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STORIA PAPERBACK

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FRANCO CARDINIVITA DI CARLOMAGNOUn padre della patria europea

STORIA PAPERBACK

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Il volume è pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano.

Le cartine alle pagine 204-205 sono state realizzate da Duccio Mannucci.

ISBN 978-88-587-8465-5

www.giunti.it

www.bompiani.it

© 2019 Giunti Editore S.p.A./Bompiani

Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia

Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Prima edizione digitale: ottobre 2019

Bompiani è un marchio di Giunti Editore S.p.A.

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Immagine di copertina © Stock Montage / Getty ImagesProgetto grafico: Polystudio

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INDICE

Introduzione 9

Parte primaI FATTI

I. L’alba dell’Europa 15II. I fi gli primogeniti di Roma 27

III. Due re e alcuni matrimoni 47IV. Alla conquista di un impero 65V. “Imperator Romanum gubernans imperium” 89

Parte secondaL’IMMAGINE

VI. L’uomo 115VII. Il politico 125

VIII. Il guerriero 139IX. Il diplomatico 147X. La croce e il libro 159

XI. Il mito 177

Nota critica 193

AppendiceCarlomagno e la sua discendenza 201La genealogia dei carolingi 202Mappa dell’impero di Carlomagno 204

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Mappa della divisione dell’impero dopo il trattato di Verdun (843) 205

L’amministrazione di Carlomagno 206 L’ascesa dei carolingi: cronologia 207 Cronologia comparata 211

Indice dei nomi 222

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Ai veri europeisti:quelli cioè che auspicano

– al di là dell’unione economica e fi nanziaria –l’autentica nascita di un’unione politica

che sia l’anima della patria europea.F.C.

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INTRODUZIONE

Perché un libro su Carlo re dei franchi e imperatore di un “impero” di dubbia natura, d’incerta legittimità e di breve durata; perché un libro su quel “Carlomagno” – tale la grafi a ordinaria, bislacca sintesi del nome e dell’epiteto onorifi co, che qui rispettiamo – che riempie di sé la storia, la leggenda, il mito e le biblioteche? La risposta potrebbe forse consistere qui nella necessità di rifl ettere – in modo magari un po’ apparta-to rispetto al mondo delle grandi opere storiche e dei trattati rigorosamente scientifi ci; ma senza cadere nelle bassure d’una divulgazione troppo disinvolta – su alcune tra le grandi fi gure e i grandi momenti che hanno costituito il tessuto di quella storia europea che ancora non s’insegna in nessuna scuola dei paesi della Comunità; e forse, quando ci si comincerà a chie-dere in che misura sia possibile insegnare in tutti quei paesi una “storia patria” comune – nel rispetto naturalmente delle singole identità locali, regionali e nazionali –, un apprezzabile passo in avanti sulla via dell’integrazione europea e della sua trasformazione in una vera e propria compagine politica sarà stato fatto.

Carlo non fu un vero e proprio “padre della patria”: e co-munque la retorica dei “padri della patria” sarebbe lontana dai gusti di chi scrive queste pagine. Certo però – e torna qui in mente una bella e grande intuizione di Henri Pirenne – la fi gu-ra e il tempo dell’imperatore franco stanno in un certo senso sulla soglia di quel medioevo dal quale l’Europa e la coscienza europea hanno fi nito a poco a poco con l’emergere. Pensiamo al Carlo unifi catore di un’area franco-tedesco-italo-frisonica, con un “annesso” iberico, che già confi gura l’Europa occiden-

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tale e continentale; pensiamo al cristianizzatore-colonizzatore, con mezzi talora spicci, di una porzione della futura Mitte-leuropa; all’uomo che allacciò rapporti non solo con la vicina Inghilterra e un po’ con la Spagna tanto cristiana quanto mu-sulmana, ma anche con Bisanzio e con il califfato di Baghdad.

Ancora, non si può non guardar con una qualche gratitu-dine a questo barbaro “semianalfabeta” che non si stancava mai nelle sue leggi di esortare agli studi e all’impulso del quale dobbiamo una scrittura tanto nitida che gli umanisti la credettero romana antica e una “accademia” che anticipa il successivo sviluppo degli studi; a questo germano che pensa-va tanto in grande da concepire addirittura il progetto di un canale che collegasse il Reno e il Meno al Danubio e inaugu-rasse quindi una via d’acqua navigabile tra il Mare del Nord e il Mar Nero.

