© iila, maggio 2007 - roma · consultarsi sull’identità dei popoli indigeni del mercosud. al...

273
iila - ISTITUTO ITALO-LATINO AMERICANO Identità linguistica dei popoli indigeni del Mercosud come fattore di integrazione e sviluppo

Upload: votuyen

Post on 17-Feb-2019

217 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

iila - ISTITUTO ITALO-LATINO AMERICANO

Identità linguisticadei popoli indigeni

del Mercosud come fattoredi integrazione e sviluppo

Seminario Multidisciplinare

Identità linguisticadei popoli indigenidel Mercosudcome fattore di integrazionee sviluppo

Asunción, 23-24 ottobre 2006

A cura diAntonio L. Palmisano

ROMA

1

SERIE ECONOMIA         31Q U A D E R N I     I I L A

© IILA, Maggio 2007 - Roma

2

Questo volume è dedicato alla memoriadell’Ambasciatore Paolo Faiola, SegretarioGenerale dell’IILA dal 1° agosto 2003 al 31 ottobre2006, che volle promuovere con passione ed entu-siasmo il dialogo sull’identità dei popoli indigeni inAmerica Latina.

3

4

INDICE

Prefazione 7

Introduzione 9

Sviluppi sulla protezione internazionale dei popoli indigeni:la Dichiarazione ONU del consiglio sui diritti umaniPIETRO PUSTORINO 17

Cultura, identidad y ecología humanaRAMIRO DOMINGUEZ 31

Cultura, y minorias étnicas en ParaguayJOSÉ ZANARDINI 33

Preguntas y respuestas 39

Contaminare i linguaggi della prima modernitàVACLAV BELOHRADSKY 49

Hacia la integración y el desarrollo: la educación instrumentoprivilegiado para afianzar la identidad de grupos originarios.La experiencia paraguayaAIDA TORRES DE ROMERO 69

Multiculturalismo en el BrasilMARCIO PEREIRA GOMES 91

Presencia indígena en UruguayMARíA DEL CARMEN CURBELO SALVO 95

Preguntas y respuestas 109

Immagine e rappresentazione indigena verso la ri-appropriazione sociale, culturale, economicaANTONIO L. PALMISANO 117

5

Educação escolar indígena no BrasilMARCIA MORAES BLANCK 137

Intervenciones 165

El lenguaje del desarrollo: acciones de la cooperación internacional y respuestas de los pueblos indígenas de América LatinaANTONINO COLAJANNI 169

Idiomas y tradición en una sociedad globalOLGA GALEANO DE CARDOZO 229

La identidad de los pueblos indígenas en la escuela.Un estudio de caso entre los kollas del noroeste argentinoANTONIO RENÉ MACHACA 233

Preguntas y respuestas 251

Mesa redonda – debate final 257

Declaración de Asunción 269

6

Prefazione

Le nazioni e la comunità internazionale si interrogano sui destinidelle minoranze nell’epoca della globalizzazione. La questione indige-na è particolarmente sentita in America Latina dove realtà plurietnichee multilinguistiche si incontrano con la volontà-necessità di integrazio-ne complementare delle differenze identitarie.

Già nel 2004 l’IILA, organismo internazionale che da oltre 40 annirappresenta 20 governi latinoamericani e il governo italiano, ha inizia-to un percorso di studio e di ricerca sull’identità dei popoli indigenidell’America Latina. Dal seminario tenuto a Quito nel 2004 si è passa-ti al seminario di Napoli nel 2005 e poi a questo seminario di Asunciónnel 2006, organizzato in collaborazione con la Cancillería e con laComisión Nacional de Bilingüismo, organi del Ministerio deEducación y Cultura. Iniziando a lavorare sull’identità dei popoli indi-geni andini, gruppi di studiosi latinoamericani e italiani sono passati aconsultarsi sull’identità dei popoli indigeni del Mercosud. Al termine diognuno di questi seminari, insieme alle autorità dei paesi interessati, ipartecipanti si sono espressi con una Dichiarazione. Così laDichiarazione di Otavalo, la Dichiarazione di Napoli e la Dichiarazionedi Asunción seguono un filo logico che testimonia l’impegno di istitu-zioni e persone nel riflettere sui temi del nostro tempo e discutere tema-tiche di grande portata sociale e politica, rendendo partecipi del dibat-tito in corso un numero sempre maggiore di attori sociali e politici, isti-tuzionali e non istituzionali. Soprattutto, dando una voce alle comunitàindigene e ai loro rappresentanti.

