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zonderwater 1941-1947 Pow’s camp Gian Paolo Bertelli

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zonderwater

1941-1947 Pow’s camp Gian Paolo Bertelli

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Zonderwater

El Alamein (20 Ottobre 2002)

Il presidente della Repubblica Ciampi appunta sulla contessa Elena la medaglia d'Oro al Valore dell'Esercito concessa al marito, colonnello degli Alpini Paolo Caccia Dominioni.

Dopo sessanta anni le autorita’ italiane hanno finalmente reso omaggio ai nostri Cadutiad El Alamein, al di fuori di ogni retorica dopo mezzo secolo di silenzio i nostri politici hanno preso coscienza del valore del soldato italiano; villipeso, denigrato, tradito il nostro esercito ha dato prova su tutti i fronti di valore. Purtroppo la fine del secondo conflitto mondiale ha coinciso con l’inizio di una nuova guerra, piu’ subdola, combattuta non direttamente fra gli ex alleati ma indirettamente utilizzando come pedine di una scacchiera i vari paesi satelliti. A causa della guerra fredda si diede ampio risalto nel primo dopoguerra alle sorti dei prigionieri di guerra dell’ARMIR, bisogna ricordare che l’URSS non aveva aderito alla convenzione di Ginevra, ignorando di contro la sorte delle centinaia di migliaia di P.O.W ancora detenuti nei campi di prigionia dei nuovi alleati. I campi di prigionia francesi, inglesi e statunitensi erano localizzati in Africa, negli Stati Uniti, in India, in Australia, nei campi tedeschi erano morti moltissimi prigionieri di guerra italiani, i cosidetti schiavi di Hitler, solo da pochi anni e’ stato riconosciuto anche dal governo tedesco il trattamento inumano a cui furono sottoposti i militari non collaborazionisti italiani. Due siti interessanti, per chi vuole approfondire l’argomento, sono: http://www.schiavidihitler.it e www.robertozamboni.com , il secondo significativamente denominato da Zamboni “Dimenticati di stato” e’ anche un valido strumento per cercare notizie relative al periodo di prigionia dei militari italiani. Zamboni attraverso la consultazione del fondo “Inter arma caritas” dell’Archivio Segreto Vaticano di Pio XII e’ in grado di fornire il contenuto delle schedine compilate dall’ufficio vaticano che si occupava dell’assistenza dei prigionieri di guerra. Comunque solo da pochi anni si e’ potuto chiedere conto

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alla repubblica federale tedesca dei crimini perpetrati dai militari tedeschi a danno degli italiani, quando ormai i responsabili erano deceduti oppure a causa delle condizioni di salute non più estradabili.

Con questi presupposti era impensabile chiedere conto a guerra finita od anche negli anni successivi chiedere conto ai francesi, agli inglesi ed agli statunitensi della mancata applicazione della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra sottoscritta da tutti i belligeranti esclusa l’Urss. I casi di violazione furono gravi ed innumerevoli e sicuramente sottostimati come numero, si va dalle “Marocchinate”: dal sito wilkipedia “Marocchinate è il termine usato per indicare lo stupro di massa attuato dai goumiers francesi ai danni di molte persone di ambo i sessi e di tutte le età dopo la battaglia di Monte Cassino. Secondo un disegno di legge del Senato della Repubblica del 1996 furono violentate più di 2.000 donne (la cui età era compresa dai 10 agli 86 anni) e oltre 600 uomini. I Goumiers erano truppe coloniali irregolari francesi appartenenti ai Goums Marocains, un reparto delle dimensioni approssimative di una divisione ma meno rigidamente organizzato, che costituiva il CEF (Corps expeditionnaire français) insieme a quattro altre divisioni: la Seconda Divisione Marocchina di Fanteria, la Terza Divisione Algerina di Fanteria, la Quarta Divisione di Montagna Marocchina e la Prima Divisione della Francia Libera. I Goums erano al comando del generale francese Augustin Guillaume. Le violenze Il 14 Maggio 1944 i Goumiers, attraversando un terreno apparentemente insuperabile nei monti Aurunci, aggirarono le linee difensive tedesche nell'adiacente valle del Liri consentendo al XIII Corpo britannico di sfondare la linea Gustav e di avanzare fino alla successiva linea di difesa predisposta dalle truppe germaniche, la linea Adolf Hitler. In seguito a questa battaglia il generale Alphonse Juin avrebbe dato ai suoi soldati

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cinquanta ore di "libertà", durante le quali si verificarono i saccheggi dei paesi e le violenze sulla popolazione denominate appunto marocchinate. Le cifre riguardanti il totale degli stupri e omicidi sono molto varie. Secondo i dati del Ministero degli Interni, poi trasmessi alla Commissione alleata di controllo ci furono circa 2.000-3.000 stupri di donne, molte delle quali furono contagiate da malattie veneree, circa 800 uomini sodomizzati, molti dei quali successivamente assassinati tramite impalatura, oltre a un centinaio di omicidi e la distruzione di 811 case poi incendiate. Testimonianze sulle marocchinate Il sindaco di Esperia (comune in provincia di Frosinone) affermò che nella sua città 700 donne su un totale di 2.500 abitanti furono stuprate e, alcune di esse, in seguito a ciò morirono. Con l'avanzare degli alleati lungo la penisola, eventi di questo tipo si verificarono altrove: nel Lazio settentrionale e nella Toscana meridionale i goumiers stuprarono e, a volte, uccisero donne e giovani dopo la ritirata delle truppe naziste, compresi membri della resistenza italiana. Lo scrittore Norman Lewis, all'epoca ufficiale britannico sul fronte di Monte Cassino narrò gli eventi: Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate.... A Lenola il 21 Maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non c'erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi..I Marocchini di solito aggrediscono le donne in due -uno ha un rapporto normale, mentre l'altro la sodomizza. » (Norman Lewis nel libro Napoli '44 Diverse città laziali furono investite dalla foga dei goumiers (truppe marocchine), si segnalano le cittadine di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo e Sgurgola in cui numerose ragazze e bambine furono ripetutamernte violentate talvolta anche alla presenza dei genitori[6] In una testimonianza raccolta dal professor Bruno D'Epiro si racconta che il parroco di Esperia cercò invano di salvare tre donne dalle violenze dei soldati: fu legato e sodomizzato tutta la notte e morì in seguito a queste violenze. Secondo alcune testimonianze a Pico i soldati americani sarebbero giunti mentre i goumiers stavano compiendo le violenze, ma furono bloccati dai loro ufficiali Però queste violenze non le subirono solo in questa zona dell'Italia: il fenomeno sarebbe iniziato già dal luglio 1943 in Sicilia, propagandosi poi in tutta la penisola e si sarebbe arrestato solo nell'Ottobre 1944, quando i CEF furono trasferiti in Provenza. In Sicilia, i goumiers avrebbero avuto scontri molto accesi con la popolazione per questo motivo: si parla del ritrovamento di alcuni soldati uccisi con i genitali tagliati (secondo alcuni un chiaro segnale). Le autorità francesi, tuttavia, hanno sempre negato che queste affermazioni corrispondessero a verità. [modifica] Le reazioni delle autorità Il 18 giugno del 1944 papa Pio XII sollecitò Charles de Gaulle a prendere provvedimenti per questa situazione. Ne ricevette una risposta accorata e al tempo stesso irata nei confronti del generale Guillaume. Entrò quindi in scena la magistratura francese, che fino al 1945 avviò 160 procedimenti giudiziari nei confronti di 360 individui. A queste cifre bisogna però sommare il numero di quanti furono colti sul fatto e fucilati. Il giallo del volantino Per quanto l'originale sia introvabile, si conosce la traduzione di un volantino in francese e arabo che sarebbe circolato tra i goumiers: “Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete “ (Traduzione dell'associazione nazionale vittime civili)

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La storia del volantino, tuttavia, potrebbe essere stata solo una storia messa in giro per far ricadere la colpa dell'intera vicenda sul generale Juin. Con l'accettazione dell'esistenza di questo volantino (della cui reale esistenza non esistono prove), infatti, si nega la possibilità che questo fenomeno abbia interessato mezza Italia. Un'ulteriore prova che questo fenomeno non fosse circoscritto alle 50 ore di cui parlerebbe il volantino sarebbe la presenza di moduli prestampati per denunciare le violenze effettuate dai marocchini. Anche se si nega l'esistenza del volantino, tuttavia, l'acquiescenza di comandanti ed ufficiali ed il carattere sistematico delle violenze ha portato a definire l'idea di una libertà di azione concessa ai soldati nei confronti dei civili. Ai soldati marocchini, cioè, sarebbe stato concesso il diritto di preda. Le marocchinate al cinema Il film La ciociara, ispirato al romanzo omonimo di Alberto Moravia e diretto da Vittorio de Sica, culmina con la violenza da parte dei Goumiers sulle protagoniste, madre e figlia adolescente, la quale genitrice chiama turchi in un disperato sfogo verso degli ufficiali francesi che si fingono scettici. Nel film La pelle (1981) di Liliana Cavani, dal romanzo omonimo di Curzio Malaparte, del quale Marcello Mastroianni interpreta il ruolo, si vede una miserrima Napoli di fine guerra dove alcune donne offrono i loro figli adolescenti a dei Goumeriers. Un ufficiale francese li giustifica come "degli ipersessuati [...] (che) lo metterebbero anche in un girasole". Altri episodi sono riferiti da reduci dei campi di prigionia gestiti dai francesi in Tunisia ed Algeria , in quest’ultima nazione era operante il campo di prigionia di Barika, gestito da un ex galeotto della legione straniera. I prigionieri erano adibiti alla costruzione di strade nel deserto. La razione giornaliera per cento persone erano due chilogrammi di pasta, quattro chili di legumi secchi e qualche dattero. Dopo uno sciopero il comandante si vide costretto ad aumentare le razione ma alcuni italiani non sopravvissero all’assenza di cure ed alla denutrizione. Il trattamento riservato ai nostri militari da parte delle truppe marocchine e dei francesi fu in parte spiegato nel dopoguerra dall’astio che i “cugini” doltralpe nutrivano per chi li aveva “pugnalati alla schiena nel 1940”, niente comunque può giustificare il non rispetto delle norme della Convenzione di Ginevra in materia. Gli alleati non furono certo teneri con i nostri prigionieri in Nord Africa, li costrinsero a lunghe marce attraverso il deserto per raggiungere i campi di prigionia in Egitto, il numero dei nostri militari periti durante la marcia non e’ quantificabile, chi non riusciva a camminare veniva lasciato a morire ai margini della pista. Concorde nel racconto dei reduci e’ l’umiliazione provata nello sfilare fra due ali di folla inferocita ad Alessandria, sobillata e pagata dagli inglesi, preludio di analogo trattamento da parte delle sentinelle britanniche allineate su due file che non risparmiarono ai prigionieri pietre, sputi ed il lancio di liquidi corporali, pag. 53 de “i Diavoli di Zonderwater” di Carlo Annese. Durante la permanenza nei campi di smistamento non venne somministrata ai prigionieri una quantita’ di cibo e di acqua sufficiente pur non avendo in quel momento l’esercito britannico alcun problema di approvigionamento, alcuni reduci hanno concordemente segnalato alle autorità come durante il trasferimento via mare verso i campi in Sud Africa le sentinelle gettassero fuori bordo le razioni dei prigionieri, semplicemente per umiliare e schernire questi ultimi. Non documentato come numero ma sicuramente significativo il numero dei pow italiani uccisi durante un tentativo di fuga o semplicemente a causa del capriccio di una sentinella magari ubriaca. Di solito la pena se si arrivava al giudizio per l’assassino era veramente “mite” si andava dalle dieci sterline di multa, pagabili ratealmente, alla prigione per qualche giorno. Il furto degli oggetti personali dei prigionieri era tollerato dalle autorità come pure le violenze gratuite ed i pestaggi. I trasferimenti via mare rappresentavano motivo di ulteriore preoccupazione per i nostri connazionali, le tragedie del Nuova Scotia, 651 italiani periti e del Laconia che trasportava POW italiani in parte provenienti da Zonderwater in Inghilterra con i suoi oltre 1300 Caduti, non predisponevano certo a guardare con ottimismo al futuro. La convenzione di Ginevra, per i britannici, sembrava valere solo per i prigionieri degli eserciti alleati. Sempre da Zonderwater partirono duecento prigionieri italiani diretti in Inghilterra il primo Marzo 1943, sulla nave la Empress of Canada si trovavano anche altri 289 pow italiani provenienti dai campi di concentramento indiani. Completava la lista dei passeggeri duecento polacchi liberati dai russi, ed un migliaio di civili inglesi, francesi e membri dell’equipaggio. Nel golfo di Guinea il piroscafo fu affondato da un sommergibile italiano, il Leonardo da Vinci, comandato dal capitano di corvetta Gianfranco Gazzana-Priaroggia (Milano, 30 Agosto 1912 – Oceano Atlantico, 23 Maggio 1943) che nell’occasione non soccorse i connazionali superstiti. Dei 392 deceduti molti

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erano italiani in quanto chiusi a chiave nella stiva come nel caso del Laconia erano annegati o periti nell’esplosione dei siluri. L’unico naufrago imbarcato a bordo il tenente medico Del Vecchio che servì a certificare l’affondamento. Nella zona in venti giorni furono affondate 18 navi. Sommergibile Leonardo da Vinci affondato 23 Maggio 1943 Diverso metro fu utilizzato nei confronti del Gen. Bellomo reo di aver ordinato di far fuoco su due prigionieri britannici durante un tentativo di fuga. Di seguito quanto scritto da Wilkipedia sull’episodio: Nicola Bellomo (Bari, 2 Febbraio 1881 – Nisida, 11 Settembre 1945) è stato un generale italiano. Accusato di crimini di guerra e fucilato dagli inglesi, nel 1951 fu decorato dalla Repubblica italiana con la Medaglia d'argento al Valor militare. Bellomo, ufficiale di carriera proveniente dall'Accademia Militare, si era particolarmente distinto, con il grado di capitano di artiglieria, durante la Prima guerra mondiale, ottenendo la decorazione di Croce di Cavaliere dell'Ordine militare d'Italia. Mite nell'aspetto, era in realtà temuto da colleghi e sottoposti per il carattere

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spigoloso, poco incline ai compromessi; i superiori, invece, l'apprezzavano per l'acume intellettuale, per il vivace spirito d'iniziativa e per i solidi valori morali sempre dimostrati. Lasciò il servizio attivo da Comandante del Distretto Militare di Benevento nel 1936. Fu richiamato in servizio nel 1941 per esigenze belliche, con il grado di generale di brigata e gli venne affidato l'incarico di Comandante del Presidio Militare di Bari. Anche in questa veste, il generale Bellomo ebbe la possibilità di palesare le sue spiccate doti militari. Guidò personalmente le ricerche di un gruppo di incursori inglesi che, paracadutatisi nelle campagne nei pressi di Calitri (Av) nella notte tra il 10 e l'11 Febbraio 1941, avevano distrutto con cariche esplosive il ponte-canale Tràgino e danneggiato il ponte-canale Ginestra dell'Acquedotto pugliese (Operazione Colossus). In soli tre giorni di ricerche, i bersaglieri e i carabinieri (coadiuvati dalla popolazione civile) agli ordini del generale Bellomo riuscirono a catturare tutti i 35 uomini del commando, che vennero poi rinchiusi nel campo di prigionia di Torre Tresca (BA). Dopo la cattura Bellomo impedì ai civili di eseguire una sommaria esecuzione dei sabotatori, ma trattenne come "preda bellica" la Colt Pocket mod. 1903 del maggiore comandante il commando britannico. fatti di Torre Tresca e le inchieste. La notte del 30 Novembre, due ufficiali inglesi - il Capitano George Playne e il Tenente Roy Roston Cooke - riuscirono a fuggire dal campo di prigionia, ma furono riacciuffati alcune ore più tardi. Riportati a Torre Tresca, trovarono ad accoglierli il Generale Bellomo e il capitano Sommavilla che vollero farsi mostrare dai due ufficiali il punto esatto da cui erano evasi e le modalità di evasione. Infatti il controspionaggio italiano sospettava l'esistenza di una rete spionistica inglese che si avvaleva dell'aiuto di ufficiali italiani.[2] In quell'occasione, i due ufficiali inglesi - secondo la ricostruzione italiana - avrebbero approfittato dell'oscurità per tentare nuovamente la fuga. A quel punto Bellomo ordinò di aprire il fuoco. Il Capitano Payne fu raggiunto alla nuca da un solo colpo mentre il Tenente Cooke fu ferito ad un gluteo. L'inchiesta interna avviata dall'Esercito Italiano e condotta dai generali De Biase e Enrico Adami Rossi avvalorò la tesi fornita dal generale Bellomo surrogata anche dalle dichiarazioni e dalle testimonianze degli altri militari presenti all'accaduto. Ovvero che il generale Bellomo avesse dato ordine di sparare solo dopo la fuga dei due ufficiali inglesi. Qualche mese più tardi una nuova inchiesta indagò nuovamente gli avvenimenti questa volta sollecitata dal governo britannico che affidò l'incarico alla Legazione svizzera a Roma e alla Croce Rossa. Anche questa nuova inchiesta pervenne alle medesime conclusioni della precedente. Il 26 luglio 1943 Bellomo fu nominato comandante della CLI Legione CCNN "Domenico Picca". Il 9 Settembre 1943, dopo l'armistizio di Cassibile a Bari, il Generale Bellomo venne fortuitamente a conoscenza della notizia che il generale tedesco Sikenius aveva mandato dei guastatori per distruggere le principali infrastrutture portuali della città pugliese. Bellomo raccolse alcuni nuclei di militari italiani presso la caserma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Guardia di Finanza. A questi si affiancarono dei genieri del 9º Reggimento guidati dal sottotenente Michele Chicchi. Con questi ridotti nuclei attaccò i guastatori tedeschi che avevano già preso posizione nei punti nevralgici della grande struttura. Costretti sulla difensiva, i tedeschi furono obbligati ad una ritirata da due attacchi condotti dal generale Nicola Bellomo e infine alla resa. Bellomo fu anche ferito durante questi scontri. Ritiratisi i tedeschi, gli inglesi poterono successivamente sbarcare a Bari in completa sicurezza, usufruendo di infrastrutture portuali pienamente efficienti. Il processo e la condanna Il Generale Bellomo mantenne la sua carica fino al 28 Gennaio 1944, quando la polizia militare britannica lo arrestò nel suo ufficio "per aver sparato o fatto sparare contro due ufficiali britannici, causando la morte di uno di essi e il ferimento dell'altro". Al momento dell'arresto, non esistevano a carico del generale elementi precisi in mano agli inquirenti inglesi. Solo il 5 Giugno 1945 (dopo circa un anno dall'arresto) il tenente Roy Roston Cooke presentò una denuncia scritta e circostanziata contro il generale stesso, il quale, nel frattempo, era stato più volte trasferito tra i campi di concentramento alleati di Grumo Appula, di Padula e di Afragola. Solo il 14 luglio 1945 gli fu comunicato il deferimento dinnanzi alla Corte Marziale e accusato di aver sparato con la propria Colt Pocket contro i due ufficiali inglesi, nonostante Bellomo avesse sempre negato - sotto giuramento - di aver mai usato l'arma in quel frangente . Lo stesso Bellomo ricostruì così gli avvenimenti: “Io ordinai alla scorta di fare fuoco soltanto quando mi accorsi che i due prigionieri si erano fermati per scattare in avanti. Il capitano Plyne avanzò per primo, seguito a breve distanza dal tenente Cooke. Allora ebbi la certezza che volessero tentare la fuga. Io non sparai: non perché non avessi la volontà di farlo, ma perché

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avevo dimenticato di abbassare la sicura e la pistola non funzionò. Comunque lo ripeto ancora una volta: se ci fossero responsabilità, queste sarebbero solo mie perché io ero generale, tutti gli altri erano mie subordinati, ubbidivano soltanto ai miei ordini “ (Nicola Bellomo durante la propria difesa.) La Corte, il 28 Luglio 1945, dopo poco più di un'ora di camera di consiglio pronunciò la sentenza di condanna a morte, eseguita mediante fucilazione presso il carcere di Nisida. Bellomo rifiutò di inoltrare richiesta di grazia. Il generale Bellomo fu l'unico ufficiale italiano fucilato, per "crimini di guerra", a seguito di una sentenza emessa da un tribunale militare speciale britannico. Aspetti controversi sull'operato della Corte Marziale britannica. L'operato della Corte Marziale britannica è considerato controverso. La corte non si avvalse delle due precedenti inchieste svolte l'una del Regio Esercito italiano e l'altra dalla Croce Rossa su input dello stesso Governo britannico. e non fu permesso al generale Enrico Adami Rossi chiamato dalla difesa ma prigioniero degli americani, di poter testimoniare, mentre la testimonianza del generale De Biase, raccolta da un ufficiale dei carabinieri, non fu accettata poiché mancante della formula del giuramento. Non si diede peso alle contraddittorie dichiarazioni del tenente Cooke (prima asserì che le sentinelle italiane gli spararono da distanza, poi ritrattò dicendo che fu il generale Bellomo in persona a sparare a bruciapelo a lui e al capitano Payne). Bellomo fu inoltre accusato dai quattro militari italiani che avevano partecipato all'arresto del tenente Cooke e del capitano Playne che raccontarono versioni contrastanti tra loro.Il sottotenente Stecconi testimoniò di essere disarmato e che Bellomo aprì il fuoco senza dare alcun ordine. Il soldato Gigante sostenne invece che fu dato l'ordine di fare fuoco ma di non aver fatto fuoco. Il soldato Olivieri raccontò anch'esso di aver ricevuto l'ordine di sparare ma di aver sparato in aria. Il soldato Curci sostenne anch'esso di aver sparato in aria e accusò anche Sommavilla.[20] Testimoniarono tutti e quattro di non aver sparato ai prigionieri e che fu lo stesso generale a sparare e ad uccidere il prigioniero, ma Bellomo era armato con la pistola mentre le ferite sul corpo dei due prigionieri erano causate da proiettili di fucile. In un suo libro Peter Tompkins - referente dell'OSS a Roma nel 1944 - sostiene che il generale Bellomo fu vittima delle macchinazioni di Badoglio e dei monarchici che volevano eliminare un testimone pericoloso dei giorni della fuga del dopo 8 Settembre. Medesima conclusione è raggiunta da Ruggero Zangrandi che in un suo libro riporta: “Dopo una lunga e accurata ricerca sulle circostanze relative all'arresto di Bellomo, Zangrandi è stato in grado di documentare come la corte britannica fosse stata tratta in inganno da Badoglio e da agenti monarchici che, in tutta segretezza, fecero ricorso al falso per favorire la fucilazione di Bellomo. Essendo l'unico generale italiano che di propria iniziativa combatté i tedeschi e mantenne la città di Bari fino all'arrivo degli Alleati, rappresentava una minaccia per il re e per Badoglio, perché rivelava al mondo lo squallore del loro tradimento. “ (Ruggero Zangrandi) Zonderwater I combattenti italiani che erano stati catturati dagli alleati sui vari fronti di guerra si rivelarono ben presto una risorsa inestimabile per le esauste economie britanniche fiaccate dalla guerra. Lo stesso Churchill che non si fidava degli irlandesi ed ancora meno degli alteri pow tedeschi diede disposizione perche’ le decine di migliaia di militari catturati fossero utilizzati come mano d’opera a basso prezzo, l’ingegno e la laboriosità italiana era ben conosciuta in Inghilterra, i politici non avevano molta stima del nostro valore sul campo di battaglia ma erano sicuramente rimasti impressionati dai risultati ottenuti dal nostro lavoro nelle colonie. Il Sud Africa colse al volo l’opportunità e si offrì per ospitare fino a centomila prigionieri di guerra italiani sul suo territorio, venne scelto a tale scopo un altopiano desertico, 1600 metri sul livello del mare, chiamato in afrikaans Zonderwater o Sonderwater che significa senza acqua, anche se in realta’ l’acqua era abbondante nel sottosuolo. In tutto dal 27/04/1941 al 30/03/1947 furono accolti nel campo 94.000 italiani dei quasi 109.00 che arrivarono in Sud Africa. Trentamila italiani hanno lavorato in fattorie, cantieri ed opere pubbliche ottenendo la riconoscenza post bellica delle autorità locali. Quando la mano d’opera cominciò a scarseggiare i sudafricani ricorsero alla “chiamata obbligatoria”, ad esempio nell’Aprile del 1943 tutti gli internati dell’undicesimo

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blocco, il cui cognome iniziava con la lettera S furono spediti in treno nei campi di Worcester e Paarl . A Paarl il lavoro era particolarmente pesante, 500 italiani costruirono 46 chilometri di strada di montagna e scavarono un tunnel sotto il monte Kleigat. Quando le razioni di cibo si rivelavano insufficenti i nostri connazzionali ricorrevano allo sciopero ed a quanto risulta riuscirono sempre ad ottenere l’adeguamento richiesto. Ancora oggi a ricordo del lavoro italiano una croce d’acciaio svetta su una delle montagne piu’ alte del paese. Il terreno faceva parte della zona mineraria di Cullinan, nella provincia del Transvaal a circa 43 chilometri da Pretoria. I primi prigionieri sbarcarono dalle navi trasporto dove erano stati stivati in apposite gabbie a Durban, da qui in treno in un paio di giorni arrivavano a Zonderwater. I primi “ospiti” italiani arrivarono nell’Aprile del 1941 erano circa 10.000. All’inizio i nostri militari si trovarono davanti ad uno spazio desertico, recintato dal filo spinato e guardato a vista da sentinelle indigene, non si persero d’animo e cominciarono a costruire cucine, docce, latrine,infermerie ed i primi alloggi. Le tende che costituirono il primo riparo di fortuna erano costruite piantando un palo metallico al centro ed ancorandolo al terreno con cavi e picchetti, una piccola piramide. I prigionieri dormivano a raggiera con i piedi rivolti verso il palo centrale. Inutile dire che il terreno ricco di minerali, il palo metallico saldamente ed elettricamente ancorato al terreno faceva di questi rifugi una trappola mortale durante i temporali, infatti si dovettero registrare folgorazioni con conseguente morte a carico dei nostri soldati. Il primo a morire folgorato a 21 anni fu il geniere Carlo Biancifiori di Terni il 14 Dicembre 1941,il mese dopo toccò ai fante Carlo Caradonna di Alcamo e Giuseppe Faragi rispettivamente di 27 e 25 anni, sempre nello stesso mese morì dilaniato da un fulmine il sottocapo di marina Antonio Colantoni di Anagni di 24 anni, nel sito di Onorcaduti risulta deceduto a Tobruk e sepolto a Zonderwater… Nel Febbraio del 1942 decedeva per lo stesso motivo il fante Edoardo Pilia di Dolianova (Ca) di 22 anni. In Marzo morì colpito da un fulmine il fante Giuseppe Forte di Altamura ventiseienne. Dopo una relativa calma nel Dicembre 1942 una saetta colpì Salvatore Maglione di Napoli in forza alla Regia Marina di 33 anni. Le ultime vittime dei temporali si ebbero il 27 Marzo del 1943, entrambi artiglieri, Luigi Navoni di Chiari ventiquattrenne e Antonio Villa di 27. Tutti riposano nel cimitero italiano di Zonderwater, costruito dai prigionieri stessi per dare degna sepoltura ai compagni piu’ sfortunati. Inutile dire che il terreno ricco di minerali, il palo metallico saldamente ed elettricamente ancorato al terreno faceva di questi rifugi una trappola mortale durante i temporali, infatti si dovettero registrare folgorazioni con conseguente morte a carico dei nostri soldati. Un anno dopo i reclusi italiani nel campo di Zonderwater raggiungevano le 54.000 unita’. Il comandante del campo De Wet cominciò anche su pressione di un delegato brasiliano della Croce Rossa Internazionale a pensare di sostituire le tende con edifici in muratura, altre lamentele presentate nelle mani del l’inviato della Croce Rossa riguardavano le restrizioni sulla paga effettuate arbitrariamente dalle autorita’ sudafricane, la scarsa igiene, l’eccessiva disciplina imposta dal comandante del campo che sfociò anche in gravi episodi. La politica utilizzata dagli ufficiali del campo si può esemplificare in quella del bastone e della carota, il maggiore Blumberg ad esempio era soprannominato dai nostri militari “comandante Febbraio per l’abitudine di comminare abitualmente 28 giorni di segregazione nella “Casetta rossa”, una prigione nella prigione in cui il recluso viveva in completo isolamento a pane (scarso) ed acqua. Il 2 Agosto 1942 un geniere italiano, Macchiaroli Angelo di Gubbio, fu ucciso da una fucilata sparata da una sentinella meticcia del Malay Corps. Le autorita’ sudafricane processarono il militare reo di omicidio, vale la pena di ricordare che l’uso delle armi nei confronti di un POW e’ consentito solo in caso di legittima difesa oppure se e’ in atto un reale tentativo di fuga, in ogni caso e’ indispensabile prima di far fuoco di lanciare per due volte il classico avvertimento di fermo o sparo. Dopo numerose testimonianze la sentinella fu dichiarata colpevole di omicidio e condannata alla multa di sterline dieci (10) da pagare ratealmente in cinque mesi, tanto valeva la vita di un prigioniero italiano….Il soldato Celestino Faraone di Pozzuoli venne ucciso nel Febbraio del 1943 da una guardia Con le stesse modalita’ del delitto precedente, questa volta la condanna delle autorità fu esemplare, sette giorni di prigione. Di fronte a fatti come questi viene da pensare come sia soggettivo il senso della giustizia, per lo stesso motivo il Generale Bellomo fù fucilato alla schiena dagli inglesi nel 1945. La trasformazione da tendopoli a “Città del prigioniero” si deve al colonnello Hendrik Frederik Prinsloo, nato nel 1880 in Transvaal da un comandante boero che morì combattendo contro gli inglesi a Wiktloof . Prinsloo e la madre furono rinchiusi dagli inglesi neil campo di concentramento a Barbeton. Sotto la sua direzione e grazie al lavoro dei nostri connazionali il campo raggiunse le sue massime dimensioni; 14 quartieri, 50 rioni, 30 km di strade, 3000 letti di ospedale, 17 teatri, 16 campi di calcio, 6 campi da tennis, 80 campi da bocce, 7 sale di scherma, campi da pallavolo, di basket, palestre e quadrati per il pugilato. Fu anche stampato a cura dei

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prigionieri un periodico “ Tra i reticolati” che si occupava della vita del campo e delle notizie che provenivano dall’Italia. Prinsloo non tollero’ più violenze sui prigionieri ed amministro’ la disciplina all’interno del campo in maniera più illuminata. Alla fine del 1943 la “Citta’ del prigioniero” era finalmente una realtà, costruzioni di mattoni rossi (prodotti all’interno del campo) e legno. 14 blocchi composti ciascuno da 4 campi, ogni campo poteva ospitare 2000 prigionieri, in totale la capienza di Zonderwater arrivava a 120.000 potenziali POW. La manodopera specializzata di Zonderwater venne richiesta dal governo di Londra che provvide a trasferire dal Sud Africa alle isole britanniche ben 14700 prigionieri. Per Prinsloo gli italiani erano soldati che avevano compiuto il loro dovere verso la Patria e pertanto dovevano essere onorati e custoditi con giustizia. La popolazione boera, fortemente antibritannica e gli emigrati italiani in Sud Africa aiutarono in ogni modo i nostri prigionieri, attraverso comitati di assistenza fornivano soldi, materiale da costruzione, materiale didattico per le scuola all’interno del campo etc. etc. Importante fu anche l’apporto dato all’agricoltura da parte degli italiani, prima con la coltivazione degli orti all’interno del campo e successivamente con il lavoro presso le fattorie della zona, i prodotti venivano venduti negli spacci all’interno del campo e servivano per integrare la dieta dei prigionieri. L’ospedale era in grado di far fronte praticamente ad ogni emergenza, era dotato anche di un gabinetto radiologico, il personale medico ed infermieristico era per la maggioranza italiano. Venne istituito il Welfare Office all’interno del campo che promosse gare sportive, veri e propri campionati di calcio, spettacoli teatrali e concerti. Ci furono anche mostre espositive sulle opere dei prigionieri, sia artistiche che d’ingegno. Tali opere erano spesso acquistate da visitatori in quanto i cancelli del campo venivano aperti in occasione di questi eventi anche alla popolazione locale. Undicimila italiani analfabeti impararono a leggere e scrivere fra i reticolati, sempre per interessamento di Prinsloo ad ogni militare italiano venne distribuito un completo completo di vestiario e tutto il necessario per la toeletta quotidiana, oltre alle posate, stoviglie ed un pentolino. Nonostante il miglioramento delle condizioni detentive all’interno del campo, specie dopo l’otto Settembre 1943, era alta la tensione fra chi era rimasto fedele all’idea fascista e chi stanco della guerra preferiva attendere lo svolgersi degli eventi per decidere se firmare l’accordo di cobelligeranza con gli alleati. Erano anche presenti all’interno del campo badogliani, socialisti e comunisti. Prinsloo cercò di vigilare affinchè le diverse fazioni non venissero in contatto e per questo arrivò a chiudere i fascisti in blocchi separati dal resto del campo. Una delle vittime degli incidenti fu Giuseppe Cannas di Lotzorai (Og) ventiseienne accoltellato a morte nel corso di un diverbio per motivi politici. Il rientro in Patria cominciò nel Luglio del 1945, 1200 ammalati cronici poterono imbarcarsi a Durban. Per i rimpatriati che giungevano in Italia dopo un lungo viaggio in mare reso ancora più difficile dalla presenza di mine disseminate nel Mediterraneo non c’erano fanfare od onori ad attenderli ma campi di raccolta spesso peggiori del campo di concentramento di Zonderwater, tende malmesse attendevano in molti casi i reduci, per finire ufficiali e sottufficiali venivano sottoposti ad interrogatorio da parte di una apposita commissione per valutare la condotta in guerra dei nostri militari. I rientri terminarono nel 1947, quattro anni dopo la cobelligeranza e due anni dopo la fine della guerra. Duemila POW chiesero di poter rimanere in sudafrica, 850 domande vennero accolte, altri italiani tornarono prima in Patria per poi emigrare questa volta da uomini liberi a Pretoria. L’ultimo prigioniero di guerra deceduto in prigionia fu Salvatore Costantino di Messina, quarantaduenne, morì sul treno ospedale il 28 Gennaio 1947, riposa con gli altri Caduti italiani nel cimitero di Zonderwater. La Zonderwater Block ex POW Association tutela dopo la chiusura del campo la memoria storica dello stesso. L’Ing. Emilio Coccia, un emigrato di origini emiliane e’ il presidente dell’Associazione, sempre disponibile ad aiutare i discendenti dei POW italiani che cercano notizie e documenti sulla permanenza in Sud Africa di questi ultimi. Grazie al Web ed alle tante memorie pubblicate dagli ex internati di Zonderwater si inizia a ricordare la vicenda dei tanti prigionieri italiani degli alleati, fra queste memorie e’ particolarmente interessante quella di Salvatore Marino, classe 1913, a cui mi accomuna la passione per la radio e la telegrafia.

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RACCONTI DI VITA di Salvatore Marino Il giorno nove del mese d’aprile 1934, dopo una fanciullezza ed un’adolescenza vissute in ristrettezze economiche a causa delle scarse opportunità di lavoro che offriva la vita dell’epoca, fui chiamato alle armi per assolvere gli obblighi militari di leva. Mi presentai al Distretto Militare di Aversa, dal quale dipendevo, dove, dopo regolare visita fui dichiarato idoneo e, a capo di un drappello di cinque reclute, fummo portati alla stazione ferroviaria a prendere il treno, che, all’epoca, veniva tratto da motrice a vapore. La destinazione era il 5° Reggimento Artiglieria Pesante in Riva del Garda. Era la prima volta che mi accingevo a compiere un viaggio cosi lungo, dato che, lo spostamento maggiore era stato da Caivano, dove sono nato il 2 dicembre 1913, a Napoli, luogo in cui mi recavo per raggiungere il lavoro di apprendista stuccatore, "quando riuscivo ad averlo". Come viveri ci furono date gallette e scatolette di carne. Questo viaggio costituì la mia prima, bella esperienza di vita nuova. Il giorno 10 del mese d’aprile 1934 giungemmo a Riva del Garda e ci presentammo al Comando nella Caserma Piave, era tardo pomeriggio, ci portarono in una camera con sul pavimento uno strato di paglia adibita a dormitorio provvisorio, in attesa dell’assegnazione del posto branda nelle camerate. La serata era limpida; nel cielo incominciavano ad apparire le prime stelle, e dagli alberi che costeggiavano il viale si sentiva il cinguettio degli uccelli che cercavano, sui frondosi rami, il posticino per passare la notte. Il trovarmi in un ambiente nuovo mi sembrava che tutto fosse avvolto in un’aria di mistero, e, mentre tra noi ci scambiavamo le prime impressioni, si fecero le ore 21. Il trombettiere di turno intonò, con la sua tromba, le note del silenzio che, al sentirlo per la prima volta, provocò in me una grande emozione, fino alle lacrime. Stanchi, a causa del lungo viaggio, fummo subito presi da un sonno profondo. Sono passati tanti anni, ma il quadro di quella prima, magica serata trascorsa in una Caserma, è ancora vivo in me. Al mattino, di buon’ora, erano le sei, ecco il segnale della sveglia. Un sergente venne a dirci di prepararci per essere ricevuti dal Comandante il Reggimento, cosa che facemmo e alle ore 8,30 fummo portati al cospetto del Colonnello Speranzini, il quale ci sottopose ad una serie di domande; tra l’altro mi fu chiesto perché non avevo fatto il premilitare, che all’epoca si diceva fosse obbligatorio; siccome si trattava di dover andare, tutte le domeniche, al campo sportivo a fare addestramento, anche con le armi, io, che avevo altre cose da fare, c’èro andato solo poche volte. Gli risposi che non l’avevo fatto perché ero un libero cittadino, ed affermai: -ora che sono militare farò il militare-. Mi rispose: "Staremo a vedere". Ci portarono al magazzino dove ci vestirono e ci diedero l’intero corredo, compreso gavetta, gavettino, posate, e perfino la stecca (era una striscia di legno lunga una ventina di centimetri, con al centro una scanalatura dove venivano passati i bottoni di ottone per lucidarli) da qui il modo di dire "ti lascio la stecca", quando un militare andava in congedo. Ci assegnarono il posto branda e, come prima cosa, uno per volta, ci fecero salire su una basculla e ci pesarono. Era una prassi che usava il Comando per controllare l’andamento del peso corporeo nei primi mesi di vita militare, che, nonostante il vitto fosse costituito da carne in brodo e minestroni, dopo pochi giorni, quasi in tutti, si notava un sostanzioso aumento. Intanto la prima mattinata era trascorsa e, per la prima volta, ascoltai anche il segnale che il rancio era pronto. Le Batterie che formavano il Reggimento erano 14; io fui assegnato alla decima comandata dal Capitano Federico Pincelli. Ci radunarono e, tutti, muniti di gavetta, ci portarono in un ampio piazzale, dove erano già pronti, per ogni batteria, un marmittone di brodo ed un altro recipiente dove erano predisposti dei pezzi di carne e contorno, con i relativi cucinieri che avevano il compito della distribuzione; il pane, in pagnotte, era custodito nei sacchi. La razione era: Un mestolone di brodo, un pezzo di carne, contorno di patate ed una pagnotta; quest’ultima costituiva la razione per tutto il giorno e, siccome per me che avevo buon appetito non bastava, ed essendoci la possibilità di averne mezza come supplemento, previa autorizzazione dell’Ufficiale medico, dopo qualche giorno feci la richiesta e mi fu concessa. Ricordo che quando ci preparavano per il rancio, molti soldati cercavano di disporsi nelle prime file per poter prendere il brodo che era nel primo strato della marmitta, perché era quello più grasso e quindi più saporito. Per me che ero abituato a vedere la carne molto raramente, non mi sembrava vero mangiarla tutti i giorni. A questo proposito, mi viene in mente che, quando da ragazzo riuscivo ad avere un lavoro, il guadagno della settimana mi piaceva portarlo interamente alla mia cara mamma, che, dopo avermi dato la mazzetta, "si trattava di pochi soldi" mi diceva: "Adesso tu, caro figlio, cosa ne fai di questa moneta, se me ne dai la metà ti compro una fettina di carne e te la faccio in padella col pomodoro"; cosa che facevo volentieri.

