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Periodico di approfondimento culturale - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010- Prezzo 5 Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo “...non più una cul- tura che consoli nel- le sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le eli- mini...” Elio Vittorini, 1945 “Scrivere non è descri- vere. Dipingere non è rappresentare.” George Braque

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Numero di settembre-ottobre 2010 della rivista bimestrale Vespertilla

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Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo

“...non più una cul-tura che consoli nel-le sofferenze, ma unacultura che proteggadalle sofferenze, chele combatta e le eli-mini...”

Elio Vittorini, 1945

“Scrivere non è descri-vere. Dipingere non èrappresentare.”

George Braque

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VESPERTILLADirettore Responsabile: Serena Petrini

Direttore Editoriale facente funzioni: Ilaria Lombardi

Vicedirettori: Francesca Martellini, Maria Rosa Patti

Segretaria di Direzione: Maria Pia Monteduro

Redattore letteratura: Michela Barbieri

Redattore cinema: Alessandra Pellegrini

Redattore teatro: Ofelia Sisca

Hanno collaborato a questo numero: Michela Barbieri, Concita Brunetti, Silvia D’Addazio, Marina Humar,Ilaria Lombardi, Francesca Martellini, Maria Pia Monteduro, Sibilla Panerai, Maria Rosa Patti, AlessandraPellegrini, Luigi Silvi, Ofelia Sisca.

La collaborazione sotto ogni forma è gratuita

Impaginazione grafica: Maria Pia Monteduro

Editore: Associazione Culturale ANTICAMente-via Sannio 21, 00183 Roma

INFO [email protected] - [email protected]

Pubblicazione registrata presso il Tribunale Civile di Roma n. 335-05.08.2004

Stampa: Copypoint - via dei Funari 25, Roma

INDICE

TEATRO PAG. 3

ARCHELOGIA PAG. 10

ARTE PAG. 11

CINEMA PAG. 13

MISCELLANEA PAG. 16

Page 3: VESPERTILLA SET/OTT 2010

Teatro

BOCCACCIO TRADOTTO GIOCANDO COL PARLATOIL DECAMERON. PESTE E CORNA, SalaUno Teatro Firenze, 1348. La mortifera pestilenza vince l’uomo, si propaga dai vivi ai vivi,dai morti ai sani, dagli oggetti alle persone, mentre incombono e illudono lefiamme che divorano ciò che “...né consiglio di medico né virtù di medicina al-cuna…” riesce a sanare. L’introduzione alla prima giornata boccaccesca risve-glia il gruppo di attori addormentati sulla scena, che tra coreografie leggere eanimate si passano di bocca in bocca la descrizione di una città devastata dallamalattia. La peste, riccioli scuri e veste nera, si muove felina a passo di danza,osserva nascosta, beffeggia maliziosa ma -va notato- il suo tallone d’Achille èpresto vinto da una delle più fini doti umane. Dai canti omerici alle atmosfere deLe mille e una notte l’arte del novellare sembra fermare il tempo della morte,per creare una realtà parallela che si dilata, avvolge, incanta, e muta la sorte. Ilgruppo di dieci giovani che si rifugia nella campagna fiorentina, intrattenendosicon una novella al giorno raccontata da ciascuno secondo un tema prescelto, am-malia il personaggio mortale che si lascia ipnotizzare dalle beffe di Bruno e Buf-falmacco e dallo sciocco Calandrino, uno dei più noti personaggi delle giornatedecameroniane. Roberto Della Casa, regista dello spettacolo, spiega come il la-voro sul testo sia stato compiuto in nome di un incontro tra volgare fiorentino eslang giovanile di oggi, dando vita a un gioco linguistico che rende più vicina anoi la novella garantendone, al contempo, laprovenienza da una passata letteratura “musi-cale” che non possiamo non prendere ad esem-pio. Gli attori -affermazione banale ma nonscontata- sostengono accademicamente le parti,vestendo i panni dei personaggi che risultanocomici più per la situazione in sé che per la re-citazione poco caratterizzata. Incantevole lospazio scenico: a una semplice ma precisa co-reografia lignea a incastro fanno da sfondo gliarchi e i mattoni a vista del teatro, ricavato tre-dici anni fa dalla navata centrale della criptadella Scala Santa. I sedili ravvicinati, le luci calde, il clima, i colori, i suoni da“piazza fiorentina” sono in grado di amalgamarsi, riportando il pubblico indie-tro nel tempo.

Francesca Martellini

NELLA PALESTRA DEL DOMATORE: LIBERA O SCHIAVA?LA BISBETICA DOMATA, Globe TheatreSe l’inizio è un punto interrogativo il finale è un triplice segno d’esclamazione,raggiunto sulla scia di un’energia magnetica che fa volare le due ore e trenta dispettacolo. A distanza di un anno la Bisbetica domata di Marco Carniti torna sulpalco del suggestivo teatro di Villa Borghese, e l’incontro tra spazio della tradi-zione e trasposizione contemporanea del testo è un divertimento ironico cherende omaggio alla commedia shakespea-riana più celebre e rappresentata. “L’a-more rende liberi o schiavi?” si chiede ilregista riflettendo sul testo, e le due trameincrociate continuamente confutano econfermano i due aggettivi in un’alter-nanza continua, che ricrea piacevolmentelo spirito ma, lascia lo spettatore nel dub-bio. I corteggiatori della dolce e piacenteBianca (Melania Giglio, dalle sorpren-denti doti canore), una delle figlie delmercante padovano Battista Minola (Li-bero Sansovino), s’ingegnano a trovare un pretendente disposto a sposarne lasorella, maggiore per età e per spirito di cattiva disposizione verso chiunque lesi avvicini. Estro e ricerca di una buona dote fanno del veronese Petruccio (Mau-rizio Donadoni) il candidato ideale, ma il metodo che adopera per piegare l’in-solente e dispotica Caterina (Sandra Collodel) è una manipolazione in continuobilico tra crudeltà e disperazione. Le mortificazioni, le privazioni cui la bisbeticaè sottoposta, facendole credere che siano grandi atti d’amore, ne smusseranno ilcarattere indomabile, ma l’ubbidienza finale dell’innamorata Caterina saranno lasua condanna o la sua liberazione? La piacente Bianca, che con il matrimonio dàsfogo a un caratterino autoritario, ha gettato via la sua maschera? Le scelte regi-stiche sottolineano contraddizioni e illusioni della commedia con una recitazionesempre sopra le righe e una scenografia dinamica, dove attrezzi ginnici, corde escale diventano metafora della vita come palestra nella quale allenarsi quotidia-namente al proprio ruolo. Bravi gli interpreti, eccellenti cantanti e attori congrande presenza scenica, tra cui spicca la forza di un’eccezionale Maurizio Do-nadoni che dopo una scena iniziale debole non cessa di concedersi al 100%. I dia-loghi, divertenti ed enfatizzati, sono scanditi da una musica da ring che sostieneil gioco, ma in mezzo a tanta energia e leggerezza non si perdono le sfumatureamare: l’influente Petruccio non è il vincitore e la domata Caterina non è la scon-fitta, ogni condizione ha avuto il suo prezzo e niente sembra stabile o definitiva-mente corretto. Spettacolo che diverte e intrattiene, commedia condotta in modointelligente per mostrare le facce diverse della medaglia e lasciarle in sospeso.

Francesca Martellini

NOIA E NON SOGNOSOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE, Globe TheatreC’è poco da sognare in questa nottedi fine estate al Globe. Tutto è fisico,concreto, materiale, e tale rimane,poiché una scenografia di piumebianche non è sufficiente per con-durre lo spettatore nel fiabesco e in-gannevole mondo degli spiriti chepopola la commedia shakespeariana.L’incrocio di amori e rifiuti chemuove la storia è un susseguirsi difrasi urlate e di smorfie ridicole, chepoco connota i personaggi abbando-nandoli in una dimensione superficiale che non si arricchisce col procedere deglieventi. Ad Atene due sono le bellezze infelici, che per amore si scontrano tra in-vidie e rancori nonostante l’infanzia trascorsa insieme: Ermia, senza la benedi-zione paterna, ama riamata Lisandro, mentre Elena (meritevole di lode la suapresenza, unica a imporsi sulla scena con tonalità vive e fisicità prorompente) in-segue invano Demetrio che ha occhi solo per Ermia. La fuga nel bosco fa inter-secare i sentimenti degli amanti con le ire e le gelosie di Oberon e Titania, redegli elfi e regina delle fate, che a suon di filtri e polveri magiche generano se-quenze di scambi, illusioni e fraintendimenti che solo un loro nuovo interventoconsapevole condurrà a un armonioso finale. Tra mondo reale modo onirico sicolloca il metateatro, storia nella storia nata dalla mente shakespeariana come ine-sauribile occasione di frizzi, lazzi, genuina comicità. In occasione dei festeggia-menti per il matrimonio di Teseo, duca della città, un gruppo di artigiani siriunisce nel bosco per allestire la messinscena di Piramo e Tisbe; la regia pocosfrutta le occasioni ridicole e divertenti che ne nascono, generando una succes-sione di “occasioni sprecate” (la scena dell’uccisione di Piramo e Tisbe, con tantodi muro-umano con capitello ionico in testa, dissipa la sua spontanea ingenuitàumoristica con una velocità e ridicolezza che irritano). Il palco non si riempienemmeno con una decina di attori in scena, gli ingredienti umani, scenici e nar-rativi non si amalgamano e la presenza di ogni elemento si perde tra le assi e leimpalcature del palcoscenico, spruzzato da nuvole di fumo che scandiscono le ap-parizioni degli essere fatati. Musiche e luci omogenee non aiutano: le arie lirichesono fuori luogo e non concorrono a sospendere il tempo del bosco incantato,dove lo spettatore -purtroppo- non sogna ma si annoia.

Francesca Martellini

IN MOTUS PER LA RICERCA DELLO SPAZIO VITALEIOVADOVIA (Antigone) contest#3, Auditorium Parco della Musica

Silvia indossa una tuta da ginnasticae corre nel perimetro di un cerchiotracciato col nastro adesivo sul pavi-mento. Salta, scatta, suda, si affatica,ansima. Il cane bianco e nero è ecci-tato da tanto movimento e abbaiaslanciandosi verso di lei, mentre ilpubblico prende posto nella saladensa di tensione. La tenda rossa di-venta tana in cui sbirciare attraversouna telecamera, per vedere come An-tigone, Polinice e Tiresia si disegnanoe si compongono da un paio di guantiin lattice impastati di vernice nera.Silvia Calderoni e Gabriella Rusticaligiocano nell’entrare e uscire dallevesti di quell’Antigone e di quel Tire-sia che nella tragedia sofoclea non siincontrano mai, immaginando un dia-logo che Judith Malina -storica fon-

datrice del Living Theatre- ha riscritto appositamente per loro. È Silvia stessache lo spiega, facendo del suo personaggio classico una veste trasparente attra-verso cui parlare di sé e del nostro presente. L’IO del titolo è un richiamo al la-voro d’immersione in prima persona che l’attrice, Silvia, ha compiuto conintelligente riflessione partendo da un testo in cui la compagnia Motus si è im-mersa per creare eventi performativi che si propongono comeconfronti/scontri/discussioni/dialoghi (IOVADOVIA, con Let The Sunshine In eToo Late!, conclude il progetto Syrma Antigones, dedicato a uno spazio tragicosospeso che si connette alle violenze contemporanee). La mascherata richiesta dipartecipazione imbarazza il pubblico già disorientato da voli pindarici nel tempoe nella storia, testimonianze di una compagnia che inventa e ricerca linguagginuovi per allacciare collegamenti e porre domande che spesso rimarranno in so-speso. L’aiuto di video e telecamera è un ampliamento dello spazio per creare unpresente che assorbe molteplici dimensioni, dal testo classico alla sua elabora-zione da parte di una delle menti rivoluzionarie del teatro del Novecento, dallariflessione personale di Silvia a quella personale di Antigone, per essere assor-bito in un’attualità storica che appartiene all’oggi di tutti noi. “...Ci stanno adde-strando a scomparire. Io non voglio scomparire, affrontare i miei fantasmi dasola...”. IOVADOVIA, letto tutto in un respiro, è una riflessione sulla ricerca tea-trale, progetto personale che cerca di render partecipi, scossa istantanea dal per-corso sfuggente e irregolare ma che -inevitabilmente- coglie lo spettatore con untouché, che non lascia indifferente.

Francesca Martellini

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Petruccio (Maurizio Donadoni) e Caterina (SandraCollodel)

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TeatroSPETTACOLO FREDDO PUR CON IL CALORE DI POPOLIZIOIL MISANTROPO,Teatro Argentina

Molière conosceva il mondo, non solo quello delteatro ma anche quello della società civile, e inpochi testi come in questo, in scena in prima nazio-nale, è evidente a tal punto. Alceste (grande Mas-simo Popolizio, come sempre d’altronde) non odial’umanità, come si crede banalmente basandosi sultitolo della commedia: egli odia una specifica so-cietà, la società a lui contemporanea, o meglio an-cora non odia la società in termini astratti, madetesta e aborrisce le ipocrisie, le falsità, un’eti-chetta stereotipa e fine a se stessa, il sorridere da-vanti all’altro e sparlarne dietro, i convenzionalisotterfugi d’amore, le finte reticenze preordinate.Insomma non sopporta i “Tartufi” che, evidente-

mente, nel XVII secolo affollavano Parigi e il teatro francese. Oggi ci si do-manda: questi personaggi da Alceste detestati, queste situazionischematicamente false e ipocrite, non sono presenti ancora in massiccia dose?Ecco confermata quindi la grande attualità di Molière, la sua acuta visioneprofetica del suo oggi che diventa oggi eterno. Alcune invettive di questo in-felice misantropo sono ravvisabili due secoli dopo nel Cyrano e il suo spae-smento e quasi disadattamento sono poi in massima misura espletati eanalizzati in molto teatro novecentesco. Quindi ben venga l’interessante equasi incomprensibile ripresa di Molière su molti palcoscenici in questa sta-gione teatrale (incredibile: non cade nessun anniversario!), perchè l’analisicosì precisa e disincantata di questo grande commediografo può insegnarci an-cora molto. Massimo Castri, alle prese per la prima volta con Molière (ognianno il regista umbro affronta per la prima volta qualche autore...) realizzaperò uno spettacolo freddo, si potrebbe dire quasi senza’anima. Il palcosce-nico è ovviamente “scaldato” dalle parole dell’autore, trasmesse in manieraegregia dall’interprete, ma il segno teatrale della messa in scena non è omo-geneo e consegna un prodotto spettacolare troppo algido e assolutamente pococoinvolgente, pur se si deve appaludire con il dovuto calore a tutto il cast con,come si diceva, Popolizio in testa.

