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1 Vita Vissuta nel Cinema Italiano Beppe Leonetti

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Racconto di vita vissuta sul set di un film che non è mai uscito

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Vita Vissuta nel Cinema Italiano

Beppe Leonetti

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“La palabra mas cerca de director

es dictator”

A. Aroña

I

È lui, non ho dubbi. È lì, davanti al portone della villa, sta parlando al

telefono, con la mano fa cenni di saluto alle persone che gli passano accanto.

Parto a passo di marcia. Lascio le mie cose sul muretto, le recupererò più tardi.

Lo guardo fisso perché si accorga che è a lui che sto puntando. Mi vede con la

coda dell’occhio, lentamente allontana il telefono dall’orecchio. Si volta verso di

me, ben saldo sulle gambe. Mi viene in mente la posizione di difesa che mi

insegnavano a basket. Indossa sul volto un’espressione per niente amichevole. È

lui a fare la prima mossa.

- Chi sei?, mi domanda.

Glielo spiego.

Gli spiego anche che nelle ultime sei ore ci siamo parlati al telefono una

decina di volte. Aggiungo che lo aspetto da questa mattina alle dieci, e che ora

sono le cinque del pomeriggio.

- Non avevamo nessun appuntamento, mi dice.

Mi fa cenno con la mano di seguirlo. Mi porta al centro esatto del giardino,

lontano da orecchie indiscrete. Due spie sovietiche nel pieno della guerra

fredda. Si volta, in modo da dare le spalle alla villa. Immagino abbia paura che

qualcuno possa leggergli il labiale.

Mi fissa attraverso le lenti degli occhiali con la montatura spessa, a metà

tra il cinematografaro e lo sportivo. Gambe divaricate, mani sui fianchi. I radi

capelli castani sono spettinati ad arte. Il vento di gennaio fa sventolare il colletto

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del suo giubbotto sintetico.

Si chiama Renato Meri. È l’organizzatore del film. Il film si intitola “La

Fregatura”, e mentre io e lui ci affrontiamo in questo parco, la villa che fa da

scenografia alla mia visione di Meri fa anche da scenografia al film. È una villa

secentesca, fuori Roma. Ogni tanto dal set ci arriva un “Silenzio, stiamo per

girare” o uno “STOOP!”.

E, sì, un appuntamento ce l’avevamo: l’ha preso per noi Alberto, il

montatore del film. Io sono qui in qualità di secondo assistente al montaggio, e

questo dovrebbe essere il mio primo giorno di lavoro, nonostante le riprese

siano iniziate già da una settimana.

Il secondo assistente al montaggio, soprattutto con i tempi che corrono,

equivale praticamente a un assistente volontario. Pochissimi film, oggi, hanno

un secondo assistente al montaggio, figura resa inutile dall’Avid. Inutile, ma

sarebbe meglio dire “ingiustificabile agli occhi dei produttori”. Però Alberto è il

mio maestro e si è battuto con la produzione perché io potessi avere un ruolo

all’interno di questo film. Anche in qualità di penultima ruota del carro. E il

carro è un grosso carro: film in costume, produzione internazionale con MAI

Cinema. La produttrice italiana è Maria Teresa Cameretta, che non credo

necessiti di presentazioni (fino a poco tempo fa su Wikipedia di lei si leggeva -

ora è stato cancellato: “si è definita -da sola- una sex-symbol”); il direttore della

fotografia è il Maestro Stocasto, quattro premi Oscar sulla mensola del camino;

il regista è Alonzo Aroña, un sudamericano che da giovane ha interpretato il

cattivo in numerose pellicole western e che nella maturità ha realizzato un paio

di filmetti di successo; tra gli attori ci sono Anne Espadrillas, Enrico Maiè,

Settimio Parmigiani, e, ovviamente, la stessa Cameretta.

Questa mattina Alberto mi ha accompagnato in macchina alla villa, poi è

scomparso. Mi ha ordinato di aspettare Renato Meri e accordarmi con lui sulla

mia assunzione. Ho aspettato nel giardino, tra le auto parcheggiate. Ogni ora ho

chiamato Renato al telefono, per chiedergli novità sul suo arrivo. Ogni

telefonata è iniziata allo stesso modo:

- Renato?

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- Chi lo vuole sapere?

È l’inizio di gennaio e fa freddo. Ma nella villa non posso stare: è

vietatissimo gironzolare nei pressi di un set. Quindi aspetto fuori, seduto su un

muretto, giocando a Snake col telefono. Tra un ciak e l’altro passeggio avanti e

indietro per scaldarmi i piedi. Fuori, oltre a me, ci sono tre autisti, uno dei quali

passa tutto il tempo a descrivere agli altri le zinne di tutte le attrici che sono

entrate nella sua macchina. E per ognuna conclude, passando improvvisamente

dal romanesco all’italiano:

- Una donna straordinaria, elegante e bellissima.

Mi spazientisco presto, ma non posso andare via. Snake diventa poco a

poco una droga, e lo resterà per tutta la durata del film. Aspetto con ansia il

pranzo, ma purtroppo non riesco a provare l’ebbrezza del cestino: c’è un

catering. Mi siedo a un tavolo con il fonico, che per tutto il tempo chiede a

chiunque gli si avvicini:

- Che è, sei comunista?

Nessuno mi conosce, mi guardano tutti con sospetto. Mi convinco che

pensino di me che sia venuto qui perché c’è da mangiare e da bere. Ma non mi si

avvicina nessuno, nessuno mi chiede niente. Solo una ragazza a un certo punto

mi dice, indicando la mia sigaretta, che ha smesso di fumare grazie a un libro.

Alle cinque finalmente arriva Renato. Nemmeno lo vedo scendere

dall’auto: appare improvvisamente. Guardo lo spiazzo antistante la villa, e non

c’è. Sposto un attimo lo sguardo, e quando fisso nuovamente l’ingresso, eccolo

lì, al telefono, come se niente fosse.

Lui e io, in mezzo al giardino. Lui dà le spalle alla villa, nella mano destra

regge il suo inseparabile cellulare-con-un-sacco-di-funzioni. Mi fissa da dietro

gli occhiali, mi studia.

Alberto mi ha avvertito di certe sue, chiamiamole attenzioni, nei confronti

del denaro. “È uno che risparmia sugli spiccioli”, così lo ha definito. Uno che,

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dopo aver fatto un paio di film “colli americani”, crede di essere un grande

produttore. Ma è e resta un organizzatore, dice Alberto. È uno che crede che per

fare un film si debba risparmiare sulla cancelleria. Uno di quelli che ripetono in

continuazione “nun te preccupa’”, che in genere equivale al contrario. E Alberto,

da parte sua, interpreta la frase come “preoccupati, ché sto studiando un modo

per fregarti”.

Per evitarmi discussioni fin dall’inizio, è lui a chiedere a Renato il mio

compenso. E mi avverte: non farti fregare, lui giocherà al ribasso, ma tu non

cedere, già ho chiesto il minimo, non scendere sotto il minimo per nessun

motivo. Il minimo sono cinquecento euro settimanali, che con le detrazioni si

riducono a circa trecento cinquanta. Una cifra onorevole, certo, ma non in un

ambiente in cui lavori un mese e poi rischi di non fare niente per altri due.

Se non avete mai avuto a che fare con un produttore, di sicuro non

riuscirete a immaginare l’espressione di amichevole freddezza con cui dice, ogni

volta che si parla di denaro:

- Lo sai com’è, i sordi nun ce stanno, so’ finiti, me devi veni’ ‘ncontro.

Che ti stiano ingaggiando per un cortometraggio autoprodotto o per

l’ultimo film di Spielberg, la frase è sempre questa, l’espressione sempre quella.

Meri è un po’ diverso.

- Bè, quanto voi?

Le spalle alla villa, il cellulare nella mano destra. Mi guarda fisso, è più

basso di me ma tenta di guardarmi dall’alto.

- Cinquecento a settimana, come t’ha detto Alberto.

- Ah, c’hai già parlato, cco’ Arberto?

Sembra seccato. E infatti, subito dopo sbotta:

- Vabbene, cinquecento. Ma nun vojio senti' storie, poi, eh? Nun vojio

senti' che lavori il sabbato, la domenica, orari eccetera, vabbene?

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- Cinquecento, ripeto.

- Vai dentro e lascia i tuoi dati ad Alessandra, che ti collocasse da domani.

Si volta e mi lascia solo, in mezzo al prato.

Al piano terra della villa c’è l’ufficio di produzione. Una stanza riscaldata

da quattro stufe a gas, una per angolo. Al centro, quattro lunghi tavoli bianchi,

sui quali conto una decina di postazioni da lavoro: computer portatili,

stampanti, fax, telefoni. C’è anche una gigantesca fotocopiatrice, lungo la parete.

Le postazioni sono tutte occupate, tutti parlano al telefono, lanciano ordini

perentori, fanno cose importantissime a una velocità pazzesca. Una sola donna:

deve essere Alessandra.

È la solita ragazza che lavora in produzione, quella che indossa il gilet

imbottito pieno di tasche e che non dorme da giorni e che presumibilmente non

dormirà per tutta la durata delle riprese, e che poi alla festa di fine film

improvvisamente indossa una gonna e tutti rimangono sbalorditi perché si

accorgono che non era un uomo. Già la vedo, la sera, che accarezza il suo

enorme cane nero che ha una macchia bianca sotto il muso.

- Mi ha detto Renato che devo lasciarti i miei dati per il collocamento...

Lei smette per un attimo di telefonare, fotocopiare una sceneggiatura, dare

ordini al walkie-talkie e cercare dei fogli sulla scrivania, ma non di scrivere

un’email.

- In qualità di?

- Assistente al montaggio.

- Bene. E da quando?

- Da domani.

Ora smette pure di scrivere al computer, si rivolge a tutta la stanza e dice:

- Mo' pure quelli d‘a trupp me vengono a di’ quanno vonno esse’ collocati!

Risata generale. E subitanea apparizione di Renato, seduto ad una

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scrivania, che alza lo sguardo come se fosse stato lì da tutto il giorno:

- Gliel'ho detto io: da domani.

- Va bene, dice lei, senza cambiare tono, poi rivolta a me:

- Non è per te, ma sai....

Una serie di manovre diplomatiche fanno sì che la sala montaggio venga

allestita in un appartamento all’interno di un triste quartiere residenziale fuori

dal Gra. Al piano terra di una villetta con giardino abbiamo due camere e

cucina, cucina che non usiamo se non per fare il caffè. Io mi propongo come

cuoco ufficiale del reparto montaggio, ma la mia offerta è subito bocciata, in

maniera inappellabile.

La prima assistente è Michela. Michela è molto dolce e materna con me, mi

insegna tutto quello che può. Mi parla spesso del suo fidanzato, così che in pochi

giorni, senza nemmeno conoscerlo, gli voglio bene anche io. Nella prima

settimana di lavoro non c’è molto da fare: dal laboratorio arrivano i primi ciak,

dobbiamo acquisirli, sincronizzare, controllare che sia tutto a posto, sistemare il

progetto in modo che Alberto non abbia nessun tipo di problema. A metà

mattina andiamo a fare un giro al mercato rionale. Compriamo della pizza

bianca, e c’è una bancarella che vende dvd a pochi euro. Michela compra un

paio di film, e nel pomeriggio li guardiamo.

Verso sera arriva Alberto.

Alberto, prima di essere un montatore, è uno stratega. Le giornate con lui

sembrano lunghissime riunioni di stato maggiore, noi piegati sul tavolo, a

studiare le mappe del territorio, per prevedere gli spostamenti delle truppe

nemiche.

Alberto non accetta un lavoro, accetta una missione. In tutti i sensi: si

butta sul montaggio come fosse una questione di vita o di morte, ma lo fa

proprio come se dovesse affrontare la guerriglia nella giungla. Ogni frase, ogni

battito di ciglia, ogni sorriso è analizzato, girato e rivoltato per studiare tutti i

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significati che potrebbe nascondere. Anzi, si parte dal presupposto che niente

significhi ciò che sembra, che tutto nasconda qualcosa.

Quando arriva, ci saluta con affetto, si siede davanti all’Avid, le dita della

mano destra sulle lettere J, K e L della tastiera. Va avanti un fotogramma alla

volta, studia ogni dettaglio dell’immagine, ogni sfumatura di colore, ogni piccolo

movimento della macchina da presa. E lancia improperi tra un fotogramma e

l’altro.

Ce n’è per tutti: per la produzione (“Non ci si può improvvisare: questo

mestiere bisogna saperlo fare. La signora Cameretta, che a me è tanto simpatica,

non può pensare di fare un film di questo tipo, da sola. Il signor Meri deve

ricordare che non è un produttore, ma solo l’organizzatore. Produttori non ci si

diventa”), per il direttore della fotografia (“Ma ti pare una luce, questa, di

sguincio, che roba è?”), per l’operatore (“E che movimento sarebbe questo? Ci

deve essere un motivo, non si possono fare le cose così”), per i costumisti (“Senti

che rumore fanno questi costumi! Che stoffe hanno usato?”), per gli scenografi

(“Sarebbe questa una villa dei primi del Novecento? E che ci fa uno scheletro in

salotto?”), per i truccatori (“Questa attrice era bella, guarda come l’hanno

rovinata!”). Va avanti, guarda un movimento di macchina, ascolta una battuta,

si ferma, si volta verso di noi, sbuffa e ricomincia.

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II

Ogni giorno Alberto reca inquietanti notizie. Alcune gli vengono riferite

direttamente da Meri o dalla Cameretta, ma la maggior parte sono sue

complesse interpretazioni del modo in cui tizio o caio lo hanno salutato il giorno

prima, agitando la mano destra o l’indice sinistro, sorridendo a denti più o

meno stretti, pronunciando la parola “automobile” più o meno volte rispetto al

verbo “piovere”.

- Ti ho detto che ho incontrato Pantaloni?, mi domanda.

- Sì, me l’hai detto.

- E ti ho detto che quando mi ha salutato mi ha messo una mano sulla

spalla e mi ha chiesto ‘come va’?

- No, questo non me l’hai detto. E che gli hai risposto?

- Gli ho detto ‘ce la caviamo’.

- E lui?

- Lui mi ha stretto la spalla e mi ha detto ‘coraggio’. È chiaramente un

segnale del fatto che oggettivamente voleva farmi sapere che tutti sanno che

personaggio è il signor regista, e nessuno è oggettivamente contento.

E inizia una conferenza di filologia ed esegesi cinematografara.

Non è un bel rapporto, quello che si sta creando tra Aroña e Alberto. C’è

reciproca antipatia. Il regista non sopporta l’idea che il montatore sia stato

indicato, se non imposto, dalla produzione. In più sono due persone dalla forte

personalità, per non dire molto testarde, e nessuno è disposto a concedere

niente all’altro. Sarà dura.

Aroña, poi, non è uno facile: si impunta su qualunque cosa, non fa altro

che litigare con tutti, dalla Cameretta in giù, avanzando assurde pretese sotto

forma di ultimatum: o fate così o prendo il primo aereo e torno a casa. Del resto,

sembra ami ripetere che “la palabra mas cerca de director es dictator”. Ogni

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giorno una nuova richiesta, ogni giorno una nuova minaccia.

- Il nostro compito, dice Alberto, è quello di tenere duro. Aspettiamo che il

signor regista se ne vada, poi avremo oggettivamente il campo libero per finire

questo film. Nel frattempo non dobbiamo fornire al signor regista nessun

motivo oggettivo perché si arrabbi ulteriormente con la signora produttrice.

Questa è la sua strategia. Aspettiamo.

Da Aroña arriva la richiesta, anzi l’ordine, di andare sul set: vuole avere il

montatore a disposizione, per lavorare durante le pause e a fine giornata. La

cosa non piace ad Alberto, che però, fedele alla linea, decide di abbozzare.

- Aspettiamo. Il signor regista ce sta a prova’. Noi aspettiamo, prima o poi

Meri farà qualcosa.

Nell’attesa, andiamo ogni giorno sul set, alla villa. Lui e io, perché Michela

resta in sala montaggio a continuare il lavoro vero.

Sgarbatamente (che poi è l’atteggiamento previsto, per ogni occasione, dal

“Manuale del buon cinematografaro”) ci fanno sistemare in una grande stanza

dal soffitto affrescato e gli stucchi alle pareti, un tavolo coperto da un telo verde

su cui troneggia il gigantesco monitor in cui il Maestro Stocasto guarda i

giornalieri. Alberto e io ci piazziamo a pochi centimetri dalla stufa a gas.

Aspettiamo. Dopo la lettura dei quotidiani, io inizio la mia giornata da Snake-

dipendente, mentre Alberto tira fuori il suo taccuino, la penna e si mette a

scrivere. Ogni tanto si spazientisce, si alza, spalanca la porta, afferra il primo che

passa e gli urla:

- Si faccia sapere al signor regista che non posso aspettarlo tutto il giorno,

e che se non si degna di farsi vedere, io e il mio assistente ce ne andiamo!

A queste parole il malcapitato si dilegua, Alberto torna a sedersi e

ricominciamo ad aspettare.

A volte, invece, qualche anima pia opportunamente istruita passa a darci

informazioni. In genere si tratta di una frase tipo:

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- Il regista dice di prepararvi, finisce di girare questa inquadratura ed è

subito da voi.

Alberto a questo punto ringrazia l’ambasciator, e ricomincia con gli

improperi: con chi crede di avere a che fare questo, oggettivamente non ci si

comporta così, ci ha detto lui di venire, ora gliene dico quattro, se Meri non

riesce a fargli capire le cose ci penso io eccetera. Improperi che vengono

interrotti a intervalli regolari dal fatidico urlo:

- È “motore”, silenzio per piacere! Silenzio per cortesia, stiamo per girare!

Quando si sente questo richiamo, tutti si bloccano all’istante, il tempo si

ferma: all’improvviso si procede al rallentatore, qualcuno cammina come se

stesse calpestando il suolo lunare, il volto deformato dallo sforzo di sostenere

ogni particella del proprio corpo. Pochi respirano e se qualcuno,

inavvertitamente, fa scricchiolare il pavimento di legno, viene investito da

un’ondata di insulti muti e occhiatacce. E poi, allo “STOOOOP!” (anzi, è più del

genere “STUOOOOP!”), tutto riprende a velocità normale: la cenere della

sigaretta cade a terra, i passi ridiventano pesanti, chi correva ricomincia a farlo,

torna la voce a chi stava mandando affanculo.

Nei primi giorni di set non ci uniamo alla troupe per il pranzo: Alberto è

sicuro che Aroña si farà finalmente vedere, come promesso. E invece niente.

Presto scopriamo che il regista dopo la comida fa la siesta: tutto il film si blocca

perché lui riposa nel camper, e dopo un’oretta di sonno è pronto a ricominciare,

e noi ad aspettare.

Allora si farà vedere a fine giornata, pensa Alberto. Alle sei, però, concluso

l’ultimo ciak, Aroña, accompagnato dalla sua segretaria, salta sulla Mercedes e

sparisce. Alberto un paio di volte tenta di stargli dietro, cerca di intercettarlo,

prova a tendergli un agguato davanti al portone, ma sempre senza successo.

Meri ci spiega che al mattino si sveglia presto, quindi a fine giornata è stanco,

bisogna capirlo e avere pazienza.

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Una mattina riceviamo la visita del Maestro Stocasto. Nonostante sia il

direttore della fotografia, pardon: l’autore della cinematografia di alcuni dei

miei film preferiti, non sono per niente emozionato. Arriva camminando sotto il

suo Stetson, seguito dal suo reparto al completo. Un primario in visita in corsia.

Abbraccia Alberto:

- Sono stato suo assistente!, dice, guardando tutti i suoi fedelissimi, che

intanto si sono disposti a cerchio attorno a noi.

- Ah, ti ricordi, davanti a quella moviola…

- Senti, ma com’è ‘sto signor regista?

- E che vuoi che ti dica? Comunque, in natura non esiste il 16:9.

Forse non ho capito bene, mi sarò distratto un attimo. Raccolgo il cervello,

scuoto la testa, e cerco di stare attento.

E invece ho capito benissimo:

- Vedete, in natura esiste solo il 2:1. Anche il Cenacolo è in 2:1.

Alberto non si scompone:

- E che, l’hai misurato?

Nemmeno il Maestro si scompone:

- Certo, ci sono andato proprio io, con il metro. 2:1 pre-ci-so.

E inizia una conferenza sul 2:1, sul fatto che i televisori 16:9 sono

un’enorme bufala, che sarebbe più giusto avere televisori 18:9, o forse 20:10, o

al massimo 16:8, e infatti lui ha avviato trattative a livello internazionale per

cambiare lo standard, e comunque sul suo sito troviamo tutte le informazioni

che ci servono, e servirci ci servono, anche perché il film lui lo gira con queste

proporzioni, utilizzando una pellicola modificata eccetera.

- E quando finirete di montare io inizierò la correzione del colore. La faccio

in tre passaggi. Montaggio e regia possono intervenire solo dopo il terzo. Ciao, ci

vediamo.

E sparisce. Squilli di tromba e giovani specializzandi.

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È venerdì, Alberto e io siamo in postazione, abbracciati alla stufa, il

gigantesco monitor imperante sul panno verde. Percepiamo un po’ di

nervosismo, quest’oggi. Niente di visibile, solo un sottile alito di vento che

attraversa la villa, una serie di piccole stranezze: Meri non c’è, sono tutti molto

silenziosi e concentrati, qualcuno è addirittura gentile. Alberto dopo un po’ si

allontana per indagare, io sono a un punto cruciale di Snake e non posso

muovermi.

Mentre schivo un pezzo della coda, infilandomi tra la parete di destra e un

ostacolo, percepisco una presenza nella stanza. Metto via il telefono, e guardo

un po’ scocciato la figura che si siede accanto a me. È il videoassist, e sembra

uscito da un film sulla frontiera americana: capelli lunghi, camicia a

quadrettoni, stivali. Puro stile lumberjack. Gli manca solo una sputacchiera di

fianco.

- Hai sentito la novità?, mi domanda, con fare da cospiratore.

- Che novità?

- Sembra che sospendono il film. E io ho rinunciato a Salvatores, per

questo. Oh, mi raccomando: acqua in bocca perché ancora non è certo!

E se ne va.

Subito penso che questa storia della rinuncia al film di Salvatores l’ho già

sentita varie volte, come se fosse un modo di dire; poi immagino la scena che si

deve essere svolta pochi istanti prima, nell’altra stanza: qualcuno si avvicina al

videoassist e gli sussurra all’orecchio:

- Sembra sospendano il film. Ho rinunciato a quello di Salvatores. Mi

raccomando, acqua in bocca!

E lui, dopo aver fatto cenno di sì con la testa, parte alla ricerca di qualcuno

con cui condividere il tremendo fardello, troppo pesante per riuscire a reggerlo

da solo.

Mentre cerco di ricostruire a ritroso la catena di custodi, entra Alberto,

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latore di notizie fresche: pare che la sera prima ci sia stato l’ennesimo litigio tra

Aroña e la Cameretta, un litigio molto più intenso del solito, al termine del quale

la Cameretta ha avuto un malore. Ora è in ospedale, e si attende una parola dai

medici. Alla ovvia preoccupazione per la salute della giovane produttrice si

aggiunge l’incertezza nei confronti del film: dovesse essere qualcosa di grave, la

lavorazione verrebbe necessariamente sospesa.

E pochi minuti dopo, il verdetto: la Cameretta sta bene, si è trattato solo di

stress, ha bisogno di un paio di settimane di riposo. Essendo lei produttrice,

nonché una delle protagoniste, il film deve essere sospeso, almeno per queste

due settimane: al momento non è in condizioni di affrontare la trasferta a

Napoli.

- Oggettivamente, questo mi pare un trucco, mi sussurra Alberto.

- In che senso?