Il mio ringraziamento è rivolto a tutti coloro che hanno collabora-to e collaborano con l’IILA nel compiere questo percorso. Un percorsoche negli immediati passi successivi ci condurrà in America Centrale,dove sarà possibile rendere il quadro analitico ancora più ampio nel-l’interesse di tutte le popolazioni indigene dell’America Latina.

PAOLO BRUNI

Segretario Generale dell’IILA

7

8

IntroduzioneLe identità indigene e la cuestión de los pueblos originarios

Antonio L. Palmisano

Le trasformazioni sociali ed economiche attualmente in atto sullascena internazionale si riflettono prepotentemente sui processi dicostruzione delle identità. In modo particolare, le identità delle comu-nità indigene dell’America Latina possono essere considerate in trans-izione, ed in transizione rapida. Nella prospettiva di queste stessecomunità, l’essere considerate soggetti giuridici, in quanto “popolazio-ni indigene”, conduce ad un ripensamento e una ricostituzione dellapropria identità. Gli stessi processi di sviluppo e i differenti approcciistituzionali e non istituzionali, sia nazionali che internazionali, allosviluppo comportano nuovamente una ri-configurazione dell’autorap-presentazione di una comunità indigena. Per continuare ad essere ciòche si è, insomma, non è possibile continuare ad essere ciò che si èstati, e questa è un’opera di tutto rispetto. La relazione fra Stati nazio-nali e comunità indigene, infatti, non può non essere ripensata anchedalle stesse comunità indigene, affrontando e discutendo temi, qualel’integrazione delle minoranze, l’educazione in lingua indigena e ildiritto di proprietà collettiva quantomeno sull’uso delle terre “ance-strali”.

Temi di questo genere, e di tale complessità, possono essere trat-tati adeguatamente solo in presenza di una molteplicità di approcci. E’quanto si è tentato di compiere in occasione del Convegno che ha avutoluogo ad Asunción nei giorni 23 e 24 ottobre 2006. Gli articoli qui rac-colti costituiscono gli Atti di quel Convegno, rivisti dai loro autori, aiquali si accompagnano le trascrizioni dei dibattiti che hanno seguito gliinterventi ed il riassunto della Tavola Rotonda conclusiva.

Il ruolo del diritto nei processi identitari ed il concetto di soggetti-vità giuridica sono stati affrontati da alcuni autori considerando conattenzione proprio la questione delle dinamiche identitarie. A più ripre-se è stato sottolineato il rischio di fossilizzazione e mercificazione delle

9

identità etniche e linguistiche. Allo stesso tempo alcuni autori hannodescritto le strategie statali elaborate per affrontare la questione deiprocessi di integrazione delle comunità indigene nel contesto di unasocietà nazionale ma moderna, ovvero attenta al multiculturalismo. Lestrategie politiche elaborate dallo Stato e dalle comunità indigene sonostate quindi esaminate da altri autori nel contesto dei processi di svi-luppo. La stessa nozione di “sviluppo” è stata analizzata e discussa cri-ticamente dalla maggior parte degli autori qui presenti. A tutti è sem-brata costruttiva la proposta di elaborare specifici programmi educati-vi “di qualità”, come strumenti privilegiati per il riconoscimento ed ilpotenziamento delle identità delle comunità indigene; programmi chevedano la partecipazione attiva, in chiave di protagonisti, degli stessipueblos originarios o, meglio ancora, programmi che comportino lagestione diretta da parte delle comunità indigene.

