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1 Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali Anno Accademico 2010-2011 Tesi in Tecniche del Negoziato Internazionale La Profondità Strategica turca e le Relazioni con la Bosnia-Erzegovina Le evoluzioni della politica estera di Turchia dal Conflitto tra Islamici, Kemalisti e Kurdi Relatore Candidato Prof. Miodrag Lekic Alceo Smerilli Correlatrice Matricola Prof.ssa Bruna Soravia Graziosi 612162

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Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali

Anno Accademico 2010-2011

Tesi in Tecniche del Negoziato Internazionale

La Profondità Strategica turca e le Relazioni con la Bosnia-Erzegovina

Le evoluzioni della politica estera di Turchia dal

Conflitto tra Islamici, Kemalisti e Kurdi

Relatore Candidato

Prof. Miodrag Lekic Alceo Smerilli

Correlatrice Matricola

Prof.ssa Bruna Soravia Graziosi 612162

  2  

Indice Introduzione 06 1. Il Conflitto come problema o come opportunità, Turchia e Bosnia-Erzegovina 07

2. Machiavelli e l’interpretazione del Conflitto 12

3. Le differenze tra Roma Repubblicana e la città di Firenze 14

4. Costituzione Mista 16

5. Politica Estera: diversi umori, un solo interesse nazionale 18

6. Rappresentanza e Libertà 20

Capitolo 1

Turchia, i nuovi equilibri tra le diverse anime 24

1.a Gli Islamici nella Repubblica di Turchia 28

1. L’Impero Ottomano, Scelta della Modernità ai fini difensivi 30

2. Islam Politico Turco. Dall’affermazione del pluripartitismo all’AKP 34

3. L’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo 42

4. La fonte del consenso di Erdogan: la Società Civile Islamica 49

5. Il Sufismo 50

6. Islamici e Pluralismo: il Neo-Ottomanesimo dentro i confini 52

1.b Kemalisti 55

1. La fine della Guerra Fredda, nuove libertà 55

2. La Lâiklik 57

3. Tanzimât 58

  3  

4. Negoziato di Losanna, il riscatto dell’orgoglio turco 59

5. Il controllo dell’Islam 62

6. Le Forze Armate Turche: Custodi della Laicità Costituzionale 63

7. L’ascesa dell’Akp e i difficili equilibri con le forze a difesa della laicità in Turchia 66

8. Le elezioni del 12 giugno 2011 70

9. Le aperture della società civile laica agli islamici moderati: tra timori e convivenza

pacifica 72

1.c Kurdi 74

1. I kurdi nell’impero ottomano 75

2. Nascita del Nazionalismo 78

3. La fine della guerra fredda e il ritorno in auge del movimento separatista kurdo 83

4. La democrazia come rimedio alla violenza 85

5. La lotta alla tortura 86

6. L’AKP è la Questione Kurda 88

7. I kurdi, tra sinistra e Islam 89

Capitolo 2

Profondità Strategica 94 1. La dottrina di “Mr Zero Problems” 98

2. Una Turchia rivolta meno ad Occidentale 99

3. Padroni di noi stessi 105

2.a Panturchismo 108

1. La Nuova tesi storica 109

  4  

2. Ankara e Mosca, un nuovo sodalizio 113

3. La guerra in Afghanistan e il ruolo della Turchia 116

4. Le relazioni con la Cina, la questione degli Uiguri 121

5. L’applicazione di Profondità Strategica alla missione turca in Afghanistan 123

2.b L’Islam in politica estera 125

1. I progetti dei partiti islamisti turchi da Erbakan a Davutoğlu 126

2. Il Nuovo approccio dell’AKP, la Turchia nel nuovo millennio 131

3. L’allontanamento dall’Unione Europea, Stati Uniti ed Israele 132

4. L’Islam nelle relazioni internazionali 136

2.c Neo-Ottomanesimo 144

1. Definizione 144

2. Il Modello Turco nella Primavera Araba 152

3. Due Turchie per un solo Egitto 154

4. La Tunisia dalla Rivoluzione dei Gelsomini 160

5. La laicità tunisina 162

6. L’attivismo turco in Tunisia, una Partnership win-win 163

7. I rapporti tra Turchia e la Libia di Gheddafi 167

8. L’intervento NATO in Libia e la reazione turca 171

9. L’attivismo di Ankara nella Libia libera da Gheddafi 173

10. Il Neo-Ottomanesimo tra idealismo e Realpolitik 173

  5  

Capitolo 3

L’attore turco nei Balcani Occidentali 176

1. La Repubblica turca e i Balcani da Atatürk ad Erdoğan 179

2. La diplomazia dell’AKP nei Balcani 180

3. Cooperazione Militare turca in Regione 185

4. La Presenza economica turca in Bosnia-Erzegovina e nei Balcani 187

5. Cultura storia e religione, un legame secolare 194

6. La Turchia nei Balcani, intervista a Teoman Duman 199

7. La Percezione dei Bosniaci dell’attore turco 205

8. Una storia non condivisa, percezioni contrastanti 209

Conclusioni 230

1. Critica al “miracolo” economico turco: un’economia a serio rischio recessione 237

2. L’importanza della diplomazia turca 240

Ringraziamenti 243

Bibliografia 244

  6  

Introduzione

L’uomo multiculturale costruirà il mondo1

Nel nostro elaborato, partendo dall’analisi dei nuovi equilibri interni, cerchiamo di

comprendere il nuovo approccio alla politica estera della Turchia, in particolare in

relazione ai Balcani e alla Bosnia-Erzegovina. Effettuando una ricerca di tipo bottom-up,

ovvero partendo dalle dinamiche interne turche che tengono conto dell’influenza

dell’eredità ottomana e del periodo repubblicano, ci chiediamo se le novità in Turchia, in

particolare il rafforzamento del potere civile sul militare, l’ascesa degli islamici praticanti,

il nuovo coinvolgimento dei kurdi e le reazioni dei laici, influenzino e in che misura la

politica estera.

In quest’introduzione riportiamo dei passaggi dei Discorsi sulla Prima Deca di Tito

Livio di Niccolò Machiavelli circa l’approccio al conflitto che può essere tenuto da uno

Stato. Le Teorie di Machiavelli hanno influenzato il nostro approccio allo studio della

politica estera turca soprattutto in relazione ai Balcani. Machiavelli confrontando la prima

Repubblica romana (509 – 27 a.C.) alla Firenze a lui contemporanea, riconosce nella

capacità di individuare il conflitto tra ricchi e popolo e canalizzarlo in istituzioni quali il

Senato e il Tribuno della Plebe, la base della forza interna ed esterna di Roma. Le

differenze, i conflitti, i diversi umori che animano uno Stato non vengono neutralizzati, ma

riconosciuti e rappresentati dalle e nelle istituzioni. Tale assetto favorisce una pace sociale

interna, i cittadini nella partecipazione alla Res Publica maturano un interesse di stato (in

particolare in politica estera) e l’assetto statale ha il giusto retroterra per difendersi da un

nemico esterno ed espandersi. In opposizione a Roma Machiavelli analizza una Firenze

logorata e fragile al mondo a causa dei tumulti di piazza, violenze ed esili; il potere politico

fiorentino non riconosce i diversi umori che si scontrano nella società, non è in grado di

lasciarli esprimere canalizzandoli in organi istituzionali.

                                                                                                               1 Epigrafe della Statua dell’Uomo Multiculturale, Piazza della Liberazione, Sarajevo.

  7  

1. Il Conflitto come problema o come opportunità, Turchia e Bosnia-Erzegovina

Turchia e Bosnia-Erzegovina sono Paesi composti da diverse anime o forze sociali. La

Turchia è abitata da circa ottantamilioni di persone. Vi sono turchi fedeli alla tradizione

kemalista che intendono difendere la Repubblica secolare e ancorata ai modelli occidentali

e altri, tra i quali i musulmani praticanti i quali piuttosto, si battono per riformare il

sistema, al fine di poter contare nell’arena politica e non aderendo pienamente alla cultura

euro-atlantica. I kurdi sono la minoranza più numerosa di fede musulmana, legati alla loro

lingua, storia, tradizioni differenti da quelle turche, da sempre si battono per un’estensione

dei loro diritti e il loro riconoscimento da parte del governo di Ankara. Gli aleviti

professano una fede più similare all’islam sciita e tra di loro hanno sempre trovato terreno

fertile culti mistici; essi sono per una Turchia tollerante che riconosca la libertà religiosa.

La Bosnia-Erzegovina ha circa cinque milioni di abitanti, tuttavia la sua composizione

è altamente eterogenea. I “popoli costitutivi”, stando al linguaggio dell’accordo di

Dayton2, sono tre: bosgnacchi3, croati e serbi. Secondo l’ultimo censimento che data al

1991, la Bosnia-Erzegovina ha una popolazione pari a 4.363.574 abitanti, di questi il

43,7% Musulmani, 31,4% serbi, 17,3% croati e 5,5% jugoslavi4. Secondo i dati Cia al

luglio 2012 sono riportati 4,622,292 abitanti e al 2000 le proporzioni della popolazione è le

seguente: 48% Bosngnacchi, 37,1% serbi e 14,3% croati5.

                                                                                                               2 Accordo di pace che sancisce la fine della guerra di Bosnia firmato da Slobodan Milošević, Alija Izetbegović, Franjo Tuđman. L’accordo modella anche la Costituzione del nuovo Stato: la Federazione di Bosnia-Erzegovina. Si sancisce l’intangibilità dei confini della Bosnia-Erzegovina e si riconosce la creazione di due entità: la Federatia Croato-Musulmana e la Republika Srpska. http://www.ohr.int/dpa/default.asp?content_id=380, Dayton Peace Agreement, OHR, visionato il 5 dicembre 2011. 3 “The name ‘Muslim’ (Musliman, with a capital ‘M’) has been used to designate the Slavic-speaking Muslims of Bosnia since the end of the 19th century, but became their official national name only in 1968. In September 1993, the Bošnjački sabor (Bosniac Assembly) declared ‘Bosniac’ (Bošnjak) to be the new national name. The latter should not be confused with the term ‘Bosnian’ (Bosanac), which applies to all inhabitants of Bosnia-Herzegovina. Whereas ‘Bosniac’ was introduced in 1995 into the new Bosnian Constitution, the name ‘Muslim’ is still frequently used in everyday conversations”. Xavier Bougarel, “The New Bosnian Mosaic”, Ashgate, Farnham, 2007. pg 1 4 Ibid. 5 https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/bk.html, Bosnia-Erzegovina Factbook, 2000

  8  

L’accordo di Dayton ripartisce il territorio bosniaco in tre entità: la Federatia

Bosniaco-Croata, rispettivamente divisa in 10 cantoni, la Republika Srpska centralizzata e

abitata prevalentemente dai serbo-ortodossi e il Distretto di Brčko, altamente autonomo.

Lo Stato turco, al contrario, è altamente centralizzato. Entrambi i Paesi sono il

risultato di una storia densissima e originale. Dalla Turchia si è propagato uno dei più

estesi e longevi imperi d’Europa: l’Impero Ottomano, capitolato solo in seguito alla prima

guerra mondiale. Benché abbia subito pesanti sconfitte ed umiliazioni da parte di potenze

esterne che l’hanno portata a vivere traumatiche umiliazioni (tratteremo nel nostro

elaborato della sindrome di Sèvres), la Turchia non è mai stata colonizzata da alcuna

potenza occidentale. L’immagine di una Repubblica turca laica, ancorata all’occidente,

protetta dal potere militare e abitata da soli turchi (e turco ablanti), risulta dalla fondazione

del nuovo assetto post-ottomano. Dal 2002 l’ascesa dei musulmani-moderati (termine che

tranquillizza molto gli occidentali, ma è totalmente inappropriato per chi professa la fede

dell’Islam), comporta la formazione di nuovi equilibri che si vengono a stabilire tra il

potere civile e quello militare. Ankara tenta un nuovo approccio alla questione kurda, cerca

di riconoscere il diritto alla libertà religiosa, utilizza l’Islam come strumento di politica

estera, recupera parte della tradizione ottomana. Questi rivolgimenti ci portano a riflettere

sull’evoluzione dei principi kemalisti e sui nuovi rapporti intessuti tra le forze sociali che

compongono la Repubblica di Turchia.

La Bosnia-Erzegovina ha vissuto un passato quasi opposto benché legato a quello

della Turchia. Ad eccezione dell’orgoglioso periodo medievale del regno di Tvrtko,

regnante di Bosnia dal 1377 al 1391, durante il quale il Paese si distingueva per la fiera

autonomia, forza militare ed estensione territoriale, la storia di questo Stato è sempre stata

altamente determinata dal volere di potenze e forze straniere. Conquistata dall’Impero

Ottomano e in seguito da quello Austro-Ungarico, alla mercé di ambizioni territoriali di

Serbia e Croazia, durante il periodo comunista soggetto passivo delle scelte prese

all’interno della Lega dei Comunisti di Jugoslavia, Savez komunista Jugoslavije, la Bosnia

non ha sempre avuto grande voce in capitolo in eventi fondamentali della sua storia. Ciò

non ha impedito a tale Paese di essere protagonista di cambiamenti e innovazioni in campo

scientifico-tecnologico: Sarajevo è stata la prima capitale europea a realizzare una rete

  9  

elettrica e costituire la prima tranvia (seconda al mondo dopo San Francisco). La Bosnia

nel periodo socialista ospitava industrie meccaniche e siderurgiche di vitale importanza per

la Jugoslavia. La multiculturalità di Sarajevo e della Bosnia-Erzegovina era vanto, orgoglio

e modello per la Jugoslavia intera, un esempio furono le Olimpiadi Invernali di Sarajevo

del 1984 ricordate oggi dai bosniaci con fierezza e commozione. Le diversità culturali

hanno favorito una produzione artistica e culturale senza pari (si pensi negli anni ’70-’80 al

movimento dei Giovani di Sarajevo) che nemmeno una lunga guerra e 1400 giorni di

assedio della capitale sono riusciti a spegnere.

Percorrendo una delle vie centrali della capitale, ulica Farhadia, possiamo vedere la

testimonianza della tolleranza e convivenza religiosa che contraddistinguevano Sarajevo: si

scorge la moschea da cui prende nome la via, una delle più grandi e splendide chiese

ortodosse del Paese, la cattedrale cattolica, la sinagoga. Tuttavia la città è divisa in due

entità: la prima quella conosciuta ai più è la Sarajevo delle Federatia Bosniaco-Croata,

l’altra è l’enclave della Republika Srpska, Sarajevo Est. Istočno Sarajevo, in passato

Srpsko Sarajevo è sede dell’università, dell’ospedale e di varie istituzioni a beneficio dei

serbo-bosniaci che abitano la capitale. Non stiamo parlando di ghettizzazione o divisione

tipo Berlino Est - Berlino Ovest (un autobus e un filobus collegano le due parti della città e

in una buona mezz’ora di mezzi pubblici è possibile recarsi da un lato all’altro della

capitale), ma di una volontaria separazione dei cittadini che abitano Sarajevo.

La Costituzione di Bosnia-Erzegovina scritta a Dayton, in Ohio, cristallizza le

divisioni dei popoli costitutivi e rende difficili se non improbabili le revisioni costituzionali

e gli avanzamenti nel campo istituzionale. Un recente esempio è la crisi istituzionale che

ha portato la Bosnia-Erzegovina a rimanere senza un governo dalle elezioni dell’ottobre

2010 al gennaio 2012. Dal punto di vista economico, i Paesi dei Balcani Occidentali che

erano parte della Federazione di Jugoslava, sino agli anni ’90 erano più ricchi e sviluppati

dei Paesi dell’Europa dell’est legati al blocco sovietico. Le guerre balcaniche di Bosnia e

Kosovo hanno portato alla perdita del vantaggio economico sui Paesi dell’Europa dell’est e

a evidenti problemi sociali6.

                                                                                                               6 Xavier Bougarel, “The New Bosnian Mosaic”, Ashgate, Farnham, 2007

  10  

La Bosnia-Erzegovina è uno dei paesi più poveri d’Europa7. Stagnazione e crisi

economica, livelli altissimi di disoccupazione (soprattutto giovanile), il caro vita e il valore

esiguo dei salari, l’inefficienze della pubblica amministrazione, una potente criminalità

organizzata e un livello altissimo di corruzione8, portano i cittadini a nutrire una sfiducia

generale nelle deliberazioni di Dayton. Tuttavia gli atteggiamenti sono contrastanti: se la

maggioranza bosgnacca propende per modifiche volte alla maggiore centralizzazione e

unità del paese, la componente serba e quella croata sono maggiormente interessate una

alla secessione e indipendenza o annessione alla Serbia, l’altra alla creazione di un’entità

autonoma croata o annessione alla Croazia.

I partiti nazionalisti (Sda, Sds, Hdz) sono quelli che raccolgono maggiore consenso e

che fomentano le divisioni per fini elettorali. Quello che era considerato il Paese più laico

al mondo vede oggi l’inasprimento delle distanze religiose e il rafforzamento di posizioni

radicali estranee alla cultura bosniaca: ne è la prova l’attentato del 28 ottobre 2011 ad

opera di un giovane Wahabita proveniente dal Sangiaccato serbo, che ha sparato e ferito

due poliziotti di fronte all’ Ambasciata Americana di Sarajevo. In tutto ciò l’evidente e

possente presenza economica ed istituzionale straniera, compresa quella turca, fa sorgere

dubbi circa la volontà e l’interesse di ricucire le divisioni e di lavorare per il rafforzamento

e l’unità della Bosnia-Erzegovina, o piuttosto sull’interesse nel mantenere tale Paese

docile, diviso e economicamente appetibile9.

Turchia e Bosnia-Erzegovina vivono in modo opposto i conflitti interni che li

caratterizzano. Dal 2002 sembra che due Turchie si stiano affrontando. La Turchia

storicamente laica, che riconosce l’importanza del ruolo delle Forze Armate e che è più

fedele all’ideologia kemalista, viene messa in discussione da un’altra Turchia portatrice

delle istanze dei musulmani praticanti, dei kurdi e della società civile interessata ad uno

assetto di primazia circa il potere militare. Nel nostro elaborato cercheremo di chiarire

volontà della parte laica del Paese di difendere e mantenere i modi e abitudini moderni e

occidentali. I revisionisti dell’assetto kemalista propongono un’evoluzione del modello

                                                                                                               7 http://data.worldbank.org/country/bosnia-and-herzegovina, Bosnia and Herzegovina, al febbraio 2012 8 “Corruption in the western Balkans: bribery as experienced by the population”, UNODC United Nations Office on Drugs and Crime, 2011 9 Luca Leone, “Bosnia Express”, Infinito Edizioni, Roma, 2010. pg 110

  11  

turco in senso più pluralista e un potenziamento delle libertà per tutti i cittadini che abitano

la Turchia. Lo scontro questa volta non è caratterizzato dalla violenza (benché essa

continui a essere presente, anche se in minima parte rispetto al passato) ma è soprattutto

canalizzato nelle istituzioni legittime dello stato e attraverso mezzi pacifici e democratici.

I diritti del popolo kurdo soffrono ancora di lacune evidenti: il sud-est dell’Anatolia,

zona storicamente a maggioranza kurda, è la regione più povera del paese. I kurdi, spesso

discriminati, sono costretti ad emigrare nei grandi centri turchi, o in alternativa lasciano il

Paese. Tuttavia oggi riescono a reclamare i loro diritti non più unicamente attraverso la

lotta armata portata avanti dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), ormai

considerato da molte parti della società civile kurda come non rappresentativo delle

istanze, bensì attraverso i partiti politici di ispirazione social-democratica più vicini alla

causa kurda, in ultimo il BDP, Partito della Pace e Democrazia, o all’interno delle fila del

partito di governo, l’AKP, in cui sono presenti diversi parlamentari kurdi. Il partito di

Erdoğan riceve un grande sostegno elettorale tra la popolazione kurda.

La Turchia kemalista, quella musulmano-praticante e il popolo kurdo, si trovano oggi

a portare avanti un conflitto con mezzi pacifici e democratici. Il terreno di scontro è in

realtà un negoziato all’interno d’istituzioni legali. Il dialogo porta ad una maggiore

conoscenza tra le parti. Con fatica si ricorda una Repubblica turca così pacifica al suo

interno.10 Le parti in gioco nella competizione non vogliono nuocere all’interesse

nazionale: la crescita economica turca porta benefici a tutta la popolazione, una politica

estera esemplare inorgoglisce i cittadini, i progressi verso l’integrazione europea o la

partecipazione di Ankara nelle organizzazioni internazionali, migliora lo stato dei diritti

umani.

                                                                                                               10 Dal 2006 la resistenza armata del Pkk sembra tornata in auge. Tuttavia nel 2010 i documenti portati alla

luce da Wikileaks dimostrano un coinvolgimento di potenze straniere nel rafforzamento di tale istituzione e

un minor sostegno a tale movimento da parte dei kurdi. Il Pkk negli ultimi anni ’80, anni ’90 era con pochi

dubbi altamente rappresentativo per i kurdi. Dagli anni 2000 i costanti avanzamenti nel campo dei diritti

umani e delle libertà civili e politiche portano il popolo kurdo a canalizzare la lotta attraverso mezzi pacifici e

istituzionali.

  12  

La pace sociale è concausa della riuscita delle politiche economiche che hanno portato

la Turchia ad uscire dalla crisi del 2000-2001 e a renderla una delle economie più solide

della regione e con ritmi di crescita più sostenuti al mondo. La politica estera teorizzata dal

già professore di Relazioni Internazionali, poi consulente di Erdoğan e oggi Ministro degli

Affari Esteri: Ahmet Davutoğlu, oltre a ricercare i legami con i popoli turcofoni, intende

rinsaldare i rapporti con i Paesi che si trovano all’interno dei vecchi confini ottomani e

utilizza l’islam come strumento di dialogo, pace e cooperazione internazionale.

Benché non vi siano episodi di violenza (ad eccezione degli sporadici attentati

dell’esigua minoranza wahabita), in Bosnia-Erzegovina il conflitto tra le diverse forze

sociali è portato avanti in modo molto diverso rispetto all’esempio turco. Ciò porta la

Bosnia-Erzegovina ad uno stallo politico-economico e istituzionale, debole al suo interno

nonché quasi totalmente priva di una politica estera rappresentativa del Paese.

2. Machiavelli e l’interpretazione del Conflitto

Al termine “conflitto” possono essere attribuiti due significati. Il più noto è legato al

senso di contrasto: urtare, venire a conflitto, combattere. Altra interpretazione è quella che

vede il “conflitto” come incontro e scambio, rimescolamento e arricchimento, ricerca di

armonia11.

Battezzato come padre della scienza politica nonché fondatore del realismo politico

moderno, il fiorentino Niccolò Machiavelli, 3 maggio 1469 – 21 giugno 1527, ragiona

                                                                                                               11 Tito Lucrezio Caro, De Rerum Natura, Mondadori, Sagrate (Mi), 2007. Versi 1209-1232.

Tra i presocratici Eraclito interpreta il conflitto come motore delle cose o forza positiva. Gli opposti per

Eraclito sono frammenti di un’unica realtà che permane immutabile e racchiude in sé il cambiamento.

Nell’eterogeneità e dispersione scaturisce Polemos (guerra o conflitto) attraverso il quale le parti si

definiscono. lo scontro violento non è l’unico modo di interagire con la diversità: dialettica e ragione possono

essere mezzi finalizzati a conoscere un’identità opposta e dunque definirne la propria. Interagire con l’altro è

finalizzato a comprendere se stesso, senza annullarne gli opposti, bensì, nelle diversità, ricercare un’unità più

generale. Nella molteplicità e dispersione, è possibile ricercare un ordine proprio attraverso il conflitto. In un

frammento Eraclito sostiene che: “Il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è il Re”. Eraclito, traduzione

Angelo Tonelli, “Eraclito dell’Origine”, Feltrinelli, Milano, 2007.

  13  

attentamente sul concetto di conflitto. Per conflitto intendiamo non quello esterno, inter-

statale, bensì le relazioni che intercorrono tra le diverse anime che compongono un’entità

statale, che sia essa una città (come la Firenze del quindicesimo secolo) una Repubblica

(come la Repubblica romana, 509 – 27 a.C.) o un Impero (come l’impero Romano, 27 a.C.

476 d.C.).

Machiavelli definisce umori le diverse parti che compongono uno Stato. E’ in tal

modo che intende le forze sociali presenti in un’entità statale, la cui varietà dei rapporti

determina la salute del corpo politico. Il riconoscimento del conflitto, inteso come

eterogeneità, può portare al rafforzamento dello Stato. Attraverso l’istituzionalizzazione

delle parti in competizione tra loro all’interno di una città o repubblica, il conflitto non

viene neutralizzato ma canalizzato in strutture legali e gestibili, come ad esempio gli

organi di rappresentanza. Ciò inietta forza all’entità statale e favorisce una pace sociale

interna. A differenza di Thomas Hobbes, Karl Marx e molti altri autori, il punto in

Machiavelli sul conflitto non è la neutralizzazione di esso ai fini di trovare un ordine nello

stato, al contrario è necessario riconoscerlo e preservarlo per rafforzare l’entità statale e

favorirne stabilità e durata.

Per umori Machiavelli intende essenzialmente nobili e popolo, dal capitolo nono del

Principe:

“[...]quando uno privato cittadino, non per scelleratezza o altra intollerabile violenza,

ma con il favore delli altri sua cittadini diventa principe della sua patria, [...] dico che si

ascende a questo principato o con il favore del populo o con il favore de’ grandi. Perché in

ogni città si trovuano questi dua umori diversi;”12

Dal capitolo quarto del libro primo dei Discorsi:

“sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e

come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come

facilmente si può vedere essere seguito in Roma; [...]Né si può chiamare in alcun modo

con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni

                                                                                                               12 Niccolò Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino, 1961, Capitolo nono

  14  

esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le

buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi

esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza

in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà” 13.

In questo studio, ci arroghiamo il diritto di interpretare gli scritti di circa cinque secoli

or sono per comprendere una realtà molto diversa, quella attuale, in cui i conflitti in uno

stato non sono quelli tra i due umori nobili e popolo, bensì tra gruppi religiosi, sociali,

linguistici, politici le cui interrelazioni rafforzano o indeboliscono i due Paesi che

considereremo: Turchia e Bosnia Erzegovina.

Nelle sue opere, specificamente nei Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio,

Machiavelli ricorre all’esempio di Roma, in particolare alla fase repubblicana. Rileggendo

i primi dieci libri dello storico Livio, Machiavelli ritrova nella presenza delle parti

contrapposte: Plebe e Senato, la grandezza di Roma: “rimanendo mista, fece una republica

perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato”14.

3. Le differenze tra Roma Repubblicana e la città di Firenze

Firenze, madre matrigna che prima nutre Machiavelli e poi l’esilia, è protagonista

delle Historiae Fiorentinae. L’autore ripercorrendo il secolo trascorso vuole dimostrare le

cause della debolezza della sua città. Anche in quest’opera come del resto nel Principe e

nei Discorsi, Machiavelli fa leva sull’importanza del popolo al fine di garantire un

equilibrio interno. Tra un ordinamento esclusivo come quello fiorentino (in cui i conflitti

sono concentrati sulla gestione del potere, sull’estromissione di una parte della città dal

governo o dalle proprietà) ed uno inclusivo come quello della repubblica romana, al fine di

creare e garantire un ordinamento stabile che sia capace di difendersi da incursioni esterne,

                                                                                                               13 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,

capitolo quarto.

14 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,

Capitolo Secondo

  15  

è necessario che il popolo che armato fa forte la città, abbia diritto a rappresentarsi nel

dibattito politico.

Nel proemio delle Historiae utilizza di nuovo l’esempio romano:

“In Roma, come ciascuno sa, poi che i re ne furono cacciati, nacque la disunione intra

i nobili e la plebe, e con quella infino la rivina sua si mantenne; così come Atene, così tutte

le altre Repubbliche che in quelli tempi fiorirono”15.

Strada diversa è quella scelta dalla sua città:

“Ma di Firenze in prima si divisero infra loro i nobili, dipoi i nobili e il popolo, e in

ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore,

si divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di

famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria”16.

Le divisioni portano a tumulti e scontri di piazza. Il conflitto si esprime in violenza,

essa distrugge una città che brilla di punti di forza e virtù:

“E veramente, secondo il giudicio mio, mi pare che niuno altro esemplo tanto la

potenza della nostra città dimostri, quanto quello che da queste divisioni depende, le quali

arieno avuto forza di annullare ogni grande e potentissima città. Nondimeno la nostra

pareva che sempre ne diventasse maggiore: tanto era la virtù di quelli cittadini e la potenza

delo ingegno e animo loro a fare sé e la loro patria grande, che quelli tanti che rimanevono

liberi da tanti mali potevano più con la loro virtù esaltarla, che non aveva potuto la

malignità di quelli accidenti che gli avieno diminuiti opprimerla. E senza dubbio, se

Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi che la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso

forma di governo che l’avesse mantenuta unita, io non so quale republica, o moderna o

                                                                                                               15 Nicolò Macchiavelli, Istorie Fiorentine, Einaudi, Torino, 1961. Proemio

16 Ibid.

  16  

antica, le fusse stata superiore: di tanta virtù d’arme e di industria sarebbe stata

superiore”17.

Roma e Firenze (come Turchia e Bosnia Erzegovina), sono entità composite da diversi

umori. Ma se Roma riesce a fare leva su tali forze sociali, Firenze rimane ingabbiata nella

sua violenza.

“Gli umori, come la medicina ippocratico-galenica prescriveva, sono fluidi e

necessitano di circolare nel corpo, alla cui vita e salute sono tutti indispensabili. Ed è il

loro mescolamento (incontro/scontro) che produce l’equilibrio salutare, mentre si ha

malattia quando uno di essi si isola dagli altri e cerca di sopravanzarli debordando dai

propri limiti e alterando le giuste proporzioni del loro rapporto: salute è circolazione,

malattia è fissazione”18.

4. Costituzione Mista

Secondo Machiavelli il fondamento della grandezza di Roma risiede nella riuscita

della regolamentazione dei conflitti. Riconosce il ruolo politico della plebe e lo

istituzionalizza nel Tribunus Plebis.

Con la creazione del Tribuno della Plebe, oltre a dare voce al popolo, si viene ad

instaurare un sistema di Check and Balance con il Senato. Nell’attiva partecipazione

politico-istituzionale la Plebe per Machiavelli si eleva in alcuni casi a essere guardia della

libertà. Attraverso un controllo reciproco le leggi che ne nascono non possono che essere

motivate da un interesse generale piuttosto che particolaristico.

“As the rival groups jealously scrutinize each other for any signs of a move to take

over supreme power, the resolution of the pressures thus engendered will mean that only

those “laws and institutions” which are “conducive to public liberty” will actually passed.

Although motivated entirely by their selfish interests, the factions will thus be guided, as if

                                                                                                               17 Ibidem

18 Raffaella Gherardi, La Politica e gli Stati. Carocci, Roma, 2004, pg 94

  17  

by an invisible hand, to promote the public interests in all their legislative acts: “all the

laws made in favour of liberty” will “result from their discord”19.

La Costituzione mista che viene ad affermarsi rappresenta l’istituzionalizzazione e la

canalizzazione del conflitto. La disuguaglianza del sistema non viene neutralizzata, anzi

esaltata in un insieme di ordini e leggi che riescono a regolarla senza farla precipitare in

una lotta a tutto campo. Il conflitto interno tra plebe e Senato è “uno inconveniente

necessario a pervenire alla romana grandezza”20. E’ essenziale che i conflitti siano regolati

entro la sfera pubblica, in questo modo si impedisce agli scandali, ovvero i conflitti tra

privati per questioni private, di dilagare e corrompere la città. “I conflitti non vengono

esorcizzati, ma messi al lavoro: incanalati entro strutture istituzionali che non consentono

(o non dovrebbero consentire) loro di debordare ed espandersi in modo libero e

sconsiderato, come un fiume senza argini”21.

L’importanza determinante di tale equilibrio non è rintracciabile esclusivamente

nell’instaurazione di un equilibrio istituzionale. A fondamento dello studio di Machiavelli

risiede l’antropologia dell’uomo, taglio d’analisi che conferisce al filosofo

un’impareggiabile attualità. E’ nel crescere del conflitto delle parti di una proto-società che

viene concepita l’idea di giustizia:

“Nacquono queste variazioni de' governi a caso intra gli uomini: perché nel principio

del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie;

dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere,

cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore cuore, e

fecionlo come capo, e lo ubedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e

buone, differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo

benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl'ingrati ed

onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie                                                                                                                19 Quentin Skinner, Machiavelli a very short introduction, Oxford University Press, Oxford 2000, pg 74

20 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,

capitolo sesto.

21 Raffaella Gherardi, La Politica e gli Stati. Carocci, Roma, 2004, pg 94

  18  

potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare

punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia.”22.

5. Politica Estera: diversi umori, un solo interesse nazionale

Abbiamo già posto l’accento sull’influenza di un Governo misto nella maturazione di

un desiderio comune di libertà e di un’opposizione ai singoli interessi dei privati. A questo

punto riflettiamo sull’importanza del coinvolgimento del popolo nelle scelte di indubbia

rilevanza quali la politica di espansione. Queste scelte conferiscono al popolo una grande

responsabilità e accrescono l’attenzione per l’interesse nazionale. Secondo Machiavelli una

politica estera espansiva è auspicabile ai fini della concordia interna:

“La cagione della disunione delle republiche il più delle volte è l’ozio e la pace; la

cagione della unione è la paura e la guerra”23.

A questo punto intendiamo apportare una precisazione: per Machiavelli e come lui i

filosofi precedenti o di alcuni secoli successivi, parlare di politica estera attiva equivale a

riflettere circa questioni riguardanti essenzialmente la guerra. Intendere la politica estera

come diplomazia, negoziato, scambi economici, soft law, è un concetto che si sviluppa in

una fase storica successiva, ovvero quella risultante dalla formazione degli stati-nazionali e

dallo sviluppo di interrelazioni economico-commerciali e dunque del consolidamento della

diplomazia moderna.

Se per politica estera attiva di Roma o Firenze Machiavelli intende una politica di

guerra, possiamo, con i dovuti accorgimenti, attualizzare tale analisi ai nostri tempi. Anche

se caratterizzata da soft law piuttosto che dall’uso delle armi, consideriamo la politica

estera della Turchia come espansiva in quanto attivissima a livello internazionale, e

tuttavia quasi essenzialmente pacifica, giammai caratterizzata da ozio. Al contrario la

Bosnia Erzegovina, fragile al suo interno e ancor più a livello internazionale, influenzata

                                                                                                               22 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,

Capitolo Secondo

23 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Secondo,

capitolo venticinquesimo

  19  

non poco dal volere di altri Stati e organizzazioni internazionali, spesso passiva rispetto

all’ingerenza di imprese multinazionali, nonché di potenti organizzazioni del crimine

organizzato, ci fa riflettere sul grado di indipendenza esterna ed interna e sui parallelismi

con l’esempio della città fiorentina nel tardo medioevo.

Passiamo ora a considerare tre aspetti positivi che Machiavelli espone circa la politica

estera espansionista di Roma.

In primis la sconfitta dei nemici esterni accompagnata da un giusto jus ad bellum e il

rispetto e coinvolgimento dei popoli conquistati che devono essere lasciati liberi,

garantisce la libertà esterna della Repubblica di Roma24.

“I popoli conquistati che vivevano in un territorio libero, non dimenticano la libertà.

Quando i Romani conquistarono Atene, la lasciarono libera e la mantennero sotto le sue

leggi. Ciò fu una strategia di successo tale da mantenere l’ordine senza un grosso

dispiegamento di forze”25.

“Vollono tenere la Grecia quasi come tennono gli spartani, facendola libera e

lasciandole le sua legge, e non successe loro: tale che furono constretti disfare di molte

città di quella provincia per tenerla” 26.

In secundiis l’espansione della Repubblica porta a dei benefici economici che Roma

ridistribuisce favorendo il benessere. Un popolo al quale vengono garantiti quantomeno i

                                                                                                                24 A tal proposito il fiorentino Matteo Palmieri, qualche anno prima di Machiavelli scriveva: “S’elegga

sempre la tranquilla pace innanzi alla tribolante guerra; et per ogni tempo si consigli et elegga quella pace

che manca di fraude; et le guerre in tal modo si comincino che niuna altra cosa che pace paia cerco per

quelle.” Punto di essenziale importanza nell’analisi di Palmieri è la descrizione della Repubblica Romana nel

suo atteggiamento di non accanirsi contro gli sconfitti, al contrario proteggerli e accoglierli nella città,

garantendo loro la cittadinanza come nel caso dei Volsci, dei Tuscolani e dei Sabini. Matteo Palmieri, Vita

Civile, Firenze. Sansoni 1982. pg 116.

25 Matteo Palmieri, Vita Civile, Firenze. Sansoni 1982. pg 116

26 Niccolò Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino, 1961, Capitolo quinto.

  20  

bisogni primari è meno incline alla ribellione. Nel caso di pericoli esterni non si opporrà a

dover patire sacrifici.

Capitolo 32, libro I Discorsi: “Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere

liberali al popolo, sopravvenendo il pericolo, [...]il Senato, dubitando della plebe, [...] per

assicurarsene la sgravò delle gabelle del sale, e d'ogni gravezza, dicendo come i poveri

assai operavano in beneficio publico se ei nutrivono i loro figliuoli; e che per questo

beneficio quel popolo si esponessi a sopportare ossidione, fame e guerra; non sia alcuno

che, confidatosi in questo esemplo, differisca ne' tempi de' pericoli a guadagnarsi il

popolo;”27

In ultimo il coinvolgimento della classe popolare nelle scelte di politica estera così

come in quelle di amministrazione della Repubblica, permette al popolo di essere attore

attivo nella vita statale. Il conflitto canalizzato in organi istituzionali di rappresentanza

rafforza la formazione di un’idea di giustizia, permette al popolo di sentirsi parte del tutto

il che dà vita a un sentimento di responsabilità, e infine favorisce la libertà nella

repubblica.

6. Rappresentanza e Libertà

“A mixed constitution is the best suited for promoting virtù and upholding liberty”28.

Machiavelli trova la maggiore libertà di un popolo nello stato che più può durare. Il

governo misto garantisce al potere costituente di essere sempre reattivo al cambiamento e

vigile all’interesse comune. Il conflitto è dunque necessario alla liberazione di tutte le forze

interne in un ordinamento e all’utilizzo di esse come motore parte di un corpo unico: lo

Stato.

La libertà per un ordinamento statale equivale ad un’indipendenza dalle potenze estere

(libertà esterna) e assenza di soggiogo di un tiranno (indipendenza interna). Ma la libertà è

                                                                                                               27 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,

Capitolo trentaduesimo

28 Quentin Skinner, Machiavelli a very short introduction, Oxford University Press, Oxford 2000, pg 74

  21  

un concetto unico composto da due aspetti uno causa dell’altro: l’ordinamento che riesce a

utilizzare le forze sociali al suo interno come forza propulsiva piuttosto che distruttiva ha

più probabilità29 di mantenersi libero all’esterno. La grandezza di uno stato è legata al

viver libero: libertà e rappresentanza.

In tempi più recenti, il filosofo John Rawls nel Diritto dei Popoli elabora delle

opinioni non troppo distanti dall’interpretazione di Machiavelli circa i concetti di giustizia

e libertà. Immanuel Kant vedeva nella formazione di una confederazione di repubbliche

libere la condizione di una Pace Perpetua, sulla stessa linea interpretativa John Rawls

intende ragionare sul diritto dei popoli. In Law of the People Rawls intende una

“concezione politica del giusto e della giustizia valida per i principi e le norme del diritto e

della pratica internazionali”30 che parte dalla maturazione dell’idea di giustizia all’interno

dei popoli. La sua è una visione bottom-up: per arrivare ad una pace internazionale è

necessario che ci sia stato un processo volto a perseguire una pace interna e un

ordinamento giusto e ragionevole. Una condizione necessaria affinché si venga a maturare

l’idea di giustizia all’interno di un popolo è la presenza di istituzioni che permettano la

partecipazione degli individui alla cosa pubblica: “la democrazia costituzionale deve avere

istituzioni politiche e sociali che conducano effettivamente i loro cittadini ad acquisire

l’appropriato senso di giustizia man mano che crescono e prendono parte alla vita della

società. Essi saranno allora capaci di comprendere i principi e gli ideali della concezione

politica, di interpretarli e applicarli ai casi che via via si presentano, e saranno di solito

motivati ad agire in modo a essi conforme quando le circostanze lo richiedono. E’ questo

che conduce alla stabilità per le ragioni giuste”31.

Nella sua analisi Rawls pone come soggetti del diritto internazionali i popoli, non gli

individui o gli stati. Nell’opera precedente: Theory of Justice, Rawls estendeva la giustizia

                                                                                                               29 La Fortuna maligna o benigna ha voce in capitolo sulla riuscita di un ordinamento. Il fatalismo è moderato

da un comportamento virtuoso che costruisce gli argini di un fiume in piena, ma che mai può essere

completamente controllato.

30 John Rawls, Il Diritto dei Popoli, Einaudi, Torino, 2001

31 Ibidem

  22  

come equità al diritto internazionale. Nel Law of the People prende in considerazione

cinque tipi di società: i popoli liberali ragionevoli, i popoli decenti, gli stati fuorilegge, le

società svantaggiate da condizioni sfavorevoli e le società governate da forme di

assolutismo benevolo.

Per popolo decente Rawls descrive “società non liberali le cui istituzioni di base

soddisfano certe condizioni specificate di giusto e giustizia politici (incluso il diritto dei

cittadini a svolgere un ruolo effettivo, per esempio attraverso associazioni e gruppi, nelle

decisioni politiche) e inducono i loro cittadini a onorare un diritto ragionevolmente giusto

per la società dei popoli)”32.

Sono solo i popoli liberali e quelli decenti che Rawls immagina come attori nella

creazione del diritto dei popoli. I popoli decenti sono caratterizzati da una dottrina

comprensiva, rispetto delle diverse componenti interne, possibilità di consultazione, di

partecipazione interna. La partecipazione avviene per gruppi, non per individui, un

esempio è la partecipazione attraverso la propria comunità religiosa minoritaria. Nella

partecipazione nel gruppo si prende parte alla cosa pubblica e si ha modo di maturare il

senso di giustizia. Affinché un popolo sia capace di dialogare ai fini della creazione di una

giustizia internazionale tra popoli, non è necessario che si tratti solo di un popolo liberale.

Attraverso partecipazione e tolleranza un ordinamento composito favorisce la maturazione

del senso di giustizia che allontana gli individui dalla corruzione e li rende più inclini al

perseguimento di un interesse pubblico e alla non rivolta. Le dottrine comprensive aiutano

il perseguimento di una stabilità e pace sociale in un ordinamento. Il rispetto di una

composizione eterogenea interna è stata condizione fondamentale per la durata secolare

dell’impero romano, che estendeva la cittadinanza ai popoli conquistati e permetteva la

continuità dei riti religiosi ( a condizione che non ci fosse un indebolimento del ruolo

dell’imperatore) e, fino al primo ventennio del ventesimo secolo dell’Impero Ottomano,

caratterizzato da un mosaico di popoli e comunità religiose.

La Turchia nel pieno della sua crescita economica ed attivismo diplomatico torna oggi

in contatto con la Bosnia-Erzegovina. Il primo Paese dopo decenni di esclusione dall’arena

                                                                                                               32 Ibidem

  23  

politica di islamici praticanti e kurdi tenta un nuovo approccio maggiormente pluralistico

all’interno e si proietta oltre i confini con una diplomazia energica, ambiziosa e libera dai

vecchi schemi propri della Guerra fredda. La Bosnia-Erzegovina bloccata dallo stallo

istituzionale di Dayton e dei numerosi problemi sociali, accoglie la Turchia in maniera

contrastante a seconda del punto di vista del popolo costitutivo.

Nel finale della nostra tesi, tenteremo di comprendere se la Turchia possa

rappresentare un attore capace e intenzionato a permettere alla Bosnia-Erzegovina di

superare i numerosi problemi sociali e lo stallo istituzionale risultante dall’assetto di

Dayton. Gli attori che compongono la Bosnia-Erzegovina percepiscono in modo diverso e

contrastante la diplomazia di Davutoglu.

Effettuando la nostra ricerca di analisi della diplomazia turca dalla Bosnia-

Erzegovina, Stato che racchiude le potenzialità, le ricchezze e le contraddizioni dei

Balcani, riflettiamo sull’efficacia della politica estera di Turchia e sulla percezione di essa

da parte di una regione prioritaria per Ankara.

  24  

Capitolo 1

Turchia,

i nuovi equilibri tra le diverse anime «Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora

meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il meglio era essere

un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere»33

In questo modo Orhan Pamuk descrive Istanbul nell’omonimo romanzo del 2003.

L’unicità della città inter-continentale non è altro che una sineddoche dell’intera Turchia.

Paese con una popolazione quasi esclusivamente musulmana, s’immerge nel

Mediterraneo rivolgendosi all’Europa, come ha sempre fatto sin dai tempi dell’Impero

Ottomano. La Turchia della Repubblica kemalista ha scolpito il termine “laicità” nella

pietra costituzionale. Prende parte a tutte le organizzazioni regionali europee sorte dopo la

Seconda Guerra Mondiale ad eccezione dell’Unione Europea. Nel 1952 aderisce alla North

Atlantic Treaty Organization, costituendone il secondo esercito più numeroso dopo quello

statunitense. E’ membro originario dell’OSCE e dell’OCSE, tra i Paesi di quest’ultima

organizzazione è l’economia più in crescita. Membro del Consiglio d’Europa, dal

Novembre 2010 al maggio 2011 la Turchia ne ha detenuto la Presidenza.

Tuttavia gradualmente la Turchia non si limita a volgere lo sguardo prettamente ad

Ovest. Sin dai primi governi dei partiti islamici degli anni ’80, passando per il crollo del

muro di Berlino e della logica bipolare fino al primo decennio del ventunesimo secolo, la

Turchia delinea quelli che l’attuale Ministro degli Affari Esteri Ahmet Davutoğlu ha

definito i “tre vettori di politica estera”: Panturchismo, Islam e Neo-Ottomanesimo. Questi

tre elementi sono presenti nella politica estera turca già in fasi precedenti all’ascesa

dell’AKP: il Panturchismo, legato alle formazioni più nazionaliste lega la Turchia a tutti i

popoli e Paesi turcofoni, dall’Azerbaigian alla Mongolia. I partiti d’ispirazione islamista

dagli anni ’70 agli anni ’90 cercano di utilizzare l’Islam e il recupero delle tradizioni

ottomane come mezzi di politica estera. E’ solo con l’ascesa dell’AKP tuttavia che i tre

                                                                                                               33 Orhan Pamuk, Istanbul, Einaudi, Torino, 2003

  25  

elementi assumono nuovi significati e si fondono in un’unica strategia di politica estera

argomentata nel testo scritto da Davutoğlu: Profondità Strategica.

Le evoluzioni nella politica estera riflettono uno storico cambiamento interno: per tre

tornate elettorali dal 2002 al 2011, un partito islamista riceve un altissimo consenso

popolare riuscendo da solo a guidare il governo, promuovere rilevanti riforme

costituzionali e soprattutto declassare il potere militare a beneficio di quello civile.

Se dalla fondazione della Repubblica (1923) un unico modello di stato era tollerato

ovvero quello secolare, nazionalista, indivisibile, occidentale, il cui esercito era custode dei

valori fondamentali, nell’ultimo decennio assistiamo ad un’entrata nella scena politica dei

musulmani praticanti e di un nuovo atteggiamento nei confronti e da parte della minoranza

kurda. La Turchia conta ottanta milioni di abitanti, con la sua storia intensa è un Paese

unico ed eterogeneo, al cui interno possiamo rintracciare tre grandi gruppi portatori di più

specifici interessi: kemalisti, musulmani praticanti e kurdi. Se per quasi un secolo, la prima

fazione attraverso l’esercito, gli organi giurisdizionali e istituzionali, i partiti nazionalisti

(in primis il Partito Repubblicano Turco di diretta derivazione kemalista) è riuscita a

conservare il modello di Turchia pensata da Atatürk, dal 2002 siamo testimoni di uno

scontro tra le diverse fazioni.

Il conflitto tra le tre anime di Turchia ha sempre caratterizzato la Repubblica sin dalle

riforme degli ultimi anni ’20 e anni ‘30. Nei decenni di costruzione della Repubblica si

relega l’Islam alla sfera prettamente privata. La repressione della rivolta kurda di Dersim

(1937-38), manifesta l’indiscutibile volontà della classe politica turca di escludere

dall’amministrazione elementi che possano minare l’indivisibilità territoriale. Violenza e

restrizioni delle libertà si sono perpetrate sino in epoca post-bipolare, negli anni ’90 la

Turchia rischia di implodere in quella che assomiglia molto ad una guerra civile tra lo

Stato turco, rappresentato dall’esercito, e la resistenza kurda, rappresentata dal PKK. Il

Refah Partisi è il partito a vocazione islamica più importante sino ad allora e, forte dei suoi

consensi, sfida le Istituzioni secolari provocando l’ira della Corte Costituzionale e i timori

dei laici. Il Partito verrà chiuso con un atto di forza da parte della Corte Costituzionale

turca su impulso delle forze laiche in particolare dei militari. La chiusura del Refah Partisi

  26  

viene legittimata dalle sentenze dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Gli

anni ’90 terminano con una traumatica crisi economico-finanziaria e la voglia di voltare

pagina. Gli attori interni, kemalisti, islamici e kurdi, pagato il conto salato dei loro errori,

pongono le basi di una nuova fase storica. L’anima kemalista comprende che la

modernizzazione e il benessere turco dipendono da un nuovo approccio più aperto e mirato

verso la globalizzazione: bisogna permettere il liberismo economico e delegare più scelte

in chiave europeista. Gli islamici comprendono che il loro ruolo in politica dipende dalla

capacità di mediazione e accettazione delle regole basilari della Repubblica turca; un

comportamento in aperta opposizione alle Istituzioni provocherebbe il timore da parte di

molti cittadini e restrizioni alle libertà di espressione e rappresentanza ad opera delle

Autorità. Il miglior modo di entrare in politica è la modernità, l’accettazione del pluralismo

e l’ancoraggio all’Europa come ispirazione e assicurazione al fine di tranquillizzare tutti i

cittadini dell’accettazione dei principi democratici.

I kurdi cercano spazi non-violenti per far valere i loro diritti. E’ perpetuo lo sforzo di

sostenere i partiti social-democratici vicini al movimento kurdo i quali accettano i

compromessi politici. La diaspora kurda, sempre più organizzata e attiva, porta la

questione all’attenzione delle democrazie occidentali che sono sempre più accorte a

monitorare lo status del rispetto dei diritti umani di tale popolo. Parte della popolazione

kurda non sentendosi totalmente rappresentata nei partiti filo-kurdi d’ispirazione social-

democratica, o scegliendo di effettuare un voto “strategico”, sostengono e cercano di

influenzare le politiche del partito di governo, ricercando nei nuovi principi pluralistici dei

musulmani moderati un nuovo mezzo per combattere le loro battaglie.

Il conflitto in nome delle libertà e diritti dei gruppi interni alla Turchia permane anche

nel ventunesimo secolo e si caratterizza per un approccio non violento. Nel Parlamento,

nelle fondazioni e associazioni, nelle università e nei caffè si discute e ci si confronta.

L’uso di un dialogo minaccioso e della violenza è ancora presente nella realtà turca, ma in

modo oggi minoritario. Le tre anime della Nazione turca esprimono le loro richieste nei

canali legali ed istituzionali. Il conflitto si canalizza e la Turchia brilla per ottime politiche

economiche ed una ineguagliabile politica estera.

  27  

Il Neo-Ottomanismo e l’uso della religione come strumento di politica estera, il

Panturchismo che riconosce il ruolo primario dell’attore russo nelle relazioni con gli

“stan”, riflette un cambiamento in primis interno: l’inclusività e il pluralismo propri del

periodo ottomano, scalzano l’esclusività e il nazionalismo autoritario di derivazione

kemalista.

L’AKP traina il cambiamento e di esso si dichiara unico promotore e interprete.

Tuttavia negli ultimi anni di governo spinte nazionaliste e frange intolleranti nei confronti

di laici e kurdi mostrano un partito meno riformista di quello che era ai tempi della sua

fondazione. I cambiamenti che avvengono nella Turchia sono da attribuire senz’altro alla

classe dirigente competente e patriottica, ma sono da rintracciare nell’elettorato islamico,

negli atteggiamenti dei kurdi e nei comportamenti dei laici. Le scelte della Corte

Costituzionale turca di non sciogliere l’AKP a seguito della proposta di eleggere Abdullah

Gül come Presidente della Repubblica (2007) o il mancato colpo di forza da parte

dell’esercito, possono essere lette prescindendo da calcoli strategici nella competizione per

un potere esclusivo. Anche i laici appaiono accettare il cambiamento e nei loro canali di

partecipazione, pur se per la prima volta non da un ruolo di leadership indiscussa, di questo

sono portatori.

Una Turchia capace di mettersi in discussione è oggi attore determinante negli

equilibri mediorientali e mediterranei. La Turchia attraverso i Balcani e la Bosnia-

Erzegovina si confronta con l’Europa e indipendentemente dall’Europa diviene

protagonista nei Balcani e nella Bosnia-Erzegovina.

  28  

1.a Gli Islamici nella Repubblica di Turchia

La conclusione della Guerra Fredda dà inizio a un decennio incerto in cui sembra che

il modello democratico – occidentale – capitalista, risultato vincitore, debba contagiare

tutti i Paesi del globo al fine di assicurare una sorta di “Pace Perpetua”. La fine dell’assetto

bipolare nel mondo comporta altresì un aumento della complessità della capacità

d’interpretazione delle relazioni internazionali. Si scatenano conflitti in territori circoscritti

dei cinque continenti, compresa l’Europa della nascente UE, nel cui cuore, i Balcani, si

susseguono due guerre nefaste. Il modello vincente di democrazia liberale appare l’unico

assetto possibile e auspicabile, tuttavia la maggioranza degli Stati al mondo non l’ha mai

sperimentato. Il 23% della popolazione mondiale è costituito da musulmani. Nel marasma

globale, nel disorientamento e distacco dagli stringenti schemi dei decenni precedenti,

l’Islam politico si fa strada nelle comunità islamiche. L’Islam politico prende la sua forza

dalle comunità, dalle società, che riscoprono la religione come mezzo associativo, come

elemento unificante, come certezza in un’epoca senza bussola.

I valori proposti dai vincitori Stati Uniti d’America sono percepiti come alieni ed

estranei. Nel primo decennio del ventunesimo secolo assistiamo all’ascesa economica e

geopolitica di nuove potenze mondiali (Cina, India, Russia e Brasile) e regionali

(Indonesia, Sud-Africa e Turchia) le quali al loro interno sono caratterizzate da un sistema

più o meno distante, se non alternativo al modello democratico di stampo euro-atlantico.

Nell’area mediterranea e mediorientale la guerra all’Iraq del 2003, la difficoltà di gestione

post-bellica nel territorio afghano e l’aggressività israeliana nei confronti delle popolazioni

arabe, provocano nelle comunità musulmane un risentimento, la volontà di un riscatto

d’orgoglio e la ricerca della fratellanza e unione in reazione ad un modello in declino

portatore di valori alieni.

In tale contesto una Turchia guidata da un partito islamista, abitata da ottanta milioni

di persone, protetta da un esercito con pochi pari al mondo, caratterizzata da una crescita

economica sbalorditiva, si propone come potenza regionale di un’area vastissima e di

importanza strategica globale. A renderla così attrattiva tra i popoli arabi e persiani è

l’assetto interno caratterizzato da Islam e modernità, binomio che se rivolto a un pubblico

  29  

europeo o americano viene reso piuttosto con “Islam e democrazia”. Tuttavia l’entusiasmo

nei confronti dello sviluppo turco e dell’ascesa degli islamici praticanti al potere

intimorisce molti osservatori. L’Italia e gli Stati Uniti ad esempio, che nelle loro differenze

sostengono entrambe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea e mantengono con

questo Stato importanti relazioni economiche, descrivono i membri dell’AKP come

“musulmani moderati”, termine non molto sensato per un musulmano, utilizzato al fine di

tranquillizzare il grande pubblico timoroso di una cultura diversa percepita come

inconciliabile con un assetto democratico se non addirittura civile.

L’appartenenza religiosa di un popolo, le rivendicazioni pacifiche dei praticanti di un

culto non dovrebbero turbare opinionisti, politici ed esperti internazionali. Eppure nei

dibattiti circa gli equilibri mediorientali e le relazioni tra Turchia e Unione Europea si

discute molto sul peso della religione islamica, proprio perché islamica. Benché solo una

minima parte dei concetti espressi nel Corano possano essere considerati “islam politico”

ed essi siano prevalentemente di natura privatistica, ciò che preoccupa gli osservatori

dell’incremento della pratica alla fede musulmana, è la difficoltà di molti fedeli di poter

scindere tra sfera privata/religiosa, e sfera pubblica. A turbare l’“occidente” (termine

difficilmente denotativo da dieci anni a questa parte) è la percezione di un incremento delle

quote dei praticanti e l’ascesa al potere del partito islamista, l’AKP, Partito della Giustizia

e dello Sviluppo. Si teme che la Turchia si allontani dal ruolo di baluardo occidentale e

modello laico e moderno seppur musulmano.

La Turchia è abitata per il 99,8 percento da musulmani, prevalentemente sunniti,

tuttavia non manca una componente alevita e sciita. Tra i culti mistici, benché illegale dal

1925, quello Sufi è presente nella penisola anatolica da secoli ed influenza cultura e

politica dagli anni ‘60. L’Islam politico inquieta gli osservatori di un Paese che per decenni

ha ricoperto il ruolo di fedele alleato alla parte ovest del globo, in una zona strategica,

complessa e che dagli anni ’20 (ma forse anche nell’ultima fase del periodo imperiale)

controlla e struttura la religione.

  30  

1. L’Impero Ottomano, Scelta della Modernità ai fini difensivi

L’Islam turco, simile a quello balcanico, ha caratteristiche europee, abituato a secoli di

convivenza pacifica con altri culti e popolazioni. L’Impero Ottomano nel quale Istanbul

era sede del Califfato, vivendo nell’incubo dell’instabilità e disgregazione dell’Impero,

persegue per secoli una politica di riconoscimento e cristallizzazione delle differenze.

Attraverso il sistema dei Millet, gli ottomani portavano avanti un divide et impera in stile

romano che ha permesso la stabilità e longevità dell’Impero più duraturo e forte del mondo

islamico. In luoghi di convivenza (più o meno) pacifica come la Penisola Balcanica,

prosperano culti mistici come il Sufismo e hanno vita importanti movimenti intellettuali, lo

stesso Mustafa Kemal e il movimento dei Giovani Turchi nasce a Salonicco.

L’incorporazione nell’amministrazione ottomana di tecniche moderne di governance,

burocrazia ed esercito, prende a modello Stati europei quali Prussia, Francia e Gran

Bretagna. Il cosiddetto processo di “occidentalizzazione” tuttavia è frutto di una libera

scelta effettuata da uno Stato sovrano, mai come imposizione di una conquista coloniale.

La riflessione circa le necessità di riforma nascono già dagli ultimi anni del

diciassettesimo secolo. Se fino ad allora l’Impero Ottomano prosperava dal punto di vista

economico, culturale e amministrativo protetto da un’infallibile macchina militare, nelle

potenze europee si irradia la rivoluzione industriale che fornisce agli occidentali le basi di

una superiorità militare. La competizione e l’interdipendenza contribuiscono ad uno

sviluppo rapido in Europa a un propagarsi dello spirito del capitalismo e della modernità.

Nei confini della Sublime Porta gli ottomani si chiedono: “Given that it is a fact that we are

in possession of the true faith, why are we loosing wars to infedels?”34.

Lungo il 1800 “il malato d’Europa” intende curarsi attraverso un processo di riforme.

Il Tanzimat, riorganizzazione dell’Impero Ottomano, avviato nel 1839 ricerca la soluzione

oltre confine. Vengono inviati legati in ogni parte d’Europa e si accolgono tecnici da

Berlino, Parigi e Londra al fine di riformare l’esercito. La riforma di un esercito imperiale

impone grandi spese, segue dunque la riflessione circa una riforma più generale del

sistema finanziario e amministrativo.

                                                                                                               34 Brian Silverstein, “Islam and Modernity in Turkey”, Palgrave MacMillan, New York, 2011. p 38.

  31  

Scopo delle riforme è salvare l’Impero. Le minacce all’unità dell’Impero sono

rintracciabili sia nella comunità musulmana, che nei Millet cristiani ed ebrei. Spinte

secessioniste arrivano dalle periferie musulmane dell’Impero, in particolare nelle provincie

arabe. Il generale albanese Mehmet Ali che in seguito al ritiro napoleonico riprese il

controllo sull’Egitto, governatore della Provincia, negli anni ’30 è portatore di forti spinte

autonomiste.

Nei Millet non-musulmani s’insinuano idee di nazionalismo spesso fomentate da

potenze rivali come l’Impero Austro-Ungarico o quello Zarista, le quali fanno leva sulle

comunità Cristiane cattoliche e ortodosse. Nella fase del Tanzimat, 1839 – 1876, ispirata

dalla filosofia illuminista del bordolese Montesquieu, nasce l’“ottomanesimo”. Tale

corrente di pensiero implica un approccio più comprensivo ed inclusivo nei riguardi delle

Nazioni non musulmane. L’accettazione della differenza nell’uguaglianza di fronte alla

legge vuole spezzare il legame tra i Millet non-musulmani e le potenze europee che

sembrano voler scaricare le loro contraddizioni e tensioni in territori chiavi quali i Balcani.

La fine del periodo di riforme vede la presa di potere del trentaquattresimo sultano

dell’Impero Ottomano, Abul-Hamid II, al potere dal 1876 al 1909. In una fase di crescente

difficoltà a difendere indivisibilità e stabilità nel territorio imperiale, Abdul-Hamid si

richiama all’ Ittihad-i Islam, l’unità pan-islamica.

Le riforme guidano il Paese verso un sistema più assolutista e una gestione del potere

più centralista. Al fine di evitare la disgregazione, la tendenza di conduzione del potere in

modo centralista coinvolge anche la professione dell’Islam. Il Sultano, leader del Califfato,

controlla i culti mistici, in particolare le sette Sufi, le quali vengono sempre più limitate. La

religione diventa gradualmente gestita dalle Istituzioni imperiali. Il concetto di Laiklik

turca35 sembra iniziare ad affermarsi già in un periodo precedente alla fondazione della

Repubblica.

                                                                                                               35 A differenza della laïcité francese che implica la separazione tra potere temporale da quello spirituale, la

Laiklik turca prevede il controllo della Chiesa da parte delle istituzioni statali. Il concetto sarà affrontato più

approfonditamente nelle prossime pagine.

  32  

Negli ultimi anni dell’ottocento, gli Ulema (i dotti musulmani delle “scienze

religiose”) dibattono circa la fedeltà da accordare al Sultano - Califfo. Assistiamo ad un

avvicinamento graduale al CUP, Comitato per l’Unione e per il Progresso, movimento in

opposizione ad Abdul-Ahmid II, che comprende diverse componenti della società

ottomana in particolare i Giovani Turchi. L’allontanamento dal Sultano e l’avvicinamento

al CUP è da leggere come una evoluzione delle tradizioni islamiche ottomane. In questo

passaggio di legittimità gli ulema vedono nella figura di un Sultano sempre più autoritario

e incapace di difendere l’Impero e dunque la comunità dei musulmani, un dittatore.

Secondo il Corano, la funzione del piccolo Jihad è quella di ribellarsi al despota per

difendere la comunità islamica. Gli ulema concentrano l’attenzione sul ruolo fondamentale

della Umma, la consultazione dei fedeli. Dalle provincie imperiali scalpitano movimenti

riformatori. Tra le proposte di riforma spicca quella del 1896 pubblicata nel giornale

Cairota Kanun-i Esasida (Costituzione) ad opera di un gruppo di intellettuali tra i quali

Köprülülü Sheikh Aliefen- dizâde hoja Muhyiddin. La petizione rivolta ad Abul-Hamid

pretende l’istituzione della Camera dei Deputati Ottomana, il Parlamento.

“We shall once more consider you as the giver of life to religion [din] and nation

[millet]. [...]It has been promised [in the Quran] that this religion would be improved by a

reformer evey hundreds years. [...] The reformer of this century will be he who inaugurates

a Chamber of Deputies and who gives freedom to the Islamic community [millet-i

Islâmiye] We pray as a favor from God that you will, before fifteen days have passed,

realize an auspicious and noble act in proportion to the moral and worldly nobility of your

office. If not, until our last breath, we shall make all efforts necessary for the glorification

of religion and the liberation of the country [vatan], Oh our Sultan”36.

I leader spirituali delegittimano il Sultano e accordano fiducia ai Giovani Turchi a

seguito della sconfitta della Prima Guerra Mondiale. Alla débâcle bellica segue l’accordo

di pace di Sèvres. Nella città francese si consuma il più grande trauma della storia turca: la

Sindrome di Sèvres. Nel 1919 l’Impero Ottomano è inerme di fronte ai dictat degli europei

vincitori. Cedendo di fronte a ogni richiesta gli ottomani sono costretti a pagare riparazioni

di guerra, devono accettare la perdita dei territori balcanici, la formazione di una grande                                                                                                                36 Brian Silverstein, “Islam and Modernity in Turkey”, Palgrave MacMillan, New York, 2011. pg 38.

  33  

Armenia e di un grande Kurdistan, la cessione di alcune isole all’Italia e l’occupazione di

parti dell’Anatolia da parte dell’esercito greco.

La guerra di liberazione nazionale è guidata da Mustafah Kemal che appellandosi

all’unione dei musulmani e al nazionalismo turco, libera la penisola anatolica. Forti della

vittoria i Giovani Turchi si siedono al tavolo di contrattazione a Losanna. Gli occidentali

accetteranno le richieste dei Turchi accordando una nuova fiducia al soggetto appena

fondato: la Repubblica turca. Il nuovo assetto repubblicano riceve fiducia da parte delle

comunità musulmane, si pensi alle sette Sufi o agli aleviti, che nell’ultima fase imperiale

hanno sofferto maggiormente dei controlli centralisti e delle restrizioni alle libertà di culto.