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Il rancio ordinario giornaliero era: caffè o cacao al mattino, quasi sempre carne in brodo a mezzogiorno, e la sera minestrone di pasta o riso. Nelle feste grandi, in special modo in quelle nazionali, ci davano la pasta asciutta ed un quartino di vino, e lo chiamavano "rancio speciale". Il primo giorno ce lo fecero dedicare alla pulizia personale ed alla sistemazione del posto branda, che doveva essere disposto in un modo prestabilito; per il posto in disordine venivano inflitti 3-5 giorni di consegna in caserma. Forse per carattere mi adattai subito al nuovo sistema di vita. Il giorno successivo incominciò l’addestramento; ginnastica e addestramento formale. Il Reggimento aveva in dotazione: mortai da 210/8, obici da 152/13 e cannoni da 149/35. Dopo qualche giorno ci diedero in dotazione un moschetto 91 e ci facevano fare sia addestramento con le armi che al pezzo. La squadra che componeva i serventi era formata da un sergente o sergente maggiore capopezzo e 6 addetti alle varie mansioni, a me era stato dato l’incarico di puntatore. Sia nell’addestramento formale che nel servizio al pezzo mostrai interesse e capacità, tanto che, dopo esattamente un mese, insieme ad altri due artiglieri, vestiti in grande uniforme con guanti bianchi, fummo portati dal colonnello Comandante, il quale, dopo averci elogiati per il nostro comportamento, ci disse che ci avrebbe dato il grado di soldato scelto. Cosa che avvenne il giorno successivo nel cortile della caserma. Fu adunato tutto il Reggimento in un grande piazzale, eravamo più di mille. Dopo un breve discorso del Colonnello, che ci additava come i primi ad esserci distinti nell’interesse e nell’apprendimento, invitava tutti a seguire il nostro esempio, ci appuntò sulle maniche della giacca i gradi di soldato scelto e fece sfilare, in parata, davanti a noi, tutti i reparti. Era il 10 maggio 1934. Fu per me una grande soddisfazione. Questo primo passo mi fu di sprone per continuare ad avere sempre maggiore interesse per quello che aveva determinato in me un certo fascino; la disciplina, l’ordine e tutto ciò che ci veniva insegnato. Tra le diverse attività incominciò anche il corso d’istruzione teorica per puntatori scelti, al quale partecipai con ottimo profitto. Mi fu dato un distintivo raffigurante una bocca da fuoco da applicare sulla parte alta della manica sinistra della giacca, cosa che feci, e la portavo con orgoglio. La scelta degli allievi per partecipare ai diversi corsi di specializzazione era fatta dal Comandante della Batteria, ed io ero sempre tra i preferiti. Incominciò anche il corso di specialisti per il tiro e per le trasmissioni ed io fui scelto anche per questi. Ero portato a seguire con attenzione tutto quello che c’èra spiegato; ricordo che l’istruttore, dopo aver interrogato qualche allievo, se questo non era stato capace di rispondere diceva: "Ve lo faccio dire io", e si rivolgeva a me perché dessi la risposta, cosa che non mi era difficile perché ricordavo per filo e per segno tutto quello che ci aveva spiegato. E pensare che tra gli allievi c’èrano militari con titolo di studio molto superiore al mio, che avevo frequentato solo la quinta elementare. Purtroppo quando si ha una certa età non si ragiona! Avevo circa 11 anni, quando manifestai ai miei il desiderio di non continuare gli studi e che avrei preferito andare a lavorare. La cosa fu accettata senza nessuna opposizione (che sarebbe stata logica!), ma non fu cosi; per conseguenza mi sono portato dietro, per tutta la vita, il pentimento di quella decisione e, forse per rimediare al malfatto, nelle ore libere mi dedicavo allo studio, come ho fatto sempre per tutta la vita. Quasi mi vergognavo sapere che sul foglio matricolare c’èra scritto: -titolo di studio 5^ elementare-. Fui mandato subito come apprendista presso un mio zio che faceva il decoratore ed all’età di 12 anni avevo già il libretto di lavoro. I corsi che frequentai mi diedero la nomina di specialista per il tiro e per le trasmissioni. Per queste specializzazioni davano, una volta tanto, un’indennità di pochi centesimi ed era per me molto soddisfacente quando, insieme alla paga, che era di 8 soldi (40 centesimi) il giorno, mi davano anche quest’indennità. Continuavo ad essere molto apprezzato e tenuto in considerazione dai miei superiori, tanto che: dopo 4 mesi fui promosso caporale e, dopo circa 6 mesi, precisamente il 15 ottobre 1934, fui promosso caporal maggiore. La batteria, che è l’equivalente di compagnia per le altre armi, era divisa in 4 pezzi, (squadre). A me, una volta conseguito il grado di caporal maggiore, fu affidato il comando del secondo pezzo, ero unico graduato di truppa tra tre sottufficiali, istruttori degli altri tre pezzi. Oltre ad impartire le istruzioni al pezzo (cannone) avevamo anche il compito di addestrare la nostra squadra nella ginnastica, nella marcia, e le istruzioni con le armi. Il mio pezzo andava sempre per la maggiore. Ricordo che nella nostra Batteria c’èra una recluta di nome Belli Guerino che aveva girato per i diversi pezzi ma nessuno era riuscito ad addestrarlo, ebbene, il Capitano Pincelli lo affidò a me e notò, con meraviglia, che dopo alcuni giorni ero riuscito a portarlo al livello di tutti gli altri, e mi espresse i suoi rallegramenti. Una volta la settimana ci facevano fare lunghe marce e, durante una di queste, purtroppo, mi accorsi di avere un’ ernia inquinale che mi dava molto fastidio, forse causata dai lavori pesanti ai quali mi ero sottoposto da ragazzo, ma non me ne ero mai accorto. Chiesi visita e mi feci vedere dall’Ufficiale medico, il quale mi disse che avrei potuto chiedere il congedo o farmi operare. Ormai mi ero affezionato alla vita militare ed optai per

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la seconda possibilità. Fui mandato all’Ospedale militare di Trento dove mi operarono, ed al rientro al corpo fui mandato in licenza di convalescenza di giorni 40; era il 20 aprile del 1935. Dovevo rientrare in servizio prima della mezzanotte del 30 maggio, ma mi presentai verso le ore 8 al mattino del 31. La parte anteriore della Caserma era costituita dal cancello d’entrata, un lungo viale alberato con ai lati due grandi piazzali dove si svolgeva l’addestramento (vedi foto n° 1) sono ritratto su un cannone da 149/35. Mentre mi dirigevo verso il Comando, a metà strada fui chiamato da un Ufficiale; mi presentai, un po’ impacciato e con la paura che mi mettesse in prigione a causa del ritardato rientro, invece mi fu detto: "Scommetto che tu sei il caporale maggiore Marino!", Timidamente gli risposi di si; "ebbene, mi hanno detto che hai i coglioni di bronzo, è vero"? Gli risposi di non saperlo."affermò: se è veramente così sarai una colonna della mia Batteria!". Seppi poi che il suo cognome era Calandriello, che aveva sostituito il Capitano Federico Pincelli durante la mia assenza e che presenziava sempre ai 45 minuti di ginnastica perché voleva che i militari, in quell’ arco di tempo, fossero sempre in movimento. Ripresi servizio e mi fu dato ancora il comando del 2° pezzo, definito pezzo base, ( il pezzo base era quello col quale il comandante della Batteria aggiustava il tiro prima di fare intervenire gli altri tre pezzi ). E’ logico che tutto servisse come addestramento e che non si sparava. Il capopezzo era munito di un taccuino dove segnava i dati di puntamento comunicati dal tenente sottocomandante della batteria -ricordo che il suo cognome era Pellizzari, e di un quadrante a livello; (era una livella con un arco dentato e graduato in millesimi che, dopo aver segnato la relativa cifra, si poggiava sul posto predefinito che era in culatta (la parte posteriore della bocca da fuoco) e si ordinava ai serventi di azionare i volantini fino a raggiungere l’alzo dovuto. Il puntatore, a sua volta, faceva cenno ad altri due serventi per spostare, in direzione, l’orientamento del cannone. L’esercitazione si faceva sempre per mezzo di un falso scopo (siccome quando si doveva sparare, si supponeva che l’obiettivo non fosse visibile a causa di eventuali ostacoli esistenti tra lo schieramento della Batteria ed il bersaglio, si ricorreva ad un oggetto ben visibile, che il più delle volte era un campanile.) Il Comandante la Batteria, che aveva già rilevato i dati, oltre all’alzo dava anche l’angolo di direzione, che era quello che intercorreva tra l’obiettivo ed il falso scopo stesso. Tutto era abbastanza laborioso, ma ero riuscito ad addestrare cosi bene i serventi al pezzo che, quasi sempre, mi davano la soddisfazione di comunicare "pezzo pronto" in anticipo rispetto agli altri tre pezzi. A volte si facevano le gare di tiro ed anche in queste occasioni ero sempre il primo a comunicare che da parte del mio pezzo tutte le operazioni erano state portate a termine. Anche nell’addestramento formale e con le armi, il mio pezzo si distingueva tra tutti gli altri, e ciò mi faceva tenere sempre in alta considerazione, sia da parte dei miei superiori che dal Comandante della Batteria. Una volta la settimana si facevano lunghe marce sotto il sole cocente. Al rientro da una di queste eravamo inzuppati di sudore, ed era quasi mezzogiorno; molti si sentivano sfiniti e non vedevano l’ora di rientrare in camerata per dissetarsi e riposare per qualche minuto prima dell’adunata per il rancio, ma il Capitano Calandriello diede ordine di sostare nel viale alberato della Caserma, all’ombra degli alberi frondosi, anche perché, disse, che dovevamo abituarci ai disagi della guerra, e mandò dei militari a chiudere le finestre delle camerate per evitare correnti d’aria. La cosa non fu presa con rassegnazione dai componenti la Batteria, che era composta anche da richiamati alle armi della classe del 1911 per esigenze Africa Orientale. Rientrati nei dormitori, istigati dai soldati più anziani fu determinato da parte di tutti, come protesta, di non recarsi al rancio al suono della tromba, cercai di dissuadere, specialmente i miei diretti dipendenti, ma per paura di rappresaglia da parte degli anziani, anche loro si associarono alla ribellione. Ecco che dopo pochi minuti, il Capitano Calandriello, che era molto severo ma che curava il benessere dei militari, era nei pressi della cucina per assistere alla distribuzione del rancio che, a causa del ritardo era stato tenuto da parte per noi, e, visto che al suono della tromba non si era presentato nessuno, tirò fuori il suo fischietto e lo azionò per parecchie volte. Lo faceva quando voleva un raduno veloce della batteria; difatti, in altre occasioni, solo dopo qualche minuto la Batteria era inquadrata in file allineate e coperte e, se qualcu- no non era al posto giusto veniva rimproverato severamente. Al sentire il fischietto si radunarono tutti ed avvenne, sotto la sua sorveglianza, la distribuzione del rancio. Per conoscere il motivo ed i responsabili di tale protesta, nel pomeriggio stesso; incominciando dagli Ufficiali, poi i sottufficiali e graduati di truppa, il Capitano Calandriello ci convocò, uno per volta, nel suo ufficio per appurare quali erano stati i fautori dell’insurrezione. Venne il mio turno, mi presentai al suo cospetto e, come prima cosa esclamò: "Marino! Ti ritenevo una colonna della mia batteria, ed invece questa colonna è crollata!" Gli risposi che avevo fatto di tutto per far cambiare idea ai rivoltosi, ma che non c’èro riuscito. Ebbene, mi disse: "Se le cose stanno come asserisci, questa colonna è ancora in piedi, ed aggiunse, vedremo in seguito"!

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Dopo qualche giorno, era il mese di giugno 1935, si doveva partire per il campo estivo a Folgaria, nel Trentino alto Adige; località che si trovava a circa 45 km da Riva del Garda. La mia Batteria era di circa cento uomini, e siccome non aveva macchine a sufficienza, una parte dei militari doveva raggiungerla a piedi. Per rimediare a quanto era successo nei giorni precedenti, anche se ero stato destinato ad essere trasportato con la macchina del mio pezzo, una Spa 18bl, ci rinunciai e mi feci, in due tappe, i 45 Km. a piedi. Ricordo che durante la marcia ci facevano cantare per rendere meno dura la fatica. Giunti a Folgaria ci accamparono a poca distanza da una collina, dove furono schierati i nostri 4 mortai da 210/8. Questo mio primo campo estivo mi porta alla mente un ricordo bellissimo. I mortai erano di grosso calibro e, quando si sparava rinculavano per mezzo di freni idraulici, dopo un paio di giorni dal nostro arrivo ci fecero fare i tiri. L’obiettivo era una pianta isolata in mezzo ad un prato, lontano da abitazioni e distante circa 6 Km. E’ logico che noi non vedessimo il bersaglio ed il puntamento avveniva per mezzo di un falso scopo, mentre il Capitano Calandriello, che aveva preso posto alla sommità della collina in compagnia del caporal maggiore Inglesi, era questo il suo nome; per mezzo del suo binocolo lo vedeva. Avevano dato una dozzina di proiettili per ogni pezzo; a me, come pezzo base, qualcuno in più per aggiustare il tiro. Il Tenente Pellizzari, sottocomandante la batteria, mi diede i primi dati, feci caricare il pezzo ed eseguimmo il puntamento, e, quando annunciai, "pezzo pronto" mi diede il comando: "fuoco!", il proiettile partì, ma siccome era andato lontano dal bersaglio, mi furono date delle variazioni, e sparai il secondo colpo; poi ancora correzioni e sparai il terzo, e, poiché la granata era andata molto vicino all’obiettivo, fu dato l’ordine: "Con gli stessi dati fuoco a volontà da parte di tutta la batteria". Purtroppo, i nostri erano pezzi che avevano fatto la prima guerra mondiale, ed accadde che il mio, dopo la partenza del proiettile non tornava in batteria, perché i freni idraulici non funzionavano alla perfezione. Legai una lunga (fune) (in Artiglieria si chiamava lunga) in volata, (la parte anteriore della bocca da fuoco) e, dopo aver sparato il colpo mandavo i serventi a tirare la fune per riportare la bocca da fuoco in batteria (nel suo posto originale) ma, nonostante la destrezza dei miei soldati, rimasi indietro di un colpo. Il capitano, per mezzo del megafono, esclamò: "Pellizzari! Ci sono ancora colpi in batteria?" Si, gli rispose; ce n’è ancora uno. "Con gli stessi dati, fuoco!; precisò". Feci caricare, e non so se fu perché avevo fatto le cose con più calma o a causa di altri fattori, come il vento o minima differenza della carica, che era in sacchetti di balistite e che venivano confezionate in batteria con una bilancia; elementi che potevano influire sulla traiettoria del proiettile stesso. Dopo pochi istanti, il Capitano si mise ad urlare come un forsennato, chiedendo: "Pellizzari, chi ha sparato quest’ultimo colpo!" Il Tenente temporeggiava a rispondere perché, siccome il giorno precedente un’altra batteria aveva colpito una cascina vuota, credeva, come me, che fosse successo qualche cosa di simile. Ero molto preoccupato. Il Capitano ripeté: "Pellizzari, ho chiesto chi ha sparato quest’ultimo colpo!" Al ché il Tenente rispose: è stato il caporal maggiore Marino, e, mentre il Capitano scendeva di corsa per il pendio della collina gridò: "lo sapevo io, bisogna pagare da bere al caporal maggiore Marino!" Mi rasserenai e seppi poi dal caporal maggiore Inglesi che il Capitano, durante tutto il tiro, fremeva perché i proiettili andavano nelle vicinanze della pianta ma nessuno l’aveva presa in pieno, cosa che avvenne col mio ultimo colpo. Una volta in batteria, il Capitano Calandriello si congratulò con me e fece comprare pane, formaggio, salame e fiaschi di vino da distribuire ai serventi del mio pezzo. Al ritorno in Caserma mi diede 10 giorni di licenza premio. Al rientro ripresi il comando del secondo pezzo e continuavo ad essere tenuto in grande considerazione dai i miei superiori ed apprezzato dagli inferiori , tanto che, a metà luglio del 1935 il Capitano Calandriello mi incluse tra coloro che dovevano sostenere gli esami per la promozione a sergente; ero scettico perché credevo di non essere in grado di superarli. Dopo qualche giorno, insieme con tutti quelli che erano stati prescelti, fummo adunati in un piazzale; era un mattino pieno di sole e nel cuor mio albergava tanta speranza, perché superando gli esami ci sarebbe stato un grosso cambiamento della mia vita; eravamo una ventina. Fummo portati nella sala convegno truppa, ne ricordo bene il posto, e l’Ufficiale addetto ci dettò il titolo di un tema da svolgere, "raccontate un episodio saliente della vostra vita militare". Ci misi tutto il mio impegno e descrissi un fatto che mi era realmente accaduto. L’emozione che avevo provato durante le grandi manovre fatte in alto Adige, dove avevo potuto vedere, a poca distanza, Benito Mussolini ed il Re Vittorio Emanuele III, per il quale ci avevano fatto fare il giuramento. "Giuro di essere fedele al Re ed ai suoi Reali suc- cessori, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato etc…….." Avevo sempre poche speranze, ma ecco che dopo alcuni giorni mi fu comunicato che avevo superato gli esami, però non era ancora uscito sull’ordine permanente (l’ordine permanente era un foglio che riportava avvenimenti da trascrivere sul foglio matricolare) ed ancora con il grado di caporal maggiore, il capitano stesso, (cosa non usuale) mi accompagnò di persona in una cameretta dove erano alloggiati tre anziani

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sottufficiali; Cerruti, Frigeri, e Tanda, con i quali si stabilì subito un’affettuosa amicizia. (vedi foto n° 1 bis) Io andai ad occupare il quarto posto che era libero. Tutto mi appariva come un sogno fantastico. Avevo lasciato la branda per un lettino molto più comodo, ma per la prima notte, forse per lo stress accumulato durante l’ansiosa attesa, non riuscii a prendere sonno. Passarono ancora due giorni e, finalmente, venne sull’ordine del giorno: "Promosso sergente nel 5° Reggimento Artiglieria d’Armata (Il Reggimento da Pesante era divenuto d’Armata) in base alla disposizione di cui alla circolare 514 R del 2 agosto 1935 con l’obbligo di rimanere alle armi per un anno con tale grado, alla fine del quale avevo diritto ad un premio di rafferma, ed ammesso alla paga giornaliera lorda di lire 9,25" Ne pagavo 4 di quota mensa e mi rimanevano 5 lire, che all’epoca era una discreta somma. Mi è limpido il ricordo del primo giorno che andai a mangiare a mensa; mi fu indicato di prendere posto ad un tavolo dove erano già seduti due marescialli ed un sergente maggiore, il cameriere mi portò il primo piatto con una abbondante razione di spaghetti al sugo, per secondo una bistecca ai ferri e contorno di verdure; il vino, la frutta ed il filoncino di pane erano già in tavola; mangiai tutto con voracità e, siccome i due marescialli avevano lasciato una parte del loro pane, mangiai anche quello. Era la prima volta, in vita mia che mi vedevo servito con tanto riguardo, e tutto mi sembrava come se fosse irreale. Alla fine d’aprile del 1936, per aver terminato il suo periodo di comando, il Capitano Calandriello, con mio dispiacere, fu trasferito al Comando Artiglieria, ma prima di partire mi disse: "Ti lascio in buone mani". Al suo posto subentrò il Tenente Scozzari Antonino, un Ufficiale molto energico e volitivo, ed anche da lui continuai ad essere molto apprezzato. Tanto che, al termine del primo anno da sergente mi fece delle ottime note caratteristiche; ecco il suo giudizio complessivo: "E’ stato un prezioso ausilio per la batteria, si migliora sempre con lo studio e con l’osservazione, lo giudico ottimo sottufficiale d’Artiglieria d’Armata". Riva del Garda, 16/9/1936. Tenente Scozzari Antonino. Giudizio complessivo del 1° revisore: "E’ un animatore, si può affidare qualunque incarico sicuri dell’ottima riuscita. Ottimo sottufficiale d’Artiglieria d’Armata". Riva del Garda, 16/9/1936. Il comandante del Gruppo Ten. Col. Montefusco. Giudizio definitivo del Comandante il Reggimento: ."Ottime doti fisiche morali, intellettuali, e militari, ottimo capopezzo, specialista per il tiro e per le trasmissioni. Ha sempre dato generosamente tutto quello che ha potuto. lo encomio per l’attività e lo zelo dimostrato e per il rendimento ottenuto". Riva del Garda, 31 settembre 1936. Il Comandate del Reggimento Col. Speranzini . Quando fui chiamato per firmare le note caratteristiche, nel leggere le comunicazioni particolari, non credevo ai miei occhi, e, quando lo riferii ad alcuni sergenti maggiori, molto più anziani di me, mi dissero che era del tutto particolare e che non avevano mai sentito dire, in precedenza, che un sergente al compimento del suo primo anno di servizio avesse avuto tale qualifica. Trascorso un anno dalla promozione a sergente mi fu pagato il premio di fine ferma, -lire 1000 lorde- era la prima volta che mi vedevo in mano una somma cosi consistente, e per un paio di giorni mi diedi alla pazza gioia andando a mangiare al ristorante. A questo punto avevo finito la mia ferma e, se non fossi stato trattenuto alle armi per esigenza Africa Orientale a senso della circolare ministeriale n° 23003/99 in data 11/8/1936, sarei stato congedato. Il Tenente Scozzari, che aveva capito la mia propensione per la vita militare ed il desiderio di continuarla, mi spinse a fare domanda di rafferma per altri due anni, al termine dei quali sarei stato promosso sergente maggiore e passato in carriera continuativa. Era un sogno questo da me molto ambito perché il pensare di ritornare alla vita civile che, come ho detto prima, offriva poche possibilità di lavoro, mi dava tanta preoccupazione e, anche se con pessimismo, feci la domanda. La guerra in Abissinia, 1935/36, era già terminata da qualche mese, ma, a causa delle guerriglie continue che persistevano in quella terra lontana, periodicamente, veniva adunata la batteria e veniva chiesto chi si volesse offrire, come volontario, per andare a sostituire coloro che avevano fatto la guerra, o per partecipare alle operazioni di polizia coloniale; io, con la speranza di un miglioramento di vita, ero sempre tra i primi a prenotarmi, ma il Tenente Scozzari, tutte le volte, mi invitava a tirar giù la mano e mi diceva: "Tu Marino rimarrai qui con me"; penso che era sicuro sul risultato positivo della mia domanda. Dopo un po’ di tempo, si vede che era arrivato l’esito, ma non era ancora venuto sull’ordine del giorno, però il Tenente Scozzari ne era a conoscenza. Così, in un tetro pomeriggio invernale, mentre dalla mia cameretta mi dirigevo, lungo il corridoio, verso la scala per andare a mensa, incrociai il Tenente, ricordo perfettamente il posto dove avvenne l’incontro, mi fermò e con aria dispiaciuta mi disse: "Marino, ci hanno fottuti"! Gli chiesi il perché e lui asserì: "Ero tranquillo perché grazie alle tue note caratteristiche, avresti dovuto essere il primo nella graduatoria degli aspiranti alla rafferma, si vede che altri hanno avuto un calcio nella schiena e ti sono passati avanti, se lo avessi saputo mi sarei dato da fare anch’io," ed aggiunse: "ti hanno classificato quinto e siccome ne hanno preso soltanto tre, tu sei rimasto fuori, ora non ti rimane che unirti ai volontari per l’Africa e vedrai che avrai altre opportunità per passare in servizio permanente", cosa che feci, ed il 9 gennaio

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del 1937, con l’augurio del Ten. Scozzari, fui trasferito al deposito del 3° Reggimento Artiglieria d’Armata in Reggio Emilia, ed assegnato al Gruppo di marcia A.O.I. Il 18 febbraio fui trasferito al 6° Reggimento Artiglieria di Corpo d’Armata di Modena e destinato al 10° blocco complementi mobilitati per esigenze A.O.I. Il 17 aprile del 1937 partimmo per Napoli, dove giungemmo nella mattinata del 18. Era un mattino riscaldato dal tiepido sole, che avrebbe dovuto portare nello spirito la gaiezza della splendente primavera, ma nel mio cuore c’èra tanta tristezza. In porto era già pronto il piroscafo "Sardegna", che seppi, doveva salpare a mezzogiorno. Stavo per inoltrarmi in un’avventura della quale non conoscevo la fine e, siccome era da qualche mese che non vedevo i miei cari, non volevo mi rimanesse lo scrupolo di non averli abbracciati prima della mia partenza; anche perché non li avevo mai informati della decisione di andare in Africa con la speranza di migliorare il futuro della mia vita; e, sfidando il pericolo di non fare in tempo ad imbarcarmi, affidai il mio equipaggiamento ad un collega e, di corsa, uscii fuori del porto, fermai il primo taxi che passava e pregai l’autista di portarmi, in tutta fretta a Caivano, distante circa 20 Km. Ricordo che, trattandosi di una macchina vecchia e malandata, era simile ad una carretta; quando arrivammo alla salita di Capodichino, che si trova sulla via per Caivano, la macchina stessa arrancava ed a nulla servivano le mie raccomandazioni di aumentare la velocità. Ero molto preoccupato. Ma ecco che, dopo circa mezz’ ora, mi presentai ai miei famigliari, i quali, nel vedermi in divisa coloniale, si accorsero subito di ciò che stavo per fare. Ricordo che la mia povera mamma mi diede perfino del traditore perché avevo fatto tutto senza portarli a conoscenza della mia decisione. Mi sedetti su una sedia e, tanto per impaurirli, gli dissi: ebbene, non mi muovo da qui e vedrete che mi verranno a prendere i carabinieri. Non c’èra tempo da perdere, cosi dopo qualche minuto, ripresi il mio posto in macchina ed accompagnato dalla mia cara mamma, mio papà ed altri due membri della famiglia, riprendemmo la via verso Napoli. Giunti al porto, il personale addetto stava per togliere lo scalandrone che portava sulla nave, e feci giusto in tempo ad imbarcarmi. Dopo qualche minuto il piroscafo tolse gli ormeggi ed incominciò ad allontanarsi dalla banchina. I miei erano lì sul molo per darmi il loro saluto. Mi è limpido il triste ricordo dello sventolio dei loro fazzoletti, che poco alla volta divennero invisibili, lasciando in me tanta amarezza; ma nel cuore c'era molta speranza per il cambiamento del mio futuro. Il giorno 19 approdammo nel porto di Cagliari, in Sardegna, per imbarcare altri volontari. Ci fermammo solo qualche ora e poi il piroscafo riprese a navigare nel Mediterraneo per portarci verso il canale di Suez. Era la prima volta che, a bordo di una nave, mi vedevo in un paesaggio interamente nuovo, mi godevo lo spettacolo dal ponte della nave e, quando la vista poteva spaziare in ogni direzione fino all’orizzonte, mi sembrava di vivere in un mondo fantasmagorico e tutto mi appariva come un sogno bellissimo. Mi viene in mente che giunti al largo, fummo investiti da una furiosa mareggiata, i grossi cavalloni che investivano il piroscafo lo facevano rollare e, una buona parte dei miei colleghi furono presi dal mal di mare. Io ero uno dei pochi che non sentivo tale malessere, e, siccome in nave si mangiava molto bene, una volta a mensa, mangiai con voracità anche parte di quanto avevano lasciato loro. Dopo tre giorni di navigazione giungemmo a Porto Said ed entrammo nel Canale di Suez, (via d’acqua artificiale, della lunghezza di 163 Km e largo dai 50 ai 110 metri, che mette in comunicazione il mar Mediterraneo, presso Porto Said, con il mar Rosso, presso Suez). Io ero lì, sul ponte della nave, insieme ad altri amici, con lo sguardo rivolto verso la prora a scrutare il meraviglioso panorama che subiva continui cambiamenti. Le sponde del canale erano a portata di mano, la giornata era nitida e piena di sole ed ovunque giravo lo sguardo vedevo paesaggi spettacolari mai apparsi ai miei occhi, e tutto mi appariva come se fosse inverosimile. Continuando la navigazione giungemmo al golfo di Suez e, siccome per quasi tutta la lunghezza del canale poteva navigare una sola nave, qui incominciammo ad incontrare altri piroscafi, che attendevano il loro turno per entrare nel canale stesso. Attraversammo, quindi, il mar Rosso e nella notte del 28 aprile 1937 sbarcammo a Massaua. Mi è presente la vasta banchina semideserta di quel porto, ed il caldo afoso che, nonostante le ore notturne, era insopportabile. Ci portarono subito alla stazione, e, per mezzo del treno, giungemmo ad Asmara. Qui facemmo sosta e, dopo 4 giorni, il 2 maggio 1937, con una colonna di cinque autocarri ci mettemmo in cammino. La strada che percorrevamo era costituita da una pista e seguiva un bassopiano principalmente desertico. Ricordo che, ad un certo punto, attraversando una boscaglia c’imbattemmo con una mandria di selvaggina di numerose specie, la colonna fece sosta, forse per curiosare, dato che nessuno di noi aveva mai visto uno spettacolo simile. Io, che avevo con me una pistola 7,65, cercai di inseguire il branco e sparai qualche colpo, ma non riuscii a colpire nessun animale.

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Il giorno 8 facemmo sosta ad Agordat per una notte e, per la prima volta, insieme ad altri colleghi visitammo un villaggio costituito in maggioranza da tucul, (capanna etiopica , circolare, di fango con tetto di paglia a cono). Attratti dalla musica che proveniva da uno di essi ci avvicinammo, e notammo che gli indigeni, al suono di strumenti particolari si divertivano ad effettuare danze tradizionali. Vedere un tale spettacolo era molto divertente; ma non avevamo molto tempo a disposizione e, di tutta fretta, ritornammo all’accampamento. Ci avevano alloggiato in baracche di legno che erano state costruite per i militari di transito. La serata era di un caldo soffocante, ed in baracca era impossibile dormire; buttammo giù le nostre coperte all’aperto e ci sdraiammo sopra, ma, sia per il caldo che per la presenza di zanzare che ci punzecchiavano, e di numerose specie d’insetti che strisciavano sul terreno, non riuscimmo a dormire. Il mattino successivo, 9 maggio, di buon ora, riprendemmo la marcia. Il percorso era molto impegnativo e pericoloso, a causa dell’impervio tragitto e dei fiumi che fummo costretti a guadare. Facemmo sosta per tre giorni ad Omager ed il 12 partimmo per Gondar, capitale del Governo Amara, dove giungemmo il 15 maggio 1937. Fui assegnato al 13° Gruppo Artiglieria, 43^ batteria, con sede ad Ence Dubà, nella cinta fortificata di Gondar. Era una collina a forma di zucca (seppi poi,che il nome "Ence Dubà" in Amarico, vuol dire appunto: collina a forma di zucca). Il nostro compito era quello di difendere Gondar, sede del Governo Amara, da eventuali attacchi da parte dei guerriglieri. Il fortino era a forma circolare con un diametro di circa 40 metri, munito di due piazzole dove erano schierati cannoni da 75/27.(vedi foto numero 2 e numero 2 bis, nella prima Santa Messa domenicale e nella 2 bis prendo la Santa Comunione). Alcune opere di fortificazione erano già state compiute in parte, e noi avevamo il compito di completarle. La guarnigione era composta: dal Capitano Curi comandante, Tenente Messina, sottocomandante; tre sottufficiali; Durante, io, ed un altro che non ricordo il nome, e da circa 100 militari. Non c’èra molto da fare, istruzioni e completamento dei muri di difesa perimetrali, che erano di circa un metro di spessore, con pietre raccolte intorno al fortino stesso. Gondar, dove mi recai in visita per la prima volta il 20 giugno 1937. era una città con poche costruzioni in muratura, mentre vi erano molti tucul, (abitazioni degli indigeni locali) la città è situata nell’Acrocoro etiopico, vasto altopiano dell’Etiopia che si estende per quasi la metà del territorio nazionale e ne costituisce la parte più densamente popolata; l’altitudine dell’alto piano si eleva dai 1830 e i 2440 metri. Gondar si trova a circa 1830, quindi, la temperatura, anche se di giorno si teneva su una media di 22 gradi, di notte scendeva di parecchio, tanto che la sentinella che montava nel fortino era costretta, a volte, ad indossare il pastrano. Per il rifornimento dell’acqua ci servivamo di una sorgente che si trovava a metà salita e, per mezzo di due ghirbe, (recipiente di tela per acqua) che, imbracate sulla schiena di un asinello, guidato da un soldato, era portata nel fortino per tutti i nostri bisogni. Lavoro molto duro per quel povero asinello! Inoltre, la stessa sorgente serviva per irrigare un orto coltivato da due artiglieri, che dava delle ottime verdure. Il lavoro di reparto non era molto impegnativo e, siccome avevo comprato un fucile da caccia da un Capitano che era rimpatriato; il comandante, due o tre volte la settimana, mi faceva andare a caccia. Partivamo con due muletti, uno a sella per me ed uno col basto per il caporale maggiore Dionisi, un sardo molto abile nello sparare, ricordo che, col suo moschetto 91 riusciva, a volte, a cacciare meglio di quanto lo facessi io. La selvaggina, gazzelle ed altro, a causa della presenza delle nostre truppe si era allontanata e per andare a scovarla bisognava fare qualche Km. Ricordo che una volta, incoscientemente, ci allontanammo di parecchio dal fortino, c’inoltrammo su una collina, poi una vallata, ancora una collina ed un’altra vallata. Venimmo a trovarci lungo un fiume con molti alberi, sui quali centinaia di scimmie, col nostro avanzare, si allontanavano e, seguendo il fiume stesso, giungemmo in un villaggio anch’esso popolato di scimmie, si vede che siccome non erano disturbate dagli abitanti del villaggio, giravano per trovare qualche cosa da mangiare. Sempre imprudentemente, affidammo i due muletti ad un indigeno e ci dirigemmo su una adiacente collina, dove ci avevano detto che era abbondante di selvaggina, purtroppo non trovammo nessun tipo di cacciagione. Ritornammo al villaggio, prendemmo i nostri muletti e ci rimettemmo sulla via di casa. Ricordo che piovigginava e, arrivati ad un certo punto cercammo riparo sotto un gigantesco albero frondoso, sentivo qualcosa che si muoveva tra le foglie, ma non riuscivo a vedere nulla, poi, guardando con maggiore attenzione vidi qualche colombo, puntai il mio fucile e sparai una doppietta, inaspettatamente, vennero giù una decina di colombi selvatici, lo stormo che popolava l’albero si allontanò, fece un giro e ritornò sulla stessa pianta, al che feci un'altra doppietta, si verificò la stessa cosa, ancora una doppietta e, come risultato, portammo al fortino una trentina di colombi che andarono ad arricchire, come altre volte, la cucina truppa e le mense ufficiali e sottufficiali. Ai piedi di Ence Dubà c’èra un fiume dove i militari, portandosi dietro il moschetto, andavano a lavare la loro biancheria. Un tardo mattino, di sabato, giorno in cui i militari erano lasciati liberi per le pulizie personali. Il

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cielo era terso e pieno di sole, non c’èra un alito di vento, sentimmo degli spari. Io, per primo, mi precipitai per la discesa, per nulla agevole a causa di numerosi sassi che si trovavano lungo il suo percorso, malgrado tutto, data l’età e la mia forza fisica, volavo. Giunto al fiume trovai uno dei nostri soldati, il suo cognome era Palmieri, che grondava di sangue da una spalla, i banditi gli avevano sparato soltanto per portargli via il moschetto; mi tolsi la camicia e cercai di tamponare la ferita. Nel reparto, come mezzi di trasporto avevano solo muletti e, come mezzi di comunicazione un solo telefono, che, per mezzo di una linea da campo ci collegava col 13° Gruppo. Un collega ritornò subito al fortino e riferì al comandante quello che era accaduto, il quale, telefonò al Comando di Gruppo perché mandasse un mezzo per trasportare il ferito in Ospedale. Per raggiungere il luogo dove si trovava il malcapitato non vi era una strada è, la camionetta dovette percorrere un lungo tratto sul letto del fiume. Anche se tutto fu fatto con sollecitudine; passò parecchio tempo prima che la macchina giungesse sul posto. Caricatolo sull’automezzo, anche a causa del disagevole percorso, il sangue continuava a fuoriuscire dalla ferita. Mentre lo accompagnavo in Ospedale mi disse che aveva tre figli e che aveva paura di non rivederli. Cercai di tranquillizzarlo, convinto che il suo stato non fosse grave. Purtroppo, il giorno dopo seppi, con immensa tristezza, che non ce l’aveva fatta. Dato che nel fortino non c’èra acqua corrente, non si poteva vietare ai militari di recarsi al fiume; di conseguenza, da quel giorno, fu stabilito che, una volta la settimana, accompagnati da un graduato, ci andassero in gruppi di 15/20 persone. Dopo quest’avvenimento, pure io, che quando andavo a caccia mi allontanavo parecchio dal fortino, non ripetei lo stesso errore e mi resi conto che mi era andata bene perché gli abissini, allettati dal fucile da caccia che avevo e dal moschetto del caporale maggiore Dionisi, avrebbero potuto farci fare la stessa fine. La vita continuava con monotonia, sempre le stesse cose, l’unico mio divertimento era quello di andare a caccia e, senza allontanar- mi di molto dal fortino riuscivo; ogni tanto, a portare a casa qualche gazzella (vedi foto n° 3) o, in mancanza di queste, parecchie pernici, che abbondavano intorno a tutta la collina. Il 31/8/1937 fui trasferito al campo d’aviazione di Azezo, non molto distante da Gondar, con l’incarico di provvedere al rifornimento degli aerei che, in quel periodo erano impegnati a sopprimere un’azione di guerriglieri nei pressi di Bahir Dar sulla riva del lago Tana. Ricordo che piantai la mia tenda al bordo del campo e, siccome la zona era deserta, di notte sentivo il latrato degli sciacalli e l’ululato lugubre delle iene che giravano intorno alla mia dimora, ed a volte non mi facevano dormire. Dopo circa due mesi rientrai alla 43^ Batteria. Il 14/11/1937 mi fu comunicato della mia promozione a sergente maggiore con decorrenza dal 16/9/1937 e, con essa, aumentò la paga che arrivò a lire 14 giornaliere, ci pagavano ogni 10 giorni e, data la mia indole di risparmiatore, avevo aperto un conto in banca dove versavo buona parte di quello che mi veniva corrisposto. Il giorno 16/1/1938, giunse a Gondar un Battaglione di Camicie Nere, del quale facevano parte i compaesani, Braucci, Russo, Orsini ed altri. Li invitai a pranzo alla mia mensa e, per qualche mese ci facemmo buona compagnia incontrandoci spesso. La loro presenza mi faceva sentire meno la solitudine e la lontananza dalla famiglia. Purtroppo, in maggio del 1938, Braucci, Russo e loro amici, per aver litigato con i carabinieri, per futili motivi, furono messi in prigione e dopo pochi giorni rimpatriati. Per fortuna in seguito seppi della presenza a Gondar di Lucchetti e Gigi Marsico, anche loro miei compaesani, il primo vinceva quasi tutte le corse ciclistiche alle quali partecipava ed il secondo, sergente presso la Compagnia Autieri, era un buon pugile, e di tanto in tanto sosteneva degli incontri ai quali andavo ad assistere. Anche con loro ci facevamo buona compagnia e spesso venivano a pranzo da me portando un po’ di cambiamento alla monotonia della vita di tutti i giorni (vedi foto n° 3 bis e numero 4) Al fortino di Ence Dubà, spesso veniva qualche indigeno a portar- ci uccelli ed animali selvatici del luogo; ci avevano regalato un istrice, qualche avvoltoio ed uno sciacallo appena nato, a questo ultimo diedi il nome di nicolino e lo presi sotto la mia tutela; lo allevai, prima con latte e biberon e poi con la carne. E’ meravi- glioso pensare che, pur essendo un animale selvatico, si fosse affezionato a me in modo tale che me lo portavo perfino a caccia. (vedi foto n° 5, nicolino è ritratto insieme ad un collega di Cardito che era venuto a trovarmi) Il 19 agosto 1938 giunse una circolare, per mezzo della quale si chiedeva, se tra i sottufficiali ci fosse stato qualcuno disposto ad andare a frequentare il corso di radiotelegrafista presso la 22^ compagnia marconisti in Gondar; mi prenotai e, il 1° settembre del 1938 giunse l’ordine di trasferimento. Prima di partire manifestai il desiderio di portare con me nicolino, ma il Tenente Messina me lo sconsigliò dicendomi che essendoci molto traffico in città, al quale nicolino non era abituato, sarebbe potuto andare a finire sotto qualche macchina. Accettai il consiglio. Dopo una settimana ritornai al fortino, nicolino c’èra ancora e mi fece tante feste. Ritornai dopo qualche tempo, ma questa volta mi fu detto che di giorno era assente, mentre di notte teneva

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compagnia alla sentinella, ebbene; salii sul muro di cinta del fortino ed a alta voce chiamai: nicolino! nicolino! Si fa fatica a crederci, eppure, dopo pochi istanti nicolino era lì ai miei piedi e mi saltava fino in faccia per manifestarmi tutta la sua gioia. Mi è limpido il ricordo ed ancora oggi, al pensarlo, mi da tanta commozione. E’ proprio vero che, a volte, le bestie sono più riconoscenti del genere umano. Ritornai ancora al fortino dopo una quindicina di giorni, ma nicolino non c’èra più, ed a nulla servì chiamarlo a squarciagola. Pensai che qualche cacciatore lo avesse fatto fuori, e nel mio animo rimase tanta tristezza. Il mattino del giorno successivo al mio arrivo alla Compagnia Marconisti, fui portato in aula dove trovai già una ventina di allievi, che erano li da qualche settimana. Vi erano apparati radio, un tavolo con sopra un tasto, un diffusore per i segnali Morse ed una lavagna. Due Ufficiali istruttori si davano il cambio; uno c’insegnava la teoria e l’altro ci faceva fare pratica di trasmissione e ricezione. Specialmente nella pratica, siccome avevo già frequentato il corso di specialista per le trasmissioni, che all’epoca avvenivano con bandiere semplici ed a lampo di colore, non avevo difficoltà, in special modo nell’ascolto. Ero molto interessato e seguivo con attenzione quanto ci veniva insegnato. Poiché c’èra un grande bisogno di radiotelegrafisti per andare a sostituire coloro che erano nei Presidi già da qualche mese; dopo un breve periodo, un sabato mattino, ci sottoposero all’esame teorico, di ricezione e di trasmissione. Il pomeriggio dello stesso giorno mi chiamò il Comandante della Compagnia, e, dopo essersi complimentato con me per essermi classificato al primo posto, nonostante fossi uno degli ultimi arrivati, mi riferì della mia nomina a radiotelegrafista, notizia da me molto gradita, perché per tale specialità era prevista un’indennità di lire 2,32 giornaliere; (all’epoca era una discreta somma) se si pensa che la paga del soldato era di cinque lire. Mi disse di scegliere tra i partecipanti al corso un allievo di mio gradimento come secondo operatore, e di andare in magazzino a ritirare una stazione R4 completa d’antenna e di batterie anodiche per l’alimentazione della stazione stessa, e di prepararmi per la partenza che sarebbe avvenuta il lunedì successivo, aggregandomi ad una colonna di autocarri, per andare a sostituire un collega nel Presidio di Celgà (in amarico Chilga). Siccome mi sentivo sicuro per quanto riguardava la ricezione, ma non per la trasmissione, scelsi tra gli allievi il sergente Da Costa, un ex telegrafista delle poste che, nell’esercitazione in aula, era tra i migliori. Andai in magazzino e ritirai il tutto. Con la radio mi fu dato solo il tasto verticale, (attrezzo per trasmettere con segnali Morse) perché, essendo la stessa di bassa potenza, (circa 10 Watt.) non sarebbe stato possibile effettuare i collegamenti dal Presidio dove ero destinato con Gondar. "in telegrafia, con radio delle stesse caratteristiche, si riesce a coprire più del doppio della distanza rispetto alla fonia". (trasmissione con un microfono e viva voce). Bisogna precisare che l’Etiopia non era stata mai occupata integralmente ed alcune zone erano impenetrabili, e se a volte si facevano dei tentativi, i militari che ne prendevano parte, quasi sempre si trattava di un Battaglione di ascari (soldati abissini) comandati da ufficiali e sottufficiali italiani, tornavano alla sede con grosse perdite. Celgà, distante circa 50 Km. da Gondar, era un Presidio completamente isolato e gli unici mezzi di collegamento erano la radio ed un fidato corriere abissino che, periodicamente, veniva mandato a piedi a Gondar (Gonder in Amarico) per portare e ritirare la posta. A causa delle piogge e del pericolo al quale si andava incontro, per colpa di guerriglieri locali, era rifornito di viveri ed altre necessità una sola volta l’anno; alcuni generi, come i medicinali e le stesse batterie per l’alimentazione della radio, ci venivano lanciati, con un paracadute, da un aereo Caproni 33; si era, quindi, costretti ad organizzare colonne con grossa scorta armata. La strada che portava alla località dove ero destinato era costituita da una pista e si poteva percorrere solo nei mesi estivi. Di quel trasferimento conservo un ricordo che non dimenticherò mai. Per raggiungere Celgà, a causa dell’asperità del percorso, ci volevano due giorni, dai miei appunti rilevo che era il 21 novembre del 1938. La colonna che trasportava viveri ed altro e della quale facevo parte era partita il mattino; a tarda sera eravamo giunti a metà strada, era quasi notte, così, dopo i dovuti accorgimenti di difesa da parte della scorta armata, facemmo sosta, mi fu dato l’ordine di impiantare la stazione che, come ho accennato, era di bassa potenza e veniva alimentata da batterie anodiche a secco. L’ufficiale addetto mi portò un messaggio da trasmettere; era la prima volta che mi accingevo a farlo ed il cuore batteva forte, è naturale che il mio corrispondente fosse continuamente in ascolto sulla frequenza assegnataci. Ebbene, timidamente, mi misi al tasto e feci la chiamata, dopo qualche istante giunse la risposta; al sentire quel segnale, per la prima volta, mentre mi trovavo in una fitta boscaglia, nel silenzio delle ore notturne, mi sembrò di aver toccato il cielo con un dito. Il quadro di quella notte stellata mi appare ancora nitido d’avanti agli occhi. Fu questa la mia prima, meravigliosa esperienza di radiotelegrafista. Il giorno dopo raggiungemmo Celgà e diedi il cambio al collega che era lì già da qualche mese, e che dopo aver caricato su una macchina la stazione e tutto ciò che aveva in consegna, rientrò a Gondar con la stessa