Maria Pia Monteduro

PETER STEIN E L’ETERNA FORZA MORALE DEI CAPOLAVORII DEMÒNI, Auditorium Parco della Musica

Si può pensare in un momento socio-culturale incui molti giovani disertano il mondo dell’impegnoe della politica, in cui Moccia è più noto e sicura-mente più letto, ad esempio, della Yourcenar e diGarcia Marquez, in una temperie culturale in cui èstata decretata la morte dei Maestri (o almeno l’a-gonia), in un momento in cui gli intellettuali ri-schiano di avere la tutela del WWF come razza inestinzione, si può pensare di riesumare Fëdor Mi-chailovic Dostoevskij, uomo prima ancora chescrittore che fece di buona parte della sua vita unesempio di coerenza e di coraggio? Si può pensarein una fase della storia dello spettacolo dove i testimessi in scena sono troppo spesso rivistazioni av-vilenti di copioni sciatti e frettolosi, o scialbi adat-tamenti di capisaldi immmortali delladrammaturgia mondiale, o nuovi testi rigorosa-mente in forma di monologo per voce sola troppospesso monocorde e noiosa, si può pensare di adat-tare per il palcoscenico un assodato capolovaro diquasi centotrenta anni fa quali I Demòni del succi-tato Dostoevskij? Si può pensare in un’epocamordi-e-fuggi, in un mondo a zapping, in una so-cietà che elabora e distrugge a tempo di record sim-boli, eroi, figure di riferimento, si può pensare intale contesto di allestire uno spettacolo che tra ne-cessarie pause e doverosi intervalli occupa il pub-blico per dodici ore consecutive? Sì, si può pensaree realizzare tale solo apparente utopia, se il regista

è Peter Stein, se il copione è la rilettura quasi integrale dei Demòni appunto, se la compagnia è formata indistintamente da validissismi attori, in testa ai quali siergono maestose la figure di Maddalena Crippa, Andrea Nicolini ed Elia Scilton, giganti della scena in un contesto di altissimi interpreti. Il risultato, sia consen-tito l’entusiasmo, è eccelso: mai un attimo di stanchezza nel pubblico, mai un momento di noia, mai una disattenzione che forse avrebbe potuto anche essere giu-stificata in una kermesse teatrale che di puro spettacolo ammonta a ben nove ore e mezza. Tutto il pubblico, e non solo quello di Roma (lo spettacolo è stato inuna trionfale e anomala tournee in Europa e in Italia: ad esempio sei repliche con “tutto esautrio” a Parigi, recitando in italiano…) ha accettato la sfida di Stein,perché di sfida si tratta, e ha trovato la forza di ascoltare, rielaborare, metabolizzare il grande testo russo, che presenta la crisi di un sistema, lo smarrimento deigiovani indecisi se vendersi, divenire rivoluzionari o tragicamete porre fine per propria mano alla propria vita… Stein, che legge (beato lui..) il russo, ha saputocogliere dal romanzo dostoevskijano la grande attualità, precipua dei capolavori, e farlo diventare uno spettacolo teatrale didascalico, nel senso più alto e nobiledel termine. Forse il commento più sintetico, ma più rispondente a verità, è un sincero, si può quasi dire commosso, “grazie”. Grazie a chi ha lavorato per que-sto spettacolo sul palcoscenico e dietro le quinte, grazie ai teatri che lo accolgono e lo mettono in cartellone. A Roma è stato lo spettacolo di apertura di stagionedel Teatro Valle (pur se splendidamente accolto dall’Auditorium). Nota a margine…giustamente l’ETI (Ente Teatrale Italiano, fondato nel 1942), che gestisce ilTeatro Valle, è stato soppresso…Grazie: ma questa volta è tristemente ironico!

Maria Pia Monteduro

FOLLIA E RAZIONALITÀ IN SCENAIL BERRETTO A SONAGLI, Teatro Sala UnoLa commedia, scritta nel 1916 in siciliano, per la prima volta in scena al Tea-tro Nazionale di Roma nel 1917. Oggi come allora, il continuo fluire di carat-teri umani incarnati in attori fa rivivere la tematica sempre attuale econflittuale dell’adulterio. L’amaro umorismo di Pirandello è evidente in que-sta commedia, il cui titolo è indicativo di una condizione di ostentazione e divergogna, in relazione alla comunità, al pensare comune. Il berretto a sonagliè il copricapo da buffone, da “becco”, da cornuto. Ed è proprio il peso dell’ap-parire, del giudizio altrui che viene affrontato con grande crudezza e determi-nazione dal testo. Salvare l’onore, solo questo conta! Pur avendo scelto unclassico, il regista Gino Auriuso lo ha rivisitato in chiave contemporanea, ac-

cattivante e tagliente, in cui il conflitto traregno del perbenismo dominato dalle ap-parenze sociali da una parte, e sanguignitàemotiva insita nell’animo femminile dal-l’altra, si acuisce tanto da esplodere e ri-durre ogni parvenza in carta straccia. Lacarta stracciata, raccolta, spostata, spezzet-tata, usata per riempire vuoti, per fare ru-more, per dimostrare tesi, per visualizzareemozioni, per incarnare valori, è la chiavedi questa messa in scena, che combinaaspetti di forte contemporaneirà con altrilegati alla linearità classica della rappre-sentazione della commedia di inizio se-

colo. Pregevole l’intensa prova attoriale del protagonista (Tony Allotta) neipanni di Ciampa che, costretto a difendere il suo prestigio sociale, regola lesue tre corde con compassata arguzia per districarsi fra essere e apparire, fraserietà e pazzia. È proprio la pazzia la via che Ciampa sceglie per mantenereintegro il suo onore. La salvezza delle apparenze passa attraverso una casa dicura in cui Beatrice, impersonata da un’energica Irma Ciaramella, dovràespiare la sua colpa. Ella si è macchiata della più grave delle colpe per una so-cietà “civile” e conservatrice: non badare all’apparenza e dare ascolto all’e-motività.

Concita Brunetti

Varvara Petrovna Stavrogina (Maddalena Crippa), Stepan Trofimovic Verchovenskij (Elia Schilton)

Alceste (Massimo Popolizio)

Ciampa (Tony Allotta)

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TeatroCLOWN DIALOGA CON SE STESSOL’ULTIMO NASTRO DI KRAPP, Teatro Valle

Samuel Beckett, irlan-dese, amico di JamesJoyce, partigiano nei ma-quis francesi, premioNobel per la letteratura nel1969, è colui che destrut-tura il teatro tradizionale,dando al dialogo forma eritmo da rigore quasi mu-sicale. È del 1958 quesatotesto, altamente profetico,erroneamente definito dairecensori attuali mono-logo, ma in realtà dialogo

del protagonista con la propria voce registrata. Krapp vive in un seminterrato,che in questa messa in scena Bob Wilson, regista, interprete, scenografo e ancheautore del disegno luci, realizza con grande schedario come parete di fondo, chedà l’impressione di grata di una prigione e la finestre alla sommitò delle paretilatearali (unica fonte di luce) sono chiuse da sbarre. Qui, autorecluso, Krapp re-gistra su nastro le impressioni sui fatti della propria vita e regolarmente le ria-scolta aggiungendo di volta in volta le valutazioni del momento: un eternopresente, mai concluso, con un futuro irraggiungibile la cui conclsione può es-sere solo la morte. Si è oltre l’alienazione, piuttosto Beckett pone lo spettatoredi fronte all’inconcludenza, di una vita che non riesce a costruire rapporti umanie non riesce a incidere sul presente stesso, che quindi non cresce e non si evolve.Beckett, profeta come già detto, prefigura la società liquida in cui l’uomo nonriesce ad adeguarsi ai processi di cambiamento troppo veloci per la sua mentee per la sua capacità di adattamento, tanto da giungere a un quasi totale strania-mento dalla realtà. Wilson, chiude il cerchio su un piano sempre più alto e ri-pensa i grandi interrogativi etici in visioni cristalline. Se la caratteristica e ildel’900 è porre domande, più che dare risposte, Beckett lo fa a parole e Wilsoncon le immagini. Wilson torna a recitare dopo dieci anni e dà dignità scenica altesto beckettiano con la parola negata, trasformandosi in un clown-robot che sirichiama ai movimenti del teatro giapponese e con la ripetizione estrema di mo-vimenti lenti, riuscendo, come Beckett voleva, a toglierlo dalla temporaneità.

Luigi Silvi

WILSON E BEKETT: REIFICAZIONE DELL’ARIDOGIORNI FELICI, Teatro ValleSecondo classico di Bekett nella Monografia di scena, mono-dialogo in cui laregia di un “artista totale” come Robert Wilson affida a personaggi clownistici ilvuoto e la miseria della condizione umana. Wilson sceglie Adriana Asti che sindalla battuta iniziale apre una vena di amarezza indelebile: “...Anche questo saràun giorno felice…”. La perfetta corrispondenza testuale di Winnie -sulla cinquan-tina, bionda, grassottella - incontra la scelta registica di immergere la donna in unasfaccettata piramide nera, crepa nell’asfalto che ancor più, rispetto alla monta-gnola di terra delle indicazioni originali, accentua la vacuità e la reificazione del-l’ambiente. Giunta “nel bel mezzo del cammin di nostra vita” per Winnie ognigiorno è un giorno felice, da creare attraverso piccoli oggetti e rituali osservati conocchi nuovi nella loro quotidiana ripetitività; l’ombrello si incenerisce, lo spec-chio si rompe, le scritte sullo spazzolino sono indecifrabili, ma domani sarà tuttodi nuovo lì per aiutare a ingannare un tempo di veglia e di sonno scandito da trillifuoriscena. Il dono della parola si eleva a condizione esistenziale per sentirsi realie presenti in un niente nel quale anche la figura di Willie, il marito che vive in unasorta di tana dietro il cumulo di pietra, scompare. Ridotto a essere animalescodagli istinti elementari e primitivi, sembra neanche Winnie sia sincera nel rivol-gergli quelle parole d’affetto che, nell’assenza di una risposta concreta, suonanopiù come una auto-ricerca di calore. In questa realtà segnata da una condizioneterminale dove anche i suoni sono amplificati, elettronici, lontani, ciò che godedi vita è la luce atmosferica umorale che dipinge la scena passando da calde to-nalità pastose a sfumature lunari spezzate da lampi di neon. Nel secondo atto laparalisi di Winnie precipita ancora affondando la donna nella terra fino al collo,togliendo quell’animato svolazzare di braccia e mani che riassumeva tutta la vi-

talità di un giorno felice in cuicredere. Gli occhi neri spic-cano sulla faccia impastata dibiacca che guarda a passato epresente senza sentimenti esenza spessore, serenamentestatica, e proprio per questo,tremendamente violenta nellosbattere davanti al pubblico un“testo del niente” sulle rasse-gnate aspettative della società.

Una veduta di campagna cala alle spalle della donna, lei nemmeno ci fa caso. Cisono colline e alberi, montagne brulle ma slanciate e un cielo celeste con fiocchidi nuvole: è un trompe-l‘oeil che “inganna l’occhio”, come tutto il vuoto di cuila scena si è fin’adesso riempita.

Francesca Martellini

AMORE E MORTEERODIADE, Teatro Piccolo EliseoErodiade di Giovanni Testori ha avuto una lunga gestazione. La figura di Erodiade,madre di Salomé, balza letteralmente fuori dalla vicenda dell’uccisione di Gio-vanni Battista, colpendo dritto al cuore di diversi autori, Oscar Wilde prima, Testoripoi. È lei a spingere la figlia tra le braccia di Erode e a chiederle la testa di Giovanni,colpevole di aver rifiutato il suo amore. Completamente identificata nella sua pas-sione impossibile, Erodiade sfida l’incrollabile fede di Giovanni, ma ne è scon-fitta. Cerca la morte per non subire l’onta dell’allontanamento da parte del suostesso sangue. Erodiade, personaggio che Testori definì “figura a metà fra il Dioastratto e quello incarnato”, sale sulle assi del palcoscenico indossando il corpo diuna straordinaria e intensa Maria Paiato, regia di Pierpaolo Sepe. La scena è scura,preconizza l’orrore che di lì a poco verrà narrato dalla protagonista. Una passerelladi vetro e lamiera conduce al trono, sul fondo della scena. Pur essendo simbolodel potere, il trono di Erodiade contiene un sentore di morte, essendo così simile auna sedia elettrica. La freddezza del metallo e delle luci, la musica inquietante: glielementi che introducono allo spettacolo.Ecco arriva lei, Erodiade. Indossa un provo-cante abito rosso, come il sangue appenaversato del profeta; il suo volto è coperto daun velo. Sulla passerella si dirige con passoincerto verso il suo algido scranno, mentre lasua immagine si rispecchia e si raddoppianel pavimento di vetro. Raggiunto l’obiet-tivo, complice la musica, il velo cade sco-prendo un volto tragico di ceramica, piùsimile a una maschera della tragedia atticache a una donna reale. Erodiade è schiava diun destino d’amore e morte. Non può fare ameno d’amare Giovanni contro il suo Dio,che ella considera un verbo astratto, una fa-vola. Lo ama nonostante l’odio sprezzantedelle parole rivoltele. È lei a donargli il de-stino di martire, mentre si perde nell’amoredi una carne che si fa verbo a dispetto di ognirifiuto. Ma la morte è l’unica cosa che at-tende lei “l’umana bestemmia, la cenere, ilniente”. Eppure nel morire ritrova la visionedi quell’uomo che le ha segnato la strada. Quando col pugnale si trafigge, la luceacceca il palco, la musica sale a ingoiare i suoi ultimi vagiti di vita.