Le guerre balcaniche e il primo conflitto mondiale provocano un acuirsi di ferocia e

intolleranza. Si vengono a formare flussi di rifugiati che assomigliano a veri e propri

scambi di popolazioni tra musulmani e cristiani. Città anatoliche come Smirne,

storicamente abitate da greci-ortodossi vengono abbandonate in un lasso di tempo

rapidissimo, così come Salonicco, la cui popolazione musulmana si riversa interamente in

Anatolia. La Turchia ospita rifugiati scampati a guerre fratricide. L’Anatolia diviene

penisola abitata quasi esclusivamente da musulmani, il genocidio armeno effettuato sul

finire della Prima Guerra Mondiale, aiuta tale condizione.

Atatürk nel processo pre-fondativo e costituente della Repubblica si appella

inizialmente all’unità dei musulmani. L’articolo due della Costituzione del 1924

proclamava l’Islam religione di Stato, l’unificazione nazionale transita attraverso il credo

religioso. La religione è utilizzata come mezzo di “turchizzazione” (creazione della

Nazione turca). Negando le differenze con la minoranza kurda, Mustafa Kemal Atatürk

dichiarerà: “siamo tutti turchi perché siamo tutti musulmani”. Nel Nutuk, lungo discorso,

nell’ottobre 1927 Mustafa Kemal di fronte alla Grande Assemblea Turca pronuncia le basi

del suo pensiero costituzionale che possono farsi coincidere con le famose “sei frecce”

ovvero: Nazionalismo, Repubblicanesimo, Etno-populismo (unità dei turchi, identificati

nel credo religioso indipendentemente dalla classe sociale, nell’unità della Nazione),

Statalismo, Rivoluzionarismo (o riformismo) e dalla Costituzione del 1928, Laicità (o

secolarizzazione).

  34  

Il 10 aprile del 1928 l’articolo due della Costituzione precedente, Islam religione di

Stato, viene abrogato. La laicità è un principio fondamentale e fondante della Repubblica. I

militari ne sono i custodi. Tra gli anni 1928 e 1934 sono emanate una serie di leggi pro -

laicità e per la propensione della Repubblica all’occidente condizionando la cultura del

popolo turco. Si stabiliscono: educazione laica, abbandono dell’alfabeto arabo a favore di

quello turco-europeo, uso del calendario e della numerazione internazionale, chiusura dei

luoghi di preghiera dei dervisci e dei sufi, utilizzo del cappello “all’europea” in

sostituzione al fez, abolizione dei titoli onorifici propri del periodo imperiale, divieto di

indossare abiti imperiali.

La Repubblica turca ai fini della sua preservazione esclude i musulmani praticanti

dall’arena politica. L’islam è relegato alla sfera privata e comunque gestito e controllato

dalle istituzioni pubbliche.

2. Islam Politico Turco. Dall’affermazione del pluripartitismo all’AKP

La tradizione religiosa turca è complessa e ricca, variando da pratiche pre-islamiche

per passare al prevalente Islam sunnita, dalle minoranze ebree e cristiano-ortodosse sino ad

arrivare agli aleviti, sciiti, zarahustriani e altre sette. La società turca è quasi

esclusivamente musulmana, tuttavia per ottant’anni nella Repubblica secolare la religione

ha avuto spazio unicamente nelle pratiche private.

La nascita del multipartitismo nel 1946 rappresenta un punto di svolta per l’Islam

politico. Il CHP, Partito Repubblicano del Popolo, Cumhurriyet Halk Partisi, di diretta

derivazione kemalista, viene sfidato e perde il monopolio del potere. Il Partito

Democratico, DP, guidato da Adnan Menderes vince la maggioranza parlamentare nelle

elezioni del 1950. Maggiormente svincolato dalle idee prettamente kemaliste, il DP ricerca

consenso nelle periferie, tra gli scontenti dell’occidentalizzazione. Di atteggiamento più

liberale riduce parti delle restrizioni culturali nei confronti dei kurdi e degli islamici

praticanti. Le politiche di Menderes ricevono alti consensi nell’entroterra agricolo, luoghi

in cui la religione è maggiormente diffusa.

Le politiche di Menderes sono viste dai kemalisti come pericolose per l’ordine

repubblicano, così il 27 Maggio 1960, senza spargimento di sangue, l’esercito interviene

  35  

arrestando i membri del governo e molti deputati del Partito Democratico. I militari

assumono il potere. “L’intervento diretto dei militari per proteggere la sicurezza e la

stabilità del Paese viene motivato come giusta reazione alle continue violazioni alla

Costituzione operate dal Partito di governo con il consenso della Grande Assemblea

nazionale che perde dunque ogni legittimità nei confronti del popolo”37.

A legittimare l’intervento armato vi è inoltre il clima di malcontento popolare causato

dal peggioramento della situazione economica. L’anno successivo al golpe viene

promulgata una nuova Costituzione che, se da un lato rafforza il potere politico dei

militari, dall’altro pone le basi per un avanzamento della società civile in senso liberale. Si

favorisce il liberismo economico a vantaggio dell’industria incrementando la libertà

d’associazione. L’aumento dei diritti porta alla proliferazione di moltissimi gruppi

religiosi. Le organizzazioni fioriscono per tutti gli anni sessanta. Nel 1963 la Corte

Costituzionale afferma in una sentenza la coincidenza tra i diritti fondamentali sanciti nella

Costituzione del 1961 e i diritti posti a base della Convenzione Europea dei Diritti

dell’Uomo, inaugurando una linea di rilettura dei diritti fondamentali alla luce della

Convenzione stessa.

Il cambiamento socio-economico contribuisce alla fondazione del primo partito

politico con un esplicito richiamo all’Islam: Milli Nizam Partisi, MNP, Partito dell’Ordine

Nazionale. Fondato il 28 gennaio del 1970 sotto la leadership di un ingegnere proveniente

da Konya, Necmettin Erbakan, l’MNP proporrà un nuovo ordine sociale ed economico con

maggiore riguardo e ispirazione ai dettami dell’Islam. Il Partito guidato da Erbakan avrà

vita breve visto che la Corte Costituzionale turca imporrà la sua chiusura a causa di

presunte attività anti-secolari. La sentenza è successiva al secondo colpo di stato militare

del dopoguerra, 12 marzo 1971. L’esercito interviene a fronte dell’emersione di spinte

islamiche e di estrema sinistra. Gli anni ’68 e ’69 sono caratterizzati da violenti scontri di

piazza, prevalentemente ad Istanbul, tra studenti e forze dell’ordine. Movimenti religiosi,

rivendicazioni kurde e ambienti legati a una sinistra radicale, mettono in discussione

l’ordine repubblicano e la subordinazione della Turchia agli interessi statunitensi. Il

                                                                                                               37 Antonello Biagini, “Storia della Turchia contemporanea”, Bompiani, Milano, 2002. pg 50.

  36  

Parlamento, lacerato da forti tensioni, non garantisce stabilità, così i militari si sentono

costretti a intervenire.

L’11 ottobre 1972 viene fondato il Milli Selamet Partisi, MSP, Partito della Salvezza

Nazionale, guidato di lì a breve da Erbakan. Dalle elezioni parlamentari del 1973, nelle

quali l’MSP conquista l’11,8% dei consensi, il Partito di Necmettin Erbakan diverrà

indispensabile per le coalizioni di governo alleandosi prima con l’ala sinistra del

Parlamento, guidata dal Partito Repubblicano del Popolo, il CHP, in seguito con partiti più

conservatori come l’Adalet Partisi, AP, Partito della Giustizia. Il Milli Selamet Partisi in

evidente continuità con il Milli Nizam Partisi teneva insieme Islam e nazionalismo turco.

Sempre più polemico riguardo il processo di occidentalizzazione scelto dalla Turchia,

l’MSP dichiara che tale propensione turca frammenti la società e porti alla perdita della

grandeur nazionale. Si propone per la prima volta un cambio netto in politica estera,

ovvero l’allontanamento dai vincoli occidentali per volgere lo sguardo ai Paesi islamici. Il

Partito di ispirazione islamica declama lo sviluppo di un’industrializzazione locale e il

rafforzamento e l’indipendenza economica che favorirebbero la Turchia come guida per il

mondo islamico.

“In place of ties to the West, the MSP favored the creation of a Muslim Common

Market, with the Islamic dinar as its common currency, and the development of a Muslim

Defence Alliance”38.

L’MSP è un partito che rappresenta un’unione di differenti forze islamiche e gruppi

conservatori. La leadership conservatrice di Necmettin Erbakan viene messa in discussione

da alcune fazioni interne al partito, le stesse che emergeranno negli ultimi anni ’90 e che

costituiranno le basi della fondazione dell’AKP. Il terzo e più violento colpo di stato

militare del 12 settembre 1980 impone la chiusura di tutti i partiti, tra i quali il Partito della

Salvezza Nazionale. Ad Erbakan e ai più alti quadri dell’MSP viene impedita la

partecipazione alla vita politica per un periodo di dieci anni.

Il partito riemerge sotto un altro nome, il Refah Partisi, RP, Partito della Prosperità.

Al Partito della Prosperità fondato nel 1983 non viene accordato il diritto a partecipare alle                                                                                                                38 Jacob Landau “The National Salvation Party in Turkey”, Asian and African Studies, Vol. 11, 1976, pg: 57.

  37  

elezioni dello stesso anno, tuttavia questo appare l’unico limite imposto dal Consiglio di

Sicurezza Nazionale. Nel 1987 Erbakan torna a guidare il Refah Partisi. Tale formazione

acquista gradualmente consensi nell’entroterra turca sino a riuscire a rientrare in

Parlamento nel 1991 in seguito alla formazione della coalizione elettorale con l’IDP, il

Partito Democratico Riformista e il partito di estrema destra Milliyetçi Hareket Partisi,

MHP, Partito del Movimento Nazionalista (che in seguito alle elezioni prenderà le distanze

dal Refah Partisi). Negli anni ’90 il Partito della Prosperità vede un inaspettato aumento

dei consensi: nelle elezioni locali del 1994 il Refah raggiunge il 19,1% delle preferenze e

conquista numerosissimi comuni tra i quali Istanbul e Ankara.

Nelle elezioni parlamentari del 1995 guadagna il 21,4% dei voti e con i suoi 158 seggi

su 550 diventa il Partito di maggioranza relativa semplice. Il Parlamento turco risultante

dalle elezioni del ’95 è frammentato. Il Refah forma una coalizione di governo di centro-

destra con il Dogru Yol Partisi (DYP – Partito della Retta Via). Le altre forze partitiche

preoccupate da un’ascesa delle forze islamiste, si raccolgono in un’alleanza laica. Il 28

giugno 1996 per la prima volta dalla formazione della Repubblica Turca nel 1923, il ruolo

di Primo Ministro turco viene ricoperto da un leader la cui identità politica e personale

trova fondamento nell’Islam. Affermandosi con un 21,3 percento dei voti totali,

conquistando centocinquantotto seggi su un totale di cinquecentocinquanta, il Partito della

Prosperità dopo un’intensa manovra ha la possibilità di formare un governo di coalizione

con il Partito della retta Via, DYP, Doğru Yol Partisi, di Tansu Çiller.

Viene a formarsi una strana coalizione tra un Primo Ministro pro-islamico e la leader

filo-europea dei laici. Numerose organizzazioni della società civile polemizzano contro

Erbakan. Il 28 febbraio 1997, il Consiglio di Sicurezza Nazionale, riunitosi su impulso dei

militari, presenta ad Erbakan una lista di raccomandazioni per prevenire attività anti-

secolari. Le Forze Armate accompagnano il comunicato del 28 febbraio con una serie

d’incontri e iniziative volte a mobilitare le forze laiche contro l’ascesa degli islamici.

Questo processo viene definito: “colpo di stato post-moderno”.

Il 16 gennaio 1998, il Refah Partisi viene chiuso a seguito di una decisione della Corte

Costituzionale turca. Il Presidente del Partito Erbakan e diversi parlamentari vengono

  38  

accusati di aver avuto in diverse occasioni comportamenti e formulato opinioni

confliggenti con la natura laica dello Stato turco e soprattutto di aver rilasciato pubbliche

dichiarazioni di sostegno all’islamizzazione della società, del diritto e delle pubbliche

Istituzioni. Si contestava particolarmente una serie di attività finalizzate alla sostituzione

del sistema politico laico con un modello multi-giuridico di carattere teocratico,

caratterizzato dalla supremazia giuridica e morale del Corano e della legge islamica. Il 22

maggio 1998 gli esponenti del Refah ricorrono alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,

impugnando la sentenza di scioglimento della formazione politica ritenuta da essi lesiva di

diverse delle libertà garantite dalla Convenzione di Roma.

Secondo i ricorrenti gli esponenti del Partito non hanno mai propugnato ufficialmente

la negazione del principio di laicità, alla cui osservanza il programma politico del

movimento aveva costantemente dimostrato di ispirarsi. Le dichiarazioni dovevano

ritenersi non sufficienti a sostenere le valutazioni della Corte Costituzionale per una

pluralità di motivazioni: si trattava di opinioni estrapolate dal senso generale del discorso

in cui erano calate e riferibili solo a singoli militanti in seguito espulsi dal partito e non al

Refah nel suo complesso. Non si registrava l’attivazione di alcuna inchiesta penale a carico

degli autori delle dichiarazioni e dei comportamenti indicati come lesivi della legalità

costituzionale; inoltre nessuno dei censurati obbiettivi politici del Partito Refah si era

tradotto in legge o in progetto di legge. Sulla contestata teoria della pluralità dei sistemi

giuridici (sistema dei Millet, di tradizione ottomana, abolito con il Trattato di Losanna nel

1923), evocata dal presidente del Partito in discorsi pubblici, questa non intaccava la

centralità del principio di laicità, bensì si riferiva all’introduzione di un modello legale di

convivenza organizzata, compatibile con il tradizionale assetto del diritto pubblico turco e

tale da consentire ai cittadini dei più diversi orientamenti ideologico-religiosi di vivere in

conformità con i precetti della religione da essi favorita.

La Cedu accoglie il ricorso, tuttavia nella sezione a sette giudici a maggioranza

quattro contro tre i giudici di Strasburgo non condannano la Turchia, non trovando

illegittima la restrizione alla libertà di associazione in quanto immotivata o non

proporzionale allo scopo di salvaguardare il regime laico e democratico della Repubblica. I

membri del Partito della Prosperità ricorrono alla Grande Camera. La sentenza dei

  39  

diciassette giudici della Grande Camera sul caso Refah Partisi, non si discosta dal primo

giudizio. Parafrasando i paragrafi della sentenza: il giudice europeo chiamato a verificare

la compatibilità di un partito islamico fondamentalista con i diritti protetti dalla

Convenzione, conferma l’illegittimità di un progetto politico volto ad instaurare un sistema

multi-giuridico implicante discriminazioni fondate sulla religione, ad applicare la legge

islamica alla comunità musulmana (Sharia) o come diritto comune, senza alcuna facoltà di

scelta da parte dei singoli; a realizzare l’ ”ordine giusto” eventualmente con l’uso della

forza (Jihad) come metodo di lotta politica decisamente contrario a qualunque concezione

democratica. Un partito che promuove modifiche delle strutture costituzionali deve

utilizzare metodi pacifici.

“[...]the Court considers that a political party may promote a change in the law or the

legal and constitutional structures of the State on two conditions: firstly, the means used to

that end must be legal and democratic; secondly, the change proposed must itself be

compatible with fundamental democratic principles”.

Segue la condanna alla violenza che mina alla democrazia e ai principi della

Convenzione:

“It necessarily follows that a political party whose leaders incite to violence or put

forward a policy which fails to respect democracy or which is aimed at the destruction of

democracy and the flouting of the rights and freedoms recognised in a democracy cannot

lay claim to the Convention’s protection against penalties imposed on those grounds”39.

La sentenza definitiva è presa all’unanimità. Ciò che la caratterizza è l’enfasi sul

rischio della violenza. La pronuncia è stata emessa in seguito all’attacco alle Torri Gemelle

dell’11 settembre 2001. I giudici di Strasburgo sono stati criticati per aver espresso un

giudizio di merito entrando nell’arena del dibattito Islam e Democrazia.

Le critiche interne, quelle dei tre giudici dissenzienti nel primo giudizio, sostengono

che, considerato il fatto che il partito è in vita dal 1983 e dunque sia portatore di un passato

incensurato, abbia sempre utilizzato metodi democratici e conti 4,3 milioni di iscritti; ne                                                                                                                39 “Case of Refah Partisi (the welfare party) and others v. Turkey”, ECHR, Grand Chamber, 13 february

2001, Strasbourg.

  40  

segue che il pericolo dell’utilizzo della violenza non sia credibile e che i discorsi utilizzati

come prova del carattere minaccioso del Partito vadano reinseriti nel contesto in cui sono

stati declamati e analizzati più approfonditamente.

Operando un esame di merito sulla natura e sui caratteri della fede islamica i giudici

della Corte sostengono un’incompatibilità tra l’assetto democratico della convivenza civile

e le regole della sharia. Non pochi esperti hanno criticato la decisione assunta dal massimo

organo giurisdizionale europeo, in quanto caratterizzata da una forte colorazione politica.

Secondo Marco Parisi: “[...]l’insieme delle valutazioni addotte per escludere la

fondatezza della denunciata violazione del dettato convenzionale poggerebbe sul

concetto[...] della minaccia antidemocratica rappresentata dall’Islam, la cui formulazione è

accompagnata da un’analisi molto superficiale della congruità delle prove presentate dalla

difesa governativa”40.

L’intollerabilità delle opinioni espresse dai membri del Refah e il presunto progetto di

eversione sembrano giustificati solo perché la formazione si sia richiamata ai principi

dell’Islam. Stefano Ceccanti, commentando la sentenza della Grande Camera emessa, nel

febbraio 2003 nel saggio Anche la Corte di Strasburgo arruolata nella “guerra di

civiltà”?, criticherà la Corte Europea “vittima di una paranoia securitaria post-11

settembre”41.

Secondo Maria Cristina Folliero la minaccia del diffondersi dell’Islam in Europa

costituirebbe: “il lutto non elaborato, il retro pensiero unico, spettinato e laterale che si fa

largo nelle marce contro la costruzione di moschee, che affiora dalla richiesta di classi

differenziate nelle scuole pubbliche, di somministrazione controllata di libertà religiosa

agli extracomunitari di fede islamica, tutte espressioni di un confronto interreligioso ridotto

                                                                                                               40 Marco Parisi. “Il Caso Refah Partisi: il principio di laicità alla prova della Corte Europea dei Diritti

dell’Uomo”. in “l’Islam tra dimensione giuridica e realtà sociale”. Il Libro, la Bilancia e il Ferro (a cura di

Onorato Bucci), Napoli, Esi, 2006. p 581. 41 Stefano Ceccanti: Anche la Corte di Strasburgo arruolata nella “Guerra di civilità”?. Quaderni

costituzionali. 2002. p 83.

  41  

alla stregua di una storia da teatro dei pupi siciliani con tanto di buono ma sanguinario

crociato che ci difenderà tutti dal feroce e basta feroce Saladino”42.

Tuttavia, le critiche alla Cedu circa la chiusura del Refah, sono prevalentemente

interne al dibattito occidentale. Parte dei componenti del partito islamista comprende che

benché un partito islamico possa contare su un largo bacino elettorale, il consenso non

basta per l’efficacia politica. In Turchia l’arte della politica è arte del compromesso. Non si

nega il carattere democratico del sistema, ma non si omette la caratteristica di protezione

del sistema stesso.

La Turchia è una democrazia protetta. Tale termine denota un sistema democratico

che prevede dei mezzi interni volti a fronteggiare azioni che tentino di distruggere il

sistema utilizzando percorsi istituzionali. Le origini della democrazia protetta derivano dal

crollo della Repubblica di Weimar. Il concetto di militant democracy viene definito da

Loewenstein nel 1937 durante il suo esilio negli Stati Uniti. L’autore voleva sensibilizzare

l’opinione pubblica criticando quei sistemi autoregolatori delle democrazie, che proprio

attraverso norme e procedure legali avevano favorito “the Trojan horse by which the

enemy enters the city”. Per la prima volta nella storia dei partiti islamisti turchi, si apre una

frattura tra due fazioni una alternativa all’altra: i tradizionalisti e i modernisti.

Dalla ceneri del Refah rinasce il Fazilet Partisi, FP, Partito della Virtù, sotto la guida

del conservatore Recai Kutan. Quasi tutti i quadri del Refah confluiscono nel Partito della

Virtù. Il partito tende a mostrarsi molto più moderato e circospetto rispetto il precedente.

All’interno del Partito della Virtù competono due fazioni: la prima è composta dai

geleliekfile, i tradizionalisti, l’altra dai yenilikfiler i modernisti.

I modernisti sono guidati da Abullah Gül e Recep Tayyip Erdoğan. Essi rappresentano

una nuova generazione che intende sfidare Recai Kutan e il vecchio Erbakan. In una

competizione che non ha pari nella storia dei partiti d’ispirazione islamica, i modernisti per

uno scarto esiguo si ritrovano in minoranza nel congresso del partito. Nel 2001 la Corte

Costituzionale turca deciderà di dichiarare fuorilegge e dunque chiudere il Partito della                                                                                                                42 M.C. Folliero, “Questo Diritto Ecclesiastico”, in M. Parisi (a cura di), L’insegnamento del Diritto

Ecclesiastico nelle Università italiane, Napoli, 2002. pg 123

  42  

Virtù. La chiusura determina la scissione della formazione islamica in due partiti: l’ala

conservatrice formerà il Saadet Partisi (SP – Partito della Felicità), mentre l’ala riformista

guidata da Recep Tayyip Erdoğan fonderà l’AKP, il Partito della Giustizia e dello

Sviluppo.

Alle elezioni parlamentari del 3 novembre 2002, l’SP riceverà solo il 2,5% dei

consensi. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’AKP guidato da Recep Tayyip

Erdoğan s’imporrà come primo Partito nel Parlamento della Repubblica di Turchia con

uno sbalorditivo 34% dei voti.

3. L’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo

I membri dell’AKP sono pronti sin da subito a collaborare con le Istituzioni secolari

repubblicane. Nel programma del Partito si enfatizza la lealtà ai valori fondamentali della

Costituzione turca. Le radici del Partito e dei leader affondano nei movimenti islamici

praticanti, tuttavia il Partito della Giustizia e dello Sviluppo non si definisce partito

islamico bensì democratico-conservatore, descrivendosi come la variante turca dei partiti

cristiano-democratici europei. In particolare il modello è quello tedesco del CDU. Il

riferimento ai cristiano democratici è molto importante per il modo in cui l’AKP vuole

essere percepito sia oltre i confini turchi che all’interno degli stessi.

Ad Occidente il partito di governo vuole mostrarsi conservatore e democratico,

proiettato verso la modernità e dunque l’Unione Europea. All’interno del Paese il

messaggio è molto simile e strumentale: l’AKP vuole tranquillizzare l’anima secolare della

Turchia e tutte le Istituzioni quali il Partito Repubblicano del Popolo, la Corte

Costituzionale, le Forze Armate e più in generale la società civile laica, del carattere non

rivoluzionario dei suoi intenti. L’AKP è composto da musulmani praticanti, ma turchi,

moderni e filo-europei e dunque filo-democratici. La rassicurazione degli intenti pacifici

tranquillizza i laici, in tal modo si protegge da eventuali scioglimenti e deroghe alla libertà

di associazione.

Curioso è il parallelismo contemporaneo: nelle prime elezioni pluraliste che si

susseguono nei Paesi usciti dalle rivoluzioni arabe, i partiti ad ispirazione islamica si

richiamano spesso al modello di islam democratico dell’AKP. A distanza di dieci anni

  43  

dalla creazione del partito, l’AKP è modello per quelle fazioni che godono di un grande

bacino elettorale, ma che spaventano parte della società civile dei loro Paesi e

intimoriscono europei e americani circa il loro intento democratico. L’AKP del secondo

decennio del ventunesimo secolo è il CDU del decennio precedente.

Le fazioni islamiste dall’MNP (1970) all’SP (2002) non avevano richiami religiosi nel

nome o nello statuto; ciò viene pensato per tutelarsi dalla chiusura che, ai sensi degli

articoli 61 e 62 della Costituzione tuttora vigente, può essere effettuata nel caso di presenza

di riferimenti o attività anti-secolari. Tuttavia i partiti islamisti precedenti all’AKP

criticano apertamente l’assetto kemalista della Repubblica laica di Turchia, la cultura

occidentale a cui la Turchia aderisce sin dagli anni venti viene considerata come

colonialista ed oppressiva. Nel contrasto tra forze islamiste e forze secolari, anche la

memoria storica manca di condivisione: se i primi si richiamo alla fase ottomana come

periodo di grandezza e orgoglio e interpretano la decadenza dell’Impero come

conseguenza del tentativo d’imitazione delle nazioni europee, i laici al contrario

descrivono la fase imperiale come oscurantista e presentano la fase della presa di potere

dei Giovani Turchi e della fondazione della Repubblica come una netta frattura con il

passato.

In politica estera le forze kemaliste non hanno mai mancato di ancorare la Turchia a

ogni organizzazione internazionale occidentale, e hanno sempre cercato di consolidare le

alleanze con Israele, Europa occidentale e Stati Uniti. Le forze islamiste precedenti

all’AKP criticavano il ruolo turco nell’Alleanza Nord Atlantica e si opponevano

veementemente all’adesione della Turchia all’Unione Europea. Quest’ultima viene

criticata in quanto Club Cristiano volenteroso di limitare la sovranità culturale ed

economica del popolo turco. L’UE rappresenta un nuovo tentativo di sfruttamento

economico da parte di potenze neo-coloniali. Le visite estere di Erbakan durante il breve

mandato da Primo Ministro si concentrano tutte tra Asia e Africa, principalmente in Paesi

musulmani quali Iran, Malaysia, Pakistan, Indonesia, Singapore, Egitto, Libia e Nigeria.

Nelle sue dichiarazioni la Turchia in Europa spianerebbe la strada ad Israele. L’adesione

minerebbe la storia, cultura e indipendenza della Turchia.

  44  

I partiti islamisti immaginano una politica estera portata avanti dalla fratellanza dei

popoli musulmani. Grazie alla sua potenza demografica, tradizione storica e posizione

geografica, la Turchia potrebbe essere il Paese qualificato a guidare un’idea di Nazioni

Unite Islamiche con varianti musulmane di UNESCO, NATO, organizzazione del

commercio e unione monetaria. Il carattere universale dell’Islam è accompagnato da un

forte nazionalismo, ciò è manifesto nell’idea del ritorno di una Grande Turchia che

memore del passato imperiale guidi il mondo islamico. In ultimo i partiti islamisti hanno

una politica estera anti-Israele e non pochi membri dei movimenti covano risentimenti

antisemiti. Questa posizione ha spesso irrigidito gli islamisti contro le Nazioni Unite

spesso troppo indulgenti nei riguardi di Israele.

L’AKP opera una frattura evidente con le precedenti formazioni islamiche soprattutto

nella sua prima fase di governo. L’Unione Europea diviene slogan martellante della

campagna elettorale in vista delle elezioni del 3 novembre 2002. L’AKP si presenta come

la fazione più europeista di una Turchia uscita da una devastante crisi economica. Erdoğan

definisce l’UE come un “grande spazio democratico”. Ankara si dimostra volenterosa di

collaborare con il Fondo Monetario Internazionale. La Turchia guidata da Erdoğan

intraprende una serie di politiche volte a favorire efficienza economica, privatizzazioni e

attrazioni di investimenti diretti esteri.

I primi successi dell’AKP derivano dall’interpretazione del partito del bisogno del

popolo turco di entrare in una nuova fase storica libera dalla paura di una recessione

economica o delle restrizioni alle libertà fondamentali. La base elettorale del partito,

elezione dopo elezione, raccoglie un consenso sempre più ampio.

Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo presenta le caratteristiche di un catch-all

party. Riceve consensi da diverse fazioni della società turca43. Viene sostenuto in primis

dai musulmani praticanti, l’elettorato classico dei partiti islamisti. Essi vedono nell’AKP il

loro mezzo per poter conquistare quei diritti, come la libertà d’associazione, partecipazione

o espressione, spesso limitati dalle forze secolari. Consenso sbalorditivo proviene da forze

lontane dalla tradizione conservatrice: nelle regioni sud orientali dell’Anatolia, la regione                                                                                                                43 Ergon Ozbudun, William Hale, “Islamism, Democracy and Liberalism in Turkey. The case of AKP”, Routledge, New York, 2010, pg 33

  45  

kurda, moltissimi kurdi sostengono la formazione di Erdoğan. I kurdi e diverse altre forze

antecedentemente legate ai partiti socialisti, sostengono l’AKP in quanto portatore di ideali

riformisti e antagonisti al modello militarista repubblicano. L’AKP, al pari dei partiti

islamisti suoi predecessori, fa molta presa nelle periferie della Repubblica, tanto nelle zone

agricole (si pensi alla regione kurda) quanto nei quartieri più disagiati dei centri principali.

Il partito di Erdoğan è portatore degli interessi di una nuova borghesia anatolica composta

da piccoli e medi industriali ed imprenditori, le cui attività non sono situate ad Istanbul o

nella regione occidentale turca, bensì nell’entroterra turco, nei pressi della città di Konya.

La formazione della borghesia anatolica avviene grazie alle liberalizzazioni di Turgut

Özal. Fondatore e Segretario del Partito della Madrepatria, (ANAP), Özal ricopre

l’incarico di Primo Ministro in seguito alle elezioni del novembre 1983 e rimane una figura

dominante del centro-destra turco sino al 1991. La figura di Turgut Özal sotto molti punti

di vista anticipa il ruolo storico che rivestirà in seguito Recep Tayyip Erdoğan. Ritroviamo

diverse similarità tra i due leader dal punto di vista personale e politico. Nati nell’entroterra

turco in famiglie conservatrici, formatisi nelle migliori università sia Özal che Erdoğan

possono essere definiti musulmani devoti.

Le politiche di liberalizzazioni prese da entrambi sono strettamente legate e ispirate a

scelte di politica estera. Alla politica liberista seguono provvedimenti liberali. Seguendo gli

alleati Ronald Reagan e Margaret Tatcher, Özal sostiene le regole del libero mercato e

della riduzione del ruolo dello Stato in economia. Durante il suo mandato sono ridotte le

imposte e i dazi e i controlli alle importazioni, la Lira turca diviene completamente

convertibile e il tasso di interesse non viene più determinato dal Governo, bensì dal

mercato. Queste riforme favoriscono una crescita economica costante fino ai primi anni

novanta. Le liberalizzazioni sono accompagnate da tentativi di riforma delle scuole Imam-

Hatip, un programma di costruzione delle moschee e i primi tentativi di limitare il divieto

di indossare il velo alle donne nelle sedi pubbliche. Anche Özal come Erdoğan si scontrerà

da un lato con le forze secolari (come la Corte Costituzionale che in una decisione del

1989 dichiara incostituzionali i tentativi di permettere il velo) e dall’altro dai gruppi interni

all’ANAP caratterizzati da nazionalismo e conservatorismo religioso.

  46  

Abbiamo già menzionato l’eterogeneità dell’elettorato del Partito della Giustizia e

dello Sviluppo. In molti vedono la borghesia anatolica nata dalle liberalizzazioni degli anni

ottanta come la prima ragione del successo dell’AKP o comunque come lobby

determinante.

La larghissima base popolare che nelle elezioni del giugno 2011 rasenta la metà dei

votanti è da rintracciare in primis proprio nei successi nel campo economico. L’AKP

prende le redini del governo in seguito alla crisi bancaria e valutaria del 2000, in cui

l’inflazione viaggiava anche oltre il 75%. Nei dieci anni successivi l’economia turca si

distingue per stabilità e la cronica inflazione a due cifre si riduce drasticamente. Il Governo

dell’AKP è riuscito a contenere la spesa pubblica, vendere aziende di Stato per trenta

miliardi di dollari e aprire nuove vie commerciali per il business turco, triplicando il

volume delle esportazioni negli ultimi otto anni. Secondo i dati Ocse44, nel 2003 il Pil turco

era pari a 587,8 miliardi di dollari, nel 2010 raggiunge la cifra di 1116 miliardi45,

divenendo la diciassettesima economia al mondo secondo i dati Cia46. Il Pil procapite nel

2003 era pari a 8.790 dollari l’anno, esso cresce a 15.320 nel 2010. L’inflazione, che nel

2001 era pari al 54,4%, scende al 21,6% nel 2003 e si mantiene tendenzialmente poco

inferiore al 10% sino al 201147.

La crescita media annua è maggiore di qualsiasi Paese europeo raggiungendo i picchi

di 9,4 e 8,4% rispettivamente nel 2004 e 2005. Dato importante è la tenuta della Turchia

nella crisi mondiale del 2008, è infatti uno dei paesi meno colpiti. Il governo non ha

bisogno di intervenire a salvaguardia delle banche.

Seguendo gli studi OCSE i Paesi più colpiti dalla crisi sono quelli che negli anni

precedenti presentavano un saldo di conto corrente negativo, una crescita bassa e un debito

pubblico alto. La Turchia nel periodo pre-2008 non soffriva di nessuna di queste lacune

economiche.

                                                                                                               44 http://www.oecd-ilibrary.org/economics/country-statistical-profile-turkey_20752288-table-tur, Country statistical profile: Turkey 2011-2012 OECD, ultimo aggiornamento: 18 gennaio 2012 45 Ibid. 46 https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/tu.html, Cia, ultimo aggiornamento febbraio 2012 47 http://www.oecd-ilibrary.org/economics/country-statistical-profile-turkey_20752288-table-tur, Country statistical profile: Turkey 2011-2012 OECD, ultimo aggiornamento: 18 gennaio 2012

  47  

Grafico Ocse circa le previsioni di crescita post crisi.

Nel primo trimestre del 2010 la Turchia ha messo a segno un tasso di crescita sul Pil

dell’11,4%, secondo soltanto alla Cina. I tassi di crescita tra il 2010 e il 2011 superano le

previsioni OCSE: nel 2010 la Turchia è cresciuta complessivamente dell’8,9%. La crescita

è accompagnata dall’aumento delle esportazioni di +13,4% nel 2010, ma anche delle

importazioni, +32% soprattutto gas e petrolio. Ankara vuole sfruttare la propria posizione

geografica nel grande gioco energetico, il 72% degli idrocarburi del mondo si trova nelle

sue vicinanze. La Turchia si candida al ruolo di hub energetico transitando nel suo

territorio gli idrocarburi provenienti da Iran, Repubbliche centro-asiatiche, Federazione

Russia e Paesi del Golfo.

Nel 2001 Turchia e Russia stringono l’accordo di cooperazione in Eurasia. Da allora i

rapporti tra i due Stati nemici sino ai primi anni ’90, sono caratterizzati da distensione e

sempre più marcata collaborazione. Nel 2004 Putin è il primo leader del Cremlino in

trentaquattro anni a visitare la Turchia. La Russia è oggi il primo partner commerciale

della Turchia con un interscambio pari a 33,8 miliardi di dollari toccato nel 2008. L’export

russo verso la Turchia è basato al 70% sull’energia, più un 20,5% di metalli e un 2,9% di

prodotti chimici. Quello turco punta sui macchinari, equipaggiamenti, veicoli, industria

tessile, alimentare e chimica. Nel 2009 la Turchia ha investito in Russia per oltre sei

miliardi di dollari. Ankara è presente massicciamente anche con le sue compagnie di

  48  

costruzioni che nell’ultimo decennio hanno ottenuto contratti per diciassette miliardi di

dollari.

Negli anni ’90 la Turchia tentando di costruirsi un nuovo profilo come potenza

regionale, s’insinua nel vuoto sovietico volendo prendere il posto di Mosca nelle

Repubbliche centro-asiatiche. L’intento era quello di sfruttare i forti legami etnici e

linguistici con Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan. I

governi di Ankara tentano, nel ritiro sovietico, di far leva sul panturchismo. Tuttavia le

Repubbliche neo-indipendenti insofferenti a guide dall’alto hanno voglia di

autodeterminarsi e non legittimano certo una Turchia caratterizzata da una modesta

economia. Gli interscambi commerciali con questa regione tentennano fino alla crisi del

2000. Dal 2002 le cooperazioni riprendono a livello bilaterale, ma la Turchia riconosce

l’influenza russa nei confronti di tali Repubbliche, e nella sua ricerca di diventare hub

energetico importando materie prime anche da questi Paesi, si prodiga affinché piena sia la

fiducia della Russia nei suoi confronti.

La solidità del sistema turco si basa sull’economia reale. Il miracolo economico delle

“tigri anatoliche” deriva dalla nuova classe di businessman turchi, la piccola e media

borghesia musulmana che sostiene il partito del Primo Ministro Erdoğan e il Presidente

Abdullah Gül originario di Kayseri. E’ proprio Kayseri, l’antica Cesarea, capitale

dell’omonima provincia dell’Anatolia Centrale in cui si concentra il boom economico

turco. Una regione lontana da Istanbul, tradizionale, religiosa, imbevuta di valori

patriarcali. Qui metà delle donne circola con il velo e il Ramadan è osservato rigidamente.

Zona laboriosa di artigiani e imprenditori, nel 2004 Kayseri entra nel Guinness dei

primati: in un solo giorno si aprono centotrentanove imprese. E’ qui che si producono il

90% dei mobili della Turchia e abbondano industrie tessili, chimiche, zuccherifici, società

elettroniche. Le esportazioni di beni prodotti dalle regioni anatoliche sono aumentate da

ventuno fino a centocinquanta punti percentuali negli ultimi anni.

  49  

“A new form of Turkish Islam is emerging here, one which is pro-business and pro-

free market, and it's being called Islamic Calvinism”48.

Secondo gli abitanti della cesarea, business e Corano si conciliano bene, Maometto

prima di diventare profeta era commerciante. Notare come cambi l’economia turca aiuta a

comprendere l’ascesa di nuove élite e classi sociali accompagnate da un modello di

sviluppo diverso rispetto al passato. Nelle regioni di Kayseri e Konya il partito di Erdoğan

raccoglie un netto consenso.

4. La fonte del consenso di Erdogan: la Società Civile Islamica

E’ nella società civile che il partito di Erdoğan trova la sua linfa vitale. I Musulmani

turchi si sono da sempre raccolti e organizzati in associazioni, fondazioni, giornali,

periodici, case editrici, radio, network televisivi, corsi coranici, studentati universitari,

corsi di preparazione all’università, sindacati islamici, associazioni imprenditoriali e

industriali, in particolare la MÜSİAD, (Müstakil Sanayici ve İş Adamları Derneği,

Associazione Indipendente di Imprenditori e Industriali), gruppi informali, ordini Sufi e

altre comunità religiose.

Il settore della società civile in Turchia ha beneficiato delle riforme di armonizzazione

all’Unione Europea. In processo iniziato nel 1995 ha avuto un determinante apporto

dall’AKP attraverso le revisioni costituzionali, in ultima quella del 12 settembre 2010.

Erdoğan si è adoperato specialmente per ridurre le restrizioni legali all’operato delle

associazioni. Alcuni critici sostengono che molti beneficiari delle riforme siano le

associazioni di stampo Sunnita, come i membri del network internazionale Gülen, lobby

conservatrice di gran peso. “Inspired by a little-known Turkish imam, the Gülen movement

is linked to more than 1,000 schools in 130 countries as well as think tanks, newspapers,

TV and radio stations, universities and even a bank”49.

Tra i giornali legati al movimento di Fetullah Gülen vi è lo Zaman in lingua turca e il

                                                                                                               48 “Turkish toil brings new form of faith”, http://news.bbc.co.uk/2/hi/business/4788712.stm, 13 marzo 2006

49 Edward Stourton, What is Islam's Gulen movement? http://www.bbc.co.uk/news/world-13503361, 25 May

2011

  50  

Today’s Zaman, in lingua inglese.

Il movimento è attivo nella promozione del dialogo religioso tra Islam, Cristianesimo

e Ebraismo. Caratterizzato da un forte internazionalismo è presente nella diaspora turca.

Altra componente della società civile molto importante in Turchia (presente anche nel

movimento Gülen) è rappresentata dai Sufi.

5. Il Sufismo

Il Sufismo è caratterizzato da un’interpretazione interiore della religione. La tolleranza

e la non violenza portano i sufi ad accogliere il Grande Jihad (la lotta interna del fedele)

rigettando il piccolo Jihad (lotta difensiva contro un nemico esterno). Più volte gli studiosi

hanno sottolineato50 l’influsso determinante del monachesimo cristiano siriaco, del

pensiero neo-platonico dello gnosticismo e delle antiche religioni orientali. Quanto alle

fonti principali della dottrina queste sono il Corano e la Sunna, le quali per le loro

caratteristiche si prestano ad una lettura prevalentemente interiore e spirituale della

religione e della vita del fedele. Per queste particolarità il sufismo viene presentato come

corrente musulmana più aperta ai valori della tolleranza e non violenza.

Il Sufismo riesce a svilupparsi in regioni e contesti multi-religiosi. Sotto la

dominazione araba si stabilisce in Sicilia ed Andalusia. E’ presente in molte parti

dell’Impero Ottomano, prevalentemente in Bosnia, nel Sangiaccato e in Albania. Molti sufi

rifugiati dalle Guerre Balcaniche apporteranno all’Anatolia una ricchezza culturale e

religiosa, tuttavia dal 1925, ovvero dai primi tempi della Repubblica, il culto Sufi viene

bandito per legge. I sufi in Turchia continueranno ad esistere clandestinamente. Gli ordini

Sufi, o fratellanze (tarikatlar) sopravvissute negli ordini dei Naksibendi o dei Kadiri,

rimangono attivi nella scena islamica attraverso organizzazioni politiche o imprenditoriali.

Le sette, benché inserite in un contesto sunnita, mantengono dei loro elementi sciiti.

Così come per gli aleviti, la loro adesione a elementi religiosi divergenti li porta a non

sostenere unilateralmente il partito islamista di turno, in quanto spesso temuto di essere

promotore di un unico Islam consentito, ovvero quello sunnita.                                                                                                                50 G.Filoramo (a cura di), “Islam”. Biblioteca universale, Laterza.Torino. 2002. Pg 181 e seguenti.

  51  

I primi casi di sostegno Sufi a partiti politici sono da rintracciare con la nascita del

pluripartitismo. L’appoggio era affidato ai partiti d’opposizione al CHP di un’ideologia

conservatrice del sistema kemalista, dunque meno incline alle aperture circa la libertà di

associazione dei gruppi mistici. Le tarikatlar sosterranno negli anni ’50 il Governo di

Adnan Menderes, leader del Partito Democratico, più tollerante nei confronti delle

tradizioni islamiche. Negli anni ’70 cercheranno di influenzare l’MSP, il Partito di

Salvezza Nazionale, guidato da Erbakan. E’ tuttavia in seguito al colpo di stato dei generali

del 1980 che le fratellanze riusciranno ad insinuarsi meglio in politica. Il Capo di Stato

Maggiore delle Forze Armate Turche, poi Presidente ad interim della Repubblica, Kenan

Evren enfatizza la sintesi turco-islamica (Turk-Islam sentezi) come formula per l’identità

nazionale. Evren preferisce i movimenti religiosi agli estremismi di destra e sinistra che

minano all’ordine e all’unità della nazione. La religione ben inquadrata nei sistemi statali è

strumento d’interesse nazionale.

I gruppi Sufi negli anni ’80 si dividono nel loro sostegno partitico tra Refah Partisi e

Partito della Madrepatria. L’ANAP viene sostenuto perché di ideali conservatori e liberali,

forte e capace di guidare la Nazione turca in opposizione al Partito Repubblicano del

Popolo. Il Partito della Madrepatria riceve il consenso Sufi perché guidato da Turgut Özal ,

musulmano praticante, ma non tradizionalista, uomo di formazione internazionale e grande

carisma e soprattutto legato personalmente alla setta dei Sufi Naqshbandi.

Ad oggi molte organizzazioni legate al culto Sufi, svolgono pressioni sul partito di

governo. Diversi membri dell’AKP, tra i quali lo stesso Erdoğan, sembrano simpatizzare

per il culto mistico. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo raccoglie consensi dai Sufi

perché visto come liberale, capace di ampliare le libertà di culto e d’associazione. Tuttavia

il partito di Erdoğan è spesso criticato (e temuto) dalle organizzazioni mistiche perché al

suo interno molti membri conservatori sembrano voler difendere e imporre il sunnismo.

Inoltre le organizzazioni legate ai mezzi di comunicazione di massa temono il “lato

oscuro” dell’AKP ovvero le restrizioni alla libertà di espressione e alle politiche punitive

contro giornalisti e intellettuali più critici nei confronti del Partito di governo.

6. Islamici e Pluralismo: il Neo-Ottomanesimo dentro i confini

  52  

Le elezioni del 12 giugno 2011 confermano il sostegno popolare al partito di Recep

Tayyip Erdoğan: l’AKP riceve 21.399.082 delle preferenze, pari al 49,83% dei voti. I 327

seggi attribuiti al partito, non sono sufficienti a poter modificare la Costituzione senza

accordi con le altre formazioni.

I motivi dello storico consenso elettorale sono diversi, in primis la stabilità economica

e più in generale tutti gli evidenti successi in campo economico nell’ultimo decennio.

Tuttavia, se quasi la metà dell’elettorato turco ha sostenuto il Partito della Giustizia e dello

Sviluppo è probabile che le ragioni non siano esclusivamente economiche. La Turchia vive

un cambiamento storico in cui l’AKP è un diretto risultato e in parte anche artefice.

Per la prima volta il potere civile surclassa quello militare. Decenni di restrizioni alle

libertà in ultimo il colpo di stato post-moderno del 28 febbraio 1997 o gli scontri

istituzionali per l’elezione di Gül nel 2007, hanno messo in guardia gli islamici da

comportamenti troppo distanti dalle regole costituzionali secolari turche.

Al contempo non si vuole nemmeno dubitare della fedeltà dei discorsi e del

programma del partito dell’AKP e di parti del suo elettorato ai principi fondativi

costituzionali turchi. Lo stesso Erdoğan che è stato vittima di restrizioni alle libertà

personali in seguito alla chiusura del Refah Partisi, ha commentato i diversi colpi di stato

militare come necessari nei momenti di disordine istituzionale, legittimando l’operato

dell’esercito. Sembra che gli islamici abbiano interiorizzato la volontà di governare

attraverso compromessi con le diverse anime della Turchia, parte per strategia, parte per

adesione piena ai principi repubblicani.

Il successo degli islamici è da rintracciare nella rottura dell’atteggiamento di scontro e

opposizione che li distingueva sino agli anni ’90. In riferimento alla storica tensione tra

Stato e religione l’AKP sostiene, molto più chiaramente di quanto abbiano fatto in

precedenza altri partiti islamico-conservatori, che il secolarismo è una condizione

indispensabile per la democrazia perché “permette alle persone di tutte le religioni e credi

di organizzare le loro vite in ogni direzione”51 e che i “principi di Atatürk sono il più

                                                                                                               51 Sito ufficiale AKP, programma http://eng.akparti.org.tr/english/partyprogramme.html, al 10 dicembre 2008

  53  

importante veicolo di modernizzazione del Paese”. Il movimento islamista trasla da una

politica strettamente identitaria ad un’apertura liberale che incoraggia e riconosce le

diversità.

Nei programmi dell’AKP e nei discorsi si enfatizzano valori universali quali la

democrazia, i diritti umani, lo stato di diritto, il governo limitato, la tolleranza pluralista e il

rispetto della diversità. I principi a fondamento del partito richiamano sia valori

orgogliosamente autoctoni turchi che i legami con l’Europa e l’Ovest:

“Regarding fundamental rights and freedoms, our Party will achieve the following

objectives:

Standards in the area of human rights contained in the international agreements to

which Turkey is a party, especially in the Universal Declaration on Human Rights,

European Convention on Human Rights, Paris Charter and Helsinki Final Act shall be put

into force.”52

Il Pluralismo e la partecipazione nella società democratica sono sia il mezzo che il

fine del governo del Partito islamico.

Abbiamo dimostrato come il Partito poggi su una base eterogenea. La società civile

turca musulmano-praticante, raccolta in fondazioni e associazioni di tipo caritatevole,

culturale, religioso o economico, accetta di convivere in una Turchia laica. Il pluralismo

politico poggia le basi su un pluralismo culturale.

Il neologismo “neo-ottomanesimo” viene utilizzato nelle relazioni internazionali per

descrivere una politica estera turca che riscopre i confini imperiali. Possiamo spingerci a

considerarne la diretta derivazione di questo vettore di politica estera proprio dai nuovi

equilibri interni. Principi quali il pluralismo, il consociativismo e l’inclusione di diverse

componenti interne all’arena politica scalzano i paradigmi kemalisti dell’esclusività della

partecipazione al potere di una sola parte della società, ovvero quella più laica, nazionalista

e repubblicana.

                                                                                                               52 Ibidem

  54  

Sarebbe troppo ottimistico tuttavia parlare di accettazione compiuta del pluralismo a

livello culturale e politico. In Turchia rimangono aperte molte questioni. Nonostante la

strabiliante vittoria elettorale, il partito di governo non è in grado da solo di poter riformare

la Costituzione, dovrà dunque perseguire come in passato politiche parlamentari ricercando

voti negli altri partiti. L’AKP si posiziona in un centro pivotale tra le diverse fazioni

parlamentari. Motivo derubricante i rapporti tra kurdi e sinistra liberale con i musulmani

praticanti sono il pluralismo e l’evoluzione dell’ordine kemalista. L’AKP cercherà

l’appoggio degli indipendenti kurdi nelle riforme in senso meno militarista e più liberale.

Tuttavia il punto di incontro con i lupi grigi dell’MHP sono molteplici per quanto riguarda

le politiche conservatrici. Nel dialogo tra AKP con il Partito del Movimento Nazionalista,

MHP, e membri del primo partito d’opposizione, il CHP, il consenso è facilmente

raggiungibile su politiche nazionaliste, spesso in funzione anti-kurda.

Nonostante le ottime premesse e gli eccellenti risultati circa un’evoluzione dell’assetto

interno turco in senso più pluralista e tollerante, numerosi rimangono i nodi irrisolti, che in

un periodo di pace e prosperità economica non intaccano il rafforzamento del partito di

governo, ma che potrebbero riaffiorare in un cambio d’equilibri.

  55  

1.b Kemalisti

Nella sua strada verso il modernismo la Turchia opta per un modello di Repubblica

secolarizzata. Tale scelta è effettuata nei primi anni di fondazione della Repubblica

scolpendo il valore della laicità nella pietra costituzionale. Questo cambiamento dei

costumi e dell’organizzazione di stato che viene presentato come una netta frattura con il

precedente assetto ottomano uscito sconfitto ed umiliato dalla Prima Guerra Mondiale.

Mustafah Kemal Atatürk, padre della Turchia repubblicana, nazionalista e laica, opera

una scelta in politica estera di chiusura ed indipendenza dall’estero e allo stesso tempo lega

la Turchia alle potenze occidentali, quali Stati Uniti ed Europa dell’Ovest. Lo Stato turco è

abitato da musulmani, ma la gestione laica del potere tranquillizza gli interlocutori

occidentali. Un esercito armato delle più moderne tecnologie e formato da centinaia di

migliaia di uomini preparati alla guerra e pronti a reagire ad ogni minaccia ai principi

fondativi della Repubblica, viene visto di buon occhio e sostenuto da un occidente che

guarda alla posizione geografica della Turchia come difficile e strategicamente rilevante.

La Turchia è un avamposto troppo importante per gli equilibri mediorientali e

mediterranei. Una Turchia amica dell’Ovest è necessaria per un Israele circondata da Arabi

ostili. Una Turchia laica è un ottimo modello alternativo all’Iran di Khomeini. Una Turchia

forte è un buon alleato contro l’Unione Sovietica.

Le deroghe alle libertà di autodeterminazione del popolo kurdo, alla libertà di

espressione e partecipazione dei musulmani praticanti e di tutte le componenti di Turchia

che non accettano pienamente i principi kemalisti, , la compressione dei diritti degli

Armeni e il rifiuto di fare chiarezza storica sul genocidio di questo popolo tra il 1915-17,

trovano la loro giustificazione nel particolare periodo storico e in una posizione geografica

unica. E’importante che la Turchia rimanga laica e filo-occidentale, a tutti i costi.

1. La fine della Guerra Fredda, nuove libertà

L’adesione ai valori occidentali, i contatti economici, diplomatici, istituzionali e

culturali avvicinano i turchi all’Europa delle libertà. L’adesione alle organizzazioni

internazionali, alle carte dei diritti, ai forum interculturali semina nell’intelletto e nei

  56  

comportamenti dei turchi il seme del superamento del sistema kemalista che pur aveva

all’inizio imposto tale interscambio. Gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo millennio,

liberano la Turchia dai rigidi schemi bipolari. La libertà internazionale si propaga

all’interno e i turchi si scontrano tra loro stessi per affermare o conservare nuove o vecchie

libertà.

I musulmani praticanti e i kurdi si oppongono ai difensori del modello kemalista

lottando per il loro diritto alla partecipazione politica. I kemalisti si oppongono a tale

cambiamento perché temono la perdita delle libertà occidentali, le libertà moderne e laiche.

I kemalisti temono l’arabizzazione della società turca o l’ascesa di un Khomeini dispotico.

Il dialogo prima violento tra i portatori dei diversi valori appare oggi più disteso. La paura

di un’islamizzazione della società permane in molti ambienti laici turchi. Gli oppositori del

regime temono il comportamento dispotico di Erdoğan repressivo nei confronti di

giornalisti, intellettuali, militari oppositori al regime. Quello che negli ultimi anni ha

portato a un maggior appoggio e a una minore opposizione al partito di governo è

l’assicurazione dell’AKP di non tentare un colpo islamico. Dopo dieci anni la società civile

laica, e di riflesso la Corte Costituzionale e i militari, sembrano avere meno paura e

accettare il cambiamento, ma non certamente da osservatori passivi. Le dimissioni delle

alte sfere militari dell’estate 2011 sembra far intendere che anche i militari abbiano

accettato non tanto la primazia di un governo islamico sulla forza militare, quanto il

principio democratico del potere civile che prevale su quello militare.

Sembra che l’abilità di Erdoğan e Davutoğlu in politica estera non dispiaccia alle

Forze Armate turche. Una Turchia che riscopre il nazionalismo, che alza la testa di fronte

alle potenze occidentali, che è attiva nelle missioni di pace oltre confine e che è pronta a

violare il diritto internazionale nella lotta agli indipendentisti kurdi dai cieli iracheni,

tranquillizza i militari che se pur comprendono un doveroso ridimensionamento (non

eccessivo, ma storico) del loro ruolo, si sacrificano ai fini di perseguire l’importante

interesse nazionale. La Turchia kemalista e laica, attraverso la laicità supera il kemalismo

originario.

  57  

2. La Lâiklik

La laicità nei Paesi europei prende ispirazione dal modello francese risultante

dall’illuminismo e dalla rivoluzione. Per laïcite si intende “une valeur universaliste et

humaniste, positive et inclusive (affirmation des libertés individuelles et publiques) avant

d'être négative (séparation des Eglises et de l'Etat) ou exclusive (libre-pensée)”.53

Con il termine turco lâiklik s’intende un tipo di secolarismo in cui lo Stato controlla ed

inquadra le religione. La lâiklik dunque non prevede una semplice separazione tra Stato e

sfera religiosa, bensì è la Costituzione che emana la necessità di vigilanza e controllo della

religione ad opera delle Istituzioni statali. La religione si distanzia progressivamente dalla

sfera politica: l’atto storico più simbolico è l’abolizione del califfato il 3 marzo 1924.

L’Istituzione era sopravvissuta provvisoriamente all’abolizione del sultanato nel novembre

1922 e alla proclamazione della Repubblica il 29 ottobre 1923. Il primo testo

costituzionale approvato dalla Grande Assemblea Nazionale il 20 Aprile 1924 prevede

all’articolo 2 l’Islam come religione di Stato. Nella fase fondativa della Repubblica,

l’Islam è strumento di turchizzazione. Nel 1923 Mustafah Kemal negando l’esistenza di

minoranze musulmane nel territorio turco (lampante è la negazione dei kurdi) dichiarerà:

“siamo tutti turchi perché siamo tutti Musulmani”. L’unificazione nazionale transita

attraverso il credo religioso.

Abbiamo già menzionato il discorso di Mustafa Kemal di fronte il Parlamento

nell’ottobre 1927 in cui vengono enunciate le “sei frecce” turche, ovvero Nazionalismo,

Repubblicanesimo, Statalismo, Rivoluzionarismo e Etno-populismo. L’unità dei turchi

identificati nel credo religioso, in una fase di guerra di liberazione nazionale evolve in

Secolarizzazione (sesta freccia) nella Costituzione del 10 aprile 1928, quando si sancisce la

laicità come principio costituzionale abbandonando ogni riferimento all’Islam. La Turchia

diviene così il primo stato laico nel mondo musulmano. Ad oggi oltre la Turchia solo il

Senegal sancisce la laicità come principio costituzionale. Il concetto di lâiklik s’inizia ad

                                                                                                               53  Jean-Paul Burdy et Jean Marcou. “Laicité/Laiklik : Introduction”. Cahiers d'études sur la Méditerranée orientale et le monde turco-iranien, n°19, janvier-juin 1995. pg 1.  

 

  58  

affermare già nell’ultima fase dell’Impero Ottomano. Abbiamo già menzionato l’intento

modernizzatore dell’Impero in una fase di successione delle sconfitte militari. L’esercito

ottomano perde contro gli europei rafforzati dal propagarsi delle tecnologie risultanti dalla

Rivoluzione Industriale.

3. Tanzimât

Per Tanzimât s’intende la riorganizzazione amministrativa dell’Impero. Le prime

riforme vengono attuate dai Sultani Selim III (1789 – 1807) e Mahmut II (1808 – 1830),

ma il processo di riforme conosciuto come Tanzimât fa seguito all’Editto imperiale della

Gülhane del 1839 e viene portato avanti dai Sultani Abdülmecid I and Abdülaziz sino alla

promulgazione nel 1876 del Kanûn-ı Esâsî, legge fondamentale, o prima Costituzione

Ottomana promulgata dal Sultano Abdülhamid II scritta dai membri dei Giovani Turchi. Il

Tanzimât è caratterizzato da un approccio tecnico alle riforme di tipo essenzialmente

militare, amministrativo, giuridico, educativo, fiscale e finanziario. Tuttavia

“inéluctablement, ce processus "technique" engendre un phénomène de sécularisation

politique et sociale, et débouche sur un renforcement de l'Etat et des pouvoirs du Sultan, en

affaiblissant les autorités religieuses et leurs compétences traditionnelles.”54

Il programma di riforme si effettua al fine di contrastare il lento declino del “malato

d’Europa”, pensando che l’occidentalizzazione e il rispetto delle popolazioni non

Musulmane dei diversi Millet, avrebbe fermato l’aggressività delle Grandi Potenze. Si

riformano le istituzioni militari e religiose. Si adottano pratiche europee e si cambiano i

costumi, come le uniformi. Viene adottata la coscrizione maschile universale, si contrasta

la corruzione. Sono promulgate leggi secolari a favore della coesistenza pacifica dei

Musulmani e dei non Musulmani, Turchi e Greci, Armeni ed Ebrei, Kurdi ed Arabi. Nel

1839 si dichiara l’uguaglianza di fronte alla legge dei Musulmani e dei non Musulmani

dell’Impero Ottomano.

Le riforme non arrestano il declino imperiale. Le insurrezioni di Bosnia del 1875, la

guerra con la Serbia e il Montenegro, lo sdegno e le proteste delle potenze europee di

                                                                                                               54  Jean-Paul Burdy et Jean Marcou. Laicité/Laiklik : Introduction. Cahiers d'études sur la Méditerranée orientale et le monde turco-iranien, n°19, janvier-juin 1995. pg 10.  

  59  

fronte alle cruenti repressioni a seguito delle ribellioni bulgare, i moti secessionisti degli

arabi, porteranno il Sultano Abdul-Hamid II (1876 – 1909) a sospendere la Costituzione

nel 1878 e a perseguire per tre decenni un regime assolutista. L’esercito non esita a

reprimere brutalmente alcune minoranze cristiane autoctone, principalmente gli armeni.

Con Abdul-Hamid II si attuano politiche volte alla centralizzazione territoriale. Il

Sultano, si appella all’unione pan-islamica (ittihad-i İslâm) contro la disgregazione

dell’Impero la cui capitale è sede del Califfato. Le tecniche di modernizzazione motivate

dal tentativo di rafforzare e difendere la comunità musulmana prevedono l’appropriazione

da parte del Governo di molte istituzioni Islamiche come le Moschee, le Madrasse, gli

spazi dei Sufi. L’Impero tenta di inquadrare e controllare la religione, al fine di difendere e

rafforzare l’entità statale.

Il passaggio da un periodo di tolleranza religiosa a un approccio di controllo

dell’Islam, suggeriscono una continuità tra le scelte imperiali e le politiche kemaliste.

Tuttavia Atatürk intende presentare le riforme secolari come in netta frattura con il passato

ottomano: la Repubblica turca si propone al mondo come un soggetto nuovo. Questa scelta

viene effettuata in vista del Negoziato di Losanna.

4. Negoziato di Losanna, il riscatto dell’orgoglio turco

La conferenza di Losanna ebbe luogo nella città svizzera tra il novembre 1922 e il

luglio 1923. Si trattò di un negoziato per trovare l’accordo di rimpiazzo al Trattato di

Sèvres, non riconosciuto dal governo della Repubblica turca nata in seguito alla guerra di

liberazione nazionale dalle forze occupanti e alla presa di potere dei Giovani Turchi guidati

da Mustafa Kemal Atatürk.

I Giovani Turchi avevano abolito il Califfato e l’assetto imperiale. Nella fase pre-

negoziale i turchi si preparano a presentare una delegazione che rappresenti un soggetto

nuovo, forte di una guerra vinta, ma moderno e volenteroso di instaurare un dialogo con le

potenze occidentali. Allo stesso tempo i turchi non vogliono pagare i debiti contratti

dall’Impero Ottomano sommati ai risarcimenti di guerra imposti a Sèvres.

  60  

Il capo delegazione turca è il Ministro degli Affari Esteri Mustafa İsmet İnönü, già

negoziatore nell’armistizio di Mudanya l’11 ottobre 1922. Egli sin da giovanissimo

aderisce al CUP, Comitato di Unione e Progresso che raccoglie il movimento dei Giovani

Turchi. Per l’esercito imperiale İsmet İnönü combatterà nelle guerre Balcaniche, in

Rumelia (Grecia), nello Yemen e durante la Prima Guerra Mondiale nel Caucaso e in

Palestina sotto il comando di Mustafa Kemal. Dopo l’occupazione di Costantinopoli del 16

marzo 1920 si unisce al Movimento Nazionale Turco e guida il Fronte Occidentale

dell’Esercito della Grande Assemblea Nazionale verso la liberazione nazionale

dall’occupazione straniera.

Per la delegazione turca il BATNA (Best Alternative To a Negotiated Agreement) è

stabilire la sovranità del nuovo Paese chiamato “Repubblica di Turchia” e la legittimazione

della Grande Assemblea Nazionale di Ankara.

La fase negoziale si apre il 20 novembre 1922. Il tavolo delle contrattazioni divide due

fazioni, la prima è composta dalla sola Turchia, la seconda dai vincitori della Prima Guerra

Mondiale: Impero Britannico, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania e Stato Serbo-

Croato-Sloveno. Il negoziato è lungo e concitato, interrotto da una protesta turca il 4

febbraio 1923. I turchi nella città svizzera non intendono prostrarsi alle richieste dei

vincitori, l’atteggiamento negoziale differisce totalmente dai rappresentanti di Istanbul a

Sèvres. L’orgoglio turco è una fiamma viva negli ambasciatori della nuova Turchia.

Nel gennaio del 1923, Turchia e Grecia firmano la "Convention Concerning the

Exchange of Greek and Turkish Populations". Il trattato di scambio delle popolazioni

greche e turche coinvolge approssimativamente due milioni di persone, un milione e

mezzo greci anatolici e cinquecento mila musulmani in Grecia. La convenzione ha effetti

retroattivi circa i movimenti di popolazione che iniziano con le guerre balcaniche del 1912.

L’accordo con la Grecia e l’intemperanza dei turchi gioca a favore di questi ultimi

nelle negoziazioni. Il negoziato per il Trattato di Losanna tra Turchia e vincitori del primo

conflitto mondiale, interrotto a febbraio, si riapre ad aprile. Il britannico Lord Curzon

guida la delegazione degli alleati.

  61  

La capitolazione dell’Impero Ottomano aveva portato a accordi incredibilmente

sfavorevoli nei confronti dell’Anatolia, che entrambe le parti della contrattazione

trovavano ora inappropriati. Le sconfitte ottomane avevano favorito il flusso degli

investimenti diretti esteri, che non rispondevano alle giurisdizioni musulmane e avevano

minato all’indipendenza del territorio ottomano. Ciò in continuità ai secoli dei sistemi delle

capitolazioni, ovvero i contratti bilaterali tra potenze europee, in particolare Inghilterra e

Francia, e Impero Ottomano. Le capitolazioni garantivano agli europei grandissima

autonomia economica e giuridica.

Gli alleati, posto il fatto che molti cittadini avevano effettuato investimenti notevoli

nel territorio turco, pretendevano di tutelare tali investimenti sotto certe condizioni. Le

condizioni includevano un sistema legale parallelo nel quale i consolati si sarebbero

occupati del diritto degli investimenti diretti esteri. Un preludio alla protezione diplomatica

degli investimenti.

I turchi non intendono concedere un sistema giuridico parallelo a quello unico di

Turchia e interrogano gli europei sul motivo della diffidenza nel sistema giuridico di

Ankara. Tali particolari condizioni giuridiche non sono state richieste agli Stati di nuova

indipendenza quali Bulgaria e Grecia. Lord Curzon spiega che la diffidenza nasce dal fatto

che la Turchia è un Paese Musulmano e dunque molto distante dalle pratiche e tradizioni

europee.