Infi ne, inchiniamoci ancor oggi, con qualche commozione, dinanzi al suo mito. La sua opera di fondatore di un impero non durò a lungo; la sua indole fu tale da indurci a sostenere – con tutto il rispetto per Federico I Barbarossa, che lo im-pose alla gloria degli altari – che non fosse proprio un santo. Eppure quest’uomo brutale, dal quale a tratti emerge la ruvi-da joie de vivre del capo barbaro, ci è nonostante tutto simpa-tico. E poi, per noi, resta l’imperatore dalla barba fi orita della Chanson, il preux medievale che ha ispirato anche il Dürer, il protagonista di tanti romanzi storici (qualcuno anche comico) e di tanti fi lm e fi ction televisive, il sovrano l’immagine del quale è stata così frequentemente catturata dai manipolatori politici della storia ma anche lo statista sul quale hanno medi-tato con grande passione civica europei ed europeisti illustri come Gustav Stresemann e Konrad Adenauer.

Se d’altronde dalla continua rimeditazione sulla storia si passa alla storia in sé e per sé intesa e al problema della pos-sibilità di una sua ricostruzione scientifi ca e obiettiva, questo libro non può essere accolto (anche perché non ha potuto es-sere scritto) se non con molti e, crediamo, fecondi dubbi. È

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11INTRODUZIONE

davvero possibile scrivere correttamente una biografi a? E la biografi a di un sovrano? E di un sovrano medievale, poi?

I “fatti”, certo, sono più o meno là, e più o meno noti: ma, quando da essi si debba passare all’interpretazione, le fonti rivelano una tenace fedeltà formale a schemi tradizionali di tipo plutarcheo o svetoniano. Ed è diffi cile, allora, scrivere la storia di questo o di quel monarca; si fi nisce piuttosto per aver dinanzi dei “tipi”: il re-santo, il re-pio, il re-padre-dei-pove-ri, il re-conquistatore, il re-modello. Ancora più diffi cile poi passare dal ritratto uffi ciale, politico, diplomatico, militare, a quello personale e intimo: se il re degli atti e del pensiero sfugge, quello dei sentimenti resta inattingibile. Al punto ta-le che forte sarebbe, nel biografo serio, l’intenzione non già di comporre forzosamente le differenti voci degli informatori bensì di esacerbarne divergenze e differenze fi no a proporre del biografato una pluralità d’immagini tutte plausibili eppure tutte differenti tra loro, in un inaccordabile caleidoscopio d’in-terpretazioni l’una refrattaria all’alterità dell’altra: un po’ come hanno fatto Orson Welles in Citizen Kane e Arsenio Frugoni nella sua “biografi a” di Arnaldo da Brescia.

Disperante fascino dei modelli.E non alludiamo certo alla statura dei biografanti: Frugoni

e Welles stanno troppo in alto per un normale studioso. Allu-diamo al biografato. Chi si accinga oggi a raccontar la vita di un sovrano medievale ne ha dinanzi almeno due: se si vuole, due casi limite. Il Federico II di Ernst Kantorowicz, con tutta la sua carica nietzscheano-spengleriana, e il Luigi IX di Jac-ques Le Goff, che attraverso la scomposizione tipologica delle fonti riesce a fornire alla fi ne un ritratto ben radicato in una storia che resta, nonostante tutto, scienza della ricostruzione di un passato “vero”.

Accettando l’invito dell’Editore a tracciare una biografi a di Carlo che potesse proporsi come lavoro di sintesi e di divulga-zione, non avevamo e non abbiamo da parte nostra né ambi-zione di confrontarci con chicchessia, né obiettivi di carattere

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12 VITA DI CARLOMAGNO

strettamente scientifi co da raggiungere. Per questo abbiamo proposto una linea fortemente radicata nei fatti, priva di quelle note che di solito irritano o intimidiscono o stancano il lettore non specialista mentre, quando non servano di corredo a lavo-ri strettamente scientifi ci, deludono e lasciano insoddisfatto il lettore un po’ più competente e impegnato: abbiamo affi dato a una breve Nota critica il compito di servir da viatico a chi volesse o dovesse per qualche motivo “saperne di più”. Nelle nostre pagine ci siamo limitati a segnalare, con discrezione, i momenti nei quali il modulo narrativo non può bastare e oc-corre passare a quello problematico, anche a costo di provoca-re il lettore più spiccio o più pigro, quello che alla storia chiede solo di dire nel modo più chiaro “come le cose sono veramente andate” e per questo riceve spesso delusioni proprio da parte dei biografi più onesti.

