico si forma nell'ambiente in bassa

orbita (LEO - Low Earth Orbit) a seguito della

foto-dissociazione dell'ossigeno molecolare.

Radiazioni solari a bassa lunghezza d'onda (<243 nm)

hanno sufficiente energia per scindere il legame tra gli

atomi di ossigeno in un ambiente rarefatto, dove la

probabilità di riassociazione o di formazione di ozono

(O3) diventa molto bassa. Di conseguenza, ad altitudini

di 180-650 km l'ossigeno atomico è la specie a

maggiore concentrazione. La Figura 58.1 riporta la densità

delle specie gassose in atmosfera a diverse altitudini.

Figura 58.1 - Densità di gas atmosferici a diverse altitudini.

La concentrazione di ossigeno atomico (AO) varia in

relazione al ciclo solare notte-giorno, alla stagione, alla

direzione dell'orbita. La velocità termica dell'ossigeno

atomico in bassa orbita è piuttosto bassa per attivare

reazioni superficiali, ma a causa della velocità orbitale

(circa 7/8 Km/s), superfici esposte nella direzione di

avanzamento risultano bombardate da atomi di ossigeno

con energie di 4,5-5 eV, sufficienti a rompere i legami

chimici di molti dei materiali comunemente impiegati in

applicazioni spaziali. La Figura 58.2 mostra una

simulazione relativa al numero di atomi di ossigeno che

colpiscono in un anno una superficie di un ipotetico

veicolo orbitante.

Figura 58.2 - Atomi di ossigeno che colpiscono in un anno

una superficie di un ipotetico veicolo orbitante: dati

simulati.

Il numero di atomi che colpisce la superficie dipende dalla

direzione di esposizione rispetto alla direzione di

avanzamento; l'energia di impatto degli atomi che

raggiungono la superficie dipende dalla velocità orbitale,

L'

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dalla velocità di co-rotazione terrestre dell'atmosfera,

dalla velocità termica degli atomi, dall'altitudine.

Sebbene l'ossigeno atomico in LEO abbia sufficiente

energia per rompere i legami nella maggior parte dei

materiali organici e sia sufficiente per causare erosione

ossidativa nei polimeri, il fenomeno è stato poco

studiato e di scarso interesse fino all'avvio delle

missioni Space Shuttle. Infatti la maggior parte delle

missioni precedenti è avvenuta in alta orbita, dove la

concentrazione di AO è molto limitata. La Figura 58.3

mostra un'evidenza visiva dell'effetto dell'AO

sull'impennaggio di coda dello Shuttle: la formazione

sulla superficie di specie attivate con basso tempo di

vita è evidenziato dall'emissione di radiazioni nel

campo del visibile.

Figura 58.3 - Effetto dell'ossigeno atomico

sull'impennaggio di coda dello Shuttle in volo orbitale:

in alto, foto diurna; in basso foto notturna

L'AO può reagire con i polimeri, con il carbonio e con

molti metalli. Nella maggior parte dei polimeri la

reazione comporta l'estrazione di idrogeno e

l'addizione di ossigeno. La continua esposizione ad

AO determina ossidazione superficiale, formazione di

prodotti di ossidazione volatili e graduale erosione del

materiale organico. La sensibilità del polimero alla

reazione con AO viene quantificata dal rateo di erosione

inteso come volume di materiale asportato per ogni atomo

di ossigeno incidente. Il rateo di erosione meglio

caratterizzato è quello della polimmide Kapton H

(DuPont) che presenta una velocità di erosione di 3,0 * 10-

24 cm

3/atomo in orbita LEO con energia per l'ossigeno di

4,5 eV. La Tabella 58.1 riporta le velocità di erosione di

diversi materiali, soprattutto polimerici, misurate in

diversi esperimenti spaziali o stimate sulla base di modelli

predittivi. Per alcuni materiali, le diverse condizioni di

missione e/o l'interferenza del fenomeno dell'outgassing

nelle misure hanno introdotto un ampio margine di

incertezza sui risultati riportati in tabella.

La misura della velocità di erosione ES viene

generalmente effettuata valutando la perdita di massa MS

durante la missione:

ES = MS/(ASSF)

AS, S e F sono rispettivamente la superficie esposta, la

densità del materiale eroso, il numero totale di atomi

incidenti per cm2/anno.

L'ossigeno atomico può avere effetti ossidanti anche sulla

superficie di metalli; in questo caso, tuttavia, si producono

in genere ossidi metallici non volatili, protettivi per il

metallo sottostante. Un caso particolare è l'ossido di

argento, che tende a separarsi dal metallo, consentendo la

continua ossidazione; questa è una delle principali cause

di danneggiamento delle connessioni di celle solari in

argento operanti in LEO.

A seguito di interazione con AO, la superficie di polimeri

siliconici, flessibili, viene convertita a silice (SiO2), stabile

ma rigida e fragile. La formazione di cricche superficiali e

la continua reazione in profondità può portare alla

conversione del polimero in silice ceramica. La Figura

58.4 mostra la formazione di una cricca in un polimero

siliconico esposto a AO durante un test di laboratorio.

Superfici di materiali con prodotti di ossidazione volatili,

come i polimeri organici, presentano un continuo aumento

della rugosità a seguito di erosione da AO caratterizzati da

una particolare morfologia e con un valore di rugosità che

incrementa con la radice della quantità di atomi incidenti.

Oltre alla perdita di materiale, questo determina aumento

della riflessione diffusa e riduzione della emissività del

polimero.

La Figura 58.5 mostra le superfici di polimmide (Kapton

H), copolimero FEP (Teflon) e cloro-trifluoro etilene dopo

esposizione a AO (rispettivamente 2,3*1020

atomi/cm2,

7,78*1021

atomi/cm2, 8,99*10

21 atomi/cm

2).

Tabella 58.1 - - Rateo di erosione da ossigeno atomico di diversi materiali misurato sperimentalmente e valutato con simulazioni.

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Figura 58.4 - Micrografia SEM di una cricca in un

polimero siliconico (DC93-500) esposto a ossigeno

atomico (2,6*1021 atomi/cm2)

Figura 58.5 - Micrografie SEM di superfici di: a)

polimmide (Kapton H), b) copolimero FEP (Teflon), c)

polimero cloro-trifluoro etilene dopo esposizione a

ossigeno atomico in LEO

In generale, i polimeri fluorurati (es. FEP) presentano

maggiore resistenza a AO rispetto a polimmide

Kapton. A titolo di esempio, l'erosione da AO in orbita

LEO a 400 km di altitudine comporta tipicamente

riduzione di spessore di circa 100 m/anno nel caso di

Kapton e 12m/anno nel caso di FEP.

La presenza di pigmenti o particelle di ossidi metallici

nel polimero determina la graduale esposizione e

concentrazione delle particelle sulla superficie durante

l'erosione con un effetto schermante e la riduzione

della velocità di erosione nel tempo.

L'erosione di film sottili ha rappresentato per molti

anni uno dei problemi più critici per la funzionalità e la

durata di componenti spaziali. Allo scopo di ridurre la

velocità di degradazione del materiale superficiale

sono stati impiegati tre approcci: l'applicazione di film

protettivi in materiali diversi, la modifica superficiale

del polimero, l'impiego di polimeri contenenti elementi

metallici che sviluppano un rivestimento protettivo a

seguito di esposizione a AO.