A quel punto i rappresentanti di Mustafa Kemal Atatürk non cederanno alle richieste

inglesi tranquillizzando gli interlocutori circa il loro immotivato timore. La Turchia non

era musulmana, ma laica. La Repubblica era cosa diversa dall’oscurantista Impero

Ottomano. La Turchia riconosceva e tutelava le minoranze non musulmane ed era in

procinto di lavorare per creare un ordinamento laico e occidentale.

Il lungo negoziato termina con l’accordo del 24 luglio 1924. I Turchi riconoscono la

perdita dei territori nord africani, balcanici, il Mosul, le isole mediterranee cedute a Grecia

e Italia. Tuttavia raggiungono il BATNA: Gli europei accettano i confini risultanti dalla

guerra di liberazione nazionale (quelli attuali) e riconoscono la soggettività internazionale

della nuova Repubblica Turca, la quale tranquillizzati gli interlocutori circa la laicità dei

  62  

suoi intenti, salvaguarda il suo sistema giuridico ed economico dall’indipendenza esterna.

Inoltre la tenacia diplomatica porta alla rinegoziazione dei debiti precedentemente contratti

dall’Impero Ottomano e che dopo Sèvres erano eccessivi per i turchi.

Nelle debolezze dell’impero ottomano gli investimenti esteri che rispondevano ad una

giurisdizione diversa da quella di Istanbul indebolivano l’autonomia dell’Impero.

Attraverso la difesa dell’unicità del sistema giuridico nazionale Atatürk prepara la Turchia

ad una fase autarchica, necessaria per costruire la basi solide del Paese.

La laicità dunque se da un lato tranquillizza le potenze europee circa la modernità del

Paese, dall’altro difende la Turchia da infiltrazioni straniere.

5. Il controllo dell’Islam

Le riforme di secolarizzazione dello Stato vengono effettuate principalmente tra il

1928 e il 1934. Queste vogliono facilitare la modernizzazione del Paese, la propensione

dello stesso verso occidente attraverso una rivoluzione culturale dall’alto. Inoltre si cerca

di enfatizzare la rottura con la cultura araba ed il passato ottomano. Si riforma il sistema

educativo in senso laico, le scuole religiose vengono integrate nel sistema scolastico

pubblico con deroga per le minoranze religiose. La preghiera sarà in turco, non in arabo.

L’alfabeto non userà più caratteri arabi, ma s’impiegherà l’alfabeto turco, molto più

intellegibile con i caratteri delle lingue europee. Si adottano calendario e numerazione

internazionale, ponendo la domenica come giorno di riposo settimanale. L’uso del cappello

“all’europea” sostituisce il fez, si chiudono i luoghi di preghiera dei dervisci, si aboliscono

i titoli onorifici propri del periodo imperiale e s’impone il divieto di indossare abiti

imperiali.

Lo strumento di regolazione dell’Islam è il Diyanet İşleri Başkanlığı, la Direzione

degli Affari Religiosi posto sotto l’autorità del Primo Ministro. Il Diyanet amministra solo

il ramo Sunnita dell’Islam. “It does not serve or organize other branches or other

religions—which shows that the Turkish state, although secular, is not equidistant from all

religions. Christianity and Judaism are not managed by a dedicated branch of government

  63  

such as the Diyanet. They are self-governing but subject to Turkish laws and regulations,

particularly those pertaining to minorities.”55

Il Diyanet ha le funzioni di amministrare le settantasette mila Moschee turche,

nominare o destituire gli imam e i muezzin, dopo aver sorvegliato la loro formazione nelle

scuole o presso la nuova Facoltà di Teologia di Istanbul. Il Diyanet supervisiona le opere

d’insegnamento dell’Islam, i libri di preghiera e i manuali della morale religiosa.

Il Consiglio dispone di un budget considerevole ben superiore rispetto a molti altri

ministeri.

La laicità kemalista si impone ad una società che, se escluse le élite delle grandi città

affacciate sul Mar Mediterraneo, non era preparata. Un laicismo attivo, alle volte virulento

soprattutto per tutti gli anni ’30. Il secolarismo turco facilita la Turchia nel dialogo con

l’occidente. Il controllo del carattere laico dello Stato viene effettuato da diverse Istituzioni

statali, in primis le Forze Armate.

6. Le Forze Armate Turche: Custodi della Laicità Costituzionale

Sin dal processo riformatorio del Tanzimat il primo organo Istituzionale a beneficiare

della modernizzazione è stato l’esercito. Il protagonismo dei militari è un retaggio

dell'Impero ottomano: durante il sultanato la distinzione tra musulmani e non, risiedeva

proprio nel fatto che solo i primi potessero accedere alle cariche di governo e al servizio

militare.

"Obblighi militari e incarichi politici procedevano di pari passo per i soldati

musulmani, costituzionalmente 'fedeli' perché religiosamente 'fedeli', quindi politicamente

e militarmente affidabili. I non musulmani potevano ben dirsi ottomani, ma erano

inesorabilmente 'infedeli' sul piano religioso, dunque 'inaffidabili' sul piano politico e

militare"56.

                                                                                                               55  Angel Rabasa, F. Stephen Larrabee, “The Rise of Political Islam in Turkey”. Rand, National Defense Research Institute. Santa Monica (Ca) 2008. Pg 21  56  Michele Carducci, Beatrice Bernardini d'Arnesano, “Turchia. Si governano così”, il Mulino, 2008, p.97  

  64  

Nell'impero ottomano, i militari erano garanti dell'assetto vigente, caratterizzato da un

ordinamento di tipo islamico. Nell'epoca kemalista i militari assurgono a difensori del

nuovo assetto, democratico e laico. La fedeltà militare si trasforma da fedeltà religiosa a

fedeltà costituzionale. Le Forze Armate sono state fautrici della vittoria della Guerra di

Liberazione Nazionale ed hanno guidato la Turchia nella sua fase catartica della storia

moderna ovvero il quinquennio 1918-1923, dalla sconfitta della Prima Guerra Mondiale, il

disintegrarsi dell’Impero e Sèvres, fino alla guerra di liberazione, la fondazione della

Repubblica e Losanna.

A differenza di Germania e Italia, o della Penisola Iberica e Grecia, o degli Stati

dell’Europa dell’Est, la Turchia non ha subito il trauma della sconfitta della Seconda

Guerra Mondiale, o del collasso di un regime fascista o comunista. In Europa queste

sconfitte hanno indebolito il ruolo dei militari a vantaggio delle forze civili. In Turchia la

mancanza di una perdita bellica ha preservato il ruolo privilegiato dei militari, la cui

funzione viene vista come strumentale per la salvaguardia dell’assetto repubblicano.

Immedesimandosi nel ruolo di padre educatore, entrano in politica nei momenti di

maggiori disordini sociali o rischio degli stessi. Sono fautori di due Carte costituzionali e

quattro colpi di stato (l’ultimo il cosiddetto colpo di stato post-moderno senza spargimento

di sangue del 1997).

Il primo intervento data il 27 Maggio 1960. Un gruppo di ufficiali dell’esercito si

oppone al governo del Partito Democratico. A guidare il colpo di stato è il generale Cemal

Gürsel. Il “ritorno nelle caserme” avviene diciassette mesi dopo a seguito della

promulgazione della nuova Costituzione liberale. Il coup d’état viene motivato dai

disordini civili causati dai disagi economici. I militari non vedevano di buon occhio

l’ascesa al potere del Partito Democratico, vincitore delle due elezioni parlamentari

precedenti, sempre più tollerante ed aperto alle forze islamiche e in opposizione al Partito

Repubblicano CHP, più vicino agli interessi militari.

Al Colpo segue la costituzione di due organi di storica importanza per la Turchia: il

Consiglio di Sicurezza Nazionale e la Corte Costituzionale. Il primo verrà riformato con la

Costituzione del 1982. La Corte Costituzionale nasce come strumento di difesa dei principi

  65  

kemalisti, il fine è quello di bilanciare e controllare il potere dei partiti affiché essi non si

discostino dai principi fondatori della Nazione. La sua composizione (almeno fino alla

revisione costituzionale del 2010) non dipende dal Parlamento. La Turchia è una

democrazia protetta e la Corte Costituzionale appellandosi agli articoli 61 e 62 della

Costituzione, su proposta del Procuratore Generale della Repubblica, può sciogliere quelle

formazioni politiche che minano al carattere secolare della Repubblica.

Il secondo coup d’état avviene il 12 marzo del 1971. La situazione è molto tesa in

Turchia: le manifestazioni giovanili iniziate nel ’68 assumono caratteri violenti e anti-

americani. Gli scontri con le forze dell’ordine terminano spesso con bagni di sangue. Il

Primo partito islamista, Milli Nizam Partisi, MNP, Partito dell’Ordine Nazionale, che

riceve consistenti consensi elettorali, respinge apertamente gli ideali kemalisti provocando

l’ira delle Forze Armate verso un colpo di stato decisamente più violento del precedente.

Il terzo e più incisivo coup d’état, data il 12 settembre 1980. L’intervento dei militari

segue un periodo di duri scontri di piazza e un attivismo violento da parte dell’estrema

destra. Nascono negli anni ’70 movimenti indipendentisti del popolo kurdo. Il Parlamento

appare instabile e incapace nel riportare l’ordine, il nuovo Partito guidato da Erbakan

sembra anche questa volta anti-istituzionale. L’intervento militare è seguito da tre anni di

gestione del potere e dalla promulgazione di una nuova Carta Costituzionale.

Tra le numerose riforme, importante è il nuovo articolo 118 riguardante il Milli

Güvenlik Kurulu, MGK, Consiglio di Sicurezza Nazionale. Godendo di grande

indipendenza, formula pareri indirizzati all’esecutivo su materie concernenti la sicurezza

nazionale. La composizione diventa la seguente: Il Capo di Stato (che presiede), il Primo

Ministro, i Ministri della Difesa, degli Interni e degli Affari Esteri, il Capo di Stato

Maggiore e i comandanti dell’Esercito, Marina, Aviazione e Gendarmeria. L’organo che

nasce con ruolo consultivo si dimostra sempre più preponderante nelle scelte politiche. Gli

oggetti di discussioni trattati negli anni dal Consiglio di Sicurezza Nazionale sono: il

sistema elettorale, il rafforzamento del potere esecutivo, la definizione di strategie di

contrapposizione al movimento islamista e a quello kurdo. Assistiamo a una legittimazione

  66  

costituzionale del ruolo dei militari nella sfera politica, non tanto quanto strumento del

potere civile quanto come guardiano autonomo e costantemente vigile.

Come spiegato nelle parti precedenti il “colpo di stato post-moderno” del 28 febbraio

1997 non ha visto l’uso della forza armata, ma le pressioni del Consiglio di Sicurezza

Nazionale sul Partito Islamista Refah Partisi. Gli organi risultanti dalle due Costituzioni

emanate dal Potere Militare, il Consiglio di Sicurezza Nazionale e la Corte Costituzionale,

senza l’uso della forza armata, ma attraverso i loro poteri istituzionali, hanno sciolto il

partito islamista in quanto anti-costituzionale perché promotore di attività anti-secolari.

7. L’ascesa dell’Akp e i difficili equilibri con le forze a difesa della laicità in

Turchia

Con le elezioni del 3 novembre 2002, per la prima volta la Turchia è guidata da un

partito islamista. Gli equilibri tra governo ed esercito e organi a difesa della laicità dello

Stato sono molto tesi.

Tuttavia il primo quinquennio è caratterizzato da una pacifica distensione. I generali,

la Corte Costituzionale, il Consiglio di Sicurezza Nazionale non intendono destabilizzare

l’ordine turco a pochi anni dalla crisi economica del 2000-2001. Il partito di Erdoğan in

discontinuità con le formazioni islamiste che l’hanno preceduto trova negli Stati Uniti e

soprattutto nell’Unione Europea un alleato e un modello a cui tendere.

La politica estera attivissima coinvolge l’apparato militare: la Turchia invierà

contingenti di pace in moltissime parti del mondo in particolare nei Balcani, nel Medio

Oriente e in Afghanistan. L’opposizione del Parlamento alla proposta statunitense circa

l’utilizzo del fronte sud-orientale turco per attaccare l’Iraq nel 2003 non provoca

particolarmente i militari: quella irachena è una guerra contestata non solo dal popolo

arabo, ma dalla stragrande maggioranza dei musulmani. Una Turchia capace di tenere testa

agli Stati Uniti non dispiace ad un esercito orgoglioso e nazionalista.

La politica estera dell’AKP presenta importanti novità con il passato di gestione del

potere kemalista. Tuttavia non mancano elementi di continuità. La politica estera dei

kemalisti aveva come priorità la logica di sicurezza nazionale e il coinvolgimento

dell’esercito. Prioritaria è sempre stata la lotta al separatismo kurdo. Le scelte di politica

  67  

estera di Erdoğan debuttano tutte con obiettivi securitari che solo successivamente portano

alla messa in pratica dei principi di Davutoğlu enuncianti in Profondità Strategica, in

primis il Neo-Ottomanesimo. Le politiche di distensione con Siria e Iran, sono prese in

collaborazione con le Autorità degli stati nemici al fine di combattere gli autonomisti

kurdi, in particolare nell’alleanza PKK e PJAK (autonomisti kurdi-iraniani).

L’emancipazione dagli Stati Uniti nel rifiuto dell’appoggio alla guerra in Iraq è motivato

da logiche di sicurezza: Saddam Hussein non era alleato di Ankara, ma la destabilizzazione

del regime iracheno minava alla sicurezza dei confini turchi, tra le regioni kurde d’Iraq e

Turchia. I militari si rendono conto del pericolo di mostrarsi alleati in una guerra odiata dai

musulmani e che urta agli interessi nazionali, securitari turchi.

Il distacco da Israele è successivo a queste iniziative distensive con i popoli arabi del

Medio Oriente. I musulmani al potere nei primi cinque anni di governo sono

particolarmente attenti ai discorsi e agli atti politici non volendo provocare gli organi a

difesa della laicità né inquietare la società civile turca. Le tensioni più rilevanti avvengono

in relazioni alla presenza delle mogli velate dei parlamentari dell’AKP. In diverse visite

ufficiali lungo il 2003 con i militari e il Presidente della Repubblica Sezer, descritto dagli

intellettuali turchi come “bastione della difesa della laicità” dello Stato, le mogli dei leader

del partito di governo, Erdoğan e Gül, non sono le benvenute. Mrs Emine Erdoğan è

dunque gradita alla Casa Bianca, ospite della famiglia Bush, ma non nell’abitazione del

Presidente nel suo Paese.

Questi nervosismi che non causano lo scontro istituzionale, provocano spesso ironia

da una parte dei turchi circa le eccessive rigidità del sistema. Il 27 aprile 2007 il Primo

Ministro Erdoğan rivolge un appello ai deputati della Grande Assemblea affinché votino al

primo turno il candidato alla presidenza Abdullah Gül, già Ministro degli Affari Esteri.

Quest’ultimo viene considerato dalle forze a difesa della laicità, come islamista ostile

alla laicità della stato. Contro la sua elezione, il Partito Repubblicano del Popolo, il CHP,

Cumhuriyet Halk Partisi, porta avanti un ostruzionismo parlamentare; si appella alla Corte

Costituzionale, per eccepire un’eventuale irregolarità procedurale. Alla prima

convocazione dell’Assemblea (primo voto) gli Alti ufficiali dell’esercito diffondono un

comunicato via internet, battezzato “comunicato di mezzanotte” con cui si allertano i

  68  

cittadini sul rischio che l’appoggio monopartitico alla candidatura di Gül possa nuocere

alla laicità dello Stato, costringendo, in tal caso, a un eventuale intervento a tutela delle

Istituzioni. La Corte Costituzionale vigila sulle votazioni e ad Ankara, Smirne e Istanbul si

organizzano manifestazioni di piazza a difesa della laicità. L’atmosfera ricorda quella

precedente alla chiusura del Refah Partisi, circa dieci anni addietro. Erdoğan si difende con

l’attacco, sciogliendo anticipatamente l’Assemblea e indicendo nuove elezioni. Il 22 luglio

2007 si svolgono le sedicesime elezioni generali in Turchia. Le previsioni parlano di

un’alta astensione legata al periodo estivo. Gli elettori stupiscono: votano oltre l’84% dei

turchi, (nel 2002 il tasso era stato poco superiore al 79%). L’elettorato turco riconferma il

sostegno al partito di Erdoğan con uno sbalorditivo 46,6% delle preferenze (nel 2002 le

preferenze erano state del 34%).

Forte del sostegno popolare l’AKP riesce ad eleggere Abdullat Gül alla presidenza.

Gül è il primo Presidente della Repubblica “non solo musulmano, ma dichiaratamente

islamico”57. Sua moglie indossa pubblicamente il turban, causa di tante controversie

giudiziarie giunte persino davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

A elezioni appena concluse la Corte Costituzionale non sarebbe potuta intervenire

contro la scelta del Parlamento, se non provocando un conflitto senza precedenti con

l’Assemblea e gli elettori. Nell’estate 2007 l’AKP indice un referendum, approvato dai

turchi, per l’elezione diretta del Presidente. Il 12 settembre 2010 assistiamo all’ultima

riforma costituzionale. Erdoğan, come De Gaulle, si appella di nuovo agli elettori

attraverso un referendum costituzionale. Nonostante una forte opposizione nella regione a

maggioranza alevita e soprattutto nelle province più industrializzate ad ovest del Paese e

una fortissima astensione nella regione kurda, il 57,94% dei votanti è favorevole alla

riforma costituzionale. In essa viene ampliato il godimento dei diritti per le donne, i minori

, i disabili e gli anziani. Sono estese le libertà sindacali e il diritto allo sciopero. Viene

introdotta la figura dell’ombudsman e soprattutto si ridimensiona il potere dei militari

introducendo la possibilità di essere giudicati dai tribunali civili e riducendo il ruolo del

                                                                                                               57  Michele Carducci, Beatrice Bernardini d’Arnesano, “Turchia: si governano così”. Il Mulino, Bologna, 2008. pg. 88

 

  69  

Consiglio di Sicurezza Nazionale (abolizione art. 15). Assistiamo ad un’importante riforma

della magistratura e ad un ampliamento del potere del Parlamento.

Quella del 2010 è solo l’ultima delle numerose revisioni costituzionali della Carta

fondamentale, il testo costituzionale del 1982 è stato emendato di quasi un terzo del suo

contenuto originario. Grande impulso alle revisioni provengono dall’Unione Europea,

Ankara cerca di adeguarsi agli standard democratici richiesti da Bruxelles. Revisionata nel

1987, 1993, 1995, 1999 (due volte), 2001, sotto la guida dell’AKP la Costituzione verrà

modificata nel 2004, 2007 e soprattutto con la più ampia revisione (seconda solo a quella

del 2001) del 12 settembre 2010.

Se la Costituzione del 1982 sanciva il ruolo autonomo predominante dell'esercito,

nella figura del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l’AKP ha ridotto, nel corso degli anni e

mediante importanti riforme, lo status dei militari nella vita politica del Paese. Le riforme

riguardanti il controllo civile sui militari, sono state caldeggiate dall'Unione Europea, la

quale ha posto il problema come una priorità essenziale per garantire il funzionamento

democratico del Paese e ne ha fatto dunque una delle condizionalità cogenti per l'ingresso

della Turchia in Europa.

Nella revisione del 2001, 26 dei 36 articoli emendati, riguardano i diritti dell'uomo,

sulla spinta della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Il 24 novembre 2001 è stata anche

approvata la prima grande riforma del Codice Civile. Nel 2004, con la ratifica del

protocollo numero 13 della CEDU, è stata definitivamente abolita la pena di morte.

Revisioni considerevoli, per comprendere il processo storico di cambiamento che sta

vivendo la Turchia, riguardano le Istituzioni che storicamente sono state baluardi della

difesa della laicità repubblicana, in particolare il Presidente della Repubblica, il Consiglio

di Sicurezza Nazionale e la Corte Costituzionale. Abbiamo già parlato della modifica

istituzionale del 2007 che a seguito del più duro scontro tra forze kemaliste e musulmano-

praticanti ha portato l’elezione diretta a suffragio universale del Presidente della

Repubblica.

Il Consiglio di Sicurezza Nazionale, nel 2001 vede modificata la sua composizione a

favore dei membri civili su quelli militari riconducendo la sua natura a quella di “advisory

  70  

body”. Nel 2003 perde la possibilità d accesso incondizionato in tutte le agenzie civili

(supervisione al cinema e alla musica). Nel 2004 viene eletto il primo diplomatico civile

come Segretario generale del MGK. Nel 2006 il Codice Penale Militare viene modificato

per impedire l’estensione della giurisdizione delle corti militari sui civili.

Anche la Corte Costituzionale subisce delle modifiche importanti. Già nel 2001 a

seguito di un dialogo con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, venivano emendati gli

articoli 68 e 149 della Costituzione circa lo scioglimento dei Partiti. Possono essere

imposte sanzioni ai partiti politici, se le azioni commesse dai suoi membri violino un

numero sostanziale di principi. La Corte, in luogo della completa dissoluzione, opererà

quindi attraverso strumenti restrittivi nei confronti di tali partiti (ad esempio attraverso

tagli al finanziamento pubblico). La Corte Costituzionale per sciogliere un partito

necessiterà della maggioranza dei tre quinti, maggioranza più che assoluta. Così come per

il Consiglio di Sicurezza Nazionale, la sua composizione viene allargata a diciassette

membri. Al Presidente della Repubblica viene accordata la prerogativa di nominarne

quattordici, i restanti tre saranno nominati dall'Assemblea Nazionale. Questo emendamento

attribuirà al Capo dello Stato un potere senza precedenti. Con l'emendamento dell'articolo

147, si stabilisce che i giudici rimangano in carica per dodici anni, senza la possibilità di

essere rieletti (prima della riforma i giudici erano inamovibili e restavano in carica fino a

65 anni). La loro carica è, inoltre, incompatibile con qualsiasi altro tipo di mandato.

8. Le elezioni del 12 giugno 2011

Le ultime elezioni confermano il sostegno popolare alle politiche del partito di

governo.

La vittoria è favorita anche dalla crisi del primo partito di opposizione, il CHP,

Cumhuriyet Halk Partisi, il Partito Repubblicano del Popolo. Dall’origine del

pluripartitismo nel 1950 il CHP, di diretta derivazione kemalista, che ha sempre adottato

una logica conservatrice dei principi costituzionali, è in lento declino elettorale. Ad oggi il

Partito raggiunge a malapena il 20% dei consensi. Secondo il politologo Hamit Bozarslan:

“Il principale movimento d’opposizione [all’AKP] è il Partito Repubblicano del Popolo

(CHP) che si presenta come social-democratico, ma che durante gli anni duemila si è

caratterizzato per una posizione proto-fascista e ultra-nazionalista”. Il CHP non è guidato

  71  

oggi dal suo leader carismatico, Deniz Baykal, il quale è stato costretto ad abbandonare la

vita politica a causa di uno scandalo sessuale. Il Segretario del Partito è oggi Kemal

Kiricdaroglu. Quest’ultimo ha origini kurdo-alevite, tuttavia non ha mai dimostrato

l’intenzione, o il coraggio di dichiarale. Al contrario in piena coerenza con il Partito

dimostra nei confronti del movimento kurdo una forte rigidità nazionalista turca.

Kiricdaroglu è quello che molti kurdi considerano un “collaborazionista”. Nella lunga lotta

per il diritto alla liberazione nazionale tra PKK e Stato turco i morti sono oltre trentacinque

mila. La maggior parte degli obiettivi del PKK sono sempre stati i Guardiani dei Villaggi,

ovvero i kurdi che collaboravano con la Autorità turche per mantenere la pace e il controllo

del territorio del sud-est. Personalità come Kiricdaroglu o molti altri esponenti dell’AKP

sono criticati fortemente dalle anime più dure del Movimento kurdo. In Turchia essere

kurdo non vuol dire di conseguenza appoggiarne la causa.

Il 29 luglio 2011, il Capo di Stato Maggiore Isik Kosaner, i Capi di Esercito, Marina e

Aereonautica della Repubblica di Turchia hanno rassegnato le dimissioni dal loro incarico

richiedendo il pensionamento anticipato. Il gesto in piena opposizione al Governo

dell’AKP, precede di pochi giorni il vertice del Consiglio Militare Supremo Turco (YAS)

sede in cui vengono decisi gli avanzamenti, incarichi e licenziamenti degli alti ufficiali. I

quattro protestano contro l’impossibilità di avanzamento di diversi militari arrestati con

l’accusa di aver partecipato al tentativo di golpe Bayloz e all’organizzazione clandestina

Ergenekon. Bayloz, Colpo di Martello, che secondo i magistrati aveva l’obiettivo nel 2003

di mettere fine al Governo Erdoğan, ha già portato agli arresti 250 appartenenti alle forze

armate. L’operazione contro gli ultranazionalisti cospiratori di Ergenekon (nome ripreso

dal mitico luogo dell’Asia centrale focolare di tutte le stirpe turche) ha portato all’arresto

di centinaia di persone, tra cui giornalisti, politici, accademici.

Le risposte di Erdoğan alle dimissioni dei militari sono sembrate calme e composte

ribadendo la volontà di revisionare la Costituzione ridimensionando ulteriormente il potere

dei militari.

Il 5 gennaio 2012 L’ex Capo di Stato maggiore turco, Ilker Basbug, è stato arrestato

per ordine della Procura di Istanbul. E’ la prima volta che il più alto grado dei militari

  72  

viene sottoposto ad un procedimento penale in Turchia, l’accusa è la cospirazione contro il

governo di Ankara guidato dall’AKP.

Lo scontro genetico tra l’esercito laicista e il potere politico d’ispirazione musulmana

è in una svolta: oggi non è più il potere politico a essere subalterno a quello militare, come

è sempre stato prima dell’ascesa dell’AKP. Ma la classe militare è ancora molto potente e

amata dal 50% della popolazione turca.

Abbiamo visto come la quasi-devozione per tale istituzione nasca in seguito allo

smembramento dell’Impero Ottomano: il vecchio regime ottomano aveva perso oltre alla

Prima Guerra Mondiale anche tutta la credibilità della popolazione. L’esercito diventò il

punto centrale del movimento nazionalista a causa della sua vittoria nella guerra di

indipendenza, non vi erano entità rivali nel vecchio regime.

9. Le aperture della società civile laica agli islamici moderati: tra timori e

convivenza pacifica

La pratica privata della religione è oggi largamente accettata anche all’interno dei

circoli più secolari. E’ meno comune da parte dei laici l’associazione automatica della

pratica religiosa alla cultura arabo-mediorientale. Tuttavia permangono paure di

un’islamizzazione della società e il desiderio di prevenire tale condizione al fine di

difendere lo stile di vita occidentale. La società civile laica, in particolare la classe media,

teme primariamente un condizionamento dei costumi; la classe politica secolare, l’élite

imprenditoriale e intellettuale, è più spaventata circa l’Islam politico e lo slittamento

strategico della Turchia verso est.

“Much of the secular urban middle class views the implications of Islamist influence

through a “lifestyle” lens. Concerns about political Islam per se or a strategic drift to the

“East” are more prevalent among intellectuals, business elites, and secular political

class.”58

                                                                                                               58  Angel Rabasa, F. Stephen Larrabee. “The Rise of Political Islam in Turkey”. RAND, National Defense Research Institute, 2008 Santa Monica (Ca). pgg 3-4.  

  73  

Nonostante gli episodi di frizione tra civili e militari, legati in particolare ai casi

Ergenekon e Bayloz, negli ultimi anni i rapporti tra Islam politico e potere militare

sembrano assumere un tono più cooperativo. Nonostante l’attenzione a difesa della laicità e

indivisibilità della Nazione rimanga sempre alta, dopo dieci anni di governo, l’AKP

riformatore, ma non rivoluzionario viene accettato dalle Forze Armate. Il partito di

Erdoğan negli ultimi anni sembra aver mosso la sua linea politica in senso sempre più

nazionalista.

Il nazionalismo avvicina l’AKP alle forze secolari. Le dichiarazioni di condanna del

terrorismo legato all’indipendentismo kurdo fanno presa sulla popolazione turca. Circa la

lotta al Pkk, il fatto di lasciare carta bianca all’esercito sulle incursioni nel nord dell’Iraq

soddisfano il TSK (sigla delle Forze Armate Turche). Il ritrovato orgoglio turco capace di

rispondere alle provocazioni dell’Europa di Nikolas Sarkozy e Angela Merkel riceve un

consenso generale. L’attivismo della politica estera turca presente in numerose missioni di

pace al mondo (si pensi alla Georgia, Libano, Bosnia-Erzegovina, Kossovo, Afghanistan)

accontenta i militari.

La società turca, anche a causa del particolare sistema educativo, della peculiare

posizione geografica e della storia e tradizioni, è sempre stata caratterizzata da un marcato

nazionalismo. Benché si trattasse di un unico popolo in un unico Paese, per decenni il

nazionalismo dei kemalisti era in diretta opposizione a quello dei musulmani praticanti. I

primi in politica estera immaginavano una Turchia forte tra le potenze occidentali, i

secondi una Turchia guida tra i Paesi musulmani. La fine della guerra fredda e dei difficili

anni ’90 culminati con la crisi economica-finanziaria del 2000-2001, porta al

ricongiungimento di un unico nazionalismo portato avanti da un partito islamista sostenuto

da diverse componenti della società.

La Turchia si smarca dai limiti precedenti ed è libera di guardare oggi ad ovest quanto

ad est, politica considerata vincente tanto dai musulmani praticanti, tanto dalle forze

secolari come i militari (attore importante nella politica estera turca). Il nazionalismo di

oggi risulta da un pluralismo interno e dall’accettazione reciproca di due diverse anime: i

musulmani praticanti e i kemalisti.

  74  

1.c Kurdi

I kurdi sono la minoranza musulmana più numerosa di Turchia. Difficilmente

conteggiabili per via della carenza di statistiche e censimenti ufficiali, si pensa siano pari a

circa un quarto della popolazione turca. La cifra complessiva dei kurdi di Turchia varia dai

diciotto ai venticinque milioni.

Il popolo kurdo è autoctono della zona di Mesopotamia. Gli storici considerano i kurdi

come appartenenti al ramo iraniano della grande famiglia dei popoli indo-europei. I

nazionalisti kurdi datano il debutto dell’era kurda al 612 avanti Cristo, data di fondazione

dell’Impero dei Medi a seguito della conquista sugli assiri e la dominazione di tutto l’Iran e

dell’Anatolia centrale.

Le invasioni turco-mongole nella seconda metà del quindicesimo secolo compattano i

kurdi in un’entità autonoma, uniti dalla loro lingua, cultura e civilizzazione, ma

frammentati in una serie di principati. La coscienza d’appartenenza ad un unico Paese

prende forma. Il Kurdistan, terra dei kurdi, non prende forma in un’unica entità statale.

Tale territorio comprende una zona divisa nelle periferie di quattro Stati: Turchia, Siria,

Iraq e Iran.

I confini statali accentuano le differenze tra kurdi dai diversi passaporti portandoli

spesso ad essere strumento di uno Stato nella lotta contro un altro. Nella guerra tra Iraq di

Saddam Hussein e Iran dell’Ayatollah Khomeini (1980-’88), gli iraniani armarono i kurdi

iracheni contro il regime di Saddam, e similmente fece quest’ultimo nei confronti dei kurdi

iraniani. Ciò ha portato ad una lotta fratricida tra kurdi e una concentrazione della violenza

proprio nelle regioni a maggioranza kurda. Si pensi alle bombe chimiche utilizzate da

Saddam per reprimere la resistenza kurda all’interno dei suoi confini nazionali tra il 1987 e

il 1988.

Se la maggioranza dei kurdi abita nella regione tra i quattro Stati, le difficoltà

economiche, le instabilità politiche e i disordini sociali hanno imposto un fenomeno di

migrazione verso i grandi centri dei propri Paesi o all’estero. Masse di kurdi di Turchia

costretti dalla miseria o dagli scontri tra indipendentisti ed esercito, abbandonano il sud-est

  75  

dell’Anatolia per abitare i grandi centri turchi, in particolare Istanbul, dove si stimano oltre

due milioni e mezzo di kurdi.

La diaspora kurda nel mondo vede una forte presenza degli stessi nei territori dei

Paesi ex-sovietici, in Afghanistan, negli Stati Uniti e Canada e soprattutto in Europa, in

particolare in Germania, Francia, Inghilterra, Belgio e Paesi Scandinavi. I migranti si fanno

ambasciatori dei disagi delle genti dei luoghi originari, promuovendo attività per la

conoscenza della questione kurda. I kurdi espatriati, spesso compattandosi nella loro

comunità, costituiscono un punto di forza per la lotta kurda. Soprattutto negli anni ’90 dal

nord Europa arrivavano sostegni di tipo economico-strategici alla lotta del PKK dei kurdi

di Turchia. L’Unione Europea che fa dei diritti umani una condizionalità di adesione e

cooperazione allo sviluppo, pone la questione kurda all’ordine del giorno nei Paesi in cui

vivono, in particolare nei confronti dell’europea Turchia. La questione kurda assieme al

riconoscimento del genocidio armeno e all’occupazione di Cipro nord è un punto

imprescindibile nei negoziati con Bruxelles.

1. I kurdi nell’impero ottomano

Agli inizi del sedicesimo secolo le terre abitate dai kurdi divengono il centro degli

scontri tra Impero Ottomano e Persiano. A fronte delle espansioni dello Scià di Persia che

intende imporre lo Sciismo, gli Ottomani hanno interesse nell’assicurare le proprie

frontiere orientali per poter iniziare una campagna di espansione verso i Paesi arabi. Nel

1514 nella battaglia di Çaldıran, il sultano Selim I infligge una pesante sconfitta allo Scià

Ismail I. L’Armenia e il Kurdistan sono annessi all’Impero Ottomano. Temendo che la sua

vittoria non sia sufficiente per mantenere stabile un territorio di confine tanto vasto e

strategico, il Sultano riconosce ai principi kurdi i loro diritti e privilegi antecedenti in

cambio della difesa delle frontiere dell’Impero in caso di conflitto perso-ottomano.

Il territorio viene diviso in Sangiaccati e Distretti, lasciando grande autonomia ai

kurdi. Lo status speciale del Kurdistan assicura tre anni di pace e auto-governo. Questo

atteggiamento nei confronti dei kurdi non si discosta particolarmente dalle pratiche

dell’Impero Ottomano, che nasce nel territorio anatolico proprio dall’unione di diverse

religioni, strutture politiche e popolazioni. L’Impero Ottomano abitato prevalentemente da

  76  

musulmani favorisce l’espansione dell’Islam, lottando per esso; tuttavia, nonostante secoli

di dominazione, in particolare nelle province europee la maggioranza della popolazione

continuerà ad essere cristiana. Armeni, Bulgari, Greci, Serbi professano la propria

religione sotto il dominio ottomano partecipando attivamente all’economia, alla milizia e

alla cultura dell’Impero. Gli incentivi alla conversione erano numerosi: convertirsi

all’Islam avrebbe significato una minore tassazione, una più agevole ascesa nella

burocrazia e nell’esercito, in generale un numero maggiore di privilegi.

Tuttavia il concetto di tolleranza nell’Impero Ottomano implica l’accettazione della

differenza. Gli ottomani temono l’incubo della disgregazione e instabilità. Le loro

conquiste sono accompagnate da un ristabilimento degli equilibri precedenti. Il principio è

quello del divide et impera di tipo romano. Le differenze dei popoli conquistati sono

riconosciute e cristallizzate. Un poeta ottomano descrive la politica di conquista e divide et

impera come la neve che cade in un frutteto e ghiaccia i frutti, così l’Impero conquista e

esalta le differenze, al fine di non unire i conquistati ad una lotta di indipendenza. “In

conquering the Balkans in the fourteenth century, Turks did not, either at the time or later,

think about denationalizing other peoples or imposing upon them a different culture. The

Turkish rule may be compared to the snow that covers up the crop and protects them

against winter freeze.”59

Popoli musulmani quali kurdi o arabi, i cristiani ortodossi, gli ebrei, vengono coinvolti

nell’amministrazione dell’Impero. Gli appartenenti ai diversi culti hanno grande autonomia

all’interno del loro Millet. Con il termine “Millet” s’intendono quelle comunità religiose o

Nazioni organizzate secondo una propria legislazione e leader religiosi, responsabili al

Governo centrale solo per alcuni doveri quali le imposte e il mantenimento della sicurezza

interna.

“Toleration in the Ottoman Empire was not simply overlooking another person’s

inappropriate behaviour like talking loudly, dressing improperly, and the like, but living

harmoniously with people whose worldviews were quite different. Non-acceptance, thus

                                                                                                               59 Kemal H. Karpat, “The Memoirs of N. Batzaria: The Young Turks and Nationalism”, International Journal of Middle East Studies 6 (1975), p. 293.

  77  

discrimination, implies the adoption of a universalistic conception of justice. In

recognizing other religions, Islam, in the Ottoman context, did not insist on own its

universalism at the expense of others. Consequently, there was no logical reason to

transform the difference into sameness. Groups did not have to be similar for them to have

a place in the overall arrangement. Difference between diverse ethnic and religious groups

was not eradicated; different ethnic and religious groups were vertically integrated into the

state”60.

Non vi era un progetto universale di omogeneizzazione. Nell’Impero venivano

utilizzate due categorie: Musulmani e non-Musulmani. Non vi erano criteri di etnia. I

vertici ottomani parlavano principalmente turco, utilizzata come lingua veicolare. Il

termine “turco” connotava l’etnia turca, albanese e kurda (ma non araba). Ai kurdi veniva

lasciata molta autonomia, dal punto di vista pragmatico, era molto difficile controllare una

regione con una tale conformazione territoriale. Nelle montagne i kurdi hanno sempre

difeso la loro indipendenza anche precedentemente al periodo ottomano nei confronti di

assiri, macedoni, romani, parti, persiani, arabi e mongoli.

L’interesse dell’area per gli ottomani risiedeva nella necessità di difendere i confini

orientali dell’Impero, non c’era il desiderio o la necessità di sottomettere i kurdi o

assimilarli. Le uniche richieste dal Governo centrale riguardavano imposte e leva militare.

Fino al tardo diciannovesimo secolo gli ottomani permettevano l’uso di nomi kurdi

per i centri geografici nel Kurdistan così come dovunque nell’Impero. Durante il

diciannovesimo secolo, essendo l’Impero minacciato dalle potenze europee, intraprende un

controllo gradualmente più stretto nei confronti dei Millet non-musulmani, limitandone

libertà e autonomie.

Già dal Tanzimat e lungo tutta la fase di ispirazione agli Stati europei come modelli

per riformare l’Impero, gli ottomani intraprendono una serie di riforme adottando politiche

di centralizzazione prendendo misure contro i potentati locali, compresi quelli Kurdi, e

                                                                                                               60 Metin Heper, “The State and Kurds in Turkey”. Palgrave Macmillan. 2007, New York. p 27

  78  

esercitando in tali zone un più stretto controllo dell’autorità centrale. Per tale obiettivo,

tuttavia gli ottomani hanno sempre preferito astenersi da politiche etniche.

La centralizzazione è gradualmente più stringente. La sconfitta militare con la Russia

negli anni 1877-78 scatena l’allarme di una penetrazione delle potenze nemiche europee

attraverso le minoranze religiose e la volontà di unire i popoli musulmani. La

centralizzazione provoca resistenze dei non-turchi: kurdi, arabi, albanesi. Ai kurdi si

richiede un incremento della coscrizione, una confisca delle armi e l’uso coatto

dell’alfabeto arabo a discapito di quello persiano.

I capi clan nelle ribellioni dei kurdi tuttavia non chiedono la secessione dal Governo

centrale, in quanto si identificano nel Califfato di Istanbul. La legittimità dei capi tribù

risiedeva proprio nel campo religioso, per loro, essere parti dell’Impero musulmano

piuttosto che di un’entità indipendente kurda era preferibile: in uno Stato kurdo i capi

avrebbero perso la loro base di legittimazione religiosa.

Durante il regno di Abdul-Hamid II si cerca di limare le differenze attraverso una

politica di scolarizzazione ed integrazione. L’assimilazione viene descritta dal Sultano

come irrazionale. Secondo il Sultano turchi, kurdi, albanesi e arabi, sono fratelli di

un’unica famiglia tenuti insieme dalle fede islamica. Abdul-Hamid II disdegna l’idea di

un’unica nazione: all’interno di un Impero possono convivere diverse anime.

2. Nascita del Nazionalismo

Il movimento dei Giovani Turchi nasce nel 1889 da gruppi diversi di studenti che,

ispirati dai Carbonari italiani, condividono ideali modernisti e riformatori in opposizione

alle restaurazioni del Sultano Abdul-Hamid II. Nel 1906 viene fondata la Commissione per

l’Unione e il Progresso, il CUP il quale si batte per una monarchia costituzionale.

Il CUP rappresenta principalmente i Giovani Turchi, ma al suo interno troviamo altri

movimenti ed esponenti di molte popolazioni oltre ai turchi: albanesi, bulgari, arabi, serbi,

ebrei, greci, kurdi ed armeni. Il movimento dei Giovani Turchi guida la rivoluzione del

1908 che depone Abdul-Hamid II in favore di Mehmet V e inaugura la seconda stagione

costituzionale.

  79  

Nei Giovani Turchi emergono alcuni elementi di rottura con la cultura ottomana: in

primis il nazionalismo. Il nazionalismo era un concetto estraneo alla cultura ottomana. Un

Impero eterogeneo che non vuole provocare una disgregazione, essendo così esteso,

necessita di trovare altri paradigmi a fondamento dell’Unione quali il pluralismo, la

convivenza, la tolleranza.

Dopo un secolo d’imitazione dei modi e della cultura europea, oltre alle idee di

riforma dell’esercito e dell’amministrazione, altre teorie penetrano tra i pensatori turchi. Il

nazionalismo e gli ideali della rivoluzione francese che s’irradiano tra gli intellettuali

tedeschi ed italiani a seguito delle conquiste napoleoniche, arrivano sino in Turchia. La

Prima Guerra Mondiale rompe decenni di pace nel suolo europeo, lo scontro sarà in nome

del nazionalismo e porterà alla lotta tra popoli.

Il Panturanesimo è un movimento politico per l’unione dei popoli turanici. Ciò

implica un concetto di razza turca che originata nel luogo leggendario di Ergenekon in

Mongolia, è scesa passando per lo Xinjiang cinese, il Kazakistan, il Kyrgyzstan,

l’Uzbekistan, il Turkmenistan, l’Azerbaijan sino all’Anatolia. I Giovani Turchi influenzati

dalle idee di pan-germanesimo o pan-slavismo sviluppano tale concetto. I tempi sono

quelli precedenti la Prima Guerra Mondiale. I Giovani Turchi vedono nelle crisi zariste e

nell’alleanza con la Germania, la possibilità di attrarre i popoli legati dalla lingua e storia

turca.

Ziya Gökalp, attivista politico e intellettuale del movimento dei Giovani Turchi

esprime in questo modo l’idea di nazione:

“A nation [that] is not a racial or ethnic or geographic or political or volitional group

but one composed of individuals who share a common language, religion, morality, and

aesthetics, that is to say, who have received the same education."61.

Il nazionalismo turco si afferma in un periodo di sviluppo della coscienza nazionale

nei Millet non-musulmani, rafforzate dalle potenze europee nemiche dell’Impero

                                                                                                               61 Taha Parla, “The Social and Political Tought of Ziya Gökalp”, 1876 - 1924. Social, Economic and Political Studies of the Middle East. Volume XXXV, pg: 34

  80  

Ottomano e dai moti secessionisti dei musulmani non turchi. Le cruente guerre balcaniche

del 1912-13, segneranno l’emergere del nazionalismo turco, nella sua visione turanica.

Nella prima guerra balcanica, 1912, Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia dichiarano

guerra all’Impero Ottomano portando il suo arretramento nei Balcani e la costituzione di

un’Albania indipendente. La seconda guerra balcanica, questa volta contro la Bulgaria,

vede una Turchia schierata con gli ex Stati rivali, ma tuttavia meno influente in regione

rispetto alla Serbia in ascesa.

I Giovani Turchi si percepiscono come gli strenui difensori dell’Impero. In apparenza

il nazionalismo è un modello alternativo all’idea di ottomanesimo islamico portato avanti

da Abdul-Hamid II. Tuttavia nel CUP sono presenti non solo esponenti del popolo turco. I

Giovani Turchi coinvolgendo kurdi, albanesi e arabi intendono presentare il panturanesimo

come elemento rafforzativo dell’ottomanesimo, non alternativo. L’Impero Ottomano

subisce cocenti sconfitte durante la prima guerra mondiale. Il livello di violenza è

altissimo, simile a quello di una guerra civile in cui modelli alternativi si abbattono uno

contro l’altro sino all’esaurimento, all’annullamento di una parte a favore dell’altra62. In

questo turbine di violenza il senso di accerchiamento e disperazione dei turchi provoca una

delle più grandi tragedie del ventesimo secolo: il genocidio armeno.

Episodi di violenza contro gli armeni erano iniziati negli ultimi decenni del periodo

imperiale, nella fase di costruzione di un ottomanismo-islamico contro gli oppositori non

musulmani. In anni di debolezza dell’Impero Zarista è più facile scatenare violenze contro

gli armeni piuttosto che contro le popolazioni non-musulmane in altre zone dell’Impero.

Nel 1915 gli armeni erano accusati di tramare con i russi contro l’Impero Ottomano. A

testimonianza odierna della più efferata tragedia della Prima Guerra Mondiale, non vi è

una memoria condivisa. Secondo i turchi non si sarebbe trattato di un genocidio, ma di un

massacro di non più di trecentomila armeni. Secondo gli armeni il numero dei morti si

avvicina intorno al milione e mezzo.

                                                                                                               62 Dan Diner, “Raccontare il novecento”, Garzanti, Milano, 2007. p 98

  81  

La fine della guerra e il trauma di Sèvres portano i Giovani Turchi a compattarsi

contro le potenze straniere verso una guerra di liberazione nazionale. I turchi si stringono

sotto la bandiera del nazionalismo. Mustafah Kemal Atatürk, liberata l’Anatolia dal

dominio straniero, utilizzerà il nazionalismo per fondare la Repubblica.

La Turchia a causa dei massacri intra-religiosi, dello sterminio degli armeni, degli

scambi di residenti cristiani con musulmani, vede al suo interno una popolazione

essenzialmente musulmana. Non tutti gli abitanti di Turchia sono turchi: vi sono moltissimi

abitanti provenienti dai Balcani, in particolare Bosnia ed Albania, vi sono caucasici e

Kurdi.

Tutte le popolazioni non-turche musulmane, eccettuati i kurdi, rappresentano una

piccola parte di popolazione, non raggruppate in grandi comunità. Interesse di Ankara è

quello di assimilare tali popolazioni distribuendole all’interno del territorio. Notiamo una

particolare apertura nella concessione della cittadinanza e accoglienza nei riguardi di

queste popolazioni.

Nei confronti dei kurdi l’atteggiamento appare opposto: se nei primi anni di

fondazione dal 1923 al 1928 l’elemento Islam univa i diversi popoli di Turchia sotto la

religione, quando l’Islam lascia spazio al principio della laicità militante viene negata

l’esistenza dei kurdi. Se fino a pochi anni prima i kurdi ricoprivano importanti cariche

imperiali, avevano combattuto a difesa dell’Impero e avevano persino preso parte al

genocidio armeno, pochi anni sono sufficienti a negarne l’esistenza da parte delle Autorità

turche.

La popolazione kurda differisce nelle caratteristiche dagli altri musulmani non turchi.

I kurdi costituiscono oltre il 10% della popolazione totale, sono concentrati in una precisa

zona geografica. Inoltre la loro storia li contraddistingue per forte volontà di autonomia e

indipendenza. I kurdi abitano nella periferia turca ai cui confini si trovano altri Stati: Siria,

Iraq, Iran le zone prossime alla Turchia sono abitate da kurdi. La zona kurda è ricca di

materie prime (in primis l’acqua) e si trova in una posizione strategica e complicata.

Dopo aver definito i kurdi “turchi di montagna” e negato loro diritti linguistici e di

autonomia, Ankara ha interesse a mantenere la zona abitata dai kurdi come calma e

  82  

controllata. Si preferisce mantenere la regione agricola, agricola lontana dagli sviluppi

tecnologici e industriali nel resto del territorio turco. La regione è bene che rimanga

povera, retta da un sistema agricolo di tipo feudale, in cui latifondisti controllano il

territorio mantenendolo arretrato.

La Repubblica teme spinte secessioniste: non è possibile mettere in discussione

l’indivisibilità del territorio turco. A custodia del territorio turco vi sono i militari. Il

nazionalismo diviene strumento di fondazione repubblicana: la Turchia dev’essere forte e

unita. Per tale motivo non possono essere riconosciute altre entità al di fuori dei turchi, a

meno che inoffensive, come le esigue minoranze cristiane ed ebree, o le minoranze

musulmane anch’esse modeste come i bosniaci, i caucasici e gli albanesi.

Il kemalismo pur presentando elementi di continuità con gli ultimi decenni imperiali

dal Tanzimat in poi, si presenta come nuovo e rivoluzionario, pronto a riformare la donna e

l’uomo turco. Durante gli anni ’30 idee di razza ed esaltazione della Nazione provenienti

dagli autoritarismi e totalitarismi europei (in primis quello nazista), influenzano gli

amministratori turchi. I detentori del potere d’ora in avanti dovranno sposare l’ideale di

Turchia unica e indivisibile, turco-ablante, laica, ancorata all’occidente e nazionalista.

I kurdi escono fuori dalla stanza dei bottoni del potere e dell’amministrazione. Ai

kurdi sarà vietata la loro lingua, cambieranno i nomi di persone e città. Le libertà saranno

limitate in nome dell’indivisibilità della nazione. La storia della Repubblica è caratterizzata

sì da un’evoluzione graduale delle libertà fondamentali e diritti, tuttavia in modo molto

lento e sempre cooptato dalle Autorità di governo. La neutralità nella seconda guerra

mondiale, difende gli equilibri turchi da scossoni sistemici, preservando il ruolo primario

dei militari e la sacralità dei principi fondatori.

La situazione di squilibrio delle libertà e dei diritti continua per tutta la Guerra Fredda:

la Turchia nel Medio Oriente è il bastione moderno, laico e fedele del polo occidentale. I

musulmani laici ed europeisti non ostili ad Israele sono circondati da un’armata rossa

aggressiva, da arabi ostili e da un Iran anti-americano. L’occidente tollera deroghe ai diritti

e alle libertà di parti della popolazione in nome della tutela dell’alleato turco, affinché

rimanga tale.

  83  

3. La fine della guerra fredda e il ritorno in auge del movimento separatista

kurdo

La guerra fredda termina e negli anni ’90 la Comunità Internazionale riscopre i diritti

umani a discapito del dominio riservato degli Stati. Negli ambiti dei diritti e libertà

fondamentali, a fare pressioni sulla Turchia vi sono due organizzazioni internazionali: la

prima nasce dall’evoluzione di un organismo internazionale di cooperazione economica in

uno di più ampie e ambiziose competenze, l’Unione Europea, l’altro è il Consiglio

d’Europa e dunque la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che vive uno storico

allargamento ai Paesi ad Est di Berlino.

La questione kurda nell’opinione pubblica europea prende vita a seguito delle

informazioni date dai mezzi di comunicazione di massa. Gli anni ’90 rivoluzionano l’idea

di comunicazione, i giornalisti sono più liberi di trasmettere le informazioni le quali

viaggiano veloci. Le immagini di violenza e disperazione dei kurdi iracheni vittime dei

bombardamenti di Saddam Hussein non lasciano indifferenti. I televisori tedeschi

proiettano video di violenza e scontri tra esercito turco e indipendentisti kurdi, i carri

armati sono prodotti dalla Germania e il pubblico si sdegna. L’arrivo di barconi che

trasportano kurdi, provenienti dalla Turchia e che sbarcano nelle coste italiane, sconcertano

l’opinione pubblica del Paese.

La diaspora kurda si fa ambasciatrice in tutto il mondo dei disagi che vive il popolo

kurdo nei luoghi di origine, in particolare nel sud-est Anatolia. Negli anni ’90, la Turchia

consolida l’interesse di entrare a far parte del progetto di Unione Europea. Per rispettare i

criteri di Copenhagen per l’adesione deve intraprendere un nuovo atteggiamento nei

confronti della minoranza più numerosa.

Le Forze Armate turche temendo un ridimensionamento del loro ruolo portante si

presentano al mondo come difensori del carattere laico del Paese, ancora soggetto a derive

anti-occidentali (in questo senso si può spiegare il colpo di stato post-moderno del 1997), e

difensori dell’unità nazionale e della lotta al terrorismo. I militari assumono un

atteggiamento sempre più intransigente nei confronti dei moti indipendentisti kurdi.

  84  

I kurdi assistendo alla primavera dei popoli post-dominazione sovietica rafforzano le

file del PKK, il movimento dei Lavoratori del Kurdistan, che prende il monopolio della

lotta di liberazione nazionale. Negli anni ’90 le file del PKK si riempiono di giovani donne

e uomini, i guerriglieri trovano rifugio nei villaggi dell’Anatolia. Lo scontro assume le

caratteristiche di una guerra civile tra le Forze Armate turche e il PKK che riceve un

consenso maggioritario tra i kurdi.

La lotta armata è accompagnata da un’opera diplomatica di pressioni internazionali e

dai tentativi di evolvere la situazione attraverso mezzi istituzionali. Si susseguono

formazioni politiche che, con una certa regolarità, vengono sciolte dalla Corte

Costituzionale turca su impulso dei militari attraverso l’MGK, il Consiglio di Sicurezza

Nazionale.

Il Partito Laburista del Popolo, Halkın Emek Partisi, Hep, fondato il 7 giugno 1990,

viene sciolto nel luglio 1993. Alcuni esponenti del partito si candidano nelle fila del

Partito Social-Democratico, SHP. Sedici dei ventidue candidati esponenti dell’Hep

vengono eletti tra gli indipendenti nella Grande Assemblea Nazionale. Tra questi c’è Leyla

Zana, la prima donna kurda eletta nel Parlamento turco. La carriera di parlamentare sarà

tuttavia brevissima: Leyla Zana terminerà il suo discorso di giuramento all’Assemblea in

lingua kurda provocando l’ira dei deputati. Per questa ragione sarà accusata di separatismo

e condannata a quindici anni di carcere. Dal mondo nascono appelli circa la sua

liberazione: il Parlamento Europeo attribuisce nel 1995 il premio Sakharov per la libertà di

pensiero a Leyla Zana. Viene candidata al premio Nobel per la pace nel 1995 e nel 1998.

Dopo un lungo iter processuale dal 2001 al 2004, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

condanna lo Stato turco per illegittimità del processo che ha portato all’incarcerazione di

Leyla Zana.

Nel frattempo viene fondato il Partito Democratico, Demokrasi Partisi, Dep, chiuso il

16 giugno del 1994. Nasce in seguito una nuova formazione kurda, il Partito Democratico

del Popolo, Halkın Demokrasi Partisi, Hadep, sciolto il 13 marzo 2003.

Il Partito della Società Democratica, Demokratik ve Toplum Partisi, Dtp, fondato in

vista delle elezioni parlamentari del 2007, viene sciolto l’11 dicembre 2009.

  85  

4. La democrazia come rimedio alla violenza

L’impulso dell’Unione Europea è stato determinante nell’evoluzione dei rapporti tra

governi di Ankara e kurdi. Nella seconda parte degli anni ’90 l’Unione Europea manda

messaggi chiari alla Turchia: la fine delle contrattazioni dell’Unione doganale e la ripresa

della cooperazione finanziaria (’95), il Consiglio Europeo di Lussemburgo (‘97) ed infine

il Consiglio Europeo di Helsinki (‘99) sanciscono la piena candidatura della Turchia

all’UE a condizioni che si rispettino i criteri di adesione di Copenhagen.

L’ascesa al potere dell’AKP, partito che basa la sua campagna elettorale proprio

sull’adesione all’Unione avvicinano come non mai Ankara e Bruxelles. Il partito di

Erdoğan si ancora all’Europa per prevenire tentativi di scioglimento da parte delle

Istituzioni fermamente legate alla tutela della laicità.

I criteri di Copenaghen sono i seguenti:

Criterio politico: presenza d’istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato

di diritto, i diritti dell'uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela.

Criterio economico: esistenza di un'economia di mercato affidabile, capacità di far

fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all'interno dell'Unione.

Criterio dell'"acquis comunitario": l'attitudine necessaria per accettare gli obblighi

derivanti dall'adesione e, segnatamente, gli obiettivi dell'unione politica, economica e

monetaria. Affinché il Consiglio europeo possa decidere di aprire i negoziati, deve risultare

rispettato il criterio politico.63

Circa il criterio economico, la Turchia può dirsi quasi totalmente integrata (se si

escludono la libertà di circolazione delle persone e gli aiuti all’agricoltura). Turchia e

Comunità Economica Europea iniziano negoziati di cooperazione economico-commerciali

nel 1963 con gli Accordi di Ankara. Le liberalizzazioni e le riforme in tal senso a seguito

della crisi del 2000-01 soddisfano gli interlocutori europei.

Il Parlamento turco si prodiga verso l’armonizzazione dell’acquis communautaire

effettuando riforme significative per consolidare il carattere democratico del regime.                                                                                                                63 “Criteri di Copenhagen, http://europa.eu/scadplus/glossary/accession_criteria_copenhague_it.htm, al 3 novembre 2011

  86  

Le revisioni costituzionali, le modifiche al codice penale, le leggi per un’estensione

delle libertà fondamentali e dei diritti umani non possono non riguardare principalmente la

minoranza kurda, la quale soffre di lacune di libertà sociali, civili e politiche.

La Turchia in un decennio abolisce completamente la pena capitale, autorizza canali

televisivi in lingua kurda e l’insegnamento dell’idioma (legge del 2002). S’inaspriscono le

pene per il reato di tortura e abuso di potere (reati diffusi nella regione kurda), si

ridimensionano libertà d’azione, autonomia e il potere dei militari, anche attraverso le

limitazioni al ruolo e controllo del Consiglio di Sicurezza Nazionale.

Nell’agosto 2002 il Parlamento modifica la legge sulle Imprese e Teletrasmissioni

delle Stazioni Radio e dei Canali Televisivi permettendo trasmissioni in lingue diverse e

dialetti tradizionali usati dai cittadini turchi nel loro quotidiano. Inizialmente il kurdo non

era compreso in questa definizione, ma nel luglio 2003 il Parlamento adotta una

legislazione specifica circa la possibilità di video-trasmissioni in lingue minoritarie. Il

primo gennaio 2009 iniziano le trasmissioni dell’emittente statale Kurdish TRT Channel,

alla cui inaugurazione il Primo Ministro Erdoğan articola persino qualche parola in lingua

kurda.

Nell’ottobre 2001 il Parlamento adotta una riforma costituzionale che aumenta il

numero dei membri civili nel consiglio di Sicurezza Nazionale. L’articolo 118 della

Costituzione viene revisionato enfatizzando il carattere consultivo dell’Istituto. Al comma

terzo si legge: “The National Security Council shall submit to the Council of Ministers its

views on the advisory decisions that are taken and ensuring the necessary coordination

with regard to the formulation, establishment, and implementation of the national security

policy of the state”64.

5. La lotta alla tortura

Nel ruolo di osservatori presso le Nazioni Unite e l’Unione Europea, le

OrganizzazioniNon Governative denunciano l’uso della tortura da parte delle Autorità

turche nei confronti dei criminali politici, in particolare kurdi. Dal 1980 al 1987 Amnesty

International denuncia la tortura di quasi tutti i duecentocinquantamila arrestati per reati

                                                                                                               64 The Constitution of Republic of Turkey. Art. 118

  87  

politici.

Nel 1992 il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) dopo le sue

ispezioni in Turchia nel settembre ’90, ottobre ’91 e dicembre ’92 decide di rendere

pubblici i documenti che mostrano un perpetuo e diffusissimo utilizzo della tortura

(soprattutto nelle carceri) e una mancanza da parte delle forze politiche nel risolvere questa

questione. Agli avvocati che denunciano questa piaga, sono difficilmente accordati

permessi di visitare i loro assistiti o i luoghi dove sarebbero accadute le torture. Molti

legali subiscono persecuzioni. Le organizzazioni sui diritti umani che denunciano le

pratiche della tortura vengono ostacolate: negli anni ’90 ad Amnesty International non è

permesso aver sedi in Turchia, e Insan Haklari Dernegi (IHP) organizzazione turca dei

Diritti Umani, è oggetto di persecuzione costante da parte delle autorità. La popolazione

kurda è la più colpita dalle pratiche della tortura. Sotto legge marziale e stato di emergenza

(situazione quasi perpetua nel sud-est dell’Anatolia) le torture sono all’ordine del giorno e

attraverso la legge anti-terrorismo sono tutelati i torturatori, i quali godono di ampia libertà

d’azione.

Nel 2001 riforme legislative ed emendamenti costituzionali per conformarsi ai

parametri di Copenhagen mostrano una tolleranza zero contro la tortura. Ai plausi

dall’Europa seguono nuovi controlli da parte del CPT e delle organizzazioni umanitarie. Il

Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura attua controlli nel Settembre 2003 e nel

Dicembre 2005. La delegazione, agendo sotto il mandato del Consiglio d’Europa, nota

come le pratiche della tortura siano diminuite nei luoghi di detenzione, ma aumentate

durante i trasferimenti o effettuate in aree isolate (come nei boschi). Rapporti dell’Unione

Europea plaudono alle riforme, ma criticano che a gran parte di esse non siano seguite

misure appropriate per la corretta applicazione. Le carenze riguardano la mancanza di

assistenza legale, i mezzi e le conoscenze limitate da parte dei medici per diagnosticare

torture, l’omertà e l’impunibilità degli esecutori.

Nel settembre 2004 il Parlamento adotta un nuovo codice penale che prevede

l’inasprimento delle pene per la tortura: il reato è punito dai tre ai dodici anni di detenzione

(antecedentemente la maggioranza dei condannati scontava la pena in carcere in appena

due anni). Per torture particolarmente gravi è previsto oggi anche l’ergastolo e poliziotti

  88  

che non denunciano episodi di tortura rischiano sino a tre anni di detenzione.

I procuratori hanno dal 2003 un’ampia indipendenza circa l’investigazione di tale

reato, senza dover passare per le autorizzazioni dei governi locali.

6. L’AKP è la Questione Kurda

“Come unica nazione all’interno di un solo paese e sotto una sola bandiera,

lavoreremo per risolvere la Questione Kurda mediante l’introduzione di più democrazia.

Non trascuriamo alcun problema poiché trascurare i problemi è indice di mancanza di

rispetto verso la nostra sacra società. Prendiamo in considerazione tutti i problemi e

siamo pronti ad affrontarli. Perciò mi rivolgo a tutti coloro che chiedono cosa avverrà

della Questione Kurda: rispondo che la Questione Kurda è in cima alla mia lista dei

problemi da risolvere”.

Primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, Diyarbakir, 12 Agosto 2005.

Parlando in un evento ufficiale dell’esistenza di una Questione Kurda, Erdoğan sfida

un tabù. Il fatto che lo faccia a Diyarbakir di fronte case popolari viene accolto

positivamente dalla popolazione kurda, tuttavia non minando il consenso dell’elettorato

turco.

Il leader dell’AKP non è il primo politico ad affrontare la Questione, nel 1987

Suleyman Demirel, una delle più importanti figure politiche turche, leader prima del

Partito della Giustizia (AP) poi quello della Retta Via (DYP), sostiene che la Turchia deve

riconoscere la realtà kurda. Come la maggior parte delle personalità che tratteranno

l’argomento dopo di lui, Demirel argomenterà che i disagi dei kurdi nascono dalle

condizioni di povertà socio-economiche. Sviluppare economicamente il sud-est

dell’Anatolia risolverà la questione kurda.

Turgut Özal è il politico che più ha denunciato lo squilibrio dei diritti a sfavore del

popolo kurdo. Di madre kurda, Özal non si limita a una spiegazione della lotta kurda come

una reazione alla povertà. Özal riconosce la necessità di condurre l’Anatolia verso una

regione che accetti la multiculturalità.

  89  

Da musulmano praticante, per Özal l’Islam costituisce un forte legame tra la

popolazione. Per primo Özal parla non solo di necessità di investimenti nella regione, ma

anche dell’evoluzione della Repubblica accentrata verso un sistema federale. Özal muore

nel 1993, prima di allora aveva promosso la partecipazione politica dei kurdi, proprio negli

anni della sua presidenza (1989-’93) nasce l’Hep, la prima formazione politica filo-kurda.

Le aperture più significative della storia della Repubblica avvengono sotto impulso del

Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan, la cui moglie è di Siirt, del sud-est Anatolia.

L’AKP è criticato duramente da molte fazioni kurde. Lo stesso Abdullah Öcalan,

leader del PKK e simbolo della resistenza kurda, intervistato da Marco Ansaldo circa

l’istituzione di un canale televisivo in lingua kurda dichiarò:

“Lo Stato istituisce il suo canale. E con il canale in lingua curda vuole creare anche i

suoi curdi. Attraverso quella tv si vuole completare l'opera mettendo sotto controllo la

dimensione culturale”65.

Critica simile avviene dai rappresentati di UIKI: Ufficio di Informazione Kurdistan

Italia, i quali descrivono come collaborazionisti i kurdi candidati nell’AKP o nei sostenitori

della formazione.

L’AKP promuovendo e pubblicizzando politiche di sviluppo soprattutto per quanto

riguarda bisogni di prima necessità nelle regioni del sud – est Anatolia, inserisce candidati

kurdi nelle circoscrizioni del sud - est ricevendo consensi elettorali.

7. I kurdi, tra sinistra e Islam

La lotta kurda si divide in due famiglie ideologiche, la prima legata al marxismo-

leninismo, la seconda alla religione islamica.