La biografi a “defi nitiva” su Carlomagno, forse, non sarà scritta mai. La nostra è “opera aperta” e rifl essione su altre “opere aperte”. Ne sia consapevole il lettore.

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Parte prima

I FATTI

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I.

L’ALBA DELL’EUROPA

Il 476: un “Anno Zero”? Così, nonostante tutto, si ostinano ancora a presentarlo parecchi manuali scolastici di storia, im-pegnati a guardare la storia da un angolo di visuale centrato sull’Occidente e a seminare di cesure il corso degli eventi. Sem-brerebbe, a seguire certe magari implicite affermazioni, che con questa data fi nisca un mondo di luce e di civiltà e si apra invece un’età buia di barbarie e di lotta per la sopravvivenza. Le cose stanno altrimenti.

L’impero romano, punto necessario di partenza del nostro di-scorso – non foss’altro perché rimane sempre sullo sfondo, come termine d’ispirazione e anche di paragone –, era entrato in una crisi diffi cilmente reversibile molto prima del 410, data del cele-bre saccheggio della città di Roma da parte del visigoto Alarico. Eppure, dalla dissoluzione della pars Occidentis dell’impero e dall’incontro con le magmatiche culture germaniche, stava na-scendo quel che noi oggi chiamiamo Europa. Fu un processo lungo, violento, contorto e per certi aspetti ancor oscuro: ma anche illuminato dalla luce di una grande civiltà di cui l’impero carolingio costituisce uno dei momenti più qualifi canti.

“La Grecia conquistata soggiogò il feroce vincitore.” È nota quest’aurea massima di Orazio, il quale voleva così indicare la rivincita che la cultura greca si era presa su quella, più rozza e brutale, del potente vicino romano. Ma con l’andar del tempo, mano a mano che l’istituzione imperiale andava affermandosi e radicandosi, il vero vincitore si rivelava l’Oriente. L’imperatore romano andò somigliando nei secoli sempre meno ad Augusto e sempre più ad Alessandro; e, attraverso di lui, a Dario o a Serse: basileus piuttosto che princeps.

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16 VITA DI CARLOMAGNO

Il fascino dell’Oriente premeva sulle regioni occidentali del Mediterraneo da molti secoli. Già Alessandro Magno, una vol-ta realizzato il suo impero, nello sforzo di creare una sintesi tra la cultura greca e quella persiana aveva iniziato ad assumere atteggiamenti tipici della regalità di stampo orientale, del tut-to estranea alla mentalità ellenica: il re vi appariva come una sorta di personaggio divinizzato, ieratico e distante. I suoi suc-cessori non tardarono a seguirne l’esempio: Tolomeo d’Egitto, per esempio, aveva presto dimenticato di essere un generale macedone per assimilarsi agli antichi faraoni, come illustra-no le immagini di alcuni templi in cui egli e i suoi successori appaiono in vesti e atteggiamenti da sovrani egizi. Alessandro stesso aveva avviato anche questo discorso, imponendo la sua divinizzazione come Amon-Ra.

Qualcosa di simile era fatalmente accaduto anche a Roma; Caligola e Nerone, che la tradizione storiografi ca di segno se-natorio e aristocratico tacciò di “follia”, avevano probabilmente come colpa principale l’aver per primi – e prematuramente – tentato di realizzare questa trasformazione, superando le origi-ni repubblicane e senatorie del principato e immettendovi un elemento “divino”: un “errore” costato la vita già allo stesso Ce-sare e che il più prudente Augusto aveva ben curato di evitare.

Il quadro sociale del ceto dirigente nell’età dell’impero era articolato, almeno a partire dal I secolo, in due ordini princi-pali: fra i cittadini romani adulti (quattro milioni circa di ma-schi al principio del I secolo) emergevano gli ordini senatorio ed equestre, qualifi cati da una cospicua ricchezza e dal rico-noscimento uffi ciale. L’aristocrazia senatoria era inquadrata nel senato di Roma, che reclutava i propri membri per coop-tazione (talvolta anche per designazione imperiale), mentre i cavalieri erano scelti dall’imperatore. Diversa anche l’origine dei patrimoni: il primo ordine basava la sua ricchezza essen-zialmente sulla proprietà fondiaria e tendeva all’ereditarietà, mentre il secondo – dal quale l’imperatore traeva prevalente-mente i quadri burocratici centrali e periferici – alimentava il

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proprio patrimonio anche per mezzo di speculazioni commer-ciali e fi nanziarie.