La prima tecnica sviluppata e maggiormente usata è quella

di applicare un sottile rivestimento metallico, di ossido o

di polimero fluorurato caricato con ossidi metallici. Film

di silice, allumina, ossidi di indio/stagno, germanio,

silicio, alluminio, oro con spessori di alcune centinaia di

nm vengono tipicamente applicati mediante sputtering o

deposizione di vapore. Ad esempio, film di Kapton H per

le celle solari della Stazione Spaziale Internazionale (ISS)

sono rivestiti con uno strato di silice (SiO2) da 130 nm

applicato mediante sputtering. Sebbene siano sufficienti

pochi nm per una efficace protezione, lo spessore del

rivestimento deve coprire tutte le irregolarità superficiali

del materiale protetto. D'altra parte uno spessore eccessivo

facilita la rottura e il distacco del rivestimento a seguito di

sollecitazioni termiche o meccaniche. La co-deposizione

di PTFE (Teflon) con ossidi metallici consente di ottenere

rivestimenti con maggiore deformabilità. L'efficacia e la

durata del rivestimento protettivo sono funzione della

presenza di graffi o difetti superficiali ma la presenza di

130 nm di silice su Kapton può ridurre fino a meno dell' 1

% l'effetto di erosione di AO rispetto al materiale non

protetto. È necessario considerare, peraltro, che il

rivestimento può modificare sostanzialmente le

caratteristiche ottiche ed elettriche del film.

La modifica superficiale del polimero a fini protettivi

consiste nell'introdurre in superficie atomi metallici

mediante metodi fisici o atomi di silicio mediante

modifica chimica. In entrambi i casi l'efficacia è funzione

della concentrazione superficiale degli atomi metallici

introdotti.

Lo sviluppo di polimeri contenenti atomi inorganici ha

portato a diverse formulazioni contenenti complessi

organo-metallici e polimeri contenenti fosforo o silicio

(polidimetilsilossani) resistenti a AO. Anche in questo

caso la durata ad esposizione a ossigeno atomico risulta

funzione della densità superficiale degli elementi

inorganici.

58.2 Outgassing e contaminazione

esposizione dei materiali a condizioni di alto vuoto

può indurre diffusione, sublimazione ed

evaporazione delle sostanze più volatili. Tale fenomeno,

definito outgassing, risulta accelerato ed incrementato

quando l'alto vuoto è associato ad altri fattori degradativi

come AO, elevate temperature e radiazioni ad alta energia

(UV, raggi X, elettroni, protoni, ioni pesanti). La perdita

di materia per ougassing in genere non determina in sé un

problema per le caratteristiche del materiale coinvolto, ma

il materiale volatile spesso può depositarsi, condensare,

polimerizzare o degradare per effetto di temperatura e/o

radiazioni su superfici otticamente significative o

componenti elettrici/elettronici, variandone le

caratteristiche funzionali. Questi fenomeni possono ad

L'

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esempio modificare la resa energetica di pannelli

solari, influire sulla conducibilità e sulle caratteristiche

di isolamento di conduttori e isolanti nella

strumentazione di bordo, modificare la capacità di

dissipazione termica di superfici radianti, variandone i

valori di temperatura operativa.

Anche in questo caso i materiali polimerici risultano in

genere più critici rispetto ad altre tipologie di

materiali. Nel caso di metalli e ceramici le sostanze

volatili sono di regola in bassissima quantità e

derivano principalmente da corrosione,

contaminazione o sostanze gassose assorbite (ad es.

idrogeno, ossigeno, umidità); va tuttavia segnalato che

anche materiali metallici (ad esempio cadmio e stagno)

in condizioni di alta temperatura possono presentare

pressioni di vapore tali da determinare apprezzabile

volatilizzazione.

La quantità e la velocità di evoluzione delle sostanze

assorbite dipendono dalla loro solubilità, dalla velocità

di diffusione, dalla loro tensione di vapore. La

solubilità di sostanze volatili nei polimeri dipende

dalla reciproca affinità chimica. Polimeri costituiti

solamente da idrogeno e carbonio (ad esempio

poliolefinici come polietilene, polipropilene) o

contenenti elementi idrofobi come fluoro, cloro,

bromo, ecc., presentano assorbimento di umidità

praticamente nullo. Materiali contenenti ossigeno o

gruppi polari, come nylon, poliesteri, ecc., possono

invece assorbire umidità in quantità anche rilevante,

superiore ad alcune unità percentuali.

La velocità di diffusione attraverso il materiale può

essere valutata mediante la prima e la seconda legge di

Fick (vedi Cap.2). La prima legge di Fick esprime, nel

caso stazionario, il flusso J di atomi di diffondente che

attraversano una unità di superficie nell'unità di tempo

(atomi*m-2

*s-1

):

J = -D (dC/dx)

La seconda legge di Fick esprime, nel caso non

stazionario, la variazione di concentrazione locale C

del diffondente in funzione del tempo:

dx

dCD

dx

d

dt

dC

Si osserva che il flusso di diffusione dipende dal

gradiente di concentrazione del diffondente (dC/dx) e

dal coefficiente di diffusione D, il quale dipende a sua

volta in modo esponenziale dalla temperatura

(D=D0exp[-Q/(RT)], D0 = costante, Q = energia di

attivazione, R = costante dei gas, T = temperatura

assoluta). Se si considera che in condizioni di alto

vuoto la volatilizzazione dalla superficie è

normalmente rapida, e di conseguenza la

concentrazione superficiale piuttosto bassa, il rateo di

diffusione risulterà in generale tanto più elevato

quanto maggiore è il contenuto di sostanza volatile,

quanto minore è il percorso di diffusione (ad esempio

attraverso film sottili) e quanto maggiore è la temperatura.

Nei polimeri, le sostanze volatili derivano sia da composti

già presenti nel materiale al momento del lancio, sia da

sostanze che si formano a seguito di processi degradativi

che avvengono nell'ambiente operativo. Tra le prime si

trovano l'umidità assorbita, frazioni a basso peso

molecolare, eventuali residui di solventi, additivi

funzionali o di processo come plasticizzanti, lubrificanti,

stabilizzanti, antistatici, ecc.

Tutti i materiali polimerici, in misura diversa, assorbono

umidità dall'ambiente. La quantità di umidità assorbita a

saturazione, in genere limitata a poche unità o frazioni di

unità percentuali, dipende dalle condizioni ambientali e

dalla struttura chimica del polimero.

Gli additivi plasticizzanti vengono utilizzati per ridurre la

rigidezza, la fragilità e la temperatura di transizione

vetrosa (Tg) del polimero; questo consente di

flessibilizzare il materiale, riducendone la rigidezza ed

incrementandone la deformabilità anche a temperature

basse, ad esempio per impieghi quali film e tubazioni

flessibili, guarnizioni e sigillature, giunti deformabili,

adesivi flessibili, ecc. La diffusione e volatilizzazione di

plasticizzanti (e in modo simile di frazioni a basso peso

molecolare) può avere significativi effetti sulle

caratteristiche meccaniche del materiale. La perdita del

plasticizzante può determinare un incremento significativo

della Tg e una modifica sostanziale della rigidezza e della

tenacità del materiale; l'infragilimento di un film a seguito

di volatilizzazione di plasticizzante ad esempio può

portare facilmente a rotture e lacerazioni a seguito di

impatti, deformazioni o pieghe.