Dalle contestazioni studentesche del ’68 turco nasce un movimento intellettuale di

autonomia dei kurdi. Gli studenti provenienti dalla regione kurda, nelle principali

                                                                                                               65 Marco Ansaldo, “Ocalan: Io, da dieci anni nell' Alcatraz turca ma la nostra lotta non si fermerà”, La Repubblica, 14 febbraio 2009 14 febbraio 2009

  90  

università turche trovano nell’ideologia rivoluzionaria marxista i principi di lotta del

popolo oppresso.

Tali principi avranno presa nei momenti di maggiore repressione da parte dello Stato,

soprattutto ad opera delle Forze Armate.

Il PKK, Partiya Karkerên Kurdistan,di ideologia marxista-leninista, fondato da

Abdullah Öcalan nel novembre 1978 propugnerà attraverso la lotta armata il

conseguimento dell’indipendenza del Kurdistan.

Il PKK crescerà negli anni ’80 a seguito del colpo di stato militare. Negli anni ’90 la

regione kurda era amministrata da uno Stato d’Emergenza e la legislazione anti-terrorismo

provoca per reazione un senso di rappresentatività del movimento da parte della

popolazione. Migliaia di giovani donne e uomini confluiscono nelle file del movimento

rivoluzionario che sfida uno dei più grandi ed armati eserciti al mondo.

Il PKK è un movimento internazionalista, finanziato negli anni ’80 dall’Unione

Sovietica. Gli esponenti del movimento solidarizzano con le ali più estreme della

resistenza kurda in Siria, in Iraq (dove l’opposizione comunista sostiene i ribelli del PKK)

e in Iran con il Partito per una Vita Libera in Kurdistan, PJAK, oppositore di Ahmadinejad.

I partiti che si susseguono dagli anni ’90 ad oggi si rifanno tutti ad un’ideologia

social-democratica, e vengono costantemente chiusi (l’ultimo il DTP, chiuso nel 1999) per

accuse di complicità con i terroristi del PKK.

Nonostante i discreti successi elettorali, i partiti filo-kurdi non raccolgono il consenso

di tutta la popolazione kurda di Turchia.

Nelle elezioni del 2007 il DTP riesce a far eleggere 20 indipendenti kurdi. Tuttavia il

partito riceve solo il 4% dei consensi (in calo rispetto la formazione precedente: Dehap,

6%).

Nelle elezioni del 2011 il BDP, Partito della Pace e della Democrazia, Barış ve

Demokrasi Partisi, riuscendo a fare eleggere 36 indipendenti, registra il 5,8% dei consensi.

  91  

Una quota importante dei kurdi per motivi di arretratezza socio-economica o per

protesta, non si reca alle urne elettorali. Tuttavia è da riportare l’incremento dei consensi

da parte dell’elettorato kurdo nei confronti del partito di Governo.

L’Islam è un elemento di forza e unione tra i kurdi. Questa popolazione presenta una

tendenziale aderenza alla laicità non solo in Turchia. Nella fase post-bellica irachena ad

esempio, la componente kurda era molto importante per gli americani al fine di

controbilanciare i meno laici sciiti. In Turchia l’Islam appare come mezzo di superamento

del nazionalismo e dunque del kemalismo, l’assetto che ha relegato i kurdi ad un ruolo di

subordinazione.

Il sostegno a formazioni che siano riformiste circa il nazionalismo e la conservazione

della primazia del potere militare sul civile, hanno sempre fatto presa nelle periferie turche.

I kurdi sostengono dapprima il Partito Democratico, prima formazione in opposizione al

CHP lungo gli ’50 e, similmente agli islamici, votano per i partiti conservatori o islamisti i

quali si fanno portatori di un superamento dello status-quo. Riceveranno un discreto

consenso il Partito della Giustizia, Adalet Partisi, AP, il Partito della Retta Via, Dokru Yol

Partisi, DYP, il Partito della Madrepatria, Anavatan Partisi, ANAP di Turgut Özal e dal

2001 il Partito della Giustizia e dello Sviluppo.

Le elezioni del 2007 e del 2011 mostrano un incremento dei consensi nei confronti

dell’AKP. Abbiamo già descritto l’eterogeneità del consenso accordato al partito di

governo. I kurdi che sostengono Erdoğan sono quelli che hanno beneficiato del boom

economico, e dunque parte della borghesia, i kurdi musulmani praticanti, le fasce povere

che vedono nelle politiche (spesso populiste) di Erdoğan una grande speranza.

Molti kurdi nel sostegno all’AKP, piuttosto che al partito filo-kurdo, effettuano un

voto strategico. Il decennio del 2000 è caratterizzato dal riemergere di un forte sentimento

di nazionalismo, ciò è evidente nell’ascesa dell’MHP, partito dei lupi grigi, che nelle

elezioni del 2007 e del 2011 riceve circa il 13% dei consensi. A difendere le Forze Armate

vi è il CHP, il partito di diretta derivazione kemalista.

Il PKK dal 2007 torna a minacciare la sicurezza dello Stato. Gli scontri con l’esercito

sono all’ordine del giorno. Documenti di wikileaks mostrano come il Pkk abbia ricevuto

  92  

finanziamenti dalla Cia. Informazione sconvolgente che pare sia motivata dall’interesse di

Washington di mantenere una spina nel fianco dell’alleato turco.

Gli attentati del PKK sembrano in realtà rafforzare la solidità del Governo: agli atti di

violenza seguono dichiarazioni durissime di Gül ed Erdoğan che sono molto apprezzate dai

nazionalisti turchi. Le Forze Armate hanno carta bianca nella lotta contro i militanti kurdi.

Il PKK appare divenire un nemico comune che aiuta la distensione dei rapporti tra militari

e Governo e tra Governo e nazionalisti. Benché negli ultimi anni il PKK sembra sia

ritornato ad essere attivo nella lotta, è evidente la minor presa sui kurdi. La società civile

kurda si oppone spesso al PKK rischiando ritorsioni. La Camera di Commercio di

Diyarbakir (DTO) ha avanzato parecchie proposte moderate di sviluppo della questione

kurda, come creare un ambiente stabile per la crescita economica e l’occupazione,

criticando apertamente il PKK e l’uso della violenza che crea instabilità, ed è soprattutto

fonte di povertà, disoccupazione e prostituzione. Il Centro delle Donne, KAMER, è

un’organizzazione molto attiva nella regione kurda che si occupa dei diritti delle donne,

contro la violenza e il delitto d’onore. La presidentessa, Nebahat Akkoç, donna molto

rispettata in regione con un passato da fervente sostenitrice dei diritti dei kurdi, ha

apertamente condannato le violenze del PKK e le sue richieste, sostenendo che i diritti

delle donne non si piegheranno a quelli della lotta per l’autodeterminazione (come

chiedono i guerriglieri).

I kurdi di Turchia, filo-europei, in quanto riconoscono all’Europa il ruolo motore dello

spill-over democratico, riconoscono oggi i mezzi di lotta democratica ed istituzionale. La

crescita economica, le politiche di estensione delle libertà e dei diritti, canalizzano il

bisogno di partecipazione dei kurdi. Il riconoscimento di questa terza anima della Turchia,

l’accettazione della sua partecipazione alla cosa pubblica, permette la traslazione del

Conflitto che da violento diventa pacifico.

La Turchia come la Roma repubblicana beneficia delle sue differenze e ricca della sua

società conflittuale, riesce a canalizzarle nei canali istituzionali contribuendo alla pace

sociale e a una spinta propulsiva oltre i confini. La nuova Turchia si candida oggi a leader

  93  

della regione mediorientale. Ponte tra Europa e Asia, la Turchia è parte di entrambi i

continenti, ma a nessuno vi appartiene.

  94  

Capitolo 2

Profondità Strategica

“Il mondo si aspetta grandi cose dalla Turchia”.

In questo modo Ahmet Davutoğlu Ministro degli Affari Esteri turco lascia intuire la

Weltanschauung del suo Paese. Le affermazioni di tale pensatore sarebbero parse

nazionaliste e utopiche agli esordi del nuovo millennio a causa degli instabili anni ’90

terminati con la crisi economico-finanziaria.

Spesso gli analisti politici utilizzano quattro fattori per collocare uno Stato tra le

grandi potenze mondiali o regionali. Questi sono la demografia, la potenza militare,

l’economia e la cultura. Per intenderci, al tempo della guerra fredda, le due superpotenze

mondiali, Stati Uniti e Unione Sovietica soddisfano tutti e quattro i fattori essendo abitati

da una popolazione elevata, avendo una potenza militare quasi equiparabile tra di loro, un

potere economico indiscusso e due modelli, il capitalismo e il comunismo, che vengono

importati da molti Stati nel globo, in quanto generano un certo fascino e interesse

nell’adesione. Utilizziamo questi quattro fattori per valutare il grado di potenza regionale

dell’attore turco.

Demografia. La Turchia è abitata da 78,785,548 persone66, l’età media è 28,5. Il tasso

di crescita superiore alla Germania lascia intendere il superamento dello Stato più

popoloso europeo di lì a pochi anni. Dopo l’Egitto, Ankara guida il Paese più popoloso del

Mediterraneo e di tutto il Medio Oriente (l’Iran conta poco meno di settantotto milioni di

abitanti). La Turchia è inoltre uno dei Paesi musulmani più abitati al mondo.

Potere Militare. Le Forze armate turche, Turkiye Silahli Kuvvetler, sono le eredi della

potente tradizione militare ottomana. Con una presenza di oltre cinquecentomila uomini

articolati nelle classiche tre armi: Esercito, Marina e Aeronautica, lo strumento militare

turco è oggi in ambito Nato, secondo per ampiezza solo a quello americano. Nella regione

                                                                                                               66  Cia.gov  factbook.  https://www.cia.gov/library/publications/the-­‐world-­‐factbook/rankorder/2119rank.html?countryName=Turkey&countryCode=tu&regionCode=mde&rank=17#tu,  3  novembre  2011  

  95  

mediorientale solo l’esercito israeliano può essere considerato paragonabile a quello turco.

Militari israeliani e turchi hanno raggiunto numerosi accordi di cooperazione militare sino

agli ultimi anni ’90. A differenza dell’esercito di Israele, i militari turchi non sono percepiti

nell’area mediorientale come aggressivi. Lo spettro del ritorno del Sultano che sottomette i

popoli arabi viene sfatato dall’operato dell’esercito altamente critico della fase ottomana. I

turchi svolgono missioni di pace fuori confine, ma solo a guerra terminata senza spingersi

ad interventi aggressivi oltre confine. Gli unici casi d’incursioni sono l’intervento su Cipro

nel 1974, dove oggi risiedono circa trentamila soldati, e i raid nel nord dell’Iraq in

funzione anti-PKK. I militari turchi, presenti in numerosissime missioni di pace,

dall’Afghanistan ai Balcani, dal Libano alla Somalia, godono di alta reputazione.

Economia. Nell’ultimo decennio la Turchia è passata da un’economia estremamente

volatile a una relativa stabilità, mentre la cronica inflazione a due cifre si è drasticamente

ridotta. Attraverso politiche di privatizzazioni e attrazione dei capitali la Turchia ha

venduto aziende di Stato per trenta miliardi di dollari e aperto nuove vie commerciali per il

business turco, triplicando il volume delle esportazioni negli ultimi otto anni. Abbiamo

precedentemente riportato i dato OCSE e CIA che dimostrano una sbalorditiva crescita del

reddito procapite e complessivo. Dato importante è la tenuta della Turchia nella crisi

mondiale del 2008 è infatti uno dei paesi meno colpiti. Il governo non ha bisogno di

intervenire a salvaguardia delle banche. Le proiezioni al 2050 posizionano la Turchia a

terza economia europea e nona a livello mondiale. Tra il 2010 e il 2011 il Pil ha avuto delle

crescite vicine all’11% superando talvolta la Cina. Importando idrocarburi da Russia, Iran,

Repubbliche Centro-Asiatiche, Caucaso e Paesi Arabi diviene hub energetico verso

l’Europa in una zona ricca di materie prime: il 72% degli idrocarburi del mondo si trova

nelle sue vicinanze.

Cultura. I nuovi equilibri tra kemalisti, musulmani praticanti e kurdi modificano le

strutture interne dello Stato turco e così il modo in cui viene percepita dall’esterno. Per

decenni il modello turco è stato molto apprezzato dall’Occidente in quanto Stato

musulmano, ma democratico e vicino all’ovest. Oggi l’ascesa dei musulmani praticanti, se

da un lato intimorisce gli occidentali, dall’altro porta la Turchia ad essere sempre più

ammirata dai popoli vicini. Le indagini dal 2009 a oggi da parte della Fondazione turca

  96  

per gli studi economici e sociali (TESEV) sulla percezione della Turchia nei Paesi

dell’area mediorientale, in particolare Egitto, Giordania, Libano, Palestina, Arabia Saudita,

Siria, Iraq e Iran, mostrano l’apprezzamento degli intervistati nel binomio Islam e

Democrazia. E’ l’identità musulmana in primis, seguita dalla spinta economica, dal

governo democratico e infine dall’atteggiamento protettivo verso i diritti dei

palestinesi/musulmani che stimolano apprezzamento e considerazione degli intervistati

arabi e iraniani nei confronti del paese della Sublime Porta. La Turchia acquista popolarità

nelle politiche di opposizione ad Israele, iniziate dall’ascesa dell’AKP. Il ruolo guida di

Ankara durante la primavera araba è stata bene accolta dai popoli in rivolta: i partiti di

ispirazione islamica che si stanno via via affermando nelle elezioni post-rivolta, esprimono

un chiaro riferimento alla Turchia dell’Islam e della modernità, una Turchia che dialoga

con l’Occidente così come con l’Oriente e il sud del mondo.

La Turchia del nuovo millennio ha grandi ambizioni, ben espresse dal suo Ministro

degli Affari Esteri: Ahmet Davutoğlu, autore di Stratejik derinlik: Türkiye'nin uluslararası

konumu, Profondità Strategica, la posizione internazionale della Turchia, pubblicato nel

2001.

Davutoğlu nasce il 26 febbraio 1959 a Konya, nell’Anatolia centrale. Regione

conservatrice e ad alto numero di musulmani praticanti, da Konya si propaga la crescita

economica turca portata avanti dalle tigri anatoliche, la nuova classe imprenditoriale e

industriale.

Prima professore universitario nel 2003, qualche anno dopo la pubblicazione di

Profondità Strategica, viene nominato ambasciatore dal Presidente della Repubblica Sezer

e per molti anni sarà consigliere del Primo Ministro Erdoğan.

Il primo maggio 2009 Davutoğlu sarà nominato capo della diplomazia turca. Nella

classifica Top 100 Global Thinker of 2010, Foreign Policy posiziona al numero sette

Ahmet Davutoglu “for being the brains behind Turkey's global reawakening”.

Secondo la rivista la Turchia di Davutoğlu dovrebbe sfruttare la sua posizione

geografica e l’identità laica e democratica di un Paese Musulmano, per costruire ponti tra

Europa, Caucaso e Medio Oriente. La diplomazia del capo della diplomazia turca

  97  

riconcilia gruppi politici antagonisti in Iraq e contribuisce a rafforzare il ruolo di hub

energetico della Turchia che collega gas e petrolio di territori del Caucaso e del mondo

arabo all’Europa.

Nel 2011 Foreign Policy ripropone la stessa classifica posizionando Ahmet

Davutoğlu, questa volta assieme al suo Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan alla

sedicesima posizione.

“This year, with the crises of the Arab Spring, their vision came to pass as Turkey

achieved a level of influence in the Middle East it hasn't had since the collapse of the

Ottoman Empire”.

La Turchia, il cui modello esercita un fascino nei confronti dei popoli arabi e iraniani

è indubbiamente uno dei pochi vincitori dei rivolgimenti mediterranei. Molto prima dei

leader occidentali, con una grande risonanza il leader dell’AKP intimò Hosni Mubarak ad

ascoltare il suo popolo: "I say that you must listen, and we must listen, to the people's

outcry, to their extremely humanitarian demands".

Profondità Strategica è giunto in Turchia alla sua 47°edizione ed è stato tradotto in

persiano, arabo, albanese e in greco. Il testo esprime la dottrina della politica estera turca

alla luce dei cambiamenti globali che coinvolgono Ankara.

Solido alleato Nato durante la guerra fredda, la Turchia era l’unico Stato assieme alla

Norvegia a confinare con l’Unione Sovietica. La Turchia è stato il primo Paese a cui

applicare la teoria del containment di Truman. L’alleanza e cooperazione militare per

decenni soddisfano l’élite politica che promette fedeltà in cambio di soldi e armi. La

Turchia per quarantaquattro anni si percepiva come angolo sud-orientale d’Europa,

bastione contro il red scare.

Il “Big Bang” geopolitico del biennio 1989-‘91 rappresenta una svolta per la Turchia

liberandola dai condizionamenti politico-geografici: da appendice dell’Europa dell’ovest

vuole adesso sfruttare la sua posizione geografica e la tradizione storica per presentarsi

piuttosto come un Paese centrale e non più periferico.

  98  

La politica estera turca proietta il Paese in tre continenti. Se per decenni la peculiare

posizione geografica della Turchia inquieta le élite statali, oggi i turchi riscoprono i

vantaggi e le opportunità di poter rappresentare un ponte tra continenti. Alle domande circa

lo slittamento dell’asse da occidente ad oriente Davutoğlu chiarisce che l’unico asse per la

Turchia è Ankara.

La nuova politica estera turca comporta degli elementi di rottura con i principi

kemalisti: viene recuperata l’eredità ottomana e l’Islam diviene vettore di politica estera.

La Turchia si riscopre come potenza islamica, antica sede dell’ultimo Califfato e

dell’ultimo Impero islamico, tra tutti il più longevo e forte della storia.

1. La dottrina di “Mr Zero Problems”

Nel perseguire la sua politica estera, Ahmet Davutoğlu porta avanti la dottrina dello

“zero problemi con i vicini”. Attraverso l’utilizzo del soft-power la Turchia si fa mediatrice

tra gli Stati e vuole superare le ostilità regionali. La Turchia è sempre presente nelle aree di

crisi sfruttando una credibilità ad oggi in crescita rispetto i Paesi d’Occidente.

A differenza del passato Ankara non vuole più avere Stati con cui non poter dialogare

e commerciare. Se nel dicembre 1998 l’esercito turco si allineava sul confine siriano

minacciando l’attacco in caso di non collaborazione alla lotta al PKK, il decennio seguente

è caratterizzato da un’intensa cooperazione economica e sino alla recente crisi di Assad da

ottime relazioni diplomatiche. L’acerrimo nemico sciita viene oggi difeso dai primi

ministri turco e brasiliano sull’inasprimento delle sanzioni internazionali, dal 2000 al 2008

gli scambi commerciali tra Turchia e Iran sono passati da un miliardo a dieci miliardi di

dollari. La Turchia oggi ha grandissimi interessi e influenza in Iraq: gli investimenti nel

Kurdistan sono ingenti, in particolare nella città di Kirkuk. All’esercito è assicurata

collaborazione e libertà nella lotta al Pkk. Condividendo l’interesse di mantenere stabile

l’Iraq e in generale il Medio Oriente e contenere le ambizioni iraniane nella regione,

Ankara e i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain,

Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar) rafforzano relazioni.

Se un tempo la Russia rappresentava il primo pericolo di Ankara, oggi è il primo

partner commerciale. Nella crisi più nera la Grecia modera i toni con una Turchia più

  99  

vicina economicamente. Incontri diplomatici mostrano dei primi tentativi di accordo con

l’Armenia. Molti serbi oggi visitano la Turchia: Belgrado e Ankara intensificano le

relazioni diplomatiche rendendole note a Bruxelles. La Turchia è attiva nella fase

transitoria nordafricana mostrando attenzione ai diritti dei popoli arabi.

La dottrina dello zero problemi con i vicini implica un gioco di triangolazioni. Nelle

relazioni con le Repubbliche centro-asiatiche e con la Bosnia-Erzegovina vi è un impegno

della diplomazia di Ankara nel non rischiare tensioni con altri Paesi. Nei confronti delle

Repubbliche centro-asiatiche, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e

Uzbekistan, la Turchia riconosce il ruolo di primazia su queste Repubbliche da accordare

alla Federazione Russia e nelle negoziazioni e contrattazioni non s’interpone tra Mosca e i

vecchi satelliti. Aprendosi alla Bosnia-Erzegovina in Europa, Ankara non manca di

coinvolgere la Serbia per evitare che Belgrado si senta accerchiata e prepari una

contromossa. La diplomazia di Ankara appare vincente, eppure non mancano le critiche, in

gran parte interne, proprio sulla dottrina dello “Zero problems”.

Il tentativo della Turchia di non avere problemi con i vicini, secondo alcuni la porterà

all’isolamento diplomatico. Ad oggi notiamo importanti tensioni con Israele e un

allontanamento con gli Stati Uniti, Germania e Francia.

2. Una Turchia rivolta meno ad Occidentale

Gli analisti che maggiormente criticano i nuovi rivolgimenti di Ankara temono che

l’ascesa degli islamici possa portare all’allontanamento dall’Occidente. Più la Turchia si

democratizza e più si allontana dall’Occidente.

Il rapporto tra Turchia e Israele è inversamente proporzionale alle relazioni tra Ankara

e i Paesi arabi. Per decenni turchi e arabi si sono scrutati con diffidenza: gli arabi temevano

che la potenza militare di diretta derivazione ottomana potesse riscoprire mire di conquista.

Inoltre il laicismo non era ben visto. D’altro canto tra i turchi era diffusa la percezione che

gli arabi fossero dei traditori essendosi schierati con la Gran Bretagna contro l’Impero

Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale.

I rapporti migliorano da quando la Turchia è guidata da un partito islamico e

orgoglioso della sua religione. Per conquistare il cuore degli arabi, la Turchia si avvicina

  100  

alla causa palestinese manifestando una più o meno forte opposizione ad Israele.

Il blitz israeliano contro la Mavi Marmara in cui perdono la vita nove cittadini turchi

rappresenta l’incidente diplomatico più grave nella storia recente tra Israele e Turchia.

Israele teme una Turchia che compete con l’Egitto per la leadership e che stringe

relazioni importanti con Siria, Hamas e soprattutto Iran. La cordialità e intensità dei

rapporti tra Tel Aviv e Ankara che durante gli anni ’90 aveva raggiungo accordi di

cooperazione militare, entra in contrasto con la dottrina politica di “zero problemi con i

vicini” e con l’ascesa di Erdoğan.

Erdoğan è un personaggio non amato dall’establishment israeliano per via della sua

vicinanza ad ambienti antisemiti nel periodo di militanza nel Refah Partisi.

Escludendo la Turchia dal ruolo di mediatrice negli scontri mediorientali (Libano,

Gaza), Israele umilia Ankara, la quale non nasconde la sua ira nel venire a conoscenza di

dossier giornalistici che dimostrano un sostegno logistico delle forze Israeliane ai ribelli

del PKK. Gli accordi tra Ankara, Brasilia e Teheran circa le contrattazioni per addolcire la

posizione della Comunità Internazionale sull’energia nucleare iraniana, seguono al

dramma della Freedom Flottilla e manifestano un allontanamento storico tra Israele e

Turchia.

Circa gli alleati Nato la Turchia rimase interdetta dai tentennamenti degli occidentali

nel fornirle rassicurazioni di protezione nell’intervento della guerra del Golfo. I turchi

coltivano un risentimento nei confronti degli europei a causa delle continue denunce sul

maltrattamento dei kurdi, sulle ondate islamofobe, leggi sull’immigrazione e

sull’arroganza dei membri dell’Unione Europea nel pretendere standard più elevati per la

Turchia rispetto agli ultimi Paesi entrati. L’opinione pubblica turca rimane particolarmente

turbata dalle guerre balcaniche. In quella situazione europei e americani non si dimostrano

all’altezza di gestire il conflitto dal punto di vista diplomatico e militare, non riuscendo a

evitare stragi e violando il diritto internazionale.

Turchia e Stati Uniti sono legati dalla fine del secondo conflitto mondiale, momento

in cui il Regno Unito non avendo più le possibilità di difendere l’avanzata di Mosca verso i

Dardanelli, cede la responsabilità a Washington. Da allora Turchia e Stati Uniti hanno

  101  

intrattenuto ottimi rapporti economici e diplomatici. La prima collaborazione militare

avviene negli anni ’50, in occasione del conflitto in Corea. Gli Stati Uniti caldeggiano

l’adesione della Turchia in ogni organizzazione europea dalla Nato, all’Oece, dall’Ocse

all’Osce sino alle evidenti pressioni sull’Unione Europea.

Le relazioni iniziano a incrinarsi il primo marzo 2003, data in cui la Grande

Assemblea Nazionale rifiuta di concedere basi all’attacco all’Iraq dal suo territorio. Nel

gennaio 2005, un sondaggio di BBC World Service riporta l’opposizione dell’82% dei

turchi alla politica mediorientale americana.

La Turchia si allontana da Israele per avvicinarsi alla Russia, che nel frattempo torna a

contare negli equilibri mondiali. Turchia e Russia contano un interscambio pari a quaranta

miliardi di dollari: quattro volte superiori a quelli tra Stati Uniti e Turchia. Turchia e

Russia mostrano segni d’insofferenza a politiche di europei e statunitensi nel Caucaso e

Mar Nero, durante l’invasione russa della Georgia, Ankara, non prendendo posizione, entra

in collisione con gli Stati Uniti. La Turchia vicina alla Siria, Iran e Brasile insospettisce

Washington. Recenti documenti di wikileaks mostrano il sostegno di Washington al PKK.

Tale atteggiamento, come già accennato nel capitolo precedente, può essere spiegato come

la volontà di tenere una spina nel fianco del dubbioso alleato.

I Paesi europei che oggi ostacolano maggiormente l’adesione della Turchia in Europa

sono Germania e Francia. La Germania è il primo partner economico europeo, nonché il

secondo Paese al mondo con più abitanti turchi. Tra prime, secondo e terze generazioni se

ne contano oltre tre milioni e mezzo. L’opposizione della Germania all’adesione della

Turchia in Europa è motivata dalla paura che l’apertura provocherebbe forti flussi

migratori. Il “no” alla Turchia è fortemente motivato da questioni elettorali.

I mesi di dicembre 2011 e gennaio 2012 sono caratterizzati dalle tensioni

diplomatiche tra Francia e Turchia. Il 22 dicembre 2011 l’Assemblea Nazionale vota a

maggioranza condivisa la proposta di legge che condanna il negazionismo del genocidio

armeno. La legge prevede una pena di detenzione di un anno e 45.000 euro di multa. Sino

ad oggi è stato perseguibile unicamente il negazionismo della Shoah. La Francia ha

riconosciuto nel 2001 il genocidio commesso tra gli anni 1915 e 1917, che, secondo una

  102  

parte degli storici ha provocato un milione e mezzo di vittime armene. La Turchia

riconosce la morte di trecentomila - cinquecentomila persone, ma le considera vittime della

Prima Guerra Mondiale, non di un genocidio. Il Presidente della Repubblica Abdullah Gül

(che pare aver cercato di raggiungere telefonicamente Sarkozy, negatosi per giorni)

evidentemente irritato ha commentato:

“Per noi non è possibile accettare questa proposta di legge che nega il diritto di

respingere accuse infondate e ingiuste contro il nostro Paese e la nostra Nazione”67.

Nei giorni successivi il governo turco ha richiamato il proprio ambasciatore da Parigi,

congelato le visite bilaterali e interrotto i programmi di cooperazione militare negando la

possibilità di atterraggio o attracco agli aerei o navi da guerra francesi. Si condanna la

legge come “una politica fondata sul razzismo, la discriminazione e la xenofobia” e

ammonendo che “simili ferite si rimargineranno molto difficilmente”.

Da Everan, il Ministro degli Affari Esteri Edouard Nalbandian ha espresso la sua

“gratitudine” alla Francia per l’impegno sui diritti umani universali.

Ispiratore del progetto è lo stesso Nikolas Sarkozy contenuto inizialmente dal Ministro

degli Affari Esteri Alain Juppé, il quale secondo le Canard enchaîné avrebbe bollato come

“stupidaggine ridicola” tale proposta. I critici accusano Sarkozy di una trovata elettorale.

In Francia la comunità armena conta circa seicentomila unità, tra le quali spiccano

personalità influenti come il cantante Charles Aznavour e il politico Patrick Devedjian. La

proposta di legge sarà respinta nel marzo 2012 dal Consiglio Costituzionale.

Le tappe dell’attivismo francese a favore della questione armena precedono sempre

una tornata elettorale. Il riconoscimento del genocidio (2001) precede le elezioni

legislative del 2002. Per diversi anni nessuno mostra particolare interesse alla questione

fino alla proposta simile a quella attuale che punisce i negazionisti, lanciata meno di un

anno prima delle elezioni del 2007. Dall’elezione di Sarkozy all’inizio della campagna

elettorale del 2011 non vi sono segni evidenti di voler perseguire una battaglia contro i

                                                                                                               67  “Francia-Turchia: Parigi e Ankara ai ferri corti su armeni”, Ansamed, 20 dicembre 2011.    

  103  

negazionisti. Secondo Wikileaks il consigliere diplomatico di Nikolas Sarkozy: Jean Daviv

Leavitt, volerà ad Ankara poco dopo l’elezione del 2007 per rassicurare di non voler

portare avanti alcun provvedimento che urterebbe la sensibilità dei turchi.

Oltre a cercare il consenso tra gli elettori vicini alla causa armena, l’Ump intende

sedurre l’elettorato timoroso della presenza dei musulmani in Francia. La Francia è il

Paese più musulmano d’Europa dopo la Turchia, contando dai cinque ai sei milioni

d’islamici.

I discorsi per ribadire il “no” secco francese all’adesione turca in Unione Europea

tranquillizzano fette importanti dell’elettorato conservatore. Anche nel dibattito della

primavera 2007 a ridosso delle elezioni per l’Eliseo, in pochi minuti dedicati alla politica

estera Nicola Sarkozy ribadì (nonostante nessuno gli avesse posto la questione) la sua

opposizione alla Turchia europea accusando Ségolène Royal (la quale rimase

evidentemente stupida e spiazzata) di non pensarla allo stesso modo.

Oltre alle questioni elettorali tuttavia appaiono interessanti gli attriti degli interessi

geopolitici. Francia e Turchia intrattengono importanti relazioni economico-commerciali:

la Francia è il quinto mercato di esportazione per Ankara, e il sesto per beni importati.

Negli ultimi anni appare evidente la scelta francese di concentrarsi sull’area mediterranea.

Sembra che Germania e Francia abbiano stipulato un tacito accordo d’interesse in

politica estera: se la Germania, come ha sempre fatto nella sua storia, si espande verso l’est

europeo, i Balcani sino alla Russia, la Francia si proietta sul Mediterraneo e Medio Oriente

e si propone come potenza leader dell’area. Tuttavia la Turchia forte della sua crescita

economica e della sua popolarità nei Paesi ex-ottomani si scontra con gli interessi francesi.

I due Paesi sono entrati in collisione prima dell’intervento della Nato in Libia. Nel

marzo 2011, Erdoğan dichiara ad Istanbul: "I wish that those who only see oil, gold mines

and underground treasures when they look in [Libya's] direction, would see the region

through glasses of conscience from now on." Rincalzando la critica circa gli interess

economici nell’intervento il presidente Gül afferma: "The aim [of the air campaign] is not

the liberation of the Libyan people," he said. "There are hidden agendas and different

interests."

  104  

Nelle settimane precedenti, il Ministro degli Interni Claude Guéant, che per anni ha

ricoperto il ruolo di consigliere del Presidente, ha parlato dell’intervento in Libia come di

una crociata, scatenando l’ira dei turchi.

Nella Libia di Gheddafi la Turchia era presente economicamente con i suoi

investimenti pari a quindici miliardi di dollari. Nel territorio gli oltre venticinquemila

turchi erano impiegati nelle duecento compagnie turche nel Paese i cui profitti rasentavano

i quindici milioni di dollari l’anno.

La Politica diplomatica turca, orgogliosamente critica nei confronti della Francia

l’avvicina ai popoli nordafricani: nei viaggi in Tunisia, Egitto e Libia, Erdoğan viene

accolto con ovazioni.

Nell’ultimo periodo inoltre le tensioni sulla proposta di legge sul genocidio armeno

hanno coinvolto un altro attore: l’Algeria. Erdoğan infatti nel gennaio ha posto la questione

del riconoscimento del genocidio del 15% della popolazione algerina dal 1945 al 1962 da

parte dell’esercito francese. Erdoğan ha richiamato all’attenzione il fatto che il padre di

Nikolas Sarkozy, Pal, era legionario in Algeria, e dunque il Presidente è bene che rifletta

sulla politica colonialista del Paese prima di accusare Ankara di crimini contro l’umanità.

Le reazioni da parte del Primo Ministro algerino, Ahmed Ouyahia, non hanno tardato.

Ouyahia chiede alla Turchia di non strumentalizzare i morti algerini. Le esternazioni

critiche sulla Turchia hanno portato ad un dibattito interno algerino. Ali più vicine

all’islam politico, in particolare i due partiti d’opposizione, l’MSP, il Movimento Sociale

per la Pace, vicino ai Fratelli Musulmani, e il Partito di Ennhada, Partito di Rinascita

dell’Islam, accusano il Primo Ministro di perseguire una politica filo-francese. Secondo gli

islamici algerini il Primo Ministro sbaglia a criticare il leader turco che si dimostra

sensibile alla memoria della guerra d’Algeria.

La diplomazia di Ankara continua a collezionare successi nell’area mediterranea, area

d’interesse primario per il Paese. Dal punto di vista geo-economico una Turchia proiettata

verso Medio Oriente, Asia e Africa, allontanandosi dall’Europa sembra avere come

obiettivo l’emancipazione dall’interdipendenza economica. La politica economica europea

tende a restringere il cerchio dei suoi membri. Il consigliere economico di Erdoğan Ali

  105  

Babacan attua manovre espansive in contrasto con le restrizioni di Francoforte per

prevenire l’importazione della recessione Europea. L’U.E. è il principale mercato di

esportazione turco.

3. Padroni di noi stessi

“Il ruolo periferico assegnato alla Turchia dalla classe politica dominante non

corrisponde in verità né alla realtà né alle tradizioni del popolo turco, né tantomeno alle

sue aspettative per il futuro. La società turca è impegnata nella ridefinizione di se stessa,

conseguenza naturale della crisi che sta vivendo.”

Il miglior interprete del suo Paese, Ahmet Davutoğlu descrive la nuova fase storica di

una Turchia che dev’essere libera di determinare il suo asse strategico-geopolitico. La

Turchia dev’essere aperta, flessibile e dinamica, visto che oggi gli equilibri regionali le

permettono di superare una staticità passiva. Deve mostrarsi come Paese “tanto europeo

quanto asiatico, tanto balcanico quanto caucasico, tanto mediorientale quanto

mediterraneo.”

Al di là degli equilibri internazionali, la nuova definizione della politica estera turca

deve provenire da una spinta interna, da una volontà psicologica. Nella storia i popoli che

investono il ruolo di ponte devono garantire una forte identità e fiducia in se stessi. Gli

esempi sono plurimi, in particolare interessante è il riferimento ottomano: “E gli ottomani,

che consideravano la varietà come una ricchezza e non come una fastidiosa contraddizione,

operando all’interno del paradigma islamico dominante nelle regioni più complesse ed

eterogenee della storia umana hanno dimostrato il dinamismo necessario a fondare una

nuova civiltà e un nuovo ordine politico”.

Per Davutoğlu è necessario che la Turchia sia soggetto e non oggetto della sua politica

estera, deve inquadrare quali siano i suoi interessi strategici, il suo hinterland geopolitico e

“rifondare la propria identità, la propria mentalità e la propria cultura politica”.

Vantaggio qualitativo della Turchia è la sua cultura storica e i legami con Paesi

prossimi che oggi vivono momenti critici. La Turchia ha dei vantaggi e possibilità di

contare in tali zone.

  106  

La geografia del Paese è sicuramente strategica, tuttavia la geografia di per sé non

porta vantaggi se non viene accompagnata da un’intensa attività diplomatica. E’ infatti la

diplomazia la variabile che si adatta al variare delle condizioni internazionali, soggetta a

reinterpretazioni e riaggiustamenti.

“I fattori geografici e storici non bastano: l’importanza della collocazione geopolitica

è sempre stata legata alla tradizione e al genio di chi la utilizzava”.

Gli atteggiamenti di Stati Uniti ed Europa dimostrano come l’intento di questi attori

nei riguardi della Turchia fosse il mantenimento dello status quo. A guerra fredda

terminata, la Turchia non può basare la propria politica estera sul mantenimento dello

status quo. “La strategia della Turchia per il nuovo secolo può riassumersi nella

riorganizzazione in forma alternativa dei rapporti con i centri di potenza e nella creazione

di un hinterland fondato su rapporti culturali, economici e politici storicamente

consolidati”.

Il professore di Relazioni Internazionali, all’interno del suo testo inserisce l’Equazione

della Potenza:

G = ( SV + PV ) x (SZ x SP x SI )

G = Potenza

SV = Fattori Costanti

PV = Variabili

SZ = Mentalità Strategica

SP = Pianificazione Strategica

SI = Volontà Politica

Più specificamente

G = [ ( t + c + n + k ) + ( ek + tk + ak ) ] x (SZ x SP x SI ).

  107  

Le costanti t = storia, c = geografia, n = demografia, k = cultura, ricomprese nei

Fattori Costanti sono sommate alle variabili: capacità economica, capacità tecnologica e

capacità militare, rispettivamente ek, tk e ak. Il tutto dev’essere moltiplicato per la

mentalità strategica, la pianificazione strategica e la volontà politica.

Davutoğlu assegna alla Turchia otto aree di influenza: Balcani, Mar Nero, Caucaso,

Caspio, Asia centrale turcofona, Golfo Persico/Arabo, Medio Oriente, Mediterraneo.

Davutoğlu recupera la tradizione kemalista nelle idee nazionaliste di un’unione ento-

linguistica turca: il panturchismo. Recupera al tempo stesso la vocazione ottomana

riscoprendo i vecchi confini imperiali nel Medio Oriente, nord Africa e Balcani così come

gli ideali di pluralismo e tolleranza e utilizza l’Islam come strumento di distensione dei

rapporti dei popoli e politica estera.

I tre vettori nei quali si inquadra la politica estera turca sono dunque: Panturchismo,

Neo-Ottomanesimo e Islam.

  108  

2.a Panturchismo

Il vettore di politica estera denominato panturchismo, collega la Turchia al Caucaso e

all’Asia centrale, riscoprendo la radice eurasiatica e i legami fra i diversi popoli turcofoni.

Gli Stati indipendenti nati dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, con i quali la Turchia

vuole intraprendere una politica estera forte dei legami etnici e linguistici sono:

Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan.

Famiglie linguistiche turche68

Panturanismo e Panturchismo sono movimenti di pensiero che si affermano dalla

seconda metà del diciannovesimo secolo. Periodo in cui le idee di nazionalismo dai

Balcani si spargono per tutto l’Impero.

Se il Panturanismo si afferma tra i Giovani Turchi in particolare dal 1889 ad Istanbul e

mirando a raccogliere in un’unica formazione politica tutte le stirpi turche esistenti al

mondo (Ottomani, Turcomanni, Uzbechi, Chirghisi, Baschiri, Azerbaigiani, ecc...), il

Panturchismo è un movimento che costituisce una fase più moderna ed etnicamente assai

più ridotta del panturanismo. Nasce alla fine della prima guerra mondiale e consiste nella

                                                                                                               68 Ahmed Tarcan, “Language Observatory”. University of Dicle, Diyarbakir. Febbraio – Marzo 2006.

  109  

convinzione, diffusa in molti ambienti politici turchi, di una precisa responsabilità della

Repubblica turca nei riguardi di quelle minoranze di Turchi, già Ottomani, che vivevano o

vivono fuori dei confini dell'attuale Turchia.

Il Panturchismo si afferma parallelamente al Pan-Slavismo e al Pan-Germanesimo,

tuttavia i turchi hanno sempre rimarcato le distanze da questi movimenti in quanto

caratterizzati precipuamente da una componente di razza. Il Panturchismo si presenta come

legame linguistico e culturale, ponendo in secondo piano il criterio etnico, se non

addirittura razziale, che pure lo ha a lungo caratterizzato.

1. La Nuova tesi storica

“Fatta la Turchia, facciamo i turchi”. Il Panturchismo s’inquadra in un periodo di

affermazione del nazionalismo in Turchia. Dalla fine degli anni ’20 e per tutti gli anni ’30

vengono attuare riforme di netta rottura con il passato. Il nazionalismo diviene un principio

costituzionale.

Il Panturchismo si lega al nazionalismo e al mito di Ergenekon, luogo leggendario

della Mongolia dal quale sarebbe originata la prima popolazione turca, nomade e guerriera

che attraversando l’Asia giunge sino all’Anatolia. “La Tesi Storica Turca” viene presentata

e discussa nella Prima e Seconda Conferenza sulla Storia Turca del 1932 e 1936. Si

formulano teorie scientifiche circa le origini etniche dei turchi. I testi di storia criticano

l’oscurantismo del periodo islamico-ottomano e esaltano il concetto di Nazione turca. Le

critiche al Panturchismo lo fanno complice delle violenze perpetuate contro i popoli non

turchi: armeni, greci, assiri e kurdi.

Ad oggi nella società turca è evidente l’orgoglio dei cittadini per la turchità. Ciò

deriva da un sistema di educazione che esalta l’orgoglio nazionale, dal senso di

accerchiamento da parte dei vicini per decenni ostili, dall’atteggiamento arrogante degli

europei. L’orgoglio dei turchi deriva dall’indipendenza di una regione spesso sconfitta e

umiliata, ma mai colonizzata e che per secoli ha guidato uno degli Imperi più tenaci e

innovativi della storia.

  110  

“I turchi di Turchia dichiarano un interesse palese verso i turchi dell’Asia centrale, e

dichiarano spesso di preoccuparsi poco del fatto che gli azeri appartengono allo sciismo,

dal momento che essi appartengono anche alla turcofonia”.69

Secondo Jean-Paul Roux, le popolazioni turcofone dell’Asia centrale ricambiano

questo senso di prossimità oggi come nel periodo sovietico. Lo sgretolamento dell’Unione

Sovietica ha portato all’indipendenza di nuovi Stati i quali, nel vuoto lasciato da Mosca,

cercano un nuovo posizionamento internazionale.

La Turchia è il primo Paese che riconosce le Repubbliche centro-asiatiche. Nel

ripiegamento sovietico i turchi cercano di inserirsi per colmare il vuoto sovietico,

sfruttando i legami etno-linguistici.

La Turchia viene vista come la più importante porta aperta tra occidente e Asia

centrale. Sono di ceppo turco le lingue che parlano gli azeri, i tatari, i bashkiri, i kazaki, gli

uzbeki, i kirghizi, i turkmeni, fino agli jacuti della Siberia e agli Uiguri della Cina

occidentale, in totale tra i 130 e i 160 milioni di persone fuori dalla Turchia.

Il primo summit dei capi di Stato di paesi turcofoni viene organizzato già nel 1992. Il

sogno accarezzato dal nazionalismo turco viene portato avanti anche dai due presidenti

moderati: Turgut Özal e Suleyman Demirel che parlano della possibilità della Turchia di

divenire, dopo la guerra fredda, una potenza regionale che possa rappresentare l’intero

mondo turcofono. Tale progetto viene incoraggiato dal Presidente statunitense George H.

Bush in chiave anti-iraniana, contenendo la spinta propulsiva della rivoluzione, e al fine di

elevare la Turchia al ruolo cardine nel trasporto delle risorse energetiche del bacino del

Mar Caspio.

Sappiamo che tale strategia turca non andrà a buon fine durante gli anni ’90. Le

pompose teorie panturchiste sono portate avanti da un Paese che vive gravi conflitti interni

ed è caratterizzato da un’economia traballante. Negli anni ’90 gli “stan” hanno voglia di

autodeterminarsi, di essere padroni del proprio destino, non necessitano di alcun fratello

maggiore, tanto meno della Turchia. Inoltre a differenza di altri stati ex-sovietici, le

                                                                                                               69 Jean- Paul Roux, Storia dei Turchi. Argo, Lecce, 2000. p 290

  111  

Repubbliche centro-asiatiche rimarranno sempre legate a Mosca, e ciò si è evidenziato a

partire dal ritorno della Federazione russa come potenza mondiale sotto la guida di

Vladimir Putin. L’ascesa di India, Cina e Russia, l’importanza dell’Iran e i tentativi

d’infiltrazione americana in quella regione del mondo in una fase storica in cui a dettare

legge è la forza globalizzante del mercato, rendono obsolete motivazioni di politica estera

emotive e sentimentali.

Il concetto di Panturchismo di per sé non è sufficiente. Appare piuttosto un artificioso

mezzo di politica estera. In alcuni casi la strumentalizzazione di tale ideologia può essere

addirittura deleteria nei rapporti internazionali. Ciò è anche motivato dal fatto che, le

popolazioni degli stati in questione non sono omogenee. Ciò rientrava nei piani di Stalin di

disegnare confini di province o satelliti sovietici in modo da non andare a costituire nazioni

omogenee, che forti di tale caratteristica avrebbero potuto compattarsi a livello statale

contro l’egemonia sovietica.

Le popolazioni non turcofone che abitano questi paesi non sono entusiaste di

quest’enfasi data a teorie Panturchiste. Nell’ultimo decennio tuttavia il Panturchismo viene

di nuovo utilizzato dalla diplomazia di Ankara, questa volta in modo meno aleatorio, ma di

accompagnamento a serie politiche di soft power che la nuova Turchia, in crescita

economica e di ambizioni internazionali, porta avanti con tenacia e competenza.

Vengono firmati centinaia di accordi di cooperazione economica, commerciale e

culturale. Si moltiplicano le visite tra capi di stato. Vengono promosse borse di studio per

studenti universitari. Il 3 ottobre 2009 viene firmato “The Establishment of the

Cooperation Council of Turkic Speaking States”. Il Consiglio viene formato al decimo

summit dei capi di Stato dei Paesi turcofoni, organizzato nell’ottobre 2010 a Istanbul.

Istanbul è anche la sede del Segretariato dell’organizzazione. La Tika, Agenzia dello

Sviluppo e Cooperazione Turca, è molto attiva in regione e si occupa principalmente di

fornire assistenza tecnica a questi Stati.

Secondo il Ministero degli Affari Esteri turco: “Turkey’s trade volume with the

countries of the region was about 6.5 billion USD by the year 2010 and the total

investments of Turkish companies in the region exceeded 4.7 billion USD. The total value

  112  

of projects realized by Turkish contracting companies in the region has reached the level of

around 30 billion USD. Nearly 2 thousand Turkish companies are operating on the

ground.”70

La Turchia si propone come hub energetico della regione per favorire il transito del

gas di cui questi Stati sono ricchi, verso l’Europa, in particolare il gas non russo che

dovrebbe passare per il gasdotto Nabucco. La Turchia è presente in organizzazioni

internazionali che legano questi Paesi in particolare l’ECO, Economic Cooperation

Organization. L’organizzazione non è identificabile come turca in quanto vi sono presenti

Paesi popolatissimi e influenti come l’Iran e il Pakistan di chiara composizione non-turca.

In un’epoca in cui il mondo spinge per grandi federazioni, l’ideologia di moda nei

primi del ‘900, il Panturchismo, come afferma Jean-Paul Roux, sembra appartenere solo al

campo dell’utopia. L’avvicinamento dei Paesi turcofoni potrebbe portare alla costituzione

di una Grande Turchia alternativa all’Unione Europea. Tuttavia numerosi ostacoli vi si

frappongono. In primis la non continuità territoriale dei Paesi, l’eterogeneità della

composizione degli stessi, le differenze linguistiche evidenti: benché molte repubbliche

abbiano sostituito i caratteri cirillici con quelli latini per avvicinarsi al turco i primi

tentativi d’incontri tra capi di Stato senza interpreti hanno provocato non poche difficoltà e

incomprensioni.

E’ tramontato l’effimero e velleitario sogno panturco di una grande comunità

turcofona “dal mediterraneo alla Cina” sbocciato dopo la caduta dell’URSS.

Il Panturchismo di per sé non deve essere sopravvalutato. Tuttavia la “simpatia” nei

rapporti diplomatici può essere un elemento di grande importanza se accompagnato da una

efficace politica di soft power. Ad oggi si registrano ottime aperture e relazioni tra la

Turchia e le Repubbliche centro asiatiche.

I successi diplomatici della Turchia sono accompagnati da un atteggiamento attento

alla Federazione russa. Si riconosce a Mosca il ruolo privilegiato su queste repubbliche.

                                                                                                               70 Relazioni con le Repubbliche centro-asiatiche. http://www.mfa.gov.tr/turkey_s-relations-with-central-asian-republics.en.mfa, al 5 novembre 2011

  113  

Nelle sue aperture a est Ankara non utilizza i legami etno-linguistici solo per legarsi ai

Paesi turcofoni, bensì si inserisce nell’isola-mondo con l’intento di restarci per contare e

intrattenere relazioni con India, Cina e soprattutto Russia.

La presenza del contingente turco in Afghanistan è motivato da tale interesse.

2. Ankara e Mosca, un nuovo sodalizio

Gli imperi ottomano e russo hanno combattuto numerose guerre l’uno contro l’altro.

La Turchia e la Russia attuali hanno in comune un passato imperiale, e condividono il

trauma della fine dello stesso e un conseguente senso d’isolamento ed accerchiamento da

ciò risultato. Sino ai primi anni ’90 Mosca rappresentava la prima minaccia per la Turchia

filo-occidentale.

Gli ultimi anni del ventesimo secolo portano i due attori a scrutarsi e conoscersi

mantenendo diffidenza, ma incrementando interesse. La fine della Guerra Fredda non

determina l’annullamento istantaneo del sospetto tra Mosca ed Ankara. Le ragioni dei

risentimenti tra i due Paesi sono motivati dall’incubo delle minacce all’indivisibilità dei

territori.

Dalla metà del 1800, la Turchia ospita la diaspora caucasica delle popolazioni

musulmane perseguitate dagli zar. Nel territorio anatolico confluiscono abkhazi, ossetini,

balcari, daghestani e ceceni. Queste comunità musulmane, si integreranno nell’Anatolia

mantenendo un contatto con le terre d’origine. Benché non sembri che i governi turchi

abbiano direttamente aiutato la causa cecena, la comunità in Turchia appare offrire un

sostegno ai nemici della Russia.

Da parte sua Mosca finanzia il Pkk, prima al fine di destabilizzare un nemico

occidentale, poi finita la Guerra Fredda come ritorsione al sostegno ceceno. Mosca si

rifiuta per tutti gli anni ’90 di considerare il PKK come organizzazione terroristica.

Le distensioni sono accompagnate da una serie d’incontri istituzionali. Nel dicembre

1997 il Primo Ministro russo Viktor Chernomyrdin recandosi in Turchia ragiona sugli

interessi strategici dei due Paesi. In un clima di tensione circa il progetto di oleodotto

Baku-Tblisi-Ceyhan, si promuove il progetto Blue Stream.

  114  

Blue Stream, da Eni.it.

Il sistema è posseduto e gestito dalla società Blue Stream Pipeline Company BV

(BSPC), una joint venture paritetica tra Eni e Gazprom. Il progetto comprende la

costruzione di un sistema di trasporto del gas attraverso il Mar Nero, dalla regione di

Krasnodar, nella Russia meridionale, sino alle vicinanze di Ankara, per una lunghezza

complessiva di circa 1.250 chilometri, di cui 385 sottomarini. Il Blue Stream è attivo dal

2003.

Il viaggio di Bülent Ecevit, Primo Ministro turco, nel novembre 1999 è un punto di

svolta nelle relazioni tra i due Paesi. Ecevit sostiene che la questione cecena sia affare

interno alla Russia, la Russia così accetta una politica di non-intervento circa il problema

kurdo.

Gli attacchi dell’11 settembre hanno favorito un avvicinamento dei due Paesi in

chiave anti-terrorista e di cooperazione economico-commerciale. Dopo un lungo lavoro

diplomatico nel 2001 a New York, Turchia e Russia stringono l’accordo di cooperazione in

Eurasia. Nel 2002 Recep Tayyip Erdoğan in visita a Mosca viene ricevuto dal Primo

Ministro Kasyanov e dal Presidente Putin. Il rifiuto del Parlamento turco della mozione del

marzo 2003 circa il permesso da accordare all’esercito americano di accedere al territorio

iracheno attraverso la Turchia rappresenta la più importante manifestazione di

  115  

indipendenza turca dagli Stati Uniti. La Turchia compie quella scelta non per anti-

americanismo, ma perché sono maturi i tempi di una politica più autonoma in regione, in

alcuni casi confliggente con gli interessi americani. La Turchia negli anni passati aveva già

sacrificato parte del suo commercio nell’embargo all’Iraq.

Il rifiuto della Turchia viene percepito da Mosca come segno di autonomia e

indipendenza. La lealtà incondizionata agli Stati Uniti propria durante la guerra fredda è al

termine.

Contestualmente l’ingaggio degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan impegna a tal punto

Washington in quelle aree da lasciare a Turchia e Russia un maggior margine di manovra

nel Caucaso e nel Medio Oriente.

Il 5 e 6 dicembre 2004, Vladimir Putin è il primo Presidente russo a recarsi in visita

ufficiale in Turchia dopo trentadue anni. La visita di Putin rafforza le relazioni tra i due

Paesi: Putin firma sei accordi di cooperazione militare ed economica. La Russia sostiene la

membership turca in Unione Europea, la Turchia il ruolo di osservatore della Russia presso

l’Organizzazione della Conferenza Islamica. Erdoğan e Putin si incontrano dieci volte in

cinque anni. Il Presidente Abdullah Gül compie una visita ufficiale nel febbraio 2009, egli

è stato il primo Presidente turco a visitare la Repubblica Autonoma di Tatarstan.

L’atteggiamento positivo russo nel favorire gli incontri tra Turchia e popolazioni turcofone

musulmane viene interpretato come segno di fiducia.

Russia e Turchia condividono interessi nel Caucaso, nei Balcani, nel Medio Oriente.

L’attitudine di Davutoğlu dello zero problems in politica estera aiuta la Turchia a muoversi

in queste regioni prevenendo tensioni irreparabili con la Russia. Gli interessi convergenti

di Turchia e Russia in molte parti del mondo, si pensi ad esempio alla volontà di pace e

dialogo con l’Iran o alla necessità di avere un Iraq e un Afghanistan stabile, fanno dei due

Paesi più che competitor, alleati.

La guerra tra Russia e Georgia circa l’Ossezia e la mancanza di condanne da parte

della Turchia è stato esemplificativo dei nuovi interessi turchi più svincolati dalla Nato e

più legati alla Russia. La Federazione russa costituisce oggi il primo partner economico

della Turchia. Secondo l’Istituto Turco di Statistiche (Türkiye Istatistik Kurumu)

  116  

l’interscambio tra i due Paesi nel 2008 era pari a trentotto miliardi di dollari. L’export

russo verso la Turchia è basato al 70% sull’energia, più un 20,5% di metalli e un 2,9% di

prodotti chimici.

Il 63% del gas naturale e il 29% del petrolio consumato in Turchia derivano dalla

Russia. L’export turco punta sui macchinari, equipaggiamenti, veicoli, industria tessile,

alimentare e chimica. Nel 2009 la Turchia ha investito in Russia per oltre sei miliardi di

dollari. Ankara è presente massicciamente anche con le sue compagnie di costruzioni che

nell’ultimo decennio hanno ottenuto contratti per diciassette miliardi di dollari. Ogni anno

2,8 milioni di turisti russi scelgono la Turchia, in particolare la sue coste, come meta

vacanze.

Attraverso la compagnia russa Atomstroyeksport, il Governo di Mosca collabora con

la Turchia per la costruzione di un reattore nucleare. La Turchia è il primo Paese Nato a

sviluppare con la Russia una cooperazione tecnica nella sfera militare. Alla Turchia

interessano i progetti militari circa sistema missilistici di medio raggio come gli S-300 o S-

400.

3. La guerra in Afghanistan e il ruolo della Turchia

Il 7 ottobre 2001 inizia il conflitto afghano. Americani, inglesi, australiani e l’alleanza

del Nord (popolazioni afgane) lanciano l’operazione Enduring Freedom contro il governo

talebano. L’impulso principale dell’intervento deriva da Washington a seguito

dell’attentato alle torri gemelle. Le ragioni della guerra non sono economiche ma

securitarie: l’Afghanistan talebano è un campo di addestramento per le truppe jihadiste che

sono riuscite ad insinuarsi nei Balcani (in questo caso con il consenso americano) e hanno

attaccato obiettivi americani in Africa sino ad aggredire il cuore degli Stati Uniti.

L’obiettivo di Washington è rovesciare il regime talebano, sostnere un nuovo governo

amico, avere una base in Afghanistan per poi espandersi in regione, inizialmente in Iraq

per il quale Stato evidenti sono gli interessi economici e strategici. La guerra afghana vuole

essere leggera, veloce e limitata utilizzando il numero minore di truppe e sforzi. Nella

“crocevia dell’Asia centrale” è già crollato l’Impero Sovietico, a causa dei suoi errori nel

periodo 1979-89.

  117  

L’intervento vuole anche lanciare un messaggio ai nemici e “amici” dell’America.

Mostrando la sua potente macchina da guerra, Washington mette in guardia i nemici, e

lancia un messaggio di forza e rassicurazione ai creditori del primo Paese debitore al

mondo (che si appresta ad entrare in una fase di recessione economica).

Nella guerra globale al terrorismo, gli americani non vogliono apparire come crociati

contro la religione islamica. Per tale motivo l’alleato turco è di fondamentale importanza.

In poche settimane i Signori della Guerra dell’Alleanza del Nord, grazie anche al sostegno

aereo statunitense e britannico, raggiungono e liberano Kabul.

Il 1°novembre 2001 Ankara si dichiara disponibile ad inviare novanta uomini delle

sue forze speciali. Le truppe turche prendono parte ad Enduring Freedom addestrando le

milizie anti- talebane dell’Alleanza del Nord, che comprendevano anche le bande uzbeke

leali a Rashid Dostum, ed effettuando altresì interventi umanitari di emergenza.

I militari turchi sin dal principio del conflitto uniformano la propria condotta operativa

a regole d’ingaggio restrittive, che ne escludono la partecipazione ad azioni militari

offensive, circoscrivendo il ricorso della forza al solo caso di autodifesa rispetto a una

minaccia incombente.

Nel dicembre 2001 la Conferenza di Bonn dà vita all’ International Security

Assistence Force. L’Isaf ha come fine quello di fornire alle nuove autorità nazionali

afghane una forza ulteriore per estendere in tutto il Paese l’ambito di esercizio della

sovranità del Governo e del Parlamento di Kabul71.

                                                                                                               71 http://www.isaf.nato.int, 10 giugno 2011

  118  

Fonte: Afghanistan Addio!, Limes, Marzo 2010.

La Turchia assume due volte il comando dell’Isaf. Il 18 giugno 2002 il generale Hilmi

Azin Zorlu subentra all’inglese McColl. I soldati turchi passano da duecentosettantasei a

milletrecento unità. Con Zorlu la situazione si stabilizza: il 3 Novembre 2003 l’Isaf revoca

il coprifuoco notturno che era in vigore a Kabul praticamente dal 1979. Il contingente turco

è schierato a Kabul e vara circa 175 progetti a profitto della rinascente amministrazione del

Paese, addestrando anche il primo nucleo di militari al servizio del nuovo esecutivo

provvisorio guidato da Hamid Karzai.

Dal 13 febbraio al 5 agosto 2005 la Turchia assume nuovamente il comando dell’Isaf

con il generale Ethem Erdagi. Il 6 aprile 2007 i turchi rilevano dai francesi la guida del

Comando regionale della capitale mantenendola sino al 6 dicembre seguente, prima di

trasferirlo agli italiani. Per l’occasione Ankara delibera un nuovo rafforzamento del

proprio contingente dislocato in Afghanistan che riceve 400 uomini supplementari e

persino una coppia di elicotteri Black Hawk, adibiti a funzioni diverse dal combattimento,

quali il trasporto e l’evacuazione dei feriti.

  119  

I militari turchi si sarebbero distinti anche per aver preceduto gli americani nella

pratica di alcuni principi basilari della dottrina di contro insurrezione elaborata da

Petraeus: il Comando regionale della capitale avrebbe condotto in media una sessantina di

pattugliamenti quotidiani a piedi, mentre la maggioranza degli altri contingenti occidentali

preferiva cercare di controllare il territorio di propria competenza utilizzando gruppi di

mezzi blindati. Le unità turche, inoltre, in segno di fiducia nei confronti della popolazione

locale, effettuano le proprie perlustrazioni senza indossare i giubbotti antiproiettili e gli

elmetti.

Il 31 ottobre 2010, la guida turca torna a occuparsi di Kabul. L’accademia militare

della capitale è un progetto finanziato e gestito da Ankara. L’investimento è pari a 8,7

milioni di dollari e ad oggi conta ottocentoundici iscritti. Dal 2006 la Turchia assume la

leadership della provincia di Wardak, area pashtun con larga presenza talebana. Nella zona

di Wardak, il PRT (Provincial Reconstruction Team) turco conta solo 150 soldati. E’

l’unico PRT sottoposto alla guida di un funzionario civile e al contempo dotato del più

numeroso personale non militare. Nella regione di Wardak i turchi al 2009 hanno

promosso duecento progetti di un valore di trentamilioni di dollari. Tra i vari progetti

riportiamo la costruzione di tre scuole elementari, una clinica medica, un istituto tecnico

agricolo, diverse strutture sportive e magazzini alimentari.

Nel 2011 i turchi sono riusciti a superare l’ostilità statunitense nella costruzione di un

nuovo PRT nella zona per loro più interessante: il Nord. Il terzo PRT sarà a Shibergan

nella zona Uzbeka prima controllata dal signore della guerra: Abdul Rashid Dostum, il

quale guida da sempre gli uzbeki contro i Taliban. Personaggio controverso è stato sempre

sostenuto dalla Turchia, dove spesso si è ritirato.

Tra i 2002 e il 2007 in tutto il territorio afghano la Turchia si è adoperata per la

costruzione di quattro ospedali, diverse cliniche e ventisette strutture scolastiche. Molto

pubblicizzate sono anche le duecentosessanta borse di studio a studenti afghani e gli aiuti

mirati a quattordicimila famiglie e ottomila bambini, per un valore di duecento milioni di

dollari.

Le vittime turche dall’inizio del conflitto sono di appena due militari caduti in un

incidente stradale il 14 luglio 2009. Attualmente in Afganistan sono presenti oltre 1700

  120  

militari, concentrati in zone molto rischiose. Essi intrattengono un ottimo rapporto con la

popolazione e quest’elemento garantisce loro sicurezza (tant'è vero che in diverse

occasione è capitato che alcuni convogli Isaf applicassero insegne turche sui loro mezzi per

evitare di essere attaccati). I motivi di tale cordialità ed accettazione degli afghani nei

confronti dei turchi sono da rintracciare nei legami storici, culturali e religiosi.

Le prime relazioni risalgono alla dinastia turca dei Ghaznavidi in Afghanistan nel

periodo X, XII secolo. L'Impero Ottomano e l'Afghanistan intrattengono scambi per secoli.

I Giovani Turchi esercitano un richiamo notevole sui Giovani Afghani che tentano di

perseguire la modernizzazione del loro Paese. Durante la Prima guerra mondiale ha presa

notevole in Afghanistan l’appello del Sultano ad entrare nel conflitto al fianco della

Sublime Porta e degli imperi centrali, attaccando il Raj britannico in nome della difesa

dell’Islam.

Nel 1920 l’Afghanistan è la prima Nazione che riconosce il Parlamento Turco. Turco

fu il primo segretario alla difesa afghana. All'epoca di Ataturk, lo stesso invia un

contingente turco al fine di divenire la scorta personale del re afghano Kahn. Prototipo di

modernizzazione lungo il ventesimo secolo, prima dell'instaurazione del regime talebano,

Ankara è corsa più volte in aiuto delle popolazioni turcofone: turkmeni, uzbeki, kirzichi e

kazaki. Alla presenza civile e militare Ankara ha affiancato un’energica azione diplomatica

e una singolare moltiplicazione degli interventi sulla scena afghana. I turchi agiscono come

potenza regionale centro-asiatica partecipando a importanti eventi internazionali promossi

dall’Alleanza Atlantica, Nazioni Unite e G8, ma anche promuovendone altri in Anatolia.

Il 29 e 30 aprile 2007 ha luogo il primo vertice trilaterale con Hamid Karzai e Pervez

Musharraf ad Ankara sfociando nella Dichiarazione che tra le altre cose impegna

Afghanistan e Pakistan a intensificare l’azione bilaterale nella lotta al terrorismo. Il 1°

aprile 2009 è organizzato un altro meeting per rilanciare il processo di pace. Per il Pakistan

questa volta c’è Asif ali Zardari.

Il 30 dicembre Gül e Ahmadi-Nejad firmano una nota congiunta secondo la quale

viene respinta l’ipotesi che al conflitto in atto in Afghanistan potesse essere data una

risposta meramente militare.

  121  

La Turchia convoca ad Istanbul il 26 gennaio 2010 una conferenza internazionale

dedicata all’Afghanistan alla quale oltre a Gül, Karzai e Zardari, partecipano delegazioni

provenienti da Cina, Iran, Tagikistan e Turkmenistan, anticipando di due giorni il vertice

londinese. Nel dicembre 2010 Karzai propone di istituire un Taliban office in Turchia. La

nuova strategia caldeggiata dagli americani e inglesi di riabilitare i talebani redimibili

viene ben intercettata da Gül che nei mesi successivi propone il suo Paese per l'istituzione

di tale organo diplomatico. Al febbraio 2012 tuttavia sembra che la sede del Taliban office

sarà piuttosto nel Qatar.

Il governo di Erdoğan sull’Afghanistan agisce in una prospettiva di lungo periodo. A

differenza degli europei e dei canadesi (la cui presenza è strumentale a preservare il

proprio status nella Nato e consolidare le loro relazioni con gli Stati Uniti), i turchi sono in

Afghanistan con la presumibile aspirazione di restarci e svolgervi un ruolo di rilievo per un

esteso periodo di tempo. La profondità strategica turca arriva sino al bacino dell’Amu

Darya, il corso d’acqua che tocca Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan e Afghanistan.

