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Undicesima lettera del dottor Gianantonio Valli al signor Stefano Gatti Gentile signor Gatti, un ignoto apprezzatore delle nostre lettere ha commentato, su uno dei più coerenti siti cosiddetti «antisemiti», che «chiamare "gentile" un ebreo è voluttà per finissimi intenditori». Specularmente, un amico, egualmente perspicace, ha presentato così la mia Decima lettera: «Premessa redazionale: abbiamo il non vago sospetto che si dovrebbe eliminare quel "Gentile" in apertura di lettera. Non crediamo sia, "elettivamente", molto gradita tale definizione. Un incipit "offensivo"?». Le chiedo venia per tali maliziose, se pur acute, interpretazioni, opera di personaggi certamente originali, non controllabili, degni di democratico biasimo (come tutti i «negazionisti»). In ogni caso, Le assicuro, non è mai stata mia intenzione affibbiarLe il degradante epiteto di goy, che definisce me e i detti nonconformi. Come esige a proprio vanto un Suo congenere fictional in Brian di Nazareth, Lei è un vero ebreo, non un goy. Inoltre, essendo Lei stato inserito in funzioni direttive nella compagine del CDEC, presumo che la genuinità della Sua doppia elica sia stata valutata a dovere nelle più sfere più alte. L'avere io definito «antisemita» e «negazionista», se pure tra virgolette, il sito e gli individui suddetti (me compreso?, me lo dica, suvvia! non mi offendo), continua a permettermi di dispensare – sempre a erudizione dei miei goyim e a ripasso per me della lezione – qualche stimolante conclusione tratta dai miei studi. Ad esempio, l'indebito, illegittimo, strumentale, furbesco e fuorviante uso del termine «antisemitismo», da un settantennio pilastro di ogni anatema scagliato contro chiunque si mostri nonconforme all'ebraismo – cioè, a Lei – o al Sistema – cioè, sempre a Lei: Se l'aggettivo semitisch lo troviamo per la prima volta – dopo l'applicazione ai popoli fatta da Gottfried Wilhelm Leibniz qualche decennio prima – nel 1781 in uno studio del filologo austriaco August Ludwig von Schlözer sulle lingue parlate 1

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Undicesima lettera del dottor Gianantonio Valli al signor Stefano Gatti

Gentile signor Gatti,

un ignoto apprezzatore delle nostre lettere ha commentato, su uno dei più coerenti siti cosiddetti «antisemiti», che «chiamare "gentile" un ebreo è voluttà per finissimi intenditori». Specularmente, un amico, egualmente perspicace, ha presentato così la mia Decima lettera: «Premessa redazionale: abbiamo il non vago sospetto che si dovrebbe eliminare quel "Gentile" in apertura di lettera. Non crediamo sia, "elettivamente", molto gradita tale definizione. Un incipit "offensivo"?».

Le chiedo venia per tali maliziose, se pur acute, interpretazioni, opera di personaggi certamente originali, non controllabili, degni di democratico biasimo (come tutti i «negazionisti»). In ogni caso, Le assicuro, non è mai stata mia intenzione affibbiarLe il degradante epiteto di goy, che definisce me e i detti nonconformi. Come esige a proprio vanto un Suo congenere fictional in Brian di Nazareth, Lei è un vero ebreo, non un goy. Inoltre, essendo Lei stato inserito in funzioni direttive nella compagine del CDEC, presumo che la genuinità della Sua doppia elica sia stata valutata a dovere nelle più sfere più alte.

L'avere io definito «antisemita» e «negazionista», se pure tra virgolette, il sito e gli individui suddetti (me compreso?, me lo dica, suvvia! non mi offendo), continua a permettermi di dispensare – sempre a erudizione dei miei goyim e a ripasso per me della lezione – qualche stimolante conclusione tratta dai miei studi. Ad esempio, l'indebito, illegittimo, strumentale, furbesco e fuorviante uso del termine «antisemitismo», da un settantennio pilastro di ogni anatema scagliato contro chiunque si mostri nonconforme all'ebraismo – cioè, a Lei – o al Sistema – cioè, sempre a Lei:

● Se l'aggettivo semitisch lo troviamo per la prima volta – dopo l'applicazione ai popoli fatta da Gottfried Wilhelm Leibniz qualche decennio prima – nel 1781 in uno studio del filologo austriaco August Ludwig von Schlözer sulle lingue parlate nel Vicino Oriente, i termini «antisemitismo» e «antisemita» vengono coniati: l'uno da Christian Rühs nel 1816 o da Moritz Steinschneider nel 1860 (nell'accezione più di «non-semita» che di «contro-semita»), l'altro nell'ottobre 1879 da Wilhelm Marr (in realtà, Massimo Ferrari Zumbini rileva che il termine, per quanto accetto non solo a Marr ma a quasi tutti gli avversari dell'ebraismo – ma non all'«antisemita» ottocentesco Bernhard Förster o al dottor Joseph Paul Goebbels o all'«anti-semita» Albrecht E. Günther, che nel 1927 lo dice «stramba fantasticheria con cui l'intero Movimento viene ridicolizzato di fronte ad un pubblico illuminato» – viene introdotto nella cronaca politica immediatamente prima di Marr dai ebraici giornalisti dell'ebraica Allgemeine Zeitung des deutschen Judenthums, il 2 settembre 1879).

Definito dall'onesto ebreo Albert Lindemann, docente di Storia all'Università di California, «il "patriarca" simbolico del moderno antisemitismo», familiare con le vanterie di Disraeli sull'eccellenza del sangue ebraico e sull'abilità degli ebrei a operare dietro le quinte, Marr viene solitamente dato come Halbjude (figlio dell'attore «ebreo» Heinrich Marr), persino dall'«antisemita» otto-novecentesco Otto Glagau e dubitosamente da Sigilla Veri. Ciò, anche per via dei matrimoni: il primo e il terzo con Halbjüdinnen, il secondo con una Volljüdin, l'ultimo infine – a riparazione/consolazione? – con una tedesca. Mentre Sander Gilman lo dice «son of a baptized Jew», Fritz Zschaeck ne attesta al contrario una completa origine «ariana».

In ogni caso i termini «antisemitismo» e «antisemita» – a indicare una gamma di atteggiamenti nei confronti degli ebrei che possiamo elencare, in crescendo, come : indifferenza, antipatia, disprezzo, opposizione, avversione, ostilità e odio («come si sa», il termine, taglia corto l'arruolato Eugenio Saracini, «significa odio verso gli ebrei») – vengono da noi sem-pre posti tra virgolette. Di gran lunga più rigorosi sono infatti gli aggettivi anti-ebraico (che raccoglie, in concretezza storica, pressoché tutte le valenze del vecchio «antisemita»), anti-giudaico e anti-sionista, a definire rispettivamente una

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ostilità/opposizione:1. all'azione socio-economico-politico-storica dell'ebraismo (ostilità quale espressione, per dirla con l'eletto Roberto

Salvadori, di un «pregiudizio sociale»),2. alla sua fantasmatica ideo-religiosa (ostilità quale «pregiudizio religioso», laddove l'essere antisemita configurerebbe

un «pregiudizio razziale») e3. ad una sua precisa, moderna articolazione, per nulla dissonante, ed anzi la più intima e coerente, con la Judenfrage.

Che taluno – e non certo noi – voglia poi definire la propria posizione intellettuale o politica, e magari anche religiosa o morale, aggettivandola in uno dei tre modi suddetti, non ci sembra, in via di principio, per nulla censurabile. E ciò, anche se il fatto potrebbe costituire, viste la pregiudiziale anti-«antisemita» che ha fondato e regge il Sistema nonché le ricorrenti qualifiche onusico-ecclesiali dell'«antisemitismo» quale crimine, un immediato motivo di repressione di idee: «L'antisemitismo bisogna continuare a vietarlo [...] anche oggi c'è dell'antisemitismo che va bollato a fuoco» (Wizenthal); «L'antisemitismo, nei suoi aspetti più modesti e in quelli più forti, è un male profondo, requiring an aggressive and imme-diate political response, che richiede una risposta politica aggressiva e immediata» (il Reform Rabbi Eric Yoffie, presidente della Union of American Hebrew Congregations), in quanto «those who hate the message from Sinai will hate the messengers from Sinai, chi odia il messaggio del Sinai odierà i messaggeri del Sinai» (l'opinion-maker Dennis Prager). In ogni caso, avverte il Midrash ha-neelam 6° facendoci correre un brivido giù per la schiena, stiano attenti, anche solo a parlare, gli «antisemiti», poiché, a prescindere dalla spicciola, miserabile, transeunte repressione dei nostri giorni terreni, nell'alba del Riscatto «coloro che odiano Israele conosceranno rinnovati dolori, tanto che i loro volti diventeranno neri come il fondo di una pentola».

Gli Arruolati devono infatti godere di uno statuto che li pone al di sopra dei comuni mortali, punendo il Sistema non solo le «offese» e gli «attacchi dell'odio» nei loro confronti, ma anche ogni semplice critica al filosofare/agire di «una minoranza religiosa pacifica e indifesa» (l'azzardata definizione della sua tribù è dell'eletto Cesare Segre).

Dovrebbe essere comunque ovvia la legittimità, per chi lo voglia e ivi compresi i «peggiori elementi del nostro tempo» (Victor Farías III), di dichiararsi almeno «non-filosemita», tanto più ricevendo conforto dalla proverbiale arguzia ebraica: «An anti-Semite is someone who hates Jews more than necessary, Un antisemita è uno che odia gli ebrei più del necessario». Laddove quindi, se non il superfluo, il «necessario» è ammesso.

E comunque, che il Sistema tenti di criminalizzare ogni posizione – politica certo, ma ancor prima intellettuale e morale – non allineata alla vulgata del «semitismo» sequestrando libri e periodici, impedendo l'accesso alle fonti docu-mentarie, devastando le abitazioni, infliggendo carcere pluriennale e ammende ultramilionarie per delitto di pensiero, trincerandosi dietro virtuosi e criminali pretesti... tutto ciò non ci meraviglia affatto, essendo solo segno del crescente terrore provato dai suoi manutengoli. Terrore per la libertà, intellettuale ma ancor prima morale, dei suoi critici. Volontà di annientare quella «abitudine a discutere, a non dare nulla per scontato, a problematizzare, a dimostrare o contestare facendo uso della razionalità» pretesa, per i fini suoi propri e della sua gente, dall'«italico» giornalista Stefano Jesurum (V).

«Invece di sottoporre l'antisemitismo al libero gioco delle idee» – scrive il combattivo patriota americano Wilmot Robertson – «invece di farne argomento per un dibattito al quale tutti possono partecipare, gli ebrei e i loro supporter progressisti hanno operato per mettere in piedi un'inquisizione in cui tutte le azioni, gli scritti e persino le opinioni critiche nei confronti degli ebrei vengono trattate come una minaccia all'ordine morale dell'umanità [...] Da quando il tabù antisemita ha reso impossibile sottoporre la questione ebraica alla libera discussione e ad un'aperta indagine, gli ebrei devono ringraziare solo se stessi per essersi posti al di sopra e al di fuori delle regole della condotta democratica. Considerate la loro storia e le loro memorie, è certo naturale per gli ebrei l'essersi comportati in questo modo. Ma anche per i membri della maggioranza bianca è certo naturale l'opporsi ad un genere di comportamento collettivo organizzato per il quale le loro istituzioni non sono mai state progettate».