- Te lo dicevo che stavano preparando qualcosa, no? Il signor regista ha

teso troppo la corda, e mò s’è spezzata. Questi lo vonno ffa’ fori. Avranno trovato

un altro regista al posto suo, e stanno prendendo tempo.

- E quindi che dobbiamo fare?

- Aspettiamo, tanto oggettivamente da lavorare ce n’è per noi, in queste

settimane. Meri a noi non ci lascia a casa.

Infatti, pochi minuti dopo, come se io fossi l’unica sua preoccupazione su

questo film, ricevo una telefonata da Meri:

- È ovvio che durante ‘ste due settimane de sospensione, tu stai a casa.

- Certo, come tutti.

- No, il reparto montaggio ho deciso di continuare a fallo lavora’, tanto c’è

‘n zacco de robba da fa’. Tu però stai a casa.

- In che senso?

- Ahò! Nel senso che nun te posso paga’, nun c’ho mica tutti ‘sti sordi, io!

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Stai a casa, senza settimanale, poi vedemo.

Alberto, che devo fare?

- E che voi ffa’? Aspettiamo.

Da un lato sono contento, due settimane di lavoro a questo film mi hanno

già stressato, dall’altro inizio a provare un certo malessere. Sto a casa, senza

stipendio, e nessuno dice niente.

Ogni sera chiamo Alberto, che mi fa un riassunto della situazione.

- Oggettivamente non è una bella faccenda, per nessuno. Oggi ho

incontrato uno che mi ha detto ‘forza’: è chiaro che si riferiva al film, tutti sanno

che persona sia il signor regista. Non ci resta che aspettare, e vedere che piega

prenderanno gli eventi.

Eccola, la piega degli eventi:

Passate le due settimane di sospensione, il film riparte e io vengo

richiamato. Anzi, mi viene ordinato di tornare: il set si è spostato a Sant’Agata

dei Goti, e Aroña richiede montatore e assistente lì, con sé, per lavorare nel fine

settimana. Chiede inoltre di vedere ciò che il reparto montaggio ha prodotto

finora, per proseguire insieme il lavoro.

Michela ed io siamo assaliti da una terribile angoscia fin dal lunedì. La

quantità di materiale montato equivale sì e no a cinque sequenze, pochi minuti,

e Alberto continua a dirci che queste sono solo provocazioni, che si aspetta una

presa di posizione da parte di Meri, che in un modo o nell’altro ce la caveremo,

l’importante è non creare ulteriori motivi d’attrito tra Aroña e la Cameretta. Per

questo io devo controllare che la nostra postazione mobile di montaggio sia

perfettamente funzionante, al resto ci pensa lui.

Ci prepariamo al fine settimana come se dovessimo andare alla guerra.

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III

Sabato mattina partiamo in macchina, Alberto e io. Meta: Sant’Agata dei

Goti, nel bel mezzo del Sannio, feudo (come è stato definito) di un grasso

politico salterello. Approfittiamo del viaggio per il consueto briefing di

dietrologia.

Alberto mi spiega che dopo questo litigio e la sospensione del film, i

rapporti tra Aroña e la Cameretta sono irrimediabilmente compromessi. Non

sarà facile portare a termine il lavoro. Il nostro compito è quanto mai delicato,

da giocarsi nel campo della più accorta diplomazia: dobbiamo assolutamente

fare in modo che il regista non trovi in noi altri motivi per ricattare la

produzione, dobbiamo tenere in acqua la barca, possibilmente farla arrivare in

porto.

Questa frase non mi tranquillizza affatto. So che le scene finora montate

non sono molte. E soprattutto so di non essere riuscito a controllare l’hard-disk

in cui è contenuto il materiale del film: ieri sera Alberto è scappato via dalla sala

montaggio portando con sé tutta l’attrezzatura, proprio mentre stavo finendo di

lavorare. Ho uno spiacevole presentimento, a riguardo. Per distrarmi chiamo

Meri:

- Renato?

- Chi lo vuole sapere?

- Volevo essere sicuro che abbiamo un posto in cui lavorare, in albergo.

Una stanza tranquilla, una cosa del genere.

- Nun te preoccupa’, c’ho ggià pensato. All’hotel sanno tutto.

- Ti ricordi che ti avevo anche chiesto un televisore? Ce l’abbiamo?

- Televisore? E a che tte serve?

- Non si riesce a montare sul portatile, sul televisore si vede meglio, credo

che il regista preferisca così.

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- Ah, mò chiamo l’hotel e glielo dico, nun te preccupa’. Approposito, Aroña

nun viene a’e dodici, c’ha ritardo, viene all’una.

- Non c’è problema, lo dico ad Alberto.

Lungo la strada riceviamo altre telefonate. L’appuntamento viene ancora

spostato: alle due, poi alle due e mezzo. Queste notizie gettano Alberto in un

silenzio poco rassicurante.

L’hotel a cinque stelle è piantato ai bordi di una statale. Appena arriviamo

mi precipito dal portiere: chiedo della stanza in cui lavoreremo, e del televisore.

- Mi dispiace, nessuno ci ha detto niente.

Non avevo dubbi.

- E quindi?

- Comunque le troviamo subito una sistemazione. Miche’, vedi un po’.

L’albergo è praticamente vuoto, ci fanno sistemare in una sala riunioni nel

seminterrato, un fattorino mi porta un televisore che ha preso in una delle

stanze. Il televisore però non ha la presa scart, quindi non serve a niente, e in

tutto l’hotel c’è solo quel modello lì, per cui dovremo arrangiarci. Comincio a

preoccuparmi.

Abbiamo appena il tempo di mangiare qualcosa al bar: Aroña arriverà a

momenti. Fumiamo una rapida sigaretta sulle scale dell’ingresso.

Dopo un po’ ne fumiamo un’altra. Poi un’altra.

Alle tre e mezzo spunta Meri, porta a spasso il suo elegantissimo trolley.

Alberto lo guarda e dice soltanto:

- Embè?

- Nun s’è fatto vedere, ancora?

- Non è arrivato, no!

Meri estrae il cellulare, e mentre compone un numero mormora:

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- Ma come no? Sta in albergo da mezzogiorno! Starà a dormi’…

Con cautela mi volto verso Alberto. È talmente rosso che sembra

abbronzato.

Alle quattro e mezzo si aprono le porte dell’ascensore. Maglia nera, capelli

neri tinti, panzone in fuori. Il regista, siore e siori: Alonzo Aroña. Finalmente lo

incontro! Sorride sotto i baffoni alla Groucho Marx. Più che un volto, il suo è

uno stereotipo: ha davvero la faccia del cattivo pasticcione di un film western.

Mi ritrovo a pensare a quanto somigli incredibilmente a se stesso: lo ricordo

tutto sudato, i capelli ricci, fasciato dai cinturoni incrociati sul petto, mentre con

il sigaro accende la miccia di un candelotto di dinamite.

Ci saluta come se niente fosse, e così facciamo noi, agitando le mani. Con

lui c’è Miguel, il suo musicista di fiducia, un trentacinquenne argentino che vive

a Los Angeles, e segue tutto il film con la giovane moglie: evidentemente deve

assaporare l’aria del set, non dimenticando quella di casa, per avere

l’ispirazione.

Ci accomodiamo nella sala che ho preparato. Aroña è uno di poche parole,

appena si siede incrocia le braccia sulla panza e guarda fisso il monitor del

computer, senza dire niente. Non è certo un atteggiamento che mette agio, e

infatti sulla stanza cala un appiccicoso gelo. Alberto inizia a parlare, cerca di

illustrare il lavoro che ha fatto finora, ma tra il nervosismo e la difficoltà di

esprimersi in una lingua che non è la propria, inizia a balbettare uno strano

pidgin composto da inglese, spagnolo, portoghese con qualche punta di

romanesco.

Aroña non fa nessun movimento, lo lascia parlare. Dopo qualche minuto lo

interrompe semplicemente alzando la mano destra, e dice:

- Can we see the scene number cinco?

Subito! Quando l’immagine comincia a scorrere sullo schermo, Aroña si

sporge verso Miguel e gli sussurra quelle che credo siano le sue intuizioni

musicali. Ma, improvvisamente, la scena diventa muta: non c’è più audio.

Page 19: Vita vissuta nel cinema italiano

19

Alberto si blocca all’istante, quindi scuote il mouse, schiaccia a caso qualche

tasto mentre io inizio a espellere dai pori sulla fronte tutto il sudore che ho in

corpo. Fa caldo, lì dentro, caldissimo.

Aroña non si scompone, dice semplicemente:

- No siento nada.

Alberto balbetta qualcosa in pidgin e poi, senza nemmeno guardarmi,

inizia a ripetermi ossessivamente, con tono minaccioso:

- Nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo

scherzi…

Non ho bisogno di controllare cosa sta accadendo: conosco già la causa del

problema.

- Alcuni file audio non si sono copiati. Ieri sera non ho potuto verificare

tutto. Purtroppo non c’è molto da fare.

- Nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo

scherzi…

Aroña si volta verso di me dicendo:

- So, can you fix it?

Gli spiego, col mio rozzo inglese, che l’hard-disk ha avuto un problema,

forse durante il viaggio, e alcuni file si devono essere corrotti, quindi sono

inutilizzabili. Chiedo scusa, sono cose che capitano. Il sudore sulla mia fronte

stride con la freddezza con cui racconto la balla.

Ma lui se la beve.

- Bueno, no hay problema: let’s see the scene number trece.

Tiro un sospiro di sollievo, e andiamo avanti.

Il siparietto però si ripete per la scena 13.

- Nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo

scherzi…

Page 20: Vita vissuta nel cinema italiano

20

Passiamo alla 85. Immagino tutto ciò che mi aspetterà dopo, quando

resterò solo con Alberto. Anche la 85 ha lo stesso problema, così come la 102. La

121, da parte sua, non esiste proprio. Alberto non mi guarda più, e io vorrei

sotterrarmi.

Nonostante la mia balla, la tranquillità di Aroña manda segnali di

cedimento. Le dita tamburellano sullo stomaco sporgente, da sotto i baffi

proviene un fischiettio irritato. Finalmente ha una scusa per mostrare ad

Alberto tutta l’antipatia che prova per lui. E quando troviamo una scena su cui

lavorare, una scena brevissima, appena tre inquadrature, la situazione diventa

grottesca: invece di dirgli direttamente “taglia qui, fammi vedere quello, attacca

questo”, si rivolge a me, in un misto di inglese e spagnolo: “tell him to…,

preguntale…, why is he doing…”

Anche Alberto si lascia aggrovigliare in questo meccanismo, e io vengo

improvvisamente promosso da assistente a interprete. Ma in verità mi sento

come un bambino tra i due genitori che stanno divorziando.

- Gli puoi dire che… Chiedigli se… Cosa intende per…

Alle sette, dopo poco più di due ore di lavoro, Aroña si alza e si scusa: deve

mangiare. Ma sulla porta si ferma, si volta verso di me:

- Dile che mañana abbiamo mucho lavoro da far. Ci enquentreremo aquì

domani mattina alle nueve, e voi dovete aver montato todas las escenas che ti ho

detto prima.

Se ne va, seguito da Miguel.

Io mi siedo, mi preparo a lavorare, ma Alberto mi blocca con un gesto della

mano:

- Che stai a ffa’?

- Dobbiamo montare, no?

- Ma che montare! Andiamo a mangiare, monterò stanotte in camera.

Page 21: Vita vissuta nel cinema italiano

21

Saliamo al ristorante. La sala è enorme, al centro troneggia un pianoforte a

coda. Due soli tavoli apparecchiati, gli altri coperti da teli bianchi, come nelle

case abitate da fantasmi. Il cameriere ci fa sedere a un tavolo rotondo, accanto

all’unico altro tavolo occupato. Occupato da Aroña, Miguel e consorte. Loro ci

fanno un cenno di saluto abbassando le teste, ma non ci chiedono di unirci.

Ceniamo così, in silenzio, o sussurrando qualche cattiveria sul regista. Alberto è

furente, mentre accanto a noi quelli cantano in spagnolo. Quando i tre si alzano

per andare al pianoforte, noi lasciamo la sala.

Il mattino seguente sono un po’ in ritardo, ho guardato la televisione

praticamente tutta la notte, e mi presento a fare colazione alle nove in punto,

quando invece avrei dovuto essere già operativo. Mi scuso con Alberto, che mi

degna solo di un’occhiataccia e riprende a leggere il giornale. Bevo velocemente

un caffè, afferro un cornetto e mi precipito ad accendere il computer. Dopo un

po’, non vedendo arrivare nessuno, torno al bar: Alberto è sempre lì, ha

abbandonato il giornale e sta leggendo un libro. Chiedo un altro caffè, prendo in

prestito la Repubblica e mi sistemo sulle scale fuori dall’hotel a leggere e

fumare. Poco dopo arriva Alberto, sono quasi le dieci.

- Niente, mi dice, questo signor regista proprio non ha rispetto. Ci ha

oggettivamente detto di farci trovare pronti per le nove, è in ritardo di un’ora,

voglio vedere come si giustifica.

- Hai montato, stanotte?

- Oggettivamente non avevo proprio voglia, a queste condizioni.

Aspettiamo. Aroña scende alle undici passate, ma deve ancora fare

colazione. Non ci guarda nemmeno: dall’ascensore va direttamente al bar. Io

torno davanti al computer, pronto ad affrontare ogni situazione. Verso le dodici

ecco arrivare il regista, stavolta da solo, rasato di fresco, i baffi pettinati, un bel

grugno promettente. Si siede, chiede ad Alberto di vedere quello che noi

abbiamo fatto ieri sera.

Alberto tira fuori una sequenza che aveva già montato nelle settimane

Page 22: Vita vissuta nel cinema italiano

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precedenti, e Aroña nemmeno se ne accorge. Fa alcuni commenti. Anzi, a dire la

verità smonta completamente il lavoro di Alberto. Che, ovviamente, era un bel

lavoro.

- Hay certe regole que devi saber, se vuoi montar conmigo, gli dice Aroña

con il tono del maestro che si rivolge a uno scolaro un po’ ottuso.

Prende un foglio bianco, un pennarello, e inizia a tracciare alcune linee per

spiegare meglio la sua teoria.

-Primera regla: siempre veder el volto di chi està parlando. Alguno parla,

lo vediamo, e quando finisce tagliamo su un otro. Segunda regla: hay que

montar ogni escena partendo dalle inquadrature mas larghe andando verso

quelle mas strette e poi el contrario. Ogni escena è girata partendo dal totale al

primer plano: ogni escena deve essere montata partendo dai totali, arrivare al

primer plano, e poi di nuevo, ai totali. Tercera: è inutile guardar todos i ciak,

prendere siempre l’ultimo, es el mejor. Recuerda: solo l’ultimo, los otros non

guardarli nemmeno, si perde solo tiempo. Cuarta regla: in alcuni momenti, que

yo le digo, estas reglas possono esser violate, ma solo in quei momenti. Tieni

questo foglio, così te recuerdas.

Alberto prende il foglio, lo guarda e dice, un maligno sorrisetto sulle

labbra:

- Sì, però me lo devi firmare.

Mi scappa da ridere, non credo di riuscire a trattenermi. Ho assistito a una

lezione di montaggio for dummies fatta dal cattivo dei film western al maestro

della moviola. Se in questa stanza non ci fossi stato io, probabilmente si sarebbe

consumato un omicidio.

Aroña prende il foglio, lo firma e lo restituisce. Quel foglio resterà appeso

come memento davanti all’Avid per tutte le successive settimane di lavorazione.

Apposta la firma, il regista si alza e si scusa: deve andare a fare dei

sopralluoghi e non può trattenersi oltre. Raccogliamo le nostre cose e uscendo

intercettiamo Renato Meri:

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- È partito, Aroña? Eh, no, perché m’ha fatto prenota’ er ristorante all’una

precisa, se mò fa tardi…

Guardo l’orologio, segna l’una meno dieci. Alberto, sconsolato, si fa

consigliare una trattoria in paese.

Appena entriamo il cameriere ci chiede se siamo “col film”. Alla nostra

risposta affermativa, ci porta un posacenere, dicendo che noi lì possiamo

fumare se vogliamo, tanto non viene a controllare nessuno. Alla fine ci fanno lo

sconto, e ci chiedono di portare la Cameretta a mangiare lì, un giorno o l’altro.

Page 24: Vita vissuta nel cinema italiano

24

IV

Lunedì, il giorno dopo la nostra gita a Sant’Agata dei Goti, ricevo una

telefonata da Renato Meri.

- Vedi che Aroña te vo’ sur set.

- Sono appena tornato!

- Nun hai capito: te vo’ sur set! Devi parti’, e devi sta’ sur set fin’a’a fine.

Vedi che devi fa’, organizzete, parti domani.

- Domani? Ma che dici?

- Ahò, quello vo’ fini’ er film, dice che Arberto nu’ spiccica ‘na parola de

inglese. Vo’ monta’ cco’ te. Quindi mò devi parti’, sennò quello se ne va. Si nun

stai qua entro venerdì, quello torna ar paese suo.

- Ma che è ‘sta storia? Alberto lo sa? È a lui che lo dovete dire!

- Mò lo chiamo, ma intanto tu fatte ‘e valigie.

- Dammi tempo per pensarci.

- Sì, te chiamo domani.

Telefono ad Alberto: sa già tutto. Ma sembra tranquillo, mi dice di non

preoccuparmi.

- Sì, io non mi preoccupo. Però non voglio andarci.

- Non è questione di voglia. Oggettivamente ti hanno messo alle strette.

Devi andare, sennò succede un casino.

Piagnucolo:

- Però io sono il secondo assistente, non sono io a dover decidere certe

cose.

- Nun te preoccupa’. Vai, tieni buono il signor regista fino a che non parte,

poi ce la vediamo noi.

Page 25: Vita vissuta nel cinema italiano

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Decidiamo di parlarne davanti a un tagliere di formaggi, ci diamo

appuntamento all’Oasi della Birra. Io vorrei dire di no, la situazione è sempre

più pesante, e poi di stare sul set non ho proprio voglia. Troppo nervosismo,

troppi giochetti. Voglio evitare di essere invischiato in una di queste faccende di

intrighi e invidie, mai vorrei essere accusato di fare il doppio gioco, di rubare il

lavoro ad altri. Io voglio restare in ufficio, fumare tante sigarette, tornare a casa

alle otto e spalmarmi sul divano.

Dico tutto questo ad Alberto mentre beviamo una Baladin.

- Non mi va proprio di partire.

- Sta oggettivamente a te decidere. Però se decidi di non andare metti me e

la Cameretta in una posizione spiacevole.

- Ma che vuol dire? Io sono sono qui praticamente per caso! Se lo

chiedessero a te cosa diresti?

- E che c’entra? L’hanno chiesto a te!

- E se Aroña con te non vuole lavorare per niente? Per adesso possiamo

pure tamponare, ma dopo? Come si fa a finire un film in questo modo?

- Ma non scherzare! Oggettivamente quello che dici è una stronzata. Si

tratta soltanto di arrivare alla fine delle riprese, dopo saremo oggettivamente

soli e ce la vediamo noi.

- Ascolta: io non voglio partire. Se ho una scelta scelgo di non andare. Se

invece è un ordine, allora parto. Però solo se è un ordine che viene da te, devi

essere tu a chiedermelo.

- Parti. La riuscita del film è la cosa più importante. Oggettivamente la

Cameretta è in difficoltà, e dobbiamo aiutarla a uscirne. Chiaramente Aroña la

sta ricattando. Quello ce sta a prova’, sono tutte provocazioni, ma

oggettivamente non dobbiamo cedere. Tu vai lì, fai tutto quello che ti dice, non

parli mai, che tanto ti viene facile, e non fai casini. Poi, quando finiscono le

riprese, torni qua e cominciamo a giocare veramente.

Fa una pausa per bere un sorso di birra, poi, come se parlasse tra sé e sé:

Page 26: Vita vissuta nel cinema italiano

26

- Alla mia età! Alla mia età devo sentire queste storie incredibili.

Bisognerebbe annotarsele, queste cose, sai che bella sceneggiatura viene fuori!

Alt!

Però…

Niente male, come idea…. Decido che d’ora in poi terrò un diario accurato

di tutto ciò che capita, dialoghi, impressioni, voci di corridoio. Chissà che non

riesca a scriverci un racconto….

Parliamo fino a tardi. Quando l’Oasi della Birra chiude, continuiamo a casa

mia. Alla fine arriviamo a una proposta, una soluzione salomonica, o per meglio

dire paracula.

Il piano è questo: io parto, ma voglio che tutti, Meri e Aroña specialmente,

sappiano che sono e resto il secondo assistente al montaggio. Vale a dire che

sarò lì, sul set, per aiutare il regista a montare la propria versione del film.

Quotidianamente spedirò le sequenze montate a Roma, dove Alberto le

guarderà, farà la sua proposta, le sue osservazioni e me le rimanderà, e così via.

Faccio presente che non agirò in alcun modo se non in qualità di “tecnico Avid”:

schiaccerò i pulsanti sulla tastiera senza mai esprimere opinione, masticherò a

bocca chiusa e riderò alle battute stronze. Così il regista è contento, salviamo la

faccia e il film può andare avanti. La precisazione viene accettata, o meglio:

viene accettata da Meri.

- Mi raccomando: lo deve sapere pure Aroña.

- Nun te preoccupa’, ce penso io.

Organizziamo la mia partenza per il set, che nel frattempo si è spostato a

Pozzuoli.

Mi chiama Renato:

- Come famo coll’Avid?

- In che senso?

Page 27: Vita vissuta nel cinema italiano

27

- Eh, ner senso che nun posso paga’ ddu Avid ppe’ un film. Te devi porta’

quello che sta a Roma.

- Che? E Michela?

- E Michela deve anna’ a casa ppe’ ‘ste settimane, poi vedemo.

- Ma non scherzare! E chi acquisisce il materiale? Dove lavora Alberto?

- M’hanno detto che a Sant’Agata c’aveva er computer suo.

- E che c’entra? Erano due giorni, un’emergenza. Non si può mica fare

tutto un film così, col portatile. Ma poi no, Michela non può andare a casa.

- Vabbè, mo vedo che ffa’. Però pure tu me devi veni’ incontro.

- Io ti vengo incontro, ma una cosa così non si può fare.

Mi richiama il giorno dopo:

- C’ho ‘n’amico che me deve ‘n favore. Je devi scrive’ ‘e caratteristiche der

computer che te serve, lui te lo assembla come vuoi.

La cosa mi sembra sospetta, però non posso fare altrimenti. Vado sul sito

dell’Avid, copio i requisiti richiesti, ma aggiungo anche il modello di computer

consigliato. Li mando a questo amico. Non ricevo risposta.

Meri continua a telefonarmi nei giorni successivi, dicendo che “coll’Avid ce

semo, eh? T’o sta a ffa’ ‘st’amico mio, te ce sta a mette’ ‘e mejo cose”. Ma tutte le

volte tira fuori anche la questione Michela:

- Vabbè, mò ‘sto favore t’o faccio, Michela la tengo. Ma nun me fa’ penti’,

sto film ‘o dovemo fini’.

- Non è mica una favore che fai a me!

Intanto, però, della sua intenzione di licenziare o sospendere Michela non

ne parlerà mai né con l’interessata, né tanto meno con Alberto.

Io provo ad avvertirli, provo a spiegare che qualcosa non mi convince.

Michela si arrabbia, giustamente, mentre Alberto aspetta.

Page 28: Vita vissuta nel cinema italiano

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- Ci devono solo provare a mandarmi via, dice lei. - Non sai che casino gli

scateno addosso.

- Sono solo provocazioni, minimizza Alberto. - Oggettivamente non lo

possono fare, non possono mandare via nessuno. Meri il suo lavoro non lo sa

fare, non sa nemmeno che sta a ddi’.

Il giorno della partenza aspetto con Alberto e Michela in sala montaggio.