Concita Brunetti

LA VISITA CHE NON TI ASPETTILA VISITA, Teatro Cometa OffLo spettacolo porta in scena il dramma di Friedrich Dürrenmatt (1956) per la regiadi Claudio Boccaccinie e sorprende e stupisce per il riadattamento. La protagoni-sta Claire Zachanassian, interpretata splendidamente da Silvia Brogi, è una donnache fa rientro dopo tanti anni nella sua città natale, Gullen, per ottenere giustiziaper un sopruso subito in giovinezza. Gli attori entrano in scena cantando la mise-ria del paese città decadente afflitta da una grave crisi economica-sociale. Unpaese così povero che anche l’ora viene scandita dall’arrivo del treno in stazione.Gli attori in scena sono molti, per rappresentare tutte le figure tipiche di un paese,dal poliziotto sinistro ed eccentrico al parroco timorato di Dio e poi ancora il dot-tore e il Borgomastro che dice sempre la cosa giusta al momento giusto fino al pre-side di liceo. Personaggi che prendono forma in questo paese dimenticato da Dio.In questo senso la scenografia gioca un ruolo importante: la scelta di grigi tendentia toni spenti aiutano a inquadrare uno stato di povertà e di cupidigia che si rifletteanche negli animi delle persone; del paesello che per arrivare a fine mese non sipermette nessun bene superfluo. Ma ecco che l’arrivo di Claire riaccende la spe-ranza per tutto il paese, perché ella porta con sé la sua fortuna economica accu-mulata negli anni. L’eccentrica signora, segnata profondamente dalla vita e daltorto subito in gioventù arriva alla stazione insieme al marito interpretato dal ca-maleontico Andrea Alesio che riveste con maestria il ruolo di tutti i mariti cheClaire sposa e subito abbandona. Claire dichiara alla cittadinanza di essere dispo-sta ad aiutare il paese, offrendo un miliardo, in cambio dell’uccisione di AlfredoIll, uno dei più stimati cittadini in seguito alla grave ingiustizia subita in gioventù.Da qui in poi il meccanismo si realizza automaticamente: all’inizio gli abitantidel paese si schierano sdegnati dalla parte dell’amato bottegaio, poi quando ini-ziano a usufruire degli agi con leggera naturalezza accettano la necessità dell’attoquasi catartico da parte di Alfredo; il sacrificio di uno per il bene di molti. Un mo-mento così drammatico, reso leggero e divertente dall’uso astuto dell’ironia, nelvedere il poliziotto, interpretato stravagantemente da Matteo Zenini, ormai cor-rotto e nega spudoratamente, con le sue scarpette bianche, l’indebitamento delpaese. Straordinario il finale che si chiude con lo smascheramento di ciò che tuttinoi quotidianamente mettiamo in atto nel nostro piccolo: Alfredo Ill muore, paesecompresa sua moglie giustificano l’orrore appena compiuto quale atto necessario,in fondo doveva pagare. Spettacolo ben realizzato da tutti i punti di vista, plausospeciale alle musiche di Marco Savatteri: in uno sfondo così grottesco e desolanteaiutano a leggere l’opera in chiave ironica.

Silvia D’Addazio

Krapp (Bob Wilson)

Winnie (Adriana Asti)

Erodiade (Maria Paiato)

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TeatroDOMINIO INCONTRASTATO DELLA PAROLAPILADE, Teatro VascelloDal sipario ecco apparire appena lo spicchio di un volto di donna, illuminato dauna luce lunare: è il viso di Manuela Kustermann, direttore artistico del teatro.Poi lo spiraglio si richiude e la sala ripiomba nel buio totale. Ecco, la tragedia pre-senta se stessa e inaugura la lugubre atmosfera mortuale al lume della quale lanarrazione procederà. Dopo poco, il sipario si riapre definitivamente offrendoallo sguardo degli spettatori curiosi una scena evocativa e scarna, a rappresentarela città di Argo. I segni connotativi della scenografia sono tre: un telo dipinto instile informale che, a mo’ di fondale, sta a significare i monti che circondano lacittà regale di Agamennone; la reggia è disegnata da due elementi fortementeevocativi, la scalinata e il trono. La storia che prende corpo su questa scena èuna tragedia scritta da Pier Paolo Pasolini che, colpito dall’intensità della Trilo-gia eschilea sulla saga di Agamennone ed Oreste, decide di aggiungere un ultimoatto a suggello del capolavoro greco: il suo Pilade. Rispetto al testo pasoliniano,questa regia di Bruno Venturi è decisamente più asciutta, sia per quanto concernei testi che per gli attori. L’intera rappresentazione è affidata a solo quattro perso-naggi: Antonio Piovanelli è Oreste, tornato ad Argo dopo aver compiuto il ma-tricidio ed esser stato assolto da Atena; la Kustermann veste i panni di Elettra,imprigionata in un ordine atemporale che segue ancora la linea del sangue ma-terno e dunque reale che le scorre dentro; Oreste Braghieri interpreta Pilade, l’a-mico fidato per eccellenza che Pasolini fa andar via e abbandonare Oreste persalvarsi dalla corruzione della città; infine il giovane Salvatore Porcu, un seguaceo forse amante di Pilade. Molte sono le intuitive e semioticamente originali tro-vate sceniche del regista, come la vacca che giace sospesa a mezz’aria sulle testedegli attori, lì a rappresentare la carne, il corpo, la morte degli ideali e delle per-sone, l’ideale tragico del disfacimento e il pensiero politico pasoliniano votato adun certo pessimismo. Splendida la recitazione della Kustermann che, non va di-menticato è stata forgiata da un non comune maestro come Carmelo Bene. Fre-sco e brillante il giovane Porcu, estremamente plastico col corpo, un po’ menonell’espressione vocale; sarebbe stato decisamente un degno modello per un di-pinto del Caravaggio. Eppure tutto ciò non basta a salvare uno spettacolo com-plessivamente ben fatto, ma affondato dalla recitazione noiosa e cantilenante deidue protagonisti maschili. Nella drammaturgia del lavoro di Venturi domina in-contrastata la parola, e lo vediamo dai lunghi monologhi di Pilade e Oreste, la pa-rola come contenuto, in perfetta aderenza al teatro di Pasolini. Ma l’estenuantemonotonia delle voci, rese ancor più sgraziate e stonate dal loro volontario indul-gere nel vernacolo, dilata il tempo conducendo allo sbadiglio anche lo spetta-tore più accorto.

Concita Brunetti

TRA FICTION E FANTASIACUORE DI NEVE, Teatro BelliRappresentazione di uno dei più interessanti temi della vita: la morte. Argomentoaffrontato da un cast di bambini, età tra i 7 e 13 anni, dove il mondo cui appar-tengono è la distinzione tra maschietti e femminucce, fra bello e brutto e una vi-sione più semplice e ingenua della vita. Un tema così tragico la cui semplicitàrestituisce una visione, o meglio un’impressione, meno triste ma più magica eleggera. Positiva l’interpretazione del protagonista Andrea Amato in Mattia,bimbo costretto a letto per problemi al cuore proprio nel periodo di Natale: men-tre tutti corrono e giocano con la neve lui, se ne sta solo in camera a pensarequanto sarebbe bello scendere dalle colline con la slitta. È la storia di un bam-

bino comune malato di cuore che allettatonon rinuncia a vivere la quotidianità dellacasa, degli amici che lo vanno a trovare edella cotta per la sua amica Camilla. Igiorni passano e la sua stanza diventa sce-nario di tutti i momenti e dettagli di vitaquotidiana e della sua, e gli riempiono ilcuore. Sono molte le riflessioni che uncast d’eccezione ci induce a fare: primafra tutte l’audacia di fare uno spettacolocomposto da un cast così giovane. È stataproprio questa la coraggiosa scelta diGuido Governale e Veruska Rossi, idea-tori e autori della piece, che, ispirandosi aun modello d’insegnamento di più ampiorespiro come quello americano e inglese,

lasciano raccontare i frammenti di una vita solo a bambini. Di solito i piccoli at-tori recitano a fianco degli adulti, in questo caso sono stati i due genitori che mar-ginalmente hanno recitato al fianco dei bambini. L’impronta però richiama i ritmie gli stili della fiction: la scena iniziale apre con la lettera che Mattia avrebbescritto a Babbo Natale e che, a mo’dì pellicola, viene proiettata, narrata e accom-pagnata da una musica. Ma alla fine è sempre la visione infantile e un po’ fanta-stica che prevale: una notte a Mattia appare una creatura misteriosa di nomeZenorol (Lorenzo Vigevano), angelo-bambino che sceso dal cielo con altri pic-coli angeli, si raccontano l’un l’altro del proprio mondo. Nasce un rapporto spe-ciale, alternando parole sentite e silenzi compresi, così Mattia capisce che infondo non ha niente da temere, e si lascia condurre da loro su nel cielo. Luci, co-stumi, musica hanno sottolineato con maggiore o minore intensità i momenti piùintensi dell’opera e il passaggio al mondo ultraterreno. Risaltano così due realtàche si incontrano, il cielo e la terra, si osservano, poi si raccontano.

Silvia D’Addazio

RITORNA SCIOSCIAMMOCCA‘O SCARFALIETTO, Teatro Quirino Vittorio GassmanC o m m e d i avivace e di-vertente na-poletana diE d u a r d oScarpetta, conLello Arenanel ruolo diFelice Scio-sciammoccae il registaGeppi Gleije-ses nei doppipanni di av-vocato e dit e s t i m o n e .Questo testoè uno dei meccanismi comici di battaglia del padre del teatro dialettale mo-derno, appunto Scarpetta, che ha saputo adattarlo da molte pochade francesi,creando situazioni totalmente prive di profondità, assolutamente efficaci, gra-zie al ritmo e alla sapiente calibratura tra battute ed equivoci, per spingere lospettatore alla risata. Negli anni molti sono stati gli attori e i registi che hannoportato in scena questo testo, ciò che contraddistingue Geppy Gleijeses è chenella messa in scena tende a non farlo diventare una brutta copia dell’origi-nale: per evitare la macchietta attinge all’astrazione, al distacco, al surreale purpartendo da connotati assolutamente realistici cercando una musicalità e unequilibrio in tutta l’opera. Così la scena si apre con personaggi che escono daun libro impolverato come figurette di un mondo che ormai non esiste più, diun passato cristallizzato e nel quale faranno rientro nel finale. Ma ‘o scarfa-lietto non rappresenta solo la volontà del regista di rendere omaggio a unpezzo di storia della comicità napoletana, è anche una descrizione tragico-mica di una delle peggiori realtà di una Napoli di provincia spogliata dai Sa-voia e annichilita da una piccola borghesia che tenta di farsi stradaarrampicandosi sulla burocrazia, una delle poche risorse che le resta. I cancrie le escrescenze di questa società sono spesso ripresi anche non bonariamentedi personaggi: ad esempio Amalia, moglie di Felice Sciosciamocca, bravis-sima nell’interpretare questo personaggio violentissimo e sempre adirato conil marito (Marinella Bargilli), Dorotea Papocchia (Gina Perna) moglie di Gae-tano Papocchia che non affila una parola corretta pur atteggiandosi a signoraparigina e poi impresari di quart’ordine o avvocati azzeccagarbugli come An-selmo Ranalli, afflitto da una balbuzie equivoca e ironica. Insomma mix di co-micità accompagnato da sapiente lavoro di regia.

Silvia D’Addazio

MEDIUM E PUBBLICOSERATA ECCENTRICA (COSE DELL’ALTRO MONDO), Teatro Tor di NonaLa compagnia teatrale La Difference mette in scena spettacolo notizie dal-l’altro mondo regia di Riccardo Reim. Spettacolo tra macabro e grottescoche vede la bravissima Elisabetta De Palo, resa famosa della soap Vivere,nei panni della nota medium Eusapia Palatino: antico personaggio nata aMurge, in Puglia nel 1854. È una medium analfabeta che divenne popo-lare per le sue stregonerie a volte vere altre volte solo volgari imitazionicon trucchi stupidi e appariscenti espedienti. La scena si apre con il pub-blico a diretto contatto con gli attori: lo spazio scenico ingloba anche glispettatori. Di lato due tavolini illuminati da candele e un grande tavolotondo sul palco, attorno due persone sedute sulle sedie giacciono collebraccia riverse sul piano orizzontale. La situazione è bizzarra e surreale,un ciarlatano vestito di nero si agita declamando le virtù della medium,mentre di lato c’è un altro uomo che con fare incredulo è ormai stanco disentire annunciare la celebratissima medium. Lorenzo D’Amento bravis-simo e pieno di enfasi continua durante l’opera la promozione della me-dium, una donna da un carisma tale da attirare a sé nobili e personaggi dispicco nelle sue serate eccentriche. Intanto in scena arrivano i suoi ospiti,all’apparenza due coppie normali che però celano i desideri e le violenzeinconfessati dell’Italietta inizio secolo; di quell’epoca così perbenista etanto ipocrita. Gli attori cercano spesso un contatto con il pubblico cer-cando di creare un legame, come se volessero render partecipi della sedutaspiritica che stava per iniziare. Lo spettacolo si può apprezzare maggior-mente vedendola sotto la chiave interpretativa del burlesquè, necessarioper spiegare le violente interpretazioni degli attori che spesso urlanousando un distaccato umorismo; altrimenti non rimarrebbe altro che un’o-peretta bizzarra e a tratti fastidiosa. La narrazione della storia sulla lucer-tola solare che diventa cieca verso la fine della sua vita viene propostadalla voce di Elisabetta De palo recitazione perfetta in tutte le escalationdella tragicommedia burlesca. In sottofondo il motivo nuovo del compo-sitore delle musiche di scena, Raffaele Nicolì, che in una cornice tragicae grottesca offre note più soavi.

