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Università Commerciale Luigi Bocconi Econpubblica Centre for Research on the Public Sector WORKING PAPER SERIES Equità ed efficienza .nella tassazione dei redditi personali: fondamenti teorici e linee di riforma Roberto Artoni, Università Bocconi Luca Micheletto, Università Studi di Milano Alberto Zanardi, Università Studi di Bologna Working Paper n. 122 May 2007 www.econpubblica.unibocconi.it

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Università Commerciale Luigi Bocconi Econpubblica Centre for Research on the Public Sector

WORKING PAPER SERIES

Equità ed efficienza .nella tassazione dei redditi personali: fondamenti teorici e linee di riforma

Roberto Artoni, Università Bocconi Luca Micheletto, Università Studi di Milano

Alberto Zanardi, Università Studi di Bologna

Working Paper n. 122

May 2007

www.econpubblica.unibocconi.it

Equità ed efficienza nella tassazione dei redditi personali: fondamenti teorici e linee di riforma (1)

Roberto Artoni, Università Bocconi

Luca Micheletto,Università di Milano Alberto Zanardi, Università di Bologna

Febbraio 2007

1. Introduzione Nell’arco temporale in cui si è sviluppata l’attività scientifica di Michele Salvati, un tema è stato sempre al centro del dibattito, in Italia come negli altri paesi: l’individuazione e il perseguimento di un criterio condiviso e praticabile di giustizia tributaria fondato sulla tassazione personale. In Italia, dall’insediamento di una Commissione di studio per la riforma tributaria nel 1962, all’approvazione della Legge Delega nel 1971, all’introduzione dell’IRPEF nel 1974, alle modifiche del 1997 fino agli aggiustamenti degli anni più recenti, si possono cogliere gli elementi d’insoddisfazione e le difficoltà che si sono manifestate nella ricerca di un assetto tributario soddisfacente in un mondo sempre più integrato sul piano economico e finanziario. Dal momento in cui con la Legge Delega del 1971 si realizzava l’aspirazione di tutti i riformatori tributari, l’introduzione di un’imposta progressiva sul reddito, prendevano corpo nella dottrina internazionale numerose analisi che avevano come tema unificante l’impossibilità di applicazione della comprehensive income tax. Di qui nascono nel Regno Unito, negli Stati Uniti e nei paesi nordici, elaborate proposte di modifiche dei sistemi tributari, che sotto alcuni aspetti trovano attuazione, caratterizzate da una forte propensione allo spostamento del nucleo centrale dell’imposizione personale da un’imposta sul reddito entrata a un’imposta sulla spesa. Il dibattito italiano si inserisce in questo quadro, interpretando e realizzando alcuni temi presenti nella letteratura e nella prassi internazionale. In questa lunga vicenda è importante esplicitare i cardini teorici che hanno sostenuto lo spostamento del riferimento normativo dal reddito alla spesa. Alcuni lavori fondamentali (da quelli di Mirrlees e Atkinson e Stiglitz degli anni ’70, a quelli più recenti di Kaplow) hanno posto le basi del nuovo riferimento analitico: al di là del loro merito intrinseco, questi contributi derivano la loro importanza dal fatto che sono stati accettati prima nella letteratura scientifica e poi nelle proposte di politica fiscale. In queste note ci soffermiamo in primo luogo sulla riforma italiana degli anni ‘70, sottolineando limiti e compromessi evidenti nella sua concezione e nella sua

(1) Capitolo tratto dal Volume “L’Economia e la Politica”Saggi in onore di Michele Salvati a cura di Giovanni Dosi e Maria Cristina Marcuzzo Società Il Mulino – 2007

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applicazione. Delineiamo poi la storia analitica di questo trentennio, sottolineando i passaggi per noi cruciali. Sul piano delle proposte operative o delle elaborazioni più generali, il Rapporto Meade, la riforma Reagan, la Dit introdotta nei paesi nordici ed, infine, le proposte elaborate dal Panel di esperti nominati dal presidente Bush, costituiscono i riferimenti essenziali. In conclusione tenteremo una lettura delle più recenti vicende del nostro paese, inquadrandole nel dibattito internazionale. 2. La riforma italiana degli anni ‘70 Il processo che portò alla riforma tributaria degli anni ’70 ebbe inizio nel 1962 con l’insediamento di una commissione, che già nel 1964, in un volume del suo vicepresidente Cesare Cosciani, formulò i principi cui avrebbe dovuto ispirarsi il nuovo sistema tributario1. Obiettivo della riforma doveva essere una progressività del sistema tributario “perequata, efficiente e trasparente” da realizzarsi conglobando le imposte sul reddito allora esistenti, personali e cedolari, in un’unica imposta. Era poi necessario coordinare questa imposta con una a base patrimoniale che consentisse una discriminazione tra redditi prodotti da un patrimonio e quelli di lavoro, data la maggiore capacità contributiva dei primi. La Commissione, infine, discostandosi da una consolidata tradizione, aderiva al concetto di reddito entrata, affermando che gli incrementi patrimoniali dovevano essere tassati allo stesso titolo per cui si tassa il reddito, sia pure con un tributo autonomo e con l’applicazione dell’imposta al momento della realizzazione della plusvalenza. Alla Commissione subentrò un Comitato presieduto dal 1967 da Bruno Visentini, che completò i suoi lavori nel 1969 con la presentazione di un progetto di legge. In questi anni cominciarono a manifestarsi i nodi problematici, poi risolti in sede di Legge Delega del 19712. Si dovevano in primo luogo definire le modalità con cui i redditi da capitale dovevano essere effettivamente inseriti nella base imponibile dell’imposta personale. Mentre sia Cosciani sia Visentini erano dell’opinione che tutti gli interessi, con l’eccezione di quelli sui depositi bancari, dovevano essere inseriti nella base imponibile dell’IRPEF, in sede di Legge Delega prevalse l’opinione della Banca d’Italia che aveva richiesto l’esenzione dei titoli di Stato e l’applicazione di imposte sostitutive sulle obbligazioni; un regime analogo fu introdotto per gli interessi bancari. Con riferimento ai dividendi venne rifiutata l’introduzione del credito d’imposta; per alcuni anni si applicò, fino al 1978, una cedolare secca del 30%, con un’implicita penalizzazione del finanziamento con capitale di rischio.

1 Cfr. Cosciani (1985). 2 Cfr. Ceriani et al. (1992).

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Scomparve nella formulazione definitiva l’imposta sul patrimonio; in sua sostituzione fu introdotta l’ILOR, una sovrimposta su tutti i redditi diversi da lavoro dipendente. Analogamente non venne istituita alcuna imposta generale sulle plusvalenze (rimanendo di fatto il nostro sistema ancorato ad un regime di reddito prodotto): la tassazione delle plusvalenze realizzate da persone fisiche venne limitata ad alcune tipologie caratterizzate da intento speculativo. Non venne in particolare data alcuna soluzione al problema della tassazione delle plusvalenze connesse ad operazioni di borsa. Conviene infine accennare alla struttura delle aliquote, pari al 10% per i redditi fino a 2 milioni, al 19% per lo scaglione compreso fra 4 e 5 milioni e al 72% per la quota di reddito eccedente i 500 milioni. Per interpretare la struttura delle aliquote si deve ricordare che alla fine degli anni ’60 il reddito medio era pari a 660 mila lire o che alla fine degli anni ’60 lo stipendio di un magistrato all’inizio della carriera era dell’ordine di 5 milioni annui. Al di là delle aliquote marginali molto elevate su redditi molto alti, il prelievo diretto per la generalità dei redditi era contenuto: infatti in Italia il gettito dell’imposizione diretta all’inizio degli anni ‘70 era significativamente più basso di quello dei principali paesi europei. Al di là di altri aspetti su cui non è possibile soffermarci, risulta evidente che i contenuti della Legge Delega del 1971 erano lontani dai principi enunciati dalla Commissione Cosciani. Se le intenzioni originarie implicavano un’adesione ai principi del reddito entrata, la soluzione adottata era coerente con un’imposta di tipo reddito prodotto, con l’importante specificazione che i redditi di capitale erano di esclusi dall’applicazione della progressività. Giocarono certamente timori di perturbare ulteriormente una situazione economica diventata difficile per ragioni interne o internazionali. Alla base delle scelte della Legge Delega stava probabilmente anche la progressiva presa di coscienza che l’attuazione piena del principio del reddito entrata, in un contesto in cui i movimenti internazionali dei capitali diventavano sempre meno controllabili, era di fatto preclusa. Non è un caso che proprio in quegli anni cominciarono ad apparire importanti contributi teorici che di fatto minavano la fiducia nella praticabilità dei principi equitativi dell’imposizione personale fino ad allora accettati. 3. I fondamenti teorici Per comprendere l’evoluzione, a partire dall’inizio degli anni ’70, degli orientamenti nei confronti del disegno ottimale dei sistemi di imposizione personale, quattro punti di snodo ci sembrano fondamentali. Il primo è il contributo di Mirrlees (1971) che dà avvio alla moderna teoria della tassazione ottimale del reddito. Il secondo è rappresentato dalla formulazione del cosiddetto teorema di Atkinson-Stiglitz (1976) relativo all’indesiderabilità di ricorrere ad un sistema di imposte sul consumo che distorca il prezzo relativo dei diversi beni. Il