Per Ankara l’impegno in Afghanistan ha finito con l’assumere gradualmente una

valenza molto più ampia, rispondendo al desiderio turco di stabilire una presenza ed

esercitare un ruolo significativo in quell’area del mondo.

La Turchia assieme ad altre potenze dimostra un interesse serio e non solo mediatico

nel voler stabilizzare il territorio afghano. Oltre alla Turchia, altri Stati gravitano attorno

all’Afghanistan, in particolare Russia, Cina, Pakistan, India e Iran. Rispetto questi Stati la

Turchia manca di vicinanza geografica all’Afghanistan. La presenza nel Paese porta la

Turchia in diretto contatto e collaborazione con Russia, Cina e India. Le relazioni con le

due super-potenze economiche asiatiche crescono negli ultimi anni, in particolare con la

Repubblica Popolare Cinese.

4. Le relazioni con la Cina, la questione degli Uiguri

Nonostante la paura cinese di spinte secessioniste da parte degli Uiguri (la

popolazione musulmana turcofona distribuita prevalentemente nella regione autonoma

dello Xinjiang) la relazioni tra Turchia e Cina sembrano andare in una buona direzione in

questi ultimi anni. Nel 2009 le critiche di Erdoğan circa la repressione cinese agli Iuguri ha

  122  

portato tensione diplomatica tra i due Paesi:

“We see that Uyghurs living in Turkey along with our people who have felt this

bitterness themselves express their right- eous protest against these events. We have

always seen our Uighur brothers, with whom we have historical and cultural ties, as a

cooperation bridge between us and China, with which we have good relations. Our

expectation is that these incidents which have reached the level of brutality are stopped

immediately and the necessary measures are taken in accordance with universal human

rights concerns. Turkey, a member of the UN Security Council for 2009 and 2010, will

raise the issue in the UN”72.

Qualche tempo dopo Erdoğan definì le repressioni: “genocidio”.

Il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese rispose mettendo in

guardia i cittadini cinesi sul suolo turco, e li consigliò di evitare i luoghi affollati.

Nell’ottobre 2010, il Primo Ministro cinese, Wen Jiabao visita la Turchia. Si pongono

le basi di una discussione circa la cooperazione bilaterale in diversi settori, in particolare

quella economica. Il vice Presidente dell’Assemblea degli Esportatori Turchi, Mustafa

Çıkrıkçıoglu, dichiara che gli anni tenderanno a “the era of China and Turkey”.

Parallelamente la Cina sviluppa interazioni diplomatiche e commerciali con Cipro e

Grecia. Il Ministro degli Affari Esteri cinesi, Yang Jiechi, visita Nicosia negli stessi giorni

in cui il Primo Ministro si trova ad Ankara. Wen Jiabao lasciata la Turchia si reca ad Atene

per discutere circa una partnership strategica tra i due Paesi. La Cina finanzia il Porto del

Pireo, uno dei porti più importanti e strategici del Mediterraneo. Pechino firma accordi con

Bulgaria, Siria e Iran (la Cina è uno dei primi destinatari degli idrocarburi iraniani). La

Cina ha interessi nel Kurdistan Iracheno.

I legami tra Cina con Turchia e Paesi circostanti prevengono Ankara da atteggiamenti

eccessivamente critici circa la minoranza Uigura.

Gli interessi turchi e cinesi si incontrano nell’Afghanistan: Pechino ha investimenti

economici in corso e vuole mantenere il confine afghano prossimo alla regione musulmana

cinese, più stabile possibile.                                                                                                                72 David Babayan, “Pan-turkism and Geopolitics of China”, 21st CENTURY, n.1 (9), 2011, Marzo 2011

  123  

5. L’applicazione di Profondità Strategica alla missione turca in Afghanistan

L’importante presenza turca e gli accorgimenti alla missione in Afghanistan

s’inseriscono in un più ampio progetto di politica estera.

Ritroviamo nella missione elementi chiave di Profondità Strategica, come i tre vettori

di politica estera: Neo-Ottomanesimo, Islam e Panturchismo.

Il Neo-Ottomanesimo è sicuramente il vettore meno presente rispetto gli altri due. Gli

elementi di continuità con il periodo imperiale risiedono nella tradizione secolare delle

relazioni tra Istanbul e Kabul. Inoltre c’è un altro elemento tipico dell’Impero Ottomano

che è oggi presente nella missione afghana. Per secoli i militari ottomani erano presenti in

territori lontani dell’Impero contribuendo alla gestione delle province al fine di mantenere

stabili i territori. L’atteggiamento di un tempo è riscontrabile nella situazione attuale. Sono

tuttavia il Panturchismo e l’Islam i vettori più evidenti nella missione afghana.

Il panturchismo è facilmente individuabile innanzitutto nell’interesse che Ankara

nutre nella zona dell’Asia centrale, portandola all’Ergenekon altaico, culla mitica delle

stirpi turche. Il vettore del panturchismo si manifesta nei tentativi della Turchia di inserirsi

nel gioco afghano attraverso i legami etnico-culturali con la popolazione uzbeka. Gli aiuti

a Rashid Dostum risalgono agli anni ’90 e sono continui sino ad oggi. L’interesse della

Turchia per la zona settentrionale del Paese l’ha portata a istituire il suo terzo PRT nella

provincia dello Shibergan. La popolazione turcofona uzbeka e turkmena sommata, non

raggiunge il 15% del totale della popolazione distribuita in pashtum (42%), tagiki (27%),

hazara (9%)e baluci (2%). Se la Turchia vuole continuare a contare nel territorio insieme

alle altre grandi potenze a seguito del ritiro americano è bene che allarghi il suo sostegno a

un più ampio bacino popolare. Ankara s’impegna nella costruzione di rapporti anche con

leader più disponibili delle comunità settentrionali non turcofone a partire da Mohammed

Mahaqqeq, un hazara che intratterrebbe con Teheran rapporti meno stretti che in passato –

come del resto stanno facendo anche russi e indiani che si muovono nello stesso terreno.

Entra così in gioco il terzo vettore: l’Islam. L’appartenenza alla fede musulmana

avvantaggia la Turchia rispetto i vari contingenti Nato più Russia, India e Cina. Grazie alla

comunanza religiosa i turchi non sono percepiti come invasori. Gli atteggiamenti di

  124  

favorire i pattugliamenti senza mezzi blindati ed elmetti, l’importanza del personale civile

turco nei Prt aiutano la distensione tra turchi e afghani. In nome dell’Islam si cercano

legami con gli Hazara e nei PRT a Kabul e Wardak di maggioranza Pashtun, nessun

afghano viene discriminato e tutti possono usufruire dei progetti portati avanti dalla

Turchia.

Se il panturchismo è sempre stato in auge anche ai tempi dei leader turchi: Demirel e

Suleyman, il richiamo all’Islam è una novità nella politica estera turca e trova la sua linfa

dall’establishment dell’AKP.

  125  

2.b L’Islam in politica estera

La Turchia è abitata da circa ottanta milioni di persone, l’Islam è la religione del

99,8% della popolazione. L’Impero Ottomano esteso ed eterogeneo ai fini della stabilità e

longevità dello stesso ha cercato di perseguire nel tempo una politica liberale nei confronti

dei culti diversi dall’Islam e dell’Islam stesso, così come l’espansione di Roma non

portava all’annullamento degli usi e costumi delle popolazioni assoggettate.

Nell’ultima fase dell’Impero Ottomano tuttavia, i Sultani dalle Moschee di Istanbul

richiamano i fedeli nelle zone dell’Impero all’unità, alla fratellanza e alleanza contro gli

invasori.

Il richiamo non è abbastanza forte da evitare la secessione di popoli lontani dalla sede

del Califfato, benché musulmani. Dalla fondazione della Repubblica e dal coinvolgimento

della Turchia nella zona occidentale del globo, l’Islam è relegato alla sfera privata. La

gestione dello Stato sarà solo laica e nazionalista.

L’attrazione del “Modello Turco”è tuttavia precedente al ventunesimo secolo. Sino al

2001 l’idea di Modello turco apprezzato dal blocco occidentale o dai quei Paesi con una

più o meno grande comunità islamica, era quello di un Paese a maggioranza musulmana,

pur tuttavia caratterizzato da una gestione laica del potere. Musulmano ma laico, moderno

e soprattutto democratico.

Il primo decennio del nuovo millennio debutta con la parola “fine” circa i postumi

della guerra fredda. La logica di subordinazione a un Polo sembrava poter continuare

durante gli anni ’90, tuttavia è la stessa fisica che ci insegna l’assurdità del concetto

dell’unipolarismo. Il mondo si frammenta in diversi poli d’attrazione o repulsione: super-

potenze, medie-potenze, potenze in ascesa, potenze in declino. Globalizzazione e

frammentazione. Villaggio globale o un globo di villaggi.

In un mondo sempre più contorto, i popoli riscoprono le tradizioni e l’orgoglio delle

particolarità e differenze. Il modello sovietico è fallito, quello americano è in declino e

nella sua rozza guerra in Iraq scatena un risentimento tra i musulmani. La guerra in

  126  

Afghanistan mostra un occidente fragile, l’ascesa dei movimenti xenofobi e il razzismo nei

confronti degli immigrati, oggi diffusi dai media, dà l’immagine di un Occidente ostile.

Nuove potenze ascendono nello scacchiere mondiale i cui modelli sono diversi da

quelli precedenti e le cui pretese circa la gestione interna del potere vengono meno rispetto

agli impegni commerciali.

Gli islamici praticanti cercano un ruolo nello Stato. Gli Stati più o meno disorientati

dai rivolgimenti globali utilizzano la religione per camminare su un terreno più

interpretabile, distensivo, pacifico.

La diplomazia turca cosciente del potenziale del proprio Paese e reattiva circa i

rivolgimenti del globo riscopre l’Islam come strumento di politica estera.

1. I progetti dei partiti islamisti turchi da Erbakan a Davutoğlu

La presenza dell’Islam come elemento di politica estera deriva da un impulso da parte

della società turca. A tal riguardo assistiamo ad una dinamica bottom-up, ma solo

successiva ad un primo input top-down.

Lo Stato turco non è caratterizzato da un “governo minimo”. Quasi invasive le

Autorità turche sono presenti in società con l’intento di inquadrarla e indirizzarla verso i

principi fondamentali della Costituzione.

Gli islamici riescono gradualmente a insinuarsi in politica solo in seguito alla volontà

da parte delle Autorità turche di procedere verso l’estensione democratica del diritto di

partecipazione politica che porterà al pluripartitismo e all’entrata nell’arena politica dei

movimenti islamisti.

Questa prima elargizione di diritti e libertà da parte della classe dirigente turca porta le

comunità islamiche a influenzare con le loro istanze i politici della Grande Assemblea

Nazionale i quali a loro volta, tentano di trasformare la politica estera del Paese.

L’Islam era una componente identitaria dell’Impero Ottomano sotto la leadership del

Sultano-Califfo. La fondazione della Repubblica e i decenni di costituzione della stessa

portano gli amministratori turchi ad adottare politiche volte alla secolarizzazione al fine di

  127  

relegare la religione ad un affare personale della coscienza individuale. Il fine delle

Autorità repubblicane è quello di creare uno stato moderno, razionale e rimuovere l’Islam

dalla sfera politica. I vasti programmi di secolarizzazione epurano la religione dalla vita

pubblica e dalle istituzioni politiche. L’Islam tuttavia sopravvive nelle famiglie e nella vita

comunitaria. Gruppi d’individui insoddisfatti delle istituzioni e valori dell’élite continuano

un’opposizione clandestina e privata. Nonostante le politiche di secolarizzazione l’Islam

rimane depositario per regolare la vita sociale delle masse giorno per giorno.

Dalla società vengono a formarsi gruppi organizzati che gradualmente riescono ad

ascendere a luoghi di potere, come l’amministrazione politica. L’evoluzione della classe

politica modifica la politica estera del Paese. La Turchia rimane imbrigliata nella logica

bipolare sino agli anni ’90. Tuttavia prima di allora sono presenti tentativi di smussamenti

della staticità della posizione internazionale turca che aumentano tanto gradualmente

quanto l’inserimento degli islamici in politica.

La transizione al sistema multipartitico dal 1946 e la nascita e l’affermazione delle

formazioni a ispirazione islamista riportano gradualmente l’Islam in politica. Punto di

svolta a favore dell’Islam avviene paradossalmente proprio a seguito del colpo di stato

militare del settembre 1980. Necmettin Erbakan fonderà un nuovo movimento islamico, il

Refah Partisi, che per anni è portatore delle istanze dei musulmani scontenti del sistema

turco.

Il coup d’état del 1980 contribuisce al rafforzamento dei partiti conservatori in quanto

l’atto militare viene intrapreso con l’obiettivo di colpire l’estrema sinistra e le

organizzazioni kurde. Contribuendo all’apertura di nuove scuole coraniche e istituendo

l’insegnamento religioso nelle scuole primarie e licei, i militari auspicano di creare uno

Stato più omogeneo e limare le polarità della società turca indebolendo le comunità

politiche islamiche.

L’islamizzazione della società non intimorisce i turchi: “After all, they [said], what

could be more natural in a world shaken by sudden and far-reaching change than for

  128  

people to turn toward religion or seek to affirm an identity confused by a fast-paced

Westernization imposed from above?”73

L’incremento del peso dell’Islam nelle politiche interne influenza la politica estera

negli anni ’90. L’interesse della Turchia nelle questioni balcaniche, in particolare

l’attenzione alla situazione dei bosniaci, risulta principalmente dagli appelli degli islamici.

“It was exclusively for Islamic appeal that Turkey took an active interest in the

Balkans, and particularly in the Bosnians.”74

Nell’ottobre 1995 la Turchia inaugura ad Ankara un ciclo di conferenze per

coordinare le attività islamiche nelle repubbliche dell’Asia centrale, nel Caucaso, nei

Balcani e nella Turchia stessa. In queste conferenze il Presidente Demirel sottolinea

l’importanza dell’Islam come base per la solidarietà e cooperazione. Mesut Yilmaz, leader

del Partito della Madrepatria dichiara: “Islam remained the rising star of all times”.75

In questi anni gli islamici e gli avversari laici dibattono in discorsi pubblici e nei

media su temi quali i conflitti in Cecenia, Bosnia, Nagorno-Karabakh e il confronto tra

Islam e Cristianesimo. Negli ultimi anni ’80 e ’90 l’ascesa dell’Islam politico contribuisce

alla messa in discussione dell’influenza dell’identità Occidentale sulla Turchia e della

scelta in politica estera dell’orientamento del Paese legato all’Ovest.

I successi elettorali degli anni ’90 del Refah Partisi sono motivati da un insieme di

fattori. Il Primo Ministro Tansu Çiller, la prima donna a guidare la Turchia, molto critica

nei confronti della formazione di Erbakan incolperà tale Partito per le numerose difficoltà

di adesione all’Unione Europea: “The failure to admit Turkey would almost certainly

ensure the Welfare Party’’s victory in the elections.” 76

Anche il leader del Partito della Sinistra Democratica, Demokratik Sol Parti, DSP,

Mustafa Bülent Ecevit, personalità politica storica della Turchia, (che l’Ambasciatore

Mirsilo paragona a Berlinguer, in opposizione a Suleyman Demirel che incarnerebbe

                                                                                                               73 Eric Rouleau, “The Challenges to Turkey,” Foreign Affairs 72 (Nov.- Dec., 1993): 110––126, p. 119. 74 Rouleau, “Turkey: Beyond Atatürk,” Foreign Policy, No. 103, Summer 1996. p. 78. 75 Ibid. 76 Barkey, H. “Turkey, Islamic Politics, and the Kurdish Question”, World Policy Journal, 1996 p. 43.

  129  

piuttosto un Andreotti turco) argomenta il disappunto degli alleati occidentali circa il

Paese, proprio a causa dell’incremento del fondamentalismo islamico.

La politica estera del Refah Partisi è caratterizzata da un forte disappunto agli ideali

dell’Occidente e da un’opposizione ad Israele. La retorica contro Israele è talmente forte

da degenerare in antisemitismo. Come già riportato, lo stesso Erdoğan nel 1993 manifesta

la sua critica agli Stati Uniti e si lascia sfuggire alcune gravi affermazioni antisemita. Il

Partito della Prosperità intende rafforzare le relazioni con i Paesi mediorientali. I membri

del Rafah enfatizzano le differenze religiose e culturali con l’Unione Europea e sono molto

critici circa l’adesione alla stessa. Il 6 luglio 1993 il deputato Hasan Dikici, esponente del

Refah Partisi, dichiarerà:

“The EU is an integration model based on a Christian-Western culture; it is a political

integration; it is an effort to create a European State. It is a Catholic European Union

established according to a Christian ideology. Turkey is a Muslim country. With the aim of

increasing the material welfare of the Turkish people, to try to have a place in the

European Union means to abandon our political, social, and cultural values. If Turkey joins

the EU our sovereign rights will be transferred to the Catholic EU. The decision to be a

member in the EU was made against the will of our nation and should be withdrawn for the

future of our nation.77

Le idee di Necmettin Erbakan non differiscono particolarmente: “Turkey should

cooperate with Muslim countries through which she can realize the goal of being a leader,

instead of being a servant in the EU.”78

Egli accusa le altre formazioni politiche di tradire cultura, tradizione ed essenza turca

imitando i modelli europei accettando un secondo Sèvres. Erbakan promette di modificare

il ruolo della Turchia come leader del mondo islamico stabilendo un’Unione Islamica

verso la costituzione delle Nazioni Unite Islamiche, un’Organizzazione Islamica di Difesa

(modello Nato), una moneta comune per gli Stati musulmani e un mercato comune.

Secondo Erbakan la mancanza di solidarietà tra le nazioni Musulmane deriva dalla

                                                                                                               77 Yücel Bozdaglioglu, Turkish Foreign Policy and Turkish Identity. Editore: Charles G.MacDonald, Florida International University. 2003. pg 134 78 Ibid. p

  130  

mentalità occidentale degli amministratori turchi. La classe politica ”instead of trying to

assume such a leadership role and thus serving the ‘‘Just Order,’’ choose to serve

imperialism and Zionism”79 il mondo musulmano ha bisogno della leadership turca.

L’avvicinamento della Turchia all’UE allontana Ankara da questo ruolo.

La frattura tra laici e islamisti è molto forte in questi anni. Nel breve periodo di

coalizione del Partito della Prosperità con il Partito della Madrepatria, le attitudini in

politica estera dei leader delle due formazioni riflettono la dualità turca tra laici e islamici.

Tansu Çiller visita i leder europei confermando la volontà turca di aderire

all’Organizzazione regionale. Nella prima visita estera ufficiale, Necmettin Erbakan viene

ricevuto dal leader della Fratellanza Musulmana. Tansu Çiller visita istituzioni e capitali

europee, parallelamente Erbakan visita Paesi caratterizzati da un Islam radicale, quali Iran

e Libia e con essi stipula importanti relazioni commerciali. Violando embarghi

internazionali, la Turchia siglerà accordi d’importazioni di gas naturale con Libia e Iran

per un valore di venti miliardi di dollari. La Turchia di Erbakan è molto critica nei

confronti delle Nazioni Unite, organizzazione internazionale percepita come portatrice

degli interessi israeliani e americani. Nel dicembre 1996 la delegazione turca vota contro le

risoluzioni di condanna alle violazioni dei diritti umani in Iran, Corea del Nord, Cina, Cuba

e Libia.

Erbakan si reca in visite ufficiali in Libia, Malesia, Indonesia e Pakistan, rafforzando

il legame della Turchia nel mondo islamico, come mai era accaduto nella storia

repubblicana.

La Turchia discute sulla possibilità di un’instaurazione di una cooperazione di difesa

bilaterale con l’Iran in chiave anti-PKK. Erbakan si oppone all’embargo Onu all’Iraq di

Saddam. La Turchia subirà dei danni economici dall’isolamento iracheno. Ankara farà

pressioni sulle Nazioni Unite affinché inizino le negoziazioni e la riapertura al commercio

del petrolio. Nell’ottobre 1996 il Ministro della Giustizia Sevket Kazan, criticando le

sanzioni Onu le bollerà come ingiuste e dichiarerà “it is Turkey’’s duty to stand by its

friend”80.

                                                                                                               79 Ibid. pg 134 80 Richard Myddelton, “Turkey Pushes East,” The Middle East, October 1996.

  131  

Il Refah porta avanti il progetto D-8, Developing Eight, un’organizzazione di

cooperazione economica tra otto Paesi islamici circa le aperture commerciali, in particolare

nel mercato energetico, la promozione del turismo e la cooperazione in materie bancarie e

di privatizzazioni. I Paesi pensati sono Turchia, Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran,

Malesia, Nigeria e Pakistan.

2. Il Nuovo approccio dell’AKP, la Turchia nel nuovo millennio

La chiusura del Partito della Prosperità e la fine del ventesimo secolo portano ad un

ripensamento della strategia degli islamici praticanti. L’AKP, formazione che intende

presentarsi come riformatrice, nuova, moderna e dinamica, prenderà nette distanze dai

partiti islamisti suoi predecessori. Ribadendo l’intendo di voler preservare il carattere laico

del Paese respingerà le critiche dell’intento di voler stabilire la Sharia nel Paese.

Il superamento del Patto di Varsavia libera la Turchia del suo principale nemico ad

Est, rendendola centro di una serie di Paesi ad essa inferiori dal punto di vista militare ed

economico. La Turchia parallelamente migliora le relazioni con l’Unione Europea e

intraprende politiche di vicinato. La fine dell’Unione Sovietica e della Federazione

Jugoslava portano allo scatenarsi di conflitti nella penisola Balcanica e nel Caucaso al cui

coinvolgimento la Turchia non può sottrarsi. Il coinvolgimento della Turchia nel Medio

Oriente coinvolge il Paese in dinamiche di nuova complessità.

Nel 1999 l’Unione Europea accetta la candidatura ufficiale della Turchia.

Dalla campagna elettorale in vista delle elezioni del 2002, l’Akp manifesta l’intento di

far aderire la Turchia all’Unione Europea, contribuendo al consenso elettorale di un popolo

entusiasta nel partecipare al progetto europeo.

Parallelamente un uomo molto vicino ad Erdoğan, Ahmet Davutoglu, teorizza

l’opportunità della Turchia di sfruttare la sua posizione geografica e la sua tradizione

storico-culturale per intraprendere una politica di apertura con le Nazioni vicine.

Criticando the Clash of Civilization di Samuel Huntington, il Professore di Relazioni

Internazionali sostiene: “the history of civilisations is not composed only of clashes. [...] A

comprehensive civilisational dialogue [...] is needed for a globally legitimate international

  132  

order81”.

Secondo Davutoglu la Turchia deve essere un ponte tra occidente e mondo

Musulmano, la cui missione deve essere quella di mediare tra i due mondi e contribuire

alla pace regionale e globale.

La tradizionale repulsione dell’élite repubblicana a collaborare con i vicini

mediorientali viene superata dalla nuova missione turca di cercale il ruolo di mediatrice,

Stato Musulmano e vicino agli occidentali. Nonostante gli evidenti avanzamenti verso

l’adesione all’UE, si procede verso una maggiore indipendenza dall’occidente, in

particolare dagli Stati Uniti.

Nelle relazioni con il Medio Oriente la Turchia fa largo uso di soft-power economico,

politico e culturale.

3. L’allontanamento dall’Unione Europea, Stati Uniti ed Israele

Dal 2002 al 2005 il Parlamento turco approva una serie di riforme di armonizzazione

all’Unione Europea per fare arrivare la Turchia più velocemente verso il traguardo del

rispetto dei criteri di Copenhagen.

Nelle visite ufficiali Erdoğan è accolto con netto sostegno all’adesione della Turchia

dai leader italiani, inglesi, spagnoli, belgi e persino greci. Perseguendo la dottrina dello

“zero problemi con i vicini”, i rapporti tra Ankara e Atene tendono alla distensione.

George W. Bush sostiene l’alleato turco e il Commissario Europeo all’allargamento,

Günter Verheugen, plaude gli avanzamenti turchi.

I Paesi che sono meno entusiasti della possibilità di una Turchia europea sono Francia,

Germania e Austria. L’ascesa delle destre in questi tre Stati porta un atteggiamento molto

critico nei confronti della Turchia. Le destre, in particolare l’UMP, si dimostrano

inflessibili nei riguardi dei turchi, strumentalizzando la paura di parti dell’elettorato circa

un incremento della popolazione musulmana.

Contestualmente l’elezione del nazionalista Tassos Papadopoulos nella Cipro greca

del 2003 pongono il termine alla graduale distensione tra Ankara e Nicosia. Papadopuolos

                                                                                                               81 Ahmet Davutoglu, 'The Clash of Interests; an Explanation of the World (Dis) Order”, Perceptions (Ankara) Vol. 2, No.4 (1997-98).

  133  

si oppone alla riunificazione dell’isola in vista dell’ingresso dell’UE. Il referendum del 24

aprile 2004 circa il Piano di Kofi Annan, viene bocciato dai ciprioti greci i quali entrano in

Unione Europea, ma senza Cipro Nord.

Ankara entrerà in conflitto con Nicosia, la quale pretende di essere riconosciuta dalla

Turchia, pena ogni veto possibile circa l’adesione.

La Turchia inizia a percepire l’adesione all’Europa con un orizzonte, benché la

Turchia faccia molti sforzi per accedervi esso rimane sempre distante. In due anni i

sondaggi turchi dimostrano un calo di entusiasmo della popolazione nel progetto europeo,

se nel 2004 il 67,5% dei turchi sosteneva con forza l’ingresso della Turchia in Europa,

vedendolo come una delle priorità governative, nel 2005 tale quota scende a 54,7% e nel

2006 solo 32,2 punti percentuali.

Nel novembre 2005 i conservatori turchi rimangono negativamente colpiti dalla

sentenza dei giudici di Strasburgo.La Cedu nel caso Leyla Şahin v. Turchia, non

condannano quest’ultima circa le restrizioni a Leyla Şahin sul suo diritto ad indossare il

velo. Alla studentessa di medicina dell’università di Ankara era stato impedito di

frequentare le lezioni velata.

Intanto Romania e Bulgaria si apprestano ad entrare nell’Unione e le contrattazioni

con la Croazia sono caratterizzate da una inaspettata rapidità. Il nuovo Commissario

europeo all’allargamento, Olli Rehn, sostituito Verheugen assume un atteggiamento molto

critico nei confronti della Turchia recriminando in particolare l’articolo 301 del codice

penale che perseguita coloro che insultano la “Turchità”. Per tale articolo sono punibili il

premio Nobel Orhan Pamuk e il giornalista torco-armeno Hrant Dink.

Con l’ascesa all’Eliseo di Nikolas Sarkozy nel 2007 il cammino della Turchia verso

l’adesione viene interrotto. Temi come l’Unione Europea saranno minoritari nelle

campagne elettorali turche.

La Turchia criticherà i proclami xenofobi e le politiche altamente restrittive circa le

migrazioni mediterranee difendendo le comunità islamiche in Europa, ricevendo grandi

consensi nei paesi destinatari delle migrazioni in particolare la Germania, dove la comunità

turca conta circa tre milioni e mezzo di individui.

  134  

I rapporti con gli Stati Uniti subiscono una flessione nel 2003 in occasione della

guerra in Iraq. I rapporti tra Washington e Ankara sono ottimi da oltre mezzo secolo,

soprattutto dopo l’attacco alle Torri Gemelle il Presidente Ecevit manifesta tutta la

solidarietà agli Stati Uniti sostenendo da subito la missione di pacificazione afghana.

Tuttavia l’intervento in Iraq del 2003 si scontrava con un’opinione pubblica contraria

alla guerra e rischi circa la sicurezza nazionale nel caso di intervento dalla regione kurda di

Turchia. Nonostante i rapporti tra Turchia e il regime Baathista di Saddam Hussein fossero

tutt’altro che amichevoli, la destabilizzazione del nord iracheno sarebbe stato troppo

rischioso sia secondo il Governo così come per i militari. Negli embarghi iracheni e nella

guerra del Kuwait la Turchia aveva già avuto molti danni economici.

Inoltre l’intervento in Iraq avrebbe compromesso i rapporti con i Paesi arabi con i

quali iniziava una graduale distensione e cooperazione.

Nel gennaio 2003 inizia un’operazione negoziale portata avanti da Abdullah Gul. Gul

gestisce un coordinamento di diversi Paesi mediorientali e dialoga con l’Iraq, al fine di

soddisfare le richieste dell’Onu circa il disarmo iracheno. L’11 gennaio il Ministro turco

Kürşad Tüzmen vola a Baghdad. Il 24 gennaio si riuniscono ad Istanbul i Ministri degli

Esteri di Turchia, Giordania, Siria, Arabia Saudita, Iran, Egitto. Il 3 febbraio in una

missione segreta si recano ad Ankara il deputato iracheno Taha Hassan Ramadan e il

Ministro degli Affari Esteri del governo di Saddam Naji Sabri.

Il rifiuto della Grande Assemblea Nazionale del marzo provoca l’ira degli americani.

Tuttavia il “gran rifiuto” turco all’appoggio americano e l’atteggiamento sempre più

d’opposizione ad Israele e di difesa ai Palestinesi mostra una Turchia orgogliosa, forte e

vicina alle istanze dei musulmani.

La “zero problems policy” di distensione ai paesi confinanti allontanano Ankara da

Tel Aviv.

L’apice dello scontro tra i vecchi alleati è la questione della Freedom Flottiglia. Nella

vicenda del blitz israeliano contro la Mavi Marmara hanno perso la vita nove attivisti, otto

dei quali turchi, uno di doppia cittadinanza statunitense e turca. La denuncia di Erdoğan

  135  

contro Israele è stata plateale e durissima, costringendo Tel Aviv a piegarsi a fronte di

alcune richieste del leader turco, anche sotto consiglio del Segretario di Stato americano:

Hillary Clinton.

L’interesse di Ankara sulla regione mediorientale la spinge a difendere palestinesi ed

Hamas: in una fase storica di declino egiziano, la potenza competitor in regione è l’Iran,

altro Stato non arabo, come la Turchia, ma a differenza di questa, sciita.

I rapporti tra Turchia e Israele erano intensi e cordiali per tutti gli anni ’90 sino a

raggiungere importanti accordi di cooperazione militare. Le relazioni iniziano ad incrinarsi

nel 2000, anno in cui Yossi Sarid, ministro dell’educazione israeliano propone di inserire

nei programmi di storia il “genocidio” armeno; poco dopo scoppia l’intifada al-Aqsà

sfociata in un’ondata d violenza fra israeliani e palestinesi che colpisce molto i turchi. Nel

2003 Erdoğan descrive la politica israeliana verso i palestinesi come “terrorismo di Stato”.

Israele ha sempre sospettato circa le idee personali di Erdoğan su Israele. Il Primo Ministro

turco sin dalla formazione è stato vicino ad ambienti molto critici di Israele, alcune figure

del Refah Partisi hanno avuto anche esternazioni antisemite, e anche un suo discorso del

1993 assume caratteri antisemiti e antiamericani.

Israele nega alla Turchia il ruolo di mediatore nella crisi siriana del 2004 e nel

conflitto di Gaza nel 2008. Ankara migliora i rapporti con Paesi nemici di Israele in primis

la Siria, l’Iraq e soprattutto l’Iran.

Nel 2005-06 vengono fuori notizie giornalistiche circa il sostegno israeliano al

movimento separatista kurdo Partîya Karkerén Kurdîstan, PKK. L’8 e il 9 settembre 2007

aerei israeliani attaccano la Siria e, in circostanze non chiarite, sulla via di ritorno violano

lo spazio aereo turco.

A seguito dell’operazione Piombo Fuso (dicembre 2008-gennaio 2009) Davos è sede

di un duro scambio tra Shimon Peres e il Primo Ministro Turco Erdoğan. Erdoğan

riconosce Hamas come organizzazione legittima, scelta democraticamente dai Palestinesi

che lotta per difendere la sua terra. Il leader di Hamas: Isma’il Haniyya, nutrendo profonda

stima per il leader dell’Akp come atto di riconoscenza per le posizioni su Gaza, chiama suo

nipote Recep Erdoğan.

  136  

Ciò che intimorisce particolarmente Israele è la distensione tra Ankara e il Paese che

più teme: l’Iran. Nel giugno 2010, pochi giorni dopo la vicenda della Freedom Flotilla,

Turchia e Brasile ( a seguito di un accordo firmato a Teheran di mediazione di uno

scambio di combustibile nucleare) si oppongono all’inasprimento di sanzioni Onu contro

l’Iran.

4. L’Islam nelle relazioni internazionali.

Il vettore religioso, congiunto ad i legami con i popoli panturanici e alla tradizione

ottomana collega la Turchia a zone strategiche del globo. Notiamo che le potenze che

hanno avuto un ruolo di egemonia regionale o globale si siano prodigate al fine di

costituire una potenza marittima. Ciò è lampante nell’Impero Romano, nella Repubblica

Veneziana, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito ed in ultimo gli Stati Uniti.

La Turchia attraverso i legami con i popoli musulmani riesce a inserirsi negli otto

stretti strategici controllati da Stati islamici: Dardanelli, Bosforo, Suez, Bab-el-Mandeb

(Tra Yemen e Gibuti), lo stretto di Hormuz (tra Iran e Oman e Emirati Arabi Uniti), gli

stretti indonesiani di Malacca (con la Malesia), Sonda e Lombok, e in ultimo lo stretto di

Gibilterra.

Negli anni ’50 il viaggio di Tito tra i Paesi non-Allineati porta il leader della

Federazione Jugoslavia a comprendere l’importanza della popolazione musulmana nel suo

territorio al fine di mostrarsi come Paese multiculturale. L’elemento musulmano aiuta la

diplomazia tra Belgrado e gli stati islamici, in primis Egitto ed Indonesia

Il fattore islam nello Stato turco ha aiutato questo Paese nelle relazioni con le

Repubbliche centro-asiatiche, all’interno delle quali è sempre stata rilevante la componente

islamica. Il modello turco fungeva da esempio positivo di controllo dell’Islam che relegato

alla sfera privata non manifestava elementi violenti.

Affascinato dalla figura di Mustafa Kemal Atatürk, Habib Bourguiba, si ispira al

modello moderno e secolare di Turchia per applicarlo alla Tunisia post coloniale.

Il modello dell’Islam di Turchia nella fase pre-Akp era quello di un Paese laico,

gestito dai kemalisti, capace di relegare l’Islam a un affare privato lontano dalla gestione

  137  

statale. L’ascesa del partito di Erdoğan ha portato gli islamici praticanti in politica. Essi,

benché fedeli al secolarismo riscoprono la religione come elemento di unione e comunanza

tra i fedeli in patria e oltre confine.

Il turco Ekmeleddin Ihsanoglu dal 2005 è Segretario Generale dell’Organizzazione

della Conferenza Islamica. L’OCI è la seconda organizzazione intergovernativa più grande

al mondo dopo le Nazioni Unite. L’Organizzazione della Conferenza Islamica è composta

da cinquantasette stati membri tra i quali Somalia e Palestina. Sono presenti cinque Stati

osservatori tra i quali Cipro Nord, Bosnia-Erzegovina e Russia la cui candidatura sino al

2005 (anno di adesione al ruolo di osservatore) è stata sostenuta fortemente dalla Turchia.

“The Organization is the collective voice of the Muslim world and ensuring to

safeguard and protect the interests of the Muslim world in the spirit of promoting

international peace and harmony among various people of the world”82.

L’Organizzazione vuole essere un mezzo di dar voce alla Ummah mondiale. La

Turchia nell’ultimo decennio ha un ruolo molto forte nell’organizzazione. Membro

dell’Organizzazione dalla fondazione della stessa, 1969, ospita due importanti organi

sussidiari: The Statistical, Economic and Social Research and Training Centre for Islamic

Countries, SESRIC (Ankara) e The Research Centre for Islamic History, Art and Culture,

IRCICA (Istanbul).

Ad Istanbul ha anche sede l’istituzione affiliata: Islamic Conference Youth Forum for

Dialogue and Cooperation,ICYF-DC.

L’elezione del Professore Ekmeleddin Ihsanoğlu avviene nella trentunesima

Conferenza dei Ministri degli Esteri ad Istanbul nel giugno 2004, nella prima elezione

liberamente condotta nella storia dell’OCI. Dalla Conferenza di Istanbul la Turchia assume

anche la Presidenza a rotazione sino al 2005 e sostiene attivamente l’operato del Segretario

Generale uniformandosi alle riforme promosse dall’Organizzazione.

Nel maggio 2007 ad Islamabad viene firmata la Risoluzione numero: 6/34-P circa la

situazione problematica dei musulmani, abitanti di Cipro Nord. Nella stessa occasione

                                                                                                               82 www.oic-oci.org, about OIC. Visionato giugno 2011.

  138  

viene firmata la Risoluzione numero 3-34-MM sulla situazione delle minoranze

musulmane turche nella Tracia occidentale.

La Turchia è l’unico Paese musulmano insieme al Senegal ad aver scolpito la laicità

tra i diritti fondamentali della Costituzione. Dall’ascesa dell’Akp e dell’incremento del

ruolo turco in regione, Ankara riceve dagli Stati dell’Oci una maggiore considerazione e

fiducia. Ciò è visibile dalla nomina ed elezione di Isanoglu, dalla Presidenza di turno

accordata alla Turchia, le risoluzioni vicine a Cipro Nord e alle minoranze turcofone, ma

anche dalla crescente cooperazione con i Paesi dell’area, in primis con gli Stati membri del

Consiglio di Cooperazione tra gli Stati Arabi e del Golfo.

Al di là dei numerosi vantaggi economici e commerciali, dal punto di vista

diplomatico operarsi verso una politica di collaborazione e fiducia con l’Arabia Saudita è

totalmente coerente con la dottrina dello “zero problemi con i vicini” e ciò si evince

considerando l’attore iraniano.

L’ultimo decennio è caratterizzato da un’apertura di storica importanza tra Turchia ed

Iran. I due Paesi sono nemici dal 1979 ovvero dalla rivoluzione di Khomeini che ha portato

Teheran a posizioni anti-americane e di riflesso avverse ad Israele e Turchia. Nel nuovo

millennio Ankara e Teheran collaborano in diversi settori decuplicando dal 2000 al 2008

gli interscambi economici.

Ciò che dapprima avvicina i due Paesi è la lotta al PKK e al PJAK, i due movimenti

separatisti di ispirazione marxista-leninista, il primo turco, il secondo iraniano. L’Iran è

detentore delle seconde maggiori riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Gli embarghi

e le sanzioni internazionali hanno paradossalmente immunizzato Teheran dalla crisi

internazionale del 2008. Il Paese tuttavia ha bisogno di esportare idrocarburi e aprire la sua

economica. Anche l’Iran è portatore di geni imperiali. Gli iraniani orgogliosi della propria

storia e cultura, vivono tuttavia un complesso di accerchiamento. Ciò è dato dal sentimento

di essere un’isola sciita in un mare sunnita, dalle pesanti ritorsioni americane e la paura di

un attacco del Paese. La sensazione di accerchiamento deriva da traumi storici, il più

lontano è l’invasione di Gengis Khan, il primo esempio in cui un nemico venuto da lontano

penetrava nel Paese con una forza distruttiva provocando rivolgimenti interni ed epocali.

  139  

Oltre l’invasione mongola, esempi recenti di distruzione causati da un nemico venuto oltre

confine sono la deposizione dello Scià di Persia in favore di un governo filo-americano,

seguito da disordini interni e bagni di sangue, e ancora più recentemente la guerra Iran-Iraq

dal 1980 al 1988. La Prima Guerra del Golfo vede l’aggressività di Saddam Hussein

Scatenarsi contro un’Iran già segnato dalla rivoluzione islamica. L’Iraq intende

approfittare della situazione di transizione e debolezza iraniana per prendere controllo di

posizioni strategiche mediorientali. Appoggiato da gran parte della comunità

internazionale timorosa nel propagarsi della rivoluzione (in primis gli Stati Uniti

d’America) Saddam Hussein porta avanti una guerra devastante. L’attuale classe dirigente

iraniana, in primis Ahmadinejad rimangono segnati da tale guerra. Tale generazione era

presente al fronte di tale guerra violentissima.

La Turchia guadagna la fiducia di Teheran nell’ultimo decennio. Da un punto di vista

delle relazioni internazionali si libera da un ruolo di subordinazione a Washington, si

allontana da Israele per distendere le relazioni con Hamas e con la Siria sciitia. Erdoğan e

Lula inoltre si oppongono alle sanzioni da parte del Consiglio di Sicurezza verso l’Iran

circa l’arricchimento dell’uranio.

L’Iran ha bisogno di partner commerciali e trova molto appetibile il progetto Nabucco

che trasporterebbe dal 2014 trentuno miliardi di metri cubi d gas naturale all’anno dalla

Turchia verso l’Europa occidentale attraverso Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria.

La Turchia è sunnita, ma laica e fa dell’Islam uno strumento pacifico di politica estera

ma non fa proselitismo. Ankara tuttavia teme che l’avvicinamento all’Iran possa provocare

l’Arabia Saudita, la quale rivaleggia su diversi fronti (in primis economici) con il Paese

sciita. Ryad e Teheran competono sul Golfo Persico/Golfo Arabo. I Sauditi sono

interdipendenti agli Stati Uniti. Ryad vede l’Ayatollah come figura eretica.

La Turchia attraverso l’Organizzazione della Conferenza Islamica e le relazioni con il

Consiglio di Cooperazione del Golfo manifesta un intento pacifico con i Paesi del Golfo. I

sei Paesi del Golfo, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Kuwait, Bahrein e Qatar,

contano una popolazione inferiore ai quaranta milioni di abitanti per un reddito medio di

  140  

quarantamila dollari l’anno, tra i più elevati al mondo. Ricchi di petrolio e gas naturale, e

dunque di riserve finanziarie, questi Paesi ritrovano un partner interessante nella Turchia.

La crisi finanziaria del 2008 porta questi Paesi a cercare collaborazioni più

differenziate rispetto le economie occidentali meno in crescita. La Turchia assieme alle

potenze asiatiche rappresenta uno dei Paesi con i quali crescono maggiormente gli

interscambi.

Nel 2006 gli interscambi tra Turchia e Paesi del Golfo raggiungono i 6,1 miliardi di

dollari. Le esportazioni Turche riguardano maggiormente prodotti manifatturieri, ferro e

acciaio; prodotti tessili e alimentari. I Paesi del golfo esportano minerali, petrolio, gas

naturale, pelli animali e hydes.

Nel giugno 2007 in Turchia operavano centoquarantuno compagnie saudite e

quarantotto degli Emirati. Questi Paesi sono attivi nelle privatizzazioni turche, un esempio

è l’acquisizione della Turkish Telecom da parte dell’Oger Telecom degli Emirati Arabi

Uniti.

I rapporti con il Qatar nel 2006 raggiungono la cifra di mezzo miliardo di dollari di

interscambi. La Compagnia di Petrolio Turca collabora nell’esplorazione di gas naturale

nelle acque territoriali del Paese.

Il Commercio con gli Emirati Arabi Uniti è cresciuto moltissimo nel secondo lustro

del nuovo millennio. Se sino agli anni ’90 i livelli di cooperazione economica erano molto

modesti, nel 2007 le cifre oscillano oltre i due miliardi di dollari, facendo degli E.A.U.

l’ottavo mercato di esportazioni turco.

Nel 2006 l’interscambio con l’Arabia Saudita era pari a 3,5 miliardi di dollari. I

contratti commerciali aiutano le relazioni tra i due Paesi. L’Arabia Saudita nel 2007

diviene il ventunesimo mercato di esportazione per la Turchia, e il sedicesimo partner di

prodotti importati.

Le imprese di costruzioni turche, il settore finanziario e il turismo rappresentano delle

nuove opportunità economiche per espandere le relazioni tra Ankara e i Paesi del Golfo.

Tra i 2002 e il 2006 il 17% dei progetti esteri totali vinti da imprese turche sono impegnati

  141  

nei Paesi del Golfo. Il 27% di tutti i progetti di costruzioni di imprenditori esteri del Golfo

sono gestiti da imprese turche.

Tredici banche turche, alcune delle quali cooperanti con le attività di finanza islamica

rappresentano uno dei maggiori centri finanziari nel golfo. Le serie televisive turche,

diffuse in questi Paesi sono un mezzo di conoscenza della Turchia e incentivano l’interesse

del Paese da parte degli arami. Il turismo verso la Penisola Anatolica cresce rapidamente

negli ultimi anni. Il numero complessivo di visitatori sauditi pari a 55,636 nel 2008 cresce

a 66,938 nel 2009 per arrivare alla cifra di 84,934 nel 2010. Per incentivare il turismo la

Turchia facilita la politica delle visa di breve termine nei confronti dell’Arabia Saudita.

Nel 2010 circa cinquantacinquemila turisti degli Emirati Arabi Uniti hanno visitato la

Turchia. Anche dal Kuwait la Turchia sta emergendo come importante meta di

destinazione. Parte rilevante del turismo verso la Turchia è destinato al pellegrinaggio.

Anche i turchi visitano questi Paesi in maniera crescente. La ragione principale è

legata ai cittadini turchi che per motivi di lavoro abitano negli Stati del Golfo. Secondo il

Ministero del Lavoro e della Sicurezza Sociale di Turchia, nel 2011 in Arabia Saudita

vivevano centoquindicimila turchi, settantamila dei quali lavoravano nel Paese,

principalmente nel settore delle costruzioni. Negli EAU vivono cinquemilacinquecento

turchi, nel Kuwait quattromila, nel Qatar duemila, nel Bahrain settecento e nell’Oman

cinquecento.

I governi di entrambe le parti hanno accompagnato la crescita delle relazioni

commerciali con l’attivazione di forum regolari ad Alti livelli d’interazione. Il 2003 è

l’anno del Saudi-Turkish Business Council. L’Autorità degli investimenti del Qatar e

l’ISPAT (Investment Support and Promotion Authority of Turkey), nel 2008 siglano un

importante memorandum di cooperazione su diversi settori di investimento. Nello stesso

anno un altro memorandum viene firmato tra la Turchia e i Paesi del golfo al fine di creare

gruppi di lavoro per aree chiave in ogni settore strategico di partnership.

Diplomazia e interessi strategici accompagnano i miglioramenti economici. Ciò lascia

pensare che in tali relazioni la diplomazia non sia funzionale esclusivamente

all’economica. La diplomazia tra Turchia e Paesi islamici trova senso in se stessa. Il

  142  

miglioramento delle relazioni con questi Paesi rafforza ulteriormente il ruolo della Turchia

in regione e più in generale tra i Paesi islamici.

Il 19 agosto 2011, in pieno Ramadan, il Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan visita

la devastata Somalia.

La sua visita è preceduta da un Summit ad Istanbul tra i cinquantasette paesi

dell’Organizzazione della Conferenza Islamica circa la crisi somala. La Turchia si fa

promotrice di un’energica politica di cooperazione con il Paese del Corno d’Africa. Nella

conferenza dell’OCI, Erdoğan fa appello alla necessità dell’aiuto in Somalia criticando

“millionaires who drive luxury cars and the "Western world's" arrogance for ignoring the

plight of the poor.”

Condannando il disinteresse di molti Paesi ricchi e il modello di capitalismo

occidentale, Erdoğan sostiene che l’emergenza somala dev’essere fronteggiata dall’intera

popolazione mondiale, non solo dai musulmani.

"If you ride a luxury car you should be generous enough to people who are struggling

with hunger".

Per i musulmani il periodo di Ramadan è un’occasione dei più agiati di aiutare i

poveri attraverso la carità, il quale rappresenta uno dei cinque precetti dell’Islam.

Tra i Paesi islamici la Somalia tra guerra, instabilità e in ultimo la carestia di

quest’estate rappresenta il più povero tra i Paesi islamici.

Erdoğan e Davutoglu, accompagnati dalle loro famiglie visitano uno dei campi

profughi che ospita cinquecentomila persone.

Erdoğan è il primo leader non africano che a distanza di vent’anni visita la Somalia.

Attraverso l’apertura di ambasciate e consolati, nell’organizzazione di borse di studio

per studenti somali verso le università e scuole nella penisola anatolica, attraverso i soldi

della cooperazione volta alla costruzione di strade, dighe, ospedali, la Turchia si inserisce

tra le potenze emergenti con interessi nel Continente più ricco di materie prime, l’Africa.

La cooperazione civile turca è accompagnata dalla presenza militare. Il 25 gennaio

2012 il Parlamento turco rinnova la partecipazione della Marina turca all’operazione di

  143  

contrasto ai pirati somali. Quest’atto parlamentare rappresenta trentaquattresima

autorizzazione del governo all’invio delle Forze Armate all’estero dal 1950. La Marina

turca è presente nel Golfo di Aden dal febbraio 2009. Quattro forze internazionali operano

in regione: EUNAVFOR Atlanta (UE), NATO's Standing Naval Maritime Group One,

French-commanded Combined Task Force 150 e Combined Task Force (CTF) 151. La

Turchia è parte del Combined Task Force 151, e, alternandosi a Stati Uniti e Corea del

Sud, ha alle volte assunto il comando dell’operazione. L’interesse della Turchia alla

Somalia è finalizzata a inserirsi nella regione africana, ma non solo. L’attivismo di

Erdoğan in Somalia mostra una Turchia attenta ai bisogni dei musulmani.

La Turchia guidata dall’Akp è protagonista nell’OCI, coopera con Malesia, Paesi del

Golfo, Iran, Nord Africa, Kosovo, Albania e Bosnia-Erzegovina.

La Turchia si presenta come Paese centrale nella Cintura Planetaria dei Paesi a

maggioranza musulmana. Se il modello turco sino agli esordi del ventunesimo secolo

rappresentava una Turchia a maggioranza islamica e totalmente secolarizzata, oggi parlare

di modello turco equivale a parlare di una Turchia che salvaguardia laicità e modernità, ma

al cui interno gli islamici possono praticare le libertà di culto e accedere alle cariche più

alte della politica e diplomazia.

La Turchia guidata dall’Akp diviene un modello studiato, elogiato e citato da parte

delle formazioni risultate vincitrici dalle prime elezioni democratiche successive alla

Rivoluzione Araba in Tunisia ed Egitto.

La Turchia della diplomazia di Davutoglu ha osservato attentamente i rivolgimenti di

Tunisia, Egitto e Libia, assumendo un ruolo attivo nei momenti più intensi, mostrando una

vicinanza ai popoli in agitazione, in particolare quello egiziano, e una moderazione

nell’intervento militare in Libia, in aperta opposizione alla Francia.

L’attivismo turco in Nord-Africa, capace di reagire ad eventi inaspettati s’inserisce

nell’ultimo vettore di politica estera enunciato da Ahmet Davutoğlu in Profondità

strategica, il Neo-Ottomanesimo, ovvero la riscoperta delle tradizioni e del passato

imperiale che riportano la Turchia a contare in Medio Oriente, Nord-Africa e Balcani.

  144  

2.c Neo-Ottomanesimo

“Io non sono un neo-ottomano”. Nelle sue parole e intenzioni Ahmet Davutoğlu vuole

evitare malintesi con i giornalisti. La negazione del carattere neo-ottomano viene più volte

affermata dai primi mesi del suo mandato, in particolare a seguito della missione in Libia

nel novembre 2009 e ribadito ai giornalisti di Balkan Insight nell’aprile 201183.

1. Definizione

Il termine Neo-Ottomanesimo, coniato in Grecia in seguito all’occupazione delle

Forze Armate turche della parte settentrionale di Cipro nel 1974, nasce con una

connotazione dispregiativa. L’idea del ritorno del Sultano conquistatore e aggressivo il cui

intento è ristabilire il suo controllo all’interno dei confini imperiali. Il termine Neo-

Ottomanesimo è utilizzato ogni volta che si intende mostrare una Turchia meno vicina agli

Stati Uniti e all’Occidente, più propensa ad una riscoperta dell’Islam e ad un

avvicinamento a Paesi quali Iran e Siria.

La connotazione negativa deriva altresì da un’interpretazione interna turca della

memoria storica della fase ottomana. Secondo i kemalisti, il periodo pre-repubblicano era

caratterizzato da arretratezza, debolezza e oscurantismo. E’ la gestione ottomana, in

particolare nell’ultima fase di Abdul-Hamid II che ha portato l’Impero sull’orlo del baratro

lasciando che la Turchia fosse invasa e frammentata da potenze straniere.

Il capo della diplomazia turca rigetta queste etichette dichiarando:

“The notion of neo-Ottomanism is not innocent; they have deliberately used this term

in an attempt to reduce our influence in the Balkans and to intimidate people.” 84

La volontà di Ankara è il protagonismo e l’attivismo nelle regioni mediterranea,

caucasica e mediorientale. La Turchia porta avanti una nuova politica estera, tenace, verso

i Paesi che un tempo erano compresi nell’Impero Ottomano. Tuttavia i termini del

                                                                                                               83 “Davutoglu: ‘I’m Not a Neo-Ottoman”, http://www.balkaninsight.com/en/article/davutoglu-i-m-not-a-neo-ottoman, 26 aprile 2011 84 Etyen Mahçupyan, Neo-Ottomanism, 15 settembre 2011, Today’s Zaman

  145  

perseguimento di tale politica estera differiscono dalla connotazione aggressiva e

oscurantista attribuita alla parola Neo-Ottomanesimo. La priorità securitaria e il

militarismo della fase di gestione del potere kemalista vengono scalzati dal Soft-Power

della nuova diplomazia dell’AKP. La nuova politica estera pone le basi della dottrina dello

“zero problemi con i vicini”, una diplomazia più trasparente e idealistica, a tratti

wilsoniana che facilita i contratti commerciali tra privati, la cooperazione allo sviluppo

gestita dalla TIKA e i forum culturali e di amicizia. Inoltre l’interpretazione del periodo

ottomano da parte degli islamici praticanti differisce dalla visione dei laici kemalisti.

Ahmet Davutoğlu considera la gestione ottomana in termini positivi non solo nella regione

anatolica. A seguito dei suoi viaggi nei Balcani l’accusa di ritrovato imperialismo turco

viene lanciata da molti critici della Turchia.

In Bosnia-Erzegovina in particolare, la nuova politica estera di Ankara viene criticata

dai popoli costitutivi croato-cattolici e serbo-ortodossi e anche (sebbene con toni

decisamente più pacati) da una parte dei Musulmani-bosgnacchi. I non-musulmani temono

un rafforzamento della componente bosgnacca a loro discapito e un colonialismo turco. I

bosgnacchi più laici, quelli che per intenderci nel periodo jugoslavo si dichiaravano

appartenenti al popolo jugoslavo piuttosto di definirsi Musulmani o bosgnacchi, criticano

l’attivismo non disinteressato turco, visto sia come un tentativo di sfruttamento del Paese

sia soprattutto come azione che possa indebolirne la laicità. La presenza turca nel Paese è

molto evidente tuttavia non del tutto rappresentativa della società di Turchia. I Turchi che

visitano o abitano in Bosnia-Erzegovina sono spesso conservatori e musulmani devoti. Il

15% dei turisti che scoprono la Bosnia-Erzegovina sono turchi, spesso pellegrini,

rappresentanti di un Islam conservatore. Le studentesse e gli studenti turchi che abitano

Sarajevo provengono frequentemente da contesti famigliari conservatori. I ragazzi

iscrivendosi nelle facoltà bosniache, in particolare ingegneria, intendono evitare il servizio

militare. Le ragazze spesso frequentano la Facoltà di Studi Islamici di Sarajevo, Fakultet

Islamiskih Nauke, dove è possibile e auspicabile l’uso del velo a differenza delle università

turche. La storia del periodo ottomano da parte dei critici della presenza turca nei Balcani

viene presentata dunque in termini negativi, come l’origine delle divisioni dei popoli

balcanici.

  146  

Davutoğlu risponde a tali critiche:

“My perception of history in the Balkans is that we have to focus on the positive

aspects of our common past. We cannot create a better future by building on a negative

view of history”.

e ancora:

“Balkans had its golden age of peace during the Ottoman reign. This is a historical

fact. Those who blame the Ottoman period for the region’s economic backwardness and

internecine fights are under the influence of historical prejudices and stereotypes.

It will be enough to travel only a few hundred kilometres to identify the patrimony created

during the Ottoman rule. Therefore, we do not want to be part of this blame game. As I

told you before we have to focus on the good. To start with, we have to take a clear and

realistic picture of the history. Those who do not know history cannot make history”85.

Davutoğlu riprende i principi di tolleranza e pluralismo propri dell’Impero Ottomano.

In Profondità Strategica il Professore di Relazioni Internazionali scrive:

“E gli ottomani, che consideravano la varietà come una ricchezza e non come una

fastidiosa contraddizione, operando all’interno del paradigma islamico dominante nelle

regioni più complesse ed eterogenee della storia umana hanno dimostrato il dinamismo

necessario a fondare una nuova civiltà e un proprio ordine politico”86.

Il significante Neo-Ottomanesimo può assumere due significati. La connotazione

negativa è legata ad una visione di Turchia espansionista ed aggressiva, che vuole

riproporre l’Islam all’interno del suo spazio d’influenza a discapito della laicità. La

connotazione positiva denota una Turchia attiva in politica estera e pacifica e inoltre

responsabile e vicina nei confronti dei popoli con i quali profondi sono i legami storici.

                                                                                                               85 Davutoglu: ‘I’m Not a Neo-Ottoman’, http://www.balkaninsight.com/en/article/davutoglu-i-m-not-a-neo-ottoman, 26 aprile 2011 86  Vox Populi, a cura di, “La profondità strategica turca nel pensiero di Ahmet Davutoglu”. Pergine Valsugana, Trento, Maggio 2011  

  147  

Secondo il giornalista e scrittore turco-armeno Etyen Mahçupyan, editorialista dello

Zaman:  

“Neo-Ottomanism is a fairly useful term in identifying the state of mind of Turkish

society as well as Turkish foreign policy because there is a large group of people who are

greatly confident, eager to make the land beyond Turkey’s geographical boundaries

important in their individual lives, ambitious to learn about history and ready to take a

conscious look at social issues”87.

Il Neo-Ottomanesimo in politica estera trae origine da un riequilibrio interno alla

società turca, in cui il principio etnico viene scalzato da un concetto di cittadinanza

multiculturale. I nuovi equilibri tra le componenti turche sono caratterizzati da maggiore

tolleranza e pluralismo, concetti ben presenti nella filosofia di John Rawls, che

caratterizzavano la fase ottomana, o almeno l’interpretazione più positiva della stessa.

Sempre secondo Etyen Mahçupyan, la sintesi sociologica dell’AKP che trova fondamento

nel suo elettorato d’imprenditori anatolici, fondazioni islamiche, associazioni dei diritti

umani e in generale le generazioni conservatrici, aspira al superamento delle restrizioni

legate al regime repubblicano88. I criteri di membership all’Unione Europea hanno

contagiato la Turchia. L’ideologia del regime repubblicano caratterizzata dal nazionalismo

e esclusivismo della classe kemalista al potere, non risponde più alle esigenze di una

società pluralista e intenta a guardare oltre i confini. La società turca muta e fa mutare i

principi dell’ordinamento i quali, a loro volta, condizionano la Weltanschauung e il suo

agire internazionale.

L’Islam, sempre presente nella società turca, ha chiaramente aspirazioni

internazionaliste. La religione islamica nella pratica dei suoi fedeli differisce dal

cristianesimo ad esempio per la tendenza minore di scindere tra sfera religiosa/privata e

sfera pubblica. Tra i fedeli musulmani è comune il sentimento di fratellanza

indipendentemente dalla nazionalità e dalla distanza culturale. Un esempio interessante fu

                                                                                                               87 Neo-Ottomanism, http://www.todayszaman.com/columnist-256927-neo-ottomanism.html, 15 settembre 2011 88 Ibid.

  148  

il pellegrinaggio di Malcom X alla Mecca il 13 aprile 1964. Prima di giungervi nel suo

viaggio incontrandosi con altri fedeli dichiara:  

“[We] were hugging and embracing. They were of all complexions, the whole

atmosphere was of warmth and friendliness. The feeling hit me that there really wasn’t any

color problem here. The effect was as though I had just stepped out of a prison.” 89  

Il 20 aprile 1964 dall’Arabia Saudita, una delle figure afro-americane più influenti

della storia degli Stati Uniti scrive: “America needs to understand Islam, because this is the

one religion that erases the race problem from its society”90.

Malcom X rimane piacevolmente sorpreso dal senso di fratellanza e condivisione da

parte dei fedeli che si riversano nella Mecca. Una solidarietà di persone provenienti da

ogni parte del globo, dall’America ai Paesi Arabi, dall’Europa all’Africa fino all’estremo

oriente. L’interpretazione pacifica dell’Islam comporta pluralismo, comprensione e pace.

Malcom X smetterà di trovare caratteristiche diaboliche nell’uomo bianco proprio in

seguito al suo pellegrinaggio.

Il Neo-Ottomanesimo è portato avanti in politica estera per perseguire un interesse

nazionale, e cioè quello di una Turchia che aspira al rango di leadership regionale come

ponte tra tre continenti. La riscoperta della grandeur porta la Turchia ad utilizzare il Neo-

Ottomanesimo al fine di perseguire un obiettivo fondamentale: mediare. Il ruolo di

mediatore per Ankara è più importante del tema della mediazione. Un Paese che aspira al

ruolo di leadership mondiale o regionale deve essere il Paese mediatore che controlla i

conflitti e le dispute. Dopo la Pax Britannica e quella Americana, Davutoğlu sogna una

Pax Turca. La filosofia realista di tale diplomazia si colora di toni idealisti e kantiani del

Ministro degli Esteri e riceve impulsi notevoli da un popolo in fermento.

L’ideologia kemalista alla base della politica estera i cui obiettivi principali

rispondevano alla logica securitaria in una Turchia in cui il potere civile era subordinato a

                                                                                                               89Alex Haleys, The autobiography of Malcom X, Bloom’s Litarary Criticism, New York, 2008. pg 52

90 Ibidem pg. 62

  149  

quello militare, è scalzata da una nuova ideologia. L’evoluzione delle idee in senso più

pluralista e dell’azione internazionale riscoprono le origini ottomane.

Nei suoi rapporti con l’estero l’Impero Ottomano ha per secoli lasciato che le potenze

internazionali operassero in quasi assoluta libertà nel perseguimento dei loro interessi

economico-finanziari. Le numerose capitolazioni in quattro secoli di storia, contratti

bilaterali tra una potenza europea e l’Impero, garantivano agli europei grandissima

autonomia. Attraverso le capitolazioni gli europei oltre a curare i loro interessi

commerciali stringevano rapporti con i Millet cristiani indebolendo lentamente, ma

inesorabilmente l’autorità del Sultano. L’Impero Ottomano dalle prime fasi d’espansione

cerca di proiettarsi verso occidente e ad esso, soprattutto nell’ultimo secolo, altamente

subordinata in particolare dal punto di vista delle interazioni economico-commerciali.

Come già espresso nelle pagine precedenti l’incubo dell’instabilità e della disgregazione

dell’Impero, portava i sultani a perseguire politiche che accettassero le differenze dei

sudditi abbandonando il sogno delle conversioni. I sudditi che si convertivano avevano

certamente dei privilegi in termine di tassazione e avanzamenti nell’amministrazione o

nell’esercito, tuttavia le pratiche d’incentivi alla conversione appaiono ben distanti dai

mezzi più cruenti utilizzati dalla cattolica Repubblica Veneziana che dalle coste croate

penetrava verso l’interno dei Balcani per perseguitare gli eretici della Chiesa Bosniaca.

L’Ottomanesimo che si afferma nella fase del Tanzimat dunque, prevede pluralismo

all’interno e interrelazioni con gli europei. Le debolezze del Malato d’Europa non riescono

ad interrompere la furia centrifuga delle periferie imperiali. L’Impero Ottomano crolla

rovinosamente e i kemalisti devono rifondare un nuovo soggetto. Atatürk è cosciente che

l’Impero Ottomano prendeva grande ispirazione dall’Occidente, compresi i nobili intenti,

ma mancava di una caratteristica moderna e tipica degli Stati-Nazione dell’Ovest:

l’autonomia.

Come già riportato nella parte “Kemalisti”, Mustafa Kemal, dopo aver liberato

l’Anatolia e inviati i migliori generali alla conferenza di Losanna, vuole proporre al mondo

un nuovo soggetto e di esso vuole garantirne l’indipendenza.

  150  

La Repubblica di Turchia a Losanna nel 1923, forte del suo potere contrattuale, vista

la sua recente vittoria e l’interesse degli inglesi e dei francesi a non inimicarsi un possibile

alleato anti-sovietico, decide di onorare i debiti contratti dall’Impero ottomano, ma di

mettere fine alle capitolazioni e alla legislazione speciale che tutelava gli investitori

europei. Accettando di onorare i debiti Atatürk dimostra di voler intrattenere rapporti

pacifici con gli occidentali. Le dure e lunghe trattative circa gli annullamenti delle

capitolazioni lasciano intendere l’intento turco di fondare una Repubblica che sia

autonoma e indipendente. Nelle Costituzioni, Codice Penale e Civile, nelle Istituzioni, la

Turchia si ispira agli europei, e lo fa per decenni (processo del resto già avviato dalla fase

del Tanzimat nel periodo Ottomano). Tuttavia la prima caratteristica che intende imitare è

l’autonomia. I turchi hanno bisogno di difendere il loro orgoglio umiliato dalle sconfitte,

dallo sfruttamento del territorio, dall’arroganza occidentale. La chiusura è strumentale al

processo di turchizzazione e di rinascita della Repubblica di Turchia. Il kemalismo, nel suo

nazionalismo, è un’ideologia imposta, strumentale, ma efficace.

Negli anni ’60 in una fase di tendenza al Washington Consensus la Turchia inizia ad

aprirsi anche economicamente (precedenti erano state le adesioni ad organizzazioni

politiche internazionali quali ONU e NATO), lo fa in relazione alla Comunità Europea.