Nel III secolo, con l’estensione della cittadinanza romana a tutti i sudditi di condizione libera, i ceti dirigenti assimilarono una larga parte delle aristocrazie locali provenienti dalle diver-se città dell’impero.

Si andava così rafforzando il quadro già immaginato e delinea-to da Augusto: un’integrazione fra apparato politico e ceti socia-li egemoni attuata grazie al compromesso fra l’autonomia delle città e il dispotismo imperiale, appoggiato dall’esercito. Una si-tuazione già caratteristica dei regni ellenistici: ma perfezionatasi nel mondo romano grazie alle presenze mediatrici del principe e del ceto equestre, da lui accuratamente controllato ed egemo-ne nell’apparato burocratico. I cittadini più importanti dei vari municipi avevano la speranza di essere innalzati dalla volontà dell’imperatore al rango di equites, mentre a sua volta il servizio effettuato nell’alta burocrazia imperiale poteva permettere l’im-missione nel gruppo socio-istituzionale più elevato: il senato.

Naturalmente, questo quadro non mancava di presentare vari problemi, che si aggravarono sempre più soprattutto a par-tire dal II secolo. Anzitutto, si acuì il contrasto tra l’autorità del principe e quella, sempre più nominale, del senato: un autentico Leitmotiv di tutta la storiografi a senatoria. Si accrebbe inoltre il peso dell’esercito, che tendeva a imporre la propria volontà nella scelta degli imperatori. Un’anticipazione della crescente importanza di questo fattore si era già avuta alla metà del I se-colo, quando una congiura militare aveva abbattuto Caligola e innalzato al trono Claudio: il quale fu – nonostante l’astioso pa-rere di Tacito e di Svetonio – un ottimo principe. Con il passare del tempo accadde sempre più di frequente che gli imperatori venissero imposti dall’esercito. Progressivamente la situazione precipitò in un’anarchia culminata nella crisi del III secolo. La condizione delle plebi rurali e urbane, il cui disagio è già pal-pabile nelle opere di Marziale e Giovenale, si era fatta sempre più pesante fi no a degenerare negli ultimi secoli dell’impero:

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allorché un numero sempre più ingente di artigiani e conta-dini prese a sottrarre preziose linfe vitali al servizio militare per rifugiarsi nelle villae dei proprietari dei latifondi e prestarvi opera in cambio di sostentamento e protezione.

A tale quadro già potenzialmente instabile venne ad aggiun-gersi un nuovo, pericoloso elemento di destabilizzazione: la pressione delle genti “barbare” a nord-est del limes. Si trattava soprattutto di popolazioni germaniche, e a dire il vero non era proprio una novità: Roma l’aveva conosciuta fi n quasi dall’ini-zio della sua storia, ma per un lungo periodo era riuscita – a parte qualche rovescio – a tenerla a freno, spesso con sistemi sbrigativi come il massacro dei cimbri (celti) e dei teutoni (ger-mani) compiuto dal console Caio Mario.

I germani appartenevano, come i greci e in parte gli itali-ci, al ceppo linguistico indoeuropeo. Agricoltori, allevatori e cacciatori, essi erano prevalentemente seminomadi e vivevano raccolti in tribù guidate da un’aristocrazia guerriera.

Dall’età di Augusto in poi, fi no a circa la metà del III secolo, si verifi cò lungo la frontiera del Reno e del Danubio un alter-narsi di incursioni germaniche e di controffensive romane. Nel suo De origine et situ Germanorum, meglio noto come Germa-nia, Tacito parla di questi popoli con una qualche ammirazio-ne, quasi ad ammonire quella Roma, che egli vedeva – con una certa dose di retorica – già avviata lungo la pericolosa china della corruzione, a non sottovalutare un avversario dalle ener-gie fresche e per certi versi più sane. Il moralista Tacito tende-va a esagerare: ma in questo si rivelò osservatore attento e buon profeta, sia pur non troppo ascoltato. Càpita, ai profeti.

Il III secolo registrò la svolta decisiva nei rapporti tra l’im-pero e i germani. Grazie anche alla comparsa di un nuovo e bellicoso popolo, i goti, le incursioni cominciarono a cam-biare carattere: non più isolate scorrerie a scopo soprattutto di rapina e di saccheggio, ma esiti dell’attività coordinata di leghe militari con ampia capacità di penetrazione. In questa fase comparvero anche i franchi, che troviamo uniti agli altri

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germani occidentali e agli svevi nelle ondate d’invasione della Gallia; in seguito, arrivarono sino all’Italia.