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terzo è costituito dall’emergere negli anni ’80 di una serie di contributi tesi a dimostrare, anche attraverso l’applicazione del teorema di Atkinson-Stiglitz ad un contesto intertemporale, l’indesiderabilità della tassazione dei redditi da capitale. Infine, un ultimo rilevante momento dell’elaborazione teorica è quello che prende avvio negli anni ’90 con il fiorire di una letteratura sui rapporti fra tassazione e rischio che induce a riformulare i criteri di scelta tra modelli impositivi diversi. 3.1 La tassazione non-lineare ottima del reddito L’articolo di Mirrlees (1971) ha dato origine alla moderna teoria della politica redistributiva ottimale. Il problema posto da Mirrlees può essere reinterpretato come un problema principale-agente di selezione avversa in cui l’azione redistributiva è subordinata ad un insieme di vincoli di auto-selezione. Si assume che gli individui si differenzino solo per quanto riguarda il livello di abilità sul mercato del lavoro e che a livelli diversi di abilità corrispondano saggi salariali diversi. Si ipotizza inoltre che il policy maker non sia in grado di osservare l’abilità di un dato individuo, né l’offerta di lavoro individuale, ma che invece conosca la distribuzione delle abilità nella popolazione e sia in grado di osservare il reddito (dato dal prodotto tra il salario percepito da un certo lavoratore e la sua offerta di lavoro). La politica redistributiva si sostanzia nella scelta di una funzione non-lineare di imposta che lega il debito di imposta al reddito osservato.3 La redistribuzione da agenti ad alta abilità verso agenti a bassa abilità comporta una funzione di imposta che risulta progressiva. Tuttavia, a mano a mano che la redistribuzione aumenta, si giunge inevitabilmente ad un punto a partire dal quale agli agenti ad alta abilità risulta conveniente fingersi agenti a bassa abilità, riducendo la propria offerta di lavoro e guadagnando il medesimo reddito pre-imposta degli agenti a bassa abilità. A partire da quel punto, il vincolo di auto-selezione diventa stringente rendendo impossibile una maggiore redistribuzione. L’importanza dell’articolo di Mirrlees risiede nel fatto che per la prima volta si riuscì a costruire un modello che fosse in grado di formalizzare il trade-off tra obiettivi di efficienza ed obiettivi redistributivi e di ottenere dall’analisi risultati di carattere operativo. Ciò che emerge è che l’andamento delle aliquote marginali ottime dipende essenzialmente da tre fattori: la distribuzione delle abilità nella popolazione considerata, l’elasticità dell’offerta di lavoro, e infine l’avversione alla disuguaglianza implicita nella nella funzione di benessere sociale da massimizzare. Data la complessità delle condizioni che definiscono implicitamente le aliquote marginali ottimali, sia Mirrlees sia altri autori dopo di lui hanno fatto ricorso a simulazioni numeriche. Il risultato più notevole è che le aliquote marginali ottime sono decrescenti al reddito, ad eccezione di livelli di reddito molto bassi. Un’altra importante conclusione del contributo di Mirrlees è che l’imposta non-lineare ottima non si discosterebbe apprezzabilmente da una funzione affine, del tipo ( )T y ty G= − , dove 0 t 1< < rappresenta un’aliquota

3 Una funzione non-lineare di imposta è una funzione in cui l’aliquota marginale non è costante.

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marginale costante per ogni livello di reddito e rappresenta un trasferimento in somma fissa uniforme. Sebbene questi risultati siano diventati un riferimento comune in tutte le riforme dell’imposizione personale attuate nei decenni successivi ed abbiano ispirato il diffuso convincimento che la perdita di benessere associata all’impiego di funzioni di imposta ad aliquota marginale costante sia trascurabile, alcuni contributi più recenti hanno evidenziato come essi siano in realtà poco robusti a specificazioni del modello diverse. Assumendo una disuguaglianza nella distribuzione delle abilità individuali significativamente maggiore rispetto a quella solitamente ipotizzata nei modelli di tassazione ottima (ma comunque empiricamente non implausibile), le aliquote marginali ottime risultano crescenti lungo un intervallo considerevole, sebbene per livelli di reddito più alti continuino ad essere decrescenti nel reddito (Kanbur e Tuomala (1994)). Altri autori (da ultimo Tuomala (2006)) ottengono un profilo delle aliquote marginali ottime ad U.

y 0G >

3.2 Il teorema di Atkinson-Stiglitz e la tassazione del reddito da capitale L’estensione del modello di Mirrlees al caso in cui esistono più beni di consumo consente di considerare anche il problema dell’ottima struttura dell’imposizione indiretta. In letteratura si è soliti assumere che, per la difficoltà di osservare il livello di consumo personale dei singoli beni, sia possibile amministrare solo un sistema di imposte sulle merci di tipo lineare. Il governo ha dunque a propria disposizione due tipi di strumenti: un’imposta non-lineare sul reddito ed un insieme di imposte specifiche sulle merci. Da un modello di questo tipo si ottiene che, quando è verificata l’ipotesi di separabilità debole tra offerta di lavoro e altri beni nella funzione di utilità individuale, non c’è nessun bisogno di affiancare all’imposta non-lineare sul reddito un sistema di imposte differenziate sulle merci: qualsiasi allocazione ottima può essere ottenuta facendo esclusivo uso dell’imposta non-lineare sul reddito. Questo risultato è noto in letteratura come teorema di Atkinson e Stiglitz (1976) (teorema di AS). Non possiamo in questa sede soffermarci sulle assunzioni molto forti alla base di questo risultato.4 Sono per noi rilevanti le implicazioni utilizzabili per la tassazione dei redditi da capitale. E’ infatti possibile reinterpretare il teorema di AS in un contesto intertemporale, evidenziando la differenza tra quella che in letteratura è nota come imposta sul reddito-entrata e quella nota come imposta sul reddito-consumo, e di valutare dal punto di vista normativo la preferibilità di un tipo di imposizione rispetto all’altro. L’osservazione da cui partire è che il consumo effettuato in periodi diversi è interpretabile come consumo di beni diversi. Dunque, gli stessi principi che determinano l’opportunità di distorcere i prezzi relativi tra beni diversi sono anche

4 Cfr. Micheletto (2004).

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applicabili all’analisi della desiderabilità di discriminare fiscalmente atti di consumo che avvengono in periodi diversi. Preliminarmente è utile evidenziare alcune relazioni tra un’imposta sul reddito-entrata ed un’imposta sul reddito-consumo. Si consideri un modello bi-periodale in cui gli individui, dotati di una ricchezza iniziale nulla, lavorano solo nel primo periodo e consumano in entrambi i periodi. Si supponga inoltre che esista un solo bene di consumo in ciascuno dei due periodi e si denoti rispettivamente con e il consumo al tempo 1 ed il consumo al tempo 2. Indicando con r il tasso di interesse, un’imposta proporzionale sul reddito da lavoro ad aliquota t (equivalente ad un’imposta ad valorem ad aliquota uniforme

1c 2c

( tt −= 1/ )τ sul consumo di tutti i beni ovvero ad un’imposta sul reddito-consumo5) genera il vincolo di bilancio individuale:

( ) ( )1 21 /wl t c c r− = + +1 . (eq. 1)

Un’imposta sul reddito-entrata origina invece il vincolo di bilancio individuale:6 ( ) ( )1 21 / 1 1wl t c c r t− = + + −⎡ ⎤⎣ ⎦ . (eq. 2)

Confrontando i vincoli di bilancio (1) e (2) si è soliti affermare che un’imposta sul reddito da lavoro (e dunque un’imposta sul reddito-consumo) è equivalente ad un’imposta sul reddito-entrata che esenta dalla tassazione i redditi da capitale.

