vol ix problemi spirituali del nostro tempo (1945)

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P R O B L E M I S P I R I T U A L I

D E L NOSTRO TEMPO

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O P E R A O M N I A D I

L U I G I S T U R Z O

P R I M A S E R I E

O P E R E

VOLUME I X

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L U I G I S T U R Z O

PROBLEMI SPIRITUALI DEL NOSTRO TEMPO

PRIMA EDIZIONE ITALIàiiA RIVEDUTA

NICOLA ZANICHELLI EDITORE

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L' EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI

ESERCITERA I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI

Bologna - Coop. Tip. Mareggiani XII-1961

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PIANO DELL'OPERA OMNIA DI LUIGI STURZO PUBBLICATA A CURA DELL' ISTITUTO LUIGI STURZO

PRIMA SERIE: OPERE

I - L'Italia e il fascismo (1926). I1 - La comunità internazionale e i l diritto di guerra (1928). I11 - La Società: sua natura e leggi (1935). IV - Politica e morale (1936). - Coscienza e politica. - Note e

suggerimenti d i politica pratica (1952). V-VI - Chiesa e Stato (1939). VI1 - La Vera vita - Sociologia del soprannaturale (1943). VI11 - L'Italia e l'ordine internazionale (1944). IX - Problemi spirituali del nostro tempo (1945). X - Nazionalismo e internazionalismo (1946). XI - La Regione nella Nazione (1949). XII - Del metodo sociologico (1950). - Studi e polemiche di socio.

logia (1940-1950).

SECONDA SERIE: SAGGI - DISCORSI - ARTICOLI

I - L'inizio della Democrazia in Italia. - Unioni professionali. - Sintesi sociali (1900-1906).

I1 Autonomie municipali e problemi amministrativi (1902-1915). - Scritti e discorsi durante la prima guerra (1915-1918).

I11 . I1 partito popolare italiano: Dall'idea al fatto (1919). - Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922).

IV - n partito popolare italiano: Popolarismo e fascismo (1924). V - il partito popolare italiano: Pensiero antifascista (1924-1925). -

La Libertà in Italia (1925). - Scritti critici e bibliografici (1923. 1926).

VI - Miscellanea londinese (1926-1940). VI1 - Misreìlanea americana (1940-1945). VI11 - La mia battaglia da New York (1943-1946). IX-XIII - Politica d i questi anni. - Consensi e critiche (1946-1956).

TERZA SERIE: SCRITTI VARI

I - Il ciclo della creazione (poema drammatico in quattro azioni). Versi. - Scritti d i letteratura e di arte.

I1 - Scritti religiosi e morali. I11 - Scritti giuridici. IV - Epistolario scelto. V - Bibliografia. - Indici.

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AVVERTENZA

Nel 1945 Sturzo pubblicava negli Stati Uniti una raccolta di saggi dal titolo Spiritual problems of our times. Nella prefazione - qui di seguito riprodotta - egli faceva un po' la storia del volume, ricordando gli spunti e le occasioni che erano stati all'origine d i alcuni capitoli.

Così il primo saggio, « I1 presente n, è una risposta polemica ai denigratori dei tempi attuali nei confronti del medioevo con- siderato età d'oro del cristianesimo. I1 secondo, « L'interiore moralità dell'arte », è nato come risposta ad un artista amico dell'A., che sosteneva la nota tesi dell'amoralità dell'arte.

«. I1 problema della conoscenza e l'intuizione di Dio », terzo capitolo del volume, è frutto di uno scambio d i lettere fra Luigi e Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina, e di conversazioni sullo stesso argomento con il dr. Angelo Crespi di Londra.

I1 quarto capitolo, « I1 problema dell'Assoluto », è lo svi- luppo di una interessante discussione svoltasi in occasione del congresso filosofico tenutosi ad Oxford nel 1930, e alla quale '

avevano preso parte, oltre Sturzo, un filosofo cattolico polacco, Léon Brunschvig, Guido De Ruggiero e altri.

Infine i l capitolo dodicesimo, « Il sacrificio cristiano e la pace sulla terra », è una comunicazione fatta alla settimana liturgica di Chicago nel 1943.

Altri capitoli sono derivati da articoli già apparsi su varie riviste statunitensi, come ad esempio l'ottavo, (C La vita spirituale dell'uomo comune », pubblicato sul n. 5, 1944 di Mount Carmel, e i l nono, « La lettura del Nuovo Testamento n, apparso sul n. 3-4, 1945, della stessa rivista.

Anche l'undecimo, « L'apostolato laico », è derivato dal saggio ' Lay saints in modern Italy » apparso sul numero di settembre

1943 di The Catholic World.

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Come singoli saggi e come libro unitario, Problemi spirituali del nostro tempo era però apparso finora soltanto in inglese. La presente edizione si basa sul dattiloscritto italiano conservato nell'archivio Luigi Sturzo. Di esso alcuni capitoli, e precisa- mente i l primo, l'ottavo, l'undecimo (parzialmente) e il dodi- cesimo, erano già stati rivisti da Sturzo fra il 1957 e 1958. Per la revisione del resto, ci si è attenuti all'edizione inglese, indicata da Sturzo stesso come testo base; sono stati conservati però alcuni passi riguardanti l'Italia, nonchè un paragrafo del quarto capitolo, assoluto e creazione D, mancanti nel testo inglese.

Nel17appendice sono stati raccolti articoli a carattere spiri- tuale scritti da Sturzo fra i l 1945 e il 1959. Gli articoli dello stesso genere, di anni precedenti al 1945, sono già pubblicati in appendice all'edizione dell'opera Omnia del volume La vera vita.

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PREFACE (*)

This book is not a practical guide for faithful souls nor does i t cover al1 t h e spiritual problems of our times. Zt is rather a book o f experiemes. Through m y associations i n Ztaly and else- where during a period of more than fifty years of cultural, social and politica1 activity, w i th feruent believers, tepid believ- ers and unbelievers, w i th spiritual and worldly youth, w i th future saints such as G. Toniolo and V . Necchi, w i th pious women and women far from the faith, zuith laborers, peasants, artisarzs and business men , m y experience h ~ s been constantly enriched. .

Withou t any plan or initiative o n m y part, spiritual problems - --+- have emerged even during discussions of administrative or polit- ical problems. Some persons have laid bare their souls almost i n spite of themselves. First one, then another, has applied t o 7ne as a priest to find a cure for h idden sorrows or to redirect his steps along the path of the faith he had lost. My activity i n Ital- ian Catholic -4ction during the t ime of Leo XZZZ surrounded nte w i t h a n environment of faith, enthusiasm and sacrifice, to which I feel i t is m y d u t y to bear witness for the sake of those w h o , ignoring the past, a f i r m that Catholic Action is entirely new.

I avoided, i n this book, the character of memoirs, because I a m not free to make public the spiritual confidences of friends and adversaries. Z was attracted, however, to the use of dialogue so that I might be able to preserve in writing those conversations that have left t he deepest impress o n m y mind. But since I should even so have been obliged to omit or disguise many of

' m y recollections, and since I was unable to remember wi th pre- cision many of the events I have to record b y reason of the inter-

(a) Prefazione all'edizione inglese, New York, Longmans, Green and Co., 1945.

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vening lapse of t i m e , I thought it preferabk to dea1 w i t h these problems as i study. Y e t everything contained in this short book refers to facts or conversations that actually took place.

Even t h e fìrst four chapters, though writ ten in quite a tlteo- retical manner, have a history. T h e fìrst was written after a l ively discussion as a challenge to those who, despising t h e present and despairing of t h e trends of modern society, regard t h e middle ages as t h e golden era of Christianity. T h e second as a n answer t o a friend of mine , a very intelligent artist, who sustained that art is not mora1 nor immoral. T h e third is fruit of a n exchan- ge of letters between myself and m y brother Mario, Bishop of Piazza Armerina (*) and of nty conversations. w i th Dr. Angelo Crespi of London o n the problem of whether m a n can arrive at t h e intuit ion of God. T h e fourth is the result of three l ively debates that took place at t h e philosophical congress held at Oxford in 1930. At a reception given at Magdalen College t o those attending t h e congress, a catholic Polish philosopher (whosa exact nume escapes m e ) gathered us around Benedetto Croce. Later, t h e French writer Léon Brunschvig, Guido De Ruggiero, mrs. Beers and others also joined t h e group and we engaged in a discussion of t h e Absolute. T h e discussion continued that eve- ning in another of t h e colleges and again t h e next day, at wich t i m e so many took part that I was reminded of m y university l i fe in Rome. Later I felt that whereas i t was impossible for m e t o reconstruct that circle and attribute to each member t h e ideas he expressed, I could develop along t h e lines of that interesting debate t h e arguments Z put forward at that tinte.

Chapter XZZ, (C Christian Sacrifice and Peace o n Earth D, i s iormed from a contribution I made to t h e Chicago Liturgica1 W e e k i n 1943; although t h e paper was not read at the congress, it was published i n t h e Proceedings. Some of the other chapters are derived, w i th suitable modifìcations, from articles given t o various magazines and reviews i n the United States.

~ h e work is divided ilrto two parts: T h e Quest o f t h e T r u t h (chapters I-ZV) and The Quest o f t h e Good (chapters V-XZI).

(*) Who died in the Lord on November 13, 1941. (N.d.A.).

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Z accentuate the idea of « Quest » because al1 spiritual life is nothing but a search, the search for God who is Tru th and Goodness. « Seek ye the Lord, while He may be found: call upon Him, while He is near D, says Zsaias.

Z assume that m y reader is likely to be a believer, indeed a practising Christian, who will not need this book i n order to obtain a knowledge of God. Z f he happens to be one of those who do not know or who do not zuish to know God, this book is not suitable for h im, although it is true God might make use even of these pages to awaken i n such a reader the desire for the search t~f truth and faith.

But the Quest o f the truth aims to provoke reflection on the manner i n which we arrive at a knowledge of God. This know- ledge can be obtained either intuitively or else by discursive med- itation. Every Christian must bear witness not only to the ex- istence but also to the goodness, infinity and love of God. B y intuition or by meditation we must ever deepen our knowledge of God.

Some attach too much importance to the function of reason i n their attempts to persuade others of God's existence, and are surprised that unbelievers fai1 to be moved by the cogency of their arguments;. others, instead, minimize the egect of logica1 proof and emphasize the role of intuition. T o both we reply that sanctity of life is the most convincing evidence we have concern- ing the existence of 'God, His revelation and His mercy toward men. But rational proofs have their function too i n adding t o the sum of human knowledge about God. Saint Paul clearly afirms the inexcusability of failing to pay homage to the true God, whose existence even pagans can discover through obser- vation of created things. For since the creation of the world His invisible attributes are clearly seen - His everlasting power aiso and divinity -- being understood through the things that are nrade. And so they are without excuse » (Rom. 1,20).

On the other hand, the search for truth cannot stop at the simple ascertainment of the existence of God, as the search of good cannot stop at the beginning of spiritual life. W e go beyond, we wish to see Him, to love Him, to possess Him, and God's

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revealing promise assures us we shall see Him as He is. The vision of God (treated in the conclusion) is the end of our pilgrimage, because to al1 He has said what He said to Abraham: u Ego ero merces tua magna nimis D.

LUIGI STURZO Apri1 1, 1945. Easter Sunday.

XIV

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P A R T E I

LA RICERCA DELLA VERITA

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IL PRESENTE

Qualsiasi scrittore parli del presente, sia antico o moderno, ebraico o greco, orientale o occidentale, chiunque esso sia, ne parlerà male; s'intende del suo presente, di oggi o di cento o d i mille anni fa. L'elogio di qualsiasi scrittore va al suo passato, lauclator temporis acti se puero, come dice Orazio, ovvero ad un tempo anche più lontano, il cosidetto tempo primitivo, o secondo i punti di vista il medio evo o il rinascimento. Tutti poi, tranne i pessimisti di razza, mentre dicono male del presente e, si e no, lodano il passato, rivolgono tutte le loro speranze, non importa quali, all'avvenire. Però, quando questo avvenire di- verrà presente, e i l presente diverrà passato, allora, inver-tite le parti, al primo toccheranno le maledizioni come un presente molto cattivo, e al secondo una discreta parte di lodi come un passato che aveva del bene.

Questo diverso modo di apprezzare il presente, il passato e il futuro, secondo alcuni, risponde alla psicologia del dolore e del piacere; i l dolore è del presente, il piacere è del passato; l'avvenire partecipa dei due, ma si colorisce più della speranza del piacere che del timore del dolore, tranne che questo sia così imminente da divenire., per forza di immaginazione, quasi pre- sente. Ma anche i l piacere, se è imminente o presente, quando è intenso, diviene addirittura dolore e spasimo. Ciò rivelerebbe un lato della nostra psicologia, ma non tutta la psicologia della temporalità. I1 passato con i suoi ricordi coloriti come un bene goduto o come un male superato e l'avvenire con le sue speranze, cioè come un bene da godere o un male da superare, ci spingono all'azione per vincere gli ostacoli del presente, cioè al lavoro e allo sforzo (dolore), e così si crea in noi quella continuità per- sonale che è la nostra totalità presente.

1 - S ~ u s m - Problemi spirituali

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Che è mai il presente? sembra un attimo; ecco: non è più; e pure è, poichè quell'attimo di poco fa che con gli anni si per- de nell'abisso del passato, è quello stesso che si è risolto nel- l'attimo del presente e che continua a risolversi negli attimi successivi dell'avvenire. L'unico, il vero esistente è i l presente e questo non è altro che la risultante complessa e completa di tutto il passato.

Si suole distinguere del passato quello che sopravvive e quel- lo che muore, e si crede che la gran parte d i esso sia morto e solo una piccola parte sopravviva per un tempo più o meno lungo. Ma è difficile poter fare un reale inventario di quel che vive e d i quel che muore, talmente quel che forma il presente è legato ad una ben lunga continuità storica; sì che riandando fino ai più lontani secoli conosciuti, si trovano tracce indelebili della real- tà oggi viva e pulsante. A noi sembra che una gran parte del pas- sato sia morto per via del nostro modo d'intendere i l passato del- la nostra breve esperienza personale. Noi molto dimentichiamo o crediamo di aver dimenticato, perchè molto del nostro passato non è attuale alla nostra memoria. Pure i l passato è talmente

'

trasformato nel nostro presente ed è in noi attuale e a noi così intimo da non potersi distinguere da quel che noi siamo oggi;

La memoria è una facoltà selettiva e ritiene più vivamente, c all'uopo fa riemergere dall'oblio, quelle impressioni che rispon- dono o ai nostri presenti bisogni o al nostro modo attuale di sentire. Ma del passato non tutto quel che è in noi, riviviamo con la memoria; non sarebbe utile; basta che noi stessi abbiamo coscienza della nostra continuità, sì da potere riallacciare, ad ogni momento, i l nostro modo di intendere e di sentire d i oggi con quello del passato, e, pur col cambiamento di pensieri, sentimenti, abitudini, trovarci gli stessi ieri ed oggi.

Questa identità della persona nella continuità della sua vita è legata, più che alla memoria dettagliata dei casi della vita. stessa, alla continua risoluzione processuale del passato nel presente. * * *

Tale risoluzione non è solo alla base dell'identità dell'indi- viduo, ma informa anche la identità collettiva o sociologica. La

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nostra non è una vita isolata, strettamente individuale, è una vita associata. La nostra continuità individuale è intrinseca- mente sociale.

Appartiene alle abitudini analitiche della nostra cultura il distinguere l'individuo dalla società, e fare della società un'entità a parte, come se potessero darsi o un individuo fuori della so- cietà ovvero una società senza individui. La società non è altro che la stessa individualità concreta, perchè ogni individualità

t concreta è e non può essere che esistente in una pluralità di individui.

La realtà di questa vita sociale (o i l suo presente che è lo stesso) è il complesio di .adizioni, abitudini, idee, sentimenti, concretizzati nelle istituzioni pubbliche e private - famiglia. religione, nazione -, nella cultura, nelle arti, nella stessa vita economica e materiale. La coscienza di questa realtà processuale e vivente è la storia. Si dice che un popolo che non ha storia n m ha coscienza di sè. È vero; in quanto storia VUOI dire sforzo di vita collettiva, lotta per la formazione della propria esistenza, conquista e difesa della propria autonomia, prevalenza di forze morali e di cultura, movimento di progresso; quindi due cose in sintesi: realtà del passato nel presente e memoria attuale (presente) del passato. In sostanza: Coscienza del proprio essere e della propria continuità. La continuità » non è solamente in- dividuale, è collettiva; noi sentiamo di essere parte di un tutto, elemento vivente di una vita che oltrepassa la individuale, soli- dali e partecipi di una costruzione sviluppata in un passato, nel quale noi non eravamo, e che continuerà anche quando noi non saremo più.

Che è mai questa proiezione di noi stessi nel passato e nel- l'avvenire, di là dai limiti della nostra propria vita, come se una più forte volontà ci leghi a sè in un ritmo più vasto, e per la quale volontà noi ci sentiamo partecipi di una continuità che ci supera e ci assorbe? Noi sentiamo che quanto più si allarga la nostra conoscenza e si approfondiscono i nostri sentimenti, tanto più si arricchisce i l nostro essere di quel che, non nostro, nostro diviene; e la coscienza del nostro essere si trasforma in coscienza di solidarietà umana e di comunione spirituale. Questo forma in noi u n presente che si può ripetere nel nostro spirito

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in indefinito, come uno sforzo verso una continuità che non abbia termine.

Se noi potessimo racchiudere nell'attimo presente tutte le nostre conoscenze e tutti i nostri sentimenti, formatisi in noi stessi nel complesso morale culturale in cui siamo vissuti, nella solidarietà umana spirituale che è nella radice della nostra esi- stenza, nell'altezza della speculazione a cui sentiamo di poter arrivare, noi, per quanto limitati, godremmo di quell'attimo, cioè d i quel presente quasi come di un infinito.

I

Non è facile avere una concezioni dell'infinito. Per lo piii si confonde l'infinito con l'indefinito; e poichè si uniscono insieme le idee di infinito e di temporale, si pensa ad un infi- nito come un processo che non ha avuto principio e non avrà fine. Ma tale concezione è errata nei suoi termini; l'infinito non può essere un processo, sia pure senza principio e senza fine, perchè il suo presente sarebbe limitato e finito; si tratterebbe in tal caso di un susseguirsi indefinito di istanti limitati in se stessi. Ora la successione dei finiti può essere concepita indefini- tamente, secondo il nostro modo matematico. di misurare le unità successive, ma non sarà mai un vero infinito. Questo do- vrebbe essere tale in ogni istante, cioè l'infinito dovrebbe essere un presente senza limitazioni nè successioni, un atto senza potenzialità : il vero presente. ,

La confusione tra infinito e indefinito deriva dall'analisi astrattistica del concetto di infinito al di fuori della realtà che dà un valore concreto all'astrazione. Chi fa realmente tanto il temporale (successione), quanto l'eterno (infinito)? - La C;-

scienza dell'essere temporale apprende il tempo come successione, presente limitato che si attualizza in una serie ininterrotta di pre- senti continui e successivi; - la coscienza dell'essere infinito è l'infinito come coesistenza invariabile, sempre in atto, in unico presente senza limiti e quindi comprensivo di una totalità assoluta. Se non ci fosse iina coscienza infinita, non ci sarebbe l'infinito, come se non ci fosse una coscienza limitata e procesp siva non ci sarebbe il temporale.

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L'uno e l'altro è presente; ma l'infinito è un presente totale e

simultaneo, n e r a attualità; l'altro è un presente parziale suc- cessivo, mero processo. Se di questo processo nulla rimanesse del precedente nel conseguente, non sarebbe più vero processo, mancherebbe la continuità. Invece il precedente si risolve col conseguente, sì che i l presente è sempre arricchito del suo pas- sato, e quindi il passato può dirsi sia a suo modo nel presente, formando col presente una specie di simultaneità.

Non ci avviene qualche volta di essere così presi da un'im- pressione sensitiva ovvero da un'idea, da non sentire più scorrere il tempo così da crederci uni con l'oggetto sentito o Noi possiamo avere in tale stato una immagine della eternità. Si tratta solo di immagine, perchè i l processo non cessa nè è per noi sospeso, benchè per noi quel tempo trascorso, lungo o breve, sia stato 1' attimo del presente quasi prolungato per es- sere intensamente e unicamente goduto.

Nel prevalere della teoria determinista il processo storico è sta- to concepito come una ferrea concatenazione di cause ed effetti, nella quale l'uomo non sarebbe altro che un'attività costretta da cieche forze e travolta dalla immane corrente degli avvenimenti. Nel precisare i l nucleo di queste cause deterministiche si è fatto ricorso ad astrazioni, si è parlato di natura, o caso, o fortuna, o volontà universale; si son usate formule generiche, quali le teorie del materialismo storico, le leggi matematico-economiche . e simili. L'errore fondamentale del determinismo consisteva nel cercare la forza di unificazione del processo storico al di fuori

I degli uomini che son quelli che fanno la storia, e nel concepire la natura come una forza materiale.

È vero che quando si dice natura può intendersi tanto la natura fisica quanto la umana. Ma la natura fisica non fa la storia; essa diventa materiale di storia in quanto condiziona l'attività umana. L'uomo non potrebbe agire se non fosse fisi- camente condizionato; è sua natura. Quale essa sia tale condi- zione non importa; l'epoca glaciale o quella moderna, il centro Africa ovvero l'Inghilterra imperiale; le difficoltà materiali ser- vono ad acuire le potenzialità dell'uomo. Ma qualsiasi condi-

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zione geografica e fisica si rivelerà come tale allor che l'uomo la fa divenire elemento della propria vita, cioè la trasforma da pura materialità in fattore d i spiritualità, oggetto di conoscenza e d i attività, creando così il suo ambiente umano sulle stesse condizioni che il mondo fisico gli porge. Ma l'atto creativo del- l'uomo (lo diciamo creativo per analogia in quanto egli si fa la sua vita) non è altro che la sua continua attività intelligente e volitiva; e solamente questa sviluppa i l processo che noi chia- miamo storia.

La storia non è l'extra-umano, ma solo l'umano e l'umaniz- zato; quel che non è umano, se viene trasformato in umano, allora si storicizza e diviene storico. L'invenzione della elettri- cità, sforzo della scienza umana, ha trasportato questa forza di natura nella .vita comune dell'uomo: l'elettricità si è storiciz- zata, essa cioè è divenuta tutto quello che l'uomo ne ha saputo fare. E cosi dell'energia atomica, così di tutte le invenzioni: le antiche epoche furono distinte per questo sforzo umano in epoche della pietra o del ferro e così via.

1

Lo stesso soprannaturale, cioè la parola rivelatrice di Dio, per accostarsi all'uomo si storicizza, in qua-nto l'uomo seconda l'azione d i Dio e la rende sua. Gesù Cristo è la parola fatta uomo nel tempo, cioè nella storia.

Tutta l'attività umana, quando si considera come un passato di fronte a noi che la pensiamo tale, si trova realizzata in fatti a noi esterni, quali essi siano, importanti o di poco valore, scien- tifici o morali, fantastici o reali. Questi prodotti dell'attivith umana, quando sono già stati realizzati acquistano una realtà distinta da coloro che li attuarono; quindi divengono a loro volta condizionamento della successiva attività umana, e cosi via sem- pre in un legame ininterrotto. Si sogliono appellare cause questi antecedenti; ma vere cause non sono. Non ci sono fuori di noi cause deterministiche delle nostre azioni; noi siamo la causa ' della nostra attività. Ogni realtà fisica o morale esistente a l momento in cui noi agiamo: e nel modo come esiste e come è da noi appresa, condiziona, agevolandola o contrastandola, la nostra attività. Anche la morte, che è cessazione dell'attività terrena dell'individuo, per gli altri che rimangono in vita è solo un fat- tore del condizionamento umano, e per chi cessa di vivere è una

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trasformazione del suo modo di esistere. I1 pensiero della morte, che non può mancare mai a ciascuno di noi, contribuisce a for- mare l'orientamento della propria attività ; così anch'essa si sto- ricizza, diviene storia.

L'uomo, con la sua conoscenza e volontà, è il vero fattore del processo storico; l'uomo, forza autodeterminantesi entro il condizionamento fisico, morale e sociale della propria limitata esistenza. Questa esistenza, e solo questa, cioè la esistenza per- sonale di ciascuno d i noi, ha valore; l'uomo vivente forma il presente nella sua conoscenza .attuale e nell'esperienza acquisita nel passato e resa attuale nel ricordo e nella rielaborazione.

I1 presente, adunque, non è altro che la nostra stessa coscien- za; se questa non ci fosse, il presente non ci sarebbe, non ci sarebbe storia, ma solo la materialità dei fatti bruti, che di per sè non sono nè conoscenza nè storia.

Storia e filosofia sono la stessa realtà conosciuta sotto due angoli visuali convertibili. I1 nostro conoscere verte sulla realtà; s& essa la realtà fisica (scienze) sia la realtà umana (storia); ma i l conoscere non è altro che un sistemare. I1 fatto o dato non ì: conoscibile se non è sistemabile; cioè se non è rapportato a determinati criteri di apprezzamento. Questi criteri possono es- sere empirici, tecnici, scientifici, artistici, etici, metafisici, mi- stici, non importa. Solo attraverso &i sistemazione il fatto o dato diviene conoscenza. Ogni sistemazione del conoscere è filosofia o si basa sulla filosofia, sia filosofia del buon senso comune o filosofia scientifica, sia etica o metafisica. I1 conoscere sistema- tico (filosofia) è l'attività fondamentale dell'uomo, è la sua stessa ragione presente in ogni sua attività. Per essa l'uomo conosce la realtà esterna e la coscienza interna; l'una e l'altra formatesi dal cumulo del passato che in esse si è realizzato.

I1 legame dei due aspetti dell'essere, realtà esterna e coscienza, è così stretto, che quanto più si conosce la realtà nel suo rivelarsi come passato nel presente, tanto più si approfondisce il suo stesso essere interiore come affondato in un passato vivente dentro di noi e pur così misteriosamente lontano.

La storia, adunque, è i l pensiero umano che si realizza nel-

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- I'attività; la filosofia è l'attività umana che viene interpretata dal pensiero. Conoscenza, l'una e l'altra, attuale, presente. perchè solo nel presente l'uomo pensa ed agisce. I1 passato in tanto è ed è conosciuto in quanto esso è realizzato e pensato nel presente. Qui si ricapitola tutta la vita umana: pensare e agire.

E l'avvenire terreno? e l'oltretomba? Anch'essi per il pen- siero e l'attività umana sono un presente. In tanto l'avvenire ha valore per un uomo in quanto egli di questo avvenire sente dentro di sè la realtà effettiva, cioè in quanto egli crede e sente la sua esistenza proiettarsi nell'avvenire. Così i l giovane che

studia pensa che un giorno avrà una professione, una famiglia, una posizione sociale; così il letterato pensa ai suoi successi, alla sua fama; il credente dirige la sua attività alla conquista della vita futura. L'avvenire, per tanto, è realizzato nel presente come un cominciamento effettivo. Se così non fosse, l'avvenire non esisterebbe per l'uomo; in tanto esiste in quanto è trasfor- mato in pensiero e attività ; cioè in quanto è divenuto per noi un presente; e solo allora potrà essere da noi conquistato. L'uomo che non ha fede in sè, l'uomo che non pensa, costui non ha avve- nire, perchè l'avvenire è in noi stessi.

L'avvenire, pertanto, si risolve nella finalità dell'attività ,

umana; se non si ha un fine nell'agire non si è uomini; in tal caso presente e avvenire sono un niente. I1 fine non può mancare a chi opera; il .fine è il pensiero pratico e come tale deriva da l , .

pensiero teoretico. I due lati, il teoretico e il pratico, rappre-

sentano in certa guisa il passato e il futuro. I1 passato è la cono- scenza umana sotto l'aspetto teoretico; i l futuro è la conoscenzit umana sotto l'aspetto pratico. Uniti insieme si ha il presente, cioè l'uomo che agisce utilizzando l'esperienza del passato per realizzare i fini del suo agire nel futuro. Passato e avvenire sono perciò nel presente, realtà e processualità, conoscenza e attività, filosofia e storia.

Il presente con i l passato e l'avvenire forma la temporalità umana, che chiamiamo processo storico; - i l presente senza

passato nè futuro forma l'eternità, che per i teologi è un attri- buto di Dio, cioè Dio stesso.

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I filosofi idealisti che non concepiscono un Dio realtà infinita trascendente, e che sentono la necessità logica di una realtà uni-

ficante, ricorrono ad uno « Spirito » immanente, di cui noi sarem- mo l'io fenomenico nell'attuarsi indefinito dello Spirito stesso. Concezione monista questa, per la quale tutta la realtà si risolve in pensiero a sè presente attuantesi in processo perenne.

L'altra concezione, la nostra, è invece dualista; secondo noi vi sono due presenti, uno attuantesi in processo dal passato al- l'avvenire; l'altro in atto puro, senza processo passato o futuro. Vi sono due realtà: una contingente, relativa, temporale; l'altra infinita, assoluta, eterna. Vi sono due conoscenze: una umana limitata, che procede dalla potenza all'atto ; l'altra divina, senza limiti, sempre in atto.

Per ammettere la concezione monista dovrebbe essere possi- bile la risoluzione dell'infinito nel finito, dell'eterno nel tempo-

rale, dell'atto puro nel processo d i potenza ed atto: cioè, per dirla con la terminologia idealista, dello spirito nell'io feno- menico.

Per ammettere la concezione dualista occorre invece poter risolvere i l finito nell'infinito, il temporale nell'eterno, il pro- cesso nell'atto puro. '

La soluzione idealista nega l'assoluto, facendo sussistere nella realtà le forme contingenti, cioè l'io fenomenico, il solo che sia

pensiero cosciente; e pertanto dissolve lo Spirito in un numero indefinito di coscienze particolari limitate e transeunti.

La risoluzione dualista, che ammette invece due realtà distin- te, non nega i l contingente che è l'esperienza cosciente della no- stra realtà personale, ma lo risolve nell'assoluto, in quanto senza di esso la sua realtà non potrebbe essere nè concepirsi.

L'idealismo, riunendo in forma immanente il contingente e l'assoluto (l'io fenomenico e lo spirito) riduce tutto a mera auto- conoscenza del soggetto senza oggetto, creando così un processo di dialettica interiore, in una necessità di limite che distrugge ogni assolutezza. I1 trascendentismo, al contrario, distinguendo il contingente dall'assoluto, oggettiva la conoscenza, che resta distinta, quella limitata e processuale dell'uomo da quella infi- nita e attuale di Dio; ma non distacca la prima dalla seconda

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nella quale essa trova la fonte della verità, come il principio del- la realtà.

Di conseguenza: l'idealismo non concepisce altro presente che il nostro indefinito procedere; i l trascendentismo ne concepi- sce due: quello indefinitamente progressivo e quello puramente attuale: e fa dipendente i l secondo dal primo.

I1 nostro presente processuale può essere rappresentato dalle tre virtù cristiane: fede, speranza, carità. La fede, che è cono- scenza, rappresenta il passato che si riversa nel presente: è la

'conoscenza della realtà, tutta la realtà, naturale e soprannatura- ,

le, sistemazione completa (scienza e storia, filosofia e teologia) di tutta la realtà di cui noi siamo partecipi e viventi, la fede è i l passato nel presente.

La speranza è lo stesso presente che si riversa nell'awenire, cioè la stessa conoscenza che si realizza, i l fine de117uomo che si raggiunge, il benessere che si conquista, su questa terra con la '

lotta contro i l male, nel17altra vita con la spirituale acquisiziope del Bene Supremo.

I1 presente è la carità, amore di Dio e del prossimo, nell'agi- re e nel patire; Dio e prossimo sono la realtà conosciuta che a noi si partecipa, oggetto delle nostre speranze celesti e terrene, ragione della solidarietà con essi della nostra esistenza, comu- nione spirituale nella vita più elevata, razionale o mistica. La carità è il presente.

C'è un altro presente che non è carità: è il presente dell'e- goismo, ma questo nega implicitamente la realtà di Dio e del prossimo, cioè nega la fede e nega la speranza, il passato e l'av- venire; e riduce tutto ad un presente temporaneo limitato al proprio io, impoverito e privo di ogni relazione divina e umana.

Da ciò si sviluppa nel mondo il contrasto e la lotta dell7egoi- smo contro la carità, della risoluzione de117io in sè stesso contro la risoluzione dell'io nella divinità e nella umanità.

Ed è in questa lotta la sintesi del processo storico.

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Quando si parla di moralità dell'arte, si suole pensare ad una qualità esteriore dell'arte stessa, ad una specie di rispondenza dell'oggetto artistico, sia quadro o poesia, alle leggi etiche o semplicemente alla moralità di un dato ambiente. Da questo con- cetto, che considera la morale come estrinseca all?arte, sono deri- vate due correnti: quella che prescinde in arte da ogni vincolo .morale, donde la famosa formula: l'arte per l'arte; l'altra che subordina l'arte a finalità moralistiche, togliendole ogni auto- nomia.

Gli uni e gli altri di questi eterni antagonisti cadono in dop- pio errore, l'uno etico e l'altro estetico; perchè fanno della morale una legge esteriore all'uomo e alle sue attività; e.perchè non comprendono che i l valore estetico di un'opera d'arte in quanto tale è anche valore etico.

Nessun dubbio che la legge morale sia anzitutto una legge interiore, intima convergenza dell'animo umano verso il. bene in genere e' ripugnanza al male in quanto male; il fatto che la legge morale interiore venga espressa esteriormente in leggi e precetti religiosi o legali, e prenda costume secondo i tempi e le civiltà, dipende dalla natura sociale dell'uomo.

Non è opinione comune che il valore estetico di un'opera d'arte sia anche valore etico; l'abitudine di studiare questi

, valori analiticamente e in forma autonoma fa spesso credere che si tratti di vera e reale autonomia d i valori, il che non è.

L'uomo è un tutto inscindibile; l'uomo sociale che vive in continua comunione con gli altri è lo stesso uomo che vive nella sua interiorità; la comunione e il reciproco contatto non può essere basato che sulla realtà vivente, sotto il triplice valore d i verità, bontà, bellezza.

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I1 vero in quanto tale è intimamente morale, essendo quella stessa realtà che conosciuta come vera si appetisce come bene atto a soddisfare bisogni spirituali e materiali. Allo stesso modo, i l vero in quanto è un bene che si ammira e desta gioia è anche bello; perchè il bello non è altro che lo stesso vero e lo stesso bene in quanto è atto a destare ammirazione e gioia. In un senso generale tutte le cose esistenti sono vere e buone ; così anche sono belle. In natura non esiste il falso, non esiste i l male, non esiste

il brutto; esistono dei rapporti fra noi e il mondo fuori di noi, che sono anche ordine e legge di verità, bontà e bellezza, inte-

riori alla realtà esistente che da noi può essere percepita, amata, ammirata.

Quanto più noi penetriamo la natura - realtà interiore ed esteriore - della quale e nella quale viviamo, e quanto più la facciamo nostra, tanto più interiorizziamo i nostri rapporti ar- rivando a comprenderne la verità, amarne la bontà, ammirarne la bellezza. Quando noi esprimiamo concetti e sentimenti così approfonditi, noi aumentiamo del nostro stesso essere, - che si è arricchito di verità, di bontà e di bellezza - e della comu- nione fra gli uomini, il valore, intrinseco della stessa realtà.

La falsità, i l male, la bruttezza non esistono nella natura, ma sono o un disordinato rapporto *fra noi e la natura, ovvero un'alterazione o inversione di valori, un disequilibrio fra noi e il mondo esterno o fra noi stessi, come due forze in contrasto.

È impossibile che la falsità sia buona; così è impossibile che possa essere bella; nè che i l male sia vero e bello, nè che il brutto sia vero e buono. Queste formule assolute e astratte pos- sono aver l'aria del paradosso, perchè in natura non si dà nè l'assoluto nè l'astratto; e perchè nel concreto dell'attività uma-

na, sono sempre mescolati il falso, i l male e il brutto con il vero, i l buono e il bello in una imprecisabile molteplicità d i gradi e di qualità.

Un'opera buona, ad esempiodun atto di carità, può essere mescolata con il desiderio di ottenerne lode, contro i l precetto

evangelico che non sappia la mano sinistra quel che fa la destra; in tal caso non diremo che quell'atto di carità sia un male, diremo solo che è mescolato ad un sentimento non buono ; questa

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mescolanza però dà una nota di falsità all'atto di carità, che non è perfettamente sincero, e ne fa perdere la bellezza, che è

'

quella che desta ammirazione. Se un poeta canta sentimenti che egli non prova, si dice

che egli è falso, manca di sincerità. Potrà fare dei versi tecnica- mente impeccabili ma non farà una vera poesia.

I1 rapporto tra vero, buono e bello in qualsiasi attività umana non può mancare mai; quanto più i l rapporto è interiorizzato, reso più profondamente conforme al soggetto, allora si attingono i gradi della perfezione. Agli artisti è prescritto di essere sinceri, di esprimere quel che si sente, di vivere la vita del soggetto che si vuole ritrarre, di immedesimarselo, di sentirlo nella sua vera e profonda realtà. La superficialità in arte è un principio di falsità e ogni falsità è fondamentalmente una bruttezza. Se invece l'artista è veritiero nel doppio senso di avere penetrata la realtà e d i averla espressa come l'ha sentita, allora l'opera d'arte da lui prodotta risponderà alla sua propria intima moralità, che coincide con la finalità dell'arte,.che è quella di destare ammira- zione e gioia.

Come il vero ha, in rapporto all'uomo, una sua intima fina- , lità, quella di trasformarsi in bene, ed è questa l'intrinseca mo-

ralità del vero; così il bello esso pure, in rapporto all'uomo, si trasforma in bene: tutta la realtà è per l'uomo in funzione di bene. L'ammirazione estetica, la gioia artistica sono beni reali

. dello spirito e non possono essere desiderati che per se stessi come bene.

Così concepito il bello, esso è fondamentalmente etico; e iii

quel che manca di eticità intrinseca, mancherà anche di esteti- cità.

* * * Ciò non ostante, certe opere d'arte vengono abitualmente

classificate come più o meno morali o addirittura immorali, senza cessare di essere reputate opere d'arte. La parola moralità qui viene presa in senso esteriore, come norma del costume. Sotto questo aspetto si può parlare d i moralità o immoralità solo d i quelle arti che toccano i costumi, cioè la poesia (in senso generico, ogni opera letteraria), la pittura e scultura in quanto

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rappresentano la figura umana, la danza come arte dei movimenti del corpo umano. Di fatti, in questo senso speciale, non potrebbe farsi questione della moralità O immoralità della musica pura, dell'architettura, della pittura o scultura o disegno d i altri og- getti fuori della figura umana o umanizzata; invece è a dire

che queste arti, in quanto raggiungono una espressività di bel- lezza, sono profondamente morali.

Da u n punto d i vista generale e obiettivo può dirsi che la rappresentazione artistica della figura umana non contenga in sè nessun elemento d i immoralità. Però tale rappresentazione per dirsi artistica deve anzitutto esprimere un motivo estetico, un'intimità spirituale, un sentimento umano, in una parola deve contenere quel che si dice un'idealizzazione D.

Quel che l'artista deve esprimere, prima lo sente e lo vive come fuori del tempo e dello spazio, e poi attraverso le parole o le note, le linee e i colori, lo fa sentire e vivere nel tempo e

nello spazio, cioè nel concreto di un70pera d'arte; ma questa non è una cosa. senz'anima, ha un'anima, contiene « l'idealiz- zazione » dell'artista come vissuta, come creata, come comuni- cata.

Allora si può parlare di vera opera d'arte quando i l motivo d'arte è nell'artista idealità vissuta, è nell'opera idealità espres- sa, è nel pubblico idealità comunicata. Non c'è opera d'arte

senza idealità, cioè senza un7idea-sentimento, più o meno istin- tivo o. riflesso, elementare o complesso; da essere comunicato ad altri che lo rivivano nella contemplazione e nel godimento este-

. tico.

L'idealizzazione può rimanere in gradi iniziali di puro senti- mento di forme, e può invece arrivare ad altezze sublimi; man- care non può. Anche un motivo decorativo di linee pure o una semplice armonia di colori contengono sempre un sentimento

idealizzato, e lo riproducono nella loro stessa elementarità, sì da sembrare che esso si confonda con la tecnica d'arte.

Certe volte invece I'idealizzazione supera e vince i mezzi espressivi dell'opera d'arte, che rimangono troppo poveri, in- fantili, schematici, come certe figurazioni dell'arte primitiva, come tutte le infanzie delle letterature, come molte opere senza .

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perfezione tecnica, ad esempio i quadri di Blake. Al contrario si può avere un'opera d'arte di scarsa idealizzazione, ma la cui

esecuzione tecnica sia perfetta; tale perfezione diviene elemento

prevalente nell'opera ed acquista valore quasi per sè stante, superando lo stesso contenuto ideale. Ma tanto nel primo caso

come nel secondo, l'opera d'arte non è completa e sotto certi aspetti può dirsi mancata.

In riferimento alla rappresentazione della figura umana è compreso nella idealizzazione artistica un elemento importan- tissimo, quello che si suole chiamare senso del pudore.

I1 pudore è insieme una custodia e un limite psichico del- l'istinto sessuale, e diviene per sè un elemento morale nella norma dei costumi individuali e sociali. Esso, con differenza di

gradi, è anche un limite nella espressività delle opere d'arte che riproducono la figura umana.

La differenza può essere notevole: nella vita sociale il mo- strarsi di una persona nuda è normalmente un'offesa al pudore; si dice normalmente, perchè non lo è un bambino, ovvero un naufrago che raggiunge la spiaggia, nè chi scappa da un incendio, nè un ammalato sul letto operatorio e così via. Ma una statua o 'pittura umana che idealizza la bellezza fisica del corpo o un movimento atletico, 'e grazie femminili o le delicatezze dell'in- fanzia o che simboleggi sentimenti e idee come la fede, la ca- rità, la giustizia, la pace e simili, ha in sè una tale idealità che

per ciò stesso i l nudo non offende. E se per errore o volontà del- l'artista, i l senso del pudore non è rispettato in qualche dettaglio, ciò renderà l'opera d'arte meno armonica e può arrivare a detur- parla.

Lo stesso può dirsi della danza, in quanto la danza esprime movimenti ritmici del corpo entro le leggi dell'euritmia. Perciò la danza al di là dei limiti del pudore, oltre che antimorale, diviene per ciò stesso anti-euritmica e anti-artistica.

La ragione di questo rapporto fra moralità ed arte è proprio data da quella realtà interiore, per la quale le leggi sociali e le abitudini convenzionali rappresentano una legge più profonda,

quella di unificazione sostanziale della realtà nei suoi rapporti di verità, bontà e bellezza. L'offesa al senso del pudore non con-

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tiene, come tale, elementi idealizzabili; l'oscenità non è estetiz- zabile.

Gli studiosi d'arte nella maggiore parte convengono con

queste idee; son pochi a pensare che il pudore sia solo un pregiudizio sociale e una convenzione creata da falsa edu-

cazione da non tenersi in conto. Invece psicologi e moralisti, sociologi e medici convengono non solo sull'esistenza dell'istin- to del pudore, ma sulla sua funzione naturale di difesa e di contenutezza.

La questione che spesso viene posta dagli studiosi e dagli artisti riguarda la ricerca dei giusti limiti tra il rispetto al pu- dore e le sue esagerazioni malsane.

Tali limiti non sono solamente oggettivi, ma anche soggettivi ; essi vengono non solo da natura, ma anche da educazione. Ven- gono anche dalla stessa cultura artistica di un popolo, che quanto pii1 è elevata tanto più trova ripugnanti certe forme di arte esibizionista e illusionista, che sollecita il favore popolare più per l'audacia della rappresentazione che per intrinseco valore.

Per quanti sforzi facciano certi artisti spregiudicati non rie- .

scono a produrre vere e durevoli opere d'arte se non quando esprimono motivi e sentimenti idealizzabili. Se l'arte moderna

è arrivata a ottenere risultati estetici di altissimo valore, non è stato per gli eccessi di sensualità ma, all'opposto, quando in tutto o in parte è stata superata la nota sensuale con l'aria fresca, e serena dell'idealizzazione. I1 realismo dell'ottocento fu, in

molti casi, una reazione contro un accademismo freddo e insin- cero o contro un sentimentalismo superficiale o convenzionalt. Ma esagerarono gli uni e gli altri, realistici e accademici, e nella loro esagerazione accentuarono i propri difetti; pur avendo

eseguito dei lavori tecnicamente ben fatti, spesso non arrivarono a fare vere opere d'arte.

Questa conclusione non è condivisa da molti critici nè da artisti sia perchè essi si fermano su analisi parziali e quindi insistono sulla perfezione tecnica (che indubbiamente contiene in sè stessa elementi iniziali d i idealizzazione), sia anche per pregiudizi artistici. La stessa coscienza artistica di un popolo dà la sua sanzione e copre di oblio opere che a loro tempo fe-

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cero molto rumore più per l'audacia morale che per motivi artistici.

Al riguardo, i l tempo serve sempre ad attutire le impressioni violente e a operare una selezione inconscia e costante; perchì: il tempo attenua e modifica certi stati d'animo di avversione e di contrasto: l'adattamento collettivo a certe figurazioni umane eccessive o ripugnanti avviene insensibilmente, come una disin- tegrazione dei significati e delle impressioni che prevalsero nel passato. Ciò avviene molto facilmente nelle stilizzazioni decora- tive, nelle figurazioni simboliche e nelle rappresentazioni mito- logiche o storiche, sì che la idealizzazione soverchia in certo modo la figurazione. Questa specie di idealizzazione, formata da u n processo disintegrativo e di sentimenti deformatori, avviene anche nella danza, sì che nelle rappresentazioni d i danze antiche, popolari o classiche, ottengono col tempo maggiore rilievo le forme euritmiche che non il significato sensuale ch& inizialmente vi poteva essere contenuto.

Ma quali che possano essere i fattori psicologici e storici, che contribuiscono a modificare nella coscienza di un popolo il signi- ficato stesso delle opere d'arte, rimane fermo il concetto fonda- mentale della nostra teoria, che nella rappresentazione artistica della figura umana e dei suoi, movimenti, non può darsi vera opera d'arte ove manchi l'elemento idealizzatore, e che una vera idealizzazione non possa darsi ove vi manchi il senso del pudore. È perciò che la vera opera d'arte è sempre morale; i significati e le espressioni immorali sono sempre un difetto arti- stico, che può arrivare a deturpare opere tecnicamente perfette.

Nella pittura e nella scultura attraverso linee e colori, la materia discussa è la figura del corpo umano in quanto questo ne riflette l'anima; nella poesia la materia, attraverso le parole, è la stessa anima umana, che può essere proiettata con tutte le rifrazioni del pensiero fino all'infinito.

Ma come la figurazione artistica del corpo umano subisce il limite del senso del pudore, la figurazione artistica dell'anima umana ha un altro limite più intimo, più profondo, che è il

2 - S~urtm - Problemi sp i~ i tua l i

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senso del vero e del bene come da noi stesso vissuto. Per questo il poeta non può mentire a sè stesso e non può mentire agli altri, non può pervertire sè stesso e non può pervertire gli altri. Egli può certo errare nella conoscenza della verità e nell'apprez- zamento del bene; ma non può rappresentare il falso e il male come vero e bene senza negare l'essenza della poesia, perchè i l falso ed i l male non sono idealizzabili, allo stesso modo che non è idealizzabile l'oscenità.

I1 poeta non esprime idee di vero e di bene come un filosofo o come un moralista ; egli canta sentimenti e stati d'animo ; egli rappresenta e colorisce l'interiorità umana che spesso trasporta .

nel campo dei sogni ; egli dà una vita lirica a tutti i più reconditi .

palpiti del cuore; egli coglie lati inesplorati delle aspirazioni, delle gioie e dei dolori dell'umanità. Nel far ciò i l poeta non può alterare o falsare la materia che trae dal suo intimo spirito, e che noi chiamiamo qui figura dell'anima umana ; egli la rivive in sè stesso, nella sua ispirazione poetica e la rende poesia.

La rappresentazione dei mali spirituali e delle abiezioni umane, specialmente da parte del romanziere o del dramm,a- turgo (chè anch'essi in senso largo son poeti) non può uscire . . dal doppio limite di verità e di discrezione. I n questo argo- mento vale quanto abbiamo detto del senso del pudore in pit- tura e scultura.

Noi reputiamo che un' arte la quale non idealizzi non sia vera arte; che un'arte puramente naturalistica e sensuale non possa mai raggiungere vera bellezza, e che perfezioni tecniche, se compensano in certo modo la povertà di ispirazione spirituale

,

, e ideale, e se certe volte fanno dimenticare contenuti malsani, non riescono per sè stesse a-dare all'opera d'arte che u n parziale e limitato valore estetico. Ciò vale tanto per le arti figurative quanto per la poesia.

La vera opera d'arte è paragonabile a quel bene che è tale ex integra causa; perchè in natura come in arte, il vero, il bene ,

e il bello convergono; sono la stessa realtà in quanto conosciuta, in quanto goduta e in quanto ammirata.

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IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA

E L'INTUIZIONE DI DIO

I1 gesuita francese Gabriel Picard, nello studiare il problema dell'apprensione immediata di Dio negli stati mistici (*), parte dalla tesi che nella conoscenza naturale si dà l'intuizione oscura di . Dio presente nell'anima come si dà l'intuizione oscura dell'anima stessa direttamente e non per mezzo di specie intellettive. Egli si appoggia ad un passo d i san Tommaso (**) e cita anche san Bonaventura (***). I1 problema interessa tanto la filosofia quanto la teologia mistica.

A meglio esporre i l nostro pensiero non discuteremo diret- tamente la tesi del Picard ( i lettori possono ignorare l'opuscolo al quale ci riferiamo), nè ricercheremo se essa abbia serio ap- poggio in san Tommaso. Noi tenteremo altra via e quel che esporremo ci piace presentare come ipotesi di studio.

I1 problema della conoscenza si pone come rapporto fra due: conoscente ( i l soggetto) e realtà conosciuta (l'oggetto). La critica epistemologica si esercita tanto sulle facoltà conoscitive del sog- getto quanto su ciò che 'esso arriva a conoscere dell'oggetto. Donde la gran controversia fra realisti e idealisti.

Mentre il soggetto è sempre definito, l'oggetto (l'altro da noi) è potenzialmente indefinito, comprende tutta la realtà conosci-

(*) La saisie immédiate de Dieu. Paris, 1923. (**) 1 Sent. D. 3, q. 4, art. 5. (**e) Sent. D. 39, q. 2.

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bile; questa è definita quando diviene oggetto di conoscenza at- tuale. Essendo la conoscenza di ogni singolo oggetto limitata dallo spazio, dal tempo e dalle possibilità della propria espe- rienza, gli oggetti conosciuti sono sempre inferiori agli oggetti conoscibili. Ciò non ostante, ciascuno è capace d i costruirsi u n mondo d i esperienze, un sistema di conoscenze, che pratica- mente ne soddisfano i bisogni e lo spingono, più o meno forte- mente, all'acquisto di esperienze ulteriori, le quali non si esauri- scono che con la vita personale.

Tale mondo d i esperienze e sistema di conoscenze di ciascuno d i noi non è mai limitato al singolo. Se tale fosse, resterebbe isola- to e sterile e si esaurirebbe i n sè stesso. Per quanto ciascuno abbia un modo proprio di vita interiore, che forma la ricchezza (o povertà) del suo spirito, i l sistema è associativo, è comune con

l'ambiente più o meno largo in cui si vive. Sì che le esperienze degli altri, passate e presenti, divengono, per varie vie, espe-

' rienze comuni. La conoscenza umana è « individuale-sociale » ; ' anche quando essa è singolare o singolarissima, è. sempre inter- comunicata, altrimenti non arriverebbe ad essere vera cono- scenza, perdendosi nel fondo dei pensieri vani e non realizzati.

L'aspetto sociale dell'esperienza umana riguarda tanto la genesi della conoscenza che il suo carattere e la sua finalità: - - la genesi della conoscenza, perchè l'oggetto, nella maggior parte dei casi, non arriva al soggetto nella sua presenza esisten- ziale, ma attraverso l'altrui esperienza e nei segni della vita

associata; - il carattere della conoscenza, perchè la sistema- zione che noi dobbiamo fare per dare all'oggetto valore e prospet-

tiva, dipende in gran parte dalla cultura tramandataci, dalle sue ripercussioni nell'ambiente in cui si vive; - infine la finalità della conoscenza, perchè essendo la conoscenza ordinata alla vita vissuta, è eminentemente pratica, tende all'ascimilazione dell'am-

biente e alla cooperazione solidale, usando i mezzi che natura e arte hanno dato agli uomini. Non si dà scienza per quanto

speculativa, quale la metafisica, la matematica, l'astronomia, che non sia ordinata a finalità pratiche, singolari e comuni,

subiettive ed obiettive. La tendenza al fine non si esaurisce mai, perchè esige un termine assoluto.

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Negli studi filosofici siamo abituati a117esame critico della conoscenza nel rapporto astratto di soggetto e oggetto; tutto quel che può riferirsi ai fattori sociali e ambientali viene lasciato al pedagogista, allo psicologo e al sociologo. A me sembra oppor- tuno riconsiderare il problema della conoscenza nella sua com- plessità, prima d i farne materia di analisi speculativa.

Nel fatto concreto non si dà conoscenza del reale che non comprenda allo stesso tempo una coesistenza di esseri che possono

. considerarsi come formanti con il soggetto conoscente una tota- lità. Il soggetto ora si sente come un centro verso il quale sono di- retti gli oggetti che lo interessano, ora invece è lui stesso che va in cerca di un centro di orientamento e di unificazione. Le sue conoscenze pullulano dentro il cerchio di un tutto (non preci- siamo per ora quale esso sia) che riflette i due stati d'animo sopradescritti. La genesi, il carattere e la finalità sociale del conoscere influiscono in tale visione. E poichè la conoscenza umana o è sistematica o non è vera conoscenza, nel fatto non può ottenersi una sistemazione conoscitiva senza i l riferimento ad un tutto.

Ma a quale tutto? forse a quello che cade sotto i nostri sensi? Nessuno lo pensa: se si guarda l'orizzonte, si sa che di là dai monti vi sono altre terre e' altri esseri; se si guardano le stelle, si pensa a quelle che non si vedono. Così è dello spazio che si allarga in indefinito, così del tempo che si allunga nel passato e nell'avvenire. In mille forme le conoscenze di fatto, le idee teo- retiche e le stesse ipotesi entrano a far parte di quel tutto del quale non conosciamo i limiti, ma nel quale il nostrò essere come ogni altro essere è tuffato senza esserne sommerso.

Ciò che nella conoscenza del reale il soggetto intende per tut- to non è un che d i definito, è solo un indefinito, onde a prima vista si presenta come una posizione conoscitiva. I1 soggetto può considerare i l tutto indefinito come oggetto di sue esperienze, un fuori di sè, pur comprendendo che in tal caso alla totalità ipotetica manca qualche cosa per lui integrale, proprio il sog- getto conoscente. Può anche considerare sè stesso ne117ambito

- del tutto indefinito, pur essendosi egli definito da sè stesso come soggetto. Questo il dato di fatto da cui partiamo nel nostro studio.

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Ciò posto ci domandiamo: quel « tutto » che non essendo de- finito a prima vista ci si presenta come una posizione conoscitiva, è antecedente ad ogni pensiero ovvero è un prodotto di espe- rienza?

I1 quesito può sembrare non nuovo, anzi può essere confuso con l'indagine d i altri tempi volta a stabilire se l'idea dell'ente - sia antecedente ad ogni attuale intellezione.

Da questo punto di vista si può arrivare ai due estremi: o l'idea dell'ente è concepita come primo logico, per mezzo del quale si conosce l'oggetto (ontologismo); ovvero si .presenta come l'idea della realtà affermata a priori in forma assiornatica e non per esperienza (realismo dogmatico).

Dopo il Cogito d i Cartesio - sia esso inteso al modo ideali- -

stico, o solo come elemento critico, owero (come sogliono fare certi cattolici francesi) in senso realistico - si suole partire dal- l'esperienza dell'io per arrivare all'esperienza del non-io o altro- da-me. L'esperienza dell'io sarebbe una specie di precedente lo- gico-critico.

I neo-scolastici italiani, alle prese con l'idealismo'di Croce e

più ancora con quello « attualista » di Gentile e dei gentiliani, hanno insistito su due capisaldi del tomismo: che « il nostro intelletto ... è fatto per conoscere anzitutto i l mondo esterno e .

. riflessivamente il proprio atto conoscitivo 1); e che « direttamen- .

te e immediatamente i l nostro intelletto coglie in un esistente un'essenza e in un'essenza l'esistenza » (*). Per essi la realtà oggettiva esistente è precedente all'intellezione, ma nell'atto co- noscitivo è concornitante alla virtù astrattiva dell'intelletto, e appresa simultaneamente in ciascuna essenza astratta dall'og- getto.

In tutte le suddette quattro teorie: (ontologismo, realismo dogmatico, cartesianismo e sue interpretazioni, realismo tomi- stico), il problema di un « tutto indefinito » come posizione co- noscitiva, non ha posto.

(*) MICHELE' FATTA in Rivista di Filosofi Neo-Scolastica, novembre 1938, pagg. 492.499.

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Eppure, ogni individuo per conoscere deve sentirsi partecipe esso stesso d i tutta la realtà verso la quale ha a h i t à e at- trattive naturali; sì che conoscendola e realizzandola possa esso steuso ritrovarsi nella realtà comune in piena soddisfazione delle . proprie facoltà.

Ciò sarebbe impossibile se mancasse alla nostra conoscenza il senso del tutto, e se i l tutto indefinito, oltre che essere oggetto d i esperienze e d i definizioni particolari, non si rivelasse come orientamento mentale. Le due posizioni conoscitive che noi so- pra abbiamo rilevato come un dato d i fatto qui ci si presentano come esigenza gnoseologicu. Nella prima posizione ( i l tutto come oggetto) si prescinde dalla esistenza di noi come soggetto cono- scente; nella seconda posizione i l tutto si reduplica con noi soggetto e noi ci reduplichiamo col tutto come oggetto; allora o noi cerchiamo di affondare la nostra personalità nel tutto o fac- ciamo rientrare i l tutto nella nostra personalità.

La nostra ipotesi di studio ci porta così ad una prima affer- mazione: « in ogni atto conoscitivo vi è implicita una posizione, riferentesi ad un tutto indefinito, che comprende in varie guise il soggetto e l'oggetto D.

Si può non avere coscienza di questo dato implicito all'atto conoscitivo; si può non avervi riflettuto ; ma una volta accertato, sembra evidente che sia così; il riferimento ad un tutto indefi- nito è in ogni nostro atto conoscitivo.

Analizziamo un po' più da presso questa che chiamiamo, per il momento, posizione conoscitiva. Essa è forse una categoria

ignorata ovvero è un aspetto non apprezzato della categoria di relazione?

Di ogni esistente può predicarsi la sua relazione con tutta la realtà; da questo punto di vista potrebbe dirsi che la categoria di relazione può indicare la coesistenza simultanea e totale degli esseri, che non potrebbero essere pensati se non in correlazione.

Le categorie, pur fondate sulla realtà, non sono che modi lo- gici. Il reale si può considerare in astratto come al di fuori

d i ogni categoria sotto un aspetto universale: l'entità; - ovvero si possono considerare le categorie al di fuori di ogni realtà: come si fa con le idee d i tempo e spazio; - si può anche guar-

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dare la realtà sotto una sola categoria, facendo astrazione dalle altre, per esempio sotto la categoria di sostanza. Nei suddetti atti analitici, noi pur considerando la realtà astratta vi troviamo implicita la posizione conoscitiva del tutto indefinito, ma non vi troviamo la categoria di relazione. Sarebbero inconcepibili le idee di entità, spazio, tempo, sostanza, senza i l substrato di un tutto indefinito. Questo, anche non pensato in forma attuale e riflessiva, entra a tonizzare (usiamo un termine musicale e anche medico) i l significato dei vari aspetti sotto i quali cogliamo .il reale esistente.

Pertanto a noi sembra più vicino alla verità dire che i l tutto di cui parliamo sia « un'ir~tuizione oscura ma diretta della real- tà, nel suo insieme indifferenziato, che accompagna ogni atto conoscitivo D.

Vediamo di intenderci. La nostra conoscenza intellettiva se- /

condo gli scolastici procede per astrazione dal sensibile e si effet- tua per mezzo delle specie intelligibili ; è perciò universalizzante e categorizzante. L'intuizione, in questo stadio, non è altro che un rapido superamento del processo intellettivo, nell'apprensio- ne della realtà esistente e nelle esperienze induttive. I1 barone Fatta, nel citato articolo, scrive: a Non potremmo dire: que- st'ente ha l'esistenza, se cpell'ineffabile e per se stesso luminoso atto che è l'esistere non fosse stato già da noi intuito prima di affermarlo sotto forma d i giudizio » (*).

Ma questa, e altre simili, sono intuizioni chiare, precisano l'oggetto o le qualità e relazioni dell'oggetto intuito, sia esso un dato fisico, u n principio metafisico o etico. Quando diciamo che l'intuizione del tutto indifferenziato è oscura, intendiamo dire che in essa manca o l'implicito giudizio o l'esperienza induttiva, O

quella che Fatta chiama « atto luminoso N, tutti elementi che dànno la chiarezza all'intuizione. L'oscurità viene dal fatto che l'oggetto, « il tutto D, non è definito, non è differenziato; l'in- telletto non riceve da esso alcuna luce e non emette su di esso alcun giudizio. Ciò non ostante è un'intuizione diretta, senza mediazione di specie che non potrebbero formarsi: può dirsi

(*) 1. C. pag. 194.

24

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una « preconoscenza », che attinge i l soggetto in quanto il ,

soggetto è parte di questo tutto, vive in esso, non potrebbe esi- stere fuori di esso, lo intuisce come real& esistente, ma non lo definisce poichè come tutto non può essere definito.

Se così non fosse, avanti di conoscere ci dovremmo sentire nel puro isolamento; ad ogni atto conoscitivo dovremmo sentirci in contatto esclusivo con l'oggetto percepito; le sintesi conoscitive

sarebbero impossibili per la discontinuità degli oggetti conosciuti e la mancanza di correlatività sintetica. Per giunta, ciascun indi- viduo avrebbe un proprio gruppo non ben coerente di conoscen-

ze, il che renderebbe impossibile la comunicazione di vita nella comune realtà.

Non si 'creda che queste siano deduzioni arbitrarie, quasi un processo per absurdum affatto immaginario. I1 mondo dell'espe- rienza è parziale, limitato e discontinuo; il mondo del ragiona-

mento coerente è effetto d i tradizione, di studio e di attuazione; i due ci dànno la realtà comune individualizzata; solo l'intui- zione diretta del tutto ci dà la realtà comune indifferenziata. Perciò la diciamo oscura ( in opposizione a chiara e definita),

ma allo stesso tempo la diciamo diretta, cioè concreta (in oppo- sizione ad astratta).

Questo « tocco » della realtà indifferenziata e totale è una

presenza in noi come noi siamo presenti a noi stessi. Ma noi non sentiamo questa presenza che nell'atto d'intendere e in tutti gli

atti nei quali l'intendere si sintetizza con il volere e l'agire. Veramente un'intellezione pura che non comporti nè volere nè agire non si dà mai ; ma nel modo in cui noi analizziamo i nostri atti, possiamo ben dire che l'intuizione del tutto indifferenziato è atto dell'intelletto che si ripercuote nel volere e nell'agire. I1 vo- lere e l'agire infatti completano la nostra conoscenza, perchè la realizzano nel fatto; l'intuizione oscura e diretta del tutto vi è sempre presente.

Ora possiamo conchiudere questa seconda parte, rispondendo alla domanda posta all'inizio, se i l tutto, come posizione cono- scitiva, sia (C antecedente ad ogni pensiero ovvero un prodotto di esperienza D, dicendo che non è nè l'uno nè l'altro. Non è ante- cedente logico nel senso che sia un mezzo per conoscere, come

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l'idea dell'ènte per gli ontologi; non è antecedente reale nel senso che si dia un'intuizione del tutto al di fuori e precedente ad ogni altro atto di conoscenza. Neppure è un prodotto di espe- rienza, che in quanto tale non è oscuro, in molti casi non è nep- pure diretto, e non è mai il tutto indifferenziato, ma il parti- colare distinto.

- . Quel dato d i fatto da cui siamo partiti, accertato come posi- zione conoscitiva verso un tutto indifferenziato, può essere pre- cisato come intuizione diretta e .oscura, presente i n ogni atto di conoscenza.

1 + 8

Ci resta da esaminare che cosa sia questo « tutto D intuito in forma diretta, ma oscura. Nel corso del nostro esame più volte abbiamo parlato di questo tutto come di una realtà; così abbiamo inteso escludere che sia un tutto a idealistico », ovvero un pseu'clo- tutto fenomenico 1).

Che si tratti d i un tutto reale, possiamo accertarlo per due 'vie: una dedotta dal valore realistico dell'apprensione della veri- tà, quale la filosofia tradizionale afferma ( i l lettore non ha bisogno ch'io c'insista); l'altra per la conoscenza diretta di se stessi. I n ambedue le esperienze i l reale obiettivo balza con evi- denza: la prima è la via regia dell'astrazione dal sensibile; l'altraì la conoscenza di noi stessi, ha un'evidenza interiore; se . essa non rendesse alcuna testimonianza della nostra realtà, noi saremmo condannati al solipsismo.