Silvia D’Addazio

Amalia Sciosciammocca (Marianella Bargilli), Gaetano Papocchia (Geppi Gleijses), FeliceSciosciammocca (Lello Arena)

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TEATRO RITUALECERIMONIA, Teatro Quirino Vittorio Gassman

All’interno dei suoi spazi il Teatro Quirino, baluardo di una certa tradizione scenica,sfida se stesso aprendosi alla notevole rassegna Quirino Revolution-Mad, giuntaalla seconda edizione. Lo stesso Lorenzo Gleijeses, responsabile artistico del festi-val, lo definisce "una maniera di far cortocircuitare universi liminali", in quanto alsuo interno convivono spettacoli, performance, installazioni, e attraversamenti sce-nici, all'insegna della contaminazione dei linguaggi e dei nuovi percorsi. Per dareil via a questa seconda edizione si è scelto di dar vita a un biblico evento che, comenella storia della mitica Babele, mescola nature e linguaggi tanto diversi da portarenon già a una muta incomunicabilità, bensì alla nascita di un Esperanto teatrale erivoluzionario. Cerimonia, questo il titolo dello spettacolo di apertura della rasse-gna, fa un po' da manifesto fondativo della volontà di decostruzione delle nuovemodalità espressive del teatro e della danza. Spettacolo difficilmente narrabile, in-nanzi tutto perché la regia della serata-spettacolo viene consegnata nelle mani dellospettatore. Lo spettatore, quasi bambino in un negozio di caramelle, viene lasciatolibero di vagare per ogni anfratto del teatro alla ricerca della sua storia, del suo per-corso iniziatico verso i lumi di un nuovo teatro. Cerimonia è spettacolo con un nu-mero impressionante di attori, artisti visivi, performer di varia estrazione, distribuitiin tutte le strutture del teatro, dal palcoscenico agli sgabuzzini, dagli uffici ai came-rini. L'illusione che si vive è quella di un cerimoniale convivio nelle viscere del tea-tro, un convivio in cui attori, danzatori, musicisti, tecnici e spettatori possonofondersi in un unico piatto fumante. La mia personale cerimonia si apre con la mu-sica di Sigourney Weaver, messa in moto dai corpi seminudi di Biagio Caravanoe Daniela Cattivelli. Attraverso i suoni casuali di memoria "cageana" e i singulti deiloop elettronici, mi sono addentrata nell'atmosfera magico-rituale. Per sorprenderee scioccare anche lo spettatore più scaltro, si è giocato con gli opposti. Musiche erumori elettrici sopraffanno o vengono sopraffatti dalla tradizione del teatro parte-nopeo più macchiettistico di Gino e Gigi De Luca, sarcofago di un teatro che fù.Un teatro che solo e unico strappa ancora un'amara risata a un pubblico che si cullanell'affezione e nell'immediatezza. Eppure è forte il contrasto con ciò che li cir-conda, e basta poco a strapparci dalla consolazione di una semplice comprensibi-lità per scaraventarci nel gioco farsesco di Anna Redi e dei suoi danz-attori, chesimulano il gioco del teatro elevato al quadrato, coinvolgendo anche fisicamentelo spettatore disorientato. Dal retropalco si giunge ai camerini per una schiaffeg-giante carrelata sui mondi e i modi del teatro. Qui possiamo incontrare dichiaratimaestri proiettati sui muri, come il crudele Artaud, oppure celati dietro una portacon occhi vivi, come nel caso dell'ancor più crudele Carmelo Bene. Ma sono gliattori vivi che articolano e disarticolano di porta in porta un discorso critico sulteatro, alternando storie narrate in siciliano dal un provetto attore di meno di dieci

anni, Marco DeRose, alla narra-zione del corpodella Buto dancedi Marie ThereseSitza. Come in unvero rituale, final-mente si giunge aun momento dicomunione in cuil ' individualitàforte dello spetta-tore-viaggiatoresolitario si spezzain favore di unafruizione più glo-balmente e tradi-z i o n a l m e n t e

intesa. Per un attimo o forse più il sacrilego vagabondaggio attraverso le viscere delteatro lascia spazio alla ritualità più integrale e seduti si assiste alla cerimonia checelebra se stessa e la propria storia. Seduti gli spettatori perdono lo scettro dellaregia e assistiono alle esibizioni partecipate di un’Anna Redi insolitamente attrice,seguita da un omaggio al princincipe della risata, Totò. Chiudere l’eterogenea se-rata la comicità patafisica di Antonio Rezza, con un rapido collage di suoi classici.

Concita Brunetti

UN FATTO DI CRONACA DI IERI, OGGI, DOMANIFATTO DI CRONACA, Teatro QuirinoVittorio GassmanLa violenza contro la donna, si sa, è vecchia quanto l’uomo, ma stavolta non ècolpa sua, ed è lui quello da salvare. Aveva ragione il barbiere, gliel’aveva detta giu-sta il macellaio su Clara, la figlia dell’accondiscendente Don Giovanni, che ripiegafestoni di carta mentre la figlia apre la porta e le braccia al biondo Alfredo e allesue smancerie da giovanotto dei sobborghi napoletani di inizio secolo. Arturo Sam-marino entra in casa proprio nel cuore dei festeggiamenti per l’onomastico del suo-cero, e la sua presenza svuota la scena. Rimasti soli accusa la moglie Clara chepiange, nega, lui fa per alzare una sedia ma lei arretra, precipita dal balcone. Un vololungo visto al rallentatore, tra le vesti che si scompongono e un ventilatore in scenache sferza la luce scomponendola in raggi intermittenti. La morte della donna èstata un incidente, che solo Scemulillo può provare per scagionare Don Arturo, maè sufficiente una parola di troppo, un fraintendimento, la soggezione davanti alleforze dell’ordine, e un innocente vienearrestato. La folla scomposta davanti alcadavere miseramente coperto da unlenzuolo bianco, la stessa che finora si ècostituita in un coro di alibi e commentitra arretramenti e alzate di braccia, gridacontro l’ingiustizia accusando lo scon-volto garzone, che -povero ragazzo- seviene chiamato Scemulillo un giustomotivo ci sarà. Dal primo atto con lafesta terrazza al vicolo popolato da povera gente, arrivando al momento conclusivoambientato nel piccolo appartamento di una famiglia disperata, le scene si susse-guono come uno zoom in restringimento su una realtà segnata dall’omertà e dallasalvaguardia del proprio interesse, dove una parola è troppa ma è lecito abbondarequando altri non sentono, e la verità è un lusso che nasce solo davanti alla minac-cia. Il lavoro che Arturo Cirillo compie con la compagnia Punta Corsara si fondasull’elaborazione di un testo scritto nel 1922 da Raffaele Viviani, multiforme uomodi teatro napoletano, e pur mantenendo un’ambientazione d’inizio secolo non si ri-chiedono grandi sforzi d’immaginazione per accostarne le tematiche al presente.Punta Corsara è un gruppo che nasce e si consolida all’interno di un laboratorio diformazione promosso dalla Fondazione Campania dei Festival, finalizzato all’edu-cazione teatrale giovanile e alla trasformazione in centro culturale del semi-abban-donato Auditorium di Scampia. Affiancando ai giovani attori alcune delle “puntedi diamante” della sua storica compagnia (Salvatore Caruso e Rosario Giglio), Ar-turo Cirillo costruisce uno spettacolo corale, dove la comicità amara nasce dal tra-gico e dai ritmi serrati, dai sotterfugi e dalle menzogne e -soprattutto- dalla pauradell’altro. Una continua mistione che mette alla prova gli attori, professionisti omeno che sul palco sanno mostrare, con tutta la loro genuina napoletanità, il fattoe le contraddizioni che vi sono dietro.

Francesca Martellini

UN CORPO DI CIGNO CHE SATURA UN TEATROODETTEODILE INVESTIGATIONS, Teatro Quirino Vittorio GassmanUn pizzico d’immaginazionepuò servire, aiuta a dosare glielementi scenici, cogliendolial di là della loro fisicità inuna visione d’insieme cheprende corpo nel momento incui si arretra per meglio met-tere a fuoco. Ciò è necessarioperché OdetteOdile Investi-gation non è né danza né tea-tro, ma corpo animale, forzaviva, ambiente spettacolare -scrive il regista- “...ispirato alluogo dove si svolge l’Evento..”. La I Variazione su Il Lago dei Cigni di Enzo Co-simi è una visione moderna della fiaba che fa da sfondo a uno dei più noti ballettidell’Ottocento, completamente filtrata attraverso occhi femminili che si moltipli-cano per circondare la platea e raccoglierla sotto grandi ali. Odette e Odile, la re-gina dei cigni e il suo alter ego, sono un bianco e un nero che si alternano e siaccompagnano sul palco tra vapori e luci, corpi nudi e magri che nelle modernemovenze nervose rielaborano i passi di danza classica. Odile, dipinta di un nerouniforme, reagisce alle note con gesti sincopati, la figura si contorce su un cubo oserpenteggia solitaria per tornare accanto alla chiara Odette a esibirsi in momentiparalleli, vicine ma senza sfiorarsi. La storia d’amore del principe Siegfried e dellaregina dei cigni, ostacolati dall’ammaliante fascino della subdola Odile, procedeper simboli e immagini che si fanno sineddoche di uno spettacolo compatto e con-creto, che fuoriesce dallo spazio scenico per circondare il pubblico tra piume, corsee pendagli lucenti. Ventiquattro bambine dell’Accademia Nazionale di Danza en-trano ed escono per occupare i corridoi e il proscenio, la loro delicatezza infantileè uno stormo bianco imprevedibile, un imponente animale che riempie l’evento.La figura maschile sul palco, più che principe infiammato, è coordinatore dellascena, e il regista Enzo Cosimi ricopre metateatralmente questo ruolo, trainando leredini dei momenti scenici facendosi all’occorrenza compagno, tecnico, didasca-los. La freccia che lo trafigge nel finale è un atto di morte, ma il pubblico applaudea un corpo denso che ha posseduto la vita in ogni suo arto.

Francesca Martellini

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QUANDO LA MORTE METTE SOLO A DISAGIOAMMAZZANDO IL TEMPO, Teatro Quirino Vittorio Gassman

Lo spettacolo inizia con mezz’ora di ritardo: “Julia ha bisogno di altri 10 minuti”, spiegail ragazzo che si affaccia dalla porta laterale. In sala le maschere gesticolano da una parteall’altra per indicare ai possessori di biglietti non numerati i posti disponibili -a terra enelle prime due file- perché oltre non è garantita la visibilità. Una ventina di minuti dopoil pubblico si alza per applaudire a una scena vuota, accenna pure un battito di mani più rit-mato e esortatorio, ma Julia Valery, storica attrice dell’Odin Teatret, unitasi alla compagniadi Eugenio Barba sin dal 1976, non esce a riceverli. I 17 minuti della vita di Mr. Peanut,come recita il sottotitolo, si srotolano con velocità all’interno di questi momenti extra tea-trali “poco distesi”, che alternano nello spettatore un senso di sospensione e di attesa allapercezione di essere quasi elemento di disturbo, un “di più” che richiede di essere arginatoe contenuto. Il personaggio-simbolo dell’Odin Teatre entra in scena seguito dalla musica,che con brani eterogenei scandisce i tre momenti dello spettacolo. Mr Peanut, con il corpoimpacciato e sproporzionato dalla piccola testa-teschio, è viandante in frac sull’amma-liante e triste tromba di John Coltrane, compie il gesto di seminare, stende biancheria in-tima su un filo da bucato, si pettina il cranio rasato, spara silenziosamente al pubblico conuna minuscola pistola che poi si punterà alla tempia. La lentezza dei gesti si adagia sullenote jazz, finché le luci non si riaccendono su un animato swing, e Mr. Peanut si spogliaper diventare massaia in abito rosso che pulisce a tempo di musica. È un’emozione pun-gente quando accudisce il bambino che dormiva nella piccola bara, le dita magre dell’at-trice trastullano il bambolotto, ma la goffaggine del corpo-scheletro incombe rendendo lascena agghiacciante e fastidiosa. È forse questo il contrasto che colpisce lo spettatore allostomaco, il momento in cui vive sulla scena “l’homo agens che cambia e si cambia”, comescrisse Barba quando esplorava e spiegava quello che il professor Marco De Marinis, inprima fila, ha indicato come uno dei momenti del “Nuovo Teatro”. Le immagini sono difacile lettura, immediate nella loro antinarratività, si seguono senza la pretesa di leggerviun senso permettendo alle sensazioni individuali di manifestarsi con intensità maggiore o

minore. Un gioco di prestigio rende scheletrico il bambolotto, che si adagia scomposto tra le braccia di una sposa-cadavere che china la testa sull’Ave Mariadi Schubert, e le note che sfumano lasciano un senso di disagio che avrebbe potuto essere terrore.

Francesca Martellini

In scena uno degli affermati talenti del teatro di narrazione contemporaneo.Davide Enia, un condensato di tradizione e sperimentalismo; è sul palco conuna seggiola, e tanto gli basta per forgiare un racconto, una favola contem-poranea; verosimile, amara e dolce di un quotidiano antico, ma che suonanote ancora orecchiabili. Quella di Enia è la storia che il pubblico-bimbobrama di sentirsi rivelare. Al centro dell’azione un evento di cronaca che insé può ben dirsi banale, una partita di calcio, quella che portò la squadraitaliana ad aggiudicarsi la vittoria ai mondiali del 1982. Una delle più noteimprese calcistiche della tradizione italiana semirecente diventa, in questospettacolo, uno spaccato di vita familiare, intima, e insieme una storia col-lettiva di tutta una classe piccolo e medio borghese italiana che, in un pome-riggio d’estate, fece di undici sconosciuti in calzoncini corti la possibilità diriscatto e di realizzazione personale di tutta una vita. La matrice siciliana èricercata, ma non inseguita, è naturale estrazione, educazione e formazionedi uomini. Lo spettatore è cullato da un accento marcato, ma elegante di ro-tondità e di termini onomatopeici e precisi, affinati dai secoli per leggere eriscrivere con le tinte più giuste le storie di Sud, che profumano di pranzo intavola di balconi assolati, di case rumorose e premurose, come le mamme chepassano le dita affusolate nei riccioli dei figli. Una narrazione tanto imma-ginifica quella a cui si assiste, eppure fortemente radicata nei movimenti, fi-sica, cadenzata di respiri costruiti, ritmici; perfettamente complementari conlo scorrere dell’azione. Accompagna il racconto una base strumentale, che si

affianca alla parola com-pletando il quadro armo-nico dell’esposizione. Lanarrazione vive di unaparte dolcemente fiabesca,fattuale, e di una quasimeccanica, che è costru-zione di voce e tempo.Prova lampante che lasperimentazione è ancheassimilazione e rielabora-zione di metodi che la tra-dizione stessa tramanda, illavoro di Davide Enia simuove con un occhio alpassato, nella generazione di senso così come sul terreno della costruzionedi forma, ma senza scadere mai nel nostalgico. Non si ammorba nel ricordoe non si fregia di tecniche narrative arcaiche pure, ma seleziona e poi cen-trifuga le esperienze del passato per permettersi di creare dal vecchio ilnuovo, e, intelligentemente, ripropone forme contemporanee, con estremasemplicità e pulizia, eppure che non recidono le radici.

Ofelia Sisca

LA SPERIMENTAZIONE È ANCHE ASSIMILAZIONE E RIELABORAZIONE DI METODIITALIA–BRASILE 3 A 2, Teatro Quirino Vittorio Gassman

Ci sono storie seducenti, quelle che catturano l’attenzione, che trasudano bene e male, che in-sieme attraggono e ripugnano. Quella di Alì, Mimoun El Barouni, è pregna di odori, di im-magini disgraziate e congiuntamente di una speranza, forse, in fin dei conti e dopo tanteperipezie, neanche del tutto disattesa. Un racconto di vita, di immigrazione, droga, violenza,botte e galera. Una storia che oggi potremmo sentir raccontare, o molto più probabilmente ac-curatamente nascondere, a ogni angolo di porto. È forse anche questa normalità aberrante,che ignoriamo nella quotidianità, che ci avvicina fatalmente ad Alì, alla sua vicenda, e in-sieme al narratore attraverso cui percepiamo i fatti e il cuore della storia. Il racconto, infatti,è affidato all’attore detenuto Jamel Bin Salah Soltani, che come un cantore, antico nella suavoce cavernosa e calda, rivive, dolorosamente, un passato non suo, ma che sulle sue perso-nali ferite brucia come il sale. L’attore è greve nell’abito scuro, e fasciato, stretto dal buio, euna lampadina pallida gli rischiara solo il viso. Le parole sono pesanti meticce di stralci dipoesia araba, misticamente chiara e commovente, tanto quanto è incomprensibile di senso.Non una smorfia segna il viso di Jamel che si rispecchia in quello di Alì, ogni tanto un ghi-gno scivola sul volto serio e granitico. Contrito. Le mani serrate in un intreccio stretto, quasicontenitivo, Jamel trattiene a sé e dispensa con parsimonia, e somministra con dolcezza, le

pillole amare di una vita sbagliata, di Alì, della sua; una pillola che prova a guarire, fuori dal giustificazionismo e dall’assistenzialismo, dalla paura e dallamania di giudizio. Un lavoro a quattro mani -e una voce, quella di Soltani- scritto da Alì insieme con Armando Punzo, regista di tutti gli spettacoli dellaCompagnia della Fortezza del carcere di Volterra. Ancora una volta un lavoro personale e graffiante, che non ha paura di buttare il cuore di chi vive o havissuto la condizione carceraria in pasto al pubblico, che risponde, anch’esso, anche questa volta col cuore.