Verso la fi ne del secolo, grazie soprattutto a Diocleziano, l’impero riuscì a riprendersi; anche la strategia nei confronti dei germani conobbe allora un mutamento sostanziale. Poiché il metodo esclusivamente difensivo aveva mostrato i suoi limiti, si cercò di attrarli nell’orbita di Roma. A tale scopo, si seguiro-no due strade. Anzitutto l’immissione massiccia nel territorio controllato dall’impero e nelle sue stesse istituzioni di elementi barbarici, alcuni dei quali col trascorrere del tempo assunsero un’importanza sempre più rilevante fi no a conseguire alte ca-riche: soprattutto a partire dai tempi di Costantino (306-337), che introdusse la separazione tra le carriere dei funzionari ci-vili e quelle dei militari. Quindi – anche per ripopolare le zone che erano state maggiormente devastate – si procedette alla co-stituzione di colonie di prigionieri, come gli alamanni e i fran-chi in Gallia. Di conseguenza i contatti del popolo franco con la romanità, iniziati in modo confl ittuale, approdarono presto a una sorta d’intesa: non per nulla agli inizi del drammatico V secolo troveremo i franchi alleati dell’impero nell’ultimo tenta-tivo di difesa del limes nordoccidentale. Una sorta di presagio? Diffi cile dirlo, anche perché su questi primi rapporti le infor-mazioni non sono molte né del tutto chiare. Certo, però, i fran-chi ebbero fi n da allora modo non solo di cogliere ma anche in parte di assorbire il richiamo della civiltà romana.

Non insisteremo qui sulle cause che portarono alla caduta dell’impero romano: o meglio, alla fi ne della sua parte occiden-tale. Di ciò si è molto parlato, e comunque l’impero non cadde affatto: si ridefi nì, scegliendo di emarginare progressivamente la sua parte più povera e sottosviluppata, cioè il nord-ovest di quel mondo mediterraneo che ne restava lo scenario. Dall’altra parte del Mare nostrum, nel 330 Costantino aveva fondato sul Bosforo, sul sito dell’antica Bisanzio, la città di Nuova Roma, destinata più tardi – durante il regno di Teodosio – a diventare la seconda capitale dell’impero sotto il profi lo formale (ma in

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pratica lo era già da quando Costantino vi aveva trasferito la sua residenza) e a venir chiamata Costantinopoli. La divisione dell’impero in due parti, pur già tentata, avrebbe dovuto es-sere almeno nelle intenzioni soltanto amministrativa: l’impero veniva infatti concepito come una sola unità, idea questa che avrebbe resistito per diversi secoli, anche dopo l’eclissi della parte occidentale. Non si tratta di una pura faccenda di deno-minazione: se non si tenesse ciò ben presente, non si compren-derebbe l’atteggiamento che la “capitale d’Oriente” avrebbe più tardi manifestato nei confronti del neonato impero carolingio. Né, ancor prima, si sarebbe in grado di valutare compiutamente il gesto di Odoacre, al quale i posteri daranno un’importanza che sicuramente i contemporanei non avvertirono. Inviando nel “fatidico” 476 le insegne dell’impero d’Occidente all’imperato-re d’Oriente Zenone, Odoacre non intese compiere alcun passo rivoluzionario: ma soltanto ribadire come l’autorità di un solo imperatore fosse suffi ciente, dato appunto il concetto d’impero come uno e indivisibile.

Non c’era né poteva esserci, da parte dei vari popoli germa-nici che dall’inizio del V secolo si succedettero a ondate in Oc-cidente, alcuna volontà “distruttiva” nei confronti dell’impero. Anzi, essi ambivano semmai a esser inquadrati e riconosciuti all’interno della struttura imperiale stessa. Quel che determinò la dissoluzione dell’impero in Occidente fu il collasso delle sue istituzioni e delle sue strutture sociali, lo sclerotizzarsi della classe dirigente e l’accumularsi di una serie di problemi demo-grafi ci, economici e militari diffi cilmente risolvibili.

Primo fra tutti, quello dello sviluppo elefantiaco del latifon-do. Quando pensiamo a una villa del tardo impero possiamo fi gurarci una residenza signorile, schiavi e coloni che provve-dono praticamente a tutte le necessità fi no a creare un sistema economicamente chiuso, ma anche vastissime estensioni di ter-ra che a volte includono intere regioni.