In Von der weltkulturellen Bedeutung und Aufgabe des Judentums, "Dell'importanza e dei compiti dell'ebraismo per la civiltà mondiale", nel 1916 aveva scritto il gros bonnet sionista Nahum Goldmann,: «L'intera nazione [ebraica] deve essere considerata come un organismo coerente [ein einheitlicher Organismus], che resta solidale e conchiuso in ogni mutamento delle generazioni. Da ciò discende il principio della ricompensa fino alla millesima generazione, del castigo fino alla quarta e alla quinta; una generazione è responsabile per l'altra, poiché tutte formano un'unità. Da ciò discende anche il principio della ricompensa e della punizione dell'intero popolo per le azioni di un suo singolo membro; ogni gruppo è responsabile per l'altro, poiché tutti sono soltanto parti dell'intera comunità nazionale [der Gesamtnation]. La vostra più alta espressività incontra tale incondizionata subordinazione del singolo al tutto [unter die Gesamtheit] nel noto motto che costituisce il filo conduttore di ogni essenza ebraica nazionale: "Tutto Israele è corresponsabile, ognuno per il suo compagno" [in talmudico:

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Kol Jissraéjl arejwím se basé]». E d'altronde, riecheggia l'«ungherese» Heinrich Ettenberger, «Entre Juifs il n'y a pas d'étrangers», come aveva cantato il massone Itze Aaron/Isaac Moïse dit Adolphe Crémieux il 12 maggio 1872, all'assemblea generale dell'Alliance Israélite Universelle, richiamando il motto AIU: «Alle Israeliten sind für einander verantwortlich».

E che tutti gli ebrei siano corresponsabili, che ogni ebreo non possa non essere coinvolto nel giudizio globale sui confratelli come attestato dall'Antica Saggezza lo attesta anche il cattolico Georges Bernanos: «È molto bello contrapporre gli ebrei poveri agli ebrei ricchi. Ma cosa c'importa degli ebrei poveri, se è vero che la massa del popolo ebraico assicura e rinnova senza fine una specie di aristocrazia nella quale gli atteggiamenti sono precisamente quelli della razza, portati ad un alto livello, una massa che di generazione in generazione riesce non solo a raggiungere ma a governare il denaro, a occupare tutti i posti nei quali ci si può assicurare il Governo del denaro? Esiste un problema economico ebraico. Esiste un problema sociale ebraico. Esiste un problema razziale e nazionale ebraico. Non contesto affatto che l'ostinazione degli ebrei a ricostituire incessantemente un popolo eletto, da Dio stesso disperso, ponga un problema d'altra natura. Nessun cristiano pensa di rinnegare il popolo ebraico. Osserviamo semplicemente che questa ostinazione ne ha fatto un popolo tra i popoli. Non si assimila il popolo ebraico, gli si dà ospitalità [...] La teocrazia è un sogno ebraico. Teocrazia e razzismo vanno sotto braccio. Prima di denunciare il razzismo, sarebbe soltanto corretto concedere che questa peste delle coscienze, come l'altra, si è conservata nei ghetti».

«Non si è forzatamente nemici degli ebrei, se rifiutiamo di dimostrare di ignorare una razza, una tradizione razziale, uno spirito razziale che mai hanno cessato di affermarsi orgogliosamente. L'orgoglio ebraico sarebbe un pregiudizio dei cristiani? L'intera storia d'Israele, nei secoli, è come un immenso olocausto del sangue della Razza allo Spirito della Razza. Perché vorreste che non lo annoveri tra le forze che oggi si disputano il Dominio del Mondo, un genio che nulla è riuscito a contrastare? Se questo genio ha potuto mantenersi fino ad oggi, contro la diffidenza o l'odio della Cristianità militare, un popolo essenzialmente non militare, crediamo davvero che ha perso tutto il potere, tutta la forza nella moderna società capitalista, orientata al profitto e che gli ha offerto, fino ai tempi più recenti, un campo d'azione così favorevole? Parlando dell'"impossibile antisemitismo", penso che Jacques Maritain voglia semplicemente farci capire che non dobbiamo né odiare né disprezzare gli ebrei. Non di meno, il razzismo ebraico è un fatto ebraico; sono gli ebrei ad essere razzisti, non noi. Non sono Stalin né Mussolini ad avere insegnato il razzismo agli ebrei. E questo razzismo ebraico non saprebbe passa-re per un fenomeno puramente sentimentale in virtù del doppio carattere d'Israele, dell'innata contraddizione di un genio ora profetico e positivo, di questo doppio fermento: "l'irrequietezza incurabile della razza, l'antica, eterna irrequietezza" [da Charles Péguy, Notre jeunesse, 1910, così come i riferimenti successivi] che aggredisce l'anima dei popoli, e il realismo che lavora così efficacemente il loro oro [...] La grandezza e la disgrazia di questo popolo, ciò che lo rende inassimilabile e pericoloso, è precisamente il fatto che non si affeziona a niente: "Popolo singolare, popolo straniero, per il quale le case più ferme saranno sempre le tende. Cosa contano pietre più grandi delle colonne di un tempio? Resteranno sempre sul dorso dei cammelli. E noi, invece, che abbiamo davvero dormito sotto la tenda, sotto tende vere, quante volte abbiano pensato a voi, Lévy, che non avete mai dormito sotto una tenda se non nella Bibbia [...] Essere altrove, ecco il grande vizio di questa razza, la grande forza segreta, la grande vocazione d'Israele"» (sempre Bernanos, in A propos de l'antisémitisme de Drumont, edito nel 1962 quale variante di Scandale de la vérité, 1939).

Inoltre, affermando di voler difendere «la memoria dei morti» (ovviamente, solo ebraici, i morti con la M maiuscola) dall'assalto dei Bestemmiatori e di voler impedire «incitamenti all'odio» (ovviamente, solo nei confronti delle vittime con la V maiuscola), il Sistema semina in primo luogo odio e rancore esso stesso, tentando per di più, con la feroce repressione e la ributtante impunità concessa agli aggressori degli studiosi olorevisionisti, anche agli aggressori più criminali, di spegnere ogni radicale dissenso nei suoi confronti e sottrarre allo studio, e quindi alla critica e ai conseguenti giudizi di valore, interi segmenti di storia.

Se, come scrive l'ebreo Theodor Wiesengrund Adorno (I), l'«antisemita» «si definisce per la sua indisponibilità all'esperienza e al dialogo», «dispone di un Io debole» caratterizzato «dall'incapacità di maturare esperienze», rifiuta l'empirismo e disconosce la «società aperta» (ah, Popper, Popper! quanta nausea ci hai procurato con questa società «aperta»!), chi s'appropria di tale qualifica sono, con maggiore tenacia degli «antisemiti», proprio i «semiti» d.o.c. quali lo sterminazionista Vidal-Naquet e i «filosemiti» di ogni risma, acculturata o imbecille che sia.

Ed è quindi, ci pare, a costoro che va ritorto il rimbrotto vaneggiato dall'antifascista regista Federico Fellini: «Le eterne premesse del fascismo a me pare di ravvisarle appunto nell'essere provinciali, quindi nella mancanza di informazione, nella mancanza di conoscenza di problemi concretamente reali, nel rifiuto di approfondire, per pigrizia, per pregiudizio [il «pregiudizio», il «partito preso», l'«avversione normativa»: l'eterna «chiave» per paralizzare gli studiosi indipendenti, sempre pre-giudiziali, sempre incapaci di giudizio, e cioè di capire... e ciò anche malgrado studi pluridecennali delle più

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numerose e autorevoli fonti ebraiche], per comodità, per presunzione, le cose della vita. Vantarsi di essere ignoranti, cerca-re di affermare se stessi o il proprio gruppo non con la forza che viene dall'effettiva capacità, dall'esperienza, dal conforto della cultura, ma invece con la millanteria, le affermazioni fini a se stesse, lo spiegamento di qualità mimate invece che vere». E non parliamo di come ben più si adatterebbero proprio all'antifascismo di ogni risma – democrazia e giudaismo ovviamente in testa – le espressioni «squallore umano, morale, mentale […] religione rozza, pregiudizio ottuso e ostinato» sputate contro fascismo e «nazismo» dal superebreo Furio Colombo nel volume di Mario Capello.

Come che sia, c'è ben più verità e correttezza nella popolaresca saggezza del superebreo Moni Ovadia (autore della folgorante definizione del Messia quale «the Great Jewish Swindle, la grande truffa ebraica»): «Che cos'è un ebreo corrosi-vo? Un ebreo corrosivo è un ebreo che arriva in uno sperduto villaggio della Transcaucasia, dove non hanno mai visto un ebreo e non sanno cos'è il giudaismo. Il villaggio ha duemila abitanti; un anno dopo ci sono duemila antisemiti» (I). Lo volesse, elimini pure il lettore, in quanto superfluo, l'aggettivo «corrosivo».

E il concetto ovadiano era stato sviluppato dal confraterno psicoanalista Fritz Wittels (nel 1904, in Der Taufjude, saggio sugli ebrei battezzati, nel quale afferma che un ebreo battezzato altro non è che un bugiardo congenito, il quale dimostra una forma di «demenza etica»), che aveva illustrato il goût juif come il tipo più complesso di intelligenza critica, «un'orgia mefistofelica di distruzione di tutto ciò che è antico, abituale, tradizionale». Di «sarcasmo corrosivo» tratta anche il confratello psicoanalista Otto Rank nel 1905 in "L'essenza del giudaismo".

Quanto al giudaismo, la «religione» che anima tuttora gli ebrei, ecco un pugno di considerazioni altrettanto puntuali:

● A (presunto) «marchio d'infamia» gli studiosi revisionisti vengono chiamati «negazionisti» dai loro avversari – anzi, dai loro veri e propri nemici morali – sterminazionisti, cioè gli storici di corte e i più vari demointellettuali e gazzettieri, per la quasi totalità assolutamente ignoranti sia della specifica questione storica sia delle opere e degli autori da essi criticati. Quanto al giudaismo – o meglio all'ideologia «religiosa» giudaica, la quale, lungi dal costituire una religione nel corrente senso del termine, altro non è che lo statuto giuridico del popolo ebraico – quanto al giudaismo propriamente detto si aggiungono, religiosamente parlando, le sue filiali cristiana ed islamica e, laicamente, le sue secolarizzazioni socialcomunista e demoliberale.

1. Il giudaismo è infatti, secondo il Capo del nazionalsocialismo, «in primo luogo un me-todo per mantenere puro il sangue dell'ebraismo e un codice che regola i rapporti degli ebrei fra di loro e ancor più col resto del mondo, cioè coi non ebrei» (Mein Kampf, I 11).