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colonna. Impiantai la mia stazione nella stessa baracca. Vedi foto n° 6. Ricordo che era munita di un’antenna a doppia "L" rovesciata e aveva, come terra, due reti di bronzo fosforoso che si ponevano sotto l’antenna stessa. Portata in telegrafia km 120 e 20 in fonia. Il giorno successivo mi fu portato un lunghissimo messaggio da trasmettere. Siccome la situazione delle derrate, col rifornimento che avevamo portato era cambiata, il messaggio conteneva la denominazione di tutti i viveri esistenti nel magazzino e loro quantità. Al vedere un cosi nutrito elenco da trasmettere, a mezzo dell’alfabeto Mor- se, mi dava molta preoc- cupazione. Mi misi al tasto ed incominciai a trasmettere; dopo qualche minuto, convinto che la mia trasmissione non fosse perfetta, invitai Da Costa a prendere il mio posto ed io mi sedetti fuori della baracca. Poiché, ogni tanto, si chiedeva al corrispondente se si poteva continuare; alla prima interruzione sentivo colui che stava ricevendo il messaggio a Gondar, appellare il Da Costa con: G 104! G 105! (erano voci del codice "G" che si usava) la prima voleva dire, "chiama radiotelegrafista capace" e la seconda corrispondeva a; "chiama capostazione". Anche se facevo molta fatica, si vede che la mia emissione era più comprensibile. Mi rimisi al tasto con preoccupazione e, facendo uno sforzo enorme, riuscii ad arrivare alla fine del messaggio. Mi ero sbagliato nel giudicare il Da Costa un buon trasmettitore. I giorni che seguirono furono molto duri e, per un certo periodo, tutte le volte che mi ponevo alla radio lo facevo con apprensione. Ci vollero parecchie settimane, prima che lo facessi con maggiore sicurezza. La guarnigione che era nel fortino di Celgà, era costituita, in maggioranza, da artiglieri padri di famiglia, magari numerose, che, dato il periodo di grande miseria che attraversava l’Italia, erano venuti in Africa per sbarcare il lunario, difatti, la loro paga era di lire cinque giorna-liere ed, inoltre, le loro famiglie in Italia percepivano il sussidio, cosa che gli permetteva di condurre una vita più agiata. Grazie alla mia specializzazione di radiotelegrafista mi rimaneva molto tempo disponibile, perché oltre agli appuntamenti radio non avevo nessun altro impegno. Possedevo una macchina fotografica 6x9 ed ogni tanto facevo qualche fotografia che, per mezzo del corriere, le mandavo a Gondar per farle stampare, cosa che richiedeva molto tempo e, visto il grande desiderio da parte di tutti, di inviarne qualcuna a casa, mi attrezzai per svilupparle e stamparle, in modo molto elementare, personalmente. Rivestii la mia baracca, che era fatta di paglia, con stoffa nera; per mezzo del corriere mi feci acquistare un torchietto, acido per sviluppo e fissaggio, bacinelle, carta per la stampa e parecchi rotoli di pellicola. Con le pile esaurite della radio feci un impianto per luce rossa e, dopo avere scattato le fotografie, sviluppavo il rotolo, tagliavo i negativi e, uno alla volta , li mettevo nel torchietto, ci ponevo la carta sopra ed usavo una torcia elettrica per dargli la luce necessaria. Dall’inizio le cose erano abbastanza difficili per stabilire il tempo di illuminazione giusto per la stampa, ma una volta presaci la mano era un divertimento. Le richieste da parte dei soldati erano tante e spesso, passavo alcune ore della notte a stampare fotografie. Il lavoro più difficile era quello del lavaggio che, non avendo acqua corrente, diventava molto laborioso, difatti, a volte, qualche fotografia mi rimaneva macchiata di acido. L’impresa, in ogni modo, fu molto fortunata perché mi permise di avere un buon guadagno, pur facendo pagare le fotografie molto meno di quello che prendeva il fotografo. Il fortino di Celgà era di forma quadrata, nel quale erano schie- rati alcuni pezzi leggeri di Artiglieria. Sia i soldati che ufficiali e sottufficiali eravamo alloggiati tutti in baracche in prevalenza costruite con la paglia. Il Comandante del fortino era il Maggiore Ansalone, mentre il Comandante della 1^ Compagnia Cannonieri, dalla quale dipendevo, era il Capitano Cerabolini. (vedi foto n° 7 e 7 bis) Nella prima il Maggiore Ansalone durante un’adunata degli ascari. Mi accingevo a fare doman-da per il passaggio in servi- zio permanente effettivo e, consapevole di quanto mi era successo al mio primo ten- tativo di rafferma, cercai pure io una raccomandazio-ne. Mi rivolsi al Capitano Izzo, Comandante del 14° Battaglione Coloniale (vedi foto n° 8) il quale, a mezzo del Capitano Caselli fece scrivere una lettera di raccomandazione al Capitano Cerabolini. Ne trascrivo il suo contenuto: "Caro Cerabolini, il sergente maggiore Marino Salvatore effettivo alla 43^ Batteria ed aggregato al Genio perché in servizio presso la Stazione Radio di Celgà mi è stato vivamente raccomandato dal mio carissimo amico Capitano Izzo del 14° Battaglione Coloniale. Il sottufficiale dipende ora dalla 1^ Compagnia Cannonieri e sei tu che devi esprimere il parere sulla domanda per il passaggio in carriera continuativa, domanda che, come tu ben sai, dovrà essere inoltrata con un tuo rapporto informativo. Il sergente maggiore Marino è uno dei nostri migliori sottufficiali, è veramente meritevole. Per il servizio egli dipende attualmente dal Capitano Festa (Compagnia Radiotelegrafisti Gondar), ma non credo ti occorra un rapporto da detto Capitano, basta guardare la cartella personale del sottufficiale. Scusami del disturbo. I miei più fervidi auguri per te e la tua famiglia. Con un fraterno abbraccio. Tuo Casella. Napoli, 19/12/1939 XVIII Via S. Giovanni a Carbonara, 64 Napoli" Intendeva dire che avevo ottime note caratteristiche. Presentai la domanda, ma ecco cosa venni a

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sapere dopo un paio di mesi. I miei si erano rivolti ad un certo Cavalier Manzi, il quale aveva chiesto al Generale in pensione Marazzini di interessarsi del mio caso. Trascrivo parte del contenuto della sua risposta: "Gent.mo Cavalier Manzi, dall’ufficio competente al Ministero della Guerra mi è stato comunicato che è stata trovata la pratica del sergente maggiore Marino Salvatore, è stato ottimamente classificato, ma non potendosi concedere più di tre rafferme mentre il Marino era quinto in graduatoria, (penso che, nonostante la mia buona cultura, era il basso titolo di studio ad influire sulla graduatoria) non si può più far nulla. Le graduatorie sono accettate come vengono dall’A.O. e il Ministero non può modificarle. Quanto alla decisione del Duce di aumentare un numero consistente di rafferme già annunziata dai giornali, il Marino senz’altro ce la farà" Cosa che si realizzò, ed io, essendo rimasto tra i primi in graduatoria fui, finalmente, ammesso automaticamente alla carriera continuativa in data 2 luglio 1940. Ero riuscito, finalmente, a realizzare il tanto agognato desiderio di un avvenire sicuro. Il 25 gennaio 1940, dopo più di un anno di permanenza a Celgà, rientrai a Gondar, dove, per un breve periodo, feci servizio al centro radio e frequentai un corso che mi diede la nomina a caporadiotelegrafista, cosa che mi fu molto gradita perché dalle lire 2,32 giornaliere che prendevo come specializzazione di radiotelegrafista passai a lire 5,668 per la qualifica superiore, "all’epoca era una buona somma". Anche dal comandante la 22^ Compagnia marconisti ero tenuto in molta considerazione. Ecco cosa dicono le mie note caratteristiche per i tre anni di permanenza presso detta Compagnia. 1938: "Lo giudico buon sottufficiale del Genio, specialità R.T. con punti 3". Giudizio del Comandante del Genio Governo Amara: "Concordo. Sottufficiale che ha sempre reso bene. Lo giudico buono con punti 3". Firmato Colonnello Comandante del Genio Governo Amara Gabrielli Amedeo. (erano trascorsi soltanto tre mesi della mia attività di radiotelegrafista). 1939: "Lo giudico ottimo sottufficiale del Genio specialità R.T. e lo propongo per un encomio" Guido Festa. Giudizio Del Comandante del Genio Governo Amara. "Concordo. Sottufficiale che ha sempre reso moltissimo. Lo elogio". Firmato Gabrielli Amedeo. 1940: Trascrivo l’ultimo rapporto informativo prima della resa di Gondar: "Sano, robusto, resistente alle fatiche coloniali. Serio educato disciplinato. Ottima cultura generale e militare. Conosce molto bene la specialità di marconista. Senso del dovere e spirito di sacrificio encomiabile. Sottufficiale di ottimo rendimento e di sicuro affidamento. In qualità di capo stazione ha dimostrato competenza tecnica e perizia non comune. Ottimo sottufficiale capo marconista" Giudizio del Colonnello Geniale Licastro Comandante il Reggimento Speciale d’Africa "Concordo, lo elogio". Per gli anni successivi le mie note caratteristiche sono state sempre, più o meno, sulla stessa linea. Il 20/6/1940, eravamo già in guerra da alcuni giorni, -10 giugno 1940- fui assegnato come Capo Centro Radio a Bahir Dar. Una base logistica che si trovava a sud del lago Tana. (il lago Tana è il più grande lago dell’Etiopia occidentale, situato sull’altopiano di Amara, nei pressi di Gondar, a un’ altitudine di circa 1830 m. Ha forma circolare ed è poco profondo (circa 15 m.). La sua superficie è di circa 3600 Km. quadrati. Quasi cinquanta corsi d’acqua, di cui il principale è noto come il Piccolo Abbai, si immettono nel lago Tana. Le sue acque confluiscono nell’unico emissario, il fiume Abbai, o Nilo Azzurro. Nel lago sono presenti numerose piccole isole. Sulle sponde sorgono villaggi e centri abitati. Tra questi Bahir Dar a sud e Gorgorà a nord.) (vedi foto n° 8 bis) Per raggiungere Gorgorà bisognava percorrere circa 50 Km, cosi, di buon mattino per mezzo di alcune macchine, insieme ad altri militari ci fu la partenza, verso le 8 eravamo sul piccolo porto di Gorgorà, dove trovammo già pronto, un barcone capace di trasportare fino ad un centinaio di militari e merci. Dopo circa mezzora la grossa barca tolse gli ormeggi e prese il largo, la sua velocità non era elevata, così per raggiungere Bahir Dar che si trovava a sud del lago ad una distanza di circa 70 Km. impiegammo circa 4 ore. Durante tutta la traversata rimanevo affascinato dal magnifico paesaggio che, con continui cambiamenti, sia nel colore che nella visuale, si presentava ai miei occhi. Era circa mezzogiorno quando approdammo a Bahir Dar e, dopo essere sbarcato, non mi fu difficile raggiungere il Centro Radio, che era a poca distanza dalla riva. Mi presentai al collega che dovevo sostituire e ci mettemmo subito al lavoro. Mi passò in consegna il materiale che era composto: da una radio da 15 Watt, una stazione R4, di un eliografo, e quanto altro esisteva presso il Centro stesso. La 15 Watt era adibita allo smaltimento del traffico dei vari reparti, quello dell’ aeroporto e quello del locale Ufficio Postale. La R4, era in collegamento con i Presidi esterni. L’eliografo, che di giorno funzionava con la luce del sole e di notte con una lampadina alimentata da una batteria a secco, era usato per collegare un piccolo distaccamento che si trovava a Zege, (vedi foto n° 12) una località che si trovava a circa 10 km. sulla riva opposta del lago, dove abbondavano piante di caffè. La squadra dei radiotelegrafisti era composta dal sergente Petrella, sergente Oreste, soldato Perriconi, caporale maggiore Pascarelli ed altri due che non ricordo il nome; tutti del Genio. Come personale di servizio

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vi erano militari nazionali ed alcuni ascari, uno dei quali, attendente del mio predecessore, passò al mio servizio. (Vedi foto n°9 10 e 11). Io sono tra loro. Mentre nella n° 11 sono ritratto sulla riva del lago con i colleghi; caposquadra Toni del locale Battaglione camicie nere, ed il sergente maggiore Caporotundo, responsabile della locale base nautica. A causa dell’eccessivo numero di telegrammi da trasmettere, alla 15 Watt partecipavo io, il sergente Petrella, il sergente Oreste ed il soldato Perriconi; erano 6 ore di tasto e cuffia, (termine che si usava per dire che per 6 ore, si era impegnati, senza sosta, a trasmettere ed a ricevere in alfabeto Morse) Lavoro abbastanza stressante, ma ci rimaneva un lungo periodo di riposo per riprenderci; anche se a me rimaneva ancora il compito della sorveglianza perché tutto si svolgesse regolarmente. Alla R4 ed all’eliografo facevano servizio Il caporale maggiore Pascarelli é gli altri due marconisti. La guarnigione che costituiva la base logistica di Bahir Dar, era formata da una compagnia nazionale, un Battaglione di camicie nere, un Battaglione coloniale, da un’infermeria quadrupedi, dagli appartenenti al campo d’aviazione locale, dalla sussistenza e da una sezione staccata d’Artiglieria. Esistevano a poca distanza dalla base logistica, parecchi tucul che costituivano il villaggio abissino. Il clima, data l’altitudine alla quale era situato Bahir Dar, 1700 m s.l.m, era molto temperato e si stava benissimo, a parte le pulci penetranti (erano insetti parassiti che si annidavano, in special modo, nell’alluce del piede). Si prendevano sulla riva del lago quando si andava a fare il bagno, e ci si accorgeva della loro presenza quando, dopo qualche giorno, veniva fuori una fastidiosa bollicina che dava disturbo; per liberarsene bastava asportare la superficie della bollicina stessa con una lametta e tirar fuori il nido che era stato effettuato dalla pulce stessa. Tutto andava per il meglio e, dopo aver apportato alcune modifiche, sia per la sistemazione delle stazioni radio che per quella dei radiotelegrafisti. -Siccome avevo trovato che alcuni dormivano ancora sotto la tenda, feci costruire una baracca in legno per ciascuno di loro.- mi rimaneva del tempo disponibile che impiegavo per andare a caccia facendo lunghe passeggiate. Saltuariamente, grazie all’amico Caporotundo ed alla barca che aveva in consegna, andavamo a rifornirci di limoni che abbondavano sulle isole disabitate del lago. Durante queste gite era spettacolare il favoloso scenario che si presentava ai nostri occhi. A Bahir Dar, oltre alla mensa sottufficiali di Presidio, vi era anche quella del campo d’aviazione, dove mi ero prenotato per andare a mangiare; ebbi così modo di fare amicizia con alcuni commensali, tra i quali il pilota da caccia sergente maggiore Omiccioli. Ricordo che, siccome i cuochi sapevano del mio buon appetito, mi portavano sempre razioni abbondanti di primo e secondo piatto. Poi le cose cambiarono. A causa della guerra che era scoppiata il giorno 11 giugno, mi giunse l’ordine che, a parte i telegrammi del locale Ufficio Postale, che venivano trasmessi in chiaro, tutti quelli degli enti militari locali dovevano essere in cifrato (erano testi in gruppi di cinque cifre che, per mezzo di un cifrario venivano tradotti.) Mi fu anche comunicato che, siccome era stata attuata una rete d’avvistamento velivoli su una frequenza che non ricordo, di far sì che la stazione R4 facesse ascolto 24 ore su 24 su quella frequenza. Per metterla al sicuro, cambiai la sua postazione. Feci eseguire uno scavo sulla riva scoscesa del lago, a pochi metri dalla battigia, e feci coprire l’incavatura con massicce travi con sopra grossi macigni. Nel locale campo d’aviazione, oltre ad una mezza dozzina di aerei Caproni 33 che partivano spesso per andare a bombardare le linee nemiche, vi erano 2 apparecchi da caccia CR 42 è, siccome qualche Presidio esterno era già stato bombardato, mi fu ordinato di costruire una linea telefonica da campo che metteva in collegamento il rifugio della R4 con la linea di volo del campo d’aviazione, che era a circa 300 metri di distanza e dove erano sempre pronti i due piloti per decollare con i loro caccia. Quando il radiote- legrafista di servizio riceveva la segnalazione che aerei nemici si dirigevano sui Presidi esterni telefonava alla linea di volo ed i due piloti partivano subito con i CR 42 per portare la loro difesa. Impresa che non sempre andava a buon fine. A questo proposito mi viene in mente un increscioso inconveniente che mi capitò. Una volta accadde che apparecchi nemici, senza essere intercettati, andarono a bombardare Dangila (vedi foto n° 12) Il radiotelegrafista che era in quel Presidio accennò una chiamata, ma dopo aver fatto il nominativo della R4 non continuò, ed a nulla servirono i numerosi tentativi da parte dell’operatore di Bahir Dar per ristabilire il collegamento; si vede che gli aeroplani nemici erano già arrivati su di loro e lui andò a ripararsi nel rifugio antiaereo, cosi i due apparecchi invasori poterono fare tutti i loro comodi senza essere disturbati, e rasero Dangila al suolo. In seguito, siccome ero io il responsabile di tutti i collegamenti, il Comandante la base logistica fece un’inchiesta per scoprire il perché del mancato intervento dei nostri caccia é, forse mi avrebbe denunciato se non fossi riuscito a dimostrare, grazie alla testimonianza

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della stazione radio di Debra Tabor, (vedi fotografia n° 13) che aveva seguito l’accaduto, e che riferì come erano andate realmente le cose. Dopo un certo periodo, era il 12 gennaio 1941, i due aerei da caccia furono trasferiti ad Azezo (Gondar), dove c’èra maggiore bisogno a causa dei frequenti bombardamenti nemici, ai quali era sottoposta. Prima di partire, il mio carissimo amico, sergente maggiore Omiccioli, uno dei piloti dei due caccia, nel salutarmi; tra le altre cose mi disse: "Con i nostri miseri mezzi di difesa aerea che abbiamo, corriamo il rischio di fare una brutta fine". Fu con immenso dispiacere che, dopo parecchi giorni, seppi dell’abbattimento del suo apparecchio che gli causò la morte, durante un combattimento contro 6 aeroplani da caccia nemici sul campo di aviazione di Azezo, dove era stato destinato (vedi foto n° 14). A Bahir Dar, non arrivava nessun tipo di giornale, e l’unico mezzo dal quale si potevano attingere le notizie, era la mia 15 watt. Visto il grande desiderio da parte di tutti di averne, e approfittando della famosa Radio Coltano di Pisa (il suo nominativo era IAC) che, verso le due locali, trasmetteva il bollettino di guerra in telegrafia, disposi che il radiotelegrafista di turno lo ricevesse. Al mattino successivo passavo quanto ricevuto ad un collega che prestava sevizio presso il Comando Infermeria quadrupedi, il quale, per mezzo della sua macchina per scrivere ne dattilografava parecchie copie che poi distribuivo ai vari Comandi. Ricordo che eravamo in periodo favorevole per il nostro Esercito, le nostre truppe che si trovavano in Libia erano giunte ad Al Alemain, presso Alessandria d’Egitto (vedi foto n° 15) ed in tutti regnava una certa euforia. ma, purtroppo, durò per poco tempo. La mia iniziativa di ricevere i bollettini fu molto gradita, ed ero tenuto in molta considerazione da parte di tutti. Poi la guerra, dopo qualche mese di tranquillità, fece sentire la sua crudeltà ed il suo peso arrivò anche da noi. Devo dire che di Bahir Dar, a parte l’ultimo periodo, ho i più bei ricordi della vita trascorsa in Africa. Spesso subivamo incursioni aeree. Gli apparecchi nemici arrivavano durante la notte e, prima di eseguire il bombardamento, lanciavano dei bengala d’un bianco splendente che, attaccati a dei paracadute ed avvicinandosi lentamente al suolo illuminavano a giorno, tutta la base logistica. Durante uno dei primi bombardamenti presero di mira il comando dell’aeronautica e la mensa Ufficiali, radendoli al suolo. Noi non avevamo mezzi di difesa, quindi non ci rimaneva che metterci a riparo nei rifugi. Ricordo che ne avevamo ricavato uno in un albero secolare, con una cavità nel suo interno di circa due metri di diametro e, scendendo tra le sue radici diventava molto più spazioso, capace di ospitare una dozzina di persone, quindi, all’avvicinarsi degli aerei scappavamo in questo ricovero, che non era lontano. Non sempre, però, ciò era possibile per il radiotelegrafista di turno, perché vi era l’ordine che, anche durante le incursioni aeree, bisognava stare in radio per eventuali segnalazioni. Per la R4, che si trovava nel rifugio, non c’èra problema, mentre era molto pericoloso rimanere alla 15 Watt, che si trovava ancora all’aperto. Mi è limpido il ricordo di una volta che avevo sostituito il soldato Perriconi, perché quando sentiva gli aerei avvicinarsi veniva preso da batticuore, ebbene, mentre ero alla radio, durante un bombardamento, una delle bombe scoppiò non molto distante dalla stazione radio e, lo spostamento d’aria provocato dalla bomba stessa, fece volare la sveglia che era poggiata sulla radio che mi era di fronte. Uno dei bombardamenti che mi è rimasto maggiormente impresso, è quello che avvenne nelle ore pomeridiane di un giorno in cui il cielo era limpido ed il sole illuminava ogni cosa. Si sentì il rumore di aerei che si avvicinavano; passò qualche istante ed ecco che ne apparvero sei; 3 a bassa quota e tre a quota più alta, questi ultimi avevano, forse, il compito di difendere quelli a quota più bassa, I primi erano tre Spitfire ed i secondi Hurricane.(vedi foto n° 16) Mi è limpido il ricordo. Dopo aver fatto un giro sulla base logistica, presero di mira con un mitragliamento infernale i nostri aerei che sostavano sul campo, e che avevano tutti un carico di spezzoni (piccole bombe) pronti per andare a bombardare le linee nemiche. Uno dopo l’altro i Caproni 33 incominciarono a scoppiare ed in pochi minuti si ridussero, tutti, in un ammasso di rovente rottame. Ad incursione terminata il Capitano Comandante l’Aero- porto mi fece avere un telegramma da trasmettere indirizzato al Governo Amara. Il suo contenuto era: "Caproni tutti morti, personale disoccupato" (si riferiva agli aerei che erano sul campo) Stando agli ordini che avevo non avrei dovuto trasmettere il messaggio in chiaro, ma trattandosi di un testo convenzionale lo trasmisi lo stesso. Col passare dei giorni le cose andavano sempre verso il peggio. Ormai, sia le nostre truppe di colore che gli abitanti del villaggio avevano capito che la nostra permanenza a Bahir Dar volgeva alla fine, e lo avevamo capito anche noi. Tanto che, pensando che non avrei più indossata la mia bella divisa, la vendetti per una buona somma ad un dignitario abissino.

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I giorni trascorrevano in enorme malinconia e, come se non bastasse, mi successe un fatto inaspettato. Nella baracca dove dormivo, avevo accanto al letto una specie di comodino, ricavato da una cassa di legno rinvenuta presso la locale sussistenza, nell’interno avevo sistemato alcuni ripiani e sul davanti avevo messo una tendina; in questo scaffale tenevo effetti personali e la mia pistola calibro 7,65 con alcuni caricatori. Un mattino, appena alzato, avrei dovuto trovare fuori della baracca il mio ascaro con la brocca dell’acqua che attingeva dal lago e che mi serviva per la pulizia personale, purtroppo Ibrahim, era questo il suo nome, non c’èra; pensai ad un ritardo ed approfittai della scorta che aveva nella baracca adiacente il sergente Petrella, ma, quando andai per prendere l’occorrente nel comodino per lavarmi la faccia e i denti, ebbi l‘amara sorpresa che mancava la pistola e le relative cartucce. Siccome in precedenza si era già verificato che qualche ascaro aveva disertato, mi venne subito il dubbio della fuga del mio attendente, cosa che, dato l’attaccamento che mi aveva sempre mostrato, non mi sarei mai aspettato; poi, istintivamente, guardai sotto il letto, dove avevo un moschetto 91, il fucile da caccia, cartucce ed una trentina di caricatori, e mi accorsi che anche loro erano spariti. Rimasi esterrefatto ed incredulo, e subito non sapevo cosa avrei potuto fare per rimediare. Eravamo in piena guerra e, denunciare che mi era stata sottratta l’arma da fuoco che avevo in consegna mi avrebbe procurato, certamente, grossi guai; mentre per la pistola di mia proprietà non c’era problema. Tenni tutto in segreto per alcune ore per studiare il sistema più con- veniente per risolvere la difficile situazione; poi andai al Comando e denunciai l’assenza del mio ascaro, ma non accennai alla sottrazione del moschetto. Per tutto il pomeriggio non trovavo pace e, finalmente, mi balenò l’idea di rivolgermi al maresciallo Innocenti, un aiutante della milizia, che era responsabile della sezione staccata d’Artiglieria; gli raccontai quanto mi era accaduto e lo pregai di non riferirlo a nessuno. Devo precisare che, grazie al mio incarico di capo centro radio ed alla distribuzione dei bollettini di guerra che effettuavo, e, forse anche per il mio comportamento, ero stimato da tutti. Il maresciallo Innocenti mi disse le seguenti testuali parole: "non ho nella mia armeria moschetti 91 fuori carico, ho però qualche fucile Manlicher di quelli che furono sequestrati, a suo tempo, agli abissini, posso darti uno di questi; coi tempi che corrono ti basta avere un’arma qualsiasi. Questa sera tardi, indossa il pastrano e vieni da me". Cosa che feci. Mi diede il fucile, lo nascosi sotto il cappotto e lo portai nella mia baracca. Nessuno si era accorto di nulla. Da quel giorno, munii di un robusto lucchetto la porta di un piccolo magazzino adiacente alla locale stazione radio, dove, come ho detto prima, 24 ore su 24 c’èra il radiotelegrafista di turno e, sia il mio fucile che quelli di tutti i miei dipendenti, venivano ricoverati in questa baracca. Col passare dei giorni si andava sempre verso il peggio. Eravamo impotenti contro i frequenti bombardamenti inglesi e, siccome non arrivavano più rifornimenti da Gondar, i viveri e tutto il resto scarseggiava, causando in tutta la guarnigione sconforto e demoralizzazione. La serenità che regnava nella base logistica nei miei primi mesi di permanenza a Bahir Dar, aveva lasciato il posto alla malinconia. L’Abissinia era stata già quasi tutta occupata dalle truppe inglesi ed a noi giunse l’ordine di abbandonare Bahir Dar e ritirarsi su Gondar. Il giorno 29 aprile 1941, dopo aver salvato il salvabile, per mezzo della grossa barca ed a gruppi di un centinaio di militari alla volta ripiegammo su Gondar, dove incominciarono i famosi 7 mesi d’assedio. Presi subito servizio presso il Centro Radio che manteneva il collegamento con l’Italia e con qualche presidio ancora esistente. Il giorno 19 maggio 1941 fui assegnato con una stazione radio RF2 al Comando Artiglieria per stabilire il collegamento con le varie postazioni che si andavano organizzando per formare, intorno a Gondar, una cinta fortificata. Il giorno 11 giugno del 1941 mi fu chiesto dal Capitano Fontana, Comandante la 42^ Batteria da 77/28, che aveva avuto l’incarico di andare a formare il Presidio di Amba Devà, se ero disposto a seguirlo, accettai l’invito, e passai la mia RF2 ad un altro radiotelegrafista. Ritirai presso la Compagnia radio una stazione 15 Watt, con relative batterie ed un generatore a pedale, che serviva per l’alimentazione in trasmissione della stazione stessa, mi fu assegnato il sergente Venturi come secondo operatore ed il soldato Bruno per i vari servizi. Il giorno successivo, con la Batteria ed un Battaglione Coloniale raggiungemmo la nuova destinazione. Alla sommità della collina vi era un vasto piazzale, dove furono schierati i cannoni e montate le tende per il ricovero di tutto il personale. Ad un’estremità dello stesso piazzale vi era un rialzo di alcuni metri, raggiungibile per mezzo di uno stretto sentiero, da dove si poteva osservare il panorama di Gondar. Posto ideale per impiantarvi la mia stazione radio. Difatti, dopo una breve ricognizione da parte del Capitano Fontana e mia, ebbi l’ordine di trasportarcela. Cercai un posticino un po’ riparato e, con l’aiuto dei miei collaboratori, costruimmo una piccola baracca e ci ricoverai la mia 15 Watt.

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Nella parte scoscesa e nascosta da eventuale offensiva nemica ricavai un’insenatura e vi collocai la mia tenda a 5 teli. Nei primi tempi tutto procedeva regolarmente. Trasmissione e ricezione di messaggi ed ascolto su una frequenza assegnataci per avvistamento velivoli. A parte la scarsità dei viveri che giorno per giorno diveniva sempre più grave, ricordo che per la mensa sottufficiali ci davano una piccola quantità di riso con la buccia, che veniva confezionato in brodo con qualche patata e, del pane preparato sul posto con farina di certi semi locali che non ricordo il nome, era farina che mancava di qualche componente tanto che, una volta cotto, rimaneva duro come una pietra. Per far sì che la domenica fosse stata un po’ diversa, giornalmente, si metteva da parte una piccola quantità di riso per farlo asciutto; nel giorno di festa ce ne spettava una piccola porzione, e, nel mangiarlo, a causa della gran fame, quasi non se ne sentiva il sapore. Col passare del tempo la situazione peggiorava sempre di più e la fame si faceva sentire sempre maggiormente, ormai ci mancava tutto. Per mettere qualcosa nello stomaco si mangiavano finocchi selvatici, qualche pugno d’orzo abbrustolito, quando si riusciva ad averlo da qualche ascaro che andava a rubarlo, con grosso pericolo, nei campi abissini. Ricordo che quando si riusciva a comprare dagli indigeni qualche vecchia mucca, cosa non facile perché sapevano che la nostra moneta d’occupazione non valeva più nulla, e ci volevano somme ingenti; i soldati addetti la macellavano sul piazzale sotto la sorveglianza di una sentinella, affinché i macellai stessi non agevolassero nessuno. A lavoro ultimato portavano via la carne e lasciavano sul posto la sola pelle. Si faceva a gara per portar via quella del collo che era la più tenera, poi si metteva in un barattolo e, dopo averla fatta bollire per parecchio tempo, diventava gelatina, e che buona era nel mangiarla! Malgrado tutto, l’ordine era quello di resistere. Il Generale Nasi, Comandante della piazzaforte, inviava messaggi come: "Bacco, tabacco e venere riducono l’uomo in cenere, resistere" -Ci mancava tutto-. mentre gli Inglesi lanciavano manifestini con scritto: "Arrendetevi, vi daremo pane bianco e non soffrirete più la fame" Nonostante la terribile situazione in cui eravamo, la volontà di buona parte degli appartenenti alla difesa di Gondar era quella di resistere, anche perché sui vari fronti, in quel periodo, le nostre truppe non avevano subito grosse sconfitte, l’Esercito inglese era stato ricacciato in Egitto e si sperava in una prossima occupazione del Canale di Suez che avrebbe aperto la via per l’Africa. La Grecia e la Jugoslavia erano cadute e le truppe dell’Asse stavano conquistando il dominio del Mediterraneo; ciò ci faceva sperare che le cose potessero migliorare. A Gondar avevamo una scarsissima difesa, una mitragliatrice quadrinata (a quattro bocche da fuoco) che era sistemata nelle alture della città, un aereo da caccia CR 42 (vedi foto n° 17), un aereo Caproni 33, e le nostre armi leggere. Spesso Gondar subiva massicci bombardamenti da parte di aerei nemici, che transitavano sempre sulla nostra postazione. Il più delle volte erano "Fortezze volanti". (Flying Fortress) Grazie alla rete avvistamento velivoli. Ricordo che il mio nominativo era XMV, mentre quello di Gondar era XMX. Quando giungevano gli aerei invitavo il mio aiutante Bruno ad azionare il generatore di corrente a pedale e davo notizia degli aerei che si dirigevano su Gondar. Dalla mia postazione vedevo tutto, ed era con gioia che, dopo qualche istante, sentivo le sirene fischiare, dando modo a tutti di mettersi al sicuro nei rifugi. Ancora oggi, il mio cuore gioisce al pensare che, grazie alla mia 15 Watt ed alla grande invenzione del nostro beneamato Marconi, molte persone riuscirono a mettersi in salvo. Per la difesa entrava in azione la nostra mitragliatrice e decollava anche il nostro CR. 42, ma erano impotenti contro quei macigni dell’aria che, imperterriti, portavano a termine la loro missione. Il maresciallo Mottet, pilota del caccia CR. 42, faceva acrobazie; mitragliava di sotto, di sopra, di fianco, senza causare, in apparenza, alcun danno. Mi è presente il quadro quando, dopo averli inseguiti, onde difendersi da eventuali attacchi di caccia nemici, rientrava alla base seguendo la vallata che era da un lato di Amba Devà. Una volta, però, con l’arrivo degli aerei, le cose cambiarono. Ricordo che era un tardo, nuvoloso pomeriggio; sentivo degli aerei che si avvicinavano ma non li vedevo e, come il solito, dissi a Bruno, pedala! Chiamai XMX e comunicai: attenzione! Aerei nemici si dirigono su di voi, mi fu chiesto quanti erano; andai fuori ed a stento riuscii a vedere che erano in cinque, e manipolai: cinque! cinque! Mi fu chiesto il tipo, andai ancora fuori e notai che erano cacciabombardieri; trasmisi ancora: cacciabombardieri! cacciabombardieri! Ma ormai gli aerei erano sulla nostra postazione e, al contrario di tutte le volte precedenti, incominciarono a scaricare il loro carico di bombe su di noi; ci buttammo a pancia a terra e, dopo il bombardamento, con meraviglia, ci accorgemmo che eravamo rimasti illesi. Penso che, grazie alla nostra postazione, che si trovava nella parte

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più alta della collina, le bombe, nell’avvicinarsi al suolo ed incontrando maggiore resistenza dell’aria, furono deviate tutte intorno alla collina stessa. A nord-ovest, a circa 100 km, sulla strada che portava a Gondar vi era la collina Uolchefit, (vedi foto n° 18) un avamposto dove era dislocato un reparto d’Artiglieria. Per loro la situazione era ancora peggiore della nostra; si seppe che avevano mangiato tutti i muli in carico al Reparto e che alcuni artiglieri avevano disertato per fame. Cosi, una volta la settimana all’imbrunire; dalla mia postazione vedevo il caproni 33 che a velocità molto lenta, sembrava quasi facesse fatica a volare, sfidando il peri- colo di essere attaccato da caccia nemici, andava a sganciare su di loro, a mezzo di un paracadute, quello che avevano maggiormente bisogno. Il 9 agosto 1941, dopo tre giorni di febbre altissima fui ricoverato in Ospedale dove mi trovarono affetto da malaria terzana benigna. Il 25 agosto, dietro mia insistenza fui dimesso e rientrai a Devà. Nel frattempo, il Presidio di Uolchefit era stato sopraffatto lasciando via libera al nemico per attaccare Gondar. La situazione peggiorava sempre di più e, dato che le nostre truppe di colore avevano capito che un giorno o l’altro ci sarebbe stata la capitolazione, alcuni di loro incominciavano ad allontanarsi dal Reparto. Per la difesa notturna del fortino erano schierati intorno alla collina alcuni nidi di mitragliatrice con a capo un graduato abissino. Si era verificato che una squadra intera si era data alla fuga portando via le armi che avevano in consegna e la mitragliatrice. Da quel giorno, anche se per mancanza di personale si era costretti ad impiegare ancora parte di loro, il Capitano Fontana aveva organizzato un picchetto armato notturno, formato da un graduato ed alcuni artiglieri, che aveva il compito di sorvegliare le postazioni di mitragliatrici tenute dai militari di colore. Tuttavia, da parte del Governo Amara, c’èra l’ordine di tenerli d’acconto perché ognuno di loro, in caso d’attacco, sarebbe stato un fucile in più. Col passare del tempo, a parte le scorte di viveri che si assottigliavano sempre di più, mancavano i medicinali. Questi venivano forniti da un appa- recchio SM, 79 (vedi foto n° 19) che, partendo dall’Italia e seguendo una rotta particolare, atterrava sul campo di Azezo. Mi è rimasto impresso che, a parte i medicinali, il personale dell’aereo portava, macedonia nazionali e le milit, sigarette dell’epoca, e, per averne qualche pacchetto bisognava pagarlo a caro prezzo. Anche per quanto riguardava le sigarette, ormai non ne esistevano più. I più incalliti fumatori raccattavano in giro qualche foglia di tabacco e, in sostituzione, avevano sperimentato ogni genere d’erba essiccata, come cicoria selvatica ed altro per dare sfogo alla loro smaniosa voglia di fumare. Il giorno 5 ottobre 1941, ormai Gondar era già accerchiata da circa 6 mesi. Ricevetti un telegramma dal Comando della 22^ compagnia marconisti, che mi ordinava di prepararmi per partire, il giorno dopo con la mia stazione, unitamente al mio aiutante che si chiamava Bruno, senza specificarmi il motivo, e di raggiungere un reparto d’Artiglieria che si trovava sulla camionale. Mi furono forniti due muletti a basto per il trasporto della stazione e, come viveri per 3 giorni, ci furono dati alcuni cucchiai di farina di ceci ed una piccola quantità di tè e zucchero ciascuno, dicendoci che avremmo trovato qualche altra cosa da mangiare al reparto d’Artiglieria, nostra prima tappa. Al mattino del 6 ottobre 1941, dopo aver caricato il tutto sui muletti ci incamminammo, a piedi, lungo la discesa. Per giungere sulla strada bisognava percorrere alcune ore di mulattiera. Nel tardo pomeriggio arrivammo al reparto di artiglieria, dove ci fu riferito che non avevano viveri da darci e, come ricovero per passare la notte, ci fu indicata una nuda baracca con poca paglia sparsa sul selciato; eravamo stanchi, così, riparati da una coperta che avevamo con noi, ci buttammo su quello acciottolato e ci addormentammo. Il mattino dopo, sempre senza conoscere la destinazione, fummo accodati ad una colonna e ci mettemmo in cammino lungo la strada. Nel pomeriggio giungemmo alla sede di un reparto del Genio, vidi a poca distanza una forgia accesa; dissi a Bruno di prendere le nostre gavette e di andare a cuocere quei pochi cucchiai di farina di ceci che ci avevano dati; come risposta mi fu detto: "se vuole la sua la cuocio tutta, io preferisco conservarmene la metà"; gli dissi: siamo qui che non conosciamo il nostro destino e non sappiamo quale fine potranno fare quei pochi viveri che ci hanno dato e noi stessi; comunque, fai come ti pare. Eravamo fermi, mentre continuava l’assembramento di altre forze. Durante quest’attesa seppi che eravamo destinati a fare una puntata offensiva su Amba Giyorghis, dove si trovava un Presidio nemico (vedi foto n° 20) Fui chiamato dall’Ufficiale d’ordi- nanza e mi fu spiegato quale era il mio compito. La colonna era costituita da un Battaglione di assalto, un Battaglione di rincalzo e da una Batteria d’artiglieria con cannoni da 75/27, che era schierata a poca distanza dall’obiettivo che dovevamo raggiungere. Questi reparti erano stati recuperati dalle postazioni della cinta fortificata di Gondar che, per tre giorni, rimase quasi sguarnita. Io con la mia stazione radio ero destinato al seguito del Colonnello Liuzzo, comandante della colonna. Con me erano collegate, una stazione radio installata presso la Batteria d’Artiglieria ed una col battaglione di rincalzo. Mi fu data la frequenza ed i nominativi. "Penso che questa puntata offensiva nelle linee nemiche fu organizzata a

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scopo di propaganda; perché non ne eravamo in grado, infatti, qualche giorno dopo si seppe che da parte dell’allora Governo italiano ci furono commenti, come:" "i gondarini, anche se scalzi ed affamati, hanno fatto incursione nelle linee nemiche". Era ormai tarda sera e ci fu dato l’ordine di iniziare la marcia; io ero, naturalmente, in testa alla colonna, al seguito del Comandante e di un gruppo di ufficiali, la strada era tetra e tortuosa ed ogni tanto ci veniva ordinato di spostarci a destra o a sinistra per paura che il centro della strada stessa fosse minato. Dopo aver camminato per alcune ore, eravamo forse a poca distanza dalla méta; ci fecero fare sosta perché dovevamo trovarci all’alba sul posto. Ricordo che la carreggiata era umida ed anche i prati adiacenti erano bagnati dalla rugiada della notte, l’unico posto asciutto, in apparenza, era un mucchio di brecciame pieno di angoli taglienti, era quello che si ricavava una volta rompendo grossi sassi con una mazzetta di ferro per pavimentare le strade; ci stesi sopra la mia coperta e, dopo pochi minuti, a causa della eccessiva stanchezza fui preso da un sonno profondo; non so quanto tempo avevo dormito, forse un ora, due, e quando fui svegliato per proseguire il cammino, mi sembrò di aver dormito per una notte intera. Sempre con precauzioni di difesa, riprendemmo il cammino e giungemmo nei pressi di Amba Giyorghis, dove; nella vallata a destra si vedeva la postazione nemica, mentre a sinistra della strada c’èra una scarpata di alcuni metri. Mi fu ordinato di salire quel pendio e di raggiungere la sommità, dove c’èra un avvallamento e di piantare lì la mia stazione in attesa di ordini. Incominciai la salita con i due muletti ed il loro carico e con Bruno, ma giunti a metà, fummo attaccati da un improvviso, spaventoso mitragliamento e fucileria; e pensare che fino a quel momento non avevamo subito nessun disturbo; si vede che ci avevano aspettato al varco; le pallottole fischiavano in grande quantità, e ci fu un fuggi fuggi, pure io e Bruno, per spirito di conservazione, cercammo riparo dietro i muletti, ma poi pensai che era necessario impiantare la stazione e, sfidando il pericolo, continuai la salita, raggiunsi l’avvallamento e predisposi la stazione. Dopo qualche minuto venne l’ufficiale d’ordinanza e mi portò un telegramma che chiedeva l’intervento dell’Artiglieria, accesi l’apparato e dissi a Bruno di pedalare, "la stazione in trasmissione era alimentata da un generatore a pedale" ma, con mia sorpresa, vidi che la dinamo non dava corrente, e fu con grande fortuna che, ricordandomi di ciò che mi avevano insegnato al corso; presi due pezzi di filo di rame, li collegai alla batteria a secco e la eccitai; riuscii a farlo in pochissimo tempo; trasmisi il messaggio e fu con grande gioia che, dopo qualche istante, vidi arrivare sulla postazione nemica, i proiettili sparati dai nostri cannoni, che causarono la fuga di tutti quelli che la componevano e l’arresto del loro mitragliamento. Mi fecero trasmettere altri messaggi che chiedevano l’allungamento del tiro e, dopo che il nemico era in fuga partì l’assalto del nostro Battaglione, che, giunto sul posto fece scoppiare una riserva di munizioni, razziò alcuni capi di bestiame, dei quali avevamo estremo bisogno e, per non correre rischio, incominciò subito il ripiegamento. Ormai l’obiettivo prefisso era stato raggiunto, ed ora non ci rimaneva che cercare di tornare a casa con il minor numero di perdite, è naturale che le truppe nemiche c’inseguissero. Io ero rimasto nella mia postazione ed attendevo ordini che non arrivavano mai, e venni a trovarmi tra il fuoco della nostra retroguardia e quello del nemico che ci correva dietro, le pallottole fischiavano sulle nostre teste, mi vedevo in pericolo, così dissi a Bruno: si vede che si sono dimenticati di noi, spiantiamo! Ciò che facemmo, ma appena caricata la stazione sui muletti, ecco giungere l’Ufficiale d’ordinanza con un telegramma da trasmettere all’artiglieria, il quale diceva: "Ore 8,30 tirate su Ghevescià et rotabile" che era la postazione dove ero io, guardai l’orologio e vidi che erano già le 8,10, feci presente all’Ufficiale che rimaneva pochissimo tempo e che avrei corso il rischio di farmi tirare i proiettili addosso, replicò di fare alla svelta e di portargli la conferma dell’avvenuta trasmissione. In tutta fretta reimpiantai la stazione ed, inaspettatamente, mi accorsi che questa volta era il ricevitore a non funzionare, non so se ciò fu causato dalla fretta o dalla vetustà della mia 15 Watt, ma non mi persi di coraggio, dissi a Bruno di pedalare, e lanciai: "Attenzione! attenzione! Mio ricevitore non funziona, trasmetto messaggio; "ore 8,30 tirate su Ghevescià et rotabile", lo ripetei per tre volte e poi spensi tutto. Sempre con premura, ricaricammo il tutto sui muletti, raccolsi il mio fucile, e dissi a Bruno di raccogliere il tascapane dove vi era la rimanenza di quei pochi viveri che ci avevano dato ed alcuni caricatori, e di seguirmi. Non nascondo che la paura che il nemico ci arrivasse addosso era tanta, ed anche per questo mi precipitai di corsa per la discesa. Raggiunta la rotabile mi avvicinai al Colonnello Liuzzo, che era in compagnia dell’Ufficiale d’ordinanza, e fu proprio in quel momento che partì il primo colpo di Artiglieria, l’ufficiale guardò l’orologio ed esclamò: "che puntualità!" Erano le ore 8,30 precise. A quest’affermazione il Colonnello andò sulle furie, dicendo che l’ufficiale non aveva capito nulla, difatti, era successo che quando aveva dettato il telegramma, aveva detto: "Tra mezz’ora tirate su Ghevescià et rotabile", ma intendeva dire mezz’ora dopo l’avvenuta trasmissione del telegramma stesso, in questo modo avremmo avuto il tempo di allontanarci dalla zona che doveva essere colpita, ma l’ufficiale, alla parola "tra mezz’ora" guardò l’orologio, erano le otto, e scrisse ore 8,30, poi impiegò circa 10 minuti per venire da me; quindi, il telegramma fu trasmesso alle 8,15. In questo modo il