Riscrivendo il vincolo di bilancio (2) come ( ) ( )2

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1 1 1crwl t c

r t r+

− = ++ − +

si può notare

che, essendo ( ) per 0( )1 / 1 1r r t+ + −⎡⎣ 1>⎤⎦ 1t< < , un’imposta sul reddito-entrata

equivale ad un’imposta sul reddito da lavoro combinata con un’imposta sul consumo nel secondo periodo. Poiché in presenza di imposte non-lineari le relazioni che abbiamo sopra esposto per il caso di imposte proporzionali valgono con riferimento alle aliquote marginali, è facile riconoscere che l’ottimalità di un modello impositivo fondato sulla nozione di reddito-consumo è riconducibile alla sussistenza di condizioni che rendano valido il risultato sancito dal teorema di AS. E’ opportuno ancora una volta sottolineare le ipotesi molto forti alla base di questo risultato che è stato centrale in molte applicazioni concrete. Se l’ipotesi di separabilità nella funzione di utilità individuale non è verificata, una politica redistributiva ottimale ricorrerà anche alla tassazione dei redditi da capitale. Ma anche se l’ipotesi di separabilità dovesse trovare conferma, tre tipi di considerazioni contribuiscono a giustificare un certo scetticismo nei confronti dell’ottimalità della non tassazione dei redditi da capitale.

5 Si noti che tale equivalenza è valida ipotizzando che l’aliquota di imposta non vari nel tempo e che gli individui non ricevano né lascino eredità (o donazioni). Se si tiene conto del patrimonio lasciato o ricevuto in eredità, un’imposta sul reddito da lavoro e sulla ricchezza ricevuta in eredità è equivalente ad un’imposta sul consumo e sulla ricchezza lasciata in eredità. 6 Sebbene nell’esempio da noi considerato il reddito da capitale si componga esclusivamente da interessi, la tassazione secondo il modello del reddito-entrata prevede l’assoggettamento a imposizione di tutte le forme in cui può manifestarsi la remunerazione del capitale.

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In primo luogo, se il salario relativo dei diversi tipi di agenti dipende dal livello di accumulazione del capitale, un policy maker benevolente vorrà in generale o tassare o sussidiare il rendimento del risparmio. (Stiglitz (1998)).

In secondo luogo, se gli agenti si differenziano anche in relazione all’ammontare di ricchezza ereditato e il policy maker non è in grado di osservare tutta o parte della ricchezza ereditata a livello individuale, la tassazione dei redditi da capitale si giustifica come uno strumento per colpire indirettamente la ricchezza ereditata (Cremer et al. (2003)). Infine, la desiderabilità di un’imposta ad aliquota positiva sul rendimento del risparmio può essere giustificata se si assume che gli agenti siano soggetti a incertezza nei confronti del proprio livello futuro di abilità di mercato (Golosov et al. (2003)). E’ sorprendente notare come, nonostante questi contributi permettano di razionalizzare sul piano normativo l’esistenza di un’imposta sui redditi da capitale, sia dominante il riferimento ai risultati esposti da Lucas (1990) secondo cui, indipendentemente dalla forma della funzione di utilità individuale, l’aliquota ottima sul reddito da capitale è asintoticamente pari a zero. La sorpresa nasce dal fatto che simili risultati sono derivati nel contesto di un modello à la Ramsey ad agente rappresentativo dove, in linea di principio, niente impedisce al policy maker di finanziarsi attraverso il ricorso ad un’imposta uniforme in somma fissa. Come osservato da Stiglitz (1998), “…it is remarkable that, 20 years after the results suggesting that Ramsey’s analysis is of limited relevance in economies in which governments engage in active redistributive policies through other than commodity taxation, Ramsey’s analysis still seems to dominate professional discussions of tax and regulatory policies…Why this is so perhaps is a fitting subject of inquiry in the sociology of knowledge!”. 3.3 Tassazione e rischio Nella nostra analisi abbiamo sin qui tralasciato di considerare gli aspetti legati all’esistenza di investimenti rischiosi. Un’adeguata comprensione della tassazione dei redditi da capitale non può però prescindere dalla considerazione che una parte consistente del rendimento legato all’impiego del capitale è costituita da un premio per il rischio. Il primo contributo della letteratura in tema di tassazione e rischio risale a Domar e Musgrave (1944), i quali forniscono un’analisi di equilibrio parziale di un modello in cui gli agenti possono investire in due attività, l’una che garantisce un rendimento certo e l’altra che offre un rendimento incerto in un contesto di piena deducibilità fiscale delle perdite. La principale conclusione è che le imposte che colpiscono la remunerazione per l’assunzione di rischio non hanno alcun effetto sugli individui, i quali possono aggiustare la composizione del proprio portafoglio, aumentando opportunamente la quota investita nell’attività rischiosa, in modo da compensare esattamente per l’effetto dell’imposta. Un esempio potrà aiutare a chiarire questo risultato. Si supponga che, in un mondo in cui l’imposta sul reddito da capitale si applica al solo rendimento risk-free r , un certo

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individuo investa un ammontare X in un’attività rischiosa che paga (dove può anche essere minore di

iR iRX ) nello stato del mondo . Se l’aliquota è pari a ,

l’ammontare di risorse a disposizione dell’investitore dopo il pagamento dell’imposta sarà pari a . Si supponga ora che intervenga una riforma che preveda che tutto il reddito da capitale, compresa la remunerazione per il rischio, sia tassato in modo pienamente simmetrico (cioè concedendo completa deducibilità per le perdite) all’aliquota . L’investitore può compensare l’effetto dell’imposta sulla parte di rendimento che corrisponde alla remunerazione per il rischio aumentando il proprio investimento nell’attività rischiosa da

i rt

rXtR ri −

rt

X a ( )rtX −1/ e prendendo a prestito i fondi necessari, pari a , al tasso risk-free ( rr tXt −1/ ) r . Dopo che il rischio si è realizzato, il prestito è rimborsato e le imposte sono pagate, l’ammontare di risorse a disposizione dell’investitore sarà pari a:

( ) ( ) ( ) rXtRrtrt

Xtt

Rtrt

XttXRtr

tXt

tR

rirr

r

r

ir

r

r

r

ir

r

r

r

i −=−−+−

−−

−=⎥⎦

⎤⎢⎣

⎡−

−−−

−+−

−−

1111

111

111

.7

Come si vede, attraverso un opportuno aggiustamento di portafoglio l’ammontare netto di risorse a disposizione dell’investitore coincide in ciascuno stato del mondo (cioè per ogni possibile realizzazione di ) con quello che caratterizzava il caso precedentemente considerato di un’imposta che colpisce il solo rendimento risk-free.

iR

Il modello base di Domar e Musgrave è stato esteso per tenere conto in particolare degli effetti di equilibrio generale sui mercati delle attività finanziarie e degli effetti sul vincolo di bilancio dell’operatore pubblico nei diversi stati del mondo. Ai nostri fini il risultato più importante di questi raffinamenti è che, se si possono effettuare appropriati aggiustamenti di portafoglio sia da parte degli individui sia da parte dell’operatore pubblico, un’imposta sul reddito da capitale è equivalente ad un’imposta che colpisce il solo rendimento della componente priva di rischio, corrispondente alla remunerazione del differimento del consumo (il cosiddetto pure time value return). Per intendere appieno la portata di questo risultato è opportuno definire con precisione che cosa si intende in questo contesto con il termine “equivalente”. Una rigorosa definizione la si può trovare in Kaplow (1994), il quale ha articolato il concetto di equivalenza tra sistemi fiscali sulla base di tre criteri specifici. In particolare, affinché due regimi fiscali possano considerarsi equivalenti è necessario che: 1) il contribuente disponga sotto entrambi i regimi della stessa ricchezza post-imposta in ciascun stato del mondo; 2) sotto entrambi i regimi l’investimento (netto) totale in ciascuna attività sia lo stesso in modo tale che i mercati siano in equilibrio con prezzi invariati; 3) sotto entrambi i regimi il governo ottenga lo stesso gettito in ciascun stato del mondo.