2. Più brutale è certo Arthur Schopenhauer, per il quale «questa meschina religione ebraica», questo «rozzo giudai-smo» è «un semplice grido di guerra per combattere gli altri popoli» (Parerga e paralipomena I 2, "Frammenti sulla storia della filosofia"; è d'altronde significativo di un intero universo mentale quanto nota Elie Barnavi del giudaismo, «religione etnica che non cerca di fare proseliti e che impone prove draconiane a quelli che desiderano aggregarvisi [...] "Religione" in arabo si dice din, "la Legge", che non è affatto la stessa cosa; l'ebraico ha dovuto prendere a prestito un concetto persiano, dat, che ha lo stesso significato. Non è dunque curioso che i due sistemi di credenza che passano per essere i più duri, i più esigenti, non abbiano un termine per dire "religione"?»).

3. Sul Libro Sacro ebraico («L'Antico Testamento è innanzitutto un libro di storia nazionale», ben scrive l'ebreo ex comunista Arthur Koestler), su tale religione etnica – che ben potremmo paragonare ad una massoneria o meglio ad club privé d'intonazione pratico-paramistica e della quale l'antropologa Ida Magli commenta che «mentre nelle diverse culture siamo soliti distinguere gli aspetti religiosi da quelli artistici, scientifici, sociali, economici, ecc., nella cultura ebraica, viceversa, la identificazione fra costumi, leggi, valori, norme e religione, è totale [...] nella cultura ebraica, non si può fare una vera e propria distinzione fra le strutture del sacro in generale, quelle religiose e quelle civili» – vedi anche, sempre di Hitler, Mein Kampf, I 4 e il capitolo XVI dello «Zweites Buch»: «Gli ebrei sono un popolo con una base razziale che non è totalmente omogenea, e tuttavia, come popolo, hanno specifiche caratteristiche intrinseche che lo differenziano da ogni altro popolo al mondo. L'ebraismo non è una comunità religiosa; il legame religioso tra gli ebrei è in realtà l'attuale sistema di governo del popolo ebraico. Gli ebrei non hanno mai avuto uno Stato territorialmente definito come gli Stati ariani. Tuttavia la loro comunità religiosa è un vero Stato, poiché garantisce la sopravvivenza, l'accrescimento e l'avvenire del popolo ebraico» (non per nulla, avrebbe assentito Rabbi Hertzberg, «paradossalmente» gli ebrei non-credenti sono altrettanto ebrei come i credenti).

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4. Seguono lo Spinoza del Tractatus Theologicus-politicus (prefazione): «le leggi rivelate da Dio a Mosè non furono altro che le leggi del governo particolare degli ebrei»;

5. l'illuminista Immanuel Kant che, definendo la religione sul modello del cristianesimo e vedendo il giudaismo privo di genuino afflato spirituale, nonché basato sulla più piatta aderenza a questo mondo terreno, sull'esclusivismo e sul legalismo, addirittura nega al giudaismo lo statuto di religione;

6. il comunista-protosionista Moses Hess, mentore di Karl Marx, che nel 1837 in Die heilige Geschichte der Mensch-heit, "La storia sacra dell'umanità", sottolinea che nel processo storico il giudaismo divenne un mero strumento di preservazione dell'esistenza nazionale: «La legislazione mosaica si riferisce sia all'uomo interiore che all'uomo esteriore. Religione e politica, Chiesa e Stato furono intimamente connessi, ebbero una sola radice, produssero un unico frutto. Gli ebrei non conoscevano la differenza fra comandamenti religiosi e comandamenti politici, tra l'ossequio a Dio e l'ossequio a Cesare. Queste e altre contraddizioni svanivano davanti alla Legge, che non era intesa per il solo corpo o per il solo spirito, ma per entrambi» ed ancora, in Rom und Jerusalem: «La religione ebraica è soprattutto il patriottismo ebraico. Ogni ebreo, lo desideri o no, è strettamente legato all'intera nazione e le è solidale».

7. Chiarissimo anche lo storico ebreo Heinrich Graetz, in "La costruzione della storia ebraica" (1845), che inizia il saggio con una citazione da "Gerusalemme o sul potere religioso e l'ebraismo" (1783) di Moses Mendelssohn, il «terzo Mosè», «Platone tedesco», «Socrate ebreo», «Lutero ebreo» nonché «secondo Spinoza»: «"L'ebraismo non è una religione rivelata, ma una legislazione rivelata", il che significa che l'ebraismo non ha tendenza ad insegnare verità eterne, ma a indicare norme di azione: "Tu agirai così, o tu non agirai così", questa è la pietra di paragone di tutto l'ebraismo. Questa legislazione rivelata ha come scopo di promuovere il benessere dell'insieme del popolo ebraico. Questa legislazione specifica si spiega con alcuni presupposti di natura metafisica e con dei fatti storici che non possono cadere nell'oblio ma al contrario restare sempre presenti nella memoria dei suoi detentori se vogliono continuare ad esercitare una certa influenza sugli spiriti [...] Nell'ebraismo, lo Stato e la religione hanno radici in comune, anzi sono un tutt'uno. Il Dio creatore dell'uni-verso è il legislatore e contemporaneamente il re della nazione: il politico è religioso e sacro e il religioso fa anche parte dei doveri del cittadino. Il servizio del cittadino è il servizio dovuto a Dio» (in Leo Baeck II).

8. Concordano l’acuto polemista tedesco Wilhelm Marr (1879), presunto coniatore del termine «antisemitismo» (vedi nota 25): «… perché l’ebreo non ha una religione idealistica, ma unicamente un contratto d’affari [einen Geschäftsvertrag] con Jahweh e paga in regolamenti e formule il suo dio, che in cambio gli ha espressamente imposto il gradito compito di annientare tutto quanto non sia ebraico [der ihm dafür ausdrücklich die angenehme Pflicht auferlegte, alles Nichtjudisches zu vertilgen]. È il grande potere di un realismo pienamente consapevole e tipico, ciò che siamo costretti ad ammirare nel giudaismo […] La “religione” ebraica altro non fu che lo statuto di un popolo che formò uno Stato nello Stato e questo Stato-Accessorio, o Contro-Stato, pretese per i suoi membri ben precisi vantaggi materiali»,

9. il socialista nazionale Eugen Dühring – il grande studioso e docente attaccato da Engels – per il quale Jahweh non è altro che l'incarnazione dell'autointeresse ebraico, mentre il giudaismo, lungi dal possedere caratteristiche religiose, ne ha soprattutto economico-politiche: «Le istituzioni religiose degli ebrei sono un mezzo per unirli politicamente e socialmente, e per tenere uniti anche quegli ebrei di razza che non aderiscono alla religione [...] La religione ebraica è una religione raz-ziale, come l'etica ebraica è un'etica razziale [...] La religione incarna non solo le idee dell'immaginazione ma anche sentimenti e princìpi. La religione è la santificazione della morale o delle contraddizioni della morale; è la santificazione della natura razziale. La religione ebraica è quindi la santificazione della natura ebraica. Nessuno tratti la questione con indifferenza! E comunque ad essere discusso non è solo il contenuto della religione ebraica. Le istituzioni religiose ebraiche sono istituzioni politiche»;

10. il sionista laico Bernard Lazare, «le Juif de la race prophétique»: «Nessuna religione fu più forgiatrice d'anima e di spirito di quanto lo fu la religione ebraica. Quasi tutte le nazioni accanto ai dogmi religiosi hanno avuto una filosofia, una morale, una letteratura; per Israele la religione fu al tempo stesso un'etica e una metafisica, anzi, fu ancora di più: fu una legge. Gli israeliti non ebbero un'indipendenza simbolica dalla loro legislazione, affatto; dopo il ritorno dalla seconda cattività, per loro vi furono Jahweh e la sua legge, inseparabili uno dall'altra. Per far parte della nazione fu necessario accettare non solo il suo dio, ma anche tutte le prescrizioni legali che provenivano da lui e avevano un carattere di santità. Se l'ebreo non avesse avuto che Jahweh, probabilmente sarebbe scomparso in mezzo ai diversi popoli che gli avevano dato ricetto, come scomparvero i fenici che portavano con sé soltanto Melqart. Ma l'ebreo aveva qualcosa di meglio che il suo dio, aveva la sua Torah, la sua legge, essa lo preservò [...] Quando Gerusalemme fu distrutta, la legge divenne il legame di Israele, e Israele visse per la legge e per mezzo della legge»;

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11. l'«antisemita» francese Georges Batault: «Ma il giudaismo, che possiede oggi una straordinaria potenza che ha mantenuto l'integrità di un popolo disperso su tutta la terra, a dispetto delle più dure tempeste e delle più terribili catastrofi, durante quasi due millenni, non è una religione come le altre. Nel giudaismo, e ciò ne fa l'originalità unica [...], la nazione e la religione sono un'unica cosa, è impossibile concepirle separate. Come non c'è più giudaismo senza popolo ebraico, così non c'è più popolo ebraico senza giudaismo. Nella sua storia più che bimillenaria il giudaismo non è mai stato una semplice religione, è stato in primo luogo una patria [...] I fondatori del giudaismo hanno creato una tradizione rigida, stretta, minuziosa e cavillosa, ma essa ha a sua volta creato e conservato nella sua integrità morale il popolo ebraico disper-so [...] Pretendere nel giudaismo di separare radicalmente le idee di religione e di nazionalità, è propriamente volere creare una nuova religione universale. La posizione degli assimilazionisti religiosi mi sembra assolutamente insostenibile, poiché la separazione nel giudaismo di ciò che è religioso da ciò che è nazionale è puramente artificiosa e contraria all'essenza ed al genio medesimo del giudaismo»;

12. l'«antisemita» Henry Ford: «Per coloro che lo ignorano sarà interessante sapere che gli stessi capi del giudaismo confessano apertamente che le preoccupazioni degli ebrei non sono mai causate dalla loro religione, e che se essi sono fatti segno a persecuzioni non è mai a causa di questa religione. Davanti a simili prove e a simili confessioni, bisogna riconoscere che gli ebrei sono in mala fede quando tentano di ripararsi sotto lo scudo della religione. Ma anche se venisse a mancare ogni testimonianza di parole e di scritti ebraici, ci resterebbe sempre una prova inconfutabile della loro solidarietà internazionale e di razza: il senso della responsabilità mutua; la formula "tutti per uno" [vedi in nota 42] che si rivela sempre in qualsiasi occasione. Criticate un capitalista ebreo e vedrete protestare tutti gli ebrei, anche quelli appartenenti alle classi più povere. Parlate male di Rothschild e perfino l'ebreo rivoluzionario del ghetto prenderà la critica come un'offesa personale e protesterà clamorosamente. Affermate che un funzionario pubblico ebreo abusa delle proprie attribuzioni in favore dei suoi "connazionali" e a detrimento della società non ebrea, e tutti gli ebrei, a qualunque credo politico appartengano, correranno in suo aiuto. È probabile che la maggior parte di essi non si senta più strettamente vincolata ai precetti dogmatici e al culto della religione, ma con la loro coesione nazionale, con la loro identità razziale, dimostrano praticamente quale sia la loro vera religione»;