Federico, un ragazzo che lavora in produzione, mi deve portare l’Avid, io ho una

decina di minuti per provarlo, poi dobbiamo partire: l’ultimatum di Aroña è

scaduto, e non posso tardare, non devo mettere in difficoltà la Cameretta.

Insieme a Federico arriva una telefonata di Meri:

- L’Avid te l’ha assemblato ‘st’amico mio. T’ha messo er mejo, tutte le cose

più potenti che ha trovato.

Mentre apro gli scatoloni Federico mi dice:

- Ma chi è questo amico tuo che ti ha dato ‘sto computer? Non sai che ho

fatto per andarlo a prendere, ci siamo trovati in un posto loschissimo, gli ho

dovuto pure dare cento euro di tasca mia, se no il computer non me lo dava.

Mi blocco con un angolo di polistirolo in mano.

- Veramente io non lo conosco, è un amico di Meri.

- Lui mi ha detto che era amico tuo.

L’Avid, in verità, è un semplice computer su cui è stato installato un

software, diciamo, non proprio originale. Lo avvio, non parte. Un vento gelido

attraversa la stanza.

Alberto è in piedi, dietro di me:

- Riesci a risolvere?

- Non so, ci provo.

- Risolvi, ché hai poco tempo.

Page 29: Vita vissuta nel cinema italiano

29

Non sono un tecnico, ma provo. Guardo su internet, telefono a qualcuno,

consulto il manuale dell’Avid. Dopo qualche sigaretta giungo a una conclusione:

la scheda audio non va bene, non è supportata, quindi Avid non funziona.

Chiamo Meri.

- È strano, quello t’ha messo er mejo c’ha trovato.

- Lo so, ma è troppo potente, e non va bene. Ne ha messa una perfetta per

giocare, ma Avid richiede una cosa più specifica.

- Ma tu gliele avevi mandate le caratteristiche?

- Gli ho mandato un’email che ho spedito anche a te.

- Questo mò lo chiamo, m’ha fatto un casino, nun se po’ lavora’ così, però,

eh?

Gli spiego anche che manca il monitor esterno, di sicuro il regista non

vorrà guardare per tutto il tempo il solo schermo del computer.

- Ce n’è proprio bisogno, nun poi fa’ senza?

E riattacca.

Alberto inizia a impacchettare tutto, fa spazio negli scatoloni spostando il

polistirolo:

- Guarda, oggettivamente devi partire. Cerchiamo di non fare innervosire il

regista. Meri lo saprà bene cosa sta facendo. Tu vai, e risolvi il problema da lì.

Obbedisco. Saluto tutti, abbraccio Alberto promettendogli di chiamarlo

ogni giorno, bacio Michela, la quale mi consegna un piccolo portafortuna.

Sulla porta Alberto mi urla ancora:

- Ricordati di non fare incazzare il regista! Mi raccomando!

Salgo in macchina con Federico e partiamo.

Arriviamo a Pozzuoli in serata, nel bel mezzo di quel mese in cui non si

parlava d’altro che di emergenza rifiuti. Bisogna pur tenere occupata la mente

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30

degli italiani con un’emergenza.

L’albergo non è proprio a Pozzuoli, ma in una località poco distante, lungo

la statale. Davanti all’hotel c’è una stazione della Circumvesuviana, quindi il

mare. La stazione si vede, il mare no: la vista è preclusa da un enorme mucchio

di immondizia. Una cosa spaventosa, gigantesca. Sacchi neri, buste rosse,

scatoloni, ma soprattutto sacchetti bianchi con il nome del supermercato

d’origine. Qualcuno si è aperto o squarciato, versando il contenuto sugli strati

sottostanti come lava sulle rocce. Si intravedono lattine, tetrapack, bottiglie,

residui di cibo, pannolini. La montagna emana un terribile odore, ma ci si

abitua presto.

Eppure, a un certo punto della nostra permanenza, in albergo arriverà la

Cameretta, la quale protesterà per quell’oscenità. Uno dei portieri mi farà notare

la pagina di un quotidiano locale:

“LA CAMERETTA RISOVE IL PROBLEMA DEI RIFIUTI A POZZUOLI”

E infatti, il giorno dopo le proteste della famosa attrice, quella montagna di

immondizia sarà fatta sparire. Incredibile: finalmente dall’albergo si vede il

mare! Un panorama splendido, il golfo toglie il fiato ancor più della spazzatura.

Peccato, e questo il giornale non lo dice, che non appena la Cameretta tornerà a

Roma, quel cumulo di immondizia magicamente riapparirà, esattamente

dov’era e soprattutto com’era: la busta verde nella stessa posizione di prima, la

scatola di cartone proprio accanto al sacco nero, il torsolo di mela precisamente

sopra quel pannolino usato. Avrei voluto fare una foto, ma forse ci ha pensato

chi ha ricomposto il puzzle con così grande maestria.

L’albergo è molto carino, tutti sono estremamente gentili.

Meri mi accoglie sulla porta, mi accompagna personalmente nella mia

stanza, che più che una stanza è un piccolo appartamento: c’è un salotto, una

cucina, la camera da letto, due balconi, uno dei quali è abbastanza grande, il

giorno dopo lo arrederò con il tavolino da caffè che c’è in sala e con una comoda

sedia di vimini.

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- Questa era la mia stanza, ma l’ho lasciata a te, ce semo capiti?, mi dice

Meri. - L’ho fatto ppe’ fatte ‘stà comodo. ‘O vedi? Mo te faccio porta’ un tavolo

lungo, così ce metti er computer. Che ffamo cco’ ‘st’Avid?

- Eh, finché non trovo una scheda audio non posso farlo funzionare.

- Vabbè, mò chiamo quell’amico mio e t’a faccio manna’, che m’ha

combinato un casino, vatte a fida’.

Poi aggiunge, col tono di chi accetta di farti un favore, ma solo per stavolta,

poi te la devi cavare da solo:

- A Aroña lo dico io che stasera nun potete lavora’.

E sparisce.

Il balcone grande si affaccia sul cortile dell’albergo. Sotto di me vedo

l’ingresso della sala riunioni, ora adibita a ufficio produzione. Scendo per

salutare, manifestare la mia presenza. Chiedo di internet, che mi serve per

lavorare con Alberto: la potrò avere, ma solo lì, nell’ufficio. L’ansia mi assale se

guardo quella ventina di persone che si affannano sui portatili, la stampante ad

aghi che sputa fogli come fossero insulti, i telefoni che non smettono di

squillare.

In camera, più tardi, ricevo una telefonata da Aroña:

- Hola! Soy Alonzo. Sono contento che finalmente sei aquì! Ci vediamo

mañana, abbiamo mucho da far, e non vedo l’ora de iniciar!

Delicatamente metto giù la cornetta, e in punta di piedi vado a cercare un

ristorante.

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32

V

Il mio primo giorno a Pozzuoli è un giorno di vacanza: colazione al bar,

lettura dei quotidiani sul terrazzino, telefonate con Michela e Alberto, pranzo

nella trattoria accanto all’hotel. La sera, terminate le riprese, Aroña bussa alla

mia porta, accompagnato dal fido Miguel. Sembrano il gatto e la volpe. Ho

sistemato il computer su una lunga scrivania, Aroña lo osserva compiaciuto e mi

chiede subito di lavorare. Gli spiego che non possiamo, questioni tecniche, mi

tengo sul vago. Il regista si arrabbia, mi avverte:

- Non ti fare ingannare, yo sé que stanno cercando de risparmiar dinero,

ma lo fanno in un modo stupido. Yo non soy abituato a trabajar in esta manera.

Insisti con Meri perché te porti esta cosa, non appena possibile. Lo

necessitamos por completar esto trabajo insieme con le riprese, poi yo hay que

partir.

Federico viaggia tra Roma e Pozzuoli due volte alla settimana: porta

informazioni, buste paga, materiale vario. E gli hard-disk su cui Michela copia

di volta in volta il girato del film. Insieme a tutto questo, tra un paio di giorni

dovrebbe arrivare la mia scheda audio, la tanto attesa scheda audio, che il

misterioso amico di Meri ci fornirà. Non riesco a dare un volto a questo

enigmatico personaggio, ma lo immagino chiuso in uno stanzino seminterrato,

alla luce di una lampada da tavolo, circondato da pezzi di ricambio, fili elettrici,

circuiti stampati, ogni tanto si alza e va alla porta di metallo, ha sentito bussare,

apre lo spioncino e chiede la parola d’ordine.

La troupe alloggia in un hotel a qualche chilometro di distanza dal mio.

Con me, invece, c’è l’élite: il regista, Meri, la Cameretta, Miguel e signora,

qualche attore, tra cui Anne Espadrillas, che presto conoscerò. Chiedo perché io

mi trovi proprio qui, e non con gli altri esseri umani, come invece mi sarei

aspettato. Mi viene risposto che è una esplicita richiesta di Aroña: il regista

vuole avermi vicino per sfruttare tutto il tempo a nostra disposizione.

Page 33: Vita vissuta nel cinema italiano

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Finalmente Federico mi porta la scheda. Però, dopo un consulto telefonico

con Alberto, decido che non sarò io a montarla nel computer: probabilmente

sarei in grado di farlo, ma non è mia competenza e non voglio responsabilità: lo

so come vanno queste cose, fai una cazzata e ti viene rinfacciata fino alla morte.

Faccio chiamare due tecnici del luogo. Arrivano due ragazzetti con i capelli a

spazzola. Parlando continuamente al telefono, aprono il computer, trafficano,

richiudono, schiacciano dei tasti eseguendo arcane combinazioni, con la mano

mi fanno segno che è tutto a posto e mi salutano. Non ci siamo rivolti la parola.

Li fermo, chiedo loro di restare, voglio verificare che veramente funzioni tutto.

E infatti non è così.

Stavolta si tratta della scheda video. Stesso problema: l’amico ne ha

montata una molto potente, ma Avid funziona solo con pochissimi modelli, tutti

abbastanza costosi. Telefono a Meri, bisogna sbloccare questa ridicola

situazione. Se non avesse voluto fare le cose a modo suo, ora sarei già al lavoro.

Ma lui stavolta se la prende con me.

- Mò glielo dici tu ad Aroña.

- E io che c’entro?

- Nun te va bbene la scheda che c’è? Cazzi tua. Quello t’ha messo er mejo

c’ha trovato!

- Ho capito, ma non è colpa mia, Avid non parte.

- Vedi che Aroña mò s’incazza.

- E che ci posso fare?

- E che voi da me? So’ passati tre ggiorni, e ancora nun hai lavorato. Che

volemo fa’? ‘A voi risolve’ ‘sta situazzione, o no? Me stai a ffa’ spenne un sacco

de sordi.

Lo so che non avrei mai dovuto accettare di partire senza un computer

funzionante. Lo so che non avrei mai dovuto accettare di partire. Non è il mio

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film, non me ne frega niente che produzione e regia litighino. Però ormai sono

qui.

Michela mi dice di contattare l’assistenza dell’Avid, chiedere consiglio a

loro, ovviamente tenendomi sul vago per quanto riguarda la provenienza del

software. Lo faccio, e la diagnosi è proprio quella: la scheda video è

incompatibile. Il tecnico aggiunge:

- Te lo dico così, per dire, ma guarda che se l’Avid non è originale non c’è

verso di farlo funzionare bene. Lo so che non è il tuo caso, lo dico tanto per

fartelo sapere, caso mai un giorno ti trovassi a lavorare con un Avid pirata.

Richiamo i due ragazzetti di prima, chiedo se possono procurare questa

scheda. Sì, ma ci vuole qualche giorno, bisogna comunque farla arrivare da

Roma, in Campania di quel modello non se ne trovano. Non ho alternative, devo

affidarmi a loro, per forza. Stasera tenterò di spiegarlo ad Aroña.

Nel frattempo telefono ad Alberto per sfogarmi.

- Questo ha montato un computer con pezzi a caso, non è possibile. Ora

non so che fare. Cioè: non c’è niente da fare. Avevi ragione, Meri è uno che

risparmia sugli spiccioli, non si fa un film così.

- E mò che c’entra Meri?

- In che senso?

- Nel senso che mò la situazione è a tuo svantaggio, oggettivamente sei

nella merda.

- Ma…

- Ma che? Al regista non frega niente se il computer non funziona per colpa

di Meri, tua o della Cameretta. Quello cerca scuse per litigare, e oggettivamente

noi gliele stiamo fornendo.

- E che devo fare?

- Devi uscire da questa situazione, senza trascinare la Cameretta nella

merda.

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M’hai detto un prospero, come dice quel tale.

Quella sera vado a consolarmi davanti a un’insalata di polipo, nella solita

trattoria. Un solo tavolo libero. Quando mi siedo, guardo i miei vicini. Merda:

Anne Espadrillas e Lorenza, la sua dialogue coach! Faccio finta di niente, ma mi

biasimo per non aver indossato l’altra maglietta, quella blu, è un po’ più nuova,

chissà se mi sono fatto la doccia, ora non ricordo. Quando arriva Peppe, il

proprietario, decido di dovermi dare un tono: ordino due foglie di lattuga

scondite, mezzo bicchiere di vino e un’espressione pensierosa e artisticamente

sofferente.

La Moleskine! Ho bisogno di scrivere delle cose a matita sulla Moleskine!

Mi osservano. Parlottano. Io guardo in giro, mi fisso su un calendario del

Napoli, un quadro del golfo di Pozzuoli. Tò, c’è pure un elenco telefonico! Ma tu

guarda, alle volte!

Lorenza allunga il collo verso di me:

- Tu lavori al film, vero?

- Chi, io? Eh, sì. Eh, eh…

- Perché non ti siedi con noi?

Guardo Anne. Mi sorride, indica la sedia. Mi teletrasporto al loro tavolo.

Anne è ancora molto carina, davvero affascinante. Una ragazzina

nonostante abbia quasi cinquant’anni, e nonostante i due figli. Più che magra:

sottile, mangia solo mozzarella di bufala e pomodori. Io la guardo, e ripenso a

quel film, “Chiquita”, quello in cui lei interpretava la spietata killer ingaggiata

dal governo, quello grazie al quale si è sposata col regista, quel ciccione di Jean-

Luc Grasson, per finire poi a recitare in filmetti pseudo-erotici. Lui l’ha lasciata

per una fotomodella ancora più magra e giovane, e lei ora è sposata con un

musicista, uno che a capodanno fa i concerti alle Piramidi.

Sono bellissime le rughe attorno ai suoi occhi blu, il neo sullo zigomo

destro è ipnotico, la magrezza del suo viso è senza dubbio scheletrica. Ma

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36

quando ride guardandoti fisso negli occhi, quando cerca di fare conversazione in

italiano, e ti tempesta di domande incomprensibili, che però sembrano

questioni di importanza nazionale…

Tutte le sere lei e Lorenza vengono a magiare in questa trattoria. Peppe, un

simpatico signore napoletano di sessant’anni, si è affezionato ad Anne. Lei parla

solo francese e inglese, lui solo dialetto. Le prepara minuscole insalate di

pomodori (come vuole lei), freschissime mozzarelle di bufala. Ogni volta che lei

cerca di ordinare, lui la interrompe dicendo:

- No, Annare’, tu devi lasciare fare a me, non ti devi preoccupare di niente!

Guardo Anne, mi fingo brillante, cerco di fare battute, e ripenso a

“Chiquita”. Parliamo di me, di lei, di noi. A dire la verità non lo so se abbiamo

parlato, mi sembra di sì.

Mentre torniamo in albergo, Anne si allontana per telefonare, e Lorenza mi

dice:

- Ah, ah, abbiamo fatto colpo, eh?!

Balbetto, mi fingo indifferente.

- Ah, sì? Chi?

- Bene, allora ti tocca.

- Tocca che?

- Me la devo sorbire sempre io? Simpatica, è simpatica, per carità! Però è

proprio una diva. Nella troupe non la sopporta nessuno, e mi lasciano sempre

sola con lei. Ora, però, tu non scappi. Ora facciamo un po’ per uno, io e te.

Mi sfrego le mani.

Mi volto verso la macchina da presa e guardo in camera, alzando un

sopracciglio.

I giorni seguenti sono tutti molto tranquilli, prosegue la mia vacanza

pagata. Renato mi viene a trovare, mi chiede “come stamo coll’Avid?”. Aroña

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telefona tutte le sere, si arrabbia quando gli dico che ancora non possiamo

lavorare, ma sa che io non c’entro, dà la colpa alla produzione.

Leggo, scrivo, tengo un diario di questa storia. Nutro mente ma soprattutto

pancia: ho scoperto un ristorante sul lago d’Averno, a qualche minuto a piedi

dall’albergo. Qualche volta vado a mangiare lì. Fanno un’ottima frittura di

pesce, e come contorno servono la parmigiana di melanzane. Vista sul lago,

mangio, bevo vino bianco e leggo.

Un giorno entro in ufficio all’ora di pranzo, propongo a tutti

quest’alternativa a Peppe. Non mi accorgo che c’è Renato:

- Dove voi anna’ tu? Ma quale ristorante, tu devi lavora’, tu devi salva’ ‘sto

film. Mò questo se sceglie pure er ristorante!

- Ti ricordo che l’Avid non funziona, per via dell’amico tuo.

- E mò che vorresti di’?

- Se mi cercano, sono al lago.

Quel giorno mangio spaghetti “a vongole”, fritto misto e parmigiana. Bevo

pure un litro di bianco, e al pomeriggio mi stendo sul divano, stacco i telefoni e

digerisco guardando un film.

Il venerdì arriva la scheda video, i due tecnici la montano e proviamo ad

avviare Avid. Funziona! Incredibile! Chiamo subito Renato.

- Aho, mò finarmente te poi mette’ a lavora’. Me raccomanno, nun

capitasse più gnente a ‘sto computer.

La sera si presenta Aroña accompagnato dal fido Miguel. Mi chiede di

vedere qualche ciak, per iniziare a scegliere insieme i migliori. Quando faccio

partire il filmato, si guarda attorno alla ricerca del monitor secondario. Gli

spiego che avevamo pensato di farne a meno, così da poter spostare il computer

più facilmente, ma se vuole….

- Chi ha pensato, tu o Renato Meri?

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- Ecco, veramente….

- Devi essere mas furbo: questi aquì cercano de risparmiar in modo

stupido. Allora, se te sierve una cossa, preguntala a mi, e yo faccio pesar su de

loro il mi ruolo de director. Perché recuerda: la palabra mas cerca de director es

dictator. Yo voglio il monitor, e domani lo fai comperar.

Continuiamo a guardare i ciak. Mentre li passiamo in rassegna, Aroña li

commenta con Miguel, fischiettando dei motivetti per ispirare il compositore. Si

complimenta, il regista, per certi movimenti, certi gesti degli attori, si lamenta

di alcune attrici. Ad un certo punto mi chiede di fermare, si volta verso di me e

dice:

- Visto che da mañana monteremo insieme, è giusto che tu sappia las

reglas del montaje che yo voglio.

Mi ripete le regole che aveva già detto ad Alberto a Sant’Agata, ma ne

aggiunge un’altra:

- La mas importante: ninguno, proprio ninguno, hay da veder quello che

montiamo, né la Cameretta, né Meri, solo yo y Miguel. Si te preguntano de veder

qualcosa, inventati una escusa e non fargli veder nada. Ci sono domande?

- Nossignore.

- Muy bien. E recuerda: la palabra mas cerca de director es dictator.

Il mattino seguente vado a cercare questo televisore. Meri mi consegna

centocinquanta euro, in contanti.

- Comprane uno piatto, de quelli bboni, grandi, che nun te vojo senti’ ppiù.

Compralo bbono, ché poi so’o tenemo.

Un ragazzo della troupe mi accompagna in un piccolo centro commerciale

della zona. Mi guardo attorno, televisori LCD a quella cifra non ce n’è. E

nemmeno a tubo catodico, a dire la verità.

- Ma non ci sono altri negozi, qui?

Page 39: Vita vissuta nel cinema italiano

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- No, bisogna andare fino a Napoli.

Chiamo Renato.

- Renato?

- Chi lo vuole sapere?

- Con quella cifra non c’è niente, nemmeno a tubo catodico. Ce n’è solo

uno, ma mi sembra una baracca.

- De che marca?

- Aspetta… E-x-p-o-r-t. Export? Non l’ho mai sentita.

- Compralo. E porta er resto!

Lo compro. Si presenta veramente male. Mentre esco dal negozio con lo

scatolone in braccio, mi sembra di sentire la voce del commesso:

- Guagliò! Avimm’ vendut’ ‘o Ecspòrt! Si ‘llè accattat’ chill’uommine llà!

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VI

Faccio la conoscenza della Cameretta una sera, uscendo per andare da

Peppe.

È nella hall, sta sfogliando una rivista di gossip, incastrata tra le pieghe di

una poltrona rossa. Quando le passo accanto, lei alza lo sguardo. La copertina

della rivista ospita le foto esclusive del bikini giallo di una prorompente

soubrette. Non ci siamo mai incontrati prima, la Cameretta ed io. Le abbozzo un

sorriso e un timido saluto con la mano. Non dà segni di avermi notato. Passo

oltre.

Con la coda dell’occhio, però, noto che richiude la rivista, si alza e mi

segue. Rallento. Si ferma al bancone della reception, io mi fermo sulla soglia,

accendo una sigaretta e fingo indifferenza. Mi guarda. Faccio un passo verso di

lei, forse è il caso che mi presenti. Ma lei fa un passo indietro. Ci guardiamo.

Faccio un passo indietro, verso la strada, lei fa un passo avanti. Ci guardiamo. È

una situazione imbarazzante. Provo a rompere il ghiaccio:

- Ciao, io sarei l’assistente al montaggio.

- Lo so chi sei, cioè Alberto mi ha parlato di te.

È altissima. Indossa un abito molto stretto in vita, talmente stretto che mi

manca il fiato solo a guardarla. Però noto che mette in risalto le sue famose doti.

Ha una voce acuta e nasale, un accento imbastardito dagli anni passati

all’estero: inflessioni meridionali ormai mescolate a vaghi echi di pronuncia

inglese e romanesca. Usa solo vocali aperte, le pronuncia spalancando

completamente la sua grande bocca.

- Come procede il lavoro?

- Bene, bene, dico.

- Riesci a montare?

- Direi di sì, ma, sai, io sono l’assistente.

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- Cioè, lo so. Però Alberto si fida di te, e allora cioè mi fido anch’io.

È strana: sta lì, le braccia incrociate, ha lunghissime mani, mentre parla

alza e abbassa gli indici. Però si guarda continuamente attorno, come se

aspettasse qualcuno, o come se avesse paura di qualcosa. Se mi avvicino, lei si

allontana, e viceversa.

- Va tutto bene?

- Non posso farmi vedere che parlo con te, sussurra.

- Da chi?

- Da Aroña. È maligno. Mi odia, e se ci vede assieme, cioè pensa che te sei

dalla mia parte.

Non so che dire.

- Si sta comportando bene con te, cioè, o è cattivo anche con te?

- Mah, veramente…

- Mi raccomando, non farlo arrabbiare, non sai di cosa è capace. Cioè a me

mi ha mandato all’ospedale.

- Sì, lo so. E adesso come stai?

- Ora sto bene, ma stavo lì lì. È maligno, cioè, e odia le donne. L’hai notato

che odia le donne?

- Mah, non è che ne abbiamo parlato…

- Sì, odia le donne, è un maschilista. Me l’ha detto pure sua figlia, che l’ha

fatta piangere.

Pausa.

- Come viene il film, viene figo?

- Mah, sì.

- E quella scena che io piango come viene? A forza ha voluto metterci il

vento… Di regia non ci capisce niente. Dimmi tu, come fai a mettere il vento a

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un attore che piange?

È una domanda retorica, non rispondo.

- …

No, è una domanda vera. E che rispondo?