7 Il primo termine al membro di sinistra rappresenta la somma lorda percepita dall’investitore nello stato del mondo i; il secondo termine rappresenta le risorse sottratte per rimborsare il prestito contratto; infine, il terzo termine rappresenta l’imposta dovuta, tenuto conto della piena deducibilità degli interessi passivi.

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Data la natura stringente delle condizioni che definiscono equivalenti due sistemi fiscali, la conclusione per alcuni versi dirompente di questa letteratura è che, se il tasso di interesse su attività prive di rischio è vicino allo zero, un’imposta sul reddito-entrata coincide nella sostanza con un’imposta sul reddito-consumo. Dunque, il criterio di scelta più appropriato tra un tipo di imposta e l’altro dovrebbe fondarsi, anziché su dispute di carattere filosofico intorno alla più equa ripartizione del carico fiscale, su considerazioni legate alla semplicità amministrativa. D’altro canto, se si dovesse ritenere che la mancata tassazione del rendimento privo di rischio conduca ad una significativa perdita di benessere sociale, il riconoscimento dell’incapacità di colpire la componente di remunerazione del rischio può indurre ad esplorare forme alternative di imposizione che siano meno costose da gestire sul piano amministrativo ma che consentano comunque di tassare il rendimento privo di rischio. E’ opportuno a questo punto fare alcune considerazioni intorno all’ipotesi relativa agli aggiustamenti che si richiede siano posti in essere dagli agenti affinché il risultato di equivalenza sopra richiamato sia verificato. Due sono le ragioni principali per cui questi aggiustamenti potrebbero non avvenire: da un lato per mancanza della necessaria competenza finanziaria; dall’altro perché l’individuo beneficia di possibilità uniche di investimento che offrono rendimenti cosiddetti inframarginali, cioè in eccesso rispetto alla normale remunerazione per il rischio. Se quest’ultima è la ragione alla base del mancato aggiustamento di portafoglio, continua ad essere vero che l’unica differenza tra un’imposta sul reddito-entrata ed una sul reddito-consumo è che la prima, a differenza della seconda, assoggetta a tassazione il rendimento privo di rischio. Infatti, sia un’imposta sul reddito-entrata sia un’imposta sul reddito-consumo colpiscono i rendimenti inframarginali ed in entrambi i casi ciò avviene per il medesimo motivo, per il fatto cioè che tali rendimenti originano da opportunità uniche di investimento, non replicabili. Se invece gli appropriati aggiustamenti di portafoglio non avvenissero a causa di insufficiente capacità di calcolo da parte dell’investitore, allora un’imposta sul reddito-entrata colpirebbe anche, almeno in parte, la componente di remunerazione che corrisponde al premio per il rischio. Tuttavia, come enfatizzato da Weisbach (2005), da un lato gli aggiustamenti che si richiedono all’investitore non sono fondamentalmente diversi da quelli che implicitamente si richiedono agli agenti affinché sia valida la proposizione, largamente condivisa, che un’imposta sul reddito-consumo esenta dalla tassazione il rendimento risk-free. D’altro canto, se si riconosce che ad una parte degli investitori difettano le capacità di calcolo necessarie per compiere gli opportuni aggiustamenti di portafoglio, la conseguenza è che la remunerazione del rischio viene sì colpita da un’imposta sul reddito-entrata, ma ciò in modo inaccettabilmente erratico e con effetti redistributivi verisimilmente poco desiderabili (Schenk (2000)), gravando solo sugli investitori meno sofisticati. Se questo fosse effettivamente il caso, sarebbe allora preferibile sostituire all’imposta sul reddito-entrata un’imposta equivalente nel senso di Kaplow (1994) ma che minimizzi per i contribuenti gli aggiustamenti di

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portafoglio necessari, in modo tale da non creare indesiderate discriminazioni tra investitori diversi. In termini di prescrizioni di policy, al di là di tutte le possibili considerazioni sulle ipotesi sottese al risultato di equivalenza (tra cui quella riguardante la presenza di una singola aliquota che si applica simmetricamente sia ai guadagni che alle possibili perdite connesse ad un investimento rischioso), si possono riconoscere fondamentalmente due linee di pensiero che emergono da questo nuovo filone di letteratura in tema di tassazione e rischio. La prima e prevalente è quella secondo cui, poiché nella scelta tra un’imposta sul reddito-entrata ed una sul reddito-consumo ci si può limitare agli aspetti legati alla semplicità amministrativa, si dovrebbe senz’altro abbandonare il modello del reddito-entrata per adottare quello del reddito-consumo. Una seconda impostazione, minoritaria, è quella seguita da coloro che contestano che la tassazione fondata sul consumo sia compatibile con l’idea che tra le responsabilità che definiscono il concetto di appartenenza ad una collettività vi sia anche quella di contribuire adeguatamente al finanziamento della spesa pubblica. Il problema secondo costoro nasce dal fatto che tale responsabilità va intesa nel senso che tutti i cittadini dovrebbero, se ne sono in grado, adempiere a tale obbligazione a intervalli regolari. La tassazione secondo il modello del reddito-consumo consentirebbe invece agli individui di sottrarsi a tale obbligazione e al limite, se il risparmiatore scegliesse di rimandare indefinitamente il consumo, di trasmetterla alla generazione successiva. Sulla base dei risultati di equivalenza che la letteratura ha mostrato validi in un mondo ideale, gli autori che si rifanno a questa seconda impostazione cercano allora di formulare proposte alternative di policy che preservino per quanto possibile una certa tassazione dei redditi da capitale, ma ne minimizzino incoerenze e costi di implementazione. E’ questo fondamentalmente il senso della proposta avanzata da Schenk (2000) la quale, sulla scorta dell’osservazione che gli aggiustamenti di portafoglio richiesti agli investitori nel caso di un’imposta sulla ricchezza sono meno sofisticati di quelli richiesti nel caso di un’imposta sul reddito, suggerisce di “salvare l’imposta sul reddito con un’imposta sulla ricchezza”, ovvero di affiancare ad un’imposta sul reddito-consumo un’imposta ex ante sulla ricchezza calcolata ad un’aliquota pari al prodotto tra il tasso di rendimento (reale) risk-free e l’aliquota di imposta che si vorrebbe far gravare sul reddito da capitale. 4. Linee di riforma Le indicazioni emerse nel dibattito di teoria economica hanno avuto qualche riscontro nelle proposte di riforma della tassazione personale? Guardando all’ultimo trentennio discuteremo in questa prospettiva quattro momenti fondamentali dei movimenti di riforma dei sistemi fiscali che hanno interessato i paesi ad economia avanzata: il Rapporto Meade, la riforma Reagan, la Dit dei paesi nordici ed, infine, le proposte elaborate dal Panel di esperti nominati dal presidente Bush.