La diffusione di additivi, quali plasticizzanti, sostanze

volatili, lubrificanti, verso l'esterno del materiale può

comportare importanti effetti sulle proprietà di superficie.

Nel caso di incollaggi, ad esempio, la migrazione di

queste sostanze, che possono essere presenti sia

nell’adesivo che negli aderenti, verso l'interfaccia

adesivo/substrato provoca generalmente una degradazione

dell'efficienza di incollaggio con possibilità di cedimento

della giunzione. Inoltre la variazione di composizione

superficiale modifica le proprietà tribologiche ed

elettriche, spesso riducendo i coefficienti di attrito delle

superfici di contatto e/o la resistività degli isolanti.

L'esposizione ad alta temperatura e radiazioni determina,

invariabilmente, la degradazione del materiale durante la

sua vita operativa. I prodotti di degradazione di polimeri

sono generalmente frazioni di basso peso molecolare

derivanti dalla rottura delle catene polimeriche e prodotti

di ossidazione che, ancora, da un lato portano ad

invecchiamento del materiale e dall'altro possono indurre

contaminazione di componenti funzionali. Fonti di

contaminazione possono essere materiali strutturali,

rivestimenti, adesivi, isolanti come epossidiche, siliconi,

polimmidi, polimeri fluorurati, ecc.

I materiali impiegati, quindi, devono rispondere a criteri di

bassa volatilità e stabilità ad esposizione a radiazioni

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dettati da specifiche di missione e normative

internazionali. Test di outgassing vengono effettuati

valutando la perdita di peso del materiale dopo

mantenimento in condizioni di alto vuoto a

temperatura controllata e il recupero di peso dopo

esposizione ad ambiente umido. I principali parametri

valutati sono la perdita totale di massa (TML - total

mass loss), la frazione di materiale volatile

condensabile (CVCM - collected volatile condensable

material) e la quantità di vapore riassorbito (WVR -

water vapor regained). Le applicazioni spaziali

richiedono generalmente valori di TML<1% e

CVCM<0,1%.

La Tabella 58.2 riporta i valori per alcuni materiali

impiegati in campo spaziale. Va peraltro considerato

che i valori possono variare sensibilmente in funzione

della formulazione, della forma del materiale (film,

lastra spessa, adesivo, laminato composito, ecc.), di

eventuali trattamenti superficiali. Tra i materiali

particolarmente critici per l'outgassing sono i

lubrificanti; i comuni agenti impiegati in ambiente

terrestre presentano elevate tensioni di vapore e non

possono quindi essere impiegati in alto vuoto. In

ambito spaziale vengono quindi utilizzati sistemi a

base grafite o solfuro di molibdeno (MoS2).

Tabella 58.2 - Dati di outgassing di alcuni materiali di

interesse aerospaziale (da "Outgassing Data for

Selecting Spacecraft Materials", NASA Reference

Publication 1124 Rev-4)

materiale TML (%) CVCM

(%)

WVR

(%)

Kapton H 0,77 0.02 -

Kapton

alluminizzato

0,95 0 0,88

Mylar 0,76 0,02 0,29

Kevlar 29 3,13 0,19 1,76

Polimmide Larc CP1 0,40 0 0,23

Betacloth (fibra

vetro/PTFE) nero

0,04 0 0,01

PC Lexan 0,13 0,01 0,02

PMMA Plexiglass 0,81 0 0,29

Gomma siliconica 0,35 0,11 0,09

FEP Teflon 0,02 0,01 0,01

Epossidica EPON

929

0,60 0 -

Epossidica EPON

828

1,72 0,10 -

Composito

epossidica/CF

0,32 0,03 0,06

Composito

polimmide/vetro

0,63 0 0,33

Composito

epossidica vetro

0,43 0,01 0,14

Composito

PEEK/CF

0,06 0 0,03

Le sostanze derivanti da outgassing e/o da erosione da AO

possono condensare, contaminandole, su superfici esposte

del satellite/veicolo. Ulteriori fonti di contaminazione

sono i prodotti di combustione dei propulsori, impatto con

micrometeoriti/detriti, sistemi di ignizione e attivazione di

meccanismi di distacco, ecc. La Figura 58.6 mostra la

superficie frontale di un pannello solare della stazione

MIR contaminato da silice derivante dai prodotti di

ossidazione di polimeri siliconici a seguito di erosione AO

di superfici della stazione stessa. La Figura 58.7 mostra le

stazioni spaziali MIR (rientrata dopo 15 anni in orbita

LEO) e ISS (attualmente in orbita LEO da 11 anni); sono

particolarmente evidenti le ampie superfici delle celle

solari.

Contaminanti polimerici, in presenza di radiazioni UV e/o

particelle cariche (elettroni, protoni, ioni), arrivano a

formare un film polimerizzato sulle superfici che ne

variano le caratteristiche funzionali. La continua

deposizione e degradazione/reticolazione per effetto della

"cottura" indotta da radiazioni portano alla formazione di

un film opaco superficiale che varia le caratteristiche di

assorbimento di superfici trasparenti o riflettenti

modificandone sostanzialmente l'efficienza

Figura 58.6 - Superficie frontale di un pannello solare della

Stazione Spaziale MIR dopo 10 anni di operazione in LEO:

in alto - la contaminazione da composti del silicio forma un

diffuso deposito bianco; in basso - Micrografia SEM che

mostra il confronto tra la superficie contaminata (a destra) e

la superficie pulita (a sinistra).

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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 8 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

Figura 58.7 - Stazioni spaziali MIR (in alto) e ISS (in

basso. Sono evidenti le ampie superfici dei pannelli

solari.

Ad esempio, nel caso delle celle solari assemblate con

l'impiego di adesivi siliconici ad alta trasparenza e

resistenza termica, l'outgassing dell'adesivo crea una

"nube" di specie siliconiche volatili in prossimità dei

pannelli solari. Queste specie si possono depositare

durante le fasi fredde sulle superfici subendo

polimerizzazione UV durante le successive esposizioni

solari. Questo determina la formazione di polimeri ad

alto peso molecolare che aderiscono alle superfici

contaminandole. La Figura 58.8 mostra l'effetto di

contaminazione da silicone del vetro di rivestimento di

una cella. Va osservato che la contaminazione, come

anche gli altri effetti degradativi, agisce non solo sulle

proprietà ottiche in assoluto, ma anche sui rapporti di

assorbimento/trasmissione/emissione alle diverse

lunghezze d'onda con conseguenze importanti sulla

lettura ed interpretazione dei segnali da parte della

strumentazione coinvolta.

La Figura 58.9 mostra la variazione di assorbanza di

alcuni materiali impiegati come superfici

radianti/riflettenti in funzione dello spessore di tipici

contaminanti per alcuni materiali.

La Figura 58.10 mostra la variazione di assorbanza media

di superfici di controllo termico impiegate in diversi

sistemi satellitari; si osserva come la contaminazione

abbia portato in alcuni casi a variazioni di 15-20 %

dell'efficienza prima del termine della vita operativa.

Figura 58.8 - Variazione di trasmittanza in funzione della

lunghezza d'onda a seguito di contaminazione del vetro di

rivestimento di una cella solare per effetto della deposizione

di un sottile film di silicone (8nm), e circa 300 giorni di

irraggiamento solare.