Già nel I secolo il Satyricon di Petronio ce ne dà uno spiri-toso esempio, presentandoci un rozzo proprietario terriero che

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si vanta di non conoscere neppur l’esatta estensione delle sue terre. Al di là della rappresentazione caricaturale, Petronio non esagerava. Se questa era la situazione già ai tempi di Nerone, alla fi ne del IV secolo e ai primi del V il latifondo aveva ormai cancellato praticamente del tutto la piccola proprietà contadi-na – tradizionale serbatoio dell’esercito romano – e provocato la scomparsa della fi gura dell’agricoltore-soldato su cui si era fondata l’antica forza romana.

Ne derivava la necessità di arruolare nell’esercito elemen-ti barbarici che in breve tempo raggiunsero anche posizioni di primissimo piano, come prova il celebre caso del vandalo Stilicone. All’inizio del V secolo nuove, massicce incursioni barbariche crearono gravi problemi nelle strutture difensive dell’impero, soprattutto nella sua parte occidentale: quando con l’assassinio di Stilicone, eliminato nel 408 dagli intrighi di una corte sempre più imbelle e corrotta, venne a mancare il sostegno di un valido generale, fu l’inizio della fi ne. Presto la pars Occidentis sarebbe stata preda di vari capi barbari che si sarebbero insignoriti di intere regioni fondandovi regni propri, sia pure sotto la sovranità puramente nominale dell’impero; oppure si sarebbero combattuti tra loro per il controllo della corte dislocata a Ravenna, ormai del tutto incapace di domina-re la situazione.

Nella parte orientale dell’impero, nata come quella occi-dentale nel 395 alla morte di Teodosio, le cose stavano diver-samente: il governo era più solido; le strutture burocratiche e la corte avevano un maggior controllo della situazione demografi -ca, politica ed economica; la presenza del grande latifondo era meno pressante che in Occidente. Inoltre, l’impero d’Orien te inaugurò una doppia politica: da una parte non esitava a pagare tributi ai barbari confi nanti pur di garantirsi il mantenimento della sicurezza; dall’altra era in grado di promuovere una reazio-ne antibarbarica molto più radicale ma dalle conseguenze meno traumatiche che in Occidente. Tra la fi ne del IV e l’inizio del V secolo, ad esempio, migliaia di goti che stazionavano a Costan-

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tinopoli vennero massacrati senza pietà e ogni loro infl uenza fu di fatto cancellata, mentre l’esercito si riorganizzò in modo da impedire l’ascesa di elementi barbarici agli alti gradi militari.

Fu proprio quanto era accaduto in Bisanzio a provocar a Ravenna quell’opposizione al compromesso con i barbari che portò alla rovina di Stilicone; ma il capo goto Gainas non aveva mai avuto in Bisanzio il peso che il generale vandalo aveva in Occidente: e l’ambiente politico-militare d’Oriente si trovò as-sai meglio in grado di far quadrato attorno al proprio sovrano e di controllare la situazione. La dinastia teodosiana poté così reggersi a Costantinopoli per circa sessant’anni.

Nel V secolo, dalla sintesi fra le diverse realtà in confl itto, nacquero i regni “romano-barbarici” che si sostituirono alla compagine imperiale: goti in Italia, vandali in Africa, visigoti in Spagna e nella Gallia meridionale, solo per ricordare i più im-portanti. Nella maggior parte dei casi, non vi fu alcuna integra-zione tra germani e latini: i “barbari” si governavano con leggi loro proprie, basate sulla consuetudine. La religione praticata era il cristianesimo: tuttavia la maggior parte dei germani (con una rilevante e importantissima eccezione, come vedremo) era stata evangelizzata da missionari ariani. L’arianesimo, una delle tante confessioni fi orite nei primi secoli del cristianesimo, ma per molti aspetti la più duratura e importante, vedeva nel Cristo una sola natura: quella umana. Quand’esso fu dichiarato ereti-co, molte genti germaniche vi erano già state convertite ed erano assuefatte a considerare il Cristo attraverso la sua prospettiva.

Dal canto loro, le genti “latine” continuavano a seguire il diritto e le tradizioni religiose loro propri: frattanto, una più o meno lenta integrazione reciproca procedeva, in modi e se-condo tempi che non siamo in grado di ricostruire in dettaglio. Con il passare del tempo la Chiesa romana andava acquistando sempre più forza e autorità, avviandosi quindi a diventare – co-me avremo modo di vedere meglio in seguito – uno dei pilastri del nuovo assetto socio-politico-istituzionale. In Occidente, esi-steva una sola Chiesa diocesana che potesse aspirare al titolo di

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patriarcale in quanto fondata da un apostolo: quella di Roma, aureolata comunque dal nome e dall’autorità dell’impero.