Dal punto di vista, adunque, del valore della nostra cono- . scenza, non ci sarebbero obiezioni a priori a che l'intuizione, sia pure oscura ma diretta del tutto, possa attingere la realtà ciggettiva. Quel che si domanda si è: primo, se di fatto l'attinge; secondo, se veramente attinge una totalità.

Noi siamo indotti a rispondere affermativamente al primo quesito per tre ragioni: - perchè non c'è dubbio che tale intui- zione comprenda nel tutto la personalità del soggetto come una realtà; - perchè quando noi isoliamo il soggetto dal tutto, ci rendiamo conto che tale posizione è mentale e non reale, ana- litica e non sintetica; ciò non ostante l'intuizione del tutto ri-

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mane come fondo realistico della nostra operazione mentale; - infine perchè se fosse quel tutto un fatto subiettivo sarebbe o una pura fantasia, che l'esperienza distruggerebbe ( i l che è contraddetto da tutta la nostra indagine), ovvero una semplice posizione logica, cioè di sua natura astratta e chiara, mentre noi assumiamo che la intuizione sia oscura e diretta. La risposta che daremo a l secondo quesito servirà anche di riprova della risposta affermativa data per questo primo quesito.

Possiamo guardare i l tutto, del quale abbiamo l'intuizione, sotto vari aspetti. Esso è, in prima istanza, il tutto esistenziale, del quale noi siamo parte; possiamo chiamarlo il tutto spazio- temporale. La nostra esistenza personale è nello spazio e nel

tempo. Non possiamo concepirla al di fuori, perchè lo spazio è la stessa realtà continua alla quale noi partecipiamo; il tempo è la stessa realtà continua nel suo processo al quale noi par- tecipiamo. Come non si dà realtà spaziale che non sia tempo- rale, così non si dà realtà temporale che non sia spaziale. I1 tempo è i l ritmo (processo) della sostanza coesistente, così come

lo spazio è la coesistenza della sostanza ritmica (processuale). Con l'esperienza e la scienza possiamo formarci delle idee ap-

prossimative di questo mondo coesistente e processuale e dei suoi vari sistemi continui e ritmici sino a limiti inconoscibili. Ma sia esso concepito in una maniera o in un'altra, secondo le epoche e le civiltà, noi ne abbiamo l'intuizione come di una realtà indifferenziata. Prima di averne l'esperienza noi sentiamo di partecipare, con posizione e ritmo proprio, alla realtà cosmica una nella sua molteplicità. Le idee analitiche servono ad illu- minare la nostra intuizione oscura e diretta.

L'altro tutto, quello del pensiero astratto, degli universali derivati dalla realtà concreta e designanti la realtà noumenica,

è un prodotto del nostro pensiero logico, frutto di esperienza e

di acquisizione scientifica. Ma esso ha per base la realtà cosmica, non solo negli individui che la compongono, sì bene nel suo complesso esistenziale. I-, l'intelletto che dalla conoscenza limi-

tata di un certo numero d'individui ricava i generi e le specie,

definisce, categorizza, universalizza; l'intuizione del tutto ac- compagna tale elaborazione intellettiva in ogni suo atto.

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C'è di più: la necessità di unificazione ci spinge fra due poli: l'io e il tutto. Questo non può essere incoerente, un ammasso di. realtà individue o un ammasso di idee slegate; il tutto o è uni- ficato o non è, così nella realtà come nel sistema di idee. Quando noi arriviamo al concetto di « entità », noi abbiamo trovata. la espressione piii astratta e insieme più concreta della realtà, il suo punto centrale d i unificazione sistematica: la logica e la metafisica hanno lo stesso punto di arrivo; ci rappresentano nell'entità il tutto fisico-cosmico come un sistema coerente di idee e di realtà. Arriviamo così ad avere per l'esperienza e per. lo studio un'immagine logico-metafisica di quella stessa realtà che ad ogni nostra intellezione ci si presenta come un tutto indifferenziato oscuramente intuito.

Ma è questo il tutto? I1 cosmo ci si presenta in forma con- creta e contingente e quindi causato; l'ente ci si presenta uni- versale e quindi quale astratto e indeterminato. Con la nostra ragione possiamo arrivare ad una « Prima Causa e ad un « Ente universale concreto e infinito. Tutto ciò è noto e dimo- strato secondo la filosofia tradizionale. Quel che ancora ci spinge ad andare avanti nella nostra indagine, è i l desiderio di verificare la tesi di G. Picard, cui abbiamo fatto cenno all'inizio. Ora noi vediamo il problema dell'intuizione di Dio sotto altra luce, per cui formuliamo i l seguente quesito: C( Nell'intuizione diretta e oscura del tutto - mondo della concretezza reale e dell'astrazione universalizzante - vi è anche l'intuizione della Causa Prima, Ente infinito universale e concreto? D.

Teologi e filosofi convengono che Dio è in tutte le cose per essentiam, per potentiam et per pruesentiam. San Paolo disse agli Ateniesi: In Lui abbiamo il movimento, la vita e l'essere D. In tutte le creature sono realizzati gli archetipi divini, e l'uomo specialmente fu fatto da Dio a sua « immagine e somiglianza onde ben potè Tertulliano parlare di un'anima nuturaliter chri- stianu, e sant'Agostino ebbe ragione di rivolgere a Dio 'quel potente Fecisti nos ad te.

Ma tutto ciò non prova che nell'intuizione da noi studiata

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si attinga alla Divinità come ente infinito o causa prima o altra delle idee che noi formuliamo in virtù di induzioni o deduzioni ragionative; solo possiamo affermare che il tutto della realtà intuita non è nè a l di fuori di Dio, nè concepibile da sè come un vero tutto. Queste affermazioni esplicite, che balzano chiare quando noi definiamo la realtà, si trovano implicite nell'ap- prensione del tutto indifferenziato. Perciò a noi sembra che il filosofo francese Lavelle, nel suo interessante studio sul tota- le (*), non marcando bene tale differenza, dia l'impressionc di piegarsi verso un panteismo che chiamerei (C pre-logico D, e che non è scevro di pericoli.

L'esperienza stessa del reale individuato è quella che ci fa rilevare l'intuizione del tutto indifferenziato come concomitante

'

ad ogni nostro atto conoscitivo. Nessun prelogismo, quindi, e nessuna confusione del tutto. cosmico con il Tutto infinito. Se da un lato per l'intuizione oscura e diretta della realtà noi attin- giamo la realtà indifferenziata, dall'altro lato noi siamo capaci di distinguerne e selezionarne i valori a mano a mano che allo stesso tempo apprendiamo la realtà distinta. Ora uno dei valori insiti alla conoscenza umana è quello del rapporto essenziale con l'assoluto: (C Au sein de toute intellection humaine (scrive J. Maréchal S. J .) I'élément de signification objective enveloppe une relation ontologique à l'dbsolu (**). Questa relazione on- tologica non potrebbe affatto spiegarsi se fosse semplice conse- guenza della conoscenza; essa è, invece, intrinseca alla natura stessa del soggetto conoscente e alla natura degli oggetti cono- scibili e conosciuti; è un dato essenziale del reale che affetta la conoscenza e' le dà un dinamismo inesauribile; la volontà e l'agire umano ne sono investiti: quel che è l'assoluto per l'intel- letto, è il bene per la volontà.

Dice lo stesso Maréchal che « si la relation des données à la fin dernière de l'intelligente est une condition à priori intrin- sèquement constitutive de tout objet de notre pensée, la connais- sance analogique de l'fitre absolu, comme terme supérieur et ineffable de cette relation, entre implicitement dans notre

(*) L. LAVELLE, La présence totale. Paris, 1934. (H) Le point de départ de la Métaphysique, Cahier V , p. 442.

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conscience immédiate de tout objet en tant qu'objet ... » (*) e più sotto afferma che: a nous trouvons celui-ci (1'Etre absolu) implicitement affirmé comme nouniène positif dans tout juge- ment » (**l. È da avvertire subito che il Maréchal esclude qual- siasi forma di pensiero intuitivo. Quel che per noi è intuizione del tutto, per lui è solo « besoin rationnel de totaliser (***). Noi lo citiamo qui perchè la sua affermazione circa l'intrinseco rap- porto oggettivo del reale cosmico all'assoluto è quel che c'inte- ressa per la nostra conclusione.

Tale rapporto intrinseco è talmente connaturato al soggetto pensante, che non può in qualche maniera non essere attinto nella sua intuizione (o presenza) di sè a sè stesso. In tale atto il soggetto non arriva a precisare alcuna nozione distinta del- l'assoluto, nè del contingente, nè del loro nesso: arriva a com- prendere la necessità di una realtà stabile alla quale si riferisce e della quale, in certo modo, partecipa. L'intuizione del « tut- to », come l'abbiamo esposta e discussa, è un movimento di ne- cessità interiore verso l'assoluto.

Questo assoluto, non precisato nei suoi contorni, è il fondo misterioso e solido del tutto indifferenziato; esso ci si rivela a

. - mano a mano che l'intelletto conosce i l reale particolare nelle - sue essenze e individualizzazioni, nelle sue sistemazioni e nei suoi rapporti; a mano a mano che la volontà e l'agire umano realizzano nel fatto le verità conosciute.

Possiamo pertanto concludere che noi abbiamo « natural- mente )I un,'intuizione oscura di Dio come l'Assoluto, nell'atto

. stesso dell'intuizione oscura e diretta del tutto indifferenziato, -

e quindi in ogni nostro atto conoscitivo.

(*) 1. C. pag. 425. (**) 1. C. pag. 448. (W) 1. C. pag. 445.

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IV.

IL PROBLEMA DELL'ASSOLUTO

1. - IL RELATIVO IN FUNZIONE DI ASSOLUTO.

Dell'assoluto abbiamo solo una conoscenza indiretta; sia che deduciamo dal contingente l'idea dell'assoluto sia che ne abbia- mo intuizione come di un tutto (*). Ciò non vuol dire che l'idea dell'assoluto sia estranea o secondaria alla nostra vita; noi ab- biamo bisogno dell'assoluto e l'assoluto proietta la sua ombra (meglio dire, la sua vitalità) su tutta la nostra esistenza. E poi- chè in questa vita non possiamo conoscere l'assoluto direttameni te, nè conquistarlo in sè stesso, nè arrivare d'un salto alla sua idea, noi lo cerchiamo nel relativo, con il relativo a volte lo confondiamo, o piuttosto attribuiamo al relativo la funzione di assoluto.

Sappiamo bene che nel mondo della nostra conoscenza nulla esiste che non sia relativo, e noi siamo relativi, e relativo è il nostro modo di intendere. Ma quando noi parliamo del mondo della nostra conoscenza » già formiamo un tutto per sè stante che prende l'aspetto di assoluto. I1 mondo della nostra cono- scenza lo creiamo noi, derivandolo dalla esperienza che abbia- mo della realtà esterna; noi pensiamo questa nostra esperienza come un mondo a sè stante, un mondo che ha una sua realtà; d i fronte a noi questo mondo piglia figura propria. In fondo, noi trasformiamo « il mondo della nostra conoscenza » in « un mondo in sè D e gli diamo per ciò stesso un certo carattere di assolutezza.

Occorre notare che quando noi diamo ad un determinato

(*) Vedi il capitolo 111. I

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relativo una tal quale funzione di assoluto, allora, sentendolo finito, cerchiamo spontaneamente un altro termine a cui esso possa essere relativo. Le idee d i assoluto e di relativo non le confondiamo mai nel nostro pensiero, perchè sono inconfondi- bili; anzi allora le distinguiamo più chiaramente quando i l no-

stro pensiero si fissa sopra un termine come assoluto. Così, quando i materialisti pensano alla materia eterna e vi attribui- scono qualità assolute, essi pensano ad una materia astratta . dalle condizioni del particolare concreto, ad una materia idea- lizzata, in confronto alla quale tutto i l fenomenico sarebbe il relativo. Così fanno gli idealisti con l'idea dello Spirito assoluto, le manifestazioni del quale sarebbero semplici fenomeni.

Quando dal mondo della nostra conoscenza trasformato in mondo in sè, noi passiamo a pensare un principio, sia esso un

principio conoscitivo ovvero un principio esistenziale, in qual- siasi modo sia esso pensato, noi facciamo una nuova trasposi- zione di termini; il mondo in sè diviene il relativo, e il suo principio l'assoluto. E così via via, questi passaggi di termini fluttuano continuamente nel nostro pensiero, fino a che ritro- viamo in noi un'idea di assoluto che non soffra più il passaggio

a relativo, cioè di un assoluto che mai possa essere ad altro relativo.

Quando i teologi dicono che noi siamo relativi a Dio e che Dio non è relativo a noi, a prima vista sembra che essi enuncino un controsenso, un impensabile; perchè a prima vista, se un termine è relativo ad un altro (uomo a Dio), il secondo termine

per ciò stesso dovrebbe essere correlativo a l primo (Dio a uomo). Ma se si riflette bene al significato delle parole assoluto e rela-

tivo, i teologi hanno piena ragione, anche nell'ordine del va- lore del nostro pensiero.

Quando pensiamo a qualcosa di assoluto, lo concepiamo per sè e a sè stante, senza alcuna' dipendenza; invece il relativo è sempre pensato come dipendente da un assoluto, anche quando lo concepiamo come correlativo ad altri termini non assoluti.

Nell'assoluto è il principio e la ragione del relativo, e non vi- ceversa.

Riprendiamo l'esempio del mondo della nostra conoscenza.

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Se lo concepiamo come mondo a noi relativo, da noi in certo modo creato, allora noi, cioè il soggetto, assumiamo la funzione di assoluto, e il mondo è come una nostra dipendenza, e non vice- versa. Se, invece, noi lo concepiamo come un mondo a sè stante,

realtà fuori di noi, allora esso non dipende più da noi, ma siamo noi che in un certo modo dipendiamo da esso. Illusione! È vero, si tratta di un'illusione, perchè la relatività fra noi e il mondo è reciproca; pure noi, nel nostro pensiero, o tendiamo a repu-

tare noi stessi come termine e valore della sintesi, e quindi a far d i noi l'assoluto, di cui tutto i l resto sarebbe relativo; ovvero noi sottraiamo noi stessi dalla sintesi e concepiamo la realtà come un tutto a sè, un assoluto fuori di noi, del quale noi' pos- siamo considerarci o quali osservatori estranei, ovvero quali Ee- nomeni passeggieri e perfino insignificanti.

È così che noi sentiamo l'assoluto, come termine a cui tutto è relativo, senza che esso sia ad altri relativo. Quando i teologi dicono che Dio non è nè mai può essere relativo alle sue crea- ture, neppure quando è' concepito come creatore, non fanno al- tro che dare all'idea di assoluto tutta la sua dovuta ampiezza e l a sua profonda realtà.

Perchè noi dobbiamo fare uno sforzo, un vero sforzo per fis- sare i confini della materia finita? Quando abbiamo concepito

infinite distese spaziali e milioni di mondi, possiamo continuare a concepirne ancora altri. I1 circoscritto di fronte all'indefinito prende la figura d i relativo in rapporto all'ombra dell'assoluto. E poichè il gioco dell'indefinito non può perpetuarsi senza che se ne senta l'inanità, allora ci arrestiamo ai mondi concepibili in confronto ad un'entità assoluta, che è nominata in forma astratta o in forma concreta, come Natura, Forza, Volontà, Dio. Così allo stesso modo l'idea temporale non può avere in sè stessa un ter- mine nè a parte unte nè a parte post se non arrivando in certo modo alla medesima entità assoluta.

La stessa idea di assoluto è proiettata nel relativo temporale-

spaziale ; così di fronte alla materia estesa la forza che si mani- festa nel moto, nella vita, nell'armonia cosmica diviene un che di assoluto di fronte alle singole manifestazioni di forza, d i vita o di armonia; cioè l'uno ha sempre la figura di assoluto di

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fronte al molteplice, come l'unificante e il sintetizzante di fronte al moltiplicante e all'analizzante, l'atto d i fronte alla potenza.

La storia dell'uomo è segnata di queste immagini o ombre del- l'assoluto. L'età dell'oro ha un valore assoluto di fronte alla de- cadenza e alla rovina, come l'Eden di fronte alla colpa del pri- mo uomo. La fine dell'esistenza umana e la catastrofe apocalit- tica sono un assoluto di fronte alle fasi della vita dei popoli; la vita presente è un assoluto di fronte al passato, così come la morte e la vita futura (in qualsiasi modo concepite) lo sono di fronte al presente e al passato.

La concezione di una temporalità che non finisce mai e che si evolve sempre porta con sè la necessità di concepire anche un elemento che persista sempre e non perisca mai, sia esso la ma- teria o lo spirito o altra ragion d'essere, secondo le concezioni filosofiche, mitiche o religiose: occorre che questo elemento prenda l'aspetto di assoluto.

E che cosa è la nostra vita personale se non un continuo tra- sporto d i valore del relativo nell'assoluto e dell'assoluto nel re- lativo? E in questo trasporto siamo noi stessi che in fondo ci valutiamo ora come assoluto ora come relativo, secondo che in 'modo debito o indebito, vero o erroneo, noi fissiamo il nostro pensiero che ha bisogno de l l ' app~g~ io di un assoluto per eslen- dersi nella molteplicità del relativo.

Questo continuo trapasso è insito al nostro modo di inten- dere e quindi di vivere. Noi cerchiamo la verità; la verità è l'oggetto e la base del nostro vivere. Quando noi ci sforziamo di conquistarla, di farla nostra, noi la valutiamo come valore

assoluto. « La verità partecipa dell'assoluto » e la verità è l'assoluto » sono due affermazioni che hanno una stretta con-

nessione, benchè « la verità » nella prima proposizione sia i l vero che noi conosciamo, e nella seconda sia la Verità sostan-

ziale, che non possiamo conoscére che in simbolo. Lo stesso si dica del bene partecipato e del bene sostanziale.

Noi non possiamo fare a meno di attribuire alla verità come conoscenza del nostro intelletto, e al bene come oggetto della

nostra volontà, un valore di assolutezza al momento che ne facciamo la conquista. Per quanto noi siamo in grado di coor-

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dinare le verità relative alla Verità assoluta e i beni relativi al Bene assoluto, pure noi non possiamo sottrarci al fascino che viene dalla verità e dal bene conquistabili sotto una qual- siasi parvenza d i assoluto.

È questo u n lato che potremmo chiamare «-mistico » di tutti. gli sforzi che noi facciamo nella nostra vita spirituale, che tende a termini particolari e concreti, sotto l'aspetto d i vero e di bene. Ed è mistico, perchè è un avvicinamento e quasi una partecipazione all'assoluto, che attraverso i valori d i verità e d i bene si mette in comunicazione con noi. E non è possibile sfuggirvi, anche quando si cercano il vero e il bene in modo non ordinato, cioè con alterazione di valori. Perchè tanto nell'uomo conoscente, quanto nelle cose conosciute nelle loro varie forme di contingenza, risplende un elemento inafferra- bile che è l'orma dell'assoluto, il segno della forza creatrice, il valore del pensiero dello Spirito, la realtà suprema di Dio. È impossibile vivere la nostra vita relativa e contingente, e viverla da conoscente e non da bruto, senza sentire la presente realtà dell'assoluto.

2. - IL PURO ASSOLUTO.

Quando gli idealisti concepiscono lo (C spirito come l'as- soluto che si realizza, mescolano insieme assoluto e relativo. Ove c'è dinamismo di processo e d i attuazione c'è limite, rela- tività. 11 puro assoluto come tale nega ogni processo, ogni limite, ogni contingenza.

Gli idealisti giustificano il loro modo d'intendere l'assoluto con il fatto che la realtà intuibile (che per essi è lo stesso sog- getto conoscente) non ci dà altro elemento che un continuo realizzarsi, cioè un continuo conoscersi. I1 soggetto si conosce come limitato in quanto il suo realizzarsi è limite a sè stesso; ma si conosce come altresì illimitato e quindi assoluto, in quanto il suo realizzarsi non ha limiti nè avanti nè indietro, movendosi in un perfetto circolo.

In sostanza, per gli idealisti l'idea di un assoluto che non sia la stessa realtà del soggetto pensante, non è che un'astra-

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zione concettuale, nella quale si proietta l'elemento d i infinità della nostra stessa coscienza, che noi per abitudine metafisica appelliamo assoluto. Per essi, assoluto e relativo sono posizioni mentali e non mai la realtà; questa non è nè pura assolutezza nè pura relatività, ma solo concretezza, assoluto e relativo insieme.

Per coloro che, come noi, ritengono che soggetto e oggetto sono due realtà distinte e non mai un'unica realtà indistinta che si distingue, è punto interessante da studiare se <( assoluto e relativo » siano semplici posizioni mentali, ovvero anche con- crete e distinte realtà.

Certo u assoluto e relativo » sono due idee astratte, però non astratte dal nulla, ma da una realtà che noi intuiamo come realtà. Tutto sta a vedere fino a qual punto il concreto intuito dà a noi gli elementi d i tali idee. Nel fatto, mentre l'idea d i relativo è applicabile a tutta la realtà direttamente intuita che non potrebbe intuirsi se non come e in quanto relativa, l'idea d i assoluto non è ad essa applicabile. Quel che noi di assoluto intuia- mo nella realtà concreta è sempre un assoluto-relativo, cioè un assoluto secundum quid, come dicevano gli antichi, o meglio un relativo in funzione di assoluto, come diciamo noi oggi.

Per concepire un assoluto realmente tale, dobbiamo uscire fuori della realtà yensibile e della nostra autocoscienza. I1 che vuol dire che I'assot'uto puro non è oggetto di intuizione diretta,

4 non è noi stessi, come oggetto della nostra autocoscienza; ma è per noi un'idea ( e poi vedremo se è solo un'idea o anche una realtà) che deduciamo dalla realtà intuita e che indirettamente e oscuramente intuiamo (*).

Quando gli idealisti affermano che l'assoluto è nella realtà intuibile e cosciente, che per essi è in fondo auto-cosciente, affermano un dato d i coscienza inesistente. Nessuno d i noi (io fenomenico) ha avuto o avrà mai coscienza di essere proprio il fenomeno de117assoluto (io spirito), sì che la nostra auto- coscienza personale si confonda con l'auto-coscienza del1310 assoluto comprensivo totale unico. Ora, una delle due: o lo u spirito D non è autocosciente della sua infinità e assolutezza,

(8 ) Vedi i1 capitolo IV.

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cioè non è spirito; ovvero la sua coscienza si fraziona in mi- liardi e miliardi d i coscienze fenomeniche, passate, presenti e future, delle quali ognuna accusa di essere un semplice con- tingente, limitato, transeunte. E per giunta questo io-fenome-

. nico non ha nessuna auto-coscienza degli altri io-fenomenici, onde sarebbe condannato ad avere solo una coscienza d i sè stesso, sì da non potere mai uscire da sè, tranne che per un processo di sdoppiamento e di risoluzione del quale non avrebbe neppure coscienza.

La verità è che noi abbiamo coscienza del relativo, non mai dell'assoluto. L'assoluto è in noi solo un'idea trascendente, e

non è per nulla l'idea di una realtà che sia in noi o che si confonda con noi.

L'idea trascendente di un assoluto che è sorta in noi, ma che non rappresenta noi nè la realtà in cui noi viviamo, sarà

forse un assoluto che non sia cosciente? La materia assoluta,

per esempio? Questa, in quanto materia, ha una realtà limi- tata; pur trasportandone i limiti nell'indefinito, la materia resta sempre riducibile al finito, fuori quindi di ogni assolu-

I tezza. Alla nostra mente ripugna concepire un assoluto che non sia spirito, e uno spirito che non sia cosciente. Ma i l nostro pen- siero ha un limite insuperabile, perchè tale assoluto cosciente infinito in atto resta al di là degli elementi del pensiero, non trovando nè in noi nè fuori di noi una realtà direttamente intui- bile che sia realmente assoluta.

Ecco perchè noi ci arrestiamo a constatare l'esigenza di un assoluto cosciente, pura infinità e pura attualità; ma non pos- siamo 'comprendere il valore che i termini (posti da noi come esigenza logica) ci dànno come realtà ontologica. I1 che in sostanza vuol dire che noi non intuiamo la realtà infinita, cioè l'assoluto puro, ma, a parte ogni intuizione indiretta e oscura - che non è qui oggetto d i esame - ne constatiamo logicamente, in via deduttiva, la necessità e ne deduciamo l'esistenza.

Gli avversari ci contestano i l procedimento logico e la con- seguenza alla quale arriviamo, dicendo che noi facciamo un trapasso dalla idea alla realtà, dal concetto logico al suo sup- posto valore reale; e mentre l'uomo per conoscere va dalla

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realtà all'idea, qui faremmo il contrario; il che, secondo gli

stessi avversari, non sarebbe altro che fare della metafisica.

Coloro che parlano così, e ve ne sono molti, non riflettono anzitutto che neppure essi, ragionando e filosofando, possono evitare di fare della metafisica, nel senso che ogni costruzione ideale o sistemazione della realtà porta ad una metafisica del- l'assoluto. Gli idealisti affermano lo spirito che si realizza, i materialisti la materia che si evolve, i naturalisti la natura che si individua. Così altri la Volontà o l'lnconoscibile o l'ldea O

la Sostanza. E anche coloro che non vogliono arrivare all'af- fermazione di alcun principio assoluto, e fanno solo del pragma- tismo come gli associazionisti, gli emozionisti, i positivisti, gli psicologisti, e altri con qualifiche vecchie e nuove, trattano come dato assoluto lo stesso oggetto del loro studio, cioè la causalità del fenomenico n di cui si occupano e a cui riducono i dati della loro esperienza.

Ma quale essa sia la formula espressa o sottintesa, in cui ogni filosofo racchiude e per mezzo della quale esprime ' la realtà assoluta, egli vi arriva per via dell'idea dell'assoluto che

. ha derivata dalla realtà concreta, cioè dai dati della espe- rienza. Egli ha fatto la stessa via che abbiamo fatto noi, quando siamo arrivati a concepire la necessità e quindi la realtà del- l'esistenza dell'assoluto.

La differenza tra noi e loro sta in ciò, che essi concepiscono I'assoluto immanente, e per ciò stesso non cosciente, e noi lo concepiamo cosciente e quindi trascendente. Essi chiamano i l nostro metodo un trapasso dall'idea e ad una presunta,realtà e quindi una pura applicazione metafisica, mentre credono che

il loro sia processo dalla realtà all'idea e quindi un momento della dialettica. t

Ma è poi vero che facendo dell'assoluto un immanente si evita il trapasso dalla idea alla realtà?

Abbiamo già visto, ed è bene ripeterlo, che l'idea dell'as- soluto, comunque definito, nasce dalla esigenza teoretica di una realtà non risolvibile in altra. Tale idea non viene da sè,

a priori, ma sorge dalla intuizione stessa del reale, la cui feno- menicità o contingenza esige un assoluto come reale necessità;

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è la stessa realtà concreta, in quanto relativa, che postulando l'assoluto fa nascere in noi l'idea dell'assoluto.

Come tutte le idee che sorgono in noi, derivano origina- riamente dall'intuizione della realtà, così l'idea di assoluto (come pura esigenza del relativo) deriva dalla intuizione della realtà. Fin qui, noi e gli altri siamo d'accordo.

Ma quando vogliamo comprendere bene il valore delle nostre idee, allora facciamo una costruzione teoretica, che per essere tale richiama sempre una istanza definitiva irriducibile. Questa costruzione viene da noi fatta non in altro modo che passando dalle idee alla rkaltà dedotta. I1 passaggio dalla realtà concreta alle idee è dato normalmente dalla intuizione; il passaggio dalle idee ad una realtà sistematica è dato normalmente dalla dedu- zione.

Certo, nulla può dedursi che non sia implicito nella intui- zione; ma il cammino inquisitivo non è evidente per sè, è spesso difficile e involuto, sì che è facile errare e difficile arrivare a , scoprire i l vero in tutta la sua interezza. Se non fosse così, tutto i l vero -sarebbe conosciuto completamente e simultaneamente nella stessa intuizione.

Credono forse gli idealisti che la loro scoperta dello « spirito- noumeno » che si relativizza nel fenomeno non sia un trapasso dall'idea ad una realtà, comunque concepita, ma sempre ad una realtà? Se così credono, s'illudono: essi invero, sistemando le loro idee, colgono un lato della realtà; ma per un errore ini- ziale (quello del soggetto che si fa oggetto) e per il pregiudizio antimetafisico, non arrivano a cogliere la vera natura dello spirito trascendente.

Lo stesso è a dirsi delle altre teorie. In fondo, non c'è che una via per arrivare alla conoscenza dell'assoluto (come a qual- siasi conoscenza sistematica del reale): il cosidetto « trapasso dal- l'idea alla realtà », perchè non c'è idea che non rappresenti i l reale e che non derivi dal reale e che non conduca al reale.

Tutti, immanentisti e trascendentisti, facciamo così, ben- chè gli uni affermino l'assoluto nel relativo e gli altri lo dedu- cano dal relativo, senza confonderlo con esso.

Ci si oppone, in primo luogo, che i l processo di conoscenza. non è identico, perchè negando i trascendentisti che l'assoluto

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sia nel relativo, invalidano la legge superiormente posta, cioè, che la deduzione non sia altro che la scoperta del vero che trovasi nella stessa realtà intuita. Ora, se l'assoluto fosse distinto dal relativo e ad esso trascendente, nulla vi potrebbe essere nel relativo che potesse venire intuito come assoluto.

A questa d s c o l t à noi abbiamo già risposto nel corso del nostro studio, là dove abbiamo detto che è il relativo stesso che postula l'assoluto, che vi è non solo un'esigenza teoretica del- l'assoluto, ma che ogni sistemazione della realtà esige un termine non risolvibile in altro.

Occorre chiarire ancora questo punto, che, 'nei termini suin- dicati, potrebbe sembrare tuttavia oscuro. Conveniamo, adunquc, con i nostri avversari che l'assoluto deve farsi in qualche modo immanente nel relativo per potere dare luogo alla iniziale cono- scenza intuitiva d i esuo. L'errore degli immanentisti consiste url supporre che l'immanenza non sia altro che fusione o confusione o identità, che costituisca così un monismo fondamentale che sintetizzi l'assoluto e il relativo in perpetua vicenda dialettica.

L'immanenza di cui parliamo non solo non esclude, ma postula la dualità e la trascendenza, in quanto concepiamo un relativo in tutto dipendente dall'assoluto e un assoluto che si comunica al relativo. I teologi dicono che Dio è presente nel creato; essi così affermano non solo la dipendenza del creato, ma i l valore d i una presenza in certo modo rivelatrice di sè. Onde san Paolo, nel doppio senso naturale e soprannaturale, poteva ben dire: In ipso vivimus movemur et sumus (*). I1 che in termini filosofici si esprime con la frase che l'assoluto si fa in qualche modo immanente nel relativo, per cui questo postula necessariamente l'assoluto.

Contro questa concezione si oppone, in secondo luogo, che se l'assoluto è una realtà non confondibile col relativo, cioè relativo e assoluto sono una dualità, allora o si limitano a vi- cenda, e quindi l'assoluto non è più assoluto; ovvero non si limitano e allora si confondono, sono cioè una sola realtà che si dialettizza.

La differenza così posta, ci fa vedere (come abbiamo notato

( 8 ) Atti, 17; 28.

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1 sopra) i limiti insormontabili del nostro conoscere, in quanto noi non possiamo andare più in là degli elementi dati dalla intuizione e svolti dalla deduzione. Invero, dal punto d i vista logico, noi rispondiamo riprendendo il ragionamento avversa- rio: se il relativo limitasse l'assoluto, questo non sarebbe più assoluto ; ovvero, se i l relativo fosse lo stesso assoluto, il relativo non sarebbe più tale.

Come si vede, brancoleremmo in una serie di contraddizioni se non volessimo ammettere che l'assoluto non subisce nè può subire alcuna limitazione; e per ciò stesso l'assoluto non è rela- tivo al contingente; nè il contingente o creato è emanazione o attuazione della sua infinità, ma è realtà propria, relativa e su- bordinata alla realtà assoluta.

Solo così, e non altrimenti noi possiamo soddisfare l'esigenza logica dell'assoluto reale e l'esigenza dialettica del nostro pru- cesso relativo. Non si dà altra soluzione che intimamente sod- disfi e che sia scevra da contraddizioni.

Scrittori e filosofi ci accusano di fare della mitologia e del- l'antropomorfismo quando noi affermiamo che l'assoluto (che per noi è Dio) non può essere che personale. Essi, al contrario, concepiscono l'assoluto, o infinito, come l'indeterminato e la realtà concreta come il determinantesi; onde per essi l'essere personale, che è il più concreto e definito degli esseri, è il con- trario dell'essere assoluto o infinito.

I1 noto scrittore £rancese Julien Benda, con una serie d i arti- coli da sofista sulla Nouvelle Revue Francaise, cercò di co- struire una sua teologia negativa, sulla base di un infinito, o di- vino, come l'indeterminato opposto al finito o mondano. Da questo punto di partenza egli usa una sua logica rigorosa, conse- guenziaria, per arrivare ad affermare che Dio non è altro che i l mondo (essere concreto) pensato come indifferenziato sotto la categoria della contraddizione, mentre lo stesso essere concreto, pensato come differenziato e realizzantesi, è i l mondo fenome- nico sotto la categoria della identità. Benda è un esempio e la sua posizione mentale è, più o meno chiaramente, assai diffusa nel campo della cultura.

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Sgombriamo anzitutto il terreno dalla confusione tra essere infinito e essere indeterminato. L'idea di essere indeterminato

non rappresenta la realtà in sè, ma è solo un modo di analizzare la realtà. Come gli antichi, per indicare i l principio di individua- zione, avanzarono l'idea d i una potenzialità indefinita che si definisce con l'atto e la chiamarono materia prima, perchè nella materia fissavano il dato specifico della individuazione delle for- me ; così i moderni parlano di un essere indefinito che si defini-

sce,'e che nella nostra mente può ridursi al principio di contrad- dizione, cioè: essere uguale a non essere, in opposizione alla realtà concreta come principio di identità, cioè: essere uguale ad essere, ovvero (che è lo stesso) uguale al non - non-essere.

Siamo nel campo dei simboli logici, opportuni e talvolta ne- cessari per arrivare a definire il valore delle nostre idee in rap- porto alla realtà. I1 problema che ci si pone davanti è il se-

guente: si esaurisce la nostra ricerca della realtà quando noi concepiamo il mondo sotto i due angoli visuali di potenzialità

(principio di contraddizione) e di attualità (principio di identi- tà)? E se non si esaurisce, come di fatto avviene, possiamo noi arrivare a concepire una realtà che non soffra di alcuna poten- zialità e che sia solo attualità?

Ci è molto difficile concepire una realtà puro atto, perchè essendo noi potenza e atto tendiamo ad assimilare l'oggetto co-

nosciuto al nostro modo di essere. Lo sforzo della nostra mente deve poter superare i limiti della nostra stessa realtà indivi- duale.

In questo sforzo incontriamo un altro ostacolo: Dio, come oggetto del nostro pensiero, è altro da noi; saremmo così una dualità, cioè due realtà escludentisi e limitantisi a vicenda? Se

così fosse, l'assoluto, l'infinito non sarebbe più tale; i nostri oppositori avrebbero su noi un facile trionfo per il noto dilem-

ma: o noi siamo uno con Dio formanti un unico assoluto (im- manentismo principio di identità) ovvero noi e Dio siamo una

dualità escludentesi (indeterminatismo - principio d i contraddi-

zione); nell'un caso e nell'altro Dio non sarebbe una realtà di- stinta da noi.

L'errore di questo circolo vizioso consiste nel confondere sul-

42

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lo stesso piano le due realtà, l'una assoluta (Dio), l'altra con- tingente (noi) ; l'una realtà in sè, l'altra realtà partecipata ; l'una creatore, l'altra creatura; l'una atto puro, l'altra potenza ed atto; l'una il vero reale, l'altra un ente non-ente. Fra i due ter-

- "-

-mini è impossibile ammettere una correlazione limitativa, vi è intrinseca ripugnanza; il finito e l'infinito non sono sullo stesso piano; dobbiamo fare ancora un altro sforzo e fissare i l va- lore di questi due piani.

Ci si dice che facciamo della metafisica, come a dire che

fabbrichiamo un castello in aria di sottigliezze scolastiche e di presupposti teologici. Queste sono frasi; è certo che noi possia- mo dedurre dalla realtà intuita elementi atti a costruire una me- tafisica del divino, cioè dell'infinito o assoluto, mentre non ne- ghiamo che altri possa, non sappiamo con quanta logica, costruire la « metafisica » de117immanente e perfino del17indeterminato.

Certo dobbiamo aiutarci con analogie e similitudini tratte dal piano della realtà contingente, perchè altra realtà non in- tuiamo. Pensiamo all'uomo e alla sua ombra; forse l'ombra limita l'uomo? o forse l'ombra è una realtà per sè stante? Pen- siamo ad un oratore che pronunzia un discorso. Si può concepire il discorso come una realtà che limita l'oratore? ovvero come una realtà che si aggiunge all'oratore? Comunque concepito il discorso è stato solo un'attività dell'oratore, che è durata quanto è durata l'azione oratoria. Siamo sul terreno delle similitudini, e di esse devesi cogliere solo il lato che ci dia una certa visione del problema; non si domanda d i più.

Teologi e filosofi scolastici usano dire che i termini comuni

che noi predichiamo di Dio sono a lui applicabili solo in modo analogico. Noi diciamo che Dio è un ente, una realtà, una perso-

nalità, e questi sono gli stessi predicati che usiamo per indicare gli oggetti del mondo della contingenza. Ma il significato che ad

essi attribuiamo è semplicemente analogico. Anche quando di- ciamo che Dio è infinito traiamo l'idea dell'infinito dal finito in

concreto e perciò tendiamo a dare al17infinito un valore spaziale

o matematico, che può darsi solo all'indefinito. Allo stesso modo

l'idea del17eterno è tratta da quella di un tempo indeterminato.

Guardiamoci dal definire l'indefinibile, cioè dal dare ai termini

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il pretto significato tratto dalla nostra realtà. L'arcangelo Mi- chele, che è il simbolo della fede primitiva, rappresenta Dio come l'incomparabile: i l suo motto è: « quis ut Deus? n.

Tornando al punto di partenza, noi non possiamo intendere Dio che per mezzo del creato in quanto creato ; ma non per questo noi facciamo di Dio e del creato una dualità, ma sempre una reductio ad unum, la realtà e la sua immagine, la sostanza e la sua attività (ad extra) o, meglio, l'increato e la sua creatura.

Quando noi pensiamo Michelangelo e i l Giudizio Universale o Dante e la Divina Commedia, non diciamo affatto che il Giu- dizio Uniziersale o la Divina Commedia limitano quei due genii, ma al contrario che tali opere manifestano i l valore del genio.

Allo stesso modo che noi possiamo pensare all'opera e al suo autore come due entità a sè stanti su due piani diversi, cosi pos- siamo pensare Dio e il creato come due entità a sè, anch'ecse SU

due piani diversi. Ci risulta evidente un primo modo di inten- dere Dio e i l creato; cioè, che non vi è necessità di rapporto tra Dio e i l creato, sì bene che tale necessità vi è fra il creato e Dio: analogicamente lo stesso si può dire di Michelangelo e del Giu- dizio Universale, d i Dante e della Divina Commedia.

Questa considerazione è fatta solo per via di analisi nell'in- tento di arrivare a penetrare meglio la natura dei rapporti f ra Dio e il creato. Ma quando vogliamo pensare Dio senza i l creato, cioè prima della creazione, noi riusciamo a far ciò se combinia- mo insieme e sullo stesso piano le idee antitetiche di tempo e di eternità, e perciò attribuiamo a Dio un prima e un poi che in Lui non esiste, e che solo in noi esiste.

Un procedimento quasi analogo noi usiamo per le cose ter- rene. Noi distinguiamo un Dante prima di avere scritto la Di-

vina Commedia e dopo averla scritta; ma il Dante che noi con- cepiamo nel suo carattere storico, il Dante che è rimasto nella

coscienza dei posteri, è i l Dante che ha scritto la Divina Comme- dia. Solo per astrazione storica possiamo concepirlo prima d i tale opera; ciò facendo, noi nel fatto lo riferiamo alla Divinu Cominediu, sia pure come a un termine temporale negativo.

La nostra concezione di Dio non può essere che di Dio crea- tore, in quanto noi, soggetto conoscente, siamo entro la creazio-

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ne e necessitati dalla creazione. Solo pensando alla creatura noi diciamo che Dio non è necessitato ad essa, e che essa ebbe un inizio nel tempo, perchè essa è i l tempo. Se così non dicessimo, dovremmo pensare Dio e il mondo o come una dualità escluden- tesi ovvero come una unità immanente.

I1 nostro esame è fin qui basato sopra un punto che dev'es- sere ancora chiarito, cioè: perchè noi distinguiamo Dio dalla realtà contingente o fenomenica? perchè facciamo di Dio un ente che trascende il finito e quindi una sopra-realtà?

Nessun uomo che ragiona pensa di potere sfuggire alla impli- cazione di una entità assoluta, nella quale intrinsecamente o estrinsecamente, positivamente o negativamente si risolva ogni altro essere. Sotto questo aspetto si potrebbe dire che tutti gli uomini sono teisti, salvo ad avere idee diverse sulla natura del- l'Assoluto.

Tutti, inoltre, siamo costretti a risolvere i l contingente nel- l'assoluto, pena una continua petizione di principio, una vera fatica di Sisifo: un assoluto che sia come un limite della realtà e fonte di essa, come un principio e un fine. Alcuni ideano una catena perpetua d i risoluzioni, cioè di decomposizioni e ricom- posizioni della realtà fenomenica, una specie di circolarità della realtà; la catena d i risoluzione sarebbe come una spazialità che arrivi all'indefinito e una temporalità che arrivi all'intempora- lità, un contingente che si riveli assoluto. Ma qui siamo in un gioco logico, perchè in qualsiasi posizione di questa risoluzione circolare si trova sempre i l contingente che sviluppa la sua po- tenzialità limitata e per successione, sia pure indefiuita. Per- tanto la nostra mente si pone subito la domanda: quale forza o principio o elemento sviluppa l'attività circolare della realtà contingente? La Materia? Lo Spirito? La Natura? I1 Caso? La Volontà universale? Dio? Non può trattarsi che di un principio positivo e attivo distinto dalla realtà fenomenica, per il quale e nel quale la realtà fenomenica possa risolversi o con uno risolu- zione positiva, cioè essendo; ovvero con una risoluzione nega- tiva, cioè cessando di essere.

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Quando noi pensiamo ai due elementi, il risolventesi e quello per i l quale e nel quale avviene la risoluzione, ci mettiamo come al di fuori, da osservatori; cioè distinguiamo nel nostro pensiero i due termini, assoluto e contingente, e ne fissiamo il rapporto. Ma prima di procedere oltre dobbiamo risolvere il nostro stes- so problema di conoscenti o di osservatori e ritrovare i l nostro posto o nell'assoluto o nel contingente. I1 nostro pensiero co- sciente ci porterebbe a risolverci nell'assoluto, ma la nostra par- tecipazione alla realtà fenomenica, dipendenza da essa e limita- zione con essa, ci fa risolvere nel contingente. Per questa dualità di tendenze molti accettano la tesi dell'immanenza dell'assoliito in noi come la vera: tutto si risolve nell'uno. Però la stessa co- scienza ci richiama alla nostra realtà di esseri singoli, distinti. finiti, relativi. Nessuna coscienza abbiamo di essere noi il tulto- uno. Se poi si tratta di un tutto-uno incosciente e del quale nes- sun essere pensante ha o può avere coscienza, come potrebbe affermarsi questo tutto-uno in noi e con noi immanente? Avrcb- ber0 più ragione coloro che riducono un tale tutto-uno a pura potenzialità, come modo di pensamento della nostra stessa real- tà. Chè se invece si afferma che il tutto uno sia cosciente in sè, distinto dalla nostra coscienza fenomenica, allora dobbiamo per necessità pensarlo come sempre in atto, perchè un tutto-uno cosciente che sia insieme potenza (l'indeterminato) e atto (il de- terrninantesi) non sarebbe affatto il tutto-uno, ma anch'esso un finito, un fenomenico, un risolvibile come noi.

Tutto i l nostro sforzo d i identificare l'assoluto o l'infinito ci porta a concepirlo come un essere reale e cosciente e quindi personale: i l Dio della teologia cristiana. Torniamo ad insistere sul valore dei termini. Quando diciamo ussoluto intendiamo non condizionato, e dicendo infinito intendiamo non finito: idee negative esposte in forma positiva. Ma quando diciamo che Dio è reale, cosciente, personale, dobbiamo intendere questi termini non in senso univoco con ogni altra realtà cosciente e personale, ma in senso analogico, mantenendo sempre distinti, infinitamente distinti, i piani d i queste due realtà.

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Abbiamo visto più sopra come possa intendersi che la crea- zione non limita la divinità, ma solo la manifesta. Non abbiamo ancora affrontato la difficoltà che hanno molti a concepire una personalità infinita; per costoro i due termini sono antitetici, ed essi perciò insistono -néll'accusarci di -fare della mito- logia. Le idee di personalità e .infinità unite insieme sembrano antitetiche, perchè vengono concepite in funzione di una realtà per la quale le persone sono multiple e finite e l'una esclude l'altra. Superiamo questa concezione: è ciò possibile?

Un essere cosciente quale è l'uomo non può essere risoluto o unificato che in un altro essere cosciente. Onde in ultimo o si pensa a un Dio personale, ovvero ad una coscienza universale: sia essa i l logos dei platonici, l'intelletto « separato » degli aver- roisti, lo spirito degli idealisti o altra simile ipotesi. Che cosa sarà più contraddittoria, una personalità infinita ovvero una co- scienza impersonale? Se la personalità è coscienza di sè, l'im- personalità ripugna al concetto di coscienza, mentre una perso- nalità che ha coscienza della sua infinità non contiene nessuna contraddizione.

Invero, che è l'idea di finito applicato alla coscienza? Non è certo l'idea di una finitezza spaziale o temporale; è solamente l'idea della realtà dello stesso soggetto cosciente, se questo è d i fatto limitato ; è, adunque, l'idea del proprio limite. Noi uomini abbiamo coscienza della nostra limitatezza, perchè la nostra po- tenzialità e attività intellettiva e volitiva sono affette da limita- zioni di natura e occasionali, interne ed esterne, che noi non possiamo rimuovere. E quanto più i l filosofo, lo scienziato, il pensatore approfondisce la conoscenza della realtà, tanto più sente e i l proprio limite e'l'estendersi della realtà conoscibile ed esperimentabile fino al mistero e anche, per coloro che ne hanno intuizione mistica, al di là del mistero.

L'autocoscienza e personalità di Dio è pari alla sua natura infinita ed assoluta. Nessun limite interno: chi potrebbe porlo senza determinare un'ulteriore risoluzione? Nessun limite ester- no dato dalla sua stessa creazione, la quale è solo un manife- starsi ad extra e non mai un porre a sè dei limiti, che, del resto, per il fatto che sarebbero posti da Lui stesso, non sarebbero limiti.

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Un Dio personale non è affatto una concezione antropo- morfica, ma è super-umana, oltre i confini della nostra compren- sione. Noi non possiamo che afferrare gli elementi negativi d i

questa esistenza infinita ed esprimerli in modo positivo. Noi non riduciamo la personalità di Dio a un modo umano, noi tra-

sferiamo a Dio una pedicazione derivata dall'uomo cosciente, in quanto vogliamo negare che Dio sia o una coscienza universale impersonale, ovvero una non-coscienza. Intendiamo affermare che Dio è la super-esistenza reale, assoluta, infinita di un pensiero e di una volontà sempre in atto, purissima e senza limiti interni ed esterni.

Come di tutto quel che ci è direttamente ignoto e che cono- sciamo in certo modo per deduzione noi non abbiamo parole adatte a definirlo, e perciò usiamo una terminologia analogica e negativa, così facciamo di Dio. Se non ci riusciamo appieno è perchè Dio, oltre che direttamente ignoto, è infinitamente misterioso. Ciò non ostante noi possiamo pensarlo e il nostro pensiero può essere espresso con una terminologia abbastanza esatta per escluderne ogni elemento improprio e antitetico.

J. Benda, in uno dei suoi articoli pubblicati dalla Nouvelle Revue Fran~aise , afferma che gli uomini confondono l'essere supremo e l'essere infinito; per lui questi sono due concetti ben distinti, perchè si può concepire un essere supremo come con-

cetto di ordine del mondo fenomenico, e non come infinito, perchè, per lui, l ' idn i to è, come abbiamo visto, l'indeterminato. Parecchi accettano questa specie di essere o forza suprema, a cui

andrebbe ridotto ogni altro essere o forza, una specie dell'ari-

stotelico motore immoto, un principio di ordine, non importa se cosciente o incosciente, ma non infinito benchè supremo. Ma essi s'ingannano assai se credono di avere così soddisfatto alle esigenze del pensiero umano; perchè un tale essere supremo e non infinito non sarebbe altro che un distinto fra i distinti, e non potrebbe essere termine ultimo di risoluzione. L'idea di essere su- premo o include il tutto come infinito, immanente, indeterminato e determinantesi, e allora mancherà di coscienza e di personalità ;

ovvero è cosciente e personale, e allora sarà anche assoluto, in- finito, atto puro, creatore, cioè nessun altro che Dio, il vero Dio.

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Quando si afferma che l'idea di creazione è fuori della ra- zionalità umana, si ripete un pregiudizio senza riflettervi sopra, oppure non si ha un concetto esatto di quel che sia creazione. Questa contiene due idee negative: che il mondo non si è pro- dotto da sè, e che non è emanazione del principio assoluto da noi chiamato Dio. Contiene anche due idee positive: che il mondo ha avuto inizio per atto di potenza e volontà divina, e che pertanto è relativo al principio che vi ha dato l'essere ed è dallo stesso dipendente.

Tali affermazioni negative e positive sono completamente razionali e percepibili dalla ragione. Se non si trova tra i filo- sofi dell'antichità chi sia arrivato a pe~cepire chiare le suesposte nozioni, ciò non depone contro la razionalità delle stesse, ma denota solo la difficoltà di arrivarvi, come è awenuto e avviene per la conquista della verità.

Uno dei problemi posti al travaglio della mente umana, e mentalmente connesso a quello dell'origine del mondo esistente, fu quello dell'eternità della materia. Non concependo affatto una creazione ex nihilo, si ricorse ad un'attività antropomorfa di Dio che abbia dato forma e ordine all?universo sulla base d i una materia preesistente. Di qui la dualità del principio di Dio e di quello di Materia. Da questo dualismo derivò l'altro dell'origine del bene C del male, attribuendo il primo alla divi- nità e il secondo alla materialità.

Lasciando da parte le teorie del mondo antico, interesse destano quelle posteriori al cristianesimo, col quale fu diffuso il principio della creazione ex-nihilo come atto ad extra della divinità. Le teorie opposte vanno da un monismo sia materiali- stico sia idealistico, ad un panteismo che è ed assorbe i n sè tutti gli esseri.

I1 punto fondamentale di ogni conoscenza, sia dell'essere con- tingente sia dell'essere necessario, è dato dall'idea creativa, tanto in senso affermativo per i creazionisti che ammettono la dualità: Dio e Mondo, quanto in senso negativo per i monisti d i ogni specie.

Per intendere l'idea creativa, occorre dissipare l'ipotesi che

49 4 - S~unm - Problemi s p i ~ i t u a l i

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possa darsi una materia ab aeterno. Che cosa s'intende per ' eterno in contrapposto a temporale? I1 non avere inizio; cioè

un protendersi a *parte ante senza mai trovare i l proprio prin- cipio, come il protendersi a parte post senza mai trovare la propria fine. Questa idea, presentata da san Tommaso come non ripugnante alla ragione e solamente confutata dal fatto della rivelazione, che assegna all'universo un principio temporale, posa sopra una confusione d i termini. I1 temporale è un pre- sente che ha successione, cioè un processo di attività. Se questo processo non si dà, cioè se nessuna attività esiste nella materia

, creata in una immobilità interiore ed esteriore, senza vita nè sensibilità nè coscienza, allora non ci sarebbe in ipotesi nessuna temporalità; si tratterebbe di una immagine negativa dell'eter- nità, perchè sarebbe una. specie d i materia prima e di pura potenzialità.

Bisogna sottolineare che Ia vera eternità è la coscienza di un presente in atto completo, senza successione, senza poten- zialità. Se non ci fosse un assoluto infinito, non ci sarebbe una vera eternità. L'eternità di successione in avanti e indietro, non è un'eternità, si bene una temporalità, un presente limitato e successivo, non importa se in forma definita, ovvero in forma e successione indefinite.

Mentre facilmente è concepito un presente che si rinnova nell'avvenire in una serie perenne e senza termine, ~ o t e n d o in ogni istante passare da n a n - t l ; non è facile concepire una successione che non abbia inizio, cioè che non abbia un primo esistenziale senza alcun passato. Pur ricorrendo a formule mate- matiche, pur immaginando la circolarità dell'esistenza, resta la perennità anteriore difficile a comprendersi dalla mente, che tende a confonderla con l'eternità. In sostanza la perennità della successione sia avanti che indietro non è l'eternità, ma è sempre una temporalità; come l'esteso, sia pure concepito in indefinito e senza limiti ( e quindi anch'esso circolare), non è un infinito, ma è sempre un finito.

I1 concetto di eternità dice simultaneità e unicità di atto; il concetto di infinito dice mancanza di limiti e di potenzialità; l'uno e l'altro indicano I'assolutezza. Tali concetti non sono applicabili alla realtà contingente.

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La temporalità e l'estensione indicano successione, limita- zione, dipendenza, relatività, sono qualità di un essere che non può porsi da sè stesso nè completarsi in sè stesso. Unire i due concetti di eternità e d i temporalità come causa ed effetto, pre- cedente e conseguente, è un confonderne i termini e alterarne il significato. .

Ecco perchè occorre un termine sui generis, indicativo di un fatto unico e inconfondibile: la parola è creazione, presa nel suo significato fondamentale quale viene dalla tradizione ebraica e da quella cristiana; cioè produzione dal niente, ordine divino, fiat !

È vero che il concetto di causa è applicato a Dio, che è chiamato Causa Prima; ma come tutti i concetti comuni, può essere a Dio applicato solo per semplice analogia, in rapporto a quelle che noi appelliamo cause seconde.

11 concetto di creazione è invece specifico, applicabile solo a Dio, in cui il concetto di causalità è completamente trasfor- -

mato, venendo escluse tutte le idee che in qualsiasi maniera alterano e mutano il valore creativo dell'atto divino. Chè se noi non arriviamo a renderci conto della intrinseca natura dell'atto creativo, in quanto l'esistenza di quel che non era in nessun suo precedente e in nessuna causa di egual nome supera i limiti della ragione umana, ciò non autorizza a negare gli elementi razionali che tale nozione contiene, più o meno come non ne- ghiamo l'esistenza del fuoco o dell'elettricità, benchè non siamo ancora arrivati a conoscerne l'intima natura.

Chi non conosce l'arte della pittura non arriva a comprendere come sia possibile da una tela e con dei colori farne venire fuori l'opera di un genio come Leonardo da Vinci o Michelan.gelo, ma non può negarne il fatto;

I1 dilemma posto alla conoscenza umana è chiaro: o si am- mette un mondo distinto da Dio e da lui creato, o si ammette il mondo come principio di sè stesso; cioè o si ammette l'asso- luto che crea il relativo, l'eterno che crea il temporale, ovvero si afferma che il relativo e il temporale assurgono ad Assoluto ed Eterno. O si è deisti o si è panteisti.

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PARTE 11

L A R I C E R C A D I D I O

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È opinione corrente che molti uomini, e forse la maggioranza d i essi, passino la loro vita senza provare alcun desiderio di vita spirituale, alcun bisogno di Dio, e sebbene ammettano l'esi- stenza d i un essere superiore, designato in modo vago nel lin- guaggio comune come Dio, divinità, provvidenza, non stabili- scano nelle loro menti e nei loro cuori alcuna precisa relazione con questo essere superiore, nè provino nei suoi confronti alcun sentimento di dipendenza o di legame filiale.

Se le cose stessero così, come l'apparenza ci induce a credere, noi non potremmo parlare nè di una vera necessità interiore di spiritualità nè d i una predisposizione naturale nelle nostre anime verso la verità e verso i l bene, che non sono altro che il riflesso terreno della verità e del bene sostanziale che è Dio. Eppure è vera l'affermazione di Tertulliano che l'anima è naturaliter christiana.

Questa frase può essere intesa nel senso che la natura è un requisito necessario della grazia, perchè la grazia non può es- sere provata che da un'anima dotata di intelletto, capace di comprendere la verità, con una libera volontà continuamente impegnata nella ricerca di beni concreti sebbene spinta gene- ralmente verso il bene come verso il suo proprio oggetto. La stessa £rase può anche venire intesa come una generica, intima aspirazione della mente e della volontà dell'uomo verso quel bene che può essere ottenuto solo attraverso la rivelazione e la grazia soprannaturale.

Un giorno incontrai, dopo molto tempo, un vecchio amico che usciva dall'ospedale dopo lunga malattia, e che sperava di

l

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poter recuperare la sua salute, quantunque temesse una seria ricaduta. Se tu credessi in Dio - gli dissi - avresti un con- forto superiore alle speranze puramente umane n. - u E chi ti ha detto che non credo in Dio? a, controbattè, e dopo u n breve silenzio aggiunse in tono sommesso: u Può darsi che se riacquisto la salute dimenticherò di nuovo che Egli esiste e mi è stato vicino n.

Queste parole d i una persona di cultura che non aveva mai dato segno alcuno di sentimento religioso destarono in me una grande impressione. Chi può comprendere le profondità dcl cuore? Molti uomini che sembrano assorbiti dagli affari e dalle preoccupazioni terrene o sedotti dalle lusinghe del mondo, sicu- ramente hanno anch'essi le loro pause intime; momenti di disgusto per quanto è terreno, di ricerca di pace, di richiamo alla realtà, originati dal male e dalle avversità della vita, da un'amicizia delusa o dai disinganni. C'è un angolo intimo nella nostra anima in cui cercare rifugio e trovare conforti nascosti.

Anche coloro i quali nella loro arroganza presumono di avere penetrato il mistero dell'esistenza, risolvendolo nelle for- mule dell'ateismo, del panteismo, dell'agnosticismo, del natura- lismo, proveranno l'esperienza interiore di un'intima insoddisfa- zione. Essi affermano di essere sicuri della loro verità, convinti del loro sistema teoretico ; probabilmente credono che se il mondo fosse conforme ai loro schemi l'uomo raggiungerebbe la felicità. Ma non meritano fiducia. Presto o tardi, verrà per loro un mo- mento in cui le loro elaborate teorie crolleranno nella polvere sotto la forza di quella realtà che sola può soddisfare, perchè sola esprime i più profondi ed ineffabili bisogni dell'anima.

I1 problema del dolore e della morte non ha per noi altra soluzione che quella di un'altra vita di là dalla tomba, una solu- zione alla quale i popoli d i tutte le epoche sono sempre arri- vati attraverso l'intuizione e la tradizione. Affermare con i

materialisti che gli uomini hanno la stessa fine delle creature inferiori, o che essi sono, come pensano gli idealisti hegeliani, i fenomeni dell'idea o dello spirito che si realizza, signisca elu- dere il problema e spersonalizzare l'uomo.

Chiamiamo spiritualità i bisogni dell'anima, in quanto bisogni

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\ dello spirito nella sua integrità, dell'intelletto che ha sete d i

! verità, della volontà che ha sete d i bene, e della coscienza che sintetizza e riflette i due principi dell'intelletto e della volontà nell'unità dello spirito.

Per quanto possa essere negata l'anima, che unita al corpo forma l'essere dell'uomo, la realtà di tale principio spirituale è sentita nella vita quasi ad o g d passo, in ogni circostanza, ad ogni richiamo interiore. La formazione delle idee generali ed astratte - libertà, giustizia, eguaglianza, virtù, vizio e mille altre simili a queste - ci dimostra l'esistenza di una facoltà intellettiva che abbraccia il particolare e l o trascende.

L'insoddisfazione che producono in noi gli agi materiali, la ricchezza e i piaceri, la loro limitazione, la loro contropartita nelle sofferenze fisiche e morali, è un continuo richiamo ad una più sana filosofia che l'umanità ha sempre percepito intui- tivamente, anche se non l'ha praticata generalmente, quella ciok del distacco dai beni del corpo per una più grande cura dei bisogni dello spirito, intellettuali e morali.

La natura stessa con le sue reazioni agisce come nostra guida salutare. In verità, mentre i piaceri del corpo esercitano la loro più forte attrazione, se vanno al d i là dei giusti limiti e della razionalità inerente in ogni azione umana, allora provocano la nausea e il disgusto dei sensi e degli organi del corpo e degradano la personalità umana, mentre i piaceri dello spirito (intellet- tuali e morali), anche se da principio sono poco attraenti, con l'esercizio e la perseveranza danno una gioia più pura e più completa, ed aumentano la soddisfazione che da essi si ricava.

La spiritualità di cui parliamo supera anche le pure gioie intellettuali della conoscenza e quelle morali dell'agire bene, perchè ci innalza fino alla sfera della vita soprannaturale e del contatto con Dio, dove ogni discordia è pacificata, ogni pena è placata, ogni desiderio è appagato, ogni limitazione è tolta, ogni fame ed ogni sete sono estinte, poichè è raggiunta la sorgente della vita, della verità e dell'arnore.

Noi non ci rendiamo sufficientemente conto del fatto che sia la vita naturale che quella soprannaturale sono fondate sulla

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verità e sull'amore. Difatti, ad andare al cuore della realtà, la vita è tessuta d i verità e d i amore, in quanto la verità non è altro che vita ed amore, e l'amore non è altro che vita e verità: i tre lati della nostra esistenza possono essere astrattamente ed essen- zialmente convertiti l'uno nell'altro, in modo da darci sempre lo stesso risultato.

Non vi è niente di sorprendente in questo, se, come si legge nel Genesi, Dio ha detto: u Facciamo l'uomo a nostra imma- gine e somiglianza n. San Giovanni nella sua prima epistola scri- ve: « Chi ama è nato da Dio e conosce Dio ... perchè Dio è amo- re » (*). Così egli pone in relazione la vita (soprannaturale), la conoscenza d i Dio e l'amore d i Dio.

Noi possiamo fissare la stessa relazione sul piano naturale8 la vita dell'uorno è prima di tutto conoscenza della realtà esterna ed interna; anche la vita delle relazioni sensibili è basata sulla conoscenza specificamente umana nella quale l'intelletto gioca spesso una parte preponderante. Conoscenza di che cosa, se non della realtà fatta propria come verità? Difatti, la conoscenza del- l'errore, della falsità, delle fantasie, non è conoscenza della real- tà se non in quanto essa è presa come falsità ed errore, cioè con le sue caratteristiche proprie ed il suo proprio grado, sì che se ne possa fare la scelta.

Ma la conoscenza della realtà non è mai puramente specula- tiva, perchè non può raggiungere, in quanto tale, la finalità inii- ma dell'uomo che è spinto dalla natura a trasformare la verità in realtà vivente come bene ed amore. Anche il cultore d i scienze pure come la matematica, l'astronomia, la metafisica, anche l'ar-

tista che insegue l'ideale dell'arte senza nessuna altra cura che la perfezione, trasforma la verità in amore; la ricerca del !ero e del bello diviene un fine della sua vita, spesso il principale, si potrebbe dire l'unico fine al quale egli subordina ricchezza, sa- lute, benessere, ed anche famiglia, amicizia, onori, tutto quello che la terra può offrire e anche di più, perchè ci sono d i quelli che per la loro scienza e la loro arte rinunciano a provvedere ai bisogni spirituali dell'anima. Costoro han fatto della loro scieri- za o della loro arte un bene assoluto al quale è dedicata tutta la

(*) la Giov. 4; 7-8.

-58

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loro vita; e così operano, in questo campo limitato, i l mutuo scambio dei tre termini del trimonio vita, verità, amore.

Similmente coloro che deificano le loro passioni e i loro inte-

ressi finiranno coll'identificare, nei limiti della loro attività, vita, verità ed amore. Ma la verità che essi raggiungono sarà ~ a r z i a l e

e spesso falsificata dalle passioni; il bene amato e raggiunto O

non sarà il bene reale o non sarà i l bene adeguato ai bisogni del-

lo spirito umano. E questa insufficienza li tormenterà, e sarà forse così la causa della loro salvezza.

Coloro i quali pensano di poter raggiungere la verità solo speculativamente, senza amarla, e minimizzano l'aiuto che l'amore dà per il reale e spesso completo raggiungimento della verità, commettono un serio errore. I1 filosofo che è convinto che

Dio esiste come primo principio non può fermarsi qui, altrimenti quella verità può essere causa per lui di una caduta nell'errore, perchè egli lo considera come un principio che si realizza, una realtà che si sviluppa. I1 fermarsi semplicemente al concetto or-

todosso di Dio come causa prima, come una necessità ontologica ed un primo logico, non condurrà mai a una reale conoscenza di Dio, perchè se alla mente che pensa non si unisce il cuore che ama, la ricerca rimane incompleta e la verità oscura.

Questo punto di vista è stato apprezzato insufficientemente sia dagli intellettualisti, che insistono sulle prove razionali del- l'esistenza di Dio, che dai volontaristi, i quali le deprezzano come inconcludenti o senza risultato. Le prove razionali dell'esistenza di Dio sono obiettivamente conclusive mettendo in evidenza il fatto che la ragione pura può arrivare naturalmente alla verità dell'esistenza di Dio. L'evidenza oggettiva non è necessariamen- te identica all'evidenza soggettiva d i ognuno d i noi, nè alla , maniera per la quale ognuno d i noi può arrivare d i fatto alla conoscenza di Dio. Molti credono in Dio per tradizione fami-

gliare, per forza d i abitudine, per costume sociale, senza ragio- nare mai sulla loro fede. Un avvicinamento filosofico all'idea di Dio ed ai suoi attributi potrebbe aiutare quelli che vacillano nella loro fede, come spesso l'idea naturale della e della divina bontà aiuta coloro la cui speranza si è indebolita sotto i l peso della sofferenza.