Quest’ultima organizzazione, più delle altre e forse anche in misura maggiore degli Stati

Uniti, contagia d’internazionalismo le menti turche. La Turchia dagli accordi di Ankara del

’63 apre la sua economia. I governi di Turgut Özal e di Recep Tayyip Erdoğan seguono

diligentemente le politiche di liberalizzazione esortate dal Fondo Monetario Internazionale

e le condizionalità della Banca Mondiale. La Repubblica turca si riapre all’economia

occidentale lasciando pensare a un parallelismo con il passato imperiale. Le aperture più

importanti avvengono nell’ultimo decennio, in seguito alla crisi economico-finanziaria

degli anni 2000-2001. La differenza principale di oggi rispetto al diciannovesimo secolo è

che il mondo non è più lo stesso. La Turchia della diplomazia efficace riesce a essere

partner importante di Paesi diversissimi tra loro come Federazione Russa, Iran, Bosnia-

Erzegovina, Egitto, Italia. La Turchia neo-ottomana recupera l’ottomanesimo nelle

relazioni con gli altri Stati, nei contratti commerciali, nella Soft Law, nella visione che

  151  

proietta Istanbul, Ankara e Konya, oltre i confini. La visione ambiziosa turca influenza e

viene influenzata da una società dinamica che cresce e che opta per una nuova ideologia.

Sintetizzando quanto già approfondito nelle pagine precedenti: il kemalismo era

strumentale alla turchizzazione e aveva come fine quello di plasmare l’uomo nuovo turco.

Nella sua ricerca d’indipendenza e autonomia Atatürk non ha mai tagliato tutti i fili e

legami con gli europei anzi, Mustafa Kemal sognava il ritorno di una Turchia forte in

Europa. Indipendentemente dall’adesione o meno all’UE, la Turchia è oggi orgogliosa e

forte nel vecchio continente. Il sogno di Atatürk sembra essere in corso di realizzazione e

l’evoluzione in tale direzione pretende un superamento dei principi fondativi della

Repubblica.

La dottrina dello “Zero Problemi con i Vicini” elaborata da Ahmet Davutoğlu,

assomiglia molto al motto di Mustafa Kemal “Pace in Patria, Pace nel Mondo”. I

parallelismi tra Erdoğan e De Gaulle ricordano le comparazioni effettuate dagli storici

circa Atatürk e Pietro il Grande. Ci si chiede se gli eredi del rivoluzionario Mustafa Kemal

siano oggi i conservatori kemalisti. Nella sua scelta di voler mantenere un legame con

l’Europa, Kemal poneva il seme del superamento dell’ideologia kemalista.

L’Impero Ottomano, esteso e duraturo, è capitolato non troppe generazioni or sono. E’

difficile ed improbabile cancellare le radici imperiali dai geni turchi. E’ possibile

sconfiggere ed umiliare un Impero, occuparlo, imporne e condizionarne alfabeto,

calendario, uso della religione, costumi. Gli imperi sopravvivono nell’orgoglio dei sudditi

e sono pronti a riemergere nel momento giusto. Il Neo-Ottomanesimo rappresenta il

ritrovato orgoglio turco amalgamato da ottime politiche economico-commerciali, da una

diplomazia di larghe vedute, da una classe dirigente ambiziosa, una società dinamica e

soprattutto la volontà di contare nel mondo. Il Neo-Ottomanesimo trova origini nel passato

imperiale, ma solo in quelle parti strumentalizzabili ai fini di posizionarsi in maniera forte

in alcune regioni del mondo. Nei Balcani ad esempio Davutoğlu non menziona le

sanguinose repressioni e violenze contro gli ortodossi e i cristiani in generale, bensì il

contributo che l’Impero avrebbe dato allo sviluppo di convivenza pacifica tra popolazioni

diverse.

  152  

2. Il Modello Turco nella Primavera Araba

“La Turchia fa sognare il mondo arabo e affascina ogni giorno di più i popoli entrati

in movimento dopo la rivoluzione tunisina, divenuta per loro motivo di speranza, o anche

un esempio da seguire”91.

E’ il successo economico di un Paese musulmano che nel 2011 è cresciuto a tratti più

della Cina, ma soprattutto il successo politico che ammalia i popoli in fermento

rivoluzionario.

Dagli ultimi studi di TESEV, la Fondazione Turca degli Studi Economici e Sociali, in

particolare “Turkish image in the Arab world” del maggio 2011 e “Perceptions about

Turkey in the Middle East”, del febbraio 2012, la Turchia appare essere il Paese più

popolare tra i residenti di sedici Paesi mediorientali, compreso Iran e gli Stati nordafricani.

Rispetto all’anno precedente la popolarità turca è in leggero declino solo in Siria ed Iran.

Gli intervistati dei sondaggi di Tesev credono nella Turchia come soggetto

internazionale per le mediazioni circa le crisi regionali. Secondo il 77% degli intervistati

nel sondaggio circa le percezioni sulla Turchia nel Medio Oriente, nonostante il

deteriorarsi delle relazioni con Israele, la diplomazia di Ankara contribuisce a un impatto

positivo nella pace regionale. Il 71% pensa che la Turchia dovrebbe avere un ruolo

maggiore nell’area. Non è un caso se nell’ottobre 2011 la formazione del Consiglio

Nazionale Siriano avviene proprio ad Istanbul, città che ospita la riunione tra tutte le

correnti dell’opposizione siriana, dai laici ai religiosi, destra e sinistra.

Ad incrementare il successo della Turchia agli occhi dei musulmani del Medio

Oriente è la solidità e crescita dell’economia, la difesa del popolo palestinese e soprattutto,

in particolare per egiziani e iraniani, l’identità musulmana.

“Islam e modernità” è il binomio vincente soprattutto per i popoli nordafricani in

transizione.

                                                                                                               91 Bernard Guetta, “Perché la Turchia fa sognare il mondo Arabo”. La Repubblica. 7-10-2011

  153  

Governata per un decennio dall’AKP, la Turchia si è stabilizzata nella prosperità e ha

rotto con la lunga serie di colpi di stato militari, coniugando tradizioni religiose e

modernità, Islam e democrazia, islamismo e laicità, tanto che oggi la generazione araba

della rivoluzione, cerca di importare il suo modello.

Gli islamisti tunisini si richiamano ufficialmente all’AKP. Interi settori dei movimenti

islamisti in Egitto, Libia, Giordania e Marocco vogliono seguire l’esempio turco92.

La Comunità Internazionale considerando gli attori in transizione, non dovrebbero

temere la ricerca del modello turco operata soprattutto dalle frange giovanili della

rivoluzione. I tumulti, l’instabilità, la crisi economica hanno portato al rafforzamento di

frange estremiste e movimenti jihadisti nei Paesi protagonisti della cosiddetta Primavera

Araba. Le giovani generazioni, soprattutto le più formate, rifiutano i mezzi terroristici

considerando il jihadismo come deleterio ai fini della loro protesta, preferendo Ankara a

Islamabad, Ryad e Teheran. Membri dei partiti che si apprestano a trionfare nelle prime

elezioni post-dittatoriali tuttavia, sembrano non condividere le opinioni dei loro

concittadini più giovani e da questo punto di vista, moderati.

Il richiamo alla Turchia viene spesso enfatizzato per mostrare il carattere laico e

pacifico delle rivoluzioni. Tuttavia è innegabile la difficoltà dell’esportabilità del modello

turco. Con tale termine s’intende un sistema capace di conciliare la tradizione religiosa

musulmana, con un sistema democratico e moderno. La Turchia di oggi è il risultato di

decenni di controlli e bilanciamenti da parte di un esercito laico, forte e moderno. I

successi diplomatici della Turchia contemporanea nascono da un retroterra di maggiore

pace e stabilità interna e poderosa crescita economica. Le rivoluzioni arabe hanno

contagiato la Turchia di una febbre di iperattivismo diplomatico. I viaggi di Davutoğlu e

Erdoğan sono numerosissimi.

Gli interessi economici nel Maghreb come nel Mashrek tuttavia precedono la

Primavera Araba, le società turche negli ultimi tre anni hanno vinto appalti nel Nord

Africa, nel Medio Oriente e nella zona del Golfo per un valore di trentatré miliardi di                                                                                                                92 Ennahda takes Turkey as model for democracy, http://www.hurriyetdailynews.com/default.aspx?pageid=438&n=ennahda-takes-turkey-as-model-for-democracy-democracy-2011-10-27, 27 ottobre 2011

  154  

dollari. Nel 2010 l’esportazione in questa regione ha raggiunto la cifra di ventisei miliardi,

mentre il totale degli investimenti è stato di 9,5 miliardi di dollari. Nel sondaggio di Tesev

“Turkey’s Image in the Arab World”93 mostra che il maggioranza dei mediorientali

considera la Turchia come il modello da seguire in Regione. Il sostegno maggiore al

modello turco proviene da tre Paesi: Libia, Tunisia e Egitto

3. Due Turchie per un solo Egitto

“La primavera araba è anche turca”, questo il commento di Ahmet Davutoğlu sui

rivolgimenti nordafricani. Il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Turchia,

considera la “Primavera Regionale” come un atto di normalizzazione della storia del

Medio Oriente.

Il Premier turco nel settembre 2011 compie un tour in Egitto, Tunisia e Libia per

esprimere il suo sostegno ai popoli usciti da dittature o “democrature”. Il Cairo è la prima

tappa. Erdoğan è accolto dalla folla egiziana. Prendendo parte al vertice della Lega Araba,

il leader di un Paese membro della Nato dal 1952 dichiara: “Riconoscere lo stato

palestinese non è un'opzione ma un obbligo”. Benché Hosni Mubarak intrattenesse con

Israele cordiali relazioni internazionali e diplomatiche, le statistiche94 dicono che nove

decimi della popolazione egiziana considera Israele come una potenza aggressiva e

minacciosa verso i diritti e le libertà degli arabi. Anche in Egitto, così com’è stato per la

Somalia qualche settimana prima, Erdoğan critica l’Occidente facendosi promotore di una

nuova concezione delle relazioni internazionali, meno realista e calcolatrice.  

“The world is changing to a system where the will of the people will rule. Why should

the Europeans and Americans be the only ones that live with dignity? Aren't Egyptians and

Somalians also entitled to a life of dignity”95.

Ankara è attore attento e attivo sin da subito nei confronti della vicina Repubblica

Araba d’Egitto. Turchia e Egitto sono i Paesi più popolosi del Mediterraneo e insieme

                                                                                                               93 Paul Salem, “Turkey’s Image in the Arab World”, Tesev, Istanbul, maggio 2011 94 Ibid. 95 “Lybia, Egypt, Syria and Middle East unrest”, http://www.guardian.co.uk/world/middle-east-live/2011/sep/13/libya-syria-egypt-middle-east-unrest-live-updates, 13 settembre 2011

  155  

all’Iran competono per il ruolo di leadership nella regione mediorientale. L’Egitto è il

Paese arabo più popolato i cui sviluppi politici hanno da sempre determinato gli andamenti

dell’intera regione.

La Turchia s’inserisce in un vuoto lasciato da Europa e Stati Uniti, attori prima

egemoni nello scacchiere arabo che ora sono alle prese con la più grave crisi economica

dal 1929. Inoltre l’America della recessione economica e del ritiro dall’Afghanistan,

sembra preferire un disengagement all’attivismo internazionale.

Le manifestazioni di piazza al-Tahrir, iniziate il 25 gennaio 2011 hanno posto le basi

per le dimissioni del “Faraone” Hosni Mubarak e Recep Tayyip Erdoğan è stato il primo

capo di governo a chiedere al leader egiziano di ascoltare le rivendicazioni dei giovani e di

lasciare il potere. Nel processo di transizione i militari egiziani, costituito l’Alto Consiglio

delle Forze Armate (de facto il governo), mantengono ben saldo il timone del Paese. Le

Forze Armate sono rappresentanti del vecchio regime e al tempo stesso gestori del

cambiamento. Wafik Ghitany, esponente del partito liberale egiziano, Wafd, si chiede con

sarcasmo se sia opportuno affidare “alla dittatura il compito di processare se stessa”96. Gli

egiziani conferiscono al concetto di “Modello turco” una duplice interpretazione quasi

fossero percepite due Turchie. La prima fedele all’ideologia kemalista, repubblica laica

custodita dalle Forze Armate, la seconda revisionista della dottrina kemalista che

rappresenta gli interessi dei musulmani praticanti i quali, per decenni esclusi dal potere

politico, si schierano oggi a favore della prevalenza del potere civile su quello militare.

In Egitto nella fase post-Mubarak si distinguono due forze organizzate: l’esercito e i

Fratelli Musulmani. Determinanti nella gestione del potere dall’abolizione della monarchia

nel 1952, i militari sono stati fautori della decisione di destituire il Governo Mubarak.

Apparirebbe strategica la loro scelta di investire nella transizione cercando di non perdere i

privilegi dell’istituzione militare, criticata da alcuni commentatori in quanto casta.

L’apparato militare-industriale egiziano vale un terzo del Pil nazionale. Protette, esentasse

(e inefficienti) le industrie della Difesa producono beni civili e militari, tra questi

Kalashnikov e munizioni, le cui esportazioni ammontano ad appena qualche milione di

                                                                                                               96 Bernardo Valli, “La Primavera incompiuta”, La Repubblica, 2 agosto 2011.

  156  

dollari l’anno (le esportazioni militari israeliane ad alto valore tecnologico valgono cinque

miliardi l’anno). In servizio attivo sono presenti cinquecentomila soldati più altrettanti in

riserva. Vi sono inoltre gli ospedali per militari, le case popolari, i centri di vacanza, gli

spacci97.

I parallelismi a livello di gestione interna del potere, dimensioni e ruoli nella società,

non sono gli unici che accomunano le Forze militari turche a quelle egiziane. Gli Stati

Uniti da sempre sostenitori dell’esercito kemalista, dagli accordi di Camp David del 1979

supportano economicamente e tecnologicamente le Forze egiziane avendo elargito da

allora quaranta miliardi di dollari, nella misura di circa 1,3 miliardi ogni anno. Nei

confronti di Israele l’esercito turco ha instaurato una cooperazione militare. Gli egiziani

hanno operato al fine di mantenere un equilibrio pacifico con Israele. Per conservare il

rango di potenza regionale in Medio Oriente, l’esercito collabora con gli occidentali e

insieme a ai militari israeliani si oppone a Hamas e ai Fratelli Musulmani. Da ciò si evince

la volontà delle Forze Armate egiziane di conservare gli equilibri internazionali e garantire

la continuità di un assetto laico. Il modello turco al quale potrebbero ispirarsi è quello della

Repubblica kemalista dalla sua fondazione nel 1923 sino al 2002. Fase in cui il potere

militare era preminente su quello civile: le Forze Armate anatoliche, custodi della laicità e

unità della Repubblica, anche a costo di violare libertà civili e politiche in particolare della

minoranza kurda e delle forze islamiche, erano sostenute dall’Alleanza Atlantica,

costituendone il secondo esercito più grande dopo quello statunitense.

Oltre all’esercito la principale formazione organizzata presente nella fase transitoria

egiziana, è costituita dai Fratelli Musulmani. La Fratellanza è nata in un quadro di risveglio

religioso contro l’occidentalizzazione della società islamica. Fondata nel 1928 in Egitto da

Hassan al Banna, è presente oggi in tutto il mondo arabo. In Egitto, osteggiata da Mubarak,

la Fratellanza riesce a tessere una forte rete sociale tra le fasce più povere della

popolazione conquistandone la fiducia. Nell’aprile 2011 i Fratelli Musulmani hanno

annunciato la creazione del partito della Libertà e della Giustizia. Nei mesi precedenti alle

elezioni del dicembre 2011 il dialogo con i militari era costante. Rimasti in disparte in

varie occasioni come negli scontri tra manifestanti ed esercito, la moderazione del                                                                                                                97 Ugo Tramballi,“La lunga marcia di donne al Cairo”, Il sole 24ore, 21 dicembre 2011

  157  

movimento islamico può essere interpretata come strategia dell’attendismo: ovvero

assistere alla degenerazione degli equilibri tra civili e militari, e all’incremento

dell’insoddisfazione nei riguardi del regime transitorio sino al momento di presentarsi alle

elezioni come forza salvatrice e alternativa. I Fratelli Musulmani inoltre, nella fase pre-

elettorale non avevano interesse a provocare i militari opponendosi direttamente ad essi,

poiché temevano una ritorsione della forza egemone ed armata. Allo stesso tempo le Forze

Armate intraprendendo una repressione contro i Fratelli Musulmani avrebbero provocato

uno scontento della piazza e un’immediata reazione popolare98.

Si delinea così un equilibrio tra le due principali forze organizzate e rivali nel Paese.

La Fratellanza è un movimento composito di diverse fazioni spesso in competizione l’una

con l’altra. Il partito Libertà e Giustizia dalla sua fondazione opera per mostrarsi

responsabile e pragmatico. Guidato dalla frangia riformista, ha sin da subito allontanato i

giovani radicali e si è distanziato dai salafiti. Sin dalla fase della piena rivolta al regime di

Mubarak, uno dei leader della Fratellanza, Rashad Bayoumi, ha rievocato l’AKP di

Erdoğan come possibile esempio da seguire99. Pur rivendicando la storia e l’autonomia

dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani, il richiamo all’AKP turco sembrerebbe essere

volto a rassicurare le frange laiche del Paese, nonché i partner internazionali sulle volontà

democratiche della forza islamica egiziana. Così come Erdoğan a suo tempo si è appellato

all’Unione Europea per cercare legittimazione interna ed internazionale ed evitare uno

scontro con i militari, per i medesimi motivi il partito nato dai Fratelli Musulmani appare

richiamarsi al modello AKP.

A un anno dall’inizio della rivoluzione che ha defenestrato Hosni Mubarak i risultati

dell’elezione dell’Assemblea per il Popolo (la camera bassa) hanno registrato la vittoria del

partito “Libertà e Giustizia” che ha ottenuto il 47% dei seggi. Il secondo partito è al-Nour,

legato al movimento salafita. Nonostante il loro successo, i Fratelli Musulmani rifiutano

un’alleanza con i salafiti e cerchino piuttosto accordi con i liberali del partito Wafd e una

linea di coesistenza pacifica con i militari. La priorità dell’establishment è far ripartire

l’economia del Paese; negli ultimi mesi il Partito Libertà e Giustizia ha dato prova di                                                                                                                98 Egypt’s Muslim Brotherhood gear up to challenge the army, http://www.alarabiya.net/articles/2012/01/31/191699.html, 31 gennaio 2012 99 Alberto Negri, “La Turchia modello per il mondo arabo”, Il sole 24ore, 19 aprile 2011

  158  

moderazione e apertura agli Stati Uniti e al Fondo Monetario Internazionale, con cui è in

corso una trattativa di aiuti finanziari pari a 3,2 miliardi di dollari. La crisi economica in un

anno e mezzo ha dimezzato le riserve di valuta (da trentasei a diciotto miliardi di dollari) e

ridotto il turismo del 90%.

L’alleanza che si profila tra Libertà e Giustizia e il Partito dei Liberali, unito alla

ricerca dell’equilibrio con i militari (che vorrebbe dire non intaccare eccessivamente la

casta delle Forze Armate) lasciano intendere il carattere veritiero dei proclami degli

esponenti dei Fratelli Musulmani a voler prendere ispirazione dal partito turco del premier

Erdoğan. A fronte di ciò ci si potrebbe chiedere se l’influenza turca e il suo attivismo

possano in qualche modo agevolare i Paesi insorti, in particolare la Repubblica Araba

d’Egitto, a transitare verso un assetto democratico in cui libertà religiosa e d’espressione, il

rispetto delle minoranze e la laicità, possano essere garantite esclusivamente dalle forze

civili e politiche.

Nei tour nordafricani il Premier Erdoğan viene accompagnato da centinaia di

imprenditori turchi. La classe imprenditoriale turca cerca nuovi mercati. Egitto e Turchia

hanno un interscambio economico pari a tre miliardi di dollari l’anno e le aziende turche

impiegano circa cinquantamila lavoratori egiziani100.

Dal punto di vista geopolitico per anni l’Egitto di Mubarak è stato uno dei principali

competitor con la Turchia nell’aspirazione al ruolo di leadership nella regione. L’Egitto ha

una popolazione che supera gli ottanta milioni di abitanti, è il solo Paese più popoloso

della Turchia nell’area mediterranea e mediorientale. L’economia egiziana presenta punti

molti forti: gestione del Canale di Suez, turismo, agricoltura, materie prime.

A differenza della Turchia, l’Egitto è un Paese arabo. Come precedentemente

riportato, la Turchia sembra presa da una voglia febbrile di attivismo diplomatico, volendo

essere sempre presente nei negoziati tra i Paesi della regione mediorientale. L’obiettivo per

i turchi è mediare. A molti analisti pare che l’interesse di essere parte in una mediazione

sia maggiore dell’oggetto stesso della mediazione. I Paesi arabi non hanno mai sopportato i

                                                                                                               100 Turkish-Egypt economic relations, http://www.mfa.gov.tr/turkey_s-commercial-and-economic-relations-with-egypt.en.mfa, al 29 febbraio 2012

  159  

tentativi di egemonia degli europei, americani, russi e in ultimo iraniani. La Turchia, grazie

alla crescita economica, l’orgoglio musulmano, la difesa dei palestinesi e il soft-power

(dalla penetrazione economica alle soap-opera), conquista i cuori degli egiziani.

Tuttavia si dubita circa il reale interesse della Turchia nel voler vedere completamente

stabilizzato il Paese egiziano. Un Egitto stabile, moderno e ambizioso potrebbe minare gli

interessi geopolitici turchi. Un Egitto più libero da Stati Uniti ed Israele potrebbe

posizionarsi come mediatore al posto della Turchia. L’economia di Ankara nella fase di

gestione del potere di Hosni Mubarak non era particolarmente presente in Egitto, notiamo

una spiccata crescita degli interscambi dal 2008. La Turchia si presenta all’Egitto liberato

come un partner economico potenzialmente interessantissimo.

Come già ampiamente trattato: i turchi enfatizzano la loro sbalorditiva crescita

economica. A questo punto della ricerca potremmo ragionare presentando due

considerazioni.

La prima è che la crescita economica turca è agevolata da un tasso d’inflazione che

supera il 10%. Il tessuto industriale turco, benché in crescita negli ultimi anni, rimane

piuttosto debole nei mercati internazionali. La crescita turca si basa soprattutto

sull’attrazione d’investimenti esteri mirati all’incremento dei consumi. Negli ultimi anni il

deficit di bilancio interno e quello delle partite correnti sembrano essere variabili

trascurabili ai fini del mantenimento della crescita galoppante. Il problema è che alto

deficit e partita corrente negativa sono stati causa della crisi greca e spagnola dopo anni di

crescita economica.

La seconda è che una grande impennata percentuale di un numero esiguo, rappresenta

in termini assoluti, una cifra esigua. Il 10% di crescita turca incrementa un Pil ben inferiore

a quello di molti Paesi al mondo tra i quali Italia e Spagna.

Nella conclusione dell’elaborato ragioneremo sulle nuove previsioni economiche

(tutt’altro che positive) per la Turchia.

Le tecniche diplomatiche turche e i successi in politica estera sono inconfutabili.

Tuttavia per quanto riguarda l’Egitto, si dubita circa la sincerità degli intenti di

  160  

stabilizzazione e sviluppo del Paese più popoloso d’Africa dopo la Nigeria. La storia, il

peso economico, demografico, militare d’Egitto lasciano intendere che tale Paese, una

volta riguadagnata la stabilità, indipendenza e orgoglio, sarà meno incline all’accettazione

di Ankara come leader regionale. I summit circa la situazione siriana che si organizzano

nei primi mesi del 2012 al Cairo, aiutano a prevedere uno scenario competitivo tra i due

Paesi.

4. La Tunisia dalla Rivoluzione dei Gelsomini

Il 10 dicembre 2010, nel centro tunisino di Sidi Bouzid, al venditore ambulante

Mohamed Bouazizi viene sequestrato il carretto di verdure dalla polizia per la mancanza di

licenza. Il giovane come atto di protesta si dà fuoco morendo il mese successivo. Nessuno

si aspettava che l’atto del ventiseienne portasse alla fine i ventitré anni di regime di Zine

El-Abidine Ben Ali. I tunisini insorgono contro disoccupazione, povertà, carovita e la

corruzione di una classe politica dispotica e intoccabile. Le pubblicazioni dei rapporti di

Wikileaks circa le critiche americane al regime fomentano la protesta giovanile.

L’ambasciatore americano dal 2006 al 2009, attualmente Principal Deputy Coordinator for

Counterterrorism in the Department of State, confidò a Washington:

"President Ben Ali's extended family is often cited as the nexus of Tunisian

corruption. Often referred to as a quasi-mafia, an oblique mention of "the Family" is

enough to indicate which family you mean. Seemingly half of the Tunisian business

community can claim a Ben Ali connection through marriage, and many of these relations

are reported to have made the most of their lineage. Ben Ali's wife, Leila Ben Ali, and her

extended family -- the Trabelsis -- provoke the greatest ire from Tunisians. Along with the

numerous allegations of Trabelsi corruption are often barbs about their lack of education,

low social status, and conspicuous consumption."101

Le repressioni e le promesse dei trecentomila posti di lavoro, non bastano a calmare

l’ira del popolo contro Zine El Abidine Ben Ali e la consorte, Leïla Ben Ali. Le cui due

                                                                                                               101 “Tunisia's and Ben Ali's Corruptions: The Wikileaks Revelations”, http://middleeast.about.com/b/2011/01/14/tunisias-and-ben-alis-corruptions-the-wikileaks-revelations.htm 14 gennaio 2011.

  161  

famiglie controllavano l’economia del Paese in ogni settore, dall’immobiliare al turismo,

dalle telecomunicazioni al settore bancario.

La Tunisia è il primo Paese ad insorgere, liberarsi del leader, e il primo a recarsi alle

urne elettorali. Il 23 ottobre 2011 avvengono le prime elezioni democratiche di Tunisia che

eleggono i 217 membri dell’Assemblea costituente.

Il partito che riceve il maggior numero di consensi è Ennahda, il partito della

Rinascita. Il partito islamista nasce dal movimento vicino alle posizioni dei Fratelli

Musulmani d’Egitto. Ennahda viene messo al bando da Ben Ali nel 1991. Dopo vent’anni

di esilio a Londra il leader Ghannouchi torna a Tunisi e propone di guidare la transizione

verso un sistema pluralista, moderno e cercando un equilibrio tra Islam e modernità.

Ennahda riceve consensi nell’entroterra tunisino, più arretrato, povero e carente di lavoro e

servizi rispetto la costa. In questi luoghi l’Islam sociale e caritatevole è più attivo, tuttavia

il Movimento della Rinascita non possiede una struttura e un radicamento popolare

paragonabile ai Fratelli Musulmani egiziani.

Il Partito riceve molti consensi anche tra i tunisini residenti all’estero. Gli oltre

centomila tunisini che risiedono in Italia ad esempio canalizzano il 52% dei voti sul Partito

Islamista. In Italia vengono eletti tre rappresentanti dell’Assemblea costituente, due di essi

sono rappresentanti di Ennahda. Il sostegno dei migranti al movimento islamista è

motivato dalla condizione di disagio di molti e dalla reazione alla propaganda islamofoba o

razzista a cui spesso sono costretti nei loro luoghi di residenza.

  162  

5. La laicità tunisina

La Tunisia è probabilmente il Paese più laico del nord Africa e la guida di Ennahda

spaventa i laici e gli interlocutori internazionali. La Tunisia però non è ricca di petrolio di

ottima qualità come Libia e Algeria, né ha la garanzia di introiti per sedici miliardi di

dollari l’anno grazie al canale di Suez. La Tunisia sin dall’indipendenza del ’56 decide di

non operare una frattura netta con le forze occidentali, in primis Francia e Italia.

La scelta laica di Bourguiba è motivata dall’interesse di collegare la Tunisia al mondo

occidentale. Bourguiba studia il modello kemalista. Atatürk riesce a rendere moderno un

Paese abitato da decine di milioni di islamici, rendendolo partner ed interlocutore

dell’Ovest. Bourguiba sogna una Tunisia autonoma e moderna in cui la tradizione religiosa

rimanga nella sfera privata e in cui la sfera pubblica sia laica. Bourguiba si adopera ad

imitare il sistema turco. Attua delle politiche sociali a favore della laicità soprattutto per

l’emancipazione femminile e l’educazione laica. Nel 1987 le condizioni di salute di

Bourguiba sono molto gravi, Zine El-Abidine Ben Ali sale al potere grazie a un colpo di

stato la cui efficacia dipese dal sostegno dei servizi segreti italiani, nonché dal malcontento

popolare per le condizioni economiche (alta inflazione e debito estero). Ben Ali, in

continuità con il predecessore, pone in essere politiche secolari.

Trovatasi ai nostri giorni a guidare il governo, la Rinascita assume posizioni non

troppo distanti rispetto a “Libertà e Giustizia” d’Egitto. Ennahda cerca di apparire distante

dai salafiti e si apre ad un’alleanza con i due principali partiti liberali: CPR, Congresso per

la Repubblica (Partito del Presidente della Repubblica Moncef Marzouki) e Ettakatol,

Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà.

Dubbi sugli intenti laici e conseguenti proteste arrivano dai militanti del Partito

Petition Populaire o del Partito Democratico progressista, guidato da Ahmed Nejib

Chebbi. La distanza tra laici e musulmani si radicalizza e l’Occidente non mostra piena

fiducia negli islamisti. Il Leader di Ennahda, Rachid Gannouchi ha interesse a

tranquillizzare l’occidente. E’ necessario che l’economia tunisina riparta al fine di

interrompere le contestazioni e stabilizzare il Paese. A seguito della vittoria il membro del

Partito, Abdelhamid Jlassi dichiara ai giornalisti a Tunisi:

  163  

“We would like to reassure our trade and economic partners, and all actors and

investors, we hope very soon to have stability and the right conditions for investment in

Tunisia"102 .

Oltre all’alleanza con le ali laiche risultanti dalle elezioni del 23 ottobre, Gannouchi

assicura l’intento di non voler ledere i diritti delle donne sostenendo che la sua è una lotta

per il pluralismo, per la libertà d’espressione di tutti, anche dei musulmani praticanti. Su

217 membri eletti alla costituente, solo 47 sono donne, di queste 42 provengono dalla

Rinascita. Alcune donne della Rinascita non indossano il velo, queste sono l’immagine che

il Gannouchi vuole mostrare al mondo. Il leader tunisino dichiara: “vogliamo una Tunisia

libera, indipendente, sviluppata e prospera”.Da Ennahda provengono sin dagli esordi della

rivoluzione proclami circa l’ispirazione al modello turco della guida dell’AKP.

Gannhouchi dichiara: "In Turkey and Tunisia there was the same movement of

reconciliation between Islam and modernity and we are the descendants of this movement" 103.

Così come i Fratelli Musulmani egiziani, la Rinascita si dichiara ispirata dall’AKP al

fine di tranquillizzare le frange laiche interne e gli interlocutori internazionali. Inoltre la

Tunisia ha la necessità di aprire la sua economia al fine di farla ripartire e la Turchia è un

partner importante.

6. L’attivismo turco in Tunisia, una Partnership win-win

La seconda tappa del tour nordafricano del settembre 2011 di Recep Tayyip Erdoğan è

Tunisi. Il leader dell’AKP sin dalle prime settimane degli scontri, ha tessuto le lodi dei

giovani della Rivoluzione dei Gelsomini. Nei suoi viaggi accompagnati da imprenditori ed

industriali turchi, il Primo Ministro vuole dare un messaggio di sostegno e alleanza al

Paese, comprendendo lui, più di altri leader occidentali, cosa vuol dire essere musulmani e

ricercare la modernità.

                                                                                                               102 “Tunisia’s Islamists will steer clear of radicalism: analysts”, http://www.alarabiya.net/articles/2011/10/25/173610.html, 25 October 2011. 103 “Profile: Tunisia's Ennahda Party”, http://www.bbc.co.uk/news/world-africa-15442859, 25 ottobre 2011.

  164  

“The most important thing of all and Tunisia will prove this; Islam and democracy can

exist side by side”104.

Erdoğan si dimostra comprensivo e vicino alle sensazione dei tunisini, presenta una

Turchia tutto sommato paragonabile alla Tunisia:

“Turkey, as a country which is 99 percent Muslim, does this comfortably, we do not

have any difficulty. There is no need to hinder this by putting forward different

approaches. In the broadest sense, consultation will put forward the will of the people”105.

Erdoğan viene accolto da una massa di sostenitori. La Turchia fa sognare i tunisini

usciti dalla dittatura. Il Paese non arabo è musulmano e laico, in crescita economica,

orgoglioso; è un Paese in cui l’Islam c’è, è al potere, ma non presenta un carattere violento.

Un ulteriore punto di contatto tra tunisini e Turchia è l’attivismo pro-palestinese portato

avanti dall’AKP. I tunisini come tutti i popoli arabi dimostrano una vicinanza alla

questione palestinese. Nel 1982 a seguito della guerra in Libano l’OLP trasferisce il

proprio quartiere generale ad Hammam al-Shatt, a quindici chilometri da Tunisi. Nel 1985

a seguito di un attentato dell’OLP ad uno yacht israeliano, l’aviazione Israeliana

bombarderà la sede dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina. Le immagini

dell’opposizione a Piombo Fuso di Erdoğan a Davos e della condanna virulenta al blitz di

Mavi Marmara portano il leader non-arabo ad essere stimato dai tunisini.

I leader dell’AKP ricordano le tradizioni storiche che legano Tunisia e Turchia.

Secondo i turchi la presenza ottomana ha arricchito la cultura, l’architettura e la civiltà

tunisina. Obbedienza ricambiata con disciplina da parte dei tunisini ad esempio, nell’invio

di quattordicimila militari nelle file ottomane nella guerra di Crimea del 1854-56.

I legami tra i due Paesi sono rimasti aperti anche nel periodo della guerra fredda, un

esempio è stato il “Cultural Agreement”, accordo bilaterale firmato ad Ankara il 25

febbraio 1964.

                                                                                                               104 “Turkey's Erdogan makes case for Islam and democracy in Tunisia”, http://www.france24.com/en/20110915-turkey-erdogan-visits-tunisia-second-leg-arab-spring-tour-israel, 15 settembre 2011. 105 Ibid.

  165  

Secondo Ahmet Davutoğlu, Ministro degli Affari Esteri turco:

“Today, there is a big interest in Tunisia towards the Turkish culture in general such

as Turkish language, art, music and recently Turkish TV series. Tunisian people show

great interest especially in artistic and cultural activities such as Turkish classical music,

traditional clothing, calligraphy, whirling dervish and Janissary band performances”.106

Il 4 ottobre del 2011 a Tunisi s’inaugura un partenariato economico turco-tunisino: la

Camera di Commercio e dell’Industria di Tunisi, in collaborazione con la Confederazione

degli Imprenditori turchi al fine di potenziare gli interscambi circa settori quali il tessile,

l’agricolo e l’elettronico. La presenza economica turca è sempre stata carente in Tunisia.

L’establishment turco ha assunto nei confronti della Tunisia un atteggiamento simile a

quello riservato all’Egitto: critica al dittatore e sostegno verbale alla popolazione rivoltosa.

Tuttavia le aperture economiche verso il Paese nordafricano precedono la fase di

transizione. Le aperture alla Tunisia sono contestuali all’inaugurazione della politica estera

di attivismo nel Mediterraneo portate avanti dall’AKP in seguito alle difficoltà circa

l’adesione all’Unione Europea. La gestione dispotica di Ben Ali non frenava gli intenti

della politica espansiva turca. Nel 2005 è firmato il Trattato di Cooperazione Industriale tra

Turchia e Tunisia e nel 2006 si sigla il Trattato di Libero Scambio. Nel periodo 2008-2009

i due Paesi firmano tre accordi di cooperazione nel campo dell’istruzione e formazione,

comunicazione e gestione degli archivi.

Ahmet Davutoğlu si reca nel territorio tunisino già nel febbraio 2011 a poche

settimane dalla cacciata di Ben Ali. In quell’occasione mostra grande rispetto per il popolo

tunisino, dichiarando con umiltà che la Turchia non ha istruzioni da dare alla Tunisia,

essendo i tunisini discendenti di Ibn Khaldun e dunque non bisognosi di seguire linee

guida provenienti oltre confine. La prima visita ufficiale del Ministro degli Affari Esteri

della Tunisia post-Ben Ali, Rafik Abdessalem avviene in Turchia. Il capo della diplomazia

tunisina, passati ventuno anni in esilio, dimostra nei dibattiti pubblici un forte attaccamento

al suo Paese e la credenza nel principio del pluralismo. Ben cosciente dell’importanza delle

                                                                                                               106 “Relations between Turkey and Tunisia”, http://www.mfa.gov.tr/relations-between-turkey-and-tunisia.en.mfa, al 29 febbraio 2012

  166  

relazioni con la Turchia afferma: “since the 16th century Tunisia is deeply connected to

Turkey as well as Turkey is interconnected and intertwined with Tunisia and North Africa

as a whole”107.

La Turchia è un esempio di Paese democratico musulmano:

“It is common to say [...]that Muslims cannot be democrats and there is no ground of

reconciliation between Islam and democracy. And I think Turkey affirms, before Tunisia,

that Islam and democracy could survive together and there is a ground of reconciliation

and interconnection between Islam and democracy. And the Tunisian revolution will

confirm that Islam, Arabism, and democracy is possible. It is possible to be Arab, Muslim,

and democrat at the same time. And it is possible to be Turkish, Muslim, and democrat at

the same time”108.

In un dibattito ad Ankara tra Davutoğlu e Abdessalem l’autore di Profondità

Strategica alla domanda circa l’influenza della Turchia sul mondo arabo e viceversa,

risponde: “this is not just how Arab society is being influenced by Turkey, or Turkish

society being influenced by Arab societies, or by the region. I think it is difficult to

separate the destiny of us.”

E ancora:

“the 20th century was a parenthesis which was not natural. This parenthesis was

created by colonialism and by Cold War. Now colonialism and Cold War have ended. The

natural flow of history starts again. In this natural flow of history, we will not be asking

how Turkey influencing Middle East, or how Middle East is influencing Turkey. We will

be saying we have the same destiny—we will be influencing each other. The same is true

for the Balkans after the collapse of Soviet Union, or Central Asia. Now, whenever these

Cold War structures are fading, the natural forces of history will be coming up. Those who

are resisting against the Jasmine Revolution in Tunisia, or in Egypt, or now in Syria, in fact                                                                                                                107 Taha Ozhan, Ahmet Davutoğlu e Rafik Abdessalem, “Arab Spring, Tunisia and Turkey”, Seta Policy

Debate, Gennaio 2012. p 4

108 Ibidem p 5

  167  

they are trying to protect these Cold War structures which are putting distance between

societies. In an era of intellectual freedom, we will be influencing each other. In an era of

political dialogue, economic interdependency, we will be affecting each other”109.

Nel gennaio 2012 i Ministri degli Esteri di Tunisia e Turchia firmano ad Ankara un

Piano d’Azione Comune circa la cooperazione economica, soprattutto nel settore

industriale, immobiliare, commerciale e turistico. Nel piano si legge l’intento di proteggere

i diritti dei tunisini e turchi residenti in Europa, dalle ondate islamofobe e razziste.

La Tunisia ha bisogno di trovare il sostegno internazionale e di far ripartire

l’economia. La Turchia intende esportare i suoi prodotti in mercati differenti da un’Europa

in recessione e passare per la Tunisia per entrare nei mercati africani. Secondo la Jeune

Afrique la Turchia rappresenta “Le pays, dont la production industrielle surpasse celle de

l’ensemble des États arabes réunis”110. Il Maghreb è un mercato appetibile per Ankara. Il

giornalista del Today’s Zaman, Abdullah Bozkurt, esprimendo coerentemente il punto di

vista turco circa l’espansionismo in politica estera, molto efficacemente scrive:

“The new partnership offers a win-win case for both Turkey and Tunisia”.111

7. I rapporti tra Turchia e la Libia di Gheddafi

A causa della collocazione geopolitica della Turchia come bastione dell’Ovest in

Medio Oriente, le relazioni con la Libia lungo la Guerra fredda non brillano per cordialità

ed intensità.

Dal sito del Ministero degli Affari Esteri Turco si legge “There hasn’t been an official

visit at the level of head of states and governments from Libya to Turkey since the 1969

revolution.”112 Ovvero Gheddafi non si è mai recato in Turchia in visita ufficiale.

                                                                                                               109 Ibid. pp 13-14

110 Le Modèle Turc, http://www.jeuneafrique.com/Articles/Dossier/ARTJAJA2595p024-030.xml0/algerie-

maroc-arabes-tunisiele-modele-turc.html ,13 ottobre 2010

111 “On common path: Turkey and Tunisia”, http://www.todayszaman.com/columnist-268718-on-common-

path-turkey-and-tunisia.html,16 gennaio 2012

  168  

C’è stato un momento in cui la Libia mostra interesse e sostegno per la Turchia. Ciò

accade nel 1974 a seguito delle sanzioni occidentali e alla sospensione degli aiuti dagli

Stati Uniti a causa dell’intervento a Cipro. La Libia sostiene la Turchia inviandole

carburante per aerei militari. I legami bilaterali tuttavia non seguono un graduale

miglioramento. A causa del riavvicinamento turco agli Stati Uniti e Israele, la Libia non

ripone fiducia in Ankara. A seguito del mancato pagamento dei progetti di costruzione di

imprese turche nel suolo libico lungo gli anni ‘80, la Turchia non confiderà nella serietà

della Libia di Gheddafi. Le relazioni diplomatiche si mantengono ai minimi livelli e

l’interscambio economico consiste essenzialmente nell’importazione da parte della Turchia

del petrolio libico.

Finita la Guerra fredda, Tansu Çiller, di ritorno dal Summit economico di Casablanca,

effettua una veloce visita a Tripoli tra il 30 ottobre e il 1° novembre 1994. Tuttavia sarà il

Primo Ministro successivo, Necmettin Erbakan, leader del Refah Partisi, che tra il 4 e il 6

ottobre 1996 riporrà grande fiducia nella visita al Colonnello Gheddafi.  

Nella sua breve permanenza Erbakan enfatizzerà la necessità di migliorare le relazioni

tra i Paesi della sponda sud del Mediterraneo in nome del legame religioso. Secondo Jeune

Afrique la visita di Erbakan è stata una vera e propria umiliazione per il Primo Ministro:  

“Le dernier voyage d’un Premier ministre turc à Tripoli – celui de Necmettin

Erbakan, en 1996 – avait tourné au désastre. Alors que le bouillant islamiste bravait la

colère des Américains et défiait son état-major en rendant visite à Kaddafi, l’imprévisible

colonel l’avait ridiculisé en blâmant, en sa présence, l’amitié de la Turquie avec les États-

Unis et Israël. Affront suprême : il avait pris le parti de la guérilla des séparatistes kurdes

du PKK contre Ankara.”113  

La proposta di Gheddafi della costituzione di uno Stato kurdo mostra la mancanza di

credibilità della Turchia pur se guidata dal Refah Partisi da parte del leader libico.  

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               112 “Turkey´s Political Relations with Libya”, http://www.mfa.gov.tr/turkey_s-political-relations-with-libya.en.mfa, 15 febbraio 2012 113 “Turquie-Libye: le "Guide" des bonnes affaires”, http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2551p020.xml1/, 30/11/2009

  169  

I miglioramenti diplomatici e economico-commerciali sono contestuali

all’emancipazione della Turchia dagli schemi della Guerra fredda. Così come per la

Russia, l’Iran e la Siria, il mancato sostegno all’intervento statunitense in Iraq, il distacco

da Israele e l’orgoglio dimostrato nei confronti di Francia e Germania, modificano la

visione della Libia nei confronti di Ankara. Gheddafi apprezza particolarmente l’attivismo

di Erdoğan a difesa del popolo palestinese. Nel Summit del 2004 dell’Organizzazione della

Conferenza Islamica, i Ministri degli Affari Esteri di Libia e Turchia hanno modo di

incontrarsi ad Istanbul. Il ruolo importante nell’OCI facilita le relazioni tra Erdoğan e il

leader dell’Unione Africana. Il 2005 è l’anno dell’Africa, la Turchia intende proiettarsi nel

continente ricco di materie prime. Lo fa con l’enfasi dell’aiuto alla Somalia.  

Esponenti dell’AKP si recano in visita diplomatica in Libia e le relazioni commerciali

mutano lungo il decennio appena trascorso:  

Turkey-Libya Bilateral Trade Statistics ($ 000)

Years  

Export  

Import  

Balance of Trade

 

Volume  

2003  

254.741  

1.072.548  

-588.930  

1.327.289  

2004  

337.204  

1.514.125  

-817.807  

1.851.329  

2005  

384.167  

1.989.269  

-1.176.921  

2.373.436  

2006  

489.261  

2.297.351  

-1.605.102  

2.786.612  

2007  

643.149  

399.720  

-306.824  

1.042.869  

2008  

1.074.256  

336.325  

737.931  

1.410.581  

2009  

1.799.236  

402.568  

1.396.668  

2.201.804  

2010  

1.935.307  

425.652  

1.509.655  

2.360.959  

Dati: Turkey-Libya Economic and Trade Relations. Ministero Affari Esteri di Turchia

L’interscambio economico cresce quasi raddoppiandosi, tuttavia sono altri i dati

rimarchevoli. Il valore delle importazioni dalla Libia, petrolio e derivati, raddoppiano dal

2000 al 2006 (anche a causa dell’aumento del prezzo del prodotto). Dal 2007 però,

  170  

notiamo una flessione dell’importazione del petrolio libico in Turchia. La ragione è

principalmente la differenziazione di importazione dell’idrocarburo da altri Paesi, in primis

Iran e Russia.  

Il valore delle esportazioni dei prodotti turchi sono in costante aumento passando da

254,741 sino a 1.935,307 milioni di dollari. I principali prodotti esportati riguardano il

settore alimentare e soprattutto industriale: macchinari, trasporti, tessile, prodotti semi-

lavorati, ferro e acciaio, prodotti chimici, beni di consumo.   Nel territorio libico sono

presenti industrie turche che operano nelle costruzioni, nell’agricoltura, nel settore

estrattivo, manifatturiero e terziario.   L’insieme degli investimenti delle imprese di

costruzione turche ha un valore di 20,5 miliardi di dollari. In termini di appalti all’estero la

Libia è il secondo mercato dopo quello russo. Il numero di compagnie turche operanti in

Libia a fine 2009 era pari a centoquindici. Le imprese erano responsabili di progetti circa

la costruzione di porti, strade, sistemi d’irrigazione, hotel, centri commerciali, costruzioni

residenziali.  

Gli accordi di cooperazione bilaterale s’inquadrano in due iniziative: il JEC, Joint

Economic Commission, e il Business Council. La ventunesima riunione del JEC ha luogo

ad Ankara tra il 20 e il 22 luglio 2009. Il primo meeting del Consiglio d’Affari tra Turchia

e Libia ha luogo ad Istanbul tra il 28 e il 30 luglio 2009. Il secondo a Tripoli il sei aprile

2010. Nel novembre 2009 Erdoğan vola in Libia. I due Paesi migliorano le politiche dei

visti e firmano otto trattati in diversi campi tra i quali gli investimenti, l’agricoltura e i

trasporti.

Nella stessa visita Recep Taiyyp Erdoğan vince il Premio per i Diritti Umani

Moammar Gheddafi. Il leader turco sarà l’ultimo vincitore del Premio prima della

destituzione dello stesso. La fine della nobile iniziativa segue la rivoluzione libica,

l’intervento armato internazionale e la morte del dittatore promotore dell’ambito Premio

per i Diritti Umani.

  171  

8. L’intervento NATO in Libia e la reazione turca

“What has NATO to do in Libya? NATO's intervention in Libya is out of the

question. We are against such a thing”114.

Con queste parole Erdoğan in viaggio in Germania si rivolge alla Camera di

Commercio e dell’Industria Turco-Tedesca il giorno 28 febbraio 2011.

A fronte delle violenze perpetuata dal Governo di Gheddafi nei confronti della

popolazione libica, la dura critica di Erdoğan dell’intervento internazionale, sembra

contraddire l’atteggiamento di aperto sostegno alle popolazioni arabe insorte contro i

propri regimi.

Il Primo Ministro turco critica il progetto di missione in Libia portata avanti

principalmente da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Secondo Erdoğan questi Paesi

hanno intenti neo-coloniali, il fine è la spartizione delle ricchezze del suolo libico da parte

delle potenze Occidentali.

Riferendosi alla Francia Erdoğan dichiara:

“I wish that those who only see oil, gold mines and underground treasures when they

look in [Libya's] direction, would see the region through glasses of conscience from now

on.”115

I turchi appaiono disturbati dal linguaggio oltraggioso del Ministro degli Interni

francese, Claude Guéant, già primo consigliere di Nikola Sarkozy, che parla di “una

crociata per fermare il massacro di Gheddafi”.

Gli interessi economici turchi in Libia sono ingenti. La Turchia è stato il primo Paese

ad evacuare i suoi cittadini residenti in Libia, circa venticinquemila lavoratori.

                                                                                                               114 “PM rules out NATO intervention in Libya”, http://www.todayszaman.com/news-236953-pm-rules-out-nato-intervention-in-libya.html , 28 febbraio 2011 115 “Turkey and France clash over Libya air campaign”,

http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/24/turkey-france-clash-libya-campaign, 24 marzo 2011.

  172  

Gli investimenti in Libia hanno un valore totale di quindici miliardi di dollari, la

Turchia teme per i problemi di occupazione dei lavoratori che lasciano il Paese e per le

perdite ingenti delle imprese private turche, tra i due e i tre miliardi di dollari.

Tra febbraio e marzo 2011 ovvero il periodo in cui si discute sull’intervento armato

internazionale, la Turchia sembra optare per un non-interventismo ricordando il dramma

del conflitto iracheno. Tuttavia il netto rifiuto del 28 febbraio viene superato di lì a poco.

Nell’ultimo giorno di visita dell’Arabia Saudita, dalla città della Mecca, Erdoğan a seguito

dell’escalation delle violenze nel territorio libico e dell’arroccamento di Gheddafi dichiara:

“NATO should go in [Libya] with the recognition and acknowledgement that Libya

belongs to the Libyans, not for the distribution of its underground resources and wealth”116.

Il cambio di rotta della Turchia è successivo a consultazioni con i Paesi Arabi. Ankara

vuole essere sicura che l’interventismo in Libia non vada a ledere la popolarità e interessi

nell’area mediterranea e mediorientale. La scelta turca può essere letta come una

contromossa alla Francia nello scacchiere mediterraneo.

Nel marzo 2011 le principali potenze al mondo in particolare Stati Uniti e diversi Stati

europei, dibattono circa la doverosità dell’intervento in Libia. Sarkozy e il Ministro degli

Affari Esteri Alain Juppé propongono la Francia come guida della Missione internazionale.

Parigi è sede di numerose conferenze e incontri per risolvere la questione libica. Erdoğan è

spesso escluso da tali summit. In particolare il Primo Ministro turco non riceve l’invito per

la conferenza del 19 marzo 2011 in cui si ufficializzava de facto l’inizio dei raid aerei della

coalizione.

Erdoğan teme che il suo Paese possa rimanere isolato ed escluso dal conflitto in corso

così, velocemente, adatta la sua politica estera verso un attivismo militare.

La paura di Ankara è la guida di una missione del suo rivale nell’area mediterranea, la

Francia, in un Paese così strategico, la Libia. A seguito di un colloquio con Barack Obama

                                                                                                               116 “Erdoğan: NATO’s Libya move must not be for its wealth”,

http://www.todayszaman.com/newsDetail_getNewsById.action?newsId=238854, 22 marzo 2011.

  173  

e in accordo con la posizione d’Italia e Norvegia, Erdoğan sostiene l’intervento

internazionale purché portato avanti dalla Nato e non da un singolo Stato.

La Turchia non costituisce solo il secondo esercito più grande della Nato ma è anche

l’unico Paese musulmano dell’Organizzazione, ciò fa di tale Stato un attore influente

nell’Alleanza Atlantica.Nel marzo 2011 Ankara pone a servizio della missione Nato

cinque navi da guerra e un sottomarino per rafforzare la no-fly zone e prevenire il flusso di

armi per la Libia. La base aerea della NATO a Izmir, è designata come il centro di

comando dell’operazione al controllo della la no-fly zone.

9. L’attivismo di Ankara nella Libia libera da Gheddafi

Il 3 luglio 2011 Ahmet Davutoğlu vola a Bengazi dopo una visita al Cairo. Nella

Capitale dei ribelli libici, il capo della diplomazia turca riconosce il Consiglio di

Transizione Nazionale come il vero rappresentante del popolo libico. Davutoğlu assicura

un sostegno finanziario alle forze oppositrici di Gheddafi. Dopo la presa di Tripoli, la

prima missione estera del leader del Consiglio di Transizione Nazionale, Mustafa Abdul

Jalil, avviene proprio ad Ankara al fine di discutere circa la cooperazione bilaterale e la

ricostruzione della Libia.

Terminato il conflitto, dopo il riconoscimento dei vincitori come gli interlocutori

legittimi, la Turchia ha interesse nel confermare la sua presenza in regione. Nel gennaio

2012 viene assicurato l’addestramento delle forze di polizia libiche da parte dei turchi.

Nello stesso mese il Governo di Ankara estende a cinquecento milioni di dollari il prestito

concesso alla Libia. La visita del ministro turco dell’economia Zafer Çağlayan, precede

investimenti turchi nei settori infrastrutturali, industriali, turistici, agricoli e commerciali.

Sconfitto il Raìs, il 24 agosto 2011 Ahmet Davutoğlu è stato il primo dei ministri Nato a

recarsi a Bengasi. Davutoğlu in quell’occasione ribadisce quanto già affermato nel mese

precedente, ovvero che il futuro condiviso tra i due Paesi trova linfa nella storia condivisa.

10. Il Neo-Ottomanesimo tra idealismo e Realpolitik

La Primavera Araba rende lampante la tensione tra la dimensione idealista e quella

realista della politica estera turca. Il Primo Ministro Tayyip Erdoğan è stato il primo leader

occidentale a intimare le dimissioni di Hosni Mubarak nel discorso di al-Jazeera del

  174  

febbraio 2011. Il Presidente Abdullah Gül è stato il primo Capo di Stato ad incontrare il

Consiglio Supremo Egiziano. Nel caso egiziano e tunisino la Turchia ha sostenuto senza

riserva la democrazia.

Nei riguardi di Libia e Siria al contrario notiamo molta più prudenza e riflessione

circa il sostegno al popolo in rivolta. Per il caso libico abbiamo già approfondito le

relazioni economiche molto più importanti rispetto a Tunisia e Egitto (quest’ultimo primo

competitor regionale). Circa la Siria, la mancanza di condanna immediata alla tragedia

umanitaria compiuta dal governo di Assad è motivata da questioni securitarie. Turchia e

Siria condividono un confine di 877 chilometri. Per la Siria come per quanto è accaduto

nei conflitti iracheni, la prima preoccupazione di Ankara è la stabilità delle regioni abitate

dai kurdi. Le relazioni cordiali tra Ankara e Damasco sono motivate dall’interesse turco di

cooperare nella lotta al terrorismo kurdo.

I leader turchi in Egitto, Tunisia e Libia riscoprono i legami ottomani. Il Neo-

Ottomanesimo depurato della sua connotazione imperialista ed oscurantista rappresenta

l’enfasi emotiva ad un attivismo diplomatico ed economico.

I discorsi a tratti Wilsoniani di Davutoğlu e Erdoğan circa una nuova diplomazia e una

politica estera che riscopra pluralismo e tolleranza propri della fase ottomana, che ascolti le

richieste dei popoli e sia attento al rispetto dei diritti umani, sembrano un riadattamento

alla fase storica della Primavera dei Popoli Arabi. Nel periodo precedente la Turchia non

aveva problemi a dialogare con Muammar Gheddafi o Zine El-Abidine Ben Ali; o a

ricevere il sudanese Al-Bashir accusato dalla Corte Penale Internazionale di genocidio,

crimini contro l’umanità e crimini di guerra in Darfur. La Turchia firmava trattati di

cooperazione militare con il siriano Assad e difendeva (e lo fa ancora) Ahmadinejad di

fronte alla Comunità Internazionale.

Un’analisi diacronica delle relazioni tra Turchia e Paesi nord-africani mostra che

l’intento di potenziare la propria presenza in questi Stati prescinde da logiche di protezione

dei diritti dei popoli, ma viene piuttosto motivato dall’interesse nazionale di diversificare i

propri alleati e partner economici e ascendere al ruolo di leadership regionale.

  175  

Il Neo-Ottomanesimo e in generale la nuova politica estera turca, si spinge in una

delle zone più care del periodo imperiale: i Balcani. Nelle prossime pagine cercheremo di

ragionare circa gli intenti turchi in regione tenendo conto della percezione degli attori

balcanici all’espansionismo di Ankara. In particolare ci chiediamo se l’attivismo turco

possa aiutare a superare le divisioni bosniache o se al contrario l’ingresso di questo nuovo

attore nel Paese non porti piuttosto a rimarcare le distanze tra i tre popoli costitutivi della

Bosnia-Erzegovina.

  176  

Capitolo 3

L’attore turco nei Balcani Occidentali

“La nostra storia è comune. Il nostro destino è comune. Il nostro futuro è comune”.  

Ahmet Davutoğlu spiega in tali termini i legami tra Bosnia-Erzegovina e Turchia il

giorno 16 ottobre 2009 nel convegno “Eredità ottomana e comunità musulmane nei

Balcani di oggi”117 nell’hotel Hollywood di Sarajevo.  

Nel 1912 si combatteva la prima guerra balcanica in cui un’alleanza militare composta

da Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria provocava il ritiro dell’Impero Ottomano dalla

regione. A cent’anni dalla ritirata ottomana nei Balcani i turchi tornano in regione

trovando:

“una realtà geopolitica per molti versi simile a quella di cent’anni fa: dopo una

parentesi storica - la Jugoslavia tra la prima guerra mondiale e la fine della Guerra fredda -

nella regione sono rinati nuovi/vecchi piccoli Stati - in alcuni casi pseudo-Stati - con forti

elementi di protettorato. La Bosnia, che la Turchia fu costretta ad abbandonare al

protettorato di Vienna nel 1908, e il Kosovo, il suo vilayet perso nel 1912 in seguito alla

sconfitta nella prima guerra balcanica, sono oggi Stati sui generis. Per uno strano gioco

della storia, la Turchia si trova oggi in compagnia dei paesi dei Balcani occidentali nello

stesso “pacchetto” di aspiranti all’entrata nell’Unione europea”118.

Gli interessi di Ankara nel tornare ad essere attore nello scacchiere balcanico sono

differenti. Non è irrilevante la motivazione economica. I Paesi dell’Unione Europea,

sofferenti della recessione consumano meno e dunque importano meno. I turchi cercano

nuovi mercati dove esportare i propri prodotti. La Turchia soffre di un pesante deficit della

                                                                                                               117  The Balkans Civilisation Centre, Center For Advanced Studies, a cura di, The Ottomman Legacy and The

Balkan Muslim Communities Today, conference Proceedings, (sarajevo, 16-18 October 2009), Arka Press d.o.o.

Sarajevo, 2011, p. 13 118 Miodrag Lekic, “L'offensiva diplomatica della Turchia nei Balcani”, Affari Internazionali, 3 febbraio 2010

  177  

bilancia delle partite correnti e nei Balcani riesce ad esportare più che importare.Tuttavia i

Balcani occidentali non sono molto popolosi e i salari medi sono piuttosto bassi, inoltre la

Turchia deve scontrarsi con la concorrenza tedesca, austriaca, italiana e di altri Paesi.

Nonostante sia innegabile l’importanza della motivazione economica, oggi evidente a

fronte dell’incremento delle esportazioni e degli investimenti turchi in regione soprattutto

attraverso le comunità musulmane, essa non è sufficiente a spiegare il recente attivismo

turco in regione.

Ragione rilevante è il legame storico, culturale ed umano. Mustafa Kemal e molti

esponenti influenti nella storia dell’Impero Ottomano e in seguito della Repubblica di

Turchia hanno origine balcaniche. Ad oggi il governo turco stima circa dieci milioni119 di

cittadini con origine balcaniche, in particolare, bosniache e albanesi.

La motivazione strategica e diplomatica assume particolare importanza in relazione ad

altre potenze legate ai Balcani. In questa regione la Turchia mostra all’Europa, alla Russia

e agli Stati Uniti le sue abilità di mediazione tra i vari attori in conflitto.

Cerchiamo di riportare un parallelismo per meglio interpretare gli interessi diplomatici

turchi in regione. Nel 2003 in occasione della guerra in Iraq molti attori tra i quali

Germania, Francia e Turchia si sono opposti fortemente all’intervento americano. Tuttavia

alla critica agli Stati Uniti, seguiva un aumento delle truppe nella fase post-conflittuale

afghana. La propaganda mediatica anti-americana veniva controbilanciata dal punto di

vista diplomatico con l’aiuto in Afghanistan prezioso per Washington. Similmente

potremmo interpretare i rapporti tra Turchia e Stati Uniti. Se nello scacchiere

mediorientale, in particolare nei rapporti con Iran e Israele, tra Ankara e Washington

sembrano trasparire risentimenti e diffidenze, nei Balcani i rapporti tra i due attori

appaiono più che cordiali.

                                                                                                               119 Sylvie Gangloff, “The Impact of the Ottoman Legacy on Turkish Policy in the Balkans, 1991- 1999”, CERI, Novembre 2005, pg.10.

  178  

“Up to today, Washington and Ankara are close allies in the Peace Implementation

Council for Bosnia-Herzegovina, often arguing in this body against the EU and Russia”120.

Le varie organizzazioni e istituzioni turche, benché libere e spesso critiche l’una nei

confronti dell’altra (si pensi alla voglia di autonomia della TIKA nei confronti del governo

centrale, o i contrasti tra le istituzioni religiose e gli istituti più laici)121 condividono un

programma comune di stabilizzazione dei Paesi in cui operano122. Vi è coordinamento e un

progetto affine. Gli Stati Uniti riconoscono un ottimo partner nella Turchia, sicuramente

l’attore musulmano più indicato con cui cooperare in regione. La Turchia non può non

coinvolgere nel suo operato la Serbia, con la quale ha interesse a migliorare le relazioni,

chiaramente per un mutuo interesse economico, la Serbia è il mercato più ampio e il Paese

più ricco della regione, ma anche dal punto di vista diplomatico, evitare problemi con la

Serbia si inscrive nella logica dello “zero problemi con i vicini” in particolare con la

Federazione russa. Mosca e Belgrado sono legate storicamente e la Russia rappresenta il

primo ed essenziale partner economico per la Turchia. L’attivismo turco nei Balcani,

come si approfondirà tra breve, più che nell’economia, è visibile nella diplomazia, nella

cultura, nelle istituzioni e nella politica. Se gli Stati Uniti continuano a caldeggiare

l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea e la Russia vede di buon occhio la

cooperazione con Ankara ciò dipende anche dagli sforzi dei turchi nei Balcani. La Turchia

nella cooperazione con gli europei ha interesse a mostrare la sua capacità economica e di

mediazione e i suoi buoni intenti ai fini della stabilizzazione, ricostruzione e pacificazione

del territorio. Ankara vuole esibire a Bruxelles il suo potere, ma anche le sue buone

intenzioni. Consapevole delle lentezze per l’adesione sua e dei Paesi balcanici all’UE, in

questa fase di difficoltà economica europea e fatigue all’allargamento, Ankara è

promotrice dell’entrata nella NATO dei Paesi dei Balcani occidentali soprattutto della

Bosnia-Erzegovina, che rappresenterebbe il terzo Paese a maggioranza musulmana (dopo

Turchia e Albania) a prendere parte all’Alleanza Atlantica. La prospettiva di adesione di

uno dei Paesi dei Balcani Occidentali alla NATO, (peraltro non improbabile, viste le                                                                                                                120 Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”, Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 pg. 163  121  Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, pg 30  122  Ibid. pg 30  

  179  

recenti adesioni di Croazia e Albania nel 2009) rappresenterebbe un successo diplomatico

per l’attore turco.

1. La Repubblica turca e i Balcani da Atatürk ad Erdoğan.

La Repubblica di Turchia, nella fase di costruzione della Nazione, al fine di tutelare la

sua sicurezza esterna tenta di mantenere relazioni cordiali con la vicina Jugoslavia. Il 9

febbraio 1934 viene firmata ad Atene l’Intesa Balcanica. Un accordo difensivo tra Turchia,

Jugoslavia, Grecia e Romania in un contesto di ascesa degli autoritarismi e militarismi in

Europa.

Negli anni ‘50 si susseguono una serie di accordi di mutuo beneficio tra Jugoslavia e

Turchia. Vista la lacuna di personale con conoscenze tecniche nella giovane Repubblica,

Adnan Menderes, Primo Ministro esponente di spicco del Partito Democratico turco, si

accorda con Tito circa l’agevolazione di flussi migratori di cittadini musulmani, in

particolare albanesi, bosgnacchi di Bosnia e del Sangiaccato verso la Turchia. A sua volta

Tito facilita l’apertura di dipartimenti di turcologia in numerose università in tutto il

territorio della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e assicura la tutela di tutti i

cittadini di origine turca nel territorio jugoslavo. Il 28 febbraio 1953 Turchia, Jugoslavia e

Grecia firmano ad Ankara l’Accordo di Amicizia e Cooperazione. Il Trattato militare

promosso da Josip Broz Tito è motivato da una logica anti-sovietica. Attraverso l’entrata in

vigore del patto nel caso d’intervento sovietico in regione, la Jugoslavia, Paese non

appartenente all’Alleanza Atlantica a differenza di Grecia e Turchia, può contare

sull’appoggio dei due Stati. La morte di Stalin, la distensione tra Belgrado e Mosca e le

controversie tra Turchia e Grecia su Cipro rendono improbabili le condizioni di messa in

opera del Patto.