Infatti, se la pars Occidentis si trovava priva di un sovrano, rimanevano in cambio sempre ben vivi e presenti il concetto e l’idea d’impero; e se i reges germanici ambivano spesso a ri-conoscimenti da parte della corte bizantina, a Costantinopoli non venne mai meno la coscienza in forza della quale i basileis si considerarono non già gli eredi, bensì i continuatori della tra-dizione romana: e ciò anche dopo che l’invasione longobarda prima e la nascita dell’impero romano-germanico poi ebbero reciso quasi del tutto i legami con la pars Occidentis. Se ne sa-rebbe amaramente e a sue spese reso conto, nel 968, il vescovo di Cremona Liutprando, incaricato dall’imperatore Ottone I di combinare il matrimonio del proprio fi glio con una principessa bizantina: il povero prelato si vide trattare con il massimo di-sprezzo, soprattutto quando osò riferirsi al suo sovrano Ottone usando il titolo di imperator.

Né a Costantinopoli ci si era rassegnati troppo di buon ani-mo all’idea di aver un’autorità puramente nominale sulla pars Occidentis. Anzi, si attuò un tentativo concreto di ricostituire anche politicamente l’unità del vecchio mondo romano. Se es-so avesse avuto un successo più stabile, ciò avrebbe impresso al corso della storia europea una direzione completamente di-versa da quella che effettivamente ebbe: perché la storia, sia chiaro, non solo si può, ma si deve fare con i “se” e i “ma”. Nel 527 saliva al trono imperiale Giustiniano. Liquidato nel 532 un confl itto che da tempo opponeva Bisanzio ai persiani e represse con durissima energia le opposizioni che si erano manifesta-te all’inizio del suo regno (la cosiddetta rivolta della Nika), il nuovo imperator (non si aveva ancor l’abitudine di chiamarlo almeno uffi cialmente con l’appellativo greco di basileus) poté avviare il suo progetto più audace e ambizioso: la riconquista dell’Occidente.

Nel 533, nonostante le perplessità di molti fra i suoi colla-boratori che temevano il ripetersi del clamoroso fallimento di

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un tentativo effettuato nel 468, l’imperatore incaricò il genera-le Belisario di riconquistare l’Africa vandalica. Fu un succes-so fulmineo; il regno vandalico era quello dove l’integrazione tra occupanti e popolazione locale era stata più fragile, sia per motivi religiosi, sia perché i vandali si erano impossessati di larga parte delle proprietà terriere. Ciò facilitò non poco l’esito del confl itto, che restituì a Bisanzio il controllo non solo del Nordafrica, ma anche delle coste meridionali della penisola iberica. Un successo che consentì la liberazione del Mediterra-neo dalla pirateria e la protezione delle regioni costiere e delle libere comunicazioni tra loro.

Di ben altra durata e drammaticità fu invece la lotta per la riconquista della penisola italica, la cosiddetta guerra greco-go-tica: durata con vicende alterne diciotto anni, tra il 535 e il 553, essa costò a Bisanzio un terribile sforzo politico-militare e la-sciò l’Italia stremata e impoverita. Alla fi ne, tuttavia, il succes-so fu totale. Nei progetti di Giustiniano l’instaurazione di un governo locale a Ravenna – ultima capitale dell’impero occi-dentale e residenza dei re goti, con giurisdizione sin ai confi ni con la Gallia – avrebbe dovuto diventare il tramite per una più consistente egemonia imperiale fi no all’oceano Atlantico. Non per nulla Giustiniano instaurò uno stretto controllo anche sulle isole del Tirreno, sulle Baleari e sulle coste iberiche meridiona-li; in tal modo l’intero mondo latino-germanico avrebbe dovuto piegarsi alla supremazia romano-orientale.

“Mai, prima del nostro regno, Dio aveva permesso ai romani di compiere tante conquiste!” Così esclamava l’imperatore in una delle sue leggi, le Novellae, poste a coronamento della gran-de e duratura collezione giuridica, il Corpus iuris civilis, che rappresenta la codifi cazione defi nitiva del diritto e che tanta parte ebbe, alcuni secoli più tardi, nella “rinascita” del diritto romano in Occidente.