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cannoneggiamento fu anticipato di un quarto d’ora. I proiettili, per fortuna, cadevano tra la colonna che era sulla strada ed i fiancheggiatori. Ero esterrefatto e molto preoccupato, perché mi sembrava che la colpa fosse mia; anche se, a testimonianza della mia incolpevolezza, conservavo l’originale del telegramma. Intanto Bruno con i muletti mi aveva raggiunto ed io dissi al Colonnello che se voleva avrei potuto impiantare la stazione radio e dare il cessate il fuoco all’artiglieria, ma mi fu risposto di andare avanti per la strada e stare attento; in caso fossero venuti gli aerei nemici a bombardarci, cosa che ci aspettavamo, di mettere in salvo la stazione radio, e mandò un Ufficiale di corsa, a dorso di un muletto, a dire all’artiglieria, che non era distante, di sospendere il fuoco, cosa che, con mio grande sollievo, avvenne dopo qualche minuto, Lungo la strada, prima di raggiungere il reparto di artiglieria, fui sorpassato da una macchina con a bordo l’ufficiale addetto ai collegamenti, che gridando mi disse: "Marino! Ti ho sentito dalla prima nota fino all’ultima, sei stato un campanello", (era questo un gèrgo che si usava nel campo della telegrafia per dire che si trasmetteva senza fare errori), ed aggiunse: "Tieni presente, che se per questa operazione ci saranno delle ricompense, la prima deve essere tua". Dopo poco tempo avvenne la caduta di Gondar e la mia ricompensa se ne andò in fumo. Giunti al reparto d’artiglieria, dissi a Bruno di tirar fuori dal tascapane la rimanenza della farina di ceci, lo zucchero ed il tè per far fuori tutto, tanto il giorno dopo saremmo rientrati alla sede in Amba Devà, ma con sorpresa mi fu detto che per la fretta il tascapane, con le gavette e tutto il resto, era rimasto su Amba Ghevescià dove avevamo impiantata la stazione. Con la fame che avevamo questo non ci voleva. Per fortuna riuscimmo a recuperare qualche pezzo di galletta ed un po’ di tè dai cucinieri, che ci permise di accontentare un po’ lo stomaco. Il giorno dopo intraprendemmo la mulattiera e rientrammo alla sede di Amba Devà. Il 23 ottobre 1941, data memorabile perché, grazie agli sporadici viaggi che faceva l’aereo SM. 79 dall’Italia; dopo quasi un anno di mancate notizie, ricevetti posta dai miei famigliari. Dato il continuo peggioramento della situazione, era subentrata la convinzione che nell’imminente attacco nemico non ci sarebbero state alternative; o morti o prigionieri e, siccome il mio conto in banca aveva raggiunto la cifra di lire 21.000, (per quei tempi era un buon capitale) andai all’Ufficio Postale di Gondar e, facendo vaglia da lire tremila, (non si potevano fare di una somma superiore) inviai tutto a casa, dicendogli di aprire un libretto al portatore e di usarli in caso di bisogno. Il 2 novembre 1941, a pochi giorni dalla nostra capitolazione, a causa della cattiva nutrizione che, come ho detto prima, era costituita di riso con la buccia e, quando si riusciva ad averli, pelle di bue, finocchi selvatici ed orzo abbrustolito; (quest’ultimo, credo, fu il maggiore responsabile di un forte attacco di appendicite con peritonite). Avevo dolori atroci. Ricordo che il mio ascaro, (soldato abissino che era al mio servizio) a modo suo, mi faceva dei massaggi sulla pancia, che subito sembrava mi portassero sollievo, ma, alla lunga, credo che peggiorarono la situazione. Venne l’Ufficiale medico e mi consigliò il ricovero in Ospedale. Dopo la caduta di Uolchefit ci aspettavamo di essere attaccati da un giorno all’altro, e, si era verificato che qualche Ufficiale di complemento, pur non avendone bisogno, per non correre rischi, si era fatto mandare in Ospedale, cosa che causò commenti sfavorevoli da parte degli appartenenti alla guarnigione. Per questo motivo, gli dissi che ero disposto ad espormi a qualsiasi pericolo e che avrei preferito rimanere in prima linea. Dopo sette giorni le mie condizioni andavano verso il peggio, così, venne da me il comandante del fortino, Capitano Fontana, con otto uomini ed una barella. Il medico gli aveva già riferito della mia ferma volontà di non allontanarmi dalla piazzaforte. Mi disse: "Se ti dovesse succedere qualcosa la responsabilità sarebbe mia" e, d’autorità, mi fece caricare sulla barella. Dal luogo dove era sistemata la mia tenda al piazzale, bisognava percorrere una discesa molto ripida e non fu facile per i militari trasportarmi sul sentiero che poi portava sulla strada. Via facendo, i soldati si davano il cambio e, dopo alcune ore di mulattiera, sotto la minaccia di un aereo nemico che solcava il cielo; "si vede che fotografava il suolo per preparare l’offensiva". Ricordo che tutte le volte che passava sulle nostre teste, i militari adagiavano la barella a terra ed andavano a ripararsi dietro qualche grosso sasso. Io rimanevo lì ad osservare l’aereo e mi aspettavo che mi dessero una mitragliata, ma, per fortuna, non fu così. Giunti sulla strada trovammo che era in corso un allarme aereo; di conseguenza, non vi erano automezzi in movimento, l’unico posto dove potevamo trovare riparo era un cunicolo che attraversava la sede stradale, mi ci misero dentro e si ripararono anche gli otto militari. Dopo circa mezz’ora cessò l’incursione aerea ed, il primo mezzo che passò mi ci caricarono sopra e fui trasportato al Reparto Chirurgia dell’Ospedale di Gondar, dove, il chirurgo di servizio mi disse che, a causa del tempo trascorso dal mio attacco di appendicite, non era possibile operarmi, e mi misero due borse di ghiaccio sulla pancia. Poco dopo la mia entrata in Ospedale fu ricoverato un soldato, forse nelle mie stesse condizioni, o peggiori, anche lui si vede che aveva sofferto tanta fame e, malgaro le condizioni in cui si trovava, si ricordò che aveva dimenticato nel camion che

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lo aveva trasportato un sacchetto con granoturco abbrustolito, lo volle vicino a lui perché sperava di poterlo usare ancora, e pensare che, certamente, anche quel granoturco aveva contribuito a ridurlo nelle condizioni in cui si era venuto a trovare. Quando l’avidità di cibo imperversa si fanno anche queste cose. Purtroppo il giorno dopo venne la fine dei suoi giorni ed il sacchetto di granoturco rimase sul suo comodino. Per tutta la notte non riuscii a prendere sonno a causa della febbre alta e forti dolori addominali. Al mattino mi visitò, il primario, Professor Maselli, (ne ricordo il nome) e, quando gli chiesi di operarmi perché i miei dolori erano insopportabili, mi disse: "Non sono un macellaio! Metterti le mani addosso in questo momento, vorrebbe dire mandarti all’altro mondo, dovevi farti ricoverare prima". Rimasi in quelle condizioni per 6 giorni, senza mangiare e senza bere, l’intestino era completamente paralizzato. Poi, per fortuna, il 7° giorno riuscii ad andare in bagno e, da quel momento, sia pure in modo lieve, le mie condizioni incominciarono a migliorare. Dopo una settimana venne a trovarmi il mio aiutante Bruno, al quale dissi di portarmi tutto ciò che avevo lasciato nella mia tenda, compreso le fotografie, molte delle quali mostravano usi e costumi abissini. Il 20 novembre 1941 fui trasferito dalla Chirurgia al Reparto Medicina, dove mi fecero una serie d’iniezioni per mitigare la mia infiammazione intestinale, prima di procedere all’intervento Il 27 novembre 1941 Gondar fu sopraffatta e tutto ciò che avevo rimase in prima linea. Il nemico ci aveva attaccato con carri armati e forze preponderanti, ed a nulla servì la strenua resistenza di un avamposto di Carabinieri a Sella Culquaber, che si fecero sterminare, e dei nostri reparti che, come difesa avevano soltanto le loro armi. le truppe inglesi che entrarono in Gondar, erano composti da soldati di numerose nazionalità; indiani, senegalesi, australiani, neo zelandesi, sudanesi, mercenari abissini ecc….La maggior parte di loro, entrati in città si diedero a scorribande. Mi fu raccontato da militari che si presentavano seminudi in Ospedale che, dietro minaccia delle armi, furono costretti a spogliarsi e dare tutto ciò che avevano agli invasori. Penso che gli Inglesi avessero promesso alle loro truppe di colore, che una volta occupata Gondar, avrebbero avuto 24 ore di carta bianca. Prova ne sia che verso l’ora di mezzogiorno stavano entrando anche in Ospedale, e se non fosse stato perché gli inglesi stessi avevano piazzato un autoblindo su una piazzola antistante l’entrata, sarebbero venuti a saccheggiare anche noi. L’ospedale si trovava a mezza collina ed i Reparti più in basso erano già stati presi d’assalto. Le mie condizioni di salute, grazie al ciclo di punture che mi avevano fatto, erano leggermente migliorate e, siccome davanti al Reparto dove ero ricoverato si era assembrato un folto gruppo di soldati senegalesi, ricordo che erano uomini di statura molto alta, con in mano mazzi di banconote dell’Etiopia da cento, cinquecento e da mille lire, che avevano razziato nei vari uffici e che cercavano oggetti da comprare. Avevo alcune cose, tra le quali la macchina fotografica, che, certamente, mi avrebbero portato via all’entrata nel campo di concentramento, così, mantenendomi la pancia con una mano, andai sul piazzale e riuscii a vendere tutto per una buona somma. Al mio rientro in Reparto mi fu data la triste notizia che dovevo andare in campo di concentramento, ed a nulla servì raccomandarmi al cappellano militare ed alle suore che facevano servizio in Ospedale. Mi rivolsi perfino al Primario dicendogli che nelle condizioni in cui mi trovavo non mi sentivo di affrontare i disagi di un trasferimento e quelli del campo di concentramento. Mi disse: "Ho avuto ordine dagli inglesi di dimettere tutti quelli che si reggono in piedi per far posto ai loro feriti". Penso che se avesse avuto un po’ di coscienza, sarebbe riuscito a far capire a coloro che gli avevano dato quest’ordine, che avevo ancora bisogno di cura ospedaliera, Si vede che gli era più caro tenersi buoni gli inglesi, era il pomeriggio del giorno 30 novembre 1941. Da quel giorno incominciò il periodo più penoso della mia vita, che durò degli anni prima che potessi liberarmi della mia appendicite. Verso sera, a mezzo di due camion, insieme ad altri militari, vi era anche il maresciallo Innocenti che era ricoverato nel mio stesso Reparto, fummo portati nel campo di concentramento provvisorio del Castello Fasilides in Gondar. (vedi foto n° 21) dove vi erano già alcune centinaia di prigionieri. Prima di farci entrare, e prima di perquisirci; ci toglievano tutto ciò che avevamo, compreso gli oggetti personali, invitarono coloro che avevano della moneta di versarla per riaverla poi, alla fine della prigionia. Qualcuno aderì alla richiesta, altri, invece, preferirono ridurla a pezzettini prima di essere sottoposti a perquisizione. Il mio denaro lo misi in fondo al sacchetto col poco corredo che avevo che, per fortuna, passò inosservato. Entrati nel Castello, buttai la mia coperta per terra e, sofferente, mi ci coricai sopra. Era una serata umida ed afosa e per tutta la notte, anche a causa delle non perfette condizioni di salute, non riuscii a prendere sonno. In Ospedale, a parte il vitto che era molto scarso; a causa dello stato in cui mi trovavo, mi davano del brodo e qualche bicchiere di latte, quindi la fame si faceva sempre maggiormente sentire.

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Dato che, dopo l’occupazione di Gondar, erano stati aperti tutti i magazzini e le sussistenze; arrivavano al Castello gruppi di soldati, anch’essi prigionieri, con grossi quantitativi di gallette, scatolette di carne, peperoni in conserva, magari scaduti, e pane raffermo. Ricordo che ero riuscito a procurarmi una federa di cuscino e, grazie ai regali dei nuovi giunti, alcuni di mia conoscenza, riuscii a riempirla più di due terzi, Finalmente avevo qualcosa da mettere sotto i denti, ma, purtroppo, tutte le volte che cercavo di mangiare qualcosa non riuscivo a digerirla, tuttavia, era tanta la fame, (per crederci bisognerebbe provarla) che tra me dicevo: "almeno se crepo ho la pancia piena". Il 2 dicembre, giorno del mio 28° compleanno, di buon mattino, sotto il sole dell’Africa, ci riunirono tutti sul piazzale che si vede nella fotografia, senza dirci quale fosse la nostra destinazione, eravamo circa 200, sorvegliati da militari indiani che non ci permettevano di muoverci. Per mezzo di un megafono annunciarono che erano a disposizione due macchine per il trasporto di eventuali oggetti pesanti; io avevo la sola coperta, il poco corredo e la federa coi viveri che avevo accumulato; quest’ultima era per me la cosa più cara, ebbene, dissi tra me guardando il sacchetto: "tu rimarrai con me a costo di qualsiasi pericolo". (ripeto che, per capire bisognerebbe essere stati sottoposti ad una fame durata per mesi). Nel primo pomeriggio incominciò la marcia. Mi misi il sacchetto sulla spalla e lo reggevo con la mano sinistra, mentre con la destra mi sostenevo la pancia, perché bastava un piccolo avvallamento del manto stradale per causarmi forti dolori, arrancavo, ed a stento riuscivo a stare nella colonna, anche se si andava molto piano. Al calare del sole giungemmo nei pressi del campo d’Aviazione di Azezò, avevamo percorso circa 5 km. L’entrata al campo, dove esisteva una grossa baracca, era protetta da cavalli di frisia, (erano cavalletti a croce con filo di ferro spinato) Ci fecero fare sosta d’avanti all’entrata, non so per quale motivo, prima di darci via libera. Mi misi tra i primi perché pensai che se non fossi riuscito a prendere posto nella baracca avrei dovuto bivaccare fuori all’umidità ed al freddo della notte, che, data l’altitudine alla quale eravamo, si sarebbe fatto sentire, peggiorando ancora di più il mio precario stato di salute. Datoci via libera, dopo avere spostato i cavalli di frisia, feci appello a tutte le mie forze ed entrai tra i primi nella baracca, dove vi era un leggero strato di paglia sul pavimento, che aveva ospitato prigionieri che ci avevano preceduto. Occupai due posti in un angolo, mettendo; su uno la coperta e, sull’altro il mio sacchetto con le vettovaglie; un militare mi chiese con superbia: "Di chi sono questi due posti!" gli risposi: uno è mio e l’atro è del maresciallo Innocenti, una persona anziana che sta per arrivare; (volevo, in questo modo, mostrare al maresciallo Innocenti tutta la mia riconoscenza per essermi venuto incontro fornendomi l’arma che mi era stata rubata) Il militare mi si scagliò contro dicendo: "la camorra è finita!, ormai siamo tutti uguali!, pensa per te ed il maresciallo si aggiusterà!"; risposi: allora bisogna adottare la legge del più forte e, strappandomi i gradi di sergente maggiore che avevo sulla manica della camicia, mi ci buttai addosso e quasi lo rovinavo se non fossero intervenuti altri prigionieri a togliermelo da sotto. Dopo due giorni, era il 4 dicembre del 1941, fummo avvertiti, che per mezzo di una colonna di macchine, ci sarebbe stato il trasferimento a Massaua, coloro che non se la sentivano di viaggiare, previo una visita dell’Ufficiale medico, sarebbero stati trasportati con autoambulanze. Di buon mattino, mi misi in nota e dovetti aspettare qualche ora davanti alla piccola infermeria prima che giungesse il medico. Giunto il mio turno, mi fece stendere su una lettiga e, dopo avermi toccato lievemente la pancia mi disse: "Puoi viaggiare!" Pensai tra me; vorrei che il mio male passasse a te per renderti conto che la tua affermazione non è giusta. Nelle prime ore del pomeriggio, dopo aver preso posto sulle macchine, la colonna di autocarri iniziò la marcia. Fu con grande meraviglia notare che, mentre per il trasferimento avvenuto più di quattro anni prima da Asmara a Gondar eravamo stati costretti a seguire una malagevole pista nel bassopiano, ora, grazie al lavoro ed al sacrificio degli italiani, si poteva viaggiare su una strada che seguiva l’altopiano, perfettamente asfaltata, permettendo di coprire la stessa distanza in un tempo molto inferiore. Dopo poche ore, era già sera, ci fecero fare sosta all’aperto in un campo recintato da ferro spinato, sotto la sorveglianza di truppe indiane; è inutile dire che ci trattavano come un branco di pecore. Il mattino successivo riprendemmo la marcia e nel pomeriggio eravamo già alla periferia d’Asmara, dove risiedevano molti italiani e, siccome sapevano del nostro arrivo e, che a causa dei 7 mesi d’assedio eravamo tutti affamati, ci attendevano nelle curve, dove, per cattiveria, non sempre gli autisti inglesi rallentavano, e ci porgevano cibo da mangiare. Mi è limpido e presente il quadro di quelle latte da 20 litri tagliate a metà con pasta asciutta e forchette, e dei panini ricchi di companatico, cosa che non vedevo da mesi; purtroppo però, a causa del mio male, vedevo che tutti mangiavano con voracità, mentre io mi azzardavo appena ad assaggiare qualcosa. La sera raggiungemmo Massaua, (vedi foto n° 22) dove, il campo d’aviazione era stato adattato a campo di concentramento diviso in parecchi campi; ci fecero entrare in uno di loro e prendemmo alloggio in un hangar, che prima serviva per il ricovero degli aerei. Il mattino successivo fummo adunati e, non so perché

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il caporale inglese addetto al nostro campo, mi diede l’incarico di dirigente del campo stesso, anche se, nel nostro contingente, c’erano dei marescialli, io ero sergente maggiore. Devo precisare che nei campi di concentramento avevamo contatto soltanto con gli ufficiali, cappellano e medico. Tutti gli altri erano tenuti in campi separati. Nel mio campo eravamo circa 200, mentre il numero complessivo era, più o meno intorno ai 10.000. Esisteva già un locale con l’occorrente per cucinare. I viveri che c’erano forniti giornalmente, erano costituiti, in piccole quantità, di farina di granoturco, minuzzaglia di pasta, qualche patata, pochi fagioli, qualche volta poca verdura e scarso condimento. Organizzai una squadra di cucinieri ed una commissione perché controllasse che non ci fossero parzialità per nessuno. Non vi era acqua corrente e, come contenitore per l’acqua da bere, usavano vecchi fusti della benzina, entro i quali, dato il caldo insopportabile, ogni tanto mettevano una stecca di ghiaccio. Il tutto contribuiva a peggiorare i miei disturbi intestinali, ma riuscivo a resistere. Il caporale inglese, una persona anziana della quale non ricordo il nome, si era affezionato a me ed ogni tanto mi portava qualche rasoio a lama, che usavo per radermi, di quelli che sequestravano ai nuovi prigionieri. Il mio mi era stato requisito. Ricordo che me ne capitò uno dal taglio perfetto senza avere bisogno di essere mai affilato. Dopo parecchi giorni formarono un blocco di prigionieri, prendendoli dai diversi campi, che dovevano partire per l’India; chiesi se ne facessi parte anch’io ma il caporale mi disse: "You will stay here with me" (tu rimarrai qui con me.) Ero coadiuvato da alcuni colleghi ed il compito era quello di portare i prigionieri alla conta tutte le mattine, e di assistere alla distribuzione del rancio confezionato con i pochi viveri che c’erano forniti. A causa del mio malanno mi facevo preparare qualcosa di meno pesante, che mangiavo sempre mal volentieri e che non serviva, per nulla, a lenire i miei dolori. Il 31 gennaio 1942, dopo circa due mesi dal mio arrivo Massaua; forse anche a causa dell’acqua ghiacciata e non perfettamente potabile che si beveva, fui ricoverato all’infermeria del campo perché preso da febbre e forti dolori addominali. Era un mattino con cielo plumbeo e piovigginoso, che infondeva nell’animo tanta tristezza. Fui portato in una baracca dove c’èra poca paglia sul pavimento , mi ci buttai sopra e dovetti aspettare delle ore prima che giungesse l’Ufficiale medico. Bisogna specificare che i signori medici erano insigniti di un triangolo che portavano sulla manica sinistra della giacca, il quale, gli permetteva di vivere all’esterno del campo di concentramento, dove venivano soltanto qualche ora, per controllare gli ammalati. Era quasi mezzogiorno quando fui chiamato per essere visitato. Mi furono somministrate delle pastiglie, che non mi portarono nessun miglioramento. Ricordo che, durante le ore notturne, preso da forte dissenteria, ero costretto ad andare in bagno continuamente; dovevo percorrere all’aperto circa 15 metri con l’umidità della notte e, quando tornavo in baracca ero obbligato a ripartire subito perché lo stimolo era continuo. Il mattino successivo fui ancora visitato dal medico e, siccome i dolori si evidenziavano sempre di più, gli chiesi cosa aspettasse per ricoverarmi in Ospedale, mi si scagliò contro, con aria di rimprovero e molto risentito, dicendomi: "Dovreste avere più fiducia dei vostri medici!" (Ne avevo avuto le prove in precedenza!) Intanto, a causa della forte diarrea ero costretto ad applicarmi, come pannolone, una delle panciere di flanella che, a quell’epoca, facevano parte del corredo militare, e che dovevo sostituire molto spesso. Anche qui mi raccomandai al cappellano militare, e non so se fu grazie alla sua intercessione che, il giorno 3 febbraio 1942, per mezzo di un autocarro militare, fui ricoverato all’Ospedale Umberto I di Massaua. Mi sono chiare in memoria le grandi sofferenze che accusai in quel pur breve tragitto, a causa della grave dissenteria che mi causava sempre maggiori disturbi. In Ospedale, dopo un’analisi sommaria, mi dissero che ero affetto da enterocolite. Mi sottoposero ad una serie di punture e, appena ebbi un segno di miglioramento, anche se non ero in condizione di sopportare i disagi del campo di concentramento, mi misero in uscita, era il 27 febbraio del 1942. Ritornai al campo di prigionia, ma le mie condizioni di salute andavano sempre verso il peggio; tanto che, il 22 marzo 1942, dopo circa un mese, in seguito a più accentuati disturbi inte- stinali, fui ancora ricoverato all’- Ospedale Umberto I. Questa volta, finalmente, si accorsero che avevo risentimenti appendicolari e, siccome non erano attrezzati per un eventuale intervento, un pomeriggio fui avvertito che, per mezzo di un’ autoambulanza, sarei stato trasferito all’Ospedale di Decamerè, (Dek’emhare in Abissino) a circa 40 km. da Asmara; (vedi foto n° 23) cosa che avvenne il 27 marzo del 1942, ma altro che ambulanza, mi caricarono su un autocarro che, nonostante il caldo

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soffocante, era coperto da telone e pieno zeppo di prigionieri. Eravamo sorvegliati da una sentinella armata e, siccome facevo fatica a respirare, tutte le volte che cercavo di mettere la testa fuori per prendere una boccata d’aria, mi veniva impedito con severe minacce da parte del sorvegliante. Nella serata giungemmo nel nuovo Ospedale e fui ricoverato al Reparto Chirurgia. Il mattino successivo, dopo la visita da parte del medico, mi fu detto che non c’entrava l’appendice ma che ero affetto da malaria, e mi trasferirono al Reparto Medicina. (sembra una barzelletta, eppure le cose andarono perfettamente così; mi è limpido il ricordo). Mi sottoposero ad una lunga serie d’iniezioni e, non so se per il beneficio di queste o per la diversità del vitto, molto più leggero; ci davano minestrine ed un quarto di pollo al giorno; dopo 40 giorni incominciavo a sentire un lieve miglioramento, ma avevo sempre, sia pure più leggero, il fastidio dalla parte dell’appendice. Inaspettatamente, il capo reparto, dottor Agrillo (ne ricordo il nome) mi fece chiamare da un infermiere e, quando fui al suo cospetto, mi disse che era costretto a mettermi in uscita perché gli inglesi gli avevano detto che, dovendo arrivare un loro convoglio di ammalati dal Sudan, bisognava liberare più posti possibili. Gli dissi: signor Tenente, era questo il suo grado, ho sempre il fastidio all’appendice ed ho paura di affrontare i disagi del campo di concentramento; mi rispose che la mia era ormai un’idea fissa. Replicai: se è cosi, perché non mi fa sottoporre ad una radiografia in modo che possa tranquillizzarmi? "Sai com’è, replicò, qui non abbiamo attrezzature, dovrei mandarti all’Ospedale inglese di May Habar (vedi foto n° 23) e la pratica sarebbe troppo complessa. Vai al campo di concentramento ed ai primi sintomi ti fai ancora ricoverare". Il giorno 7 maggio 1942 fui internato nel campo di concentramento di Decamere ed alloggiato in un capannone dove c’erano circa 200 uomini. Il dormitorio, per fortuna, era costituito da letti a castello con il solo telo e senza materasso; era sempre meglio che dormire per terra. Dopo 5 giorni e, precisamente, nella notte tra il 12 ed il 13 maggio 1942, forse anche a causa della cattiva alimentazione, che, come il solito, era costituita da fagioli quasi crudi ed un miscuglio di farina di granoturco con minuzzaglia di pasta; fui preso ancora da forti dolori addominali, che mi costringevano ad una lamentela continua, tanto da tenere svegli, per tutta la notte, anche coloro che erano nelle mie vicinanze. Al mattino venne l’Ufficiale medico, al quale esposi tutto quanto mi era accaduto in precedenza, parlandogli anche del mio ultimo ricovero, dove mi avevano curato per malaria. Affermò che anche per lui non si trattava di appendicite, mi diede delle pastiglie e mi disse di temporeggiare per vedere se i dolori fossero passati. Conscio di quanto mi aveva detto il Professor Maselli al mio primo ricovero, non volevo correre il rischio che col passare del tempo non avrebbero potuto operarmi. Gli chiesi di ricoverarmi subito, al che rispose che non era il caso. Ricordo che in quel triste mattino ero assistito da alcuni amici, ai quali, alla presenza del medico, dissi: Avete sentito cosa ha detto questo signore!! Ero ossessionato. Ebbene, prendete nota e se mi dovesse succedere qualcosa lo riferirete al rientro in Italia. Il medico non mostrò nessuna reazione e se n’andò. Si vede, però, che aveva riflettuto su quanto da me espresso e ne parlò ad un Capitano medico Inglese, il quale, all’imbrunire, venne con la sua macchina e mi portò in Ospedale. Dovetti constatare, che per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, il Capitano inglese si dimostrò molto più comprensivo ed umano dei nostri medici e, se oggi sono qui a raccontare queste cose, il merito, forse, è anche suo. Fui ricoverato d’urgenza al Reparto chirurgia e, mentre mi lamentavo per i dolori che non mi davano tregua, vennero a visitarmi tutti i medici addetti al Reparto, erano in 4 o 5, compreso il Direttore dell’Ospedale stesso (che, purtroppo, non ricordo il nome). Dopo aver controllato il mio stato di salute, si allontanarono di pochi metri e, tra loro si scambiavano le idee, riuscivo a sentire tutto e, tra le altre cose ascoltai che il Direttore diceva: "Ma non lo vedete, quello è un simulatore, fu messo fuori da questo Ospedale soltanto una settimana fa ed ora si è fatto ancora ricoverare perché qui mangia un quarto di pollo al giorno, mentre al campo di concentramento gli danno polenta con minuzzaglia di pasta". Dopo pochi minuti se n’andarono. Per tutta la notte non riuscii a prendere sonno, a causa della febbre alta e dei dolori addominali che divenivano sempre più insopportabili. Di buon mattino mi si avvicinò il Tenente medico Parancandole, un napoletano; del quale ricordo bene il nome, responsabile del Reparto. Mi chiese come andava ed io, naturalmente, gli risposi che i dolori erano intollerabili e che non ce la facevo a resistere. A questa mia affermazione si mise a gridare in modo molto agitato dicendo: "Quale simulatore, quest’uomo ha bisogno di essere operato d’urgenza!" è, rivolgendosi ad un infermiere gli disse, "lei mi prepari l’ammalato!" poi si rivolse ad un sergente, anche lui infermiere e gli ordinò di preparare la sala operatoria. Dopo poco più di mezz’ora ero già sulla lettiga, nell’antisala chirurgica e, mentre l’anestesista mi poggiava una gabbia di filo di ferro sul viso per addormentarmi, vidi al mio capezzale il Dottore Agrillo che, forse preso da scrupolo per avermi mandato, malgrado le mie condizioni di salute, nel campo di concentramento, era venuto a portarmi conforto. Gli dissi: vede signor Tenente, Lei mi aveva detto che la mia era un’idea fissa, ora andrò in sala operatoria e non so se

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ne uscirò vivo. Mi disse, fatti coraggio, vedrai che tutto andrà bene. Poi l’addetto all’anestesia incominciò a rovesciare l’etere sulla garza messa a posta sulla maschera e mi addormentai. L’ospedale non disponeva di apparecchiature adatte per narcotizzare, ed a me fu praticata mettendomi del ferro intrecciato sul viso con sopra uno strato di garza, dove veniva versato etere etilico puro. Rimasi in sala operatoria forse più di un’ora. Quando mi svegliai, ero sul mio lettino e notai che la ferita era semiaperta con dentro un drenaggio di garza. Ricordo che tutte le mattine il Dottor Parascandole veniva e, causandomi dolori orribili, mi riapriva la ferita per fare uscire il marciume che era ancora nella pancia. Rimasi in quelle condizioni, senza scendere dal letto per molti giorni, con scarsissima assistenza da parte degli infermieri e nutrito con qualche scodella di brodo e fleboclisi. Avevo bisogno di essere pulito tutti giorni, cosa che mi era fatta da un vecchietto che mi si era affezionato. Ancora oggi, pur non ricordandomi il nome, nel cuor mio vi è per lui tanta riconoscenza. Mi è vivo in memoria ed il quadro mi è presente, di quel mattino, quando, dopo 39 giorni dall’operazione, riuscii a mettere i piedi a terra per la prima volta e, poggiandomi alle spalliere dei letti che si trovavano sul tragitto, andai in bagno, dove a stento, riuscii a fare i miei bisogni. Al ritorno incontrai il Dottor Parascandole, il quale mi disse: "Bravo Marino! Finalmente sei riuscito a scendere dal letto, ma non illuderti perché l’appendice ce l’hai ancora". Ero tanto contento e credevo di essere sulla via della guarigione e, l’inaspettata brutta notizia, mi portò tanto sconforto. Riuscii ad avere copia della relazione fatta dai medici dopo l’intervento. Ne trascrivo il contenuto: "Narcosi generale eterea. La parte parietale destra all’apertura della cavità addominale fuoriusciva di piccola quantità di liquido siero febrino purulento. Depositi febrinosi sul cieco e del peritoneo della fossa eliaca destra. Il cieco lomenta e l’ultimo tratto dell’ileo sono congloblati in minima massa fortemente ipereneica edematosi. Tali elementi sono altresì uniti da formazioni collettivali dovuti a processo periappendicolare di antica data. Non è possibile per le condizioni anatomiche suddette procedere ad un isolamento dei vari elementi della regione, né si ritiene opportuno distruggere le basse formazioni aderenziali recenti per evitare la diffusione del processo peritonico. Chiusura parziale del peritoneo. Drenaggio di garza nel punto più declive della fossa eliaca. Sutura del piano muscoloso eponevrotico. Drenaggio nel sottocutanea. Sutura della cute in seta ed agraffes. Decamere, 15 maggio 1942 Dottori: Maggiore Rosa e Tenente Parascandole. La ferita non accennava a rimarginarsi ed ancora per molto tempo fui sottoposto a medicazioni continue. Finalmente, dopo circa 3 mesi dall’operazione, si cicatrizzò, ma, purtroppo, si era rimarginata tenendo unita soltanto la pelle superficiale, mentre la parte muscolosa era staccata, tanto che bastava un colpo di tosse o un piccolo sforzo perché mi si gonfiasse, come un pallone, l’addome dalla parte della ferita stessa. Col passare dei giorni, nonostante il malanno che mi era rimasto, l’appendice non mi dava più fastidio e, ritenendomi guarito, dopo più di 4 mesi di degenza fui messo in uscita e riportato nel campo di prigionia di Decamere, era il 17 settembre 1942. A Decamere trovai un ambiente malvagio e, nel breve periodo che ci rimasi ne vidi di tutti i colori. Gli inglesi avevano fatto l’errore di internare, insiemi ai prigionieri, tutti i detenuti politici. Si era costituita una squadra punitiva di uomini molto forzuti con a capo un maresciallo di Aviazione e, tutte le volte che si veniva a sapere di una vittoria da parte delle truppe dell’Asse, la squadra stessa si muniva di patate a fette messe a bagno nella nafta o nelle orine ed obbligava gli antifascisti a mangiarle, al primo rifiuto erano botte. Ad Asmara, poco distante dal campo, gli inglesi, ogni tanto, facevano delle retate e mettevano insieme con noi i nuovi catturati. Ricordo che all’arrivo di uno di questi gruppi, si venne a sapere che alcuni di loro erano stati spie a favore degli inglesi. Il giorno successivo, dopo fatti gli accertamenti della loro colpevolezza, furono assaliti dalla squadra punitiva e, se non intervenivano gli inglesi, sarebbero stati tutti massacrati. Alcuni di loro furono ricoverati in Ospedale in condizioni malconce. Si trattava di tutte persone giovani che avevano, magari, relazione con ragazze in Asmara, quindi, facevano di tutto per evadere sfidando ogni pericolo. Ricordo di aver assistito alla fuga di uno di loro. Il campo era recintato da doppia fila di ferro spinato con al centro un corridoio, nel quale erano piazzate, su palizzate, all’altezza di 4/5 metri garitte, con sopra una sentinella armata. Ebbene, in un mattino offuscato e piovigginoso, mentre un amico di colui che stava per evadere distraeva la sentinella, l’altro, strisciando sotto il reticolato riuscì ad allontanarsi. Mostrò di avere del fegato perché bastava che la sentinella l’avesse visto per farlo fuori. Un altro episodio che mi viene in mente è quello dell’arrivo di tre artiglieri di quelli che disertarono da Uolchefit per fame e si erano dati agli inglesi, malgrado tutto, gli stessi inglesi, non si sa per quale motivo, li portarono nel campo di concentramento. Furono riconosciuti subito, e la squadra punitiva aveva già preparato il patibolo per impiccarli tutti e tre; ma prima che ciò accadesse lo seppero gli inglesi e vennero a

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prelevarli. Ricordo che per raggiungere l’uscita dovevano percorrere un lungo viale, dove si erano assiepati quasi tutti i prigionieri del campo e, al loro passaggio, anche se scortati da militari inglesi, furono presi da parte di tutti, a sputazzate. Come ho accennato prima, ogni tanto, venivano internati nel campo di Decamere gruppi di prigionieri di giovane età, rastrellati nella vicina Asmara. Era tale il desiderio di evadere da parte di tutti loro, che erano disposti a qualsiasi rischio. Si vociferava che ci sarebbe stata una partenza della quale non si conosceva la destinazione, e siccome, certamente, buona parte di loro avevano la donna in Asmara, non volevano allontanarsene, ed erano disposti a qualsiasi incognita pur di riguadagnare la libertà. Come servizi igienici gli inglesi avevano fatto scavare, un fosso della lunghezza di circa 10 metri, largo circa un metro e profondo intorno ai due metri, con sopra dei ripiani in tavole, dove tutti andavano a fare i nostri bisogni. Lo stesso fosso non era lontano dalla cinta di ferro spinato. Si seppe solo dopo che, un gruppo di questi prigionieri, in segreto, si organizzò per praticare una piccola galleria che, partendo dal fosso stesso, sarebbe dovuta andare a finire al di la dei reticolati, dietro un folto cespuglio. Ci lavoravano, in special modo di notte, col fetore che quasi gli toglieva il respiro é, la terra ricavata con l’avanzare del tunnel la buttavano nel fosso stesso. In questo modo nessuno si era accorto del traffico che stavano facendo. Gli mancavano pochi metri per raggiungere il cespuglio e quindi la libertà; e forse ce l’avrebbero fatta se non gli avessero fatta la spia. Difatti, un pomeriggio arrivò un sottufficiale inglese con parecchi militari ed andarono direttamente sul posto dove scoprirono il malfatto, fecero degli accertamenti, ma per fortuna non riuscirono a trovare i responsabili della tentata evasione. Dopo due o tre giorni uno dei prigionieri si presentò al campo col triangolo sulla manica della giacca, questo, come ho detto prima, permetteva al prigioniero stesso di vivere fuori e di presentarsi soltanto ai controlli. Si venne a sapere che era stato lui il delatore. Entrò in azione la squadra punitiva ed incominciò a caricarlo di botte. Ciò avvenne nella baracca dove dimoravo io. Mi è limpido il ricordo del volo che fece attraverso i vetri di una finestra per sottrarsi al pestaggio, ed andò a collocarsi, seduto per terra, sotto la garitta della sentinella, nell’attesa che gli inglesi andassero a prelevarlo. Vissi in quest’ambiente tumultuoso per più di un mese. Il 27 ottobre 1942, per mezzo di una colonna di macchine fummo trasportati a Massaua, eravamo circa 1000. C’imbarcarono sul piroscafo Indrapoera (olandese) e ci portarono fuori del porto in attesa della partenza. Il mattino dopo, 28 ottobre, ricorrenza della marcia su Roma, per paura di una sommossa, ci trasferirono tutti nella stiva della nave, dove si faceva fatica a respirare a causa del caldo che imperversava nella zona. Si dice che Massaua sia uno dei posti più caldi al mondo. Mi è presente in memoria quel grosso rubinetto che erogava acqua salata, sotto il quale ci buttavamo a turno per trovare un po’ di refrigerio e sollievo. Il 29 ottobre 1942 la nave prese il largo e, navigando l’ultimo tratto del Mar Rosso, il 31 ottobre 1942 giungemmo nel Porto di Aden, nello Yemen meridionale, per i rifornimenti. (vedi foto n° 24) A prima vista sembrava che tutto fosse in festa, perché nell’area del porto stesso facevano mostra di se centinaia di giganti palloni frenati, mi sembrava di trovarmi in un mondo fantasmagorico, ma altro che festa, gli aerostati servivano per la difesa antiaerea in caso di attacchi a bassa quota. Il giorno dopo la nave riprese a navigare e, dopo aver attraversato il Golfo di Aden, ci immettemmo nell’Oceano Indiano. L’Indrapoera, sulla quale eravamo imbarcati, era una nave armata e, quindi, soggetta ad essere attaccata dai sottomarini nemici in qualsiasi momento; difatti, dopo tre giorni di navigazione ci fu un allarme perché ci si aspettava di essere silurati. Ci fecero andare tutti in coperta e molti furono presi dal panico. Ricordo che alcuni siciliani si raccomandavano a Santa Rosalia. Poi per fortuna, dopo alcune ore, l’allarme cessò ed il giorno 31 ottobre entrammo nel vastissimo Porto di Mombasa in Kenya, (vedi foto n° 25) dove furono sbarcati alcuni prigionieri. Venimmo a sapere, poi, che il piroscafo Nova Scotia, proveniente dallo stesso porto di Massaua; il 28 novembre 1942, esattamente un mese dopo la nostra partenza, con 768 prigionieri e internati italiani, fu affondato dal sommergibile tedesco U 177 al largo di St.Lucia Bay nel Natal; oltre 600 italiani trovarono orribile morte nelle acque infestate dagli squali e i pochi supersiti furono salvati dall’interessamento del comandante del sommergibile tedesco -accortosi con sgomento della vera natura del carico della nave nemica- che provocò l’intervento di una nave portoghese inviata dal vicino Mozambico. I resti mutilati e irriconoscibili di circa 120 persone riposano oggi nel cimitero dei prigionieri di guerra di Hillary, presso Durban. Ci era andata bene! Dopo una sosta di qualche ora si riprese a navigare, ma nessuno sapeva quale fosse la nostra destinazione definitiva. Sempre con la paura di essere attaccati da sottomarini nemici, il viaggio continuò ancora per

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qualche giorno ed il 13 novembre del 1942, dopo 16 giorni di navigazione, di primo mattino, entrammo nel porto di Durban in Sud Africa, allora dominio inglese (vedi foto n° 26) Fummo caricati subito su un trenino a scartamento ridotto e, la sera stessa fummo portati nel campo di concentramento di transito di Pietermaritzburg, (vedi foto n° 26) dove vi erano alcune tende che avevano ospitato altri prigionieri che ci avevano preceduto. Era già quasi sera ed a causa della pioggia che c’èra stata, si camminava nel fango. Sotto le tende c’era soltanto dell’erba bagnata e, non ci restò che buttarci sopra la nostra coperta per riposare. In questo campo ci fecero sostare per circa 20 giorni, facendoci condurre una vita da zingari. Con quello che ci davano da mangiare non si riusciva a togliersi la fame è, poiché il campo non era perfettamente cintato e sorvegliato, alcuni prigionieri, di sera tardi, andavano nel paese vicino e comperavano dei sacchi di zucchero che, una volta portato nel campo lo vendevano, si faceva a gara per averne un gavettino dietro il relativo pagamento. Io, per fortuna, avevo ancora il ricavato della macchina fotografica e di altri effetti personali che ero riuscito a salvare durante la perquisizione alla mia entrata nel campo di concentramento, che mi permettevano di acquistarne a volontà. Ricordo che, per l’occasione, me ne feci una scorpacciata. Il 31 novembre 1942. Ci ricaricarono ancora sul trenino, eravamo circa 1000, e, sempre senza sapere la destinazione ci fu la partenza. Ricordo che durante il viaggio, oltre al bellissimo paesaggio, ogni tanto vedevo dei grossi cumuli di terra e non mi rendevo conto del perché della loro esistenza; venni a sapere, poi, che si trattava di materiale tirato fuori dalle miniere per la ricerca dell’oro. Il Sud Africa, è uno dei paesi più ricchi di risorse minerarie: diamanti, oro, platino, rame, ferro ecc… Il primo dicembre, alle ore 13,20 giungemmo a Zonderwater, (Sonderwater in africaans, che significa) "posto dove c'è l'acqua" nei pressi di Pretoria, (vedi foto n° 27) dove vi era un vastissimo campo con centinaia di tende circolari a cono rovesciato, che ospitava circa 80.000 prigionieri. Mi sembrava di trovarmi in un mondo fiabesco e tutto mi appariva come un miraggio. Come prima cosa ci portarono in un campo, dove c’èrano le attrezzature per la disinfezione. A gruppi di una cinquantina alla volta ci fecero spogliare è, dopo aver messo il vestiario e tutto ciò che avevamo su dei carrelli che, passando in un condotto con vapore a gradi molto elevati, veniva sterilizzato. Noi, nudi com’eravamo, ci facevano entrare in un locale dove c’èrano delle docce. Ricordo che all’entrata c’èra un militare inglese con una stecca di legno in mano che, prendendo del sapone semidenso da una latta, in modo molto rozzo, ce lo sbatteva sulla schiena. All’uscita dal locale docce facevano ritirare ad ognuno il proprio bottino e ci inquadravano. Raggiunto il numero di un centinaio di prigionieri mi fu dato l’incarico di metterli in marcia. Il 2 dicembre 1942, giorno del mio 29° genetliaco, ero in attesa, davanti ai cavalli di frisia per entrare, dopo tante tribolazioni, in quel campo di concentramento dove rimasi più di 4 anni. Una volta nel campo, ci fu portato via buona parte del nostro corredo e ci fornirono giubbetti di colore marrone scuro, con una pezza romboidale d’altro colore cucita sulla schiena, per specificare che eravamo dei prigionieri. Ci attribuirono, inoltre, un numero di matricola; il mio era 304075. Zonderwater era a circa tre km. dagli impianti minerari di Cullinan, sull’alto piano del Transvaal, da dove ci arrivavano i miseri rifornimenti e, dove fu trovato, nel 1905, il diamante più grande conosciuto; pesava 3106 carati prima di essere tagliato; fu offerto al re Edoardo VII dal governo del Transvaal. In seguito furono prodotte 105 gemme del peso complessivo di 1063 carati. La più grande, a forma di goccia, chiamata Stella d’Africa, del peso di 530,2 carati, è il più grande diamante tagliato esistente, ed è ora incastonato nello scettro reale d’Inghilterra. Lo stesso diamante è oggi conosciuto col nome famoso di "Cullinan" il paese dove fu trovato; che è a 43 Km. ad est di Pretoria, (vedi foto n° 27). Il campo di concentramento si trovava in una zona pianeggiante e ovunque si girasse lo sguardo si vedeva soltanto l’orizzonte. Era diviso in 14 blocchi, tutti recintati con doppia fila di ferro spinato, alta circa tre metri, e distanti tra di loro circa 4; al centro, ogni 10-12 metri, era eretta, su palizzate, una cabina con sopra una sentinella di colore. armata. Eravamo sorvegliati 24 ore su 24. Il tutto era perfettamente illuminato da lampade fosforescenti. Ogni blocco, diviso in quattro campi, ospitava 8.000 uomini, ed ogni campo 10 compagnie di 200 uomini. Io fui assegnato al 3° campo e, in data 22 gennaio 1943 mi fu data la direzione della compagnia comando, che comprendeva prigionieri addetti ai vari servizi, mense ufficiali e sottufficiali inglesi, sussistenza, amministrazione ecc…, sempre nell’interno del campo stesso. Il comandante del blocco era il maresciallo d’Artiglieria Palagi, mentre il mio campo era comandato dal maresciallo Fiorillo. Io avevo il grado di sergente maggiore. Come ho detto prima, per dormitori c’èrano tende coniche con un palo di sostegno al centro che ospitavano, 8 uomini in ognuna di esse. Nella mia tenda che si trovava in testa alla fila alloggiavamo in cinque sottufficiali.