- Eh, già.

- Vedi?! Non puoi. Monta la prima di quelle, quella senza vento. Quale hai

montato?

Giuro: non ho la più pallida idea di cosa stia dicendo.

- La prima, ho montato la prima, quella senza vento.

- Bravo. Lo vedi che Alberto ha ragione che mi fido di te? Ora vai, cioè, che

se Aroña scende e ci vede ti manda via che pensa che sei dalla mia parte. Però a

Palermo ci vediamo e parliamo con calma.

Mi sfiora il gomito con le sue lunghe dita. Si volta, torna alla sua rivista.

Io resto sulla porta ancora un po’, finisco di fumare. E penso: che strano

incontro. Non me l’aspettavo così, lei. Credevo fosse molto più sicura di se,

invece mi sembra una ragazzina. Mi sento a casa, come se fossi con una mia

sorella maggiore.

Il televisore Export fa davvero schifo. I colori variano, a seconda del tempo

atmosferico, dall’acceso-tipo-cartone-animato al bianco e nero, ma a fasi

alterne, così che a volte ho il cielo blu e il prato grigio, a volte il cielo grigio e il

prato verde. A volte viola, perché compaiono casualmente e a macchia di

leopardo certi curiosi aloni violacei, a rendere più creativa l’immagine.

Aroña commenterà dicendo solo:

- Cuesto es el mas strano televisor que yo ho visto en toda la my vida!

Dal canto suo, l’Avid non sta benissimo. Ho notato che ogni quattro minuti

di riproduzione di un qualunque filmato, quattro minuti cronometrati, si blocca,

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si pianta, non si può fare più niente, se non staccare la spina e riavviare tutto. Il

problema è che quattro minuti sono troppo pochi perché la cosa possa passare

inosservata.

Subito sottopongo la questione a Meri:

- Er regista porta rogna. L’artro giorno, come è entrato in ufficio,

all’assistente suo je s’è bloccato er computer, l’ha dovuto porta’ a ripara’.

Ripete l’ultimo concetto poggiando la mano, di taglio, accanto alla bocca.

- L’ha portato a ripara’! È lui che porta rogna. Ahò, avete sentito? Porta

rogna, ha fatto blocca’ pure l’Avid!

- E che faccio?

- E che ne so? Monta cco’ ‘e mani su li cojioni. Contro ‘a rogna nun c’è sta

gnente da fa’.

Dopo altre mille telefonate decido di arrangiarmi. Escogito un sistema:

metto il mio telefono proprio davanti alla tastiera, il cronometro bene in vista.

Ogni tre minuti e mezzo invento una scusa per premere “pausa”: una domanda

al regista, un’osservazione a Miguel, una cosa che ora non mi ricordo ma volevo

proprio dirla vabbè mi verrà in mente scusate riprendiamo, oh cazzo non l’ho

fatto apposta a premere pausa mi è partita la mano. E così via, per tutto il mese,

e stavolta nessuno si accorge di niente.

Con Aroña, nonostante l’Avid ora dia qualche segno di vita, in verità lavoro

una volta sola, una sola volta in due settimane. Una media un po’ bassa, me ne

rendo conto. Arriva col fido Miguel, si siede accanto a me, il musicista sul

divano, e montiamo una sequenza, quella dell’arrivo alla villa. Monto seguendo

alla lettera le sue regole. Il risultato è orrendo, si tratta di mettere insieme pezzi

di inquadrature senza guardare né riflettere, però Aroña è contentissimo, dalla

gioia fischietta motivetti della rivoluzione messicana, ride soddisfatto, sembra

un bambino. Ad un certo punto, mentre sto rivedendo un dialogo, Miguel mi

chiama e mi domanda, in inglese:

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- Come ti senti, ora che hai preso il posto del tuo maestro? Ti senti in colpa

o sei contento?

Mi paralizzo. Non mi aspettavo tanta franchezza.

- Veramente io sono sempre l’assistente, il montatore resta Alberto.

Ormai però temo che questa storia non regga più.

- Seguro, ma lui no està faciendo nada, dice Aroña.

E riprendiamo a lavorare, come se niente fosse. Riprendiamo, ma io ho un

peso sullo stomaco.

Poco prima di lasciarmi, Aroña allunga un braccio verso di me, io mi

fermo, le mani sulla tastiera, volto piano piano la testa. Ha un’espressione seria,

la mano sospesa, sembra un prestigiatore nel momento di far sparire qualcuno.

- Escucha me, mi dice. Ancora non ne ho ablato con Meri, pèro aquì es

muy difficil de trabajar. Como vedi, no abbiamo montato nada, fino a ora. Tu

tieni un passaporte?

- Sì, ma non qui, a casa. A che mi serve?

- Te sierve porque yo quiero preguntar a Meri se possiamo continuar el

montaje en Sud America, dove yo vivo. E yo quiero que tu vieni conmigo.

Sbaglio, o c’è un’eco? Yo quiero que tu vieni conmigoooo… Yo quiero que

tu vieni conmigoooo… Yo quiero que tu vieni conmigoooo…

- No te preocupes, yo pienso a todo: a la casa, al viaggio, a todo. Piensace,

entonces ne parliamo.

- Mah… ecco… io, veramente… forse dovrei riflettere… dovrei… parlarne…

con…

- Tu piensace, ma non mucho tiempo, que il tiempo està finendo, aquì. Yo

ne ablo con Meri, e voy a veder se è possibile, poi decidemos.

Se ne vanno, io resto seduto ancora un po’, temo non mi reggano le gambe.

Page 45: Vita vissuta nel cinema italiano

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Decido di aspettare, di non fare niente per il momento. Come dice Alberto

“il signor regista ce sta a prova’”, le sue sono provocazioni. Quindi è inutile

scatenare allarmismi.

Il mattino dopo incontro Meri a colazione. Gli passo accanto, il caffè in

mano, e lui, chino su un cornetto, la bocca piena e il muso sporco di zucchero a

velo, indica la sedia accanto alla sua, accompagnando il gesto della mano con un

mugugno.

- Allora, è pronto, ‘sto passaporto?

- Pure tu ti ci metti? Che sono ‘ste storie?

- Storie? Quello te vo porta’ cco lui.

- E dài, non scherziamo.

- A coso, parlamese chiaro: quello l’ha capito che ‘sto film qua nun ‘o finite.

Quant’avete lavorato? Du’ giorni?

- Due ore.

- Appunto. Mò te vo porta’ ar paese suo. E tu ce devi anna’. Poche storie.

- Ascolta, telefona ad Alberto, parlane con lui. È lui il mio capo reparto, se

decide, io vado.

- Ah, sì? Tu intanto fatte er passaporto. Quanto ce metti?

- Mah, non so, ci vorranno tre, quattro settimane, devo andare in questura,

è un po’ lunga.

- Lunga? Ahò, vedi che mò se po ffa’ alla Posta! Mò vai alla Posta qua, e fai

domanda. E si ce mettono più de tre ggiorni, m’o dichi, ché c’ho ‘n’amico che sta

alla questura, che te da ‘na mano.

- Guarda, dovrei prendere dei documenti, delle cose, adesso non si può

fare.

- Dei documenti? E che cazzo devi prenne’, ‘a fedina penale? Sbrighete, va!

È il caso di chiamare Alberto.

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- Qua è venuta fuori questa cosa… che praticamente… Aroña vorrebbe…

cioè, no?, lui ha chiesto… cioè Meri… insomma…

- Embè?

- Come “embè”? Alberto, questi mi vogliono mandare in Sud America.

- Si sa già quando vuole partire, il signor regista?

- Subito dopo le riprese.

- Quindi non si ferma a Roma a guardare il materiale con me?

- Alberto, non hai capito: Aroña vuole montare con me in Sud America!

- Ma figurati! Figurati se fa finire il film a te! Sono provocazioni, quello ce

sta a prova’.

- Alberto, mi ha detto di farmi il passaporto, pure Meri me l’ha detto.

- Stiamo a scherza’? Oggettivamente sono provocazioni. Mò il signor

regista pensa di far montare un film al secondo assistente!

- Anche il fatto di venire qui sul set, era una provocazione. E intanto….

- E intanto che? Nessuna produzione può oggettivamente permettere una

cosa del genere. Vediamo che dice Meri.

- E io?

- E tu aspetti, fai finta di niente. Oggettivamente, la cosa assurda è che il

signor regista pensa di partire senza aver scelto il materiale con me. A me una

cosa così non m’è mai capitata!

Aroña non si presenta più al montaggio. Mi telefona qualche volta, la sera,

per sapere se sto lavorando.

Un venerdì pomeriggio bussano alla porta, vado ad aprire. Trovo una

signora con una massa vaporosa di capelli rossi, tutta forme, fasciata da un abito

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leopardato, seguita da due bambini e uno che, suppongo, sia il marito: pelato,

magro magro, con una grande valigia in mano, un abito beige di un paio di

taglie troppo grande. Dietro il gruppo c’è Aroña, che mi urla:

- Fai veder a questi miei amigos aquì un pochito del film, por favor!

Faccio entrare la famiglia di turisti e allegramente guardiamo alcuni ciak a

caso, mentre i bambini si rincorrono per il salotto. Quando finiamo mi

ringraziano e vanno via. Non ho mai capito chi fossero, quelli.

Tutte le sere incontro Anne e Lorenza da Peppe. Mangiamo, parliamo,

scherziamo. Spesso con noi ci sono altri ragazzi della troupe, soprattutto del

reparto produzione. Anne mi chiede notizie del film, ma precisa sempre che sa

di non avere il permesso di vedere niente. Oso dirle che sarei disposto a

trasgredire gli ordini, ma lei crede che stia scherzando, e ride. Anne mi chiede

più volte di rivederci, quando saremo a Palermo, nostra prossima tappa. Non

sappiamo come sarà la situazione lì, dove alloggeremo, quanto tempo avremo a

disposizione, chi ci sarà. Sull’orlo di uno svenimento, le prometto che sarà così,

che ci rivredremo.

La troupe parte di sabato. In albergo restiamo solo Aroña e io, partiremo

insieme il giorno dopo: un piccolo scherzetto di Meri, che soddisfatto mi

confessa:

- Ahò, dovete parla’ der film, der viaggio, c’avete ‘n sacco de cose da divve.

Così ‘o potete fa’. Nun te piace?

Sabato il cielo è grigio, minaccia pioggia. Mi hanno già portato via il

computer. Ho anche spedito la valigia e il mio portatile, con me ho tenuto solo

un libro. Passeggio per Pozzuoli senza una vera e propria meta, non ho voglia di

leggere, né di mangiare.

Però a un certo punto mi ritrovo, non so come, seduto a un tavolo della

trattoria di Peppe, a ingolfarmi di alici fritte. Dalla vetrina vedo l’ingresso

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dell’hotel. Arriva un taxi, dall’albergo escono Lorenza e Anne. Si fermano un

istante a parlare con l’autista, poi Anne, come se avesse dimenticato qualcosa,

consegna la sua borsa a Lorenza, e corre via. Viene verso il ristorante. Entra

come una furia, spalancando la porta con tanta forza da far cadere il quadretto

con gli orari di apertura. Il rumore fa voltare tutti, anche Peppe, che in quel

momento stava prendendo alcune ordinazioni. Lei gli va incontro, lo abbraccia,

gli dice “K-razie!” e va via. La guardo salire in taxi e partire. Mi volto: Peppe è

ancora fermo nella stessa posizione, immobile. Poco a poco ricomincia a

sbattere le palpebre.

Il giorno dopo, domenica, l’autista di Aroña ci accompagna all’aeroporto. È

quello che alla villa parlava delle zinne delle attrici. Per tutto il tragitto guarda il

mio telefono e dice:

- Ecco ‘ndo cazzo l’avevo messo, ce l’avevi tu!

- Ma cosa?

- Er telefono mio!

- Veramente è il mio.

- Ah, è uguale al mio.

E dopo un po’ ricomincia.

Prendiamo lo stesso volo, ma per fortuna Aroña e io non siamo seduti

accanto. Quando atterriamo a Palermo troviamo ad attenderci due automobili:

una per me, una per lui. Siamo diretti allo stesso hotel. Lui arriverà un’ora e

mezzo dopo di me: il suo autista ha imboccato l’autostrada nel senso sbagliato.

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VII

Ora siamo a Palermo, non vedevo l’ora di arrivarci, una delle città che amo

di più. Già sull’aereo sogno i pezzi di rosticceria, le colazioni con le iris, la pasta

con le sarde. Ho intenzione di non rinunciare a niente: mi aspettano due

settimane di intensa attività enogastronomica. Farò gli straordinari, se

necessario.

Il nostro hotel è uno storico palazzo del centro, un palazzo appartenuto a

una nobile famiglia inglese. È un hotel extra lusso, molto famoso perché fino a

non molti anni fa, ogni qual volta si dovevano prendere importanti decisioni

riguardo all’assetto democratico del Paese, qui si riuniva la commissione di Cosa

Nostra. Albergo molto frequentato da politici (collusi e apparentemente no) e

celebrità in visita. Gli stucchi, le colonne, i marmi mi nauseano, non sopporto

questo tipo di hotel, dove i receptionist ti (o mi) fanno sentire come se fossi lì a

chiedere un prestito. Stanza di lusso, luci soffuse, internet a pagamento,

indecente colazione servita nella “elegante Sala degli specchi”.

Quando entro noto una lunga fila di persone davanti al bancone della

Concierge (qui, oltre alla reception c’è la concierge). Mi avvicino, li riconosco

tutti: sono membri della troupe, ci sono autisti, macchinisti, elettricisti. Uno alla

volta si rivolgono al portiere che ascolta le loro lamentele sfoggiando una truce

espressione di antipatia:

- Ma che stanza m’avete dato, è troppo vecchia!

- Ahò, è umida la mia stanza!

- Ne vojo n’antra, nun c’ha l’idromassaggio!

- È piccola!

- È grande!

- S’affaccia sulla strada!

- S’affaccia sul cortile, mortacci vostri!

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La cosa va avanti per un bel po’. Tutti riescono a cambiare camera. Mentre

osservo la scena, mi avvicino al fonico del film, Umberto, che mi sussurra:

- Vorrei sape’ ‘ndo cazzo vivono questi, che ‘st’hotel nu’ je sta bbene!

Incontro Alain, un mio vecchio amico, un ragazzo francese che come me ha

la passione per il cibo. Anche lui lavora a questo film, non lo sapevo, lo scopro

solo adesso. Come me, Alain ha una missione: mangiare il più possibile. Insieme

scopriamo “da Maria”, alla Vucciria: un garage arredato con un piano cottura,

una griglia e alcuni tavolini. Molto frequentata dalla gente che lavora al

mercato. Ogni giorno veniamo a pranzo qui, antipasti, scegliamo il pesce che

Maria frigge o arrostisce sul momento, vino bianco, poi mangiamo un cannolo

in piazza Marina. Porto Alain all’Antica Focacceria: voglio fargli assaggiare il

pani ca’ meuza, ma non gli piace, me ne accorgo, lui però è troppo educato per

ammetterlo, non lo finisce e lo nasconde nel tovagliolo. Un giorno procuro una

cassata da mezzo chilo, telefono ad Alain correndo per strada:

- Alain! Tra dieci minuti al bar dell’hotel, presto!

- Ma scertò, arivo siubitò.

Il cameriere del bar ci guarda e ride, mentre ci tuffiamo sul dolce come se

non mangiassimo da giorni. Non gliene offriamo nemmeno un cucchiaino.

Alain è proprio il “bravo ragazzo”: è gentile, educatissimo, premuroso. E,

soprattutto, vede solo il lato buono delle cose. Tutto è bello, tutto è buffo. Io

sono esattamente l’opposto, e mi diverte questa nostra lontananza. Certo,

alcune volte il suo atteggiamento sembra proprio una deformazione. Un giorno,

per esempio, passeggiamo per Ballarò. Ci passa accanto un motorino su cui

viaggiano due ragazzini, uno ci urla:

- Arrusi!

E Alain:

- Sciaooo! Buffò, no? Sci ha dettò “Sciao, bellì!”

Non dico nulla, non voglio rompere l’incanto.

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Fatti pochi metri, quello stesso giorno, finiamo in una piazza non molto

grande, gli edifici distrutti, senza infissi, i muri scrostati pieni di scritte contro la

polizia. La piazza è deserta, è quasi ora di pranzo, saranno tutti a tavola o a fare

le ultime compere al mercato. Ballarò è un labirinto e noi ci siamo persi, ma non

ci preoccupiamo, prima o poi sbucheremo da qualche parte.

Una macchina frena davanti a noi, bloccandoci il passaggio. Dentro, una

ragazza: si sporge dal finestrino e ci chiede:

- Sapete dov’è la biblioteca?

- No, le rispondo, non siamo di qui.

- Sì, si vede che non siete di qui.

- In che senso?

Il rintocco di una campana.

L’aria immobile.

L’auto riparte.

Alla sinistra del mio campo visivo colgo un movimento, mi volto. Quattro,

cinque ragazzini, avranno al massimo quindici anni, vengono verso di noi.

Ridono. Uno di loro estrae una pistola dalla giacca.

Afferro il polso di Alain, lo trascino via.

Di corsa.

Da lontano mi arrivano risate, uno grida:

- Ah ah ah! Si scantaru!

Corriamo come pazzi, svoltiamo angoli, entriamo dentro vicoli sempre più

stretti. Non so dove stiamo andando, spero di non peggiorare la situazione. Non

mi chiedo se la pistola fosse finta o no: corro. Giro a destra, a sinistra, nella

mano ho sempre il polso di Alain. Davanti a me vedo dei colori, accelero. Il

mercato! Ci fermiamo al centro della strada, tra le bancarelle, la gente ci urta

passando con le buste della spesa. Tiro il fiato.

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- Cos’hai vistò di così büffò da correrè?

Ogni sera Alain e io tentiamo di andare a cena da soli, ma ogni volta

veniamo fermati dalla Cameretta, che ci intercetta nella hall dell’albergo.

- Venite con noi?

- Veramente volevamo andare….

- Venite con noi, cioè così riusciamo a parlare senza che Aroña ci vede.

Guardo Alain, lui fa spallucce.

- Io comincio ad andare, voi venite tra poco, che se esce Aroña cioè non ci

vede insieme. Fatevi spiegare la strada dal portiere.

- Va bene.

- Poi un giorno ti porto a fare un giro, cioè così parliamo.

Con lei c’è sempre Enzo, il suo segretario/bodyguard. Sorride in

continuazione, ha una fastidiosa erre moscia, le narici talmente grandi che mi

viene voglia di metterci un dito per sentire quanto sono profonde. Enzo ha un

cellulare grosso come quello di Meri, è sempre chino sulla tastiera, non ho mai

capito se scriva centinaia di sms, o se come me sia dipendente da qualche

giochino.

Andiamo a cena in ristoranti con i piatti quadrati, nei quali vengono serviti

cibi in crosta di questo con restrizioni di quello su un letto di quest’altro. Alain e

io siamo gli unici a bere.

La prima sera il menu mi terrorizza. Ordino linguine al nero di seppia,

Alain fa lo stesso. La cosa suscita un dibattito a tavola.

- Ma come fate? Io proprio non lo sopporto, il nero di seppia!

- Cos’hai ordinato, tu?

- Cruditè de mer su letto di roquette con mousse alla restrizione di porto.

- Anche a me proprio non piace, il nero di seppia, una volta l’ho preso, la

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pasta era scotta.

- E tu che hai chiesto?

- Quiche di mais con gelée di pesce azzurro del mar baltico.

Quando ci portano il cibo, Alain e io ci fiondiamo sui piatti. Mi sento

osservato, mi fermo, due linguine mi penzolano dalle labbra. Mi guardo attorno.

- Come sono, buoni?

- Però, non sembrano male.

- Anche la cottura sembra giusta, così a vedere.

Io parlo poco, ascolto i pettegolezzi su quell’attore, sul marito di

quell’attrice.

- Ah, Castelnuovo e la sua compagna sono due persone eccezionali, una

mia amica manda i figli nella stessa scuola dove li mandano loro, e mi dice

sempre che sono due persone eccezionali, disponibili, piene di iniziativa.

Osservo con ammirazione la Cameretta che per antipasto ordina pane e

olio, mentre Anne mangia grissini e burro.

Una sera, finalmente, riesco a divincolarmi, individuo Anne e le propongo

la famosa cena che ci eravamo promessi a Pozzuoli. A Palermo la situazione è

molto diversa, c’è più attività mondana, non riusciamo a evadere da certi

meccanismi. Anne accetta, arruoliamo anche Lorenza e Alain e ci facciamo

consigliare un ristorante con piatti rotondi e cucina casereccia.

Lorenza è terrorizzata, durante il tragitto mi si avvicina e mi sussurra:

- Sei sicuro? Tu l’hai vista mangiare solo a Pozzuoli, non sai di cosa è

capace!

- Che sarà mai!, minimizzo.

Che sarà mai!

Quando le portano la caprese, Anne la fa immediatamente riportare in

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cucina perché la mozzarella non è di bufala. Ne portano un’altra, Anne chiama il

cameriere e la restituisce perché è condita, mentre lei la voleva senza niente.

Gliene portano una terza, lei ne mangia metà, i pomodori non sono buoni.

Ordina grissini e burro come antipasto, non hanno i grissini, le portano crackers

salati in superficie, non vanno bene, si fa portare del pane, ma è solo col sesamo.

Allora al posto del pane chiede del riso bianco, glielo portano condito con olio.

Lo rimanda in cucina e chiede degli spaghetti senza niente, ripeto: niente, ha

capito, stavolta: niente! Il cameriere esasperato porta gli spaghetti, scotti e

scolati malissimo: nuotano nell’acqua di cottura. Sospettiamo ci abbiano

sputato dentro, consigliamo ad Anne di lasciar perdere.

Quando usciamo dal locale Lorenza mi prende per un braccio:

- Te l’avevo detto: è terribile o no?

- …

- Ehi, mi ascolti?

- …

- Oh, mi senti? Ehilà?

- …

- Ah, ma allora è una cosa seria, tu sei proprio partito!

La sala montaggio è in una stanzetta al piano terra, accanto alla reception.

Devo dividerla con il reparto di fotografia, che qui ha sistemato l’immenso

monitor del Maestro Stocasto. È chiusa a chiave, la chiave è in mia custodia, ma

questo a Stocasto non piace. Un paio di volte prova a portarmela via, anche con

l’inganno. Una mattina, per esempio, mi incontra nella hall, e mi chiede di poter

entrare nella stanza per vedere alcuni ciak con il suo reparto. Gli consegno la

chiave, dopo mezz’ora torno per vedere se hanno finito, ma la stanza è chiusa e

le luci spente. Cerco qualcuno cui domandare cosa sia successo, un assistente di

fotografia mi dice:

- No, oggi non abbiamo in programma di vedere giornalieri.

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- E le chiavi quindi chi le ha?

- Penso il Maestro.

Vado alla ricerca del Maestro, lo trovo al bar dell’hotel, seduto sotto il suo

Stetson.

- Mi scusi, mi servirebbero le chiavi.

- Le chiavi di cosa, scusi?

- Le chiavi della sala montaggio.

- Io ho solo le chiavi della sala di fotografia.

- È lo stesso, quella là.

- E a cosa le servono le chiavi?

- Mah, veramente io dovrei lavorarci, là dentro.

- Quella stanza è riservata al reparto fotografia, ci serve per vedere i

giornalieri.

- Quella stanza non è riservata al reparto fotografia, c’è anche il mio

computer, io devo montare con Aroña, le chiavi servono a me.

- Le chiavi servono a noi, dobbiamo avere la possibilità di guardare i

giornalieri, senza chiedere il permesso a nessuno.

- Le chiavi le tengo io, voi state tutto il giorno sul set, quando vi serve la

stanza basta che bussiate, mi trovate lì.