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Se la convinzione razionale, la speranza umana e la fede soprannaturale non 'sono fecondate dall'amore d i Dio che è nostro Padre, non raggiungeremo mai quella conoscenza di Dio alla quale le nostre forze potrebbero altrimenti arrivare.

Noi notiamo questo fatto per dare evidenza alla nostra tesi che la vita, la verità e l'amore anche in noi e nell'umana maniera sono convertibili, così che se uno dei tre termini è perduto, anche gli altri si perdono, e se uno cresce, anche gli altri due crescono in un continuo processo di intensificazione.

Nessuno, per esempio, che conosca davvero la musica o la pittura o la poesia può non amarle. Nel preciso momento in cui comincia a conoscerle, comincerà a sentirne l'attrazione. Così conoscenza ed amore esercitano una mutua influenza tanto forte che è difficile distinguere quanta parte è da attribuirsi all'amore per la piena conoscenza dell'arte e quanta alla conoscenza del- l'arte attraverso la più grande intimità affettiva creata dal- l'amore.

Sul piano naturale, la relazione di eguaglianza e reversibilità tra vita, verità, amore non può essere raggiunta in modo esatto o completo. L'uomo andrà invano alla ricerca della soddisfa- zione completa della sua spiritualità se non è elevato al piano soprannaturale e se non trova su questo piano una nuova e più completa relazione tra la vita (la cui sorgente è nella grazia), la verità (la cui sorgente è nella rivelazione) e l'amore (la cui sorgente è nella carità infusa).

D'accordo con la tradizione evangelica e l'espressione litur- gica, noi attribuiamo la vita al Padre, la verità al Figlio e l'amore allo Spirito Santo, sebbene essi abbiano in comune tutti gli attributi divini (tranne la personalità). Ciò che è essenziale

nell'atto unico, puro ed infinito alle tre Persone Divine ci è stato dato da Dio nella maniera corrispondente alla nostra na-

tura, la vita nella esistenzialità, la verità nell'intellezione, l'a- more nella fruizione.

Noi siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio proprio in quanto noi siamo creature viventi che conoscono e che amano.

Conoscenza ed amore sono in noi gli atti più elevati, quelli che sintetizzano ogni altra nostra facoltà e ogni altro nostro atto;

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così che, eccettuate le attività istintive del corpo, che si svilup- pano in noi senza nostra coscienza, tutto quello che è nostro, veramente nostro, da noi desiderato, cercato, amato, non è altro che conoscenza della verità (o degli errori accettati come verita) e amore del bene (sia vero bene o bene apparente percepito come vero bene).

La sete della verità e dell'amore è perenne in noi. Possiamo credere di averla estinta, ma ci accorgiamo subito dopo che non è vero. Anche nella vita spirituale, - in cui si ottiene la comu- nione con Dio, vivente e reale nella preghiera, nella parte- cipazione ai sacramenti, nella contemplazione mistica - la sete non si estingue mai perchè più si beve a questa infinita sorgente più si desidera i l bene e più se ne sente il bisogno.

La nostra finitezza non ci concede mai di arrivare in modo pieno e completo alla verità e all'amore infinito. La nostra condizione terrena rischia d i farci cadere in molti trabocchetti che ci rendono difficile la via della perfezione alla quale siamo chiamati. Nella via della preparazione spirituale per ricevere la verità e l'amore divino, sono necessarie prove dell'anima e del corpo, proprio come per lo studio scientifico e la creazione di opere d'arte si richiedono, come condizione, ricerche e sacrifici che a volte durano quanto la vita stessa.

In ogni caso il premio diviene tanto più desiderabile quanto più ci avviciniamo sia nell'ordine naturale che in quello spiri- tuale alla verità ed all'amore, nella proporzione con cui ne prendiamo possesso e ne godiamo l'abbraccio. E questo è ciò che gli antichi chiamavano saggezza; la vera saggezza che contiene in un atto singolo la realtà della vita più alta, il raggiungimento della verità e la soddisfazione dell'amore.

Parlando del godimento della verità e della soddisfazione dell'amore dobbiamo subito avvertire il lettore che bisogna distinguere molto nettamente tra soddisfazione e godimento sen- sibile da un lato (anche nel possesso della verità e dell'amore spirituale) e quei godimenti che sorpassano tutti i nostri sensi e rimangono nell'intimità dell'anima. Di fatti, l'acquisizione della verità non è sempre accompagnata da piacere; c'è per noi

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una verità amara e difficile che è temperata solo dal conforto della grazia divina; ci sono stadi dell'amore spirituale spesso sperimentati dai mistici nella purificazione dei sensi e dello spirito che sono accompagnati da aridità, angoscia e dubbi tormentosi.

La purificazione spirituale nelle nostre relazioni con Dio opera maggiormente quando l'anima risponde agli impulsi del- la grazia. .Anche nel campo della conoscenza e dell'amore na- turale la purificazione dello spirito (come quella del corpo) è necessaria per la dedizione richiesta dalla ricerca della veriti e dal raggiungimento dell'oggetto amato. Nè il possesso della saggezza nè l'unione dell'amore sarebbero possibili senza sacri- fici, poichè la loro acquisizione richiede un distacco da ogni altra cosa, una purificazione materiale e morale di sè stessi e delle proprie inclinazioni sì da rendere possibili sacrifici ancora più grandi. Che meraviglia, pertanto, che questa saggezza e questo amore divini esigano purificazioni e sacrifici? Spogliarsi di sè stessi, vincere il proprio egoismo è la condizione preli- minare per vivere negli altri e per gli altri, e, più ancora, per trovare in Dio vita, verità, amo're. Perchè, a in Lui abbiamo la vita, il movimento e l'essere », come disse san Paolo nell'Areo- pago d i Atene. Questa vita è verità, questa vita è amore, anche se per caso noi non ne abbiamo esperienza, o se la nostra espe- rienza spirituale sia soffocata dalle spine della vita materiale.

Anche per chi, oppresso da mille cure mondane, può non sentire i l bisogno attuale d i Dio, può non cercare Dio per le vie della religione e può non ricordarsi di pregarlo, la verità che in Lui abbiamo la vita, il movimento e l'essere rimane ferma nella sua obiettività. Verrà il momento in cui tale verità penetrerà nel suo cuore; come e quando non ci è dato dirlo. Ciascuno nel fondo della sua coscienza vi arriverà prima o dopo, ora o alla fine della vita attraverso le vie misteriose di Colui che ci ha creato per Lui, ponendo limitazioni alla nostra vita ter- rena ed ai nostri sensi, e dando la sete della conoscenza alle nostre menti, l'insoddisfazione dei beni creati ai nostri cuori, così che noi possiamo trovare in Lui, increato ed infinito, vita, verità e amore.

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VI.

Come i l Figlio di Dio assunse l'umanità per potere, apparte- nendo all'umana famiglia, conversare con gli uomini, così Egli fece della chiesa i l suo corpo mistico e lo rese visibile e vivente nella stessa società umana per potere - in modo diverso ma sempre come lo stesso Figlio di Dio - essere con noi attra- verso i secoli. L'uno e l'altra (Cristo e la sua chiesa) « sono nel - mondo ma non del mondo D. Cristo per l'unione ipostatica è l'Emanuele, Dio con noi; la sua chiesa, vivente del suo spirito, è la società di Dio con noi attraverso i secoli.

I1 corpo mistico di Cristo si suole distinguere in visibile e in- visibile ; ma non sono due corpi mistici ; questo è sempre uno ed è la sua chiesa, la quale nella sua forma sociale è visibile, e nella operazione dello Spirito Santo in ciascuno dei suoi membri è invisibile.

Vorrei usare per paragone, benchè assai debole e lontana- mente analogico, quello della società terrena. Tutti coloro che appartengono ad una nazione organizzata politicamente, ne sono cittadini; la loro appartenenza è visibile; ma i veri cittadini sono coloro che amano la patria. Questa seconda appartenenza è per sè invisibile, perchè risiede nell'animo, ma si rende visibile attraverso le opere. La somiglianza è solo esterna perchè la na- zione non è un'entità al di fuori dei suoi membri, che abbia un intelletto proprio, una volontà propria sì da conoscere l'interno di ciascuno e darvi unica impronta. Mentre Cristo è il capo della chiesa, Egli «conosce quelli che sono suoi D, quelli che « il Padre gli diede » e che Egli « risusciterà all'ultimo giorno », e ai quali « dà la vita eterna » (*).

(*) Giov. 6 ; passim.

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La chiesa è attuata da uomini, guidata, governata, propagata da uomini ; ma è Gesù Cristo che opera a mezzo dei suoi ministri e testimoni e dà la vita della grazia a ciascuno dei suoi membri partecipando così all'unico corpo vivente, la chiesa.

Per tale operazione interiore e misteriosa anche quelli che visibilmente non figurano d i appartenere alla chiesa, o perchè la ignorano o perchè ne sono fuori in buona fede, sono membri del corpo mistico d i Cristo, perchè, attraverso la loro unione a Cristo, essi spiritualmente sono della chiesa e nella chiesa.

La visibilità della chiesa come corpo mistico del Cristo è tanto necessaria quanto era necessaria alla redenzione (nella economia liberamente scelta da Dio) la natura umana (corpo ed anima) unita ipostaticamente nel Verbo divino. I1 corpo è i l mezzo naturale della comunicazione fra gli uomini; la vita so- ciale come la intellettuale e la volitiva hanno per istrumento

-

intrinseco il corpo. Il, Verbo assunse carne per essere « simile a noi in tutto tranne il peccato ». Così la chiesa è società visi- bile; perchè da quel che si vede si arrivi a credere quel che non si vede.

Gesù domanda ai discepoli: La gente chi dice che sia il Figliol dell'uomo? » « Figliol dell'uomo era quel che si ve- deva. Risponde Pietro per tutti: « Tu sei i l Cristo, i l Figlio di Dio vivente », affermando così quel che non vedeva, ma che è verità creduta per fede. Da sua parte Gesù disse a Simone figlio d i Giona: « Ed io t i dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa » (*). Quel che si vede è Pietro e la società ch'egli presiede e che si chiama chiesa; ma quel che non si vede e s i crede è che Pietro sia la pietra dell'edificio e che le porte d'inferno non prevarranno contro di essa.

Come l'architettura esterna manifesta che cosa sia un edificio, mettiamo un tempio, e il passante o il fedele si sente invitato ad éntrarvi e partecipare al culto, così la chiesa di Cristo ha

(*) Matt. 16; 13-18.

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forma e struttura sociale, per essere riconosciuta come tale e attirare i fedeli o gli estranei a viverne la vita.

La chiesa non ha una struttura segregata dalla società umana:

2 dentro la stessa società e ogni uomo la sente (se la vive) in ogni sua attività individuale e sociale.

L'uomo viene a l mondo per la famiglia; se i genitori, anche uno solo, sono cristiani, i l neonato fa la sua prima entrata nella chiesa a mezzo di colui che ne cura il battesimo, che lo istruisce nella fede, che gli fa vivere la vita cristiana, anche se, per caso,

quel bambino arrivato all'età della conoscenza non abbia occa- sione o di mettersi in contatto col parroco o di andare in una scuola cattolica e perfino di avere i l beneficio. dei sacramenti. Egli sarà ciò nonostante della chiesa e nella chiesa, anche se per caso lo sappia solo i l padre o la madre o la nutrice che l'ha battezzato, che gli ha insegnato (appena possibile) i rudi- menti della fede cristiana. Accenno a questo caso per mettere in vista i l gran mistero della iniziazione cristiana anche i n una società che per varie circostanze non sia cristiana.

La società civile in cui vive il nuovo piccolo cittadino ha i suoi diritti e gli impone dei doveri: egli deve andare a scuola, comprendere i l mondo in cui vive, rendersi atto a servire la nazione e ad averne i vantaggi. Tale società non è religiosa, spesso non si cura affatto della religione; ma garantendo la libertà e la tolleranza dei culti, fornisce ai cittadini l'opportu- nità di praticare i loro credi religiosi secondo coscienza.

In molti casi, basta libertà, garantita dalla legge, per- chè la chiesa possa arrivare a ciascun suo membro, per mezzo

dell'istruzione, della liturgia, dei sacramenti, della scuola, stam- pa, radio, associazioni ausiliarie e di azione cattolica, a f i c h è ogni fedele di Cristo sia veramente un « testimonio della verità n.

Ed ecco uno degli effetti della legge di riversione: saranno questi fedeli d i Cristo coloro che portano alla società umana in cui vivono la luce della loro fede, l'esempio delle loro virtù, il sacrificio della loro religione, sì che a coloro che non vanno in chiesa, non leggono libri e fogli religiosi, non ascoltano sermoni

- e prediche, non avvicinano preti e vescovi, faranno sentire che esiste una società che si chiama chiesa d i Cristo, alla

5 - $rnsu, - Problemi spirituali

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quale tutti possono appartenere. Ed essi, i fedeli veramente tali, sono coloro cui disse Cristo: « La vostra luce risplenda dinanzi agli uomini i n modo tale che vedendo l e vostre opere buone, diano gloria al Padre vostro, che è nei cieli » (*), o, come scrisse san Paolo: (C A nessuno rendete male per male, ricer- cando il bene a tu t t i gli uomini » (**). Le opere buone sono il segno che si ha lo spirito di Cristo, e che si appartiene a Lui. « E se uno norz: ha lo spirito d i Cristo, non è dei suoi (***).

Si può bene essere iscritti nella parrocchia e gloriarsi del nome di cattolici, ma se manca lo spirito di Cristo, spesso tale autoglorificazione non è che spirito di setta ed inflazione mon- dana. Cristo iniziò la sua chiesa (che egli aveva generato sulla croce) con la discesa dello Spirito Santo, perchè così « la carità .di Dio venisse diffusa nei nostri cuori )) (****).

San Paolo c'insegna quale ne è il Gutto là dove dice: « Frutto dello Spirito è l'amore, la gioia, la pace, la pazienza, la beni- gnità, la b o ~ à , la longanimità, la mitezza, la fede, la modera- zione, la continenza, la castità » (*****).

Quale trasformazione della nostra povera vita terrena se questo £rutto maturasse in ciascuno di noi! E quale migliora- mento in tutte le attività della società, politiche, economiche, nazionali, internazionali !

Di fatti: non si tratta di virtù da usare nei rapporti della vita di chiesa, e poi metterle da parte negli affari terreni; i frutti dello Spirito vanno alla radice della nostra esistenza, ci trasfor- mano perchè è lo stesso Spirito Santo che abita nelle anime.

Non siamo noi che operiamo, ma è Cristo che opera in noi, mentre noi da noi stessi « nulla possiamo fare », ma « tu t to pos- siamo i n Lui che ci conforta 1). Perchè quando siamo membri vivi d i questo corpo di cui è capo il Cristo, noi siamo partecipi della grazia divina e viviamo del suo spirito; allora abbiamo insieme fede, speranza e carità.

(e) Matt. 5 ; 16. (+*) Rom. 12; l?. (W) Rom. 8; 9. (*H*) Rom. 5; 5. (*a**) Gal. 5 ; 22-23.

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Invece, pur essendo chiamati cattolici, noi daremo prova d i non esserlo, se non sentiamo le sollecitazioni dello Spirito, ma seguiamo le opere della carne, che lo stesso san Paolo così enu- mera: « fornicazione, impurità, dissolutezza, lussuria, idolatria, venefici, inimicizie, discordie, gelosie, contese, divisioni, sette,

invidie, omicidi, ubriachezze e gozzoviglie e cose simili (*).

L'errore di molti è di attribuire alla chiesa, che è « santa D, le colpe di coloro che vi appartengono « visibilmente )) o « social- mente », siano essi fedeli, siano elevati in dignità e gerarchia. La chiesa è il corpo mistico di Cristo ed è santa: i suoi membri, se sono partecipi dello spirito di Cristo e ne hanno la grazia e ne seguono i precetti, anch'essi sono « santi » nel senso di segregati da ciò che è immondo, e consacrati a Dio per i l Cristo. Ma come uomini peccatori sono sempre in pericolo di cadere, mentre allo stesso tempo hanno i mezzi per rialzarsi. Questa parte man- chevole della vita del cristiano non è da attribuirsi alla chiesa, ma a noi, a ciascun di noi, e all'umanità nel suo complesso.

Purtroppo, nel pensiero corrente e nell'opinione mondana, quando si parla di chiesa non si pensa al corpo mistico d i Gesù Cristo, si pensa solo alla gerarchia ecclesiastica, papa e vescovi; e si discutono i loro meriti e demeriti. Papa e vescovi sono la parte « apostolica » della chiesa; e come fra gli apostoli vi fu un Giuda che tradì e si perdette, un Pietro che negò e si pentì, un Paolo che perseguitò e fu chiamato alla conversione dei gentili, un Tomaso che dubitò e poi credette, e così via; così fra vescovi e papi troviamo l'umanità che vacilla e l'eroismo cri- stiano che trionfa.

Ma vescovi e papi hanno una garanzia: quella della indefet- tibilità di Pietro e della indistmttibilità della chiesa: (C le porte clell'inferno non prevarranno contro d i essa » perchè « Ecco, l o

sono con voi tutti i giorni sino alla fine &l mondo (**). Dal- l'altra parte vescovi e papi non possono essere senza fedeli, nè

(*) Gal. 5; 19-21. (**) Matt. 16; 18 e 28; 20.

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questi senza vescovi e papa: formano una società « una, santa, cattolico e apostolica che è la chiesa.

Ecco perchè quando si parla di chiesa nel suo vero senso dogmatico, si deve pensare anzitutto e soprattutto al Cristo e a l suo corpo mistico, alla vita di grazia che circola nella so- cietà cristiana, alla fede che s'insegna e si predica, al culto a

Dio che è incentrato in Cristo e nel suo perenne sacrificio, ai sacramenti mezzi e canali di grazia, alla comunione dei Santi e alla carità diffusa nei nostri cuori.

I1 resto è una conseguenza: la disciplina ecclesiastica, il diritto canonico, le associazioni religiose, l'iipostolato di azione catto- lica, le scuole, le opere di carità spirituale e temporale, adatta ai tempi e ai luoghi, e perfino le attività politiche dei fedeli influenzate dalla morale cristiana.

I n tutto quel che è attività fatta nella chiesa, per la chiesa e secondo lo spirito e la disciplina della chiesa, la parte umana si mescola a quella divina. Come potrebbe essere diversamente? Così ai tempi di Pietro e di Paolo (che qualche volta non furono d'accordo), così in tutti i tempi.

Come ciascun di noi diciamo ogni giorno: Dio mio, quel che ho fatto di bene viene da voi, è vostro; quel che ho fatto di male viene da me, è mio; così nella chiesa tutto quel che è bene è Gesù Cristo che lo opera per mezzo dei suoi ministri e dei suoi fedeli; e quel che è male, sono i suoi ministri e i suoi fedeli che lo fanno, e d i esso debbono rendere conto secondo il grado d i responsabilità.

Ciò che è meraviglioso è che Cristo non opera da solo; Egli ha voluto gli uomini suoi cooperatori, e a mezzo di essi perpe- tuare l'opera d i redenzione nei secoli. Onde ben dice san Paolo: « completo nello mia carne quel che manca delle soflerenze di Cristo a pro del corpo suo che è la chiesa t*). Ministri e fedeli tutti portiamo a compimento la passione di Cristo, cioè l'applichiamo nel tempo e nello spazio in ciascun di noi e nella stessa vita sociale.

È difficile nell'apprezzamento comune, tenere distinte l'azione

(*) Col. 1; 24.

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del Cristo nella chiesa, che è invisibile, dall'attività dei suoi ministri e fedeli nella società,' che è vjsibile; e allo stesso tempo vederne lo spirituale che è permanente e vivificante, distinto dal temporale che è transitorio e si perde col tempo.

L'idea moderna della separazione della chiesa dallo stato, nel senso organico e funzionale, e della tolleranza nel rispetto dei diritti della coscienza individuale, 'è dovuta al fatto della molteplicità di sette, di culti e di riti, e alla secolarizzazione della vita civile. Ed è proprio in simili condizioni, che i fedeli debbono essere sempre più penetrati dell'importanza e respon- sabilità della loro appartenenza al corpo mistico di Cristo; nonchè del loro stretto dovere di dare testimonianza 'alla verità in mezzo alle contraddizioni e alle lotte, e di abbondare in ope- re di carità. Il Padre mio sarà glorificato se produrrete frutti copiosi e diverrete miei discepoli. Come i l Padre ha amato me, così anch'io amo voi; perseverate nel mio amore » (*).

(*) Giov. 15; 8-9.

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VII.

I CRISTIANI NEL MONDO DI OGGI

I1 cristianesimo ha seguito* due strade per affermarsi nel mondo: informare del suo spirito il carattere degli individui e creare intorno ai suoi seguaci un'atmosfera di fede e d i attività evangelica. Così fu nei tempi apostolici, così è oggi. Gli orienta- menti individuali e gli aspetti sociali si modificano secondo le epoche e l'ambiente nazionale, le tradizioni locali e gli eventi storici; ma i due aspetti, l'individuale e il sociale, ed i l loro mutuo riflettersi e ripercuotersi, anche nel campo della religione soprannaturale (che è il cristianesimo) non cambiano mai.

Ad affermare la novità soprannaturale del regno di Dio, Cristo dichiarò più volte che i discepoli erano « nel mondo ma non del mondo D; che essi formavano una sola famiglia il cui padre era Dio, il cui capo era Cristo, il Dio-Uomo. Egli ripetutamente co- mandò di lasciare tutto, anche la famiglia, per seguirlo: egli voleva così non solo fondare la sua chiesa ma anche riformare la stessa famiglia naturale sulla base di una comunanza d i fede ed amore.

San Paolo, nell'esporre i precetti morali concernenti la vita domestica, nell'additare i doveri fra marito e moglie, Ga ge- nitori e figli, Ga padroni e servi, accentuò questo spirito di comunione che è descritto in modo assai commovente nei versetti 19-20 del capitolo 5 dell'epistola agli Efesini: « ... mu siate ripieni dello Spirito Santo, trattenendovi con salmi, inni e canti spirituali, cantando e salmodiando d i cuore a l Signore. rendendo sempre grazie per tutto nel nome del Signor nostro Gesù Cristo, a Dio Padre)). San Paolo ammoniva il fedele u a non associarsi con l'immorale n, ma egli notava di intendere

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con questo non che noi dovessimo lasciare il mondo, ma piutto- sto evitare il contatto con il male. Le Epistole e gli Atti degli apostoli mettono in evidenza come carattere del cristianesimo la necessità d i romperla col mondo, con la famiglia, con .gli interessi terreni, per dare il primo posto alla nuova fede ( e con la fede, alla pratica della virtù). Di qui scaturisce i l bisogno d i creare una comunione costante, visibile, fraterna, terrena e spirituale, tra i fedeli viventi nelle stesse comunità.

Per i cristiani, i l distacco dal mondo è un dovere spirituale; il distacco materiaIe è solo per chi ne ha la speciale vocazione, ma i l distacco spirituale è doveroso per tutti. Può darsi che ci sia chi vivendo lontano dal mondo ne conservi lo spirito; ma chi vive nel mondo ha bisogno di speciali precauzioni per seguire quello che san Paolo indica come il metodo cristiano per la perfezione: (C Questo io dico, o fratelli; il tempo è breve, e resta che anche quelli che hanno moglie siano come non l'aves- sero; e quei che piangono come non avessero motivo di pianto; e quelli che sono allegri, come non lo fossero; e quelli che com- prano come non dovessero conservare gli acquisti fatti; e quelli che usano d i questo mondo come quelli che non ne usano; poichè passa la figura del mondo attuale » (*).

I1 precetto del distacco spirituale dalla realtà presente incul- cato da san Paolo si applica a coloro che rimangono nel mondo, e che costituiscono la maggioranza del genere umano. Essi de- vono imparare a sottomettersi alla disciplina dell'ascetismo cri- stiano ed all'obbligo di formare una nuova comunità cristiana purificata dalla mondanità. Ma dopo che « un nemico » ha semi- nato la zizzania nel campo di frumento, l'ordine del Signore è che « crescano insieme, l'uno e l'altra, fino a mietitura » ( *a ) . L'effetto di questa convivenza del grano e della zizzania può essere pericoloso per i buoni cristiani solo se essi non sono pre- parati ad opporsi alla soffocazione dell'erba cattiva, se non han- no la forza di resistere, se non pregano il Signore: « Liberaci dal male D.

(*) la Cor. 7 ; 29-31. (*+) Matteo, 13; 30.

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Una delle prime e principali preoccupazioni della chiesa è sempre stata diretta a preservare la famiglia cristiana ed a man- tenere un'atmosfera di salute morale, di reciproca armonia, una tradizione di fede e d i pratica religiosa. Naturalmente gruppi d i famiglie sane e di feconda vita spirituale strette intorno a ben guidate parrocchie è stato l'ideale di comunità cristiane perpetuantesi per generazioni. Ci saranno sempre pecore smar- rite e pecore macchiate. I1 pastore, gli anziani, le donne di spi- rito puro e di zelo semplice useranno la loro influenza perchè i l peccatore possa emendare i suoi costumi ed il malvagio esser tenuto in iscacco.

La vita felice degli antichi villaggi, dei gruppi familiari

intorno ai monasteri alpini, le case dei pescatori sulle rive dei fiumi, appartengono ad un passato lontano, più o meno idealiz-

zato, perchè non sono mai.mancate tempeste inaspettate, guerre, epidemie, invasioni, persecuzioni politiche o religiose a turbare la pace idillica d i questi centri e a far sì che gli uomini facessero

esperienza e si dolessero dei mali portati nel mondo dall'odio. dall'ira, dall'avarizia e dalla lussuria.

Questi mali si incontrano in un grado più alto e ad un maggior livello di sviluppo nei centri urbani, nelle grandi metropoli, nelle comunità formatesi come risultato di un suhi- taneo concentrarsi d i industrie, siano queste le miniere d'oro della California o le imprese cinematografiche d i Hollywood. Ma non inganniamo noi stessi ; questi mali sono dovunque perchè sono i n noi stessi.

Al tempo degli enciclopedisti francesi, Rousseau ed altri con- sideravano la società come la causa del male ed erano favorevoli ad un ritorno alla pura natura, ai sentimenti elementari, alla

libertà senza coercizione. Ma la premessa di questi utopisti, che non mancano neppure oggi, scaturiva dall'idea che la natura umana fosse integra e non corrotta - una credenza che porta

seco il rigetto del peccato originale ; essa nasceva inoltre dall'idea che l'uomo potesse realizzare tutte le sue potenzialità in questa vita - credenza che conduce a negare il soprannaturale. Da quel giorno ad oggi, questi due errori fondamentali hanno reso ciechi molti uomini d i cultura alla visione delle realtà sopran-

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naturali e l i hanno tenuti lontano dalle pratiche religiose, inaridendo così nelle loro anime il senso cristiano.

Nel passato, lo sforzo di mantenere una atmosfera religiosa omogenea fu assai notevole e costante, (sebbene si usassero metodi autoritari qualche volta intemperanti); ai giorni nostri, la speranza di una tale unità è stata quasi perduta. Oggi il fedele cristiano riceve ben pochi aiuti dalla società; talora egli si sente isolato, oppure si isola e non comunica più con gli altri, perchè non ha mezzi per distinguere il fedele » dal17« infedele (per dirla con le parole di san Paolo).

La famiglia è disgregata: la facilità del divorzio (dove questo esiste legalmente), la pratica generalizzata del controllo delle nascite hanno dato il colpo di grazia. Dove non c7è famiglia sana, non può esserci atmosfera domestica religiosamente ele- vata che si comunichi alle nuove generazioni e ne nutra la fede attiva e le virtù morali.

La scuola completa la famiglia: oggi si può dire che in larga parte la sostituisca, perchè la famiglia cristiana, dove essa esiste, deve necessariamente dividere con la scuola il peso del- l'educazione dei fanciulli. Ci sono paesi in cui la scuola sosti- tuisce la famiglia e sottrae quasi completamente i fanciulli a l controllo dei genitori. Se la scuola è ancora cristiana, lo spirito religioso vi è coltivato, sebbene non sempre con risultati di duratura efficacia. Sfortunatamente, la società moderna ha seco- larizzato la scuola, e le scuole dirette da religiosi sono frequen- tate solo da una minoranza di studenti. Generalmente parlando la scuola si limita al compito tecnico dell'insegnamento, mentre l'educazione della gioventù è presa in mano da associazioni private, integrative e sportive, dove di solito l'idea religiosa non ha cittadinanza e i freni morali si allentano a favore di una specie di euforia naturalista.

Similmente nel mondo della cultura, c7è un abbandono ere- scente delle idee religiose ed un7accettazione più larga delle teorie positiviste e materialiste. A questa crescente areligiosità, la filosofia tradizionale e l'insegnamento religioso sono una

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barriera per i credenti, non per gli altri. La chiesa cattolica in tutti i paesi resiste con forza al pericolo del naturalismo; non- dimeno, la produzione intellettuale artistica e letteraria mon- diale è per la maggior parte agnostica, areligiosa, naturalistica. Anche l'organizzazione professionale di classe, i sindacati, le cooperative, tutto i l mondo del lavoro, sono minacciati di infe- zione dall'invadente veleno del naturalismo che rende la comu- nità sempre più inconsapevole del soprannaturale.

Le chiese sono frequentate da una minoranza. A parte le grandi feste, i congressi religiosi e certe manifestazioni di ecce- zionale importanza, la comunità religiosa si fonda principal- mente sulla vita della parrocchia e sul culto domenicale, che non pochi cristiani omettono facilmente.

Io non voglio dipingere un quadro pessimistico. Non mi riferisco in modo specifico a questo o a quel paese cristiano. Sto solamente indicando le linee generali, mentre riconosco l'esistenza di larghe eccezioni: forze piene di devozione nell'at- tività spirituale e nello zelo caritatevole sotto forma di grandi congregazioni d i uomini e di donne che hanno costruito, in migliaia e migliaia d i case d i educazione, scuole, collegi ed ospedali, centri di attività apostolica, di risveglio liturgico e

d i opere di bene. La critica non è rivolta loro, cui si deve molto d i quello che ancora esiste: non è nemmeno questione d i critica ; ma di analisi delle condizioni esistenti per lo studio dei rimedi opportuni.

Sul piano dei rimedi, i l punto di partenza non può essere altro che quello di restituire la comunità cristiana alla gande tradizione spirituale del cristianesimo in accordo con i bisogni presenti.

A questo fine non esagerano per nulla coloro che danno la più grande importanza alla vita liturgica, o piuttosto alla parte- cipazione comprensiva ed effettiva dei cristiani, come singoli e come collettività, al culto divino. Un ritorno all'antico, o, meglio ancora, un adattamento della pratica liturgica dei primi secoli

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del cristianesimo alla società dei nostri tempi, è una necessità impellente ed universale.

L'idea di una partecipazione spirituale, stretta, effettiva alla liturgia è stata promossa da più di mezzo secolo. I1 movi- mento liturgico cominciò con la riforma del canto gregoriano e con l'estensione del17uso di questo canto anche alle comunità rurali e popolari. Io ricordo i l costume in certi villaggi veneti e siciliani al tempo di Pio X, di ammettere tutti i fedeli al canto della messa solenne; cosa che dava l'impressione di una rina- scita spirituale. Oggi si tengono settimane liturgiche e congressi eucaristici sempre più numerosi, l'uso della messa dialogata si va introducendo con notevole profitto nei conventi e nelle chiese, e la conoscenza della liturgia si va diffondendo tra i fedeli, per mezzo di libri che la popolarizzano e la interpretano.

Siamo a117inizio e c'è ancora molto cammino da percorrere prima di poter creare il sentimento della comunità liturgica, cioè quella partecipazione collettiva alla vita sacra che non solo lega ciascuno di noi a Gesù Cristo come compartecipanti al suo corpo mistico e come comunicanti del suo corpo sacramentale, ma che anche ci unisce in quanto viviamo insieme la reciproca vita fraterna nell'atto della comune partecipazione al rito'litur- gico.

L'assemblea dei fedeli - quella che era inizialmente chia- mata (C Chiesa (Ecclesia), sebbene il termine, per estensione, fosse più tardi applicato al corpo mistico di Cristo - ha questa importanza nella liturgia: che i l rituale è celebrato in unione . con i fedeli in una forma sociale. Non è i l solo sacerdote a cele- brarlo, ma i l sacerdote insieme con i fedeli.

Nei giorni feriali, e anche, in parte, nei giorni festivi. molti sacerdoti si devono contentare di un solo assistente per la messa, il chierico o un fedele. Ma questa sola persona è suffi- ciente per formare una società con il sacerdote. Nello spirito del rito, l'ecclesia dovrebbe essere un'assemblea di cristiani, i quali tutti, insieme col sacerdote consacrano sè stessi par- tecipando al sacrificio di Cristo che è anche (C il loro sacrificio D. Qui è il nucleo fondamentale della comunità cristiana ; estensione dell'unico e perpetuo sacrificio d i Cristo, di espiazione per i peccati e di lode e gloria a Dio, continua aderenza d i sacrificio,

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vita di unione. Fuori di ciò non vi è che distacco, indifferenza, peccato.

La vita cristiana è vita sociale, della nostra società con Dio attraverso Cristo e della nostra società fraterna in Dio attraverso Cristo (*); altrimenti non c'è vita ma disintegrazione spirituale e sociale. Noi dobbiamo modificare le nostre attitudini religiose in modo che i nostri cuori possano essere penetrati dall'idea che la messa, la santa eucaristia, tutta la liturgia sacra, sono i l centro della nostra vita e non una fase riservata alla domenica (se pure e quando è possibile) per una scarsa e frettolosa mez- z'ora, durante la quale ci si distrae più o meno alla vista delle nuove mode e dei vecchi amici. Quando questa mezz'ora (od ora che sia) è finita, non si pensa più alla messa fino alla dome- nica seguente; ed anche la presenza alla messa di precetto i probabile che venga considerata v a s i più convenzione sociale che obbligo religioso.

Nello scrivere questo non intendo dire che tutti i fedeli ri- mangono estranei nella « comunità liturgica 1). Dico che spesso essi non hanno coscienza che tale comunità esiste e che ogni cosa si incentra in Cristo e nel suo sacrificio, così che tutti noi viviamo non in un isolamento individualistico ma in questa società che unisce insieme Cristo ed i cristiani. I1 risveglio di questa coscienza attraverso i mezzi di una continua e sempre più approfondita partecipazione alla messa e alle pubbliche pre- ghiere è i l vantaggio che reca il movimento liturgico dei nostri tempi.

Lo spirito della comunità cristiana impone altri doveri, dei quali il più alto e comprensivo è l'apostolato, e tutti siamo chia- mati a parteciparvi secondo le nostre particolari possibilità. Gli apostoli ed i successori degli apostoli, papa e vescovi, hanno l'autorità dell'apostolato; gli altri seguono, assistono,

(*) San Giovanni nella sua la Epistola così si esprime: « Quello che abbiamo veduto e udito, lo annunziamo a voi, afinchè p w voi abbiate societi ccit noi e la società nostra sia col Padre e col Figliolo suo Gesù Cristo n (l8 Giov. 1; 3) (N.d.A.).

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cooperano, perchè siamo tutti cooperatori con Cristo, proprio come tutti siamo consacrificanti con Cristo.

Nei tempi moderni questa cooperazione nell'apostolato è chiamata azione cattolica. Parleremo dell'apostolato laico che ebbe inizio durante gli anni della vita pubblica di Gesù - con i discepoli e le sante donne - e che ha i suoi pionieri in Nicu- demo e in Giuseppe di Arimatea.

L'azione cattolica è moderna solo nel nome e nei metodi: £11

iniziata in Europa durante i l secolo scorso, come difesa della chiesa attaccata dalle correnti liberale, positivista, marxista ed anarchica; come movimento diretto alla educazione religiosa della gioventù; come lotta per la scuola libera, allora monopo- lizzata e secolarizzata dallo stato ; come appoggio al movimento operaio cristiano ; per promuovere e sviluppare la buona stampa. libri e periodici. Era questo, pertanto, uno dei mezzi per affran- care la comunità cristiana dall'influenza di movimenti scristia- nizzatori della società. I cattolici dovevano fare propri gli stni- menti della vita moderna - riunione, stampa, elezioni, scuole pubbliche ed universitarie - tutto ciò che li avrebbe posti (nel- la vita sociale) su un piano di eguaglianza con gli altri gruppi.

I cattolici attivi » o militanti riuniti in società, si sarebbero non solo resi conto di ciò che era loro possibile, utile, giusto e di ciò che non lo era; ma avrebbero eccitato in loro lo spirito di apostolato per riguadagnare a Cristo il mondo moderno, il mondo che si stava allontanando da Lui fino al punto dell'aperta rivolta e dell'apostasia colQettiva.

Non c'è apostolo che non sia guidato dai successori degli apostoli, papa e vescovi. Così quelli che sognavano di una azione cattolica strettamente laica, libera dalla disciplina ecclesiastica, spesso fallivano. Pur ammettendo che in certi paesi la direzione ecclesiastica dell'azione cattolica avrebbe in certi periodi sot- tratto all'elemento laico iniziativa e responsabilità, si può dire che non ne mancarono i motivi pratici, e che in genere si tende a temperare gli ardori dell'iniziativa con la regola di una sana disciplina (*).

(*) Questa non è critica da parte mia; ogni paese ha l'azione cattolica che risponde ai suoi bisogni. Mi sembra che in America il laicato cattolico

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Una delle più grandi figure dell'organizzazione dell'azione cattolica italiana fu il prof. Giuseppe Toniolo, che vi dedicò la sua intiera vita e che unì la prontezza nell'assumere le più gravi responsabilità personali alla devozione filiale per la Santa Sede e al rispetto convinto per la disciplina ecclesiastica.

Ciò che è fondamentale e della massima importanza nel1'A.C. non è tanto il lavoro esterno quanto lo spirito di apostolato vissuto collettivamente in società. Quando un tale spirito manca, le ope- re che sono promosse in nome di questa azione o svaniscono pre- sto o sono compiute senz'anima, degenerando nella routine d i una burocrazia stipendiata. Una tale azione, sebbene material- mente possa aver successo, riesce a poco in un senso veramente cristiano.

Alcuni non si rendono conto di questa sterilità, perchè essi . confondono il successo materiale ed esterno con lo sviluppo spi-

rituale ed interiore. Essi ingannano sè stessi perchè vedono e non sono consapevoli di ciò che non vedono, secondo I'afferma- zione di san Paolo, (C le cose clte si vedono son temporanee, e quelle che non si vedono eterne » (*). Lo spirito di apostolato è delle cose che non si vedono: è fatto di fede e di amore; ha solo Dio come suo fine, partecipa dello spirito di sacrificio. Ma l'apo- stolato non esiste come cosa individuale: Gesù inviò i suoi disce- poli a coppie, gli apostoli furono dodici ed ogni apostolo aveva con sè un gruppo di attivi seguaci, uomini e donne. La comunità apostolica abbracciava tutti e tutti erano apostoli: i genitori nella famiglia, i compagni nella scuola o nel gioco, gli uomini d i lettere, gli scrittori, gli studenti nelle accademie. Quanti schiavi o servi convertirono i loro padroni e fecero cristiane le famiglie patrizie !

Questo spirito che fa di ogni cristiano un apostolo è più lar- gamente diffuso quando la fede è perseguitata; ma è necessario in ogni tempo. Le moderne associazioni di azione cattolica,

in alcune branche deli'azione cattolica non sia ancora arrivato ad organizzare sè stesso con una larga partecipazione di responsabilità direttiva ed ammini strativa: per questo i l senso di società (o comunità) è solo iniziale e quindi meno efficace. (N. ali'ed. ingl.)

(*) 2a Cor. 4; 18.

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mentre ammaestrano tecnicamente i loro membri nell'esercizio dell'apostolato per determinati fini, creano questa comunione. spirituale che è necessaria perchè ogni fedele divenga un apostolo.

La specializzazione è necessaria: io ricordo con ammirazio- ne certe donne in Italia e in Inghilterra le quali, unite in asso- ciazioni, lavoravano insieme per assistere e riabilitare le donne messe in carcere per ragioni di moralità; altri gruppi di A.C. dedicano la loro opera agli strati più bassi della società dove è impossibile per i religiosi d'ambo i sessi penetrare senza dar luogo a risentimenti o a malignità.

Addito. questi casi per mostrare quanto grande sia il campo di azione per un laicato veramente cristiano. Un'associazione che ha avuto il più grande appoggio e le più grandi lodi è quella dei giovani lavoratori, .chiamata Jocism 1) (dalle iniziali francesi J.O.C., Jeunesse Chrétienne Ouvrière). Nel Belgio ed in Francia essa fiorì prima della guerra ed ora ha di nuovo preso i l suo po- sto con rinnovato fervore. Lo scopo principale è di infondere nei giovani lavoratori quel senso cristiano che li renda - per quanto è possibile - immuni dal contagio del vizio nell'ambien- te in cui vivono e lavorano (famiglia, officina, associazioni spor- tive) per mezzo dell'esercizio dell'apostolato collettivo. Essi fan- no un'aperta professione di fede, ricevono frequentemente i sa- cramenti, eccellono nella loro attività di proselitismo amiche- vole tra i compagni di lavoro e nella franca resistenza a tutte le sollecitazioni del male.

Ciò che si verificava nel medio evo nelle confraternite di pe- nitenza, nei terziariati con la loro accentuazione nella preghiera

. e nella mortificazione, si verifica oggi nel1'A.C. I1 concetto ba- silare è quello di associare i laici insieme, dando loro salda e sincera formazione spirituale, perchè così è possibile creare ambienti vivi nei quali non possano allignare l'indifferenza re- ligiosa e l'abito del vizio, dai quali è invasa la società.

Quello che i l Jocisrn è stato nel Belgio e altrove per i giovani operai, è stato il (C erai l in Olanda, Inghilterra e America per le giovani, impiegate, commesse, operaie staccate tutto il giorno dall'atmosfera familiare. Questa organizzazione è del tutto differente da quella del Jocigm: l'apostolato è esercitato

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dalle donne che promuovono i gruppi del u Gruil)) e le opere ad essi connesse, secondo i bisogni dei vari paesi e dei centri urba- ni. Ma i l principio è lo stesso. In un periodo come l'attuale, in cui i vincoli della famiglia e della comunità locale sono arrivati al punto di essere quasi inesistenti, in cui i liberi contatti tra i giovani di ambo i sessi cominciano dalla scuola, è necessario circondarli con un'atmosfera nuova e sana, creare le forme cor- rispondenti di attività educativa e vincoli sociali volontari ma efficaci. Gli scopi e le attività di queste associazioni, mirano ad infondere nei giovani un attivo spirito cristiano, comunicati- vo e generoso.

Nè Jocism nè Grail nè le altre organizzazioni simili sono nuove. Il primo di questi movimenti per la formazione dei gio- vani fu quello della gioventù cattolica italiana, fondata nel 1867 dal conte Mario Fani, con i l motto: « preghiera, azione, sacri- ficio ». Non so quanti milioni di giovani son passati per tali circoli, la cui influenza si estese ben presto in tutti i centri, anche nei villaggi, d'Italia ; e nemmeno quanti santi ed eroi vi si forgiarono (*). Questo movimento merita una storia bene scritta, da diffondersi nel mondo.

Meglio conosciute sono le società (o conferenze) d i S. Vin- cenzo de' Paoli, fondate da Federico Ozanam a Parigi più di cent'anni £a e diffuse dappertutto. Vorrei sbagliare, ma mi sembra che i 3/4 di queste società abbiano perduto di vista l'alto proposito .educativo del fondatore, mantenendo solo l'intento pratico del soccorso agli ammalati e ai poveri. Ozanam fondò queste associazioni tra gli studenti universitari di Parigi, e più tar- di in Italia, e le chiamò (C conferenze D, poichè il loro propo- sito era di conferire insieme, con lo scopo di ridestare attraverso la carità lo spirito della fede cristiana nei giovani studenti. Nel metterli a contatto con le miserie ed i mali delle classi po- vere, egli mirava a preservarli dalle tentazioni contro la fede e i buoni costumi. La sua era un'opera di educazione attra- verso la carità, che adattava in forma moderna l'antica consue- tudine per cui gli studenti e i figli dell'aristocrazia andavano negli ospedali pubblici a portare aiuto ai malati. La sua impor-

(*) Vedi il capitolo XI.

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tanza risiede nel rendere possibile fin dalla fanciullezza l'adde- stramento (altrimenti difficile) all'amore e alla pratica della carità e nel procurarne le occasioni: inoltre approfondisce le simpatie umane e l'amore soprannaturale; inculca i l dovere nel fare il bene; prepara i giovani ad essere utili agli altri anche spiritualme~ite e a superare l'egoismo e l'individualismo religioso facendo vivere la religione in forma associata, in libere comunità e a fini determinati, animati dallo spirito di apostolato.

I1 sistema di limitare l'ammaestramento della gioventù alla educazione scolastica (spesso puramente tecnica-intellettuale); alla pratica del culto, individualmente od in comune, senza altri legami reciproci che il fatto di trovarsi occasionalmente nella stessa scuola e nella stessa cappella, è insufficiente ai fini dell'educazione. Così pure è insufficiente ( e può anche essere nociva) l'abitudine di dedicare tutte le ore libere allo sport, ai divertimenti e al ballo.

Certo anche queste cose (con un grano di sale e con purezza d i spirito) aiuteranno il sano e franco sviluppo della gioventù. Ma l'anima rimane vuota se tutta la vita « sociale », tutta l'« aria da respirare fuori della scuola e della chiesa è quella dello sport e del divertimento.

La carità, lo spirito di sacrificio, lo zelo per sè stessi e gli altri, vissuti solidalmente e fin dal primo svilupparsi delle facoltà d i agire, rende veramente cristiana una gioventù che sarà il lievito salutare della società futura.

. Una delle branche dell'azione cattolica che ha attirato l'at- tenzi0ne.e l'attività di molti è quella usualmente chiamata « a- zione sociale ». Molto è stato fatto e si fa a questo riguardo, nel campo dell'insegnamento e dello studio; non sono mancati suc- cessi locali sul terreno pratico, come nella cooperazione, nel- l'unionismo o sindacalismo e nei nuclei familiari (*).Non è com- pito mio esporre l'utilità tecnica ed i principi di giustizia sociale

(*) Specialmente lo sviluppo cooperativo della Nuova Scozia ed il movi- mento della « vita nazionale cattolica rurale negli Stati Uniti. (N. all'ed. ingl.)

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che dovrebbero animare tali iniziative; i l problema qui studiato è quello di provvedere la vita cristiana d i centri di preserva- zione, utilizzando i l metodo sia delle associazioni più o meno confessionali sia delle associazioni non confessionali. Ciascuno d i questi metodi ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi; ma i cattolici nell'una o nell'altra forma di associazione, dovrebbero contri- buire a formare un'atmosfera di alta moralità cristiana. Per far questo si richiede lo spirito d i azione e di sacrificio che non può mai esistere separatamente dalla preghiera e dalla convinzione che ognuno di noi è un collaboratore di Cristo, che porta il Suo nome in ogni luogo.

La stessa cosa si può dire per tutte le altre branche della vita pubblica democratica. Pio XI, in un indirizzo alla gioventù

cattolica belga, disse che la politica è un atto di carità verso il proprio vicino. Desiderare i l bene pubblico, lavorare ed anche sacrificarsi per questo fine, è certamente un atto di carità quando non è strettamente un obbligo, è un esercizio di giustizia sociale (come nell'esercizio del diritto elettorale) (*).

Anche nella vita pubblica è necessario creare o ricreare la atmosfera della moralità cristiana, e questo non può essere fatto che dai veri cristiani. Se questi, invece di cooperare, si tengono in disparte per paura della u politica (quante volte nella mia vita ho sentito pronunciare questa parola con un senso di disgusto, non so se per ignoranza, fariseismo, egoismo, pigrizia o peggio), allora partecipano direttamente o indirettamente alla corAzione della vita pubblica, mancano negativamente o posi- tivamente al loro dovere di carità e, in certi casi, anche d i giusti- zia. Così essi concorrono ad alimentare un'atmosfera avvelenata e ad estenderla in molte altre branche della vita sociale, perchè nel mondo moderno una larga parte delle azioni umane è legata alle attività e all'influenza della politica, che può essere defi- nita come.l'attività direttiva ed esecutiva dello stato e di tutti gli altri enti pubblici, nazionali e civici.

(e) E necessario far riferimento alla teologia per lo studio del dovere deI cittadino verso la società. Vedere LUIGI STUW, u Politique et théologie morale D, in Les gucrres modernes et autres essais sociologiques. Editions de l'Arbre, Montreal. (N. dell'ed. ingl.)

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I1 capitolo 18 del Vangelo secondo san Matteo è quello che servirà per concludere questo capitolo. Alla domanda dei disce- poli: Chi è il più grande nel regno dei cieli? » Gesù rispose: « Chi ... si farà piccolo come questo fanciullo D. L'umiltà è la prima e fondamentale virtù, non solo individualmente davanti a Dio, ma socialmente in mezzo agli uomini. L'umiltà rende giustizia agli altri, l'umiltà è una virtù sociale, l'umiltà è amore. Gesù continua con l'esortazione di fare i l bene ai piccoli fan- ciulli (C per amor alio ».

Un terzo passaggio; lo spirito di apostolato si rivolge tanto ai fanciulli che a tutti, nel portare l'esempio della pecora smari.ita cercata dal pastore, che si rallegra più per la pecora ritrovata che non ((per le novantanove che non s'erano smarrite D.

Per mostrare che l'amore e la cura di quelli che si possono perdere non è compito solo dei pastori )) - preti e vescovi - Gesù insegna l'obbligo della correzione fraterna da parte di coloro che vedono che i loro fratelli, i loro amici, i loro com- pagni camminano per le vie del male. Quindi Egli dice chiara- mente che in questo esercizio d i carità, in questo apostolato fra-

, terno, la chiesa deve intervenire con la sua autorità ed i suoi ministri solo quando è stata insufficiente la correzione d i due u

, tre altre persone. I1 divino insegnamento continua. Gesù dice, N Vi dico ancora

che se due d i voi si mettono insieme nella terra u domandare qualsiusi cosa, essa sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli. Perchè dovunque due o tre persone sono riunite nel mio nome, io sono in mezzo a loro )) (*).

Due o tre persone formano una società; la società dovrebbe essere per amor mio D, per i l bene, bene spirituale ed anche temporale, nutrito dalla carità e fatto soprannaturale dalla grazia. Allora il Padre nei cieli concederà la realizzazione d i quello in cui s i sono accordati; e Gesù è in mezzo a loro perchè essi sono nel corpo mistico di Cristo, operando con la virtù di Cristo, eseguendo la volontà del Padre. Questa azione è non solo individuale ma sociale: (C due o tre )) o centomila è lo stesso;

(*) Matt. 18; 19-20.

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gli inizi umili sono più sicuri. Ciò che è necessario è la comu- nione con Dio, attraverso Cristo, in verità e in amore, e recipro- camente tra gli uomini. Non esiste altra via per far i l bene per sè stessi e per gli altri. La via è seguita da Cristo, che coni viene a distruggere la natura umana ma a rafforzarla e . ad ele- varla all'ordine soprannaturale. Ed è nella natura umana che l'uomo acquista tutto nella società e per la società. La società è fondamentalmente un bene, ma può divenire un male se è penetrata dallo spirito del male. Solo se animata dallo spirito d i Cristo la società può divenire un mezzo salutare per l7indi- viduo, proprio come l'individuo animato dallo spirito di Cristo può rinnovare la società.

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VIII.

LA VITA SPIRITUALE DELL'UOMO COMUNE

San Paolo, nel conchiudere la seconda epistola ai Corinti, fa loro le seguenti esortazioni: «. Del resto, o fratelli, siate al- legri, fatevi perfetti, consolatevi, siate d'accordo nelle idee,

vivete in pace e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi (*l. Queste stesse parole possono essere dirette a tutti i cristiani

(e non solo a quelli di Corinto) per riassumere in poche linee quale debba essere la vita spirituale di ciascun di noi.

Per bene intendere ciò, occorre dissipare alcune idee poco esatte che corrono facilmente nel mondo circa i problemi della vita spirituale. Prima Ga tutte una specie di classifica prestabi- lita e accettata comunemente per la quale si fa distinzione fra le persone devote che dedicano qualche ora alle letture pie e alla frequenza della chiesa, e le altre legate tutta la settimana agli affari, alla famiglia, alle occupazioni terrene, con appena l'eccezione della messa alla domenica. Per questi secondi par- lare di vita spirituale sembra un)esagerazione o una pretesa: non ne hanno tempo ; gli altri, i primi, dacchè ne hanno tempo (o lo trovano a loro agio), che facciano pure; sono persone di eccezione, i pochi.

Niente di più errato: siate perfetti è stato detto a tutti da Gesù Cristo, così come a tutti è stato detto di seguirlo. San Paolo ripete la stessa parola: cc siate perfetti n. Anche a quelli occupatissimi con gli affari professionali e di famiglia si deve poter dire siate perfetti, allo stesso modo che, dal punto di vista

(*) Cor. 13; 11.

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dei rapporti sociali, si dice a tutti d i essere veritieri, di essere gentili, d i essere compassionevoli.

11 senso u statico che si attribuisce dai vocabolari o dall'uso comune alla parola « perfetto n, (come di cbsa finita, senza di- fetti, avente tutte le proprietà) non deve farci credere che il comando sia ineseguibile. Tutti noi siamo spiritualmente incom- pleti, difettosi e certamente peccatori. La perfezione alla quale Dio ci appella da un lato - il Suo lato - è completa; dal lato umano non è assoluta ma relativa e sempre progressiva, sì da aversi u n numero indefinito di gradi di perfezione. I1 proprio del- ia vita spirituale è che in essa non si parte dalla imperfezione per arrivare alla perfezione, come per un passaggio naturale e un pro- cesso d i atti di propria volontà; ma si parte da una perfezione che è dono di Dio, la grazia santificante, con la quale e per i

successivi aiuti d i Dio, noi possiamo procedere nella via della perfezione. L'appello di Cristo è alla vita della grazia; quando abbiamo la grazia siamo perfetti nel senso spirituale, pur cou tutte le imperfezioni che le nostre passioni e inclinazioni di

natura ci recano ogni giorno come la polvere della strada sopra u11 cristallo.

Tale perfezione è perciò, sotto un certo aspetto, completa: per la grazia noi siamo già figli di Dio e compartecipi all'eredi-

tà del regno; sotto altro aspetto non lo (è, dovendo noi custodire tale grazia, non mettervi ostacoli a che essa produca in noi frutti di vita spirituale, e cercarne l'aumento con tutti i mezzi che Dio ha messi a disposizione della sua chiesa e di ciascuno d i noi.

Così le persone obbligate a occuparsi tutto il giorno della famiglia, degli affari, dei doveri d'impiego, se hanno avuto la grazia santificante e se la custodiscono dai pericoli di perderla,

sono già in un certo senso perfette, cioè santificate dalla grazia; esse non possono sfuggire all'obbligo di perfezionarsi ancora, cioè secondare gli impulsi della grazia; e soprattutto d i riacqui-

starIa nel caso che l'abbiano perduta per colpa mortale.

I1 punto critico del loro stato spirituale sta nel fatto che es-

. sendo esse troppo dedicate agli affari di questo mondo, non tro- vano tempo per la cura dello spirito; le attrattive terrene diven-

gono sempre più insistenti e le resistenze spirituali si indeboli-

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scono. In tale stato sarà loro d a c i l e conservare la grazia santi- ficante, e una volta cadute nella colpa, sarà anche difficile ritornare allo stato di grazia mano a mano che le cadute si ripeteranno più frequenti e forse più gravi.

Bisogna, pertanto, tenere fermo che la perfezione s'inizia e si completa con l'acquisto, il mantenimento e l'aumento della grazia santificante; che tutto il lavorio che è fatto da noi con la nostra attività vale niente se non è reso soprannaturale dalla grazia, sostenuto e corroborato dalla grazia; sviluppato e accre- sciuto dalla grazia. Tutti possiamo e dobbiamo vivere la vita della grazia, e per essa cominciare, progredire e compiere la nostra perfezione secondo la misura che Dio ha assegnato a

. ciascun di noi.

Una delle esperienze spirituali più interessanti è data dal fatto che chi più avanza nella via della perfezione più si sente imperfetto, mentre colui che è fuori della via della perfezione non comprende la sua imperfezione e può arrivare perfino a essere come il fariseo della parabola, il quale ringraziava Dio perchè egli non era «come gli altri: rapaci, ingiusti, adul- teri a (*). Invece i santi si reputano grandi peccatori, perchè comprendono la gravità del peccato, l'infinità del dono della grazia, il pericolo di perderla per propria colpa.

Noi abbiamo avuto da Dio i talenti, chi più chi meno, e dobbiamo farli fruttificare come è detto nel Vangelo. I talenti sono le grazie che ci rendono debitori verso Dio; i frutti sono l'accrescimento nelle virtù e nella grazia. Onde la grazia santi- ficante (per£ezione fondamentale) data a noi col battesimo o rinnovata con il pentimento e la confessione delle colpe, segna il punto di partenza per i l cammino verso la perfezione consu- mata, che è la visione di Dio.

Questo cammino è uguale per tutti; non ci sono cristiani che possano evadere da tale cammino senza rinunziare alla grazia. È la legge di progresso imposta a tutti quando Gesù

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disse: Chiunque, dopo aver inesso mano all'aratro volge indietro lo sguardo, non è adatto a l regno d i Dio n (*).

Eccoci all'altra obiezione che suole essere avanzata da molti: - essi sono così pieni di difetti, la volontà ordinaria non basta, le cure terrene, l'avvenire di ciascuno di loro e della famiglia occupano tutte le loro energie; per pensare a Dio come si deve manca il tempo, che per il modo attuale di vivere fugge continuamente.

Costoro non hanno mai notato un fatto che è psicologicamente accertato e incontrovertibile, che quanto meno pensiamo alle cose dello spirito, tanto meno tempo troviamo per esse; al con- trario, quanto più tempo vi dedichiamo tanto più tempo tro- viamo a nostra disposizione. I1 problema non è del tempo, che, dopo tutto, può ancora essere regolato da noi anche nella vita più densa di lavoro e di affari; pensare a Dio lavorando e fati- cando è cosa a cui le persone spirituali cercano di arrivare; i1 problema è quello dello stato abituale del nostro animo e delle sue inclinazioni.

Certo, la vita interiore anche solamente intellettuale e spe- culativa, ha perduto molte delle sue attrattive anche sensibili in un mondo così meccanicizzato come oggi A distrarci basta la radio a portata di mano, che ad ogni ora ci parla, canta per noi, ci richiama al mondo esterno che sempre ci preme: la colpa non è della radio, la colpa è nostra, che ne usiamo più in là della misura. Però chi sa trovare un momento di riflessione su se stesso, prova un vuoto incolmabile e un bisogno di silenzio che ci servono come di richiamo ad un'altra realtà.

I1 credere come molti fanno, che i difetti e le colpe di cui intessiamo la giornata siano il segno che la perfezione non è afar nostro, è un errore che bisogna superare fin da principio. I di- fetti, le colpe veniali e anche quelle gravi ci debbono rendere umili e togliere ogni confidenza in noi stessi, ma ci deblono spingere a cercare quegli aiuti di Dio e quei mezzi (come la frequenza ai sacramenti della confessione e comunione, la preghiera, la mortificazione) che Dio ci ha dati per restaurare la grazia e aumentarla.

(*) Luca, 9; 62.

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Bisogna essere convinti che l'appello alla perfezione è l'ap- pello ad accettare, conservare, accrescere la grazia santificante. I1 cristiano che ha cura costante di tenere fermo questo punto, anche in mezzo ai difetti e alle colpe, nelle quali per debolezza potrà cadere e cadrà di fatto, è già sulla via della perfezione.

Una persona che in sostanza somigliava a quel giovane che rispose a Gesù: « Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla nzia giovinezza! » (*), mi diceva ch'egli non aveva mai fatto progressi nelle virtù: sempre impaziente, troppo loquace, alquanto invidioso, sempre tentato d'impurità ; egli si sentiva sconfortato di avere passato molti anni senza mai acquistare la perfezione.

Uno stato d'animo simile. se è congiunto con turbamenti e mancanza di confidenza in Dio per il proprio avvenire, non viene dallo spirito buono, ma dallo spirito cattivo; se è solo un atto di umiltà per procedere avanti, allora sì che viene dallo spirito buono.

I difetti della vita quotidiana, le tentazioni anche gravi, le difiicoltà che si provano nel respingere le attrattive del mondo, se sono sentiti come un peso, provandone dispiacere e disgusto, rigettandone gli inviti, provandone rimorso per le cadute occn- sionali, provano che la vita spirituale è veramente vissuta.

Coloro che sono in simile travaglio, non lo sono senza averne responsabilità, ma anche senza averne profitto, se il punto fermo è sempre la volontà di non perdere la grazia, che segna la nostra amicizia con Dio.

Dice san Paolo che « tutto coopera a bene per chi ama Dio. cioè per quelli che secondo i l suo piano sono chiamati san- ti » (**).

Qui la parola santi vale segregati dagli altri e legati a Dio. Tutti i battezzati e in grazia.sono santificati, dedicati a Dio ; per costoro « tutto coopera a bene D. Le miserie della vita per

(a) Marco, 10; 20. (**) Rom. 8; 28.

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gli uni ( i santi) sono a bene, per gli altri ( i mondani) sono a male. Non solo le miserie della vita, ma ogni cosa ha questo effetto, perfino la grazia, perfino lo stesso Gesù Cristo che per alcuni è u rovina e per altri « salvezza D. Come dice Simeone nella sua profezia: ((Questo bambino è destinato a d essere '

causa di rovina e di resurrezione di molti in Israele e a diventarci un segno di contraddizione » (*). -

Perchè realmente tutti i cristiani sentano l'imperioso appello alla perfezione, occorre che sia riveduto e corretto l'orienta- mento educativo e ambientale che porta all'indifferentismo reli- gioso. Questo non può essere combattuto, nella maggior parte dei casi, nè con l'accentuare i l « denominazionalismo » o C( eccle- siasticismo che porta al fanatismo di setta; nè con l'eccitare un costante timore - quasi paura - di Dio, si da renderne incomprensibile la misericordia.

L'orientamento più efficace è quello dell'amore d i Dio; legare tutto all'idea e all'effettività dell'amore di Dio; fare che fin da giovane ciascuno senta presente a sè questo padre amoroso e misericorde. I1 primo timore che deve ingenerarsi sarà quello d i offendere un Dio che ci ama, di violare la legge dell'amore; si che i l ritorno a Dio si comprenda come una pacificazione tra padre e figlio. L'idea di figliolanza deve primeggiare su tutte nelle nostre relazioni con Dio. E questa idea ci deve sostenere sempre nel nostro cammino. San Paolo, nel testo citato, mette prima gioite, poi siate perfetti, terzo confortatevi. La gioia di essere figli di Dio, cristiani, in grazia, ci deve colmare lo spirito sì da essere spinti sempre a ringraziare il nostro Padre celeste.

Questa giocondità ci spingerà ad osservare i mandati come dice il salmista: La via dei tuoi precetti io corro, quando tu alber- ghi i l mio cuore n (**). Chi ha il cuore chiuso ai pensieri celesti non può percorrere la via dei comandi divini, che è ben aspra; ma lo può chi ama, chi ha il cuore dilatato dall'amore, chi sente questo impulso. E se nelle difficoltà si hanno remore, titubanze e cadute, san Paolo aggiunge confor- tatevi, fortificati dallo spirito di amore, che ci sostiene. Se

(9 Luca, 2; 34. (W) Salmo 118; 32.

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ai fanciulli e ai giovani s'ispirasse questo senso d'amore, sì da creare in loro una stabile direzione di vita, non si avrebbero tante defezioni non solo nella pratica spirituale ma nella stessa fede.

Tale amore si esplica in due campi: l'osservanza dei coman- damenti e la carità verso i l prossimo. Mi fermo al secondo che mi sembra meno accentuato nell'educazione giovanile, in tempi in cui la gioia di vivere e i l farsi un avvenire sviluppa terribil- mente l'egoismo personale. Dice san Giovanni nella la epistola: (i Nessuno ha mai veduto Dio. Se ci amiamo l'un l'altro, Dio abita in noi e la carità d i Lui è perfetta » (*). È possibile oggi educare i giovani mistiani nell'amore reciproco, non solo negati- vamente: non odiare nè invidiare - ma positivamente - fare del bene, fare qualche sacrificio materiale e spirituale, eserci- tarsi nella carità?

Richiamo ancora l'attenzione sull'utile lavoro svolto da Fede- rico Ozanam, i l quale fondò la società di san Vincenzo de' Paoli per educare la gioventù universitaria di Parigi di un secolo fa all'esercizio pratico e personale della carità, e così allo stesso tempo, per effetto di tale esercizio, conservare la fede religiosa e la purezza dei costumi. Quanti giovani ha educati e salvati tale istituzione diffusa in tutto il mondo, Dio solo lo sa e va a merito del suo fedele e geniale servo. Purtroppo in non poche parroc- chie, la società d i S. Vincenzo non è più in mano a studenti e ii giovani che l'hanno disertata.