Nella fase di dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia la

Turchia è stato il primo Paese a riconoscere la Bosnia-Erzegovina nel 1992. Il Presidente

Turgut Özal vede nella fine della guerra fredda un’opportunità per la Turchia di seguire

una sua politica estera indipendente, rinsaldando legami con i Balcani e con i popoli

  180  

turcofoni attraverso le tradizioni storiche e culturali123. Nonostante lo sconcerto

dell’opinione pubblica turca di fronte alla tragedia della prima guerra jugoslava, la Turchia

non interviene attivamente nel conflitto bosniaco, come invece fa nel 1999 sostenendo

militarmente l’operazione NATO contro Belgrado a favore della secessione del Kosovo.

Rappresentando l’Organizzazione della Conferenza Islamica, la Turchia è un membro

permanente dello Steering Board of the Peace Implementation Council (PIC), l’organo

internazionale adibito alla messa in opera dell’Accordo di Pace di Dayton. Nella fase post-

conflittuale la Turchia è il membro Nato che sostiene più tenacemente l’adesione della

Bosnia-Erzegovina all’Alleanza Atlantica e nei vari incontri internazionali non manca di

sostenere l’importanza della salvaguardia dell’integrità territoriale, indipendenza e

sovranità della Bosnia-Erzegovina rispettando la composizione multi-etnica.

2. La diplomazia dell’AKP nei Balcani

L’attivismo in politica estera del Partito guidato da Erdoğan è concentrato soprattutto

in Bosnia-Erzegovina. Qui la diplomazia turca applica la dottrina dello “zero problemi con

i vicini” attraverso il “Trilateral Mecanisms”. Ankara promuove summit trilaterali tra

Bosnia-Erzegovina, Serbia e Turchia e Bosnia-Erzegovina, Croazia e Turchia.

Il 10 ottobre 2009, in occasione dell’incontro dei Ministri degli Esteri dei Paesi del

South East European Cooperation Process ad Istanbul, in via informale si riuniscono i capi

delle diplomazie di Turchia, Serbia e Bosnia-Erzegovina. Nei mesi successivi i tre Paesi

effettuano diversi incontri a Sarajevo ed Istanbul, volti a discutere su varie tematiche

compresa le proposte di riforma della Costituzione di Dayton. Il 15 gennaio 2010 si

verifica il primo imbarazzo diplomatico: in occasione del quarto meeting dell’ Alliance of

Civilizations for Southeast Europe, l’ambasciatore di Bosnia-Erzegovina non si reca

all’evento. Il motivo è che al momento non vi era un ambasciatore bosniaco in Serbia. Il

primo marzo 2010 Borisa Arnaut viene nominato Ambasciatore di Bosnia-Erzegovina in

Serbia. Il primo summit ufficiale tra capi di Stato si svolge ad Istanbul il 24 aprile 2010 tra

Abdullah Gül, Presidente della Repubblica di Turchia, Boris Tadić, Presidente di Serbia e                                                                                                                123 “Turgut Ozal Period in Turkish Foreign Policy: Ozalism”, http://www.turkishweekly.net/news/66515/turgut-ozal-period-in-turkish-foreign-policy-ozalism-.html, 10 marzo 2009

  181  

Haris Siljadzic, membro bosgnacco della Presidenza di Bosnia-Erzegovina. In vista di tale

occasione avviene un avvicinamento storico tra Sarajevo e Belgrado: il Parlamento Serbo

adotta una risoluzione di condanna e scuse per il massacro (non viene utilizzato il termine

genocidio) di Srebrenica avvenuto nel luglio 1995. La “Risoluzione Srebrenica” viene

votata in parlamento con 127 voti su 250 grazie al Partito Democratico di Serbia e alla

leadership di Boris Tadić. Le parole del 31 marzo 2010 di Boris Tadić sono:

“Penso che la dichiarazione mostri il più alto patriottismo, che mostri il nostro rispetto

nei confronti di un altro popolo e delle sue vittime e che sia anche la dimostrazione che il

nostro popolo e la nostra cultura sono parti inseparabili della cultura europea e della civiltà

europea”124

L’11 luglio 2010, in occasione del quindicesimo anniversario della strage di

Srebrenica, Boris Tadić si reca al memoriale del paese nella Republika Srpska per

commemorare le vittime musulmane e incontrare un’esponente dell’associazione Madri di

Srebrenica. L’avvicinamento a Sarajevo e i rapporti diplomatici con Ankara sono

importanti per la Serbia al fine del suo cammino verso l’Unione Europea. Il secondo

Summit a livello di capi di Stato avviene a Karadjordjevo una città serba, al confine con la

Croazia, il 26 aprile 2011. Per la prima volta il Presidente della Serbia incontra i tre

membri della Presidenza della Bosnia-Erzegovina. Boris Tadić ospita il Presidente della

Repubblica di Turchia, Abdullah Gül e Nebojša Radmanović, membro serbo del partito

Snsd, Partito dei Social Democratici Indipendenti, Bakir Izetbegović, esponente bosgnacco

dell’SDA, Partito d’Azione Democratica, figlio del primo Presidente di Bosnia-

Erzegovina, Alija Izetbegović, e Željko Komšić, l’esponente croato residente a Sarajevo,

eletto con l’SDP, il Partito Social-Democratico. In questa occasione Abdullah Gül

dichiara:

                                                                                                               124 “Tadic: “La condanna di Srebrenica dimostra la nostra vocazione europea””, http://it.euronews.com/2010/03/31/tadic-la-condanna-di-srebrenica-dimostra-la-nostra-vocazione-europea/, 31 marzo 2010.

  182  

“It is our desire to have the whole region united under a wider umbrella of the

European Union and NATO”125.

A dodici anni dai bombardamenti dell’Alleanza Atlantica su Belgrado, Tadić non si

esprime circa la NATO ma, riconoscendo il ruolo storico della Turchia nei Balcani,

conferma l’intento di adesione al progetto europeo:

“Turkey has its historic reasons and [...] legitimate interests for its presence in the

Balkans.” “We want the entire region to be integrated into the European Union as soon as

possible [...] this is our main political goal.”126

Prima di Abdullah Gül, il Ministro degli Affari Esteri di Turchia, Ahmet Davutoğlu

parla di responsabilità turca nella regione e d’intento di preservare l’unità e l’indipendenza

della Bosnia-Erzegovina. Davutoğlu visita Sarajevo in diverse occasioni. Il discorso più

rilevante e che desterà più polemiche da parte della componente serba e croata viene

enunciato a Sarajevo il 16 ottobre 2009. Secondo il capo della diplomazia turca i Balcani

sono una regione strategica a causa di diverse caratteristiche. In primis rappresentano una

regione cuscinetto, un punto di collegamento che allontana o avvicina l’Europa all’Asia e

viceversa, il Mediterraneo al Baltico, l’Africa al Nord e il Nord al Sud. Dai tempi della

civiltà greca i Balcani rappresentano una zona cruciale dal punto di vista geo-economico,

per il trasporto di beni dal mare al continente o per gli scambi tra Asia e Europa. I Balcani

sono inoltre caratterizzati da un’interazione geo-culturale per via delle ondate migratorie e

degli scambi di popolazione. Secondo Davutoğlu i Paesi che compongono i Balcani si

trovano attualmente di fronte a due opzioni: accettare il ruolo di essere una periferia

dell’Europa, ruolo riservato alla regione anche durante l’espansione di Alessandro il

Macedone e nel periodo romano, o tornare ad essere attore protagonista delle dinamiche

mondiali, come nella fase ottomana:

“During the Ottoman state, the Balkan region became the center of world politics in

16th century. This is the Golden Age of the Balkans. I’m not saying this because we

inherited Ottoman legacy, but this is an historical fact. Who run world politic in 16th                                                                                                                125 “Turkey says Bosnia and Serbia should join NATO, EU”, http://www.todayszaman.com/news-242154-turkey-says-bosnia-and-serbia-should-join-nato-eu.html, 26 aprile 2011.  126 Ibid.

  183  

century? Your anchestors. They weren’t all Turks, some were Slavic origins, some were

Albanian origins, some were even converted Greek origins, but they run the world

politics”127.

Dal ritiro ottomano il contesto dei Balcani è caratterizzata da scontri, conflitti e

intolleranza:

“Now, it is time to reunite all these and rediscover the spirit of the Balkans. In order to

alleviate the geo-political buffer zone character of Balkans and save the region from

becoming a victim of violent conflicts, we have to create a new sense of unity in our

region. Balkan history is not only a history of conflicts, on the contrary between the 16th

and the 19th centuries, Balkan history was a success story. We can reinvent and reestablish

this success by creating a new political ownership, a new multicultural coexistence and a

new economic zone.”128.

Il Ministro esalta le possibilità e le responsabilità del suo Paese:

“As the Republic of Turkey, we would like to construct a new Balkan region based on

political dialogue, economic interdependence, cooperation and integration, as well as

cultural harmony and tolerance.

These were the Ottoman Balkans, and hopefully we will reestablish the spirit of these

Balkans. Critical writers call our approach “neo-Ottomanism”, therefore I do not want to

refer to the Ottoman state as a foreign policy issue. What I am underlying is the Ottoman

legacy; the Ottoman centuries in the Balkans were peace and success stories.”

e ancora:

“There are more Bosnians living in Turkey than in Bosnia! There are more Albanians

in Turkey than in Albania[...]Turkey is a safe haven, their homeland. You are welcome!

Anatolia belongs to you, our brothers and sisters! And we are confident that Sarajevo                                                                                                                127 The Balkans Civilisation Centre, Center For Advanced Studies, a cura di, The Ottomman Legacy and The

Balkan Muslim Communities Today, conference Proceedings, (sarajevo, 16-18 October 2009), Arka Press d.o.o.

Sarajevo, 2011, p. 13 128 ibid. p. 16

  184  

belongs to us! If you wish to come, come! But we want you to be secure here, as owners of

Sarajevo and Bosnia-Herzegovina. What is happening in Bosnia is our responsibility."

“We will reintegrate the Balkans, [...]on these principles of regional and world peace,

not just for us, but for all of humanity.”

Davutoğlu aveva già precedentemente esposto il suo pensiero circa l’importanza della

regione balcanica per la Turchia. Nel testo Profondità Strategica, il secondo capitolo è

intitolato “Il bacino terrestre di prossimità. Balcani – Medio Oriente – Caucaso”129.

“I Balcani ai primi del secolo assumevano un’importanza particolare per la

liquidazione dello Stato ottomano, che per le grandi potenze che governavano i rapporti

internazionali occupava il centro politico di una resistenza in progressivo indebolimento di

fronte al colonialismo occidentale. Con le guerre balcaniche si era realizzata

l’estromissione dello Stato ottomano dai territori europei”130.

Benché l’Impero Ottomano dal punto di vista del diritto internazionale sia un soggetto

non più esistente, la Turchia eredita una responsabilità in regione:

“Il fatto che sia la Turchia il paese al quale si sono rivolti in primo luogo bosniaci e

albanesi dopo gli eccidi a sfondo etnico perpetrati in Bosnia e in Kosovo non è diverso

dall’imporsi, come importante parametro di politica estera, di un obbligo e di una

responsabilità di carattere storico”.

La Turchia si inserisce nella regione cercando il dialogo e il contatto naturale con le

popolazioni musulmane:

“Fondamento dell’azione politica della Turchia nei Balcani sono le comunità

musulmane, eredità dell’epoca ottomana. [...] La Turchia in questo momento sembra

                                                                                                               129 Il testo di Davutoglu, “Profondità Strategica”, scritto nel 2001 e pubblicato dalla Casa editrice Kure Yayinlari, non è stato tradotto che in greco, albanese e arabo. Tuttavia grazie allo zelo di centri studi e ricerca, come la Rivista Italiana di Geopolitica, Limes, possiamo oggi accedere direttamente al testo. Il capitolo riferito ai Balcani è stato tradotto da Fabrizio Beltrami ed è riportato nella pubblicazione La profondità strategica turca nel pensiero di Ahmet Davutoglu. Progetto realizzato dal Centro Studi “Vox Populi” di Pergine Valsugana, Trento, nel Maggio 2011. 130 Ahmet Davutoglu, “Profondità Strategica”, traduzione di Fabrizio Beltrami in “La profondità strategica turca nel pensiero di Ahmet Davutoglu”. Centro Studi “Vox Populi”, Pergine Valsugana, Trento, 2011, p. 26.  

  185  

disporre nei Balcani di notevoli opportunità fornite dal background storico che fa

riferimento all’eredità ottomana. In particolare in due Paesi (Bosnia e Albania), nei quali i

musulmani, che hanno un ruolo di naturali alleati della Turchia, sono la maggioranza, c’è

la volontà di far evolvere in un’alleanza questo background storico comune. Le minoranze

turche e musulmane presenti in Bulgaria, Grecia, Macedonia, Sangiaccato, Kosovo e

Romania sono elementi importanti della politica balcanica della Turchia”.

Gli obiettivi della politica estera turca sono:

“il rafforzamento della Bosnia e dell’Albania nell’ambito di una struttura stabile, e la

costituzione di una base giuridica internazionale che metta al riparo, sotto un ombrello di

sicurezza, le minoranze etniche presenti in regione. Su questa base giuridica, la Turchia

deve perseguire senza soluzione di continuità l’obiettivo di ottenere la garanzia di avvalersi

del diritto d’intervento nelle questioni riguardanti le minoranze musulmane presenti nei

Balcani”.

“La Turchia può ottenere un diritto di questo tipo nei Balcani solo e soltanto se segue

una politica balcanica attiva che tenga sempre in considerazione i fattori culturali e

storici”.

Ahmet Davutoğlu dal 2009 visita diverse volte la Bosnia-Erzegovina, ma solo dal

2011, in particolare nel viaggio del 28 e 29 gennaio 2011 a Mostar e Banja Luka inizia un

confronto con autorità croate e serbe del Paese131. Come sarà riportato nella parte finale del

capitolo: “La percezione dell’attore turco da parte dei bosniaci”, la visita a Banja Luka da

parte del capo della diplomazia turca sarà ricordata dai serbi per l’incidente diplomatico

circa la mancanza di bandiere della Bosnia-Erzegovina e dello sdegno di Davutoğlu,

piuttosto che per l’inizio del dialogo e della distensione tra serbi di Bosnia e turchi.

3. Cooperazione Militare turca in Regione

La Turchia non ha preso parte nel conflitto bosniaco, ma non ha esitato nel sostenere

la coalizione NATO nella guerra contro la Serbia in favore della secessione del Kosovo,

                                                                                                               131 “Relations between Turkey and Bosnia and Herzegovina (BiH)”, http://www.mfa.gov.tr/relations-between-turkey-and-bosnia-and-herzegovina.en.mfa, visionato il 2 febbraio 2012

  186  

dove attualmente è presente una delegazione militare turca coordinata all’interno di

EULEX132. Le truppe turche sono presenti nello spiegamento di forze dell’EUFOR Althea

in Bosnia-Erzegovina per la messa in opera militare degli accordi di Dayton. Le Forze

Armate turche presenti in Bosnia-Erzegovina hanno tra i vari compiti la formazione e

addestramento di militari e poliziotti bosniaci. Come già riportato la Turchia sostiene

tenacemente l’adesione della Bosnia-Erzegovina nell’Alleanza Atlantica.

La Marina militare turca è presente in Albania sin dall’operazione Alba del 1997, e in

Montenegro133. La Turchia è uno dei più tenaci sostenitori dell’adesione della Macedonia

nella Nato. Prende parte a tutte e tre le operazioni NATO in Macedonia: Essential Harvest

(2001), Amber Fox (2001-2003) e Allied Harmony (2002-2003). Quando le operazioni

NATO sono state sostituite dall’operazione di gestione della crisi Concordia, sotto

l’autorità dell’Unione Europea, la Turchia ha contribuito con l’addestramento delle forze

di polizia macedoni. Il 24 dicembre 2010 i ministri della difesa di Turchia e Macedonia

firmano un trattato di cooperazione militare. Il Ministro della difesa turco dichiara:

“Turkey is not only the first country that recognised Macedonia and sent an

ambassador, but it also recognised the country together with its millennium-long historical

past, not with some abbreviation”134.

Ad oggi tra i generali macedoni pare essere più diffusa la conoscenza della lingua

turca piuttosto dell’inglese135.

Dal 2008 la cooperazione militare tra Turchia e Serbia è caratterizzata da un

miglioramento delle relazioni. La Turchia collabora con la Serbia per la conversione

dell’aeroporto di Ladjevci (nei pressi di Kraljevo) da militare a civile, inoltre sono presenti

ufficiali turchi nella formazione dell’accademia militare di Belgrado.

Circa i rapporti militari con Podgorica:

                                                                                                               132 “What is EULEX?” http://www.eulex-kosovo.eu/en/info/whatisEulex.php, visionato il 2 febbraio 2012. 133 Ibid. 134 “Macedonia and Turkey Ink Military Agreement”, http://macedoniaonline.eu/content/view/17181/43/, 24 dicembre 2010. 135 Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”, Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p. 167  

  187  

“The military cooperation between Turkey and Montenegro focuses on activities

involving NATO’s Membership Action Plan and the cooperation of their respective navies.

Negotiations are currently under way for concluding a defense cooperation agreement be-

tween the two states, which would regulate and enable cooperation and exchange in

training and other areas”136.

4. La Presenza economica turca in Bosnia-Erzegovina e nei Balcani

Le relazioni economiche e commerciali tra Turchia e i Paesi dei Balcani mostrano una

tendenza crescente dagli ultimi anni ’90. Gli accordi di libero scambio tra Turchia e, ad

oggi, tutti i Paesi dei Balcani Occidentali favoriscono le interazioni. Gli investimenti turchi

nelle telecomunicazioni, trasporti, banche, costruzioni, miniere e la promozione della

piccola e media impresa, sono agevolati e benvenuti dai Governi dei Paesi dei Balcani

occidentali. Nei Balcani la Turchia esporta principalmente prodotti chimici e petrolio,

vetro, attrezzatura militare, prodotti tessili, elettrodomestici, lavorati in carbone e acciaio,

cioccolata, pomodori e giocattoli. La Turchia importa rame, locomotive a motore elettrico,

attrezzatura militare, prodotti chimici e pelle bovina137. La bilancia delle partite correnti

dimostra un surplus dei prodotti turchi esportati di tre a uno nel 2010138.

E’ bene specificare che il commercio tra Turchia e Balcani occidentali, in termini

assoluti, rappresenta solo una frazione esigua rispetto alla presenza economica tedesca,

italiana, austriaca, ungherese o russa. Anche dal punto di vista turco i mercati dei Balcani

Occidentali non sono particolarmente attraenti per i salari mediamente bassi e la bassa

popolosità dei Paesi.

Tuttavia la Turchia s’inserisce in progetti strategici della regione come la

partecipazione alla costruzione dell’autostrada che collegherà Belgrado a Bar passando per

il Sangiaccato. Alla costruzione dei 445 chilometri parteciperanno tre imprese di

                                                                                                               136 Ibid. p 168 137 “Relations between Turkey and Bosnia and Herzegovina (BiH)” http://www.mfa.gov.tr/relations-between-turkey-and-bosnia-and-herzegovina.en.mfa, visionato il 2 febbraio 2012 138 Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”, Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p. 164  

  188  

costruzioni turche: Kolin, Makwol e Juksel139. Nel 2010 sono iniziate le negoziazione per

l’acquisizione di azioni della compagnia aerea serba, JAT Airways, altamente indebitata,

da parte della Turkish Airlines. Nel settembre 2010 è entrato in vigore l’accordo di libero

scambio tra Ankara e Belgrado. Per i cittadini serbi non è stato mai così facile viaggiare

verso la Turchia e viceversa.

La cooperazione con la Bosnia-Erzegovina è certamente quella più enfatizzata e

pubblicizzata. Gli accordi economici e commerciali principali tra Bosnia-Erzegovina e

Turchia sono i seguenti140:

Accordo Data della Firma

Trade and Economic Cooperation Agreement 07 November 1995

Mutual Protection and Encourage of Investiment 21 January 1998

International Highway Transportation Agreement 22 January 1998

Free Trade Agreement 3 July 2002

Cooperation Protocol on Fields od Veterinary Sciences 13 December 2002

Social Security Convention and Management Agreement

on its Application

27 May 2003

Double Taxation Avoidance Agreement 16 February 2005

L’Accordo di Libero scambio elimina le barriere al commercio per i prodotti agricoli e

industriali. Dal 2007 i Paesi estendono l’abolizione di dazi, quote e tasse all’esportazione

su tutti i prodotti e bene scambiati.

La crisi economica del 2009 ha provocato una flessione dell’interscambio

commerciale tra Turchia e Bosnia-Erzegovina. Dal 2010 assistiamo al tentativo di

                                                                                                               139 “Economics Override History for Belgrade and Ankara”, http://www.balkaninsight.com/en/article/economics-override-history-for-belgrade-and-ankara, 6 dicembre 2010. 140 Fonte: Report: “Bosna Hersek Ülke Bülteni”, DEIK,  Dis Ekonomik Iliskiler Kurolu, Foreign Economic Relation Board, Agosto 2011. Per la traduzione dal turco all’inglese, consideriamo: Ozum Iseri, “Economic Bilateral Relations between Turkey and Bosnia Herzegovina”, Centar Za Sigurnoste Studije BiH, novembre 2011  

  189  

rilanciare l’economia turca in regione attraverso nuovi investimenti. L’interscambio con la

Bosnia-Erzegovina avviene maggiormente con la Federatia, tuttavia ci sono esempi recenti

di investimenti privati nell’entità serba: nel 2007 l’impresa farmaceutica turca Nobel, ha

investito dal 2007 sei milioni di euro, avviando un’impresa a Banja Luka, la capitale della

Republika Srpska141. Secondo la Turkish Statistical Institut, al settembre 2011 le

esportazioni nello stesso anno di prodotti turchi ammontano al valore di 203.839.000

milioni di dollari, nello stesso periodo la Bosnia esporta per 64.048.000 milioni di

dollari142.

Anni Esportazioni

(milioni di euro)

Importazioni Volume

Commerciale

2008 428 18 446

2009 170 28 198

2010 169 54 223

I rapporti economici con i Balcani Occidentali solo considerevoli, tuttavia molto

inferiori rispetto gli interscambi con i Paesi dell’Unione Europea. Proviamo adesso a

esporre una serie di grafici circa gli interscambi commerciali in valori relativi, ma

considerando oltre ai “Paesi del Blocco Ottomano”(Paesi dell’ex-Jugoslavia esclusa

Slovenia e aggiunta l’Albania) anche i dati della Slovenia, un Paese dell’Unione Europea,

meno abitato ma più ricco di molti Paesi dei Balcani Occidentali. 143

                                                                                                               141  Report: “Bosna Hersek Ülke Bülteni”, DEIK,  Dis Ekonomik Iliskiler Kurolu, Foreign Economic Relation Board, Agosto 2011  142  “Export by year”, http://www.turkstat.gov.tr/Gosterge.do;jsessionid=1SjTPJTLClvQJ9QK4NlDvJwrNyblQT6lFHpXDJqQ3BDtnHGxGQkV!441150592?metod=IlgiliGosterge&id=3483, visionato il 3 febbraio 2012.  143 Fonte: Ozum Iseri, “Economic Bilateral Relations between Turkey and Bosnia Herzegovina”, Centar Za Sigurnoste Studije BiH, novembre 2011 p. 9  

  190  

  191  

144

Nell’articolo di The Economist “The good old days? Talk of an Ottoman revival in the

region seems exaggerated”, il giornale critica l’enfasi data alla presenza turca nella regione

balcanica:

“The western Balkans matter little economically. High-profile road and airport

projects give a false impression of huge Turkish investment. Except in Albania and

Kosovo, there has been more talk than cash.”145

                                                                                                               144  Dati fino a settembre 2011, Fonte: Ozum Iseri, “Economic Bilateral Relations between Turkey and Bosnia Herzegovina”, Centar Za Sigurnoste Studije BiH, novembre 2011 p. 9.  

  192  

Secondo The Economist la Turchia non sarebbe nemmeno tra i primi venti investitori

in regione.

In Bosnia-Erzegovina tuttavia gli investimenti turchi sono ingenti rispetto a quelli

negli altri Paesi. Cinquanta imprese turche operano in Bosnia-Erzegovina, la cooperazione

economica riguarda l’industria tessile, la difesa, le costruzioni, i trasporti, l’industria

elettrica e quella alimentare. Al 2009 la Turchia rappresenta il primo Paese investitore in

Bosnia-Erzegovina, 94,9 milioni di euro; al 2010 il sesto (dopo Austria, Serbia, Croazia,

Arabia Saudita e Slovenia) investendo 15,624 milioni di euro146.

Le principali imprese turche nel territorio nazionale sono le seguenti147:

Azienda turca Nome

dell’azienda in

Bosnia-Erzegovina

Natura degli

Investimenti

Importo Totale

degli investimenti

Ziraat Bankası Turkish Ziraat

Bank Bosnia d.d.

Settore Bancario 25 milioni di

euro

Kastamonu

Entegre Ağaç San.

ve Tic. A.Ş.

(Hayat Holding)

Natron-Hayat

d.o.o

Fabbricazione e

lavorazione della

carta

10 milioni di

euro

Soda San A.Ş.

(Şişecam A.Ş.)

Şişecam Soda

Lukavac

Industria

chimica

Investimento

totale previsto 56,7

milioni di euro dei

quali:

26,7, attuale

partecipazione

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               145 “The good old days? Talk of an Ottoman revival in the region seems exaggerated”. The Economist, 5 novembre 2011. 146 Report: “Bosna Hersek Ülke Bülteni”, DEIK, Dis Ekonomik Iliskiler Kurolu, Foreign Economic Relation Board, Agosto 2011, p 10 147 Ibid. p 11, per questo grafico, non avendo trovato traduzioni ufficiali in inglese, ci siamo permessi di tradurre dal turco all’italiano. Per maggiori approfondimenti rimandiamo al report riportato in nota.  

  193  

azionaria e i restanti

30 negli investimenti

del prossimo

quinquennio.

THY Bosnia Air Acquisizione del

49% delle azioni

della Bosnia Airlines

da parte della Turkish

Airlines

5 milioni di euro

La Turkish Ziraat Bank Bosnia e la Turkish Airlines sono le imprese turche più

conosciute e visibili nella Federatia. La Ziraat Bosnia inizia le sue operazioni nel 1997 e

ad oggi sono presenti 27 filiali, la sede principale è a Sarajevo. 148 La Ziraat offre prestiti di

breve e lungo termine finanziando principalmente impresa, esportazione e investimenti. Al

2010 il totale dei depositi ammonta a cinquantadue milioni di euro, cifra in crescita149.

La Turkish Airlines rappresenta una delle principali compagnie aeree del Paese

collegando quotidianamente Sarajevo a Istanbul. Nel dicembre 2008 la Turkish Airlines

firma un accordo con la BiH Airlines per l’acquisizione del 49% delle azioni della

compagnia. Attraverso la Turkish Airlines in Bosnia-Erzegovina arrivano i turisti dalla

Turchia. Secondo Luca Leone la maggior parte dei turisti che hanno visitato la Federatia

nel 2010 erano turchi, 14,4%150.

La presenza economica turca è in tendenziale crescita. Tuttavia il Paese soffre delle

difficoltà di poter competere efficacemente con Germania, Italia, Austria, Ungheria e

Russia nonché con il commercio interno tra i Paesi dei Balcani Occidentali. Come già

menzionato, la bassa popolosità e il livello esiguo dei salari medi nella regione

costituiscono un disincentivo per Ankara di puntare in questi mercati. Ma oltre

                                                                                                               148“About the Bank”, http://www.ziraatbosnia.com/eng/obanci.htm, visionato il 6 febbraio 2010 149 Ibid.  150  Luca Leone, “Bosnia Express”, Infinito Edizioni, Roma, 2010, p 137.

  194  

all’economia, sono soprattutto la cultura, la religione, la cooperazione allo sviluppo, gli

strumenti attraverso i quali la Turchia diviene attore protagonista nei Balcani Occidentali.

5. Cultura storia e religione, un legame secolare

Come affermato dalle autorità turche, i legami tra i Balcani e l’Anatolia derivano da

secoli di convivenza e commistione culturale. Attualmente la Turchia viene percepita come

interessata a dialogare e cooperare principalmente con la popolazione musulmana che abita

i Balcani. Tuttavia spesso s’incorre nell’errore di uniformare e banalizzare la popolazione

di fede musulmana in regione151. I musulmani che abitano la regione dei Balcani

occidentali parlano diverse lingue madri: albanese, turco, serbo-croato-bosniaco-

montenegrino, diversi dialetti delle popolazioni rom. Sono divisi in distinti gruppi etnici:

albanesi, slavi, turchi, pomacchi, torbesh e rom. Aderiscono a differenti tradizioni

teologiche: la maggioranza è sunnita, in Albania e in Macedonia vi sono delle confraternite

sufi Bektashi, in Bulgaria sono presenti comunità alevite e in Bosnia-Erzegovina, in

Macedonia e nel Sangiaccato sono presenti delle esigue comunità wahabite. La non

omogeneità delle comunità musulmane e la loro frammentazione porta le stesse ad avere

una diversa percezione della presenza turca in regione, non sempre positiva.

Il legame con l’Anatolia è tuttavia fuori discussione soprattutto dal punto di vista delle

connessioni umane. Dall’indebolimento dell’Impero Ottomano lungo il diciannovesimo

secolo e gli scontri con le popolazioni cristiane-ortodosse, assistiamo a migrazioni dei

musulmani verso l’Anatolia. I flussi migratori, sia volontari che forzosi, continuano

durante la guerra fredda. Dalla Bulgaria tra il 1950 e il 1951 vengono espulsi circa 150.000

bulgari della minoranza turca. I già citati patti tra Tito e Menderes favoriscono

un’emigrazione di 300.000 musulmani dalla Jugoslavia all’Anatolia tra il 1953 e il 1960152,

riducendo la popolazione musulmana soprattutto in Macedonia e nel Sangiaccato. Nel

1989 il leader comunista bulgaro Todor Jivkov porta all’emigrazione forzata di 370.000

bulgari della comunità turca, molti dei quali ritornati dopo la fine della dittatura, ma

                                                                                                               151  Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, p. 6  152 Ibid.

  195  

mantenendo con la Turchia legami economici e familiari153. L’ultimo fenomeno migratorio

di popolazioni musulmane verso la Turchia avviene nelle guerre degli anni ’90 da parte di

bosgnacchi e kosovari. Istanbul rappresentava la sede del califfato, tuttavia alcuni episodi

hanno portato all’allontanamento di diverse entità da tale autorità religiosa. La nascita

dello Stato albanese a seguito della prima guerra balcanica nel 1912 comporta la frattura

con Istanbul. L’Albania negli anni di fondazione della Nazione è governata dai nazionalisti

che per difendere il Paese da eventuali influenze turche favoriscono lo sviluppo di

un’autoctona comunità religiosa albanese, chiamata Diyanet attraverso il Congresso

Islamico del 1923. Nel 1967 inoltre l’Albania si dichiara il primo Stato ateo al mondo.

Negli altri Paesi vengono mantenute le relazioni con l’Impero Ottomano e in seguito con la

Turchia. Tuttavia, soprattutto nella comunità bosniaca, il consenso nei confronti dei turchi

appare messo in crisi dall’incapacità degli ottomani di difendere la Bosnia dall’invasione

austro-ungarica e in ultimo dalla passività della Turchia nella guerra di Bosnia dal 1992 al

1995.

Attualmente le autorità turche sostengono che circa dieci milioni di turchi abbiano

origini balcaniche154. Nei Balcani come nella maggior parte dei territori in cui l’Islam si è

diffuso attraverso le conquiste ottomane, la religione è interpretata dalla scuola hanafita.

Nei Balcani sono presenti da secoli scuole e culti mistici sufi.

L’ ”Islam Europeo” (in questi termini viene definita la tradizione religiosa nei

Balcani), è caratterizzato da secoli di convivenza con altre tradizioni religiose. Secondo

molti esperti ed intellettuali, uno tra questi Kerem Öktem dell’università di Oxford, la

caratteristica dell’Islam delle comunità balcaniche preserverà i suoi caratteri liberali e non

favorirà nel lungo termine l’incremento delle comunità Wahhabite e Salafite. Queste

ultime sono tradizioni estranee alla storia dei Balcani155.

Se durante il periodo jugoslavo la religione era relegata alla sfera essenzialmente

privata e la popolazione era caratterizzata da un atteggiamento fortemente laico, la guerra

di Bosnia ha creato le condizioni per l’emergere di un network di attori e intellettuali

                                                                                                               153 Ibid. p 6  154 Ibid p 7 155 Ibid. p 9

  196  

islamici che continuano ad operare all’interno delle istituzioni democratiche. L’emergere

dei nazionalismi ai primi degli anni ’90 ha contribuito al rafforzamento delle Chiese nei

Balcani. Comunità precedentemente secolarizzate si ritrovano a compattarsi sotto l’insegna

della fede. In Bosnia-Erzegovina in particolare, Paese per secoli multi-religioso e multi-

culturale, la devastazione dell’apparato statale a seguito della guerra, ha contribuito

all’incremento dell’importanza degli istituti religiosi per i cittadini. Gli enti religiosi

destinatari degli aiuti internazionali si trovano a supplire alla carenza dello stato e ad essere

oggi attori imprescindibili per le dinamiche statali.

Alija Izetbegovic, il primo Presidente di Bosnia-Erzegovina, ha inaugurato una

cooperazione internazionale con i Paesi musulmani. Molti giovani usufruiscono di borse di

studio per studiare nelle migliori università turche. I bosniaci che tornano a seguito di una

formazione in Turchia al pari di coloro che studiano negli istituti turchi, costituiscono una

ricchezza per la Turchia in quanto spesso promotori di una politica di apertura e

cooperazione con Ankara156. Un esempio è Salmir Kaplan157, il giovane Ministro della

Federatia per la Cultura e lo Sport. Egli dopo aver studiato al dipartimento di turcologia

presso l’università di Sarajevo ha effettuato un periodo di studio ad Istanbul e ha sempre

manifestato simpatia e volontà di collaborazione con Ankara. Per questo motivo la Turchia

favorisce una politica di cooperazione e promozione culturale: lo Yunus Emre Institut, ad

esempio, ispirato al British Council e al Goethe Institut ha sedi importanti a Sarajevo,

Skopje e Tirana. L’istituto organizza corsi di lingua turca a prezzi modici e si promuove la

cultura turca attraverso cineforum, conferenze ed esposizioni artistiche e culturali158.

Nella formazione così come nella cultura popolare la Turchia influenza in maniera

crescente tutti gli Stati dei Balcani Occidentali. La maggior parte delle attività degli attori

statali e non-statali turchi si concentrano nelle regioni musulmane159, in Bosnia ad esempio

l’attività turca è molto più marcata nella Federatia e quasi del tutto carente nella Republika

                                                                                                               156  “Western Balkans: is Turkey back?” http://csis.org/blog/western-balkans-turkey-back, 25 aprile 2011 157 Curriculum Vitae del Ministro federale della cultura e dello sport Salmir Kaplan. http://www.fbihvlada.gov.ba, 7 febbraio 2012 158 “About us”, http://www.yunusemrevakfi.com.tr/bosnia/index.php?lang=en&page=1, visionato il 3 ottobre 2011 159 Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”, Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p. 169

  197  

Srpska. I mass media turchi, i canali televisivi, le Soap-Opera ricevono un audience

entusiastico160. Attualmente i cittadini di nessuno dei Paesi dei Balcani necessitano di visti

per visitare la Turchia. L’interesse per la cultura, la facilità e i prezzi oggi più contenuti per

viaggiare grazie alla Turkish Airlines, hanno portato ad un aumento del turismo verso

l’Anatolia.

In collaborazione con gli istituti di cultura turca opera la TIKA. La Turkish

International Cooperation and Development Agency, Türkiye İşbirliği ve Kalkınma İdaresi

Başkanlığı, viene fondata sotto la presidenza di Turgut Özal come strumento di politica

estera nelle Repubbliche centro-asiatiche e nei Balcani. Può operare solo nei Paesi in via di

sviluppo, è presente infatti in tutti i Balcani occidentali ad eccezione di Grecia e Bulgaria

considerati paesi donatori e non beneficiari di aiuti allo sviluppo. Nei Balcani la TIKA

collabora con le organizzazioni islamiche operando nel restauro e ricostruzione di

moschee, ponti e edifici ottomani. Dal 2005 in base ad un accordo bilaterale tra Turchia e

Albania, la TIKA in collaborazione con il Ministero turco della Cultura e la Presidenza

turca degli Affari Religiosi ha iniziato il restauro di venti moschee ottomane.

Nella regione a maggioranza musulmana del Montenegro, la TIKA ha investito oltre

cinque milioni di euro.161 A Tuzi, nei pressi della capitale Podgorica, la cooperazione turca

ha finanziato la costruzione di una Madrassa, la prima scuola religiosa musulmana nel

Montenegro dal 1918. La Turkish International Cooperation and Development Agency,

concentra la sua attenzione sulla ricostruzione di monumenti storici ottomani in tutto il

territorio balcanico. In Bosnia-Erzegovina esempi evidenti possono trovarsi a Mostar o a

Konijc.

“The restoration of Ottoman mosques is important for the self-confidence of the

Muslim communities since these mosques were par- ticularly targeted by Serbian forces as

symbols of the Muslim enemy in the wars of the 1990s. Reconstruction also seems to be a

significant act of symbolical re-appropriation of Ottoman material heritage and an

                                                                                                               160 Ibid. 161 “Skole na sjeveru u planovima ministarstva”, Dan, 2 maggio 2011.  

  198  

affirmative statement of the role of Turkey as protector of the Muslim people of the

Balkans”162.

La Presidenza degli Affari Religiosi, il Diyanet İşleri Başkanlığı, fondata con

l’articolo 136 della Costituzione turca, stabilita nel 1924 a seguito dell’abolizione del

califfato, rappresenta la principale autorità islamica religiosa della Turchia. Dal 1984 il

Diyanet opera anche all’estero in ausilio della comunità turca in Germania e dagli ultimi

anni ’90 opera nelle Repubbliche centro-asiatiche e nei Balcani a favore delle comunità

musulmane. L’attività più evidente di Diyanet nei Balcani è la ricostruzione di edifici

ottomani e la costruzione di Moschee. Tuttavia organizza anche pellegrinaggi alla Mecca,

diffonde pubblicazioni di carattere religioso, gestisce letture e insegnamenti del Corano, si

occupa della formazione nelle scuola Imam-Hatip, di corsi universitari di teologia e

elargisce borse di studio

Borse di studio elargite da Diyanet nei Balcani nel 2009163:

Paese Numero di

Musulmani

Numero di

beneficiari di

borse di studio

Comunità Turca

Kosovo 1.800.000 196 30.000

Albania 2.300.000 174 -

Bosnia-

Erzegovina

2.200.000 135 -

Macedonia 700.000 59 70.000

Bulgaria 1.100.000 310 800.000

Serbia 500.000 23 -

Montenegro 110.000 - -

                                                                                                               162 Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, p. 30   163  Ibid. p. 34  

  199  

Grecia

(Tracia

Occidentale)

130.000 280 100.000

Diyanet nella regione turca agisce con larga autonomia da Ankara collaborando

piuttosto con entità non governative musulmane turche e non turche.

Oltre alle organizzazioni governative TIKA e Diyanet nei Balcani hanno largo peso le

fondazioni e organizzazioni non governative. Il primo attore non governativo a essere

presente nei Balcani è il Milli Görüş, fondazione fondata da Necmettin Erbakan nel 1969,

che si occupa prevalentemente di assistere la comunità turca nel mondo164. Nei Balcani

rappresenta un’organizzazione non governativa a favore delle comunità più povere in

regione165. Anche nei Balcani è fortemente attivo il network di Fetullah Gülen, una delle

più importanti lobby dell’AKP. Tale organizzazione si attiva particolarmente nella gestione

di scuole e università. Opera in Kosovo, Albania, Bosnia-Erzegovina e Macedonia. In

Albania le scuole turche, la quasi totalità legate al network Gülen, godono di un’ottima

fama e grazie anche alle numerose borse di studio destinate agli studenti albanesi e

kosovari, raccolgono circa 3000 studenti ogni anno.166 In Bosnia-Erzegovina dal 1997

nascono a Sarajevo, Tuzla, Zenica e Bihac (tutte città nella Federatia) scuole primarie,

secondarie e università. A Sarajevo vi sono due università turche, la prestigiosa

International Burch University, nata nel 2008 legata al network di Fetullah Gülen.

6. La Turchia nei Balcani, intervista a Teoman Duman

Teoman Duman è Deputy Rector for International Relations dell’International Burch

University di Sarajevo. L’International Burch University è un’università privata nata nel

2008 all’interno del progetto Bosna Sema Educational Institutions, per lo sviluppo

d’istituzioni educative turche. L’Università si trova in un complesso che prevede anche

scuole primarie e secondarie. Gli insegnamenti sono in turco e in inglese. Le facoltà

dell’università sono tre: Economia, Ingegneria e Letteratura. Stando alle informazioni                                                                                                                164 Ali Çarkŏğlu, Barry Rubin, “Religion and politics in Turkey”, Routledge, London, 2006, p.63 165 “Aid to Balkans”, http://www.milligorus-forum.com.tr/335496-post2.html, 5 giugno 2011  166 Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”, Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p 171

  200  

dateci dal Professor Duman, la metà degli studenti proviene dalla Bosnia-Erzegovina, il

40/45% dalla Turchia e il restante 5/10% proviene da Paesi di tutto il mondo, in

particolare Stati di fede musulmana.

La forza della diplomazia turca sta nel coordinamento tra istituzioni governative e

private. Fondamentale è l’impegno culturale turco nei Balcani. Per tali motivi abbiamo

scelto di intervistare un portavoce di tale università in quanto secondo noi interlocutore

appropriato per comprendere il punto di vista dell’attivismo turco secondo i turchi. Valore

aggiunto dell’intervista a Teoman Duman risiede anche nella sua professione, egli infatti

essendo un professore universitario di economia è abituato al dialogo e al confronto.

Essendo l’intervista molto lunga e articolata, ne riportiamo solo alcuni passaggi,

limitandoci a sbobinare quanto registrato senza modificarne la forma. Le nostre domande

sono riconoscibili dal carattere in corsivo.

Why there are so many Turkish cultural institutions in Bosnia and Herzegovina,

which are their goals and missions?

The reason why there are so many Turkish influences and consequently institutions in

Bosnia maybe can be attributed to the natural development. It is a natural development

and evolution of history. Ottoman Empire was here for such a long time and there was a

cultural melting-pot in this area. For a long time this land was part of Ottoman Empire,

they were all citizens of the same country. After so many years, today, again the people,

whenever they have a problem they go to Turkey, and people move, and they have

relatives, especially after the war this kind of buildings were built because there was the

need. During the war Turks wanted to help like they could: some sent money or things,

but also, what Turkish did was come themselves and started institutions. They chose that

they wanted to stay here.

Also to take part of the process of peace building and stabilization of the country?

Yes. The same cannot be said for Arabic countries. Arabic countries have their own

identity but Bosnia is for us like a brother or sister. It’s an identity issue: if you ask

Bosnians, they will consider themselves as part of Turkish identity culture, and if you ask

  201  

to Turkish people they would say that Bosnian identity culture is part of their own identity

culture.

So after the war a “football match” was organized and donations were collected for

the restoration of Bosnia, so all Turkish investors and businessmen took part of this match.

They donated a lot of money and investors came here and basically started their

organizations and built up first primary and high schools. Then other institutions came up

and we arrive to the present.

Do you think that the rise of AKP and the Turkish economical growth influences

relations and interests between the two countries?

Yes, AKP, Erdoğan and his political role and influence in Turkey, has a lot of

influence in Bosnia and in general in Balkans. Tayyip Erdoğan himself visited Bosnia

several times and whenever there is some events here, he sends some delegate. The reason

is again, Bosnian public is small. Bosnians always need support or connection with

powers. This is how we feel. That’s why Tayyip Erdoğan and his friends were showed

with a big interest in Balkans in the last ten years. They have a very big influence. In their

visits to Bosnia they bring businessmen. Politics, private sector, civil society coordinate.

Now Turkish families are sending their children to study here, it’s an evolution that I think

is going to growth. The land of Balkans during history has always been in the middle

between Europe and Ottoman Empire/Turkey. This is a continue. Part of Europe and in

the same time, part of Eastern culture. You cannot separate. Throughout the history a lot

of people from Balkans came to Turkey.

Can we say that there is a “win-win” strategy in the relations between Bosnia-

Herzegovina and Turkey? Because we see how clear is the interest of Bosnia-Herzegovina

to be linked to the “big-Turkey”, but also for Turkey is essential to play a role in Balkan

region, especially Bosnia. First for economical reasons: the countries of the European

Union (the first Turkish market) are today in recession and Turkey needs to differentiate

his markets. Secondly for a diplomatic reason: if Turkey succeed to show his ability of

being a good mediator, a fundamental actor for the stability of the difficult Balkan region,

  202  

Europe could understand how important and able is Turkey for the peace and the

empowerment of democracy in Balkans.

Of course, I totally agree. We should look how Turkey has been developing in the

last twenty years. This is the easiest and best way to understand and explain it.

This is what Davutoğlu usually says: “we should analyze events as a process, not

like a picture”.

Yes! And the main reason is the population of Turkey. Turkey is a big country. As

Russia influences his neighborhoods, we influence the countries that are around us. Just

like Germany, England and other big powers. Turkey has always been in Balkans and we

will continue to influence the region. Turkey shares the same religion with a part of the

Bosnian population. Turkey feels that Bosnian population is so close.

Do you think that Turkey could be helpful for the unity and stability of Bosnia-

Herzegovina, especially for the evolution of the institutions created in Dayton?

Politically I hope. I don’t know exactly because it’s not my area. But I can say that

Turkey is actually helping. Politically I don’t know what other populations from Serbia,

Croatia think about Turkey. Institutionally, Turkey is definitely helping Bosnia-

Herzegovina all together. Our institution for example accepts all students from all the

cultures. We have Serbian professors, we have Croatian and Serbian students. This is the

way Turkey acts. We have connection with these people. My children go to our Turkish

primary school. In my doter’s class there are children from sixteen different countries,

they believe in different religions. This is peace. Together they understand each other. My

younger doter is ten years old and she tells me: “I have this friend from this country. This

other friend believe in this religion etc..”. They grow up together. Turkey has definitely an

influence on unity and peace in Bosnia. But how politicians see this? I don’t know, to be

honest: we don’t have anything to do with politics, we don’t even have the faculty of

Political Sciences. Political is not what we do. On the other hand, connection with

peoples, especially in term of education, we can see the influence tangibly. Look at this

investments: millions of dollars spent here only for education, nothing else.

  203  

When the Turkish politicians talk about principles such as tolerance and pluralism,

do they refer to the order during the Ottoman Empire?

Yes, this is a result of the Ottoman Empire. Ottoman Empire was a cause and this is

an effect. For explain what is happening today we have to refer to the Ottoman Empire, to

the history. Today there is definitely an influence on the peace and development to the

country, because Turkey is a big power in the region and when Turks came here, people

saw them like not enemy, like good people. The big majority of Turks that has come here

were good, the tried to understand the reality, share culture.

Also for Turkey, Balkans were important. Mustafa Kemal Ataturk, the fonder of the

Republic was from the region. And like him a lot of important personalities for Ottoman

history and then the Republic of Turkey were from Balkans. After the loss of the region

after the Balkans wars and the first World War I read about the deep trauma for Turks.

Of course, for Turkey Balkans have always been important, because we need to be

aware and somewhat to control what happens in Balkans because next Balkans there is

Turkey. It’s politic. Countries do that. Germany wants to know what happen in Austria,

Czech Republic, this is normal. I can say that Turks have a lot of relatives in Balkans.

If Turkey develops and the economic becomes stronger is better for the countries

around it. Economically and politically Turkey becomes stronger and we all need a

positive and strong power in region. When you look in what is happening in the Arabs

countries, Turkey is helping to balance there. A lot of people came from Syria, talk is

strong so it can support them. After, when the conflict will finish in Syria we will all look

at what Turkey will able to do. A lot of help and influence will go there.

Did Turgut Özal in the 90s anticipate the Turkish Foreign policy of today?

Turgut Özal wanted to open Turkey to the world. We had military compression, we

had three big coups in 60s, 70s and 80s. People couldn’t produce, work. Turkey was a

closed country and it needed to open up to outside to development. People call it

Panturkism or Neo-Ottomanism, I don’t even know what these terms mean. Tayyip

Erdoğan is the second Turgut Özal, he travels himself with businessmen. The main reason

  204  

is to develop the economic of the country. Look at the tourism sector, every year it

doubles. There are thirty million people that visit Turkey.

Today there is also a big increase of Serbian tourists. The two countries today work

for trade agreements and the development of economic relations.

What is the difference between Turkish people and Serbian people? There is no

difference, we are all human, we can live together, produce together, consume together.

All these wars were for politicians; there is no problem among people. Ideology were

invented by politicians.

Analyzing the politics and the speeches of Tayyip Erdoğan and Ahmet Davutoğlu, it

seems that today there is a new AKP approach. The principles of the Republic of Turkey

return to be more linked to pluralism and tolerance instead of Nationalism.

Of course, before the military’s influence supported the nationalistic movements, they

created problems. Today we can say that the civil power is stronger than the military

power. And this process influences our approach to the foreign policy.

International Burch University, Ilidza – Sarajevo, venerdì 24 febbraio, ore 12:00

  205  

7. La Percezione dei Bosniaci dell’attore turco

“Believe me, Sarajevo won today as much as Istanbul”.167

Con tali parole Recep Tayyip Erdoğan commenta la vittoria alle elezioni legislative

turche del 12 giugno 2011. Dai discorsi enunciati da Davutoğlu, Gül e Erdoğan e dalle

ricerche effettuate negli istituti turchi di Bosnia-Erzegovina, sembra trasparire una marcata

sicurezza da parte dell’attore turco circa il suo ruolo nei Balcani. I turchi esaltano i legami

storici e culturali e sostengono che il loro interventismo non può che essere benefico per

superare le divisioni in regione. La diplomazia turca appare attivissima nei Balcani, sembra

ormai pronta e decisa ad assumere il ruolo di mediatrice tra le dispute in regione. Gli

episodi più evidenti già precedentemente riportati riguardano i tentativi di favorire la

distensione tra Sarajevo e Belgrado, la volontà di inserirsi nel dialogo tra le comunità

musulmane nel Sangiaccato serbo e nel sostegno ai Paesi dei Balcani Occidentali, in primis

Macedonia e Bosnia-Erzegovina di adesione all’UE e soprattutto alla NATO.

A questo punto concludiamo il nostro lavoro provando ad interpretare le percezioni

dei bosniaci circa l’attivismo turco. Recenti statistiche168 mostrano una percezione più

positiva della Turchia da parte dei cittadini della Bosnia-Erzegovina rispetto agli abitanti di

Croazia, Serbia e Montenegro:

“Despite historical disagreements between Turkey and the people of the Western

Balkans, especially for the Muslim populations, Turks are viewed as a friendly nation.

According to the Gallup Balkan Monitor Survey 2010, 75.1 percent of the population of

Albania, 60.2 percent of Bosnia and Herzegovina, 93.2 percent of Kosovo, and 76.6

percent of Macedonia consider Turkey as a friendly country. However, the situation is not

the same for the non- Muslim population of the Western Balkans. For example, in Croatia

only 26.7 percent of the population considers Turkey to be a friendly country, in

Montenegro it is 33.5 percent, and in Serbia it is only 18.2 percent. Because of Turkey's

                                                                                                               167  Turkey ruling party wins election with reduced majority, http://www.bbc.co.uk/news/world-europe-13740147, 12 June 2011.    168 Erhan Türbedar, “Turkey's New Activism in the Western Balkans: Ambitions and Obstacles”, Insight Turkey, luglio 2011

  206  

political support for Macedonia's territorial integrity and the dispute over its name with

Greece, Macedonians are the exception when it comes to the attitude of non-Muslim

people. It is worthwhile to notice that compared to 2006, in 2010 the number of people

who consider Turkey as a friendly country has increased 33 percent in Albania, 52 percent

in Kosovo and 76 percent in Bosnia and Herzegovina, while the perception of the non-

Muslim population in the Western Balkans remained relatively the same, with minor

changes”169.

La Bosnia-Erzegovina, stando al linguaggio di Dayton, è composta da tre “popoli

costitutivi”: bosniacchi/musulmani, serbi/ortodossi, croati/cattolici. Secondo Žarko

Petrović e Dušan Reljic170 gli sforzi turchi in Bosnia-Erzegovina hanno provocato

considerevoli diffidenze. Secondo gli autori di Insight Turkey la maggior parte dei

bosgnacchi vede la presenza turca come garante dell’unità nazionale e dei propri interessi,

per i serbi bosniaci la presenza turca rappresenta un ostacolo alla salvaguardia del sistema-

Dayton e dunque dell’autonomia della RS (Republika Srpska) e i croati bosniaci vedono la

presenza turca come minacciosa per il progetto di costituzione di una terza entità nel Paese.

Questa visione generale descritta da tale breve sintesi delle percezioni bosniache della

Turchia è probabilmente la più diffusa e largamente accettata dalla letteratura. Tuttavia

dalle interviste che concludono il capitolo appare che tale percezione pecchi di

un’eccessiva semplificazione.

La complessità della realtà bosniaca comprende anche il rifiuto di accettare una

terminologia che secondo i trattati internazionali, come la pace di Dayton, dovrebbe

chiarire le differenze nazionali nel modo più politicamente corretto e invece viene

percepito come causa di ulteriori divisioni. La stessa terminologia di Dayton sembra

cristallizzare e complicare le differenze tra gli abitanti di Bosnia.

Nedim Hodzic è un giovane di Sarajevo, è della “generazione ‘92”, così vengono

chiamati i ragazzi di diciannove/vent’anni nati nell’anno di inizio del conflitto. E’ uno

studente eccellente d’ingegneria meccanica dell’Università di Sarajevo e ha la tessera del

                                                                                                               169  Ibid. p 5  170 Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”, Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p 161  

  207  

Partito Social-Democratico. Avendo vissuto i primi dieci anni della sua vita in Italia, parla

un ottimo italiano. Hodzic rifiuta di definirsi bosgnacco, “sono bosniaco e lo ribadisco ogni

volta io debba compilare un questionario per uffici vari e soprattutto per l’università. Il mio

è un cognome musulmano e dunque mi è capitato più volte che modificassero la mia

preferenza da bosanac a bošnjak ,ovvero da bosniaco a bosgnacco”.

Il termine “bosgnacco” viene spesso criticato in quanto sentito come un’etichetta da

parte di molti bosniaci. A noi sembra che tale termine venga rifiutato soprattutto da

bosniaci soliti a vivere in un contesto misto come Sarajevo in cui è più comune oggi

(anche se indiscutibilmente meno rispetto al passato) un confronto quotidiano tra

musulmani/bosgnacchi, croati e serbi bosniaci. La nostra affermazione viene confermata

da Hodzic. Pensiero simile viene elaborato dal Professore della Facoltà Cattolica di

Teologia di Sarajevo Igor Žontar, la cui intervista è riportata nelle prossime pagine.

Nedim Hodzic circa la Turchia sostiene:

“Non ho nulla contro i turchi. Sono al contrario molto contento di incontrare sempre

più turisti provenienti dalla Turchia che visitano Sarajevo e il resto della Bosnia. Tuttavia

temo che la Turchia nel perseguire i propri interessi vada a frammentare ulteriormente il

mio Paese parteggiando solo per i musulmani più conservatori. I bosniaci come me

vogliono un Paese laico, come è sempre stato. Siamo tutti bosniaci, siamo tutti uguali, la

religione è un affare privato. Credo sia molto deleterio ai fini degli interessi della Bosnia,

rafforzare i partiti e le ale nazionaliste”171.

Alcuni attori musulmani bosniaci temono come minaccioso l’attivismo del Diyanet

turco in Regione. In particolare per il Reis ul-Ulema di Bosnia-Erzegovina, Mustafa Efendi

Ceric la politica del Diyanet non dev’essere accettata universalmente. Mirnes Kovac,

giornalista del giornale islamico Preporod, sostiene che “Turkey can sometimes behave

very arrogantly, as it has done with regards to the apology campaign of the Serbian

Parliament. It may have helped to nudge the Parliament, but it has no right to take away the

Genocide from us... And then, there is a fair amount of ignorance. When you look from the

                                                                                                               171 Intervista a Nedim Hodzic, Sarajevo, 24 febbraio 2012.

  208  

Diyanet, from Ankara, how can you understand that the Islamska Zajednica is completely

independent from the state?”172.

Secondo molti autori173 la critica del Mufti Ceric al Dyianet e più in generale

all’attivismo turco, deve essere motivata dal sospetto di ambizioni turche nella regione del

Sangiaccato serbo. Il Sangiaccato è la regione serba a maggioranza musulmana, abitata

prevalentemente da bosgnacchi. Ankara sta investendo molto in regione soprattutto nella

costruzione dell’autostrada che collegherà Belgrado a Bar. Per diversi anni nel Sangiaccato

si sono susseguiti scontri tra le due principali fazioni politiche: il Partito di Azione

Democratica del Sangiaccato, guidato da Sulejman Ugljanin e il Partito Social-

Democratico guidato da Rasim Ljalic. Il Ministro degli Affari Esteri Ahmet Davutoğlu,

recandosi più volte in visita in Serbia ha favorito i negoziati tra le due fazioni favorendo,

dopo molti anni di violenze, un clima maggiormente pacifico e cooperativo174.

Se dal punto di vista politico i rapporti sembrano più distesi la partita è ancora aperta

circa la comunità musulmana:

“The Islamic community in Serbia is sharply divided. Muamer Zukorlic is the leader

of a party which regards Sarajevo, the capital of Bosnia and Herzegovina, as a centre of the

Bosniak Islam community of Serbia, while Adem Zilkic, leads an Islamic community that

encompasses all Muslims in Serbia – regardless of ethnicity or links to Turkey.”175

Il motivo principale di sospetto del Reis ul-Ulema Ceric nei confronti dei turchi

risiede dunque nel suo intento di voler mantenere influenza sulla comunità bosgnacca in

regione.

                                                                                                               172 Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, p 35 173 Ibid. 174 “Economics Override History for Belgrade and Ankara”, http://www.balkaninsight.com/en/article/economics-override-history-for-belgrade-and-ankara, 6 dicembre 2010. 175 Ibid.

  209  

8. Una storia non condivisa, percezioni contrastanti

Il periodo Ottomano nella regione balcanica viene oggi diversamente interpretato

seconda della provenienza degli interlocutori. Secondo Milan Vukomanovic176, i testi di

storia serbi scritti soprattutto negli anni ’90, descrivono il periodo ottomano in toni molto

negativi esaltandone connotandolo come un regime autoritario e violento che ha imposto

con la forza la religione musulmana ed è stato causa dell’arretratezza economica della

regione. Al contrario, secondo lo studio dello stesso autore, i testi turchi descrivono la

presenza ottomana in regione come tollerante nei confronti delle diverse religioni, pacifica

e portatrice di sviluppo. Secondo Ahmet Alibasic in Bosnia-Erzegovina a seconda

dell’appartenenza degli storici, stessi avvenimenti vengono descritti in toni molto diversi.

Alibasic parte nella sua analisi dai testi delle scuole elementari e nota che eventi quali la

battaglia del Kosovo del 1389 vengono descritti in modo totalmente diverso: tre pagine con

toni enfatici nei testi serbi, un breve passaggio, cinque righe, nei testi musulmani177.

Secondo lo storico americano Noel Malcom, autore del best-seller “Bosnia, a short

history”, nel periodo di occupazione ottomana nella regione, attraverso il sistema dei

Millet convivevano pacificamente musulmani, cattolici, ortodossi ed ebrei e le conversioni

all’Islam erano sì convenienti, ma non imposte178. I più benevoli nei confronti della

memoria storica del periodo ottomano sono i bosgnacchi, tuttavia:

“In Bosnia, the Empire is often remembered as an ambiguous legacy: the empire is

revered by many for introducing Islam, but scolded for having abandoned the Bosniaks to

the Austrians in the 19th century”179.

Se per i musulmani il periodo ottomano viene studiato in termini anche positivi

soprattutto per l’introduzione dell’Islam, la memoria storica di serbi e croati appare essere

decisamente più critica. I secoli ottomani sono tramandati come violenti e causa                                                                                                                176  Christian Moe,a cura di, “Images of the Religious Other”, CEIR, in cooperation with the Kotor Network, Novi Sad, Milan Vukomanovic, “Images of the Ottomans and Islam in Serbian History Textbooks”, p. 17 e seguenti 177  Ibid. Saggio: Ahmet Alibašic, “Images of the Ottomans in History Textbooks in Bosnia and Herzegovina”, p.39.  178 Noel Malcom, “Bosnia a Short History”, New York University Press, New York, 1994   179 Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, p 13

  210  

dell’arretratezza e scontri successivi. Questa visione influenza la percezione negativa della

politica estera turca:

“Given the mosaic of peoples in the WB countries and their contradictory sentiments

towards the Ottoman period, not surprisingly neo-Ottomanism sounds provocative as soon

as it is pronounced. Namely, if neo-Ottomanism seeks inspiration in multiethnic character

of the Ottoman Empire and relative religious tolerance therein, for Christian Balkan

population this sounds absurd, since they are taught in schools how 500 years of Ottoman

age were repressive and resulted in moral and cultural regression of the population and

seclusion from Europe where their civilizations always belonged”180.

Come già enunciato nel corso del nostro elaborato, il testo di Ahmet Davutoğlu

Profondità Strategica, alla sua quarantatreesima edizione in Turchia non è stato tradotto

che in greco, albanese ed arabo. A meno di una conoscenza di una delle quattro lingue in

cui il libro è diffuso, per accedere a parti originali del testo è necessario fare affidamento a

traduzioni autorizzate dallo stesso autore e casa editrice.

Grazie alla tesi della dottoressa di Belgrado Sena Maric “Turkey’s Neo-Ottoman

policy on the Balkans: does it clash or match with the EU?”, conseguita per il Collegio

d’Europa di Bruges, accediamo a parti di Profondità Strategica circa gli interessi dei

Balcani da parte della Turchia. Con il consenso di Sena Maric riportiamo un estratto della

sua tesi che ci aiuta a comprendere la visione critica della componente serba circa

l’attivismo turco.

“After having read the section on the Balkans, the reader immediately notices two

points: first, that Davutoğlu pays special attention to BiH and Albania, by ardently

advocating the increase of Turkish influence in these countries, and second, that out of all

the Balkan countries, Davutoğlu has not elaborated any plan for engagement with Serbia

and Greece.

                                                                                                               180 Sena Maric, Turkey’s Neo-Ottoman policy on the Balkans: does it clash or match with the EU?, College Of Europe Bruges Campus Eu International Relations And Diplomacy Studies, Academic Year 2010-2011, p. 14    

  211  

Generally speaking about the Balkans, Davutoğlu argues that Turkey should establish

diplomatic and „real‟ tools that would enable it to intervene in the region. Furthermore,

Turkey should establish a certain cultural organization for the Balkans that would restore

and preserve Ottoman cultural legacy. What may sound striking is that he explicitly says

that the EU should be kept aside as much as possible from this region.

More specifically, as regards Albania the foreign minister says that Turkey should

strengthen its ties with this country as much as possible, in order to eradicate Italy’s

influence. Furthermore, he claims that any problem related to Albania immediately

mobilizes Serbia and Greece, so Turkey should be more cautious. With regards to

Macedonia, he says that Macedonia’s Albanian minority should be encouraged to use its

citizen rights, otherwise Macedonia risks falling into the hands of potential Serbian-

Bulgarian-Greek block. Consequently, Turkey should improve its relations with Bulgaria.

When it comes to the question of BiH, Davutoğlu [...] sees the constitutional order

established by the Dayton Peace Agreement (DPA) as a threat to Bosniaks, since it gave

the status of republic for the Serbs [through Republic of Srpska entity] without

guaranteeing such status for the Muslims. Furthermore, he explicitly mentions the “ex-

Ottoman factors‟ which should always be ready to be used against the threats and should

reach military, strategic and diplomatic prevalence in order to reform the DPA.

Therefore, in order to protect Bosniaks, Davutoğlu elaborates a thorough geopolitical

analysis of the most important strategic toponyms in BiH. Probably the most intriguing

point is the importance he gives to Eastern Bosnia and the river Drina. Namely, he claims

that these territories are crucial for the ex-Ottoman peoples; that is why the Serbs were

focused so much on this point when they were doing ethnic cleansing. He continues by

saying that the complete control of this region by the Serbs is dangerous for all Balkans;

that is why it is important to preserve the control of the Goražde region[the most eastern

part of Bosnian-Croat federation]; if this line is broken, one part will be left to the Serbs,

the other to the Croats.

  212  

For this reason, Davutoğlu explicitly claims that the arc that stretches from Bihać [in

north-western Bosnia, part of Bosnian-Croat federation], through Middle and East Bosnia,

through Sandzak [region linking Serbia and Montenegro], Kosovo, Albania, Macedonia,

Kirjali [southern Bulgaria], until Eastern Thrace [European part of Turkey], represents

“Turkish Balkan geopolitical and geocultural lifeline” ”181.

La diplomazia turca sino al 2011 ha sempre mostrato un interesse privilegiato nei

confronti dell’entità a maggioranza musulmano-cattolica, la Federatia, a discapito della

Republika Srpska nei confronti della quale è quasi assente la presenza economica e la

cooperazione politica. Tuttavia dal 2011 la diplomazia turca, compresa l’importanza di

dover dialogare con i serbi inizia un timido approccio politico. I miglioramenti evidenti

con Belgrado non si verificano con Banja Luka. Anzi, i serbi di Bosnia non comprendono e

criticano le aperture della Serbia alla Turchia182. Gli incontri con il leader dell’entità serba,

Dodik, riguardano solo questioni tecniche183. I discorsi turchi di superamento delle

divisioni e riforme di Dayton, vergono percepiti dalla RS come minacciosi per l’autonomia

dell’entità. La Turchia tenta un approccio più costruttivo: nel gennaio 2011 Davutoglu

incontra Dodik. L’incontro è caratterizzato da toni cordiali e impegni d’intenti per

sviluppare una più solida cooperazione economica. Tuttavia nell’aprile dello stesso anno si

verifica uno spiacevole incidente diplomatico che non lascia ben sperare sulla volontà di

entrambe le parti di voler superare i forti contrasti:

“the cancelation of the meeting between Davutoglu and the Member of the Presidency

of BiH from the Republic of Srpska – at the time Chairman of the BiH Presidency put a

shadow on the previous seemingly successful meeting. Supposedly, the two did not meet

because Davutoglu team explicitly conditioned this meeting by the removal of the flag of

RS, the fact that Turkish minister was already late for the meeting with Dodik and due to

Davutoglu’s prolonged visit to the Ferhadija mosque. Yet, this can also be interpreted as a

                                                                                                               181 Ibid. pp. 13-14-15. 182  Ibid p 27  183  Ibid. p 26 e seguenti    

  213  

deliberate incident by Turkish foreign minister aimed at satisfying the Bosniaks, i.e. to

demonstrate that Bosniaks are not in any way neglected by Turkey”184.