- Io devo poter accedere a quella stanza ogni volta che ne ho bisogno.

Gioco l’asso:

- Vado a parlarne al regista?

Mi consegna le chiavi.

Passano alcuni giorni, e noto un cambiamento. Improvviso, come se

durante la notte fosse successo qualcosa.

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Una mattina scendo a fare colazione nella “elegante Sala degli Specchi”.

C’è Renato Meri, beve un caffè fissando il vuoto. Gli passo accanto, alza lo

sguardo:

- Ahò, anvedi chi c’è: Hudsucker Proxi! Bbongiorno, Hudsucker Proxi!

- Che?

- Hudsucker Proxi.

- E che è?

- Nun l’hai visto, er film de li fratelli Cohen? Quello de quer tipo che fa er

fattorino e poi diventa presidente? Tu sei proprio come lui. Sei partito da fa’

l’assistente, e mò sta tutto in mano tua. Ma com’hai fatto? Eh, ma tu sei furbo,

zitto zitto, nun parli mai. Mò te prendi pure er posto der regista. Ma il mio no: il

mio nun to ‘o lasso.

È una specie di segnale. Da questo momento, cambia tutto. Tutti iniziano a

salutarmi, mi chiedono giudizi, opinioni. Il responsabile di post-produzione mi

ferma per prendere accordi sui tempi di lavorazione, attori domandano il mio

parere sulle loro performances. Alle istituzioni vengo presentato come “il

montatore”.

La mia presenza sul set è, apparentemente, molto gradita. Mi trattano con

tutti gli onori. Persino il Maestro Stocasto inizia a guardarmi con occhi diversi.

Sembra mi corteggino, non si capisce bene per cosa, ma un vago sospetto ce

l’ho.

Aroña non vuole nessuno accanto a sé, quando si gira. Però, se arrivo io, si

fa largo tra le comparse, mi prende per mano, mi fa accomodare su una sedia

alle sue spalle, mi dà le sue cuffie perché possa sentire meglio le battute degli

attori. E mi chiede cosa penso del ciak che sta girando.

A volte la Cameretta mi chiama in disparte, mi porta in un luogo appartato

del set, e mi sussurra:

- Cioè, ma questo ciak in sceneggiatura non era diverso?

- Mah, non saprei proprio.

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- Nella sceneggiatura non era così, cioè. Digli al regista di cambiarlo. Vai tu

che a te ti ascolta.

Io vado da Aroña e gli sottopongo la questione:

- Tu hai razon, ma cuesto es un cambiamento que yo ho piensato. Ora

vedemos si se pò rifar.

Oppure è lui a chiedermi:

- Ho deciso de metter el actor lì invece que là. Pienses que possiamo

montar? Resta aquì, que ora giriamo un ciak muy bonito!

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VIII

Intermezzo - Il set

A Palermo arrivano gli stagisti, una ventina di ragazzi mandati dalla Sicilia

Film Commission. Viene deciso che sarà la Cameretta ad accoglierli, con un

discorso di benvenuto e di incoraggiamento. Luogo deputato alla cerimonia: la

sala montaggio.

Quando entro li trovo già seduti, in cerchio. Non sembrano nervosi, hanno

quaderni in mano, come se fossero a scuola, chiedono al vicino “Dove vorresti

essere mandato?”, “Ah, io al reparto fotografia”, “No, io in produzione”,

“Produzione, scherzi, quelli ti fanno portare i caffè, non l’hai visto Boris?”.

Silenzio, entra la Cameretta.

Saluta, allegra. Non si siede. Inizia un discorso su ciò che per lei è il

cinema.

- Vedete, cioè questa è una società che è fatta di immagini. E le immagini

sono potenti, cioè. Uno con le immagini può dire quello che vuole. E se non sei

preparato, cioè ti fanno credere quello che vogliono. Infatti il cinema non è mai

piaciuto alle dittature, il cinema è scomodo. E perché? Perché distrae. Perciò noi

abbiamo una grande responsabilità. Noi dobbiamo far ridere, dobbiamo

rilassare. Non è che uno torna a casa dal lavoro e c’ha voglia di vedere un film

pesante, quei film tutti intellettuali che devi stare lì a capire che cosa hai visto e

ti ci vuole un libro. No, il cinema deve far ridere, deve far sognare, sennò la

gente non lo guarda. A teatro non ci va più nessuno perché devi stare lì e non

capisci cosa stai vedendo. Invece col cinema uno non deve pensare, si deve

sedere e si deve rilassare per due ore. Il mondo è già brutto, che se gli facciamo

vedere cose brutte poi si suicidano.

Risate. Esce.

Era partita bene, però.

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Vado sul set tutte le sere, a Palermo. Mi piace guardare gli altri lavorare.

Mi piace essere salutato da tutti. Passeggio, tra un ciak e l’altro, in mezzo alle

comparse che si scattano foto a vicenda, che fermano la Cameretta e fanno foto

con lei, che guardano lo schermo della macchina digitale e commentano,

passeggio tra gli attori che ripassano le battute bevendo tè freddo, saluto Aroña

che mi fa un cenno con la mano, passo accanto a Meri, che commenta:

- Che cazzo fai qua, invece de sta’ a lavora’?

- Rena’, è mezzanotte.

- Siccome oggi ti sei ammazzato…. Ma tanto che ce frega, mò parti.

E poi ci sono alcuni personaggi che vale la pena osservare con cura.

Uno di questi è il signor Pigna.

La sua presenza mi viene segnalata dagli stagisti, che subito mi chiedono:

- Ma quello è proprio Pigna?

Per non svelare la mia ignoranza, rispondo:

- Eh, bè, certo che è lui, e chi se no?

In realtà non l’ho mai sentito nominare, non ho nemmeno ben capito chi

stiano indicando, se quello grasso o quello con l’auricolare. Chiedo ad Alain.

Pigna è il proprietario di una agenzia di servizi cinematografici che gestisce

tutti gli eventi, i concerti, i film in questa parte della Sicilia. È il protagonista di

un documentario di Piripì e Moresco. Appena un paio d’anni fa ha finito di

scontare una lunga condanna per rapina, e si dice abbia strettissimi contatti con

Cosa Nostra. Si dice anche che sia impensabile fare un film a Palermo senza

ingaggiarlo: lui si occupa di tutto, procura le comparse, offre il servizio d’ordine,

gestisce gli spostamenti. Chi ha provato a farne a meno, si dice sia stato vittima

di curiosi incidenti. Mi raccontano che Wim Wenders, a Palermo per le riprese

di un suo film, dopo aver visto il documentario di Piripì e Moresco pare si sia

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rifiutato categoricamente di assumerlo, ma, giunto in città da Roma, sembra

abbia trovato ad attenderlo all’aeroporto proprio Pigna, in Mercedes. Inutile

aggiungere chi si sia occupato del suo film, dopo.

Una sera le riprese vanno a rilento. Il protagonista, Settimio Parmigiani,

un belloccio da fiction che si comporta come se fosse Gene Hackman, ha un

aereo che lo aspetta, deve tornare a Roma e non può assolutamente tardare.

Però non c’è verso: ad Aroña non frega niente, e Settimio rischia di perdere il

volo. La Cameretta si precipita da Pigna, gli chiede aiuto e lui, tranquillissimo, si

rivolge a uno dei suoi uomini:

- Save’, chiama Salvo, all’aeroporto, dicci che l’attore fa tardi.

E così Settimio riesce a tornare a Roma.

Al Giardino Botanico stiamo girando la scena finale, quella della rivolta, ci

sono effetti speciali e tantissime comparse. È una scena difficile, sono previsti

quattro giorni di riprese. La prima sera io mi trovo accanto a Pigna. Alla nostra

destra, dietro alcuni cespugli, due gatti si azzuffano, miagolano, fanno rumore.

Pigna è in piedi, le braccia incrociate sulla pancia sporgente.

I gatti si azzuffano. Lui guarda dritto davanti a sè. I gatti si azzuffano. Lui

guarda dritto davanti a sé. I gatti si azzuffano. Pigna fa un cenno impercettibile,

muove leggermente la testa verso destra. Saverio, il suo luogotenente, capisce al

volo. Parte, in due falcate è nascosto dalle frasche. Ne esce poco dopo. I gatti

non si sentono più.

Un altro personaggio interessante è Antonio.

Si materializza sul set il primo giorno. Indossa un cappellino dei New York

Yankees, una polo grigia e un paio di jeans. Saluta Saverio, fa per entrare ma

quello lo ferma con la mano.

- Sono un amico del regista, mi ha detto lui di venire.

Saverio pensa un attimo. E mò che gli dico al regista, quello parla solo

inglese!?

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- Prego, passate pure. Fate passare!

E avverte, al walkie-talkie:

- C’è l’amico del regista!

E così Antonio entra sul set.

Credo sia lombardo. Ha una quarantina d’anni. Alto, guarda tutti con

superiorità, si aggira tra gli attori e le comparse, ma più spesso è in piedi

accanto al gazebo di Aroña. A volte aiuta a spostare uno stativo, una sedia, un

oggetto di scena. Lo fa come se stesse facendo un favore, ha sempre

l’espressione di uno che pensa “ti faccio vedere io, lo so che non sei pratico,

guardami e impara”.

Ogni sera passa dal nostro hotel, copia su un foglietto l’ordine del giorno

appeso nella hall, quindi si presenta sul set, puntualissimo, arriva addirittura

prima delle maestranze. Quando non giriamo, nei fine settimana, passa la

giornata sdraiato su un divano della hall, guarda tutti, ma senza salutare,

sembra pensare “non disturbatemi, mi sto rilassando dopo una dura settimana

di lavoro”.

Nelle pause viene a mangiare con noi. È sempre lì, seduto solitario a un

tavolo, guarda nel vuoto, fa il bis, prende pure il caffè. Tutti si incuriosiscono,

cercano di fargli domande. E lui, con aria serafica, dà a tutti risposte diverse.

A Saverio dice, appunto, di essere un amico intimo di Aroña, di trovarsi a

Palermo su esplicito invito del regista. Al regista, invece, dice di essere un suo

grande ammiratore, nonché compagno di scuola della Cameretta, di essere

venuto lì apposta per vederlo lavorare. A Meri dice di essere un assistente

volontario, mandato sul set dalla Sicilia Film Commission. Ai veri assistenti

volontari dice di essere un docente della Los Angeles Film School, l’anno

prossimo Aroña dovrà tenere un seminario, e lui è qui per prendere accordi.

Lo odio. Lo so, ho l’odio facile, ma non sopporto la sua espressione di

superiorità del cazzo.

Una sera, a cena, come sempre è seduto da solo, decido di unirmi a lui.

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Mangia a quattro palmenti. Non mi degna di uno sguardo. Dopo un po’ ci provo:

- Buon appetito.

Mi guarda, come se non mi vedesse:

- Sì, altrettanto.

- È buono?

- Più o meno.

- Eh, hai fame, eh?

Sospira, si ferma, mi guarda:

- Tu saresti?

Mi sta profondamente sul cazzo.

- Io SONO il montatore.

In genere alla parola “montatore” tutti reagiscono: chi sa che genere di

lavoro sia, fa un sacco di domande: ah, che bello, che scelta interessante, com’è

lavorare con i registi, com’è questo, com’è quello. Chi non lo sa, chiede

comunque: che significa?, monti mobili?, palchi per i concerti?, una volta ho

conosciuto uno che faceva il montatore a teatro, montava le scenografie.

Antonio no. Indifferente. Alza appena un sopracciglio.

- Ah.

Senza nemmeno l’esclamativo.

- E TU chi saresti? Non ti ho mai visto prima.

Posa la forchetta che stava portando alla bocca. La posa con un gesto

stanco, di chi non ne può più della celebrità, e vorrebbe tornare alla semplice

vita di una volta.

- Se sei un montatore avrai sentito nominare Pietro Scalia.

Scalia? Certo che l’ho sentito: giovane siciliano emigrato negli Stati Uniti,

vincitore di due premi Oscar, uno per “JFK” di Oliver Stone, e uno per “Black

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Hawk Down” di Ridley Scott. Una specie di divinità dei montatori.

- Certo che l’ho sentito.

- Bè, è un mio caro amico, gli ho dato una mano quando ha montato “Black

Hawk Down”, non so se l’hai visto, il film di Rid.

- Sì, mi pare di averlo visto, il film di Rid.

- Ecco, l’altro giorno mi ha detto “Ehi, Tony, perché non ti dai alla regia,

invece di perdere tempo con il montaggio? Vai in Italia, vai a vedere come gira

Alonzo, che sta facendo un nuovo film. Vai, di’ che ti mando io”.

Sul set, tutti i venerdì arriva l’Uomo delle Paghe.

Arriva con un librone sotto il braccio. Dentro, gli assegni e le ricevute da

firmare. La sua presenza viene registrata non appena egli mette piede nel

perimetro del set. Da quel momento, tutti sono improvvisamente

indaffaratissimi, impegnatissimi. Si muovono velocissimi da una parte all’altra,

sui loro volti espressioni felici ma nello stesso tempo assorte. Come piccioni

nella stagione dell’amore, in un modo o nell’altro riescono a capitare per caso

nei pressi dell’Uomo delle Paghe. E lo salutano, con gioia, con partecipazione, lo

chiamano per nome e agitano la mano destra. Qualcuno gli rivolge un saluto,

altri addirittura provano ad allungargli una pacca sulla spalla. E gli girano

attorno, agitano le piume, come se solo facendosi vedere impegnati, attivi, felici,

lui si ricordi di consegnare i meritati assegni. Deve essere una reminiscenza del

servizio militare.

L’Uomo delle Paghe è conscio del proprio potere. Espressione severa,

saluta tutti con un freddo “Ciao”, non stringe mani e non dà confidenza. Si

sistema su un piano che qualcuno alacremente si preoccupa di sgomberare, apre

il librone e inizia a sfogliarne le pagine e a guardarsi attorno. A quel punto la

tensione è massima, il corteggiamento raggiunge il suo apice, le piume vengono

sventolate come code di pavone.

Con flemma estrema, quasi a voler prolungare la suspense del momento,

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l’Uomo delle Paghe inizia a chiamare lentamente, una per una, le persone che

vede attorno a sé. Non fa l’appello: guarda qualcuno negli occhi, e fa cenno con

la mano di avvicinarsi. Chi viene chiamato ha un momento di estasi, con un paio

di balzi arriva al fianco dell’Uomo delle Paghe. Nemmeno lo guarda negli occhi,

dice il proprio nome, come per evitare che l’Uomo delle Paghe possa incorrere

in un errore e consegnare l’assegno sbagliato, ma lui sa tutto, e fa un sì annoiato

con la testa. Allora chi sta per intascare lo stipendio, con la massima gentilezza

gli chiede notizie, come va, come stai, caldo oggi, eh? L’Uomo delle Paghe non

risponde, scartabella ancora un po’, trova la busta paga e l’assegno, e conclude

con un:

- Ci vediamo venerdì prossimo.

A questo punto un sorriso innamorato si pianta sul volto di chi sente la

frase, allunga la mano per stringere quella dell’Uomo delle Paghe e lui solo ora,

ora che la sua virtù non è più in pericolo, la stringe di rimando, ma sempre

senza alcuna emozione.

Lo spettacolo dura fino a che l’ultimo assegno non è stato consegnato,

l’ultima busta paga firmata. A questo punto l’Uomo delle Paghe rimette insieme

il librone, lo chiude con l’elastico o lo infila nel raccoglitore, e sparisce. Pochi

salutano la sua partenza, quasi tutti sono già tornati alle espressioni e alle

attività di sempre.

Passeggio tra un ciak e l’altro. Guardo Stocasto, seduto sotto il suo Stetson,

su una sedia dietro alla quale c’è scritto “cinematografia”. Guardo Meri che

cammina in cerchio parlando al cellulare. Guardo la Cameretta che indossa

giganteschi occhiali scuri a mo’ di cerchietto per capelli. Osservo il fonico

fumare a gambe incrociate, come uno che aspetta l’autobus. Guardo la

truccatrice partire di scatto verso Anne, ogni volta che l’aiuto regista dà lo

“STOOOP!”. E guardo le maestranze ridacchiare, sedute su un muretto. Gli

passo accanto, sento qualcuno dire:

- Ahò, si tte ‘nfilo du’ monete ner culo, me canti ‘na canzone?

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IX

Oggi è in programma la conferenza stampa di presentazione del film. In

albergo, nell’”elegante Sala del Camino”. Ci saranno politici locali e, ovviamente,

la stampa. Da Roma verrà Pantaloni.

Decido di scappare. Decido di farmi consolare dalla pasta con le sarde di

Totò, alla Vucciria. Alain deve presenziare, Maria senza di lui non è la stessa

cosa, ma Totò cucina altrattanto bene. Le sue porzioni sono molto abbondanti, e

la scarpetta con il pane al sesamo è il macigno finale: sogno già il materasso

quando, cercando di accompagnare l’ultimo boccone con un sorso di vino,

squilla il telefono. È la Cameretta.

- Dove sei? Ti stiamo aspettando!

- Per fare che?

- C’è Pantaloni, ti vuole conoscere, ti aspettiamo in albergo.

Pago e a malincuore, ciondolando per il peso che ho nello stomaco, mi

dirigo verso l’hotel. Chiamo Alain:

- Che succede?

- Nientè, vogliono che sci sia anche tü, ti aspettiamo al restaurant de

l’hotèl.

Il ristorante dell’hotel è decorato e stuccato quanto il resto. Una sala piena

di tavoli tondi apparecchiati con roba di gran classe, l’unico occupato è il nostro:

la Cameretta, Alain, Meri, Pantaloni e un posto vuoto: il mio. Mi presento, mi

siedo. Anzi, vengo presentato da Meri come “il montatore”: correggo, gli lancio

un’occhiataccia, e mi siedo.

Al centro della sala c’è un lungo tavolo ovale pieno di formine colorate: il

cibo. Minuscoli contenitori con roba fluorescente verde, gialla, rossa, verdure

tagliate con strumenti extra-terrestri, strumenti umani non possono dare quella

forma lì. Io ho ancora in bocca il sapore delizioso della pasta con le sarde. Per

educazione mi servo di una formina verde, e la spilucco. Sa di verde.

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Pantaloni mi chiede:

- Mangi solo quello?

- Sì, gli rispondo, sai, preferisco tenermi leggero, a pranzo.

Pantaloni è molto alto, e il suo viso pare fatto apposta a indossare quegli

occhialetti piccoli e tondi che poggiano sulla punta del naso. Sembra sempre a

suo agio, ride poco, non suda mai nonostante la giacca, non gli squilla mai il

telefono, non fuma, non gli brontola mai lo stomaco, non sbadiglia mai.

Parla la Cameretta, con una franchezza che trovo spiazzante. Immaginavo

si dovesse fare politica, invece lei sembra a pranzo con amici.

- È tremendo, è un dittatore, è maligno e odia le donne. Fa di tutto per

rovinare il film. Sai che non vuole che vediamo il montato?

Mi guarda per cercare conferma. Annuisco leggermente, spio Pantaloni.

Ha un’espressione che vuol dire qualunque cosa, che è d’accordo oppure no.

Mi viene in mente un racconto di Chesterton, in cui un ladro deve

intrufolarsi ad una cena di ricconi, e escogita un acutissimo sistema: si veste,

come tutti, in frac, ma un frac corto, una via di mezzo tra quello degli ospiti e la

divisa dei camerieri, e adotta un passo che sta esattamente a metà tra la

camminata decisa, sfrontata dei ricconi e il discreto spostarsi della servitù. Il

risultato è che può agire indisturbato: gli uni lo credono appartenente al gruppo

degli altri, nessuno gli chiede l’invito, nessuno gli presenta ordinazioni. Mi

ricorda questa scaltrezza nell’agire, questo riuscire a stare esattamente nel

mezzo, senza dover rendere conto di niente, riuscendo ad assumere sempre

l’atteggiamento giusto.

Però, a un certo punto, una sua frase mi colpisce:

- Quando parte il regista?

- Subito dopo le riprese.

- Ah, allora poi il montaggio andrà in mano ad Alberto, no?

Eccola, la politica. In questa sua domanda c’è tutto ciò che pensa. Mi

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tranquillizzo, e mi ricordo che Pantaloni è il capo assoluto, qui. È lui a decidere,

e lui sa benissimo che il montaggio di un film del genere non può essere messo

nelle mani di uno come me, alle prime esperienze. Questo mi consola, penso che

non tutto è perduto, che il Sud America è solo un’illusione.

Però mi sento a disagio, penso che dovrei telefonare ad Alberto e

lamentarmi del fatto che in quella situazione avrebbe dovuto trovarcisi lui, non

io. Lui avrebbe saputo cosa dire, quanto dire e come. Io non so nemmeno cosa

sto facendo.

La Cameretta continua:

- E poi questo film non gli interessa, cioè sta facendo il suo film, fa come

vuole, non rispetta la sceneggiatura.

- Voi lo sapete che ogni modifica alla sceneggiatura mi deve essere

comunicata e deve essere approvata?

Sì, Pantaloni è decisamente furbo.

Durante la conferenza vado in camera, cerco di sonnecchiare mentre su

Sky trasmettono “The good shepherd”. Ma non riesco a dormire, né a guardare

il film, quindi decido di scendere e vedere come procedono i lavori.

“L’elegante Sala del Camino” è piena di gente. A parte gli stagisti, non

riconosco nessuno della troupe: devono essere tutti giornalisti e autorità. In

cattedra le celebrità: Cameretta, Pantaloni, Aroña, Stocasto e gli attori. Sta

parlando la Cameretta. La osservo, ha qualcosa di strano. Mi avvicino un po’. Ha

i capelli castani e lisci, di lato spunta una ciocca nera e mossa: ha una parrucca!

In quel momento le sento dire al microfono:

- Come Dio, il Maestro Stocasto ha inventato la luce.

Faccio dietrofront ed esco.

Vorrei scappare, ma purtroppo la sera mi invitano a cena, e non posso dire

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di no. La formazione è composta da: Cameretta, Meri, Anne e Lorenza,

Pantaloni, Alain, io e tre attori: Ginevra Volì, Marie Paparazzo e Enrico Maiè.

Vorrei sedere tra Anne e Maiè. Maiè è una persona meravigliosa, oltre ad

essere un bravissimo attore. I suoi ciak non riesco a montarli: passo il tempo a

gioire e a guardarlo. È bravo anche nei piani d’ascolto, il che la dice lunga sulla

sua capacità. Tutti gli altri, quando non parlano, restano immobili, oppure

esagerano le espressioni, sembrano attori di film muti, lui invece è misurato, sa

quando reagire, quando assentire, che fare, come annuire. E poi è simpatico,

andiamo subito d’accordo, è un piacere chiacchierare con lui.

Purtroppo, il dio dei posti a tavola non mi aiuta. Mi ritrovo seduto di fronte

a Pantaloni, tra la Volì e la Paparazzo. Accerchiato. Mi presento alle due attrici,

come prima cosa. La Volì mi ricambia con un caloroso sorriso, la Paparazzo mi

ignora. Va bene, lo faccio anche io. La trovo davvero antipatica.

I piatti sono ovviamente quadrati, io molto imbarazzato. Ginevra Volì mi

sembra gentile, e lo è, eppure tento inutilmente di attirare la sua attenzione,

nessuno mi considera, mi sento in trappola. La guardo, e mormoro:

- Aiuto!

Lei però non coglie, mi guarda come fossi un alieno.

Per aumentare il mio imbarazzo, il cameriere sbaglia ordinazione, così

quando la porta non la prendo, lui dopo aver servito tutti gli altri, torna e mi

dice:

- Lo vedi che è tua? Sei l’unico senza niente.