Devo ancora citare i circoli della gioventù cattolica, fondati da Mario Fani, con i l motto: preghiera, azione, sacrificio, che volevano spingere i giovani all'apostolato nelle scuole, nelle of- ficine, nelle campagne. Questa opera, ancora viva e fiorente, ha salvato in Italia milioni di giovani dall'apostasia, dall'indiffe- rentismo e dalla corruzione.

Oggi la famiglia è minata da tutti i lati; vi manca spesso quella compostezza di costumi, armonia fatta di reciproco com- patimento, spiritualità intima, che è Stata sempre la grande tradizione cristiana. Occorre ridare i l senso della famiglia at- traverso l'opera ausiliare della scuola, dell'azione cattolica, del

(*) l" Giov. 4; 12.

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jocismo, della società d i San Vincenzo, in una parola attraverso l'educazione pratica alla carità, che sviluppa allo stesso tempo lo spirito di apostolato e di pietà.

Queste ultime osservazioni portano ad accennare a un punto molto controverso della metodologia spirituale, ma che pui> avere rapporto con il problema qui studiato. Noi dividiamo, sia per analisi teoretica, sia per direzione pratica, in tre stadi la via della perfezione: degli incipienti (via purgativa), dei proficienti (via illuminativa), dei perfetti (via unitiva). Però occorre av- vertire subito che tale divisione, speculativa o pedagogica, non è affatto identica alla realtà vissuta da ciascuna anima. Ci sono degli incipienti che corrono, dei proficienti che si fermano, dei perfetti che tornano indietro. Troviamo dei contemplativi che hanno molti difetti nella vita comune, e altri che pur sembrando più virtuosi (per temperamento o per educazione) non hanno superato lo stadio della vita purgativa. Noto ciò, perchè si eviti di alterare o ritardare il cammino della perfezione con idee inesatte, con interferenze inopportune; e soprattutto non si esa- gerino le difficoltà della via della perfezione al punto da far credere che per la maggioranza dei cristiani sia affare troppo lungo e penoso, da essere lasciato ai pochi eletti.

Altro ostacolo si para davanti al cristiano medio quando s'insiste senza sani criteri nella distinzione scolastica di asce- tica e di mistica, come due metodi di vita spirituale, la prima per i l ceto devoto e la seconda per i privilegiati. Nella realtà interiore queste non sono nè due metodi, nè due stadi diversi d i vita spirituale da adattarsi, secondo le circostanze, agli uni o agli altri. La vita spirituale ha per base, per intimo incre- mento, per essenza la grazia santificante: tutta la vita spirituale è mistica, nel senso largo della parola ; occorre mantenere fermo questo punto, poichè non c'è momento della vita spirituale vivi- ficata dalla grazia in cui non ci sia nell'anima l'abitazione di Dio Uno-Trino: « e verremo a lui e faremo dimora presso di lui » (*).

(*) Giov. 14; 23.

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L'ascetica, cioè l'esercizio delle virtù e la mortificazione dei sensi, o è fatta per impulso della grazia e con l'aiuto della grazia (quindi è mistica) ovvero resta esercizio puramente umano e può essere motivo di vanità.

L'altro punto da chiarire si è che i cosidetti doni mistici, che Dio concede a certe creature privilegiate (ad utilitatem come dice san Paolo) non costituiscono un grado di perfezione e non sono mai al d i là dell'appello alla perfezione che Dio fa a cia- scuno di noi. Sono libera donazione di Dio agli uni in un modo e agli altri in un altro. L'appello a cose maggiori, a momenti pii1 perfetti, non deve essere trasmutato in un falso eccitamento su- biettivo o in un imprudente salto (perciò la necessità della dire- zione di coscienza), ma neppure deve essere precluso a nessun cri- stiano. Chi credeva che la piccola Bernadette potesse essere in grado di ricevere la grazia delle apparizioni della Vergine Imma- colata? E quanti non hanno provato il profumo di bontà di anime umili e pie dedite tutte al lavoro domestico, che divengon spesso gli angeli di modeste famiglie operaie e di contadini?

Quanti beni spirituali che noi non conosciamo!

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IX.

LA LETTURA DEL NUOVO TESTAMENTO

Da quando Leone XIII, mezzo secolo fa, istituì presso i l Va- ticano la società di'san Gerolamo per la diffusione dei Vangeli, le edizioni del testo latino e le traduzioni in tutte le lingue si sono moltiplicate, così che è da credere che ogni buon cattolico abbia i l Nuovo Testamento fra i suoi libri, e che lo legga sovente e che ne abbia fatto il suo libro preferito.

La verità è che non siamo arrivati a questo punto e che per arrivarci molto cammino si ha ancora da fare.

Durante il mio continuo e lungo contatto con i giovani, non solo in Italia ma anche nei paesi che ho visitato, specialmente durante gli ultimi venti anni, mi è tante volte venuta l'idea d i domandar loro se leggevano spesso i l Nuovo Testamento. Le risposte usuali erano che essi leggono spesso i l libro della messa, che ascoltano l'Evangelo in chiesa, o che non hanno mai avuto una copia intiera del Nuovo Testamento, ovvero che l'hanno ma non è loro abitudine leggerlo, o che han letto qua e là i Vangeli o gli Atti degli apostoli, mai per intiero; e che rara- mente han letto qualche tratto delle Epistole, quasi mai 1'Apo- calisse, che però hanno lette questa o quella vita di Gesù o di san Paolo. Solo pochi, direi pochissimi, han preso dai primi anni l'abitudine della lettura frequente dei quattro Vangeli.

Ho più volte pensato quali possano essere le cause di un così scarso interesse, nei giovani e nelle giovinette, a conoscere un libro che per loro dovrebbe essere il libro di tutta la vita.

Una ragione può essere che i giovani moderni non hanno l'abitudine del libro preferito, il libro compagno di tutta la vita. Un tempo vi erano certi libri che formavano la base intel- lettuale e spirituale dell'umanità civilizzata. Per gli occidentali

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Virgilio teneva i l primo posto; i cristiani, oltre la Bibbia, avevano le Confessioni di sant'Agostino, poi la Divina Com- media, l'Imitazione di Cristo. Venendo giù con i secoli i Pen- sieri di Pasca1 ebbero un posto specialissimo. Naturalmente, gli anglosassoni hanno Shakespeare, i tedeschi Goethe, e così ogni paese ha i suoi classici preferiti. Ma oggi la vita è vissuta troppo in fretta, si hanno troppe riviste e romanzi e racconti a chiave da leggere; i classici sono per le scuole e quando la scuola è finita si mettono da parte, si vendono, si danno via. I libri religiosi servono per la domenica - si e no, secondo i casi. La sera si arriva a casa stanchi dal lavoro, dal cinema, dal teatro, dalle riunioni amichevoli. I1 giornale e i fatti del giorno assorbono spesso la poca attenzione che resta. Così il libro pre- ferito non esiste più: esistono i molti libri che vengono fuori, si prendono dalle biblioteche circolanti, si leggono in fretta e s i

'

riportano via per prenderne altri, libri di distrazione più che di studio, di rapida lettura più che di meditazione.

Restano così i pochi dediti alla vita spirituale che possono avere ancora il gusto delle soavi letture di consolazione, ma essi spesso inclinano a leggere facili guide, vite di santi e bollettini religiosi; di rado ricorrono alle fonti, ai libri di nutrimento e alla Bibbia, e soprattutto al Nuovo Testamento. Anche se in maggioranza si contentano del libro della messa domenicale e festiva, e leggono le Epistole e i Vangeli distaccati dal contesto, come un tratto liturgico connesso al rito, e di cui rimane in mente un'idea. un motto, un'immagine, che forse presto svanisce.

Una constatazione che spesso mi ha colpito è che quasi mai essi nella "conversazione citano un passo del Nuovo Testamento, nè fanno riferimento agli insegnamenti evangelici, nè ai fatti della vita di Gesù e degli apostoli, nemmeno alle ricchezze spirituali profuse nelle epistole: da questo lato la loro spiritua- lità sembra alquanto opaca.

Per arrivare alla radice e creare una buona tradizione, bi- sogna cominciare a far leggere e amare il Nuovo Testamento fin dai primi anni; e continuare l'educazione alla lettura e pe- netrazione di quelle pagine per tutto i l corso scolastico.

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Per far ciò, i l Nuovo Testamento dovrebbe essere conside- rato non solo come il libro sacro per eccellenza, ma anche come il libro della esperienza umana, della civiltà alla quale ap- parteniamo, del fondamento della nostra cultura, dell'ispira- zione delle poesie e opere d'arte da duemila anni ad oggi e per l'avvenire dell'umanità. Per questa ragione non dovrebbe essere confinato nelle scuole di religione, spesso come un libro sussi- diario, che d i fatti non si legge o si legge poco, - ma come un libro di testo di tutto l'insegnamento, adattato ai vari corsi, elementare, superiore e universitario, secondo sani criteri edu- cativi, riservando alla scuola di religione la parte dogmatica e mistica e quella esegesi storica che è necessaria a far apprendere meglio la rivelazione contenuta nei vari libri che compongono il Nuovo Testamento.

Non intendo tracciare qui un piano didattico del come fare penetrare nell'anima giovanile i l Nuovo Testamento e farlo di- venire il libro di ciascuno per tutta la vita. Ogni paese ha i suoi metodi scolastici e le sue preferenze. Qualche suggerimento che dò ( e che mi viene in mente in conformità alla mia mentalità latina) può non essere adatto ai paesi anglosassoni e dovrà essere preso solo come mezzo illustrativo del mio pensiero.

Ma prima di entrare in dettagli metodologici, è necessario vedere quale contributo alla formazione culturale del giovane alunno può fornire il Nuovo Testamento. Si presuppone che all'alunno si dia in mano una traduzione ben fatta dal punto d i vista della lingua e dello stile, una traduzione capace di contri- buire come un'opera letteraria alla sua educazione. Non tutte le traduzioni sono, sotto questo punto di vista, raccomandabili.

È chiaro che, secondo l'età e il procedere dei corsi scolastici, occorre dare modo all'alunno di leggere dei tratti staccati che possono destare meglio la fantasia e i sentimenti dei giovanetti, fino a che mano a mano si arrivi alla lettura metodica dei vari libri che compongono il Nuovo Testamento, lasciando alla scuola d i religione quelli che esigono (come certe Epistole e 1'Apo- calisse) spiegazioni esegetiche assai complesse e non adatte alla mente giovanile.

A proposito, è bene dissipare certe idee che la tradizione classicista rese comuni, e cioè che i Vangeli sono scritture rozze,

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primitive, di uomini di media cultura, in cui manca'l'arte, l'elo- quenza e lo stile; sì da considerarli come libri religiosi, ma non mai come libri che formano l'educazione letteraria degli alunni. Doppio errore: i Vangeli, e anche gli altri scritti del Nuovo Testamento, alcuni nella loro semplicità, altri nella loro com- plessità, hanno avuto uno stile e una lingua propria, che è pe- netrata fino alle midolla della cultura di ogni paese civile, e che ha plasmato molta parte del pensiero e dell'arte dei secoli cristiani fino ad oggi. Coloro che fanno studiare Omero, Eschilo, Sofocle e Platone, Virgilio e Cicerone, per formare una cultura umanistica, fanno bene; coloro che in ogni paese appoggiano la formazione culturale ai propri classici poeti e prosatori, fanno bene. Ma la nostra cultura è più larga, più estesa, più comprensiva di tale umanesimo, tante volte traviato o falso, e non poche volte retorico e gonfio. Mentre i libri della Bibbia in genere e i l Nuovo Testamento in ispecie (a parte i generi profetici) sono nella loro semplicità così convincenti, umani e pieni di bellezze, che formano un elemento essenziale e inarri- vabile nella cultura di tutti i tempi e di tutti i popoli.

Pochi esempi bastano a rendere evidente questa verità, che, pur essendo penetrata nella convinzione generale, non è por- tata nella pratica educativa se non parzialmente e senza metodo.

Tutto i l capitolo I del Vangelo secondo Luca ha la bellezza di una primavera: è l'aprirsi della terra e del cielo al Verbo che si fa uomo. I due caqtici, il Magnificat e il Benedictus sono liriche spontanee e sublimi. È vero che noi insistiamo sul lato religioso, dogmatico e mistico di tali pagine rivelatrici, ma nes- suno ci vieta di spiegarne le bellezze del colorito artistico, la vivezza dei personaggi, Maria, Elisabetta e Zaccaria, la loro umanità, l'espressione della loro fede, lo slancio mistico che emana dai loro canti.

Che facciamo quando studiamo Virgilio o Omero, o Sofocle o Eschilo o altri grandi poeti classici? Cerchiamo nell'espressione d'arte l'umanità perenne che vive nei personaggi, la loro realtà artistica, la vita impressa dal poeta, il pensiero profondo che diviene arte. Non è una profanazione se umilmente facciamo entrare l'alunno nel tempio del Nuovo Testamento, non solo per adorarvi i l Dio vivente, ma anche per ammirarne le bellezze

97 7 - S~uszo - Problemi spi~ituali

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rivelatrici della costruzione. Così quando leggiamo nel primo capitolo del Vangelo secondo Giovanni (versetti 35-51) il primo contatto del futuro discepolo con Gesù, sentiamo un'altra pri- mavera sprigionarsi: sono anime semplici e religiose, seguaci di Giovanni i l Battezzatore, che attendono il Messia, che nell'av- vicinare i l nuovo personaggio sono mosse da una curiosità miste- riosa, si scambiano le prime impressioni, arrivano subito alla conclusione: ((Signore, tu sei i l figlio d i Dio, tu sei il Re di Israele ». C'è una drammaticità primitiva in questa scena, (ben usuale nello stile giovanneo), che incanta. Ma dove tale dram- matizzazione di personaggi si rivela in tutta la sua efficacia è nella narrazione del miracolo del cieco nato (capitolo nono). Dopo averlo letto come uno dei Vangeli della messa ed avere meditato gli insegnamenti e la grandezza del miracolo, ci è forse vietato di ammirarne la bellezza suggestiva della scena, la sua drammaticità crescente, fino alla scomunica del miracolato dalla Sinagoga con le sdegnose parole: « Sei stato generato tutto intero nei peccati e ci fai la lezione? e poscia alla confessione finale: (C Credo Signore », e alla chiusa sentenziosa sulla con- dotta dei Farisei: (( Dal momento che dite 'Ci vediamo ', i l vostro peccato rimane ( 8 ) ?

È uso, in certi paesi, mettere nelle antologie scolastiche d i prosa e poesia certi tratti famosi degli Evangeli, come la parabola del figlio prodigo (da san Luca) e l'adultera (da san Giovanni) ed altre ancora. A me piacciono poco le antologie, ma sono un mezzo pratico per introdurre i giovani studenti alle bellezze della poesia e ai gioielli della letteratura del proprio paese e dei paesi stranieri (in traduzione).

Non so quale attenzione essi pongano ai tre o quattro tratti biblici mescolati con tanti versi profani e certe prose da dove

la verità è fuggita per dar luogo ad un soggettivismo morboso. A me piacerebbe che ai giovinetti delle prime scuole si desse

una piccola a antologia biblica » come uno dei libri sussidiari

di scuola, perchè lo leggessero e ne riferissero a scuola. Molto

(e) Giov. 9; 34-38 e 41.

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sarebbe il profitto d i introdurre l'alunno alle bellezze di un'arte primitiva e ingenua ovvero adulta, robusta, splendida (bastano certi Salmi a provarlo). Progredendo negli studi, sarebbero da mettersi fra le letture scolastiche di cultura generale, oltre ad una opportuna raccolta di Salmi, alcuni passi del libro di Giobbe e dei libri sapienziali, un intiero Vangelo (Luca per il primo), parte degli Atti degli apostoli ( i l cui stile narra- tivo è più vicino al nostro gusto di quel che non siano Sallustio o Svetonio o Tacito), e qualcuna delle Epistole. Chi non apprez- zerà la gentilezza e soavità della epistola di Paolo a Filemone? E l'altra d i Giovanni a Gaio? - Vorrei che l'inno alla carità di san Paolo nella prima ai Corinti fosse appreso ,a memoria, se l'uso dell'apprendere a memoria non fosse escluso da certi me- todi scolastici.

Così a poco a poco i giovani farebbero conoscenza con gli scrittori ispirati, la loro storia, il loro stile; saprebbero quali sono gli scogli da evitare nella lettura comune e senza preparazione scientifica (sia teologica, sia esegetica); e, se ben disposti, pren- derebbero ad amare i l Nuovo Testamento come un libro per tutti, e non solo per i preti o gli specialisti. Attraverso la scorza umana dello stile, la storia, la cronologia, i costumi del tempo, l'alunno deve arrivare a penetrare le verità nascoste dentro o chiaramente rivelate, sì da sentire la doppia attrattiva della parola umana e della parola divina. Gesù vestì umana carne e attraverso la sua umanità fece manifesta la sua essenza divina, ora con i miracdi, ora con gli insegnamenti, a Bethlem con la stella, sul Tabor con la voce dal cielo, e sul Calvario con l'oscuramento del sole; si che avvenimenti storici, segni della natura, discorsi, discussioni, tutti i mezzi umani e creati, intro- dussero l'umanità nella rivelazione suprema dell'Incarnazione e della Trinità. Gesù stesso con la sua persona attrasse i fedeli al suo seguito, sì che conoscendone l'umanità, arrivarono come san Pietro a confessarne la divinità: (C Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente (*).

Allo stesso modo, non è irriverente insistere con i giovanetti

(*) Matteo, 16; 16.

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e le giovanette sulle bellezze esterne e quasi umane degli scritti

biblici, (insisto sul tema del Nuovo Testamento perchè più uni- versale anche nella sua veste esterna) sì da poterli amare del doppio amore culturale e religioso, cristiano e spirituale.

Nella ripetuta lettura, - fatta ora per i bisogni dello spirito, ara per la buona abitudine contratta nei primi anni dell'inizia- zione -, sarà più facile avere d i tanto in tanto le rapide intui-

zioni di verità che emanano da certe frasi e da certi passi che possono ben chiamarsi divini, benchè divina sia tutta la Bibbia.

Chi non si è fermato a meditare sul passo: « Ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra, perchè hai nascosto queste

cose a i supienti e agli scaltri e le hai rivelate ai semplici. Si, Padre, perch6 tale è stato i l tuo beneplacito » (*).

E l'altro di san Paolo: « Or i l Signore è lo Spirito, e &v'& lo spirito del Signore quivi è libertà » (*q); e l'altro poco ap- presso: a perchè le cose che si vedono soao temporali, mentre quelle che non si vedono sono eterne » (***). Se ne potrebbero scrivere delle intiere pagine. Chi non provò rimorso d i credersi qualche cosa quando legge nella epistola ai Galati il passo del capo 6: a Se poi uno crede d i essere qualche .cosa, mentre non è nulla, questi illude sè stesso D (****) ?

Quante volte non è ricordata la frase dell'epistola agli Efe- sini assunta da Pio X come motto nella riforma da lui tentata:

u instaurare omnia in Christo »? E l'altra ben nota e anche spes-

so male interpretata, dell'epistola a Tito: a omnia munda mun- dis n ?

La I epistola d i san Giovanni è un tesoro di frasi che s'im- primono nella mente e nel cuore e non si dimenticano mai, come non si dimentica mai tutto il contesto di una vivida limpidezza, '

evidenza e profondità. Pochi esempi: a Dio è luce e in lui non

(*) Matteo, 11; 25-26. (W) 2' Corinti, 3; 17. (*H) ibidem, 4; 17. (**M) Galati, 6; 3.

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vi sono tenebre (*). « Se diremo di essere senza peccato, in- ganniamo noi stessi e la verità non è in noi )) (**). E più oltre: N Noi sappiamo che siamo stati trasportati dalla morte alla vitu, perchè amiamo i fratelli. Chi non ama, rimane nella mor- te D (***). E ancora più avanti: « E chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perchè Dio è carità (****I.

Avviene di fatto che tali verità celesti, - che sono applica- bili a tutta la vita naturale e soprannaturale, individuale e so- ciale, - restano inarticolate e direi quasi seppellite nella mente, pur avendde lette o sentite dalla bocca di martiri, predicatori, direttori spirituali, fino a quel giorno che, rileggendole nel si- lenzio del raccoglimento, nei momenti di astrazione dalla vita mondana, li vediamo spléndere di una luce insolita e penetrante e ne afferriamo il significato vitale e vivificante.

I maestri dello spirito sanno bene che queste impressioni pro- fonde o illuminazioni di verità intuite, che si hanno di tanto in tanto dai passaggi scritturali, sono grazie di Dio e come tali deb- bono riceversi con reverenza e gratitudine. Se queste grazie man- cano o non sono avvertite, è per mancanza di preparazione spi- rituale, di attenzione pia, di silenzio interiore. Può darsi anche che siano effetto di disposizione naturale, come avviene leggendo poeti e scrittori, che certe volte ne vediamo le bellezze d'arte o lo splendore di verità con un'effusione adesiva, altre volte non provata. Ma si sa che Dio si serve per le sue grazie anche della natura.

Chi ha provato di simili momenti che chiamerei estatici, tan- to sono sovrabbondanti di vita, può comprendere quel che io scri- vo. In questo periodo di vita così agitata, travagliata, quando tut- to è vissuto in fretta, fretta per i guadagni e per i piaceri, per le necessità elementari e per le raffinatezze, la mia richiesta che i giovani siano abituati alla lettura del Nuovo Testamento può sembrare una pretesa eccessiva di chi, per l'età stessa, tende a

(+) la ' ~ i o v . 1; 5 . !**) ibidem, 1; 8. (***) ibidem, 3; 14. (****) ibidem, 4 ; 7-8.

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distaccarsi dalla realtà che lo circonda. Ma quel lettore di questo articolo che ha l'abitudine di meditare die ac nocte, sa bene come là si beve la verità, là si trova la vita, là è il conforto reale ( e non immaginario) che viene dalla bocca del Redentore: « Beati i poveri in spirito ... Beati i mansueti ... Beati coloro che piango- no.. . Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia ... Beati i misericordiosi ... Beati i puri di cuore... Beati i pacifici ... Beati

quelli che sofrono persecuzioni per causa della giustizia (*).

(*) Matteo, 5; 3-10.

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LE BEATITUDINI

I1 capitolo precedente si è chiuso con un riferimento alle bea- titudini. E le beatitudini sono veramente un cantico che assom- ma in' sè l'insegnamento evangelico. Nessuno può leggere quel passaggio del cap. 5 del Vangelo secondo san Matteo senza sentirsi commuovere e senza esclamare istintivamente: « Qui è la vera felicità ! n.

Alla luce della mia esperienza, comunque, sono portato a con- cludere che la maggioranza dei cristiani non ricordano le beati- tudini. Una volta, avendole io menzionate ad un mio conoscente i n Francia, quegli mi disse che aveva udito una interessante mu- sica basata su questo tema (si riferiva a « Le Beatitudini » di Cèsar Franck). Ma quante poche persone hanno scoperto le bea- titudini contenute nei sublimi insegnamenti di Cristo! Ho anche udito dire che le beatitudini si riferiscono ai consigli; confusione ovvia dei cosidetti consigli evangelici di povertà, castità ed ubbi- dienza, che sono le basi dei voti pronunciati dagli appartenenti alle comunità religiose, con le beatitudini che sono la via per la felicità, la vera felicità promessa a tutti i cristiani. Ed è stato pro- prio Gesù a presentare i suoi precetti ed insegnamenti sotto l'aspetto della vera felicità - in questa vita e dopo la morte --

per indurre gli uomini a seguirlo. Esse consistevano in otto aspetti di vita spirituale o in otto

frutti della conversione al Signore o in otto gradi di perfezione: le otto beatitudini.

Beati i poveri in ispirito, perchè di loro è il regno dei cieli. È questa la prima beatitudine, quella del distacco dalle cose

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terrene, suggerite dalla parola ricchezza, ma che includono tutte le soddisfazioni della vita, le illecite così come le lecite. Perchè l'attaccamento dello spirito alle cose transitorie (anche quelle che non sono male) provoca la perdita dell'interesse per quelle eterne, i l desiderio di oggetti che non possono essere posseduti senza indulgere alle debolezze e agli errori, ed infine l'adesione a quello che è illecito. È necessario andare alle radici della questione: non vi è altro mezzo che questo distac- C<;, lo spirito d i povertà, che impedisca in noi lo svilupparsi dei sentimenti dell'orgoglio, dell'avarizia, dell'egoismo e che alimenti invece l'altruismo, la mortificazione, l'umiltà.

Beati i mansueti, perchè essi possiederanno la terra. La mansuetudine è quel dono necessario per vivere con gli altri che ci rende capaci di vincere i moti dell'ira, della gelosia, dell'odio e di evitare le conseguenze perniciose ed antisociali che ne derivano; per indicare l'effetto propizio della mansuei tudine, Gesù stabiliva per sua ricompensa i l possesso del cielo.

Beati coloro che piangono, perchè essi saranno consolati. I1 dolore è la nostra sorte in questo mondo, non c'è nessuno che possa vantarsi di nou avere mai sofferto, fisicamente o spiritualmente. La felicità appartiene a coloro che -sopportano

i l dolore, ed in questa sopportazione trovano conforto. Ogni vero conforto viene da Dio; i l conforto che promette Gesù è il conforto della sua parola. Questa' parola comprende in sè ogni altra legittima consolazione, anche il naturale conforto del pas- saggio dal dolore e dalle lacrime alla loro cessazione. Nel dolore stesso è contenuto il rimedio della volontà di vincerlo e soppor- tarlo, ma la consolazione non è il risultato dell'insensibilità o del titanismo orgoglioso, è invece il balsamo della rassegna- zione al volere di Dio.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perchè essi saranno saziati. La parola giustizia comprende tutti i bi- sogni fondamentali dell'uomo nella sua vita di relazione con gli altri: la società degli uomini con Dio (dipendenza filiale), la società degli uomini fra loro. Le loro relazioni devono essere

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prima di tutto basate sulla giustizia; la giustizia può essere presa come l'insieme di tutte le virtù.

L'evangelista chiamava san Giuseppe « giusto »; gli eletti sono chiamati giusti in opposizione ai peccatori. Affinchè la giustizia possa essere realizzata in noi stessi e nel mondo, noi dobbiamo aver fame e sete di lei: la giustizia è il regno di Dio per il quale noi preghiamo ogni volta che domandiamo: Venga il tuo regno - richiamo al regno della giustizia.

Beati i misericordiosi, perchè essi troveranno misericordia. La giustizia non basta; è necessaria anche la misericordia

nelle nostre relazioni con gli altri, proprio come noi doman- diamo sempre misericordia a Dio per i nostri peccati ripetendo nel Pater Noster: « Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori ». Come si potrebbe vivere nel mondo sotto il rigore della giustizia se non esistessero anche la misericordia, la compassione, la pietà, la clemenza - tutto quello che dà la testimonianza d i un'anima disposta a com- prendere e ad aiutare gli altri, dimenticando le loro offese?

Beati i puri di cuore, percltè essi vedranno Dio. La purezza di cuore è la fonte della purezza del pensiero, dell'azione e della relazioni con gli altri perchè, come insegna Gesù, « dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie » ("1. La purezza è la fioritura $di. tutte le virtù indicate nelle prece- denti beatitudini - povertà di spirito, umiltà, mitezza, ras- segnazione, giustizia e misericordia - virtù che si trovano difficilmente o non si trovano del tutto (oppure solo in apparen- za) nell'uomo impuro, il quale, per soddisfare le sue passioni, tratta come cosa vile sè stesso e gli altri e viola le più sacre leggi naturali e cristiane.

Beati i pacifici perchè saranno chiamati figli di Dio. Ecco un altro gradino della scala delle beatitudini, dove

stanno i pacifici, chiamati giustamente figli di Dio, proprio come i seminatori del male, i suscitatori di discordia, i provo-

!*) Matteo, 15; 19.

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catori d i liti, i promotori d i guerre non possono essere chia- mati che figli del diavolo. Cosa c'è di più umano, di più cari- tatevole, di più degno dell'uomo che la pace?

Comunque, ci saranno sempre persecuzioni sulla terra, per- chè l'ingiustizia è sempre schierata contro la giustizia e la legge morale. Perciò beati quelli che sofrono persecuzioni per causa della giustizia, perchè d i loro è il regno dei cieli. Coloro che si oppongono all'ingiustizia, coloro che rendono testimo- nianza alla giustizia e cercano di ristabilirla, saranno beati anche se subiranno persecuzioni. Non solo gli apostoli che Gesù inviò (C come agnelli tra i lupi a predicare il regno di Dio, non solo i loro successori, ma ogni cristiano deve soppor- tare le persecuzioni per amore della giustizia. Milioni di disce- poli di Gesù subirono i l martirio nei primi secoli, ed erano di tutte le età e d i tutte le classi senza eccezione; compresi fan- ciulli e fanciulle d i 15 e 13 anni, come Tarcisio e Venanzio, Lucia e Agnese.

A tutti i beati sono promesse le seguenti ricompense: il regno dei cieli, il possesso della terra, i l conforto del dolore, la soddisfazione della fame e della sete d i giustizia, l'acquisto

/ della grazia, la visione di Dio, il titolo di «figlio di Dio». Ma queste ricompense sono tutte contenute in Dio, sia i n questa vita che nella futura, perchè non c'è altra ricompensa che pos-

sa soddisfare e completare la nostra felicità tranne Dio stesso.

Anche i fedeli che praticano la vita cristiana sembrano per

lo più tenere in un. grande conto le beatitudini proclamate da Cristo ai suoi seguaci. È vero che molti fedeli fanno un certo sforzo per compiere il loro dovere ed evitare i l peccato mor-

tale, ma la tiepidezza spirituale della maggior parte d i essi è tale e l'abitudine di pensare e di sentire secondo il mondo è così

profondamente radicata, che le beatitudini cristiane sfuggono alla loro visione. Essi non provano il desiderio di metterle in

pratica perchè sono convinti dell'impossibilità di raggiungere tali altezze.

Sostanzialmente si tratta di combattere le nostre passioni, di

vincere le nostre cattive abitudini, d i esercitare noi stessi nel-

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l'ascetismo cristiano secondo le nostre £orze e d i voler ubbidire alle leggi di Dio.

Per coloro che ritengono le beatitudini una meta irraggiun- gibile è utile far risaltare i l loro aspetto negativo, così che essi possano essere incoraggiati a praticarle, ed essere così gradual- mente resi consapevoli del loro pieno significato.

Quando si dicono beati i poveri di spirito, si deduce che coloro che sono attaccati alle ricchezze saranno infelici; e quan- do si dicono beati i mansueti si deduce che gli iracondi non avran- no gioia. Così pure ne segue che quelli che non sanno soffrire non saranno confortati, quelli che non hanno fame e sete di giGstizia non avranno soddisfazione, i vendicativi non avranno misericordia, gli impuri non vedranno Dio, i suscitatori di ,

discordie non saranno amati come figli di Dio, e quelli che sono ingiusti e perseguitano i difensori della giustizia non par- teciperanno al suo Regno. Insomma, i primi sono pure beati in questa vita ed in quella futura, mentre i secondi saranno in- felici in ambedue le vite se non si pentono e non si correggono.

Owiamente, comunque, un gran numero di persone, anche battezzate, non sono affatto spaventate dall'infelicità nella vita futura purchè possano essere felici in questa. I1 loro errore E duplice, perchè coloro che mancano della virtù proclamata da Cristo nelle otto beatitudini non saranno felici nè in questa vita nè neli'altra. Chiunque provoca dolore agli altri per il suo orgoglio o avarizia, o odio, non può dire sè stesso felice, a . meno che non menta deliberatamente. Un tale uomo può render sorde le sue orecchie dandosi interamente agli affari e al piacere, può far tacere il rimorso della coscienza per l'abi- tudine al male, può chiudere la sua mente alle voci del dovere, negando infine l'esistenza di Dio e della vita futura; ma non può mai aver pace, tranquillità o speranza nel suo spirito; egli non avrà la vera beatitudine d i Cristo.

Io non so se il lettore di queste pagin'e abbia mai esaminato da vicino la crisi spirituale di un giovane che perde la sua fede. Alcuni la perdono perchè seguono i sentieri del piacere carnale

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e si ribellano alla legge del dovere, e, per giustificarsi, arrivano a l punto di negare la vera legge e Colui dal quale è stata scritta nei nostri cuori. Altri la perdono attraverso i libri o nelle scuole, o a causa di compagni e maestri che si insinuano nelle loro menti e li seducono con l'abbaglio di false dottrine. Altri ancora la perdono attraverso il proselitismo politico e l'influenza dei partiti ostili alla chiesa, che pretendono di sostituire agli ideali cristiani gli ideali di una felicità sociale sulla terra.

Comunque avvenga la crisi, la lotta nella coscienza di chi è fuorviato è spesso penosa e lunga. L'educazione cristiana dei suoi primi anni lo influenza e rende più pronunziata la crisi, perchè il contrasto tra il passato e i l presente è profondo e viene sentito come unaaprima e grande infelicità, benchè egli creda di essere passato dalle catene alla libertà. Infatti è il senso d i liberazione che prevale - liberazione dalle catene della legge morale o liberazione dalle catene del dogma - una liberazione che lo porta ad una specie di rapida euforia ma che fa risuonare con più forza i richiami della coscienza. Inol- tre, l'immaginata liberazione si trasforma in una serie di le- gami più stretti, che possono facilmente durare per una vita intera. L'aspirazione alla felicità che è la compagna insepara- bile d i tutte le nostre azioni rimane insoddisfatta, anche quan- do egli crede di aver raggiunto la più completa soddisfazione.

Una delle tendenze più perverse dell'era moderna è lo sforzo d i sopprimere i l rimorso di coscienza, il concetto cri- stiano della vita ed infine il concetto di una moralità naturale. '

I pagani arrivarono all'idea di legge naturale - la legge 'non scritta - che si sente nell'intimo dell'anima. Se non ci fosse questo profondo sentimento di moralità e di giustizia, l'uomo si troverebbe in una posizione inferiore a quella degli stessi animali. La felicità e l'infelicità umana sono create non tanto da cause esterne e sociali quanto da noi stessi nel nostro essere più intimo.

Invano gli psicologi ed i sociologi tentano di eliminare l'idea della responsabilità etica dell'individuo e. della finalità etica della società riducendo ogni cosa a reazioni fisico-sociali. L'esi- stenza della società civile, con la sua base nelle leggi naturale

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e cristiana, è un'implicazione contro la corrosione materiali- stica della cultura moderna.

Sfortunatamente, l'effetto nocivo dell'insegnamento materia- listico sulla educazione del popolo si estenderà molto nei suoi risultati. La prima cosa ad essere minacciata è il sentimento reli- gioso, che è la base più forte per preservare la moralità indivi- duale; si disgrega la famiglia, poi la pubblica amministrazione, si distrugge la fede pubblica.

Ciò nonostante, non bisogna credere che il rimorso sia elimi- nato, che la coscienza non abbia più voce, che (sebbene per molte persone questa parola non abbia significato) l'anima non parli e non faccia sentire l'istinto profondo della sopravvivenza, come una vera proiezione al di là del tempo e dello spazio. L'idea della morte, sebbene messa da parte nell'educazione mo- derna, accompagna questo rimorso; e ci aiuta (ed è una buona assistenza) nei pericoli della vita, nei dolori delle malattie, nel ricordo dei parenti e degli amici defunti, nelle catastrofi pubbli- che e nelle carneficine della guerra.

Solo chi è chiamato beato da Dio - i l mansueto, il miseri- cordioso, il puro, il pacifico - sarà beato nel suo intimo, ed il rimorso non lo tortura e la morte non lo spaventa.

Molti, anche tra i cristiani, non badano alla felicità promessa dalle beatitudini, non perchè accettino la teoria del materiali- smo psicologico e sociologico (teorie che, comunque, vanno in- fettando l'aria che essi respirano), ma perchè non sono disposti ad accettare lo spirito di ascetismo connesso con questa felicità. « Ascetismo » è una delle parole escluse dalla moderna conce- zione della vita. Non ci sono più l'inclinazione o l'educazione al distacco ed alla privazione delle gioie terrene lecite (dico «lecite » perchè non ci dovrebbe essere alcun dubbio, e non c'è per il cristiano comune, che i piaceri illeciti devono essere esclu- si). I giovani senza fede sono abituati a cercare tutto quello che è possibile avere, anche fino ai limiti della legalità o della creduta legalità, specie nelle loro relazioni con persone di sesso diverso. La mortificazione è per loro una cosa repulsiva; non c'è alcun interesse a sperimentarla, non comprendendosene nem- meno la necessità.

Questo è un punto chiave nell'educazione della gioventù non

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solo dall'angolo religioso e spirituale, ma sotto ogni aspetto del- l'attività naturale. Difatti, non è mai possibile ottenere una per- fezione artistica o scientifica senza assoggettarsi ad un lavoro lun- go ed arduo che comporta sacrificio di sonno e di svago e spinge a sopportare esperienze dure e penose. Questo si aggiunge alle delusioni, agli insuccessi, alle ingiustizie che non mancano nella scuola, nelle produzioni artistiche e negli affari.

Nel dire questo, io non penso che il giovane studente debba essere confinato nel sudavit et alsit di Orazio, senza quelle pause intellettive e fisiche che sono così necessarie e che costituiscono oggi un complemento della vita studentesca (come gli sports ai quali si è forse data una importanza eccessiva). Ma c'è una diffe- renza nello spirito col quale si sopportano le privazioni e i sacrifi- ci, secondo che vengano affrontati solo per un fine immediato e definito, oppure anche accettati in sè stessi come un £attore di raf- forzamento per la formazione spirituale. Nel primo caso, le

vacanze e gli altri periodi liberi diverranno occasione per sfug- gire a tutte queste privazioni e fatiche, accettate tuttavia volen- tieri quando siano necessarie per un determinato fine. Nel se- condo caso non esisteranno queste evasioni e fughe, perchè la mortificazione è innestata nel concetto etico della vita ed è accet- tata per la sua virtù fortificante.

I1 corpo ha i suoi bisogni come lo spirito; ma l'aumentarli in misura eccedente una moderazione salutare significa far di-

pendere noi stessi da quelli, obbligarsi a cercare soddisfazioni sempre più grandi, e così via, indefinitamente. La mortificnzio- ne è un limite volontario che non solo non danneggia il nostro benessere fisico ed intellettuale, ma lo rende più effettivo ed

efficiente. Non si richiede che i l cristiano vivente nel mondo compia le penitenze degli eremiti del deserto o dei monaci trap- pisti; ma solo che non segua le richieste del corpo così da ren- derlo più esigente e tirannico, e che non coltivi le incaute curio- sità mentali che possono riuscire molto nocive.

La mortificazione serve a formare il carattere, a dare alla volontà il dominio su tutte le altre facoltà, a correggere l'esube-

ranza naturale, ad impedire di cadere nel peccato, a dominare le passioni.

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Non ci vuol molto per capire quanto un sano ascetismo possa riuscire utile a tutti, uomini e donne, giovani, adulti e vecchi, . uomini comuni, studenti e ricchi (a questi ultimi più che agli , altri, data la loro abbondanza di beni materiali). La difficoltà è nel metterlo in pratica, difficoltà nata dal moderno concetto del- la vita che basa tutta la nostra felicità sul possesso dei beni ter. reni, rifiutando tutte le restrizioni col pretesto che sono artifi- ciali e contrarie allo stesso benessere.

Inoltre riesce difficile educare la gioventù ad una concezione ascetica della vita. Ho l'impressione che nè le famiglie cristiane nè le scuole cristiane facciano sforzi reali per realizzare questo. L'ascetismo è relegato nei conventi e nei monasteri; anche lì diviene sempre più difficile vincere il complesso psicologico del- l'atmosfera mondana che ci circonda.

L'ascetismo è necessario a tutti se vogliono correggere le cat- tive inclinazioni naturali e seguire la via'che ci conduce a quelle beatitudini promesse in premio da Gesù Cristo in questa vita ed in quella futura, qui come grazia divina, là come gloria, qui e là come unione con Dio sia nelle sofferenze del viaggio che nelle gioie del ritorno in casa.

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XI.

L'APOSTOLATO LAICO

, L'apostolato laico ha due aspetti: uno permanente che & cominciato con i l cristianesimo e durerà quanto dura la chiesa; l'altro variabile secondo le epoche, i paesi, le necessità dei tem- pi. L'apostolato laico è, perciò, antico di quasi duemila anni, e moderno di cinquanta e piu anni.

Pio X I notava in un discorso del novembre 1927: « Cosa avrebbero mai fatto Pietro e Paolo senza la cooperazione dei fedeli? Questi accolsero la parola della rivelazione divina e la portarono nelle loro case, pregarono, lavorarono e patirono con gli apostoli ». In una speciale allocuzione, quella dell'aprile 1929, lo stesso pontefice affermava che tale attività del laicato CC tocca l'intima vita della chiesa stessa M, e « per via della sua origine risale a l periodo apostolico 3.

I1 primo che incontriamo, negli atti apostolici, è un dottore della legge, fariseo (non nel senso di ipocrita, ma di appartenente alla setta o classe dei farisei), Gamaliele, il quale parlò al sine- drio, come poteva essere inteso da quegli uomini, per difendere gli apostoli, che predicavano in Gerusalemme la fede in Gesù Cristo. Ma quel che è da notare è che Dio stesso ha voluto fin dai primi passi della chiesa promuovere tale cooperazione laica; egli manda Anania da Saulo (Paolo) a ridargli la vista, e Corne- lio centurione da Pietro per iniziare la evangelizzazione dei gen- tili. Nè mancano le donne, come non mancarono nei tre anni della vita pubblica di Gesù. E la prima donna (dopo la discepola Tabita cEe san Pietro risuscitò per il bene che faceva) che noi

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troviamo, è la venditrice di porpora, Lidia di Tiatiri, che invita Paolo e Sila a stare in casa sua, e Febe che porta a Roma l'epi- stola di san Paolo.

E così dappertutto troviamo uomini d i autorità e schiavi, donne nobili e plebee, aiutare spiritualmente e materialmente gli apostoli e i loro compagni nella diffusione del Vangelo e nel- la fondazione delle varie comunità cristiane disseminate in tutto l'impero romano.

E come sono commoventi le chiuse delle epistole di san Paolo: « Sulutate Prisca e Aquila, i miei cooperatori in Cristo ... Salu- tate Maria, la quale molto si è a#aticata per voi ... Salutate Trijena e Trifosa che faticano nel Signore ... Salutate la caris- sima Perside che molto si affaticò nel Signore ... Vi saluta Caio i l mio ospite e tutta la chiesa ... (*). Così san Paolo ai Romani. E ai Corinti scriveva espressamente: Voi sapete che la famiglia d i Stefana è la primizia dell'Acaia e che si è dedicata al servizio dei santi ... » (**). E altra volta dà una forte esortazione nella lettera a Tito, dove scrive: «Abbi cura d i mandare avariti Zena i l giureconsulto e Apollo afinchè non manchi loro nulla. E imparino anche i nostri ad iniziare buone opere per i bisogni urgenti, onde non siano disutili » (***).-

È da allora che laici, uomini e donne, a Aigliaia hanno coo- perato con la gerarchia ecclesiastica nelle attività spirituali e nelle necessità materiali della chiesa e in ogni ramo dell'aposto- lato, andando anche incontro al martirio. Molti sacrifici sono fatti in segreto e conosciuti solo da Dio. Quanta generosità, pu- rezza di cuore, coraggio, costanza e dedizione illimitata alla volontà divina !

Ogni secolo ha avuto legioni di laici che, pur rimanendo nel mondo e dedicandosi alle loro famiglie e alla loro professione, sono tuttavia riusciti ad approfondire la loro spiritualità e a trovare la via della santificaxione. Ma questo non significava, nè 10 poteva, i l loro isolamento; c'era invece uno stretto contatto con'tutte le miserie e le necessità del loro prossimo, che essi as-

(*) Rom. 16, passim. (**l la Cor. 16; 15. (***) Tito, 3; 13-14.

8 - S~riazo - P ~ o b l e m i spirituali

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sistevano con cuore aperto e con la comprensione dell'amore prima che con mezzi materiali. E che cosa più della carità cri- stiana che aiutare nella vita della fede, incitare ad una ret ta condotta e comporre le lotte fratricide?

Molti sono i santi, uomini e donne, i quali, pur vivendo come laici, hanno seguito l'esempio degli apostoli, e sono stati veri testimoni della chiesa di Cristo. Potremmo compilarne lunghe liste. Molti di loro, anche se non sono ricordati come santi, furono veri « cooperatori nel regno di Dio », nei terzi ordini, nel- le confraternite, nelle cento e cento associazioni culturali, cari- tative o organizzative per la difesa della fede cristiana.

Particolarmente nel periodo in cui la chiesa è stata perse- guitata, era vera luce spirituale quella riflessa dall'apostolato laico di tutti quelli che, affrontando il pericolo della perdita della libertà, della proprietà e della vita, aiutarono segretamente vescovi, sacerdoti e clero regolare a continuare l'adempimento dei loro doveri sacramentali e pastorali fra terribili rischi. Ciò awenne in Giappone e in Cina nel XVII e XVIII secolo, durante la rivoluzione francese, durante il Kulturkampf promosso da Bismarck in Germania; durante le ferocissime persecuzioni degli zar in Polonia, e ai giorni nostri in Russia, nel Messico, in Ger- mania e in Spagna.

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CC Apostolato laico » e C( azione cattolica » sono parole mo- derne. Ma la realtà espressa da esse esisteva nei secoli passati, come già abbiamo visto, spesso sotto la forma di opere di carità o santificazione per mezzo di associazioni religiose come terzia- riati e confraiernite. La società era allora sinceramente devota, e le lotte allora esistenti avvenivano fra cattolici e chiese dissi- denti, mentre la propaganda per il bene, la riforma dei costumi, la pratica dei sacramenti, erano esercitate in una società animata dalla fede.

Ma oggi ci troviamo in una'società che, pur proclamandosi cristiana (quando lo stesso cristianesimo non viene rinnegato), in gran parte non lo è più. La fede e l'interesse per la fede sono mancanti e molti non sanno più cosa significhi essere cristiani. La società è impregnata di materialismo; in molte scuole il

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cristianesimo viene ripudiato in nome della scienza, mentre altri lo considerano una concezione morale ma non una fede dogma- tica. La classe lavoratrice, turbata dalle continuamente crescenti necessità della vita materiale, è inconsciamente imbevuta del dogma marxista; non ha più un conforto religioso, avendo per- duto o la fede o la pratica religiosa. E cosa dovremmo dire di quei paesi dove lo spirito anti-religioso ha pervaso la politica, o dove i l materialismo del capitalismo ha influenzato la vita pubblica?

Penetrare in questo mondo, specialmente quello operaio, con la stampa, le opere sociali ed economiche, le iniziative di carità, e portarvi, infine, la parola evangelica, quella che illumina, vi- vifica, sana, ristora e trasforma, ecco il tipo moderno di apo- s tdato laico. È sommamente desiderabile che si scriva in ogni paese una storia obiettiva ed esauriente della partecipazione lai- ca alla vita religiosa, dando alla generazione più .giovane un esempio di quello che essa può compiere ne1170pera di edifica- zione del regno d i Dio.

Nell'opinione comune dei cattolici di tutto i l mondo, l'Italia risorgimentale e del periodo successivo era un paese ribelle alla chiesa, dominato dalla massoneria, agitato da correnti anticleri- cali, con una classe di intellettuali quasi interamente composta di scettici e di liberi pensatori. Per questo molti si meravigliano nel17apprendere che proprio in questo periodo ci fu tra i laici italiani tale una fioritura di virtù cristiane che a ragione ci si può attendere di vederne qualcuno sugli altari.

Certo non mancarono in altri secoli laici puri e santi; ma la loro virtù non ebbe occasione di essere messa alla prova in modo da formare motivo di storia. Nel breviario romano non sono menzionati santi laici, eccettuati i martiri dei primi secoli; e qua e là tra i missionari si trovano alcuni martiri indigeni, germogli cristiani spuntati in mezzo a popoli infedeli. Nel breviario ci sono, è vero, i re medioevali: san Luigi di Francia, sant7Edoardo d'Inghilterra, sant'Enrico, imperatore d i Germa- nia, santo Stefano d'Ungheria, e c'è anche sant7Alessio, un no-

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bile romano che volle divenire un povero pellegrino sconosciuto al mondo; san Rocco miracoloso e altri santi di eccezione; ci troviamo tra la leggenda e la storia. Pio IX innalzò Tommaso Moro all'onore degli altari. T. Moro è un santo perchè fu un martire, o un martire perchè fu un santo? Comunque, i l marti- mio rivelò 'la sua santità. La sua festa non si trova nel breviario romano. Bisognava aspettare fino al secolo XIX per incontrare santi laici nelle famiglie, nelle scuole, nei circoli cattolici e nelle unioni operaie, santi laici che non sembra abbiano fatto miracoli o avuto visioni ed estasi, santi che hanno camminato sui sentieri familiari a noi tutti.

Contardo Ferrini (1859-1902) sarà forse il primo di una serie che, auguriamocelo, non si spezzerà mai nel futuro. Quelli che lo conobbero lo chiamarono santo fin dalla sua fanciullezza. I suoi compagni di scuola lo soprannominarono san Luigi n, con rispetto misto ad una punta di celia. In famiglia, nel collegio, all'università dimostrò cosa è la purezza nel senso più vasto della parola. Fin dai primi anni sentì un'attrazione spirituale verso Dio, verso Gesù Sacramentato; e lo spirito di preghiera durò in lui tutta la vita. E tralasciando di parlare dei suoi studi favoriti, dei doveri adempiuti sia come studente che come inse- gnante nelle università di Modena, Messina, Pavia e Milano, dei suoi affetti e delle sue relazioni con parenti, amici e dipen- denti, si deve dire che egli comunicava agli altri questa sua spiri- tualità e questa gioia interiore dell'unione con Dio. Senza essere un pedante e senza atteggiarsi a moralista, la sua presenza ele- vava chi gli era vicino. Egli provava disgusto ma al tempo stesso dolore per gli ambienti pagani, le brigate di giovani li- cenziosi, le scuole senza Dio. Così quando a Berlino, dove si era recato per completare i suoi studi giuridici (1880-82), ebbe la fortuna d i venire a contatto con i giovani cattolici del partito del Centro (da poco uscito rafforzato dalla resistenza al Kultur- kampf d i Bismarck), comprese quale era i l campo di battaglia della sua fede e del suo apostolato laico.

V'erano già alcuni centri di azione cattolica i n Milano e Pavia al tempo in cui Ferrini studiava in queste città. L'asso- ciazione della gioventù cattolica era stata fondata nel 1867 e l'opera dei congressi cattolici aveva tenuto la sua prima riunione

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nel 1874. A Milano in. quei giorni crescevano i futuri campioni della democrazia cristiana lombarda (ne ricordo soltanto due, Filippo Meda ed Angelo Mauri, che più tardi divenne ministro del regno d'Italia). Ma allora l'azione cattolica era nelle mani dei così detti intransigenti, dei quali don Albertario, editore dell'Osservatore Cattolico, era i l campione al tempo stesso più amato e più odiato. L'ambiente di Contardo Ferrini - famiglia, amici, relazioni di scuola, consiglieri ecclesiastici - era quello dei conciliatoristi, i quali cercavano in quel tempo un accomoda- mento tra stato e chiesa. I1 gruppo contava tra le sue reclute uomini come l'arcivescovo Calabiana, il vescovo Bonomelli, ( la cui lettera sulla conciliazione fu messa all'indice da Leone XIII), Antonio Stoppani, noto geologo, il marchese Cornaggia, editore della Lega Lombarda ( i l giornale antagonista dell'Osservatore Cattolico di don Albertario) e don Achille Ratti ( i l futuro Pio XI) quasi coetaneo di Contardo Ferrini.

I giovani cattolici militanti erano al fianco degli intran- sigenti; gli altri - i figli dei liberali e dei nobili - avevano una mentalità più nazionale, auspicavano la conciliazione e non approvavano la politica del Vaticano. Anche Ferrini non poteva comprendere i l non expedit che impediva ai cattolici di votare nelle elezioni politiche; anche lui accarezzava l'idea della con- ciliazione e non immaginò che questa sarebbe divenuta realtà per opera del suo compagno di escursioni alpinistiche Achille Ratti. C'era in Ferrini una mentalità ((nazionale D molto svilup- pata, in un tempo in cui la nuova nazione si trovava ancora al primo stadio del suo sviluppo; ma sopra ogni altra cosa egli era cattolico; e ubbidiente alla disciplina cattolica nella vita politica, permise che i l suo nome fosse incluso nella lista cat- tolica per le elezioni municipali di Milano del 1895, sebbene fosse riluttante e temesse di essere distratto dai suoi studi.

Io non ricordo se egli era presente al grande convegno di cattolici tenuto in Milano nel 1897 per celebrare i l quindice- simo centenario d i sant'Ambrogio. In quel tempo il nuovo arci- vescovo, cardinal Ferrari, anch'egli uomo di santa vita, impie- gava tutti i suoi sforzi per eliminare i contrasti tra le due frazioni cattoliche che avevano per quasi trent'anni agitato la città di Milano; fu allora che Meda, collega di Ferrini nel con-

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siglio comunale, emerse come i l nuovo dirigente che doveva ri- conciliare i cattolici militanti di Milano.

Contardo non era un uomo d'azione, era uomo di studio. Avendo pubblicato più d i duecento saggi sul diritto romano divenne ben presto una personalità eminente nella cultura italiana, e vi impresse in modo indelebile la sua impronta per- sonale. In un periodo in cui l'indirizzo scientifico della giuri- sprudenza era o positivista o storicista alla maniera tedesca, egli fece risaltare i principi etici e i valori « finalistici » del dirit- to. Desta un profondo rimpianto il fatto che sia morto a soli 43 , anni di età, nel colmo delle sue facoltà e della sua attività scieii- tifica; ma i l Signore lo trovò maturo e lo chiamò alla ricom- pensa celeste.

Era un santo D, dissero all'annuncio della sua morte. E difatti la sua vita ebbe come centro Dio, e la sua unione con Dio non si spezzò mai, ma crebbe,al contrario giorno per giorno nelle profondità della sua anima. Questo era il segreto della sua santità.

* * * Mentre Ferrini durante la sua vita fu poco noto alla mag-

gior parte dei cattolici italiani fuori di Lombardia, il prof. Giuseppe Toniolo (1846-1918) fu invece molto conosciuto ed amato, e lasciò dietro di sè un'impronta indelebile. Più giovane di Ferrini di circa tredici anni, visse fino al 1918, attraverso gli anni del liberalismo, del qocialismo e della democrazia cri- stiana, fino al termine della prima grande guerra, nel pieno ardore della sua inesausta attività.

Toniolo, come economista e sociologo, ha una notevole posi- zione sua personale ; fu inoltre uno dei primi a sostenere nel cam- po degli studi economici i l concetto etico di società. Sfortunata- mente le sue opere o sono troppo tecniche per un vasto pubblico di lettori o sono legate a pubblicazioni del suo periodo (*). Tonio-

(*) Siamo lieti che la società di sant'Antonio in Paterson stia per pubblicare i l libro di Vincenzo Mangano sull'opera scientifica di Toniolo, la cui traduzione in inglese è stata di recente portata a termine da Barbara Barelay Carter. (N. all'ed. ingl.)

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lo fu, più che i l capo, l'apostolo della democrazia cristiana. Era presidente dell'unione popolare tra i cattolici italiani (una spe- cie di Volksverein trapiantato in Italia dopo lo scioglimento

'

dell'opera dei congressi awenuto per ordine di Pio X). La sua influenza tra i cattolici, nel campo culturale ed in quello sociale, era enorme.

Tutti coloro che ebbero il privilegio di trovarsi a stretto contatto con Toniolo nella conversazione, nelle riunioni, nello scambio di idee con lui, la moglie ed i figli (una famiglia ve- ramente cristiana), non ne dimenticheranno mai la purezza di vita, la fede attiva, il caraitere fermo, la calma di fronte alle

più grandi prove della vita, l'attività piena di ispirazione per il successo di ogni causa buona e la pietà profonda e priva di

ostentazione. Ogni cosa in lui rifletteva una ~ ro fonda vita spi- rituale: anche le sue lezioni di economia, pur così dense di conoscenze tecniche, mantengono sempre il senso della propor- zione tra il materiale e lo spirituale, così da mettere in evidenza quel valore spirituale che è la forza intima dei fatti materiali e la molla del loro sviluppo storico.

La sua tesi principale era che la civiltà o è cristiana o non è, e che i l suo procedere, complicato ma inarrestabile, è diretto

verso una libertà non individualistica e priva di limiti, ma realizzabile solo socialmente. È consolante leggere dopo quaranta- due anni questa famosa affermazione che causò tanto rumore in Italia durante la sua vita: « I cattolici, d'accordo con la vera so- ciologia, chiedono la libertà come la sostanza ed il lievito della futura democrazia n. In quei giorni l'Italia non era ancora un

paese a pieno regime democratico (il suffragio universale fii concesso nel 1912), e non tutti i cattolici erano entusiasti dell'i-,

dea di libertà da molti confusa con il « liberalismo >i.

Ora che si tratta la causa della beatificazione di Toniolo, leggere i suoi volumi e le sue lettere e studiare i suoi discorsi, lontani come sono adesso dalle lotte di quel periodo così acceso,

tornerebbe utile a molti che, a mezzo secolo d i distanza, rin-

novano le stesse dispute dando loro solo una diversa apparenza. Ma, soprattutto, si può trovare nel pensiero di Toniolo quell'ali-

mento spirituale che nutre la mente con la presenza d i Dio

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anche quando si occupa dei problemi terreni e degli scopi pratici di questa vita transeunte.

Ferrini era un lombardo di origine trentina, Toniolo vene- ziano, ed era nato quando il suo paese stava ancora sotto i l governo austriaco.

Volgiamoci ora all'Italia meridionale. Troviamo qui un altro professore universitario, un medico, Giuseppe Moscati, nato nel 1880 a Benevento, dove suo padre era presidente del tribu- nale. Come Ferrini e Toniolo, anche Giuseppe Moscati fre- quentò le scuole pubbliche e l'università, dove prevaleva l7edu- cazione laica, erano allora di moda positivismo e materialismo e faceva la sua prima apparizione il neo-hegelismo del Croce. Ma, come gli altri due, anch'egli apparteneva ad una famiglia che lo educò religiosamente. Egli appartenne al17associazione della gioventù cattolica italiana in un periodo di fervore ed attività senza precedenti.

Nominato medico ne1170spedale degli incurabili di Napoli,, egli era, come una delle suore era solita dire, il « santo dei malati più che il loro medico. La sua carriera, sia come scien- ziato che come professionista, fu nondimeno delle più brillanti. Egli definiva le sua vita come « un'ascensione verso Dio sulla scala della scienza N (*).

Grande era l'influenza che esercitava sui discepoli, ripor- tando studenti e malati alla fede e alla pratica della vita cri- stiana. Rinunciando al matrimonio, fece voto di castità, e pur rimanendo nel mondo visse puro come un angelo.

Fu chiamato in cielo all'età di quarantasette anni, ancora nel pieno fervore della sua attività. I1 12 aprile 1927 andò in chiesa, servì la messa e ricevette la santa comunione, come era

(*) Moscati tenne lezioni di chimica fisiologica nell'università di Napoli, fu membro di parecchie accademie straniere e prese parte a molti congressi scientifici internazionali. Durante la prima guerra mondiale ebbe un'impor- tante posizione nell'esercito. (!V. all'ed. ingl.)

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sua abitudine quotidiana. Sulla via del ritorno incontrò una I signora che conosceva e le disse: Venga a tener compagnia

a mia sorella perchè io stanotte vi lascerò ». E quella notte stessa fu trovato morto, seduto nella sua poltrona, con le braccia in- crociate sul petto. I1 suo funerale fu un trionfo. Anche del Moscati come del Toniolo sono in corso i processi canonici.

Quasi coetaneo di Moscati era Ludovico Necchi, nato a Milano nel 1876 e morto 1'11 gennaio 1930, anch'egli medico e professore universitario (insegnava biologia). Pure Necclii prestò la sua opera nei servizi sanitari durante la prima guerra mondiale, lavorò negli ospedali, fu come un padre per i poveri e i malati ed esercitò un grande ascendente sui suoi discepoli. Io feci conoscenza con Vico Necchi nel 1900 in Roma, in occa- sione di un congresso democratico cristiano al quale era inter- venuto come delegato di Milano. Sebbene appena ventiquat- trenne sembrava un uomo maturo e venne chiamato a presiedere l'assemblea. Egli divenne uno dei più animosi e convinti pro- pagandisti della democrazia cristiana, fronteggiando nelle pub- bliche riunioni e nei comizi le folle con una calma ed una serenità straordinaria. Quando si ebbe la crisi della democrazia cristiana Necchi rimase con l'ala che era fedele alle direttive del papa, e più tardi, quando si costituì l'« organizzazione dell'unione popolare D, Necchi ne fu prima vicepresidente, poi presidente, dirigendo per tre anni il lavoro dell'azione cattolica nella penisola.

Nella vita pubblica fu membro del consiglio comunale di Milano, iscritto al partito popolare e candidato alle elezioni politiche del 1918 e del 1921. Ma soprattutto egli dedicò la sua attività allo studio ed all'università cattolica, che stava per essere fondata proprio allora, con il concorso anche di Necchi; il quale fondò pure, più d i trent'anni fa, insieme a padre Ago- stino Gemelli ed a monsignor Francesco Olgiati, la Rivista di Filosofia Neoscolastica.

Come Toniolo, Necchi aveva moglie e figli, e nella famiglia espirava la stessa atmosfera di bontà, umiltà ed amore che gli

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era propria. La sua vita esteriore, anche quella di uomo di scienza e d'azione, era una proiezione della sua vita interiore così intensa e piena di misticismo ed in cui, alla fiamma dell'a- more d i Dio, i timori e le lotte si trasformavano in fiducia e tranquillità. Dovette 'sopportare parecchie oscure ore di ango- scia, ma chiuse la sua vita in pace. I1 processo di canonizzazione di Vico Necchi è ora sotto gli auspici dell'università cattolica di Milano.

Volgendoci di nuovo al sud, troviamo un altro laico morto in odore di santità, Bartolo Longo. Con lui lasciamo le aule universitarie, il movimento politico della democrazia cristiana e quello dell'azione cattolica per trovarci in un santuario, ambiente che sembra più adatto ad un santo. Vicino alle rovine dell'antica Pompei sorge la casa della Nostra Signora del Rosario, che si eleva sui verdi frutteti suburbani, sulle pianure e le valli alle falde del Vesuvio. I1 nome di Bartolo Longo è legato indissolubilmente a quel santuario.

Longo era nato nel 1841 a Lariano in Puglia dove cominciò la sua carriera giuridica, e passò i primi anni della maturità lontano dalla religione. La sua conversione fu sincera e completa ed il richiamo speciale da lui provato lo fece dedicare alle opere di carità, dapprima nella sua regione nativa, poi in Napoli dove sposò la contessa Fusco, donna profondamente re- ligiosa che gli fu compagna devota e fedele. Egli ebbe occasione d i visitare per la prima volta Pompei a causa degli interessi della moglie che vi possedeva un fondo. Longo cominciò ad insegnare i l catechismo ai contadini di quel villaggio, ed appese uniquadro della Nostra Signora del Rosario nella vecchia e ru- stica cappella della valle di Pompei. Poco a poco questa piccola chiesa divenne un centro d i devozione al quale convenivano in gran numero i pellegrini dai dintorni di Napoli. Con offerte raccolte da ogni parte del mondo Longo costruì una grande chiesa che più tardi ebbe il privilegio del titolo di basilica n,

e vi eresse vicino parecchie istituzioni di carità per gli orfani ed i fanciulli dei convitti, come scuole, fattorie ed asili dotati

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di attrezzatura moderna, dirigendo C prendendosi cura perso- nalmente di ognuno di essi, non eccettuata la città che stava sorgendo. Ma ciò non ostante i1 suo sacrificio personale era incom- preso e perseguitato. Anche le autorità ecclesiastiche per un certo periodo di tempo non gli furono favorevoli, ed il papa gli ordinò di affidare la chiesa alle cure dei padri domenicani. Fu anche accusato dagli anticlericali e dai modernisti di fomen- tare la superstizione, solo perchè da ogni parte del mondo arrivavano le notizie di grazie ottenute tramite l'invocazione della Nostra Signora di Pompei. Ma rimase sempre calmo, fiducioso, sereno, anche nei momenti più difficili della sua vita. l o ebbi occasione di fargli visita durante uno di questi momenti critici: egli mi aprì i l suo cuore come solo può fare un uomo di eccezionale virtù. Non dimenticherò mai la sua vigo- rtjsa figura, raccolta in fervorosa preghiera. Le tempeste sono passate; ed il nome di Pompei è oggi legato alle glorie della carità cristiana. Bartolo Longo morì in pace all'età di ottanta- cinque anni, nel 1926. Toniolo, Moscati e Necchi (non so se anche Ferrini) furono tra quelli che visitarono il santuario e pregarono davanti all'altare della Beata Vergine.

Volgiamo ora la nostra attenzione ad un gruppo di giovani, operai e studenti. I1 primo in ordine di tempo è uno dei seguaci d i don Bosco noto a tutte le case di Salesiani disseminate nel mondo ed amato da tutti i cooperatori salesiani (che non sono pochi), intendo dire Dornenico Savio. Egli era nato in u n vil- laggio del Piemonte nel 1842, nello stesso decennio cioè di Toniolo e di Longo. I suoi genitori non erano ricchi, ma ave- vano l'anima del fervente cristiano. In casa, nella scuola, nel collegio a Torino sotto la guida di don Bosco, egli si rivelò un angelo di purezza e di ardente pietà. I1 suo ideale era di dive- nire prete, ma soprattutto un santo, e come un santo morì all'età di quindici anni. Oggi è chiamato venerabile e domani, col volere di Dio, sarà onorato sugli altari (*).