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4.1 Il Rapporto Meade Il rapporto Meade8 costituisce una delle prime manifestazioni organiche d’insoddisfazione per il funzionamento del sistema tributario fondato, per quanto riguarda l’imposizione personale, sul concetto di reddito entrata. Pubblicato nel 1978, il rapporto si apre con la constatazione che il sistema tributario inglese, nel suo complesso, “contains a number of anomalous complications and inconsistencies, which have been intensified by the recent rates of inflation”. Da un lato l’assenza di meccanismi d’indicizzazione comportava anche la tassazione delle componenti puramente nominali dei redditi di capitale. Dall’altro, il sistema erano stati inseriti elementi propri di un’imposta sul reddito-consumo nel trattamento degli accantonamenti previdenziali. Inoltre si era ampliato il differenziale di trattamento fra redditi di capitale e guadagni in conto capitale (i redditi di capitale potevano venire colpiti con aliquote che raggiungevano il 98%; ai guadagni in conto capitale si applicava un’aliquota del 30%). Una prima ipotesi di riforma avrebbe richiesto l’effettiva attuazione di una comprehensive income tax. Il reddito individuale avrebbe dovuto essere definito come la somma del consumo e dell’incremento del patrimonio nel periodo d’imposta, senza alcuna distinzione fra reddito corrente e guadagni in conto capitale estesi a tutte le attività patrimoniali e valutati nel momento della maturazione. Si riconosceva che una base imponibile così definita, nella quale avrebbero dovuto entrare anche donazioni e successioni, sarebbe stata caratterizzata da ampie fluttazioni, diventando pertanto necessario, ulteriore complicazione, l’adozione di major averaging provisions, oltre che di appropriati sistemi di indicizzazione. I numerosi problemi che avrebbero dovuto essere comunque affrontati nella definizione di una base imponibile di tipo reddito entrata ha spinto la Commissione Meade ad analizzare caratteristiche di un‘imposta personale fondata sul concetto di consumo, o di spesa; con ciò si tentava di dare veste concreta a una tesi sostenuta da illustri economisti e che solo pochi anni prima aveva trovato un convinto sostenitore in Kaldor9. La base imponibile di questa imposta sarebbe stata ottenuta per differenza fra la somma dei redditi personali, le entrate in conto capitale (cessioni di attività patrimoniali o accensione di prestiti) e le entrate una tantum come le donazioni o le successioni, da un lato, e, dall’altro, la somma di tutte le spese diverse dall’acquisto di beni di consumo (acquisizioni di assets o rimborsi di prestiti). I vantaggi di un’imposta di questa natura, rispetto all’alternativa costituita dalla comprehensive income tax, sono certamente notevoli, in linea di principio. In primo luogo, non esiste più la necessità distinguere fra reddito e guadagni in conto capitale:

8 Cfr. Institute for Fiscal Studies (1978). 9 Cfr. Kaldor (1955).

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entrambi alimentano la base imponibile, in termini del tutto equivalenti, nel momento in cui finanziano spese di consumo. In secondo luogo, essendo più stabile il consumo rispetto al reddito rilevante per la comprehensive income tax, i meccanismi di averaging non sarebbero stati necessari, salvo quanto diremo poi a proposito delle successioni. Nel rapporto Meade si dà poi molta importanza al fatto che un’imposta sul consumo non disincentiva il risparmio, essendo inalterato il tasso di rendimento ottenibile rispetto ad una situazione in cui non esistono imposte; al contrario un’imposta sul reddito riduce la remunerazione netta in ragione dell’aliquota d’imposta. Si sosteneva inoltre che uno dei maggiori vantaggi di un’imposta sulla spesa sarebbe stato quello di rendere molto più trattabili i problemi d’indicizzazione. Contrariamente a quello che accade con un imposta sul reddito (in cui si dovrebbe distinguere la parte di reddito reale da quella derivante da inflazione), problemi di adeguamento del valore capitale non si pongono, in quanto è la spesa corrente, comunque sia finanziata, ad essere oggetto di tassazione. Come abbiamo già implicitamente accennato, il nucleo problematico di un’imposta sulla spesa personale e progressiva, che dunque persegua anche finalità redistributive, riguarda il trattamento di donazioni e successioni. Sembrerebbe logico ritenere che le trasmissioni di proprietà possano essere considerate atti assimilabili al consumo di chi trasferisce, volontariamente o involontariamente, la proprietà e quindi facenti parte a pieno titolo della base imponibile di questa imposta. Le obiezioni sociali e politiche a questa impostazione certamente innovativa rispetto alle prassi correnti sono evidenti: in particolare con l’adozione di un’imposta di questo tipo si passerebbe da un regime fiscale in cui le trasmissioni ereditarie sono assoggettate ad aliquote molto tenui, in tutti i paesi del mondo, ad un’aliquota tendenzialmente elevata quale sarebbe necessariamente quella applicata in sede d’imposizione personale. Qualunque fosse il tipo d’imposta personale assunta a riferimento, rimaneva aperto il problema dell’individuazione di una struttura di aliquote che fosse realistica e non risultasse potenzialmente confiscatoria (nel Regno Unito l’aliquota massima dell’imposta personale era allora pari all’83%). Il rapporto sottolineava in particolare l’incongruità di una struttura di aliquote che prevedeva elevate aliquote marginali per i redditi più bassi (una volta che si fosse tenuto conto degli interventi sociali decrescenti al crescere del reddito), aliquote moderate per i redditi medi (per i quali l’aliquota normale era pari al 33%) e infine aliquote molto alte per i redditi maggiori, comunque molto poco numerosi negli scaglioni più elevate. La soluzione più efficiente ed equa al tempo stesso avrebbe invece richiesto (e in questo il rapporto riprendeva la letteratura più recente sul tema), al crescere del reddito imponibile, low-high-low marginal rates of tax. Nello stesso tempo anticipando una proposta che sarebbe stata al centro dl dibattito successivo, si sottolineava la flessibilità di applicazione di un‘imposta personale ad aliquota marginale costante associata ad un congruo credito d’imposta rimborsabile. In conclusione ci possiamo chiedere quanto delle indicazioni del Rapporto Meade sia stato recepito nella successiva evoluzione dell’imposizione personale nel Regno Unito.

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Ignorata l’ipotesi di un’imposta di tipo reddito consumo, ha continuato a prevalere un modello molto attenuato di tipo reddito entrata, in cui le aperture al reddito consumo sono importanti. Le aliquote marginali sono state fortemente ridotte: sul primo scaglione di reddito (fino a £ 2151) si applica un’aliquota del 10%, cui segue un’aliquota del 22% (fino a £ 33000); al di sopra di questo livello si applica un’aliquota del 40%. I redditi da risparmio entrano nella base imponibile dell’imposta personale; solo per i dividendi è prevista un’aliquota massima del 32,5% cui è peraltro associato un credito d’imposta del 10%. Rimangono tuttavia molte aperture non sistematiche al modello d’imposta sulla spesa, prevedendosi esenzioni per numerose forme di risparmio, non solo per gli accantonamenti previdenziali. I guadagni in conto capitale, infine, sono assoggettati a imposizione con aliquota pari all’aliquota marginale dell’investitore; è prevista una consistente deduzione per quelli a breve termine, oltre a forme di indicizzazione per quelli a lungo termine. 4.2 La riforma Reagan La riforma tributaria, introdotta nel 1986, dall’Amministrazione Reagan costituisce il secondo esempio di rimeditazione dei principi fondamentali dell’imposizione personale. All’esito finale di un lungo processo10 contribuirono due scuole di pensiero: da un lato, i seguaci di Henry Simons, che ritenevano giusta un’imposta caratterizzata da una base imponibile omnicomprensiva e da limitate eccezioni al principio di una tassazione omogenea di tutte le forme di entrata; dall’altro i supply siders, vicini all’Amministrazione repubblicana, che sottolineavano gli effetti disincentivanti di elevate aliquote d’imposte. Il risultato fu una sorta di compromesso in cui entrambe gli schieramenti trovarono elementi di soddisfazione. Si continuò, infatti, nella riduzione delle aliquote marginali, accentuando il processo avviato nel 1981. Dall’aliquota massima dell’imposta personale pari al 70% nel 1980, si scese al 50% nell’anno successivo e al 28% nel 1986. Più precisamente, la Riforma Reagan era articolata su un’aliquota iniziale del 15% (fino ad un reddito di 30000 $) e su una del 28% per tutti gli altri redditi (con l’eccezione dei redditi compresi fra 72000 e 193000 $ assoggettati ad un’aliquota del 33%). Gli epigoni di Simons ottennero a loro volta che i guadagni in conto capitale fossero tassati al momento della realizzazione secondo le stesse modalità del reddito ordinario. L’inserimento a pieno titolo dei guadagni in conto capitale fu dunque associato a una fortissima attenuazione della progressività dell’imposta Nella vicenda che condusse alla riforma Reagan altri punti meritano di essere ricordati. In particolare nel rapporto Treasury I11 si ritenne improponibile l’abbandono della tradizionale imposta sul reddito a favore di un’imposta sul consumo. Il nodo era