Non so di cosa si tratti, il piatto è quadrato, dentro c’è una cosa alta e dura,

una specie di torre di babele con un ripieno morbido che dovrebbe essere di

pesce, e tante righine a zig zag come decorazione. Appena affondo la forchetta

crolla tutto. Mi guardo attorno: ma come fanno gli altri a sembrare così

tranquilli?

Pantaloni ed io siamo gli unici a bere, lui continua a riempirmi il bicchiere,

e io faccio altrettanto. Ad un certo punto mi dice:

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- Bene, vedo che io e te in questo siamo compagni.

- Eh, eh! Eh, già, dico, sudando.

- Compagni di bevute, eh, perché compagni (e chiude il pugno sinistro)

proprio no…

Dall’altra parte del tavolo giungono discorsi, non capisco chi sia a farli, su

Totti, sul fatto che Totti è il gladiatore moderno, vero e unico erede degli antichi

romani.

Verso la fine della cena Pantaloni mi chiede notizie delle mie precedenti

esperienze lavorative. Faccio il nome di qualche regista, di qualche produttore.

Alcuni sono abbastanza conosciuti da suscitare reazioni. Uno in particolare fa

sbottare la Cameretta:

- Quello non lo sopporto, è proprio un razzista!

- Bè, razzista…, precisa Pantaloni, diciamo che è uno intollerante.

- Comunque se hai tenuto a bada lui, aggiunge la Cameretta, cioè puoi

benissimo tenere a bada Aroña, che è ancora peggio.

Aroña a Palermo non lo vedo per niente. Credo si stia crogiolando nell’idea

che partirò con lui, e quindi può permettersi di non montare più, qui.

Viene a trovarmi una sola volta, accompagnato come sempre dal fido

Miguel. Si siede, nemmeno mi chiede di accendere l’Avid, e mi dice:

- Entonces? Cosa hai deciso?

- Di che?, faccio finta di niente.

- Como de chi? De venir conmigo! Noi vamos a montar in Sud America. Yo

ho piensato de trovarte casa in un quartier muy bonito, te mando le fotos para

email, così lo puoi veder. Si no te gusta, me ne dici un otro.

- Meri ancora non mi ha detto niente, di preciso…

- Lascia perder Meri, es una grande occasione para ti! Piensa: l’America,

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70

vai a trovar Miguel a Hollywood! Aquì cosa pienses de far? L’asistente para

siempre?

- No, è che… la mia ragazza…

- La tua chica! Porta pure ella, tu voy à aver un apartamiento! Todo es

pagato!

Si intromette Miguel, con il suo tatto:

- Hai sentito Alberto? Non è arrabbiato perché gli hai preso il lavoro? Cosa

sta facendo adesso?

Ridono.

- Bè, sta montando…

- Montando!

Ridono. Il gatto e la volpe.

- Devo cercare un Avid, devo avere tutto il materiale del film con me, il

laboratorio finirà qualche giorno dopo la fine delle riprese…

- No hay problema. Tu has una semana de tiempo dopo que yo soy partido.

Ma dime le cose como stanno, porqué si non vieni, me devo trovar un otra

persona. Yo ne parlo con Meri, tu puro. Y poi decidemos.

Quando resto solo sono a pezzi. Lascio la sala montaggio, incontro Meri

nella hall.

- Ahò, Hudsucker Proxi, che se dice?

- Senti, quello insiste.

- E tu che stai a ffa’ ancora qua? Devi parti’, nun ce sta altra soluzzione.

- Ad Alberto lo hai detto?

- Arberto è fori, si nun l’hai capito. F-U-O-R-I. Mò ce stai solo tu. Perciò te

chiamo Hudsucker Proxi. Sta tutto in mano tua.

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- In che senso è fuori?

- Ahò, o voi capi’? Aroña nun ‘o vo. Che je posso di’? Mò so cazzi tua.

- Qualcuno dovrà dirlo ad Alberto, avrete degli accordi…

- Sì, nun te preoccupa’ ce penso io, mò ‘o chiamo.

- Chiamalo, eh.

- Sì, mò ‘o chiamo. Tu fatti ‘e valigie.

La sera, al ritorno dal ristorante, mi avvicino alla Cameretta. Lei ha

passato tutto il tempo a fare battute sulla mia partenza, battute innocenti, ma

che mi hanno infastidito. Però credo si sia creata una sorta di complicità tra di

noi, due vittime dell’orco cattivo, e quindi mi permetto di dirle:

- Salvami, non farmi partire.

- Tu mi devi salvare, cioè io sono nelle tue mani.

- Ma io non voglio partire con Aroña.

- Nessuno ti obbliga, però sei l’unico che mi può salvare. Fallo per me. Lo

vedi con che gente ho a che fare? L’hai sentita la conferenza, cioè quello che ho

dovuto dire di Stocasto, no? Questi sono tutti fatti così, cioè gli devi dire le cose

che gli fanno piacere se te li vuoi tenere cari.

Lo dice con dolcezza, sembra una principessa imprigionata nella torre di

un alto castello. E io dovrei essere il cavaliere, ma non quello senza macchia e

senza paura: l’altro.

In hotel troviamo Meri, giocherella col suo telefono, stravaccato sui divani

della hall. Si rivolge alla Cameretta:

- Ahò, che dice Hudsucker Proxi, qua?

- Ci salva, parte.

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- ‘O sapevo, è ‘n grande. Trovamose domani ar bar ppe’ ffa’ colazione, ché

dovemo parla’.

E così, l’indomani mi sveglio presto e aspetto Meri al bar. Con lui c’è la

Cameretta. Lei mi si siede di fronte, indossa un vestito incredibilmente scollato.

Mi chiedo se l’abbia fatto apposta. E Stavolta ci casco, l’occhio mi cade.

- Tu devi salvare il film, cioè è tutto nelle tue mani.

- T’o ho detto che sei Hudsucker Proxi. Tu devi anna’ cco’ Aroña a fini’ er

film.

- Chiedimi quello che vuoi, io solo di te mi posso fidare.

- Devi anna’, nun vojo senti’ storie, sennò sto film nun ‘o finimo.

- Ma non sei obbligato, puoi scegliere.

- Scusate, li interrompo, ma che vuol dire che vado, che vuol dire che devo

finire il film? E Alberto? Con lui ne avete parlato?

Meri: - Arberto è fori, per lui nun ce sta gnente da fa’, Aroña nun ‘o vole.

Arberto è fori perché l’ha scelto ‘a produzzione, er montatore mò sei tu, a te t’ha

scelto er regista.

Cameretta: - Tu parti con Aroña, fate la vostra versione del film, poi torni e

Alberto la finisce.

Io: - Alberto è fuori? E chi lo firma ‘sto film? E il contratto?

Meri: - Se vai cco’ Aroña e finite er film, ‘o firmi tu cor regista.

Cameretta: - Se non viene approvato, Alberto lo aggiusta e lo firma lui.

Meri: - Nun te devi preoccupa’ de gnente. Te porti l’Avid che c’hai qua, te

trovamo ‘n’appartamentino, te giri ‘a città, e monti. Oh, tutto dev’esse’ pronto in

un mese, eh? Quann’hai finito, torni qua e sistemamo tutto.

Cameretta: - Devi salvarmi, solo tu lo puoi fare, cioè io lo so quanto ci tieni

a questo film, lo so che sei una persona buona.

Page 73: Vita vissuta nel cinema italiano

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E si mette una mano sul cuore. Vicino al cuore.

Mi gira la testa, mi sembra di essere a una partita di tennis. Chiedo tempo.

Meri: - Aho, ar massimo a Roma me devi da’ ‘na risposta, me raccomanno.

Chiamo Alberto, ci riprovo.

- Tu non capisci, gli dico, non capisci quello che mi stanno chiedendo!

Vogliono che vada col regista a finire il film, io non lo posso fare.

- Ma che dici, figurati se chiedono a te di finire il film! Ricordati che

oggettivamente non lo possono fare, sono provocazioni. Vedrai che quando

sarete qui si saranno dimenticati di tutto.

- Albe’, non hai capito: Aroña a Roma non ci viene, vuole partire subito.

- Vabbè, figuriamoci. Io aspetto una telefonata di Meri, mi deve dire quali

sono le intenzioni del regista, questo film deve essere finito in qualche modo.

- Va bene, come vuoi. Intanto io a questi che dico?

- Prendi tempo, non dire sì né no.

Prendo tempo, e non dico sì né no. Sorrido, quando viene sollevato

l’argomento. E così tutti si convincono che alla fine partirò. E quindi decidono

che la mia presenza sul set non è più necessaria, mi fanno rientrare a Roma due

giorni prima degli altri.

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X

Ultima settimana di riprese, di nuovo a Roma.

Sono tornato nella saletta di montaggio, sono tornato alla sicurezza

familiare, ad Alberto e Michela. Ridiamo della grottesca esperienza, sicuri che

con la fine delle riprese le cose si risolveranno da sole. Ormai la richiesta di

farmi partire per il Sud America sembra lontana, sembra davvero solo una

provocazione: qui a Roma i giochi di potere hanno perso il loro significato, se

potevano avere uno scopo sul set, ora che il regista sta per partire non hanno

davvero più senso.

Quasi quasi per un attimo ci credo anche io. Ma basta una telefonata di

Aroña per farmi tornare sulla terra:

- Hola, soy Alonzo! Te faccio mandar una email, tu devi scegliere el

quartier donde quieri de viver, y yo te trovo el appartamiento. Mira le foto que

te mando, y decidi.

Poi ci si mette pure la Cameretta:

- Ti sto chiamando dal set, abbiamo appena finito un ciak. Brrr, che

freddo: sono tutta nuda perché cioè ho girato la scena del bagno al fiume. Hai

deciso? Guarda, chiedimi tutto quello che vuoi, ma fallo per me, cioè vai. Lo so

che Aroña è maligno, ma tu prendila come una vacanza. Vuoi portare la tua

ragazza? Non c’è problema, cioè tanto pago tutto io.

E Renato Meri:

- Ahò, allora? Che cazzo stai ad aspetta’? Stai ancora a ffa’ storie?

Ammazza, sembra che chissà cche t’amo chiesto!

- Guarda, non saprei… l’Avid… non so come fare… Alberto…

- Ancora cco’ ‘ste storie? T’ho detto che nun te devi preoccupa’. È ‘na

vacanza: vai lì, monti, te diverti, torni e semo tutti contenti. E firmi pure er film.

Che voi de più?

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- Senti, bisogna che ne parliamo, dobbiamo parlarne con Alberto.

- Sì, nun te preoccupa’, a Arberto ce penso io.

- No, guarda, bisogna che vieni al montaggio e ne parliamo.

- Vabbè, mò vedo che posso fa’.

Meri ci promette di venire in sala montaggio il mattino dopo. Ma non si fa

vedere. A pranzo, Alberto Michela ed io andiamo a mangiare in un bar. Mi

sembra di aver fatto colazione con della carta vetro, non riesco nemmeno a bere.

Fumare sì, quello riesco a farlo benissimo.

Parliamo poco. Michela è allegra, Alberto sembra un po’ nervoso, mi

prendono in giro.

- Mò vediamo se la nostra posizione dipende da te, vediamo se sei tu a

dover decidere del lavoro di tutti e tre.

Meri arriva nel pomeriggio. Quando sento suonare il citofono, mi precipito

ad aprire. Entra, mi stringe velocemente la mano:

- Ho parlato cco’ Aroña: dice che si er film ‘o fai tu, ‘o firmi tu. Me

raccomanno, io più de così nun posso fa’.

Entra, saluta tutti, si accomoda. Ci sediamo in cerchio, io mi metto accanto

alla porta, una via di fuga, ché non si sa mai. Fumo una sigaretta dietro l’altra,

dopo pochi minuti la stanza sembra una sala da poker.

- Arbe’, la posizione tua nun è facile.

- Non è facile per te.

Sorrido: un inizio così, vuol dire che Alberto non ha intenzione di fargliene

passare nemmeno una. Si prospetta battaglia.

- Ner senso che tu sei stato scelto da’a produzzione, e questo ar reggista

nun je va bbene. Parlamese chiaro: da quando in qua er montatore vie’ scelto

da’a produzzione?

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- E siamo d’accordo.

- Oh. Questo è stato l’errore da’a Cameretta.

- Ognuno fa gli errori suoi.

- E va bbene. Mò: tu colpe nun ce n’hai. Quello è un po’ stronzo. Mò, però,

‘sto film ‘o dovemo fini’. E come famo?

- Come famo?

- Famo così: ce mannamo lui, e indica me. - Ce mannamo lui, cor regista,

che finischeno er film. Quanno torna, to ‘o monti tu. E nessuno te vie’ a rompe’

li cojoni.

- In che senso?

- Ner senso che si er film nun piace a’a produzzione, er regista ppe’

contratto nun ppo’ ddi’ gnente, e so’ ‘o finimo noi. Se invece er film vie’ bbene,

so artri cazzi.

- Che cazzi?

- Eh, se va bbene va bbene, che dovemo fa’?

- E chi lo firma, in questo caso?

- Lui, e indica me. - Lui nun ‘o po’ firma’. Chi cazzo ‘o conosce, a questo? ‘O

firma er regista, ppe’ forza.

Ah. E non mi sembra un trucco: Meri non è abbastanza furbo. Sono io, lo

scemo.

- Mò veniamo alla cosa: mentre che ‘sti due stanno all’America, io nun è

che posso paga’ du’ stipendi e n’antro Avid. Ve devo manna’ a casa, a te e a

Michela.

- Come sarebbe? E il contratto?

- Arbe’, tu il contratto nun ce l’hai.

- Appunto. Che volemo fa’?

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- Nun ce l’hai, ma è come si ce n’avessi due! Arbe’, nun te preoccupa’, stai

in una botte de fero!

- In che senso che sto in una botte de ferro?

- Arbe’, cerca de capimme, si te dico che un contratto nun ce l’hai, ma ppe’

‘sto motivo ce n’hai due.

Mentre pronuncia questa frase, Meri si esibisce in una serie completa di

movimenti facciali, a evidenziare sottintesi e ‘se semo capiti’.

Esco, con la scusa di dover fare una telefonata. Prendo aria, l’aria ormai

primaverile di Roma. Quando rientro stanno discutendo di cose generiche,

giusto per passare il tempo mentre aspettano me. Guardo Meri e Alberto,

Michela non ho il coraggio di guardarla. Non sono sicuro ma mi sembra di aver

sentito qualcuno dire che il lavoro di tre persone dipende dalla mia scelta di

partire oppure no.

- Non parto, dico. Mi dispiace, non parto.

- Che dovemo fa’, l’accendiamo?

- Ho deciso, non parto.

- Aho, pensece, mi dice Renato. Nun prenne decisioni affrettate. Te chiamo

stasera, pensece.

Se ne va. Quando restiamo soli noi tre, trovo il coraggio di dire a Michela

che mi dispiace. È un ricatto, però mi sento comunque responsabile per il suo

posto di lavoro. Lei mi risponde che ho fatto la scelta giusta. Non so se crederle.

La sera non mi telefona nessuno.

Il giorno dopo, invece, il primo a chiamarmi è Aroña:

- Hola, soy Alonzo! Yo mañana me voy, te aspietto en una semana. E

recuerda: si non vienes, tu fai el mas grande error de tu vida.

E poi Meri, la Cameretta stavolta salta il turno:

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- Ahò, ‘ndo stai?

- A casa, stavo andando in sala montaggio.

- C’hai deciso? No, no, nun me di’ gnente, passa de qua e ne parliamo.

“De qua” sarebbe in ufficio, in un appartamento del centro. Quando arrivo

Meri non c’è, è uscito. Lo aspetto in corridoio, seduto su una sedia di legno,

accanto al monitor Export, inscatolato. Davanti a me un cane, un bel cane nero

che mi si siede di fronte e poggia la sua testa sulle mie ginocchia. Insieme

aspettiamo Renato.

Quando entra, Meri nemmeno mi guarda:

- Ahò, vie’ qua.

Non so se ce l’abbia con me o con il cane. Nel dubbio, mi alzo io.

La sua stanza è completamente vuota. Una scrivania con il piano di vetro,

due sedie, un portatile, un telefono. Niente altro. Mi indica una sedia.

- Allora, ‘a famo finita, cco’ ‘sta storia? C’hai deciso?

- Non vado.

Non fa una piega.

- ‘O sai che vor di’? ‘O sai che ppe’ corpa tua me tocca de licenzia’ Arberto e

Michela? Nun te piagne er core?

Non rispondo.

- Come voi. Se va bbene a te. Arrivederci.

- Come “arrivederci”?

- E che te devo di’? Stai a casa da subbito, nun c’anna’ nemmeno, all’Avid.

Che ce vai a ffa’? ‘O sapevi che te dovevo lincenzia’. Che è, te tengo ancora? E

ppe’ ffa’ che? Vai a casa, no?

- E Michela e Alberto?

- Mò vedo. A Michela je faccio fini’ a settimana, cco’ Arberto mò vedo. Te

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saluto.

Mi indica la porta. Mi alzo e vado via.

Qualche giorno dopo mi chiama Alberto. Temo sia arrabbiato con me, del

resto per causa mia ha perso il lavoro. Ma per fortuna non è così.

- Ieri mi ha telefonato Meri per dirmi che il reparto montaggio è licenziato.

Oggettivamente è uno stronzo. Dice che è tutta colpa tua.

- E tu sei d’accordo?

- Scherzi? Oggettivamente come si fa a mettere in mano al secondo

assistente una cosa del genere? Questi non lo sanno fare, questo lavoro.

Alberto mi propone di incontrare Roberto Scarpetti, il delegato sindacale,

di fare una vertenza. Accetto, molto volentieri.

L’appuntamento con Scarpetti è per pranzo, al bar di Cinecittà. Ordino una

pizzetta appoggiato al bancone, tra Abel Ferrara che beve una birra, e Garrison

che accarezza il suo minuscolo cagnetto. Quando arriva Scarpetti, ci sediamo.

Brizzolato, sorriso alla Big Jim, giacca da motociclista. Ricordo di averlo

già incontrato sul set: girava per tutti i film in produzione, chiedendo alla troupe

se fosse tutto a posto o se ci fossero problemi con le produzioni.

- E quindi la situazione è questa. Che famo?

- Mah, Albe’, mò faccio una telefonata a Meri e vedo, dice Scarpetti.

- Come fai una telefonata a Meri?

- Eh, nun posso fa’ ‘na vertenza così, devo sentire che dice la produzione.

- Ma te lo stiamo dicendo noi cosa è successo, no?

- Sì, ma infatti la sua posizione, e indica me, - è sicura: nun lo dovevano

licenziare così, una vertenza la possiamo fare. Ma pure tu, Albe’, stai in una

botte di fero.

- E allora?

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- E allora mò chiamo Meri e sentiamo come vuole risolvere la faccenda.

- Ma come sarebbe a ddi’? Hanno lasciato a casa il reparto montaggio da

un giorno all’altro, senza preavviso, dando la colpa al secondo assistente. E tu

vuoi pure telefonare a Meri?

- Famo ‘na cosa: sentiamoci la prossima settimana, io faccio un colpo di

telefono a Meri, e vediamo se ci possiamo accordare così, che magari recuperate

due settimanali.

Mi intrometto:

- Guarda, non è per i settimanali…

- Sì, lo so, ma che fai, glieli lasci? Quelli ti spettano. Mò chiamo Meri e

vediamo che dice.

Usciamo dal bar, accompagniamo Scarpetti alla moto. Mentre sfila il casco

dal portaoggetti, aggiunge:

- Certo, poi io c’ho un sacco di richieste, in questo periodo, e ci stanno pure

le polemiche, che certi non vogliono che il sindacato si interessi di lavoratori che

non sono tesserati.

Per me non è un problema, facciamo la tessera, e ne sono orgoglioso.

- Allora chiamo Meri e ce sentiamo tra un paio di giorni.

Quando Scarpetti ci allontana, Alberto mi guarda, la tessera in mano:

- Abbiamo capito che tipo è il signor sindacalista. Lasciamo perdere.

Alberto decide di tentare altre strade, io invece insisto con Scarpetti, voglio

fare le cose secondo tradizione. Continuo a chiamarlo nei giorni seguenti, lui

“sta sempre impicciato” o sta per partire per qualche giorno, richiamami la

prossima settimana.

Insisto, insisto, finalmente riesco a parlargli per più di un minuto.

- Ma ricordame un po’ ‘sta storia, che sai, c’ho un sacco di cose, non mi

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posso ricordare tutto.

- Il film della Cameretta… io e Alberto… Renato Meri….

- Ah, sì, mò ho capito. Guarda, alla fine non mi convince, tu dopotutto ti sei

rifiutato di fare una cosa che ti era stata chiesta dalla produzione…. Non so, non

sono sicuro di riuscire a farla, ‘sta vertenza. Chiamami la settimana prossima.

Lascio perdere.

Mi metto il cuore in pace, dimentico il film e non ci penso più.

Fino a che, due mesi dopo, non ricevo una telefonata.

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XI

A fine giugno ricevo una telefonata. È la Cameretta. Anzi, è il suo

segretario: la Cameretta vorrebbe incontrarmi, in ufficio. E anche con una certa

urgenza, pare. Chiamo Alberto:

- Sicuramente vorrà chiederti di finire il film.

- Ma no, secondo me si sono persi qualcosa nei passaggi tra l’Avid che

avevo sul set e quello con cui hanno finito il film, non ci capiscono più niente e

vogliono che li aiuti a uscirne.

- Vedrai che invece ti chiede di montare. Oggettivamente chi ci ha provato

s’è trovato una bella rogna tra le mani. Sicuramente la versione del signor

regista non è piaciuta, quindi va rifatto daccapo e lo chiedono a te.

Del film non avevo saputo più nulla. Da alcune voci, però, avevo intuito

che alla fine, con Aroña c’era andata Dolores, una giovane montatrice molto

amica di Meri.

L’indomani vado a incontrare la Cameretta. Ci vado in bici, grosso errore:

ormai è estate, e quando arrivo davanti al portone sono completamente sudato,

la maglietta ha cambiato colore. Mi guardo. Ho pure i pantaloncini. Forse sono

impresentabile. Cerco rifugio in un bar, mi riposerò un poco. Mentre tento di

arrestare l’esondazione di sudore con un fazzolettino di carta, entra il segretario

della Cameretta, mi lancia uno sguardo disgustato.

- Vieni così?

- Non ho portato un ricambio.

- Guarda, così non puoi venire, è meglio se ti asciughi, prima.

Mi piazzo davanti al bocchettone dell’aria condizionata. Una polmonite per

non turbare la Cameretta. Dopo un po’ decido che ne ho abbastanza, mi avvio.

L’ufficio è al piano terra di un elegante palazzo del centro. La Cameretta

abita all’ultimo piano. Lei è in casa, quando arrivo la chiamano e scende.

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Eccola. Tutta sorrisi e gentilezze, mi stringe la mano, mi bacia. Ci sediamo

a un tavolo da riunione. Non mi chiede niente, dice solo:

- Mi dispiace per come è finita l’altra volta. Lo so che avevi un buon motivo

per non partire.

- Già.

- In questo film mi sono circondata di incompetenti, hanno messo insieme

la troupe peggiore di tutti, cioè. A cominciare dal regista, che se non era per

Enzo che mi portava all’ospedale ero morta.

Annuisco.

- Tutti hanno voluto fare i registi. Pure il maestro Stocasto, dico io, quattro

premi Oscar! E invece c’aveva da ridire su tutto. E infatti il risultato si vede,

Pantaloni ha detto “facciamo finta che non ho visto niente”.

Inizio a non capire, provo a intromettermi.

- Pantaloni ha visto il film?

- Mi ha detto: “Mariatere’, facciamo finta che non ho visto niente, però a

settembre lo voglio vedere finito”. Quindi ora bisogna finirlo, questo film, ed è

per questo che ho chiamato te.

- E scusa, ma la persona che lo ha montato in Sud America?