(*) Infatti oggi veneriaino san Dornenico Savio. (N.d.A.)

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Un altro giovane, anch'esso venerabile, Nunzio Sulprizio, lo troviamo in Napoli. Nato da famiglia di operai verso i l 1860 (era coetaneo d i Contardo Ferrini), si guadagnava da vivere lavorando come muratore; ma in Napoli egli era l'apostolo del popolo minuto e degli scugnizzi nel sovrapopolato quartiere dell'lmmacolutella Vecchia. La sua arma era i l rosario e con essa guidava i l popolo verso la chiesa. Alla purezza della sua vita ed alla profonda pietà che l'animava si deve attribuire lo straordinario potere che esercitava sulle moltitudini; le auto- rità sia civili che ecclesiastiche lo amavano e lo rispettavano. Nunzio era il santo del popolo: ed in mezzo al popolo visse e morì all'età di trent'anni. I1 cardinale Capecelatro e don Bartolo Longo gli erano profondamente attaccati e scrissero .di lui come di un santo.

I1 più noto di questo gruppo di giovani è Pier Giorgio Frassati, lo studente moderno, l'ultimo dei molti che ho avuto il privilegio di incontrare ed amare. Feci conoscenza con lui nell'aprile del 1923 a Torino, durante il noto congresso del partito popolare in cui, al teatro Scribe, tremila delegati di- chiararono di formare un fronte unico in difesa della libertà contro il fascismò trionfante. Pier Giorgio era lì, nell'avan- guardia di questi giovani, ardente di entusiasmo. Figlio del senatore Frassati (proprietario del giornale liberal-democratico di Torino La Stampa ed ambasciatore italiano a Berlino), egli non seguiva i l liberalismo del padre ma gli ideali della demo- crazia cristiana. Non era entrato nella vita politica per soddi- sfare un'ambizione terrena: era un giovane di fede profonda, C

la fede era la sua vera vita. Tutta la sua attività nella gioventù di azione cattolica, nella società di san Vincenzo de' Paoli, nel partito popolare ed anche nell'alpinismo (poichè anche Fras- sati amava l'alpinismo come Contardo Ferrini), era il risultato della sua fede intensa e della sua religione operante.

Temperamento pieno di vita e di iniziativa, sentiva acu- tamente tutta la gioia di vivere sia nel corpo che nello spirito; i l suo motto era « vita nella gioia N. Sarebbe un errore pensare

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che egli ottenesse la sua felicità senza sforzo, mentre invece il raggiungerla era £rutto dell'esercizio della sua volontà. Sconcer- tante come appare agli occhi moderni, arrivò al punto di rinun- ciare alla fanciulla che avrebbe voluto sposare, per deferenza alla volontà dei genitori.

Giovane brillante, prossimo a laurearsi in ingegneria, Pier Giorgio Frassati aveva davanti a sè un promettente avvenire

quando un acuto attacco di poliomielite lo portò prematura- mente alla tomba dopo una malattia di soli tre giorni. Aveva appena ventiquattro anni. Egli era solito dire che il giorno della morte sarebbe stato il più bello della sua vita, e quando venne la chiamata rispose con la stessa accettazione gioiosa della vo- lontà di Dio che aveva caratterizzato la sua vita.

Da allora una folla di giovani e di studenti si reca al cimitero di Pollone per pregare sulla sua tomba. Don Coiazzi. uri apostolo della gioventù italiana, ha riunito i tratti salienti della sua breve vita, e la sua biografia è già apparsa in tutte le lingue. Dal 1924 ad oggi i l contatto spirituale tra la gioventù italiana e Pier Giorgio Frassati è stato sempre vivo ed inin- terrotto.

Nella mia lunga attività politica e sociale in Italia, che si estese dal 1894 al 1924, ho incontrato un grandissimo numero di altri virtuosi giovani, studenti, operai e professionisti la cui vita era un esempio di pietà e di dedizione al bene degli altri. Ora, dopo tanti anni di assenza forzata dal mio amato paese, non su quanti altri processi canonici si stanno istruendo nelle varie dio- cesi d'Italia. Ricordo di aver letto un giorno che i l processo per la beatificazione del giovane Guido Negri, di Este, chiamato (C i l ca- pitano ed i l santo », morto nel 1916, è già stato iniziato. Tale è il caso di un giovane medico, Renato Masini di La Spezia, morto a Lucca nel 1931. Questi nomi sono molto cari all'azione catto- lica italiana.

Molti sono coloro che potrei qui menzionare, ma fra essi non posso fare a meno di ricordare un mio carissimo amico, Giusep- pe Pipitone di Palermo, morto nel 1935, un giovane che esplicò

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un attivo apostolato nell'azione cattolica, dal carattere fermo e dai costumi di grande purezza e semplicità. Vive nel mio cuore anche Giuseppe Pagani. Capitano durante la guerra mondiale, fu un angelo consolatore tra i suoi compagni di prigionia. Membro del partito popolare, uomo di azione nei riguardi degli operai, era proprietario di uno stabilimento industriale che diresse con idee moderne e cristiane: ma soprattutto, fu un uomo di pietà ardente e profonda.

L'ultima figura che mi viene in mente è quella di Ubaldo Ferrari di Cremona, professore all'università di Milano, morto nel 1938 all'età di quarantadue anni. La sua morte fu una per- dita irreparabile sia per la giurisprudenza che per l'azione cat- tolica. Era un uomo di virtù eccezionali. Alla sua dipartita, la moglie ed i figli, i preti e gli amici che stavano intorno al letto, furono così profondamente toccati dalla santità del suo trapasso che, come presi da un improvviso slancio mistico, intonarono il « Magnificat » davanti ai suoi resti mortali.

A questo punto interrompo i ricordi che mi si affollano alla memoria per rispondere ad una domanda che potrebbe essermi fatta dal lettore: da dove si origina una tale fioritura d i santità tra i laici in Italia, specie tra gli intellettuali? Secondo me, tre sono le fonti principali di questo meraviglioso fenomeno. La prima è l'influenza educativa di don Bosco, fondatore e primo santo della congregazione dei Salesiani e del loro metodo edu- cativo. Anche coloro che non hanno avuto un contatto diretto con tale metodo, hanno tratto beneficio dall'atmosfera creata dall'a- postolato di don Bosco. In un periodo in cui generalmente il clero era avversato perchè ritenuto ostile all'unificazione d'Italia, don Bosco era amato e stimato da tutti. Egli si tenne in disparte dalle questioni che si agitavano tra « temporalisii e « liberali 1).

Soprattutto egli invitava la gioventù ad essere fidente e gioiosa; il suo metodo educativo divenne una regola, e la sua influenza si diffuse nella vita familiare tramite l'organizzazione dei coope- ratori salesiani e gli istituti e collegi diretti da quella con- gregazione.

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Un altro influsso benefico lo hanno esercitato le società di san Vincenzo de' Paoli, fondate da Federico Ozanam in Toscana Ga il 1850 ed il 1853 ed organizzate più tardi in quasi tutte le parrocchie d'Italia. Dovunque queste società sono state curate dagli studenti e dai giovani di altre categorie, la pratica della carità ha preservato i giovani dal male ed 'ha nutrito nei loro animi le più nobili virtù.

Infine i circoli della gioventù cattolica hanno addestrato let- teralmente milioni di giovani italiani all'apostolato laico sul terreno religioso come su quello sociale, col motto « preghiera, azione, sacrificio D. I circoli hanno salvato un numero incalcola- bile di giovani dall'incredulità, dalla corruzione e dall'indiffe- renza religiosa. L'associazione sviluppa il senso della solidarietà. incoraggia un'aperta professione di fede, dà la possibilità di partecipare alla vita sportiva e ad altri divertimenti, di stringere amicizie sincere e di studiare la religione e le scienze politiche e sociali. Così i circoli hanno dato all'Italia una forte e generosa gioventù cattolica.

Pio XI, che esercitò tutta la sua autorità per salvare la gio- ventù cattolica dall'assorbimento nelle organizzazioni giovanili fasciste e che osò fronteggiare un aperto .conflitto quando nel 1931 lanciò la famosa enciclica Non abbiamo bisogno, sapeva bene ciò che faceva. La sua azione non solo manifestò i l suo amore paterno per la gioventù cattolica italiana, ma fu nella linea del dovere del supremo pastore della chiesa.

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XII.

IL SACRIFICIO CRISTIANO E LA PACE SULLA TERRA

Nel canone, dopo la consacrazione, troviamo tre preghiere per la pace. La prima, finito il Pater ~ o i t e r , con le parole: da propitius pacem in diebus nostris; la seconda, all'ultimo verso dell'dgnus Dei col dona nobis pacem; la terza, nelle orazioni prima della comunione, dove diciamo: ne respicias pec- cata mea sed fidem Ecclesiae tuae, eamque secundum voluntatem tuam pacificare et coadunare digneris. La prima con le parole diebus nostris si riferisce in modo indiretto alla pace temporale,

data anche la consonanza testuale col passo dei Maccabei. Nella parte del canone prima della consacrazione c'è anche una frase simile: diesque nostros in tua pace disponas. Ma questa può riferirsi alla vita di ciascun di noi, nel doppio senso spiri- tuale e temporale (nelle varie preghiere della messa infatti i due aspetti della nostra vita sono spesso uniti insieme in un'unica preghiera a Dio). Tale significato sembra evidente nel dona nobis pacem, che fa seguito al Pax Domini sit semper vobiscum, pro- nunciato durante la frazione della specie del pane. La terza pace, la religiosa, è per la chiesa e nella chiesa. Nella prima preghiera del canone tale pace è messa in evidenza con le aro le quam (Ecclesia) pacificare, custodire, adunare et regere digneris.

Queste tre paci possono essere guardate distintamente, ma poichè il soggetto vivente della chiesa e della società è l'uomo individuo, che nella sua vita associata con altri costituisce la materia vivente e operante nell'una e nell'altra, così ogni pace

collettiva si risolve nella pace individuale e ogni pace indivi- duale influisce e crea la premessa della pace collettiva.

Se la pace interiore fosse nel cuore di tutti gli uomini, ge-

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nererebbe la pace temporale e la pace religiosa ; e d'altra parte, se non c'è pace religiosa quella temporale è turbata, e se non c'è pace temporale anche quella religiosa è turbata; e la man- canza di pace sociale porta al turbamento della pace indi- viduale e interiore, poichè l'uomo subisce dalle turbolenze e dalle guerre l'eccitamento delle passioni collettive verso il male. Onde nel canone diciamo: da propitius pacem in diebus nostris, ut ope misericordiae tuae adiuti, et a peccato simus semper liberi et ab omni perti~rbatione securi. P, chiaro che la man- canza di pace terrena non solo toglie la sicurezza e procura i turbamenti, ma normalmente offre all'uomo occasione di peccare. Lo mette anche in occasione di far del bene, ma molte volte i cuori si induriscono alla voce di Dio.

Tali preghiere dette durante la celebrazione della messa e prima> della comunione, quando, celebrante e assistenti, siamo tutti uniti nello stesso sacrifizio di Gesù Cristo, che per noi si rinnova, ci richiamano al loro più intimo significato, che la pace intiera è di carattere sacrificale. È il Cristo che ci ottiene da Dio la pace e ce ne fa dono, uno dei frutti dello Spirito Santo. Fuori del Cristo non c'è pace: non solo la pace soprannaturale della grazia, che ci mantiene uniti con Dio in tutti i casi della vita, ma anche la pace temporale, perchè questa o è nell'orbita e nell'irradiazione della grazia, o non è vera pace ma quella che dà il mondo.

Con l'elevazione di Adamo allo stato soprannaturale, tutta l'umanità vi fu elevata: dopo la caduta, tutta l'umanità fu redenta e fatta compartecipe della divinità. Ogni attività umana è dentro l'atmosfera del soprannaturale; Dio è divenuto per noi omnia et in omnibus. Non c'è altra alternativa per l'uomo che o la grazia o la colpa; o la soprannatura o la sottonatura, quella dell'ignoranza e della concupiscenza. L'ordine e la pace sociale sono fatti naturali agevolati dalla grazia; il disordine e la guerra sono fatti della natura operante senza la grazia. Non c'è via di mezzo nella realtà, benchè speculativamente possiamo concepire un ordine naturale senza la grazia e senza il peccato d i origine. La realtà storica e vivente è quella di una umanità elevata alla vita soprannaturale; anche nel rifiuto della fede da parte dei singoli o dei gmppi associati non cessa

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mai nell'umanità itinerante verso Dio l'influsso storico e mi- stico della grazia.

È per questo che non ci sono due vere paci, una naturale e una soprannaturale; ma una sola vera pace, quella che Dio ci dà ; è questa la radice di ogni pace: l'altra, quella del mondo, è pace falsa.

Donde procedono le guerre e le liti tra voi? » domandava l'apostolo Giacomo di Alfeo, e risponde: Se non di qui: dalle vostre concupiscenze che battagliano nelle vostre membra? Voi bramate e non ottenete; ammazzate, siete gelosi e non vi riesce d i conseguire; litigate, e guerreggiate, e non ricevete, perchè non domandate. Chiedete e non ottenete, perchè chiedete male, per consumare nei vostri piaceri » (*).

Anche le guerre, che sono l'indice più grave dei turbamenti umani, hanno la stessa radice di ogni altro male sociale, il disordine derivante dalla natura incline al male e non domata nelle sue concupiscenze.

Gesù Cristo ne fece avvertiti i suoi discepoli quando segnò con due date i tempi terreni, a venire dopo di Lui: la distru- zione d i Gerusalemme e la fine del mondo. Tutta la via da percorrere dall'initia dolorum al post tribulationem dierum illo- rum (**) è proprio una via di turbamenti, rivolte, guerre, per cui la pace terrena non arriva ad essere neppure un sogno notturno.

A coloro che credono alla pura pace terrena legata ad un ordine politico, come la credevano ancora i discepoli prima della discesa dello Spirito Santo, bisogna ripetere le stesse ,

parole d i Gesù ch'egli rispose alla richiesta se « lo ricostituirai ora il regno d'Israele? Egli disse: « Non sta a voi d i sapere i tempi e i momenti che il Padre si è riservati in suo potere; ma voi riceverete la virtù dello Spirito Santo che verrà sopra d i voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giu- dea, e nella Samaria e fino all'estremità della terra (***).

Discepoli di Cristo sono tutti i cristiani, vescovi, sacerdoti,

( 8 ) Giac. 4; 1-3. (W) Matt. 24; 8 e 29. (N*) Atti, 1; 6-8.

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fedeli, ciascuno nel suo grado: tutti dobbiamo essere suoi testi- moni in ogni tempo e luogo. Allora sarà restituito i l regno d'Israele - non quello terreno che finì come finirono molti altri e finiranno tutti i regni terreni - ma quello di Gesù Cristo che dura in eterno.

Questo regno fu costituito sul Calvario, in cui l'umanità espiò per il Cristo il suo peccato, e fu riconciliata a Dio; la pace cantata dagli angeli a Bethlem tornò sulla terra come ca- rità che rinnova il mondo e che fu diffusa nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ivi abita. Solo nella costante partecipazione nostra nell'atto sacrificale di Cristo, nella carità vivente in noi, potrà aversi la triplice pace, quella spirituale dell'anima, quella religiosa della chiesa e quella temporale della società umana.

Può sembrare ad alcuni che considerando così il problema della pace, proprio durante la più terribile guerra mondiale che mai si sia avuta, io non faccia che distaccarmi dalla realtà terre- na. e con ciò allontanare anche le speranze di pace. Si è più volte detto e ripetuto che imporre una concezione cristiana al mondo di oggi sarebbe uno sforzo vano e anche un atto di soperchieria, dato che la maggioranza di coloro che combattono di qua e di là non hanno-fede cristiana, o se l'hanno non è integra, o se sono cattolici spesso mancano del senso religioso, perchè il mondo moderno è divenuto terribilmente naturalista ed ha rigettato il soprannaturale dalla vita, lasciandolo forse in u n piccolo angolo oscuro della coscienza, dove la mente e il cuore di ciascuno penetrano assai raramente.

Se in ogni tempo e popolo non sono mancate mai le guerre, e gli occidentali, anche dopo che abbracciarono il cristianesimo non smisero mai la loro cattiva abitudine di guerreggiare; si può dire che essi abbiano anche fatto la guerra per la guerra come ci 'sono quelli che fanno l'arte per l'arte. Onde ne sono derivate fra cristiani due tesi molto comuni: quella che afferma che la guerra non è eliminabile, perchè frutto del peccato di origine, ammettendo così un determinismo che copre le libere volontà umane; e l'altra tesi che la guerra sia sempre un mezzo

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legittimo e legale i n difesa di un diritto proporzionato, suppo- nendo così che ci sia rapporto di proporzione fra l'entità di un diritto e la guerra.

Le due tesi, benchè contengano verità parziali, oggi sono fortemente contestate. Ma lasciandone il dibattito pro o contro ai teologi, filosofi e giuristi, quelli che sembrano inammissibili sono i sistemi pratici che si sono generalizzati presso i cristiani, cioè che la guerra si presume legittima se voluta dall'autorità di uno stato; e che non è più il caso di discutere se la guerra sia giusta o no, dato che i popoli sono costretti a combattere le guerre totali: è meglio lasciar loro la buona fede nella presun- zione della legittimità, se non della giustizia.

Questa triste realtà, cioè la formazione di una falsa coscienza ge-rale circa la guerra che si combatte, pesa enormemente sulla guerra stessa e sulla pace susseguente, perchè tanto il vin- citore che il vinto credono d i aver combattuto per una giusta causa, sicchè nè i l vincitore pensa di dar ragione al vinto, nè il vinto crede di aver torto, perchè ha perduto la partita, e pensa di rifarsi alla prima occasione. Onde possiamo dire di avere avuto sempre delle guerre intercalate da armistizi e mai delle paci intiere e sincere, le paci che vengono da Dio e non dal mondo.

I1 fatto radicale è che guerre e paci sono state distaccate dalla realtà soprannaturale e concepite come « politica tempo- rale », come una serie d i mezzi per raggiungere, mantenere ed estendere il potere proprio a danno d i quello degli altri, alter- nando le minacce e i compromessi, la lunga preparazione e l'azione diretta, incentrando nella guerra guerreggiata tutta la politica dei prima e dei dopoguerra. È mancato in gran parte lo spirito etico-cristiano nella concezione politica; così sono fallite le paci e sono state moltiplicate le guerre.

Non vorrei essere frainteso, nè vorrei dare occasione a pen- sare che io eluda i problemi umani temporali per un vago soprannaturalismo. Io so bene che sono nel cuore della que- stione, affermando che la pace anche temporale o è cristiana o non è pace; e so anche bene che nella realizzazione d i qual- siasi fine, non può trascurarsi il lato pratico e tecnico, anche se sia per sua natura un fine soprannaturale, come i l procurarsi

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dell'acqua per potere battezzare. Nessuno domanda a Dio il

miracolo della pace senza che noi compiamo con le nostre fa- coltà quegli atti che alla pace conducono. La pace, dal punto

di vista tecnico, dovrà essere costruita con i materiali politici, quelli che la guerra, con dare la vittoria ad una delle parti, va mettendo a piè d'opera come i l preparato materiale di una fabbrica. Questa però non potrà mai sorgere senza un progetto architettonico che ne mostri la natura, la finalità, l'adatta- mento e il modo di ottenere lo scopo. La pace non sarà mai tale se fatta d i materiali politici senza l'anima che essa stessa deve contenere d i ordine, armonia, giustizia, equità, benevo- lenza. Impossibile l'ordine senza la giustizia e l'equità ; impos- sibile l'armonia senza la carità; impossibile questa accolta d i

virtù etiche senza che trovino la loro base in Dio attraverso il Cristo, che con i l suo sacrificio ci fece fratelli suoi e ci ridiede la figliolanza divina.

Chi detta la pace è i l vincitore; chi l'accetta è il vinto.

Perchè i l primo non si creda un despota senza limiti occorre che riconosca che la vittoria è stata dono di Dio ch'egli non

poteva meritare per le proprie virtù. Se bastò una pioggia

mattutina a togliere a Waterloo la vittoria di mano a Napo- leone, poteva bastare altro fatto imponderabile a toglierla anche all'inglese o all'americano o al russo. E se guardiamo i fatti

di questa guerra fin oggi, quante volte abbiamo detto che se Hitler avesse seguito altra via, sarebbe stata finita per gli alleati? Ma occorre riconoscere ancora meglio che è Dio che alle nazioni vincitrici assegna un compito di giustizia e di benessere nel mondo, e che esse debbono rispondere a Dio dell'adempimenio fedele di tale mandato.

I1 vincitore non può fare quel che vuole, nè materialmente per le difficoltà pratiche che vi si oppongono, nè moralmente per i limiti che impone la morale ch'egli deve osservare. Pio XII ha già fissato questi limiti fin dal dicembre 1939 con i ben noti cinque punti. Poi ripetutamente ha aggiunto chia- rimenti sui punti esposti ed ha dato altri suggerimenti teorici e pratici, mano a mano che la guerra avanzava, formando un complesso di norme direttive per la pace futura.

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Ma il vinto, dall'altro lato, deve riconoscere che ha perdulo la partita sul terreno della forza e che deve mettere la soluzione dei suoi problemi sul piano del diritto e dell'equità. Egli per- ciò deve volenterosamente cooperare al nuovo ordine interna- zionale, del quale egli non può non essere parte integrante.

Alcuni s'immaginano che la pace futura possa essere, come la passata, imposta dal vincitore, senza preoccuparsi se sia o no accettata dal vinto. Errore colossale, che è stato alla radice di questa guerra, e che, se si ripete, potrà essere alla radice di una terza guerra mondiale. La pace è essenzialmente un fatto mo- rale, e solo subordinatamente fatto politico, come mezzo al fine; la pace è anzitutto un atto di riconciliazione. Coloro che sostengono che Germania e Giappone ( i due paesi educati militarmente) sono irriducibilmente e per vizio congenito inca- paci di vivere in pace con gli altri paesi del mondo, negano la riconciliazione; mettono una barriera permanente fra i vincitori e i vinti. C'è in fondo all'animo di chi dice così un sentimento di superbia farisaica, che allontana il vinto dalla fratellanza della pace: egli non è come noi; ricordate la frase del Fariseo in san Luca: quia non sum sicut ceteri hominum (*). Non dico che Inghilterra e America abbiano la stessa storia e la stessa psicologia dei tedeschi e dei giapponesi; dico che sono uomini gli uni e gli altri, con la stessa natura, e che in diverse occasioni possono fare anche peggio. Se un santo può dire con verità d i essere il peggiore dei peccatori, pur non avendo mai commesso un peccato mortale, perchè egli può da un momento all'altro cadere e perdersi; così anche coloro che oggi combattono per la difesa del diritto e della morale interna- zionale, per la giustizia e per la libertà dei popoli, potranno anch'essi essere tentati e trascinati a violare libertà, giustizia e diritto e a creare risentimenti e odii presso i popoli che si volevano aiutare e salvare.

E d'altra parte, se i vinti non vorranno riconoscere le loro colpe e non vorranno rientrare nella morale comune, se rifiu- teranno la loro cooperazione al nuovo ordine, occorre usare i l sistema educativo e quello della persuasione, con le misure

(*) Luca, 18; 11.

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coercitive necessarie, per evitare nuovi disordini e per. rendere possibile la riconciliazione: noli vinci a mulo, sed vince in bono malum, come prescrive san Paolo (*): destare il cointeresse fra vincitori e vinti per il nuovo ordine mondiale dev'essere i l fine d i una vera pace.

Tutto ciò non solo non esclude la struttura politica interna- zionale, ma la prevede. Forse la magistratura e la polizia non sono necessarie in uno stato per mantenere l'ordine e rendere innocui i criminali e possibilmente rifarli buoni cittadini?

Così è anche nell'ordine internazionale, dove occorre attuare un sistema di comunità basato sull'autorità e sulla libertà, dove la giustizia, l'equità e la carità ne siano l'anima. Questa è pace: non il dominio del vincitore e la tacita ribellione del vinto; le parti potrebbero un giorno essere invertite a danno d i ambedue.

* * * Nella preparazione e costruzione della pace, dopo la pre-

sente guerra, ci sono dei doveri speciali che gravano sui capi d i stato e sui governi delle nazioni, sul loro personale tecnico e diplomatico, su esperti e uomini politici; e ci sono anche i doveri generali che gravano su tutti i cittadini e specialmente sui cristiani disseminati nel mondo.

I1 primo e fondamentale è la preghiera, sia come atto d i religione, necessario sempre - sine intermissione orate - per propiziare Dio e per invocare i lumi e l'assistenza dello Spirito Santo in un così difficile compito quale quello della pace; sin come mezzo efficace per dissipare dal nostro cuore le malevo- lenze, i risentimenti, i pregiudizi che rendono difficile vedere la verità e applicare i principi morali ai fatti concreti.

La preghiera è atto di fede, di speranza e di amore: solo queste sono realtà viventi; il resto è materia da vivificare. Anche la pace terrena e l'ordine internazionale sono materia da vivificare. Questo non fu fatto dai cattolici tra i l 1919 e 1939 per la società delle nazioni, tranne da piccole minoranze, che ebbero poca efficacia presso i propri paesi; questo dovrà

(*) Rom. 12; 21.

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essere fatto per la comunità dei popoli che dovrà sorgere dopo la guerra, e per la quale Pio XII (come durante la prima guerra mondiale Benedetto XV) ha contribuito con le sue sapienti e antiveggenti proposte (*).

Si disse allora, e si ripeterà domani, che la società o comu- nità d i nazioni, stati o popoli, non è una costruzione cristiana; allora fu proprio detto che la lega delle nazioni era un'idea massonica.

L'ordine internazionale è da natura, come da natura è lo stato e ogni altra comunità, a cominciare dalla famiglia. Nes- suno dirà di abolire la famiglia, ma di renderla morale, anche se i membri di essa non sono cristiani; così per lo stato, così per le federazioni-di stati, così per la comunità internazionale.

La morale che diciamo naturale, e che è la base della morale cristiana, deve permeare la società umana in ogni sua forma- zione nucleare, dalla base che è la famiglia al pieno compi- mento pacificatore che sarà la famiglia delle nazioni. Questo ideale umano deve essere da noi cattolici vivificato dalla nostra fede. Noi parleremo, come cittadini di un paese, il linguaggio dei cittadini che cercano di salvaguardare nell'ordine della carità, i diritti propri; ma ci opporremo come uomini che hanno una concezione morale della vita, alle ingiustizie che si proporrebbero a nome degli interessi delle nazioni vincitrici. E infine come cristiani cattolici ci interesseremo di quest'universa- Età sociale e morale che è il regno della fratellanza umana nella pace e nell'ordine. Noi sappiamo che tale regno non può essere altro che il regno di Cristo; ma seguiremo la via tracciataci da Cristo, quella di contribuire all'avvento di tale regno con la pre- ghiera e la testimonianza di Gesù, fino all'ultimo confine della terra. Non lo imporremo con la forza, nè con intrighi politici: ma affermando sempre e ovunque la verità: questa si chiamerà giustizia, equità, moralità, carità, religione; è sempre la verità che viene da Dio e che manet in aeternum.

Così adempiremo ad uno dei principali doveri in democra- zia, quello d i contribuire a formare l'opinione pubblica, a far

(*) La conferenza di San Francisco per l'organizzazione delle nazioni unite ha avuto l e sue ombre e le sue luci. (N. all'ed. ingI.)

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luce sui problemi intricati, a svelare le occulte macchinazioni, a denunziare l'ingiustizia da qualunque parte venga. La funzio- ne del cittadino è delicata nel mondo moderno; non è permessa l'evasione dal proprio dovere, nè il rifiuto di cooperare con gli altri ai fini sociali.

Occorre essere prudenti; noi parleremo la lingua del tecnico se siamo tecnici, dell'uomo politico, se siamo dei politici, del cittadino sul piano nazionale, dell'uomo universale sul piano internazionale, del cristiano sul piano morale e religioso. Non c'è divisione nè opposizione fra questi vari compiti; c'è di- stinzione di realtà oggettive e di doveri soggettivi, ma tutto va unificato nella nostra vita spirituale subordinando il mondo tecnico al morale, la realtà terrena a quella soprannaturale sì che in tutto regnino verità, giustizia e carità.

Quando noi avremo fatto tutto il nostro dovere di cristiani e di cittadini, e ciascuno nel suo campo avrà dato i l contributo che poteva, non abbiamo fatto ancora nulla perchè la pace cristiana s'instauri nel mondo. Ancora ci manca una cosa essen- ziale, concepire la pace come un continuo sacrificio in unione con i l sacrificio di Gesù Cristo. Non si tratta di suggestione psicologica, nè d i misticismo immaginativo, nè d i autosoddi- sfazione devozionale, ma della stessa essenza della pace.

Questa non può essere basata su altro che sul sacrificio. Tut- ta la vita degli uomini o è sacrificio, cioè amore sacrificante per Dio e per i fratelli, ovvero è egoismo. Questo è anche sacrificio, ma rovesciato: l'incenso della superbia al proprio io; ma il tormento che ne genera è il frutto amaro di tutte le soddisfa- zioni egoistiche, individuali e collettive. È questo un sacrificio diretto agli dei falsi, il primo e il peggiore sè stesso; ma tale falsità è anche espressa se proiettata nella società. Tali false deità hanno infiniti nomi: oggi abbiamo lo stato totalitario, la razza, il fascismo, i l nazismo, i l bolscevismo, i l nazionalismo, l'imperialismo, i l capitalismo, nomi nuovi di cose vecchie che hanno l'unica e comune radice nell'aspirazione luciferiana: sarete siccome Dii. Queste divinità hanno sete di sangue. Un tempo si sacrificavano i bambini agli dei di pietra o d i oro:

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« e immolarono i loro figli e le loro figlie ai demoni. E sparsero

il sangue innocente, il sangue dei loro figli e delle loro figlie che , sacrificarono agli idoli di Canaan, e la terra fu contaminata dallo spargimento del sangue (*).

Lo stesso è oggi: tutti coloro che sono stati sacrificati per ambizione, orgoglio, sete di dominio e di vendetta, in questa e in tutte le guerre d i aggressione, sono state le vittime, coscienti o incoscienti, immolate a false divinità. Quei poveri figli avran creduto servire la patria; molti saranno stati in buona fede, e chiamiamo innocente il loro sangue come nel salmo citato; ma la responsabilità dei capi e d i coloro che hanno aderito a pro- muovere le guerre e uccisione di inermi popolazioni, distruzione di città, tribolazione del mondo intero, è responsabilità demo- niaca: hanno acceso il fuoco di vite umane in olocausto al demonio.

Non c'è via di mezzo: gli uomini o sono infetti d i egoismo e

agiscono per egoismo e partecipano ai sacrifici dell'iniquità; ovvero sono animati dalla carità diffusa dallo Spirito Santo; e

partecipano al sacrificio cristiano che s'incentra, si perfeziona e si consuma in Gesù Cristo, unica vittima salutare e unico sacerdote.

Tale liturgia sacrificale è perenne: consumata sul Calvario, rinnovata sugli altari, è la vita da cui trae vita ogni uomo di buona volontà. Coscientemente o incoscientemente, tutti gli uo- mini che fanno il bene e aderiscono a Dio, sono uniti in tale liturgia, ed ogni loro azione è resa viva dalla grazia.

La pace terrena, sociale, internazionale, per realizzarsi come vera solidarietà e fratellanza umana, non può non esigere da ognuno il sacrificio del proprio orgoglio, dell'interesse egoista, dello spirito d i dominazione, sopportandoci a vicenda, aiutan- doci a vicenda. Se l'intenzione è retta, e se le azioni dirette a

tale pace sono oneste, e i l fine è degno, tale costruzione della pace terrena è già nell'orbita del cristianesimo; anche se que- sto non è intieramente conosciuto nè intimamente vissuto. E ci8 per due ragioni, primo perchè « ogni ottima cosa ricevuta, ogni dono perfetto viene dall'alto e scende dal Padre dei lu-

(e) Salmo 105; 37-38.

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mi» (*); secondo perchè i l bene naturale è vivificato dal- l'influsso della fede e della grazia, secondo la partecipazione in esso di coloro che vivono di fede e di grazia. Donde una grave responsabilità è data a noi che abbiamo i l dono della fede inte- gra e la partecipazione ai sacramenti, quella di rendere testi- monianza della verità soprannaturale nella vita comune e nelle ntlività umane che formano il divenire del processo storico. Noi non, dobbiamo naturalizzarci nel senso, dato dalle teorie natu- ralistiche; noi dobbiamo far sentire l'influsso del soprannatu- rale in tutte le attività della vita naturale. La natura è la premessa necessaria della partecipazione alla vita soprannatu- rale; ma questa non si attua storicamente senza il concorso di quegli uomini, che debbono rendere testimonianza al Cristo, cioè alla fonte perenne della grazia. Tale testimonianza è parte- cipazione vivente al sacrificio di Gesù Cristo e per Lui e in Lui ogni' nostra attività si estende al suo corpo mistico.

Tutta la nostra vita o è sacrificio a Dio, in unione di quello di Gesù Cristo, o è nulla; peggio è il peccato, l'opposi- zione a tale sacrificio. Quale più grande e più degna missione che quella di far partecipare tutto il mondo a un tale sacrificio, vincendo anche noi e facendo vincere dagli altri i l peccato e la morte in unione a Gesù Cristo?

La confessione fedele. di Gesù Cristo da parte di tutti gli uomini avverrà quando Dio l'ha segnato: noi non possiamo costringere con la forza gli uomini a essere cristiani, quando non lo vogliono; noi dobbiamo con la nostra testimonianza attiva, partecipando al sacrificio della croce, attuare in mezzo agli uomini la nostra fede, speranza e carità; in una parola il nostro cristianesimo. Questo renderà i suoi frutti di pace come e quando vorrà Dio. La pace perpetua mondana, senza sacri- fici, che ci leghi al mondo come il felice soggiorno degli uomini, . . non è la vera pace nè la pace di Cristo. Questa è fatta d i amore e di sacrificio: per Dio e per gli uomini che peregrinano nel mondo verso l'eterno Laetare.

(*) Giac. 1; 17.

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LA VISIONE DI DIO

San Paolo afferma ai Corinti che: « I n questo momento noi t.ediamo traverso uno specchio in enigma, allora vedremo fac- cia a faccia (*). « Faccia a faccia )) è vedere Dio come « Egli è D. La visione in questi due testi citati include le idee di presenza, conoscenza, e contemplazione. Si può credere che essa non indichi pienamente l'unione con Dio dataci qui sulla terra coi mezzi della grazia santificante e promessaci in cielo coi mezzi della gloria. Senza entrare nella disputa teologica concernente la natura intellettiva o volitiva della nostra futura beatitudine (le due scuole ci forniscono una ragione per essere meno ana- litici e più sintetici), noi crediamo fermamente che nell'idea della visione di Dio si possano comprendere l'unione ed il possesso, poichè è impossibile avere una visione senza essere in uno stato d i grazia e quindi senza essere uniti a Dio e pos- sederlo - o, piuttosto, senza essere posseduti da Dio e pieni d i Lui.

La visione è un completamento e perfezionamento della grazia, in quanto l'anima, purificata da ogni scoria di peccato e fatta capace di vedere Dio faccia a faccia, è ammessa a questo atto beatificante. La visione diretta completa l'unione attra- verso la grazia e la trascende; essa manifesta la gloria di Dio e ne dà il possesso. L'anima così vede - acquista una vista soprannaturale - perchè completa la sua trasformazione nella natura divina di cui siamo partecipi attraverso i meriti d i Gesù Cristo.

(*) la Cor. 13; 12.

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Abbiamo detto che la visione include presenza, conoscenza e contemplazione. È così in tutti i campi dell'esperienza umana; è impossibile vedere quello che non è in qualche modo pre- sente; anche l'astronomo che riesce a vedere le stelle invisibili all'occhio umano le rende in una certa misura presenti attra- verso il telescopio. Dio è presente dovunque, ma l'occhio umano, proprio come non vede le stelle invisibili, così non vede Dio (se non « traverso uno specchio in enigma D).

Quando vedremo Dio faccia a faccia, allora lo vedremo pre- sente; la nostra conoscenza teoretica ed in enigma si trasfor- merà in esperienza diretta; noi lo contempleremo.

Cosa possa essere questa visione, come l'anima umana possa avere esperienza diretta di Dio ed essere presa dalla sua infi- nità, è certamente un mistero del quale i teologi si sono occu- pati nelle loro profonde speculazioni. Sappiamo che essa è visione, conoscenza, contemplazione, beatitudine; non come atti successivi; ma come un atto unico che è giustamente chia- mato visione beatifica.

Prima della visione di Dio, faccia a faccia, c'è la visione «'attraverso uno specchio in enigma N. Questa visione d i Dio è alla portata di tutti in questo mondo; anch'essa ha lo stesso contenuto d i visione, conoscenza, esperienza e contemplazione. Ma l'oggetto presente non è Dio stesso, ma piuttosto ciò che Dio ha creato, ciò che lo rappresenta, che parla per Lui, che lo esprime in via naturale o soprannaturale, normale od eccezio- nale, e ci richiama alla sua invisibile presenza, facendoci pas- sare alla sua contemplazione.

L'uomo ha i l dominio su tutto questo mondo creato, egli scopre i segreti della natura e la domina con la scienza ed il lavoro, ne esprime le bellezze nascoste con la poesia e con l'arte, ne penetra le ragioni profonde con la filosofia.

Eppure, dopo che noi abbiamo visto innumerevoli opere umane di ogni genere e celebrato la saggezza, il potere, la bel- lezza che si effondono da quelle, e dopo che abbiamo ricordato cento e mille geni dell'umanità, ci rendiamo conto del fatto che ogni sforzo umano è limitato, ogni bellezza finita ed ogni potenzialità circoscritta da ciò che la natura ci ha dato.

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Con la parola natura noi esprimiamo un complesso di idee, non ben definite, che cominciano dal mondo visibile o dai mon- di visibili d i lontano, per arrivare ai mondi invisibili, supposti o provati nella loro esistenza, che noi immaginiamo esser più o meno simili a quelli che noi vediamo e verifichiamo. Non man- cano quelli che affermano che la natura è eterna nel suo essere, intendendo clie non ha mai cessato di esistere. Ma questi pensa- tori non sono sottili tomisti che cercano di provare l'ipotesi del- la creazione ab aeterno (*); essi vogliono dire che la natura è la causa di sè stessa e della sua evoluzione e trasformazione, ne- gando implicitamente che esista una causa extra-cosmica di tut- ta la natura, in una parola, Dio.

Ma poichè costoro non potrebbero mai arrivare a dire che una città è nata da sè stessa, spontaneamente e per suo proprio cieco potere, e che non ha inizio al di là di sè stessa nè finalità alcuna, così, poichè non possono negare l'ordine e la coordina- zione delle ,forze naturali, la saggezza che le regola o il potere che le fa libere, cercano di spiegarle in uno di questi due modi. Gli idealisti hegeliani elevano il principio naturale ali'« Idea D, alla « Mente o Spirito » che si attualizza nei fenomeni visibili recanti la sua impronta; i materialisti (ed anche alcuni sen- sisti) considerano il principio naturale come unico principio della materia, alla quale essi attribuiscono tutti i poteri tranne l'intelligenza e la volontà.

Noi non apparteniamo a nessuno dei due gruppi; noi vedia- mo nel creato l'impronta d i un'intelligenza e di una volontà, abbiamo nel creato questa visione di Dio che san Paolo qualifica come « attraverso uno specchio in enigma D. La natura è questo specchio: essa riflette Dio. Noi lo vediamo ora nel mare calmo e tempestoso, ora nelle tempeste e nei baleni, ora nei tramonti d'oro e nelle albe rosate. La bellezza di un fiore ci fa trasalire d i gioia, e la fragranza del suo profumo ci conforta ed inebria. Lo scienziato al microscopio penetra Dio nell'infixiitamente pic- colo, l'astronomo al telescopio lo vede infinitamente grande e negli spazi celesti.

(*) Sull'eternità vedi LUIGI STURZO, La vera vita, pp. 218-241. .Bo- logna, 1960.

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La visione d i Dio che il cosmo sveglia in noi non è una astra- zione puramente intellettuale, o una semplice deduzione ragio- nata o un'idea suggerita dalla tradizione; è tutte queste cose perchè noi facciamo uso del nostro intelletto per l'astrazione, della ragione per la deduzione e della reciproca comunicativa per creare una tradizione; ma noi abbiamo nell'atto della cono- scenza del mondo che ci circonda la spontanea e concomitante intuiziòne della divinità riflessa in esso (*).

Più di ogni altra conoscenza naturale, ciò che ci richiama alla idea di Dio è l'intuizione estetica; la bellezza della creazio- ne ci parla di Dio nell'atto della sua contemplazione.

Dio ha dato agli uomini il senso della bellezza come il fiore

della nostra conoscenza, come motivo della nostra gioia, nel contemplare il creato od un'opera d'arte. Gli animali non hanno il senso della bellezza perchè essi sono privi d'intelligenza che innalza le sensazioni o intuizioni ed apprezzamenti facendo loro trascendere sè stessi nella regione della bellezza.

Solo l'uomo è capace di questo; non solo può arrivare a comprendere il bello intellettivamente ed a produrlo nelle ope- re d'arte, ma sperimenta il fascino di queste nella misura in' cui penetra più profondamente nella loro intima armonia e nella loro manifestazione ideale.

Come è possibile per un artista, un poeta, un musicista essere ateo? Come ogni uomo egli è soggetto alle passioni ed agli sbagli, può deviare e cadere in errore; ma la conoscenza di Dio che acquista attraverso l'ammirazione del bello non può ne- garla senza negare la bellezza della natura, senza smarrire la sorgente della sua ispirazione. Colui che afferma che l'arte è

essenzialmente religiosa parla giustamente; non c'è vera arte che non esprima l'intimo bisogno della mente che ci spinge verso Dio, non c'è arte che non sia animata dall'idea di un'univer- salità vivente, di un'infinità intelligente, di un amore unificante. La bellezza era definita da Platone come lo splendore della ve-

(*) Vedi cap. 111.

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rità; ma cos'è la verità se non la realtà che manifesta sè stessa ed arriva ad essere riconosciuta? Nel campo della natura fisica questa bellezza è valutata in suoni, linee, colori, ordine, ritmo, armonia. Al di sopra di tutto questo c'è un'impronta animatri- ce, man mano che noi saliamo nella scala dell'essere fino a quando questa impronta viene a rivelare qualcosa d i divino si- tuato dentro di noi e al di fuori di noi.

La visione delle bellezze naturali ed artistiche è tanto più intensa e la gioia che ne deriva più grande quanto più acquistia- mo conoscenza ed esperienza di quelle. Sembra che attraverso l'abitudine costante di vedere lo stesso paesaggio naturale o la stessa pittura o lo stesso edificio noi quasi perdiamo il nostro gusto per essi; ma non è vero. Noi possiamo essere colpiti da una bellezza improvvisa che si pone davanti ai nostri occhi: Notre Dame di Parigi, il campanile di Giotto in Firenze o la cupola di Michelangelo in Roma. Ma la sorpresa o l'intuizione immediata di un oggetto bello non ci esenta dalla contempla- zione, dall'approfondimento della nostra visione iniziale, dal rinnovamento dei momenti di oblio estetico. La musica di un brano sinfonico, di un canto, di una toccata per organo o violi- no, o d i una suonata per piano, ci dà una gioia estetica più pro- fonda perchè la sensazione immediata è ritmica: essa procede col tempo e svanisce quando l'esecuzione è finita, lasciando solo una memoria confusa ed affascinante, insieme con uno stato di sospensione contemplativa in silenzio.

La musica ci conduce più vicino a Dio che qualsiasi altra arte perchè essa è insieme sensazione, contemplazione e silenzio ; aspettazione, gioia, memoria ; eccitamento e riposo ; essa pene- tra e vive nell'intimo anche quando le sue vibrazioni sono ces- sate. È un'onda che avvolge e trae fuori dal visibile limitalo, entrando attraverso i l suo ritmo particolare nel ritmo cosmico.

Per questa caratteristica alcuni pensano che la musica più che qualsiasi altra arte richieda una interpretazione pan- teistica: quella dell'immersione dell'Io nel tutto, la sperso- nificazione dell'ascoltatore che, perdendo sè stesso nel ritmo della musica, si immerge nel ritmo del tutto. Così i l ritorno dell'ascoltatore in sè stesso dopo l'esecuzione del brano che 10 trasporta è interpretato come un ritorno alla sua personalità. h

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Un tale errore panteistico che si insinua nel nostro pensiero si

basa sopra un falso concetto sensualistico, non sulla musica. Questa, come ogni arte, non può essere guardata fuori dell'uni-

versale bellezza che essa esprime; la musica trascende la na te- ria, e, attraverso il suo ritmo particolare, rivela l'universo. I1 ritmo esprime l'idea del moto e della vita, il ritmo va dalla molecola alle masse solari.

La solidarietà cosmica indica le relazioni ritmiche della ma- teria che si muove e vive. Ma il punto su cui i panteisti sorvo-

lano è questo; che la musica (che esprime i l ritmo nella forma dell'arte) è una creazione umana, ed esprime la bellezza che trascende, a causa del suo significato ideale ed universale, ogni ritmo, divenendo una vivente opera d'arte. I1 senso cosmico non deve essere confuso con il panteismo, sia questo il panteismo volgare della pura materia o il panteismo intellettualistico del- l'« Idea )) che si realizza; i l senso cosmico è in noi perchè noi partecipiamo, con la nostra intelligenza ed arte, alla vita gene- rale del creato, e lo trasformiamo in noi nella maniera possibile alle nostre facoltà intellettive e pratiche.

Se noi mancassimo del potere di universalizzazione ed idea- lizzazione (così intellettuale come estetica), non saremmo capaci d i conoscere la verità e di apprendere la bellezza, e di conse- guenza di concepire cosa sia o possa essere il panteismo, e non potremmo vedere l'errore che esso contiene e la verità da cui si allontana.

Ma noi lo vediamo, e sappiamo che il panteismo si allontana

dal concetto personale di Dio per accettarne uno imperso- nale; si allontana dalla conoscenza intellettuale e spirituale di

Dio per fare di lui un principio materiale. Se Dio fosse mate- riale ed impersonale, la bellezza non esisterebbe; perchè non

sarebbe percepita come lo splendore della verità, come un rag- gio della divinità, come il riflesso di uno spirito animante. Ma

la bellezza esiste ed è percepita a causa della relazione indivi- sibile de,ll'intelligenza dell'uomo con Dio e dell'uomo con le

altre creature: perchè tutta la creazione (incluso l'uomo) riflet-

te questa intelligenza infinita e la esprime nella sua armonia e belleiza.

10 - S T U B ~ - Problemi sphi tual i

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L'uomo è perciò la bellezza più alta e più espressiva del creato. I1 suo volto rivela la sua intelligenza; il suo occhio, quando non è offuscato dalle passioni, ha inesplorabili profon- dità spirituali; i l suo riso ed il suo sorriso sono una gioia, i l suo corpo un'armonia; la sua voce, il suo linguaggio, la sua capa- cità di esprimersi sono in relazione con la profondità della sua mente e la larghezza del suo cuore. Se l'uomo rimane nel sen- tiero della virtù, le bellezze naturali rifulgeranno cento volte attraverso questa relazione di armonie spirituali che si stabili- sce tra l'interno e l'esterno, tra l'anima e i l corpo.

Quando questa armonia è comunicata .ad un altro in una comprensione reciproca ( e non si dà comprensione senza amo- re) (*), l'uomo arriva a quella intensità di vita in cui intelli- genza, benevolenza e senso estetico si esercitano simultanea- mente.

L'uomo ha cercato di realizzare questa fusione in parecchie maniere. Per questo scopo egli ha compiuto azioni collettive d i ogni genere, festività familiari, danze, processioni, rappresenta- zioni di misteri, celebrazioni civili, funzioni religiose, trovando in esse l'espressione naturale del piacere estetico e dei sensi.

Ma anche piaceri come questi, anche il 'riso e la gioia e la bellezza in questo mondo, sono inadeguati a soddisfare il cuore.

, Essi ci lasciano vuoti, non perchè siano indegni di noi, ma a causa della loro finitezza. Noi prendiamo da loro più o meno d i quanto essi ci danno: più, perchè noi siamo troppo attaccati ad essi, meno, perchè i l nostro occhio non è sufficieiiiemente puro per vedere il raggio della divinità che essi riflettono.

Beati i puri di cuore, perchè essi vedranno Dio n, è una verità anche qui sulla terra. Perchè i l puro vede Dio nel raggio d i sole come nel sorriso di un fanciullo, nell'occhio della per- sona amata come nella bellezza di una pittura, nell'armonia d i un edificio come nell'infinità di un coro liturgico. In tutto, an- che in quello che ci sembra brutto e non è tale, ma evoca sensa- zioni sgradevoli, un verme strisciante o i l lamento della civetta.

(*) Vedi cap. VII.

146

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Ma Dio lo si vede specialmente nella bontà delle creature semplici, caritatevoli, ed umili. Quante volte uomini orgogliosi e perversi si sono commossi a l pensiero della loro madre, piena di silenzioso affetto, di umile devozione, vigilante in un angolo della casa come se volesse perdersi nell'ombra, scomparendo quando la sua persona potesse sembrare superflua ed ingom- brante, ma sempre presente ovunque un bisogno la chiamasse, dovunque ci fosse un servizio, anche il più basso, da rendere.

Noi chiamiamo belle queste anime per indicarne la perfe- zione proprio come chiamiamo bello u n corpo perfetto. Ma come abbiamo notato, senza bellezza dell'onimo non c'è nemmeno vera bellezza del corpo.

L'animazione dello sguardo rende belli i volti brutti, come pure la sua calma e semplicità. Io ricordo una piccola, vecchia signora ammalata, con un volto deformato; quando sentiva che i l sacerdote si avvicinava con il sacramento il suo volto si ani- mava. Io non posso ricordare di aver visto mai occhi più belli; ed essi rendevano così luminosa la sua faccia che essa perdeva l'apparenza di deformità e sembrava partecipare alla bellezza degli occhi; questi, a loro volta, alla bellezza dell'anima.

Difatti, l'occhio è rivelatore: perciò coscienza e rivelazione sono chiamate visione. Ed esse sono tali. Perchè sebbene la vi- sione sia velata in un specchio scuro, lo specchio è di Dio e lo riflette *nella sua bellezza.

La pratica della presenza di Dio è raccomandata da tutti gli scrittori di vita spirituale; e coloro che si abituano non solo ne hanno aiuto nel camminare rettamente nella via del Signore e nel reprimere le passioni, ma anche consolazione e conforto.

Per molti, comunque, è difficile tenere le loro menti elevate a Ilio. O perchè non ne hanno l'abitudine fin dai più teneri anni, o perchè la loro fantasia è vivace e distraente, o perchè le p~eoccupazioni degli affari, le cure della famiglia; le contraddi- zioni della vita assorbono tutta la loro attenzione, prendono tutto il loro tempo, accade che, eccettuati i momenti (forse £ret- tolosi) della preghiera mattutina e serale, essi non pensano a Dio.

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Uomini spirituali hanno l'abitudine di intercalare nella loro giornata qualche aspirazione o elevazione della mente a Dio. Molti in tempi d i sfortuna invocano Dio, la beata Vergine od i santi per protezione ed aiuto, e fanno loro ricorso anche nelle tentazioni o nei pericoli temporali.

Tutto quello che ci attira vicino a Dio è in qualche modo una visione di Lui in uno specchio. Manca tuttavia, tra molti cristiani, la visione di Dio in tutte le cose create, in tutti gli eventi fisici ed umani, in tutte le pieghe dello spirito, in tutte le verità che penetrano nell'intelletto, in tutto i l bene che arriva ad essere realizzato nel mondo, nella natura e nella grazia, nella luce e nell'oscurità, dovunque e sempre.

Non si tratta di autosuggestione destata in noi da uno stimo- lo transitorio, nè di un puro esercizio ascetico che possa se_rvire a correggere la dissipazione dello spirito, nè di una sterile giu- stificazione delle idee, come un richiamo mnemonico; si tratta invece di un abito visuale. La nostra vista è sempre intellettiva; noi non vediamo il colore verde delle foglie come puro colore e poi le foglie come linee, e così via; noi vediamo le foglie che sono verdi. Noi non vediamo le linee di un figura animale; ve- diamo l'animale con la sua linea. Foglia o animale sono giudizi generali applicati ad una complessa visione sensitiva intellet- tiva. È sufficiente un gesto, un cenno dell'occhio per compren- dere quello che la persona che ci sta davanti pensa o sente; con poco noi possiamo talora penetrare i pensieri del nostro interlo- cutore. Da una sola parola, scritta, letta o detta, possiamo arri- vare ad intravvedere nuovi mondi e verità sconosciute, proprio come il tocco d i uno strumento può fare sì che il musicista espe- rimenti o percepisca nuove realtà armoniose. Perchè temere che l'idea d i Dio connessa a tutta la nostra vita possa essere un eccesso patologico o una connessione preconcetta?

Se andiamo al fondo della questione (*), ci rendiamo conto

che questa idea è la matrice di ogni idea, il criterio di ogni concetto e d i ogni realtà, la sorgente di ogni bellezza ed attività. Come evitare che essa balzi alla nostra mente in ogni momento?

(e) Vedi cap. 111.

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E come impedire che ci illumini ad ogni passo? Perchè non c'infiamma ad ogni cognizione del bene? E perchè non ci attira ad ogni respiro d'amore?

Sfortunatament:, è vero che noi non siamo stati educati a lei. Ad un giovane, Dio viene rappresentato quasi sempre come un supervisore che lo .guarda per vedere se cade nel peccato, come un giudice che lo manderà nell'inferno se non corregge le sue abitudini, come un autore di miracoli da invocare per la guarigione della madre o della piccola sorella o della zia O

anche del maestro, come un castigatore che manda sulla terra ora guerre, ora terremoti. Io non dico questo perchè non ci sia niente di giusto in questi pensieri o perchè non si debba inspirare nei giovani il santo timore di Dio, ma per evitare d i fare di Dio un'immagine estranea.

L'educazione a l sano contatto con la natura ci porta a Dio e l'educazione alla conoscenza naturale di Dio ci predispone alla superiore conoscenza di Dio e ce lo fa amare come perfe- zione e trascendenza. La visione di Dio in ogni cosa è un'altra scienza acquisita, un altro metodo interiore di conoscenza del reale, una specie di intuizione in cui non perdiamo nulla e guadagnamo tutto.

La conoscenza è amore e viceversa; è impossibile avere l'una senza l'altra. Così, passando dalla natura alla grazia, dalla conoscenza alla fede, noi passiamo dal senso di gratitudine delle cose create a quello della filiazione soprannaturale acqui- stando una nuova vita, quella dei figli di Dio, che lo vedranno come è (Q). Non si può con parole umane dare un'idea di quel che può essere la visione beatifica; le due parole più espres- sive sono realmente queste: visione e beatitudine che formano un atto solo, quello della visione beatifica. L'idea d i visione proviene dall'affermazione evangelica che gli angeli vedono la faccia del Padre. Anche l'idea di beatitudine si trova ivi, nel- l'affermazione che i l giusto andrà dopo il giudizio nella vita

(*) Questa idea è stata espressa in una ispirata poesia d~llri nota poe- tessa italiana Ada Negri, che è morta recentemente all'età di 74 anni. Dopo esser vissuta estranea alla fede, Ada Negri vi tornò nei suoi ultimi anni con i l fervore e l'umiltà di M vero cristiano. (N. all'ed. ingl.)

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eterna, vita completa, perfetta, beatificata, perchè il beato vedrà Dio come Egli è.

Una persona non può vedere un'altra persona esattamente come essa è, a meno che ambedue non siano della stessa natura e non siano unite in intimità di affetto. Perciò Dio volle farci partecipi della sua natura divina con i mezzi della grazia che Gesù Cristo ci riguadagnò insieme al perdono col tramite del suo sacrificio sul Golgota. La grazia è i l seme della gloria perchè attraverso la grazia noi siamo fatti figli di Dio, partecipi della sua natura.

Questo figlio di Dio vivo noi ci auguriamo di vederlo col Padre e lo Spirito Santo nella gloria dell'eternità. Ogni anima beata lo vedrà secondo i l grado di gloria al quale sarà chiamata. Noi spesso diciamo che saremo soddisfatti di un piccolo angolo nel cielo, immaginando il cielo come una chiesa in cui si possa stare felici e perduti dietro una colonna o nel vuoto di una nicchia. Come ognuno nel regno, nel cielo chiunque vede Dio partecipa alla sua felicità, perchè vede Dio, e si profonda nella sua infinità; intelletto e volontà si fissano così in Dio che sarà impossibile per l'eternità distaccarsi od essere distaccato da Dio. Perchè l'intelletto creato, a contatto con Dio, impara la verità, tutta la verità; quella attraverso la quale ogni realtà è vera; la volontà creata aderisce al sommo bene, quel bene per il quale ogni realtà è bene. I1 nostro essere creato si identi- fica con l'essere divino, perchè noi siamo elevati alla stessa vita e natura di cui Dio è la sorgente. L'atto unico d i vita, verità e amore diviene la fonte della beatitudine attraverso questo contatto che non può essere chiamato che visione. Con questa parola noi evitiamo, innanzi tutto, il pericolo di con- fondere la creatura con i l creatore e di smarrire la distinzione tra Dio che è beato a causa della sua essenza infinita ed i l beato che partecipa alla sua beatitudine. Ma d'altra parte, poichè la visione è di fatto adesione e vita, si può ben dire che non siamo più noi che amiamo ma è Dio che attraverso la sua

verità ed il suo amore infinito vive in noi. E così sia.

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APPENDICE

ARTICOLI DI CARATTERE SPIRITUALE

1945-1959

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1.

MORALE AUTONOMA E MORALE ETERONOMA

Caro Giordani,

Ho letto il tuo corsivo sulle due morali nel Quotidiano del 29 novembre scorso, che per caso mi è capitato in mano. Che vuoi? è tanta la fame che ho di leggere giornali italiani che accetto anche le briciole stantie.

Vuoi permettermi di discutere la vecchia questione del- l'etica autonoma e dell'etica eteronoma? Non aver paura per i lettori del tuo giornale; più del cinquanta per cento son sicuro che mi seguiranno ; altri non avranno tempo di leggermi ovvero troveranno il tema fuori della loro prospettiva; contentati della mia presunta percentuale, e se sarà meno del cinquanta per cento, danne la colpa a me e non al tema.

Nel fare l'elencazione dei dati della morale umano-cristiana (premi e pene, rivelazione esteriore alla coscienza umana, di- sciplina autoritaria e non discutibile), Guido Calogero tende a fermarne i l carattere « eteronomo )) cioè imposto dall'esterno, da contrapporre a quello della così detta morale « autonoma D, cioè l'« auto-legge D.

Egli non ha notato che la legge morale è nella sua essenza intrinseca alla natura umana, anzi è la stessa natura umana (razionale, s'intende) che si esprime come etica. Dice san Paolo (nel mirabile cap. 7 della epistola ai Romani): Mi diletto della legge d i Dio secondo l'uomo interiore (in interiorem hominem) e vedo un'altra legge nelle mie membra che fa guerra

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alla legge della mia mente )J (*). Questa legge della mente è chiamata legge naturale o legge di Dio; essa si riduce alla legge della verità e dell'amore, termini in cui si esprime la razionalità umana; ed è perciò inerente e immanente in noi, in quanto siamo immagine e somiglianza della verità e del- I'amore assoluto, che è Dio.

Avevano perciò torto i volontaristi di certa scuola medie- vale a sostenere che Dio potesse arbitrariamente cambiare la legge morale e darne all'uomo un'altra (essi nel dire così crea- vano il fondamento all'eteronomia etica che sotto altra luce si sviluppò più tardi). Avevano invece ragione gli intellettualisti di allora, nel sostenere che la legge morale è immutabile nei suoi principi fondamentali.

La stessa legge di verità e di amore, che regola l'etica natu- rale, regola l'etica soprannaturale. Che la verità soprannaturale non sia acquisita per mezzo della ragione, ma per via di rive- lazione; che l'amore sia frutto non di natura ma d i grazia, non deve reputarsi eteronomia, perchè l'uomo, per i meriti di Cristo, è stato fatto ((partecipe, come dice san Pietro, della natura divina ». Chi crede, sa quel che io dico.

Potrei chiudere qui la mia lettera, se non ci fosse d i mezzo

i l grosso equivoco della eteronomia della legge scritta (legge sociale) nei rapporti con la legge della coscienza (legge indivi- duale). Dico equivoco, perchè, ad andare al fondo della que- stione, nemmeno qui c'è vera eteronomia, si tratti dello stato o della chiesa. Ciascun individuo può assumere tre posizioni in rapporto alla legge scritta: quella dell'adesione facendo sua la legge esistente; quella della riforma, proponendo e sostenendone le modifiche; quella della ribellione, rifiutandosi, a suo rischio epericolo, di osservarla. In tutte tre le istanze egli non fa che seguire la sua legge interiore (errando o indo- vinando dal punto di vista obiettivo), perchè l'ultimo atto, i l decisivo, per ciascuno di noi è un atto d i coscienza.

(*) Rom. 7; 22-23.

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Escludo dalle tre posizioni su riferite coloro che operano contro coscienza seguendo non la ragione (sia pure invincibil- mente erronea), ma le proprie passioni e voglie sfrenate. Non si può dire in linea di massima che violenti, lussuriosi, avari, fraudolenti siano tali per convinzione di coscienza e che si ribellino alla legge per atto di coscienza. Costoro non possono essere messi nella stessa categoria dei Maccabei che rifiutarono di ubbidire ad Antioco il quale, contro la legge ebraica, voleva obbligarli a mangiare carne porcina; nè in quella dei primi cristiani che rifiutarono di sacrificare agli idoli; neanche degli obiettori di coscienza durante le due ultime guerre; nè di coloro che sotto la rivoluzione francese o sotto il fascismo italiano rifiutarono certi giuramenti imposti' per legge. Questi ed altri si- mili a loro agirono seguendo il responso della loro coscienza e quindi si rifiutarono di obbedire alla legge positiva. Antigone ne fu il tipo classico nell'antichità pagana.

Nel caso degli obiettori di coscienza che rifiutano la coscri- zione militare e la partecipazione diretta alla guerra, i teologi non sono d'accordo nel riconoscere una legge d i coscienza su- periore alla legge dello stato, per il fatto che costoro rifiutano la solidarietà civica che è alla base della vita sociale. Ma, a parte che ci sono teologi i quali la pensano altrimenti, il pro- blema è stato risolto, nei paesi d i lingua inglese, dalla stessa legge scritta, che prevedendo il caso ne regola le conseguenze. Questa è stata una vittoria della legge di coscienza individuale sulla legge positiva d i uno stato.

Il dinamismo etico-sociale sta in questo, che l'individuo possa, con la sua iniziativa, creare il fermento della riforma delle leggi e che la società, nel suo difficile sviluppo, tra pro- gressi e ritorni, trovi il modo di adattare le leggi positive alle esigenze della coscienza individuale.

L'educazione morale deve tendere a far sì che l'individuo accetti ed esegua la legge per adesione di coscienza, ovvero lotti coraggiosamente per la sua riforma, o infine abbia il coraggio di ribellamisi quando ripugna alle sue convinzioni, sostenendo per esse patimenti e morte. Bisogna avvertire allo stesso tempo che l'individuo non presuma del suo giudizio personale. I rifor-

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matori e i ribelli non sono mai soli; ci deve essere il fermento sociale che l i fa nascere e moltiplicare. Ci saranno guide e condottieri, ci saranno idee direttive e uomini di consiglio, che possano aiutare i generosi e i ribelli per istinto a tenere i l binario della moralità, senza sovvertire la società ad ogni cinque minuti. Ma a parte i criteri di pratica soluzione, il fatto intrin- seco è' che la legge scritta è da riguardarsi eteronoma so10 quando non ha l'adesione dei membri della società; essa di- viene legge tirannica, quando i membri di data società non

l'accettano per convinzione, ma la subiscono sotto la minaccia dell'uso della forza. Diviene invece autonoma, panda i membri della società vi partecipano a farla o vi aderiscono e la fanno propria per convinzione di coscienza.

Questo passaggio dalla formulazione all'accettazione della legge è dinamico in tutti i sensi. Così una legge invecchiata, che diviene estranea al corpo sociale, o cade da sè (come è l'uso inglese) ovvero viene abrogata o rinnovata, secondo i casi. La tradizione, che si attacca così fortemente all'uso dei popoli, è fatta di questa intima adesione di coscienza, che da riflessa passa ad istintiva, da razionale a sentimentale, perchè diviene parte di noi stessi e della nostra esistenza quotidiana.

Questi rapidi accenni mi conducono ad un punto dove noi e gli avversari coincidiamo. Essi, con Kant, ingiungono all'indivi- duo d i agire come se la propria azione possa assumere carattere

,

di legge universale; noi diciamo che c'è una legge nella nostra mente, che chiamiamo legge d i natura, la quale ha carattere

universale: La tesi kantiana ha colore oggettivo, ma è evidente che non si può universalizzare solo ciò che è comune a tutta l'umanità ; la nostra tesi può sembrare troppo oggettiva, e quindi fuori dell'ambito della coscienza; ma nel fatto l'elemento co- mune a tutta l'umanità sta dentro di noi, perchè la natura (qui t

s'intende natura razionale) è concreta in noi individualmente e non esiste fuori di noi.