Ofelia Sisca

STORIE SEDUCENTI CHE TRASUDANO BENE E MALE, CHE ATTRAGGONO E RIPUGNANOIL LIBRO DELLA VITA, Teatro Quirino Vittorio Gassman

Julia Valery

David Enia e i musicisti Giulio Barocchieri e Fabio Finocchio

Alì Mimoun El Barouni (Jamel Bin Sakah Soltani)

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Teatro

NESSUNO LANCERÀ LA PRIMA PIETRALE STREGHE, Teatro dei Contrari

Su ogni poltroncina di velluto c’è una pietra, un bel sasso bianco che inevitabilmente ogni spettatore deve spostare perabbassare il sedile. Assale il dubbio (metterlo in borsa? Poggiarlo a terra?) e intanto inizia lo spettacolo con un oggettodi linciaggio che diventa ardente tra le mani. “Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bru-ciarle”, recita un aforisma di Voltaire, ma cinque storie dei nostri giorni illuminano un presente in cui il mito della donna“nera”, sebbene uscito dalla sfera della credenza per depositarsi in quella dell’epiteto, innesca roghi metaforici gene-ranti combustioni che marchiano a fuoco. “Strega” è la professoressa che affetta una verza con quella stessa sapientecrudeltà con la quale chiede agli studenti un esempio di sineddoche, che gode del terrore che genera lo scorrere del suodito tra i nomi del registro e intanto proprio di questo animo giovanile si nutre, per colmare un vuoto di affetti e di sen-timenti che la precoce responsabilità familiare le ha riversato addosso. “Strega” è la mamma smarrita e svuotata chelava un golfino bianco su parole agghiaccianti delle quali ha perso coscienza, è la sindacalista molto fastidiosa che troval’appellativo sul muro di casa il giorno prima di essere devastata dall’acido, è la suora “praticante non credente” chefa il bagno in una vasca di bolle e sorride sul misticismo affascinante della sua catechista. La femmina accabadoraemerge dalle piaghe del tempo, il suo non è lavoro ma destino e il suo sguardo stanco racconta il lato umano di unapratica che oggi scinde la società: l’eutanasia. Ciascuna di queste storie, tra cronaca e storia, è lontana anni luce dallaseduzione e dalla magia e tremendamente vicina alla universale fragilità umana, all’incomprensione, alla solitudine,al pregiudizio. Delicato e pulito è lo spettacolo di Linda Di Pietro, che fa indossare i monologhi di Marco Avarello abravissime attrici: Tiziana Scrocca, Marta Nuti, Antonella Civale, in grado di riversare il dramma e il disagio nelle pa-role misurate e nei gesti contenuti che le rendono talmente reali da mettere a disagio. Si lascia la sala dopo aver appog-giato il sasso bianco lì dov’era: davanti all’intimo di cinque donne nelle quali magari ci si è riconosciuti, nemmeno ha

sfiorato l’idea di colpevolizzare e ci si è quasi scordati della pietra tra le mani, ma quante volte non si è esitato ad alzare il braccio?Francesca Martellini

QUANDO LA SATIRA ERA ELEGANTE SORRISOIN UN VECCHIO PALCO DELLA SCALA, Teatro dell’AngeloPer ricordare e giustamente celebrare i 70 anni dell’inizio delle attività del Quar-tetto Cetra, il gruppo Pandemonium porta da anni in scena un gradevolissimospettacolo intitolato proprio con uno dei maggiori succesi del celebre quartettocanoro. Il Quartetto Cetra rappresenta una tappa importante nella storia della ri-vista e ancor più nella storia della radio e della televisione italiana. Attenzione,si parla della televisione italiana delle origini, dove, se pur c’erano lotizzazionie clientele, c’era anche e soprattutto qualità del prodotto, perchè vigeva ancheil rispetto dell’utente e dello spettatore. Quattro persone, quattro voci diverse,un’unico obiettivo: attraverso le canzoni (meglio ancora se dal ritmo swing ame-ricano!) raccontare una storia e amorevolmente sottolineare con una garbata sa-tira difetti e difettacci dell’italiano medio. Ogni canzone era una storia,raccontava un piccolo avvenimento, spesso spiritoso, non solo emozioni e abu-sate rime “amore-cuore”. Virgilio Savona in testa (il “genio” musicale delgruppo), Lucia Mannucci (sua moglie, l’unica ancora viva), Tata Giacobetti eFelice Chiusano fanno poi un passo successivo: mettono in scena un classicodella letteratura con lo strumentodella parodia musicale nella feliciss-sima trasmissione del sabato sera “Bi-blioteca di Studio Uno”:indimenticabili Il Conte di Montecri-sto, il Fornaretto di Venezia, Il ConteDracula, l’Odissea, I Promessi Sposi,solo per citare i più noti e i meglio riu-sciti. Assieme a grandi attori televisivie teatrali, la formula era gradevole eben costruita e in un popolo ancoratroppo poco alfabetizzato faceva na-scere la voglia di leggere, leggere.leggere. I Pandemonium, abbando-nata da anni la canzone leggera tradi-zionale (che pur li vide applauditi interpreti trent’anni fa a San Remo) hannoripreso con intelligenza e capacità questa formula, accreditandosi come gli eredidel Quartetto, pur se, non me ne vogliano, i Cetra restano doc e inimitabili!

Maria Pia Monteduro

PER NON TRADIRE ENDRIGONEL MIO PERIMETRO DI SOLE, Teatro DueSergio Endrigo è stato uno deidei maggiori cantautori ita-liani, non c’è dubbio. Pur sefu cantante di grande suc-cesso,vincitore anche di al-cuni Festival di San Remo,egli non tradì mai la sua venapiù autentica, riuscendo sem-pre a realizzare canzoni in cuiil testo non era mai banale,anzi. Ecologista ante litteram,quando il problema dellosfruttamento delle risorsedella Terra era ancora quasi sconosciuto, Endrigo compone canzoni appuntoecologiste e impegnate, traducendo a volte poesie di autori stranieri, spessoin collaborazione con l’amico Sergio Bardotti. Di se stesso amava dire di es-sere non un cantante, ma più semplicemente un uomo che canta. Ciò pre-messo è sempre lodevole l’iniziativa di dedicare all’artista istriano unrecital, alternando all’intepretazione di molti suoi brani noti la lettura inter-pretata di alcune poesie, meno note, ma non per questo meno interessanti.Ciò però che non convince assolutamente dello spettacolo messo in scenada Gianni De Feo è l’interpretazione offerta proprio delle canzoni di En-drigo. La libera interpetazione deve sempre essere rispettata, è ovvio, maci si domanda che senso abbia il “trascinare” le note e la melodia in un ritmolento e sicuramente altro da quello che aveva ideato Endrigo. Una nuovaintepretazione, a parere della scrivente, sicuramente da rispettare, ma chenon rende omaggio all’artista, per chi ha avuto la fortuna di ascoltare la suamusica quand’era in vita, e tale da non attirare nuovi estimatori. La gran-dezza di Endrigo è sempre più omaggiata, ad esempio, da Franco Battiatoche negli ultimi anni riscopre autentici capolavori, intepretandoli natural-mente a proprio modo, ma non tradendo la struttura della melodia endri-ghiana, valorizzando la forza autentica e la poesia struggente dei testi.

Maria Pia Monteduro

C’è un punto di contatto tra le tre grandi religioni monotesiste che può diven-tare volano per una convivenza pacifica, serena e reciprocamente rispettosa?Più che un punto, è una figura carismatica, moralmente un gigante, il patriarcaper eccellenza: Abramo. La Bibbia racconta con dovizia di particolari la vi-cenda umana e metastorica del patriarca-profeta, l’uomo che prima di Mosè,prima di Maria di Nazareth dice “sì” al Dio d’Israele, seguendolo anche sustrade sconosciute e ignote e offrendogli il più grande sacrificio che una divi-nità possa chiedere a un fedele: l’uccisione del proprio figlio innocente. Ed èproprio nella paternità obbediente la chiave di lettura del personaggio Abramo:dai suoi due figli, avuti da due donne diverse, deriveranno due mondi assur-damente in conflittto: da Ismaele (nato da Agar) il mondo islamico, da Isacco(nato da Sara) il mondo ebraico/cristiano. Questo dato fondamentale (storicoo no che sia, o generato da diverse tradizioni religiose) dovrebbe porre fine aogni conflitto in Terra Santa: siamo tutti figli dello stesso padre! Lo spetta-colo, realizzato in occasione del Sinodo Speciale dei Vescovi sul MedioOriente, è un progetto pluriannuale, che nato a Roma si sposterà poi proprio

in Medio Oriente; spettacolo con stuttura musicale, ideato e diretto da LorenzoCognatti, è stato portato egregiamente in scena dal gruppo teatrale Jobel chedalla sua fondazione dieci anni fa nell’anno del Giubileo (jobel è l’antico stru-mento ebraico con cui si dichiarava l’apertura dell’anno giubilare) è molto in-teressato a un teatro religioso, dove con tale termine s‘intende l’attentorecupero della tradizione teatrale in cui il mito e il rito s’intrecciano: da qui ilrecupero di molte forme teatrali medioevali e goliardiche. Lo spettacolo coin-volge e commuove, pur se forse in alcuni momenti la regia cerca di ammiccareal pubblico, che infatti risponde con entusiasmo. L’evento è ancora in progresse nella sua lunga tourneè si arricchirà sempre più di suggestioni e diversescelte. Resta basilare comunque l’ultima battuta, affidata a Abramo, che è lachiave di volta dello spettacolo ed è la cifra intepretativa dell’atteggiamentopositivo e propositivo nei confronti di fratelli di altre religioni “La molteplicitàè il segno della diversità, quindi la diversità è parte della benedizione“. Spe-riano che quest’insegnamento non rimanga vox clamans in deserto!

Maria Pia Monteduro

LA DIVERSITÀ È PARTE DELLA BENEDIZIONEABRAMO, Chiesa di Santo Spirito in Sassia

I Pandemonium

Gianni De Feo

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Antonella Civale

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La campagna abbonamenti alla stagione concertistica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia troneggia nella capitale su autobus e marciapiedi con cartellonicolorati, uno dei quali spicca più simpatico tra gli altri: “BACCHETTA. Se hai pensato solo a Herry Potter, forte è tempo di abbonarsi a Santa Cecilia”. Vien dasorridere nell’accostare lo slogan allo spettacolo che per tre giorni ha saturato la sala Sinopoli dell’Auditorium, perché, sebbene sul palco sia schierata l’Orchestra

del Teatro San Carlo di Napoli, la bacchetta che la dirige si addicepiù a un maghetto che a un direttore in religioso frac nero. ToniServillo sale sulla pedana tra gli applausi, si inchina al pubblico,alza le braccia agli strumenti e guida le prime note, tanto che perqualche secondo quasi si crede di assistere alla sinfonia d’aper-tura, a una linearità di movimenti e passaggi che rapiscono lementi trascinandole nel paradisiaco mondo della musica da ca-mera. “...E ora, cosa mi sento dire? Che la volete fare?!? Sicuri,sì? Va bene allora, facciamola, facciamola una bella sinfonia. Masu cosa la facciamo? Io una proposta ce l’avrei. Facciamola sullaperpetua rapina della vita, che mica è chiaro quando è comin-ciata, mentre è perfettamente chiaro che mai sarà finita...”. Latesta del direttore d’orchestra ribolle, è scossa da agitazioni e tur-bamenti, e il tentativo di farvi ordine lo rendono ventriloquo dellaironica tragica quotidianità che smarrisce chiunque tenti di razio-nalizzarla. La rigida figura di colui che per antonomasia crea e or-dina attraverso il gesto viene ribaltata per divenire soggetto che

parla e disorienta, sconcerta, proprio perché si perde in soliloqui e flussi di coscienza che conducono ovunque e in nessun luogo, lanciando sul campo perplessitàe punti interrogativi. Un patchwork di amara contemporaneità si compone davanti ai nostri occhi spaziando dai giochi di potere alle riflessioni su ossimori diven-tati scontati nel nostro parlato (delle morti sul lavoro ci si chiede come sia il suono della loro fine; “...No, professori, non ci siamo, il bianco della morte non sisente…”), indagando poi la natura degli animali, fondendo citazioni di Montaigne con onomatopee palazzeschiane e slogan da rotocalco, mentre ci si rivolge a undio lontano per ricordargli che l’uomo si è fatto da solo. Una voce si stacca dall’orchestra, inveisce con il dito puntato. Peppe Servillo è la voce e il sentimento del“coro”, popolo allo sbaraglio perso nello smarrimento di chi è costretto a vivere senza pensare. “...Commedianti siamo diventati tutti quanti, un passo al giorno,senza rendercene conto. Sinceramente falsi, falsamente veri: in breve, inautentici e sinceri...”. Tre personalità hanno concertato insieme per generare un “teatro dimusica” in cui note, testo e gesto si fondono, si scontrano e talvolta si accompagnano in un cortocircuito di 50 minuti che sembra un’eternità. Franco Marcoaldi,poeta, scrittore e giornalista, si fa accompagnare da Toni Servillo (cui è affidata la regia) e dal compositore Giorgio Battistelli, per generare una partitura che schiaf-feggia il pubblico. Talvolta c’è veramente bisogno di riallacciare la connessione con ciò che avviene in scena, perché se la mente del direttore vaga anche quelladello spettatore rischia di distrarsi, di fermarsi a riflettere su uno spunto perdendo i due successivi. Forse perché il tono volutamente accademico dell’attore creaassuefazione ma non ipnotizza, forse perché la musica si accontenta poco di fare da sfondo e cerca di emergere e dialogare con imponenza. Rileggere il testo editoda Bompiani aiuta a rivalutare lo spettacolo, poggiato su una struttura imponente, nato da un’idea ambiziosamente ben riuscita, ma non c’è da stupirsi se qualcuno,tra gli amanti del Servillo goldoniano, resta perplesso e un po’ deluso.