- Dolores? Dolores è una brava ragazza, però non conosce il film come te,

tu lo sai a memoria, cioè sai cosa abbiamo passato insieme. Bisogna sbrigarsi,

perché Pantaloni lo vuole finito a settembre.

- Ma cosa vuole a settembre? Vuole vedere un dvd? O vuole una copia in

pellicola?

- Eh, sì.

- “Eh, sì” cosa? Io credo che voglia chiudere il montaggio, e poi iniziano le

lavorazioni successive, gli effetti speciali, la correzione colore eccetera.

Mi guarda come se parlassi arabo al contrario:

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- Lo vuole finito finito! Per questo abbiamo due settimane per montarlo, e

io devo pure rigirare alcune scene. Insomma, cioè, il tempo è pochissimo.

- Ma che due settimane? In due settimane non si fa niente. E cos’è che

dovresti rigirare?

- Due settimane al massimo, bisogna finirlo.

Mi propone di vedere il dvd, la versione montata da Dolores. Ci

accomodiamo nella stanza accanto, lei chiama a raccolta le sue socie: scopro che

divide l’ufficio con un’altra produzione, che però è la stessa della Cameretta e

però sono diverse. Insomma, non è molto chiaro, fatto sta che ci sono queste

due, Telma e Selma, due cinquantenni travestite da ventenni, inseparabili, una

biondiccia e l’altra rossiccia, “le donne di produzione”, che sono socie ma no

però sì.

Il film è orrendo. Mi spiace ammetterlo, ma è veramente brutto. Montato

applicando in modo assolutamente cieco le regole di Aroña. Avrei fatto lo stesso

anche io, temo. Sono riusciti a distruggere completamente quei minuscoli,

scarsi, risicati momenti di emozione che pure si potevano ritagliare tra una

stronzata e l’altra. Io ci ho lavorato per quattro mesi, e loro l’hanno fatto

diventare questa porcheria. Mi sento offeso, quasi ferito nell’orgoglio.

Non aiuta il fatto che accanto a me ci siano Telma, Selma e la Cameretta.

Sembrano le tre signore che vanno al cinema sotto casa il sabato pomeriggio.

Commentano ad alta voce ogni battuta, ogni vestito, ogni espressione, ogni

oggetto di scena. E ridono, parlano, si lamentano. Mi verrebbe da voltarmi e

interrogarle:

- Bè, che avete capito?

Una si alza, Telma o Selma, va a prendere dei crackers, sgranocchia, li

offre, telefona al figlio, poi chiama la segretaria, quel fax l’hai mandato? Intanto

la Cameretta racconta tutti i momenti in cui è stata vittima di qualche sopruso

da parte di qualcuno:

- Ecco, qui io volevo fare così, e invece Aroña, niente, ha deciso di fare

cosà. Mi sa che questa scena la giro di nuovo… Qui, poi, io avevo chiesto a

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Settimio Parmigiani di dire la battuta in un modo, e lui invece ha voluto dirla

così. Lo faccio doppiare…. Questa fotografia qui l’ha voluta Stocasto, e io la

volevo in un altro modo, mi sa che faccio rigirare anche questa scena…. Qui,

poi…

Mi alzo, spengo il televisore, guardo la Cameretta:

- È brutto, vero?

- Sì, decisamente, rispondo.

Torniamo in riunione. Non la lascio parlare:

- Bisogna montarlo daccapo. Ci vogliono sei settimane almeno.

- Dobbiamo finirlo entro settembre, anche perché io devo rigirare delle

scene, cioè.

- Si può sapere cos’è che vorresti rigirare?

- Hai presente la scena della rivolta?

- La scena finale, quella con tutte quelle comparse e le fiamme e il palazzo

che brucia?

- Eh, quella. Non mi piace, ha voluto fare la rivolta dei sudamericani,

invece qua siamo in Italia, bisogna rifarla.

- Ma come fai? E quando?

- Non ti preoccupare, devo solo trovare i soldi.

- Se mi permetti, è una scena un po’ difficile da girare, ci sono decine di

comparse, gli effetti speciali, c’erano praticamente tutti gli attori. Come fai a

coordinare tutto quanto? Poi devi convincere Aroña e Stocasto a tornare.

- No, Aroña e Stocasto non li voglio.

- E come fai?

- E che ci vuole? Che sono, gli unici che sanno fare un film, quei due?

Ci rinuncio. Lei riprende, come se niente fosse:

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- Dobbiamo finirlo entro settembre. Chiedimi tutto quello che vuoi, ma

devi accettare.

Ho capito, stavolta me la devo giocare bene. Non sono impreparato: la

telefonata con Alberto mi aveva insospettito, ho considerato l’eventualità.

- In effetti ho delle cose da chiederti.

- Non c’è problema, scrivi tutto su un foglio e dallo a Enzo, cioè lui ti

compra tutto. Quando cominci? Domani?

- No, che domani? Io te le devo dire, perché se non le accetti non posso

montarlo, ‘sto film. Primo: voglio un Avid vero e funzionante.

- E lo troviamo, ora ne cerchiamo uno.

- Secondo: voglio un contratto fino alla fine del film.

- E certo, che ci vuole? Dopo ti faccio chiamare dall’amministrazione.

- Terzo: voglio un assistente fino alla fine del film.

- Un assistente? E a che ti serve?

- Innanzitutto ci vuole, e poi questo è un film difficile, e se lo vuoi finire in

fretta serve un assistente che si occupi di tutto, effetti speciali, i laboratori

eccetera, così io posso lavorare in pace.

- E va bene, l’assistente. Poi?

- Finito.

- Va bene, allora ti preparo un angolo nel mio salotto, così puoi montare lì,

tanto non c’è nessuno a casa mia, solo la donna delle pulizie e mia figlia che tra

poco finisce la scuola.

Stacco. Con un lento carrello entriamo nel salotto di un appartamento

borghese. Da sinistra, attraverso una tenda sottile filtra un pallido raggio di sole.

Illumina i vasi bianchi dentro i quali crescono ficus e papiri, la massiccia

credenza piena di piatti e bicchieri: i servizi buoni. Al centro della stanza, sotto

un lampadario di cristallo, un tavolo di mogano, lucido come se qualcuno vi

avesse appena passato la cera. Seduto al tavolo un uomo sta lavorando davanti a

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un computer. La luce dei due monitor illumina i pelosi tratti del viso. Accanto a

lui una bambina: sta colorando un album di figure in bianco e nero, davanti a lei

una distesa di pennarelli. Da una porta sul fondo entra una donna. È alta, ha

lunghi capelli neri, indossa una vestaglia che di certo non nasconde le forme

molto generose. Tenendosi a debita distanza dall’uomo, gli dice:

- Scusa, potresti mettere via? È arrivato Luigi, cioè dovremmo cenare.

Entra una ragazza filippina, porta una tovaglia ricamata, piatti e posate,

inizia ad apparecchiare. L’uomo spegne il computer, stacca i collegamenti,

poggia tutto a terra, in un angolo della stanza. Quando ha finito si volta: la

donna sta cenando, roast beef e insalata, con lei la bambina e Luigi, in giacca,

cravatta e camicia azzurra.

- Allora io vado.

La donna gli risponde senza sollevare lo sguardo dal piatto. Luigi sta

bevendo del vino rosso.

- Sì. Ah, domani vieni un po’ più tardi, vorrei dormire.

L’uomo si volta ed esce. Quando si richiude la porta alle spalle, si accorge

di aver lasciato dentro il telefono. Non importa, lo prenderà domani.

Dissolvenza a nero.

- Nel tuo salotto? No, guarda, preferisco stare in un ufficio.

- Come vuoi, ma non ti fare problemi, eh! Non dai fastidio assolutamente.

È una faticosa contrattazione, ma alla fine ci accordiamo. Riesco ad

ottenere una stanza nell’ufficio, la stanza della contabile, che non ci sarà fino a

settembre. Riesco ad ottenere la promessa di un contratto regolare per me e per

il mio assistente. Riesco ad ottenere di lavorare su tutti i ciak del film, e non solo

quelli già montati. Riesco ad ottenere un Avid vero, preso in affitto (qui ho

dovuto lottare con Telma o Selma, che “c’ho ‘n’amico che mo’o dà co’o sconto”,

ma questo sconto aveva un che di truffaldino, il prezzo era comunque molto

alto).

Qualcosa ancora non mi convince, ma ci diamo appuntamento per la

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settimana seguente, quando inizierò a lavorare.

Gianni, un amico, si propone di farmi da assistente. Accetto, sia perché so

che con lui la situazione sarà molto meno stressante, sia perché così mi tolgo

dall’imbarazzo di dover cercare assistenti più grandi e con maggiore esperienza

di me.

Prendiamo possesso della stanza, il lunedì successivo. Ma subito facciamo

una spiacevole scoperta: dobbiamo dividerla con il figlio di Telma o Selma, un

ragazzone alto un paio di metri, che credo abbia appena finito il liceo e per

guadagnare qualche euro passa l’estate nell’ufficio della mamma a sostituire la

contabile. Cosa che, ovviamente, non sa fare, per cui la sua giornata consiste nel

lottare contro di noi per l’aria condizionata, che lui vorrebbe a -20°, e guardare

video su Youtube. Gianni e io sospettiamo sia tutta una scusa, che quello sia

stato messo lì per controllarci, per controllare che non passiamo le ore

raccontandoci barzellette.

Ogni mattina è già in ufficio, arriva sempre prima di noi, lo troviamo

immerso in un clima da Antartide, guarda video di incidenti d’auto su internet,

l’espressione annoiata. Noi alziamo la temperatura, o spegniamo del tutto. Lui

allora esce per qualche istante, torna e dice:

- Posso accendere?

- No, guarda, ci arriva dritta nella schiena, meglio di no.

Se ci allontaniamo per fumare, al nostro ritorno la temperatura nella

stanza sfiora i -15°.

Prima cosa: decido di controllare il materiale, voglio che ci sia tutto, non

voglio lavorare solo sui ciak scelti dal regista. Con Gianni facciamo un elenco di

ciò che manca e lo mandiamo al laboratorio, entro qualche giorno dovremmo

riuscire ad avere tutto.

Secondo: prepariamo il tabellone. Lo so che non servirà a niente in questo

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89

caso, ma voglio farlo lo stesso. Compriamo un grande cartoncino blu e scriviamo

su dei post-it gialli il numero della scena e un breve riassunto. Li incolliamo al

tabellone, e lo guardiamo compiaciuti.

Terzo: iniziamo a montare, partendo da zero.

Quarto: ormai è venerdì, nessuno ci ha ancora fatto firmare nessun

contratto. Chiamo la Cameretta e le chiedo. Mi dà il numero del suo studio

commerciale, sono loro che si occupano di queste cose.

- Studio Graff, buongiorno, sono Maria.

- Buongiorno, sono il montatore del film “La fregatura”, telefono per il

contratto, avremmo dovuto firmare lunedì ma ancora non abbiamo avuto

notizie.

- Ah, sì, buongiorno. Guardi, oggi è una giornataccia, il venerdì è sempre

un problema. Mi potrebbe richiamare lunedì?

- Non si preoccupi, a lunedì.

Lunedì.

- Studio Graff, buongiorno, sono Maria.

- Buongiorno, sono il montatore del film “La fregatura”, telefono per il

contratto, ho già chiamato venerdì, mi avete detto di richiamare oggi.

- Ah, sì, buongiorno. Guardi, il dottor Graff adesso non c’è, appena torna la

faccio chiamare, tanto lei è in ufficio, vero?

- Sì, mi trova in ufficio.

- Bene, allora la faccio chiamare al più presto.

Martedì.

- Studio Graff, buongiorno, sono Maria.

- Buongiorno, sono il montatore del film “La fregatura”, telefono per il

contratto, ho già chiamato ieri.

- Ah, sì, buongiorno. Il suo contratto è pronto, venga a firmarlo quando

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vuole.

- Ottimo, allora arrivo tra dieci minuti.

- Ah, no, guardi, adesso no, stiamo entrando in riunione. Chiami nel tardo

pomeriggio.

Mercoledì.

- Studio Graff, buongiorno, sono Maria.

- Buongiorno, sono il montatore del film “La fregatura”, telefono per il

contratto, dovrebbe essere pronto da ieri, ma poi ho chiamato e non mi ha

risposto nessuno.

- Contratto? Non so niente. Controllo, la richiamo appena trovo qualcosa.

Giovedì.

- Studio Graff, buongiorno, sono Maria.

- Buongiorno, sono il montatore del film “La fregatura”, telefono per il

contratto.

- Ah, sì, buongiorno. Guardi, il titolare ora non c’è, appena torna la faccio

chiamare.

E così via. Tutti i giorni, per due settimane. Comincio a innervosirmi. Il

terzo lunedì telefono mentre sono per strada, sto andando in ufficio.

- Studio Graff, buongiorno, sono Paola.

- Buongiorno, sono il montatore del film “La fregatura”, telefono per il

contratto.

- Contratto? Non so niente, mi spiace.

- Guardi, ho sempre parlato con Maria, me la potrebbe passare?

- Un attimo.

Attendo con la musichetta. Ma è la voce di un uomo, quella che sento

qualche istante dopo.

Page 91: Vita vissuta nel cinema italiano

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- Buongiorno, sono il Dottor Graff.

- Buongiorno, io vorrei….

- Lei deve mettersi in testa che Maria non è una sua dipendente, ma una

mia dipendente, e non può pretendere che faccia ciò che vuole lei quando vuole

lei, ha capito?

Va bene, mi incazzo.

- Sono due settimane che la tua dipendente mi prende in giro! Ora chiamo

la signora Cameretta, e le dico che a causa della vostra incompetenza dovrà

trovarsi un altro montatore.

Riattacco.

Un’ora dopo stiamo firmando.

Il contratto è strano. Non prevede obblighi da parte loro, ma solo da parte

mia: mi impedisce di divulgare questo e quello, di parlare con chicchessia di

questo e di quello. Sollevo obiezioni a Maria, che è tutta zucchero e servilismo:

- Guardi, è il contratto standard, è quello che facciamo firmare ai

montatori che lavorano con noi.

- Sarà, ma perché è settimanale? Io avevo chiesto un contratto a fine film.

- Guardi, è il contratto standard, è quello che facciamo firmare ai

montatori che lavorano con noi.

- Sarà, ma io un contratto così non l’ho mai visto.

- Guardi, è il contratto standard, è quello che facciamo firmare ai

montatori che lavorano con noi.

Lascio perdere, sono sfinito.

Nelle prime settimane di montaggio la Cameretta non si fa vedere: sta

girando l’ultimo film dei fratelli Branzini, in qualche amena località turistica. A

volte ci fa mandare tè freddo e ciambellone dalla sua cuoca. Quando è a Roma

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viene a trovarci: si siede, guarda mezzo ciak e si lamenta.

- Vedi? Cioè, è possibile dico io girare una scena così? Ma se uno sta

parlando perché non lo inquadri, cioè? E poi ti fai pure chiamare Maestro.

- In verità si fa così, questo è il piano d’ascolto, poi c’è il ciak sull’attore che

parla.

- Sì, e secondo te è un sistema furbo? De Gaudentiis non lavora così.

Vaglielo a dire a De Gaudentiis, se un direttore della fotografia ha il coraggio di

fare così con lui. Ma di me, guarda, di me si sono approfittati tutti perché sono

una che sono buona e sensibile.

Ci dice anche che è inutile che montiamo tutto, vuole rigirare molte cose.

- Anche questa la voglio rigirare.

- Allora monto questa.

- No, tanto rigiro anche questa.

- Allora questa.

- No, tanto rigiro anche questa.

- Scusa, ma io monterei lo stesso, così, intanto mi porto avanti.

- Ma no, rigiro tutto.

- E chi dirige, se non vuoi più Aroña?

- Io, no?

- Tu?

- E chi meglio di me?

- E chi la fa la fotografia?

- Uno lo trovo, tanto, cioè, che sarà mai, mica c’è solo Stocasto.

- E gli attori?

- Eh, gli attori non possono più, li ho sentiti, sono tutti impegnati.

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- E quindi?

- Uso controfigure, tanto è la magia del cinema, chi se ne accorge?

Comunque, guardate che dobbiamo finire tra due settimane, che Pantaloni

vuole vedere qualcosa.

- Come due settimane? Quando lo vuole vedere?

- A ottobre.

- Ottobre? Avevi detto settembre! E comunque mancano tre mesi.

- Sì, sì, è uguale: non c’è tempo.

Aspettiamo che il laboratorio mandi i ciak che abbiamo chiesto. Non è

un’operazione rapida, qualche giorno ci vuole. Ma non ci preoccupiamo: c’è

tutto un film davanti a noi.

Passa la Cameretta:

- Mi fate vedere quella scena del treno?

Le mostriamo la scena del treno.

- Ma io mi ricordo che abbiamo girato anche un pezzo del treno visto da

così, tu non ti ricordi? C’eri?

- C’ero, rispondo, me la ricordo, e infatti ho chiesto al laboratorio di

mandarcela.

Fa la faccia di una che ha beccato suo marito a letto con un cavallo.

- Coooosa? Mi vuoi dire che non ci sono tutti i ciak?

- Non tutti, perché il laboratorio ha mandato solo le buone, ora però io ho

chiesto gli altri.

- E chi gli ha detto di non mandarli tutti?

- Bè, si fa così, è una prassi.

- E chi gliel’ha detto?

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- È una prassi….

Parte, in due falcate è nell’altra stanza, in altre due di nuovo davanti a me,

un telefono in mano. Guardo Gianni, che non batte ciglio.

- Eh, no, eh, questo no. Anche loro, adesso. Ora li chiamo, questi.

Incompetenti, cioè, sono tutti incompetenti. E dicono che è il miglior

laboratorio di Roma.

- Maria Teresa, aspetta, li abbiamo già chiamati noi, ci mandano tutto, non

ti preoccupare.

Si ferma.

- Oggi? Mandano tutto oggi? Dico a Enzo di andare a prendere i ciak. Cosa

sono, cassette?

- Sì, sono cassette, ma non mandare Enzo, non sono pronti per oggi, ci

vorranno un paio di giorni.

- Un paio di giorni? Ma scherziamo, cioè? Io qui devo finire un film! Ora

mi sentono. Con tutto quello che ho fatto per loro, questo è il ringraziamento!

Gianni è paralizzato.

- In che senso?

Ci guarda, il cellulare in mano.

- È grazie a me che hanno aperto lo stabilimento nuovo!

- Cioè? Li hai aiutati con le pratiche?

- Ma che dici! Gli ho fatto da madrina all’inaugurazione!

Compone il numero:

- Ora mi sentono, cioè. Di chi devo chiedere?

- Davvero, lascia stare….

Troppo tardi.

- Pronto? Sono Maria Teresa Cameretta, vorrei parlare con il direttore.

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Va nell’altra stanza, la sentiamo urlare. Chino la testa, non ho il coraggio di

guardare Gianni.

Quando torna ha il sorriso della vittoria.

- Bene, Enzo sta andando. Ci danno la prima cassetta tra un’ora. Visto,

come si fa? Questo me l’ha insegnato De Gaudentiis.

La prima cassetta contiene in verità solo un paio di ciak, e non quelli del

treno. Ma alla Cameretta non diciamo niente.

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XII

La Cameretta sta lavorando a questo film da dieci anni ormai. Dieci lunghi

e faticosi anni. Dieci anni passati a scrivere, a cercare i finanziamenti, a mettere

insieme la troupe, i migliori capi reparto del cinema italiano, attori conosciuti in

tutto il mondo. La sua delusione, ci dice Barbara, è profondissima, perché è un

progetto cui tiene molto.

Barbara è la sorella minore della Cameretta. Alta la metà, impacciata e

timida, prima di parlare emette un suono simile a una risatina soffocata. Ha

provato a fare la cantante, la scrittrice, forse anche l’attrice. Ora fa la sorella

della Cameretta. Vive nello stesso palazzo. Ha scritto il film. Viene invitata alle

trasmissioni televisive del pomeriggio, per parlare della sorella maggiore.

- Piacere, Barbara.

Si siede accanto a noi.

- Mh, ho pensato che posso stare qui con voi, magari avete bisogno di una

mano.

- Di che tipo?, le chiedo.

- Mh, non so, sono la sceneggiatrice, magari c’è qualcosa che non capite.

- Ti ringrazio, ma ce la caviamo.

Si liscia i lunghi capelli neri.

- Mh, okay, allora se non vi do fastidio resto a vedere come lavorate, mi

interessa molto il montaggio.

Che le dovrei rispondere?

- Resta pure, se vuoi.

Non ce la togliamo più di torno. Tutte le mattine arriva, si siede accanto a

noi e dopo pochi minuti di silenzio passati a lisciarsi i capelli, inizia a parlare:

- Mh, non sapete quanto ha sofferto Maria Teresa per questo film. Tutti si

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sono approfittati di lei, tutti, perché lei è buona e sensibile. Ma io la ammiro

tanto. Mh, è coraggiosa, e poi è brava. E poi ha una figlia bellissima e molto

intelligente. Mh, con la figlia ha un rapporto bellissimo, non ho mai visto una

madre così.

Quando parla non ti guarda negli occhi, fissa un punto in alto a sinistra.

La immagino sdraiata nella sua cameretta, mentre disegna sul diario dei

cuori attorno a una foto di Ralph Macchio.

Quando torniamo dal pranzo la troviamo in postazione, pronta a parlare di

Maria Teresa. Ogni tanto il discorso si sposta sul film:

- Mh, scusa, non vorrei dire, ma…

- Dimmi.

- Mh, non potresti far vedere un po’ di più Maria Teresa?

- In che senso?

- Mh, dopo che quello ha parlato, non potresti mettere un po’ di Maria

Teresa?

- Guarda: no, non c’entra niente.

- Mh, ah, okay, era per dire.

E dopo un po’:

- Mh, scusa, ma non ce n’è un’altra dove Maria Teresa è meno spettinata?

- In questa scena è spettinata.

- Sì, okay, ma una che è meno spettinata?

- Ho già guardato, non c’è.

- Ah, okay.

Mi sto spazientendo.

- Mh, scusa, eh, ma qui non puoi fare così: sembra che c’è un sacco di

gente, ma quando l’hanno girata non c’era nessuno.

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- Lo so, l’ho fatto apposta, ci dovrebbe essere una folla e invece ci sono

quattro gatti. Così almeno non si vede.

- Mh, okay, però non puoi fare finta che c’era tutta quella gente.

- Ora la lascio così, poi vediamo.

“Il montaggio”, ovvero: una nazione di commissari tecnici.

Quando viene la Cameretta, nelle pause del film dei Branzini, la situazione

non cambia, anzi: si danno manforte.

- Cioè, scusa, ma non mi puoi mettere un po’ di più? In questa scena ci

sono proprio poco.

- No, non posso ‘metterti di più’.

- Ma prova!

Provo. Aggiungo un primo piano brevissimo, subliminale. Fa schifo.

- Vedi? Cioè, molto meglio. Tu che dici, Barbare’?

- Mh, sì, molto meglio, adesso sì che si capisce!

Un giorno Renato Meri passa dall’ufficio. Sto lavorando, sento la sua voce

dalla stanza accanto. È al telefono, quando mi vede lascia cadere la cornetta e la

mascella. Lo saluto, mi guarda come se fossi un fantasma.

- E che cazzo ce stai a ffa’ tu qua?

- Sto montando.

- E che cazzo monti?

- Il film.

- E che cazzo vor ddi’?

- Eh, monto il film.

- Perché, quello de Dolores nun andava?

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99

- Non te l’hanno detto? Non andava, allora Maria Teresa mi ha richiamato.

Si innervosisce.

- Nessuno m’ha detto un cazzo, a me.

- Mi dispiace.

- E da quant’è che staresti qua?

- Mah, ormai saranno quattro o cinque settimane.

- E chi ‘o firma, ‘sto film?