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Subito si dormiva per terra; in seguito, col rinvenimento di qualche asse, ci costruimmo una specie di lettino che ci permise di togliere la schiena dall’umidità del terreno. Il mio compito era quello di portare la compagnia alla conta ogni mattina, e di curarne la disciplina. Ci facevano riunire tutti in un grande piazzale e poi in righe di 6, una compagnia alla volta, sfilava in un lungo e largo viale dove vi erano gli inglesi addetti al campo che ci contavano. Per quanto riguardava la disciplina, c’èra l’ordine che, alle ore 7 del mattino, prima di andare alla conta, tutte le tende dovevano avere arrotolata la parte inferiore perché si arieggiassero, cosa che, malgrado tutte le raccomandazioni, non riuscivo ad ottenere, la mia era sempre la prima ad essere in ordine e, quello che mi dava maggior fastidio era, che bastasse la presenza di un caporale inglese perché tutti si dessero da fare. Il giorno 8 dicembre, con immenso piacere, venni a sapere della presenza nel blocco di parecchi paesani, dei quali ricordo alcuni nomi; erano: Il sergente maggiore D’Ambrosio, Del Prete, Ponticelli, Giannotti (che abitava a pochi passi dalla mia casa in Caivano), Peluso, Falco ed altri, coi quali, in seguito, ci incontravamo spesso e ciò rendeva meno penoso il disagio del campo di concentramento. Ogni campo aveva, in un baraccone, la cucina ed il refettorio per la truppa, mentre per i sottufficiali, pur dandoci la stessa razione del soldato, il vitto era confezionato in una mensa a parte, inoltre, da un lato di ognuno di questi baracconi vi era un palco con grandi tendaggi, dove erano rappresentate, dai prigionieri stessi, operette e commedie musicali. Grazie al Welfare (ufficio d’assistenza) si riusciva ad avere vestiti e tutto l’occorrente per dare vita a tali rappresentazioni, da parte di una compagnia bene organizzata da un maresciallo. Ne esisteva una in ogni campo. Molti prigionieri che interpretavano parti femminili lo facevano tanto bene che, a volte, gli stessi inglesi, che venivano ad assistere agli spettacoli, non credevano si trattasse di elementi del campo di concentramento, ed andavano ad ispezionare dietro le quinte per convincersene. Ricordo che c’èra un sergente di nome Giordano, che, con una voce da soprano, cantava, perfettamente, Opere ed Operette. Le stesse compagnie, eseguivano opere teatrali molto complesse come, il Paese dei Campanelli e Addio Giovinezza di Giuseppe Pietri. La Cena delle beffe di Sem Benelli. La Locandiera di Goldoni, La Principessa della Czarda, La vedova allegra ed altre. Esisteva, inoltre, una banda musicale con molti elementi, diretta dal maresciallo maestro Mineo, la quale, a turno, andava a suonare nei diversi blocchi. Ne facevano parte, tra gli altri, il sergente maggiore D’Ambrosio che aveva il compito di vice capobanda e Del Prete che suonava il trombone, miei compaesani. Anche per la banda, tutti gli strumenti erano forniti dall’ufficio Welfare. In ogni blocco vi era anche un campo sportivo dove si giocava a palla a volo e si disputavano partite di calcio tra le squadre che erano state formate dal Tenente medico Gattamelata, addetto allo sport, che attingeva i giocatori dai diversi blocchi. Si facevano dei veri tornei e, la squadra che andava per la maggiore era quella dei "Diavoli neri". Nei primi giorni la vita trascorreva con monotonia, conta al mattino e, siccome nel perimetro del campo, ad alcuni metri dal filo spinato, esisteva un largo viale; grazie al clima mite notturno, si girava la sera fino a tardi, prima di andare a dormire. Approfittando della conoscenza che avevo col Tenente Gattamelata, perché era stato l’Ufficiale medico della base logistica di Bahir Dar, riuscii a farmi dare un paio di scarpe da ginnastica e, tutte le mattine, tanto per tenere in attività il fisico, andavo a fare alcuni giri di corsa nel campo sportivo, prima di portare la compagnia alla conta. Poi le cose subirono un leggero cambiamento. Erano stati organizzati dei corsi, d’inglese, di matematica, d’italiano e di francese da parte di maestri ed universitari italiani, io mi scrissi, al corso d’inglese che era effettuato da un universitario con a capo un professore, capitano inglese, che ogni tanto veniva a farci fare degli esercizi. Continuai fino alla fine e come risultato riuscii ad ottenere due diplomi, uno per la frequenza di un corso regolare ed uno di perfezionamento; in quest’ultimo ci fecero studiare sintassi e letteratura inglese. A questo proposito ricordo che alcuni amici, dopo il 25 luglio 1943, caduta di Mussolini, e quindi dopo l’armistizio dell’otto settembre, convinti che il nostro rimpatrio fosse avvenuto a breve scadenza, mi incitavano a non proseguire gli studi; io invece continuai, e passarono ancora più di due anni prima di essere liberati. In Zonderwater molti prigionieri si dedicavano ad esercitare, con maestria, tutti i mestieri. Con la collaborazione delle associazioni assistenziali italiane del Sud Africa vennero organizzate alcune mostre-mercato di opere realizzate dai prigionieri nel 3° blocco, dove costruivano di tutto; strumenti musicali, mobili, sculture, dipinti ecc.. ottenendo un vivo successo di pubblico. Con i viveri che ci passavano non si riusciva a togliersi la fame e, siccome dal 1° blocco dove ero internato, molti prigionieri andavano fuori per i vari servizi, riuscivano a procurare alcuni generi, come fagioli, pasta, patate e condimento che, a sua volta, veniva no acquistati da persone che si erano improvvisati cuochi. Vedo

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ancora quei fornelli improvvisati con sopra dei barattoli, riscaldati con i rifiuti di legno raccattato in giro; dove confezionavano della squisita pasta e fagioli; un piatto scarso costava 6 penny e, non sempre se ne aveva la disponibilità. Io, grazie al compito di comandante di compagnia, percepivo poco più di una sterlina il mese, (vedi libretto paga che allego in copia) che si faceva presto a spendere, ed, a volte, mi toccava sentirne soltanto il profumo. Esisteva, inoltre, uno spaccio che vendeva filoni di pane ed altre piccole cose; mezzo filone costava pure 6 penny e non sempre c’èra la possibilità di comprarlo. E’ logico che col passare del tempo la vita del campo divenisse sempre più insopportabile, man- cava tutto e, siccome eravamo tutti di giovane età, si sentiva fortemente la mancanza della donna. Ricordo che era vietato introdurre nel campo, giornali o qualsiasi periodico, e, se giravano delle riviste erano di contrabbando. Ve ne erano di quelle pornografiche, e per averle in visione, pagando l’affitto, non era cosa facile. Forse anche per quest’ultimo motivo, oltre che per trovare la libertà, molti cercavano di evadere. Fu il caso del brigadiere dei carabinieri Muscolino, della mia compagnia, che un giorno mi manifestò l’idea di voler tentare la fuga, e mi pregò di fare in modo di non far notare la sua assenza per qualche giorno; cosa che feci. Mi misi d’accordo con un collega che comandava una delle prime compagnie a sfilare per la conta, poi uno di loro, passando attraverso un orto coltivato dai prigionieri e che era adiacente al piazzale dove ci facevano riunire, si accodava alla mia compagnia per rimpiazzare l’assenza di Muscolino. Riuscii a farlo per alcuni giorni, poi fu scoperto ed io fui portato al cospetto del capitano inglese, comandante del campo, credevo m’infliggessero qualche punizione, -nel campo c’èra perfino una prigione,- per fortuna il Capitano, giustamente, disse al sottufficiale che mi aveva accusato, che la colpa era di quelli addetti alla conta e che il mio comportamento di difendere un mio connazionale era stato giusto. Nonostante tutte le precauzioni prese dalle autorità, circa 700 prigionieri italiani fuggirono da Zonderwater e dagli altri campi di concentramento. Coloro che riuscirono a raggiungere il Monzambico e la libertà furono circa una ventina, ognuno dei quali con una storia straordinaria di coraggio e di pericolo da raccontare al console italiano di Lourenco Marques; la stragrande maggioranza si nascose invece nelle grandi città sudafricane o presso qualche farm (fattoria) di proprietà di famiglie amiche oriunde italiane. Molti, naturalmente, furono presi; altri morirono durante le fughe, spesso uccisi dai fulmini o sbranati dalle belve feroci, nel tentativo di attraversare il parco nazionale Kruger, al confine col Mozambico. Chi veniva riacciuffato vivo veniva condannato a 28 interminabili giorni di rigore nella famigerata D.B. la Detention Barrac, chiamata da noi prigionieri la "casetta rossa". E’ da notare una progressiva diminuzione dei tentativi di fuga a partire dal 1943, a causa dell’andamento del conflitto, e della sostituzione del console italiano in Mozambico sostituito, dopo l’8 settembre, a causa della sua adesione alla RSI (repubblica sociale italiana) con un rappresentante del governo badogliano che tentava di rispedire in Sud Africa i prigionieri evasi. I servizi igienici nel campo di Zonderwater erano più o meno sulla falsa copia di quelli esistenti nel campo di Decamerè con la sola variante che, per i marescialli anziani che avrebbero trovato faticoso reggersi piegati sulle gambe, avevano fatto dei gabinetti a parte con una specie di vaso in lamiera dove trovavano posto a sedere. Per quanto riguardava il lavaggio della biancheria, ognuno provvedeva personalmente, ci davano, ogni tanto, qualche pezzo di sapone. Io mi ero improvvisato un buon lavandaio e riuscivo, sempre, ad indossare biancheria con profumo di fresco bucato. Nel 1943 divenne ormai chiaro alle autorità sudafricane che non si poteva continuare ad essere alloggiati alla meglio nelle tende coniche , che non riparavano certo dal freddo pungente dell’inverno australe e non ci proteggevano dai numerosissimi fulmini che bersagliavano la zona ricca di grandi giacimenti minerali, poli magnetici ideali per le manifestazioni elettriche atmosferiche. Per difendersi dai temporali c’èra l’ordine di ripararsi nel refettorio, sopra il quale era stato montato un parafulmine. Io non mi mossi mai dalla tenda e mi andò bene perché tra i prigionieri periti in Zonderwater, alcuni trovarono la morte colpiti da fulmini. Si decisero a far costruire, gradatamente, dai prigionieri stessi, delle baracche con assi ricavati dalle parti superficiali dei tronchi che, inchiodate l’una contro l’altra, non riparavano dal freddo di più delle tende. Mi fecero spostare con la mia compagnia in una di esse; eravamo all’inizio del 1944. In ogni baracca erano sistemati, questa volta, dei lettini a castello dove trovavano posto circa 200 uomini. Io avevo uno sgabuzzino in un angolo della baracca stessa, e quindi entravano spifferi da tutte le parti. Ricordo che nei primi giorni dello spostamento ci furono degli acquazzoni e del freddo intenso, che mi causarono febbre alta e costipazione che mi durò per parecchio tempo. Dopo pochi giorni dal nostro spostamento in baracca mi accadde un fatto strano. Ero riuscito a salvare, nelle varie perquisizioni, una specie di cicalino ricavato da un interruttore di minima delle macchine, ed un tasto;

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mi ero fatto portare, da un militare che andava a servire alla mensa inglese, una pila e, collegando il tutto, la levetta, sollecitata dal passaggio della corrente nell’avvolgimento, oscillava emettendo un suono simile a segnali radio. Un mattino, mentre mi divertivo a trasmettere in alfabeto Morse, un caporale sudafricano, piuttosto anziano, al sentire quei segnali si affacciò al finestrino, che era aperto, e mi chiese: "Tu parlare Italy?" (forse sapevano dell’esistenza di una radio clandestina che era stata costruita nel campo per poter seguire le notizie dal mondo esterno e che non erano mai riusciti a scovarla). Il caporale, ignorante in materia, credeva d’averla scoperta. Gli risposi che il mio era un giocattolo e non una radio; mi diede l’impressione di essersene convinto, ma dopo alcuni minuti ritornò in compagnia di due sottufficiali inglesi, anche loro all’oscuro della materia. Mi sequestrarono il tutto e mi portarono nella prigione del blocco. Ci rimasi per parecchi giorni. Ricordo che il maresciallo Palagi, comandante italiano del blocco, mi venne a trovare e, anche lui non pratico, mi disse che lo avevo messo nei pasticci. Ero convinto che mi avessero portato alla casetta rossa, dove inglesi, senza scrupolo, ne facevano fare di tutti i colori. Si diceva, ad esempio, che per tutto il giorno, sotto la minaccia di una frusta, facevano portare, con una carriola, la terra ricavata da una buca in un'altra ed il contrario, sempre di corsa, poi, quando si era inzuppati di sudore, sempre di corsa, facevano andare sotto la doccia fredda ed anche li bisognava trotterellare. Per fortuna, dopo che il capitano inglese aveva fatto esaminare il mio cicalino, mi fece portare al suo cospetto. Mi è presente il sistema usato per portarmi da lui. Eravamo in 4 persone in fila, davanti c’èra il sottufficiale ed il caporale che mi avevano accusato, poi c’èro io e dietro di me il maresciallo Palagi. Era tanta la paura che mi facesse trasferire alla Detention Barack; invece mi disse di aver fatto analizzare il mio cicalino da persone esperte, che gli avevano detto non si trattava di una radio, e precisò: "te lo restituisco, ma devi promettere di non fare cose più avanzate." Per la corrispondenza ci davano, ogni tanto, un foglio di carta speciale che dopo scritto si consegnava aperto. Le poche lettere che si ricevevano, penso si possono contare sulle dita delle due mani in tutti i quattro anni di permanenza in Zonderwater, erano tutte censurate. Mi ero messo in corrispondenza anche con dei miei cugini e zii d’America, e da loro la posta impiegava un po’ meno tempo. Lo facevo volentieri perché mi esercitavo a scrivere in inglese e, siccome avevo incertezza per il mio avvenire, pensavo di aprirmi la strada per andare in America. Ricordo che lo zio Pasqualino, in ogni lettera mi chiedeva se avessi avuto bisogno di qualche cosa. Pensavo tra me; perché me lo chiede, non sa che qui mi manca tutto? E, per decoro, non gli chiesi mai nulla. Mi resi conto del suo comportamento soltanto quando venni a sapere che ai prigionieri internati in America non mancava nulla, perché avevano un trattamento molto diverso dal nostro. Per tutto il periodo delle vittorie dell’Asse, e cioè fino alla fine del 1942-inizio 1943, il morale di noi prigionieri rimase piuttosto alto, ci basavamo sulla speranza di un rapido successo dell’Asse, che avrebbe portato immancabilmente, si pensava, ad una nostra sollecita liberazione e al rimpatrio trionfale. Col passare dei mesi, e degli anni, la speranza si affievolì, fino ad arrivare al fatale 25 luglio 1943, quando la caduta di Mussolini e lo scioglimento del partito fascista in Italia ci gettò nella più profonda incertezza e confusione. Il successivo armistizio dell’8 settembre, insieme al cambiamento di fronte effettuato dal governo Badoglio, con la dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre 1943, provocò in tutti noi una gravissima crisi morale. Per molti un intero mondo era crollato di schianto. Gli inglesi che, fino al 25 luglio 1943, ci tennero al buio di qualsiasi notizia. Se si riusciva a sapere qualche cosa era grazie alla famosa "radio fante"; (che voleva dire ricevere notizie passate da un prigioniero all’altro). Dopo la caduta di Mussolini, impiantarono grossi diffusori al centro d’ogni blocco che diffondevano tutti i giornali radio, portando, in tutti, sempre maggiore sconforto. Anche il trattamento, nei riguardi del vitto, già scarso, subì un netto peggioramento. Molti prigionieri, sia per lo stato in cui si viveva che per la mancanza di sostentamento, perdevano il lume dell’intelletto ed andavano a finire allo steccato, (era una baracca dove venivano portati gli alienati mentali). Lo chiamavano steccato perché la baracca era circondata da pareti di legno molto alte per evitare la fuga dei poveri malcapitati. Ricordo che nella nostra mensa c’èra un sergente dei bersaglieri di nome Arcuri, un bel ragazzo, molto giovane, si era fissato che gli mettevano della polverina nel mangiare, e non ci fu verso di fargli assaporare il sia pure misero vitto che ci passavano. Dopo qualche giorno vennero gli inglesi con la camionetta e lo portarono allo steccato. Con la firma dell’armistizio e col passare dalla parte degli alleati portò in tutti noi la convinzione che il rimpatrio, e quindi la liberazione non fosse lontana. Altro che rimpatrio, passarono ancora degli anni prima che ciò si avverasse.

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Data l’età dei giovani prigionieri ben pochi avevano qualche ricordo del precedente regime liberal-democratico. Tuttavia, con il propagarsi nel campo di tendenze antifasciste, dovute anche alla manifesta superiorità militare e logistica delle forze alleate, vennero ben presto a formarsi due opposti schieramenti, che si fronteggiarono non solo dialetticamente; alcuni, come gli appartenenti ai reparti di Camicie Nere o semplicemente coloro che ritenevano di non dover "voltare gabbana" come si diceva, costasse quello che costasse – si disposero a rifiutare ogni collaborazione con le forze alleate, mentre altri – qualche antifascista, molti desiderosi di uscire dal filo spinato dopo anni di reclusione, tantissimi demoralizzati e delusi nella loro fede dagli avvenimenti politico-militari –finirono per sottomettersi agli inglesi. Ben presto le tensioni politico-ideologiche, aggravate dalla forzata convivenza in uno spazio ristretto, portarono a scontri tra gruppi di opposte tendenze, che spinsero il comando del campo a separare le fazioni rivali, trasferendo i "fascisti" detti anche "non-cooperatori" in un unico recinto, che all’inizio fu il 5° blocco, definito "dei politici", Poi trasferiti al 7° blocco e quindi al 10°. Erano in due, tremila rimasti fedeli al loro giuramento, La grande maggioranza degli internati, tuttavia, tra i quali il sottoscritto, finì con l’assumere una posizione accomodante e di compromesso nei riguardi delle autorità già nemiche, facendosi forti in qualche caso della nuova posizione assunta dal "governo del Sud" monarco-badogliano e dei partiti del comitato liberazione nazionale in Italia. Ci fecero sottoscrivere, alla presenza di un testimone, la seguente dichiarazione, (vedi fotocopia) " In conseguenza dell’armistizio concluso tra le Nazioni Alleate e la Germania, IO DICHIARO di voler lavorare secondo gli ordini e per conto delle Nazioni alleate ed assisterle con tutti i miei mezzi nella prosecuzione della guerra contro il nemico comune: LA GERMANIA. IO MI IMPEGNO a non abusare della confidenza e della fiducia in me riposte, e a non violare alcuna delle condizioni sotto le quali i privilegi speciali che la seguente dichiarazione comporta sono stati a me concessi. IO MI IMPEGNO ad eseguire tutti gli ordini e ad uniformarmi a tutti i regolamenti promulgati dalle Autorità Militari, ben sapendo che mancando a tali doveri perderò il diritto ai miei privilegi," Con la firma della dichiarazione si sperava di beneficiare di un sollecito rimpatrio, ed era questo il motivo per il quale la maggior parte degli internati la sottoscrisse, ma altro che rimpatrio. Per me erano ormai trascorsi più di tre anni dal giorno della cattura; prima del rimpatrio, ne trascorsero ancora due. La vita nel campo trascorreva nella più triste monotonia. Tutte le mattine un po’ di ginnastica individuale, poi la conta. Il corso d’inglese mi teneva impegnato fino alle 11,30. Mensa a mezzogiorno e sera dove, con gli scarsi viveri non si riusciva mai a togliersi la fame. Mi viene in mente che una sera ci diedero, cosa particolare, dell’uva appassita che, una volta cotta non fu gradita da alcuni dei miei colleghi e, siccome ne era rimasta una discreta quantità, ne mangiai parecchia oltre la mia razione, una volta nello stomaco incominciò a fermentare causandomi dolori atroci; credevo di morire. Il pomeriggio lo dedicavo in parte allo svolgimento dei compiti, mentre nelle ore libere, insieme al mio amico e collega Mantoan Pietro c’eravamo costruito una specie di racchetta, ci eravamo procurato una pallina, e giocavamo ad una specie di tennis. Ogni tanto si andava ad assistere a delle opere teatrali rappresentate con bravura dalla costituita compagnia del campo. Il 30 novembre 1944, in seguito a visita medica, fui ricoverato all’Ospedale del campo di concentramento e operato di verruca palpare inferiore occhio destro, pratica sanitaria n° 31209. Durante la degenza, che si protrasse fino al 20 dicembre 1944, conobbi il collega Pezzullo di Frattamaggiore, infermiere, che era stato tenuto a cresima dal Professore Brancaccio, primario del reparto chirurgia. Poiché l’appendice, pur non avendomi dato altri fastidi, esisteva ancora, ed anche perché dopo l’intervento, la ferita si era rimarginata solo superficialmente, bastava un piccolo sforzo o un colpo di tosse per provocare la dilatazione dell’addome; mi raccomandai a lui dicendogli che mi sarebbe dispiaciuto rientrare in Italia in quelle condizioni e, giacché mi trovavo già in Ospedale, di chiedere al Professore se poteva operarmi. Mi fu detto che per ordine degli inglesi, dovevano essere operati soltanto casi urgenti. Mi fece eseguire, comunque, una radioscopia, in seguito alla quale mi fu comunicato che l’appendice c’èra ancora e che avrebbe potuto darmi, o non, dei problemi, ma che la cosa più preoccupante era la mancata resistenza agli sforzi della parete addominale. Mi rivolsi ancora a Pezzullo perché mi facesse parlare col Professor Brancaccio. Cosa che avvenne, ma, alla mia insistenza di essere operato ribadì che era impossibile, perché l’ordine dato dagli inglesi era categorico, e mi disse: "rientra al campo di concentramento, poi, ad un mio avvertimento ti presenterai all’infermeria, verrà l’autoambulanza a prelevarti e, quando sarai qui ti farò portare direttamente in sala chirurgica e ti opererò". Il giorno 20 dicembre fui dimesso e ritornai al campo dove ripresi la guida della compagnia comando. Dopo due mesi avevo ormai perduto ogni speranza, ma ecco che, in un tardo pomeriggio, venne ad avvertirmi un infermiere perché mi presentassi in infermeria per il ricovero. Era il 19 febbraio del 1945. Presi con me il sacchetto con la biancheria ed il necessario per la pulizia personale, e mi presentai con aspetto piuttosto ilare

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e sportivo. Ricordo che in quelle ore pomeridiane, calde e piene di sole, indossavo un pantaloncino bianco confezionato con delle panciere di flanella. Il Dottor Gattamelata, che era li ad aspettarmi, e che sapeva del piano organizzato dal Professor Brancaccio, mi si scagliò contro dicendomi: "Ma sei matto? In questo modo, oltre a correre il rischio di non essere ricoverato, metterai me ed il Professore nei pasticci; perciò, ritorna in baracca, indossa un paio di pantaloni lunghi ed il pastrano e poi ti presenterai qui dolorante per un attacco d’appendicite acuta." Cosa che feci. Fu quella l’unica volta in vita mia che per raggiungere un giusto risultato, dovetti fingere. Mi fecero stendere sulla lettiga. Dopo alcuni minuti giunse l’ambulanza, della quale facevano parte, oltre l’autista, due militari inglesi. Rammento che erano venuti ad accompagnarmi i miei carissimi amici e colleghi Vecchio Vincenzo e Mantoan Pietro, quest’ultimo, un veneto di carattere molto allegro, nel trasferirmi sulla barella dell’ambulanza, con tono scherzoso mi disse: "Disgraziato, stai meglio di me e mi tocca farti da barelliere", quasi mi veniva da ridere ed avrei corso il rischio di fare scoprire la trama che si stava ordendo se non avessi avuto sulla faccia un asciugamano, dietro il quale continuavo coi miei finti lamenti. Giungemmo all’Ospedale che era quasi notte. Mi portarono in una specie di pronto soccorso costituito da una piccola baracca, dove vi erano due infermieri italiani, mi fecero sdraiare sulla lettiga e, dopo qualche minuto giunse il medico di guardia; mi visitò e disse ai due militari di portarmi al reparto chirurgia, che era distante una cinquantina di metri. Alla richiesta da parte dei soldati se dovevano trasferirmi in barella o portami a piedi, il medico rispose: "Portatelo pure a piedi, vedrete che ce la farà"(mi venne da pensare che anche lui fosse a conoscenza del piano organizzato dal Professore Brancaccio). Fui preso sotto braccio dai due infermieri è, continuando a lamentarmi, fingevo di fare fatica a camminare. Dopo aver percorso una ventina di metri, uno degli infermieri mi chiese: "Lei non è, per caso, il sergente maggiore Marino?" ed alla mia risposta affermativa enunciò: "Allora può fare a meno di fingere, noi sappiamo tutto." Mi portarono in un baraccone, pieno zeppo di ammalati ed io occupai il solo lettino libero. Il quadro di quella prima notte mi è limpido davanti agli occhi. Faceva molto caldo ed essendo costretti a tenere le finestre aperte, si dava via libera all’entrata di ogni tipo d’ insetto. Per l’intera nottata, forse perché ero l’ultimo arrivato, attiravo su di me una grande quantità di zanzare e non riuscii a chiudere occhio. Pensavo che il passo più difficile fosse stato fatto e mi aspettavo di essere sottoposto ad intervento, come mi aveva promesso il Professore Brancaccio, subito dopo il ricovero, ma non fu così. I giorni passavano uno dopo l’atro nell’ansiosa attesa che ciò sarebbe avvenuto, invece il Professor Brancaccio, ormai, non pensava più a me perché aveva un suo obiettivo da raggiungere, quello del rimpatrio. Difatti, dopo essersi fatto riconoscere ammalato grave, insieme con altri infermi, fu mandato in Italia. Con la sua partenza, sempre grazie all’interessamento del collega Pezzullo, si era preso l’incarico di operarmi il Dottor De Luca, suo assistente, ma col passare dei giorni, il De Luca seguì la stessa via di Brancaccio ed io, sconsolato, rimasi in balia delle onde. Non sapevo più a quale Santo raccomandarmi, ed il pensiero che mi rimandassero al campo, senza aver provveduto all’intervento, diveniva sempre più preoccupante. Poi, per fortuna, conobbi un caporale maggiore infermiere; del quale non ricordo il nome, che era a diretto contatto col Professore Cimino, un siciliano, docente universitario, anche lui chirurgo che aveva preso il posto di Brancaccio. Ebbene, fu grazie a questo caporale maggiore che, finalmente, il giorno 10 aprile del 1945, dopo circa due mesi dal mio ricovero, fui portato nell’antisala operatoria dove mi fecero la preparazione per l’intervento. Mi è chiaro in memoria il luogo e ricordo perfettamente che, mentre ero in attesa, seppi che in sala operatoria c’èra un Capitano chirurgo inglese che faceva pratica sui prigionieri e, siccome mi avevano detto che non era persona capace, dissi fra me; se accenna a mettermi le mani addosso, rifiuto di farmi operare e mi do alla fuga. Lascio immaginare con quale stato d’animo entrai in sala chirurgica. Poi, per fortuna, notai che mentre io entravo lui uscì. Il Professor Cimino mi chiese se me la sentivo di sottopormi all’intervento previa anestesia locale, gli dissi di si, ma, in special modo, quando suturava i diversi strati del muscolo addominale, sentivo dolori terribili, tanto che, più di una volta, fui minacciato che se non stavo fermo mi avrebbe fatto fare l’anestesia totale. Dopo più di un’ora, ad intervento terminato, il Professore mi chiese se preferivo essere trasportato nel padiglione degli ultimi operati o in quello dei convalescenti, optai per la seconda opportunità perché sapevo di trovare un ambiente più sereno. Purtroppo, dopo qualche ora, fui preso da fortissimi dolori alla schiena; pregai il mio vicino di letto di avvertire l’infermiere perché mi desse qualche calmante, cosa che non avvenne per trascuratezza dell’infermiere stesso e, siccome il dolore non mi dava tregua, lo feci avvertire ancora. Nel momento in cui, il mio vicino lo informò della mia insistenza perché facesse qualcosa, gli rispose: "Lascia che muore" queste parole mi risuonano ancora nelle orecchie. Quando, finalmente, mi fu portata una borsa

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d’acqua calda, dopo avermela messa sotto la schiena, il dolore, come per incanto, si affievolì fino a scomparire. In quel momento sentii, più che mai, la lontananza della famiglia convinto che, la presenza di uno di loro mi avrebbe, certamente, portato conforto ed evitata l’atroce sofferenza; ed ebbi una crisi di pianto. Il 20 aprile 1945, non perfettamente guarito, fui rimandato in campo di concentramento dove, per qualche tempo ero costretto a recarmi all’infermeria del campo per la medicazione. (vedi cartellino che mi fu gentilmente procurato dal bravo caporale maggiore infermiere prima di essere dimesso). Col passare dei giorni maturava sempre di più la convinzione che fosse incominciato il rimpatrio, invece passarono ancora lunghi mesi prima che ciò si realizzasse. Nel campo di concentramento esisteva un ufficio di collocamento dei prigionieri di guerra (employment office) diretto dagli inglesi, comandati da un Capitano, ma portato avanti da una squadra di prigionieri, con a capo un sottufficiale italiano. Il compito di questa squadra era quello di girare per i vari blocchi per prendere nota di coloro che desideravano andare fuori a lavorare; una volta compilato gli elenchi con la specificazione del loro mestiere, gli stessi venivano tenuti in evidenza e, quando venivano i farmers, (proprietari di fattorie) o altri, a chiedere, l’affidamento di uno o più prigionieri, specificandone il mestiere, si mandavano a prendere, per una camionetta e, dopo che il datore di lavoro aveva sottoscritto un contratto dove si impegnava a sottostare a certe regole, gli si consegnavano gli operai richiesti. Le richieste di coloro che desideravano andare fuori a lavorare erano di gran lunga superiori a quelle dei datori di lavoro e, anche se una volta fuori dal campo si era trattati sempre da prigionieri, per molti, togliersi dai sacrifici e dalle privazioni del campo di concentramento e trovare un po’ di libertà era una pro- spettiva seducente ed avreb- bero fatto qualsiasi sacrificio pur di realizzare la loro speranza. Per quanto mi riguarda, per decoro personale, non avevo mai pensato ad uscire dal campo di concentramento. Siccome il maresciallo di marina Schiavolini che era a capo di quest’ufficio, si era trovato anche lui un posto di lavoro, mi chiese se ero disposto a sostituirlo; accettai e per un certo periodo svolsi la mansione di capo ufficio. Il mio compito era quello che, una volta ricevuto l’ordine dal sottufficiale inglese, sceglievo i nomi dall’elenco e li mandavo a prendere nei diversi blocchi, quando gli aspiranti erano pronti e dopo aver fatto compilare i contratti comunicavo che i prigionieri e tutto era pronto per la consegna. Il datore di lavoro firmava il documento e portava via i prigionieri. Sono felice al pensare che, grazie a questo mio compito, ebbi l’opportunità di agevolare alcuni paesani, tra i quali Falco che poi rimase per sempre in Sud Africa, dove, all’epoca, la vita offriva migliori prospettive che in Italia. Dopo qualche mese, finalmente, gli inglesi dettero il via ai primi rimpatri seguendo l’ordine di cattura, eravamo nel primo trimestre del 1946 e, siccome pensavo che continuando a svolgere il compito che mi era stato assegnato avrebbe ritardato in qualche modo il mio rientro in Italia; approfittando del rientro del maresciallo Schiavolini perché non soddisfatto del lavoro che si era trovato, scrissi una lettera di dimissioni, in inglese, al Capitano, direttore dell’ufficio, e lasciai il posto al mio predecessore. Rientrato al campo m’illudevo che presto sarebbe giunto il mio turno per il rimpatrio, invece le cose procedevano a rilento, e trascorsero ancora mesi di smaniosa attesa prima che giungesse il giorno tanto agognato. Con la partenza dei primi fortunati, tutte le attività erano state abbandonate ed il dover oziare per intere giornate, senza alcun interesse, rendeva la vita sempre più triste. Furono quelli i giorni più malinconici della mia lunga prigionia. Il giorno 24 luglio 1946 fui trasferito dal 1° al 3° blocco per rimpatrio ma il giorno in cui ciò si attuasse era ancora lontano, e le giornate continuavano a trascorrere in enorme disperazione. Poi, finalmente, il mattino del giorno 8 novembre del 1946 dopo averci riuniti tutti in un piazzale, eravamo circa 800, incominciarono a perquisirci uno per uno. Siccome si diceva che in Italia, in conseguenza della guerra, regnava un’enorme miseria, privandomi magari di mezzo filoncino di pane, e dando fondo a tutti i miei risparmi, avevo comprato da un prigioniero che andava nella vicina Cullinan a lavorare un’intera pelle di cuoio con la quale mi ero fatto costruire una valigia; pensando che potesse servire per fare suole di scarpe, lo avevano fatto anche altri. Era tanta la paura che me la portassero via, ma per fortuna, anche se requisivano molte cose, me la lasciarono". Nel pomeriggio dello stesso giorno, per mezzo del trenino, ci trasferirono al campo di transito di Pietermaritzburg, (vedi foto n° 28) ma l’ansiosa attesa della partenza definitiva doveva continuare ancora. Eravamo malamente accampati, anche il vitto era sempre più scarso e tutto ci obbligava a trascorrere le giornate nel più desolato malumore. Poi, il mattino del giorno 8 dicembre 1946, dopo un mese di ulteriori,

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atroci sofferenze, ci trasferirono al porto di Durban, ci imbarcarono su una nave, che non ricordo il nome, ed alle ore 12 del giorno successivo ci fu la partenza. Pensare che, finalmente, dopo lunghi anni di angosce e privazioni si era sulla via del ritorno a casa, appariva come un sogno irreale ma, la gioia di riabbracciare i miei cari era velata da tristezza, perché pensavo che a causa della guerra perduta sarei andato ancora incontro ad una situazione affatto incoraggiante; nonostante tutto, mi ritenevo più fortunato di coloro che, a causa delle atroci sofferenze del campo di concentramento, perirono in prigionia. A Zonderwater esiste un cimitero denominato "I TRE ARCHI", del quale darò ampia descrizione in seguito. Il giorno 14 facemmo sosta a Mombasa, ed alle ore 6, del giorno successivo, la nave riprese a navigare. Le giornate trascorrevano interminabili e nella più squallida disperazione, anche per la scarsità del vitto che ci davano. Ricordo che esso era costituito da una tazza di tè e latte che sembrava acqua sporca e di una pagnottella fatta non so con quale tipo di farina perché se si metteva nel palmo della mano e si stringeva si riduceva al volume di un uovo. A questo proposito, dall’interprete ufficiale, facemmo riferire al Comandante della nave che se avesse continuato a trattarci in quel modo avrebbe sbarcato a Napoli delle larve e non degli esseri umani. Dopo averci fatti radunare sul ponte della nave, ci disse di non illuderci perché in Italia non avremmo trovato una situazione migliore. Prospettiva che andava a velare ancora di più la gioia riguardante il rimpatrio che albergava nel cuore. Per fortuna, grazie ad un compaesano, del quale non ricordo il nome, che, essendo sarto, faceva dei lavori di cucito per gli inglesi in cambio di cioccolato, ogni tanto me ne dava un pezzettino che mi tirava un po’ su il morale. Il giorno 23 dicembre del 1946, alle ore 9,30 giungemmo a Suez (vedi foto n° 29) dove facemmo sosta in attesa di percorrere il canale. Il 24 dicembre alle 3,30 del mattino arrivammo a Porto Said da dove ripartimmo alle ore 13,30. Ci immettemmo nel mare Mediterraneo; ancora pochi giorni e poi la vita libera sarebbe stata una realtà, ma l’incognita della situazione che avrei trovata a causa della guerra perduta continuava ad imperare nel cuore, offuscando la gaiezza dell’imminente libertà. A proposito del cimitero dei prigionieri di guerra di Zonderwater; mi piace descriverne le sue caratteristi- che. Grazie alla mia qualifica di radioamatore avuta nell’anno 1980, durante uno dei miei collegamenti, in alfabeto morse, del 13 agosto 1987, m’imbattei con un amico del Sud Africa col nominativo di "ZS6LEN" di nome LEN GREYLING; mi disse che mi stava tras- mettendo da Pretoria, a poca distanza da Zonderwater e, siccome gli parlai della mia lunga prigionia e del "TRE ARCHI", mi rispose che la sua abitazione non era lontana dal cimitero. Approfittai dell’occasione e gli chiesi se, per cortesia, sarebbe stato disposto a portare, per mio conto, un fiore sull’altare del cimitero stesso. Me lo promise e, a conferma della parola data, dopo poco tempo mi mandò una completa documentazione fotografica. Allego alcune fotografie. Nella n°30 è ritratto il mio gentile collega LEN. Nella 31 è fotografata la moglie a testimonianza della deposizione dei fiori, alcune strelizie. Nella 32 i famosi "TRE ARCHI". Nella 33 la disposizione delle tombe nel cimitero. La 34 indica la via per il cimitero, e nella 35 l’elenco della decima fila, non ho accluso le fotografie delle altre file; l’amico Len le aveva fotografate tutte. Il 27 dicembre del 1946 giungemmo a Napoli, ma non so per quale motivo ci fecero sostare fuori dal porto, obbligando i miei cari che, con la speranza del mio ritorno erano già venuti a Napoli all’arrivo di ogni nave di prigionieri, a dormire al freddo della notte sul molo, anche se, non avevano la certezza che su quella nave ci fossi anch’ io. Il giorno successivo, 28 dicembre, di buon mattino, entrammo nel porto. Finalmente, dopo tanto peregrinare e dopo 5 anni un mese ed un giorno di prigionia la libertà era a portata di mano. Nell’attesa che predisponessero lo sca- landrone per lo sbarco, ero sul ponte della nave a scrutare tra la folla per vedere se sulla banchina ci fossero i miei famigliari. Devo precisare che, a causa della grande sofferenza dovuta ai lunghi anni di imprigionamento, le mie condizioni di salute erano molto pre- carie, in special modo per quanto riguardava l’intelletto, ero molto esaurito, e ci vollero lunghi mesi prima che mi ristabilissi. Finalmente, notai tra la folla i miei cari genitori, i miei fratelli Pietro e Pasqualino, le mie sorelle ed un mio zio, sergente dei vigili del fuoco di Napoli che a stento riuscii a riconoscere perché alla mia partenza, avvenuta circa 10 anni prima, indossava una divisa blu, mentre ora ne indossava una di colore cachi, ed i cugini, figli di zio Salvatore, che avevo lasciati bambini e che erano divenuti adulti. Nello scendere dallo scalandrone, il primo ad incontrare fu zio Salvatore, che, non avendomi riconosciuto, "si vede che anche la mia fisionomia col passare degli anni aveva subito un grosso cambiamento"; mi chiese se

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avessi visto il sergente maggiore Marino, gli risposi: sono io!. Mi buttò le braccia al collo e, finalmente, potei abbracciare tutti. La mia cara mamma mi prese sotto braccio; tremavo come una foglia sollecitata dal vento. In sua compagnia c’èra una bellissima, bionda ragazza che, al vederla, vagai nell’immaginazione che me l’avesse portata per farmela conoscere per un eventuale fidanzamento. Forse, anche perché era da anni che non vedevo una donna, ebbi un colpo di fulmine. Poi seppi che era la cugina di primo grado, figlia del mio caro zio Salvatore, fratello di mia mamma, ma era troppo tardi perché me ne ero già innamorato follemente. Col tempo, rendendomi conto che sarebbe stato un errore contrarre un matrimonio tra consanguinei, ed anche per l’ostinato parere contrario dei miei famigliari, in special modo, della mia cara mamma, con dolore, dovetti mettere fine alla mia bella storia d’amore. Fummo avvertiti che al momento si poteva andare a casa e di presentarci, dopo qualche giorno, al campo alloggio di Fuorigrotta, vicino Napoli, dove transitavano tutti coloro che rientravano dalla prigionia per le dovute pratiche del rimpatrio. Per paura di non ritrovare più la mia valigia, che mi era costata tanti sacrifici e che, come tutte le altre, era stata caricata a parte, mi sarebbe piaciuto portarla con me, ma fummo avvertiti che le avremmo trovate al campo alloggio. Montammo tutti sul camion di proprietà di mio fratello Pietro, ma non mi rendevo conto di quanto stava accadendo, ero frastornato. Ricordo che quando imbroccammo il rettifilo, che è una delle strade più larghe di Napoli, avevo l’impressione di trovarmi in una via strettissima e che tutti i palazzi mi cadessero addosso. Ciò era dovuto al fatto che, per anni, la vista si era abituata a spaziare fino all’orizzonte. Giunti a casa ci fu una grande festa, e notai con gioia, che la supposizione di trovare miseria, come si vociferava e come aveva detto anche il comandante della nave, non corrispondeva al vero. Mi sembrava di vivere un sogno bellissimo; finalmente potevo godere dell’affetto e delle cure di tutti i miei cari, cosa che mi era mancata per lunghissimi anni. Tutti, ed in special modo la mia cara sorella Maddalena, che ogni tanto mi portava un uovo fresco di nido, si prodigavano per il miglioramento delle mie precarie condizioni di salute. Il giorno 3 gennaio 1947, insieme al collega e compaesano sergente maggiore Esposito, che era sulla stessa nave, ci recammo al campo alloggio di Fuorigrotta. Come prima cosa andai a ritirare la valigia che, per fortuna recuperai subito; a differenza di molti altri che non riuscirono a trovarla, forse altri prigionieri se ne erano appropriato. Chiamati dalla commissione, fummo sottoposti ad una serie di domande, e ci diedero un foglio da compilare. Ricordo che l’esaurimento era tale da provocarmi un tremolio alle mani e non riuscivo a scrivere; lo feci presente, ma mi fu detto di vergare solo poche righe. Dissi, in poche parole, la vita che avevo condotta nei campi di concentramento, la firmai e la consegnai. Nello stesso campo esisteva anche un Ufficio amministrazione che dava, a tutti i prigionieri, un anticipo sulla liquidazione, che comprendeva gli arretrati dello stipendio di tutti gli anni trascorsi nel campo di concentramento. Con stupore, ebbi l’amara sorpresa che, mentre ai miei colleghi fu elargita una certa somma, a me fu dato la metà di ciò che era stato a loro corrisposto. L’odissea non era finita! Chiesi il perché della diversità di trattamento e mi fu detto che ero in attesa di discriminazione. Sapevo di non aver fatto nulla di male e questa nuova vicenda mi portò enorme scoraggiamento. Mi furono concessi due mesi di licenza di rimpatrio, e, una volta tornato a casa, le affettuose cure da parte dei miei famigliari attenuavano l’amarezza della mia nuova delusione. Per tutto il tempo della mia prigionia i miei avevano esposto vicino all’immagine della Madonna di Campiglione, patrona di Caivano, una mia fotografia perché mi proteggesse e, siccome avevano fatto un voto; a mia insaputa, in un giorno pieno di sole ci recammo tutti in chiesa, compreso alcuni cugini; dove, la mia cara mamma e le mie sorelle Maddalena, Angela, Amalia e Genoveffa, fecero lo "strascino". Si trattava di percorrere, in ginocchio e lentamente, il tragitto dall’entrata della chiesa fino all’Altare facendo brevi, numerose soste per baciare per terra in ringraziamento del mio ritorno. Tale, toccante, dimostrazione d’affetto provocò in me commozione fino alle lacrime. I giorni trascorrevano veloci e con essi le settimane, nell’incertezza della mia vita futura. Mi recavo spesso al Distretto per sapere se ci fossero novità circa l’ ingiusta accusa, ma mi dicevano sempre che non c’era nulla di nuovo e, siccome perdurava la mia incriminazione, il 5 marzo 1947 mi fu dato un mese di proroga. Non mi davo pace perché mi ritenevo accusato ingiustamente. Poi, quando seppi da un mio collega di nome Russo, che gli incaricati del campo di Fuorigrotta avevano avuto ordine di tenere in sospeso tutte le persone di cognome Russo e Marino, mi tranquillizzai un tantino, ma volevo andare a fondo della questione. Seppi che la commissione principale per l’interrogatorio dei prigionieri di guerra si trovava a Lecce, cosi, prima che scadesse il mese di proroga presi il treno per andare a chiedere il perché della mia ingiusta incriminazione. Trovai un collega, il quale, appena sentito il mio nome, con grande sollievo, mi disse che la pratica per la mia discriminazione era stata già inviata al Distretto di Aversa, di recarmi presso quell’ufficio amministrazione, dove avrebbero provveduto all’intera liquidazione. Mi è limpido il ricordo di quel viaggio e della grande

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diversità tra l’andata ed il ritorno. All’andata ero pieno di tristezza, mentre al ritorno il cuore gioiva perché, finalmente, era stata fatta giustizia. Il 9 aprile 1947 fui reimpiegato, preso in forza dal comando Artiglieria di Napoli ed assegnato all’ufficio reclutamento del Distretto Militare di Aversa. Mi ci trovavo molto bene per quanto riguardava il lavoro, ma non per i mezzi di trasporto che, all’epoca, erano molto scarsi. Per raggiungere Aversa, che era distante soltanto 12 km. dalla mia abitazione (vedi foto n° 36) ero costretto a prendere due tram, il primo lo pren- devo a Caivano, poi a Capodichino cambiavo e prendevo quello che mi portava ad Aversa. I tram stessi erano sempre molto affollati, ed il più delle volte non trovavo posto a sedere. Andai avanti per circa tre mesi, poi mi recai al Comando Artiglieria e presentai domanda di trasferimento. Ecco, cosa mi disse, il Maggiore Plazza Francesco, dal quale dipendevo, quando venne a sapere della mia decisione. "Coloro che vorremmo restassero se ne vanno, mentre gli indesiderati fanno di tutto per rimanere". Trascrivo il rapporto informativo che mi fece prima del mio trasferimento. RAPPORTO INFORMATIVO del sergente maggiore Marino Salvatore di Angelo Ho avuto alle mie dipendenze dall’8/4/1947 al 5/7/1947 il sergente maggiore Art. in c.c. Marino Salvatore. Di sana e robusta costituzione fisica, disciplinato, corretto e rispettoso. Il sottufficiale reduce dalla prigionia al rientro in servizio fu assegnato all’Ufficio Reclutamento del Distretto. Sebbene nuovo al lavoro di quest’Ufficio ha dimostrato volontà, intelligenza, assiduità , ed ha cercato di assimilare in buon modo le mansioni e lavoro affidatogli. E’ un sottufficiale serio, attivo, di ottimi sentimenti e da sicuro affidamento negli incarichi che gli vengono affidati. IL CAPO UFFICIO RECLUTAMENTO F/to Magg. Plazza Francesco Aversa, 7 luglio 1947 Concordo col compilatore. Aversa, 11 luglio 1947 IL TEN.COL. COMANDANTE IL DISTRETTO F/to Giuseppe Taliercio Il 14 luglio 1947 fui inviato al Comando Artiglieria di Torino, dove, con meraviglia, trovai il maresciallo Palagi che aveva comandato il 1° blocco di Zonderwater. Manifestai il desiderio di andare al 7° Reggimento Artiglieria di Torino; mi disse che lo stesso era già al completo di sottufficiali e mi consigliò di andare al 1° Reggimento Artiglieria Contraerea in Chieri, nei pressi di Torino, affermando che lo stesso Reggimento sarebbe poi stato trasferito alla Caserma Piave di Albenga che, trovandosi in Liguria, dove c’èra il mare ed un clima mite, sarebbe stato meglio che rimanere a Torino.(vedi foto n° 37) Mi recai a Chieri e, difatti, il 29 agosto il Reggimento si trasferì ad Albenga. Credevo di aver raggiunto la stabilità e che le disavventure fossero finite, ma non era così. Ormai, a causa della guerra perduta e della scomparsa dell’Impero, nello Esercito si era venuta a creare una esuberanza di sottufficiali. Il Ministero Difesa emanò una circolare, la famosa 500, la quale prevedeva che, gradatamente, si doveva procedere allo sfollamento; mi preoccupavo perché pensavo che tra coloro da mandare a casa ci fossi anch’io e passai ancora dei mesi nella più piena preoccupazione. Ricordo che fu incaricata una persona altolocata perché s’interessasse per sapere quale fosse stato il mio destino. Dopo un po’ di tempo, come responso, mi fu detto: "se sono rose fioriranno, se sono spine pungeranno", portando nel mio cuore ancora tanto sconforto. Passarono ancora angosciosi mesi, poi, finalmente, a sfollamento ultimato, con gioia, mi resi conto che ero stato risparmiato. Certamente erano state le mie ottime note caratteristiche a procurarmi tale agevolazione. Continuai la mia carriera. In data 12 dicembre del 1951, con decreto Ministeriale n°1301 fui promosso maresciallo, è, dopo aver girato per diverse caserme. Albenga (SV) presso il 1° Reggimento Artiglieria Contraerei Leggero dal 1° settembre 1947 al 23 agosto 1951. Vercelli (TO) dal 24 agosto 1951 al 30 maggio 1952. Savigliano (TO) presso il Gruppo C.A.L. del 1° Reggimento Artiglieria da Montagna dal 1° luglio 1952 al 31 giugno 1957. Diano Castello (IM) presso il 1° reggimento Artiglieria contraerei pesante dal 1° luglio 1957 al 29 ottobre 1969, quando, per mia decisione, fui inviato in congedo col grado di maresciallo maggiore ed assegnato nella riserva per malattia dipendente da causa di servizio con assegno privilegiato ordinario. Sarei potuto rimanere ancora per cinque anni ma, a causa dei numerosi ed oberanti incarichi che mi erano stati affidati, mi sentivo esaurito e, poiché anche la stessa vita militare non era più quella degli anni precedenti, fui portato a tale decisione.