Francesca Martellini

SE UNA SERA D’AUTUNNO UN DIRETTORESCONCERTO, Auditorium Parco della Musica

PATHOS DIONISIACO DI ANTICHE FILASTROCCHECI VEDIAMO POCO FA, Teatro EliseoLa Napoli piegata e piagata dalla devastazione dello scandalo de ‘a monnezza, l’amoreper una città meravigliosa e dolente, l’istinto forte del popolo partenopeo, l’incompren-sione per le forti contraddizioni di questa città: tutto questo, e molto altro ancora, nel-l’ultimo spettacolo di Beppe Barra, inserito negli eventi organizzati per crearel’atmosfera di attesa per Napoletango (di cui riferisce la collega Ofelia Sisca da que-ste stesse colonne). Beppe Barra, figlio d’arte, cantante, attore, interprete straordina-rio, presenta alcuni brani dal suo ultimo CD, inserendoli in un discorso ampio evariegato in cui si tratta della guerra (dove brechtianamente a perdere sono sempre ipoveri), dei briganti che forse tanto briganti non sono... ,dando al tutto un’improba-bile cornice da Cafè Concerto e da Varietà. La parola pregnante, lo spessore inconta-minato e denso del dialetto napoletano, assieme ai brani più classici tratti dal repertoriodella canzone italiana per antonomasia, offrono a Barra l’occasione di essere matta-tore assoluto, animale da palcoscenico che in un crescendo, avvolgente e coinvol-gente, recupera e amplifica tutta la carnalità del mondo partenopeo, il pathos dionisiacoe seducente di antiche filastrocche, la fisicità mai grossolana della migliore napoleta-nità. Basti per tutti la solare e ammiccante interpretazione del brano La Ballata del ual-larino, in cui lo stesso Barra conduce il leit-motiv scandendolo con il suono caldo e

mediterraneo delle nacchere: il pubblico aveva difficoltà a trattenersi dal ballare!Maria Pia Monteduro

TUTTO NELLO SPETTACOLO È MUSICANAPOLETANGO, Teatro Eliseo

Napoletango è una Na-polìade: epopea celebrativadi una città che si rispecchiain una famiglia e viceversa.Una famiglia caotica, disor-dinata, disonorata, disorien-tata, dalle urla e dal piantofacile, ma piena di vigore epassione, col sangue negliocchi capace di reinventarsie riuscire in imprese rocam-bolesche. Il racconto è quello

delle vicende di un gruppo di persone al limite dell’umiltà sociale, che convertonole loro personali disperazioni nel disperato, appassionato Tango Argentino. Sto-ria profondamente umana di una realtà al limite della crudezza, del disagio, delsurreale che trasborda quasi naturalmente, senza forzature, nello spettacolare. Lateatralizzazione è forse l’unica via non di riscrittura della realtà, bensì per riuscirea rileggere la realtà sotto una chiave sopportabile. Il riso è forte come un piantodesolato. Il fatto nasce fuori dalle tavole del palcoscenico, l’azione germogliafuori non solo dalla sala, ma dalla porta del teatro, in strada, quasi che a dare il làalla vicenda sia proprio quella strada nuda, caotica e cittadina che i personaggi sen-tono come casa. Con una tarantella quasi arrabbiata gli interpreti trascinano lagente in sala, e il pubblico assiste in prima persona al passaggio fantastico chetramuta la vita in teatro. Gli attori sono uomini e donne che lavorano alla conver-sione delle proprie identità di singoli in quella di gruppo e di ballerini di tango. Illavoro che accompagna interpreti e personaggi nel mutamento è percepito benedal pubblico, che segue l’azione con grande partecipazione, aiutato dal continuodilagare del gesto teatrale nella platea, che da rumorosa stazione dei treni, arrivaa divenire, in un crescendo emozionale, una fumosa balera, in cui pubblico e at-tori si confondono e si intrecciano di sguardi e di passi prima abbozzati, poi veriballi. Tutto nello spettacolo è musica e i passaggi tra intreccio narrativo e danzasono fluidi, quasi naturalmente attesi. Il caldo è asfissiante e insieme un ballo rit-mico, quasi catartico. Il lutto è fatto di passi concitati di addio, paura di solitudini,musica forte, confusa, l’ambizione della riuscita è movimento, l’amore è attra-zione e respingimento di corpi danzanti. Magia del teatro, del tango -forse anchedi quel animo napoletano bello di contraddizioni- la tragedia pura, che è il fulcrodi questo lavoro, si sporca delle più pure risa ed entusiasmi. Il lavoro rimane tut-tavia sull’uscio della porta che divide la realtà dal teatro nel senso più autentico,bagna le mani nelle possibilità di sublimazione tra musica, scena, vita, ma più cheuna reviviscenza regala una piacevole fotografia, pur se viva di tensioni di verità.

Ofelia Sisca

Beppe Barra

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Il Direttore d’orchestra (Toni Servillo)

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Archeologia

INVITO A TAVOLA. CERAMICHE MEDIEVALI E MODERNE ALLA CRYPTA BALBI, Museo Nazionale Romano, Crypta BalbiIl sito archeologico della Crypta Balbi documenta le trasformazioni di un quartiere di Roma dalla primaetà imperiale, periodo in cui fu eretto il teatro di Lucio Cornelio Balbo, con il suo vasto cortile porticato,all'età moderna. In questo lunghissimo periodo di tempo, attraverso il Medioevo, il Rinascimento e infinegli anni della post unità, si sono succedute diverse fasi, analizzate nel corso di anni di ricerche archeolo-giche in situ. Gli scavi, soprattutto nell'area dei mondezzai, hanno restituito una grande quantità di cera-mica da mensa, lo studio della quale, oltre a fornire dati importanti sulla vita del sito, consentono di avereun'idea sulle abitudini a tavola, sui cambiamenti sociali ed economici, di chi abitava in quella zona nellevarie epoche, campione esemplificativo della società coeva. In mostra circa 200 pezzi, in ordine cronolo-gico dal Medioevo al Settecento. La varietà delle tipologie, delle forme e delle decorazioni sono testimo-nianza diretta della vita quotidiana: nei secoli XI e XII. Frequente l'uso dell'olla, recipiente per la cotturadi minestre e zuppe, cibi di semplice elaborazione; nei secoli successivi la comparsa di prodotti più raffi-nati, soprattutto nella decorazione, testimonia la presenza di classi più ricche e in generale un migliora-mento della qualità della vita urbana. Compaiono anche gli stemmi araldici dell'aristocrazia romana cheavevano commissionato gli oggetti. Nel tardo '500 si comincia a produrre servizi da tavola nel senso mo-derno, cioè forme differenti per diverse pietanze e diversi usi con la medesima decorazione. Nel '600 di-viene di gran moda il consumo di caffè e cioccolata, prodotti giunti dal nuovo mondo. La produzione di

tazze e tazzine danno indicazione su come queste bevande erano consumate: di particolare interesse la tazza di caffè, di piccole dimensioni, indice che già al-lora, in Italia, il caffè si consumava "stretto". Il carattere quotidiano degli oggetti illustra particolari della vita sociale, aspetto fin troppo trascurato in passato,ma che ora sta avendo nuovo impulso negli studi e nuovo interesse. Sarebbe auspicabile che questa esposizione da temporanea si trasformasse in sezione sta-bile del museo, già in parte votato a illustrare il quotidiano.

Maria Rosa Patti

TORNA ALLA LUCE UN PUTRIDARIUM A ROMADurante i lavori di re-stauro, ancora in corso,nella chiesa di Sant’An-drea delle Fratte nel rioneColonna, è stato rinve-nuto, sotto l’altare mag-giore, un putridarium,sorta di cimitero. Si trattadi un unicum a Roma: in-fatti se ne hanno testimo-nianze solo nel Sud Italia,anche se nel 2000 sonostate rinvenute tracce diun putridarium nellacripta di San Primo, neisotterranei dell’Archiviodi Stato a Milano. A que-sta singolare forma di se-poltura era collegata lapratica dei “seditoi”. I de-funti invece di essere seppelliti, venivano posti su seggiole in muratura, conun foro al centro, sotto il quale era sistemato un vaso, lo “scolatoio”. Unavolta terminato il processo di decomposizione, le ossa erano raccolte e depo-ste nell’ossario. Nella chiesa dedicata a Sant’Andrea, si accede al putrida-rium attraverso una botola sotto l’altare maggiore e per mezzo di una scalasi entra in un piccolo ambiente con seggi in muratura disposti lungo le pareti.I sedili sono perfettamente conservati e sono ben visibili il foro centrale e ilvano per il vaso. Soffitto a volta con apertura per arieggiare l’ambiente. Nel

lato sinistro della criptaun muretto forse divi-deva il cimitero dall’os-sario. Sono visibili anchedelle cassette in piomboprobabilmente contenentile ossa dei monaci e unapiccola tabella con l’i-scrizione “ Hic iacetRmus P. Genlis Mariniprovie Bonomiae” che ri-corda il reverendissimoPadre Generale della pro-vincia di Bologna, quisepolto. La chiesa diSant’Andrea, che fino al1585 era chiesa nazio-nale degli Scozzesi, fuinfatti affidata, insieme alvicino convento, all’Or-dine dei Minimi di SanFrancesco di Paola. IlMarchese Ottavio Can-cellieri del Bufalo, cheaveva palazzo vicino allachiesa, ne curò la rico-struzione. I lavori iniziati

dal Guerra nel 1604, furono poi commissionati al Borromini, cui si devonol’abside, la singolare cupola rinforzata da contrafforti diagonali e il bizzarrocampanile a due ordini con capitelli costituiti da erme di Giano bifronte.

Marina Humar

NUOVA VITA ALLA BASILICA EMILIAMEMORIADI ROMA GLI AEMILII E LA BASILICA NEL FORO, Basilica AemiliaNell’ambitodei lavori direstauro dellearee archeolo-giche del ForoRomano, delColosseo edel Palatino èstata allestitauna mostraper dar nuovavita all’unicabasilica di etàrepubblicanaancora superstite a Roma. La basilica Emilia fu eretta nel foro dai censoriMarco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliare nel 179 a.C. come edificio co-perto dove svolgere attività economiche e giudiziarie, ma anche come luogo dipropaganda politica della famiglia degli Aemilii. Marco Emilio Lepido infattine fece ornare la facciata con le imagines clipeatae degli antenati. Gli Aemi-lii, come tutte le famiglie importanti, vantavano illustri progenitori, tra cui il reNuma Pompilio, la cui statua togata, rinvenuta nella Casa delle Vestali, è espo-sta per l’occasione nella Curia Iulia. La mostra ricostruisce la storia della gensAemilia attraverso i rilievi del fregio della basilica, alcune statue e una riccacollezione di monete in cui sono celebrati i grandi personaggi della famiglia.Per la prima volta sono stati riuniti i frammenti dei bassorilievi che decora-vano l’interno della basilica: narrano episodi della storia romana che s’intrec-ciano con le memorie familiari della gens Aemilia. Gli episodi che si possonoriconoscere sono Fondazione di Roma, Ratto delle Sabine, Punizione di Tar-pea, la fanciulla che aveva aperto ai Sabini le porte del Campidoglio, ma chedagli stessi nemici fu punita per il suo tradimento con la morte. Il fregio inmarmo pentelico, secondo Freyberger dell’Istituto archeologico germanico, sipuò datare all’età augustea. La basilica fu completamente rinnovata, ampliata,articolata su due piani, dopo l’incendio del 14 a.C. con pareti ricoperte dimarmo lunense, pavimento decorato con marmi policromi, colonne di marmoafricano. La nuova illuminazione della basilica e la scelta della Curia Iuliacome sede rendono molto suggestiva l’esposizione.

Marina Humar

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Putridarium di Sant’Andrea delle Fratte

Seditoio del Putridarium di Sant’Andrea delle Fratte

Fregio di Tarpea (particolare),Basilica Emilia, II secolo a. C.

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Non poteva mancare di omaggiare un artista toscano di tale portatail nuovo museo di Viareggio che vanta grandi collezioni, tra cuiquella di Lorenzo Viani. Galileo Chini, eclettico artista e maggiorrappresentante del Liberty e del Déco italiano viene qui investi-gato nel rapporto con il territorio toscano, sua terra di origine, at-traverso visioni ora sognanti ora realistiche di scorci fiorentini,marine e paesaggi versiliesi. Non manca la produzione ceramicadell’Arte della Ceramica e delle Fornaci san Lorenzo, di cui è statodirettore e che costituiscono il fiore all’occhiello della sua attività.Un capitolo è appositamente dedicato al rapporto con l’architet-tura e ai disegni eseguiti per le decorazioni delle ville della passeg-giata di Viareggio, interessantissima sezione insieme a quella sullescenografie teatrali. Soprattutto opere inedite tra cui tre grandi teledel 1946, progetti urbanistici per risistemare la zona di Levante diViareggio. Egli è pittore, ceramista, scenografo, grafico, urbani-sta, architetto e arredatore, fondamentale autore di svariati allesti-

menti per la Biennale di Venezia, instancabile e febbrile nella suaispirazione. In questo allestimento assumono un significato parti-colare certe opere minori dove l’artista, nei periodi di vacanzanella sua villa a Lido di Camaiore, si dedicava a studiare l’inci-denza della luce e i toni del paesaggio, donandogli accenti di vi-brante lirismo interiore. Paola Chini, nipote dell’artista, èl’ideatrice con Alessandra Belluomini Pucci e Glauco Borella diquesta mostra, ultima tappa per le celebrazioni del Centenario delLiberty in Italia, promossa anche dal Comune di Viareggio e dallaProvincia di Lucca. Il sogno della nipote è quello di realizzare unmuseo dedicato a Galileo Chini nella casa a Lido di Camaiore, unprogetto che speriamo questa grande mostra possa aiutare a rea-lizzare. La mostra ripercorre l’intero percorso artistico del talentotoscano, dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento.