Terminiamo il nostro elaborato intervistando tre interlocutori bosniaci. Il primo è il

bosgnacco Ahmet Alibasic, il secondo il croato Igor Zontar, il terzo il serbo Nikola

Lazinica. Delle interviste effettuate di persona sono riportati degli estratti la cui forma non

è stata modificata nel processo di trascrizione. Le nostre domande si distingueranno per il

carattere corsivo.

Ahmet Alibasic è professore presso la Facoltà di Studi Islamici di Sarajevo.

Musulmano praticante, è esperto di politica, storia e relazioni internazionali. Nel 2009 è

stato tra gli organizzatori dell’evento che ha ospitato Ahmet Davutoglu a Sarajevo nel

quale è stato pronunciato il celebre discorso di cui abbiamo ampiamente trattato.

Talking about the conversion into Islam in the Ottoman Period in Balkans, some

historical say that it was a peaceful process, others that it was violent and imposed.

I wrote an article about the image of Ottomans in the history. I think that conversion

was not forced, that Muslims were not immigrants, most are them were local population

which converted. I think that it was mostly voluntary. However, if there is forced we can

talk about first conversion of the devşirme, the young boys who were taken to Anatolia. In

that case we can say that it was forced. According to history we have about two hundred

thousand of such boys, from the 15th to the 17th centuries, in 250 years, two 200.000

people. What did happen actually is that Muslim had certain privileges and we can talk

about these social economic incentives to conversion.

In the military, in the administration..

Exactly. However there are historians who claim that, yes, there were social-economic

incentives to convert but there were also disadvantages of being Muslims especially in the

last two centuries of Ottoman Empire, when if you were Muslim you had to go in fight and

most of the time Ottomas were loosing and loose too many soldiers. So being Muslim was

a disadvantage and we didn’t see the reversal of the process. Yes, the conversion slow                                                                                                                184  Ibid. p 28  

  214  

down but we didn’t see the reversal of the conversion. If you were Muslim you had less

taxes and so on, but what was it in comparison with risking and loosing your life for a

Sultan that lived somewhere in Istanbul?

Today, after the war we assist of a return of Turkey into Balkans. There are

different interpretations about it. Somebody comment it like a very good occasion for

Bosnia-Herzegovina to improve his international economic and diplomatic relations.

Others see the Turkish activism like the return of the Sultan, and a new form of Ottoman

invasion.

This is a very complex and sensitive issue. I recommend you to read: “The Ottoman

Legacy and the Balkan Muslim Community Today”, I wrote two pages of introduction for

this very sensitive topic. Muslims here have ambivalent position about the Ottomans.

Some believe that, yes, we converted to Islam with the Ottomans, so is how we started. But

others say: Ottoman left us in different occasion. Finally they say: “where was Turkey in

the ‘90s? And what would happen next time when Turkey would have some internal or

external problems and we have troubles here, are they going to come to solve the

problems, or they will simply forget us?” So you have this: Balkan Muslim position,

people are very suspicious on all of this. Of course others are responding with much more

enthusiasm, because look at Bosnia: Croats have their patrons in Zagreb and it’s obviously

these days, especially the Prime Minister who is a leftist he was basically visiting all the

Croats, towns and institutions and giving support. Serbs have their Patrons in Belgrade and

it is very obvious. This is an unfair game, for Muslims. We have two parties with foreign

assistance so some people think we need an assistant as well. On the other side Non-

Muslims are very suspicious of the Turkish that goes to Balkans. The best example is

Darko Tanaskovic. You maybe read about him.

The former Serbian ambassador in Ankara, with a very critic and sometimes

extreme idea about Turkey and Islam.

He wrote about Neo-Ottomanism. Now we can find the second edition, but the first

edition was published by the governement of Republika Srpska. It’s almost a their official

position.

  215  

Do you think that we can find different approaches by Boris Tadic and the Serbian

Government and Dodik and Republika Srpska?

What I think of the Turkish policy in the Balkans is: America lost interest, Europe has

obviously no idea of what to do, or when it does, often does the wrong thing. But they both

will stay. We have no reason why not to try something else if a third party could give a

positive contribution. The problem, I think with Turkey is their ambitions. Outgrowth

means by far. About economic and diplomatic means, does Turkey really can be a

significant player in the Balkans? I see a gap there between the ambitious of Turkey that I

appreciate and the realities, on the ground: what can Turkey really do in terms of aid, in

terms of investments, in terms of diplomatic skills and soft power and.. I see a gap there,

but I really appreciate what especially Minister Davutoglu is trying to do.

Inside the Balkan Muslim community can we share the perception of Turkey in two

groups? Like one more secularized, maybe more linked to the SDP that sees Turkey with

suspicious, saying that for Turkey, Bosnia is just an instrument to increase his power. And

so Turkey with Bosnia has the same attitude of Russia, Europe.. On the other hand there

are others that say: we are alone, it is better for us to be linked to Turkey compared to

other actors less strong, less disposed to dialogue (such as Saudi Arabia)?

As I said I have the same perception of the Turkish role, but I also know a lot of SDP

people that are very enthusiastic about Turkey because yes, this religious aspect is very

important, there is a propensity on the part of religious Bosniaks, to be more in favour

towards Turkey. But I know a lot of religious Muslims who are very suspicious of Turkey

like some Mufti in the region, and I know a lot of leftists who are very pro-Turkish, from

the leader to the SDP below, NGO and so on. They are very enthusiastically embracing

Turkish foreign policy. Also in their web you can find discussion about this, and it is

obvious: they are very positive about this role.

I have the impression that it depends of how actors perceive Turkey. Somebody

describe Turks as Muslim conservatives, oppositely others describe Turkish model as very

secularized and positive for the Bosnian system.

  216  

Exactly. As I said in the beginning this is very complex because there are so many

things, and things are happening so fast and people are hardly catching up with the

development. I mean, Turkey was nowhere in the map till five years ago. Even when AKP

was there but Davutoglu was not, Turkey wasn’t so much present, with the coming of

Dovutoglu to the place of the Minister that things really started going much faster. And

people as you said have opposite vision of Turkey.

About the contrasts that are in Balkans today. Do you think that Turkey could be an

actor that could help to overcome division or not? Boris Tadic went to Srebrenica for the

first time, the resolution..

No! It wasn’t the second time. He was in Srebrenica also the year before, or two year

before. A lot of people forget it. But yes, the resolution yes.

Do you think Turkey could help for stabilizing Balkans? Especially because it

seems that Bosnia-Herzegovina is the most important country.

I think Turkey can do something but the question is how much can Turkey do? Look

at the resolution, as you know many Bosniaks thing that the resolution help Serbian more

than help Bosnia. Because what does the resolution say? Not even Dodik is denying that

something happen in Srebrenica, but it doesn’t want to say that it was a genocide. And we

know the difference between say: “Jews suffered” and “It was an Holocaust”. Many people

can say: “Jews suffered” but if they deny the Holocaust they will have problems for that so

Dodik and Tadic, and the Serbian Parliament who passed the resolution. Probably Dodik

would have passed the same because there is no “G. word” in it. So, what is the

achievement? The achievement of Turkey in this particular case some Bosniaks contend

was to actually squeeze the hand of Haris Silajdzic, and make it pretend that he got

something but practically he didn’t, because: we had that resolution even before you know.

The most vocal oppositor of this opposition was the Mufti of Novi Pazar that said: “what

did we get?”

Is Turkey trying to mediate between the two Muslim communities in Serbian

Sandzak?

  217  

Yes, you have two points of view. One is optimist and one not. The optimist point of

view is that hopefully Turkey will manage. But nothing is happening by the way. On the

contrary the pessimists see Turkey to be too much deferential, like they conceive too much

to Belgrade. And choosing between Belgrade and Sarajevo they give us emotions and

many words but they give Belgrade money and real concession. So many people feel now

that although probably Turkish side is very much convinced that the initial proposal was

ok, under the requests from Belgrade they are conceiving one by one and basically end on

the initial Belgrade position. You have two sides, you have this in the Islamic community,

you have it inside the Bosniaks.

Somebody say that Reis ul-Ulema Ceric is critic against Turkey because he wants

to preserve his influence in the Balkans to be the religious leader of the region.

Within the Bosniak community, not all Balkans, that’s right, and I think that it is a

problem because I think that Turkey wants to control Balkans.

Also through Diyanet..

Religious affairs, exactly. There is a real clash. Although as you know the Mufti was

very often criticised because a lot of people pro-Turkey said to him that Turkey was our

mother and we are linked. It’s a complex situation and too many factors, too much history,

too much emotions, too many problems, too little means to resolve. If Turkey really has

resources to overcome these problems is a huge question.

Facoltà degli Studi Islamici di Sarajevo, mercoledì 29 febbraio 2012, ore 21:00.

Igor Zontar nasce nel 1976 a Sarajevo, è croato. Laureato in filosofia e teologia, ha

una formazione e carriera internazionale: finita la guerra nel 1995 lascia Sarajevo per

completare i suoi studi prima Regno Unito, poi negli Stati Uniti. Lavorerà negli Stati Uniti,

in Germania e in Croazia. Attualmente è professore di filosofia nella Facoltà Cattolica di

Teologia di Sarajevo.

As a Catholic what is your perception of Ottoman period in Balkans?

  218  

There is not a common opinion about the period of Islamization and the presence of

Ottomans in Bosnia. If you talk to Muslims, Bosniaks, they don’t share the same point of

view of Catholics and Orthodox. Personally, my perception is that I don’t think that that

period for Bosnia was completely bad. Ottoman Empire brought something good to

Bosnia-Herzegovina, at this time, but looking from this prospective today, maybe it was

wrong.

According to Davutoglu, the Ottoman period was the golden age for Balkans

because the region was characterized by tolerance and pluralism and the Balkans were a

central region not a periphery like they are today for Europe.

I do not agree, politely with that statement, but I also think that being part of this huge

Empire was good.

“Good” in which way?

I think to the relations between Bosniaks, Orthodox and Catholics. They were better in

that time then today, really. I think today we don’t have good relationships between

different religions. International people that come here often think and say that we are in

good relations. I don’t think so. I think that today we need to change this.

During Yugoslavia, the relations between religion were better than today?

I was really young at that time, I was in the elementary school, I was in the high

school when Yugoslavia cracked down. My perception is that at that time it was much

better, because it was really difficult to know who were Serbian, who were Catholics, who

were Muslims.

According to some French thinkers during the Bosnian conflict, what was

happening was a result of a long and constant hate against people. That war was a natural

consequence. Some people critic this statements such as an excuse for the international

community to not intervene.

I don’t see any reason why people killed each other. Brothers killed each other. I don’t

know what happened, really. I understand that international policy was the main reason

  219  

why the war started here. I said that in the elementary school and high school I didn’t

know who was Orthodox, who was Muslim, because it was my set of mind at that time.

Today the first question when you meet someone is if he’s Catholic, or Muslim or

Orthodox. It is something primarily today in relationships and communication. Because of

that, when we talk about Ottoman Empire, there are different prospective. Muslims are

much more familiar with Turkey today and they glorify the Ottoman Empire, Catholics are

not of that side, Orthodox all.

But not all.

Not all, I agree. More common people, intellectuals think different.

Maybe the Muslim now want to find an ally in Turkey because during the war they

had the feeling of being let alone.

Because we had relations with Germany, Austria, Italy. Serbia was linked to Russia.

And Muslims...

There are intellectuals, such as Tanaskovic today, the former Serbian Ambassador

in Ankara and then in Vatican, that are very critic relatively the Ottoman presence in

Balkans. They say that Islam was one of the origin of the disputes and then war.

I really don’t like to put Islam in that way. We have to consider Islam as a religion,

and separate it from politic. I cannot see that way of thinking, my friends are Muslims. I

cannot apply those sentences to my friends. I know that there are a lot of intellectual from

Serbia, especially Belgrade, try to say that Islam is the most evil think in all the region. But

I don’t agree. We cannot put religion in that way. Also I can see that around the globe, they

would like to picture Islam as something terrible. It’s a simplification of religion.

So you don’t think that the origin of the conflict are connected to religions?

No, I think that political reasons, and policy and International community, some

people from the region are the main responsible.

Don’t you think that your point of view is influenced by the contest in which you

grew up? You are from Sarajevo and you grew up in a multicultural contest.

  220  

Yes, I think so. You have to be here and feel how the situation is different, because

there are a lot of international representatives that come here to Sarajevo and Bosnia and

they speak about the Islam. But they really don’t know anything about Islam and Bosnia.

Be here for a couple of years, talk to different people, study here. I really hate to talk with

some foreigners that say that Islam is the problem in the Region. Islam is not the problem.

I’ve been living here for thirty-six years but I don’t see it in that way. I know that people

say that Islam is the only problem in the world. Now, Islam is not the problem. Politicians

are the problem, maybe they were Muslims, but Islam is not the problem.

Talking about Turkey, there is this common belief that the Bosniaks are the group

that see in Ankara the best ally. Yesterday we interview Ahmet Alibasic of the Islamic

Faculty of Theology in Sarajevo..

I know Alibasic very well. We are friends. He teaches Islam in the faculty. He used to

study and work in the university of Malaysia, but with him like with a lot of other

Muslims, I can talk about politics and everything. We respect each other and each other’s

identities.

According to him when we analyse the perception of Muslims and Bosniaks toward

Turkey we should also consider that a lot of people see Ankara more interested in

improving his relations with Belgrade and Bruxelles. Bosnia seems to be just a tool for

other biggest goals.

I think it is not possible for Turkey to take part to resolve the situation in Bosnia,

because we need to work ourselves. But also a couple of days I read that International

Community said that Bosnia will never enter in the European Union, they think about

something else to find some resolution for Bosnian people. And to establish an internal

union without Serbia and Croatia.

The 28th of February Europe accepted Serbia as a candidate of the Union.

Yes, but what about Bosnia, what about Montenegro, what about all of us?

  221  

Everything changes but geography. We always read and talk about divisions,

contrasts, differences. But we’re still talking about countries so close that share history

and culture...

Yes, exactly. Really, I do not see differences between Croatia and Bosnia. Which are

the differences? Can you tell me the big differences?

Maybe languages?

Yes Of course! Languages are different we cannot understand each other! No

seriously, really, what is the difference? Why Croatia can enter into European Union and

the other not. Why the international community treat differently Croatia and Serbia?

Because there is not really a difference between Bosnia, Croatia, Serbia. Maybe the Islam

for International Community is a problem. Maybe, but really I don’t want to believe it.

Because it’s a personal thing.

In your opinion the solution will come from outside, European Union, Turkey, or

inside Bosnia?

I would like from inside, but it is impossible.

It seems that the system created in Dayton prevents every effort to reform.

The main problem is Dayton Constitution. The country separated in three sides, three

systems, three ways of thinking. In 1995 the most important thing was to stop the war. It

was very important it. But 15 years after, it’s a very stupid Idea. We have too many

problems from Dayton. Country is separated in three parts. Two actually: Republika

Srpska and Federatia, but in the last there are Bosniaks and Croats.

There are some proposal made by Croatian politician: create a new entity in

Federatia for the Catholics. Create like a Republika Hrvatska on the model of Republika

Srpska.

But what about Croats in Sarajevo? What about me? Do I need to go to Mostar? I

don’t see any support and interest from Croatia to Bosnia. I think the vote is the only thing

they search. And I think that Serbia acts the same.

  222  

My brother is a priest in Zagreb, he also grew up like me here, during the war and

then he left to Zagreb. His perception today is absolutely different, because he lives

outside.

What do you mean, the difference between you and your brother is that he left to

Zagreb and you stayed in Sarajevo, so the only solution for accept each other is to live

together?

To live together, yes. For centuries we lived together without any problems till the

war, right now we have big problems how to live together. I really think that it is the only

solution. Maybe the younger generation will change something.

Or maybe not.

Or maybe not. I sometimes am very scared when I talk with new generation. Looking

at today compared than two years ago. What has changed? Maybe there are more banks

and more shopping centres, but look at real life. It’s the same. The situation is the same.

The antagonism between the people is the same. There is no different prospective, different

view.

Conclusions?

Without conclusion. I just hope that it is going to be better.

Facoltà Cattolica di Teologia, Sarajevo, venerdì 2 marzo 2012, ore 10:30

Nikola Lazinica, nasce a Šibenik il 9 giugno 1985. Šibenik si trova in Dalmazia, tra

Spalato e Zara. Lui e la sua famiglia serbo-ortodossa vi vivono fino al 1991. In quell’anno

lasciano il Paese per trasferirsi prima a Belgrado, poi a Bar e infine a Banja Luka nel 1993.

Nikola Lazinica si laurea in economia a Banja Luka e per due anni lavora nel

Ministero degli Affari Economici della Republika Srpska. Lavora nel dipartimento

competente per gli Investimenti Diretti Esteri e Fondi europei in particolare IPA. Nel 2010

vince una Borsa di studio con la Farnesina e consegue un master nel Collegio d’Europa di

Parma.

  223  

Circa la percezione dell’Impero Ottomano, alcuni autori, uno su tutti il serbo Darko

Tanaskovic, ha una visione molto critica, estremizzando le sue parole sembra che per lui

l’origine del male risieda dalla conversione all’Islam, da quel momento sono partite tutte

le divisioni e contrasti. Un’altra letteratura attribuisce all’Impero Ottomano una fase di

tolleranza e pluralismo. Secondo Ahmet Davutoglu, il periodo più florido della storia dei

Balcani si ha nella fase Ottomana in cui la regione era centro e non periferia d’Europa.

Quello di Tanaskovic è anche il mio punto di vista. Si sa che Bisanzio fosse più

sviluppato rispetto ai territori in cui si trova oggi la Germania. Tutto ciò è stato interrotto

con gli Ottomani. Qui nei Balcani i bulgari avevano il loro Paese, i greci, i serbi. Dopo

l’invasione ottomana, per cinquecento anni non vi è sviluppo. Quando in Italia ho visitato

il centro storico di molte città italiane, tutte le cattedrali, c’era la Chiesa cattolica in Italia,

ma tutte le città si sono sviluppate, il Rinascimento in Italia, la Renaissance in Francia e

tutta questa epoca non è successa qui nei Balcani nel periodo dell’Impero Ottomano, anche

se i Balcani prima dell’arrivo dei turchi erano più sviluppati. E le nostre città per esempio

non hanno un centro storico come Banja Luka. Le uniche città ad avercelo sono quelle

sulla costa del Mare Adriatico che hanno fatto molto commercio o che erano sotto la

Repubblica Serenissima di Venezia.

Dal tuo punto di vista la civiltà si è fermata con l’invasione ottomana?

Secondo me sì. E quando hai menzionato la tolleranza, sì è vero che per esempio gli

ebrei sono stati espulsi dalla Spagna e sono venuti nell’Impero ottomano. C’era la

tolleranza, e secondo me la conversione non ha assunto le caratteristiche di quella cattolica

nell’America Latina. Solo che molte persone hanno scelto di convertirsi all’Islam solo

perché non dovevano pagare tante tasse, affinché i figli maschi non dovessero essere

portati a Istanbul per diventare Giannizzeri.

Quindi secondo te le conversione non erano forzate, ma comunque influenzate da

una forte convenienza nella scelta?

Sì, non era forzata nel senso che prendevano i non-musulmani e li obbligavano alla

conversione o alla morte, ma era molto difficile vivere come cristiano. Quando si parla di

Bosnia, prima tradizionalmente la maggior parte delle persone che abitavano nella città

  224  

erano musulmani e ciò ha portato i serbi ad abitare nelle campagne e soprattutto nelle

montagne. Non è un caso se tanti monasteri ortodossi siano sorti in posti impervi, in

montagna. Io considero il periodo dell’Impero Ottomano come scuro e negativo. Durante

l’Impero serbo c’era una delle prime leggi costituzionali scritte a livello europeo scritto nel

1349, il Dušanov zakonik, o il Codice di Dušan. Il mercantilismo era sviluppato, il Kosovo

era sviluppato c'erano molte miniere, il commercio era vivo, vi erano molte Chiese che

attraverso gli emanuensi e lo studio favorivano la diffusione della scolarizzazione e della

cultura. Con i turchi tutto questo doveva essere nascosto, i preti dovevano fuggire in

montagna. Se c'era tolleranza, non so cosa dirti: tanti serbi, dal 1600 sono partiti dal

Kosovo e Serbia per trasferisti in Ungheria o più in seguito nell'Impero Austro-Ungarico.

In realtà la provincia a nord della Serbia, la Vojvodina, era originariamente ungherese, ma

tanti serbi venuti ad abitarla nel periodo turco, sono emigrati lì per stare sotto l'Impero

Austro-Ungarico più tollerante nei confronti delle religioni con una minore tassazione.

Dunque, se ci fosse stata davvero tanta tolleranza, perché queste persone hanno lasciato

tutto per emigrare?

Circa il famoso discorso di Sarajevo di Davutoglu nel 2009, egli cerca di

sfruttare la tradizione storica con la Bosnia. Sulla Turchia cambiano molto i punti di vista,

c’è chi nel ritorno dell’attore turco vi vede qualcosa di positivo per l’economia e per la

politica soprattutto dei musulmani nel trovare un interlocutore internazionale chi invece lo

vede come un ritorno di un invasore, il famoso “Ritorno del Sultano” vedendo nella

Turchia un mero interesse egoistico.

In un certo modo oggi i Paesi dell’America Latina hanno mantenuto un legame con

Madrid. Anche qui quando si parla di quest’argomento i Bosgnacchi vedono Istanbul come

centro della regione. Ma per i serbi non è così, c’è un senso di repulsione verso i turchi.

Tutti questi investimenti, sì, ci sono tanti investimenti turchi a Sarajevo. Ma a Banja Luka

non si trovano le banche turche o altri enti. Tutto dipende da quale parte di Paese si parla. I

Paesi arabi così come la Turchia investono nelle zone di maggioranza bosgnacca. Qui

come hai avuto modo di vedere tu stesso, tutte le banche sono austriache. Per quanto

riguardo l’economia, tutti i soldi sono benvenuti e non si fa distinzione di nazionalità o

religione: ad esempio da due anni ad oggi sono in corso le trattative per l’acquisizione di

  225  

azioni della Jat Airways da parte di Turkish Airlines e non vi sono particolari

contestazioni. Ma dal punto di vista culturale, noi impariamo inglese, tedesco, francese,

italiano, però a Sarajevo oltre l’inglese è facile studiare arabo e turco. Qua nessuno ha

interesse nell’imparare turco.

Sul sito del Ministero degli Affari Esteri di Turchia sono riportate le visite di

Davutoglu e della diplomazia turca verso la Republika Srpska. Visite recentissime iniziate

solo dal 2011. Non credi che l’establishment turco abbia compreso l’importanza della

Republika Srpska per contare in Bosnia e nei Balcani?

Sì, ho presente questo incontro. Ed è ricordato da uno scandalo: uno scivolone

diplomatico. Davutoglu è rimasto allibito nel non trovare la bandiera della Bosnia-

Erzegovina, vi erano solo bandiere della Republika Srpska. Il Ministro turco chiedeva la

bandiera Bosnia Erzegovina.

Circa la convenienza della Conversione all'Islam, Ahmet Alibasic dice: sì c'era

convenienza, ma nell'ultima fase dell'Impero ottomano non assistiamo ad una contro-

conversione, gli islamici non si sono convertiti al cristianesimo nonostante al tempo fosse

più conveniente. Rimanevano fedeli all'Islam nonostante ciò significasse partire in guerra

per difendere l'Impero e morire. Forse ormai l'Islam si era radicato?

Durante gli anni loro hanno pensato di essere un popolo diverso dai serbi e croati, in

realtà erano serbi e croati convertiti. C'è un caso: Emir Kusturica che si è reso conto della

sua provenienza e si è riconvertito. Alcuni considerano il livello di conversione in Bosnia

più elevato in Bosnia rispetto che altrove anche per la tradizione dei Bugomili [la Chiesa

Bosniaca].

La Turchia sta perseguendo una politica estera molto attiva soprattutto nella

Serbia di Boris Tadic. Investimenti economici, tantativi di mediazione tra i musulmani nel

Sangiaccato, pressioni per la Risoluzione parlamentare del massacro di Srebrenica. Come

vedi quest'avvicinamento tra La Serbia di Tadic e la Turchia?

Io penso che questo è stato un errore. Che c'entra la Turchia con il Sangiaccato? ciò

deve essere risolto dal Presidente di Serbia. Che vadano a Cipro e risolvano i loro

  226  

problemi. I problemi della Serbia devono essere risolti all'interno della Serbia. A me è

capitato di andare in Turchia ed è vero: se dici di provenire dalla Bosnia hai sempre il

tavolo libero in ristorante. Dai miei incontri ho ascoltato di una difficile integrazione in

Turchia degli slavi nei flussi migratori degli anni '50 e '60. I turchi esaltano la presenza

bosniaca in Anatolia, ma parliamoci chiaro: durante la guerra o soprattutto nelle

emigrazioni il grosso dei bosgnacchi ha cercato di emigrare in Svezia, Germania, Italia,

Austria. Esaltare un recente flusso migratorio bosniaco verso la Turchia mi sembra

veramente esagerato. Quando parliamo di corruzioni, evasione e problemi amministrativi,

secondo me parliamo di una mentalità sviluppata nella fase ottomana perché i cristiani non

lo riconoscevano come Stato legittimo e dunque c'era l'interesse di andarvi contro.

Secondo molti rappresentanti della RS in primis Dodik, che assume spesso dei toni

provocatori, l'attivismo turco viene criticato perché nei proclami di Davutoglu ed Erdogan

circa l'unità bosniaca e la volontà di superamento dei problemi del Paese, sembra si voglia

minare all'ordine di Dayton e dunque all'autonomia della Republika Srpska.

Io non ho paura dei turchi. La Republika Srpska è un fatto. Ci sono molte persone

pronte a fare la guerra per difenderla. Anche il fatto del Kosovo, i serbi sono arrabiatissimi

della situazione attuale. Non c'è il timore della Turchia, la maggiorparte delle persone di

qua. Per quanto riguarda gli investimenti, i Serbi hanno svenduto la NIS, Naftna Industrija

Srbije, alla Gazprom. Molte imprese serbe sono state svendute ai russi. Il legame è forte

con la Russia. Anche durante il regno di Serbia sempre vi sono state due correnti: uno

sempre orientato verso Russia e l’altro verso l’Europa dell’Austria-Ungheria.

Quelli che guardano alla Russia per ragioni religiose di legami dei Patriarcati, e

quelli che riguardano l’Europa per cosa? Cultura, prossimità geografica e culturale?

Sì, esatto. E penso che per quanto riguarda i Bosgnacchi c’è una parte che guarda la

Turchia come noi guardiamo la Russia e un’altra che invece guarda all’Europa.

Come vedi la soluzione di Dayton?

Io sono europeo ed europeista, ma bisogna abbandonare questa idea di Stato

multientico nei Balcani. Il passato ci dice che questa idea non ha avuto successo: la

  227  

Jugoslavia è stata distrutta. Tali problemi sono in Albania, Kosovo. Per risolvere i

problemi dei Balcani ci vuole una Conferenza internazionale per fare delle nuove frontiere.

Quali nuove frontiere? Per quanto riguarda il Kosovo ad esempio. Credi che il

caso kosovaro abbia creato un precedente?

Sì, ha creato un precedente. Se gli albanesi sono in maggioranza va bene, che ci sia

l’annessione delle zone albanesi all’Albania, che ai monasteri venga attribuito uno status

extraterritoriale affinché siano parte della Serbia. Questo patrimonio culturale dev’essere

considerato dall’Unesco come patrimonio culturale serbo. Perché i serbi hanno costruito

questi monasteri. Non possono essere considerati come patrimoni kosovari o di Albania. E

il nord, la regione abitata dai serbi di conseguenza deve essere annessa alla Serbia. Il

problema però è la Macedonia che non sarebbe d’accordo visto che un terzo del territorio è

abitato da albanesi. Attualmente ci sono anche degli scontri tra albanesi e macedoni in

Macedonia. La situazione è di stress costante.

Qual è la prospettiva migliore per la Republika Srpska?

Secondo me la prospettiva migliore è unirsi con Serbia perché c’è tanta corruzione e

problemi e penso che non sia una soluzione l’indipendenza dello Stato. Io la voglio vedere

unita con la Serbia e non come uno Stato indipendente.

Non credi nella possibilità di uno Stato multi-etnico? Sarajevo nell’ ’84 ha ospitato

il mondo attraverso le Olimpiadi.

La Jugoslavia ha ospitato il mondo.

Sì, nella provincia bosniaca, tra le più povere economicamente, ma eterogenea, era

la provincia delle quattro religioni, del mix culturale e storico. Ciò era visto come il “fiore

all’occhiello” di Tito.

Certo questo però era influenzato dal contesto internazionale del ruolo della

Jugoslavia nei Paesi non allineati fuori Unione Sovietica e NATO. La Jugoslavia contava

molto nel mondo bipolare, che con la caduta dell’URSS, la Jugoslavia come buffer zone tra

est e ovest non serviva più.

  228  

Su Sarajevo si aveva questa idea positiva della convivenza, la differenza era vista

come una ricchezza. Sotto una grande Jugoslavia, la differenza sembrava una forza. Oggi

se uno stato non è omogeneo etnicamente sembra che non possa superare le difficoltà,

quali quelle che ad esempio bloccano oggi la Bosnia.

Mostar oggi è divisa tra est e ovest tra musulmani e croati, anche se i serbi prima della

guerra erano il 20% della popolazione oggi non c’entrano nelle divisioni di Mostar.

Musulmani e croati non possono vivere insieme oggi. Sarajevo oggi non era l’unica città

multiculturale culturale. Mostar, Banja Luka.. tutta la Jugoslavia era mista, ma oggi non è

più così. Sono passati quasi vent’anni, se una famiglia si è spostata vent’anni fa, non è che

si sposta di nuovo. Questo processo di ritorno, non si riverificherà in futuro.

Circa l’Unione Europea, ipotizziamo l’entrata di Bosnia-Erzegovina e Serbia così

come la Croazia. Pensi che possa essere una soluzione per ritrovarsi di nuovo insieme,

sotto una nuova e diversa entità in cui le diversità sono una forza?

No, parlerò di nuovo di Mostar: quando si gioca Croazia contro Turchia, si sa quale

parte della città è tifosa di Turchia e quale parte della città è tifosa di Croazia. Anche qui,

anche se noi abitiamo in Bosnia, non ci saranno mai tifosi di Bosnia-Erzegovina e nel

match Serbia-Bosnia vedrai solo bandiere serbe. Tanti sportivi con talento scelgono di

gareggiare per la Serbia piuttosto che per la Bosnia.

Per voi è facile ottenere la cittadinanza serba?

Sì, tutti i croati di Bosnia, possono avere la cittadinanza croata e tutti i serbi di Bosnia

possono avere la cittadinanza serba.

Dopo due anni di contrattazioni, il 28 febbraio 2012 la Serbia viene accettata come

Paese candidato all’Unione Europea. Sei soddisfatto di questo risultato?

Sì, ma trovo che se hanno posticipato questa decisione a marzo piuttosto che a

dicembre è solo perché le elezioni in Serbia sono più vicine e gli europei preferiscono

aiutare il Partito Democratico di Tadic piuttosto dei nazionalisti o del Partito Radicale, più

filo-russo.

  229  

Hai una forte formazione europea, non pensi che l’adesione di Bosnia e Serbia

possano aiutare a superare i problemi di Bosnia?

No, l’Europa non ha aiutato a risolvere i problemi di Spagna con i baschi, o la

questione scozzese con la Gran Bretagna, c’è la possibilità non lontana della secessione di

Scozia. Irlanda e Regno Unito non sono forse parte dell’Unione Europea? io non credo che

il conflitto sia stato risolto. Il caso di Cipro inoltre. In Lettonia vi sono moltissimi abitanti

di madrelingua russa. Il russo non viene accettata come lingua ufficiale.

Conclusioni?

L’Unione Europea può aiutare a risolvere importanti problemi come la corruzione, ma

non le divisioni interne.

Chi le risolverà le divisioni interne?

Probabilmente nessuno finché la comunità internazionale continuerà a credere a

progetti di Stati multi-etnici e multi-culturali come i casi fallimentari di Bosnia, Kosovo,

Macedonia.

La Croazia propone la costituzione di una nuova entità sul modello della Republika

Srpska per i croati.

Sì, la Republika Herceg-Bosna. Sai, durante la Jugoslavia, c’era lo stesso numero di

serbi in Croazia come di croati in Bosnia. Loro oggi qui sono un popolo costituente, con la

loro lingua ufficiale e i serbi di Croazia sono stati quasi tutti espulsi e non esistono più. Io

personalmente sono contro la costituzione di una Republika Herceg-Bosna, loro hanno

scelto di essere in coalizione con musulmani/bosgnacchi nel 1994 quando si sono alleati

per fare una guerra contro i serbi. Se hanno fatto questa scelta, che rimangano con loro.

Personalmente il mio interesse è vedere la Republika Srpska annessa alla Serbia.

Banja Luka, sabato 3 marzo 2012, ore 18:00

  230  

Conclusioni

Nel nostro elaborato abbiamo tentato di spiegare la nuova politica estera turca in

particolare in relazione alla Bosnia-Erzegovina e ai Balcani Occidentali. Nella nostra tesi

abbiamo utilizzato una tecnica di ricerca bottom-up analizzando inizialmente gli equilibri

interni turchi e come conseguenza le evoluzioni in politica estera.

Gli equilibri interni alla Repubblica turca dall’ascesa del Partito della Giustizia e dello

Sviluppo, AKP, appaiono essere oggi caratterizzati da un approccio maggiormente

inclusivo rispetto al passato. In politica interna principi quali tolleranza e pluralismo

vengono oggi enunciati dalla classe politica turca in sostituzione del nazionalismo. Dal

2002 ad oggi la Turchia è guidata da un governo monocolore di un partito i cui leader e

parte dei sostenitori sono islamici praticanti. Presentando le caratteristiche di un catch all

party con una marcata frammentazione ed eterogeneità degli elettori185, si cadrebbe in

errore se si tentasse di spiegare l’elettorato AKP solo in chiave di pratica religiosa. Oltre

all’elettorato di islamici praticanti che ha sempre garantito un consenso a partiti islamisti

sin dalle prime formazioni turche del 1970186, il partito dell’AKP riceve consensi da frange

laiche del Paese, la nuova classe borghese, gli abitanti più disagiati delle periferie turche,

kurdi e persino ex socialisti187.

Il consenso e i successi elettorali del partito guidato da Recep Tayyip Erdoğan si basano su

diverse motivazioni, noi ne abbiamo analizzate tre, quelle che riteniamo più importanti. La

prima quella economica: dal 2001 ad oggi secondo i dati OCSE oltre ad una crescita

sostenuta dell’economia globale turca, il Pil pro-capite, fattore economico che condiziona

indiscutibilmente la qualità della vita delle persone, è aumentato dal 2001 a oggi andando a

beneficio anche di popolazioni, quali i kurdi, per decenni esclusi dai benefici

dell’industrializzazione e sviluppo del Paese188. Oltre alla crescita economica l’attivismo in

politica estera rende fieri i turchi che vedono il loro Paese oggi orgoglioso e libero dagli

                                                                                                               185 Ergon Ozbudun, William Hale, “Islamism, Democracy and Liberalism in Turkey. The case of AKP”, Routledge, New York, 2010, pg 33 186 Jacob Landau “The National Salvation Party in Turkey”, Asian and African Studies, Vol. 11, 1976, pg: 57. 187 Ergon Ozbudun, William Hale, “Islamism, Democracy and Liberalism in Turkey. The case of AKP”, Routledge, New York, 2010, pg 33 188 Ibid. pg 102

  231  

Stati Uniti e dalle potenze europee, capace di difendere i Palestinesi e di contare nei

rivolgimenti dei Paesi nordafricani. L’attivismo internazionale turco riscatta il Paese dalle

sconfitte belliche dell’Impero Ottomano e dai decenni di vincoli internazionali legati al

contesto della Guerra fredda. La terza motivazione che secondo noi favorisce un largo

consenso al Partito di Erdoğan è la volontà da parte del popolo turco che il sistema in senso

più democratico, liberale e liberista. Sin dalla campagna elettorale per le elezioni

legislative del 2002, il partito di Erdoğan ha fatto dell’adesione all’Unione Europea il suo

slogan elettorale. L’armonizzazione alla legislazione europea e alle direttive del Fondo

Monetario Internazionale hanno favorito l’evoluzione dell’assetto turco in senso più

democratico e liberale: il potere civile prevale sul militare.

Il conflitto tra quelle che noi abbiamo definito le tre principali componenti della società

turca, islamici, kemalisti e kurdi, permangono ancora. Tuttavia se fino agli anni ’90, lo

scontro era caratterizzato da violenza e urto, assistiamo oggi a un diverso approccio. Negli

anni ’90 il movimento separatista kurdo, il PKK, poteva contare su un largo sostegno da

parte della popolazione del Sud-Est dell’Anatolia. Oggi il partito di Erdoğan riceve ampi

consensi elettorali da parte delle popolazioni kurde189. Le aperture operate dall’AKP nel

riconoscere l’esistenza di una questione kurda e nel garantire maggiori diritti e libertà,

portano i kurdi a confidare nel Partito190. I kurdi che mantengono un atteggiamento critico

nei confronti del partito di Governo portano avanti una lotta per i diritti e le libertà del

popolo kurdo caratterizzata oggi, più che in passato da mezzi pacifici e democratici191.

Circa i rapporti tra islamici praticanti e kemalisti, ad oggi sembra che dopo anni di governi

AKP, le frange laiche del Paese temano meno rispetto che in passato la minaccia di un

tentativo di colpo di stato islamico sul modello della rivoluzione iraniana di Khomeini del

1979. Lo scontro tra laici e praticanti permane, i laici non vogliono perdere quelle libertà

occidentali192 da sempre garantite dall’assetto repubblicano. L’AKP tuttavia distanziandosi

                                                                                                               189 Kemal Kirisci; The Kurdish Question and Turkey: Future Challenges and Prospects for a Solution. ISPI working paper, issue 24. December 2007, Milano. Pg 11. 190 Metin Heper, The State and Kurds in Turkey. Palgrave Macmillan. 2007, New York. pg 114 191 Nathalie Tocci and Alper Kaliber, “Conflict Society and the Transformation of Turkey’s Kurdish Question”, SHUR Working Paper Series

192 Angel Rabasa, F. Stephen Larrabee. The Rise of Political Islam in Turkey. RAND, National Defense Research Institute, 2008 Santa Monica (Ca). pgg 3-4

  232  

dai toni del Refah Partisi e enunciando a più riprese la volontà di non voler minare alla

laicità del Paese, ma all’estensione delle libertà di tutti i cittadini turchi193 tranquillizza

l’opposizione laica. Interessante è stato per noi analizzare il rapporto tra il Partito della

Giustizia e dello Sviluppo e le Forze Armate turche. Benché permangono duri contrasti

evidenti nelle questioni Ergenekon194 e Balyoz tra Governo e Forze Armate e laiche, vi

sono alcuni punti di incontro molto importanti. Nel 2003 quando la Grande Assemblea

Nazionale turca vota contro l’intervento alla guerra in Iraq, non notiamo un’opposizione

delle Forze Armate: la politica estera portata avanti dai kemalisti195 ha come priorità la

sicurezza nazionale. Un intervento in Iraq che avrebbe messo a rischio la stabilità del

confine sud orientale del Paese e che avrebbe potuto (come poi è accaduto) portare alla

creazione di un’entità autonoma kurda irachena, andava contro gli interessi securitari della

Turchia. L’interventismo internazionale del Partito di Erdoğan che porta le Forze Armate

turche a partecipare attivamente in numerosissime missioni di pace nel mondo

dall’Afghanistan al Libano, dal Kosovo alla Somalia, dalla Bosnia all’Albania,

inorgoglisce e rende omaggio al ruolo dei militari. Ultimo punto di incontro tra governo

del partito a ispirazione islamista e militari riguarda la lotta ai kurdi. Le politiche portate

avanti da parte dell’AKP di distensione e collaborazione con Siria e all’Iran sono coerenti

con gli interessi dell’esercito di contrastare il PKK. Il Governo turco e le Forze Armate

collaborano nella lotta al PKK. La lotta tenace al movimento separatista kurdo conviene

sia al Governo il quale si mostra protettivo di fronte a un popolo turco timoroso della

violenza terroristica, sia alle Forze Armate che attraverso la guerra al PKK rispondono ai

dubbi sulla legittimità di mantenimento di un esercito così numeroso a vent’anni dalla fine

della Guerra fredda e di un rischio di invasione esterna.

I nuovi equilibri che si vengono a formare all’interno della Repubblica turca, influenzano

la politica estera. Il migliore interprete del cambiamento che si vuole apportare alla

diplomazia turca si identifica nell’autore di Profondità Strategica: Ahmet Davutoğlu. Il

Ministro degli Affari Esteri non intende allontanare la Turchia dall’alleanza ad occidente,

ma in un contesto globale di emersione di nuovi poli geopolitici specialmente nel                                                                                                                193 AKP programma. 194 Turkey's civilian-military complex, Aljazeera, 17 febbraio 2012 195 Ömer Taspinar, “The Three Strategic Visions of Turkey”, Center on United States and Europe, 8 marzo 2011

  233  

continente asiatico, opera perché la Turchia si emancipi dal ruolo periferico attribuitole nel

contesto di Guerra fredda per proporsi piuttosto come potenza centrale e di collegamento

tra Europa e Asia.

La politica estera turca riscopre vettori già precedentemente utilizzati dai vertici turchi

quali panturchismo, Islam in politica estera, e neo-ottomanesimo, ma questa volta questi

tre vettori sono coordinati e rappresentano mezzi e strategie di un più ampio ed ambizioso

progetto di politica estera.

Per panturchismo s’intende il collegamento dell’Anatolia ai popoli turcofoni

dall’Azerbaijan alla Mongolia. Già negli anni ’90, con l’implosione dell’Unione Sovietica,

i governi turchi attraverso i legami storici e linguistici avevano tentato di sostituire Mosca

nell’influenza sulle Repubbliche centro-asiatiche. Tuttavia la Turchia non disponeva dei

mezzi e della legittimità per ereditare il ruolo di Mosca in tali Stati. La politica estera

dell’AKP ritorna a voler contare in questa regione, ma in primis riconoscendo il ruolo

primario ed essenziale della Federazione russa, in secundis associando ai discorsi circa i

legami e le simpatie per motivi etnico-linguistici, una politica di cooperazione allo

sviluppo, investimenti ingenti, una politica diplomatica attiva attraverso i Summit e le

Organizzazioni Internazionali. La Turchia è presente efficacemente nella missione di

pacificazione afghana. Abbiamo interpretato la Missione in Afghanistan alla luce

dell’interesse di Ankara nel voler contare in regione per poter dialogare con India, Cina e

Iran e soprattutto mantenere costante il dialogo con la Federazione russa. Se fino ai primi

anni ’90 Mosca rappresentava il primo nemico per la Repubblica di Turchia, oggi essa

rappresenta il primo partner commerciale. I rapporti tra i due Paesi sono incredibilmente

cordiali: le visite diplomatiche sono numerose e da entrambi le parti è assodato l’impegno

di non sostenere le forze separatiste del PKK e della Cecenia. Mosca caldeggia l’ingresso

della Turchia nell’Unione Europea ed Ankara ha favorito l’attribuzione alla Federazione

dello status di osservatore nell’Organizzazione della Conferenza Islamica.

Il tentativo di utilizzare l’Islam in politica estera è stato inizialmente portato avanti da

Erbakan, leader delle formazioni partitiche di ispirazioni islamista dagli anni ’70, in

particolare nel periodo in cui ricopriva ruoli di Governo tra il 1995 e il 1997. Il Refah

Partisi criticava fortemente Israele e gli Stati Uniti e proponeva un nuovo

  234  

riposizionamento internazionale della Turchia come leader dei Paesi musulmani. Il

progetto di Erbakan non viene portato avanti e subisce lo scontro interno al Paese che

porterà la chiusura della sua formazione partitica. L’AKP sembra riscoprire l’Islam come

strumento di politica estera. Ciò è evidente nel ruolo che il Paese ricopre

nell’Organizzazione per la Conferenza Islamica, il cui Segretario Generale è il turco

Ekmeleddin Isanoğlu. La Turchia di Erdoğan è attiva nella cooperazione con i Paesi del

Golfo e la Malesia. Critica le ondate islamofobe nei Paesi occidentali destinatari di

un’immigrazione di popolazioni musulmane. Nell’estate 2011, nel periodo di Ramadan i

leader turchi richiamano l’attenzione verso la crisi somala realizzando il consenso delle

comunità islamiche. L’attivismo turco nel Nord-Africa e nei confronti del popolo

palestinese si ricollega all’ultimo vettore di politica estera analizzato: il Neo-

Ottomanesimo. Non vi è una definizione condivisa di Neo-Ottomanesimo. Abbiamo

riportato due visioni del terzo vettore di politica estera. L’interpretazione più negativa di

tale concetto si basa su due critiche al Neo-Ottomanesimo, la prima di politica estera,

accusando Ankara di voler espandersi nei vecchi territori dell’Impero Ottomano, la

seconda, di politica interna, temendo un ritorno ad un assetto islamico e anti-democratico.

La visione più ottimista di tale concetto consiste nel ritorno all’applicazione di concetti

quali tolleranza e pluralismo all’interno della Repubblica turca e soprattutto a un ritrovato

interesse nel voler operare una politica estera attiva nei territori facenti un tempo parte

dell’Impero Ottomano. In questa logica si spiega l’attivismo turco nella Primavera Araba,

in un momento d’instabilità e rivolgimenti del Nord-Africa, la Turchia attraverso il soft-

power, investimenti, attivismo economico e diplomatico, la popolarità risultante da una

propaganda pro-palestinese196 e una critica a Israele, diviene attore attivo in regione.

Nel capitolo finale abbiamo analizzato la presenza turca nei Balcani con maggiore

attenzione alla Bosnia-Erzegovina. Il discorso di Davutoğlu enunciato a Sarajevo il 16

ottobre 2009197 e le parti dedicate ai Balcani nello scritto Profondità Strategica presentano

un’indiscussa attenzione da parte del Ministro degli Affari Esteri per la Regione. Secondo                                                                                                                196 Paul Salem, ”Turkey’s Image in the Arab World”, Tesev, Istanbul, maggio 2011 197 The Balkans Civilisation Centre, Center For Advanced Studies, a cura di, The Ottomman Legacy and The

Balkan Muslim Communities Today, conference Proceedings, (sarajevo, 16-18 October 2009), Arka Press d.o.o.

Sarajevo, 2011, p.13

  235  

Davutoğlu è bene recuperare la tradizione ottomana, in quanto il periodo di dominazione

turca in regione era caratterizzato da pace, prosperità e tolleranza. Secondo Davutoğlu

sotto l’Impero Ottomano i Balcani avevano un ruolo internazionale centrale e non

periferico come l’hanno attualmente. La diplomazia turca da qualche anno è molto attiva in

regione. Ankara ha inaugurato dal 2009 un tipo di diplomazia triangolare in particolare con

Bosnia-Erzegovina e Serbia tentando di apportare ad una distensione dei rapporti tra i due

Paesi. La motivazione che spingono la Turchia all’attivismo nei Balcani sono di vario

genere. Gli interessi economici sono senza dubbio consistenti, quelli di politica interna

altrettanto; secondo quanto riportato, circa nove milioni di abitanti turchi hanno origini

balcaniche e con la regione mantengono attivo il legame. Tuttavia ci ha destato particolare

interesse la motivazione geopolitica: attraverso l’attivismo nei Balcani la Turchia collabora

cordialmente con gli Stati Uniti e attraverso le politiche di distensione con la Serbia

favorisce le buone relazioni con la Russia. Inoltre nei tentativi di mediare tra i conflitti in

una zona tanto problematica quanto vicina all’Europa, Ankara si dimostra partner

responsabile, efficace e indispensabile agli occhi di Bruxelles.

La presenza economica turca è molto evidente nei Balcani, cospicui sono gli investimenti

turchi in Regione in particolare nelle zone abitate dai musulmani. Aziende chimiche

turche, la Ziraat Bank e la Turkish Airlines sono imprese protagoniste oggi dell’economia

bosniaca. L’attivismo turco è riscontrabile anche attraverso gli enti governativi competenti

per la cooperazione allo sviluppo, Tika e la Presidenza degli Affari Religiosi, Diyanet.

Questi due enti sono molto attivi in regione e tra le attività principali si occupano della

ricostruzione di opere costruite nel periodo ottomano, in primis moschee, e nella

formazione degli studenti e nella promozione dell’Islam. La società civile turca e il settore

privato sono attivi in regione soprattutto nella formazione. Network internazionali quali

quello di Fetullah Gülen sono impegnati nei Balcani circa la costituzione di scuole e

università. Nella nostra intervista a Teoman Duman, Deputy Rector for International

Relations dell’International Burch University di Sarajevo, il professore ci ha tenuto a

ribadire il carattere fondamentale e pacifico della cooperazione turca nei Balcani che

attraverso investimenti legati alla cultura e alla formazione aiuta realmente lo sviluppo

della regione. Secondo il professore i legami tra i Balcani e Turchia sono la conseguenza

naturale di una storia secolare condivisa sotto l’Impero ottomano, e pacifica.

  236  

Nella parte finale del capitolo, e dunque nella conclusione dell’elaborato, abbiamo tentato

di analizzare la percezione dei bosniaci circa l’attivismo turco in regione. La Bosnia-

Erzegovina è un Paese eterogeneo che, stando al linguaggio di Dayton, è composto da tre

popoli costituenti: bosgnacchi/Musulmani, serbi/ortodossi e croati/cattolici. Nella nostra

ricerca abbiamo tentato di differenziare i punti di vista di questi tre diversi attori. Le

statistiche e la letteratura più diffusa sostengono l’esistenza di una forte simpatia da parte

dei bosgnacchi nei riguardi della Turchia. E’ solo con l’arrivo degli ottomani che nei

Balcani si è diffuso l’Islam e solo con la conversione all’Islam i musulmani slavi

acquisiscono un senso di appartenenza di gruppo distintivo, separato dai cattolici e dagli

ortodossi. I bosgnacchi attraverso l’attivismo diplomatico ed economico di Ankara vedono

nella Turchia un alleato. Tuttavia nella comunità bosgnacca sono diverse le critiche rivolte

alla politica estera turca nella Regione. Se una componente laica critica il carattere troppo

religioso dell’attivismo turco, non pochi musulmani praticanti, tra i quali il Reis ul-Ulema

Ceric, temono di perdere egemonia in particolare sulla comunità musulmana del

Sangiaccato serbo a causa delle ambizioni turche. I bosgnacchi non dimenticano il non-

interventismo turco durante la guerra di Bosnia e tra le varie critiche riportate soprattutto

nella nostra intervista al Professor Ahmet Alibasic, vi è quella che la Turchia

strumentalizza la Bosnia solo per intrattenere migliori relazioni con la Serbia. Si dubita

delle reali possibilità e della sincerità della Turchia nel volere perseguire un miglioramento

dei rapporti dei popoli bosniaci.

I croati/cattolici non sembrano vedere di buon occhio l’attivismo turco. La componente

nazionalista che sogna di poter istituire nella regione dell’Erzegovina un’entità autonoma

sul modello della Republika Srpska, teme l’attivismo turco che proclama l’impegno per

l’unità del Paese. Il Professor Igor Zontar, croato di Sarajevo, il quale non condivide le

idee dei croati autonomisti, riconosce invece l’importanza per i bosgnacchi di far

riferimento ad Ankara, in quanto essi non godono del sostegno internazionale che hanno i

cattolici, legati a Germania, Italia e Austria, o Serbi, legati a Russia. Zontar è per

un’evoluzione di Dayton, tuttavia, non crede assolutamente che la Turchia possa

contribuire ad un miglioramento dei rapporti tra i popoli costituenti di Bosnia-Erzegovina.

  237  

L’attore serbo è certamente quello più critico nei confronti della Turchia. La percezione

della dominazione ottomana non viene riportata nei libri di storia come pacifica e

tollerante, bensì come violenta, autoritaria e principio delle divisioni. Gli abitanti della

Republika Srpska temono di poter perdere la loro autonomia e per questo non vedono di

buon occhio i proclami turchi circa il superamento del sistema di Dayton verso uno Stato

più unitario. I serbi-bosniaci della Republika Srpska non sono destinatari della

cooperazione economica turca, la quale si concentra solo nella Federatia. La visione dei

serbi nei confronti di Ankara è prevalentemente negativa.

1. Critica al “miracolo” economico turco: un’economia a serio rischio recessione

La crescita economica turca, costante dal 2002 al 2011 è certamente uno dei fondamenti

del successo elettorale dell’AKP. Le riforme liberiste quali le privatizzazioni,

l’informatizzazione delle imprese, gli incentivi agli investimenti diretti esteri, intrapresi dal

partito di Governo, hanno favorito la crescita della ricchezza nazionale. In politica estera,

le statistiche Tesev citate in particolare per quanto riguarda la popolarità del modello turco

nei popoli arabi, attribuiscono alla crescita e solidità economica turca uno dei fattori più

apprezzati del Paese. La crescita economica turca aiuta la diplomazia di Ankara a contare

oltre confine.

Tuttavia interpretando recenti studi circa la solidità economica della Turchia, riportiamo

sinteticamente le analisi di alcuni economisti che non condividono l’ottimismo su Ankara.

Secondo l’economista David Goldman, la crescita del Pil turco, è data spiegabile attraverso

l’accesso al credito che ha contribuito all’aumento dei consumi. Il Pil si misura sommando

consumi, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette, secondo Goldman: “The

impetus behind the country’s recent economic growth has been a stunning rate of credit

expansion, which reached 30 percent for households and 40 percent for business in

2011”198.

Le banche più vicine all’AKP avrebbero concesso un’espansione del credito al consumo

pari al 53% rispetto il 36% delle banche commerciali199. Come sappiamo un aumento del

                                                                                                               198 David P. Goldman, “Ankara’s “Economic Miracle” Collapses”, Middle East Quarterly, winter 2012. pg 25 199 ibid. pg 26

  238  

credito al consumo incentiva l’aumento dei consumi, ma non direttamente quello della

produzione interna. Ciò ha portato le famiglie turche a domandare negli anni sempre più

beni, tra i quali moltissimi beni importati. Questa è stata una delle cause che ha favorito la

formazione dell’altissimo deficit del bilancio delle partite correnti turche. Secondo il

Financial times: “Turkey’s trade deficit for May boubled from the year-earlier period,

adding to the current-account imbalance. Imports to Turkey expanded by 42,6%, almost

four times as fast as its exports at 11,7%”200.

Secondo Bloomberg:

“Turkey’s economy expanded 8,8% in the second quarter as a boom in consumer

borrowing forced the government to cap loan growth at 25 percent. The country’s 12 –

month current – account deficit widened to a record 74,6 billion [of dollars] in July, about

10 percent of gross domestic product”201.

L’espansione del credito dunque oltre ad aumentare lo squilibrio del deficit del saldo delle

partite correnti, provoca una crescita dell’indebitamento. Secondo il financial times:

“In the past two years the ratio of household debt to household disposable incomes has

risen rapidly, from 35 per cent to 45 per cent”202.

La crescita delle importazioni dal 2003 al 2011, periodo di aumento del reddito pro capite,

riguarda per il 60% beni durevoli per soddisfare l’aumento della domanda interna di beni

di consumo. Le importazioni di capitali e prodotti semilavorati industriali crollano dopo il

picco del 2008203. “Turkey, in short, is running a current account deficit equal to 11

percent of GDP to promote a consumer buying spree while cutting imports of capitals

goods that would contribute to future productivity”204.

                                                                                                               200 “Turkish Economy Expands 11%, But Markets Point to Pitfalls”, Finantial Times, 30 giugno 2011 201 Turkey Current-Account Gap May Narrow on Slower Growth, S&P Says”, http://www.bloomberg.com/news/2011-09-20/turkey-current-account-gap-may-narrow-on-slower-growth-s-p-says.html, 20 settembre 2011 202 Turkey’s economic model faces tough test, Financial Times, 11 settembre 2011 203 David P. Goldman, “Ankara’s “Economic Miracle” Collapses”, Middle East Quarterly, winter 2012. pg 26 204 Ibid.

  239  

In questo grafico dal 2006 ai primi mesi del 2012 mostriamo la correlazione tra espansione

del credito e deficit delle partite correnti205:

La Turchia soffre della diminuzione della domanda dei beni esportati nel mercato europeo

a causa della crisi economica. La recessione economica dei paesi sviluppati può essere una

delle motivazioni dell’attivismo turco nelle aeree nordafricane e balcaniche alla ricerca di

nuovi mercati. Nonostante i miglioramenti evidenti e la crescita, il tessuto industriale non

si basa su prodotti altamente tecnologici. Le esportazioni sono costituite in prevalenza da

beni di basso valore aggiunto (prodotti tessili, alimentari e elettrodomestici) ciò

contribuisce allo squilibrio della bilancia delle partite correnti. Al fine di favorire le

esportazioni e gli investimenti, la Banca Centrale turca ha a lungo effettuato una politica di

ribasso dei tassi di interessi e svalutazione della moneta. Secondo Joe Parkinson del Wall

Street Journal negli ultimi mesi (l’articolo risale al 13 dicembre del 2011) la Lira turca è

caduta del 30% rispetto il dollaro.206 La svalutazione della lira turca è motivata

dall’interesse diminuire il deficit della bilancia delle partite correnti rendendo più

economiche le merci turche all’esportazione e diminuendo il potere d’acquisto dei turchi

circa i prodotti importati. Naturalmente tale processo provoca un’inflazione che viaggia

intorno al 10% ogni anno.

                                                                                                               205 Ibid. pg 27 206 “Turkish Prices Rise on Rapid Growth”, Wall Street Journal, 13 dicembre 2011

  240  

L’aumento dell’inflazione, il deficit della bilancia delle partite correnti, la crescita

dell’indebitamento turco in particolare il debito estero, (che è relativamente basso, 40% del

Prodotto Interno Lordo è comparato a Grecia e Portogallo, ma tuttavia in veloce crescita),

spingono la Banca Centrale turca a optare per una politica meno espansiva. Vengono

attuate politiche monetarie restrittive quali l’aumento del tasso per il prestito inter-bancario

e l’aumento delle riserve minime bancarie. Le previsioni di crescita del 2012 per la Turchia

sono in netto ribasso rispetto gli anni precedenti, secondo il Financial Times:

“It [il governo turco] predicts 4 per cent growth for 2012. The International Monetary Fund

forecasts a rather more bearish 0.4 per cent”207.

L’economia turca per concludere, soffre di numerosi problemi strutturali. Innanzitutto la

produttività dei lavoratori è molto bassa208. Nonostante le università turche siano eccellenti

per la formazione di ingegneri e manager, la popolazione è nel suo complesso meno

scolarizzata rispetto economie in crescita paragonabili alla Turchia, solo il 26% degli

studenti consegue il diploma209. Nel 2009 solo il 22% delle donne era alla ricerca di una

professione. Il grado di occupazione femminile e giovanile in Turchia è molto basso210, il

lavoro sommerso alto211. In termine di produttività, il capitale umano turco non compete

con gli stati asiatici. Inoltre l’economia turca è fortemente interdipendente da altri paesi per

l’importazione ed esportazione di materie prime: di per sè non è ricca di materie prime al

pari di Paesi in crescita quali Brasile, Russia.

In caso di crisi economica tutte queste caratteristiche renderebbero più difficile la ripresa.

2. L’importanza della diplomazia turca

Un partito islamista alla guida della Turchia è un passaggio storico per il Paese. Per la

prima volta il potere civile prevale su quello militare e il Paese vive progressi democratici

consistenti. La principale motivazione dell’ampio consenso interno al partito della

Giustizia e dello Sviluppo è il successo economico. Anche in politica estera i sondaggi

                                                                                                               207 “Turkish diplomacy: An attentive neighbour”, Financial Times, 26 febbraio 2012 208 David P. Goldman, “Ankara’s “Economic Miracle” Collapses”, Middle East Quarterly, winter 2012. pg 28 209 Ibid. pg 28. 210 Ibid. 211 Ibid.

  241  

TESEV mostrano quanto la crescita economica turca influenzi la popolarità del Paese negli

Stati arabi. Tuttavia abbiamo appena riportato delle analisi economiche che criticano la

solidità e sostenibilità della crescita turca in particolare perché a differenza di altre

economia in crescita, la Turchia non gode del capitale umano dei Paesi asiatici, né della

ricchezza di materie prime al pari di Russia e Brasile. Il primo mercato destinatario dei

prodotti turchi, i Paesi dell’Unione Europea, soffre di una crisi economica che colpisce la

domanda dei consumi e porta dunque ad una contrazione dei beni di importazioni. Al fine

di mantenere il consenso interno e l’influenza all’estero è bene che il Governo di Turchia si

sposti su nuovi mercati. L’attivismo in politica estera è pertanto motivato anche da ragioni

economiche oltre che dall’aspirazione di leadership regionale. Affinché l’attore turco sia

benvenuto nei Paesi mediterranei, balcanici e mediorientali, è necessario che modifichi

l’immagine negativa che per anni l’ha caratterizzato a causa del sospetto di ritorno di

ambizioni conquistatrici imperiali, e di essere uno Stato alle dipendenze di Paesi

occidentali strettamente legato ad Israele e insieme un Paese periferico e poco influente

nelle relazioni internazionali. La diplomazia dell’AKP e in particolare del Ministro degli

Affari Esteri Davutoğlu è attivissima e impegnata a promuovere un’immagine di una

Turchia forte, libera, interessata allo sviluppo dei popoli con i quali interagisce. Abbiamo

ampiamente riportato i caratteri idealistici e a tratti wilsoniani dei discorsi di Davutoğlu.

Analizzando la presenza turca nel Nord Africa abbiamo comunque espresso il dubbio che

la piena adesione ai principi democratici e alla difesa dei diritti umani non sia in realtà

dettata che da motivazioni di Realpolitik. Questo interrogativo ci viene suggerito dai

rapporti per anni cordiali con Muammar Gheddafi, Zine El-Abidine Ben Ali e Bashar

Hafiz al-Asad, oggi duramente criticati, ma anche dalle relazioni diplomatiche con

Mahmud Ahmadinejād e Omar Hasan Ahmad al-Bashīr. Inoltre analizzando la percezione

turca nei Balcani ci siamo resi conto di quanto i soggetti interessati principalmente alla

Politica Estera di Ankara siano spesso disillusi e critici nei confronti dei toni idealistici dei

suoi legati nonché dubitino delle reali possibilità del Paese di influenzare le relazioni

internazionali.

Le potenzialità turche appaiono essere spesso sopravvalutate rispetto alle possibilità reali.

Tuttavia nelle relazioni con gli Stati del Medio Oriente, Mediterraneo e Balcani, la

collaborazione con il Paese erede della Sublime Porta sembra essere imprescindibile. Ciò è

  242  

un risultato dell’attivismo in politica estera, dell’attenzione e i successi della mediazione e

del negoziato. La Turchia ci aiuta a comprendere le possibilità attuali, la forza e l’efficacia

dello strumento diplomatico.

  243  

Ringraziamenti

Ringrazio il Professore Relatore Miodrag Lekic, per il suo immenso aiuto, la sua

fiducia, rispetto nei miei confronti, disponibilità, cordialità e simpatia.

Sono grato di aver conosciuto la Professoressa Correlatrice Bruna Soravia Graziosi, la

cui precisione e impegno sono stati fondamentali ai fini della mia ricerca.

Ringrazio la Professoressa Dina Nadarevic e il Professor Ahmet Alibasic della Facoltà

di Studi Islamici di Sarajevo.

Ringrazio il Professor Teoman Duman, Deputy Rector for International Relations

della International Burch University di Sarajevo.

Ringrazio il Professor Igor Zontar della Facoltà Cattolica di Teologia di Sarajevo.

Ringrazio Nikola Lazinica di Banja Luka e Sena Maric di Belgrado.

Ringrazio mia madre che non ha mai smesso di sostenermi, incoraggiarmi e aiutarmi.

Ringrazio le mie sorelle Alessandra e Arianna.

Ringrazio mio padre e il suo prezioso aiuto e fiducia.

Ringrazio i miei amici di Sarajevo che mi hanno accompagnato in questa ricerca, in

particolare, in ordine sparso e confusionario: Nedim, Luka, Mak, Danilo, Giovanna,

Emanuela, Martino, Marco, Andrea, Fatima, Flavia, Lucia, Lucie, Jas, Marko, Emilio,

Armin, Ailin, Ado, Benjamin, Mohamed, Dina e tutti gli altri.

Ringrazio i miei amici con cui ho vissuto gli anni romani, in particolare Silvia,

Michele e Remigio.

Ringrazio i miei amici del teatro Luiss.

Ringrazio i miei amici di sempre, in particolare Jacopo, Giannicola, Sibilla, Luigi, Vittoria,

Patrizia, Martina e tutti gli altri.

  244  

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Teoman Duman, Deputy Rector for International Relations, International Burch

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Igor Zontar, Professore presso la Facoltà Cattolica di Teologia dell’Università di Sarajevo.

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Nikola Lazinica, specializzato presso il Collegio d’Europa di Parma, Banja Luka, 3 marzo

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