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L’errore più grosso della mia vita è stato quello di non aver chiesto, al rientro dalla prigionia, la causa di guerra, che mi sarebbe stata, certamente, concessa per i conseguenti disturbi che mi sono rimasti in seguito alla complicata operazione d’appendicite con peritonite. Non posso darmene colpa perché, attratto dai miei doveri, non ci avevo mai pensato. Come si è potuto notare, la mia vita militare, pur avendomi dato, all’inizio, alcune soddisfazioni; in seguito è stata molto travagliata, ricca di sofferenze e privazioni a causa della guerra e della lunga prigionia. Precisamente, cinque anni, un mese ed un giorno, negli anni più belli della vita. Mai più guerre! Malgrado tutto, oggi sono qui, sulla via dei novant’anni, che compirò il 2 dicembre prossimo, a raccontare queste cose. Non è meraviglioso? ============oooooooooo============ Mi è gradito trascrivere qui le mie note caratteristiche, al completo, del primo anno da sergente. Note caratteristiche anno 1936 del sergente Marino Salvatore. 5° Reggimento Artiglieria d’Armata. A) Qualità fisiche: Sano e robusto, molto resistente alle fatiche, ottimo ginnasta. B) Qualità intellettuali: Intelligenza pronta e vivace, buona memoria. C) Qualità morali: Serio, educato, rispettoso e disciplinato, molto energico, sa far- si rispettare e ubbidire. Ha molta attitudine militare. Carattere generoso. D) Contegno in servizio: Ottimo contegno in servizio. E’ un animatore. E’ un sott’ufficiale su cui si può fare sicuro assegnamento in ogni circostanza. Ottimo contegno fuori servizio. E) Grado di coltura generale: Coltura generale buona, coltura militare ottima, si migliora sempre con lo studio e con l’osservazione. F) Grado di coltura militare: Ottimo capo pezzo, specialista per il tiro e per le trasmissioni. G) Rendimento in servizio. Attitudini particolari: Ottimo rendimento in servizio, ha sempre dato generosamente tutto quello che ha potuto. H) Giudizio complessivo del compilatore, classifica: E’ stato un prezioso ausilio per la batteria e lo giudico ottimo sottufficiale d’Artiglieria d’Armata. Riva del Garda, 16/9/1936. Il Com. la Btr Ten. Scozzari Antonino. I) Giudizio complessivo del 1° revisore. Classifica: E’ un animatore, si può affidare qualunque incarico. Sicuri dell’ottima riuscita. Ottimo sottufficiale d’Artiglieria d’armata. Riva del Garda, 16/9/36 Il Com. del Gruppo Ten. Colonnello Montefusco. L) Giudizio complessivo del 2° revisore. Classifica. Ottimo sergente Capo pezzo di Batteria d’Art. d’Armata. Riva del Garda, 22/9/36. Il Com. del Reggimento Ten. Col. Speranzini. C O M U N I CA Z I O N I Il Sergente Marino Salvatore del 5° Regg. Art. d’Armata, in sede di note caratteristi- che per il periodo 16/9/1935 al 16/9/1936 è stato qualificato OTTIMO COMUNICAZIONI PARTICOLARI ENCOMIO O RICHIAMO Ottime doti fisiche morali intellettuali e militari, ottimo Capo pezzo specialista per il tiro e per le trasmissioni. Ha sempre dato generosamente tutto quello che ha potuto. Lo ENCOMIO per l’attività e lo zelo dimostrato e per il rendimento ottenuto. A Riva del Garda, il 31 settembre 1936 IL COMANDANTE DEL REGGIMENTO ( Ten. Colonnello Speranzini) Per presa conoscenza: a Riva del Garda, lì 10 0ttobre 1936 Il Sergente Marino Salvatore Scritto a Diano Marina, nei mesi di marzo e aprile 2003, da Salvatore Marino. P.S. Devo precisare, che il tutto è corrispondente alla vera realtà. Le date le ho ricavate dai miei appunti. Le note caratteristiche dalla cartella personale, che, grazie al servizio prestato al Distretto Militare d’Aversa, mi feci copia, sia di quest’ultima, che del foglio matri-colare.

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Tutto il resto l’ho buttato giù com’è scaturito dalle mie limpide memorie; a parte la descrizione di qualche luogo, per i quali ho fatto ricerca sull’enciclopedia "Encarta" della Microsoft, e, di alcune cartine geografiche che ho copiato dalla stessa enciclopedia.

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Fotografie e documenti relativi a Zonderwater

Hendrik Frederik Prinsloo

Copia del giornale, stampato a cura dei prigionieri POW Pietro Abbenda al lavoro nella stamperia

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POW n. 336162 per lunghi anni i prigionieri di guerra italiani divennero solo dei numeri… dichiarazione di cobelligeranza

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Foto ricordo a Pretoria pochi mesi prima del ritorno in patria Comunicazione dell’avvenuta cattura e cancellazione dall’elenco dei dispersi

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Nave Maloja utilizzata per il rimpatrio dei prigionieri.

Campi di internamento per POW italiani

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I prigionieri italiani in marcia verso i campi di detenzione

Ancora imprecisato , come già detto in precedenza, il numero dei prigionieri italiani periti durante le marce di avvicinamento ai campi di concentramento. La spunta dei prigionieri avveniva solo al centro di spistamento. L’ufficio Inter Arma Caritas del Vaticano o la Croce Rossa Italiana fornivano le notizie relative ai dispersi.

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Altre immagini che descrivono la realtà di Zonderwater.

Le divise dei prigionieri, da notare il rombo nero che serviva per identificarli in caso di fuga.

Oggetti di artigianato realizzati dai POW italiani

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Lettere dei prigionieri a casa

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Altre immagini del campo

Cimitero di Zonderwater

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Altri documenti e fotografie sulle attivita’ del campo di prigionia

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Bibliografia e siti consultati Quando ero a Zonderwater Block.. di Renzo Valliani editore Valliani 1966 Firenze I diavoli di Zonderwater di Carlo Annese editore Sperling & Kupfer 2010 Centomila prigionieri italiani in Sud Africa di Lorenzo Carlesso editore Longo Ravenna 2009 Da El Alamein al Laconia di Gian Paolo Bertelli stampato in proprio Al fronte e in prigionia di Camillo Pavan 2007 Un anno di guerra editrice Novissima Roma 1941 28 Novembre 1942 una tragedia in mare di Tullio Mascellari editore Banno’ 2008 Diario di guerra e di prigionia (1939-1947) di Bruno Bonzi, curato da Enzo Bonzi editore Canova Domenica del Corriere annate 1940-1945 Siti consultati: www.qattara.com Wikpedia www.museofelonica.it/doc/stampa/Sermidiana/ott07.pdf www.nautilaus.com/grb/guerra/lunghizon.htm www.diariodiunprigioniero.it/libro.aspx?idcap=16 www.camillopavan.it/Secondaguerramondiale/testimonianze/Al_fronte_e_in_prigionia/Alcune_pagine/Zonderwater.htm http://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_internamento_di_Zonderwater http://www.francoforleo.co.za/Zonderwater.html http://www.youtube.com/watch?v=ehVQbGQ8I_c http://www.lagazzettadelsudafrica.net/Articoli/2011/maggio/Art_090511_1.html http://www.museodellaguerra.it/inventario_gazzini.pdf http://www.iz0ddd.it/ik0atk.htm la storia raccontata da un reduce classe 1913, Salvatore Marino http://www.panoramio.com/photo/29392492 http://en.wikipedia.org/wiki/Hendrik_Prinsloo http://samilitaryhistory.org/vol011jb.html http://samilitaryhistory.org/vol014lb.html http://www.lagazzettadelsudafrica.net/Articoli/2010/novembre/Art_101110_1.html

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Passo Halfaya nei ricordi del 2° Reggimento Artiglieria Celere “Emanuele Filiberto Testa di Ferro”

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Prefazione Il fatto d’arme di Passo Halfaya fu ridotto da buona parte della storiografia ufficiale anglo tedesca, ad un episodio del secondo conflitto mondiale che vide coinvolte principalmente truppe tedesche ed inglesi. Gli innumerevoli libri scritti in proposito mostrano in copertina quasi sempre immagini di militari tedeschi dell’Afrika korps, dimenticando le forze italiane che al confine libico-egiziano hanno duramente combattuto. Il Generale Giovanni Marciani, nel 1934, tenne a battesimo e fu il primo comandante del Secondo Reggimento Artiglieria Celere “Emanuele Filiberto Testa di Ferro”. Nel ventennale della fondazione del Reggimento (Ottobre 1954), Marciani decise di scrivere con l’assistenza dell’Ufficio Storico dell’ Esercito un libro che tramandasse ai posteri le gesta del Reggimento in terra d’Africa. Nella sua breve esistenza, nemmeno dieci anni, questa unita’ seppe onorare la tradizione delle Volòire, le batterie a Cavallo che videro la luce nel Regno di Sardegna ai primi del 1700. Nel suo libro ormai introvabile, scritto nel 1955 ed edito dalla Tipografia Regionale di Roma, Marciani rende omaggio, semplicemente snocciolando cronologicamente giorno per giorno l’impegno delle nostre truppe a difesa del caposaldo, ai nostri reparti. Purtroppo a distanza di parecchi anni non si sono potuti elencare i Caduti di Passo Halfaya, Sollum, Ridotta Capuzzo degli eventi bellici della fine del 1941 all’inizio del 1942, frettolose furono le sepolture, molte tombe risultarono profanate dai nativi e la qualifica di disperso chiuse tanti fogli matricolari di nostri connazionali. Di seguito ho voluto riproporre un estratto dal libro del Generale Marciani che rimane una delle poche fonti attendibili e documentate di quel periodo.

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Passo Halfaya, sullo sfondo si scorge il profilo della cappella eretta in memoria dei Caduti del 2° Articelere

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Il 2° REGGIMENTO ARTIGLIERIA CELERE MOBILITATO. Agli ordini del col. Grati, il Reggimento partì da. Ferrara il 7 gennaio 1941 cal reparto Comando ed i due soli gruppi motorizzati coi rispettivi reparti munizioni e viveri: II gruppo (ten. col. Mangione) con le batterie 3° (ten. Orlandi) e 4° (cap. Arena). III gruppo (magg. Maturo) con le batterie 5° (cap. Li Puma) e 6° (ten. Bonanni). Il gruppo a cavallo (ten. col. Li Donni) con le batterie 1° (capitano Manca Pinna) e 2° (cap. Bodo), rimase in sede a dispaosizione della 2° Divisione celere “Emanuele Filiberto Testa di Ferro” (generale Pizzolato). ll Reggimento Artiglieria Celere (2°) “ Emanuele Filiberto Testa di Ferro » fu di nuovo su tre gruppi per aver ricevuta a Napoli, organicamente assegnato, un gruppa motorizzato di obici da 100/17 (magg. Pardi) che si chiamò I proveniente dal 1° reggimento artiglieria di C. d’A. in Casale Monferrato, con le batterie 1° (ten. Ga- retti), 2° (cap. Benedetti) e 3° (ten. D’Apretto): il gruppo aveva il trattore L. 37 identico a quello dei gruppi da 75, a pneumatici di dimensioni maggiorate. Conseguentemente il Reggimento modificò la numerazione delle proprie batterie 3° e 5°, chiamandole rispettivamente 5° e 7° e lasciando immutate la 4° e la 6°. ll giorno 11 Gennaio, in convogli distinti, s`imbarcarono il personale ed il materiale. Il 14 il personale sbarcò a Tripoli e fu inviato nella zona di Cascina Fatma, in attesa che giungesse il materiale. Si procedette quindi ad un rapido riordinamento ed al necessario affiatamento col gruppo da 100 di nuova assegnazione. Era in corso la prima controffensiva britannica, che aveva respinte le truppe italiane da Sidi el Barrani fino in Sirtica. A Sirte. — Il 28 gennaio 1941, il 2° Reggimento Artiglieria Celere che dipendeva direttamente dal Comando Superiore Africa Settentrionale (maresciallo Graziani) fu avviato con urgenza verso Bengasi, per costituire nella zona fra Ghemines e Soluch (costa settentrionale della Gran Sirte), insieme con un battaglione carri “M I3”, una colonna celere col compito di puntare su Tobruch, per aggirare le forze nemiche avanzanti, gia arrivate sull’altipiano di Barce avendo i nostri evacuato Derna. Ma, giunto il 30 gennaio nella zona indicata, l’azione aggirante ideata dal Comando Superiere era divenuta impossibile per l’ulteriore avanzata di ingenti forze dell’avversario. Dopo aspri combattimenti, il 31 Gennaio la situazione impose ancora un arretramento di tutto lo schieramento del Gebel cirenaico. La sera del 1° Febbraio fu ordinato al 2° Reggimento Artiglieria Celere di ripiegare rapidamente su Sirte ed apprestarvisi a difesa. Durante la notte ed il mattino successivo i gruppi percorsero ben 515 km. La zona di Sirte non era presidiata da nostre truppe: il Reggimento “ Emanuele Filiberto Testa di Ferro “ ed il nucleo celere del magg. Santamaria (costituite da 15 carri L. 3, una compagnia mitraglieri con 16 armi, 2 batterie da 75 ed alcuni elementi del genio) provvidero ad organizzare la difesa, schierandosi ad arco con raggio di circa 3 km. dall’abitato. Comandante di tutte le forze sul posto era il generale Cotronei. Nel contempo, per ordine urgente del maresciallo Graziani, il Reggimente dovette fornire quattro colonne di autocarri in totale)oed inviarle verse Agheila ed Agedabia (costa meridionale della Gran Sirte) per il trasporto a spola verso ovest, fino a Misurata e Homs, delle truppe che ripiegavano a piedi: durante questo scrvizio, prolungatosi per più giorni, per il quale furono percorsi migliaia di chilometri, una delle sezioni fu accerchiata dal nemico nella zona fra Ghemines e Agedabia e catturata: e con essa il 2° articelere perdette 16 autocarri, 2 ufficiali e 28 artiglieri. La sera del 3 febbraio 1941, il gen. Tellera il quale dirigeva la ritirata della sua 1° Armata, lasciato a Barce il gen. Cona, si trasferì a Bengasi col suo Cornando, donde doveva poi portarsi ad Agedabia con le sue truppe; ma nel pomeriggio del 5 il nemico effettuò il taglio della strada Ghemines -Agedabia, dove i generali Cona, Bergonzoli e Babini, che avevano compiuto prodigi per condurre le truppe giù dal Gebel, combatterono la loro ultima battaglia, nella quale cadde lo stesso gen. Tellera. Il 6 febbraio, il gen. Cotronei cedette il comando del Presidio di Sirte al Comandante del 2" articelere, col. Grati, col compito di mantenere il contatto col nemico, per trattenerlo il piu a lungo possibile, ritardandone Pavanzata con ogni mezzo: di fronte a forze soverchianti che premano, disimpegnarsi ed opporre successive resistenze a cavaliere della strada litoranea. Il giorno 8 Febbraio il nemico giunse ad Agedabia e ad El Agheila. .

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L’11 Febbraio il maresciallo Graziani a sua richiesta tornò in Italia; venne sostituito nel Supercomando delle Forze Arrnate in Africa Settentrionale dal gen. Gariboldi. Il quale, considerata l`imminenza dell’arrivo di truppe germaniche, decise di stabilire nella zona di Sirte la difesa a sbarramento della via per la Tripolitania. “Gli elementi avanzati britannici erano giunti ad Arae Philaenorum, mentre la nostra retroguardia (7 batterie e l’ardita ma minuscola colonna mista Santamaria) era in posizione a Sirte, a cavallo della Balbia “, scrive il gen. Roatta nel suo Iibro 8 milioni di baionette. ll 12 febbraio, modificando le precedenti disposizioni, il Comando Superiore delle Forze Armate in Africa Settentrionale ordinò al presidio di Sirte di prender contatto col nemico e spingere l’esplorazione oltre Gasr Bu Hadi fino ad En Nofilia: resistenza manovrata protratta il più a lungo possibile nell’intento di arrestare l’avanzata nemica e proteggere i campi d’aviazione. Al Presidio stesso furono assegnate in rinforzo due batterie da 20 mm., una da impiegare coi nuclei esploranti e l`altra per la difesa contraerei; erano precisamente la 7° e l`8° batteria da 20 del 2° Reggimento celere rimaste a Ferrara, e giunsero poi il 7 marzo: la 7° si chiamo 9°`. In tale situazione il Reggimento rimase ancora quattro giorni; fù visitato dal Capo di S. M. del R. E. (gen. Roatta) e dal gen. Gariboldi (ed anche dal gen. Rommel, comandante del Corpo tedesco in Africa, di cui i primi scaglioni erano in arrivo), i quali espressero il loro cornpiacimemo approvando il dispositivo di difesa; elogiarono la colonna Santamaria ed il Reggimento “Emanuele Filiberto Testa di Ferro“ per la disciplina e l’a1to spirito riscontrati negli ufliciali e nella truppa. Nel libro postumo di Romrnel Guerra senz’odio si legge: “ La truppa del presidio di Sirte poteva appena raggiungere l’effettivo di un reggimento ed era ben comandata dal col. Grati e dal magg. Santamaria. La nostra unità pin vicina distava da Sirte 300 chilometri e noi consideravarno la situazione con notevole preoccupazione”. Dal I5 al 20 febbraio il Comando italiano concentrò la massa d’arresto nella zona fra Sirte e Buerat, a 400 km. da Tripoli centro di rifornimento : Buerat era un piccolo forte nel deserto, ad ovest di Sirte, con poche baracche. Il X C. d’A. (gen. Barbieri) affluito dalla 5°‘ Armata con le Divisioni “ Brescia “ (gen. Cremascoli) e “Pavia” (gen. Zaglio) insieme con la Divisione corazzata “Ariete “ (gen. Baldassarre) giunta dall’Italia, venne incaricato della difesa ad oltranza delle posizioni di Sirte e della litoranea da Sirte a Gheddaia; contemporaneamente fù organizzata e rinforzata la difesa nel deserto libico. Il settore di Sirte in particolare toccò alla Divisione “Pavia” alla cui dipendenza perciò passarono le truppe gia in posto. Cominciavano intanto, il I4 febbraio, ad arrivare in Tripolitania le truppe del Corpo tedesco in Africa (C.T.A.), trasportatevi a cura della R. Marina: il C.T.A, era inizialmente costituito dalle Divisioni 5° leggera (gen. Streich) e 15° corazzata (gen. von Prittwitz) sotto il comanndo del gen. Romrnel. Dal I6 Febbraio al 6 Aprile gli automezzi del 2° Reggimemo Artiglieria Celere concorsero a molti servizi di trasporto per l`aviazione germanica, per i distaccamenti della Divisione “Pavia” e per i reparti libici nell’interno del deserto, e ne riportarono forte logorarnento del quale risentirono le successive operazioni. Il 1° Marzo, dopo drammatica reesistenza, in completo isolamento, Cufra dovette cedere; ed anche Giarabub (magg. Castagna) il 21 dello stesso mese. SECONDA OFFENSIVA ITALO-TEDESCA Dopo due mesi di durissimi combattimenti in ririrata da Sidi el Barrani, il fronte di battaglia si era dunque spostato sul fondo della Sirtica. Le truppe italiane sono ora schierate a difesa sul confine della Cirenaica con la Tripolitania. Quivi, contro la loro resistenza si è esaurita la prima controffensiva britannica: il nernico e stato fermato ad occidente di El Agheila. Cornpletata l’organizzazione difensiva, a meta marzo 1941 il Supercomando concretò il piano per la riconquista del territorio perduto: teatro d’operazioni: quindi la Cirenaica dal golfo della Gran Sirte a quello di Sollum limitato a sud dalla linea predesertica delle oasi del 29° parallelo, Marada, Augila, Gialo, Giarabub e Siwa. La massa operante era formata da 6 Divisioni italiane e 2 divisioni germaniche. Premessa necessaria era il possesso della linea Marada- Agheila: le due localita, infatti, furono occupate rispettivamente il 14 ed il 24 Marzo con un colpo di mano di reparti tedeschi rinforzati dalla colonna Santamaria e costiruirono base di partenza per l`ulteriore avanzata. ll 1" aprile fu occupata Marsa el Braga; il 2 Agedabia e Zuetina; nella notre sul 4 fu liberata Bengasi dopo 57 giorni di dominio inglese. Un reparto (col. Fabris) spinto avanti dalla Divisione “Ariete“ marciò su Ben Gania, col concorso della colorma Santamaria.

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Il 5, avanzando rapidamente nel sud-bengasino attraverso il Gebel, le truppe italo-tedesche raggiunsero Sceleidima, Zayia Msus, Bir ben Gania, El Abiar, Tocra. Il 6 fu occupata Barce; il 7 fu conquistata Dema, il giorno 8 Mechili. Il 9 una colonna italo-tedesca raggiunse la stretta di Ain el Gazala ed il giomo 11 fu iniziato da sud e da sud - est l’investimento della piazzaforte di Tobruch, mentre altre forze dell’Asse proseguivano verso oriente. Il 12 fu occupata Bardia; il 13 le truppe italo-germaniche sboccarono in territorio egiziano e conquistarono Sollum — 1ooo chilometri da El Agheila —- mentre altre unita completavano l`accerchiamento di Tobruch. Dopo soli 12 giomi dall’inizio dell`offensiva, le forze dell’Asse avevano liberato un territorio che i Britannici, pure formidabilmente appoggiati dalle navi da battaglia e da una potente aviazione e disponendo di numerosi reparti corazzati moderni, avevano conquistato in ben 55 giorni. I primi 700 km., da El Agheila a Derna, furono riconquistati dalle nostre truppe in soli 7 giorni. I1. 2° Articelere a Tobruch. Il 7 Aprile 1941 con dipendenza disciplinare oltrechè tecnica dal Comando Superiore Artiglieria Africa Settentrionale (gen. Benelli) il 2° Rcggimento Artiglieria Celere fu posto alle dirette dipendenze d’impiego del Corpo tedesco in Africa (gen. Rommel), quale propria artiglieria leggera: venne inviato d’urgenza nella zona a sud di Tobruch a partecipare all’investimento della piazzaforte, dove giunse alle ore 18 del giomo 12, percorrendo molti chilometri nel deserto in pieno ghibli. In questa faticosa marcia andarono dispersi alcuni automezzi con ufliciali e truppa. Alle ore I9 dello stesso giorno 12 aprile, il Comandante del Reggimento ricevette gli ordini per lo schieramento e per l’azione del giorno successivo (primo attacco alla cinta fortificata di Tobruch): appoggio alla 5° Divisione leggera tedesca. ll mattino seguente il 1° gruppo da I00/17 e i due (ll e III) da 75/27 si schierarono in posizioni molto avanzate a sud di Cheralla: le operazioni di schieramento e la prima sistemazione delle batterie nelle posizioni furono molto disturbate, con prolungato tiro di artiglieria di piccolo e di medio calibro, dal nemico che, gia organizzato nei fortini ex italiani della difesa della piazzaforte, era in grado di osservare agevolmente i movimenti. Tuttavia fu regolarmente compiuto tutto il necessario, e all’ora stabilita 17 e 30’ tutte le batterie aprirono il fuoco contro gli obiettivi indicati, e pur sotto il tiro violento delle artiglierie nemiche lo continuarono fino alle I9 e 20, quando per la mancata riuscita dell’attacco e per le perdite subite la 5‘ Divisione leggera tedesca verme fatta retrocedere. ll Reggimento “Emanuele Filiberto Testa di Ferro” in questo giorno 13 aprile 1941 ebbe il vero battesimo del fuoco e scrisse la sua prima pagina di valore; sotto l’intenso e preciso tiro nemico durato tutto il pomeriggio ed il giorno successivo, tutti gli artiglieri del Reggimento dettero prova di altissime doti morali. Perdite: 9 morti e 29 feriti dei quali 12 gravi. Dopo questo combattimento il gen. Rommel spostò il 2° articelere nella zona fra Bir Scerif e Gasr el Clecha, pur sempre contro Tobruch, per rinforzare lo schieramento della Divisione corazzata “Ariete”, già provata e decimata ad El Mechili, dove tra l’altro si era sacrificato un suo gruppo d`artiglieria. Lo schieramento delle forze a sud di Tobruch, da Gasr el Clecha a Sidi Cheralla, era costituito soltanto da 2 compagnie cannoni e circa 1 compagnia di carri L. 3, non tutti eflicienti, della Divisione “Ariete”; per cui il 2° articelere dovette contrastare in proprio attacchi di fanterie nemiche in direziorie di Bit Scerif e li respinse col fuoco. Nelle varie azioni della Divisione ” Ariete” dal I5 aprile al 22 maggio tendenti alla rottura della cinta fortificata di Tobruch, gli artiglieri del Reggimento si affermarono nella reputazione dei compagni d’arme per le ripetute prove di capacità e di valore. Ciò è convalidato dal seguente apprezzamento del Comandante della Divisione corazzata “Ariete” (gen. Baldassarre): “ Durante il periodo in cui il 2° articelere ha operato a rinforzo dello schieramento nel settore operativo della "Ariete" sul fronte di Tobruch, esso si è superbarnente condotto, con mirabile rapidità d’interventi ed efficacia di fuoco. Magnifica tempra di artigliere e di Comandante, il col. Grati si è dimostrato in ogni circostanza infaticabilmente valoroso e capace”. La piazzaforte di Tobruch, pur investita da ogni parte, resisteva a ripetuti attacchi tra i quali più poderosi quelli del I4 e del 30 Aprile. I Britannici che tre mesi prima avevano potuto sfondare agevolmente le nostre sottili linee di difesa, si erano poi affrettati durante la loro occupazionc a costruirne ben altre due retrostanti. E appunto contro questa rafforzata organizzazione della piazzaforte premevano ora le nostre truppe d’investimento. Tuttavia proseguiva la ritirata dell’avversario verso l’Egitto. Durante l’occupazione britannica di Tobruch e l’assedio della piazzaforte da parte nostra, rimase ovviamente interrotta la via Balbia; fu percio costruito, da fine giugno a meta agosto 1941, un tronco di raccordo “ la Strada dell’Asse “ seguendo il tracciato delle malagevoli piste preesistenti. Di larghezza da 6 a 8 rnetri e

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sviluppo di circa 70 km., esso costituiva il principale arroccamento della linea d`assedio della piazzaforte, ma era dorninato dall’artiglieria britannica della piazzaforte medesima. A Bardia e a Sollum. Le truppe italo-tedesche, liberata Bardia, continuano ad incalzare il nemico: il 13 Aprile, raggiunte la ridotta Capuzzo e Sollum alta, tutta la Cirenaica e riconquistata, tranne Tobruch e Giarabub. I Britannici tentano più volte di spezzare la difesa italiana sulla linea di confine, per prendere alle spalle gli assedianti di Tobruch (XXI C. d’A.) e sbloccare la piazzaforte: il giorno 8 Maggio riescono a raggiungere Sidi Suleiman e Sidi Omar, ma il giorno seguente la situazione viene ristabilita; pure di assai breve durata rimane il vantaggio conseguito dal nemico il 15 su Sollum e la ridotta Capuzzo. L`evidente intenzione britannica di voler agire energicamente in questo settore indusse il Comando italo-tedesco a rinforzare le posizioni di Bardia, Capuzzo, Sollum e Halfaya. Il 24 maggio 1941 il Comandante dcl 2" Rcggimento Artiglieria Celere ricevette ordine di lasciare il II gruppo con la Divisione “Ariete” schierato a sud di Tobruch e spostarsi d`urgenza coi gruppi I da 100 e III da 75 nella zona Bardia-Sollum vi giunse il mattino del 25 e passò alla dipendenza della 15° Divisione corazzata tedesca (gen. Neumann-Silkow e col. Herff). Il I gruppo vennc schierato immediatamente oltre il confine egiziano, a Musaid; il III gruppo a sud della ridotta Capuzzo. All’aIba del 26 un attacco nemico proveniente da sud-est di Sollum fu respinto dalle forze del battaglione Bach, appoggiate dal fuoco del I gruppo. Durante tale azione una pattuglia d’osservazione e collegamento del gruppo stesso spinta in posizionc avanzata venne ripetutamente fatta segno al tiro di mortai inglesi. Al passo Halfaya ed alla ridotta Capuzzo. Allc ore 15 dello stesso giorno 26 maggio ebbe inizio l’azione “Scorpione“ per la conquista del passo Halfaya: questo passo era di straordinaria importanza, dato che da Sollum si dipartc in direzione sud-est un ciglione che, con strapiombi verso l’Egitto di altcezza fino a 200 metri, è transitabile solo attraverso il passo medesimo e quello di Sollum, entrambi dominati dalle difese del primo. L`azione fu affidata alla 15° Divisione corazzata tedesca, con l’appoggio del 2° articelere (I e III gruppo). L’avanzata si effettò su tre colonne una, frontalc, co- stituita da un battaglione tedesco (magg. Bach), cui fu assegnato per l’appoggio il I gruppo; un’a1tra (ten. col. barone von Wechmar) per l’aggiramento; ed una colonna corazzata (ten. col. Kramer) pure di aggiramento, cui fu assegnato per l’appoggio il III gruppo. Il I gruppo si schierò all`inizio dell’azione su posizioni che gli consentirono il tiro durarnte tutta l’avanzata del battaglione Bach fino al passo Halfaya; occupato il qualce, anche il I gruppo avanzò ce venne a schierarsi sull`altura di q. 194 sovrastante il passo medesimo, in grado di ostacolare ogni eventuale contrattacco nemico e di battere artiglierie avversarie che si svelassero. Il III gruppo, partito a tarda ora del giorno 26 con la colonna Kramer, eseguì con essa un largo aggiramento percorrendo molti chilometri nel deserto. Il mattino del 27 da successivi schieramenti appoggiò l’avanzata della colonna controbattendo i carri nemici che ne ostacolavano la marcia. L’azione di entrambi i gruppi I e III fu molto apprezzata dai comandanti e dalle truppe tedesche della rispettiva colonna. Si distinsero per ardimento le pattuglie del Comando del Reggimento e dei gruppi impiegate audacemente: esse, procedendo sempre coi primi elementi avanzanti, dettero precise e tempestive informazioni sul nemico rendendo rapida l’azione dei comandanti e celere l`intervcnto delle batterie. Dopo l’azione per il possesso del passo Halfaya i gruppi I e III rimasero schierati a difesa del passo medesimo, quattro chilometri a sud · ovest della ridotta Capuzzo, in condizioni di battere le provenienze da est e da ovest. E precisamente il I gruppo obici da 100, al passo Halfaya, fu organizzato in due capisaldi: con le batterie 2° e 3° in quello di q. 190 insieme con una compagnia del 62° reggimento fanteria, rinforzata da un plotone di cannoni controcarro da 47 delI’8° reggimento bersaglieri e con la 1° batteria in quello di Bir Qahal insieme con una compagnia tedesca “Oasi“ (Ie compagnie Oasi erano speciali reparti per l’mpiego nel deserto); 2 sezioni da 20 erano a difesa del gruppo; il reparto munizioni e viveri era nell’uadi Bir Qahal. Il battaglione tedesco Bach fu schierato dalla q.10 della piana costiera alla Madonnina sull’altipiano, presso la quale furono postati 4 pezzi tedeschi Flak da 88. Il cannone tedesco da 88/55 con possibilità di doppio impiego era un pezzo contraerei ad alta velocita, che con proiettili perforanti poteva essere usato con ottimi risultati contro i carri armati; il III gruppo cannoni da 75, per ordine della 15“ Divisione tedesca, fu schierato a sud-ovest di ridotta Capuzzo con le batterie distaccate l’una antistante al1’altra di circa due chilometri, ciascuna

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afiiancata ad intervallo di un chilometro da una batteria da 105 germanica del 3° reggimento. Queste batterie non furono organizzate in capisaldi, ma lasciate isolate: davanti ad esse verso sud, a circa 3 km. dalla batteria più avanzata (la 6°), vi era il caposaldo di q. 206 tenuto da una compagnia tedesca “Oasi” nel quale furono dislocate due pattuglie del III gruppo in collegamento diretto con entrambe le batterie 6° e 7°. Due sezioni da 20 erano una con la 6° batteria e l’altra con la 7°; il reparto munizioni e viveri del gruppo era a nord della ridotta Capuzzo poco distante dal Comando del gruppo medesimo. Il I5 giugno i Britannici sferrarono una poderosa offensiva nel settore Sollum-Halfaya: alle ore 4 e 30' i due osservatorii del III gruppo, dislocati a sud e a sud -ovest di q. 206, segnalarono la presenza di carri armati e di automezzi nemici nei pressi di q.205 e q. 207 in movimento a lungo raggio verso ovest, mantenendosi fuori gittata delle nostre artiglierie. Alle 5 ebbe inizio l`attacco, secondo due principali dlrettrici: una, costiera, da Bug Bug su Halfaya; l’altra, più interna, da Bir Siweyat verso la ridotta Capuzzo. Ancora più a sud una colonna leggera manovrò al largo in direzione di Sidi Omar per avvolgere l`ala destra del nostro schieramento. L’avanzata contemporanea delle tre colorme di carri armati pesanti era appoggiata fra l’altro dal tiro di una batteria da 87,5 in posizione nell’uadi El Shaba. Nel frattempo la fanteria nemica, autotrasportata, si appostava dietro i ruderi del villaggio arabo a circa un chilometro a sud di q. 191. Su richiesta del Comando del battaglione tedesco, il I gruppo del 2° artcelere aprì un violento fuoco di arresto contro i carri nemici avanzanti nella depressione costiera e di controbatteria sulla posizione di El Shaba; una sezione della 3° batteria rinforzò l’azione controcarro della Flak e delle armi controcarro tedesche. Il ternpestivo e preciso fuoco di tutte le armi italiane e tedesche schierate nei capisaldi arrestò l`attacco nemico. Ma alle ore 7 esso fu ripreso con maggiore violenza impiegando una decina di carri armati pesanti seguiti a breve distarnza dalla fanteria gia in precedenza attestata dietro i muretti a sud di q. 191. La 2° batteria del Reggimento con violento fuoco ferrnò dapprima e mise in fuga poi la fanteria inglese avanzante; la Flak coadiuvata dalla 3° batteria sventò l`azione dei carri, che vennero messi quasi tutti fuori combattimento. E così anche il secondo attacco fu respinto senza che un solo elemento nemico riuscisse a raggiungere le posizioni italiane e tcdesche. Alle ore 9 e 30' si iniziò il terzo attacco della giornata sferrato contemporaneamente sull`altipiano con le stesse modalità del secondo e nella depressione costiera con carri armati e fanteria in forze. Anche questo attacco fu respinto dall’energico e pronto intervento delle batterie 2° e 3° del 2° artcelere che fermò le fanterie avanzanti rispettivamente nella depressione costiera e sull’altipiano, mentre la Flak e i pezzi controcarro tedeschi controbattevano i carri nemici e li volgevano in fuga. Le nostre posizioni di Halfaya resistettero saldamente: quel valoroso presidio dette un glorioso esempio dell’importanza che possono assumere nell`economia generale della manovra le estreme resistenze degli “elementi fissi “ di un sistema difensivo, anche quando essi nelle alterne vicende della battaglia restino isolati dalle truppe amiche. In proposito il maresciallo Rommel così si esprime nel libro postumo “Guerra senz’odio”: ”Terminò favorevolmente così la battaglia difensiva presso Sollum durata tre giorni: il punto decisivo di essa era stato il passo Halfaya che il battaglione Bach aveva tenuto lottando accanitamente; qui anche il magg. Pardi del 2" Reggirnento Artiglieria Celere si distinse molto col suo reparto (I gruppo). Grande contributo al successo dettero anche i presidi dei singoli capisaldi del fronte di Sollum, i quali in parte respinsero tutti gli attacchi, in parte fecero il loro dovere fino all’ultimo respiro”. Alle 10 e 30' del I5 giugno 1941 si manifestò l’attacco nemico anche contro le difese di ridotta Capuzzo: una trentina di carri armati, provenienti da ovest lungo i reticolati di confine e celati dalle ondulazioni del terreno, apparve improvvisamente sul fianco destro della 6° batteria del 2° artcelere e della vicina batteria tedesca, le quali aprirono immediatamcnte il fuoco. Ma i carri con manovra aggirante cercavano di paralizzarne l`azione. Per fronteggiare più efficacemente la difficile situazione, gli ufficiali delle batterie si portarono ai pezzi per meglio dirigere e sostenere l`opera dei serventi nel tiro in caccia contro i carri, che si facevano sempre più minacciosi. Una raffica di mitragliatrice colpì a morte il puntatorc del 3° pezzo della 6° batteria: il Comandante di questa ten. i. g. s. Bonanni Giuseppe che gli era dappresso lo sostituì prontarmente di persona, ma una seconda raffica sullo stesso pezzo annientò il suo slancio e privò la 6° batteria del bravo Comandantc, che fulmineamente così aveva incontrato gloriosa morte in pieno combattimento: egli che da cinque anni apparteneva al Reggimento, dove era giunto giovanissimo, era molto amato e stirnato dai suoi artiglieri, i quali al dolore della grave perdita subita seppero reagire, continuando a battersi valorosamentc, malgrado le perdite andassero via via aumentanclo, Anche il sottotenente Guantieri Alessandro e due sergenti caddero falciati da mitragliatrici nemiche ed altri artiglieri furono feriti.