Purtroppo la nostra ragione non è uno strumento sicuro,

perchè oscilla sia nell'accertamento dei principi fondamentali,

sia nel processo ragiqnativo. Donde la variabilità, dentro certi limiti, delle applicazioni della legge etica universale (verità

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e amore) e il diverso modo di valutare gli stati di coscienza

e tutto quel che per tradizione ed educazione contribuisce a fissarli, scambiando spesso per razionalità quel che è pseudo- razionale o addirittura irrazionale.

I Ciò non ostante, la legge positiva anche imperfetta, quando

non ripugna alla legge di natura e non è contrastata dalla gene-

ralità deve presumersi come legge propria e autonoma della società, poichè i l legislatore non è altro che un organo di quella coscienza universale realizzata dagli individui nelle loro forme associative.

Ma la chiesa è autoritaria, ci dice Calogero: non permette nè riformatori nè ribelli; essa pretende un'adesione assoluta

che non è di coscienza. Adagio: l'adesione alla chiesa essendo

atto di fede è atto di coscienza; se non fosse atto di coscienza, per ciò stesso si sarebbe fuori della chiesa. Adesione assoluta s'intende in ciò che è fede e rivelazione: non si crede a metà,

l'atto di fede è integro e unico. Ciò che non è fede comporta discussione e critica. Non ha letto nulla Calogero delle contro- versie religiose dai tempi apostolici ad oggi? C'è stata una so-

cietà più dinamica della chiesa? C'è stata una letteratura più complessa di quella cristiana dai padri ad oggi? Certo, il prin- cipio di autorità divina e di rivelazione vi è fondamentale; non sarebbe chiesa se non fosse così, nè il cristianesimo sarebbe una religione soprannaturale. Gli avversari che negano il sopranna- turale, per conseguenza negano la struttura sociale della rive-

lazione che è la chiesa e la trattano come una organizzairione naturale che usurpa i diritti della ragione. Ma sono nel torto.

La chiesa non ammette le riforme? Ne ha fatte moltissime

in venti secoli pur restando la chiesa di Cristo. Le riforme ven-

gono imposte dall'alto? Consideri la storia e vedrà che le riforme sono fermentate tra i fedeli e poi sono sanzionate dalla gerar- chia. Ma quale società umana permette le riforme senza le san- zioni dell'autorità? Iniziativa privata? Sempre viva e perenne benchè sorvegliata, e giustamente. Chi si ribella è colpito da

sanzioni ecclesiastiche? Sicuro. Ogni società ha la sua difesa:

la civile mette in carcere o toglie la vita ; quando la chiesa par-

tecipava ai poteri civili, faceva lo stesso; da quando non vi par-

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tecipa (come oggi, ed è meglio per noi) dà pene spirituali: è nel suo diritto. Se il ribelle è in buona fede (per ignoranza in- vincibile o per altre ragioni) resta sempre nella chiesa d i Cristo.

Qualche parola sul punto messo avanti da Guido Calogero a prova dell'eteronomia della legge sociale (specialmente cri- stiana): la sanzione con premi e pene (sia in vita che dopo morte).

Non penso che egli arrivi a credere che per noi cristiani il valore etico della legge si; dato dalla sanzione. Il valore etico è in sè stesso nella legge. Se tutti gli uomini vi aderissero e l'osservassero per convinzione, non sarebbero necessari, in que- sta vita, nè premi nè pene. Ma poichè manca l'adesione e quindi l'osservanza, ovvero pur aderendovi non si osserva (video me- liora proboque, deteriora sequor), l'autorità (anche quella fa- miliare e religiosa) ricorre ai premi e alle pene. Non per questo la legge diviene eteronoma se è una legge che risponde alla natura umana ed esige razionalmente l'adesione individuale. Non credo che Calogero si preoccupi troppo di coloro che, pur essendo per istinto o per- abito ladri, sanguinari e fraudolenti, arrivano ad astenersi dai loro crimini solo perchè c'è una polizia che li sorveglia e un carcere che li aspetta, dato che fa loro difetto una' coscienza che l i richiami al dovere. La pena è una difesa sociale oltre che un mezzo legittimo per richiamare gli uomini al senso del dovere verso la società.

Ma con tale critica si mira ad altro: svalutare il cristiano che fa i l bene ed evita il male per i l paradiso come premio e. per l'inferno come castigo. Chi dice così non sa d i teologia, altrimenti saprebbe che i l cristiano che conserva affetto al pec- cato, pur non peccando materialmente per paura dell'inferno, avrà fatto un cattivo affare, perchè la sola interna affezione al peccato è già una colpa. Ma, si dice, i l cristiano può pentirsi dei peccati per il solo motivo di poterne essere punito con l'inferno; cioè per timore non per amore. È vero: ma costoro non sanno valutare quel che d i salutare e di intrinseco c'è nel timore, detto da Salomone «inizio di sapienza D; costoro ignorano la profondità della psicologia umana, . e quale sia la

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forza educativa d i un sano timore per andare verso più elevate forme d i adesione alla verità. Un Dio misericordioso che si contenta, per perdonarci, di un atto d i fede nella sua giustizia e che quindi esige la convinzione che una colpa anche di pen- siero è degna dell'eterna reprobazione, è un Dio che fa appello al nostro amore, attraverso la luce di una verità che ci si river- bera nella coscienza. Se ciò è vero, già la catarsi del peccatore è cominciata, egli arriverà all'amore, perchè, come dice san Giovanni nella sua sublime epistola prima, i l timore non sta nella carità, ma la carità perfetta manda via i l timore, perchè il timore ha in sè tormento e chi teme non è perfetto nella carità D.

Sì, dicono costoro, ma voi cristiani cercate di fare i l bene per i l paradiso; la vostra adesione al bene manca di autonomia, perchè non si perfeziona e non resta immanente insvoi stessi. Anche qui siamo di fronte più che altro ad ignoranza. I1 para- diso, il premio non è che Dio; Dio che ci ha creato e ci ha fatto partecipi alla sua natura per la grazia; egli è la nostra felicità e la consumazione della nostra vita. Dio che è la verità e l'amore per essenza partecipa a noi la verità e l'amore, cioè sè stesso.

Come si può dire che questo Dio sia estraneo a noi, che costituisca per noi un principio eteronomo che alteri la nostra personalità, che disturbi la nostra autonomia, che inquieti la nostra coscienza? In eo vivinrus, movemur et sumus; sì da poter dire con san Paolo (se la nostra adesione alla verità e all'amore è perfetta): « vivo io, non sono io, ma vive in me Cristo n.

Altro che eteronomia della legge morale cristiana: è amore, è immedesimazione di vita.

Così fosse per tutti noi.

New York, agosto 1945. tuo Luigi Sturzo

MESSAGGIO AL CONGRESSO DEGLI OPERAI CRISTIANI

Vorrei essere, oggi, in mezzo a voi, cari operai ed operaie, sentire la vostra voce, stringere a tutti la mano, rivivere i giorni in cui la mia vita era fra operai e contadini, nelle leghe, nelle

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cooperative, nelle associazioni di azione cattolica e in quelle della democrazia cristiana.

Ringrazio chi mi dà il mezzo di parlami a quattromila miglia di distanza e dirvi come il mio cuore è con voi, nell'ora

delle tristezze e delle speranze della patria nostra, nel eri odo in cui il nome e la virtù cristiana sono necessari alla ripresa della vita familiare, nazionale e sociale. Se c'è una speranza per l'umanità questa è nel Cristo, nella sua fede, nella sua legge, nel suo amore.

In un ambiente d i odi, di inaudite atrocità, di sete di ven- detta, di frodi e di ingiustizie, la parola amore deve suonare sulle vostre labbra e venire dal vostro cuore come balsamo;

sì, da voi, che soffrite spesso i tormenti del freddo e le agonie della fame, e che pur tanto per la virtù di Cristo che abita nei vostri cuori potete cantare con san Paolo il meraviglioso inno dell'amore: « L'amore è longanime, è benigno, l'amore non ha invidia; non agisce invano; non si gonfia; non è ambizioso;

non è egoista; non s'irrita; non pensa i l male; non si compiace dell'ingiustizia, ma gode della verità; soffre ogni cosa; ogni cosa crede; tutto spera, tutto sopporta. L'amore non viene mai meno D.

Quest'inno voi lo applicherete nelle vostre famiglie, nei contatti con i vostri compagni e le compagne di lavoro, a quelli che credono, a quelli che non credono, a quelli che si beffano del nome cristiano e delle leggi morali, non sapendole apprez- zare perchè non le conoscono; e non le conoscono perchè non ebbero mai l'occasione di conoscerle, perchè mai sentirono la purezza e l'intensità dell'amore cristiano. Non ci meravigliamo di loro; stendiamo una mano affettuosa quando l'occasione ci si presenta; cerchiamo questa occasione come una fortuna che ci arrivi.

Abbiamo sentito nelle nostre anime le tristi conseguenze

dell'orgoglio e dell'odio; cerchiamo in compenso i dolci effetti dell'amore.

Questo deve estendersi a tutta la classe operaia, al di là

della classe stessa, al di là delle frontiere nazionali e continentali.

Mentre'gli operai sono confederati per i loro interessi pro-

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fessionali, allacciando insieme i continenti - ( e a tale confede- razione appartenete anche voi), - gli operai cristiani d'ambo i sessi dovrebbero unirsi anche internazionalmente non per scin- dere l'unità operaia, ma per elevare i l tono morale della nuova società che sta sorgendo.

Oggi che la classe operaia va prendendo un posto di primo piano nella politica e nell'economia dei paesi vinti e di molti dei paesi vincitori, ha di sicuro aumentata la sua responsabilità (anche delle donne) nella vita pubblica. L'operaio ha due strade avanti a sè: o restare strumento passivo di demagoghi o prendere posizione attiva nella società.

Per fare ciò, l'operaio deve elevare la sua cultura morale e politica; deve formare nel proprio seno i gruppi specializzati; deve prepararsi alle lotte civili (non a quelle col manganello ovvero con il moschetto), ma a quelle delle pubbliche assem- blee, con la parola, con la stampa, col voto. Ma soprattutto cattivandosi la fiducia degli altri con l'onestà, la rettitudine morale, l'amore cristiano.

L'associazione cristiana dei lavoratori italiani non è un sindacato o una confederazione professionale, ma è un labora- torio per tale attività oggi fondamentale nella vita di un paese.

Non è una branca di azione cattolica, ma ne mantiene lo spirito cristiano fatto di fede e di amore. Non è un partito politico,

ma dà alla vita politica un largo contributo di gente convinta del dovere civico e delle nuove responsabilità della classe ope-

raia. L'associazione cristiana dei lavoratori italiani ha perciò una funzione educativa e formatrice, spirituale e attiva, si da

contribuire fortemente alla ripresa morale e sociale del nostro paese.

L'augurio che vi mando da lontano è di trovare o ritrovare rapporti con gli operai degli altri paesi, in Europa e nelle

Americhe, per un'intesa fatta di reciproca conoscenza, d i fra- temo amore, di comune attività. Non certo per fare dall'anta- gonismo fra le varie correnti operaie, ma per essere cemento di unione e fermento di vita.

A coloro dei nostri fratelli che si dicono materialisti, che pensano che tutto finisca quaggiù, rispondiamo con una sola

161 11 - STUBW - Problemi spirituali

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parola: l'amore non finisce, altrimenti non è più amore. Così, noi amiamo Cristo e in Cristo tutti gli altri senza distinzione d i razza, di nazione, di classe, di fede. Parta questa voce da Roma; risuonerà nel mondo.

New York, 9 agosto 1945. (Il Commento, n. 17, 1 settembre 1945)

CRISTO RE E L'APOSTASIA DAL CRISTO

La prevalente concezione naturalistica è alla radice degli errori moderni e dell'apostasia dal Cristo.

Molte le facce del naturalismo, dal crasso materialismo all'ossessionante attualismo. I modi più insinuanti, per la mag- gior parte degli uomini che non sono dediti alle speculazioni filosofiche e non ne possono accettare le conseguenze che siano apertamente immorali, sono quelli che ci presentano Cristo sia come il più, savio, il più mite, il più amorevole degli uomini, o ne fanno un demiurgo, un divinatore, un realizzatore del

. - benessere terreno.

Non potendo negare la storia di Cristo e del cristianesimo, ne sopprimono i l carattere soprannaturale per esaltarne le virtù naturali nel campo della morale umana e delle realizzazioni civili e sociali.

La concezione ebraica di un messia terreno che doveva restaurare il regno d'Israele (che Gesù respinse), viene ripresa da molti di coloro che escludono i l soprannaturale dalla realtà esperimentata, e riducono Cristo a semplice uomo, sia pure il più perfetto degli uomini.

I1 passaggio da questa concezione naturalistica del Cristo e del cristianesimo, ad una concezione naturale senza il Cristo e la sua religione è facile, ed è storicamente un fatto che si va generalizzando sotto i nostri occhi.

Donde l'affannarsi di apologeti maldestri e di cristianelli annacquati a dimostrare che, nel campo naturale, individuale e sociale, il benessere viene con Cristo e per Cristo, mentre egli non promise tale benessere nè come finalità della fede, nè

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come concomitanza dell'agire cristiano; anzi chiamò beati i poveri in spirito, coloro che piangono, coloro che soffrono per- secuzioni per la giustizia; comandò di prendere la croce a segnale; disse che mandava i suoi come agnelli in mezzo ai lupi; affermò che sarebbero stati odiati come odiato era stato lui stesso. E nel campo delle previsioni politico-sociali, previde guerre, rivolte, disastri e la lotta finale dell'anticristo.

È vero che ingiungendo di cercare per primo il regno d i Dio e la sua giustizia affermò che le altre cose (cioè i beni necessari alla vita temporale) non sarebbero mancati; ma ciò sarebbe derivato da una confidenza filiale nella provvidenza, che ha ordinato la vita naturale alla vita soprannaturale.

I1 finalismo unico e inderogabile per tutti è i l regno di Dio e la sua giustizia, che si ricapitola in Cristo uomo-Dio. La realtà vera non è la natura ma il binomio: natura-soprannatura, del quale l'unione ipostatica in Cristo è il sublime e infinito prototipo.

Ogni separazione nel Cristo dell7uÒmo da Dio, come ogni separazione nell'uomo della natura dalla soprannatura, ci fa cadere nell'irreale; perchè non esiste un Cristo solo uomo, come non esiste l'uomo solo natura. L'umanità in Cristo è assunta dalla divinità, la natura nell'uomo è elevata dalla grazia. Anche quando manca nell'individuo la grazia abituale, non manca la elevazione di tutta l'umanità implicita nel Cristo. L'individuo che senza sua colpa non conosce Cristo, è nella sfera del soprannaturale nella misura della sua rispondenza alla legge morale e al culto divino; l'individuo che per sua colpa si è distaccato dal Cristo, ha sempre la vocazione per i l ricongiungimento e la grazia per potervi corrispondere.

L'umanità fin dal primo inizio dell'elevazione alla grazia con Adamo, vive nell'atmosfera del soprannaturale.

Cristo venturo o Cristo venuto è al centro del cammino degli uomini per il suo regno, « che non è di questo mondo » (*).

Roma, 27 ottobre 1946. Festa di Cristo Re. ( I l Regno, n. 9, 1947)

i*) Pubblicato con i l titolo « I1 suo regno non è di questo mondo o.

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u IL REGNO DI DIO È IN MEZZO A VOI

Leggendo l'articolo di padre Lombardi « I1 ritorno di Cristo D, viene d i ricordare la gioia di Paolo a sentire le buone novelle delle comunità cristiane che gli portava Tito.

Non direi che Cristo ritorna, ma che noi ritorniamo a Cristo. Egli non ci ha mai lasciato; ci è venuto dietro nel nostro er- rare, come il buon pastore in cerca delle pecorelle. Noi, pur- troppo, siamo sempre i soliti uomini pieni di incertezze, di pas- sionalità, d i colpe, che torniamo a Cristo con la penitenza e che ci allontaniamo da Lui con la superbia; poi ritorniamo attra- verso il dolore e poi ce ne stacchiamo per aderire disordinata- mente ai beni terreni. Quanti non si fanno illudere dai nemici d i Cristo che negano Dio e l'immortalità dell'anima in nome della scienza? che negano la regalità di Cristo in nome del lai- cismo statale? che negano la fraternità umana in nome del tota- litarismo? Tutti i traviati possono ritrovare Gesù; Egli l i at- tende.

Un protestante, dopo avere partecipato al trionfo eucaristico del congresso di Chicago, osservava che tanta esplosione di fede non segnava un reale miglioramento nella moralità degli ameri- cani, anche cattolici. Egli guardava il problema dall'angolo strettamente umano, ma non valutava ( e non 10 poteva), il la- vorio della grazia nell'intimo delle anime; egli non ricordava che quel che è temporale è visibile, quel che è spirituale è invi- sibile, come osserva san Paolo. D'altro canto, l'appello alle ani- me è fatto attraverso tutte le fasi della vita, individuale e col- lettiva, in tutti i modi d i esprimerci e comunicarci vicendevol- mente, ma principalmente a mezzo della parola, di quella detta ali'orecchio e di quella predicata dai tetti alle folle, come quel- le che seguivano Gesù nei tre anni della .sua vita pubblica.

Ma non ci illudiamo che sia sempre e dappertutto il giorno delle u palme » e degli « osanna » ; vengono anche i giorni del u crucifige » e degli u improperi ». Così allora, quando i l figlio dell'uomo viveva su questa terra e dava il suo prezioso sangue u per i molti ; così ieri e oggi e sempre.

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Nè si dica che Gesù ritorna solo nelle acclamazioni delle folle, Gesù è sempre in mezzo a noi; perfino le folle macchiate del deicidio ritornarono dal Calvario « battendosi i l petto D.

Così si perpetua nei secoli la presenza di Gesù sia nel se- greto della cella, sia nel tumulto delle piazze; sia nel pacifico convivere delle famiglie e dei popoli, sia nei conflitti e nelle lotte; sia nei trionfi visibili con i quali Dio conforta la debole umanità, sia nelle persecuzioni violente, con le quali Egli prova '

i suoi fedeli.

Roma, 16 novembre 1947. (La Rocca, 1 dicembre 1947)

CRISI MORALE DI OGGI

Molti credono che la crisi morale d'oggi, o dell'anima contemporanea, sia eccezionale, che non abbia riscontri nel passato. Può darsi; storicamente l'affermazione sembra conte- stabile; nel fatto c'è una crisi? La frase assomiglia all'altra: epoca di transizione, che può applicarsi a tutte le epoche, accusando ciascuna un passaggio, perchè la storia è un processo. Siamo noi che diamo al processo un termine da e un termine a, . per caratterizzarlo in modo da poterlo comprendere, se non ci capita di falsificarlo.

Parlando della crisi d'oggi, la fissiamo come crisi morale; ma non è diversa dal « cuncta cogitatio cordis intenta essent ad malum omni tempore n del Genesi, è i l « non est qui faciat bonum, non est usque ad unurn)) del salmo 13. Si tratta di precisare il tipo d i male e la mancanza di bene che caratteriz- zano l'epoca, o che saltano di più agli occhi.

La prima nota della crisi d i oggi deriva dalla mancanza di fede nel soprannaturale. Più che la crisi d i anime singole, è questa una malattia generalizzata in molti strati sociali mano a mano che la società, come attività associata dei singoli, si è andata basando sopra valori esclusivamente naturali, e, per

'processo di deteriorizzazione, con prevalenza sul piano degli interessi materiali.

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Non si può dire che questa sia crisi nuova e unica nel suo tipo. A parte le epoche precristiane, anche nei due millenni

dalla venuta di Cristo possiamo individuare periodi storici d i popoli intieri che praticamente abbandonarono i limiti etici della morale naturale. Pure non mancavano, come non mancano

oggi, esempi di santi, zelo di pastori, predicazione di dotti, attività di fedeli, bontà naturale di non credenti.

Quel che caratterizza la perversione etica di oggi è la man- canza del senso del peccato, e in ciò la differenza può dirsi marcata fra la decadenza etica della società del rinascimento e quella del secolo ventesimo. Allora faceva presa la teoria della doppia verità, dalla quale derivava quella della doppia moralità; oggi invece non c'è più ricerca di verità obiettiva, da parte d i coloro che rifiutano il soprannaturale, e quindi l'etica per essi non ha che un puro valore convenzionale asso- ciativo. Allora potè avere posto, apparentemente rigettato ma realmente seguito, Machiavelli e i l suo Principe; oggi vi hanno posto i superuomini alla Nietzsche e i sub-uomini alla Sartre.

Se costoro e i loro seguaci non fossero simboli di una realtà largamente diffusa, non meriterebbero di essere- citati; più che la loro influenza individuale sui contemporanei, e se hanno vitalità intrinseca, anche sui posteri, vale la loro potenza inter- pretativa di larghe correnti di stati d'animo viziati da quell'im- moralità, che costoro esprimono nelle loro concezioni teoriche.

In sostanza, il naturalismo negatore del soprannaturale di- viene negatore della stessa moralità naturale, e cade nel tita- nismo del superuomo per i privilegiati e i dominatori e nel- I'edonismo individualista che non ammette limiti alle proprie soddisfazioni.

Questo processo non rimane mai nell'ambito di coloro che

moralmente o anche praticamente si mettono fuori legge, ma

penetra la struttura sociale, sì che difficilmente vi fanno argine quei codici che ancora sono basati sull'etica naturale illuminata dalla tradizione cristiana. 3

Siamo sulla soglia di un'apostasia collettiva. Un distacco - in certi casi graduale e costante, in altri come rottura del

passato - caratterizza la crisi d i oggi, che dal campo culturale

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e dalle larghe zone individuali è penetrata nella struttura so- ciale. Da qui le dittature totalitarie (siano esse favoreggiatrici della chiesa o persecutrici d i ogni fede); da qui la tendenza prevalente di una scuola laica e contraria ad ogni concezione del soprannaturale; da qui infine l'abbassamento dei limiti etici specie per la famiglia; da qui la imperversante licenza dei costumi che infesta l'educazione delle generazioni nascenti.

Se questo fosse l'unico quadro della crisi, ci sarebbe da dispe- rare. I1 male è più visibile del bene in ogni tempo; volte

ho tentato di fare una collezione di descrizioni di predicatori sulle crisi religioso-morali dall'inizio del cristianesimo fino ad oggi, a cominciare dal libro dell'Apocalisse, passando per i padri san Giovanni Crisostomo~ san Basilio, san Girolamo (la cui celebre frase che tutto i l mondo era divenuto ariano potrebbe

ripetersi oggi), fino ai giorni nostri. Pure, ieri ed oggi, che copia di santi, che slancio di attività, che ondata di misticismo, che

incendio di carità; e allo stesso tempo quanta cura a difendere e a diffondere la verità, sia nel campo della filosofia e specu- lazione naturale, sia in quello religioso soprannaturale. Ogni tempo ha i suoi mali, ogni tempo i suoi rimedi.

Quella che da un secolo ad oggi è mancata in molti è stata la percezione di un fatto importantissimo, che andava maturando sotto gli occhi dei nostri padri e che si è meglio compreso nell'ultimo quarantennio: la presa di possesso della società da

parte dello stato come suprema espressione della vita collettiva, come il detentore incontrastato di ogni potere, come la reale fonte di diritto. Sia lo stato poggiato sul popolo sovrano, sia lo stato ipostatizzato come la suprema realizzazione dell'a I- dea »; sia lo stato come unica espressione della nazione deifi-

aata; tanto in teoria che nell'organizzazione pratica lo stato ha assorbito in sè la società ed ha annullato, per quanto possi-

bile, i l valore personale degli uomini operanti in società. Non potendo annullare la chiesa come società soprannaturale e au- tonoma, l'ha assoggettata, tentando di limitarne la funzione in base alla falsa teoria che la religione sia un semplice affare.

La maggior parte dei cattolici per lungo tempo si tennero lontani dalla vita politica, ovvero non seppero influire sullo

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sviluppo pratico delle concezioni statalistiche aberranti; le combatterono con metodi culturali che non arrivavano agli av- versari nè influivano sulle correnti politiche in voga. I tenta- tivi di valorizzazione democratica cristiana, da Lacordaire, Ozanam, padre Ventura in poi, o furono malintesi o furono violentemente avversati e non trovarono comprensione.

Mentre lo statalismo faceva passi da gigante tanto con la de- mocrazia che con la reazione, molte zone cattoliche riponevano fiducia più nelle dittature, da Napoleone Bonaparte a Hitler, che nella democrazia, tardando a intervenire quando le masse ope- raie andavano verso i partiti di sinistra che si presentavano quali rivendicatori dei loro diritti e interessi, pur essendo anch'essi in fondo.statalisti e totalitari.

Oggi che i l pericolo bolscevico ha esasperato la concezione totalitaria dello stato e quella demagogica del popolo sotto aspetto di democrazia progressiva n, i cattolici hanno com- preso meglio di prima il dovere di partecipare alla vita politica, non solo per la difesa della nazione e dell'ordine sociale (spiri- to di conservazione), ma anche per la elevazjone della persona- lità umana, la reintegrazione della natura nel soprannaturale, la giustizia sociale fra le varie classi, non che (cosa ancora non perfettamente chiara per coloro che sono affetti di statalismo legislativo, politico ed economico) la trasformazione dello stato, che da accentratore e oppressore (specie nel campo della fami- glia, dell'educazione e della scuola) deve divenire stato libero, decentrato e rispettoso dei diritti della personalità umana e d i quelli dei nuclei sociali.

Anticamente le eresie e gli scismi, che in sè maturavano non solo i problemi spirituali e religiosi ma anche quelli organizza- tivi e sociali, si ponevano sotto l'aspetto teologico; la lotta era dentro la chiesa ma influiva al di Cor i nella società politica del tempo.

Oggi le questioni politiche ed economiche maturano in sè problemi spirituali e religiosi, la lotta è dentro lo stato, ma influisce al di"fuori nella stessa vita religiosa e organizzativa del- la chiesa.

Poichè il centro non solo degli affari e degli interessi tem- porali, ma della cultura, della giustizia sociale, dell'educazione,

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dell'assistenza, di tutto i l complesso della vita collettiva, è oggi nello stato, bisogna che dentro e non fuori di esso i cattolici portino il loro spirito di conquista trasformatrice e l'efficacia della loro personalità plasmata dalla concezione soprannaturale della vita. Se la società di oggi accentra nella politica gran parte di interessi e di valori sociali, e se lo stato tende a far dei citta- dini i sudditi di un potere anonimo o gli schiavi d i un dominio dittatoriale, è dovere dei cattolici portare la loro attività nella politica e tendere a limitare l'onnipotenza dello stato, per la tutela dei valori che lo stato non può nè deve assorbire in sè, nè sottomettere al suo incontrastato dominio.

Non è solo l'uomo individuo, ma la società stessa che esiste e si muove in un'atmosfera di soprannaturalità. Occorre che questo mondo del soprannaturale sconosciuto o dimenticato, ignorato o disprezzato, venga cercato, compreso e vissuto per virtù dei credenti. Come oggi fanno gli scienziati nella ricerca e captazione delle forze cosmiche e i tecnici nella loro continua- mente nuova utilizzazione di tali forze, così si deve fare del mondo soprannaturale, che per molti non esiste più o non è mai esistito.

Roma, 17 aprile 1948. (Città di vita, anno 111, n. 3, 1948)

6.

MORTE E RESURREZIONE

La morte subita al cospetto di tutti, una morte in mezzo a tormenti sul legno della croce, provò per sempre a tutti che Gesù era uomo.

I miracoli potevano far dubitare che egli fosse anche uomo. L'arcangelo Raffaele aveva preso l'aspetto di Anania e alla fine della missione poteva dire a Tobia padre e figlio: « A voi sem- brava che io iangiassi e bevessi, ma io ho u n cibo invisibile e una bevanda che gli uomini non possono vedere ». Gesù, dopo esser vissuto da uomo, morendo diede prova definitiva della sua umanità.

Ma Egli doveva rendere testimonianza alla verità, perciò era stato mandato. E risorgendo diede la testimonianza definitiva

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che Egli, perchè anche Dio, aveva potestà di smettere i l suo corpo, con la morte, e di riprenderlo riunendolo alla sua anima, con la resurrezione.

In questi due sublimi momenti è compiuta la redenzione umana col sacrificio e con la glorificazione del Figliolo del- l'uomo.

Per tanta virtù, è data a noi la incorporazione in Cristo me- diante i l rito che ci fa passare misticamente dalla morte del pec- cato alla resurrezione della grazia.

Tale morte e tale resurrezione spirituali, sono alla loro volta simbolo e preparazione di quel passaggio da questa all'altra vita, per il quale ogni uomo avrà separata l'anima dal corpo, che poi saranno insieme ricongiunti per la resurrezione finale.

Ma, come l'uomo può per sua volontà rifiutare l'incorpora- zione in Cristo e la resurrezione ,deilo spirito per la grazia, .così può egli rifiutare che la morte fisica sia il passaggio alla parte- cipazione con Cristo nella vita futura, preferendo la « seconda morte » di cui parla Giovanni l'Evangelista. Per costui la resur- rezione dei corpi non sarà, purtroppo, resurrezione di vita eterna.

Solo quella che conduce alla vita eterna può dirsi e sar i vera resurrezione.

Stolto! - esclama san Paolo - quel che tu semini non prende vita se prima non muore; e seminando non semini il corpo che deve venire ma un nudo granello di frumento o di qualche altra cosa. Ma Dio gli dà corpo nel modo che a Lui piace e a ciascun seme il suo proprio corpo ... Così pure la resurrezione dei- morti. Si semina corruttibile, sorgerà incor- ruttibile; si semina ignobile, sorgerà glorioso ; si semina debole, sorgerà robusto; si semina un corpo animale, sorgerà un corpo spirituale ... ».

Ed è un corpo, il vero corpo, corpo perenne come è vero e perenne corpo quello di Gesù risorto e glorioso.

Ha ragione di dire san Paolo che se Cristo non fosse risorto, neppure noi risorgeremmo, onde sarebbe vana la nostra fede e noi saremmo i più infelici degli uomini. Ma la fede ci dice il contrario ed egli esclama con gioia: « Cristo è risuscitato da morte, primizia dei dormienti », e Cristo a trasformerà il corpo

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della miseria nostra sì che sia codorme al corpo della sua gloria, ciò in virtù del potere per i l quale può a sè assoggettare ogni cosa D.

L'inno che Dante mette in bocca a Tommaso d'Aquino, nel XIV canto del Paradiso, per la riunione delle anime beate ai loro corpi, è tal sublime poesia di fede e di amore che var- rebbe la pena di rileggerla in un giorno di letizia quale quello della resurrezione del Cristo.

I cori celesti in gioia indicibile risposero a Tommaso con un « Amen-Cosissia », mostrando quel desiderio dei loro corpi che non potrà essere estinto neppure nel cielo se non verrà pienamente soddisfatto.

Tanto mi parver subiti ed accorti ' E l'uno e l'altro coro a dicer: Amme!

Che ben mostrar disio de' corpi morti; Forse, non pur per lor, ma per le mamme, Per li padri e per l i altri che fuor cari, Anzi che £osser sempiteme fiamme n.

Dio ci ha dato, col corpo, un organo di vita, di sensibilità, di pensiero e di amore che risponde ai fini del creato, e ce ne ha reso, con la grazia, possibile la glorificazione.

Sta a noi pacificare il contrasto fra la legge della materia e quella dello spirito, in virtù della grazia ottenutaci da Cristo morto e risorto; sta a noi portare il nostro corpo, sottoposto alla ragione e alla grazia e provato dai dolori, alla gloria dell'u- nione perenne-con la nostra anima, nella visione bea t iha di Dio.

( I l Quotidiano, 17 aprile 1949)

DIO E POPOLO » (*)

Quando Mazzini fissò il suo. ideale nel binomio « Dio e

popolo n, molti cattolici vi furono avversi. Oggi che, al di fuori delle implicazioni storiche dell'epoca, « Dio popolo D ha un

(*) Estratto dalla pubblicazioiie Mazzini, a cura del comitato nazionale per le onoranze, edita in occasione dell'inaugurazione in Roma del monu- mento nazionale, il 2 giugno 1949.

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significato accetto ai cattolici, i mazziniani han fatto cadere in disuso i l numero uno, che è Dio, lasciando solo in vita i l numero due, che è il popolo.

Però, quando si affermano come propri ideali la giustizia e la libertà, se questi nomi sono veramente intesi, volere o no Dio vi è implicitamente riconosciuto, perchè non vi è giustizia che non abbia la sua base nella legge di natura, di cui Dio è l'autore; nè vi è libertà che sia o possa essere priva di intrinseca moralità, la cui base è nella personalità umana.

Non si può ricordare degnamente Mazzini senza mettere in rilievo il fondamento etico-religioso del suo pensiero politico, che tendeva ad un laicismo che non fosse privo di spiritualità, e ad una politica che non mancasse di moralità.

Maggio 1949.

IL SIGNIFICATO DELLE PERSECUZIONI

Basta uno sguardo sui venti secoli della storia cristiana, per confermarci che mai son cessate le persecuzioni contro il nome e la chiesa di Cristo.

(C Ecco io vi mando come agnelli fra i lupi », disse Gesù ai suoi apostoli e discepoli; e aggiunse: « siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe ». Non volle che i suoi si appoggiassero ai presidi umani, e promise loro la sua pre- senza « fino alla consumazione dei secoli D. Tradotti davanti ai tribunali, prescrisse di non pensare a quel che dovevano dire, perchè lo Spirito suggerirà le risposte; e a Pietro, (sulla quale pietra Gesù volle edificare la sua chiesa) disse di con- fermare i fratelli ».

La presenza di Cristo, l'ispirazione dello Spirito, la voce ammonitrice e sostenitrice di Pietro, ecco quel che fu dato alla chiesa, pastori e fedeli, per poter resistere alle perse- cuzioni.

Di fronte a questo presidio di fede e di virtù divina, può darsi che fra i fedeli vi siano quelli « di poca fede » che u du- bitano D, ma la chiesa non dubita. Usa i due mezzi indicati dalla prudenza e della semplicità. I1 resto è storia, concatena-

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zione d i fatti, i l cui significato può restarci occasionalmente oscuro, ma per fede chiaro, in quanto Gesù affermò che « i l mondo lo odiava perchè egli era la testimonianza delle opere malvage del mondo n.

* * * In ogni persecuzione, dalla giudaica del primo apostolato a

quelle generali e sistematiche dell'impero romano e così di secolo in secolo fino alle presenti, è sempre il rappresentante del potere politico che ne prende la responsabilità i n nome della legge.

È Pietro che, insieme a Giovanni, pose per i l primo in confronto le due leggi, quella di Dio e quella degli uomini, quando rispose al sommo sacerdote e ai capi di Gerusalemme che avevano intimato «con minacce di non parlare più di quel nome (Gesù) ad anima viva D. La risposta di Pietro è prudente e semp1ic.e: (C Giudicate voi stessi se sia giusto davanti a Dio ubbidire a voi anzi che a Dio D. Infatti la chiesa non ha cesiato e non cesserà di ubbidire a Dio più che agli uomini.

Non sono pochi coloro che vorrebbero una chiesa docile e sottoposta ai poteri civili, al monarca di un tempo e allo stato di oggi. Non son pochi che rimproverano alla chiesa sete di dominio. L'accusa più,usuale è che la chiesa invade il campo della politica la quale è competenza dello stato. Tale accusa fu fatta dai sacerdoti nel condurre Gesù davanti a Pilato: (C Ab- biamo trovato costui che sobillava la nostra nazione e vietava d i pagare il tributo a Cesare, mentre diceva di essere lui i l Cristo re 1).

Le persecuzioni contro la chiesa hanno un solo motivo: la ragion di stato. I fedeli, i vescovi, il papa son nemici dello stato, sobillano i sudditi, si elevano a maestri, insegnano la di- subbidienza alle leggi statali, condannano le teorie sulle quali si basa 10 stato, influiscono a disgregare la compagine statale.

Sia lo stato, monarchico e assolutista, sia lo stato dittatoriale totalitario, sia lo stato liberale e democratico, lo stato inal tol- lera l'inserimento nella società di un potere spirituale come quello della chiesa, che per sua natura incide nella concezione etica giuridica e sociale della vita terrena.

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Vi son .due tendenze tipiche di ogni collettività: quella dell'omogeneità sociale e quella dell'unificazione dei poteri. Per la prima, si tende ad espellere il dissidente, l'autonomista, il superiore alla media comune, il profeta che non è accetto nella patria, il genio che eccede sugli altri e crea gelosie, chiunque non osserva i costumi, le tradizioni, le abitudini comuni. Costui è reo di fronte agli altri, sia Socrate, sia Gesù Cristo.

Gli stati dittatoriali e assolutisti non soffrono le offese alla omogeneità anche religiosa. I romani, che erano tolleranti d i tutte le religioni, escludevano la cristiana, perchè la cristiana escludeva ogni altra religione. Quasi tre secoli d i persecuzioni occorsero perchè i l mondo romano ammettesse il culto pubblico cristiano che da allora divenne prevalente.

Gli ariani volevano indurre i l mondo a divenire ariano; così i mussulmani; così i protestanti; cosi i liberali; cosi i fascisti, i nazisti, i comunisti. Appena arrivano al potere im- pongono l'omogeneità del proprio colore: i1 dissidente è un

nemico da ridurre all'impotenza, da eliminare.

L'omogeneità dei sudditi, o meglio, il livellamento, è mezzo per l'unificazione del potere. I1 potere politico non ammette

concorrenti (anche spirituali), non vuole diarchie (anche mo- rali); tende al monopolio che suole essere presentato, eufemi-

sticamente, come unificazione N. Al tempo della riforma, per far cessare le rivolte e le guerre e superare il problema delle

inabilità civili, si arrivò a fissare un principio erroneo (che servì come mezzo di pacificazione provvisoria) : cuius regio

illius et religio, cioè che la religione dei sudditi doveva essere quella del principe, e quindi si permise la emigrazione in cerca

del principe della stessa fede, oppure si accettò la inabilità civile in compenso della tolleranza del proprio culto. L'omo-

geneità religiosa doveva essere garanzia dell'omogeneità politica e questa incentrata nel principe (assoluto s'intende) per la unificazione in lui di tutti i poteri.

I principi cattolici (dato il clima del tempo) favorivano

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le teorie gallicane e febroniane per mantenere nelle loro mani unificato il potere politico anche sulla chiesa.

Si sperò che il regime d i tolleranza prima, e quello liberale dopo, avrebbero. fatto cessare il motivo delle persecuzioni politiche contro la chiesa. Ma gli istinti della omogeneità na- zionale e della unificazione del potere soverchiarono tolleranza e libertà: la rivoluzione Gancese, degenerata nel terrore, fu intollerante e usò largamente della ghigliottina e arrivò agli eccidi in massa. Napoleone usò arti diplomatiche e violenze caporalesche contro cleri e contro il papa, che tenne prigio- niero., proprio per l'ossessione del conformismo osannante e ,

della unificazione dittatoriale. Persecuzioni in nome della libertà e della democrazia e

della cultura si ebbero nellYEuropa del secolo scorso, nessun paese eccettuato. Fra le più famose, i l Kulturkampf in Ger- . mania, il combismo i n Francia e la massoneria in Italia.

Una differenza notevole è da rilevare fra ' l e persecuzioni europee di prima e dopo la rivoluzione francese. Le prime avevano un motivo religioso, sia apparente, sia occasionale, sia realmente sentito: poteva essere la difesa della religione dei padri, uvvero la difesa di eresie credute e sostenute come verità, o un complesso di riforme ecclesiastiche e rituali, e simili; dalle due parti si ammettéva un sistema di verità reli- giose, una forma di soprannaturale e la credenza nella divinità.

Dal giorno in cui i l naturalismo prese piede, simboleggiato a Parigi nel culto della dea ragione, ogni persecuzione, anche se vestita di motivi politici e di finalità nazionali, ebbe i l carattere della rivolta contro i l soprannaturale. E poichè una credenza naturalistica d i Dio (anche se affermato come l'Essere Supremo) degenera nel panteismo, così la lotta contro la chiesa fu impostata fra naturalismo puro e- sopramaterialismo, e non poteva non degenerare nella negazione di Dio.

Quando la persecuzione era promossa da governi borghesi, la negazione di Dio non si concretizzava in un movimento ateo organizzato a carattere politico, ma si cercava da un lato di

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informare la cultura e l'educazione del paese all'indirizzo ma- terialista (sotto il pretesto dello scientismo o del positivism~) sì da formare un ambiente detto eufemisticamente laico, in fondo anticristiano. Per impedire la contro-formazione cri- stiana (cioè per ubbidire all'istinto dell'omogeneità) la lotta veniva portata sul terreno della scuola. Insomma, l'ateismo c'era nell'indirizzo laico, vestito di tollerante intolleranza, con fondo anti-cristiano. Fino a che potevano funzionare u gli ac- corgimenti e le coperte vie » mostrando rispetto a vescovi e a papi, la persecuzione rimase allo stato latente, effettiva ma temperata, in profondità, senza disturbi alla superficie. Ma quando un motivo politico ne attualizzava la portata, allora i l confIitto scoppiava.

Per fortuna, la valvola della libertà, l'interessamento popo- lare, la necessità dell'apporto elettorale dei cattolici ai cosi- detti partiti dell'ordine, facevano trovare quei compromessi che la chiesa, pur protestando e senza ledere i principi, mai ha rifiutato e mai rifiuta, per arrivare alla pacificazione degli animi.

È stata la Russia bolscevica a promuovere i l movimento ateo e a favorirlo in tutti i modi. Dato il regime dittatoriale, se Mosca non avesse voluto,' l'ateismo non sarebbe mai stato orga- nizzato, nè avrebbe conquistato terreno.

È vero che in Russia le masse di provincia e di campagna han sostenuto nel loro cuore la fede cristiana dei padri; è vero anche che in determinati momenti della politica bolscevica vennero riaperte alcune chiese e ricostituita una gerarchia ad- domesticata (Napoleone fece scuola); è vero anche che la Russia, estendendo le sue quinte colonne in paesi cattolici e, in seguito alla guerra, occupando paesi cattolici quali la Polonia, l'Ungheria, la Cecoslovacchia, parte della Germania, la Transilvania, avrebbe voluto, con la politica della mano tesa, asservire o compromettere la chiesa cattolica; ma lo spirito dei capi, il tenore della dottrina e la politica totalitaria comunista, portano alla negazione d i ogni organizzazione che in nome di Dio possa rivendicare dottrine proprie e propri diritti.

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Se può dirsi che non ci sia un ateismo teorico, perchè l'uomo o crede in Dio o fa Dio sè stesso e le opere che egli attua, i l vero dilemma religioso è sempre fra teismo e pan- teisnzo. La formula negativa e pratica, quella dell'ateismo, serve a mascherare i l panteismo organizzato nelle dittature, siano borghesi, siano proletarie. Fu panteista il nazismo di Hitler; fu panteista il bolscevismo di Lenin; è panteista il comunismo di Stalin. Sarebbe stato panteista ( e lo era in fon- do) i l fascismo di Mussolini; ma egli preferì un'intesa, sia pure condizionata, con la chiesa, fino al giorno in cui entrò nell'ambito del razzismo e del panteismo hitleriano che lo perdette.

Le persecuzioni che la chiesa cattolica ha sofferto e soffre da dopo la guerra in poi. in Jugoslavia, Albania, Romania, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, non hanno altre caratteri- stiche che quelle preannunziate da Gesù Cristo, quelle che ha sempre sofferto e soffrirà in avvenire. È la negazione della fede in Dio per far Dio sè stesso.

I pastori e i fedeli che resistono avranno il premio di vita; le popolazioni che pregano avranno il conforto interno della fede, della speranza e della carità; quelli che cercano di aiu- tare i perseguitati avranno la lode del samaritano; le popola- zioni tutte saranno fecondate dai dolori e dal sangue dei mar- tiri; la chiesa « ai trionfi avvezza », proverà ancora una volta la promessa a Pietro «che le porte d'inferno non prevarranno)).

Roma, 18 luglio 1949.

PER I NOSTRI FRATELLI DOPO LA CONDANNA

Se Gesù in croce pregò il Padre di perdonare i suoi croce- fissori perchè ignoravano quel che facevano; noi, figli di Dio, dobbiamo fare lo stesso per i nostri hatelli comunisti: essi ignorano quel che fanno.

La chiesa, nel riconfermare nei loro confronti la disciplina ecclesiastica di condanna, ha agito sempre da Madre. Come il divino Fondatore, essa non vuole che periscano, ma che si

12 - S T ~ B Z O - Problemi spi.rituatì

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salvino. La condanna è un avvertimento per tutti, ma è un richiamo per i colpiti.

Noi ignoriamo quel che si opera nelle coscienze d i ciascuno: quel che è spirituale, dice san Paolo, è invisibile. Ma siamo sicuri che in molti la condanna ecclesiastica opererà a loro salvezza, mentre in altri opererà a loro perdizione.

La nostra preghiera a Dio, preghiera viva e operante perchè poggiata sulla fede, deve essere accompagnata da penitenze per noi stessi e per loro, e più che da particolari penitenze (piccole o grandi privazioni offerte con generosità), da spirito di penitenza, perchè tutti abbiamo peccato e i n tutti c'è una più o meno larga responsabilità di colpe per quel che oggi succede nel mondo e quindi per la deviazione d i milioni di uomini dalla fede in Cristo.

Quando giorni fa sentii dire che un cattolico dubitava se aiutare o no una famiglia o un fanciullo perchè erano comu- nisti, me ne rattristai di cuore. « La carità non agisce invano n, scrive san Paolo nel suo sublime inno alla carità che è nella prima lettera ai Corinti. Ogni atto di carità è accetto davanti a Dio, che « fa spuntare il sole sui buoni e sui cattivi n. .

Conosco un paesino che parecchi anni fa era rosso, e forse lo è tuttora (politicamente parlando). Ma c'è questa differenza : quando certe suore vi andarono per impiantarvi un laboratorio e altre opere assistenziali, furono accolte a sassate, e per

più d i un anno furono insultate e ostacolate nel lor lavoro. Risposta: tranquillità, fiducia in Dio, silenzio; molto lavoro e poca messe. Dopo tre anni, quasi tutte le bambine del vil- laggio andavano alle loro scuole; le suore hanno dovuto am- pliare i locali per riceverne da altri paesi. E potrei aggiungere molti dettagli edificanti, che provano come Dio abbia bene- detto il loro sacrificio.

Uomini di poca fede, perchè dubitare? Certe volte mi viene da piangere, su di me e sugli altri, a l pensare quanto tempo e quante energie sciupiamo a urtarci, contraddirci, dissiparci; e quanto poco contribuiamo alla edificazione comune. Come siamo inclini a trovare appoggio negli uomini e come poco pensiamo a trovarne in Dio: a: Meglio confidar nel Signore che sperare negli uomini », canta il salmista.

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E noi speriamo nel Signore, e perchè speriamo 10 dobbiamo pregare, e perchè speriamo dobbiamo lavorare in spirito d i carità al bene dei nostri fratelli, quel piccolo bene che ci è dato d i fare.

Coloro che o non sanno o non possono o non arrivano a fare alcunchè di pratico a bene dei fratelli traviati e delle loro famiglie, si accendono di desiderio di voler fare qualche cosa. I1 desiderio davanti a Dio è come un grido che sale al cielo, acriveva il celebre Bossuet. E il Signore questi gridi li sente e se ne compiace.

Roma, 5 agosto 1949.

PRESENZA DI CRISTO NELL'AZIONE SOCIALE

In tutto ciò che si desidera e si fa per amore del prossimo Cristo è presente. Nè potrebbe essere altrimenti, dato che il vero amore del prossimo è atto di amore di Dio. « Se ci amiamo l'un l'altrò, Dio abita in noi, e la carità di Lui in noi è per- fetta » scrive san Giovanni nella sua prima epistola.

Questa verità ci dà la norma per valutare, se e come sia presente Cristo nell'azione sociale, alla quale da sessant'anni i papi hanno indirizzato i cattolici di tutto i l mondo.

Per fare una simile valutazione, occorre esaminare i vari fattori dell'azione sociale e le diverse posizioni assunte da coloro che vi sono chiamati o se ne sono interessati.

I1 fattore fondamentale dei rapporti umani è la giustizia; dove manca la giustizia, manca allo stesso tempo l'amore. La questione operaia, resa acuta fin dal secolo scorso dall'inci- piente industrializxazione, non sfugge ai caratteri d i giustizia dei rapporti fra lavoratori e datori di lavoro. L'intervento della chiesa e dello stato, morale il primo, legislativo e integrativo il secondo, è basato sulla giustizia e mosso dal dovere d i aiutare il debole, perchè il forte non sopraffaccia, e perchè il ribelle non acuisca i mali sociali col disordine.

Al di là dei rapporti di pura giustizia esistono attività pro- mosse e sostenute, sia da privati sia da enti pubblici, che ten-

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dono a fare opera integrativa nel campo economico e in quello educativo e morale.

Si chiami beneficenza, come si usava un tempo; si chiami assistenza sociale, come si usa oggi, non è altro che il « bene- facere » del Vangelo, il « comunicare )) delle epistole, perchè dall'amore viene ogni spinta a questa <t comunione » tra i a fratelli D.

Le parole hanno un loro intimo significato che, comunque sbiadito dal tempo, resta perenne come le figure delle vecchie monete. E se oggi la parola « carità » suona all'orecchio sva- lutata a significare tale comunione, dovrà essere, dai cristiani, riportata al significato originario.

«Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perchè Dio è carità D. Qui troviamo Cristo; non in quella azione sociale che pre-

scinde dalla giustizia dei rapporti e dall'amore di fraternità. Molti del problema operaio fanno un punto di partenza, per gettare la società nella rivoluzione; per fissare le premesse della soppressione delle classi sotto l'insegna della « dittatura del proletariato »; per scalzare l'ordine legale con azioni ille- gali; destando l'odio tra classi e categorie sociali.

Per giunta, con l'idea di volere affrettare la soluzione del problema operaio, si tende a sopprimere il risparmio privato, chiamato col nome equivoco e malfamato di capitale, e tra- sferire tutta l'economia nelle mani del potere pubblico, creando così lo stato « capitalista ». Questa tendenza è connessa con l'idea della dittatura del proletariato che non è altro che la dittatura d i un'oligarchia.

Così le tre finalità della rivoluzione sociale, dello stato capitalista e della dittatura del proletariato, sono riunite in- sieme e non certo nel nome di Cristo, avendo per base l'odio d i classe, l'ingiustizia dei rapporti interindividuali, la soppres- sione della libertà sommersa nello stato panteista.

Si tratta d i una concezione anticristiana non solo per il suo contenuto, ma anche per il suo orientamento finalistico; al quale da un po' d i tempo indulgono non pochi, che pur si dicono cristiani, concependo la vita presente come fine a sè stessa, con u n contenuto soddisfacente di rapporti e di benessere che superi i l male insito nell'uomo.

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Tutti dobbiamo, i cristiani per i primi e più degli altri, sforzarci a rompere i vincoli del male, a distaccare il cuore dal mondo, a redimerci in Cristo dal peccato; ma la lotta è pe- renne. I1 progresso umano, nel quale ingenuamente si credette, non è mai lineare, mai completo, mai duraturo. Si risolve un problema, un altro ne nasce. Si vince un'ingiustizia, ecco che i nuovi rapporti generano un'altra ingiustizia. Si fanno opere buone: rivolte e guerre sconquassano la società, e col male che generano forniscono occasione per altre opere di bene, altie ricostruzioni morali e sociali.

La visione di un mondo aggiustato su misura una volta per sempre non è nè reale nè cristiana. La visione di una società di soli lavoratori completamente felice di sè è un'utopia che

porta alla dittatura. Occorre resistere contro simili aberrazioni che non vengono da Dio; e accettare invece il posto del cri- stiano che lavora e si sacrifica per la giustizia e per il bene, nell'amore fecondo per il quale tutto coopera al bene », per- chè Cristo è presente, è con noi (( sino alla consumazione dei secoli », vivificatore di tutta la vita dei credenti, senza il quale nulla può farsi e nulla di bene esiste.

Roma, novembre 1951. (L'Italia, 22 ottobre 1951)

QUI INCOMINCIA LA NUOVA VITA

Alla fine della giornata, vespero o sera, viene istintivo il guardare indietro su quel che si è fatto e detto o ci è accaduto, e si sente, con tristezza mal celata, un certo vuoto di . cuore, anche quando gli affari siano andati bene, realizzando più di quel che si sperava.

La mattina ci si sente ben altri; c'è sempre un riaprire i l cuore alla vita, alla speranza, anche quando in concreto ci culliamo con un u chissà » lasciato un poco al caso e un poco alla provvidenza.

Si ripetono, in continua alternanza di speranze e delusioni, le fasi del nostro vivere, e ripetiamo gli stessi pensieri mesti

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e gioiosi, dal tramonto a l sorgere del sole e dalla mattina alla sera, nelia vita d i un giorno che rapidamente declina.

Così è del ciclo annuale: fine dicembre è la sera che porta via con sè la cronaca di 365 giorni; il primo gennaio è il nuovo anno che si apre con le speranze, i voti, gli auguri e i propositi più freschi e pieni di rinnovate energie ... Mano a mano: pri- mavera, estate, autunno... i l Natale, san Silvestro ... Che è? è passato un altro anno, pieno d i preoccupazioni e d i dolori individuali e collettivi; e che... vada all'oblio. Così si avvera la parola d i Dio a Noè: « Finchè la terra starà, la semente e la messe, il freddo e il caldo, l'estate e l'inverno, la notte e il giorno non verranno meno a.

Noi vorremmo fermarci un momento, un attimo, come a pigliar fiato; crediamo di potere sezionare i l tempo che scorre incessante, precisando fasi solari e fasi terrestri, fasi naturali e fasi storiche. Intanto parliamo di riforme: l'uomo che cor- regge la sua vita, la società che rinnova le sue leggi, aspirazione costante ad una vita diversa: hic incipit vita nova.

Quest'aspirazione è intima in ciascun di noi, pur senza avere chiara l'idea di quale vita nuova si parli: <C così non può andare più D ;... u bisogna che mi decida » ;... N debbo finirla una buona volta ». E fino a che la speranza ci anima, pur nei continui rimandi, l'appello alla nuova vita si fa sentire sempre, a meno che non subentri l'appello alla morte, che nella sua volontarietà sarebbe senza speranza, i l buio di un futuro ignorato e pensato solo come cessazione d i mali intollerabili. A questo punto estremo arrivano coloro che han perduto la fiducia nella vita e la speranza d i qualsiasi bene, nello squilibrio mentale, anche accidentale e momentaneo, per colpa del quale l'appello alla nuova vita non ha più eco nell'intimo del cuore assiderato dalla disperazione.

I1 caso del suicida conferma le speranze alla vita dei mi- liardi di uomini che vivono e soffrono quanto e più ancora del suicida, ma che sentono l'appello quotidiano alla vita come nuova vita; quella che non è simile al passato che fugge; non così infelice come quella vissuta fin oggi per colpa nostra O

per colpa degli altri, -della società, dei potenti, dei governanti; i n sostanza colpa dell'uomo che non sa vivere la vita,

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imagini di ben seguendo false ».

Perchè una è la vita, essendo una la verità: la vita dell'a- more; ogni altra vita è morte. (C Chi non ama rimane nella morte » dice san Giovanni. La vita è verità, perchè è la realtà degli esseri in quanto attuata e ripensata; la verità che è amore in quanto vita comunicata e perpetuata.

È perciò che la vita-verità-amore rimane in eterno; e noi d i questo eterno partecipiamo, perchè a noi è data la vita, la verità e l'amore.

Questa è la nuova vita che noi desideriamo e cerchiamo di far nostra, mentre sembra che ci sfugga ad ogni attimo. E ci sfugge di fatti quando noi ci allontaniamo dalla verità e dall'a- more, e ne sentiamo i l vuoto, il corruccio, i l rimorso ...

Ma quando i nostri occhi sono chiusi e i sensi ci stanno abbandonando e la morte ci assidera con la sua presenza, al- lora, senza più fiducia in noi ma solo in Dio, ripetiamo dentro noi stessi nel guizzo del pensiero e del desiderio: qui inco- mincia la nuova vita 1).

Roma, 31 dicembre 1951. (La Via, 5 gennaio 1952)

L'ORA NOSTRA È IL PRESENTE

I1 passato ci serve a comprendere il presente, i l futuro ci serve ad agire nel presente; l'uomo di suo non ha che i l pre-

sente: l'ora, l'attimo che fugge. Nei rapporti con Dio non possiamo far altro che lasciare

il nostro passato alla sua misericordia; il nostro futuro alla sua provvidenza, mentre il presente è nostro perchè si redima un passato di colpe e perchè si ottenga un futuro di grazie.

I1 presente solo è l'ora nostra; l'ora dei nostri pensieri e delle nostre azioni; l'ora del bene e del male.

C'è un'opportunità di agire diversa dal presente? Riman- dare a domani è un azzardo, perchè il domani non è ancor nostro, perchè il domani forse non ci offrirà la stessa opportu-

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nità di oggi, perchè i l domani ci sfugge come l'ora che passa, se lo spirito non è pronto ad afferrarla.

E vero: prudenza ci suggerisce anche di rimandare a miglior tempo quel che non si può fare oggi; ma quell'atto di rimando, dettato da vera prudenza, rimettendo a Dio quel che siamo impotenti a fare, è una decisione maturata a scopo di bene, è: un atto meritorio, è l'utilizzazione del presente nel quale è maturato l'esame delle nostre possibilità e responsabilità. Ma fuori di questo rimando prudenziale e attuoso, che si risolve in una sottomissione umile alla volontà di Dio comunque ma-

- nifestata, non vi è alcun'altra giustificazione alla mancata uti-

lizzazione benefica del presente che passa.

Il (C carpe diem » pagano è trasformato nella concezione cristiana del presente; nella quale anche il riposo della notte è vivificato dalla presenza di Dio in noi se in noi c'è la grazia d i Dio e l'intenzione permanente di unione, dalla quale deri- vano tutte le possibilità di bene per noi e per gli altri.

I n questo complesso di vita cristiana (e per i sacerdoti di vocazione divina) l'attimo presente è perenne, perchè è vivi- ficato in Dio e per Dio. Anche quando le forze fisiche ci man-

cano e si è inchiodati nel letto del dolore, e non si può fare altro che dire « fiat voluntas tua », si passa dall'impotenza all'attività dell'ora dolorosa, perchè quel « fiat » è frutto d i virtù e di santificazione.

L'ora nostra, l'ora cristiana, l'ora sacerdotale è tutta qui nel rendere operoso in noi e negli altri i l fiat divino, che per sublime dedizione del Figlio di Dio, è divenuto e diviene nella storia un fiat umano.

Per questo, non ha valore affatto se i nostri piani e le nostre azioni siano o no coronati da successo. Sappiamo che

a tutto coopera a bene per chi ama Dio ». I1 successo agli occhi nostri è un fatto esterno e può darci una soddisfazione momen- tanea, vana perfino, come può anche spingerci a maggiori imprese; ma la fede, che trasporta le montagne, non ha bisogno

della visibilità del successo, sapendo che Gesù Cristo è « con noi fino alla consumazione dei secoli 1).

Egli ci dà un « presente » nostro che è suo; ci dà il segno

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di un presente di bene che non cessa, che non ha successioni, non ha variazioni, non ha alternanze, perchè è il presente eterno della visione di Dio « sicuti est n.

Roma, 12 gennaio 1952.

Non è raro dover leggere che il mondo prima del 1914 andava benissimo, e che con la prima guerra mondiale tutto è cambiato in peggio. Allo stesso modo si potrebbe affermare che il dopoguerra del 1919-39 sia stato meno angoscioso del se- condo dopoguerra, vivendo oggi nell'incubo della guerra « fred- da attuale, della guerra calda )) in varie parti del mondo e di quella « caldissima » che si intravvede.

A p a r d a r e la storia umana con l'occhio del presente, pos- siamo dire che il mondo presente è migliore ed è peggiore del mondo passato; ma potremmo dire i l contrario. A duemila anni dall'inizio della civiltà cristiana nel mondo occidentale, che è quello della nostra conoscenza e della nostra esperienza, non possiamo dire che i nostri antenati siano stati in un letto di rose. Passiamo sopra al periodo imperiale romano, in cui tra guerre, sedizioni, persecuzioni, rivolte di pretoriani, uccisioni di imperatori e dittatori, non può ritenersi che la chiusura del tempio di Giano e la pace augustea siano durate molto. Dalle invasioni barbariche alle invasioni mussulmane i l tratto fu bre- ve. La pressione bellica e dominatrice dell'Islam nel Mediter- raneo e nell'Europa centro-orientale durò quasi un millennio. Guerre e lotte medievali, e nel rinascimento guerre di reli- gione, guerre di successione, di trenta anni, di sette anni; in seguito le napoleoniche, le nazionali, le centro-imperialistiche, e siamo al 1870. Per sanare le piaghe inferte all'Europa occor- sero decenni, intanto non mancarono guerre lontane e vicine: la ispano-americana, la russo-giapponese, le balcaniche, le co- loniali africane, che occuparono un trentennio, fino al 1914.

Se vogliamo continuare con il panorama dei mali che hanno amitto e affliggono l'umanità, ci metteremo epidemie, terre-

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moti, crisi economiche alternanti i periodi d i prosperità e pro- sperità fittizie creanti crisi più profonde, Così vedremo balzare dalla storia la realtà tormentata e oscura.

Eppure, basta un barlume di virtù morale, una intuizione scientifica, un'affermazione d'arte, un'elevazione religiosa, una speranza non illusoria, e l'umanità riprende la sua fatica con migliore lena, superando le tristizie della paura e le angoscie dei patimenti.

Le prospettive di migliore avvenire sono sempre fallaci: ogni fase ha il suo bene e il suo male; si evita un male e altro ne sussegue; si conquista un bene e altro se ne desidera: il bene ottenuto contiene il suo contrario; il male non evitato produce un bene insperato.

Se così è per ciascuno di noi, così è per gli stati, le nazioni, i continenti, l'umanità intiera, non essendo i nuclei sociali

altro che rapporti fra uomini, vita associata nell'intreccio delle generazioni che si susseguono.

Una nota è fondameniale: il travaglio della vita: agire nella sofferenza, attuare nel gemito, progredire nel sacrificio. Senza pagare un tale debito nessun completamento, nessuna esnqui- sta è possibile all'uomo. E poichè la meta raggiunta non può essere conservata senza lavoro, nè può soddisfare senza ulteriori realizzazioni, occorre continuare, ripetendo spesso come Sisifo la stessa fatica, la ricerca del meglio, la ripresa della corsa, col pericolo di perdere quel che si è guadagnato o di svalutare quel che è costato sforzo, stenti, sacrifici.

Mai si potrà dire: qui ci fermiamo: hic manebimus optime. È negato all'uomo, ai nuclei sociali, a l mondo intiero, qual- siasi sosta. Sarebbe i l ritorno nel nulla. Occorre andare avanti, avanti sempre, con l'assillo di cercare un bene che è vano sperare perchè afferratolo diviene l'ombra di una realtà.

Dieci anni fa, in piena guerra agognavamo la fine, e venne; ma appena suonate le campane del tempio, ci presero alla gola

tutte le preoccupazioni della ripresa, i trattati di pace, la rico- struzione, l'ordine pubblico, il nuovo sistema politico, i pro-

blemi economici e morali. E così da allora ad oggi, sempre in mezzo alle crescenti esigenze politiche, economiche e sociali.

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Benessere? meglio oggi che ieri? qualche cosa che ci rimette in sesto, ma, ecco la minaccia dell'inflazione, e le agitazioni

politiche, e i problemi sociali, e la minaccia di una guerra.

Lasciamo ai pochi la cura del mondo, pensiamo a noi

stessi ... a noi stessi? Come sarà possibile se ci sono coloro che

minano l'ordine pubblico, che preparano le rivoluzioni, che

pongono le premesse di altre catastrofi?

Che la illusione non ci porti fuori di strada: la via tracciata

all'uom<s fin dal suo apparire sulla terra, è la via del sacrificio;

questa sarà sempre fino a che l'ultimo uomo sarà travolto dall'incendio che distruggerà la terra. Andare avanti i n mezzo

a dolori e sacrifici, volontari o imposti, scelti per vocazione

o subiti perchè inevitabili, con coscienza del fine o senza

vedere alcun fine, con vantaggio proprio o con proprio danno.

Coloro che pensano che vi f u un tempo felice s'ingannano;

coloro che credono di potere raggiungere un'era felice s'ingan-

nano. La terra non ci dà nulla che possa renderci felici e ci

dà tutto quel'che può moltiplicare i l nostro travaglio.

Gli individui, anche se credono di godere momentanea- mente della vita, anche se con agi e ricchezze cercano d i ren-

dere meno aspra la giornata, sanno che avranno una fine; la

morte è sempre in agguato fin che ci acciuffa. Le società nel rinnovarsi si trasformano, ma non hanno anima propria, sono

l'espressione di una vitalità multipla e intrecciata, prodotta

da sofferenze e sacrifici personali; una vitalità che si trasfonde

alle generazioni che si susseguono nel ricordo della storia e

nella rinnovazione diversificata delle passioni collettive.

Per £ortuna le sofferenze e i sacrifici della umanità itine-

rante restano nei valori intellettuali e morali che sono stati creati, i soli che valgono a nobilitare l'uomo.

Di questi valori Uno è la fonte e Uno è l'annunziatore, che

percorse la sua via crucis fino a morire in 'croce, e che per la

sua resurrezione ci diede la speranza di una felicità indefetti-

bile, ma non in questo mondo.