13. nel 1923 il rabbino superamericano Louis Israel Newman (I), che dopo avere premesso «The modern mission of the Jew is to assume the moral leadership of the world, La missione moderna dell'ebreo è di assumere la guida morale del mondo», continua: «In nessuna epoca della storia del popolo ebraico, neppure con l'avvento e l'affermazione del cosiddetto "giudaismo liberale" moderno, la Legge Mosaica ha perso il suo ruolo di pilastro della vita ebraica nella Diaspora»;

14. l'altrettanto dotto e influente Joseph Klausner, docente di Letteratura e Storia Ebraica a Gerusalemme e già candidato dall'Herut, il 16 febbraio 1949, a presidente dello Stato d'Israele contro il laburista Chaim Weizmann, che illustra puntualmente la coincidenza, o meglio la sovrapposizione, dell'esclusivismo ebraico con l'universalismo dell'Unico Dio: «Il giudaismo non è solo una religione, ma è anche la visione e il modo di vita [the wiev of life] di una nazione che osserva, lei sola, questa religione, mentre le altre religioni accettano diverse nazioni. È quindi assolutamente necessario che l'idea che dell'umanità ha il giudaismo voglia anzitutto realizzare l'anelito della sua nazione oppressa, sofferente, esiliata e perseguitata a ritornare nella propria terra e ritrovare l'antico stato [di nazione libera]. Ma questo raccogliersi degli esiliati e questa libertà nazionale sono strettamente connessi all'emancipazione dell'intera umanità: distruzione del male e della tirannia nel mondo, conquista umana della natura (prosperità materiale ed eliminazione delle forze distruttive naturali) e unione di tutti i popoli in "un'unica schiera" per adempiere i comandamenti di Dio, fare cioè il bene e cercare perfezione, giustizia e fratellanza. Questo è il "regno dei cieli" o il "regno dell'Onnipotente"; è il regno del Messia o i "Giorni del Messia"»;

15. il sionista radicale Jakob Klatzkin, sul mensile Der Jude n.9, 1916, riconoscendo essere gli ebrei, prima che una comunità religiosa, una comunità giuridico-economica dotata di specifici codici di comportamento, poiché il giudaismo, prima che una religione, è una Costituzione statuale che, pur formalmente accettandoli ed anzi subendoli, rigetta gli ordinamenti e le Costituzioni degli altri Stati: «Il segreto della nostra durata nel galut va cercato nella nostra religione. Essa è la forza che ci separò dai popoli e ci mantenne uniti nella diaspora. Le mura esteriori del ghetto alzate dai nostri nemici non avrebbero potuto adempiere a tale compito. Invece le mura interiori, che abbiamo fondato con la nostra religione, portato con noi nelle peregrinazioni e sempre rafforzato quando ci fermavamo in nuovi centri, queste mobili "tende di Giacobbe" sono ciò che ci hanno ovunque assicurato una patria. Il giudaismo è ricco di recinzioni che delimitano il nostro essere contro il mondo che ci circonda e allontanano ogni cosa straniera. Il giudaismo è ricco di forme che ci uniscono e contrassegnano nella sostanza e nella forma. Diversamente dalle altre religioni, la nostra non è una dottrina concettuale, ma una dottrina giuridica. Nelle nostre leggi opera il diritto all'autodeterminazione. Abbiamo perso il nostro Stato ma non la costituzione del nostro Stato; la salvammo in quanto Stato da portare con noi, ed essa ci rese possibile un'autonomia nazio-nale anche nella diaspora», ed ancora: «Certo, molte leggi persero valore dopo la perdita del nostro Stato, ma in complesso

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la nostra Costituzione spirituale restò sempre in vigore; venne ampliata, completata e perfezionata da più puntuali decisioni. Solo il codice giudaico resse e conformò la nostra vita in ogni espressione. Solo la giurisprudenza giudaica fu determinante. Mai ci siamo appellati alla giurisprudenza dei goyim, mai ne abbiamo riconosciuto i codici. Quando ci han-no costretto alle loro leggi, le abbiamo considerate imposizioni gravi e maligne, che sempre ci siamo adoperati a rimuovere o aggirare. Esse hanno mantenuto il carattere di "gserot [sciagura, violenza] di un empio dominio" anche quando siamo stati costretti ad accettarle con la formula "la legge del paese è la legge" [dina de-malkuta dina, cioè: "vale il diritto dello Stato", espressione coniata da Mar Samuel e usuale all'intero ebraismo]. Perciò il delatore (mossar), cioè un ebreo che aveva denunziato al potere un confratello, fu sempre condannato a rifondere il danno o a scontare altra pena ed espulso dalla Comunità. I nostri esilarchi, gaonim e rabbanim non erano sacerdoti e curatori di anime... come piace definirsi, seguendo la spiritualità cristiana, ai moderni rabbini occidentali che riducono il giudaismo a Chiesa; erano invece capi e amministratori della Comunità; erano giudici, dajanim; erano le massime autorità del nostro Stato in esilio [...] Quindi il dominio straniero non ha potuto sottrarci la nostra autoamministrazione, finché siamo rimasti sotto lo scudo delle nostre leggi e dei nostri giuristi. Non siamo stati una comunità di fede, ma una conchiusa comunità giuridica ed economica. Non tanto una professione di fede, quanto un codice di comportamento fu la struttura portante del nostro popolo. Non la dottrina religiosa ed etica del giudaismo, quanto le concrete forme della Costituzione del nostro Stato ci separarono da tutte le nazioni ove ponemmo le tende. Non riposammo nei giorni di riposo del popolo che ci ospitava, né festeggiammo nei suoi giorni festivi, non partecipammo delle sue gioie e dei suoi dolori, non ci demmo cura del benessere di uno Stato che ci era estraneo. Un possente muro, da noi stessi eretto, ci separò dal popolo che ci ospitava, e dietro il muro visse uno Stato ebraico in miniatura [...] Così abbiamo chiamato "Terra di Israele" la nostra residenza in Babilonia. E rav Huna potè dire: "In Babilonia ci consideriamo come in Terrasanta. Anche in ogni altra terra ove poi ci stabilimmo, il ghetto – che aveva fondamento e ragione nella nostra costituzione giuridica e non nei malvagi propositi dei nostri nemici – fu uno Stato nello Stato"»;

16. l'«antisemita» Ernst Seeger, a commento di Klatzkin: «Se l'ebraismo non volle dissolversi, se non volle "assimilarsi", dovette, lottando per il proprio essere e la propria sopravvivenza – lotta nata da un particolare rapporto amico-nemico con gli altri popoli – fare esperienze e da tali esperienze formarsi regole di vita. Tale ufficio lo compì il rabbinismo, ponendo nella Bibbia e nel Talmud le esperienze della lotta per l'essere e la sopravvivenza della comunità religiosa giudaica. Ciò che per il contadino sono la tradizione e gli insegnamenti contadini, per l'ebreo è la tradizione della Torah e del Talmud. Come il contadino perderebbe la propria contadinità abbandonando la tradizione contadina, così l'ebreo perderebbe la propria ebraicità abbandonando la tradizione talmudica. Rinnegare la tradizione talmudica, se fosse peraltro possibile, equivarrebbe per l'ebreo a perdere se stesso. Se vogliamo penetrare lo spirito della legislazione ebraica nella Torah e nel Talmud, dobbiamo cercare di penetrare il significato della lotta rabbinica per il popolo ebraico. Il significato di questa lotta è: "Preservazione del popolo ebraico ad ogni costo"»;

17. Eugene Kohn, originale mistura di liberalismo e sionismo: «Abbiamo visto che l'errore fondamentale dei primi militanti del giudaismo riformato fu la loro assunzione che il giudaismo poteva essere visto astrattamente come una sorta di filosofia religiosa, escludendo la sua relazione funzionale col popolo ebraico»;

18. l'illustre rabbino Kauffman Kohler, presidente dello Hebrew Union College, autore di una "Teologia ebraica - Sistematicamente e storicamente considerata", che al capitolo II What is Judaism? risponde: «È molto difficile dare una precisa definizione di giudaismo a causa del suo carattere peculiarmente complesso. Esso combina due elementi ben differenti e quando questi vengono trattati separatamente, l'aspetto dell'insieme non viene considerato nel suo esatto significato. La religione e la razza formano nel giudaismo un tutto inseparabile [an inseparable whole]. Il popolo ebraico sta col giudaismo nella medesima relazione con cui il corpo sta con l'anima. Il corpo nazionale o razziale del giudaismo è formato dai discendenti della tribù di Giuda, che stabilirono una nuova comunità in Giudea subentrando all'antico regno israelita e che sopravvissero alla rovina dello Stato e del Tempio per continuare ad esistere come popolo separato nella dispersione per l'intero globo durante migliaia di anni, costituendo sempre un elemento cosmopolita in ogni nazione nel cui paese si erano stabiliti. Il giudaismo, d'altro canto, è il sistema religioso, l'elemento vitale che unisce il popolo ebraico, preservandolo e sempre rigenerandolo»;

19. nel 1945 Milton Steinberg (quello dell'antisemitismo «unwarranted and undeserverd assault»): «Abbiamo parlato del giudaismo e dell'ebraicità come consistenti in una religione, in una civiltà e in un popolo. A scopo di analisi abbiamo esposto tali elementi più o meno come cose a sé, come cose che potrebbero esistere indipendenti l'una dalle altre. Tale reciproco isolamento dei nostri tre elementi è, comunque, un artifizio dell'intelletto, non una cosa reale. Abbiamo già detto su quanto intimamente la religione, la cultura e la civiltà siano interconnesse [interwoven]. Altrettanto stretto è il legame fra il "popolo" e gli altri due aspetti. Il giudaismo si fonda sul popolo ebraico. Senza esseri umani che siano ebrei e promuovano la tradizione ebraica, la civiltà religiosa non potrebbe esistere. Allo stesso modo il popolo è popolo quasi

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esclusivamente in virtù della sua civiltà religiosa. Per quanto possa esistere di per sé, usualmente l'dentità ebraica è, in massima parte, il prodotto e l'incarnazione della fede, della cultura e della civiltà. In esse ha la propria sorgente; in esse trova il proprio significato. Tale considerazione non è mia originale. Da tempo sappiamo che il giudaismo ha tre fondamenta, fuse in unità organica. Ne testimonia il detto di un mistico medioevale: "Dio, la Torah e Israele sono un'unica cosa". Alla luce di quanto trattato fin qui, non dovrebbe essere difficile capire cosa significhi. Quell'ebreo affermò che il giudaismo è una questione di fede, tradizione e concrete persone fisiche [of Faith, of Tradition and of Peoplehood], e che tutti questi elementi sono inestricabilmente connessi»;

20. nel 1947 Rabbi Leon I. Feuer (II), presidente del Committee on Religious Education della Central Conference of American Rabbis e nel direttivo del World Zionist Congress: «A rischio di sembrare ripetitivi, dobbiamo riaffermare che la religione non fu mai un comparto separato del pensiero ebraico, ma ebbe un'influenza pervasiva sia nella vita del gruppo che nel comportamento personale del singolo ebreo. L'intera legislazione mosaica e talmudica ne è irrefutabile prova»;