Figura 58.9 - Assorbanza dello spettro solare in funzione

dello spessore di tipici contaminanti in ambiente spaziale su

diversi materiali (S13GLO- vernice bianca a base

siliconica/ossido di Zn; Teflon argentato, OSR- riflettore

solare ottico con rivestimento di quarzo)

Figura 58.10 - Variazione dell'assorbanza delle superfici di

controllo termico in alcuni sistemi satellitari

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Una limitazione degli effetti di contaminazione può

essere effettuata sulla base di un'accurata selezione dei

materiali impiegati, restringendo la scelta a quelli a

basso outgassing, applicando specifiche precauzioni

per evitare la contaminazione durante le fasi di

montaggio a terra e adottando accorgimenti progettuali

che evitano o limitano il contatto tra sorgenti di

contaminazione (quali strutture sandwich,

apparecchiature elettriche/elettroniche operanti ad alta

temperatura, prodotti di combustione di propellenti,

ecc.) ed elementi sensibili (quali pannelli solari,

superfici termiche ed ottiche, ecc.). Ove necessario

possono essere applicati pretrattamenti a terra per

ridurre l'outgassing nello spazio; questi consistono ad

esempio in riscaldamento in vuoto (vacuum baking) per

ridurre il contenuto di volatili in origine. A livello

progettuale può essere necessario prevedere schermature o

posizionare opportunamente le fonti di contaminazione e

superfici sensibili. La presenza di "vie di fuga", e la

predisposizione di percorsi preferenziali per le sostanze

volatili può ridurre in modo significativo il pericolo di

contaminazione.

La Tabella 58.3 riporta alcuni esempi di superfici sensibili

a contaminazione molecolare. La Tabella 58.4 indica le

linee guida alla base della minimizzazione dei pericoli di

contaminazione.

Tabella 58.3 - Superfici sensibili a contaminazione molecolare e relativi limiti operativi

Tabella 58.4 - Linee guida progettuali per la minimizzazione della contaminazione molecolare

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La Figura 58.11 mostra un esempio di come la scelta

progettuale può influire sulla possibilità di

contaminazione. Un pannello solare è costituito da una

matrice di celle organizzate in file parallele di celle

unitarie collegate in serie; la contaminazione di una

cella influisce sull'intera fila. Una configurazione con

file orientate parallelamente (a destra nella figura) al

braccio di collegamento ("boom") presenta un'alta

esposizione al veicolo a cui è connesso e alle relative

sorgenti di contaminazione. Questa configurazione

risulta vulnerabile perché tutte le file risulterebbero

contaminate contemporaneamente da una singola

sorgente, in quanto si trovano ad uguale distanza dal

veicolo. Diversamente, la configurazione con celle

perpendicolari al braccio di collegamento (a sinistra)

presenta un uguale esposizione complessiva al veicolo,

ma con effetto elevato di eventuale contaminazione

solo sulle celle delle file vicine al veicolo e

proporzionalmente minore su quelle distanti che

avrebbero una vita operativa superiore.

Figura 58.11 - Possibili configurazioni progettuali per

pannelli solari con diversa sensibilità a contaminazione

In alcuni materiali non polimerici l'esposizione ad alto

vuoto ha effetti positivi. Nel vetro, ad esempio, la

riduzione della pressione a meno di 1 mbar incrementa

la resistenza fino a tre volte. Molti materiali metallici

mostrano un miglioramento del comportamento a

fatica in alcuni casi anche molto consistente; indagini

per quantificare questi effetti sono attualmente in corso

a bordo della Stazione Spaziale Internazionale ISS.

58.3 Effetti delle radiazioni

ell'ambiente spaziale sono presenti radiazioni di

tipo e intensità molto diverse da quelle incontrate

nell'atmosfera terrestre che possono risultare critiche

per la resistenza nel tempo dei materiali esposti ad

esse. Queste possono essere radiazioni dello spettro

solare (in particolare UV), radiazioni ionizzanti da

particelle cariche (elettroni, protoni, ioni), radiazioni

fotoniche ad alta energia (raggi x, raggi gamma). I

valori massimi di intensità di queste radiazioni

vengono raggiunti a distanze diverse dalla superficie

terrestre. La Figura 58.12 riassume indicativamente la

distribuzione in quota delle condizioni spaziali più

critiche per la vita dei materiali. L'atmosfera terrestre

assorbe tutta la radiazione UV con lunghezza d'onda

inferiore a 300 nm, mentre un veicolo spaziale al di fuori

dell'atmosfera, esposto al Sole, è sottoposto all'intero

spettro solare. Inoltre, anche superfici senza vista diretta al

Sole, ma che si affacciano alla Terra, sono sottoposte a

radiazioni UV riflesse dalla Terra per effetto dell'albedo

(l'energia riflessa dalla Terra è circa il 31 % dell'energia

solare ricevuta).

Figura 58.12 - Condizioni ambientali spaziali in funzione

della distanza dalla Terra

In generale viene considerato UV lo spettro compreso tra

4 e 400 nm (peraltro, nello spettro solare, l'intensità delle

radiazioni al di sotto di 100 nm è molto bassa) radiazioni

in questo range possono avere importanti effetti sulla

stabilità dei materiali. L'effettivo spettro solare copre un

campo di lunghezze d'onda molto più esteso, che va

dall'UV all'infrarosso. La Figura 58.13 mostra il campo di

radiazioni che agisce su di un oggetto in LEO. La Figura

58.14 mostra la densità spettrale del flusso di energia ad

una distanza pari alla distanza media Terra-Sole (1 AU-

unità astronomica).

I materiali polimerici sono particolarmente suscettibili a

degradazione da radiazioni UV poiché molti legami in

polimeri organici assorbono nel campo UV e subiscono

reazioni fotochimiche. Questo effetto viene amplificato

dalla presenza di additivi e impurità. L'effetto di queste

reazioni varia in funzione del materiale: molti polimeri

subiscono scissione delle catene polimeriche con

riduzione del peso molecolare, ossidazione ed eventuale

formazione di sostanze a basso peso molecolare, volatili;

in alcuni polimeri, la rottura dei legami è seguita o

affiancata da reazioni di reticolazione che portano ad un

diversa struttura molecolare. In tutti casi l'esposizione a

radiazioni determina una modifica progressiva delle

proprietà fisiche e meccaniche del materiale, generalmente

con riduzione della deformabilità e tenacità del materiale,

variazione di colore (e assorbanza solare). Nella maggior

parte dei polimeri la radiazione UV viene assorbita quasi

completamente nelle prime frazioni di m superficiali,

che quindi subiscono i maggiori effetti. Nel caso di film di

spessore sensibilmente superiore alla profondità di

assorbimento UV, il materiale non degradato è in grado di

mantenere l'integrità del film.

N

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Figura 58.13 - Campo di radiazioni agente su di un oggetto in orbita LEO

Figura 58.14 - Densità spettrale del flusso di energia alla

distanza di una unità astronomica (UA)

Diversamente, nel caso di film polimerici sottili, aventi

spessori confrontabili con la profondità di

assorbimento e/o quando la degradazione determina

erosione per formazione di frazioni volatili (anche in

associazione con altri fenomeni degradativi, ad

esempio erosione da AO), la possibilità di formazione

di cricche e rotture diventa significativa.Un ulteriore

effetto della degradazione da radiazioni è la

formazione di composti cromofori. Queste portano a

variazione del colore e in generale dello spettro

assorbito, variando le risposta ottica, la trasparenza, la

riflettanza, la diffusione.