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L`azione semprc più ravvicinata che rendeva più micidiale il fuoco dei carri avversari finì con l’accerchiamcnto completo della 6° batteria che venne così sopraffatta. Una parte del suo personale che si trovava presso i trattori, a qualchc centinaio di metri dai pezzi, riuscì a ripiegare sulla 7° batteria, trasportando alcuni feriti che avviati poi all`ospedale da campo vi decedettero in gran parte per la gravità delle lesioni riportate. Successivamente una seconda colonna corazzata nemica provenientc da q. 207 puntò sul piccolo caposaldo avanzato di q. 206: l’attacco ebbe ben presto ragione delle poche forze di presidio. Quasi tutta la cornpagnia tedesca e gli artiglieri delle due pattuglie del III gruppo del Reggimento furono fatti prigionieri; ma una par- te, approfittando dello scompiglio provocato da un attacco aereo tedesco, riusci a liberarsi e, al comando di un ufficiale germanico, a raggiungere il caposaldo Halfaya. Occupata q. 206, i carri arrnati inglesi puntarono verso nord e, oltrepassati i reticolati, dopo essersi uniti con una parte dei mezzi corazzati che avevano accerchiato la 6“ batteria del 2° articelere e la 1° batteria tedesca, apparvero davanti alle battcrie retrostanti 7° del Reggimento e 2° tedesca. L`efficace tiro delle quali obbligò il nemico a ritirarsi, contemporaneamente contrattaccato dai carri armati germanici provenienti da Capuzzo che tentavano un largo aggiramento da ovest oltre il reticolato di confine. Verso le ore 11 e 30 il nemico organizzatosi su q. 206 con tutte le forze già impiegate nella precedentse azione e con altre giunte di rincalzo, sferrava un secondo attacco su ridotta Capuzzo, a cavallo della pista fra detta quota e Capuzzo. Per la preponderanza di tali forze, cui era facile eseguire un aggiramento, i mezzi corazzati tedeschi furono costretti a ritirarsi: cosi la 2° batteria germanica ripiegava ad ovest verso q. 208 e la 7°del Reggimento, con l’unico pezzo rimastole efficiente, ripiegava anch’essa riprendendo poi posizione piu arretrata nella zona medesima. Ma verso le ore 12 l`ulteriore incalzare del nemico con forze convergenti obbligo all’arretramento tutti gli elementi italiani e tedeschi schierati intorno a ridotta Capuzzo: la quale alle 12 e 30 venne occupata dagli Inglesi. Il Comando tattico del 2° Reggimento Artiglieria Celere (colonnello Grati), i resti del Comando del III gruppo e della 7° batteria e 2 sezioni da 20 arretrarono di circa 6 km. da Capuzzo e unitamente alla 1° batteria del Rcggimento (che per ordine superiore dalla posizione di Qahal accorreva in rinforzo nclla zona di ridotta Capuzzo) si schierarono in difesa ai lati della via Balbia, ed a queste sole forze fino alle ore I5 del 17 giugno rimase qui affidata la resistenza. Intanto all`alba del 16 giugno il nemico riprendeva con maggiori forze di fanteria l’attacco nella zona di passo Halfaya. La 2° e la 3° batteria del Reggimento, malgrado il tiro violento di controbatteria cui l’avversario le sottoponeva coadiuvato dall’aviazione, eseguirono tiri di sbarramento nella depressione costiera e sull`a1tipiano, sventando vari attacchi di fanteria appoggiata da carri armati. Verso le ore 16, batterie nemiche di medio e di grosso calibro, aprirono il fuoco sulle nostre prime linee e sulla 3° batteria del 2" articelere. Per la forte pressione avversaria fu chiesto l`intervento dell`aviazione alle ore 18 giunse una squadriglia di Stukas scortata da Messerschmidt, Ia quale per errore sganciò parecchie bombe sulle nostre posizioni fortunatamente senza arrecare seri danni. All’imbrunire cessarono le azioni di fuoco da ambo le parti. Nei giorni I5 e 16 giugno le batterie del I gruppo da 100 avevano consumato quasi tutte le munizioni di cui disponevano, sparando complessivamente 6.000 colpi. Di fronte ai vantaggi conseguiti dal nernico, il 15 ed il 16 giugno, nella zona di Capuzzo e della rotabile Capuzzo - Bardia, a1l’alba del I7 cominciò il nostro contrattacco, su due colonne, che riuscì ad aggirare le masse avversarie incuneatesi nel nostro schieramento: la co1onna di destra, progredendo da Sidi Omar e Sidi Suleimam, prosegì. su Halfaya dove si collegò con le truppe di quel presidio, le quali per quanto isolate avevano continuato senza perdere terreno a combattere strenuamente contro forze assai superiori; la colonna di sinistra, proveniente da Capuzzo, riuscì anche essa a raggiungere, combattendo, Sidi Suleiman ed a collegarsi con la colonna di destra e col presidio di Halfaya. Così in una sacca a Nord di Sidi Suleiman rimasero chiuse, il 17 notevoli forze nemiche, contro le quali le truppe dell’Asse combatterono una violenta e vittoriosa: battaglia a “fronte rovesciato” con direzione Sud - Nord. Il I gruppo del 2° articelere appoggiè I’azione delle fanterie germaniche battendo colonne di mezzi avversari in marcia verso sud. Il tiro venne particolarmente concentrato sulla pista Graziani ,lungo la quale avanzavano rincalzi nemici, sugli uidian antistanti al passo Halfaya e sui costoni nei pressi deIl’uadi El Shaba dove erano

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artiglierie ed elementi di fanteria avversari. Per l’intera giornata le batterie 2° e 3°, rifornite di munizioni trovate abbandonate nella piana di Sollum, continuarono il fuoco fin quando, verso le ore 18, colonne di mezzi corazzati germanici dalle piste a sud e ad 0vest incalrono il nemico in ritirata. In seguito a questa azione dei carri tedeschi, la ridotta Capuzzo fu evacuata dagli Inglesi e rioccupata dal Comando tattico del 2° Reggimento Artiglieria Celere e dalle batterie 1° e 7°: la 7° batteria al pezzo superstite aveva potuto aggiungerne altri due mod. 1906 che si trovavano per riparazioni all’autofficina del III gruppo. In questi tre giorni di battaglia complessivamente il Reggimento subì le seguenti perdite: 12 morti, dei quali 3 ufficiali (Ten Bonarmi, sottotenente Guantieri, sottoten. Pirocchi); 42 fcriti, dei quali 12 curati e rimasti ai reparti; I5 dispersi (prigionieri). Nei Capisaldi Halfaya e Cirener . — Ncl mese di luglio 1941 il 2" Reggimcnto Artiglieria Celerce ricostituì la 6" batteria, il Comando del III gruppo ed il relativo reparto munizioni e viveri in pare catturati o distrutti dal nemico. Il 7 Luglio, rientrato il II gruppo dal fronte di Tobruch, il Reggimcnto assunse il seguente 1 gruppoz caposaldo Halfaya, con le tre batterie nei pressi di q. 194; . -— III gruppo: caposaldo Halfaya, nella piana costiera; -— II gruppo caposaldo Cirener, nei pressi di q. 207, a 9 km. a sud -0vcest del passo Halfaya. In questo caposaldo, il 16 luglio, la fanteria tedesca fu sostituita da un battaglione della Divisione “Savona” (gen. Maggiani). Il 19 luglio 1941 il Comando Superiore delle Forze Armate in Africa Settentrionale fu assunto dal gen. Bastico; Capo di S. M.e Comandantc dcl C. d`A. di manovra (C.A.M.) il gen. Gambara; Sottocapo di S. M. il gen. Malaguti. Nei mesi di luglio e agosto i gruppi del 2°e articelere eseguirono quasi giornalmente tiri su elementi nemici che tentavano di avvicinarsi ai capisaldi. Inoltre le batterie o loro sezioni, unitamente a mezzi corazzati germanici ed a pezzi da 105 di recupero serviti da artiglieri del I gruppo, compivano frequernti sortite per ostacolare le ricognizioni avversarie ncl deserto. Giornaliere furono le ricognizioni di ufficiali e di pattuglie del Reggimento con elementi tedeschi tendenti a sorvegliare l’attività del nemico. Nel Diario del gen. Cavallero, alla data 2 agosto 1941, è riportato fra l`altro il seguente apprezzamento del gen. Rommel: “Molto bene si sono comportati... ed il col. Grati, comandante del 2° Reggimento Artiglieria Celere che ha sempre cooperato con le truppe tedesche “ Il 15 agosto 1941 si costituì, agli ordini del gen. Rommel, il Panzer Gruppe Afrika (Gruppo corazzato Africa formato dal Corpo tedesco Africa (gen. Cruewell, che nel 1954 sara candidato a Cornandante in Capo del costituendo esercito germanico) e da tutte le truppe motorizzate italo-tedesche operanti in Marmarica. Successivamente, il 22 nevembre, Mussolini ordinò che tutte le truppe della Marmarica fossero agli ordini di Rommel. Il 5 settembre 1941, l’Ispetteore dell’Artiglieria (gen. Fautilli) così scriveva al Comandante (col. Grati) del Reggimento Artiglieria Celere (2°) “Emanuele Filiberto Testa di Ferro “ : “ Col più vivo compiacimento ho appreso come le batterie del vostro Reggimento siano state in ogni circostanza pari alle gloriose tradizioni di valore e di perizia dell’Arma, ed abbiano suscitato l’ammiraziene dei Comandanti delle unità germaniche con le quali hanno cooperato. A voi che avete saputo forgiare così saldi ed agguerriti reparti, agli ufficiali, sottufficiali, artiglieri del vostro bel Reggimento esprimo il mio vivo elogio ed il mio vibrante saluto” . Il 15 settembre il Comando del II gruppo del Reggimento passò dal ten. col. Mangione al cap. Benedetti, gia comandante della 2° batteria nel I gruppo. Nei giorni I4 e I5 Settembre la 21° Divisiene corazzata tedesca ( già 5° leggera), passando fra i capisaldi Halfaya e Cirener, eseguì una puntata offensiva in direzione di Bir El Hamra, spingendosi a 60 km. a sud -est di Sidi el Barrani. Contemporaneamente due pattuglie germaniche puntarono verso Est nella piana costiera in appoggio ad esse le batterie del I e del III gruppe del 2° articelere eseguirono cencentramenti su mezzi corazzati nemici contrastanti. La batteria da 105 costituita dal I gruppo con pezzi di ricupero colpì con tiro preciso alcuni mezzi corazzati avanzanti nella piana costiera presso Alam el Kidad, immobilizzandone uno e mettendo in fuga gli altri, Con una di quest:e pattuglie tedesche procedeva una pattuglia del III gruppo comandata da un ufficiale, la quale per Ia forte reazione avversaria subì gravi perdite: 4 morti e 5 feriti (fra questi ultimi lo stesso comandante, ten. Bedini). Nella situazione del primo Novembre 1941 il 2° Reggimento Artiglieria Celere coi suoi tre gruppi e le due batterie da 20 costituiva tutta l’artiglieria della Divisione di formazione tedesca per compiti speciali (Z.B.V.). Il 17 Novembre il Comando del I gruppo da 1OO/17 (magg. Pardi) e le batterie 1° (ten. Garetti) e 2° (ten.

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Castagna), alla diretta dipendcnza del C.T.A. (gen. Cruewell) passarono nelle forze di investimento della piazza di Tobruch. Fino alla metà di Novembre la situazione generale in Cirenaica rimase pressochè immutata; da ambo le parti si attendeva a consolidare il proprio schieramento: i preparativi italo-tedeschi tendevano agli ordini di Rommel, sono così dislocate: la Divisione Pavia (gen. Franceschini) presso El Adem; il C.A.M. (gen. Piazzoni) con le Divisioni Ariete (gen. Balotta) e Trieste (gen. Azzi) e la 2° Divisione corazzata tedesca (gen. von Ravenstein) nella zona di Bir Hacheim e Bir el Gobi; le Divisioni Brescia (gen. Lombardi) e Trento (gen. Gotti) mantenevano l’accerchiamento della piazzaforte di Tobruch. Le Divisioni Bologna , Brescia , Pavia e Savona avevano ancora le caratteristiche di Divisioni di fanteria binarie metropolitane; arretramento delle forze britanniche riuscite a sfuggire alla manovra accerchiante, mentre i Neozelandesi. passando da Capuzzo sul rovescio dello schieramento italo-tedesco di frontiera, affluivano per la Balbia verso Tobruch (24 Novembre); riordinamento delle forze britanniche (il gen. Ritchie sostituisce il gen. Cunningham), le quali riprendono l`attacco e si congiungono il 26 Novembre con quelle assediate nella piazzaforte, nello stesso tempo in cui Rommel ritenendo gli Inglesi battuti e in ritirata sposta le proprie unità mobili verso la linea di Sollum nelI`intento di effettuare una nuova manovra accerchiante (24, 25 e 26 Novembre); ritorno delle forze di Rommel verso Tobruch, appresa la notizia che i Britannici hanno spezzato la linea d’assedio alla piazzaforte (27 e 28 novembre); tentativo delle unità mobili italo - tedesche, tornate dal fronte di Sollum, di accerchiare le forze britanniche operanti presso Sidi Rezegh, le quali arretrano nuovamenre (29 e 30 Novembre e primo Dicembre); spostamento di una parte delle forze mobili italo-germaniche verso la linea di Sollum, nella supposizione di Rommel che la massa britannica fosse riunita fra Sidi Azeiz e il reticolato di confine (2, 3 e 4 Dicembre); successiva minaccia britannica di aggirare da sud lo schieramento italo - tedesco a Sud e ad Ovest di Tobruch (4 Dicembre): comincia così la seconda fase della controffensiva britannica; virtuale sbloccamento della piazzaforte per un nuovo schieramento di Rommel (5 Dicembre), che tenta con le forze mobili italo-tedesche di parare la minaccia mediante una manovra presso Bir el Gobi (5 -6 Dicembre). ln sostanza si ebbe una serie di manovre e di cornbattimenti accanitissimi che si ripeterorno a brevi intervalli nel quadrilatero marmarico formato da Sollum, Sidi Omar, Bir el Gobi e Tobruch. Senza dubbio questa battaglia superò per durata, movimento, impiego di mezzi corazzati, intensità e persistenza di sforzi, tutte quelle combattutesi in Africa in questa guerra. Le situazioni mutarono rapidamente da una parte e dall’altra di ora in ora; le unita si frammischiarono; i reparti operarono spesso isolati in mezzo al nemico, la lotta si spezzettò in minutissimi episodi. Nei combattimenti intorno alla piazzaforte di Tobruch si distinsero le Divisioni Bologna, Brescia, Pavia e Trento; nella battaglia manovrata al centro del quadrilatero, si distinsero le Divisioni Ariete, Trieste ed altre unità fra cui reparti volontari della Gioventù Italiana del Littorio (G.I.L.). Il sopraggiungere di ingenti rinforzi al nemico indusse il Comando italo- germanico a neutralizzare con la manovra la superiorità numerica avversaria. Il 7 Dicembre si accese il combattimemo lungo tutto lo schieramento italo-tedesco fino a Bir el Gobi. Il gen. Rommel decise di effettuare un arretramento, in modo da guadagnare spazio e tempo per riorganizzarsi fuori della pressione nemica, riducendo la distanza dello schieramento dalla base di Tripoli — dove intanto affluivano personale e mezzi dall’Italia e aumentando per converso la lunghezza delle comunicazioni britanniche. Nei giorni 9 - 11 Dicembre fu effettuato lo sganciamento dal nemico: le truppe dell’Asse riuscirono ad assumere un nuovo schieramento più raccolto ed economico all’altezza della stretta di Ain el Gazala. Quivi la 2° batteria del I gruppo del 2° articelere, completamente accerchiata, resistette 48 ore senza soccorsi, subì gravissime perdite ma non si arrese. Colpito al1'addome, morì il comandante, cap. Guido Castagna, proposto per la medaglia d’oro al valor militare. La situazione impose il 13 Dicembre un ulteriore arretramento ad Agedabia, il quale si concluse l’11 gennaio 1942 con lo schieramento sulla linea Marsa Brega-El Agheila-Marada (dalla quale il 31 Gennaio moverà la nuova offensiva italo- tedesca). Così i Britannici occuparono il I9 Dicembre 1941 Derna; il 20 Berta e Mechili; il 25 Bengasi e Agedabia. Triste sorte del “Reggimento Artiglieria Celere (2°) Emanuele Filiberto Testa di Ferro” Lo schieramento di confine, nella zona Bardia -Sollurn-Halfaya-Sidi Omar, col compito di resistenza ad oltranza per ostacolare i rifornimenti del nemico, rimase affidato a truppe italiane e tedesche (gen. Schmidt) nelle opere della piazzaforte di Bardia, e, ad est di Capuzzo nel settore di Halfaya, nei capisaldi Faltenbacher, Halfaya e Sollum; alla Divisione Savona (gen. De Giorgis), da Sidi Omar a Capuzzo, nei capisaldi Sidi Omar vecchio, Frongia, Cova, D’Avanzo, Cirener e Bir Ghirba (sede del Comando Divisione).

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Queste truppe, per la maggior parte frazionate in una vasta organizzazione di piccoli capisaldi, si coprirono di gloria sostenendo l’urto di forze cinque volte superiori, senza cedere neppure quando ebbero esauriti i viveri e l’acqua; continuarono a combattere mediante i rifornimenti che, affrontando gravi rischi, l’aviazione dell’Asse riusciva a far giungere loro sul terreno stesso della lotta. Dopo che aveva conseguito qualche successo contro il caposaldo Frongia, l’avversario fu arrestato dalla resistenza del caposaldo Cirener, a q. 207 di Gabr el Qahal e lo riconobbe. Infatti, un’intercettazione radio diceva: “Continua violenta la battaglia anche nel caposaldo 207; mezzi corazzati sud-africani non sono riusciti a progredire perche sempre sotto il violento fuoco dell’artiglieria ». Nel caposaldo Cirener era il II gruppo del 2° articelere. L’attivita che gia dalla fine di Settembre il nemico aveva ripreso nel settore Halfaya - Sollum nei primi giorni di Ottobre con bombardamenti navali, e gravi danni ne riporto il III gruppo del 2° articelere, di cui furono colpiti riservette munizioni, trattori ed altri automezzi. Nella notte sul 7 novembre un violento temporale convogliando grande quantita d’acqua negli uidian di Halfaya, sconvolse le posizioni del III gruppo: le batterie invase dal fango dovettero cambiar posizione con grande fatica del personale per il ripristino, fra l’altro, di tutto il munizionamento (più di 10.000 proiettili e relative cariche di lancio). L.’11 novembre il Comando del Reggimento (col. Grati) che era anche Cornando di tutta l’artiglieria sul posto (2° artcelere; un gruppo da 78 e uno da 75 della Piazza di Bardia; due di formazione da 105; una batteria da 120 della R. Marina; una batteria da 155 germanica) ebbe ordine di portarsi nell’uadi Gerfan, presso il Comando della piazza di Bardia. Trasferito, il 17 Novembre, al fronte di Tobruch il I gruppo del 2° articelere con le sole due prime batterie, rimasero nel caposaldo Halfaya il III gruppo ed un gruppo di formazione costituito dalla 3° batteria da 100/17 (ten. D'Apretto) del I gruppo, una batteria da 105/28 (ten. Martella) pure di formazione ed una batteria da 20 (cap. Benigni); e nel caposaldo Cirener il II gruppo. Nella seconda quindicina di novernbre si intensificarono le ricognizioni ed i bombardamenti aerei da parte dei Britannici, che eseguirono anche due bombardameuti navali sulle nostre posizioni dal passo Halfaya al mare. Dal complesso dell’attivita avversaria e dai numerosi segnali indicatori trovati sul terreno dalle nostre pattuglie, si dedusse l`imminenza di un attacco nemico. Durante la notte sul 18 l’artiglieria avversaria eseguì un fortissimo bombardamento sulle posizioni di Halfaya; e alle prime luci dell’alba reparti meccanizzati britannici occuparono Bir Nuli e Bir Siweyat. Il mattino del 22 Novembrc una pattuglia del III gruppo dislocata verso Sollum alta segnalò la presenza di carri armati nemici con autoblindo e camionette presso Capuzzo. Verso le 17 un tentativo avversario di occupare Sollum fu sventato dal pronto e violento fuoco delle batterie del 2" artcelere. All’alba del 23 l’attacco venne rinnovato con maggiori forze: il nemico occupò Sollum alta catturando la pattuglia del III gruppo. Le batterie del III gruppo e del gruppo di formazione che teneva luogo del I gruppo mantenevano sotto il loro tiro Sollum alta valendosi del collegamento con la pattuglia (serg. magg. Attus) del Comando del Reggimento presso il battaglione tedesco del magg. Bach a Sollum bassa. Dopo l’occupazione della posizione dominante di Sollum alta da parte del nemico, il III gruppo nel caposaltlo Halfaya subi gravi danni dall’azione di controbatteria- avversaria. Rimaste cosi tagliate le comunicazioni dirette fra Halfaya e Bardia, venne assegnata al III gruppo la sorveglianza per l’immediata difesa costiera in un tratto di cinque chilometri per Ia protezione delle operazioni di sbarco viveri ed imbarco feriti a Sollum bassa. E più volte il gruppo ebbe occasione di intervenire efficacemente col suo fuoco. Dal 22 Novembre, mancando le comunicazioni con Bardia orrnai cinta d`assedio dal nemico, anche il presidio del caposaldo Cirerner e quindi il II gruppo del Reggirnento fu costretto a consumare i viveri di riserva in razioni giornaliere ridottissime, dato che la scorta era di soli otto giorni. La sera del 24 novembre, giranclo al Iargo per il sud, giunse al caposaldo Cirener il gen. Rommel con la 15 Divisione corazzata germanica, nell`intento di ripristinare le comunicazioni con Bardia rioccupando Sollum e Capuzzo. Ma il giorno seguente la Divisione tornò verso Tobruch rinunciando alla prevista azione, dato che nella zona di Bir Siweyat, Bir Nuh c Sidi Suleiman risultarono ingenti forze nemiche. A protezione del movimento il II gruppo del 2" articelere prese sotto violento fuoco una quarantina di automezzi apparsi da pieghe del terreno: una parte di essi fu distrutta; il rimanente fu catturato con parecchi prigionieri. Il bombardamento ncemico andava giornalmente intcensificandosi anche sul caposaldo Cirener. Nei primi giomi di Dicembre l`avversario strinse maggiormente il suo cerchio occupando Bir Sighia e togliendo così

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l`ultima possibilita di rifornimento idrico. Nell’intento di riconquistare questo pozzo, un reparto tedesco agli ordini del ten. Birman, appoggiato dalla 5° batteria del 20 articelere, tentò una ardita azione, che però non riuscì per la preponderanza delle forze avversarie. Il 26 novembre le batterie di Halfaya eseguirono un’intensa azione di fuoco su Sollum alta, in appoggio ad una colonna motorizzata della 21° Divisione corazzata germanica che tentava di portarsi attraverso il deserto da Halfaya a Bardia. All’alba del 28 il gruppo di formazione ed il III gruppo dcl 2° articelere stroncarono col loro intenso fuoco i tentativi di scendere da Sollum alta a Sollum bassa da parte di forti elementi avversari. Sollum bassa per quanto sottoposta a frequenti bombardamenti nemici rimase per Halfaya, fino alla caduta di Bardia, l'unica fonte di saltuari rifornimenti notturni mediante barche. Il 30 Novembre il presidio italo-tedesco che ancora resisteva nel caposaldo di Sidi Omar fu sopraffatto dalla 4° Divisionc indiana. I capisaldi superstiti della sistemazione difensiva di frontiera avevano viveri solo per la giornata dcl 6 Dicembre; nella notte sul 7 la Divisionc Savona fu ancora una volta rifornita; tuttavia la situazione rimaneva drammatica. Il gen. Rommel lo aveva previsto, tanto che nel decidersi ad arretrare aveva chiesto direttamente al Comando Supremo lo sgombero via mare della guarnigione del settore Bardia -Sollum; ma non fu possibile attare tale proposta. Il 12 Dicembre il Comando della Divisione Savona da Bir Ghirba si ritirò nel caposaldo Halfaya; e tra il 10 c il 13 anche le truppc della Divisione stessa dai capisaldi Bir Ghirba, Cova c D’Avanzo ripiegarono sui capisaldi Halfaya e Cirener, dove, col sostegno delle batterie del 2° articelere, ebbe inizio l'estrema difesa affidata al gen. Schmidt, comandante della piazza di Bardia, ad al gen. De Giorgis, comandante del settore di Halfaya. Il comportamcnto del III gruppo (cap. Li Puma) del 2° artcelere in questo periodo trovo alto riconoscimento da parte del gen. De Giorgis, comandante della Divisione Savona del settore Halfaya-Sollum, il quale, con la sua lettera in data 29 dicembre 1941, tributò il suo vivo elogio agli artiglieri del gruppo, che “ . . . nel loro elevato senso del dovere, rnantengono integre le energie spirituali e combattive anche attraverso le dure difficoltà dell`ora presente. Non dubito che il Gruppo rimarrà fedele alla consegna fino all’ultimo. Portate la mia parola di riconoscimento a tutti i vostri dipendenti “. Migliorate le sue possibilità di osservazione con l’occupazione del caposaldo D`Avanzo, il nemico il I4 Dicembre sottopose ad un intenso tiro di medi calibri nel caposaldo Cirener il II del 2° articelere, il cui osservatorio principale andò completamente distrutto. L’artigliere Bassi Pietro, che fra gli altri vi si trovava, fu raccolto moribondo; al Comandante del gruppo, cap. Benedetti, che gli rivolgeva parole di conforto, rispose: “Muoio contento di aver fatto il mio dovere “. Il 19 Dicembre il tiro avversario rese inservibili due pezzi della 4° batteria. Intanto la situazione alimentare si faceva sempre piu grave (razioni ridotte ad un terzo): qualche rifornimento arrivava ancora per via aerea; ma il deperimento e le malattie aumentavano giornalmente, dato che come i viveri mancavono pure i medicinali. Il 24 dicernbre un nuovo tentativo di rioccupare Bir Sighia venne ancora frustrato dalla forte reazione dell’artiglieria nemica e dal pronto accorrere di mezzi corazzati dell’avversario. In un osservatorio fu colpito a morte il maresciallo marconista Amendola Mario. Il primo Gennaio 1942 le batterie 4° (ten. Orlandi) e 5° (ten. Bellini) concorsero validamente col loro intenso fuoco a respingere un attacco nemico. Ma la situazione alimentare divenne tragica: non si distribuiva che un quarto di galletta e un quarto di litro d’acqua. Caduta di Bardia. Nella monografia dello Stato Maggiore Esercito - Ufficio Storico - relativa a questo periodo della campagna in Africa Settentrionale è riportato che alle ore 4 del 31 Dicembre 1941 cominciò contro la piazza una forte preparazione d’artiglieria particolarmente sui settori sud-ovest e sud -est. L’aviazione britannica oltre alle azioni di bombardamento effettuate all`alba, cooperava con azioni di mitragliamento sui capisaldi, mentre unità di marina, concorrevano con tiri delle artiglierie navali. Le azioni di fuoco si estendevano anche sui capisaldi della Divisione Savona e specialmente sul Faltenbacher e sul Cirener. Verse le 9 l`attacco nemico si sviluppò con accanimento su tutta la fronte della piazza di Bardia ed in ispecie in corrispondenza del posto di blocco di Capuzzo (settere sud) e della località Nza Bu Rimm (settore sud - evest) con l’appoggio di carri armati, autoblindo e “ breen carriers “ (automezzi cingolati britannici con leggera blindatura, scoperti, armati di fucile mitragliatere, con tre uomini di equipaggio): cooperavano l’aviazione ed una formazione navale di 5 incrociatori e 2 torpediniere. Le truppe attaccanti riuscirono ad effettuare una larga rottura sul fronte sud della piazzaforte, mentre le cattive condizioni atmosferiche impedivano l’intervento

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dell’aviazione italo-tedesca. Fin dal mattino tutte il settore a sud di Bir Regima era rimasto tagliato fuori; ma a sera l'infiltrazione britannica che aveva raggiunto il ciglione dell’uadi el Mrega, presso il punto trigenemetrico di q. 147, rimaneva contenuta dalle truppe della difesa, le quali con un contrattacco avevano rioccupato nel pomeriggio alcuni capisaldi a cavaliere della strada Bardia - Capuzzo ed il posto di blocco di Capuzzo. Durante la notte sul 1° Gennaio 1942 si sviluppò più intensa la attività dell’artiglieria britannica su tutta la cinta fortificata: l’attaccante si era frattanto rafforzato sul pianoro, compresi gli uidian el Mrega ed el Ahmar; tuttavia al suo tergo permanevano ancera attivi alcuni fortini della difesa. L’attacco britannico preseguito all`alba cen forte appeggio di artiglieria e di carri armati venne ancora centenuto, e i difenseri riuscirono anche a catturare oltre 50 prigieonieri, 3 carri armati e 3 autoblinde. Nel corso della giornata l’attacco sostò ed avvennero solo intensi bembardamenti aerei. Nella notte sul 2 Gennaio continuando nell’attacco del settore sud il nemico riuscì ad avanzare verse l’abitato di Bardia approfittando dei larghi intcrvalli nelle schierarnento della difesa. Alle ere 1 e 10’ del 2 Gennaio il gen. tedesce Schmidt, comandante della piazzaforte, segnalò mediante un radiogramma che, malgrado l’ereica resistenza della difesa, i Britannici superiori di forze erano riusciti a penetrare nell’interno della piazzadi Bardia e che i depositi di munizioni e di viveri, peraltro assai poco consistenti, erano in mano dell’attaccante. Avrebbe mandato perciò un parlamentare per la resa al Comandante britannico, dato che una ulteriore resistenza si sarebbe risolta in un inutile sacrificio di uomini valorosi. I soldati italiani e tedeschi attestava il gen. Schmidt avevano compiuto pienamente il loro dovere. Alle ore 1 e 20’, il centro radio di Bardia non rispondeva più la piazzaforte e in essa il Comando del 2° articelere si era arresa alla 2° Divisione sud-africana (gen. De Villers) rinforzata da una Brigata polacca (gen. Kopainski) con 36 pezzi d`artiglieria e appoggiata da un battaglione carri armati della I Brigata corazzata britannica. Il gen. Rommel, nel segnalare al Comando Superiore ed a Roma la caduta di Bardia dopo 44 giorni di strenua resistenza e di epica lotta, concordava nella decisione presa dal gen. Schmidt, che fin dal 22 Dicembre egli aveva autorizzato a capitolare ad onorevoli condizioni dopo l’esaurimento delle munizioni e dei viveri. Intanto l’11 Dicembre 1941, l’Italia e la Germania, per essere a fianco del Giappone, dichiaravano guerra anche agli Stati Uniti d’America, che tre giorni prima erano scesi in campo, all’indomani dell’attacco giapponese, il 7 dicembre, contro la flotta americana a Pearl Harbour. Caduta della difesa di Halfaya. Dal 4 al 7 gennaio 1942 l'artiglieria e l’aviazione britannica continuarono ad effettuare violenti concentramenti di fuoco e bornbardamenti aerei sui capisaldi Halfaya e Cirener causando ai difensori ulteriori perdite di uomini e di materiali. Una motovedetta britannica incrociava con insistenza nel golfo di Sollum col presumibile compito di osservare i tiri d’artiglieria che si abbattevano sui pozzi costieri, oltre che rilevare altri obiettivi da battere. I sistematici bombardamcnti aerei ripresi a1l`alba del giorno 8 resero, fra l’altro, ancora più problematico l’approvvigionamento idrico. Ne facile era rifornire una sufficiente quantita di acqua potabile: un aero-rifornimento, avvenuto ad onta del disturbo arrecato dall’aviazione nemica, nella notte sul 10 riuscì a lanciare solo una quantità irrilevante di vettovaglie, e furono lanciati pure i recipienti dell’acqua, i quali però si rompevano nella caduta essendo poco idonei allo scopo. L’11 gennaio dopo ripetuti attacchi i Britannici riuscirono ad impossessarsi di alcuni centri di resistenza nel caposaldo Sollum bassa, mentre da tutte le altre posizioni del settore venivano respinti. I violenti attacchi nemici sullo stesso caposaldo proseguirono il 12 gennaio con l’appoggio dell’arma aerea e di unità navali fra cui una nave da battaglia. Alle ore 9 del 13 gennaio dopo aspri combattimenti, l`abitato di Sollum bassa fu occupato dall’avversario, che venne così in possesso degli ultimi pozzi rimasti disponibili per il presidio di Halfaya: la situazione diventò assai critica anche per i feriti. L’intenso tiro nemico distrusse l`uno dopo l`altro i pezzi del Gruppo di formazione del 2° articelere. L’avversario avanzò fino a venire sotto l’azione della difesa vicina delle batterie. Tenevano duro ancora alcuni nostri centri di resistenza, come pure rimaneva in mano degli Italiani la costa del golfo di Sollum per una lunghezza di circa 5 km. Nella notte sul 14 gennaio un reparto misto italo-tedesco con l’appoggio del III gruppo del 2° articelere riconquistò i Pozzi di Sollum bassa, ma inutilmente perchè essi erano stati insabbiati dai Britannici. Secondo notizie diffuse da Radio Londra, anche formazioni aeree e motorizzate di ”liberi francesi” partecipavano alla lotta in questo settore. Alle ore 14 del 14 gennaio il Comandante della Divisionc Savona radiotelegrafava che “ per quanto il morale e lo spirito delle truppe ancora reagissero a tutte le cause di depressione provocate da deficenze alimentari, da mancanza d`acqua potabile e dal continuo

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martellamento offensivo aeronavale, doveva purtroppo costatare una grave accentuazione nel deperimento organico delle truppe ed alcuni casi di pazzia tra gli ammalati ed i feriti che ormai riusciva impossibile curare. Tali fattori incidevano in modo grave sull’efficienza combattiva dei reparti “. Alle ore 7 del 16 gennaio lo stesso Comandante segnalava che a causa del mancato rifornimento aereo nelle notti sul 15 e sul 16 i reparti dipendenti erano vettovagliati solo a tutta la giomata del 16; di conseguenza se durante la notte sul 17 non fossero giunti rifornimenti in quantità sufficiente, il Comando della difesa si sarebbe trovato nella dolorosa ma imperativa necessità di offrire ai Britannici la resa delle truppe nella stessa giornata del 17 gennaio per non lasciarle morire di fame e di sete. Tanto più che la situazione igienico-sanitaria si era aggravata in modo allarmante per l`aumento del numero dei malati e dei feriti, per i casi di pazzia, per l’ accentuato deperimento delle truppe ed infine per la minaccia di epidemie Gli ufficiali e le truppe italo-tedesche sostenute essenzialmente dal sentimento dell’onor militare e dalla fede, avevano fatto quanto si poteva umanamente da loro pretendere. Continuavano intanto specialmente da parte delle artiglierie britanniche le azioni di fuoco sui superstiti capisaldi della zona di Halfaya, alquanto diminuite nel pomeriggio del 16 solo a causa di una tempesta di sabbia. Peraltro forti movimenti di carri armati e tiri di fucileria su tutto il fronte facevano prevedere imminente un attacco. Neppure nella notte sul 17 Gennaio fu possibile far giungere rifornimenti alle truppe della difesa; perciò alle ore 7 del detto giorno il gen. De Giorgis inviò il suo Capo di S. M. a trattare la resa col nemico. L`ultima comunicazione dal Comando Divisione Savona segnalava che i Britannici avevano accettato alcune richieste del generale De Giorgis: sospensione delle offese all’inizio delle trattative; sanzione del fatto cempiuto della distruzione delle armi pesanti, comprese le artiglierie contraerei e controcarro; assistenza e sgombero immediato dei malati e dei feriti. Giunto nella mattinata del 17 Gennaio anche ai dipendenti gruppi del 2° articelere l’ordine di resa, furono fatti inservibili i pezzi e le armi, distrutti i documenti, tributati gli onori ai Morti sepolti ai piedi di una cappelletta costruita dagli stessi artiglieri del Reggimento e furono rievocati tutti gli altri Caduti di Tobruch, di Bardia, di ridotta Capuzzo, di Sollum. Ammainata la Bandiera del caposaldo venne sepolta accanto ai Caduti. Fieri del dovere compiuto, gli Artiglieri del 2° articelere, inquadrati, si consegnarono al nemico: dopo 59 giorni di assedio e di bombardamenti terrestri, navali ed aerei, anch’essi cedevano alla fame ed alla sete. Alle 15 e 40' giungeva al Supercomando Forze Armate Africa Settentrionale un messaggio del Comando Supremo, il quale, tenuto conto dell’impossibilità di far pervenire al settore di Halfaya i rifornimenti ne per via aerea, ne per mezzo di semmergibili, lasciava al Comandante della difesa il pieno giudizio sulla situazione ed approvava implicitamente le decisioni che egli avesse ritenute prendere. E così, a 15 giorni dalla caduta di Bardia, le truppe del settore di Halfaya rimaste isolate quasi all’inizio della battaglia della Marmarica, dopo 59 giorni di continui duri combattimenti e di privazioni di ogni sorta, decimate e venute a trovarsi nell`impossibilità di ricevere qualsiasi rifernimento di viveri, di acqua, di munizioni e di medicinali, il 17 Gennaio 1942 dovettereo offrire la resa al nemico. E ciò solo 4 giorni prima dell’inizio da El Agheila della nostra offensiva che in poco più di cinque mesi riportò in Egitto, nel luglio dello stesso anno 1942, le forze italo-tedesche fino ad El Alamein a ben 1200 km. di distanza! A riconoscimento delle lunghe settimane di eroismo e di sacrificio, il Bollettino n. 595 del Quartier Generale delle Forze armate pubblicò: “I presidi di Sollum e di Halfaya, accserchiati ed ininterrotamente battuti da artiglierie di ogni calibro e dall`aviazione, rimasti da tre giorni causa il maltempo privi di rifornimenti aerei, specie di acqua anche per i soli fseriti, dopo due mesi di eroica lotta sono stati costretti a desistere da ogni ulteriore ormai impossibile resistenza.” Lasciati al loro posto d’onore e di gloria sulla frontiera egiziana, i difensori di Bardia e di Halfaya, circondati, isolati ad un migliaio di chilometri dal grosso delle truppe italo-tedesche, costretti a contare solo su insufficienti aerorifornimenti di viveri e di munizioni, avevano sostenuto la lotta accanita e violenta continuando a mantenere impegnate su quel fronte notevoli forze del nemico a detrimento delle sue operazioni più ad occidente. “ Il gen. De Giorgis aveva diretto in modo eccellente, durante due mesi, la lotta delle forze: italo-tedesche” si legge nel già citato libro postumo di Rommel. Il 28Gennaio 1942 (foglio 02/5254 op. 1°) il Supercomando Artiglieria in Africa Settentrionale segnalò al Comando Superiore Forze Armate Africa Settentrionale: “Il I gruppo del 2° Reggimento Artiglieria Celere,

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trasferitosi per ordine del C.T.A. con due batterie da 100/17 dalla fronte di Sollum a quella di Tobruch, e sfuggito per talmotivo alla sorte cui hanno soggiaciuto il rimanente del Reggimento e la sua stessa 3° batteria. Compiuto il ripegamento in Sirtica insieme con le truppe germaniche, esso si trova tuttora alla diretta dipendenza della 90° Divisione ”Afrika". Sarebbe in ogrni caso conveniente, per ragioni ovvie, di sottrarre il gruppo a tale dipendenza nata da circostanze contingenti ed ormai superate; ma il provvedimento acquista carattere di vera necessità in conseguenza della grande penuria di artiglieria nella quale ci siamo ridotti dopo il ripiegamento dalla Cirenaica. Il gruppo in qustione, il quale ha subito. perdite non rilevanti, potrebbe essere molto utilmente impiegato per completare secondo l’organico previsto per il primo tempo i reggimenti divisionali ». In accoglimento di tale proposta, il Supercomando Forze Armate Africa Settentrionale, nel dare atto dello scioglimento “in seguito ad avvenimenti di guerra “ del 2°Reggirnento Artiglieria Celere, ordinò che il I gruppo del Reggimento stesso, con le batterie 1°e 2°, passasse nella forza organica effettiva del 1° Reggimento Artiglieria Celere, assegnato alla Divisione Brescia . Lo Stato Maggiorc R. E., coi fogli 061900/307 e 062490/307 in data 23 aprile 1942, sancì che il Comando del Reggimento Artiglieria Celere (2°) “ Emanuele Filiberto Testa di Ferro” ed i gruppi II e III di batterie leggere motorizzate di cannoni da 75/27-911 T.M.; le batterie 402° e 405° di cannoni-mitragliere da 20 mm. mod. 1935 sono da considerarsi disciolti il 17 gennaio 1942 “ in seguito ad avvenimenti di guerra”. E con essi la 3° batteria del I gruppo. Lo Stendardo del 2° articelere è rimasto in terra d`Africa, fra i suoi gloriosi Caduti, dove all’infausta conclusione della vicenda il Cornandante del Reggimento, nell’impossibilità di ulteriormente custodirlo, lo seppellì in acconcia località nel vallone di Bardia; alla presenza di tre ufficiali e di quattro sottufficiali del Reggimento medesmo, nell’intento di evitare che cadesse, preda bellica e trofeo di vittoria, nelle mani del nemico. Sopravvivono 14 delle 24 drappellc del Reggimento “ Emanuele Filiberto Testa di Ferro “ attualmente custodite dal nuovo Reggimento artiglieria a cavallo, a Milano, dove pare siano state inviate dal Distretto rnilitare di Ferrara. Fin qui l’appassionato racconto del Generale Marciani, all’inizio degli anni 60 alcuni superstiti del Reggimento organizzarono minuziosamente una spedizione in terra libica per il recupero della bandiera del 2° Articelere, pur fra numerose difficolta’ e con pochissimi mezzi riuscirono infine a partire per la Libia, di seguito alcuni brani tratti dal resoconto dell’impresa pubblicato da uno dei componenti la spedizione, Lorenzo Franchi di Verona. Lo stesso Franchi riusci’ a smuovere anche l’allora ministro della difesa Giulio Andreotti, si appellò ad Enrico Mattei allora presidente dell’Eni ed in buoni rapporti con gli arabi, eravamo nel 1964, guerra fredda, da poco risolta la crisi di Cuba, l’assassinio di Kennedy, le diplomazie occidentali erano tutte indaffarate in altre faccende ma Franchi e gli altri reduci non si diedero mai per vinti ed alla fine come anticipato partirono in quattro per l’impresa e precisamente: Franchi Lorenzo, nato a Verona il 29/01/1920 Delfini Giuseppe nato a Bologna il 21/5/1913 Agnoletto Gino nato ad Adria (Rovigo) il 23/12/1918 Bruni Aurelio nato a Formignana il 3/10/1917 La Presidenza Nazionale dell’Associazione Artiglieri finanziò la spedizione con due milioni e mezzo di lire, eravamo nel 1964 ed era una somma relativamente alta per quei tempi, la durata della missione era indicata in quindici giorni, ai quattro volontari fu erogata la somma di 300.000 lire pro capite per vitto, alloggio, passaporto, equipaggiamento ed assicurazione; 950.000 lire furono destinate per nolleggio mezzi e carburante, i voli Roma-Bengasi furono prenotati direttamente dall’associazione. I quattro reduci partirono il giorno 2 Aprile 1964 da Fiumicino, alle ore 16,20 ed arrivarono a Bengasi alle 19,25. Ecco il resoconto del tentativo di recupero dalle parole di Lorenzo Franchi. IL TENTATIVO DI RECUPERO

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Prendemmo alloggio all’ Hotel Continental. Per la cena ci venne consigliato il ristorante “Vienna”, frequentato da europei, che aveva sede in un fabbricato chiamato “Green Mountain Building” ed era di proprietà di una viennese, Victoria Scholz, venuta in Africa durante la guerra e li insabbiatasi. ll cuoco del ristorante era un italiano di nome Giulio Zanotti, originario di Paruzzaro (Novara). Per tutto il tempo che rimanemmo a Bengasi consumammo i pasti in tale ristorante, dove, parlando con qualcuno dei rari frequentatori ebbimo modo di farci un’idea della situazione in cui si trovava la Libia. Il mattino dopo ci presentammo al Consolato. La sede era modesta. Fummo ricevuti dal Console che era a conoscenza del nostro arrivo. Parlammo con lui del nostro progetto ed egli non ci nascose le difficoltà ed i pericoli cui saremmo andati incontro. Tuttavia, ci aiutò a trovare in affitto un pulmino Ford Transit noleggiatoci da un arabo, Ibrahim Sawani, titolare della ditta \/ictoria Agency . Il prezzo pattuito fu di 120 sterline Iibiche per 10 giomate e 1000 chilometri. Per ogni chilometro in più si sarebbe dovuto pagare una piastra (circa 17 lire italiane). ll costo della benzina era di 4 piastre il Iitro (circa 68 lire italiane). Parlando con Giulio Zanotti del Ristorante Vienna venimmo a sapere che a Bengasi, eccetto gli operai di qualche società petrolifera, diretti o provenienti dall’interno, di italiani non era rimasto quasi nessuno. l pochi connazionali ancora in Libia si erano rifugiati a Tripoli e stavano vendendo i loro beni cercando di tornare in Italia. Saputo che avevamo intenzione di spingerci verso il confine egiziano, lo Zanotti ci fornì il nome dei due soli italiani esistenti, secondo lui, in Cirenaica, due frati francescani, padre Alberto che risiedeva a Barce e padre Carlo che viveva a Tobruk. Erano le uniche persone alle quali avremmo potuto rivolgerci in caso di bi-sogno. Bruni, cassiere della spedizionc, fece le provviste di viveri e di acqua: scatolame, frutta sciroppata, gallette e alcune casse di bottiglie di acqua minerale. ln tale occasione, era venerdi 3 aprile, venimmo a contatto con gli usi locali. A Bengasi i negozi dei mussulmani sono chiusi al venerdi, quelli gestiti dagli ebrei fanno festa al sabato e quelli dei cristiani non aprono alla domenica. Perciò Bruni ebbe non poco da fare per reperire e completare il rifomimento di viveri. Per interessamento del nostro Consolato, il cui personale era composto dal Console, da un paio di impiegati e da un usciere, il direttore di una società italiana che stava eseguendo ricerche petrolifere nel deserto ci fomì una tenda, un paio di badili e un piccone. Tutti questi preparativi occuparono due giornate di lavoro sotto lo sguardo del proprietario del pulmino che ogni tanto, tutto eccitato, ci annunciava che stava per arrivare dalla Sicilia una comitiva di ballerini. Partimmo da Bengasi nel pomeriggio di domenica 5 aprile. Ci avviammo sulla Via Balbia, attraversando piantagioni una volta ubertose ed ora abbandonate, dove Ie tracce della guerra erano ancora evidenti nei muri sbrecciati delle case e perfino nelle macerie ammucchiate ai ma1rgini della carreggiata. La Via Balbia era tuttora l’unica arteria che percorre la Libia lungo la costa, da occidente a oriente. E’ stata mantenuta in efficienza, allargata, e in qualche punto rettificata, specie nelle curve sul Gebel. Dopo aver percorso qualche diecina di chilometri, ci accorgemmo che il consumo di carburante appariva eccessivo. Una rapida ricognizione al serbatoio ci fece scoprire che una saldatura, su un lato, era incrinata con conseguente fuoriuscita di benzina l’inconveniente era grave perché non era pensabile di poter riparare il guasto facilmente. Dopo quanti chilometri avremmo potuto trovare una officina? Per fortuna ci soccorse l’esperienza bellica di Agnoletto. L’incrinatura venne resa stagna con del sapone ammorbidito con un po’ di acqua. Dopo qualche minuto, il sapone, sceccandosi, era diventato duro come il cemento e la riparazione di fortuna resse benissimo per tutta la durata del viaggio. Alternandoci alla guida ogni ora proseguimmo senza fermarci fino a Derna (510 chilometri da Bengasi), dove arrivammo a notte inoltrata. La strada cha scende dal costone alla bianca cittadina e che durante la guerra era continuamente battuta dagli aerei e dalla marina nemici, e perciò assai pericolosa e continuamente interrotta, é stata completamente rifatta ed é agovole. Durantc il percorso avevamo incontrato i villaggi e le campagne una volta floridi grazie al lavoro dei nostri coloni. Di quella fatica non resta più nulla. Anche le case cantoniere sono abbandonate e cadenti. I villaggi hanno ripreso i loro nomi arabi e a distanza di tanti anni sono difficilmente identificabili se non attraverso le denominazioni scritte sulle vecchie carte geograliche. Attraversandoli non abbiamo visto alcun abitante europeo e tanto meno italiano. Passammo da Coefia e Tocra; Barce ha riassunto il nome arabo di Merj. I villaggi Maddalena, D’Annunzio, Oberdan, Brazzà, sono diventati luoghi di fantasmi. Tolemaide ha prcso il nome di Tolmeta. Beda Littoria è diventata soltanto Bceda ed é avviata a divenire una citta importante. Iolanda di Savoia, Battisti, Mameli sono cumuli di macerie; Berta è diventato Gubba.