10 Cfr. Pechman (1987). 11 Cfr. Mc Lure e Zodrow (1987).

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costituito, come abbiamo già avuto modo di osservare, dal trattamento che avrebbe dovuto essere riservato a donazioni e successioni. L’inserimento di queste voci nella base imponibile era giudicato politicamente improponibile e la loro esclusione troppo sbilanciata sul piano distributivo (data la concentrazione di risparmio e guadagni in conto capitale presso i più alti percettori di reddito). La riforma Reagan rimase poi assolutamente ancorata al principio nominalistico, con evidenti effetti distorsivi sia nella tassazione degli interessi attivi, sia nella deducibiltà generalmente riconosciuta agli interessi passivi. Analogamente, non venne riconosciuto alcun aggiustamento per la componente nominale dei guadagni in conto capitale e venne riaffermato il sistema classico di tassazione dei dividendi. Musgrave12 intitolò una sua analisi della riforma Reagan “short of Euphoria”, sottolineando che gli aspetti innovativi non erano poi così radicali. Il carattere fondamentalmente compromissorio della riforma Reagan è comunque testimoniato dall’evoluzione successiva, caratterizzata dall’abbandono molto rapido dei suoi principi ispiratori. Nel 1991 si adottarono 3 scaglioni con l’aliquota massima al 31%; nel 1993 gli scagliono diventarono 5 con l’aliquota massima al 39,6%. Con la presidenza Bush f si avviò un processo di riduzione delle aliquote. Dal 2003 gli scaglioni sono 6, con aliquote che vanno da 10 al 35%13. Ma anche l’equiparazione del trattamento fiscale fra reddito ordinario e guadagni in conto capitale ebbe vita breve. Dal 1997 i guadagni in conto capitale derivanti da cespiti detenuti da almeno 18 mesi sono assoggettati ad un’aliquota del 10% per i contribuenti collocati nello scaglione iniziale (per i quali allora l’aliquota marginale era pari al 15%); si applicava invece un’aliquota del 20% sui contribuenti collocati nell’ultimo scaglione. Ulteriori riduzioni di aliquote sono state introdotte a partire dal 2001: oggi le aliquote rilevanti vanno dall’8 al 18%. Nella revisione del sistema tributario avviata dall’Amministrazione oggi al potere si deve infine ricordare che è stato superato il sistema classico di doppia tassazione dividendi; oggi i dividendi distribuiti sono tassati con un’aliquota del 15%. Solo gli interessi percepiti dalle persone fisiche rientrano nella base imponibile. 4.3 La Dual income tax“nordica” Ben più della riforma americana del 1986 una rottura radicale con il paradigma della tassazione progressiva sul reddito omnicomprensivo è stata prodotta dall’introduzione di forme di Dual Income Taxation (DIT) in alcuni paesi nordici tra il 1987 e il 1993 (Soerensen 1994, Cnossen 1999).

12 Cfr. Musgrave (1987). 13 Per la descrizione del sistema fiscale degli Stati Uniti si veda The President’s Advisory Panel on Federal Tax Reform (2005).

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Pur nella diversità delle applicazioni nei diversi paesi, il modello della DIT prevede, nella sua forma ideale, l’applicazione esplicita di un sistema di imposte reali, attraverso la previsione di un’imposta proporzionale uniforme (una flat rate tax) su una base ampia composta da tutte le forme di redditi da capitali e, separatamente, di un’imposta progressiva sui redditi derivanti da altre fonti (essenzialmente redditi da lavoro e pensioni). L’aliquota dell’imposta societaria è fissata al medesimo livello dell’imposta sui redditi personali da capitale ed è pienamente integrata con questa. In generale l’aliquota unica di prelievo sui redditi di capitale è posta pari all’aliquota corrispondente allo scaglione più basso della tassazione progressiva. Ne deriva, pertanto, che le aliquote applicate ai redditi da capitale sono significativamente inferiori a quelle applicate agli altri redditi e assai meno progressive. In particolare, in Norvegia i redditi da capitale sono assoggettati ad un’aliquota del 28%, mentre i redditi da lavoro ad aliquote comprese tra il 28% e il 47,5%; in Svezia il capitale è tassato al 30%, il lavoro tra 31,5% e il 56,5%. Inoltre, sebbene non costituisca un elemento essenziale dello schema DIT, la tassazione duale può essere accompagnata, oltre che da un’imposta patrimoniale sui trasferimenti di ricchezza intergenerazionali, da ulteriori forma di tassazione dei redditi di capitale al momento della percezione da parte del contribuente. Ad esempio, in Norvegia dal 2006 i dividendi e i guadagni in conto capitale sono tassati al 28% per la parte eccedente il rendimento privo di rischio. La motivazione fondamentale dell'adozione di forme di tassazione duale del reddito che detassano parzialmente il capitale sta nel tentativo di conservare una qualche forma di prelievo sui redditi da capitale, pur nell'ambito di un quadro di elevata e crescente mobilità internazionale e dalle conseguenti spinte ad attivare forme di concorrenza fiscale (Keen 1999, Wilson 2000). Inoltre l’applicazione di un’aliquota unica sulla generalità dei redditi di capitale consente una maggiore neutralità e contrasta diffuse pratiche di tax planning rese possibili dai trattamenti differenziati. Al contempo, però, lo schema della Dit nordica incoraggia operazioni di elusione fiscale, in particolare da parte delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi, per i quali la distinzione tra redditi di lavoro e di capitale non è sempre immediata da tracciare (Strand 1999, Van den Noord 2000). E’ sul piano equitativo, ovviamente, che emergono le debolezze dello schema duale. La tassazione bassa e proporzionale del capitale rispetto al prelievo progressivo, e in media più elevato, sul lavoro indebolisce, data la concentrazione del capitale sui decili superiori di reddito, la capacità di redistribuzione verticale della tassazione personale. In parte questo risultato potrebbe essere corretto con l’introduzione, come sopra richiamato, di un’imposta patrimoniale. Sul piano dell’equità orizzontale differenti considerazione sono possibili. Il modello duale di tassazione certamente discrimina (e lo fa esplicitamente) tra percettori di redditi da capitale e percettori di redditi da lavoro a parità di livello complessivo di reddito percepito. Ma al contempo, in una prospettiva life-cycle, dato che la distinzione tra, sul lato delle fonti di reddito, tra reddito da lavoro e reddito da capitale equivale, sul lato

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degli impieghi, a quella tra consumo presente e consumo futuro, la detassazione dei redditi da capitale comportata dallo schema DIT gioca in favore dell’equità orizzontale in quanto non discrimina a sfavore di chi sceglie di risparmiare e di posticipare in tal modo i consumi. Pur non adottando un sistema puro di tassazione duale, molti paesi dell'area UE hanno approvato negli anni recenti riforme fiscali che prevedono su interessi e plusvalenze forme di tassazione cedolare ad aliquote uniformi (pur non estendendo questo trattamento agevolato a tutti i redditi di capitale), generalmente inferiori alle aliquote marginali che gravano sui redditi da lavoro nell'ambito dell'imposta personale e progressiva. Queste riforme, e le pressioni ad esse sottostanti, concorrono a spiegare una delle linee evolutive che più chiaramente emerge dall'esperienza recente dei sistemi fiscali europei: la forte crescita della tassazione sul lavoro rispetto a quella su fattori più mobili, come il capitale. Nei paesi UE, tra il 1970 e il 1999, l'aliquota media effettiva (ex-post) sul lavoro è aumentata del 47% (circa 12 punti d'aliquota) mentre quella corrispondente sul capitale soltanto del 24% (meno di 5 punti d'aliquota). Il risultato è che oggi nella media UE, mentre il capitale sconta un prelievo medio effettivo del 24%, il lavoro è gravato da un'aliquota media effettiva pari a quasi il 38%, di circa 15 punti d'aliquota superiore a quella di Stati Uniti e Giappone (Cnossen 2002, e per i profili metodologici Martinez-Mongay 2000). Anche se il calcolo delle aliquote effettive non è privo di problemi metodologici, non c'è dubbio che un livello di tassazione così elevata si rifletta sul funzionamento dei mercati del lavoro: nella misura in cui il prelievo sul lavoro viene traslato sul costo del lavoro a carico delle imprese, si generano incentivi alla sostituzione del lavoro (soprattutto quello a bassa specializzazione) con altri fattori produttivi o alla delocalizzazione delle produzioni in paesi a più basso costo del lavoro; nella misura in cui rimane a carico del salario si scoraggia la ricerca di occupazione e lo sforzo lavorativo. 4.4 Il Panel Bush Nel gennaio del 2005 il Presidente Bush nominò un Advisory Panel incaricato di individuare le linee essenziali di un sistema tributario simple, fair, pro-growth (queste indicazioni ripetono quasi esattamente i termini dell’incarico affidato vent’anni prima dall’allora Presidente Reagan ad un’analoga Commissione). Come si legge nell’Executive Summary del rapporto finale del Panel, l’esigenza di avviare la riforma nasceva dal fatto che il sistema tributario americano, a causa di un’inarrestabile produzione legislativa, non era equo (destinando importanti agevolazioni fiscali ad un numero ristretto di beneficiari), era distorsivo (in quanto portava ad un’inefficiente allocazione delle risorse con effetti negativi sullo sviluppo economico) ed era eccessivamente complesso, oltre che instabile e imprevedibile.