I polimeri fluorurati, materiali impiegati in ambiente

spaziale (ad es. FEP, PTFE), presentano sensibilità a

lunga esposizione a UV, soprattutto in combinazione con

AO e alte temperature. La degradazione comporta

infragilimento, riduzione di deformabilità e modifica di

caratteristiche ottiche, in misura diversa in funzione delle

condizioni di esposizione (lunghezza d'onda, temperatura)

e della struttura chimica del polimero.

Alcuni materiali polimmidici (Kapton, Upilex) presentano

limitata sensibilità agli UV, con scarse variazioni di

resistenza e proprietà ottiche.

Matrici e adesivi epossidici, quando esposti, subiscono

rapida degradazione superficiale per effetto degli UV, con

perdita significativa di massa già a brevi tempi di

esposizione (poche ore). La degradazione può indurre

formazione di cricche, riduzione della tenacità e variazioni

di colore.

Anche in materiali ceramici e vetrosi l'esposizione a UV

provoca generalmente la formazione di difetti che

inducono oscuramento, con riduzione di trasparenza e

variazione dello spettro trasmesso.

Lo spettro delle radiazioni ionizzanti comprende particelle

cariche come elettroni e protoni e radiazioni fotoniche ad

alta energia come raggi X e gamma. La degradazione dei

materiali per effetto di radiazioni ionizzanti risulta

funzione sia della quantità (dose) di energia assorbita che

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della velocità di assorbimento. L'unità di misura della

dose è il gray (Gy), che corrisponde ad un

assorbimento di 1J per ogni Kg di massa (un'altra unità

comunemente impiegata, il rad, corrisponde a 0,01

Gy).

Nello spazio esistono diverse sorgenti di radiazioni

ionizzanti. I flare solari ("eruzioni") sono emissioni di

alta energia dal Sole di breve durata (minuti/ore) che

producono radiazione nello spettro elettromagnetico

dalle radio-onde ai raggi gamma. In particolare, le

emissioni di raggi X sono state correlate direttamente

ai flare solari.

Le principali sorgenti di particelle cariche sono i raggi

cosmici, gli eventi protonici solari, le cinture di

radiazioni (fasce di van Allen). I raggi cosmici

consistono di flussi di nuclei ionizzati,

prevalentemente protoni, che in genere forniscono una

bassa dose di radiazioni. Percorsi orbitali in bassa

altitudine/inclinazione, risultano parzialmente

schermati per effetto del campo magnetico terrestre.

Gli eventi protonici solari, che avvengono nella massa

della corona solare, danno flussi di protoni periodici

(circa uno ogni 5 giorni) e di breve durata. Anche in

questo caso l'intensità è funzione del percorso di

missione rispetto al campo magnetico. Protoni ed

elettroni sono confinati nelle cinture di radiazioni, per

effetto del campo magnetici terrestre. La loro intensità

presenta picchi intorno a 3000 e 25000 km di

altitudine e più alti livelli in vicinanza dei poli; è

funzione di posizione, energia delle particelle, attività

solare. Queste radiazioni sono approssimativamente

omnidirezionali e colpiscono pertanto tutte le superfici

esterne del sistema spaziale.

Le radiazioni ionizzanti presentano effetti degradativi

su molti componenti di veicoli spaziali, ivi incluso

l'eventuale equipaggio, la cui esposizione deve essere

limitata. Particelle ad alta energia determinano

degradazione dei componenti elettronici, delle celle

solari, dei materiali, oltre che dell'efficienza di

strumenti ottici (CCD). Possono attivare accumulo di

cariche elettrostatiche, scariche al alto voltaggio,

modifica delle memorie digitali e generare radioattività

per interazione con i materiali, portando a riduzione

della sensibilità della strumentazione a bordo o a

perdita della funzionalità, con effetti in alcuni casi

catastrofici per il componente. La Figura 58.15 mostra

un danno critico in un componente elettronico causato

da radiazioni ionizzanti.

Nei polimeri, a differenza degli UV, le radiazioni

ionizzanti interagiscono con i nuclei atomici e gli

elettroni circostanti indipendentemente senza alcuna

specificità in relazione al tipo di legami. I polimeri

subiscono degradazione delle proprietà fisiche e

meccaniche in funzione della dose totale di radiazione

assorbita. Mentre l'effetto di infragilimento e

irrigidimento può essere di limitata importanza per

film e materiali rigidamente solidali con strutture

metalliche (ad esempio superfici di controllo termico), in

film polimerici non rigidamente supportati (ad esempio

coperte isolanti multistrato) la degradazione può

comportare rotture e crack negli strati polimerici esterni.

Molti dei polimeri di comune impiego (ad esempio

Neoprene, Mylar, acrilici, molti fluorurati) presentano una

eccessiva velocità di degradazione e non sono impiegabili

in missioni orbitali geostazionarie in alta quota (GEO).

Figura 58.15 - Danno catastrofico con perdita di

funzionalità di un transistor MOSFET causato da accumulo

e scarica elettrica a seguito di esposizione a radiazione

ionizzante

La Figura 58.15 riporta l'effetto delle radiazioni gamma su

alcuni materiali polimerici. Va peraltro considerato che i

dati riportati fanno riferimento all'effetto dei raggi gamma

in ari a bassa temperatura. La presenza di ossigeno può

modificare i meccanismi di degradazione rispetto al vuoto

variando in modo significativo la velocità di

degradazione. Anche la temperatura e la presenza di

radiazioni UV agiscono in modo sinergico con le

radiazioni ionizzanti in misura diversa nei diversi

materiali, rendendo difficile discriminare e quantificare gli

effetti delle diverse cause.

Film polimmidici (Kapton, Upilex) sottoposti a test di

valutazione per applicazioni in strutture dispiegabili

gossamer hanno mostrato discreta resistenza alle

radiazioni, anche se hanno presentato incremento di

assorbanza solare a seguito di esposizione. Un ulteriore

effetto delle radiazioni ionizzanti in alcuni polimeri è

quello di aumentare la conducibilità elettrica, riducendone

la capacità di isolamento.

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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 13 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

Tabella 58.5 - Effetto delle radiazioni gamma su alcuni materiali di interesse spaziale.

La riduzione degli effetti dell'irraggiamento UV e delle

radiazioni ionizzanti sui materiali viene effettuata da

un lato mediante una opportuna scelta dei materiali da

impiegare in funzione delle condizioni di missione,

dall'altra utilizzando rivestimenti superficiali protettivi

per i materiali sensibili. Rivestimenti metallici come

alluminio depositato da vapore (VDA - vapor

deposited aluminum) sono in grado di ridurre gli effetti

degli UV, mentre rivestimenti a base di ossidi metallici

(SiO2, TiO2, Ta2O3) sono stati impiegati per mitigare

gli effetti di radiazioni gamma su polimeri fluorurati.

L'efficacia di questi rivestimenti tuttavia, viene

fortemente ridotta dall'effetto combinato di

sollecitazioni termiche e meccaniche che possono

provocare la formazione di rotture e distacchi,

determinando la perdita di continuità della protezione.

Va considerato che particelle ad alta energia

posseggono un'alta profondità di penetrazione nei

materiali a bassa densità, come i polimeri, e vengono

assorbite dal materiale superficiale solo parzialmente.

La Figura 58.16 mostra la dose di radiazioni ionizzanti

in funzione della profondità e del tempo stimate per

una superficie in polimero fluorurato FEP in orbita

LEO, quale quella del telescopio Hubble.