I risultati effettivi dell’ambizioso e poderoso sforzo giusti-nianeo di riconquista furono invece assai più precari. Le spos-sate risorse dell’impero non consentirono all’imperatore di

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portar a termine il suo programma attaccando franchi e visigo-ti; d’altra parte, la politica repressiva e la dura pressione fi scale attuate nei territori riconquistati gli alienarono ben presto, so-prattutto in Italia, il favore delle popolazioni sulle quali erano ricadute molte delle spese di guerra nonostante le drammatiche condizioni in cui il confl itto le aveva lasciate. Già nel 568 i lon-gobardi – genti germaniche insediate in precedenza nell’area danubiana (ma originarie probabilmente della regione alle foci dell’Elba), che avevano avuto scarsi contatti col mondo romano – strapparono l’Italia al dominio bizantino, con l’eccezione di alcuni territori fra cui Ravenna, parte dell’Ita lia meridionale, la Sicilia e – fatto molto importante – Roma. Proprio nel periodo della dominazione longobarda in Italia l’autorità del pontefi -ce (titolo questo originariamente spettante a tutti i vescovi, e che non indicava niente di più dell’autorità vescovile) divenne qualcosa di ben più forte di un potere spirituale, sostituendosi gradualmente a quella sempre più nominale di Bisanzio. I con-trasti continui tra il vescovo di Roma e i longobardi spinsero la Chiesa di Roma a cercar quell’appoggio del regno dei franchi che, come vedremo, divenne determinante per il corso della storia europea. In tal modo il pontefi ce inaugurò una nuova tattica: agendo quasi come un sovrano temporale egli, per sal-vaguardare i propri territori e le proprie prerogative, seppe in-serirsi abilmente nel gioco delle rivalità tra i grandi potentati della sua epoca.

Per Bisanzio, invece, la riconquista dell’unità dell’antico mondo romano rimase semplicemente un sogno destinato a sbiadire sempre più fi n a scomparire, nella misura in cui la sua sovranità abbracciava solo alcune regioni orientali dell’Europa e parte dell’Asia Minore; era anzi l’Asia la sua autentica fron-tiera. Vi fu ancora per un istante un raggio di speranza, con il regno tra il 610 e il 641, di un altro grande basileus: l’impera-tore Eraclio.

In un momento drammatico – in cui l’impero bizantino si trovava sottoposto a una nuova pressione dei longobardi che

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tentavano di strappargli i residui territori in Italia, ad incur-sioni àvare e slave nella penisola balcanica e all’occupazione di Siria, Palestina ed Egitto da parte del rivale impero persiano –, Eraclio riuscì a capovolgere completamente una situazione che pareva ormai disperata, giungendo a invadere la Persia e co-stringendola a capitolare nel 628. Sembrava che i tempi fossero ormai maturi anche per una controffensiva contro i longobar-di e per una ripresa del vecchio progetto giustinianeo. Ma in quella circostanza si abbatté sull’impero bizantino un nuovo formidabile nemico, destinato a impegnarlo in una lotta mor-tale per tutto il resto della sua esistenza: l’Islam.

Nel 634, appena due anni dopo la morte di Muhammad (un nome che gli italiani sono abituati a storpiare in “Mao-metto”), gli arabi conquistarono la fortezza bizantina di Bosra, in Transgiordania. Da allora, nel volgere di pochi anni, inte-re porzioni dell’impero vennero rapidamente occupate: la Si-ria con Damasco (635), la Palestina con Gerusalemme (638), l’Egitto (641). La stessa sorte toccò anche all’impero persiano, mentre nel corso dei due secoli successivi vennero conquista-te anche la Spagna e la Sicilia. Costantinopoli divenne così la capitale di un impero esclusivamente “greco”, assillato dai problemi delle frontiere sudorientali: anche la sua presenza in Italia si andò sempre più riducendo.

Un celebre studioso belga, Henri Pirenne, ha visto nell’in-vasione islamica il dissolversi vero e proprio del mondo antico: distruggendo l’unità mediterranea, l’Islam avrebbe creato una frattura molto più grave e profonda di quella verifi catasi con le invasioni germaniche del V-VI secolo. Non andò forse proprio così, e difatti la tesi pirenniana viene tuttora fatta oggetto di di-scussioni continue (il che ne prova comunque la validità di fon-do): l’avvento dell’Islam fu in ogni modo un elemento determi-nante per la fi ne della supremazia bizantina in Occidente. L’ere-dità di Roma non era tuttavia ancora morta: altre mani, e con un differente e nuovo spirito, l’avrebbero raccolta di lì a poco.

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