- Direi io, se lo finisco lo firmo io. Già che ci sei ti dovrei chiedere alcune

cose sugli effetti speciali e sul missaggio.

- Ahò, ‘a coso, nun me devi chiede’ gnente, a me! Io nun ne vojio sape’ ‘n

cazzo. Mò me ne vado, e nun me chiamate più.

Esce. Sorrido.

Qualche volta la Cameretta chiama a raccolta Telma e Selma: bisogna

parlare delle riprese aggiuntive. Io cerco di farla desistere, spero di trovare

un’alleata tra le due “donne di produzione”. Ma inutilmente.

Guardano alcune scene, le più complesse, e commentano:

- E che ci vuole? Qua chiamiamo Marco e in due ore ti fa tutto, gli dici

come la vuoi ed è fatta.

- Scusate, mi intrometto, si può sapere chi è Marco? Giusto per farmi

un’idea, non vorrei che sprecate soldi e poi viene uno schifo.

- Ma che schifo, cioè, peggio di così.

Su questo non c’è dubbio.

- Ascolta, Maria Teresa, insisto guardando Telma e Selma (per non

sbagliare le guardo entrambe). - Sono scene complesse, è un film in costume, le

location dove le trovi? Devi tornare nei posti…. E poi hai scelto Stocasto, non un

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direttore della fotografia qualunque, non è facile fare una fotografia come la sua.

- E questo è il problema! Allora, tu non ti preoccupare, tu scrivimi su un

foglietto le scene che ti ho detto, al resto ci penso io. Una la faccio qui, una a

casa mia, una di là.

- Di là? Ma questo dovrebbe essere un caffè liberty, quella è la stanza di

una villa secentesca….

Guardo Telma e Selma, ma non colgono. Anzi:

- Tu non ti preoccupare, ci pensiamo noi, dice una delle due. - Due cose di

scenografia ed è fatta.

Ci pensano loro. E io penso alla puttanata che verrà fuori.

Quando c’è la Cameretta, c’è anche Enzo, il suo bodyguard. Si mette nella

stanza accanto alla nostra, e passa tutto il tempo urlando al telefono con la sua

fastidiosa erre moscia che passa attraverso le enormi narici.

Ogni tanto viene a trovarci.

- Allora, come va?

Un piccolo ruolo nel film è stato dato a sua figlia. Solo un paio di battute,

per fortuna. Non è per tutti, la recitazione.

- Allora, famola vede’, ‘sta ragazza. Che fai, nun la monti?

- La monto, la monto.

- E falla vede’ de ppiù. Perché la tagli lì? E tienila ancora un po’!

È un venerdì d’agosto, la città inizia ad essere calda, io ho deciso di partire

per il fine settimana, vado da qualche parte in cui si riesca a respirare un po’.

Esco a fumare con Gianni. In cortile incontriamo Enzo, sta mettendo

alcune valigie in macchina.

- Parti?, gli chiedo.

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- Parte Maria Teresa, va al mare. Ma pure io vado con la mia famiglia.

- Ah, bravi, anche io mi sa che vado sabato e domenica da qualche parte.

Mi guarda come se avessi bestemmiato in chiesa durante un battesimo.

- Ma che stai a ddi’? Parti? Nun lavori, domani e dopodomani?

- Veramente domani è sabato.

- E ‘nnamo, su, finiscilo ‘sto film. Lo dico ppe’ te, è un’occasione, nun

sprecalla.

Mentre lavoriamo con la Cameretta, Enzo sovente viene ad avvertirla di

sbrigarsi: devono partire.

- Mariatere’, l’aereo nun aspetta.

- Enzo, arrivo subito.

E poi aggiunge, alzando la voce:

- Ma poi, scusa, cioè, quello è un aereo privato, parte quando lo dico io.

- Ma che privato e privato, Mariatere’, è ‘n charter.

Lei è contrariata:

- Vabbè, tanto storie non ce ne fanno, cioè, io ho il passaporto diplomatico!

Gianni mi guarda, l’espressione a punto esclamativo.

Arriva metà agosto, stiamo per andare tutti in vacanza. Gianni è già

partito, due giorni prima di me, tanto al momento non c’è molto lavoro per lui.

Un pomeriggio Maria Teresa mi chiama da parte, mi fa sedere di nuovo al

tavolo da riunioni del primo giorno.

- Allora, cioè, praticamente noi andiamo in vacanza dal 14 al 31 agosto,

quindi ora chiamo la società che ci ha affittato l’Avid e glielo restituisco.

- Come sarebbe? Non puoi farlo.

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- E perché?

- Bè, quando uno prende un Avid lo prende, non è che poi lo restituisce e

poi lo riprende.

Si infastidisce.

- Cioè, ma secondo te io dovrei pagare per i giorni che non lo uso, non ho

capito? Voglio vedere se a De Gaudentiis gli fanno pagare un Avid se non lo usa.

Ora li chiamo e gli dico di venirselo a prendere domani.

- No, senti, è pure il 10 agosto, quelli saranno chiusi!

- E vabbè, è un problema loro, mica mio. Non posso pagare per questi

giorni, cioè, già non ci sono soldi. Qua se ne approfittano tutti.

Non so proprio cosa rispondere.

- Tra l’altro, continua, il tuo assistente, Gianni, deve restare ancora molto?

Mi avevi detto che ti serviva cioè solo per fare il tabellone.

- Per fare il tabellone? E c’è bisogno di un assistente per fare il tabellone?

- Tu mi hai detto così. No, perché a me cioè mi sembra che non c’è più

bisogno di lui.

- Guarda, innanzitutto gli accordi erano accordi, e ci eravamo accordati per

un assistente. E poi ora il film è quasi finito, e bisogna far partire le altre

lavorazioni, e solo l’assistente può farlo.

- Non so che dirti, io soldi non ne ho più. Ne parliamo al ritorno dalle

vacanze.

- E va bene, ma ti dico che senza assistente questo film non lo finisci.

Ci salutiamo, io aggiungo che tornerò dalle vacanze non il 31 agosto, ma il

giorno dopo, il primo settembre. Torno in ufficio. Devo avere un’espressione

davvero furiosa, perché subito Barbara mi chiede:

- Mh, tutto bene?

- Più o meno.

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- È successo qualcosa?

- Guarda, niente di grave, ma Maria Teresa sta facendo dei grossi errori.

- Mh, ma devi avere pazienza, non sai quanto ha sofferto, per questo film.

Tutti si approfittano di lei, e lei è così disponibile e gentile con tutti….

- Sarà, ma se licenzia il mio assistente me ne vado anche io.

- Devi avere pazienza. Mh, e poi se ti ha detto così avrà i suoi motivi: non

sai quanto ha sofferto.

- Ascolta, Barbara: avrà pure sofferto, ma se fa così ‘sto film non lo finisce.

Non risponde. Mi rimetto a lavorare.

Vengo a sapere che scrive un’email a quelli che ci hanno affittato l’Avid.

Nell’email si legge: “come da accordi presi, ricordiamo che il montaggio è

sospeso dal giorno tale al giorno tale, si prega quindi di venire a ritirare il

computer, che ci sarà restituito il giorno talaltro. In caso di mancato ritiro, se la

macchina dovesse restare in ufficio durante il periodo di chiusura, la nostra

produzione non si assume alcuna responsabilità in caso di furto o

danneggiamento…”. La ditta è già chiusa, ma rispondono comunque con

un’email: gli accordi non erano questi, ormai non c’è nessuno che possa venire a

ritirare la macchina, se il computer dovesse subire danni o furti, la produzione

verrà ritenuta responsabile eccetera.

Mi chiama la Cameretta:

- Questi sono proprio dei cafoni! Hai letto l’email che mi hanno scritto?

- No, ma al di là di quello che possono aver scritto, devo dirti che hanno

ragione ad essersi incazzati.

- Ragione? Voglio vedere se a De Gaudentiis provano a rispondere in

questo modo!

L’ultimo giorno sono da solo in ufficio. A fine giornata spengo tutto, faccio

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la solita copia dei dati per sicurezza e vado via. Prima di uscire mi volto a

guardare la stanza: ho una strana sensazione, non sono sicuro che a settembre

tornerò a lavorare.

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XIII

Torno in ufficio il primo di settembre.

Tutti sono già in piena attività. Accendo il computer e inizio a lavorare,

guardo alcune scene che ho montato poche settimane fa, inizio a pensare alle

successive. Più tardi mi alzo e vado da Enzo:

- Puoi dire a Maria Teresa che io sono qui, se viene in ufficio capiamo come

continuare?

- Maria Teresa è a Venezia, al Festival.

Il Festival comincia tra qualche giorno. Sarà andata prima per qualche

motivo.

- E sai quando torna?

- Non ne ho idea.

- Ed è andata da sola? Tu resti qui?

- No, io vado poi.

Non capisco. Esco a fumare.

Nel cortile è parcheggiato un SUV nero. La portiera posteriore è aperta,

seduto al volante c’è uno che non ho mai visto. Mentre sto accendendo la

sigaretta sento un rumore dietro di me, mi volto. È la Cameretta, sta uscendo

dal portone.

Mi vede, si immobilizza per un istante. Sembra un po’ imbarazzata.

- Mi hanno detto che eri a Venezia!

- Eh, sì, ci sto andando.

Evita il mio sguardo, si affretta verso l’auto. L’autista scende, prende in

consegna le borse, la fa accomodare. Parliamo attraverso il finestrino.

- E come stai?

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- Bene. Ieri non sei venuto, cioè pensavo che avevi deciso di

abbandonarmi.

L’autista sistema le borse nel bagagliaio.

- Veramente ti avevo avvertito che sarei tornato oggi dalle vacanze.

- A me non ha detto niente nessuno.

- Strano. Vabbè, comunque ora sono qui.

- Senti, io domani ho una riunione di post-produzione. Vai a casa, ti

chiamo dopo la riunione, cioè così decidiamo che fare.

L’autista risale in macchina, chiude la portiera, accende il motore.

- Come sarebbe ‘una riunione di post-produzione’? E non mi dici niente?

- Cioè, te lo sto dicendo. Dobbiamo decidere i tempi e come fare eccetera.

- I tempi? Come fare? Guarda che sono io il montatore, dovrei esserci

anche io.

- Non ti preoccupare, poi ti faccio sapere.

- Mi fai sapere? Ma che dici?

- Non preoccuparti, tu vai.

- Scusa, ma….

Fa un cenno all’autista. Partono. Io resto con un pugno di mosche.

Rientro in ufficio, spengo il computer e vado via. Me l’avesse detto prima

sarei rimasto al mare.

Il giorno dopo mi chiama. O meglio, quando squilla il mio cellulare

compare il numero della Cameretta, ma dall’altra parte c’è il responsabile di

post-produzione.

- Ciao, senti, dov’è che trovo qui sul computer le scene montate?

Non ci posso credere.

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- Prego?

- Le scene che hai montato, dove le trovo?

- Le trovi sul computer, rispondo.

- Sì, ho capito, ma io Avid non lo so usare, e dovrei vedere quali sono le

scene da effettare.

- Non so che dirti. A questa riunione dovrei esserci anche io, ma non sono

stato invitato, dunque arrangiati.

- Non so cosa intendi, comunque se mi puoi solo dire dove trovo le scene

montate mi fai un favore, io qui sono un po’ in difficoltà.

- Guarda, stanno in una cartella chiamata “Scene Montate”. Ciao.

Sono furioso. Comincio a passeggiare avanti e indietro per la casa.

Aspetto inutilmente una telefonata, che non arriva. Aspetto, aspetto.

Niente.

È sera. Io non telefono. Avrebbe dovuto chiamarmi lei.

Aspetto.

Passa un giorno, due, tre, il fine settimana.

Lunedì mattina decido di scrivere un’email:

“Gentili Signori,

Mi ha sorpreso il fatto che alla riunione tenutasi mercoledì scorso tra la

produzione e il coordinatore di post-produzione, nessun membro del reparto

montaggio sia stato invitato….”

Scrivo che sono stufo di avere a che fare con persone che non sanno fare il

proprio mestiere, scrivo che abbandono il film, e che grazie alla loro ottusità non

possono farmi nulla: non mi hanno fatto firmare un contratto regolare, dunque

sono libero.

Invio l’email, e aspetto lo scoppio della bomba.

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Ma la bomba non scoppia, o almeno non come vorrei.

Sono le 9.00 del mattino quando premo il tasto “invia”: confido nel fatto

che, aprendo l’ufficio alle 10, la mia email sarà la prima notizia che riceveranno,

tanto per iniziare bene la giornata.

Dopo solo 15 minuti mi squilla il telefono: è un numero che non conosco.

- Ciao, sono Mauro Penassi, il nuovo montathore del filme, mi dice quello,

con un orrido accento toscano.

- Non ho capito, scusa, di che film?

- Del filme della ‘ameretta, m’ha chiamatho e m’ha chiesto una mano a

finire il filme.

- Ma quando ti avrebbe chiamato?

- Senti, mi spiegheresti ‘ome hai sistemato il prosgetto, ‘osì non perdo

troppo tempo a scercare le ‘ose?

- Che ti dovrei spiegare? Ma scusa: quando ti ha chiamato?

- Qui dovrei finire questo filme, se mi vieni inconthro mi eviti di mettermi

a scercare le ‘ose…

- Ma da quando in qua sei il montatore?

- Mi serve solo ‘he mi spieghi ‘ome hai organizzatho il prosgetto.

- Ascoltami bene, io non ti conosco, ho scritto una email dieci minuti fa, e

non mi hanno ancora risposto…

- Sì, ma guarda, la ‘ameretta m’ha parlatho bene di te, non so quali

problemi avete avutho, ma vedrai ‘he si risolvono. Ora, noi siamo ‘olleghi,

sarebbe ‘arino organizzare un passaggio di consegne facile per chi subentra, è la

norma.

- Se sei un montatore sai come funziona un Avid. E se sai come funziona

un Avid sai dove trovare quello che ti serve.

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Chi cazzo è questo, adesso? Cerco informazioni su internet. Le trovo

subito: ha un sito personale. Il suo breve curriculum contiene solo film orrendi,

la sua pagina di presentazione è piena di parole inglesi come skill e step,

dichiara varie volte di essere stato il primo a fare questo e il primo a fare

quest’altro. Inoltre, è il più esperto del mondo in questo e in quell’altro. C’è

anche una foto: è abbronzato e in posa davanti a un porto, o comunque al mare.

Mi richiama. Mi dice di non riuscire a trovare le cose che io ho montato, la

‘ameretta ne ha bisogno, vuole vedere quella scena del bosco, e lui non sa dove

cercarla.

- Vedi, lo so ‘he avete avutho problemi, e so ‘he sei sgiovane, ma sai, tra noi

‘olleghi sci si dà una mano, suvvìa!

Gli ripeto che se è un montatore dovrebbe sapere dove guardare. Quindi

spengo il cellulare, la giornata è durata pure troppo.

Lo riaccendo qualche ora dopo, sono tanto curioso di sapere se ci sono

evoluzioni nella emozionante vicenda. E ce ne sono.

Una serie di messaggi di chiamate perse, tutte provenienti dall’ufficio della

‘ameretta. E poi due o tre sms, che più o meno suonano così:

- Abbiamo urgente bisogno di parlarti, richiamaci. Telma

- Per favore, abbiamo un problema, richiamaci. Telma.

E poi:

- Ti stai comportando da persona immatura. Se non ci restituisci ciò che

hai portato via, saremo costretti a prendere provvedimenti legali. Telma.

A questo punto telefono, e mi risponde proprio Telma.

- Cos’è che avrei portato via?

- Oh, ciao! No, è che non si trovano più alcune scene che tu hai montato, e

Mauro dice che le hai cancellate.

- Cancellate? Ma che cazzo ne sa questo Mauro, io non lo conosco. Stanno

tutte là.

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- Se stanno qui perché non vieni a farle vedere a Mauro?

- Perché dovrei?

- Per correttezza.

- Nei confronti di chi?

- Di Maria Teresa.

- E perché? Lei che ha fatto per me? Mi ha licenziato senza nemmeno

dirmelo.

- Veramente hai scritto tu un’email. Ma lasciamo perdere, non sai quanto

ha sofferto…

- Ha sofferto? Mi doveva chiamare, ho aspettato per quattro giorni una sua

telefonata!

- Fallo per Luigi, è un favore personale verso di lui, è lui che te lo chiede.

- E chi cazzo è Luigi?

- È il marito di Maria Teresa, fallo per lui, non sai quanto gli dispiace che te

ne sei andato!

- Luigi? E chi se ne frega, non lo conosco nemmeno. E poi perché Maria

Teresa non mi ha più chiamato?

- Guarda, io non so cosa è successo. Ora, lo fai questo favore a Mauro?

- Mauro è un montatore, sa cosa fare. E poi perché dovrei? Il montatore

sono ancora io, nessuno ha risposto alla mia email.

- Ascolta, sappiamo quanto ci tieni a questo film, lo vuoi vedere finito, no?

Facci questo favore!

- Ascolta tu, io ora non posso muovermi, ma quello che ho montato sta lì.

Non ho ancora capito cosa stia succedendo, non ho capito che ci faccia questo

Mauro al posto mio.

- Non so che cosa sia successo tra te e la Cameretta, ma vedrai che si

risolverà tutto. Posso farti chiamare da Mauro?

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- Neanche io so cosa sia successo, e vorrei saperlo.

- Posso farti chiamare da Mauro?

E fammi chiamare da Mauro.

- Sono Mauro.

- Eh.

- Allora vieni qui, ‘osì mi fai vedere ‘ome hai organizzatho il prosgetto?

- Ho visto sul tuo sito che sei pieno di patentini nazionali, internazionali e

interstellari di Avid. Complimenti.

- Eh, grazie, sai, sono il più grande esperto italiano di Avid, l’uniho

rihonosciutho dall’Avid Ameriha.

- E bravo. E allora sai dove cercare, senza che mi fai venire fin lì.

Silenzio. Poi:

- Nooo, ma tu non sai ‘ontro chi ti stai mettendo, tu non sai ‘osa stai

‘ombinando. Questa è sgente potente, hanno i migliori avvohati, ti portano via

tutto quello ‘he possiedi.

- Non ho capito, scusa, che intendi?, non credo a ciò che sento.

- Nooo, lascia ‘he ti dia dei consigli, da ‘ollega a ‘ollega. Io non so se sei

ricco, ma spero ‘he tu non possiedi nulla, ‘he la tua famiglia non possiede nulla,

né una ‘asa, né una macchina, perché ti portano via tutto. A me non interessa se

tu e la ‘ameretta avete avuto dei problemi, vedrai ‘he si risolvono, ma qui

parliamo della tua salute.

- Ma che cazzo dici!

- Nooo, mi devi ascoltare, ti dico questo da amiho, da ‘ollega, perché lo so

‘he sei sgiovane, ma perché ti ‘omporti ‘osì, vuoi perdere tutto, eh, vuoi perdere

tutto? Perché se vuoi perdere tutto sei sulla buona strada. Restituisci quello ‘he

hai rubato. È meglio, se non vuoi perdere tutto. Vedi, purtroppo per te, io sono

uno dei maggiori esperti di Avid al mondo, e quindi non mi puoi fregare: mi

sono accorto che mancano alcuni file, li devi restituire.

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- Restituire? Ma che cazzo stai dicendo?

- Qui manhano le sequenze montate, quindi le devi aver prese tu. Se non le

restituisci, finisci in grossi guai.

- COSA!? Ascoltami, grande esperto di Avid, io ho una copia del progetto,

una copia di backup, che faccio sempre come fanno tutti, per evitare di perdere i

dati. E basta, non ho più niente.

- Vedi, eh? Tu hai una copia del progetto, quindi hai portato via qualcosa.

- È UNA COPIA DI BACKUP!

- Nooo, ma tu la devi restituire.

- Restituire? Mica è un oggetto!

- Nooo, ma tu l’hai portatha via, l’hai rubata. La devi restituire.

- Rubata? Ma lo capisci che cazzo stai dicendo? Io mò la cancello.

- Nooo, non la puoi cancellare, perché se la cancelli io ormai so ‘he sce

l’avevi. Tu non sai di ‘osa sono ‘apaci, ti stai mettendo ‘ontro le persone

sbagliate.

A questo punto urlo. Urlo con tutto il fiato che ho, stringo il telefono con

rabbia e urlo. Gli urlo che è un mafioso del cazzo, che non si deve permettere di

dirmi certe cose, che il suo atteggiamento da boss dei miei coglioni lo può fare al

bar con gli amici, non con me. Lui mi interrompe con quella sua vocetta del

cazzo:

- Nooo, ma io lo dico per te.

Urlo, lo ricopro di insulti. E gli dico che se vuole, vado da lui, nel suo

ufficio, così queste cose me le può ripetere in faccia. Ho intenzione di andare lì e

spaccargliela, la faccia.

Faccio qualche telefonata, mi informo. Scopro che il nostro Mauro

principalmente affitta Avid. Nella sua vita ha montato ben poco. Affitta Avid e

ha una piccola scuola di montaggio. Dunque la sua tecnica è quella di proporsi

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alle produzioni come montatore, e non far pagare né l’affitto della macchina né

lo stipendio dell’assistente, perché usa suoi studenti in qualità di “stagisti”.

Alcune produzioni, dunque, accettano perché si trovano così a poter risparmiare

notevolmente sul budget del film.

Una segretaria mi porta nella sua stanza. Eccolo lì, Mauro Penassi, quello

che crede di essere don Vito. Espressione da scemo, secco secco, vestito,

pettinato e abbronzato come Costantino. La sua faccia non mi è nuova, però.

- Allora, che cazzo devi dirmi?

- Oh, ciao, è un piacere.

Mi tende la mano, non la stringo.

- Piacere un cazzo. Cos’è che avrei rubato?

- Nooo, ma io lo so ‘ome vanno scerte ‘ose. Siamo ‘olleghi, dobbiamo

aiutarci.

- Che cazzo ti serve?

Guardo il computer, il progetto del film è aperto.

- Non trovo le sequenze che hai montatho.

Guardo il monitor. Allungo un dito, punto una cartella.

- Lì, vedi che c’è scritto? “Sequenze montate”. È tutto lì.

- Ecco, ci voleva tanto?

- Ci voleva tanto? Non sai leggere, tu?

- Noo, ma vedi, tra ‘olleghi sci si aiuta. Tu sei sgiovane, scerte ‘ose anhora

non le sai, ma è ‘osì ‘he si fa.

- E cioè? Si ruba il lavoro agli altri?

- Ma ‘he rubare? Io Maria Teresa la ‘onosco da tanti anni, siamo amisci. Mi

ha chiesto una mano a finire il film, lo faccio volentieri.

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- E certo, non ho dubbi.

- E poi mi ha parlato bene di te. Mi ha detto ‘he sei un ragazzo in gamba.

Vedrai ‘he si risolve tutto. Non so perché ti sei arrabbiato con lei.

- Arrabbiato? Io?

Lo guardo. Ha un sorriso del cazzo stampato su quella sua faccetta

abbronzata del cazzo. Vorrei afferrare un monitor e spaccarglielo in testa.

Poi mi viene in mente dove l’ho già visto: a una riunione di montatori.

Aveva preso la parola facendo un lungo e disarticolato discorso sul fatto che il

montaggio è troppo chiuso all’ingresso dei giovani, che bisogna aiutare in ogni

modo chi si accosta a questa professione, e si scontra contro un “baronato” che

pur esiste.

Mi guarda con quel sorrisetto del cazzo.

Esco sbattendo la porta.

Cerco un autobus.

Arriva.

Mentre timbro il biglietto compongo un numero di telefono sul mio

cellulare.

- Pronto?

- Sono io. Posso venire a trovarti?

- Certo. Oggettivamente sono a casa, non sto facendo niente che non possa

aspettare.

- Tra mezz’ora sono da te.

FINE

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