Per la protezione di componenti elettronici, ottici,

termici critici sono quindi necessari materiali con

superiore capacità schermante. Una parziale protezione

può essere effettuata mediante schermi metallici

(alluminio o metalli pesanti come tungsteno e tantalio).

Tali schermi possono ridurre sensibilmente il flusso di

elettroni ma sono molto meno efficaci nella protezione

da protoni. La Figura 58.17 mostra l'effetto schermante

dell'alluminio su elettroni e protoni.

La progettazione di questi sistemi deve quindi

considerare la possibilità sopperire alla riduzione o

perdita di funzionalità di alcuni componenti, ad

esempio mediante l'impiego di sistemi ridondanti e di

monitoraggio continuo o periodico della funzionalità.

Figura 58.16 - Profili di assorbimento di radiazioni

ionizzanti nel FEP stimati per l'ambiente del telescopio

spaziale Hubble: (a) esposizione a raggi X da flare solari; (b)

esposizione a elettroni e protoni da cinture di radiazioni

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Figura 58.17 - Efficienza schermante dell'alluminio sugli

elettroni e capacità di penetrazione di protoni

58.4 Effetti della temperatura e dei cicli

termici

ambiente orbitale terrestre provoca variazioni

significative della temperatura quando il sistema

passa da zone illuminate a zone d'ombra. Il numero di

cicli termici atteso dipende dall'orbita di missione.

Così, ad esempio, un'orbita in LEO viene completata

approssimativamente in 90 minuti, mentre in orbita

geostazionaria il ciclo orbitale dura un giorno. Il

campo di temperature che il materiale incontra durante

un ciclo termico dipende dalle sue proprietà termo-

ottiche (assorbanza solare e emittanza termica),

dall'orientamento rispetto al Sole, alla Terra e alle altre

superfici del veicolo, dai tempi di esposizione a luce

ed ombra, dal calore prodotto dai componenti propri.

Va infatti considerato che nello spazio o in atmosfera

molto rarefatta, l'unico meccanismo significativo di

trasmissione del calore da e verso l'ambiente esterno è

l'irraggiamento. Inoltre la conduzione e la resistenza di

contatto giocano un ruolo fondamentale nella

trasmessione del calore tra i diversi componenti.

Considerando un corpo posto nello spazio, la potenza

emessa per irraggiamento P è espressa come:

P =T4 A

dove è la costante di Steffan-Boltzmann (5,67 10-8

Wm-2

K-4

), A è la superficie irradiante, T è la temperatura della

superficie; è l'emissività media della superficie.

Quando un corpo è esposto a irraggiamento (ad esempio

solare), parte della radiazione viene assorbita, parte viene

riflessa, parte viene trasmessa. Una semplice relazione di

bilancio mostra che:

dove e sono rispettivamente la quota assorbita, la

quota riflessa, la quota trasmessa. Per un corpo opaco,

quest'ultima è normalmente trascurabile.

La potenza assorbita P vale:

P = S Ap

dove è il coefficiente di assorbimento medio (solare), S

è l'intensità della radiazione incidente, Ap è la proiezione

della superficie in vista della radiazione.

Le tecnologie spaziali fanno uso di diversi materiali o

rivestimenti superficiali per ottenere l'effetto desiderato

sull'equilibrio termico. In particolare rivestimenti bianchi,

neri, riflettenti, dotati di diversi valore del rapporto

vengono impiegati per controllare i diversi contributi di

trasporto del calore. La Tabella 58.6 - Assorbimento

solare ed emissività infrarossa di alcune superfici.riporta i

valori del coefficiente di assorbimento solare e di

emissione di alcune superfici. Come già accennato,

l'effetto degradativo di AO e radiazioni modifica le

proprietà ottiche dei materiali, variandone i coefficienti.

La Tabella 58.7 riporta i valori di e di superfici

termiche dopo invecchiamento.

Tabella 58.6 - Assorbimento solare ed emissività infrarossa

di alcune superfici.

Rivestimento superficiale

Vernice bianca 0,21 0,86 0,24

Vernice nera 0,97 0,87 1,11

Alluminio depositato da

vapore (VDA)

0,08 0,024 3,23

Oro 0,19 0,020 9,5

Argento 0,05 0,013 3,9

Tabella 58.7 - Assorbimento solare ed emissività di alcuni

materiali dopo esposizione per cinque anni nello spazio

Materiale

non

invecch.

invecch. non

invecch.

invecch.

Quarzo* 0,08 0,2 0,8 0,8

Teflon* 0,08 0,13 0,78 0,75

Vernice

bianca

0,26 0,44 0,88 0,88

Vernice

nera

0,96 0,91 0,91 0,84

Kapton 0,4 0,67 0,7 0,73

L'

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 58 - MECCANISMI DI DEGRADO NEI VEICOLI IN AMBIENTE SPAZIALE

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza

autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 15 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

Beta cloth 0,24 0,35 0,88 0,88

Le temperature e i cicli termici presentano un pericolo

per la durabilità dei materiali per diverse ragioni.

Innanzitutto, per materiali diversi a contatto, come ad

esempio nei compositi o nei rivestimenti, la differenza

dei coefficienti di dilatazione termica (CTE) può

generare rotture o delaminazioni. Inoltre, le

caratteristiche meccaniche dei polimeri sono

ampiamente variabili con la temperatura. Quindi,

durante un ciclo orbitale, un polimero può presentare

riduzioni nella resistenza o nella duttilità che lo

rendono maggiormente suscettibile di cedimenti. Se si

considera che l'effetto delle radiazioni modifica le

proprietà prevalentemente in superficie, il materiale

risulta possedere caratteristiche disomogenee

attraverso lo spessore; questo lo rende vulnerabile agli

effetti delle dilatazioni termiche differenziali.

La Figura 58.18 mostra le microcricche in un

rivestimento metallico applicato ad un composito

strutturale grafite/epossidica esposto a cicli termici e

ossigeno atomico in orbita LEO.

Figura 58.18 - Micrografia SEM delle microcricche in

un rivestimento in Cr/Al su composito grafite/epossidica

esposto a cicli orbitali su LDEF in orbita LEO

Compositi in carbonio e matrice epossidica esposti a

cicli termici ripetuti presentano formazione di

microcricche già dopo pochi cicli e raggiungono

saturazione dopo alcune centinaia di cicli. Compositi

con matrice cianatoestere, che possiede maggiore

stabilità dimensionale, presentano maggiore resistenza

a microcracking e saturazione ad un numero di cicli

superiore alle migliaia.

Sistemi di controllo termico a protezione di

componenti e strumentazione sensibile sono spesso

costituiti da coperte multistrato (MLI) composte da

strati di film polimerici sottili (fino ad oltre 30 strati

metallizzazione superficiale su entrambi i lati (spesso

in alluminio depositato da vapore) avente lo scopo di

aumentare la riflettività e di ridurre il calore trasmesso

per irraggiamento attraverso la coperta. I film sono

separati da una rete distanziatrice per minimizzare la

conduzione del calore tra i vari strati; nel vuoto la

convezione è nulla.

Il flusso di calore Q' irradiato attraverso la coperta è:

Q' = A (T4w-T

4c)

dove è la costante di Steffan-Boltzmann, A è la

superficie, Tw e Tc sono rispettivamente la temperatura del

lato caldo e del lato freddo; è l'emissività globale della

coperta, che viene minimizzata aumentando il numero di

strati riflettenti.