Sibilla Panerai

UN LIBERTY TOSCANO MA INTERNAZIONALEGALILEO CHINI E LA TOSCANA, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea (Viareggio)

Galileo Chini (Firenze, 1873 - Firenze, 1956), Autoritratto, 1901, olio su tela, cm 100 x 100, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Pistoia

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Arte

COSA SIGNIFICA CONTEMPORANEOVI GIORNATA DEL CONTEMPORANEO, GNAMIn questa occasione il museo romano rende omaggio a due arti-sti italiani, sicuramente tra i più interessanti della scena nostranadel secondo Novecento. Paolo Canevari (Roma 1963) rappre-senta lo sguardo critico di un figlio della società dei consumi,Luca Maria Patella (Roma 1938), invece, è l’emblema dello spe-rimentatore che dagli inizi della seconda avanguardia ad ogginon ha mai smesso di inseguire la ricerca espressiva. Le opere diPatella presenti alla GNAM risalgono agli anni sessanta quandol’artista costruiva ambienti interattivi ancora prima che questotermine fosse stato coniato. In mostra una delle “due sfere natu-rali sonore” progettate per la galleria L’Attico nel 1969. A diffe-renza di quarant’anni fa però, quando la sfera di Patella erasospesa a mezz’aria e un proiettore (inventato dall’artista stesso)proiettava appunto le immagini dal basso oggi con la tecnologiacontemporanea questo non è possibile e la sfera si presenta pog-giata a terra e inclinata. Molte delle immagini proiettate sono lestesse fotografie esposte nell’altra sala dell’esposizione. A testi-monianza dello spirito di ricerca di Patella anche queste fotogra-fie sono state eseguite con una tecnica sperimentale che permettel’inserimento del colore in fase di sviluppo. Patella si dedicaanche alla cinematografia Terra animata (1967), SKMP2 (1968),Vedo, Vado! (1969). Paolo Canevari ha invece scelto il dialogocon le sale del museo dedicate all’arte dell’Ottocento. Da qual-che anno Canevari ha sviluppato una poetica riconoscibile uti-lizzando come materiale la gomma e in maniera particolarecamere d’aria e copertoni delle ruote. In primo luogo Thanks(2009) carri armati di gomma che senza riprodurre un precisoschema militare puntano gli uni contro gli altri, a volte verso unorizzonte indefinito, senza una logica precisa. In questa sala,dove campeggia il calco dela statua Giordano Bruno Ettore Fer-rari, dal soffitto pende Little boy (2009) un missile di paillette. Laguerra del XXI secolo mostra il suo lato mediatico, la guerra èuno spettacolo e anche quando è ridicola the show must go on.Ritroviamo ancora la gomma in Mantello (1991) il quale poggiasulla statua Caino di Domenico Trentacoste. La gomma e il marmo mostrano la loro indiscutibile incompatibilità materica, ma questa stessa inconciliabilità siannulla nel disegno complessivo. La rassegna mostra la parte migliore dell’arte contemporanea, quella parte che si confronta con i suoi anni e che è coinvolta inuno scambio reciproco con l’esterno.

Ilaria Lombardi

LA FORZA COINVOLGENTE DELLA REALTÁ CHE SA ESSERE ASTRAZIONETITOLO MOSTRA, Museo di Roma in TrastevereFranco Fontana inizia a fotografare nei primi anni Sessanta. In quegli anni, mentre alcuni fotografi sono impegnati nella fotografia sociale e nel giornalismo, altri cer-cano di negare la natura della fotografia di copia della realtà. Fontana parte dalla realtà, ma la trasforma in altro. Una scrittura nuova che trova nel colore il suo mezzod’elezione. Infatti, le fotografie di Fontana non sono semplicemente a colori, ma il colore è il motore dell’immagine, è il regista dell’opera. Per “disegnare” Fontananon utilizza la matita e quindi le linee, bensì campiture di colore; spazi di medie e grandi dimensioni riempiti con un unico colore in maniera uniforme. L’operazionedell’artista modenese si muove tra formalismo eastrazione. Le campiture isolano ogni singolaforma rendendola autonoma. La realtà è condottaai minimi termini. Superfici bidimensionali indialogo tra loro attraverso forma e colore, trac-ciano le linee essenziali della realtà. In Houston(1985) la città non è riconoscibile nella fotografiadi Fontana, in alcuni tratti si può individuare ilpaesaggio urbano statunitense, ma rimane moltopoco dell’immagine impressionata sulla pellicola.Houston come la intende e sente l’artista, ma nonuna Houston espressionista. Visivamente similarealle vedute iperrealiste, ma lontanissima dalla vo-lontà di riproduzione. Il colore è violento e saturofino al punto massimo del tono. E se negli StatiUniti Fontana si confronta con la realtà metropo-litana, in Italia lo attraggono le campagne e i dolcirilievi collinari, che offrono non solo un bel giococromatico, ma costituiscono anche un importantespunto formale. A testimonianza di quanto sia im-portante questo discorso per quest’artista, in moltedelle fotografie italiane un elemento verticale(spesso costituito da un albero) blocca lo sguardoe crea ancora una volta un gioco di linee contrap-poste. Altro elemento importante è la figuraumana; questa compare esclusivamente nelle im-magini di ambientazione urbana. L’uomo è spessoun compendio all’immagine, una forma differenterispetto alle linee nette di strade ed edifici. Anchele ombre giocano un ruolo fondamentale; infatti,così come Fontana vuole le sue architetture, anche le ombre sono prive di particolari e il loro ruolo si limita a quello di macchia di colore. Fontana cattura con l’am-biguità, ammalia con il suo senso del colore, stordisce con l’astrazione.

Ilaria Lombardi

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Paolo Canevari, Thanks, 2009, struttura in legno e pneumatici, cm 95x55x55

Franco Fontana (Modena, 1933), Houston, 1985

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14 14Cinema

Unico civile soprav-vissuto alla strage diNassiriya del 12 no-vembre 2003 provo-cata da due kamikazeiracheni, il regista Au-reliano Amadei haraccontato l’eventoprima attraverso unlibro, poi con il filmomonimo 20 Siga-rette. Amadei, alloraventottenne, faceva parte della troupe del regista Stefano Rolla, che si trovavain Iraq per girare un film sulla “missione di pace” italiana. La sceneggiatura èun mix tra finzione e documentario, in cui vengono evidenziate le contraddi-zioni tra la versione dell’accaduto da parte di Amodei e quella ufficiale presen-tata al pubblico da giornalisti e rappresentanti dello Stato. Vincitore del granpremio di Controcampo Italiano 2010 alla LXVI Mostra del Cinema di Vene-

zia, 20 Sigarette è documento importante per comprendere verità che i mediatentano di nascondere, pur se è un film propenso più a porre molte domandeche a indugiare nelle risposte; fa ridere, piangere, riflettere. Contrario a ognimissione militare italiana all’estero perché pacifista e anarchico, Amodei ha di-chiarato che “il valore della vita umana non può mai essere superato da quellodell’ideologia”. Usa la macchina da presa in modo vibrante e contemporaneoe rende il linguaggio cinematografico dinamico, emozionante. Molto bella lalunghissima soggettiva del protagonista durante l’attentato, che restituiscechiaramente il forte senso di paura e l’angoscia di morire che è stato costrettoa vivere. Di grande impatto emotivo la colonna sonora, composta dal direttored’orchestra Louis Siciliano, noto per le musiche di Due vite per caso (Alessan-dro Aronadio) e Happy Family (Gabriele Salvatores). Definito dal presidentedella Repubblica Napolitano “film di impegno civile e morale” l’opera primadi Amodei ha giustamente riscosso il successo che merita già dalla prima proie-zione al festival di Venezia, dove è stato salutato con 14 minuti di applausi estanding ovation del pubblico in lacrime. Ottimo risultato per la cinematogra-fia italiana che troppo spesso fatica a emergere con materiale di qualità.

Alessandra Pellegrini

DOCUMENTO PER COMPRENDERE VERITÀ TENUTE NASCOSTE20 SIGARETTE, Aureliano Amodei

QUEL “DA QUALCHE PARTE” CHE NON È POI COSÌ LONTANOSOMEWHERE, Sofia CoppolaUna Ferrari nera corre su un circuito parzialmente visibile. Passa una, due, tre, quattro volte,poi si ferma. Si apre la portiera, un bel quarantenne in stile “trasandato chic” avanza ed escedall’inquadratura. Buio. La vita di Johnny Marco (Stephen Dorff) è così, una corsa a vuotoe in solitudine tra eccessi che non entusiasmano e donne che addormentano, un disco incan-tato sulla traccia di una straordinaria monotonia della quale si percepisce solamente il pesoe la schiacciante densità. Johnny è un attore all’apice della carriera, la sua casa è uno deglialberghi più rinomati di Los Angeles e la macchina col cavallino rampante definisce uno stiledi vita che -nonostante la lontananza dalla quotidianità- è caratterizzato da un annoiante cir-colo vizioso che sommerge ogni scena in un senso di disarmante apatia. Latente in ogni ac-condiscendente sorriso del protagonista è la necessità di uno scarto improvviso, ma se non c’èda temere che la presenza più continua e prolungata del solito della figlia Cleo (Elle Fan-ning) inneschi un’improvvisa e illuminante vocazione paterna, è pur vero che la semplicitàdi questo nuovo rapporto segna un punto di non ritorno. Niente patetismi o scene languidenello scorgere che la genuinità di una vicinanza umana riscoperta è la spinta centrifuga chesblocca una realtà immobile. Sofia Coppola sceglie di non raccontare una storia ma di giu-stapporre momenti che -in un climax discendente- diluiscono il malessere iniziale che pervadeogni immagine, e lo fa concentrando l’attenzione sopra i più piccoli aspetti che acquisisconouna ricchezza e una suggestione fine a se stessa: respiri amplificati, zoom a velocità quasi im-percettibile, gesti che si ripetono, accenni di storia lanciati e abbandonati (di chi sono i mes-saggi anonimi sul cellulare? Il Mitsubishi nero li sta veramente seguendo? Aspetteremoveramente 40 minuti prima che si secchi la maschera di silicone?). Lo stile della narrazionesottolinea lo spessore di ogni momento, l’assenza di colonna sonora e le riprese prevalente-mente frontali con luci neutre sovraccaricano ogni particolare come a voler forzare un’inter-pretazione che in realtà non è richiesta, dal momento che si ha semplicemente accostatol’occhio al buco della serratura per catturarne di nascosto la vita che vi scorre dietro. La regiaricorre spesso a un uso anticonvenzionale dei tempi cinematografici, con inquadrature vuoteche si protraggono oltre il limite di tolleranza conferendo quel senso di reale imbarazzo che la serratezza del cinema commerciale non osa immaginare. È questoil cinema d’autore, e Sofia Coppola riesce a mostrare la sua poetica narrativa padroneggiando gli strumenti del mestiere. È stato detto che il film, a Venezia, “abbiavinto ma non abbia convinto” il pubblico, probabilmente estraneo a una digestione filmica dai ritmi non immediati che non richiede l’elaborazione e la presa dipossesso di una storia lineare, ma piuttosto la ricezione di stimoli e reazioni. Somewhere, “in qualche posto”, “da qualche parte”. Le due accezioni del termineinglese sono l’alfa e l’omega della pellicola, che inizia con uno “stato in luogo” in cui chiunque può scorgere elementi familiari per concludersi con la Ferrarinera che stavolta corre su una strada dritta a perdita d’occhio. Verso dove? “Da qualche parte”, basta andare.

Francesca Martellini

E poi ancora ci si chiede perchéal festival di Venezia di que-st’anno abbia vinto il film diSofia Coppola? Guardando l’ul-timo film di Mazzacurati, LaPassione, viene subito da dire:“Ah va bene, ma allora è tuttochiaro, se questi erano i film inconcorso, è ovvio che abbianofatto vincere il meno peggio”. Madispiace. E poi ancora dispiace

vedere che in Italia la cinematografia sia così arrendevole nel produrre solofilm d’intrattenimento. Eppure gli italiani i film li sapevano fare, avevamograndi registi, grandi idee, ma dove sono andati a finire? Tutto morto? Iocredo che il problema consista nella produzione e nella distribuzione. Si in-veste solo su ciò che si crede possa “non disturbare”, che garantisca quel mi-nimo indispensabile al botteghino e che faccia ridere quel tanto che basta pernon uscire dalla sala con le mani nei capelli. Ma tutto ciò rattrista. Soprat-tutto perché la responsabilità di questo finto disinteresse non risiede nelle ca-pacità dei registi, che sarebbero in grado di fare molto di più, di proporre film

e idee migliori ma nella ‘volontà’ (a questo punto voglio chiamarla così) discreditare la cinematografia italiana. E tutto questo avviene in un modo sot-terraneo, attraverso quelle ‘terre di mezzo’ di cui tutto sommato non si puòparlare male, in modo che “tutto rimanga com’è”. La Passione, infatti, risultatutto meno che un film brutto. È solido, ha una storia che si regge bene, unaparte tecnica non disprezzabile e delle musiche adeguate, il cast è divertente.Ottimo dopo “la sagra del vino”, questo film si digerisce bene sul momento,ma poi lascia come un senso di vuoto, come se non si fosse ingerito niente,eppure, ci diciamo, “ero sicuro di aver mangiato e bevuto”. Una nota di gustoinvece sul finale che, a differenza di gran parte dei film italiani dei nostrigiorni, è piuttosto positivo. Il protagonista, infatti, trova finalmente una trac-cia di scrittura per un prossimo film. Non c’è quindi la desolante constatazioneche tutto sia finito e che niente si possa recuperare, considerazione che tantoattanaglia il cinema nostrano. In una chiave di lettura molto semplicistica,come in fondo vuole avere il film, si vuole certamente intendere che la regiaitaliana ha ancora speranze. Il punto è: se l’orizzonte il cinema italiano lovede, ma continua a essere cinema d’intrattenimento e commedia, che sensoha farlo vedere? Forse per pregustare falsamente una speranza che poi veranovità non è?! Domande, ma ancora poche risposte.