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A Dema prendemmo alloggio all’albergo Jebel el Akhdar situato sulla piazza principale della cittadina, ombreggiata da due file di giganteschi sicomori. Ricordammo la notte del 7 Aprile 1941 quando vi entrammo, in mezzo al fumo degli incendi appiccati dagli inglesi in fuga. Su di loro incombeva il pericolo di venirc accerchiati dalle colonne italo-tedesche che, vinto lo scontro di El Mechili stavano correndo, sulle piste dell’intcmo, verso Tobruk. Ricordammo la buona acqua dolce delle sorgenti locali che ben poche volte era arrivata fimo a Ridotta Capuzzo per calmarc la nostra sete. L’albergo Jebel el Akhdar , che significa Montagna Verde , è il vecchio fabbricato costruito negli armi ’30 dal1’Ente per il Turismo Alberghiero Libico (E.T.A.L.) e tale è rimasto dopo essere passato attraverso le vicende della guerra. Trovammo i bagni inservibili, i lavandini sbrecciati, gli specchi incrinati o appesi di sghembo. Al nostro arrivo, l’unica persona presente nel fabbricato, dormiva per terra nell’ingresso. Cenammo attingendo alle nostre provviste e dopo qualche ora di sonno ripartimmo diretti a Tobruk. Appena fuori dalla cittadina distesa tra il mare di un azzurro incredibile e il costone di roccia dal colore fulvo, la strada si inerpica verso 1’altopiano desertico. Ecco i villaggi di Martuba, Rezem, Tmimi, il golfo di Bomba, e, dopo un centinaio di chilometri, la stretta di Ain el Gazala, dove erano i magazzini di cornmissariato, dove si andava a prelevare i viveri. In questa localita, dopo che il nostro reggimento era stato distrutto, avvennero accaniti combattimenti. Ancora 60 chilometri e arrivammo al noto bivio di Acroma. Durante l’avanzata del 1941, in questo punto il nostro Reggimento aveva abbandonato la strada asfaltata e si era inoltrato sulla pista, in mezzo a un ghibli accecante. All’inizio della pista, un cartello scritto in arabo e in inglese avvertiva di non inoltrarsi perché il terreno, intorno, era ancora minato. Qui, nel periodo in cui c’eravamo noi, vi era un piccolo cimitero che ogni giomo si ingrandiva di nuove croci costruite con tavole di cassette di munizioni. I1 nome del Caduto vi era scritto in nero, spesso con grafia incerta e sulla croce vi era posato 1’elmetto italiano o tedesco o inglese o il casco di sughero con il piumetto dei bersaglieri. Sul tumulo di sabbia veniva piantato un fucile a canna in giu. Queste erano le tombe degli eroi di Tobruk. Faceva uno strano effetto passare vicino a questo cimitero durante la notte. I copricapi oscillavano al vento, qualche elmetto tintinnava e la sabbia sollevata in piccole onde radenti il terreno, faceva un fruscio come se li sotto vi fosse qualcuno che si muovesse. Era uno spettacolo pauroso ed affascinante allo stesso tempo. Ora il cimitero e scomparso. Restano pochi sassi che delimitavano qualche tomba. Le salme dovrebbero essere state trasportate al Sacrario di El Alamein dal conte Caccia Dominioni. Altri 30 chilometri ed eccoci a Tobruk. Prima di entrare in citta, la strada svolta a destra, costeggia la baia per tutta la sua larghezza e risale verso il deserto. Sull’orlo del ciglione si erge, imporiente, l’ossario dei soldati tedeschi. Decidemmo di non entrare in citta, per il momento, e di puntare diritri sul nostro obiettivo. Notammo che la baia era stata ripulita dai relitti delle navi affondate durante Ia guerra. Nel posto dove era ancorato il vecchio incrociatore S. Giorgio, era alla fonda una nave da carico di nazionalità greca che poi sapemmo adibita al trasporto dei pellegrini alla Mecca. Lasciammo la cittadina alla nostra sinistra. Da lontano erano ancora ben visibili le tracce della guerra: cumuli di macerie e rovine di nostre costruzioni militari. Parecchie abitazioni sono state però ricostruite. Il palazzo reale si trova nella parte piu alta della citta. Il retro di tale palazzo è a picco sul mare e sotto vi era ormeggiato il panfilo di ldriss el Senussi il quale, in quei giomi, soggiornava a Tobruk ed anche questo lo sapemmo dopo. Raggiunta la sommita del ciglione, dalla Via Balbia si stacca una strada asfaltata, che ai tempi nostri era una pista, e che porta a El Adem dove c’era un campo d’aviazione. L’aeroporto c’è ancora. E' diventato inglese. Dopo altri 120 chilometri arrivammo a Bardia. Da questo momemo il mio compito poteva considerarsi finito. Dopo anni di lavoro ero riuscito a portare una spedizione sul posto deIl’interramento dello Stendardo. Anche se qualche altro prima di me aveva cercato di organizzare una spedizione allo scopo, nessuno vi era riuscito. Ora toccava ai tre commilitoni che erano stati presenti all’occultamento dell’insegna reggimentale, rintracciare il luogo esatto del seppellimento e procedere al recupero. Poco oltre Bardia, (non entrammo nel centro abitato), attraversato un ponticello, sulla destra, verso Finterno, si apre un uadi profendo: l`Uadi Gerfan. Lo riconebbe Agnoletto perché proprio vicino alla Balbia sorge un marabutto che egli ricordava bene. Sapevamo che durante la guerra il letto dell’Uadi era percorribile dagli automezzi. A noi si è presentato,invece, tutto sassoso, con massi di dimensioni tali da vietare di percorrerle con il pulmino. Mentre io, Delfini e Bruni ci inoltrammo a piedi, Agnoletto con l’automezzo costeggiò l’Uadi dall’alto, mantenendosi però sempre alla nostra vista.

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Nel corso degli anni l’Uadi Gerfan si è notevolmente allargato e la morfologia del suolo è totalmente mutata. Bruni, Delfini, e Agnoletto, si trovarono disorientati. Percorrendo ripetutamente lunghi tratti del letto dell’Uadi, essi individuarono il luogo dove era sistemato il Comando di Reggimento e addirittura le loro buche. Si inerpicarono su per i fianchi scoscesi alla ricerca dei punti di riferimenteo che avrebbero permesso di trovare il luogo esatto del seppellimento delle Stendardo. Però, per effetto delle frane, del vento e delle piogge che qui deveno aver assunto violenze apocalittiche, anche i punti di riferimento indicati dal Gen. Grati erano divenuti irriconescibili tanto da rendere impossibile quella triangolazione che ci avrebbe dato il punto preciso dell’interramento. Pertanto i ripetuti sondaggi effettuati dai tre testimoni del seppellimento rimasero senza esito. Inoltre, figure di beduini, probabilmente richiamati dal pulmino lasciato sul ciglio dell’Uadi e visibile da lontano, incominciavano ad apparire sul ciglione stesso. I suggerimenti datici alla nestra partenza dall’ltalia dicevano di non sostare sul posto più di qualche ora perché una permanenza maggiore peteva essere pericolosa per la nostra incolumità. Intanto, tra scavi e ricerche era scesa la sera. Rizzammo la tenda sul fondo dell’Uadi e consumammo un pasto assai frugale all’interno del pulmino. Mentre stavamo mangiando, si avvicinò un arabo, anziano. In perfetto italiano ci disse di essere un ex sergente degli ascari e di abitare a Bardia. Incominciò a raccontare i suei guai, quelli della sua famiglia e quelli che la Libia stava attraversando. Disse che percepiva una piccola pensione per il servizio militare prestato sotto l’ltalia e che gli dispiaceva che in Libia non vi fessere più gli italiani. Gli regalammo alcuni aranci. Io e Agnoletto trascorremmo la notte nel pulmino mentre Delfini e Bruni rimasero nella tenda. La notte fu fredda e ventosa. Come succede nel deserto, il rumore del vento tra i cespugli secchi dava 1’impressione che qualcuno camminasse intomo, impressione resa piu acuta dal buio profondo. Trascorsi la notte a pensare. La luce del nuovo giorne ci trovò intirizziti. Riprendemmo le ricerche e gli scavi. Qualche ora dopo il sorgere del sole incominciò un caldo opprimente e il continuo scavare ci fece sentire stanchi. Convenimmo che era inutile continuare a fare sondaggi a casaccio. Se il Gen. Grati fosse potuto venire con noi, come gli avevo proposto, forse l’esito della spedizione sarebbe stato diverso. Le ragioni per cui egli non accettò il mio invito, si possono riassumere così: l’eta avanzata ed una gamba che gli funzionava male (qualche tempo prima, a Milano, mentre si trovava in tram, a causa di una brusca frenata, era caduto e si era rotto un femore). L’esito della spedizione poteva, dunque, ritenersi fallito? Ritenni di fare un ultimo tentativo. Poiché l’azione di sorpresa non aveva dato buoni risultati a causa dei motivi detti sopra, avremmo potuto chiedere aiuto alle autoritaà di Bardia. Se quello era il luogo dell’interramento, sarebbe stato necessario scavare sistematicamente su un’area di circa metri 50 x 20 ed era impossibile farlo cen le nostre sole forze. Il terrene era compatto. Stimammo che la profondità dello scavo avrebbe dovuto essere di circa un metro e mezzo. Inoltre, per tutte il tempo che rimanemmo nell’Uadi, figure umane apparivano e sparivano sul ciglio del medesimo. Evidentemente per spiare cosa stavamo facendo. Sospendemmo i tentativi di ricerca e cenvenimmo che sarebbe state necessario ingaggiare degli uomini, meglio se si fosse potuto affittare un apripista, per rivoltare sistematicamente il terreno non senza nascunderci il pericolo di trovare qualche mina o qualche proiettile inesploso che avrebbe potuto scoppiare al minimo urto. Sperammo anche che il punto da noi cercato non fosse nel tratto di terreno eroso ed asportato dalle acque, nel qual caso, essendosi il letto dell’Uadi approfondito piu di un metro, certamente Ia fiumana avrebbe asportato la cassa contenente quanto cercavamo. Decisi che, mcntre Delfini e Bruni sarebbero rimasti sul posto a guardia della tenda e del materiale scaricato, io e Agnoletto saremmo andati a Bardia per tentare di ingaggiare uomini per continuare gli scavi. A Bardia, dove erano ancora evidenti i segni della guerra, circondati da una piccola folla di curiosi, ci recammo alla casa del mudir (sindaco). Il mudir, che parlava italiano come noi, dopo aver ascoltato la richiesta di aiuto per ritreovare oggetti personali lasciati nell’Uadi Gerfan durante la guerra, rispose che volentieri ci avrebbe permesso di ingaggiare uomini e di effettuare scavi, ma c’era una difficoltà: non era sua competenza rilasciare tale perrnesso. Prese il telefono, iniziò una lunga conversazione in lingua araba con qualcuno. Quando ebbe finito, disse che era necessario che andassimo a Tobruk presso il Commissario per la zona di frontiera. Ci assicurò che tale Commissario ci avreb- be concesso il permesso in poche ore. Intanto la notizia che cercavamo manodopera si era diffusa e aI1’uscita dalI’ufficio del mudir, venimmo avvicinati da molti uomini che, dichiarandosi ex ascari, chiesero di lavorare per noi e poter così guadagnare qualche piastra. Tornammo nelI’Uadi Gerfan a smontare la tenda e a raccogliere Delfini e Bruni, quindi ci avviammo verso Tobruk (120 chilometri) dove arrivammo nel pomeriggio.

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La cittadina di Tobruk si presentava ancora danneggiata dagli eventi bellici. Dove la strada che entra in citta si stacca dalla Via Balbia vi erano ancora cumuli di macerie e bidoni sforacchiati. Per un certo tratto, la strada, in leggera salita, era fiancheggiata da costruzioni recenti ma in parte non finite. Più oltre le case erano estemamente in ordine, alcune a 3 o a 4 piani. Piu avanti c’erano le abitazioni delle famiglie dei militari inglesi in servizio presso l’aeroporto di El Adem, quindi, sulla sinistra, una baracca adibita a chiesa anglicana, recintata con rete metallica. Quasi di fronte, nel nostro ex Comando di marina, era situato il Comando di Polizia al quale dovevamo presentarci. La strada proseguiva diritta fino a sboccare in una ampia spianata in fondo alla quale e costruito, cinto da mura il complesso di edifici del palazzo reale. Dietro a questi, il terreno scoscende verso la baia. Il vecchio centro abitato di Tobruk si trova sulla sinistra della Main Street , sulla parte di lingua di terra verso il Mediterraneo. Ho avuto l’impressione che i bombardamenti ai quali Tobruk venne sottoposta da tutti gli eserciti contendenti, durante la guerra, abbiano risparmiato alquanto il centro abitato. concentrandosi sulle installazioni militari che sorgevano attorno alla baia e sulle navi alla fonda. Non mi è sembrato che le casette della città vecchia, dove abita la maggior parte della popolazione, siano di costruzione recente. Distrutta è stata, invece, la chiesa cattolica il cui campanile era diventato un ottimo osservatorio per le artiglierie ed un punto di riferimento per gli aerei. Quando arrivammo noi la chiesa era in fase di ricostruzione sotto la guida di un frate francescano, Padre Carlo. ll Comando di polizia di Tobruk ha giurisdizione su tutto il territorio di frontiera con l’Egitto ed a quel tempo aveva molto lavoro perché il confine era attraversato di giorno e di notte da gruppi di clandestini, ritenuti, a torto o a ragione, spie e propagandisti di idee sovversive. Dopo un interrogatorio e qualche giorno di prigione tali gruppi di cenciosi venivano riportati alla frontiera di Sollum e rispediti in Egitto. Tra Egitto e Libia, in quei tempi, non correvano buoni rapporti. In tutta la Libia, fin da allora, stava diffondendosi un acuto malessere politico che portò, in seguito, alla fuga del re Idris El Senussi ed alla istituzione della Repubblica. Tale malessere si manifestava, tra l’altro, con ricorrenti ondate di xenofobia che avevano indotto i pochi coloni italiani, rimasti dopo la guerra, ad abbandonare i loro possedimenti e a concentrarsi principalmente a Tripoli. C’erano stati anche dei morti. Ho già detto che a Bengasi i nostri connazionali, che non fossero dipendenti da società petrolifere e che, quindi, praticamente, vivevano nel deserto, erano ridotti a poche unita. Nei villaggi del Gebel cirenaico non era rimasto nessuno e cosi pure a Derna e a Bardia. A Tobruk, in quei giorni, di italiani vi eravamo noi quattro e Padre Carlo che stava ricostruendo la chiesa, si puo dire, con le sue mani. Evitammo di avere contatti con il religioso affinché la polizia, sospettosissima, non traesse motivo per coinvolgerlo nella nostra vicenda. Al Comando della Polizia Federale eravamo attesi. Ci fecero entrare nell’ufficio del colonnello Comandante. Dentro, oltre al colonnello, che si presentò come Ibrahim Mulcamal, vi erano altre due persone. Una, di mole imponente, per tutto il tempo della nostra visita rimase con gli occhi chiusi, come se dormisse, l`altro era un capitano della gendarmeria. Il colonnello Mukamal parlava correttamente la nostra lingua perché, egli disse, al tempo della occupazione italiana, prestava servizio come guardia di finanza al porto di Bengasi. Si informò circa gli scopi del nostro viaggio e sulla nostra richiesta di aiuto. Gli scopi vennero da noi indicati come essenzialmente turistici e con l’occasionale ricerca di documenti e ricordi personali, in relazione ai quali rinnovammo la domanda del perrnesso di scavo e di ingaggio di manodopera. Secondo quanto ci era stato assicurato dal mudir di Bardia, ritenevamo di poter ottenere tali permessi con facilità ed in breve tempo. I1 colonnello Mukamal usò nei nostri riguardi espressioni gentili ma, per quanto riguardava i permessi, disse che aveva bisogno di chiedere l’autorizzazione ai suoi superiori. Ad un certo momento ebbi l’impressione che egli sospettasse che noi avessimo intenzione di cercare qualche cosa di grande valore, un tesoro o giù di li. Proposi che se il permesso ci fosse stato dato subito, le nostre ricerche avrebbero potuto essere effettuate alla presenza della polizia. Se fossero venuti alla luce oggetti preziosi o denaro, tutto sarebbe stato consegnato al Governo Libico. ll colonnello ci rinnovò le sue espressioni di amicizia e concluse il colloquio con la compilazione di un verbale, in arabo, che ci venne tradotto verbalmente, cioe senza che potessimo avere la certezza di quello che era scritto. Dopo di che dovemmo consegnare i passaporti, allo scopo disse il colonnello di corredare e convalidare la nostra richiesta. Ci venne assicurato che avremmo avuto una risposta l’indomani mattina alle ore 9. II coIonneIlo si informà dove avremmo pernottato ed egli stesso ci indicò l’albergo Palace Hotel, categoria Iusso, e, secondo lui, molto dispendioso.

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Il Palace Hotel è situato sulla Main Street non moIto lontano dal Comando della Polizia. E’ una costruzine del dopoguerra . L’intorno, però era allucinante. Oltre l’ingresso vi era la hall con in fondo il banco della reception. Vi trovammo un arabo anziano, appisolato. A destra, un’ampia sala. I mobili e le poltrone di costruzione italiana e chiaramente di preda bellica erano accatastati in un angolo. A sinistra, altra grande sala. Qui erano disponibili alcune poltrone e alcuni tavoli, parimenti di fabbricazione italiana e di preda bellica. Al primo tentativo di spostare le poltrone a qualcuna si staccò una gamba o un bracciolo o lo schienale. Ci accomo- dammo usando tutte le precauzioni pcr non trovarci seduti per terra. Ci venne assegnata la stanza n. l9 dove trovammo quattro letti. Le reti presentavano enormi avvallamenti nel mezzo, le lenzuola erano di colore indefinibile e con larghi buchi e strappi. Nel Pa1ace Hotel , albergo di lusso, eravamo unici clienti. La cucina non funzicnava. Per prendere i pasti venimmo indirizzati ad un altro locale, il ristorante El Adem . Mentre stavamo nello stanzone del Palace Hotel seduti sulle poltrone traballanti e ci scambiavamo la rispettive impressioni, guardando fuori ci accorgemmo che un poliziotto in divisa era fermo davanti all’ingresso. Subito non vi demmo peso ma dopo un’ora quello era ancora la e quando uscimmo per andare a cena, ci seguì. Tornati all’aIbergo egli ci accompagnò a debita distanza e più tardi un altro poliziotto venne a dargli il cambio. Eeavamo sorvegliati. Era il 6 Aprile 1964. Il mattino seguente, secondo gli accordi, alle ore 9 precise, mi presentai nell’uffficio del colonnello Mukamàl mentre Agnoletto, Delfini, e Bruni attesero in albergo. L’ufficiale mi accolse sorridente e sperai che la nostra vicenda volgesse al meglio. Egli, invece, mi disse che era addoIerato per non aver ricevuto alcuna risposta dai suoi superiori. L’assenso, tuttavia, non poteva tardare molto. Forse sarebbe giunto entro mezzogiorno. Chiesi se il poliziotto che stazionava davanti al Palace HoteI l’avesse mandato lui e per quale ragione. Rispose affermativamente e che l’agente aveva il compite di evitare che potessimo essere importunati e di sorvegliare il nostro pulmino, parcheggiato sulla strada. Fissato un nuovo appuntamento per le ore 12, uscii dal suo ufficio. Notai che nel corridoio vi erano le camere di sicurezza. Mentre passavo, parecchi visi erano affacciati alle grate dei finestrini sorvegliati da guardie armate di fucile. Un prigioniero gridò: “Lasciate stare questi italiani che ci hanno portato la civiltà!». Venne subito zittito da una guardia con urla e colpi battuti col calcio del fucile contro la porta della cella. Mi ripresentai all’ufficio a mezzogiorno. Il colonnello Mukamàl non aveva ricevuto alcuna disposizieone. Su mia richiesta, disse che avrebbe sollecitato telefonicamente l’ufficio competente del governeo che in quei giorni si trovava a Beda. Mi invitò a tornare da lui alla sera. Alla sera ancora nulla. Incominciai a spazientirmi e così pure i tre amici. Il mattino dopo, 8 Aprile, uscimmo dall’albergo ignorando ostentatamente l'agente di guardia. Poiché uffcialmente eravamo turisti, ci comportammo come tali. Ci avviammo verso la zona del mercato e incominciammo a scattare fotografie. Dopo qualche minuto venimmo fermati dalla polizia e, tra grida ostili, fummo condotti ad una specie di commissariato di quartiere dove ci venne tassativamente vietato di fotografare pena il sequestro delle macchine fotografiche. A mezzogiorno mi recai dal colonnello. Disse che non c`era alcuna novità per noi. Chiesi di poter andare a visitare il sacrarie tedesco e ci fu cencesso. ll sacrario sorge dall’altra parte della baia, di fronte alla citta di Tobruk, nel punto dove la strada scende dall’altopiano verso la città. Da quel luogo, nel 1942. i guastatori italiani e tedeschi irruppero attraverso le ultime difese inglesi, dopo che il 2° Reggimento Artiglieria Celere, col suo sacrificio, aveva permesso alle forze italo tedesche di riorganizzarsi e di ricevere rinforzi e rifornimenti. Il sacrario e una costruzione massiccia, quadrata, con mura poderose e torri ai quattro angoli. Vi è una sola apertura: il portone d’ingresso. All’interno, un cortile circondato da porticato. Sotto il porticato, delle grandi lastre di bronzo con incisi i nomi dei Caduti. In mezzo al cortile, quattro angeli pure in bronzo, inginocchiati, sorreggono verso il cielo, un cratere, simbolo di suprema offerta sacrificale. Una scala di pietra raggiunge Ia sommita delle mura da dove lo sguardo può spaziare sui campi di battaglia che videro scontri titanici di mezzi corazzati e furono bagnati dal sangue di migliaia di Caduti. Rendemmo mentalmente omaggio a tutti quei morti. Per tentare di sbloccare la situazione mi recai al telefono e parlai con un amico di Tripoli. Ebbi assicurazione di immediato interessamento. Feci anche altre due telefonate, una ad un’ altro amico che abitava a Beda ed una a Bengasi. Mentre parlavo, un arabo si era appoggiato allo stipite della porta della cabina telefonica non perdendo una sillaba di quanto stavo dicendo. Non feci nulla per ostacolarlo. Desideravo che si sapesse che avevamo amici influenti.

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Prima di sera visitai un’altra volta il Comando della Polizia. Ancora nulla di nuovo. Il mattino del giorno dopo, 9 aprile, mi recai dal colonnello Mukamal il quale, per prima cosa, mi chiese a chi avessi telefonato il giorno prima. L’arabo appoggiato alla cabina aveva fatto la sua relazione. Risposi che avevo avvertito alcuni conoscenti del fatto che la polizia aveva interrotto il nostro viaggio senza giustificazione e, avendoci privati dei passaporti, ci impediva di allontanarci da Tobruk. In pratica, eravamo prigionieri. Il colonnello mi esortò ad avere pazienza e mi dette appuntamento per il pomeriggio. Disse anche che era prudente non allontanarsi troppo dal Palace Hotel . Uscito dal suo ufhcio, mentre mi avviavo al1’albergo, incrociai una colonna di una diecina di Mercedes di grossa cilindrata, nere, con i finestrini chiusi, che, preceduta da motociclisti, andavano verso il palazzo del re. Erano i membri del governo, provenienti dalla citta di Beda, dove il govemo stesso aveva sede, che si recavano a conferire col sovrano. Come già detto, costui, in quei giomi, risiedeva a Tobruk. Mi venne l’idea di scrivergli una lettera per fargli presente la nostra situazione. La scrissi, infatti, e lo stesso giorno la portai personalmente a Palazzo Reale. Venni ricevuto da un segretario che mi fece sedere in un salottino e mi offerse una tazza di te. Ascoltò la mia esposizione, ricevette la lettera e assicurò che l'avrebbe inoltrata al sovrano. Non ne seppi più nulla. Il rimanente della giomata passò in una attesa snervante, sempre col poliziotto davanti alla porta dell’albergo, seguiti in ogni nostro minimo spostamento. Il giorno 10 Aprile, ancora attesa inutile. Mi recai più volte al comando della polizia senza venire a capo di nulla. Nel Palace Hotel vi era una sola inserviente. Una vecchia grinzosa che accudiva, se cosi si puo dire, alle pulizie.Si chiamava Cadigia. Quando mi incrociava nei corridoi era prodiga di larghi sorrisi con la bocca sdentata. Quel giorno, incontratomi, con un gesto mi chiamò in disparte e, dopo essersi frugata nel seno avvizzito, trasse dalle pieghe della tunica un uovo di gallina e me lo regalò. Il giorno 11 Aprile sollecitai ancora per telefono l’intervento degli amici di Beda e di Tripoli. Il giomo 12 Aprile, Domenica, dopo una settimana dal nostro fermo, di fronte all’atteggiamento dilatorio della polizia, spedii un telegramma al nostro Consolato di Bengasi. Ecco il testo: “Fermati in Tobruk dalla polizia da una settimana, pregasi energico intervento per concessione permesso tornare at Bardia aut nostro rimpatrio”. Verso sera il colonnello Mukamal mi mandò a chiamare. Come entrai nel suo uficio annunciò che era arrivato l’ordine di espellerci dalla Libia. Potevamo lasciare Tobruk l’indomani, o, se preferivamo partire immediatamente. Non si può tacere che il forzato soggiorno in Tobruk, località priva di attrezzature ricettive degfne di questo nome, riuscì molto penoso a tutti noi, sia per l’incertezza della nostra situazione, sia per le oggettive diflicoltà di vita. Infatti, pur non essendo formalmente in stato di arresto, fummo costantemente vigilati e controllati oltre che dal poliziotto in divisa che stazionò in permanenza davanti all’albergo, anche da ben individuati poliziotti in borghese. La nostra libertà fu limitata alla cittadina di Tobruk circondata da numerosi posti di blocco. La corrispondenza spedita durante la nostra permanenza forzata, venue inoltrata soltanto dopo la nostra parternza per l’Italia. Da ex ascari provenienti dalla zona di Bardia, con i quali ebbimo fugaci contatti, apprendemmo che la polizia aveva effettuato numerosi sondaggi nelI’Uadi Gerfan, in prossimità del luogo dove avevamo rizzato la tenda. Dopo I’annuncio della nostra espulsiorne preferimmo partire immediatamente. Caricati i bagagli sul pulmino, iniziammo il viaggio alle ore 20,20 accompagnati da un sergente della polizia. Arrivammo a Derna verso la mezzanotte e dormimmo all’Hotel Iebel Akhdar. Ripartimmo alle 6,30 del giorno 13 aprile e giungemmo a Berngasi alle ore 13. Andammo immediatamente al comando della polizia dove presentammo ferme rimostranze per la forzata interruzione del nostro viaggio. Venimmo avvertiti che i passaporti ci sarebbero stati consegnati. solo dopo la prenotazione dei posti sull’aereo che sarebbe partito il giorno successivo. Prendemmo alloggio all’Hotel Berenice. Restituimmo il pulmino e la tenda. Al nostro consolato venimmo a sapere che la polizia aveva montato il nostro caso con molta fantasia. Eravamo stati scambiati per spie. Il mattino del giorno l4 Aprile salimmo sul Caravelle che giunse a Roma verso mezzogiorno. E qui, dopo aver preso contatto con la direzione della Associazione Nazionale Artiglieri d’ltalia, il gruppo si sciolse. C O N C L U S I O N E

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Alla nostra coscienza di italiani ed al nostro orgoglio di Artiglieri si imponeva il dovere di fare tutto il possibile per tentare di riportare in Patria il glorioso Stendardo del nostro Reggimento e per rendere manifesto omaggio ai valori ideali rappresentati dallo Stendardo stesso e dal Suo ricordo sempre vivo nelI'animo dei superstiti. ll tentativo e stato fatto con qualche sacrificio da parte di ciascuno di noi, affrontando disagi ed incognite che potevano anche essere di una certa gravità. Infatti, tra 1’altro, prima della nostra partenza, eravamo stati fermamente sconsigliati di trattenerci nell’Uadi più di qualche ora: ci fermammo sul posto, invece, più di 24 ore. Il tentativo di recupero non ha avuto l’esito desiderato. Cio, a mio parere, è dipeso dalla mutazione notevolissima avvenuta nei punti di riferimento e nella morfologia attuale del terreno che non ha permesso ad Agnoletto, Bruni e Delfini, presenti all’interramento dello Stendardo, di localizzare il punto esatto del seppellimento. lnoltre, l’Uadi che al tempo della permanenza in esso del Comando di reggimento, era sabbioso, ora e diventato un torrente ghiaioso, largo in media una ventina di metri ed il suo letto si e abbassato più di un metro. Pertanto, si possono presumere tre cose ugualmente possibili: l) Lo Stendardo e ancora sepolto nell’Uadi in quanto i tre ricercatori sopra nominati non sono riusciti a trovare il punto esatto del suo seppellimento; 2) L’acqua, scavando e allargando il letto deIl’Uadi, ha travolto e trasportato Ia cassa che lo custodiva; 3) Lo Stendardo è stato trovato e distrutto dai nativi. Di conseguenza, per avere la certezza che lo Stendardo ancora esista e si possa recuperare, sarebbe necessario eseguire una nuova spedizione, in forma e con mezzi adeguati, procedendo a scavi razionali con ragionevole disponibilita di tempo. Di questo parere sono tutti i componenti della spedizione. Allo scopo di illustrate maggiormente le diflicoltà dell’impresa, ritengo opportuno riprodurre nella pagina seguente la copia fotografica della lettera inviatami dall’allora nostro Ambasciatore a Tripoli dott. Pier Luigi Alvera. N.B. - Nei mesi seguenti il nostro ritomo in Patria, ho fatto altri tentativi per ottenere dal Governo Libico il permesso a ritornare neIl'Uadi Gerfan per continuare le ricerche. Alle mie richieste non venne data risposta, né l’Ambasciatore Alvera mi ha più scritto.

Tripoli 7 maggio 1964 Caro dott. Franchi, La ringrazio per la gentile sua del 3 corr. Sono spiacente che Ella non abbia avuto maggior fortuna. Leggerò con interesse la relazione del viaggio. Che Ella potrà inviare al Consigliere d’Ambasciata Alessandro Murari della Corte Bra, al Ministero degli affari esteri. Spero di poterle raccontare un giorno quello che cercai di fare per Lei, le dirò solo che poteva finire ben peggio. Sono del tutto scettico circa la possibilità d’un rilancio a breve scadenza. Se un giorno vedrò una possibilità anche minima di successo, La terrò informato. Scusi non posso dirLe di piu’. Molti cordiali saluti Pierluigi Alvara’ Ambasciatore d’ Italia

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Immagini dal Fronte Africano, Autunno 1941, Inverno 1942 2° Reggimento Artiglieria Celere

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Ridotta Capuzzo

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Ridotta Capuzzo Ripresa aerea.

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Vista da passo halfaya

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immagini di un artigliere del 2°articelere a passo halfaya

L’artigliere ritratto nelle immagini E’ il sergente Celso bertelli, catturato a passo halfaya dagli inglesi , finira’ il conflitto come POW in sud africa

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il tentato recupero dello stendardo del 2* articelere

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Per concludere non e’ azzardato sostenere che con la resistenza opposta dalle truppe italo-tedesche a Passo Halfaya per oltr trenta giorni dopo la data autorizzata dal Comando Supremo italiano per la resa, si permise a Rommel di riorganizzare le proprie truppe, di ricevere gli aiuti ed i rifornimenti richiesti e quindi di intraprendere quella controffensiva che avrebbe portato le truppe dell’Asse a pochi chilometri da Alessandria. Fra i pochi che riuscirono a tornare dalla Libia prima della fine del 2° Articelere vorrei ricordare il Sergente Franco Moretti di Ferrara, ferito durante un attacco aereo inglese a Sollum alta, riuscì ad essere imbarcato fortunosamente su una nave ospedale italiana ed ad essere rimpatriato. Al suo ritorno a Ferrara nella sede del Reggimento fu accolto con gli onori militari in quanto unico superstite in Italia del glorioso Reggimento. Un anneddoto curioso del quale non sono ancora riuscito a trovare conferma in quanto non sono riuscito ad ottenere le informazioni necessarie dall’Archivio di Stato di Bologna, riguarda la presenza in Africa nelle fila del 2° Articelere dell’ex ministro e politico Luigi Preti, Moretti sosteneva con dovizia di particolari che Luigi Preti fosse in Africa con il Reggimento fino al Dicembre del 1941 quando insieme alla fanfara del Reggimento rientrò in patria. Interpellai l’onorevole Preti pochi mesi prima della scomparsa per avere qualche dettaglio in piu’ riguardo la sua vita militare, la risposta veloce e puntuale confermo’ la sua appartenenza al Secondo Articelere ma negò di essere mai stato assegnato in Africa, sostenendo che nemmeno il suo Reggimento c’era stato. Magari era solo un vuoto di memoria causato dai problemi fisici che avevano colpito negli ultimi anni Luigi Preti, comunque il dubbio e’ rimasto e non dispero di riuscire ad ottenere il foglio matricolare per risolvere l’arcano. Di seguito propongo uno scritto di Franco Moretti che racconta la sua esperienza in Libia. Alla fine di Gennaio fui chiamato alle armi e , per fortuna , assegnato ad unreggimento di stanza a Ferrara . A seguito della dichiarazione di guerra fui inviato, con il mio reggimento, il 12Gennaio 1941 in Africa Settentrionale e partecipai alle varie operazioni in quel settore. Ero al reparto comando del mio reggimento e avevo l’incarico della manutenzione e riparazione degli apparati radio ricetrasmittenti. Un giorno, il 21 settembre 1941, mi sono recato con la motocicletta di servizio ad una batteria (ero in artiglieria) nelle prime linee che aveva la radio in avaria . Durante la riparazione iniziò una forte azione nemica di bombardamento e mi riparai dietro allo scudo di un cannone . Per mia sfortuna cadde una granata nei pressi e una scheggia colpì il cumulo di sacchetti di balistite, necessari ad alimentare il cannone. La massa prese fuoco e fui colpito da una violenta fiammata che mi procurò ustioni di 1° e 2° grado alla gamba destra. Fui ricoverato all’ospedale militare di Derna e potei raggiungere di nuovo il mio reparto dopo due mesi . Verso la fine di Dicembre dell’anno 1941 il comando mi mandò con un automezzo a prelevare il rifornimento settimanale di acqua potabile presso un impianto di desalinatura dell’acqua marina sulla spiaggia di Sollum bassa . Per adire all’impianto si doveva scendere una collina con tornanti stradali molto stretti e purtroppo il nostro autista, forse perché stavamo usando un mezzo Francese recuperato nel deserto, che non aveva mai guidato, all’ultima curva prima della base l’automezzo non riuscì a fare il tornante e precipitò dalla scarpata. Io ricordo solo che al primo impatto, contro il fianco della montagna, si aprì lo sportello di accesso e fui sbalzato fuori dall’abitacolo . Mi risvegliai in un ospedale militare a 500 km dal disastro e con mia sorpresa notai che mi trovavo in compagnia di colleghi tedeschi. L’ufficiale di servizio poi mi spiegò che avendo perduto la bandoliera con la pistola, e perso la mostrina sul braccio con i gradi e non sapendo di che nazionalità fossi, fui avviato ad un ospedale tedesco. Essendo in stato di incoscienza rimasi per alcuni giorni senza riprendermi e appena fui in grado di parlare e raccontando la mia avventura, fui trasferito a Tripoli in un ospedale Italiano. Il mio reparto però non sapeva dove ero finito e dopo le ricerche del caso, contattarono la croce rossa che provvide a dichiararmi “disperso” e ad inviare una comunicazione alla mia famiglia in Italia con tale versione. La faccenda fu chiarita nel giro di una settimana e in Italia tirarono un sospiro di sollievo. All’ospedale mi concessero sei mesi di convalescenza, ma non il rientro in Italia come io speravo. Dal 7 gennaio 1942 fui assegnato al comando tappa di Tripoli. Non sapendo dove andare e cosa fare cominciai a cercare conoscenti o amici e dopo una settimana trovai occupazione e asilo, presso un centro di assistenza ai militari impiegandomi come operatore cinematografico, in quanto posto vacante. Il mio impegno era bisettimanale, per l’attuazione di proiezioni cinematografiche , e quindi avevo molto tempo libero . Giravo per Tripoli ,facevo fotografie , e cercavo contatti per ritrovare il mio mondo dei radioamatori. Frequentai un negozio di apparati radio gestito da un simpatico napoletano , che però non aveva la mia passione. Questo però mi diede modo di conoscere l’ambiente e fui presentato alla direzione dell’EIAR (oggi RAI ) e cominciai a frequentare il gruppo dei tecnici che gestivano radio Tripoli. Il direttore, dott. Mori , mi disse che non mi poteva assumere in quanto io ero militare, in zona operativa, ma che avrei potuto collaborare con il Team per un buon funzionamento del servizio. Chiaramente senza stipendio. Questo per me fu una grande opportunità . Cominciai a vivere l’atmosfera di una vera stazione radiotrasmittente manovrando i vari

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ricevitori che permettevano il collegamento con la sede di Roma e imparando la tecnica Diversità System che si avvaleva della ricezione del segnale desiderato prelevandolo da diverse frequenze e con antenne di differente polarizzazione . Vi erano appunto pannelli di ricevitori con RF diverse che poi confluivano in una sola bassa frequenza che veniva utilizzata per la reale trasmissione . La stazione trasmittente era a Zanzur una quindicina di chilometri da Tripoli e il centro direzionale con auditorio e apparati era nei locali della Fiera di Tripoli, che nel periodo bellico non gestiva più nessuna manifestazione. Iniziai amicizie che poi anche dopo la guerra ho coltivato e vissuto con lo spirito del radioamatore. Una persona in particolare mi aiutò e mi permise di usare la apparecchiature, ed era il capo servizio Enrico Firpo. Con lui una volta andammo a visitare il centro trasmittente a Zanzur e ricordo ancora il simpatico autista . Si chiamava Conti ed era di Bologna. L’impianto aveva due tralicci per il sostegno dell’antenna filare e la cosa che più mi colpì visitando i vari armadi del complesso , lo stadio finale di potenza . Era formato da due enormi valvole che sembravano due damigiane di vino . Erano infilate nella loro sede e avevano due maniglie per l’estrazione dall’alloggiamento per permettere a regolari intervalli la pulitura dalle incrostazioni calcaree , in quanto raffreddate ad acqua forzata . Ho partecipato alla vita sociale del gruppo EIAR di Tripoli per vari mesi vivendo i frequenti bombardamenti aereonavali e il normale servizio di stazione . Cercai di convincere l’amico Firpo a diventare radioamatore . ma senza successo . Però , dopo la guerra , ci frequentammo assiduamente e gli regalaiuna valvola 807 per convincerlo ad entrare nella nostra famiglia di OM . Conmia grande soddisfazione diventò un ottimo radioamatore con il call I1EX eper molti anni ,terminato il suo lavoro di tecnico RAI,passava alla sua stazionedi radioamatore le ore di svago . Sono certo che tutti i radioamatori di Veneziae di Mestre , città dove viveva , si ricorderanno con simpatia di lui . Alla fine di Gennaio 1943 le sorti della guerra mi costrinsero a scegliere ilmio destino . Gli Inglesi avevano rotto il fronte e stavano arrivando a Tripoli . Dovevo scegliere se rimanere e darmi prigioniero oppure seguire i colleghi del centro di assistenza dove dimoravo . Il 25 Gennaio cercai gli amicidell’EIAR , ma erano già partiti per la Tunisia , e mi aggregai al gruppo dei militarizzati del centro che avevano avuta assicurazione di rifugio certo oltre il confine Libico e verso il vicino stato della Tunisia . Non avevo documenti che certificassero la mia condizione militare in quanto anche il comando tappa aveva evacuato Tripoli . Con due autocarri raggiungemmo la città di Sfax, dove nel porto aspettava una nave ospedale. Il capo della missione mi disse che forse avrebbe potuto farmi imbarcare e che con il gruppo, in attesa sulla spiaggia, attendessi di essere chiamato. Un ufficiale di marina cominciò a chiamare, con nome e cognome, leggendo da un elenco i nomi dei presenti .Ormai si erano imbarcati sulle scialuppe della nave ospedale quasi tutti , anche il capo del mio gruppo , e ormai disperavo di essere chiamato . Sentii chiamare Pellegrini Virgilio più volte senza che nessuno si presentasse. Presi il coraggio a due mani e alla quarta chiamata risposi … presente !! . L’ufficiale mi disse che dovevo porre attenzione e rispondere subito alla chiamata . Mi scusai e mi misero al collo una piastrina con il nome .. indicato , il tipo di malattia ( epatite ) e la destinazione Napoli imbarcandomi sulla scialuppa verso la nave ospedale. Furono momenti di grande paura anche a bordo perché il nostro capomissione vedendomi e osservando il cartellino con il nome mi disse che era quello di un loro dirigente che da giorni non vedevano. Finalmente la nave salpò per Napoli : era il giorno 27 Gennaio 1943. La nave fu fermata a Malta e vennero a bordo gli ufficiali inglesi per il controllo dell’equipaggio. Fummo pregati di rimanere nelle cabine e non muoverci. Tutto andò bene , nessuno venne a controllare i cartellini. Il giorno dopo sbarcammo a Napoli. Sul porto accompagnato dai vari componenti del centro, con il direttore in testa, ci salutammo sperando dirivederci un giorno !!! Rimisi la divisa di artigliere, che avevo nello zaino, e al comando tappa dichiarai le mie “vere” generalita’, il reggimento al quale appartenevo e raggiunsi quindi Ferrara , sede del mio reparto. Non mi presentai subito in caserma e raggiunsi casa mia per riabbracciaremia moglie, mia figlia e i genitori. Il 30 Gennaio 1943, previo avviso al comando, rientrai in caserma e fui accolto dalla guardia schierata perché ero l’unico rimasto del mio reggimento in quanto, a seguito delle operazioni belliche, tutti i miei commilitoni erano stati fatti prigionieri. La maggior parte , ufficiali e sottufficiali , finirono in India e tornarono a guerra finita.