La Figura 58.19 mostra l'emissività effettiva di coperte

multistrato in film poliesteri (Mylar) alluminizzati con

diverso numero di strati. La degradazione, l'infragilimento

e la rottura di questi film, a seguito di esposizione a

radiazioni, AO e cicli di temperatura, comporta importanti

modifiche dell'equilibrio termico dei componenti con

conseguenze potenzialmente critiche.

Figura 58.19 - Emissività effettiva di coperte multistrato in

film poliesteri (Mylar) alluminizzati in funzione del numero

di strati.

I cicli termici in genere agiscono in modo sinergico con

altri meccanismi degradativi aumentandone

significativamente la velocità di azione. Film in FEP con

rivestimenti in alluminio o in ossidi metallici impiegati in

isolamenti termici multistrato recuperati in missioni sul

Telescopio Hubble (HST) hanno mostrato un sensibile

incremento della velocità di degradazione quando

l'esposizione a radiazioni è accompagnata da severi cicli

termici. La Figura 58.20 mostra l'effetto di radiazioni

elettroniche accompagnate da cicli termici (tra -100 e +50

°C) su FEP rivestito. La Figura 58.21 confronta la

variazione nelle proprietà meccaniche dopo diverse

condizioni di esposizione applicate in laboratorio e in

missioni HST.

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Figura 58.20 - Micrografia SEM di un film in FEP

rivestito con ossidi di Si, Ti e Ta esposto a radiazioni

elettroniche e cicli termici. Le zone scure indicano il

distacco del rivestimento.

Figura 58.21 - Effetto di radiazioni e cicli termici sulle

proprietà meccaniche di FEP valutate in test di

laboratorio e su materiale recuperato dopo 3,6 e 6,8

anni di esposizione sul Telescopio Hubble; (a)

resistenza, (b) deformazione a rottura

Questi test evidenziano il fatto che le reali condizioni in

orbita risultano spesso sensibilmente più critiche di quelle

impiegate in test di laboratorio in condizioni

apparentemente simili, proprio a causa di possibili effetti

combinati. La Figura 58.22 mostra l'allungamento a

rottura a seguito di solo trattamento termico, di

trattamento termico dopo esposizione a raggi X, e

trattamento termico di film esposti in LEO (Hubble). Si

nota come il solo trattamento termico o la sola esposizione

a radiazione non comporti alcuno o solo limitato

infragilimento del materiale. I due effetti sommati portano

a quasi completa fragilizzazione del film quando la

temperatura supera i 100 °C. Va rilevato che la dose di

esposizione in laboratorio è superiore di alcuni ordini di

grandezza rispetto a quella stimata nell'esposizione reale.

Figura 58.22 - Allungamento a rottura di film in FEP tal

quale, esposto a raggi X in laboratorio, recuperato in

missioni Hubble.

La difficoltà di correlare la risposta tra test di laboratorio a

terra con le effettive condizioni in orbita rende a volte

problematica la selezione dei migliori candidati per una

specifica applicazione. Una possibile metodologia

consiste nel calibrare i test a terra sulla base dei risultati

ottenuti su materiali recuperati in missioni nello spazio

allo scopo di determinare i livelli di esposizione

(temperatura, dose di irraggiamento, durata, ecc.) richiesti

per riprodurre le condizioni di degradazione in orbita.

I materiali polimerici impiegati nelle coperte MLI son

costituiti da polimmidi (ad esempio Kapton), poliesteri

(Mylar), polimeri fluorurati (FEP) eventualmente

supportati o rinforzati.

58.5 Micrometeoriti e detriti orbitali

micrometeoriti sono di origine extraterrestre e di

conseguenza hanno un flusso che è

approssimativamente costante nel tempo. La loro velocità

è tipicamente dell'ordine di 4-5 km/s. I detriti orbitali

derivano dai residui di combustibile solido di lanciatori,

materiale da rotture e distacchi di satelliti e altre cause di

I

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origine umana. hanno una velocità di 8,7 km/s e il loro

flusso dipende molto dalla frequenza locale e

temporale di lanci e dall'avvenimento di danni in

orbita. La Figura 58.23 mostra il flusso di impatti in

funzione delle dimensioni di micrometeoriti e detriti

previsto secondo diversi modelli teorici sviluppati.

Figura 58.23 - Flusso di impatti da micrometeoriti e

detriti previsto nel 2010 per un orbita a 400 km

altitudine e inclinazione 51.6°.

Sulla base del flusso di impatti previsto è possibile

valutare l'intervallo di tempo atteso tra due impatti

(Tabella 58.8).

Tabella 58.8 - Intervallo di tempo atteso tra due impatti in

funzione delle dimensioni delle particelle.

>0,1 mm >1 mm >10 mm

Micrometeorite 0,68 giorni 3,43 anni 34000 anni

Detriti 0,49 giorni 0,53 anni 4000 anni

Sebbene il flusso di meteoriti possa essere considerato

omnidirezionale e detriti si possano muovere secondo

diverse direzioni orbitali, a causa della velocità del

veicolo, la probabilità di impatto è superiore per le

superfici esposte nella direzione di movimento.

L'impatto di un micrometeorite o un detrito con un

sistema spaziale normalmente possiede sufficiente

energia per causare la vaporizzazione della particella

impattante e per produrre un cratere di dimensioni

molto superiori a quelle della particella stessa. Ad

esempio, l'energia cinetica di una particella di

alluminio a 6 km/s è sufficiente per vaporizzare

l'alluminio e formare un cratere con diametro cinque

volte più grande della particella. La Figura 58.24

mostra l'immagine al microscopio elettronico a

scansione di crateri da impatto a ipervelocità in alluminio

e in FEP recuperati dalla missione LDEF.

Figura 58.24 - Micrografie SEM di crateri da impatto a

ipervelocità in alluminio (a) e in polimero etilene-propilene

fluorurato FEP (b) recuperati dalla missione LDEF.

L'impatto su superfici rivestite può provocare

delaminazione e distacco del rivestimento, con perdite

dell'effetto protettivo e incremento del rateo di

degradazione ed erosione da radiazioni/AO degli strati

sottostanti. L'emissione di materiale da impatto può inoltre

dare origine a contaminazione. Impatti con particelle di

grandi dimensioni, in grado di danneggiare seriamente

serbatoi in pressione o componenti strutturali, sono

piuttosto rari. Nel materiale recuperato a seguito della

missione LDEF, durata 69 mesi, il cratere più grande

aveva un diametro di 5,7 mm.

La protezione viene effettuata sia a livello di definizione

dei percorsi, durate, tempi della missione in modo da

ridurre la probabilità di impatti, sia a livello di

progettazione del sistema, in modo da ridurre gli effetti

degli impatti. Componenti sensibili come sistemi

elettronici, memorie digitali, generatori di energia, ecc.

sono spesso composti da sistemi ridondanti in grado di

sopperire al cedimento di uno o più elementi.

L'adozione di sistemi di protezione in grado di distribuire

l'energia di impatto su un'area estesa, riducendo il danno,

può risultare a volte necessaria. In questo contesto,

strutture multiparete o sandwich presentano doti di

leggerezza, caratteristiche strutturali, capacità di

protezione superiori ai materiali monolitici. La Figura

58.25 confronta lo spessore di protezione necessario per

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un sistema a singola parete e a doppia parete: a bassa

velocità di impatto (< 3 km/s circa per una lega

d'alluminio) la particella non viene distrutta e i due

sistemi sono quasi equivalenti; ad alte velocità, nel

sistema a doppia parete, la distruzione della particella

determina l'estensione della zona di impatto sulla

seconda parete con una maggiore efficienza protettiva.