Roma, 31 marzo 1953. (L'Italia, 4 aprile 1953)

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« NON ESSERE INCREDULO MA FEDELE

Così disse Gesù a Tommaso dopo la resurrezione, per la quale egli esigeva la prova di vedere e toccare: non disse: non essere incredulo ma credente, bensì disse: non essere incredulo ma fe- dele. Nella epistola dell'apostolo Giacomo il Minore è scritto an- che: « i demoni credono e tremano », ma la fedeltà nelle opere è il segno della vera fede, di quella fede che genera la speranza e l'amore.

Così è tutta la vita nostra. La coerenza alla propria fede, fede religiosa e soprannaturale, come la cristiana, che investe tutto l'uomo nella coscienza e personalità propria, nella fami- glia, nella società, nella scienza, nell'arte, nella economia, nel lavoro, nella politica.

Non c'è un solo lato della vita che non sia investito dalla luce della fede, e della fede nella resurrezione, e che non crei in noi una elevazione di ottimismo spirituale, anche nelle tri- stezze e nelle tristizie temporali; uno spirito generoso fino n1 .

sacrificio di sè per l'amore diffuso nei nostri cuori dallo Spi- rito che vi abita.

« Essere fedele è una grande, una immensa fortuna: fedele alla ragione umana contro gli istinti più perversi che circolano nel nostro corpo e intaccano i sensi e la fantasia, intorpidendo la mente e indebolendo la volontà: - fedele alla fede sopran- naturale contro le pretese della ragione umana di volere tutto comprendere e tutto spiegare al di là dei limiti posti alle co- noscenze umane dalla esperienza sensibile anche alle intuizio- ni ed ai ragionamenti; - fedele alla disciplina sociale basata sulla giustizia nelle sue varie forme e alla legge scritta nelle sue continue attuazioni, contro gli istinti ,antisociali e anarchi- ci che turbano l'ordine e la pace della vita associata; - fedele ai precetti dell'etica cristiana, anche se l'autorità temporale, violandone con leggi e decreti la lettera o lo spirito, volesse imporre al cittadino e cristiano pratiche contrarie alla morale e alla fede, tenendo fermo l'insegnamento di Pietro non essere giusto «ubbidire all'autorità terrena anzi che a Dio N.

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Questa scala d i fedeltà che dalla natura si eleva al sopran- naturale, che dalla ragione va alla fede, che dall'autorità tem- porale arriva all'autorità di Dio, a cui in ultimo ogni fedeltà è ordinata, è la legge quotidiana di ogni uomo che rivede i suoi passi, fa la sua scelta, attua i suoi compiti, realizza le sue speranze, profonde i tesori del suo intelletto e del suo cuore.

Anche nel turbinio della politica e nella passionalità della lotta elettorale, ognuno di noi, perchè uomo e perchè cristiano, è chiamato ad essere fedele: fedele alle leggi (con la riserva di cui sopra) che l'autorità ha sancito; fedele alla verità, evitando menzogne così facili a venire sulla bocca in tempo d i lotta; evitando ingiurie ed accuse infondate e gelosie fra gli stessi colleghi e collegati e frodi che si credono legittime e insidie che sono stimate regole del gioco (si intende del gioco eletto- rale). - Come è possibile restare fedele a Cristo nel periodo elet-

torale? - dirà qualcuno che non comprende cosa sia i l dovere cristiano, e neppure cosa sia la disciplina stoica, e neppure cosa sia il galateo civile, e infine neppure cosa sia la correttezza parlamentare.

In tal caso, non è concepibile che un simile (C tipo abbia titoli a divenire l'eletto del popolo e i l rappresentante della nazione. I1 male è che l'elettore anche lui dovrebbe essere fedele ai suoi doveri nel fare la scelta, alla sua coscienza nel partecipare alla lotta, tenendo a freno gli istinti di sopraffazio- ne e di denigrazione, nonchè i calcoli interessati, stando atten- to ai cattivi compagni e ai falsi amici, dando all'atto elettorale il significato e i l valore di un impegno morale e politico nel- l'interesse della comunità nazionale e per il bene del paese.

E se dopo tutto ciò, si cade nella infedeltà di mancare ai pro- pri doveri e dare il passo ai nemici dell'Italia e della chiesa, diremo che è colpa di tutti, chi più e chi meno, per non avere educato i l popolo agli ideali nobili e al senso del dovere; per non avere frenato le forze antistatali dirette al profitto diso- nesto, all'intrigo antisociale, al parassitismo e allo sfrutta- mento inumano.

In tutto ciò prevale come colpa fondamentale la infedeltà che viene da una incredulità pratica, anche se non teorica, al

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bene, all'ordine, alla ragionevolezza umana, all'onestà, alla giu- stizia; virtù morte nel mondo perchè il mondo non ha quella fede che ci fa in terra compagni e consorti della passione e della risurrezione di Gesù Cristo.

(La Via, 18 aprile 1953)

I1 cristianesimo ha dato all'incivilimento una sua impronta indelebile, elevandolo senza comparazione al disopra di tutte le civiltà precedenti e concomitanti.

Anzitutto ha sganciato la coscienza personale dai vincoli esterni di famiglia, casta, tribù, nazione dando ad essa il primato del valore e della responsabilità. È questa una permanente e sempre presente liberazione messa alla base di ogni libertà. Allo , stesso tempo impose all'individuo di ripiegarsi verso gli altri nell'abbraccio solidale di .uomini liberi, perchè legati tutti da . vicendevole amore, sui amore unico con doppio oggetto: verso il Padre comune, Dio, e verso i fratelli, il prossimo.

Questo è il fondamento dell'etica cristiana, la quale influisce con luce di verità e amore in tutto il'lungo percorso di duemila anni di cristianesimo militante. Veramente militante, perchè l'errore e la colpa sono nemici da combattere, intristendo la vita individuale anche nei suoi riflessi collettivi; di tutti i cristiani, quelli stimati buoni e quelli creduti cattivi, gli ignoranti e i dotti, gli erranti e i convertiti, i tiepidi e gli zelanti, i fedeli e gli apostati.

Che meraviglia che la politica, essendo nel suo complesso passionale la più refrattaria a mettersi in riga con i l cristiane- simo, abbia spesso levato bandiere di autonomia, creando i conflitti secolari fra potere temporale e potere spirituale, fra impegno e sacerdozio, fra chiesa e stato?

La rivolta politica moderna è arrivata a negare i benefici dell'incivilimento cristiano, rappresentando il cristianesimo in rapporto alla vita associata, come un intruso e anche come un

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nemico; a teorizzare la socialità laica (filosofica etica e politica) quale nuova civiltà che soppianterà quella cristiana.

Se dal punto di vista della lotta anticristiana, che la storia ci presenta costante da circa duemila anni, le fasi moderne di apostasia, prima borghese e poi anche proletaria, mostrano le difficoltà della completa cristianizzazione storica del mondo, dif- ficoltà la cui radice è nella coscienza individuale di ciascuno di noi; dal punto di vista delle nuove conquiste, oltre che interiori, nel campo del vivere civile, tale lotta è salutare e conquistatrice e ci deve riempire d i ottimismo, come lo avevano i primi cristiani pieni di fede nella seconda venuta del Cristo.

Maturare questa venuta nella coscienza propria e in quella degli altri non è solo atto di fede soprannaturale, è allo stesso tempo fiducia tempratrice dei sentimenti più nobili e delle azioni elevate fino a l sacrificio.

Perciò valgono allo sviluppo della civiltà, anche sul piano terreno, tutte le buone azioni di coloro che si sacrificano alla diffusione della verità, all'assistenza dei deboli e dei sofferenti, all'educazione della gioventù, all'elevazione delle categorie so- ciali più abbandonate; valgono in quanto realizzano nei fatti uq'etica superiore che fa vincere il male nel bene.

Pio XI, parlando ad un pellegrinaggio belga, affermò che la politica è un ramo dell'amore del prossimo. In vero, tende per definizione al bene di una comunità, la statale; non sarebbe tale, cioè amore del prossimo, se tendesse a sacrificare una parte per favorirne l'altra; a violare la giustizia a vantaggio dei protetti; a mancare di equità per tornaconto personale; ad amministrare male il denaro di tutti con profitto illecito di pochi.

Chiaro: l'etica ha le sue esigenze, che una coscienza vera- mente cristiana mette a fuoco, mentre una coscienza falsamente cristiana, ovvero svincolatasi dalla morale, non sente più come dovere effettivo e cogente.

La peggiore avventura che sta subendo il mondo detto civile '

è quella di concepire l'etica come un complesso di norme utili per vivere in comune, norme che ciascun popolo può modificare secondo le proprie vedute pratiche, cambiandole nell'evolversi degli atteggiamenti e delle utilità. In questo caso la coscienza è deformata in partenza, in quanto accetta il codice del buon

191

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costume come si accetta la moda del vestire, l'etichetta del mangiare o del conversare, le regole del giocare: fatti esterni, abitudini sociali, norme di accomodamento, usanze superficiali, nei quali la vita si effonde e si stempera perdendo d i significato e di valore.

Si sa che il cristianesimo dà un fine ultraterreno alla vita personale, e solo attraverso la singola persona dà valore .alla vita terrena nella sua socialità, anch'essa trasformata in una solidarietà spirituale detta Comunione di santi, incentrata e vivi- ficata in Cristo e da Cristo.

Ma quali effetti di bene se questa linfa spirituale arrivi a circolare nella vita terrena, sol che ci sia quell'amore del pros- simo, che tempra le coscienze e dà efficienza spirituale a tutti gli atti umani anche i più insignificanti, contenendo in sè la scintilla di divino portata nel mondo?

Così coscienza e politica possono trovare una coincidenza pacificatrice a l disopra del tormento quotidiano di incorrere in responsabilità condannate dagli uomini e da Dio.

(Città di vita, maggio-giugno 1953)

SOVVERSIVISMO SOCIALE

E RIVOLUZIONE CRISTIANA (*)

Debbo dire che il tema non è di mio gusto. I1 cristianesimo è sempre rivoluzione in atto nel senso soprannaturale; influisce nel mondo temporale nei due sensi di rivoluzione e di con- servazione.

I (*) La rivista Humanitas, nel n. 12 del 1952, indiceva un referendum sul

tema « Sowersivismo sociale e rivoluzione cristiana D, cui rispondevano circa 60 autori italiani e stranieri. Il breve intervento di Sturzo veniva pubblicato coii i l corsivo di introduzione che riproduciamo qui di seguito:

u Nell'ordine delle risposte, raggruppate, come abbiamo detto, per na- zioni, daremo la precedenza, secondo le buone regole, a quelle di studiosi non-cattolici. Facciamo eccezione per don Luigi Sturzo, il quale non ha risposto al referendum (a è mio sistema rifiutare ogni invito di rivista o giornale e nessuno si potrà risentire per la negativa D), ma ne ha criticato brevemente l'impostazione ». (N. d. C.).

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Aggiungo che il significato che si dà alla frase: (C cristiane- simo sociale )) in rapporto a socialismo e comunismo tende a falsare il vero significato della nostra fede e della vita sopran- naturale, specie nella visione d i una struttura temporale poli- tica ed economica che possa reputarsi equa, giusta e cristiana, reputando che ciò mai sia avvenuto nei 1953 anni di cristiane- simo, come di fatti mai si è avuto un benessere strutturale cristiano nel senso sociale.

(Humanitas, 11.8-9, agosto-settembre 1953)

Perchè i l convincimento di chi vuole agire passi negli altri, occorre che egli sia veritiero. La menzogna, cioè la difformità della parola dal pensiero, e, nel caso in esame, dal pensiero diretto all'azione, priva di efficacia lo stesso agente, rende diffidenti i collaboratori se ingannati, li rende conniventi se partecipi alla menzogna. Vi saranno altri motivi a legarsi all'uo- mo che mentisce: timore, paura, interesse, capacità, fascino: ma dal punto di vista umano viene a mancare il legame più valido: la veridicità e sincerità.

C'è differenza fra chi non dice la verità perchè non la cono- sce o non la dice perchè vuole occultarla, e chi invece tende per qualsiasi motivo ad ingannare. Nel primo caso egli non sarà menzognero; nel secondo può essere moralmente menzo- gnero per volere essere prudente, abbia o no motivi legittimi a tenere occulta la verità; nel terzo caso si tratterà d i vera menzogna, più o meno grave, ma sempre riprovevole.

In materia d i menzogne, legate o non a veri inganni, si suole essere con gli uomini politici o troppo larghi, ammettendone l'uso normale, ovvero rigorosi escludendola in ogni caso. Que- sto problema può essere connesso con l'altro, assai più discusso, del fine che giustifica i mezzi.

È evidente che anche i teorici della distinzione tra morale

e politica, non arrivano ad accettare questa seconda tesi con-

13 - STuazo - Problemi sp ir i tual i

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scepita quasi come regola politica, i l che sovvertirebbe quel minimo di morale sociale (quella consacrata dai codici civili

. e penali d i ogni stato) assolutamente necessaria a mantenere l'ordine e i l diritto.

La menzogna per qualsiasi scopo usata toglie base ad una sana convivenza nella famiglia, nella scuola, negli affari, nelle relazioni umane le più varie. Lo stesso avviene in politica. La menzogna interrompe il dialogo umano, mentre la vita dell'uomo non è altro che $n dialogo continuato, anche se fra molti in- sieme. Chiunque sia sorpreso a mentire mostra di essersi di- staccato dalla comunità, divenendo altrui sospetto; per rivivere la vita sociale deve provare di non dire menzogne, anzi di non dirne più; perchè se vi ricade, toglie qualsiasi credito alla resipiscenza.

Non sembra vero che la menzogna e l'inganno siano nell'uso corrente, e che gli uomini non abbiano altro da fare che in- gannarsi a vicenda. È così; coloro che cadono nelle reti dell'in- ganno se ne accorgono con ritardo; molti di costoro credevano che sarebbero stati gli altri a cadere nelle seti che essi stessi avevano tese.

- Tale uso,-pur essendo assai diffuso, nei-rapporti privati o di gruppi sociali liberi è sempre biasimato come mancanza di rispetto alla morale; nei rapporti pubblici, specialmente politici, più che scusato e tollerato, arriva ad essere approvato dai fautori mentre viene biasimato dagli avversari ( e viceversa) secondo le finalità alle quali i mezzi di menzogna e di inganno sono diretti. I1 che porta ad apprezzamenti assai variabili nella pubblica opinione con riflessi equivoci nelle valutazioni di coscienza.

Cerchiamo di chiarire i l fenomeno assai sospetto e, sotto certi punti di vista, pernicioso: quello di dare alla menzogna e all'inganno il lasciapassare dell'opinione pubblica attenuando così le resistenze della coscienza. Anzitutto è da notare che in democrazia certi tipi d i menzogne facilmente smontabili dal dibattito parlamentare, giornalistico e comiziale, non pos- sono aver corso; chi ne usa ci perde. È questo un lato buono. Però c'è i l lato manchevole; l'uso delle mezze verità, l'alte- razione dei fatti, la confusione dei dati, l'abuso delle statistiche,

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la ripetizione artificiosa per far credere un fatto nuovo, mentre è lo stesso ripetuto sotto diversi aspetti; la propaganda ampli- ficatrice, la denigrazione dell'avversario, tutti mezzi deplore- voli e usati comunemente senza alcuna attenuaziane e diffe- renza di gruppi e partiti.

Alla propaganda politica amplificatrice (a parte il fatto che secondo me è controproducente) applicherei il criterio di certi moralisti, che non reputano menzogna quella dei venditori ma- gnificanti la propria merce, perchè il pubblico sa bene che quel- le affermazioni sono per invitare a comprare, e cadono di fronte alla contestazione del cliente normalmente sempre po- C") disposto a credervi. Ma se dalla magnificazione generica e fatta per sistema, si passa ai termini di una contrattazione concreta, allora le affermazioni laudatorie trasformate in men- zogne reali e particolari per indurre in errore, sono e restano menzogne.

Alla stessa maniera, l'abilità parlamentare atta a evitare ostacoli e a indurre gli avversari a cambiare atteggiamenti non è per nulla vietata, anche se nell'uso delle parole discrete possa nascondersi' qualche imprecisione voluta che può arrivare al margine della menzogna, dovendo l'avversario dalla sua stessa posizione parlamentare trarre motivo di sospetto. Ben altra è la osservanza del regolamento; questo è una specie di patto comune pe> procedere nei lavori parlamentari: è la regola del gioco pattuita e riconosciuta. Nessuno può violarla senza colpa; e tanto più grave è la colpa quanto più grave è l'abuso. Su questo punto mi pare che le idee non siano chiare, non mancando coloro che ritengono il regolamento una sem- plice formalità, mentre è un reciproco vincolo.

Alcuni vorrebbero in politica seguire gli usi consentiti in guerra, dato che la politica di partito potrebbe dirsi guerra permanente per i l potere. Tale impostazione è semplicemente aberrante; le contese e le gare civili hanno per base la normale convivenza umana nella quale è esclusa a priori qualsiasi rottura bellica dei vincoli di comunità, come avviene fra le nazioni in guerra, e all'interno di una stessa nazione nel caso di guerra civile. Solo la rottura dei vincoli di comunità rende lecito in guerra (si intende, quando sia lecita una guerra),

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quel che non è lecito in pace: la menzogna, l'inganno, l'ag- guato e simili. Ma poichè la rottura dei vincoli della comunità non è mai totale, - infatti anche nella guerra esistono e do- vrebbero essere rispettati i patti internazionali e le leggi tradi- zionali, ( i termini d i una tregua, lo scambio dei prigionieri, il divieto di armi e di mezzi non ammessi e quindi illegittimi e così d i seguito), - l'obbligo della osservanza di essi dalle due parti è anche vincolo morale di coscienza, oltre che d i civiltà.

Esclusa quindi ogni assimilabilità della lotta politica alla guerra, il problema della veracità in politica rimane integro. Per quanto si voglia essere larghi e tolleranti verso coloro che parteggiano e lottano, ammettendo quel limite di reciproca comprensione e tolleranza che toglierebbe alla menzogna obiet- tiva e al tentativo di inganno l'abuso della buona fede e della impreparazione psicologica, e, quindi, la rottura della comunio- ne interindividuale; si deve conchiudere che la ripugnanza della coscienza permane più o meno forte per l'uso di mezzi intrinse- camente immorali per fini creduti di grande utilità, quale la vittoria del proprio partito e la sconfitta dell'avversario. Si forma facilmente una categoria istintiva Ga chi d i queste cose non si intende o non si occupa e chi, abituato al mestiere, prova viva soddisfazione ( l u vanità dell'esperto in materia) quando .vi riesce, e lo dice a questo o a' quello all'orecchio, che non lo sappia i l capo: il quale molte volte lo saprà ma fingerà di non avere mai visto niente.

E che dire se quel che è ritenuto contrario alla valutazione etica della coscienza sia richiesto a titolo d i vantaggio pub- blico? È questo un altro lato del problema della moralità dei mezzi nella politica statale (*).

(Città di vita, A. VIII, n. 5 , sett.-ott. 1953)

(*) Sullo stesso tema Sturzo esprimeva analoghi concetti in altri due articoli, qui non riprodotti, dal titolo «La menzogna politica D (Studi Cattolici, n. 1, 1957) e a Verità contro menzogna » (Ilferidiuno 12, giugno 1957). (N. d. C.).

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PERCHÈ PIANGE LA MADONNA?

Prima a Siracusa, poi a Porto Empedocle, forse a Catania e altrove, perchè piange la Madonna? Mistero.

Le folle sono accorse, gridano al miracolo; grazie piovono a Siracusa, a Porto Empedocle; ciechi vedono, storpi cammi- nano, tubercolotici, cancerosi, poliomielitici ottengono la sa- nità; e lo scrivono e proclamano da Palermo, da Napoli, dal Belgio, dagli Stati Uniti, dall'Australia.

Perchè piange la Madonna? I vescovi siciliani riuniti in convegno hanno dichiarato che

le lagrime della Madonna di Siracusa sono vere lagrime e non hanno origine naturale scientificamente spiegabile. Un tempio sorgerà a Siracusa a celebrarne l'evento.

Ma perchè 'piange la Madonna? La risposta ovvia e spiritualmente significativa viene alla

mente dei fedeli, dotti e ignoranti, tiepidi e fervorosi: il ri- chiamo alla fede, ai buoni costumi, alla pietà; richiamo ecce- zionale in tempi di rilassatezza di molti, anzi moltissimi cri- stiani, e di aperta apostasia dalla fede cattolica che si diffonde anche presso le masse. E proprio dove non arriva la voce del predicatore nè è sentito l'ammonimento del vescovo, penetra soavemente il pianto della Madre degli. .uomini, o folgora la grazia della Madre di Dio. Più le folle la invocano, madre di grazie e di misericordie, più i fatti miracolosi e meravigliosi eccitano alla fede e al pentimento.

Di più: le persone prescelte per le inaspettate e misteriose manifestazioni sono umili, socialmente, e quasi sconosciute an- che nel campo della spiritualità parrocchiale, proprio come 'Bernadette a Lourdes o i piccoli della Salette e di 'Fatima: così a Siracusa, così a Porto Empedocle. Dio sceglie i deboli. per confondere i forti.

Quanti hanno sottovoce o apertamente (vedi N I1 Mondo D) punzecchiato o satireggiato quei poveretti creduti illusi che vi prestano buona fede? Pure, anche essi in cuor loro si domande- ranno, di fronte alle attestazioni di periti e medici, il perchè

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di tali fenomeni; quale forza ha mosso qualcuno o qualche cosa a versare lagrime, se non proprio la Madonna? .

È stato scritto che lo scoppio di forze nucleari che dalla

bomba fatale di Hiroshima ad oggi si sono sperimentate, provo- cherebbe a distanza effetti di carattere tellurico ed atmosferico di notevole intensità. C'è chi nega; c'è chi dubita; c'è chi affer- ma. Le maree in Scozia ed in Olanda e le alluvioni del 1951vnel

Polesine e in Calabria, i terremoti delle isole greche e le alluvioni del 1953 si vogliono collegare alle varie esplosioni di carattere nucleare. Ipòtesi che fanno pensare, anche se re- stano solo ipotesi dibattute. Maree, alluvioni, terremoti, la sto-

ria ne registra nei secoli passati certo di più gravi di quelli dei nostri tempi. Le induzioni scientifiche danno solo barlumi

nell'incerto cammino scientifico e induttivo della esperienza umana.

Più grave è la preoccupazione dell'impiego volontario di tali forze energetiche nei conflitti fra i popoli; la gara fra

occidente ed oriente a costruire ed inventare sempre più di- struttivi e perfezionati strumenti be'llici, è preoccupante.

Forse per questo la Madre piange: piange perchè gli UO-

mini si affidano alle potenze distruttive invece che a quelle costruttive; all'odio più che all'amore; alla gelosia più che alla intesa; all'orgoglio d i razza, di casta, di classe, più che alla fratellanza e alla collaborazione internazionale.

Non mancano uomini responsabili che sentono la gravità dell'ora, e desiderano, a mezzo di convegni e di trattative, superare la crisi della guerra fredda e trovare uno sbocco pacifico alle di5denze e alle ostilità.

Ma la Madonna piange anche perchè i l mondo non prega; non sa più pregare perchè è superbo e non piega la fronte a

Dio, nè invoca lo Spirito Santo. Crede e confida negli uomini, non crede e perciò non confida in Dio.

I1 salmista lo ripete più volte: u Meglio confidar nel Si-

gnore che sperar negli uomini. Meglio confidar nel Signore che sperare nei principi N. I1 Signore è colui che tocca il cuore

degli uomini e dissipa il malvolere dei principi. Perciò deve essere invocato da coloro che credono in Lui; perciò l'uomo

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deve credere in Dio ed invocarlo nella preghiera pbb l i ca e privata.

Forse ci saranno coloro che diranno: eviteremo la guerra della bomba atomica con la preghiera? Non si mette in dubbio . la necessità dell'attività umana; ma altro è l'attività impre- gnata di fede e di amore, altro quella spinta da superbia e da malvolere. La preghiera a Dio crea lo stato d'animo della bontà, dell'amore, placa le ire e fa cadere le vendette, e in- fonde i l coraggio dell'azione virtuosa e dà fortezza del resistere a l male, affrontando tutte le difficoltà e superando tutti i pre- giudizi allo scopo di evitare la guerra.

Chi non sa che gli stati d'animo dei singoli, moltiplicati dalla partecipazione agli stati d'animo della collettività, creano i momenti decisivi a favore o contro una guerra?

Quando in un dato momento un popolo si decide alla guerra è perchè ha fiducia nella propria superiorità e nella vittoria rapida e sicura. Ma oggi, con la bomba atomica e le altre nuove bombe nucleari, si sa con certezza che la guerra sarà distruttiva dalle due parti, ma non si può affatto prevedere da quale lato sarà la vittoria, e se vittoria potrà esservi con la distruzione del popolo stesso che avrà raggiunto la superiorità sull'avver- sario. È questo l'ammonimento che ci dà la ragione e che ci rafforza la fede cristiana per abolire non solo le armi atomiche ma la guerra, ogni guerra, perchè non si sa mai, se nel colmo delle passioni belliche, non si stenderebbe la mano su quelle bombe distruggitrici e fatali.

La Madonna piangente, nel richiamarci a penitenza di fcde e di amore, forse vuole anche farci meglio avvertire il tragico pericolo di un conflitto armato fra oriente ed occidente.

( I l Popolo, 1 gennaio 1954)

19.

VITA PERENNE

Le anime dei morti, nel pensiero dell'antichità, vagavano attorno ai vivi, o, raccolte nella quiete dell'Ade, delle memorie del passato alimentavano la fiammella del pensiero svanito,

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ovvero 'si trasmutavano in vite successive, come in novelle prigioni subumane e animalesche, per rivivere altre vite uma- ne, o si immedesimavano nel tutto. Non mancava l'idea d i una risurrezione, mito della primavera, mito di una seconda vita, che sempre postulava la dissoluzione della morte.

Nel pensiero ebraico degli ultimi tempi vi sono barlumi d i una risurrezione, di una ripresa del proprio corpo per una vita migliore, risurrezione affermata contro i Sadducei che la ne- gavano.

Finchè non venne Colui che di sè disse: « Io sono la risurre- zione e la vita; chi crede in me quand'anche fosse già morto, vivrà. E chi vive e crede in me non morrà in eterno », la risur- rezione non poteva essere pienamente conosciuta nel suo du- plice carattere, di ritorno dell'anima al proprio corpo e d i vita eterna in Dio.

Questo duplice aspetto ci è confermato da Cristo con la sua risurrezione; egli non attese la risurrezione finale dell'uma- nità; dopo che volontariamente si spogliò del suo corpo percliè volontariamente accettò la morte in croce, lo riprese al terzo giorno e si rivelò ai suoi discepoli resuscitato.

Pure volle dare loro nozione della sua appartenenza come uo- mo alla nuova vita caratterizzata dalla risurrezione, per insegnare ai seguaci come seguirlo in questa vita di lotte e di attese. Sulla via di Emmaus appare ai due discepoli ma non è ri- conosciuto; parlando dà il senso della verità che si rivela ed è ospitato; cena con loro ed è riconosciuto al benedire e spez- zare del pane, ma sparisce.

Maddalena lo scambia per l'ortolano, ma lo riconosce al- l'appello: « Maria »; si piega verso di lui ma Gesù aggiunge: « non mi toccare 1). Agli apostoli dà la pace entrando a porte chiuse e poi sparisce. A Tommaso consente di toccare le ~ i a g h e , ma lo richiama perchè sia fedele e non incredulo. Al lago di Tiberiade si presenta, e i discepoli non lo riconoscono ; ma dopo la pesca Giovanni dice a Pietro: C( è il Signore D. E quando Gesù l i invita a mangiare nessuno osa dire: « tu chi sei? »

perchè comprendono quell'uomo essere proprio Gesù. Così fino al giorno dell'ascensione; anche allora Gesù pranzò con loro, era l'ultima volta.

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Ma proprio allora l'ultima risposta alla domanda dei disce- poli ci dà in certo modo la chiave di quel che è avvenuto nei

, ' quaranta giorni. I discepoli gli domandarono: « Signore, è questo il tempo in cui ristabilirai il regno d'Israele? » E Gesù a loro: a non sta a voi di sapere i tempi e i momenti; il Padre li ha serbati nella Sua potestà: ma voi riceverete forza di Spirito Santo, quando verrà su di voi; e mi sarete testimolli in Gerusalemme e in tutta la Giudea e la Samaria, e fino alle estremità della terra D.

L'idea di un regno di Israele terreno e vittorioso era nella tradizione messianica del popolo; quell'idea doveva essere superata dal Cristo con la morte di croce. La risurrezione del crocefisso poteva £arla rivivere. Egli non ritornò in mezzo alle folle della Galilea e della Giudea per essere acclamato, apparve

ai suoi intimi; solo una volta apparve a molti in Galilea, ap- parve e sparì. Ciò non ostante l'idea del regno d'Israele terreno e storico non era scomparsa neppure dalla mente degli apostoli e al momento di essere lasciati osarono farne domanda.

Nulla di terreno nella sua vittoria sulla morte, nessun regno che non fosse spirituale e come tale la continuazione della sua morte e risurrezione nei discepoli inviati, in forza di Spirito Santo, come testimoni nel mondo sino al sacrificio.

Dal punto di vista terreno Nerone trionfa nella prima per- secuzione e Pietro e Paolo sono martirizzati; e così per tre secoli. Si credette che la pace costantiniana segnasse un trionfo anche terreno; ma dal punto di vista terreno era solo una pausa, una modifica strutturale; si cambia l'esterno: le eresie e le persecuzioni non cessano; e poi i barbari infedeli e poi

' i mussulmani che per un millennio minacciano la cristianità; la rivolta protestante e il razionalismo rivoluzionario; i l na- turalismo positivista, il materialismo storico e l'agnosticismo; i l nihilismo e il comunismo. Sempre minacciato i l regno di Dio dalle forze materiali e sempre testimoniato dalle forze spirituali animate dallo Spirito Santo.

Non crederemo perdute a Cristo quelle regioni dove la per- secuzione trionfa, se ancora vi sono anime generose che lo confessano Uomo e Dio, morto e risorto; nè crederemo che esista il regno di Dio solo dove le folle lo acclamano, come nel

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giorno delle Palme a Gerusalemme a poca distanza da quando nelle stesse strade si sarebbe gridato: crucifige!

Così ciascun di noi nega Gesù peccando; lo rivive nella peni- tenza e nel perdono; muore e risorge: (( perchè chi crede in me anche se sia morto vivrà; e chi vive e crede in me non morrà in eterno D.

Chi crede, vuol dire anche chi spera, vuol dire chi ama. È impossibile stabilire i l regno di Dio e quindi partecipare alla resurrezione d i vita, vita eterna, senza fede, speranza e amore.

Ogni altra conquista che non sia animata dalla forza dello Spirito Santo per la testimonianza d i fede, speranza e amore, non avrà valore, nè consistenza, nè vitalità; sarà morte senza risurrezione.

Solo per Cristo ed in Cristo la morte postula la risurrezione. risurrezione di vita.

Roma, 16 aprile 1954. (Il Popolo, 18 aprile 1954)

LA MADRE DI TUTTI

GesG ci ha dato una Madre, che non porta nè desta invidia alla madre di ciascuno di noi, nè disturba le famiglie, nè fa differenza tra i figli nè crea dissensi fra gli sposi.

Questa Madre (che noi siciliani chiamiamo « la bella Ma- dre ») è presente a noi, e noi possiamo sentirci a lei'presenti, come conforto nelle pene, sicurezza nei dubbi e nelle paure, aiuto nelle tentazioni e nelle lotte.

Non è creazione della fantasia, non è mito tratto da antiche storie, non è per suggestione religiosa creduta a noi presente, la Madre d i tutti; è realtà vivente, che ci può aiutare se la invochiamo, che ci folgora di un suo sguardo se ciò risponde al volere divino e noi non vi opponiamo un rifiuto.

È ciò possibile? Si: ecco, a testimoniarlo, Loreto, Lourdes, Fatima, Pompei, Siracusa. Cito nomi a tutti noti, ma ogni

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nazione, ogni paese, ogni provincia ha i suoi nomi famosi e venerati. Molti ci dicono ogni giorno la realtà di tale presenza: ciechi, sordi, muti, storpi, infanti poliomielitici, giovani tuber-

colotici, vecchi corrosi da cancrene o paralitici, ce ne attestano

la presenza con i fatti più che con le parole.

A chi dirà essere Maria a Lourdes o a Siracusa la madre dei pochi, dei privilegiati, non la madre di tutti, si deve far notare che il miracolo è in virtù della fede, non la fede in virtia

del miracolo. Tra i molti che vanno a Lourdes, pochi saranno i miracolati; sono sempre i molti, anzi i moltissimi, coloro che acquistano a Lourdes, o nei mille santuari mariani, la pace dello spirito, la rassegnazione al volere divino, la speranza di .un risa- namento spirituale, che valgono assai più di una guarigione del

corpo senza la pace dello spirito.

Circola un'aura spirituale, anche fra coloro che sono dura- mente colpiti nel corpo, che li fa tranquilli e gioiosi nei loro

dolori, capaci di comunicare agli altri una gioia serena, altri- menti inconcepibile.

E noi la invochiamo rifugio dei peccatori, consolatrice degli afflitti, aiuto déi cristiani. E nel pregarla per noi, questa beni-

gna e potente Madre di tutti, la preghiamo sempre per i pec-

catori, per gli afflitti e per i cristiani perseguitati, che, oggi

come ieri, invocano la Vergine gloriosa, non solo perchè li protegga nelle persecuzioni o perchè cessi la persecuzione, ma

perchè dia loro fortezza nel resistere alle vessazioni e alle torture fisiche e morali e, più che altro, perchè essi non

cedano alle insidie e alle seduzioni.

Nessuno creda che l'aiuto della Vergine, anche con i pii1

strepitosi miracoli, abbia lo scopo di attaccarci di più a questa

valle di lacrime. Ella conobbe il dolore e si gloria del titolo d i Mater dolorosissima, e con la sua assunzione in cielo, anima

e corpo uniti, ci richiama al pensiero della nostra meta nel

cielo, con i l Figlio suo Gesù, nellrr visione beatifica di Dio.

Roma, Festa dell'Assnnzione, 1954.

(Mater Dei, Bollettino dell'opera

Mater Dei, A. I, n. 9/10, sett-ott. 1954)

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PUÒ . L'UOMO POLITICO ESSERE CRISTIANO

INTEGRALE? (*) -

A nessuno Dio nega le grazie per essere perfetto cristiano: « Siate perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto ». Si può supporre che Dio le neghi agli uomini politici, che come capi, legislatori, amministratori, sono necessari alla società?

San Paolo, nell'ingiungere a Timoteo di pregare per tutti gli uomini, scrive di pregare per i re e tutti quelli che stanno in posizione elevata, affinchè possiamo condurre una vita tran- quilla e quieta, in tutta pietà e dignità D; in linguaggio cor- rente è chiaro che lo scopo è l'ordine pubblico (tranquillità e quiete) e la buona amministrazione (pietà e dignità). Pertanto, se i governanti sono cattivi, a parte i l danno che recano alla comunità, è colpa loro, non mai del mancato aiuto di Dio perchè adempiano i l loro dovere e si mantengano buoni cri- stiani.

Nessun dubbio che ci siano stati-re e governanti buoni e an- che santi; basta ricordare san Luigi re di Francia, sant'Edoar- do re d'Inghilterra e altri ben noti, pur facendò (se occorre) la parte dovuta alla leggenda; leggenda, però, non esiste per san Tommaso Moro, che non fu santo perchè martire, ma fu martire perchè santo; come san Francesco Borgia era già un cristiano perfetto essendo governatore della Catalogna per di- venire poi, da gesuita, religioso perfetto e arrivare agli onori degli altari. Ciò avveniva i6 regimi assoluti, nei quali la teoria del principe non legato alla legge lasciava troppo libera la via agli arbitri, quantunque tale legge non fosse applicabile anche alle ingiustizie e ai delitti ( e le regge erano spesso centri di intrighi e di dissolutezza). Quando si passò ai regimi rappre- sentativi, con larga partecipazione alla vita politica, l'arbitrio

fu limitato, denunziabile pubblicamente l'ingiustizia, meglio

(*) Risposta a un quesito di don Giovanni Rossi, pubblicata in parte sn La Rocca, e dal Popolo con il titolo u Politica e grazia di stato ~.(N.d.c.) .

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regolata la legge; ma, dall'altro lato, si rese più facile la de- magogia, più accessibile il potere, e col potere l'abuso, anche

quello del pubblico denaro; e le tentazioni ebbero, ed hanno,

nella vita politica, un campo molto più vasto.

Ma chi può affermare che i l cristiano, nell'ufficio affidatogli,

non fosse in grado di resistere alle tentazioni, regolarsi secon-

do coscienza, seguire la legge morale, obbedire alle leggi giu- ste, emendare le leggi ingiuste e curare il bene comune?

Molti degli uomini politici di quasi due secoli di diffuso

regime rappresentativo e libero, han dato esempio d i probità, correttezza, spirito di sacrificio. È superfluo farne i nomi; avran- no avuto i loro difetti e la coscienza loro avrà forse rimproverato quelle deficienze che sono il retaggio di ogni uomo nato nel

peccato originale. Ma di molti di costoro, nell'esercizio del loro

particolare ufficio e nel generale loro comportamento, si ricor-

dano e la volontà di servire la buona causa e gli esempi d i virtù morale e civile. Che avessero potuto fare degli sbagli in politi-

ca non si nega; che avessero mancato ai doveri della loro co- scienza crisiiana, non risulta.

Lo stesso si esige nel campo morale dal professionista pri- vato, medico, avvocato, ingegnere, uomo di affari, commer-

ciante, banchiere. Non ricordo più il nome di quel direttore d i banca tedesco vissuto alla fine del secolo scorso, del quale si è parlato come di un santo; pare ci sia in corso un processo informativo delle sue molteplici virtù. Penso che san Matteo, chiamato dal telonio all'apostolato, doveva già essere ben di- simpegnato dall'attaccamento al denaro e ben disposto a sentire la voce del Maestro. I1 Vangelo, narrando la conversione del pubblicano Zaccheo, ci fa sapere che durante i l pranzo promise a Nostro Signore di restituire il maltolto dando fino i l quadruplo; ma per san Matteo, nel pranzo dato dopo la chiamata, non si fa cenno a pentimenti di colpe, nè a conse- guenti riparazioni.

I n conclusione: se il Vangelo afferma essere la via del cielo assai stretta, e perciò impossibile a percorrerla per i superbi e d i difEcilissimo esito per i ricchi, quegli uomini politici e amministratori pubblici che sono esposti a montare in superbia

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e a subire le tentazioni d i ingiuste locupletazioni, sono perciò stesso obbligati, se vogliono rimanere buoni cristiani, a stare molto più vigilanti degli altri, ed a pregare Dio che accordi loro con maggiore abbondanza la grazia dello stato.

( I l Popolo, 2 marzo 1937)

RIARMO MORALE

all'assemblea delle nazioni Mackinac Island, Michigan

La società si riarma per fare fronte ad un pericolo; quale è oggi i l pericolo sociale da fronteggiare, contro il quale si sente Ia necessità di un riarmo morale?

Coloro che vogliono difendere l'umanità dai pericoli della rivoluzione, dei conflitti armati, delle guerre distruttrici, cer- cano un punto di convergenza di tutte le forze, e questo è proprio il significato del riarmo morale.

Quando nel 1928 pubblicai in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d i ~ m e r i c a il mio libro « La comunità internazionale e il diritto di guerra n, facendo seguito ad una polemica da me sostenuta in Francia sulle possibilità de117abolizione del diritto di guerra, mi si oppose che io, sognando un avvenire pacifico, toglievo alla società un diritto fondamentale. Ed io a replicare che come divennero operanti, nei paesi civili, l'abolizione dclla schiavitù, della servitù della gleba, della poligamia, della faida o giustizia di clan familiare; così dovrà divenire operante l'abo- lizione della guerra, come diritto fondamentale di ogni sin- golo stato.

Per arrivare a questo punto ci vuole del tempo, certamente; ma, prima di ogni altra cosa, ci vuole la convinzione che l'abo- lizione del diritto di guerra sia possibile, e sia, quindi, un dovere umano, civile, religioso. È questo il primo passo del riarmo morale: la convinzione.

Quando una cattiva azione può dirsi tollerata: mettiamo la frode nella vendita della merce o la vendita d i arnesi non

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permessi (le chiavi false e i grimaldelli) e le autorità mancano di energia e i l pubblico non reagisce, è allora che s'inizia una agitazione da parte di coloro che se ne sentono offesi: con che mezzo? con quello che oggi si dice riarmo morale. Ripor- tando i l riarmo morale sul piano delle grandi rivendicazioni, come fu quella dell'abolizione della schiaGitù e della servitù della gleba, si porta la società verso livelli morali più alti per ottenere rivendicazioni di grande portata civile.

Oggi siamo convinti che contro il comunismo sovvertitore, contro il pericolo di una guerra distruttrice, contro l'asservi- mento di popoli dove ancora esiste la schiavitù o dove non sono abolite discriminazioni di razze, occorre la convinzione generale di un riarmo morale fortemente sentito per portare i popoli verso una soluzione pacifica duratura.

Se i l primo passo è quello della convinzione occorre fare i l secondo: trovare la base per renderla generale. Questa è data dal principio della libertà dell'uomo che è la condizione neces- saria alla sua perfettibilità. La libertà è facoltà interiore del- l'uomo prima che sociale; ma è anche sociale e senza di essa è impossibile qualsiasi sviluppo e progresso. L'educazione e la conquista della libertà si fa con l'uso stesso della libertà. Un bambino non apprende a camminare senza camminare; nè apprende a parlare senza parlare; nessuno saprà mai nuotare se non scende nell'acqua e vi si esercita; così è tutta la vita.

Quando si afferma non essere un popolo maturo per la libertà, si parte da un dato erroneo, perchè si esclude la pos- sibilità dell'uso della libertà con l'educazione e con l'esercizio; sia pure una libertà conquistata gradualmente, una libertà riaffermata con vigile disciplina; ogni libertà, per essere tale, deve poter essere compresa, conquistata e difesa come libertà.

Ancora un altro passo, i l terzo; se domandiamo la libertà per i popoli, lo facciamo perchè siamo convinti della verità che tuttiigli uomini sono uguali nei diritti e nei doveri reciproci, e tutti degni di affratellamento e tutti chiamati al reciproco amore e al reciproco aiuto.

E questo i l punto centrale per arrivare al vero riarmo mo- rale: la solidarietà umana e l'amore reciproco.

È riarmo perchè è la chiamata alla difesa e alla conquista;

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questa è fatta realmente sul piano morale. Morale, dal latino mos, vuol dire costume nel senso d i comune regola delle buone relazioni umane, che si tramandano di generazione in gene- razione e formano i l modo di vivere in società.

Questa vita in società importa limitazioni reciproche e aiuto reciproco, espressi nelle due celebri formule: « Non fare ad altri quel che non vorresti sia fatto a te stesso »; e « fare agli altri quel che vorresti che a te altri faccia ». In sostanza: non fare il male e fare il bene. La libertà del male non esiste; chi fa i l male che la società proibisce, ne porta la pena; chi fa i l male che la società non può punire, è condannato dal rimorso della propria coscienza, dal rimprovero della famiglia, dalla riprovazione della società. È la morale che ci impedisce di fare il male.

Non basta non fare il male; bisogna fare del bene agli altri, quel bene che noi vorremmo che fosse fatto a noi stessi. Bene spirituale, bene educativo, bene culturale, bene civile, bene politico, bene materiale di soccorso, di beneficenza, mutualiti, credito, riabilitazione.

Così arriviamo al vero riarmo morale; evitando i l male e facendo i l bene, fino alla più grande delle azioni umane e civili, quella di portare tutta l'umanità all'amore universale e di abolire i pericoli di guerra, le tristi conseguenze delle dittature, l'asservimento di popoli oppressi, l'avvilimento di classi repu- tate inferiori, indesiderabili, intoccabili.

È nostro dovere combattere in noi stessi le passioni che causano gli odi, le lotte, gli egoismi, le violenze, i delitti; e combattere soprattutto la superbia che è la radice di tutte le immoralità.

Sia il riarmo morale internazionale il trionfo dell'Amore, quell'Amore che Gesù annunziò come fuoco portato dal cielo, che deve accendere tutti i cuori degli uomini (*).

Roma, 11 agosto 1957.

(*) Ii messaggio fu letto all'assemblea del riarmo morale a Mackinac, presenti le delegazioni di 49 nazioni, dall'on. Ferdinando D'Ambrosio, cui Sturzo l'aveva affidato.

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(C NON EST VESTRUM NOSSE TEMPORA ...

L'ultima domanda degli apostoli rivolta a Gesù prima che que- sti li lasciasse per tornare al Padre, fu di interesse nazionale e cioè se fosse venuto il tempo per il ristabilimento del regno di Israele. La risposta è un insegnamento perenne per tutti: Non ap- partiene a voi sapere i tempi ed i momenti; il Padre li ha serbati nella sua potestà; ma voi riceverete forza di Spirito Santo in voi e sarete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria fino agli estremi confini della terra ».

Gli apostoli erano i testimoni de visu, coloro che avevano passato con Gesù il periodo della vita pubblica « dal battesimo di Giovanni fino alla ascensione ». La testimonianza apostolica si trasmette a tutti i cristiani che hanno ricevuto la cresima (forza e virtù di Spirito Santo), per rendere testimonianza al Cristo. È perciò detto a tutti: (t Non est vestrum nosse tempora ... 1).

Questo passo, che ha uno speciale riferimento alla vita collet- tiva, va collegato con l'altro che riguarda più da vicino la vita personale e familiare di ciascuno. Dopo aver messo in guardia dalla ricerca ansiosa e dall'attaccamento ai beni materiali, sim- boleggiati nella sete di guadagno: Mammona, Gesù chiude il discorso con la viva esortazione a non essere solleciti dei beni terreni, perchè i l Padre sa che abbiamo bisogno dei cibi e dei

In risposta, i l presidente dell'assemblea e la delegazione italiana invia- vano a Stnrzo i seguenti telegrammi:

«Profondamente commosso dal Vostro messaggio che è stato ricevuto con entusiastici'applausi dai cattolici di quarantanove nazioni e da me stesso nell'assemblea generale per il riarmo morale, io ringrazio Voi sinceramente per le Vostre parole di incoraggiamento e di consenso n.

Frank N. D. Buchman, presidente

C( Ministri deputati rappresentanti quarantanove nazioni hanno applaudito in piedi Suo messaggio condividono Sue idee n.

onorevoli: Pacati, Colitto, Belotti, D'Ambrosio

(N.d.C.)

209 14 - S~uszo - Problemi spirituali

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vestiti; e riassumendo la linea di condotta dei suoi seguaci, conchiude col celebre passo: « Quaerite primum regnum Dei et justitiam eius, et haec omnia acljcientur vobis n.

Cercare prima i l regno d i Dio e la sua giustizia; dare testimonianza al Cristo, sono due precetti che collegano cri- stianamente la vita privata e la vita pubblica. L'assicurazione che i beni terreni ci saranno dati per giunta e che i l Padre tiene nelie sue mani provvidenti i tempi e i momenti della storia umana, proietta la nostra vita terrena nel quadro spi- rituale del regno di Dio.

I1 punto di coincidenza di ogni azione diretta alla conquista dei regno di Dio è l'osservanza dei comandamenti; Ia conse- guente abitazione in noi « del Padre e del Figlio D, « la perma- nenza dello Spirito Santo in noi 1) è strettamente collegata con l'osservanza dei precetti. E se i l primo precetto è quello dell'amore di Dio e l'altro, simile al primo, è l'amore del pros- simo, e in questi due si compendiano la legge e i profeti, il « quaerite primum regnum Dei et justitiam eius e l'« estis mihi testes » non sono che precisazioni e chiarimenti dell'u- nico amore.

In sostanza, la necessità di cercare con i l lavoro i mezzi d i sussistenza, e la partecipazione al bene del proprio popolo sono anch'essi doveri se coordinati al regno di Dio, alla sua giu- stizia e alla testimonianza del Cristo, in quanto rientrano nell'orbita dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo. Al con- trario, ciò che offende il principio di questo duplice amore non è che i l disordine.

P1 gesuita cappellano presso Filippo I1 di Spagna, che si lagnava con il suo generale, sant'Ignazio di Lojola, delle non poche nè brevi cerimonie di corte alle quali era obbligato a partecipare, ebbe per risposta che se non ne sentiva compia- cimento nè attaccamento, poteva rimanere in quel posto senza pericolo, potendo anche, con la grazia di Dio, arrivare al più completo distacco.

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Quand'ero giovanetto provavo una certa sorpresa a leggere le storie di militari santi e a rilevare nel Vangelo e negli Atti apostolici non solo la bontà ma la pietà di certi centurioni e capi militari anche di origine pagana. Non vi è professione civile o militare, nè condizione sociale che di per sè impedisca la vita cristiana. Basta cercare per primo il regno di Dio, cioè

osservare i comandamenti; anche i l centurione che assiste al sacrificio di Gesù sulla croce, dà testimonianza al figlio di Dio. Del centurione Cornelio di Cesarea si legge negli Atti che egli era « pio e timorato di Dio come tutta la sua famiglia; egli faceva molte elemosine ai poveri e molte orazioni a Dio D. F u costui avvisato da Dio di mandare a rilevare l'apostolo Pietro a Joppe, dove era ospite di un certo Simone cuoiaio.

La partecipazione all'azione apostolica, e quindi alla te- stimonianza del Cristo, non solo durante la vita pubblica del Maestro con i discepoli e le pie donne, Marta e Maria, Nicco- demo e Giuseppe d'Ariinatea, accompagna tutta l'attività degli apostoli; troviamo segnati negli Atti apostolici e nelle Epistole una serie di nomi di veri precursori di azione cattolica, dagli schiavi, artigiani, militari, alle persone di famiglia patsizia e imperiale.

L'azione detta oggi sociale, comincia a Gerusalemme, con l'assistenza alle vedove e alle famiglie povere dei primi cri- stiani, si sviluppa nelle forme di comunione di beni in Geru- sulemme e in Alessandria; continua nella raccolta di fondi e di beni raccolti per i l culto. e dati ai poveri durante l'incrude- lire delle persecuzioni. È tutta una primizie di esempi di amore del prossimo, che si innesta alla testimonianza della verità evangelica del Cristo, mediante anche il martirio non solo dei capi, ma di innumere turba di fedeli.

Mutano i tempi e i costumi; non mutano i caratteri del regno di Dio nè il dovere di amore verso Dio e verso il pros- simo. Se oggi si parla di doveri civili (purtroppo assai più di diritti che di doveri), non è perchè la vita civica sia stata inventata con l e , celebri rivoluzioni della fine del settecento,

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ma perchè la forma di regime popolare, non nuova nel mondo, è stata portata alla sua più larga e più organica formazione.

In tutte le epoche la vita civile e politica si è svolta secondo

i bisogni, gli istinti, le occasioni dei vari popoli, con parteci- pazione dei cittadini o dei soggetti, principalmente in due

settori: il contributo fiscale e la difesa del territorio. I1 go- verno quasi sempre è stato in mano a case regnanti, a oligarchie

d i famiglie, a usurpatori militari. I governi popolari o misti di Atene e d i Roma avevano il contrappeso degli schiavi e degli iloti. Nel medioevo le città libere esprimevano i l go- verno civico e artigiano, mentre i l contadino era servo della gleba e i l signorotto dominava le campagne, e, cresciuto di potenza, si impadroniva delle città. In tutta la storia politica,

sia o no emersa la figura del popolo elettore e della rappre- sentanza popolare nelle assemblee parlamentari, non è mai

mancato i l dovere cristiano di concorrere al bene collettivo, secondo le possibilità storiche e giuridiche di tempi e luoghi.

Vennero criticati dagli enciclopedisti e dai razionalisti i religiosi che disertavano la società, specie in tempi assai turbo- lenti, per andare a vivere da soli o insieme ad altri, in monti inaccessibili o in lontani deserti. Non compresero e non com- prendono tali critici che il contributo dato da monaci ed eremiti alla società, nel senso più largo e importante della parola,

è stato tanto più apprezzabile, quanto più il loro appartarsi po- teva sembrare una specie di disdegnoso estraniamento. A parte

coloro che han dato solo l'esempio di virtù religiose e di

rigide austerità, il che, del resto, attirava molti alla loro

sequela, ed estendeva nelle popolazioni il sentimento della caducità umana e delle necessità della vita religiosa; la forza

educativa del monacato non fu mai senza valore sociale. Si deve ai monaci la diffusione dell'enfiteusi ed i notevoli progressi nella

coltivazione delle terre abbandonate; la istituzione di scuole ed ospedali, e furono questi i più grandi benefici che in epoche ferree potevano rendere alla società. I centri di cultura, la

conservazione di manoscritti presso i vari ordini religiosi, crea-

rono la grande epoca dei teologi e dei filosofi medievali e la prima rinascita umanistica.

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11 dovere civico nelle moderne democrazie ha preso un aspetto più esteso e più intenso; ma dal punto di vista cristiano non può dirsi che sia sostanzialmente diverso da quello che deriva dalla nostra concezione etico-religiosa; è lo stesso in radice ed è attuato nelle forme più rispondenti alla struttura politica della società; solo la casuistica, cioè il campo della prassi morale è più esteso, più caratterizzato, più specifico che non sia stato in altri tempi e in altri paesi.

I1 diritto attivo del voto per le elezioni alle cariche pub- bliche è stato dichiarato universale ed esteso, quasi- da per tutto, anche alle donne. È evidente che la responsabilità etica dell'esercizio di tale diritto è la stessa d i quella che fosse nel medioevo nelle città libere dove esisteva sia per le corporazioni, sia per i seggi municipali o per i parlamenti, da parte d i coloro che ne avevano diritto. Non mancare senza adeguato motivo all'esercizio di tale diritto che, verso la comunità, si trasforma in dovere; sceglier persone adatte, tendere ad avere ammini- strazione onesta e curante del bene pubblico; evitare la fazio- sità, la corruzione, tutto allora come oggi. Che dire se un prete del nostro secolo si comportasse come un simoniaco del secolo XII accettando una somma per votare (o fare votare) il nome di un candidato, specie se inidoneo, scorretto, disonesto, irreli- gioso? Non dico un prete ma qualsiasi cittadino che manca al dovere di coscienza della buona scelta è colpevole; se fa ciò per compenso è doppiamente colpevole, anzi due sono colpevoli: chi dà e chi riceve; per giunta la rappresentanza civica o nazionale sarà in fondo una rappresentanza corrompitrice o corruttibile. Perchè non fare una lega contro l'uso del denaro a scopo di corruzione elettorale?

Ricordo che la mia prima candidatura a consigliere comu- nale nel 1899 sotto la bandiera della democrazia cristiana fu posta agli artigiani e operai elettori del mio comune contro il metodo usato dai due partiti in conflitto che da tempo si alter- navano al comune. « Io non vi darò nessun compenso per il voto, nè vi prometto alcun che di personale, tranne che una buona amministrazione quando avrò conquistata la maggioran-

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za. Chi mi vuole, mi dia il voto; chi non mi vuole, voti per gli altri M. Da allora quasi tutti gli artigiani e molti fra i contadini mi restarono fedeli sia per il quinquennio della lotta fatta dai banchi dell'opposizione, sia per i l quindicennio

dell'amministrazione d i maggioranza. Nel 1919 lasciai Caltagi- rone per fondare il partito popolare: la stessa formula mi servì

per la nuova fatica. Cito l'esperienza personale per provare

con i fatti essere possibile vincere le battaglie sia contro la corruzione elettorale sia contro la corruzione amministrativa e politica.

Che cosa vi è di più difficile nella vita pubblica che il non abusare del potere, cioè amministrare con giustizia? I1 concetto d i giustizia, basilare nella vita privata e nella vita pubblica, è tutelato da leggi. Purtroppo, è assai difficile mantenersi entro i limiti della giustizia nel rispetto dei diritti altrui e nell'os- servanza dei propri doveri.

La vita politica attiva è in mano a pochi, la vita politica d i controllo, d'iniziativa, d i opinione, di partecipazione mo- rale è dei molti, oggi si può dire di tutti, se la totalità dei

cittadini sentisse intimamente l'obbligo di una partecipazione, effettiva e cosciente, alla politica del proprio paese.

È spiacevole rilevare che in tutti i paesi, anche dove il cristianesimo ha profonde radici e pratica generalizzata, lo spi- rito d i parte, la passionalità dei partiti, l'influsso della lotta d i classe d'ispirazione e di pratica marxista e , più ancora, le

beghe personali, gli attriti locali di famiglie, di categorie, di campanile, alterino,la vita politica in tutti i suoi aspetti.

Non è solo la lotta elettorale impregnata di passioni; lo è anche la vita pubblica con le gelosie personali, che arrivano a coinvolgere i molti nel vortice passionale, creando un dedalo di intrighi per conquistare un centro o per scalzare la base

ad avversari e a concorrenti. C'è chi passa da una legislatura all'altra, da una scadenza all'altra, non pensando che alla lotta

elettorale come all'affare ~rincipale, l'unico, dimenticando fami- glia, professione, pratica religiosa, doveri della propria carica; ingolfandosi nella più difficile e 'tormentata esistenza che si possa immaginare.

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A questo stato si è arrivati anche per le larghe rimunera- zioni e i vantaggi accordati al posto ambito d i deputato e d i senatore; remunerazioni e vantaggi estesi anche alle cariche amministrative locali perfino dei comuni, nonchè degli enti pubblici di ogni sorta. Si va creando una nuova classe d i politicanti-amministratori o di amministratori-politicanti; che estendono l'abuso della corruzione nell'ambito della gestione del pubblico denaro.

Molti dicono di difendere la patria, la moralità, lo stato e perfino la chiesa e la fede. Non è così che si cerca il regno d i Dio e la sua giustizia; non è così che si rende testimonianza a l Cristo; ma con l'osservare i comandamenti e prima di tutto il comandamento della giustizia e dell'onestà che sono alla base dell'amore del prossimo.

Quando nel medioevo le città e i comuni erano divisi in fazioni armate, fra i molti santi, sorse frate Francesco a predi- care pace e amore prendendo come sorella la povertà. Oggi, a l posto di predicatori della povertà, abbiamo in abbondanza co- loro che vogliono basare tutta la vita sul materialismo storico e sulla lotta di classe.

Non nego che si debba portare tutta la cura possibile nella vita pubblica perchè giustizia ed equità siano affermate nel campo economico; è doveroso che gli uomini di governo re- golino l'amministrazione in modo che il denaro pubblico vada per il bene di tutti, specialmente per le zone depresse e per le categorie che mancano di risorse e di mezzi. Purtroppo, l'ac- centramento nello stato e nelle altre, pubbliche amministrazioni d i gran parte di imprese bancarie, industriali, agricole e com- merciali, ha prodotto una larga classe di nuovi arricchiti o in via di arricchimento, sviluppando un nuovo affarismo politico con tutte le passioni che lo accompagnano.

Ogni epoca ha il suo male, come i l suo bene. Durante il medioevo avvenne un accentramento di ricchezze più che in mani laiche, i n mano di enti ecclesiastici, i quali, dato il sistema feudale, erano entrati a partecipare all'ingranaggio

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politico del tempo, in posizioni eminenti nelle corti e nelle

assemblee locali e centrali. Tale sistema creò non solo il desi- derio ma la facilità di ottenere benefici ecclesiastici e introdusse

l'abuso di corrispettivi in favori e denaro. La simonia che si

diffuse fu definita una forma di eresia pratica e fu combattuta da grandi santi, fra i più noti san Giovanni Gualberto, san Pietro Damiano, san Gregorio Settimo. I1 fenomeno sociologico

era quello della unione nelle stesse mani del potere e della ricchezza, fenomeno questo che accompagna in tutte le sue fasi i partecipanti al potere pubblico, specie nelle varie forme di oligarchia, sia assoluta che rappresentativa.

In tempi moderni molti ebbero fiducia nel sistema della divisione dei poteri e nell'intervento della massa popolare nella vita pubblica per attenuare il fenomeno sociologico della unio- ne della ricchezza col potere e rendere più rigida l'amministra- zione pubblica e più distaccata la funzione di governo dalla diretta gestione della stessa ricchezza privata, evitando i mali cagionati nei periodi del feudalesimo, delle signorie e delle monarchie assolute. L'adozione del sistema democratico non si improvvisa. Con i l tempo e l'esperienza può ottenersi un nor- male ricambio della classe politica; con l'esperienza si arriva alla formazione morale e politica delle nuove generazioni. La realtà vissuta supera il quadro di qualsiasi preformazione teo- rica e intellettualistica.

I1 male è quello di avere inserito nel tentativo di norma- lizzazione democratica, la concezione dello stato economico a

tendenza marxista e perfino del socialismo di stato; la devia- zione in campo morale ha trovato larga base nel profittantismu

collegato, dove più dove meno, alla concezione socialista e alla lotta di classe. È in questo nuovo clima che si deve portare tutto

l'afflato spirituale del senso cristiano della vita, perchè la vita , privata e pubblica (non vi sono differenze) vanno decadendo nel fango dei piaceri, nell'ingordigia del denaro, nell'abuso del potere.

Con tanti mali che cosa succederà? Sarà evitato il comu- nismo? - sarà democratizzato il socialismo? - avremo la pace? - vinceremo la crisi economica? - supereremo il peri-

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colo di guerra? - domineremo la crisi morale? - torneremo ad una vita onesta? - salveremo la patria? Sono queste do- mande continue ed ansiose sul nostro domani lontano e vicino.

Ma i l domani non è nostro; nostro è i l presente e solo i l presente, con i suoi doveri, fra i quali anche quello di preve- nire per quanto possibile il domani, cioè eseguire quel che oggi è i l nostro dovere e il nostro potere, che certo si protrae nel domani e può avere anche effetti duraturi. Ma il domani, quale esso sarà per essere, non è nostro; è -nelle mani del Padre. I1 domani o domani l'altro e gli anni e i decenni che seguono ci troveranno in piedi, attenti alla venuta del Cristo, solo se oggi avremo adempiuto al dovere presente dell'ora che urge; solo se ieri, nelle ore e negli anni già divenuti lontano ricordo, avremo cercato il regno di Dio e la sua giustizia, dando testimonianza al Cristo. Solo così saremo sicuri di aver fatto i l bene per noi e per i nostri fratelli, pel nostro paese, per il popolo, la nazione, la società, il mondo. E tutto scomparirà ai nostri occhi quando si chiuderanno, restando solo con noi il Cristo nella finale testimonianza e nella partecipazione al regno di Dio.

(Studi Cattolici, anno I, n. 2, 1957)

Non è la distanza che distacca; è lo spirito di distacco che distanzia gli uomini fra di loro. Due persone vicine o convi- venti possono sentirsi lontane quanto i due poli e come tali non trovare modo d i avvicinarsi; mentre due persone che vivono lontane l'una dall'altra possono tenere relazioni intellettuali, politiche, commerciali, di vicinanza piena di umanità.

La parola « umanità » nel significato di gentilezza, cortesia, condiscendenza, benevolenza è raramente usata; ma ha un va- lore pregnante, perchè esclude la parte inferiore e passionale dell'uomo e ne include la parte più nobile ed elevata.

C'è l'aggettivo cristiano che, a parte il significato proprio d i elevazione religiosa che tocca il divino, comprende tutte le

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qualità di vicinanza del prossimo in un amore che ci congiunge a Dio; ma tale aggettivo, nel linguaggio delle relazioni pub- bliche (pubbliche nel senso di vita associata in tutte le sue appartenenze) può essere equivocato, e non riuscire adatto a caratterizzarle. È chiaro, però, che ogni contatto umano dal quale siano esclusi l'egoismo, l'ira, l'orgoglio, i l risentimento, in fondo è e può dirsi cristiano, secondo l'insegnamento di san Paolo dove precisa che frutto dello spirito è l'amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longani- mità, la mitezza, e così di seguito.

Perciò usiamo il termine di umanità, precisando che il compito delle associazioni internazionali e nazionali delle rela- zioni pubbliche è proprio quello di fare che gli uomini nei contatti di affari, pubblici o privati, si avvicinino con reciproco rispetto, fiducia, comprensione, amabilità, cortesia, interessa- mento. Anche quando l'esito o la risposta sarà negativa ( e tante volte deve essere negativa) se n e dovrà rendere evidente e nei modi più comprensivi possibili il buon motivo legale o morale o di convenienza.

Con il sistema parlamentare i contrasti politici e la lotta dei partiti sono portati sul piano civile delle elezioni, del refe- rendum e su quello parlamentare; forme queste di diritto e d i fatto di alto livello civile, accettate e volute per legge e se- condo le regole del sistema e ,la decisione della maggioranza. È incomprensibile in paesi civili il fatto che tali elevate forme d i vita pubblica possano essere turbate da faziosità verbali, da tumulti nelle aule parlamentari, da lotte incivili, da intolle- ranze reciproche. Si tratta purtroppo di residuo dello spirito fazioso di altri tempi, di mancanza di educazione, sì da dare sfogo agli istinti animaleschi e volgari della parte bassa della nostra natura.

Le relazioni pubbliche, come associazione assertiva, educa- tiva, divulgativa del senso superiore di convivenza umana, di rispetto reciproco, di comprensione e di elevatezza spirituale, contribuiranno molto al miglioramento del costume, alla soli- dità delle istituzioni e alla pacificazione degli spiriti turbati da pregiudizi e da passionalità.

( I l Pubblico, 12 novembre 1957)

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SOLIDARISMO, CHE COS'È?