Alessandra Pellegrini

CINEMATOGRAFIA ITALIANA ARRENDEVOLE ALL’INTRATTENIMENTOLA PASSIONE, Carlo Mazzacurati

Carlo Mazzacurati e Silvio Orlando sul set de “La Passione”

Johnny Marco (Stephen Dorff), Cleo (Elle Fanning)

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CinemaRICORDANDO CLAUDE CHABROL

Un altro pezzo della Nouvelle Vague ci lascia: Claude Chabrol ne fu uno dei fondatori, assiemea Jean Luc Godard, Jacques Rivette, Francois Truffaut ed Eric Rohmer. Fu tra i critici dei Cahiersdu Cinéma; pubblicò nel 1957, assieme a Rohmer, un saggio sulla filmografia di Albert Hitch-cock. Il suo film d’esordio del 1958 è Le beau Serge (Pardo d’Argento a Locarno), che lo segnalòcome autore attento a umori e inquietudini della nuova generazione ed è considerato il primofilm della Nouvelle Vague. Nel ‘68 è autore de Les biches sulla liberazione sessuale. Diventeràun coerente analista della borghesia di provincia: Stephane, una moglie infedele (1968), Il ta-gliagole (1970), L’amico di famiglia (1973), eccetera. Dalla fine degli anni Settanta la sua inter-prete preferita diviene Isabelle Huppert, con la quale gira Violette Noziére (1978), Un affare didonne (1988), Madame Bovary (1991), Rien ne va plus (1997), Grazie per la cioccolata (200),La commedia del potere (2006). Ispirandosi in particolare ai romanzi di George Simenon, Cha-brol permette alla sua vena di giallista e autore di noir di raggiungere le espressioni più alte, in-serendo il giallo hitchcockiano nella provincia francese: egli la analizza e smaschera,evidenziando l’apparente perbenismo della piccola borghesia, che è invece copertura per un climadi vizi e di odi, raccontando tragiche storie di follia che si scatenano all’interno di famiglie, al-l’apparenza “normali”, in un’analisi senza speranza. Come il suo ispiratore Hitchcock appare, ma-gari fugacemente, in tutti i suoi film. La sua ultima opera è Bellamy (2009) con Gerard Depardieu

e nello stesso anno riceve il premio alla carriera al Festival di Berlino. Luigi Silvi

RICORDANDO ARTHUR PENNSe ne è andato l’uomo che cambiò il cinema americano, non Hollywood. Dal suoFuria selvaggia (Billy the Kid) del 1958, con Paul Newmann nei panni del fuori-legge, si usa far iniziare quella stagione che i critici hanno definito New AmericanCinema. Successivamente Penn gira lo struggente Anna dei Miracoli (1962) conuna straordinaria Ann Bancroft. Con Mickey One (1965) mette a nudo le paure cheagitavano l’America maccartista. L’anno successivo La caccia, film caratterizzatoda attivismo civile e visione progressista, pietra miliare della controcultura. Nel1967 dirige il dirompente Gangster Story con Warren Beatty e Faye Dunaway sullavicenda dei rapinatori Bonnie & Clyde che sconcertò critica e pubblico americaniper l’inusitata commistione di comicità, sesso e violenza oltre ogni limite. Nel 1969realizza Alice’s Restaurant, manifesto della ribellione giovanile postsessantotto con-tro la cultura capitalista. Del 1970 il film cult Il piccolo grande uomo, epopea pica-resca, con un eccellente Dustin Hoffmann che consegna un’interpretazionememorabile; il film analizza le differenze tra la cultura bianca e quella pellerossa:tra le righe, la vincente è questa. Fu un autentico pugno nello stomaco per il pub-blico americano, anche perchè nello stesso anno uscì Soldato Blu di Ralph Nelson.Il film di Penn è il resoconto disincantato dello spietato massacro dei nativi ameri-cani a opera del Generale Custer a Little Big Horn, uno dei primi western revisio-nisti. Nel 1977 è dietro la macchina da presa per Missouri, antiwestern con MarlonBrando e Jack Nicholson. Nel 1981 narra con cinica lucidità il crollo del mito ame-ricano ne Gli amici di Georgia, ultimo grande film del New Cinema. Ha diretto i piùgrandi attori suoi contemporanei: Warren Beatty, Marlon Brando, Gene Hackman, Jack Nicholson, Paul Newmann, Robert Redford, Dustin Hoffmann, FayeDunaway, Ann Bancroft, Jane Fonda, Angie Dickinson, Melanie Griffith. Penn è stato un autore scomodo, lontano dai canoni stereotipi di Hollywood, legatoa quell’America, amara e inquieta, popolata da outsiders. La sua è una visione pessimistica; nel mondo descritto da Penn l’uomo giusto è costretto a battersida solo contro una società brutale e razzista. Racconta con ritmo convulso una generazione che ha perso la capacità di comunicare, il disagio giovanile e la crisidell’uomo americano. La sua opera, emancipatasi dalle strettoie e dai condizionamenti hollywoodiani, riavvicinò la generazione europea del ‘68 al cinema ame-ricano, anche per il suo dichiarato interesse per la Nouvelle Vague. Non a torto la gran parte degli storici del cinema sostiene che senza di lui non ci sarebberostati film come Easy Rider, Il laureato e Il Padrino. Chiude la carriera nel ‘95 con il cortometraggio Lumière et compagnie. Nel 2002 è stato insignito del Gat-topardo d’oro-Premio Luchino Visconti per la carriera, e nel 2007, sempre alla carriera, dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino

Luigi Silvi

RICORDANDO TONY CURTIS

Attore che con garbata levità ha raggiunto le simpatie del pubblico dei generi più diversi. Lo si ricorda in ruoli leggeri quali Il principe ladro (1951), Il figlio di Alì Baba(1952), Il Mago Houdini (1953), o in ruoli drammatici in Furia e passione (1952) di Joseph Pevney, in cui interpreta un pugile sordomiuto, e Piombo rovente (1957)di Alexander Mackendrick nella parte di un portaborse del mondo corrotto del giornalismo americano, e in Gli ultimi fuochi (1976) di Elia Kazan. Interpreta comme-die in coppia con Cary Grant in Operazione sottovoste (1959) di Blake Edwards, con Jerry Lewis in Boeing Boeing (1965); ma raggiunge il trionfo nel ruolo triplo disuonatore di sassofono, magnate del petrolio e nel ruolo femminile di Josephine in A qualcuno piace caldo (1959) di Billy Wilde, in coppia con Jack Lemmon e Ma-rilyn Monroe. È in coppia con Kirk Douglas ne I Vichinghi (1958) di Richard Fleischer e nell’indimenticabile Spartacus (1960) di Stanley Kubrik. Ancora diretto daFleischer è protagonista de Lo strangolatore di Boston (1968). Ma una delle interpretazioni che lo rese più amato fu quella in coppia con Roger Moore nella serie tele-visiva Attenti a quei due (1971-1972), dove il suo spirito burlesco e spaccone raggiunge l’apice. La sua carriera si chiude nel 2008 con Davide & Fatima di Alain Za-loum. È stato un serio professionista poliedrico che ha segnato la carrriera tra dramma e commedia, con eleganza che gli guadagnarono il rispetto di tutti.

Luigi Silvi

Antonino (Tony Curtis), Spartacus (Kirk Douglas) Zucchero Kowalczyk (Marilyn Monroe), Josephine (Tony Curtis)

Claude Chabrol

Arthur Penn

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MiscellaneaA VARGAS LLOSA IL NOBEL PER LA LETTERATURA 2010

Con il Nobel per la letteratura 2010 a Mario Vargas Llosail prestigioso riconoscimento torna dopo 28 anni a un au-tore sudamericano, confermando una tendenza degli acca-demici di Svezia a stabilire una sorta di rotazione abeneficio delle varie aree linguistiche di riferimento, seb-bene in misura non sempre comparabile. È questo il primoNobel a un autore peruviano. Vargas Llosa è nato ad Are-quipa nel 1936 e al suo paese natale è sempre rimasto le-gato (anche nel momento del “ripudio”), pur avendotrascorso buona parte della sua esistenza all’estero. Tantolegato da trasformare il suo impegno politico, evolutosiideologicamente nel tempo, in una candidatura alle presi-denziali del 1990 in una coalizione di centrodestra controAlberto Fujimori, poi vincitore. E tanto amareggiato dalla

sconfitta e dall’indirizzo preso dalla politica e dalla società della sua terra da ac-cettare, nel 1993, la cittadinanza spagnola. E in effetti, dentro e fuori la letteratura,la visione politica della realtà di Vargas Llosa ha avuto un ruolo rilevante. Comesottolineato anche dalla motivazione che accompagna l’attribuzione del Nobel:per “la sua cartografia delle strutture del potere e per la sua acuta immagine dellaresistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo”. Data al 1959 il suo esor-dio come narratore con I capi. Ma è con La città e i cani (1963), ambientato aLima in una scuola militare, che Vargas Llosa si impone all’attenzione dei lettori.Seguono La casa verde (1966), I cuccioli (1968) e l’anno successivo Conversa-zione nella cattedrale, spietata riflessione sulla vita politica e sociale in Perù. Èdel ’73 il romanzo satirico Pantaleón e le visitatrici e del ’77 La zia Julia e lo scri-bacchino. Tra le sue opere si ricordano poi La guerra della fine del mondo (1981)e, in tre anni successivi a partire dal 1986, Chi ha ucciso Palomino Molero?, Ilnarratore ambulante, Elogio della matrigna. Del 1993 sono Il pesce nell’acqua,che dà conto del suo approccio alla politica attiva, e il giallo Il Caporale Litumasulle Ande. Tra le opere più recenti I quaderni di don Rigoberto (1997), La festadel caprone (2000), cui seguono dopo un triennio Il paradiso è altrove e le Avven-ture della ragazza cattiva (2006). È anche autore di un saggio su Garcìa Marquez(1971) e si è dedicato negli anni al teatro, con una produzione che vede nel 2008la sua ultima fatica, Appuntamento a Londra. Autore prolifico e, a differenza diquanto accaduto di recente con altri prescelti da Stoccolma, conosciuto anche algrande pubblico, Vargas Llosa appartiene sia pur tra evidenti differenze, distinguoe contrapposizioni a quella generazione di scrittori che è stata definita del Boomsudamericano. Si rimprovera, a questo proposito, all’Accademia di aver premiatouno scrittore che appartiene “al passato”, a una schiera di autori ormai sorpassatidagli anni e dalla storia, senza tener conto del contributo della contemporanea nar-rativa sud e centroamericana. Ma, senza cadere nella retorica, il valore di un’operaletteraria non può essere confinato all’attualità della sua cronaca o all’anagrafe deisuoi artefici. Cosa ne sarebbe, se così fosse, di quanto continua ad appassionarcinei secoli come lettori e come esseri umani, l’eco di un verso sempre risonante, lavicenda degli uomini che non possono fare a meno di raccontarsi a se stessi? Sonole parole vuote che cedono al tempo. Partendo dal presupposto che la consacrazionedel Nobel non equivale sempre e comunque alla designazione di uno scrittore divalore assoluto, e tanto meno del più grande autore vivente, l’auspicio è che sianoi nuovi lettori convogliati sull’opera di Vargas Llosa dalla potente luce che i riflet-tori del Nobel sono in grado di accendere, insieme al rinnovato impegno della cri-tica, ad approfondire nel tempo il senso e lo spessore di un’esperienza letteraria.

Michela Barbieri

COPPI-BARTALI: COMPETIZIONE E PARI OPPORTUNITÀFAUSTO COPPI. IL CAMPIONISSIMO, Complesso del Vittoriano

Una mostra fotografica ri-corda il Campionissimo acinquant’anni dalla morte.Coppi, assieme all’eternoamico e rivale Gino Bartali,fu uno dei simboli della ri-nascita italiana dopo gli or-rori della guerra e delfascismo. Le foto e gli altridocumenti esposti ripercor-rono la vita e la gloriosa car-riera agonistica delcampione di Castellania: incoppia con l’amatissimofratello Serse, tragicamenteperito dopo un incidente ingara; l’ingresso nella Le-gnano con Bartali e la primavittoria al Giro nel 1940; leTre Valli Varesine del ‘41;la conquista del record del-l’ora al Vigorelli di Milanonel ‘42; la passione per lacaccia che gli fu fatale; laprima vittoria alla Milano-

San Remo nel ’46; sempre nel ‘46 il giro di Lombardia; sui grandi passi alpini Por-doi, Stelvio, Tourmallè; i gravi incidenti che ne segnarono la carriera; campione delmondo nel ‘48; la vittoria al Tour de France nel ‘49; nel 1950 le vittorie alla Parigi-Roubaix e la Freccia Vallone; Giro e Tour nel ‘52. L’immagine simbolo di un’e-poca, di un modo di fare sport e di essere nella vita: su una salita del Tour de FranceBartali e Coppi in fuga, il Campionissimo rimane senza acqua e il toscano gli passala sua borraccia. Questa è competizione, essere sempre alla pari e poi...vinca il mi-gliore! Lezione per l’Italia di oggi, dove si reclamano diritti senza combattere perconquistarli, e senza accettarne i conseguenti doveri, dove si vuol vincere senza ri-spettare le regole o addirittura con regole a proprio uso e consumo, calpestando ogniparità. Le foto evidenziano come erano sport e ciclismo un tempo: strade sterrate,biciclette pesanti, gli atleti sporchi, distrutti, sotto la neve, sotto la pioggia e con ilvento, niente tecnologia, solo allenamento, muscoli guidati dal cervello, forza di vo-lontà, cuore, spirito di sacrificio. Emblematico il commento del cronista MarioFerretti alla terzultimna tappa sulle Alpi del Giro d’Italia del 1940: “ Un uomo soloè al comando; la sua maglia è biancoceleste; il suo nome è Fausto Coppi”.

Luigi SilviI CAMMINI D’EUROPA PER RECUPERARE L’EUROPADa molti anni, prima ancora della cadutadel Muro di Berlino, il Parlamento Eu-ropeo ha compreso che studio e valoriz-zazione, degli antichi cammini, percorsinei secoli con i mezzi più diversi e sva-riati da pellegrini, mercanti, viaggiatoritout court, aiuta ad aumentare e a meta-bolizzare nella mentalità degli Europei ilconcetto forte dell’Europa stessa, intesasì come entità politica, ma anche, e so-prattutto, come unione di popoli con unobiettivo comune. Tra le tante iniziativein tal senso (convegni, pubblicazioni, seminari, eccetera) sicuramente da ricordarequella voluta da Silvia Costa del Gruppo Parlamentare del S&D: percorrere cioèun tratto della via Francigena propriamente a piedi, una due-giorni di ottobre, dovealla grande suggestione emotiva di calcare proprio lo stesso percorso dei pelle-grini, pur se solo in un breve tratto di 8 km, si è unita la visita a luoghi di grandetestimonianza artistico-storica: la città fortezza di Monteriggioni, incantevoli abba-zie disseminate come sentinelledello spirito in Val d’Elsa (splen-dida, tra tutte, l’Abbazia roma-nica di Santa Maria Assunta aConeo), la città di Siena non solocome la città del Palio, ma comecittà distesa lungo un tratto dellaFrancigena. Inoltre la straordina-ria opportunità di condividereesperienze e dialogare, fuori dairitmi stressanti perchè contingen-tati, dei tradizionali convegni, conpersone e personalità diverse: lostudioso, il ricercatore, l’attore, il giornalista, il parlamentare, l’amministratore lo-cale, tutti accumunati da un identico obiettivo: l’Europa più si riappropria della suastoria e delle sue tradizioni, più può divenire volano per i suoi stessi stati membridi una crescita economica, spirituale, civile.

Maria Pia Monteduro

Tour de France 1952, Coppi e Bartali in fuga: Coppi ha finito l’acqua,Bartali gli passa la sua borraccia. CAMPIONI!

Abbazia di Santa Maria Assunta a Coneo, Colle Val d’Elsa(Siena), XI secolo, facciata principale

Monteriggioni (Siena), cinta muraria, XIII secolo

Mario Vargas LLosa

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