21. il goy John Allegro che, nella sua storia del Popolo Eletto, così commenta della vicenda del reggente seleucida Lisia, «antisemita», che si era visto divampare una cruenta rivolta: «Sfortunatamente per lui, non aveva capito che il giudaismo ora implicava qualcosa più dell'adorazione di un dio tribale con atti sostanzialmente innocui come uccidere e bruciare certi animali, cantare salmi, non lavorare di sabato e mutilare la pelle del pene. Ora, il giudaismo era inscindibil -mente legato con l'estremismo politico e il razzialismo fanatico»;

22. l'«ucraino» Yehezkel Kaufmann (1889-1963), studioso ad Odessa, San Pietroburgo, Berna e Berlino, docente ad Haifa e Gerusalemme, insignito del Premio Bialik e del Premio Israele, della cui posizione – il monoteismo come genio dell'ebraismo antico e il giudaismo quale detentore di una irriducibile funzione storico-sociologica nella formazione e nel destino di Israele – Massimo Giuliani commenta: «La religione soltanto ha custodito e preservato il carattere culturale e nazionale di Israele. Ciò si è verificato in una maniera duplice, positiva e negativa. In maniera positiva, la religione ha sempre fornito alla comunità ebraica la sua raison d'étre, offrendole al contempo unità e diversità in un mondo solitamente ostile, ed elaborando simboli, concetti e strutture necessari alla preservazione di tale unità nella diversità. In maniera negativa, la religione ha sempre impedito la piena assimilazione dell'ebreo alla società non-ebraica nella quale era (o tentava di essere) insertito. Sebbene molti nella storia abbiano fatto il passo della conversione ossia dell'apostasia, soprattutto nell'Europa cristiana dell'Ottocento, tuttavia il popolo nel suo insieme non si è mai convertito né poteva conver-tirsi: la religione dei padri restò sempre l'estrema barriera all'assimilazione e alla scomparsa dell'etnicità ebraica, creando tra gli ebrei non religiosi un nuovo tipo di alienazione [...] Né una terra, né una lingua, né una cultura comuni potranno mai sostituire la peculiarità dell'elemento religioso»;

23. il rabbino ricostruzionista Mordechai Menachem «Mordechai M.» o «M. M.» Kaplan II (1881-1983), per un verso distante da Kaufmann, per un verso a lui sovrapponibile, per il quale la religione è prodotto e strumento della vita di un popolo, concordante col «filosofo» neokantiano Hermann Cohen (1842-1914): «Il giudaismo è la civiltà del popolo ebraico, e la religione ebraica è quell'aspetto del giudaismo che definisce santo o divino ciò che nel cosmo spinge avanti e mette in grado il popolo ebraico, individualmente o collettivamente, di rendere etica e spirituale la maggior parte della vita» (egualmente Rabbi Daniel Gordis: «la Torah è memoria collettiva [...] la nostra "autobiografia collettiva"»);

24. il «filosofo» André Neher (1914-88), per il quale «il giudaismo oltrepassa i confini del fatto religioso, abbraccia gli uomini, una società, uno Stato, una storia i cui componenti sono spesso profani e che pertanto potrebbero venire esclusi da uno studio su quanto concerne la religiosità [...] il giudaismo non è una filosofia, ma una legislazione rivelata. A questa legge, a questa storia, a questo genuino "resto" ebraico sono ovviamente fedeli gli "ortodossi" universalisti, ma anche, sorprendentemente, gli ebrei liberali e quelli socialisti» (III);

25. il «filosofo» Michael Wyschogrod, per il quale «il giudaismo è nulla senza il popolo ebraico [...] il giudaismo biblico e rabbinico non è una filosofia, ma un sistema di vita e una forma di esistenza nazionale-religiosa [...] Un individuo non può dirsi cristiano se nega i fondamenti del cristianesimo [ma] un ebreo la cui condotta viola gli insegnamenti del giudaismo o un ebreo che nega le credenze fondamentali giudaiche resta sempre un ebreo, per quanto non un ebreo esemplare. Tale interpretazione è in linea sia con le classiche dottrine giudaiche sia con l'opinione comune, come ad esempio evidenziato dal fatto che generalmente Marx e Freud sono considerati ebrei. La spiegazione più semplice e diretta di tale discrepanza è che, a differenza del cristianesimo, il giudaismo non è solo una religione, se per religione intendiamo un insieme di idee riflesso in una comportamento. È anche una nazionalità, per quanto piuttosto inusuale» (in "Il corpo della fede - Il giudaismo come elezione fisica", 1983);

26. il docente di Studi Biblici all'università di Haifa Etan Levine, pluripremiato dall'American Council of Learned

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Societies, dall'American Philosophical Society e dall'American Academy for Jewish Research, nonché da istituzioni israeliane ed europee: «Per quanto il giudaismo sia una delle religioni più antiche, non è semplicemente una religione alla quale uno possa aderire; è un concetto religioso-etnico. Un ebreo appartiene al popolo ebraico. Perciò, l'esilio (galut) – la realtà fondamentale della vita ebraica – è un concetto non solo religioso, ma anche etnico. Il vero concetto dell'esilio implica che lo Stato ebraico [the Jewish polity] non si dissolse quando venne separato dalla sua terra. Non bisogna perciò meravigliarsi del fatto che l'ebraismo classico non abbia un termine per "religione"; la parola medioevale dat significa leg-ge, non religione. Gli ebrei si consideravano come membri di un popolo e non solo adepti di una religione. Inoltre, nel XX secolo, quantunque gli ebrei potessero essere considerati da altri e spesso si considerassero essi stessi un gruppo religioso, tale definizione è semplicemente inadeguata. Molti ebrei non sono religiosi in alcun senso significativo, e non usano alcuna ipotesi divina per spiegare la natura o la storia. I loro più potenti sentimenti e le loro più urgenti realtà sono etniche [Their most powerful feelings and their most compelling loyalties are ethnic]. Gli ebrei sono uniti da un senso condiviso del destino – passato, presente e futuro. Condividono modi di vita, legami di parentela ed elementi di tribalismo ad un grado non inferiore a quello con cui condividono la teologia e le norme religiose. Perciò, imporre una definizione religiosa al popolo ebraico vuol dire essere riduzionisti all'estremo» (1983);

27. il cofondatore della Society for Humanistic Judaism Rabbi Sherwin Wine, sostenitore di un'alternativa laica al giudaismo tradizionale: «Il giudaismo non è una semplice religione o filosofia di vita. Esso abbraccia quella gamma di alternative che trova significato e valore nell'identità ebraica» (in Judaism Beyond God - A Radical New Way to Be Jewish "Il giudaismo aldilà di Dio - Un nuovo modo radicale di essere ebrei", 1985);

28. il rabbino «francese» Marc-Alain Ouaknin (1998): «Da Gerusalemme a Bombay, da Montreal a Johannesburg passando per Londra e Parigi, da New York a Damasco per Fez, Meknes e Marrakesch, da Barcellona a Tashkent per Orano, Algeri, Tunisi, Gerba o Salonicco, gli ebrei dell'intero mondo hanno gli stessi costumi, osservano le stesse solennità, leggono e studiano gli stessi testi, condividono la stessa memoria, la stessa storia e lo stesso sentire. Nonostante la molteplicità culturale dei paesi in cui vivono, gli ebrei mantengono qualcosa di comune: il giudaismo»;

29. l'Encyclopedia of Judaism, vol.II, p.638: «I precetti della legge ebraica vanno ben oltre l'aspetto "religioso". La legge ebraica in quanto cristallizzata nell'ampio corpus talmudico include le normali interazioni della vita familiare, le relazioni sociali coi vicini ebrei, la gestione degli affari tra gli ebrei e le interazioni d'affari e personali tra gli ebrei e i loro vicini non-ebrei» (1999),

30. il giudaismo essendo, come afferma l'antico studente rabbinico Baruch Spinoza nel Tractatus theologico-politicus (p.737) «una religione in autentica [...] sostanzialmente solo una costruzione legale destinata ad assicurare la stabilità politica dello Stato israelita nel quale primamente si è foggiata»;

31. lievemente contorto, il presidente UCEI Amos Luzzatto (2003) sull'eterna questione – che l'«umanista» Harris H. Hirschberg dice «a perpetual puzzle which defies solution, un eterno mistero che sfida ogni soluzione» – Chi è ebreo?: «Non si può identificare la religione con un mero sistema di credenze. La religione rappresenta piuttosto un'organizzazione sociale che si ispira ad un determinato sistema di credenze e che educa i suoi membri ad adottare questo sistema [...] Dunque gli ebrei sono stati e sono ancora effettivamente una religione, laddove però per religione si intendano particolari organismi sociali variamente relazionati con le strutture del potere politico, che organizzano i propri membri in base all'adesione a determinate credenze, con l'uso di un linguaggio specifico, verbale e gestuale, da apprendere mediante l'educazione di gruppo [...] Insisto sul "religioso", che significa una sorta di sintesi fra la ricerca del trascendente e la sua soddisfazione in forme socialmente organizzate»;

32. Antonio Rodriguez Carmona, docente di Letteratura Intertestamentaria alla facoltà di Teologia dell'università di Granada, per il quale il giudaismo postbiblico è più una «forma di vita», una «prassi religiosa», che una vera e propria religione, in quanto gli elementi che determinano tale way of life sono due: «quello etnico e quello religioso, che possono trovarsi uniti o separati. Il fattore etnico è basilare e consiste nell'appartenenza ad un popolo che ha una storia particolare [...] Il fattore religioso consiste nell'accettazione di ciò che gli ambienti religiosi considerano come quintessenza di questa particolare storia religiosa»;

33. decisamente più radicale il coraggioso cattolicizzato Ariel S. Levi di Gualdo: «Essere ebrei non vuol dire far parte di una religione, ma della storia "esclusiva" dell'unico Popolo dell'antichità sopravvissuto fino ad oggi dopo avversità che hanno segnato la sua psicologia sociale. Più che sulla fede in un Creatore, l'ebraismo si fonda su un modo di pensare da cui può nascere anche la fede in Dio. Nel mondo ebraico incontaminato da idee avulse dalla sua storia, la fede è un frutto che nasce dall'agire, non un presupposto per agire [...] Avere fede vuol dire dunque credere in Dio? No. Per l'ebreo aver fede

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vuol dire credere in se stesso [...] Tutto questo equivale ad aver fede in una religione atea che riempie vuoti senza contenuto, evitando a molti di capire il loro dramma: non hanno alcuna fede in Dio, in se stessi e nell'uomo»;