A chi voleva seguirlo, Gesù diceva di vendere quel che aveva e darlo; ai poveri; non mi pare che il solidarismo dei tempi presenti parta da tale insegnamento; anzi, nella società solidarista poveri non ce ne dovrebbero essere.

Saranno i solidaristi poveri di spirito D? Parlo di coloro che, pur avendo dei beni terreni, pochi o molti, saprebbero

mantenersene distaccati come è scritto nel Vangelo, in modo da creare una solidarietà economica senza ricerca di vantaggi egoistici? Sembra impossibile, sia perchè la società è formata da cristiani e da laici, da credenti e da atei; e anche perchè non tutti i cristiani sono poveri di spirito nel senso che spiega san Paolo dove dice: « Coloro che usano questo mondo come coloro che non ne usano, perchè passa la figura del mondo attuale)). Vedo che sono £uori strada; il solidarismo non è questo.

Forse gioverà prendere quale punto di partenza l'esempio della prima comunità cristisna di Gerusalemme, nella quale molti vendevano i loro beni e ne portavano i l ricavato agli apostoli, per distribuirli ai fedeli. Ma due fatti turbarono la tranquillità di questa spontanea comunione di beni (non certo a tipo co,munista): il caso dei coniugi Anania e Safira. Costoro vendettero il campo; Anania portò a Pietro una parte del prezzo, facendo comprendere si trattasse dell'intiero ricavato; Pietro lo rimproverò perchè mentiva non agli uomini ma a Dio, aggiungendo che egli non era obbligato a far ciò e poteva benis- simo restare in possesso dei suoi beni o del ricavato della ven- dita; nessuno lo aveva obbligato; a queste parole Anania morì di colpo; e così poco dopo anche Safira la quale, ignorando la morte del marito, ripetè a Pietro che proprio quello era il ricavato. Come si vede: niente obbligatorietà, ma spontaneità dell'offerta senza secondi fini; ma libertà, liberalità, sincerità; insegnamento sublime questo, con la fulminea sanzione che vi diede Pietro.

Più significativa fu l'occasione della nomina dei sette dia-

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coni ai quali fu a5data l'amministrazione delle offerte, in se- guito al risentimento dei « greci )) (oriundi delle zone mediter- ranee di origine ebraica) verso i quali si faceva una certa discri- minazione a vantaggio degli ebrei di Gerusalemme e dintorni. Pietro disse che gli apostoli non potevano occuparsi di ammi- nistrazione dovendo diffondere il Vangelo di Cristo; era meglio che un'altra categoria di persone di fiducia (boni testimorti), i diaconi, fossero preposti alle mense, e così avvenne.

Mi sono fermato sui primi insegnamenti ed esempi cristiani: distacco spirituale dai beni terreni e uso di questi a vantuggio dei fratelli, per fare notare come non si può dare vera solida- rietà (se si vuole usare questo termine in senso traslato) che non parta da una filiazione, che non formi una famiglia, che non vivifichi un sincero amore del prossimo.

Tutto questo non è solidarismo.

Che cos'è allora, il solidarismo? I1 termine non è ancora registrato dai nostri vocabolari, ma corre come tutte le parole che servono sia a precisare che a confondere le idee. I,a soli- darietà è un vincolo di carattere giuridico-economico, quello d i rispondere insieme ad altri dell'obbligo del pagamento o dell'esecuzione dell'opera o dei danni possibili e così via. È anche passata ad uso traslato, quale vincolo morale di associa-

to a fare o a non fare, a fare i l bene o a'fare i l male; i framas- soni hanno vincoli di solidarietà; le sette segrete lo stesso; an- che i ladri e i briganti; i camorristi e i mafiosi. Si tratta in tutti i casi di vincoli volontariamente assunti e coattivamente imposti o per sentenza d i giudice o come sanzione d i società private ex-lege.

Si dà anche una solidarietà nazionale nella difesa contro il nemico; non si dà una solidarietà statale, non nel senso della forma di regime, perchè ad un regime se ne oppone un altro; non come direttiva di governo, ad uno ne succede un altro; nè

'come complesso di interessi, i quali sono visti e valutati secondo le ideologie economiche o politiche e le preferenze di catego- ria o d i partito. Nel campo internazionale si può arrivare, at-

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traverso i trattati, a fissare una determinata solidarietà inter- statale. Nei casi surriferiti, si potrà parlare di solidarietà, non c'è affatto solidarismo.

Gira gira, arriviamo a quel che i modernissimi vogliono farci capire: il solidarismo sarebbe per loro un sistema di soli- darietà organica e permanente nel campo dei rapporti econo- mici fra le varie categorie o classi o settori dell'attività uma- na, nell'ambito di uno stato o di più stati collegati a questo scopo.

Non si tratta di public relations o di hurnan relations, impor- tate a noi dall'America, le quali si vanno sviluppando nel cam- po della amministrazione e dei rapporti 'di lavoro; ottima ini-

. ziativa che presuppone un minimo di comprensione psicologi- ca, un certo senso di solidarietà, e se piace, anche un apprezza- mento cristiano dei rappoiti fra persone ragionevoli. No; il solidarismo sarebbe una speciale caratteristica della organizza- zione economica, fra categorie di produttori e di lavoratori.

La cosa può sedurre chi ignora che cosa sia l'organizzazione della società e come si sviluppi per proprio interiore dinami- smo al quale concorrono fattori spirituali e materiali, liberi e determinanti, nel corso di secoli, così da doversi ritenere po- veri e vani sforzi anche i successi temporanei di dittatori e

riformatori. * * *

La rivolta dei nativi dell'Algeria, a parte il risveglio e i l fermento del dopoguerra, non sarebbe avvenuta se la popola- zione di origine francese colà residente non avesse, per posi- zione culturale, economica e di razza, formato quasi una clas- se di dominio; la resistenza, anche con le armi e quindi il con- flitto, deriva da mancanza di comunanza e di fusione demogra- fica, diversità di educazione e di cultura; contrasti di interessi e di razza, gelosie e incomprensioni: è la crisi normale dei con- tatti di civiltà diversa; lo chiameremo colonialismo. La storia è lunga e i millenni ci parlano di simili conflitti.

Lo stesso, più o meno, avviene in paesi di emigrazione an- che civili; i nostri emigranti negli Stati Uniti per arrivare al livello delle popolazioni americane di origine inglese e irlan-

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dese, han dovuto penare per oltre mezzo secolo; han dovuto dimostrare, in due guerre mondiali, di essere anch'essi buoni e validi americani; han dovuto modificare mentalità e costumi, adottare lingua' e cultura. Ciò non ostante anche oggi è difficile per essi accedere a certe facoltà di medicina perchè, dato il sistema del numerus clausus, vengono preferiti gli altri; lo stes- so per posti di responsabilità. Quando Fiore110 La Guardia, di origine pugliese, fu eletto sindaco di New York, sembrò un fatto di eccezionale importanza. Pensare che fino a poco tempo addietro nelle chiese dirette da rettori irlandesi i fedeli di ori- gine italiana erano tenuti in seconda fila.

Breve, la solidarietà di convivenza si conquista con lenta e difficile ambientazione. Quando i nativi temono che i nuovi ve- nuti possano divenire, non dico maggioranza, ma una minoran- za efficiente, reagiscono e minacciano rappresaglie e secessioni, come è oggi i l caso dell'Alto Adige o come fu il caso della Valle d'Aosta nell'immediato dopoguerra per la lotta fatta dal fascismo alla lingua francese e per immigrazione di operai di parlata italiana. Questi non sono soltanto fatti di carattere psi- cologico, nazionalistico, campanilistico, politico: sono anche mo- tivi economici; si teme che attraverso l'invadenza numerica degli emigranti, appoggiati o no dal potere politico, si sviluppi una prevalenza economica.

Questi fatti, griderebbe un solidarista convinto, non sono pertinenti: la solidarietà si sviluppa sul terreno della egua- glianza di classe, di categoria e di diritti. Contro questa affer- mazione ho pronto un primo esempio: la condotta dei sinda- cati (unions) inglesi verso gli operai italiani, chiesti dallo stesso governo inglese per le miniere nazionalizzate. Gli operai inglesi si opposero; boicottarono i nuovi venuti; obbligarono il loro governo a ritirarli dalle zone minerarie (con disdoro dell'auto- rità politica), a farli ritornare in Italia o ritenerli in altri impieghi occasionali. Niente solidarietà e nessun indizio di solidarismo; completa rottura sindacale, oltre che umana e cristiana.

Si dirà che i minatori italiani andavano in casa d'altri; re- stiamo in casa nostra. Che cosa avviene nella Liguria e nel Piemonte e perfino in Lombardia? Si è sviluppato un forte '

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risentimento contro le popolazioni meridionali: i terroni stanno invadendo le terre del nord, le fabbriche del nord, gli impieghi del nord; solo nella provincia di Genova vi saranno 300 mila calabresi ( l i chiamano calabresi perchè questi sono i più noti). Costoro han formato a Genova delle cooperative per poter così evadere i vincoli della legge che proibisce la ricerca del lavoro fuori residenza (legge tuttora in vigore benchè contraria al dispo- sto costituzionale). I1 socio di una cooperativa ha diritto di risie- dere dove la cooperativa è fondata, ecco il ripiego dei terroni. È anche in atto la campagna di stampa « anti-sud D, l'opposi- zione alla cassa per il mezzogiorno, alla legislazione regionale delle isole, Sicilia e Sardegna, e così di seguito.

Solidarietà? Inizio di solidarismo in campo economico-so- ciale? Niente di questa merce: lotta economica e perfino discri- minazione fra italiani e italiani. È enorme!

LO stato modernissimo secondo i nuovi profeti del solida- rismo dovrebbe portarci alla forma più evoluta della economia sociale, che non sarà socialismo e non sarà comunismo. Che cosa sarà mai? Come si sopprimeranno i conflitti? con l'auto- rità della legge? con l'intervento politico? con la formazione del partito unico? con le corporazioni per legge? è laicista? è sovietico? quale struttura politica? la libera o la dittatoriale?

Di qui non si scappa. Ebbene, i l solidarismo è una formula equivoca che conta su sentimenti cristiani di gente che non è cristiana; su formule libere di gente che vuole costringere i l paese ad unico regime; su principi economici che per essere attuati debbono eliminare ogni libertà.

I1 solidarismo contiene tutti i microbi dello statalismo e

tutti gli equivoci del socialismo.

Roma, 28 gennaio 1958.

26.

NOLITE TIMERE

Con queste confortanti parole Gesù assicura gli apostoli della sua presenza, del suo aiuto, delle speranze che desta nel loro cuore. Siano gli apostoli ai remi nella tempesta del lago,

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siano nel rifugio dopo la crocefissione, alla vista di Gesù han paura come di un fantasma; ma la nota voce del Maestro l i rassicura: non temete. E quando Pietro dice di chiamarlo a sè facendolo camminare sulle acque del lago e Gesù risponde: vieni, al primo passo egli sente mancare il sostegno e grida; Gesù lo prende per mano e lo rimprovera amorevolmente: « uomo di poca fede, perchè hai dubitato? A chi non ha ferma fede manca il sostegno, lo prende i l timore di cadere, e ver- rebbe meno se non arrivasse la mano pietosa d i Gesù.

La gioventù, al primo affacciarsi alla vita, sente mancare la speranza; il buio dell'avvenire, la diacoltà di orientarsi, la voglia di arrivare di botto senza affrontare travagli e pericoli, le, delusioni se vuol resistere alle tentazioni seduttrici, la rotta verso l'errore, la sete d i guadagni, la corruzione: una strada che non spunta. La voce interiore del Maestro divino che chiama e ammonisce, non è più sentita; la speranza non sor- regge chi ha preso l'insegna del carpe diem, o chi si è chiuso nella triste malinconia degli sfiduciati.

Quel che si dice della vita individuale, e degli stati d'animo dei tormentati del presente, si dice della vita collettiva in tutti i settori delle attività e delle speranze umane: politica, cultura, economia, lavoro. Anche coloro che per ufficio, per apostolato laico, per tradizione ed educazione si interessano ai problemi religiosi spesso temono dell'avvenire come gli apostoli teme- vano la tempesta nel lago.

E dire che Gesù, nell'inviare i l suo messaggio a giudei e a gentili, aveva avvisato gli apostoli che l i mandava come agnelli in mezzo ai lupi prevedendo fatiche, persecuzioni e supplizi e confortando con la sicurezza della sua presenza « fino alla consumazione dei secoli n.

Alla visione cristiana della lotta fra il bene e il male, fra Cristo e Belial, e al conforto della perenne assistenza di Gesìi Cristo, fa contrasto quella d i coloro che, distaccando la materia

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dallo spirito, l'umano dal divino, pensano che si possa nel mondo stabilire una giustizia e una pace per effetto di nuove teorie, di rivoluzioni benefiche della vita associata, come fatto naturale, al quale potranno concorrere tutte le tendenze pro- gressive.

Tale visione della realtà umana manca di base scientifica e storica; applicato un sistema di vita associata, se 'ne vedono i difetti e si cerca di emendarli; creandone un secondo è lo stesso bene e male che riappaiono; i tentativi di 0rdine.e di pace perpetua si sono dimostrati vani e utopistici; è la sorte della torre di Babele. L'uomo è sempre lo stesso; al momento critico si sprigiona l'invidia d i Caino e la terra è bagnata dal sangue d i Abele; si sviluppa la perversità di Giuda e Gesù è tradito con un bacio. La megalomania di imperatori e dittatori, come qiiella di Guglielmo 11 o di Hitler, fa scatenare guerre mon- diali. E appena superate le guerre guerreggiate, il mondo viece afflitto da guerre locali e da rivolte coloniali; mentre la guerra fredda fra oriente e occidente corrode le forze di rinascita così larghe e promettenti. Anche in questo come in mille altri casi, vale l'esortazione di Gesù: « Non temete, o piccolo gregge, perchè piacque al Padre celeste dare a voi il regno I;, i l regno delle speranze non fallaci e delle realtà non apparenti.

È norma di vita spirituale quella di affidare i l nostro passato alla misericordia di Dio, il nostro avvenire alla divina provvi- denza, occupandoci solo del presente. Che cos'è il presente? È l'attimo che passa e che è nostro e del quale e nel quale possiamo fare tutto i l bene o tutto i l male che noi vogliamo. Questo presente è in noi stessi; è il nostro essere: pensiero, volontà, azione. Questo momento presente, che dura per noi tutta la vita e per l'umanità i secoli e i millenni, è registrato da un organo simbolico e vivente, il Cuore. Dov'è i l vostro tesoro lì sarà i l vostro cuore ». I1 resto è fuori della nostra cerchia di azione, il resto non esiste. I1 cuore è dentro di noi, esso vive del nostro presente col palpito che ama, teme, spera, gioisce, dolora. Perchè sciupare questo tesoro nella vita mate-

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riale che è solo un mezzo e non cercarlo nella vita dello spirito che è di per sè una gioia, un godimento, una perennità felice, anche in mezzo ai dolori e alle afflizioni del nostro pellegri- naggio verso il cielo?

Saremo così forse degli egoisti, pensando a noi stessi e non agli altri? Non disse il Maestro che al giudizio finale darà il premio a .chi avrà fatto il bene ai fratelli, ai più bisognosi e derelitti; a chi aveva fame o sete, al carcerato, all'ammalato, a l nudo, come se fosse fatto a Lui stesso?

Questa comunione fra gli uomini è sintesi di tutte le virtu, in quanto ogni difetto, ogni vizio, ogni colpa offende il pros- simo; ogni buona azione lo aiuta e lo sorregge. La società si trasforma solo con le virtu: giustizia e temperanza, prudenza e fortezza, dal piano umano speculativo e inefficiente passano a quello divino; solo con la fede, la speranza e la carità può domarsi l'orgoglio del sapiente e l'egoismo del possidente.

Se è naturale ,pensare alla società in termini di timore: - che sarà d i noi, famiglia o classe? di noi, città o nazione? di noi occidente od oriente? di noi società o chiesa? - è più utile e doveroso dire: che debbo io fare oggi per la famiglia, per la classe, per la città, per i l paese, per la cultura, per la scuola, per la chiesa? Qual'è il mio dovere? Che cosa mi dice i l cuore? Che cosa mi insegna Gesù? L'oggi è \lita, è lavoro, è combattimento, è sacrificio: coraggio, piccolo gregge, 'a voi è dato i l regno; perchè ogni buona azione, ogni atto d i dovere, ogni buona parola è il tesoro con il quale si compra il regno ,dei cieli.

Un soffio di anticlericalismo passa su1 nostro paese; i comu- nisti sono bene agguerriti; i socialisti tengono le masse legate

a l materialismo mariista; gli altri sono divisi da di5denze. egoismi,.faziosità; quale la rotta del191talia?

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Uomini di poca fede, perchè dubitate? Cercate di darvi da fare per superare la tempesta; cercate d i vincere lottando e non d i perdere lamentandovi; fate ciascuno i l vostro dovere e non continuate a questionare fra voi per chi deve primeggiare sugli altri, chi riuscire a superare il traguardo elettorale dimenti- cando di combattere l'avversario, cercando mezzi sleali e com-. pagnie infide.

Solo chi confida nel Signore potrà superare i l proprio orgoglio; solo chi sacrifica sè stesso per gli altri vince anche perdendo; solo trionfa chi alla menzogna preferisce la verità; all'egoismo, l'amore; alla servitù della materia, la libertà dello spirito.

Roma, 6 aprile 1958. (Meridiano 12, aprile 1958).

MESSAGGIO PATERNO

Sul labbro d i un Pastore, anzi del supremo Pastore della chiesa, i l primo messaggio non può non essere che quello di un padre che ama, che desidera i l maggior bene possibile, che abbraccia tutti e l i stringe nell'amplesso dell'amore che unisce gli uomini a Dio e Dio agli uomini.

Pace, giustizia, libertà, reciproca comprensione dei diritti e dei doveri, benessere, tutto quanto si può desiderare nel mondo in una rinnovazione spirituale, tutto quanto la parola cristiana significa e vivifica, non può mancare, non è mancato nel breve saluto che Giovanni XXIII ha rivolto a tutto i l mondo.

Parlando ai cardinali egli ha voluto quasi giustificarsi di aver preso il nome di Giovanni, nome non più scelto nella lunga serie dei papi dal secolo quattordicesimo ad oggi. I1 mo- tivo domestico e parrocchiale del suo paese110 ci commuove; il ricordo di Giovanni Marco, i l san Marco evangelista del pa- triarcato veneziano è per lui u n affetto pastorale comprensi- bile; ma il richiamo ai due Giovanni del Vangelo, i l Battista precursore e martire, predicatore della penitenza e dell'intc- grità della famiglia, e l'Evangelista, il prediletto che ebbe affi-

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data la Vergine Madre da Gesù sulla Croce, ci richiama ai primordi cristiani; ai due assertori dell'amore divino legato

, all'amore del prossimo. Giovanni Evangelista scrive: N Chi non ama il fratello che vede, come può amare Dio che non vede? D. E che cosa è la penitenza predicata dal Battista se non un atto di amore, il riconoscimento delle nostre colpe, verso Dio e verso gli uomini, che con la penitenza si riparano per prepu- rare la via al Signore? E che cosa è l'amore se non sacrificio d i sè stesso per gli altri e per Dio?

Sublime concezione cristiana, che mentre ci distacca dalle passioni e dagli egoismi terreni c'invita ad u v concezione della vita che eleva, nobilita, sostiene nelle traversie e nelle miserie d i questo mondo - e ci apre, anche sul piano della attività umana, orizzonti e speranze di benessere e di pace.

Pur alzando i l pensiero alle cose celesti, 'pur abbracciando i cristiani dissidenti e invocando come Cristo il perdono per i persecutori della chiesa, i l Pastore e padre di tutti tiene anche presenti i bisogni terreni, la pace fra i popoli, la tregua delle armi, l'equità nei rapporti umani e il benessere per tutti, specialmente per i non abbienti. Le parole di Giovanni XXITI, per la loro Iinearità, semplicità, comprensività, arrivano alle coscienze d i tutti in una universalità che abbraccia l'uomo nella sua completezza, e che non può richiamare altro che una pro- fonda religiosità e un sentimento cristiano che eleva e trasporta dalle piccolezze quotidiane alle sublimi aspirazioni dell'anima vivificata dalla fede.

So bene che non pochi lettori non hanno - i l dono della fede, che è dono divino; altri 'lo hanno, ma lo sentono scosso dalle miserie che possono toccare tutti non escluso i l campo ecclesiastico, per la pasta terrena della quale siamo tutti for- mati. Ma ci sorregge la speranza di un rinnovamento che non può essere realizzato senza l'apporto della chiesa, quale fiac- cola perpetua di verità che illumina e di amore che feconda.

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Oggi come ieri, come sempre da duemila anni, sentiamo l'impeto di una realtà intima, non solo perchè si rinnova a Roma i l miracolo di una successione ininterrotta di quel Pietro sulla cui pietra è edificata la chiesa di Cristo; non solo perchè un'angelica figura torna in Vaticano a rivolgere la sua parola al mondo; ma anche perchè lo slancio d i ogni parte del mondo verso Roma rinnova il miracolo della prima Pentecoste cristiana in G e r u ~ a l e ~ m e , quando tutti ascoltavano Pietro e gli altri apostoli i quali erano compresi nelle varie lingue dei popoli lì convenuti ascoltando le grandezze di Dio.

Che sono mai p e s t e grandezze se non l'Amore? Nessuno cerchi di tirare le parole del papa al suo settore e trovarvi l'appoggio alla propria veduta particolare; la parola del papa è universale ed è la parola di Cristo: Amore. Ho portato il fuoco in terra; e che cosa voglio se non che sia acceso? D.

Roma, 1 novembre 1958. l

1 28.

SPERANZE ED AUGURI

Fra Natale e Capodanno gli auguri corrono i l mondo con ritmo accelerato, con doni e ricordi, con telegrammi e telefo- nate: pare che non si abbia altro pensiero che quello della fratellanza, del ricordo di persone care, di omaggi a personaggi influenti, rinverdimento di vecchie relazioni che sembravano estinte, ripresa d i un passato che per qualche giorno ritorna presente.

Potrebbe dirsi i l trionfo della speranza in un mondo che pare l'abbia perduta; un soffio di rinnovamento che ci fa di- menticare i mali presenti per un migliore avvenire; proprio perchè l'inizio dell'inverno richiama al pensiero la prossima primavera; la viola mammola del febbraio che annunzia i gia- cinti del marzo, i l mandorlo fiorito che prepara i l dono. del suo frutto come il pesco del suo. Tutto è vivificato dalla spe-

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ranza: anche quella dello studente che spera superare l'esame a febbraio; del venditore che spera nella maggiore richiesia del cliente; dell'agricoltore che attende la maturazione dai campi e dai giardini; dell'industriale per la vendita dei pro- dotti; dell'operaio per l'aumento del salario. Così tutti, nes- suno escluso; speranze umane, mondane e speranze spirituali e cristiane si intrecciano nel nostro cuore, ora agitandolo, ora dissecandolo in una vicenda continua.

Perchè avvengono i suicidi? Perchè in un determinato mo- mento della vita è mancata la speranza a sorreggere colui che si sente affranto dalle avversità; perchè si ingrandiscono le perdite del momento al punto di non reputare che la vita abbia un valore. Così, il deluso in amore; lo studente bocciato agli esami; la figliola cui fu negato il permesso del ballo. Come spiegare siffatta tristizia contro sè stessi (la cronaca ne sotto- linea le frequenze) se non come una disintegrazione della per- sonalità umana, il cui complesso cede al piccolo fallimento ingigantito al punto di cercare nella morte violenta una solu- zione? Vi concorreranno le crisi di nervi, l'educazione fisica e psichica malcurata, gli eccitamenti sensuali, la visione in- completa della vita; per tanto resta ancora un margine umano non facilmente superabile, tranne che per una passione, quella che avrà portato verso i l suicidio per eccitabilità, autosugge- stione, mimetismo, così da far venire meno il senso del dovere verso sè stessi e verso gli altri nel piccolo e grande sacrificio accettato con rassegnazione o con fortezza.

Alla base di tutto ciò sta il processo di disintegrazione dell'io: la personalità umana esaltata dal razionalismo venne copcepita senza alcun legame con un assoluto soprannaturale, il Dio dei cristiani, la provvidenza, il destino futuro d i un'a- nima immortale. E ancora; l'esaltazione della sola ragione umana venne presto meno per i soffi gelidi del naturalismo e dell'agnosticismo. L'uno e l'altro portarono la cultura moderna verso un relativismo immanentista sempre più accentuato, a rimediare al quale non valsero le filosofie dell'idea che si rea-

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lizza nell'atto, nè quelle della esistenza, anzi dell'esistenza bru- ta, unica realtà apprezzabile.

La disintegrazione umana oggi prevale nell'orientamento

culturale e artistico, i l quale in termini estetici rivela, ilel campo figurativo e musicale,, quella mancanza di sintesi, la

quale anche nell'arte non può essere razionale e orientata verso la concezione dell'assoluto.

Donde può venire la speranza se non dalla sua intrinseca ragionevolezza? E dove può fermarsi la speranza se non in un

assoluto come termine di ogni realtà?. Ecco: l'attimo passa; questo è sempre misto di godimento e di delusione; il gòdi-

mento con il cessare genera la delusione; i l superamento della delusione diviene un godimento; l'uno e l'altro nella succes- sione dei momenti si perdono, mentre viva rimane la speranza.

Senza questa, nè i grandi artisti, nè i sommi poeti avrebbero potuto far nulla; nulla i grandi inventori, i realizzatori di riforme, i benefattori dell'umanità; nulla nel mondo di quanto

grande, insigne, degno di ricordo; non esisterebbe nè il passato nè l'avvenire: l'uomo perderebbe il senso della propria perso- nalità e realtà nell'attimo presente distaccato dal suo passato e non più ancorato al suo avvenire.

Se a qualsiasi deviazione tuttora la speranza sopravvive è proprio perchè la maggioranza degli uomini, pur con molti

difetti, è sana e sa che la speranza non manca di realizzarsi; che le delusioni, se sopportate in pace, generano idee nuove,

iniziative audaci, impegni sempre maggiori. Oggi il ramo della tecnica ha preso il sopravvento; ma è da avvertire che i bisogni

d i una civiltà industriale sono molto maggiori di quelli di una civiltà prevalentemente umanistica. Ciò non esclude, anzi pre-

suppone e include l'esistenza di una cultura umanistica sinte- tizzante, che contribuisca ad evitare deviazioni fomentate da

ideali antiumani nell'abbandono e quasi disprezzo dei valori etici ; quella cultura che neutralizzi gli effetti della disgrega- zione. Ma se ciò avvenisse, verrebhe a determinarsi una vera confusione d i idee; inadeguatezza d i linguaggio; incertezza di finalità consociate; deviazioni delle volontà umane conviventi

insieme; lotta senza superamenti; dal suicidio individuale per

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disintegrazione psichica, si arriverebbe al suicidio della con- vivenza per disintegrazione sociale.

Nel campo politico, la speranza ha speciale funzione, quella di mantenere le forze antagoniste in perpetua efficienza. Se queste venissero a mancare, anche in un solo settore, gli effetti di disgregazione sarebbero immediati ed irrimediabili. Nei paesi dove prevale l'autorità accentrata in una persona, è questa che sintetizza le forze atte a mantenere la unificazione politica; nella democrazia sono gli istituti pubblici che hanno i l compito della unificazione responsabile. Nell'un caso e nel- l'altro, sia per i capi sia per il corpo sociale, la speranza del meglio è necessaria; se questa viene meno, è la crisi, superabile o no proprio sulla base della speranza. Perchè, nel campo della politica, la realtà è sempre discutibile, è sempre insoddisfa- cente; dà luogo a risentimenti, mormorazioni, discussioni, conflitti.

Donde la necessità di riprendere lena, di avere una specie di rifacimento con le elezioni, e una necessaria ripetizione d i promesse ad ogni anno finanziario o solare che sia. Ecco perchè anche oggi, al primo giorno del 1959, sentiamo il bisogno di uno scambio di auguri, per ridestare le nostre speranze terrene, anche nella zona pericolosa della politica.

Ogni partito, ogni aggruppamento augura quel che risponde al proprio programma e al proprio modo di valutare e risolvere i problemi politici dello stato, escludendo quel che crede chc ne sia l'opposto da riprovare. Ma nella gamma del si e del no si insinuano ripieghi e raccordi che ne attenuano le asprezze e ne rivelano i contrasti; le speranze e gli auguri combaciano solo quando dal fattuale realistico ci si eleva agli ideali dei valori permanenti e universali.

In politica più che in altri settori della vita concreta vi sono auguri che sembrano senza speranze. Se guardiamo all'og- gi, e se chi scrive comincia da sè stesso, nota subito che egli augurerà che il disegno di legge sul finanziamento dei partiti passi al senato, ma non ne ha speranza, per lo meno im-

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mediata; augurerà che i l senato abolisca i l voto segreto, ma la speranza non lo aiuta; augurerà che venga abolito il voto preferenziale nelle elezioni di qualsiasi grado e specie, con quasi nessuna speranza; augurerà che si faccia un'inchiesta sui metodi amministrativi degli enti pubblici, ma non ne vede la possibilità; così di seguito.. E allora, mi si domanderà, perchè ti affatichi attorno a questi problemi? Ecco: perchè io ho avuto sempre fiducia ( e quindi speranza) nell'avvenire; un avvenire prossimo o remoto, che si realizzi me vivente o quando le mie ossa riposeranno in un cimitero non importa; perchè ho sen- tito e sento la vita politica come un dovere - e il dovere dice speranza. Oggi, a 87 anni compiuti, io che credo nella provvi- denza divina, sono certo che la mia voce, anche se spenta, rimarrà per qualche tempo ancora ammonitrice per la mora- lità e la libertà nella vita politica e perciò contro lo statalismo, contro la demagogia, contro il marxismo.

Così faranno coloro che nella vita pubblica hanno qualche cosa da-dire e da realizzare; e coloro che sanno agire secondo la propria coscienza e responsabilità, con costanza e perseveranza, afinchè l'Italia non si chiuda nel cerchio fallace di un social- comunismo che manca di fiducia nella libertà e di speranza negli ideali umani e spirituali, e non accetta, perchè intrinse- camente opposto, il metodo democratico. Spero che i cattolici riprendano coraggio, senza bisogno di mutuare dai socialisti idee sociali ed etiche delle quali questi ultimi ignorano il va- lore; senza bisogno di cercare a sinistra alleati infidi nè a destra collaboratori malevoli; ma curando di essere sè stessi, affrontando le difficoltà che la vita stessa impone e soprattutto correggendo certi errori del passato che ne hanno alterato la linea. Saranno questi auguri senza speranza?

La risposta al 1959.

P. S. - A proposito di speranze e di auguri, ho accettato le une e gli altri inviati da colleghi e da amici; da ammiratori e da dissenzienti; da compagni di lotta e da benevoli avversari; da correligionari e da concittadini; da giornalisti e da giornali. Rispondo ringraziando tutti quelli che si sono ricordati di me e ricambiandoli degli auguri che io estendo a coloro che mi

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sono stati vicini nel mio lungo cammino SU questa terra-, con la preghiera d i accettare anche la dichiarazione che le mie critiche e avversioni non toccano le persone, anche se indivi- duate per risalto giornalistico e per dare evidenza ai fatti; per tutti aggiungendo la speranza di bene, di ogni bene, del vero Bene nella fratellanza natalizia cristiana e nella terrena realtà della patria, a l cui bene tutti dobbiamo contribuire.

Roma, 31 dicembre 1958. ( I l Giornale d'Italia, 1 gennaio 1959)

EDUCAZIONE CIVICA E SENTIMENTO RELIGIOSO

Che ben venga l'educazione civica; se nel passato questa è mancata o quasi e fu da molti trasformata in educazione di parte e di partiti e ridotta a diseducazione dello spirito, il torto fatto alle giovani generazioni è stato gravissimo. Per giunta la vera concezione del cittadino è stata spesso deformata da una disintegrazione sociale che ci ha portati ad un ostile e polemico 'laicismo. Anche le colpe storiche si pagano.

Il civis romanus sum di san Paolo, rivendicazione di diritto e di dignità, nulla negando del suo giudaismo di origine nè della sua fede cristiana, dovrebbe essere per ognuno di noi il civis italianus sum, e domani anche il civis europeus sum, senza togliere nulla alla nostra concezione civile, politica e religiosa, a l nostro essere individuale nella sua completezza e nella sua realtà.

L'ordine civico non è in contrasto con il valore della perso- nalità umana nè con l'ordine religioso; lo stato non è in con- trasto con il cittadino nè con la chiesa; anzi, non può esistere ordine civico senza il complesso culturale che implica anche la formazione individuale e quella religiosa; non esiste un vero stato, cioè l'ordinamento legale del potere pubblico, senza il rispetto all'individuo e senza una concezione morale e religio- sa che lo sostenga. Concepire una comunità civile senza la per- sonalità del cittadino e il suo contenuto religioso è, oltre tutto, un assurdo storico; concepire uno stato che combatte, avvili-

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sce, elimina la religione come tale, è un oltraggio alla libertà individuale e un disordine morale che toglie la qualifica civile e annulla la sostanza di una vera civiltà.

E mentre la storia spiega perfino la lotta di un determinato stato contro una determinata religione, sia per la confusione e i l contrasto d i poteri e di interessi attuali, sia per i l timore di perdere la propria indipendenza nell'urto di fazioni politiche e religiose in contrasto, sia per odio di classi e di razze, non è logicamente e storicamente ammissibile, sia nel mondo civile sia nel mondo primitivo, l'abolizione di qualsiasi espressione religiosa, d i qualsiasi comunità di culto, altrimenti che come una involuzione incivile, come una sopràffazione violenta e barbarica.

* * *

Perchè, allora, l'educazione moderna è presentata come distaccata, quasi fosse depurata o decantata da ogni accento re- ligioso, da ogni idea che ci richiami alla divinità? Non solo i l mondo civile è concepito in senso laicista, ma si cerca di farvi entrare subdolamente o surrettiziamente, un concetto d i auto- nomia tale da arrivare quasi a divinizzare lo stato, come un tempo si tentava di divinizzare la nazione; o la democrazia come un tempo si divinizzava la libertà; o i l popolo come un tempo si divinizzò la Ragione, la Dea Ragione.

Laico nei tempi antichi indicava l'ignorante, e chierico il dotto; da qui la parola francese clero » ancora in uso; famo- so il libro La trahison des clercs per dire degli scrittori o lette- rati. Oggi laico in Italia è divenuto qualifica di onore dei par- titi che politicamente ( e anche culturalmente) vogliono igno- rare la religione o subordinarla allo stato, forse per differen- ziarsi dalla D. C. .che ha messo quel cristiana dopo la de- mocrazia per indicare la implicazione religiosa e morale nella vita politica.

Dirsi laico oggi per alcuni è come dirsi istruito; proprio l'opposto d i quel che il vocabolario significava. E passi per la cultura, se n6 hanno una; ma, non per questo possono vantarsi d i essere detentori d i civiltà, la quale non è separabile dalla reli- giosità, nè possono fare all'umanità il regalo di mettere lo stato

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o la democrazia o il popolo al posto di Dio; perchè diceva san Paolo, voce dell'umanità del passato, del presente e del futu- ro: Non est potestas nisi a Deo: l'ordinamento civile, come il familiare (necessario l'uno e l'altro) derivano dalla natura 60-

ciale dell'uomo, della quale è Dio, l'autore e i l creatore. La costituzione americana non dimentica tale origine, e la

tradizione americana fa fissare al capo della federazione il giorno di ringraziamento, in cui rivolgersi a Dio per i benefici ricevuti durante l'anno; nè i parlamentari dimenticano di ini- ziare le loro sessioni con l'invocazione di Dio. Noi, invece, siamo laicizzati a l punto che parlamento e governo ritengono la religione quale affare privato e personale, da escludere dal- le manifestazioni civili, meno quando si va a funerali ufficiali se celebrati in chiesa.

Vorrò vedere cosa si scriverà sull'educazione civica nei li- bri adottati come testo di scuola. Unità nazionale; sta bene, per quanto della nazione si parlerà poco o nulla per non sem- brare dei nazionalisti. Si parlerà anche dell'Italia ente geogra- fico; si elogerà l'italiano, lingua di Dante e di Manzoni e si parlerà dell'Italia unità politica; tutto in stretta misura per non urtare i bolscevichi nostrani. Molta democrazia che confi- nerà con la demagogia; molto ((sociale » che va a finire ne1 socialismo; anche molta Europa fino a estenderla oltre corti- na ; soprattutto moltissimo stato: tutto nello stato, per lo sta- to; stato repubblicano, democratico, del lavoro, economico, as- sistenziale, previdenziale e provvidenziale.

Se si domanderà dove si trova questa divinità, non sapran- no indicare altro che il popolo idealizzato e il potere diviniz- zato. Governo? Parlamento? Presidenza? Elettorato? Magistra- tura? Tutti organi criticabili, tutti insoddisfacenti, da rifare.

L'Italia è i l popolo; sono popoli tutti i cittadini ovvero le folle dei dimostranti guidati dai comunisti o le masse orga- nizzate dai sindacalisti? Questi ultimi si dividono in CGIL, CISL, UIL, CISNAL, e così via; troppi e in contrasto per fare una unità ideale; meglio, secondo la formula costituzionale,

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« la repubblica basata sul lavoro n. Quale lavoro? quello degli uomini di cultura? delle varie categorie professionali? degli insegnanti? dei ceti medi? degli operai delle officine e dei cam- pi? E metteremo fuori della repubblica gli industriali, gli agri- coltori, i commercianti? Tutti i cittadini sono da qualificare lavoratori in atto o in fieri (i bambini e i ragazzi) o in riposo (pensionati e ammalati), nessuno da escludersi dalla repubbli- ca; neppure coloro che, subendo una giusta condanna, espie- ranno le colpe e si potranno riabilitare.

Civiltà e religione fanno sintesi nella persona umana. E se l'educazione laica, la tradizione politica, le passioni di parte, le teorie naturaliste e materialiste hanno attenuato o negato siffatta sintesi, occorre dimostrarla nella pratica vissuta del cristiano e nell'affermazione dell'uomo di convinzione e di cultura: non darsi concezione civica integrale che non sia vivi- ficata da una concezione religiosa, che per noi non è altra che quella del Vangelo d i Cristo.

(Orizzonti, 11 gennaio 1959)

30.

LA PREDICAZIONE :

RICORDI E SUGGERIMENTI

La mia esperienza di oratore sacro cominciò da chierico, nel 1887, nella cappella del seminario di Noto (panegirico per san Giuseppe); prese.termine a Milano nel 1905 (mese di maggio nella parrocchia d i san Tonimaso). Dovetti lasciare in tronco gli ultimi cinque giorni perchè chiamato d'urgenza a Caltagirone (mia città natale), per la nomina a sindaco (col titolo di pro- sindaco per via della incompatibilità di legge) dopo una clamo- rosa vittoria elettorale dei democratici cristiani di' allora. Espe- rienza incipiente, fatta senza pretese, anche per corsi di esercizi spirituali per uomini.

Ben poco e ben lontano per poter parlare in una rivista ora- toria di padri domenicani, che hanno per la predicazione il dono e la grazia d i speciale vocazione. Mi aiuterò con i ricordi di ascoltatore d i prediche, in Italia e all'estero, non tanto per

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desiderio di conoscere e apprezzare doti di oratori molto accla- mati, quanto per motivi spirituali e per bisogno di sentire i l conforto di autorevole richiamo alle verità eterne.

Mia prima impressione: effetto sicuro da parte di coloro che parlano con senso di convinzione e di intimità, evitando la declamazione e la voce troppo alta (non dico stentorea) anche in chiese assai grandi e affollate. Oggi la voce è aiutata dagli altoparlanti anche in ambienti medi, con sicura perdita (secondo me) di efficacia meditativa e penetrante e con aumento del di- fetto declamatorio. Ma ogni epoca ha le sue preferenze. Io non vorrei essere i l laudator temporis acti se puero di Orazio.

Seconda impressione: non sempre l'oratore sacro tiene conto della qualità dell'uditorio; ciò avviene a chi recita a memoria; ma anche a chi seguendo una traccia si fa trasportare dalla frase ricercata e da motivi improvvisati, alienandosi dal pubblico che lo ascolta. Escludo il caso di un molto celebrato predicatore di Parigi, il quale usava fare spesso prediche sui doveri di classe; ma (dicevano i maligni) egli, alla Maddalena, ad un pubblico aristocratico e ricco esponeva i doveri degli operai; e al Rosario,

. chiesa della periferia, esponeva quelli dei padroni. Applausi (come dire? a scena aperta) in ambo+le chiese. Sarà stata questa una disavventura non cercata o un mezzo di richiamo per pre- diche più utili; non ne seppi di più. Quel che mi sembra più grave è la posizione di scelta Ga classi operaie e classi padronali fatta dal pulpito, come una discriminazione religiosa, mentrc non è che una distinzione classista. Dio solo conosce i suoi; i l pastore cerca l e pecorelle, anche quelle perdute. E non insisto su questo punto, per non precisare luoghi e nomi di chi, a mio parere, segue oggi una strada che fa deviare.

Parlare ai presenti, ecco il dovere del sacro oratore; parlare destandone l'attenzione, e quindi facendosi comprendere. Gli antichi predicatori usavano il dialetto locale, specialmente nelle chiese della periferia o nei piccoli centri. Poi venne la schiera dei giovani oratori (fra i quali chi scrive) che propugnò l'uso della lingua in tutte le chiese. Non so se oggi farei lo stesso; allora si ebbe spesso la necessità (specialmente negli esercizi spirituali) di ripetere e tradurre in dialetto quel che si era detto

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in lingua, per interessare il pubblico più numeroso. Ricordo di un vecchio contadino, benestante e che aveva fatto le tre classi elementari, il quale, venendo dalla predica quaresimale della mia città (allora di trentaduemila abitanti) mi diceva che i l predicatore aveva destato in tutti grande entusiasmo (era un napoletano giovane, intelligente, efficace e che parlava assai velocemente). Gli domandai il soggetto della predica e mi ri- spose di non averla capita.

Oggi forse non sarà così; come non fu così con un altro oratore meridionale ai tempi della mia giovinezza. Era l'anno che la Pasqua cadeva per san Marco, e i giornali avevano scritto sul celebre ritmo del quando Marcus Pasqua dabit ... mundus totus ululabit. I1 predicatore quaresimale tenne parecchie pre- diche sul tema della fine del mondo e degli imminenti castighi divini, anche per via della recente occupazione di Roma e della persecuzione religiosa che ne seguì. Ricordo la paura che pro- vocavano quelle prediche nel popolino; io stesso, allofa quindi- cenne, ne sentivo insieme l'attrazione e la ripugnanza. Natural- mente, passata la Pasqua, la paura cessò, ma la critica al frate non cessò, nonostante che per un certo tempo un gruppo di fedeli continuasse a parlarne di casa in casa.

Era pure di quel tempo un altro predicatore, più anziano, forse uno studioso di storia. Egli, nelle sue prediche, se la prendeva spesso con i giansenisti come se li avesse presenti.

q Confutando i loro errori, ne raccontava le ribellioni come se fossero ancora alle porte della mia città a terrificare i devoti e allontanarli dall'Eucarestia e perfino dalla Confessione. Non mancavano allora in Sicilia tradizioni gianseniste, come lonta-

nissimo ricordo d i lotte più giurisdizionali che teologiche. È dovere essere tempestivi e rispondere ai bisogni veramente sentiti dalla generalità e non mai prendere argomenti sorpassati e temi non più sentiti.

Una delle tradizioni locali è quella del panegirico al santo protettore della città, della borgata o della parrocchia. Tale pa- negirico è un avvenimento importante ; è un numero della festa ; si vuole un oratore d i grido; va ad ascoltarlo anche chi non ha molta cura di andare in chiesa; gli esperti giudicano se l'oratore

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d i oggi abbia sorpassato i precedenti; quali i meriti speciali; come porge, come recita; se il lavoro è degno d i stampa ... così d i seguito. Non escludo tutto ciò, se veramente dà occasione a fare qualche atto di contrizione o a recitare qualche preghiera con fede e compunzione. Ma ogni cosa buona ha la sua piega; senza urtare sentimenti e tradizioni popolari, sarà bene che i fedeli sappiano discernere quel che veramente importa da quel che è solo un abbellimento esteriore.

Il lettore forse attenderà da me un parere su temi d i politica e d i azione sociale portati sui pulpiti e sulle cattedre delle chiese. Ecco: preferisco che tali temi vengano trattati in sale (anche iu sale parrocchiali) anzichè nelle chiese. Ma se per mancanza di altri locali occorre esporli in chiesa, sarà meglio insistere sulla linea d i insegnamento di teologia morale e non su polemiche di politica attuale. In ogni caso, parlerei dei doveri dei fedeli ( e proprio di quelli presenti), non degli assenti e neppure dello stato come ente il quale non può esservi presente, anche perchè lo stato è un'astrazione giuridico-politica rappresentata da pub- blici istituti e da persone investite di autorità, che non saranno di sicuro presenti. Per completare i l mio pensiero debbo aggiun- gere che i predicatori, dovendo conoscere bene quel che inse- gnano, se sono obbligati a parlare di azione politica e sociale (che in gran parte è impregnata di economia) abbiano cura d i prepararsi bene, e non parlino ad orecchio e con poche cogni- , zioni mal ricucite. È il minimo che si può domandare, quel minimo che in non pochi casi manca del tutto.

Riassumendo il mio pensiero si può arrivare alla conclusione, che è ben nota a tutti ed è regola ferma per tutti: la predica che vale è quella evangelica, detta con semplicità senza sciatte- r ie; con convinzione senza affettazioni; con interiorità senza opacità; predicare Cristo e questo Crocifisso, figlio del Padre; il quale nascose queste cose ai dotti e ai sapienti e le rivelò ai piccoli: « Si, o padre, perchè così ti è piaciuto che sia n (*).

(La Predicazione, Quad. speciale di Temi di Predicmione, n. 11-12, marzo 1959).

.(*) Matt. 11; 26.

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L' INNO DELL'AMORE

Perchè non s'insegna nelle scuole l'inno dell'amore, il più bello, puro, sublime inno che sia mai stato scritto? Proprio quello di san Paolo apostolo? Ne feci cenno in un mio arti- colo e ne ebbi subito una lettera di una insegnante che lo cono- sceva. Nessun altro me ne ha scritto; nessuno me ne ha mai parlato; la mia domanda è caduta come in un pozzo profondo; perchè non si fa imparare a memoria tale inno nelle nostre scuole?

Ricordiamone l'occasione; Paolo scriveva ai Corinti, la cui prima comunità cristiana era divisa (come dire?) in correnti e fazioni, propagandisti cristiani ( l i chiamo così tanto per intenderci), veri o improvvisati. San Paolo aveva già scritto una prima lettera, andata perduta; insiste qualche anno dopo con una seconda lettera dove si trova questo passo che può applicarsi, per esempio, anche alla D. C. del 1959: Mi è stato riferito su di voi, fratelli miei, che vi sono contese fra d i voi. Dico pertanto ciò che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo! - Io, invece, di -4pollo ! - Io, invece, di Cefa ! - Io, invece, di Cris~o. È stato diviso i l Cristo? Forse Paolo fu crocefisso per voi, ovvero nel nome di Paolo foste battezzati? Ringrazio Iddio che non battezzai nessuno di voi - se non Crispo e Gaio - sicchè nessuno dice che nel nome mio foste battezzati n.

Più in là presenta la chiesa dei fedeli come un corpo, il corpo di Cristo, nel quale ciascun membro ha la sua funzione pur partecipando della stessa vita di Cristo: « Ora voi siete corpo di Cristo e membri di lui ciascuno per la sua parte. E Iddio pose- taluni nella chiesa in primo luogo come apostoli, secondo come profeti, terzo come insegnanti, poi possanze, poi carismi di guarigioni, incarichi, governi, generi di lingue. Sono forse tutti apostoli? Forse tutti ~ r o f e t i ? Forse tutti insegnanti? Forse tutti possanze? Forse tutti carismi di guarigioni? Forse tutti parlano in lingue? Forse tutti le interpretano? Desiderate però ardentemente i carismi più grandi D.

16 - S ~ u a u , - Problemi spirituali

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È qui, in questa gara d i posti e d i attività, d i doni e d i pre- minenze anche d i natura ecclesiastica e spirituale, che san Paolo inserisce i l suo inno all'amore presentandolo come « una via anche più sublime ». Egli sa bene che occorre l'apostolato, l'ecclesiastico, i l laico; che occorrono prediche, riunioni, anche segni esterni miracolosi, se Dio l i dona, come quelli d i guarire ammalati o d i parlare lingue non conosciute; d i avere posti d i governo nella chiesa e potestà disciplinare; ma tu t to ciò vale, è efficace, è vissuto con la carità e nella carità, i n quanto questa esprime, realizza e vivifica la fede e la speranza. Ed ecco l'inno alla carità come sbocca dal suo cuore infiammato e come è espresso dalla sua penna, guidata dallo Spirito Santo:

Se le lingue degli uomini io parli e degli angeli, ma carità i o non abbia:

divenni bronzo risonante e cembalo vibrante. Se i o abbia profezia

e conosca i misteri tutt i e tutta la scienza;

e se i o abbia tutta la fede si da spostar montagne, m a carità non abbia: niente io sono.

E se i o sbocconcelli tutte le mie sostanze;

e se i o consegni il m io corpo af inchè io sia bruciato, ma caritù non abbia: . a niente m i giova. La carità è longanime, è benigna la carità.

Non è invidiosa la carità, non ha iattanza, non si gonfia, non è scomposta, non cerca le cose sue, non si adira,

non imputa il male, non gode dell'ingiustizia;. si compiace invece della verità, tutte cose ricopre, tutte cose crede, tutte cose spera; tutte cose sopporta. La carità giammai cade:

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mentre che, se siano profezie, saranno abolite; se siano lingue, cesseranno ; se sia scienza, sarà abolita. Parzialmente infatti conosciamo, e parzialmente profetiamo; m a quando venga ciò ch7è perfetto, ciò ch'è parziale sarà abolito.

Quand'ero bambino, parlavo come bambino, pensavo come bambino, ragionavo come bambino: ma quando divenni uomo, abolii l e cose da bambino. Scorgiamo inlutti adesso mediante specchio i n enigma,

allora, invece, da faccia a faccia; adesso conosco parzialmente,

allora invece conoscerò come sono anche conosciuto; adesso poi rimane fede, speranza, carità, queste t re ,

m a più grande fra queste è ' l a carità.

Teniamo questo inno della,vita morale e sociale, della vita civile e religiosa, della vita naturale e soprannaturale ; e quando la Fede sarà visione e la Speranza possesso; allora sopravviverà la Carità, sarà la nostra Fiamma eterna.

(Orizzonti, 29 giugno 1959)

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I N D I C I

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I N D I C E A N A L I T I C O

AMORE, 60.62, 135, 154, 159-162, 179- 181, 183, 202, 207.208, 210-217, 229, 241-243.

ANIMA, 57-62, 140. APOSTOLATO, 76-84, 92, 112.117, 211,

242. ARTE, 11-18, 141, 143-146, 188. ASCETISMO, 111. ASSOLUTO, 30-51. ATE~SMO, 56. AUGURI, 229.234. AUTORITA,' 135. AZIONE CATTOLICA, 77-84, 91, 114-127,

160.162. AZIONE SOCIALE, 81.84, 179-181, 192-193.

BATTESIMO, 65. BEATITUDINI, 103-111, 146-150. BELLO, 12.18, 143.147. BENE. 30.51, 150, 208, 224. BENEFICENZA, 180. BOLSCEVIS~~O, 168, 176-177. BOMBA ATOMICA, 198.199.

CARISMI, 241-242. CARITÀ, IO, 81, 91, 135, 179-181, 210-

218, 241-243. CARTES~A~VISWO, 22. CASO, 45. CHIESA, 63-69, 157-158, 172-177, 173,

190, 216, 228, 241. COMANDAMENTI, 210. COMPRENSIONE, 217-218. Conru~ismo, 176-179, 201, 207, 226. CONCILIATORISTI, 117. CONDANN~, 177-179.

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GERARCHIA ECCLESIASTICA, 67-69. GIUDIZIO FINALE, 226. GIUSTIZIA, 104-106, 135, 163, 172, 179-

181, 210, 215-217. « GRAIL D, 79-80. GRAZIA, 55-62, 86-93, 129, 139, 140-150,

KATURA, 5-6, 12, 38, 45, 55, 57, 58. 141-112, 149, 153, 163.

I \~ATURALIS~~O, 162-163, 166, 175. NON EXPEDIT, 117. Ncovo TESTAMENTO, 94-11.

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RAGIONE, 156-159, 230, 235. RAGION DI STATO, 173-177. RAZIONALISMO, RAZIONALISTI, 212, 230. REALTÀ, 19-30, 36-42, 58, 129. REALISTI, 19-30. REDENZIONE, 129. REGNO DI DIO, 131-139, 150, 163-165,

201-202, 209-217. RELATIVO, 31-51. RELATIVISMO, 230-231. RELIGIONE (sentimento religioso), 234-

237. RESURREZIONE, 169-171, 187-188, 200-

202. RIARMO MORALE, 206-208. RIFORMA PROTESTANTE, 174-175, 201. RIVOLUZIONE FRANCESE, 175.

~ACRAMENTI, 139. SACRIFICIO CRISTIANO, 128-139, 170. SANTITÀ, 85-93, 106-111, 115.127, 204,

211. SCHIAVITÙ E SERVITÙ DELLA GLEBA, 207. SCUOLA, 73, 92, 115. SEMPLICITÀ, 172. SOCIALITÀ, 190-192. SOCIETÀ, 3-4, 63-69, 73-84, 114-115,

118 n., 128, 156-159, 167-169, 174- 177, 179-181, 188, 190.193, 206-20à, 209, 220-223, 226, 234-237.

SOCIOLOGIA, 118-119. SOLIDARIETÀ, 138, 207-208, 220-223. SOL~DARISMO, 219-223. SPERANZA, 10, 135, 178-179, 181-183,

187, 202, 223-227, 229-234. SPIRITO, 45. SPIRITUALITÀ, 55-62, 85-93, 147-150. SOPRANNATURALE, 6, 57-58, 70, 101,

129, 140-150, 154, 162-163, 165-1699 175-177, 188-190, 230. .

STATO, 69, 137, 167-169, 173-177. 190, 196, 215, 223.

STORIA, 3.8, 172, 185-187.

TEMPO, 1-10, 31-35, 49-51. T o ~ ~ s m o , 22-30. TRASCENDENTISMO, 9-10, 37-51.

UMANITÀ. 129, 163, 185-187, 206-208, 217-218.

UNIONE POPOLARE, 119. ~ N I V E R S . ~ L I T À , 228.

VERITÀ, 12-13, 34-35, 37, 60-62, 65, 101, 144-150, 154, 159, 169-1719 183, 193-196.

VIRTU, 66, 186. VISIONE DI DIO, 140-150, 185. VITA, 60, 181-183, 186. VITA PUBBLICA, 212-217. VOLONTÀ, 45.

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I N D I C E D E I N O M I

A

,\RELE, 225. ARRAMO, XIV.

A ~ A M O , 129. ACNESE (santa), 106. ACOSTINO (santo), 28, 95. ALRERTARIO don Davide, 117. ALESSIO (santo), 115. AMBROCIO (santo), 117. Amroco, 155. APOLM, 113, 241. AQUILA, 113.

CALOCERO Guido, 153, 157, 158. CAPECELATHO card. Giuseppe, 124. CARTESIO Réné, 22. CICERONE, 97. COIAZXI don Antonio, 125. COLITTO on. Francesco, 209. CORNACCIA marchese Carlo Ottavio,

117. CORNELIO centurione, 112, 211. CRESPI Angelo, rx, xrr. CROCE Benedetto, XII, 22, 120.

B D ' t l n ~ n ~ o s ~ o on. Frrdinando, 208, 209. DANTE, 44, 171, 236.

BARCLAY Cartcr Barbara, 118. DE RUGCIERO Guido, rx, XII. BASILIO (santo), 167. BGERS, mrs., XII.

RELOTTI on. Giuseppe, 209. BENDA Julien, 41, 48. BENEDETTO XV, 136. EDOARDO (santo), 115, 202.

BERNADETTE, 93, 197. ELISARETTA (santa), 97.

BISMARCK von Otto, 114, 116. ENRICO (santo), 115.

BONAVENTURA (santo), 19. ESCHILO, 97.

BONOMELLI mons. Geremia, 117. BORCIA Francesco (santo), 204. Bosco Giovanni (santo), 123, 126. BOSSUET Jacques Benigne, 179. BRUNSCHVIC Léon, IX.

BUCHMAN Frank B. D., 209.

CAINO, 225. CAIO, 113. CALARIANA mons. Luigi, 117.

F

FAXL Mario, 80, 91. FATTA Michele, 22, 23. FEBE, 113. FEHRARI card. Andrea, 127. FERRARI Ubaldo, 126. FERRINI Contardo, 116, 117, 118, 120,

124. FILEMONE, 99. FILIPPO 11, 210,

Page 270: Vol ix problemi spirituali del nostro tempo (1945)

FIULNK ' ~ é s a r , 103. FRASSATI Pier Giorgio, 124, 125.

GAIO, 99. GAMALIELE, 112. GEMELLI padre Agostino, 121. GENTILE Giovanni, 22. GESÙ Cristo, 6, 63-70, 75-78, 82-87,

89, 90, 94, 98, 99, 103-107, 111-111, 129-131, 136-140, 150, 154, 157, 159, 160, 162-166, 169-174, 177-181, 184, 188-192, 200-209, 201, 205.211, 215, 217, 219, 223.226, 22U, 229, 237, 240, 241.

GIACOMO (santo), 130, 188. GIANO, 185. GIOIIDANI Igino, 153. GIOTTO, 144. GIOVANNI Battista (saiito), 98, -27,

228. GIOVANNI Crisostomo (santo), 167. GIOVANNI evangelista (santo), 58, 75.

91, 99, 100, 170, 173, 179, 183, 200, 209, 227, 228.

GIOVANNI Gualberto (santo), 216. GIOVANNI XXIII, 227, 228. GIROLAMO (santo), 167. GIUDA Iscariote, 67, 225. GIUSEPPE (santo), 105, 237. GIUSEPPE di Arimatea, 77, 211. GOETHE Wolfgang, 95. GREMRIO VI1 (santo), 216. GUGLIELMO 11, 225.

LACORDAIRE Jean-Baptiste, 168. LA GUARDIA Fiorello, 222. LAVELLE Louis, 29. LENIN Vladimir, 177. LEONARDO da Vinci, 51. .

LEONE XIII, XI, 94. LIDIA di Tiatiri, 113. LOMRARDI padre Riccardo, 164. LONGO Bartolo, 122, 123, 124. LUCA (santo), 134. LUCIA (santa), 106. LUIGI I X (santo), 115, 204.

R~ACHIAVELLI Nicolò, 166. MANGANO Vincenzo, 118. MANZONI Alessandro, 236. '

MARÉCHAL Joseph S. J., 29, 30. MARIA madre di Dio, 97, 203. MARIA Maddalena, 200. MARIA, 211. MARTA, 211. MASINI Renato, 125. MATTEO (santo), 82, 205. M ~ U R I Angelo, 117. MAZZINI Giuseppe, 171, 172. MEDA Filippo, 117, 118. MICHELANGELO, 44, 51, 144. MORO Tommaso, 116, 204. MOSCATI Giuseppe, 120, 121, 123. ~?~USSOLINI Benito, 177.

NAPOLEONE Bonaparte, 133, 175. H NECCHI Vico, XI, 121, 122, 123.

HITLER Adolf, 133, 177, 225. NEGRI Ada, 149. XEGRI Guido, 125.

I NERONE, 201. KICODE~IO, 77, 211.

IGNAZIO da Lojola, 210. NIETZSCHE Friedrich, 166. ISAIA, XIII.

O K

LNT Emmanuel, 156. OLGIATI mons. Francesco, 121. OMERO, 97.

Page 271: Vol ix problemi spirituali del nostro tempo (1945)

oBAz10, 1, 110. OZANAM Frédéric, 80, 91, 127, 168.

PAGANI Giuseppe, 126. PAOLO (santo), XIII, 28, 40, 62, 66-68,

70, 71, 85, 89, 90, 93, 94, 99, 100, 112, 113, 134, 135, 140, 142, 153, 159, 160, 164, 170, 178, 201, 204, 219, 234, 241.

PASCAL Blaise, 95. PERSIDE, 113. PICARD Gabriel, 19, 28. PIETRO (santo), 64, 67, 68, 99, 112,

154, 172, 17- 189, 200, 201, 211, 219, 220, 224, 229, 241.

PIETRO Damiano (santo), 216. PIO IX, 116. PIO X, 75, 100, 119. PIO XI, 82, 112, 127, 191. PIO XII, 133, 136. PIPITONE Giuseppe, 125. PLATONE, 97, 143. PONZIO Pilato, 173. PRISCA, 113.

RAFFAELE arcangelo, 169. RATTI don Achille, 117. Rocco (santo), 116. ROSSI don Giovanni, 204. ROUSSBAU Jean-Jacques, 72.

SAFIRA, 219. SALLUSTIO, 99. SALOMONE, 158. SARTRE Jean Paul, 166. SAVIO Domenico (santo), 123.

SHAKESPEARE Wiiliam, 95. SIL~, 113. SIMEONE, 90. SISIFO, 186. SOCBATE, 174. SOFOCLE, 97. STALIN Joseph, 177. STEFANA, 113. STEFANO lsanto), 115. STOPPANI Antonio, 117. STURZO Luigi, IX, X, 82, 142, 159, 192,

196, 208, 209. STURZO Mario, IX, XII.

S~LPRIZIO Nunzio, 124. SVETONIO, 99.

T

TABITA, 112. TACITO, 99. TARCISIO (santo), 106. TERTULLIANO, 28, 55. T inzo~~o, 204. TI^, 100, 113, 164. Tonrn, 169. TOMMASO (apostolo), 67, 188, 200. TOMMASO d'Aquino (santo), 19, 171. TONIOLO Giuseppe, XI, 78, 118, 119,

120, 121, 123. TRIFENA, 113. TRIFOSA, 113.

v VENANZIO, 106. VENTURA padre Gioacchino, 168. VIRGILIO, 97.

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I N D I C E

TAVOLA DELLE MATERIE

Awertenza . . . . . . . . . . pag. IX

Prefazione all'edizione inglese . . . . . . . D xi

PARTE PRIMA

LA RICERCA DELLA VERITÀ

Cap. I - Il presente . . . . . . . . . pag. 1 Cap. I1 - L'in~eriore moralità dell'arte . . . . a 11 Cap. I11 - Iì problema della conoscenza e l'in:uizione di Dio » 13 Cap. N - I1 problema deli'assoluto . . . . . . » 31

PARTE SECONDA

- - Cap. V - Necessità interiore della spiritualità . . . pag. m Cap. VI . I1 Corpo Mistico e la società umana . . . . » 63 Cap. VI1 - I cristiani nel mondo di oggi . . . . . n 70 Cap. VI11 - La vita spirituale dell'uomo comune . . . . n 85 Cap. IX - La lettura del Nuovo Testamento . . . . 91 Cap. X - Le Beatitudini . . . . . . . . n 103 Cap. XI - L'apostolato laico . . . . . . . n 112 Cap. XII - Il sacrificio cristiano e la pace sulla terra . . . n 128 Cap. XXII - La visione di Dio . . . . . . . » 140

APPENDICE

ARTICOLI D I CARATTERE SPIRITUALE

(1945-1959)

1. Morale autonoma e morale eteronoma . . . . . pag. 153 2. Messaggio al congresso degli operai cristiani . . . . I> 159 3. Cristo Re e l'apostasia dal Cristo . . . . - . » 152

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4 . « I1 Regno di Dio è in mezzo a voi u . . pag . I64 . . . . . . . . . 5 . Crisi morale di oggi » 163 . . . . . . . . . 6 . Morte e resurrezione » 169 . . . . . . . . . 7 . «Dio e popolo » 171

. . . . . . 8.Ilsignificatodellepersecuzioni » 172 . . . . . 9 . Per i nostri fratelli dopo la condanna » 177

10 . Presenza di Cristo nell'azione sociale . . . . . » 179 . . . . . . . 11 . Qui incomincia la nuova vita » 181 . . . . . . . 12 . L'ora nostra è i l presente D 183

. . . . . . . . 13 . L'infelicità del mondo D 185 14 . « Xon essere incredulo nia fedele u . . . . . . » 188

. . . . . . . . . 15 . Socialità cristiana » 190 16 . Sovversivismo sociale e rivoluzione cristiana . . . . » 192

. . . . . . . . . 17 . Menzogna e verità » 193 . . . . . . . 18 . Perchè piange la Madonna? » 197

. . . . . . . . . . 19 . Vita perenne » 199 . . . . . . . . . 20 . La Madre di tutti » 202

. . . 21 . Può l'uomo politico essere cristiano integrale? D 204 . . . . . . . . . . 22 . Riarmo morale » 206

... . . 23 . « Non est vestrum nosse tempora » n 209 . . . . . 24 . Spirito di umanità e di comprensione » 217

. . . . . . . . 25 . Solidarisnio. che cos'è? 219 . . . . . . . . . . 26 . « Nolite timere » 223 . . . . . . . . . . 27 . Messaggio paterno )) 227

. . . . . . . . . 28 . Speranze ed auguri 2.29

. . . . . 29 . Educazione civica e sentimento religioso » 234

. . . . . 30 . La predicazione: ricordi e suggerimenti » 237 . . . . . . . . . . 31 . L'inno dell'amore )) 241

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Zanichelli Editore Bologna L.3400