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Nel Rapporto14 presentato nel novembre 2005 sono formulate due proposte di riforma. La prima (Simplified Income Tax Plan) si risolve in una modesta razionalizzazione del sistema vigente, caratterizzata da una diminuzione delle aliquote marginale sui redditi più elevati è in un’ulteriore riduzione delle aliquote applicate a dividendi e guadagni in conto capitale. La seconda ipotesi di riforma (denominata Growth and Investment Tax Plan) è più ambiziosa, soprattutto nella parte relativa alla tassazione societaria. In questa proposta si possono cogliere molti spunti elaborati dalla dottrina nei decenni precedenti, e sui ci siamo soffermati. La proposta tende ad avvicinare la struttura dell’imposizione personale all’ideale della flat income tax, l’imposta sul reddito ad aliquota marginale costante. Gli scaglioni previsti sono infatti 3 e le aliquote marginali sono pari al 15% (fino a $ 40.000 per il singolo), al 25% (fino a $ 70.000) e al 30% per (redditi superiori). Ulteriori elementi di progressività sono ottenuti con detrazioni legate alla condizione lavorativa e alla situazione famigliare del contribuente. L’imposta così formulata avrebbe dovuto applicarsi esclusivamente a salari e pensioni (wage tax). Venendo al secondo punto rilevante, nell’analisi del panel la promozione dello sviluppo richiede che siano evitate tutte le forme di disincentivo riconducibili alla doppia tassazione del risparmio. L’invarianza del saggio di rendimento del risparmio, come abbiamo già osservato, può essere ottenuto con un’imposta sui salari e sui consumi che non fanno per costruzione rientrare nella base imponibile i frutti del risparmio. Il Panel ha tuttavia ritenuto opportuno prevedere l’introduzione di un’imposta autonoma, con aliquota fissa del 15%, su interessi, dividendi e guadagni in conto capitale. Nel Rapporto si osserva tuttavia, che quest’imposta, pur costituendo un allontanamento dal modello della wage tax o della consumption tax, avrebbe trovato applicazione in un numero molto limitato di casi. Infatti, al contribuente americano sarebbe stata riconosciuta un’ampia possibilità di collocare il risparmio (derivante dal reddito al netto delle imposte) in conti individuali destinati alla previdenza, alla sanità, all’istruzione o all’acquisto della casa. Questi fondi sarebbero stati esenti da imposte sia nella fase di accumulazione sia in quello di utilizzo con la conseguenza che il risparmio destinato a queste spese essenziali, che motivano larga parte del posponimento del consumo, sarebbe andati comunque esenti da ogni forma d’imposizione. Si deve aggiungere che un’imposta sul reddito con le caratteristiche prima delineate avrebbe dovuto essere associata ad una cash flow corporation tax, che prevede la deducibilità immediata delle spese d’investimento e la indeducibilità degli interessi passivi. Com’è noto, questo tipo d’imposta societaria lascia invariato, in assenza e in presenza d’imposta, il rendimento dell’investimento marginale. Abbiamo già osservato che un elemento ostativo all’introduzione di un’imposta sulla spesa è riconducibile al problema del trattamento fiscale di successioni e donazioni. Questo problema sembra essere totalmente ignorato dal Panel.

14 Cfr. The President’s Advisory Panel on Federal Tax Reform (2005).

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La difficoltà connessa all’introduzione di un’imposta di questo tipo, nella forma proposta dal Panel, non è tuttavia sfuggito a Kotlikoff. Pur riconoscendo che sia la tassazione sui salari, sia la tassazione del consumo esentano i frutti del risparmio, Kotlikoff ha osservato che le due forme d’imposizione si pongono in un rapporto completamente diverso nei confronti della ricchezza esistente: “It (i.e.la proposta del Panel, n.d.a.) may end up shifting us more toward wage than consumption taxation. (…) Since consumption is financed by existing wealth and current and furure labor earnings, taxing consumption taxes what’s used to purchase consumption existing wealth and current and future labor earnings. By contrast, taxing just wages exempts any burden on current wealth holders”.15 In conclusione si può osservare che le ipotesi di riforma del Panel non hanno dato luogo ad alcun passo concreto sulla via della loro applicazione. D’altro canto, le modifiche introdotte nel 2001 alla tassazione dei redditi di capitale hanno ulteriormente avvicinato, al di fuori di ogni inquadramento organico, il sistema tributario al modello di reddito consumo. 5. Le vicende recenti del sistema tributario italiano Il sistema tributario italiano è stato influenzato dall’evoluzione teorica e pratica dei principali paesi; sulla base delle nostre condizioni economiche sono state interpretate e adattate le indicazioni di riforma provenienti dalla dottrina e dalla prassi. Dopo l’approvazione della Legge Delega nel 1971, la riforma tributaria è stata realizzata in due fasi, le imposte dirette nel 1974 e quelle indirette nel 1975. Gli effetti attesi della riforma dell’imposizione personale sono stati peraltro esaltati e stravolti dal potente fenomeno inflazionistico che ha investito l’economia italiana proprio in coincidenza dell’avvio della riforma tributaria. Una struttura di aliquote crescenti, applicate a scaglioni di reddito di ampiezza molto contenuta, ha determinato un fortissimo fenomeno di “fiscal drag”. Qui basti ricordare un solo dato16. Le aliquote medie per i lavoratori dipendenti senza carichi di famiglia sono aumentate fra il 1974 e il 1982 di 10 punti (dal 6.6 al 16.7); la crescita è continuata fino al 1988, quando l’aliquota media ha raggiunto il 19%. L’inflazione ha prodotto effetti devastanti anche sui detentori di titoli a reddito fisso, che hanno subito una drastica riduzione del valore reale del loro investimento, senza che i rendimenti nominali, al netto delle imposte, potessero compensare, almeno fino a metà degli ‘anni 80, le perdite in conto capitale. Come logica conseguenza, tutti gli interventi degli anni ’80 furono destinati a ridurre, sia pure parzialmente, gli effetti delle distorsioni degli anni precedenti. Nel 1983 si ridussero gli scaglioni dell’IRPEF da 32 a 9 con aliquote che andavano dal 18% al 65%.