34. il goy Kevin MacDonald, per il quale il giudaismo, al di là di tutte le tattiche che lo razionalizzano quale religione, altro non è che «una strategia evoluzionistica ecologicamente specializzata [...] sostanzialmente centrata sulla difesa del gruppo», il massimo tra i paradigmi di etnocentrismo e competizione per il successo economico-riproduttivo, «una strategia di gruppo altruistica, nella quale gli interessi dei singoli sono subordinati a quelli del gruppo»: «"Ciò che importa davvero nella religione ebraica non è l'immortalità del singolo ebreo, ma quella del popolo ebraico [...] Il futuro della nazione, e non quello dei singoli, resta l'obiettivo decisivo" [S.W. Baron, A Social and Religious History of the Jews, I e II, edito nel 1952 da The Jewish Publication Society of America]», una strategia che ha portato nei millenni, con la voluta separazione degli ebrei dal resto dell'umanità, ad una sorta di «pseudospeciazione»: «Per coloro che si dispersero in civiltà estranee, anche dopo generazioni, "il giudaismo fu in realtà non tanto la religione della madrepatria quanto la religione della razza ebraica; fu una religione nazionale non in senso politico, ma in senso genealogico" [G.F. Moore, Judaism in the First Centuries of the Christian Era: The Age of the Tannaim, I, Harvard UP, 1927]. Di conseguenza, convertirsi "non significò entrare in una comunità religiosa, ma venire naturalizzati nella nazione ebraica, e cioè – dal momento che l'idea di nazionalità era razziale più che politica – essere adottati dalla razza ebraica"» (I), ribadendo poi che «possiamo concepire il giudaismo soprattutto come un'invenzione culturale, mantenuta in vita dai controlli sociali che operano per strutturare il comportamento dei membri del gruppo e caratterizzata da una ideologia religiosa che razionalizza all'interno del gruppo il comportamento sia nei confronti dei membri del gruppo sia nei confronti degli estranei [that rationalizes ingroup behavior both to ingroup members and to outsiders]» (II);

35. il grande russo anticomunista Aleksandr Solzenicyn, concorde con Edward Norden, saggista dell'ebraico Commentary: «Non grazie alla religione è sopravvissuto l'ebraismo, ma la religione stessa è un prodotto della tensione nazionale all'autoconservazione»;

36. il revisionista Michael Hoffman II, sottolineando il processo di «autoidolatria» che porta alle logiche conseguenze l'antica ideologia «religiosa»: «Il dio del giudaismo è lo stesso popolo ebraico come incarnato dai suoi rabbini. Il giudaismo è l'adorazione del sangue ebraico nella persona del rabbino. In tal modo la stessa "razza" ebraica diviene divina»,

37. il goy David Duke: «Il giudaismo, così come codificato nel Talmud, si occupa meno di un aldilà che della sopravvivenza e del potere del popolo ebraico. Guidato dal credo che gli ebrei sono il Popolo Eletto, il giudaismo si mantiene fedele all'eterna recita delle persecuzioni passate. In un mondo che rifugge dal razzismo, il giudaismo è l'unico credo sulla Terra ad essere lodato perché promuove l'esclusione biologica, l'elitismo, l'etnocentrismo e il razzismo. Il moderno Israele è l'unico Stato occidentale ad essere apertamente teocratico, proclamando senza imbarazzo di essere una nazione il cui scopo è lo sviluppo di un'unica religione e di un unico popolo. Israele definisce il giudaismo religione di Stato, con una minima separazione tra Chiesa Stato nelle leggi sia civili che religiose. A dispetto del loro Stato religioso, la maggior parte degli ebrei in Israele si autodefiniscono "laici". Ma persino gli ebrei non-religiosi, in Israele come in America, sostengono lo Stato di Israele retto dagli ortodossi, così come numerose organizzazioni guidate dagli ortodossi in tutto il mondo, come uno strumento per conservare il proprio retaggio culturale e razziale»;

38. il goy Franco Parente, docente a Roma di giudeocristianesimo (in Filoramo/Gianotto), per il quale il giudaismo, più che una religione, è stato ed è «una società che trova nel fatto religioso il proprio elemento di coesione [...] una religione "chiusa" perché, per far parte del popolo eletto, occorreva nascere ebreo. Diventarlo era possibile, ma forse soltanto per evitare che la già pessima opinione che, degli ebrei, avevano i pagani peggiorasse ulteriormente»;

39. il goy Hervé Ryssen (II): «Il giudaismo non è solo una religione. È anche un progetto politico basato su un idea dominante: la scomparsa delle frontiere, l'unificazione della Terra e l'instaurazione di un mondo di "pace". Per gli ebrei religiosi questa aspirazione ad un mondo pacificato, unificato, globalizzato si confonde con l'attesa febbrile di un messia atteso da tremila anni e che verrà per restaurare il "regno di Davide". Per gli ebrei non credenti tale messianismo ha preso la forma di una militanza politica in favore di tutte le utopie mondialiste. È questa la ragione per cui tanti ebrei si sono impegnati nell'avventura comunista durante l'intero XX secolo, con una frenesia tutta particolare. Ma davanti alla caduta del sistema sovietico, numerosi furono coloro che compresero che la democrazia liberale sarebbe stata più efficace per annullare le frontiere e dissolvere le identità nazionali. Si tratta, ancora e sempre, di lavorare all'instaurazione dell'Impero globale, che dovrebbe chiamarsi anche Impero della Pace. Tale è la missione del popolo ebraico»;

40. decisamente più aspro il goy Luigi Cascioli (I): «Le sacre scritture, lontane dall'essere un'opera d'ispirazione

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letteraria o poetica, sono un vero trattato di insegnamento di guerriglia e di incitamento alla rivolta armata. Esse furono scritte unicamente per raggiungere degli scopi politici ben precisi, scopi che appariranno evidenti quando ci troveremo davanti a quel Partito Giudaico che porterà gli Ebrei, in un crescendo di esaltazione nazionalista, a concepire un programma di imperialismo universale. Che lo scopo della Bibbia sia quello di riunire un popolo, un popolo frustrato, facendo leva su quei sentimenti di odio e di vendetta che erano andati accumulandosi in esso durante i secoli per via di quell'emarginazione a cui era stato costretto dall'inizio dei tempi, appare evidente da come gli Ebrei si sono costruiti il loro Dio, quel Dio che ci viene mostrato sin dalle primissime pagine come capace soltanto di punire, maledire e ordinare stragi [...] La Bibbia non è stata scritta per edificare un Dio virtuoso, magnanimo e nobile, piuttosto un prototipo vendicativo, impietoso e assetato di sangue come doveva essere quel conduttore di eserciti, quell'Unto, quel Messia, quel Cristo in cui gli Ebrei immedesimarono tutta la collera, l'odio, la gelosia e l'ottusità di un popolo primitivo, ignorante, represso e frustrato [...] La Bibbia, lontano dall'essere un libro d'incitamento alla morale, è un testo di istigazione alla rivoluzione più spietata e sanguinaria, un vero compendio di tecniche sovversive e terroristiche che il Partito Nazionalista Giudaico attuerà prima nella rivolta dei Maccabei contro Antioco IV Epifane, re degli Ellenisti, e poi contro Roma in quelle che saranno le rivoluzioni messianiche. Abramo, Mosè, Giosuè, Saul, Salomone e sopra tutti Davide, che sarà elevato a simbolo del movimento rivoluzionario, non sono che figure costruite per realizzare un programma monoteista a base religioso-guerriera [...] Rimanendo fedeli alle leggi di Mosè [gli esseni, e più latamente gli ebrei] non sono che dei lupi travestiti da agnelli che hanno fatto propri i concetti cosmici della religione mazdeista per realizzare un programma di dominio universale basato esclusivamente sull'aggressività più feroce. Autodefinitisi "figli della luce", in realtà non erano altro che i figli di quell'odio e di quel rancore che nei secoli gli si era accumulato contro tutto il mondo, quel mondo che, avendoli sempre emarginati e respinti, li aveva relegati in un ruolo così infimo da essere considerati una razza inferiore».

41. Concetti, questi del giudaismo come pseudoreligione e imperialismo politico ed etnico, già vigorosamente sostenuti dai maestri-filosofi del primo Ottocento tedesco, tra i quali il Fichte dei Beiträge zur Berichtigung der Urtheile des Publicums über die französische Revolution "Contributi per la rettifica dei giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese" («In quasi tutti i paesi dell'Europa s'allarga uno Stato potente ed ostile, in perenne guerra con tutti gli altri Stati e che in taluno opprime, in modo terribilmente gravoso, i cittadini di quello; è l'ebraismo. Non credo, e spero di dimostrarlo più avanti, che esso sia così terribile perché forma uno Stato separato e solidale, ma perché questo Stato è fondato sull'odio contro l'intero genere umano [...] Non vi prende l'ovvio pensiero che gli ebrei, che già senza voi sono cittadini di uno Stato più saldo e potente di ogni altro vostro, calpesterebbero i vostri concittadini nel momento in cui concederete loro anche la cittadinanza dei vostri Stati?»), Hegel, Schopenhauer e il Feuerbach di «L'essenza del cristianesimo»: «L'utilitarismo, il tornaconto è il più alto principio dell'ebraismo [...] Gli ebrei si sono mantenuti sino ad oggi nella loro specificità; il loro Dio è il principio più pratico che esista al mondo: l'egoismo, e cioè l'egoismo sotto forma di religione. L'egoismo è essenzialmente monoteistico, infatti ha soltanto una cosa, soltanto se stesso per scopo [...] Non dal creatore venne agli ebrei quel soprannaturalistico egoismo che li contraddistingue, ma viceversa; da esso ebbe origine il loro dio. L'ebreo, nella creazione, non fece che dare una giustificazione razionale al proprio egoismo»,

42. nonché, ancor prima, dal Kant di «Antropologia dal punto di vista pragmatico», che dopo aver definito gli ebrei «nazione di trafficanti e di ladri», ne demolisce il credo: «La fede giudaica consiste, fin dal suo sorgere, di un insieme di leggi unicamente statutarie sulle quali si fondò una costituzione statuale; quanto ai complementi morali che le furono aggiunti già all'epoca, o in seguito, non derivano in nulla dal giudaismo in sé [...] Il nome di Dio [è] onorato soltanto come quello di un sovrano temporale che non pretende di comandare alla coscienza, né di averla [...] Tutti i comandamenti non riguardano che atti esteriori».

43. Più concreto e politico è nel 1927 Alfred Rosenberg (I): «Col concetto di "Stato" l'uomo europeo si raffigura l'insieme di una popolazione sostanzialmente omogenea per sangue, lingua e destino, che si struttura su un territorio in modo organico-verticale, dal contadino, attraverso il commerciante, all'inventore, al pensatore, all'artista e allo statista. Egli è talmente ingenuo da supporre anche nell'ebreo una tale concezione dello Stato, e non ha ancora compreso che un tale misto di nomadismo anatolico non riesce davvero a capire tale concetto. L'essenza dello Stato ebraico consiste, da che gli ebrei entrarono nella storia mondiale come tali, nella mancanza di un territorio, sostituita da un attaccamento ultraconservatore alle leggi nazionali-religiose e alle peculiarità razziali a suo tempo acquisite. Lo "Stato ebraico" non fu mai verticale-organico, ma sempre orizzontale-commerciale. Comprese sempre il ceto dei mediatori, si trattasse della filosofia, della medicina o della compravendita di vecchi vestiti. La "dispersione" non significò violenza, ma intimo volere. Lo "Stato" ebraico consistè dei Grandi Rabbini di Spagna, Francia, Polonia; di esattori, ministri delle finanze ed ebrei di corte al tempo degli imperatori e dei re medioevali; di speculatori di Borsa e di editori di giornali nelle odierne monarchie e repubbliche parlamentari. "La patria dell'ebreo sono gli altri ebrei", ben dice Schopenhauer. Grazie all'infiltrazione degli ebrei, celata sotto l'intonaco culturale europeo e sotto la maschera della libertà religiosa si compì la nomadizzazione della politica europea, la cui ultima espressione è il bolscevismo apolide anatolico-ebraico. "Lo Stato tramonta e trapassa nella

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società comunista". Così suona la chiusa del programma bolscevico per la Germania. In apparenza il programma è solo violenza bruta, e tuttavia è lo sfrenarsi del soggettivismo assoluto, del parassitismo più straripante».