Figura 58.25 - Spessore di protezione in funzione della

velocità di impatto per sistemi a singola e a doppia

parete

Un’ulteriore strada per proteggere le superfici esposte

da AO è quello di destinare alle coperte MLI,

impiegate per l'isolamento termico, anche la funzione

di protezione da impatti adottando film rinforzati con

fibre ceramiche, in vetro o arammidiche (Nomex),

eventualmente in aggiunta a strutture sandwich.

Un materiale di protezione spesso impiegato, che

spesso fornisce buona protezione dalle alte

temperature, da erosione AO e da impatto di particelle

è il Beta cloth, costituito da tessuto in fibre di silice

rivestite in PTFE per migliorarne la resistenza

meccanica e all'abrasione. Il tessuto è in grado di

resistere a temperature superiori a 600 °C e viene

impiegato anche per tute spaziali. La Figura 58.26

mostra un tessuto di Beta cloth danneggiato da impatto

di particelle.

Figura 58.26 - Tessuto di Beta cloth danneggiato da

impatto di particelle.

58.6 Test di simulazione di condizioni

spaziali

er verificare le caratteristiche e il comportamento di

un satellite o di un veicolo nell'ambiente dello spazio,

questi vengono sottoposti a numerosi test in

vuoto/temperatura. Diversamente dalle prove meccaniche,

in prevalenza destinate a validare il comportamento nella

fase di lancio, le prove in termovuoto sono destinate a

qualificare il sistema, nel suo complesso, nelle fasi

operative successive, nello spazio.

A differenza delle prove di qualificazione condotte sui

singoli materiali, i test su parti o sull'intero satellite

consentono di valutare il comportamento complessivo e le

eventuali interazioni tra componenti. Le condizioni

spaziali simulate durante i test in termovuoto sono le

basse pressioni corrispondenti a orbite ad alta quota, le

basse temperature delle spazio esterno e le diverse fonti di

calore (generazione interna, radiazione solare, albedo e

radiazione terrestre) e il loro effetto sul bilancio termico

del satellite. A causa dell'alto vuoto, lo scambio termico è

determinato essenzialmente dall'irraggiamento;

l'irraggiamento solare e la bassa temperatura esterna (di

background) determinano la presenza di elevati gradienti

termici.

Un satellite/veicolo spaziale è costituito da una

moltitudine di materiali, componenti e sottosistemi,

ciascuno dei quali deve essere mantenuto all'interno dei

propri limiti di temperatura operativa per assicurare

adeguato funzionamento (ad esempio i sottosistemi

elettronici) o per evitare danno ai materiali o distorsione di

parti strutturali (ad esempio, antenne e riflettori).

Per assicurare la compatibilità con i campi di temperatura

in tutte le fasi della missione possono essere impiegati

molti diversi meccanismi attivi e passivi di controllo della

temperatura, a partire da superfici specifiche (nere,

bianche, riflettenti, ecc.) con definite proprietà di

assorbimento/emissione, per continuare con coperte

termiche MLI, scambiatori attivi, elementi di

riscaldamento elettrico. Il complesso dei sistemi di

adattamento della temperatura adottati viene

comunemente definito il sottosistema di controllo termico

(TCS), sebbene non possa essere in realtà trattato come un

effettivo sottosistema indipendente come ad esempio il

riflettore di un antenna o un componente strumentale.

Nel passato la configurazione del TCS era essenzialmente

il risultato di un processo sperimentale basato su dati di

prova. Ora, la maggior parte del processo di

configurazione viene effettuata mediante computazioni

numeriche. Queste, peraltro, richiedono la corretta

descrizione e valutazione delle proprietà termiche e fisiche

oltre che delle loro correlazioni.

Bilancio termico - Una funzione importante dei test in

termovuoto, ed in particolare delle prove di bilancio

termico (TB), e quella di fornire dati misurati per

specifiche situazioni di carico termico. Normalmente la

verifica di alcune specifiche situazioni, in genere estreme,

P

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è sufficiente per validare la funzionalità in tutte le

effettive condizioni di missione con opportune

funzioni di adattamento dei modelli.

Test di bilancio termico vengono condotti all'interno di

una termocamera raffreddata a temperatura di -180 °C

(con azoto liquido), per simulare la temperatura dello

spazio di background. Ciascuna fase di missione viene

quindi rappresentata da un corrispondente livello di

radiazione solare o da piani riscaldati per simulare

l'irraggiamento terrestre e l'albedo. Dopo

stabilizzazione, vengono registrate le temperature di

equilibrio nelle diverso posizioni del satellite.

Prove di bakeout ("cottura") - La qualificazione di

componenti con specifica relazione con lo spazio

(pannelli solari, antenne, componenti elettronici, ecc.)

sono un'altro importante compito dei test di

termovuoto. I test di bakeout vengono condotti su ogni

parte importante del satellite che va nello spazio.

Durante questo test, la parte o l'intero satellite è

esposto ad alto vuoto allo scopo di attivare outgassing

nelle condizioni di temperatura simili, ma superiori, a

quelle operative.

In funzione delle condizioni di missione e del tipo di

componente, le temperature tipicamente impiegate

sono nel range +80/+150 °C. La durata del test è

almeno di 24 ore, ma a volte molto più lunga. Le prove

di bakout a terra assicurano l'outgassing della maggior

parte dei composti volatili derivanti dal processo di

produzione (acqua, idrocarburi, siliconi, esteri, ecc.). La

velocità del satellite in orbita è dello stesso livello (o

maggiore) della velocità molecolare del materiale

volatilizzato alla pressione di 10-5

mbar; per questo le

sostanze volatilizzate non si separano dal satellite, ma

formano una nube di gas e si possono condensare sulle

superfici fredde, contaminandole.

Prove in termo-vuoto - Le prove di bake-out sono spesso

combinate con cicli di temperatura in vuoto. Il numero di

cicli e i livelli di temperatura minima e massima vengono

definiti in funzione della missione. Tipicamente le basse

temperature sono nel range -100/-180 °C, mentre le alte

temperature sono nel range +80/+130 °C anche se in

alcune missioni sono richieste temperature fino a +200 °C.

Il materiale di prova viene portato alla temperatura

richiesta per irraggiamento con le pareti della camera o

per contatto con una piastra termica. Sistemi complessi

possono essere sottoposti a livelli di temperatura diversi

nei loro componenti o a cicli particolari. Pannelli solari,

ad esempio, dopo raffreddamento a -180 °C, vengono

irradiati su un lato con lampade IR, che ne determina il

riscaldamento fino a +130 °C in 30 min, per evidenziare

eventuali difetti di fabbricazione, distacchi di parti,

cambiamenti di colore. Riflettori di antenne vengono

sottoposti a test con cicli di temperatura al fine di rilevare

l'entità delle distorsioni termoelastiche o da outgassing.

La Figura 58.27 mostra lo schema di una camera

termovuoto dotata di un sistema di simulazione solare.

Figura 58.27 - Schema di una camera termovuoto dotata di un sistema di simulazione solare presente presso i laboratori per prove di

simulazione spaziale IAABG di Monaco di Baviera.

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Bibliografia

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