15 Cfr. Kotlikoff (2006). 16 Ceriani et al. (1992).

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Nel 1989 gli scaglioni furono ulteriormente ridotti a 5 con aliquote comprese fra il 10% e il 50%,in tal modo allineando in sostanza il sistema tributario italiano ai modelli europei . Nello stesso periodo furono introdotti numerosi aggiustamenti su deduzioni o detrazioni per carichi di famiglia e per lavoro dipendente con il fine di rendere più socialmente accettabile il sistema fiscale che si era configurato sotto la spinta dell’inflazione. Le esigenze equitative di riequilibrio del carico tributario sui redditi da lavoro dipendente erano rese particolarmente urgenti dalla forte ascesa, verificatasi a partire dalla seconda metà degli anni ’80, dei rendimenti reali dei titoli obbligazionari, e in particolare dei titoli di Stato esenti da ogni forma d’imposizione. Infatti, nei primi anni ’90 oltre all’introduzione di una norma, durata poco, che avrebbe dovuto garantire la restituzione automatica del fiscal drag, si ripropose il problema della tassazione a livello personale dei redditi da capitale. Un primo tentativo di apertura al concetto di reddito entrata si ebbe nel 1991 con l’introduzione di un sistema di tassazione delle plusvalenze emergenti nelle cessioni di titoli azionari effettuati da persone fisiche. Il meccanismo, che comunque non prevedeva l’inserimento nella base imponibile delle plusvalenze, rimase in vigore per un periodo breve (l’applicazione venne sospesa nel novembre 1992, con l’eccezione delle plusvalenze relative alla cessione delle partecipazioni qualificate). Nel novembre 1994 è stato poi consentito ai percettori di dividendi distribuiti da società quotate di optare per una cedolare secca del 12,5%. Tuttavia la svolta riformatrice del sistema tributario italiano deve essere ricollegata alla Legge Delega del dicembre 1995, pienamente attuata nel biennio successivo. Per quanto riguarda l’IRPEF è stato in primo luogo avviato un processo di riduzione delle aliquote e di ristrutturazione degli scaglioni, probabilmente conclusosi nel 2005: in quell’anno l’aliquota sul primo scaglione era pari al 23% (un’aliquota relativamente elevata corretta solo parzialmente dalle deduzioni per carichi famigliari e tipologia di resisto) e quella più elevata, applicata allo scaglione superiore a 100.000 euro, era pari al 43%, un livello certamente non elevato nel contesto europeo. L’aspetto più rilevante della Legge Delega riguardava tuttavia il tentativo di dare organicità alla tassazione dei redditi di capitale, oggetto fino ad allora di trattamenti differenziati e scarsamente giustificati nelle loro articolazioni. E’ stata affermato un principio di omogeneità di trattamento di tutte le forme di remunerazione del capitale, eliminando in linea di principio ogni incentivo all’arbitraggio fiscale. Era, ed è, infatti previsto lo stesso trattamento, ad aliquota pari al 12,5%, per redditi di capitale (compresi i titoli di Stato) o capital gains o proventi da derivati; solo per gli impieghi a breve si applica va un’aliquota del 27%. Per gli strumenti finanziari si è anche tentato di introdurre la tassazione delle plusvalenze alla maturazione equiparandole, in termini di valore attuale, a quelle ottenute alla realizzazione.

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Lo sforzo di razionalizzazione e di omogeneizzazione appena delineato ha comportato, con poche eccezioni, la rinuncia ad ogni tentativo di inserimento nella base imponibile dell’imposta personale dei redditi di capitale. Alla base di questa scelta fondamentale stanno evidentemente gli effetti della liberalizzazione dei movimenti di capitale decisa alcuni anni prima l’assenza di qualsiasi politica europea tendente alla costruzione di un sistema fiscale coordinato e capace di evitare forme indesiderate di competizione fiscale: sotto questo aspetto valgono le considerazioni effettuate con riferimento alla riforma fiscale del paesi nordici di pochi anni prima. E’ difficile definire il nostro sistema tributario all’inizio del XXI secolo in termini delle tradizionali tassonomie. Si possono cogliere elementi di reddito entrata (data la tassazione dei capital gains), ma il fatto che l’aliquota sia estremamente contenuta rende il nostro sistema molto lontano dai principi ispiratori di una comprehensive income tax. Si può cogliere qualche apertura al reddito consumo (data la possibilità di dedurre dall’imponibile, a partire dal 1997, di consistenti contributi previdenziali), ma gli spunti sono ancora limitati e comunque molto modesti rispetto alle analoghe esperienze dei paesi anglosassoni. La conclusione più ragionevole sembra essere il riconoscimento del carattere ibrido del nostro sistema d’imposizione personale, i cui caratteri essenziali sono, da un lato, l’applicazione della progressività ai redditi da lavoro e da pensione (una wage tax) e una tassazione molto bassa in termini assoluti, ma anche nei confronti di altri paesi europei, dei redditi di capitale. Possiamo affermare che ci troviamo di fronte a una Dit nordica, ma con aliquote sui redditi di capitale lontane da quelle applicate sul primo scaglione dei redditi d lavoro e in assenza sostanziale di ogni forma d’imposizione patrimoniale. Possiamo trovare anche forti convergenze con il modello proposto dal Panel nominato dal presidente Bush, in cui tutti i redditi di capitale dovrebbero essere tassati al 15%; l’unica differenza sarebbe data dal fatto che nella nostra imposta personale al momento le aliquote marginali sono più alte per i redditi più elevati, oltre ad un meccanismo di deduzioni più circoscritto per il diverso ruolo dello Stato nella fornitura dei servizi di protezione sociale. L’assonanza con la proposta di Bush sarebbe ancora più forte se in Italia si ritornasse alla Dit sui redditi societari, che nella sua forma pura con ammortamenti pari al vero deprezzamento economico produce gli stessi effetti della cash flow corporation income tax. 6. Conclusioni Al di là delle specificità nazionali, possiamo tentare di individuare alcuni elementi che hanno caratterizzato l’evoluzione dei sistemi tributari dei paesi cui abbiamo fatto riferimento. Le indicazioni teoriche, per quanto derivate da modelli astratti e stilizzati, sembrano essere state ampiamente accolte. Il campo di variazione delle aliquote si è fortemente

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ridotto, pur continuando ad essere presente in tutti sistemi un certo grado di progressività. Sono stati poi accolti di fatto gli argomenti che portano ad una ridotta tassazione dei frutti del risparmio (sia perchè sono stati accolti gli antichi argomenti, sia perché è stata riconosciuta validità alle più recenti elaborazioni sull’impossibilità di tassare componenti significative dei redditi di capitale). Anche se la moderata tassazione dei redditi di capitale ha impedito la piena attuazione di un‘imposta sul reddito consumo, di fatto oggi l’imposizione personale è in larga misura riconducibile a una wage tax. I problemi redistributivi o di concentrazione della ricchezza che avevano a lungo preoccupato i maggiori studiosi di problemi della tassazione sembrano essere stati dimenticati . Si è proceduto sulla via del reddito consumo, nella forma della wage tax, ignorando tutte le problematiche di imposizione del patrimonio. Infine si possono avanzare alcune sintetiche considerazioni sul livello delle aliquote e del gettito dell’imposizione personale. E’ evidente il nesso esistente fra il livello dell’imposizione in generale, e di quella personale in particolare, e dimensioni della spesa pubblica, all’interno della quale la componente più consistente è quella relativa alle spese di protezione sociale. Là dove imposte e spese sono elevate, esiste di fatto una sorta di scambio fra l’accesso diffuso a servizi sociali qualificati e il pagamento di questi sevizi attraverso l’imposizione diretta fondata su aliquote molto elevate. Là dove invece imposte e spese sociali sono basse l’accesso a questi servizi passa necessariamente attraverso il finanziamento individuale o del datore di lavoro, che a sua volta deve essere sostenuto da importanti tax expenditure, con rilevanti effetti sull’accesso ai servizi sociali in termini di universalità e quindi sulla realizzazione dei diritti di cittadinanza. Alla luce dell’evoluzione degli ultimi decenni questa sembra essere la differenza sostanziale fra il modello di finanza pubblica europeo e quello che caratterizza gli Stati Uniti. Sul piano della “sociologia della conoscenza” i prossimi anni ci diranno se le elaborazioni che hanno qualificato le analisi fondamentali cui abbiamo fatto riferimento e che sono in corso di rielaborazione, porteranno a nuove scelte o a nuove ipotesi di riforma del sistema tributario, più attente alle problematiche di coesione sociale. Appare comunque certo che il contesto economico e politico sarà caratterizzato in Europa sul piano sostanziale, in assenza di profonde riforme istituzionali, da un’ulteriore contrazione della sovranità nazionale in materia tributaria

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