44. Il giudaismo, aggiungono nel 1929 Jerome e Jean Tharaud, non è in verità una religione rivelata, ma una legisla-zione rivelata, come ha provato tra l'altro nell'Ottocento la disillusione dei maskilim, quegli illuministi/razionalisti guidati della migliore volontà di aprire sé e il proprio popolo al progresso occidentale, ma emarginati, stroncati ed espulsi dal grande corpo del pur variegato ebraismo: «Erroneamente avevano pensato che il giudaismo fosse un sistema religioso come gli altri, e che una volta che l'ebreo aveva osservato i suoi riti in casa e alla sinagoga poteva conformarsi agli usi e al pensiero dei popoli tra i quali viveva. No, il giudaismo era qualcos'altro, senza dubbio una religione, ma in primo luogo una razza, un pensiero, un sentimento esistenziale, un particolare genio che uno portava con sé oltre la casa e la sinagoga, e che non poteva abbandonare pena l'autodistruzione» (del tutto ovvio, quindi, l'accanimento ebraico nel difendere dalla blasfemia, con le unghie e coi denti, la legittimità di Jahweh, dato che in tal modo si sacralizza lo stesso popolo eletto: «Noi vediamo che il Santo-sia-benedetto passa sopra all'idolatria, ma non all'Hillul ha-Shem, alla dissacrazione del Nome Divino [alla dissacrazione, cioè, del giudaismo, o meglio ancora dell'ebraismo]», Levitico Rabba XXII 6, in Ephraim Urbach).

45. Concetto riespresso dal revisionista Pierre Guillaume (II): «Come tutte le religioni tribali primitive e contrariamente al cristianesimo, all'islam e alle grandi metafisiche, il giudaismo è una metafisica della terra (promessa) e del sangue (i discendenti di Abramo; religione monoetnica) [...] In realtà il vero Dio di Israele è lo stesso Israele: l'essere collettivo ipostatizzato della comunità reale e materiale, lo Jüdisches Gemeinwesen» (concetto folgorato, durante il linciaggio di Eichmann, anche da Golda Meir ad un'attonita Hannah Arendt, con l'affermazione di non credere in Dio, da buona socialista, ma nel popolo ebraico).

46. All'inizio del Novecento la costante era tornata nella parole di Leo N. Levy, presidente della massoneria bnaibritica: «È falso affermare che gli ebrei non sono ebrei che a motivo della loro religione. È fuor di dubbio che per noi la religione e la razza sono talmente congiunte che nessuno saprebbe dire dove inizia l'una o dove finisce l'altra».

47. Egualmente nel 1919 il «tedesco» Fritz Löwenstein, combattente nella Grande Guerra e poi presidente del Reichs-bund jüdischer Frontsoldaten: «Nazione e religione sono nel giudaismo inscindibilmente annodati; la legge ebraica non è affatto una semplice raccolta di cerimonie religiose, ma il dovere indefettibile cui sottostà ogni figlio del popolo ebraico».

48. Egualmente nel 1933 il «tedesco» Alfred Döblin, l'autore di Berlin Alexanderplatz: «Gli statuti trasmessi da Mosé secondo le scritture fondamentali dell'ebraismo non formano una religione, ma sono la ragion di Stato ebraica [die jüdische Staatsraison]. L'essenza della statualità ebraica viene formata in senso giuridico, sociale e religioso da tali comandamenti».

49. Egualmente sosterrà André Neher (II): «una religione incorporata in una comunità sociale», una religione che non può essere compresa senza l'ambiente in cui è nata e in cui vive, per cui «l'ebreo sta tanto al di fuori dell'ambito religioso, che costituisce il nocciolo del giudaismo ma è limitato, quanto al centro del nocciolo religioso stesso [...] Non c'è giudaismo senza ebrei [...] Il giudaismo va ben oltre i confini del religioso, comprende gli uomini, una società, uno Stato, una storia le cui componenti sono spesso profane [...] il giudaismo non è filosofia, ma legislazione rivelata»,

50. seguito dal caporabbi Elio Toaff (I), con lapidaria giustizia di tutte quelle interpretazioni soft che vogliono l'ebraismo definito da un credo: «No, gli ebrei non sono neanche una religione, sono un popolo che ha una sua religione [...] Ebreo è un popolo che ha una religione. I due concetti sono inscindibili. L'identità ebraica è costituita soprattutto dall'appartenenza al popolo ebraico. Anche chi non è religioso è ebreo in quanto appartiene al popolo ebraico. La religione ebraica è solo per il popolo ebraico».

51. Egualmente, un millennio innanzi in Babilonia, il grande gaon Saadia ben Yosef: «Solo attraverso le sue leggi il nostro popolo è un popolo».

52. Che il giudaismo non sia un mero/vero sentire religioso lo attesta infine, seguendo il Marx «antisemita» di Zur Judenfrage, lo scrittore Otto Heller (poi «esule» in Francia, partigiano, morto a Mauthausen nel 1945): «Esso è una costi-tuzione, una legge, una legge interessata, un testo di consultazione per il dare e l'avere dell'anima, un conto corrente, una pratica nella quale si custodisce la cambiale per la beatitudine. Questa legge è al momento insopportabile, poiché il suo fondamento sprofonda. La base della religione giudaica non è che la particolare funzione sociale ed economica degli ebrei, non altro. Cessata questa funzione, muore con essa la sua sovrastruttura ideologica, la religione giudaica».

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53. E, con accenti meno marxisti, Leonard Fein, docente alla Brandeis University e cofondatore di Moment, il più diffuso mensile ebraico-statunitense, nel 1975 con Elie Wiesel (I): «La regola centrale del giudaismo è la comunità. Il nostro non è un testamento personale, ma un impegno collettivo e pubblico [...] Ciò che definisce gli ebrei come ebrei è la comunità, non i valori, non l'ideologia».

Quanto all'annosa questione «revisionismo»/«negazionismo», della quale i Suoi congeneri si pascono in monotono, stucchevole, barbaro senso, Le segnalo un estratto da Holocaustica religio, rinviandola per una più completa illuminazione all'intero volume (non occorre comprarlo di tasca Sua, i Suoi dovrebbero già averlo acquistato, magari con qualcosa dei nostri, «famigerati» 300.000 euro):

● Il «fatto» dello sterminio degli ebrei è, afferma Michael Marrus, «uno dei problemi storici più difficili della nostra epoca [...] unico per la sua portata, il suo orrore, il suo attacco alle norme di civiltà», che sta «in qualche modo al di fuori della storia, a causa della sua importanza suprema». E «luogo supremo dell'esperienza umana», dotato di una «forza di paradigma [che] discende dalla sua unicità» lo dice l'ex sessantottino Stefano Levi Della Torre, mentre anche Isaac Deutscher, il biografo di Trockij, ne sottolinea il carattere di «unicità assoluta», definendolo espressione di «un mistero enorme e minaccioso della degenerazione dello spirito umano».

A lasciare attonito ogni uomo di retto sentire è egualmente la dilettante-in-storia Nora Levin (autrice nel 1973 della quarta storia ufficiale della Shoah) che, al pari del Levi Della Torre (per il quale i revisionisti vorrebbero, perversi, «disinnescare la memoria travestendola da storia»), toglie la Shoah dal campo dell'indagine storico-razionale per inserirla in dimensioni fantastorico-metafisiche: «L'Olocausto si rifiuta di seguire la stessa strada della maggior parte della storia, non solo per l'enormità della distruzione – l'assassinio di sei milioni di ebrei – ma anche perché i fatti che la circondano sono incomprensibili in un senso molto tangibile. Nessuno riesce a capire fino in fondo come sia potuto avvenire un assassinio di massa di tali proporzioni e come si sia potuto permetterlo. L'accumulazione dei dati non basta da sola a far capire; addirittura, forse la comprensibilità non sarà mai raggiunta». Lo storico sarà sempre separato da questa materia da una barriera impenetrabile, perché «tutte le caratteristiche riconoscibili della reazione umana si bloccano allo spartiacque nazista. Il mondo di Auschwitz era in verità un altro pianeta» (spregevolmente non-umani sarebbero quindi i «negazioni-sti»?).

Sulla falsariga è Nozick, per il quale la portata dell'Olocausto – «solo a leggerne i particolari la mente vacilla» – supera qualunque tipo di spiegazione e risposta, poiché «l'implacabile, inesorabile piano organizzato di sterminare dal primo all'ultimo ebreo e, nel mentre, di degradarli completamente» è un cataclisma unico e mai visto, un buco nero che deforma tutto ciò che gli sta intorno, «un'immane e incessante deformazione dello spazio umano. I suoi vortici e le sue distorsioni si estenderanno molto lontano».

Il «carattere unico e quasi sacro» di quegli «eventi terribili che esemplificano il male assoluto», scrive con vaga minaccia l'inglese (o «inglese») Ian Kershaw, docente di Storia Contemporanea all'Università di Sheffield, è «un destino specificamente ebraico che si colloca in effetti fuori del normale processo storico: "un evento misterioso, un miracolo a rovescio, per così dire, un evento dotato di un significato religioso nel senso che non è fatto dall'uomo (nell'accezione normale di quest'espressione)" [...] La delicatezza del problema è tale, che una parola o una frase fuori posto o male intese possono facilmente provocare reazioni e controreazioni arroventate». «Episodio storico-metafisico unico», definisce pervicacemente la Shoah, ancora nel giugno 1996, il «francese» Claude Lanzmann, autore dell'omonimo polpettone intervistatorio cinematografico, impudentemente privo di ogni documentalità.

«Ogni fatto legato a quel periodo sfida la comprensione umana», aggiunge la Donnola [il nobelizzato Elie: Donnola è traduzione di Wiesel], per il quale «l'Olocausto difetta di paragoni, di analogie», «è un evento unico nella storia e tale deve rimanere». Apparentarlo alle manifestazioni dell'odierno antisemitismo «equivale solo a sminuire la gravità dell'Olocausto, che deve costituire un punto di riferimento storico e morale, non il pretesto per un'analogia» (rivendicazione, quindi, non solo del diritto di prelazione olocaustica, ma anche dell'esclusiva!). Unico sarà il Culto, unico il Dogma, commenta Phillip Lovate: «The Holocaust is a jealous God; thou shalt draw no parallels to it, L'Olocausto è un dio geloso; non lo paragonerai a nessun'altra cosa» (Resistance to Holocaust, in Tikkun n.4/1989, il bimonthly di Rabbi Michael Lerner, poi consigliere spirituale di Bill Clinton).

Nulla quindi di strano che l'arcivescovo negro/anglicano mandeliano Desmond Tutu, dopo avere dichiarato nel 1987 che gli ebrei non hanno «il monopolio del dolore», venga accusato di antisemitismo e costretto a pubbliche scuse. Nulla di strano che nel gennaio 1998 Avner Shaky, deputato knessetico del Shas, voglia vietare per legge l'uso del termine «olocau-

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sto» fuori di ogni contesto che non sia quello dell'olosterminio. Nulla di strano che il goy Francesco Germinario (II) si scagli contro gli studiosi revisionisti, in quanto anche col meno «negazionista» si piomba nella «banalizzazione della drammaticità spaventosa della Shoah [...] la Shoah viene necessariamente privata della sua terribile ed incommensurabile specificità» («l'unicità è un dato assodato della costruzione olocaustica; approvare tale unicità è il dovere assegnato, disapprovarla equivale a negare l'Olocausto [...] La più "insidiosa" forma di negazione dell'Olocausto, assevera la Lipstadt, è costituita dalle "equivalenze immorali" [...] "Non comparare" è il mantra dei ricattatori morali», sferza il nonconforme Norman Finkelstein).

«Non possiamo comunque valutare la singolarità dell'Olocausto nella storia mondiale in termini numerici», insinua volpino Jerry Muller commentando The Holocaust in Historical Context di Steven Katz: «Nel diciannovesimo secolo, come ci ricorda Katz, qualcosa come venti milioni di persone sono morte nella ribellione Taiping del 1857. Nel nostro terribile secolo Stalin ha ucciso più gente di Hitler [Katz dà 20 milioni di morti per mano di un «willful, unyielding Stalin, volonteroso, inflessibile Stalin» nel decennio 1929-39], e con ogni probabilità si troverà che Mao, anche se non sarà mai possibile una stima precisa, ha ucciso di gran lunga più gente del suo compagno d'armi sovietico [Katz riporta da 34 a 62 milioni di morti nella guerra civile contro Chiang Kai-Shek, e altri 20 milioni nel periodo 1949-75]. Con massacri così grandi come quelli russo e cinese, sotto quale prospettiva l'Olocausto può essere considerato unico? Per Katz ciò che "differenzia la Shoah da ogni precedente e fino ad oggi seguente, comunque inumano atto di violenza collettiva, etnocidio e massacro di massa" è "il libero imperativo ideologico [unconstrained, ideologically-driven imperative] che ogni ebreo deve essere ucciso". Solo l'Olocausto è quindi un genocidio, se tale termine viene usato nel senso specifico di Katz: un tentativo "di uccidere nella sua totalità un gruppo razziale, religioso, politico, sociale, sessuale o economico"».

E non si osino neppure sospettare, conclude su Moment Francine Klagsbrun (I), già columnist di Jewish Week, reconditi motivi all'origine di tale pretesa di esclusività: «Se gli ebrei insistono sull'unicità dell'Olocausto non è perché aspiriamo, come taluno ci accusa, allo stato di "vittima peggiore". La più gran parte di noi sarebbe felice di lasciare ad altri tale condizione. Piuttosto, insistere sulla singolarità di quella calamità è un modo per mantenere corretta la storia per la nostra generazione e per le altre a venire [is a way of keeping history straight for this generation and others to follow]».

Similmente, pur avanzando che l'unicità del nazisterminio non riposa sulla «vantata abilità ed efficienza tecnologica dello Stato tedesco» e che la sua efferata portata non verrebbe relativizzata dall'ammissione che nel passato furono compiute stragi anche più massicce – «l'orrore e il disonore morale [persistendo] anche se i tedeschi riuscirono o meno ad inviare in orario i treni ad Auschwitz» – Marshall Breger giustifica la centralità dell'olopretesa: «La nozione del monopolio del genocidio è importantissima per la psiche ebraica del dopo-Olocausto. E si può facilmente capire come i sopravvissuti e l'intera comunità ebraica abbiano bisogno di considerare unici gli orrori della Shoah».

Mancandomi ulteriori argomenti – superfluo mi sembra parlarLe del viaggio compiuto negli ultimi giorni nella mia prediletta Germania – e poiché sto rischiando non solo di erudirLa, ma anche di annoiarLa, chiudo coi versi di Eigen Land "La mia terra". È un componimento del poeta Börries von Münchausen, il 16 marzo 1945 suicida, settantunenne, di fronte al crollo del suo mondo: «C'è forse al mondo cosa più bella / di questa che ho avuto dagli avi? / Io monto a cavallo nell'alba nebbiosa / la mia mano scansa i beni di strada / splende un aratro in terra turingia / e solca la mia terra!».

Cuveglio, 3 ottobre 2012

P.S. Del tutto en passant, Le ricordo che il giorno del suicidio di Börries è anche il giorno nel quale sotto una massa di democratici area bombing si fecero fuoco e cenere, a Würzburg, tra i cinquemila morti, duecento tra donne, ragazze e bambine di nome Anna/Anne/Anneliese/Annemarie, centotrentaré delle quali nominativamente ricordate nel 1947 da Hans Oppelt nella Würzburger Chronik des Denkwürdigen Jahres 1945, indi passate, a differenza di una più nota Anne ebraica – verosimilmente morta di tifo lo stesso giorno – nel dimenticatoio della storia. Anche perché non si la-sciarono dietro, a loro e nostro oblio, i diari. Genuini, manipolati o fasulli che fossero.

Sul massacro, dovuto ad un mare di fuoco scatenato dal terrorismo angloamericano nella notte

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sul 16 marzo da 225 Lancaster e 11 Mosquito che in ventidue minuti distrussero l'86% delle zone centrali, completa il pur rieducato storico Jörg Friedrich (I): «Le vittime del bombardamento del 16 marzo su Würzburg furono 5000 su 107.000 abitanti. Venti giorni dopo, la VII Armata americana avrebbe conquistato la città. I 3500 soldati tedeschi asserragliati in città combatterono per sei giorni tra le rovine: per gli americani fu la più amara e sanguinosa battaglia cittadina dai tempi di Aquisgrana. La distesa di macerie favoriva in entrambi i casi i difensori disperati. Se Würzburg fosse stata distrutta per facilitarne la conquista, allora sarebbe stato compiuto un errore di calcolo. Ma Würzburg era stata annientata in quanto obiettivo di riserva nella lista dei bersagli dell'8 febbraio. Non era necessaria un'utilità militare connessa al bombardamento. L'annientamento era inteso come esibi-zione di bravura che aveva in sé la propria giustificazione».

Di seguito, poiché quod non est in Diario non est in mundo, diamo l'elenco alfabetico delle 133 «Anna» i cui cognomi furono rintracciati, delle quali verosimilmente 64 nubili e 69 sposate, incenerite e frantumate, tratto dal periodico belga Dubitando n.11, aprile 2007: Anna Katharina Adler-Steinel, Anna Baadsch, Anna Baadsch, Anna Baetz, Anna Barth, Anna Klara Barz-Kinzig, Anna Basel, Anna Bieneck-Schaneng, Anna Maria Bieneck, Anna Bischoff-Breunig, Anna Margarete Bittner, Anna Blank-Fleischmann, Anna Braun, Anna Lina Breunig, Anna Brückner-Lukesch, Anna Diem, Anna Katharina Dietz, Anna Dinkel, Anna Sofie Dürr, Anna Eckel-Sdrzalek, Anna Eppler-Wegner, Anna Maria Eyssen, Anna Faber-Petres, Anna Stephanie Federl-Fürter, Anna Feser, Anna Fieger-Lamm, Anna Flach, Anna Forst, Anna Fraatz-Bodmann, Anna Barbara Freitag-Reuss, Anna Fröhlich, Anna Frosch-Hartwig, Anneliese Funke, Anneliese Gärtner, Anna Gebhard, Anna Gehrling-Amend, Anna Göbel, Anna Franziska Gotthardt-Ott, Anna Maria Gottwald, Anna Grail-Zeitz, Anna Granacher-Weingart, Anna Josephine Grimm-Sendelbach, Anna Grötsch-Prechtl, Anna Grossberger-Wörrlein, Annemarie Haag-Hirth, Anneliese Haeckel, Anna Hahn-Brehm, Anna Emilie Hain, Anna Emma Hain, Anna Dorothea Hautmann-Gropp, Anna Elisabeth Heckel, Anna Heilmann, Anna Maria Heinrich-Fischer, Anna Hemm-Grünewald, Anna Herzog, Anneliese Hess, Annastasia Höller, Anna Margarete Hoffmann-Scheid, Anna Hüge-Ohlsen, Anna Maria Hufgard-Dumproff, Anna Illig-Ackermann, Anna Keller, Anna Keller-Liebstückel, Anna Elise Kimmel-Küchler, Anna Kinzig-Kuhn, Anna Karolina Köhler-Schmidt, Anna Krämer, Anna Krines, Anna Katherina Kübert-Hummel, Anna Kuhn-Kuss, Anna Berta Irmtraud Kuhnat, Anna Leitmeister, Anna Lippert, Anna Löhr-Badum, Anna Lotter-Münch, Anna Maria Lutz-Helmer, Anna Mainberger-Geiger, Anna Theresia Mark-Götz, Anna Markert-Bayer, Anna Betz-Alzheimer, Anna Moser, Anna Müller-Wittstadt, Anna Münch, Anna Barbara Mülfinger-Wolf, Anna Nauer, Anna Nieberding-Dietz, Anna Oeffner, Anna Ortloff, Anna Ostberg-Wallrapp, Anna Pfannes-Gerber, Anna Pfeuffer, Anna Margarete Pfülb-Beck, Anna Rausch-Nusser, Anna Rheinthaler, Anneliese Reiter, Anna Renk, Annemarie Schätzlein-Franz, Anneliese Schätzler, Anna Schenk-Schneider, Anna Schmelz, Anna Schmitt, Anna Schmitt, Anna Josepha Schmitt-Wirsing, Anna Margarete Schmitt-Neder, Anna Schneider-Winter, Anna Schott-Kuhn, Anna Schröpfer, Anna Schultheis-Huber, Anna Seuffert-Leibold, Anni Spindler-Neumeister, Anna Elisabeth Sabina Springer, Anna Staudenraus-Englert, Anneliese Stegmaier, Anna Stein-Nehring, Annemarie Steinruck, Anna Straub, Anna Elisabetha Straub-Grassl, Anne Marie Lena Ullrich-Huege, Anna Vervier, Anna Maria Vorndran-Knöllinger, Anna Ottilie Wagner, Anna Weber-Völkel, Anna Wedler, Anna Maria Wedler-Wirsing, Anna Weidner-Kobras, Anna Karolina Weschenfelder-Pröster, Anna Dorothea Wierner-Fahrnholz, Annemarie Wierner, Anneliese Wipfelder, Anna Wolf, Anna Maria Wüst, Anna Zehnder-Klein, Anna Zühlke.

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