Così, seguendo un approccio di antropologia politica e sociale, nelmio intervento esamino il dibattito relativo alle relazioni fra identità esviluppo in America Latina. Si tratta di un dibattito, in effetti, che esigeoggi una ricollocazione più consona: nell’ambito dei processi di rap-presentazione e di autorappresentazione. Le comunità indigenedell’America Latina, difatti, non solo hanno giocato un ruolo nellacostruzione del loro passato e del loro presente, ma continueranno asvolgere il ruolo di attori sociali e politici primari nella costruzionedell’America Latina contemporanea e del futuro. L’ identità è plurima,è molteplice, e si difende –e va difesa- dall’essere ridotta ad un clichédefinito dall’esterno (dal mondo globale) o dall’interno della sua socie-tà nazionale. L’identità è in perenne divenire, ed è in perenne intera-zione con la rappresentazione e la autorappresentazione della comuni-tà, della società. E’ dunque soggetta a manipolazioni, anche inconsape-voli. In questo contesto analitico considero allora tre principali rappre-sentazioni: rappresentazione liberista; rappresentazione indigena; rap-presentazione terza, ovvero dei mercati commerciali. Alla globalizza-zione liberista (economia dei mercati finanziari), si affianca difattiun’altra globalizzazione, parzialmente in conflitto con essa: la globa-lizzazione dei mercati finanziari è contrastata dalla globalizzazione deinuovi mercati commerciali. Le identità che propongono queste due rap-

10

presentazioni all’America Latina sono in contrapposizione alla auto-rappresentazione dell’America Latina, ovvero alla identità delle comu-nità indigene. Mentre la prima rappresentazione –liberista- è prodottadall’azione politica ed economica delle grandi concentrazioni di capi-tale finanziario, la rappresentazione terza –rappresentazione ad operadei mercati commerciali- esprime l’azione di globalizzazione operatadai mercati commerciali diretti dallo Stato (Cina e India), come purel’azione della globalizzazione musulmana. In questo contesto di intera-zione fra rappresentazioni, ovvero di contrattazione delle identità, laautorappresentazione dell’America Latina è probabilmente destinata afondare una nuova identità sulla base di nuove forme di sinergia ecooperazione fra paesi dell’America Latina e fra questi e l’UnioneEuropea.

Ma differenti approcci disciplinari sono adottati da altri studiosinell’attività di comprensione delle dinamiche internazionali di relazio-ne fra Stati e comunità indigene. Se ne occupa, in una prospettiva giu-ridica, PIETRO PUSTORINO. La risoluzione Onu sui diritti dei Popoliindigeni è applicata con grande ritardo, afferma Pustorino, e finalmen-te solo a seguito delle pressioni esercitate dalle comunità indigenedell’America Latina. Pustorino analizza gli sviluppi recenti avuti nel-l’ordinamento internazionale in tema di protezione delle minoranze,soprattutto delle comunità indigene, e li contestualizza nella prassi giu-ridica in materia di “popolazioni indigene”, nel quadro più ampio del-l’evoluzione del diritto internazionale e della comunità internazionale.Gli sviluppi recenti intervenuti in alcuni settori-chiave del diritto inter-nazionale (diritti umani, diritto internazionale dell’economia, protezio-ne dell’ambiente...) sembrano così aver prodotto, da un lato, modificherilevanti circa la natura, il contenuto e le funzioni svolte dal dirittointernazionale attuale; dall’altro, sembrano aver dato luogo ad un muta-mento stesso della comunità internazionale che, oggi, non appare piùformata unicamente da Stati. Di questa fanno ormai parte anche altrienti cui va attribuita una soggettività internazionale, pur limitata, inquanto destinatari di diritti ed obblighi sul piano internazionale.

Secondo RAMIRO DOMíNGUEZ, il processo di integrazionedelle minoranze del Terzo Mondo, caratterizzato da discriminazione,

11

implica l’assorbimento delle stesse e la loro sottomissione ai gruppiegemonici di maggioranza. Il Paraguay rappresenta un caso di mino-ranza indigena in un contesto linguistico di maggioranza guaraní.Durante il processo di colonizzazione, almeno nel caso paraguayano, lemadri indigene avrebbero trasmesso la lingua ai loro figli, così crean-do la maggioranza linguistica. Ma la situazione di bilinguismo origina-ta in questa specifica costellazione etno-storica comporta una soffertaambiguità. Da una parte, afferma Domínguez, si evidenzia una orgo-gliosa autorappresentazione dell’essere guaraní, vergognandosi al con-tempo nel parlare questa lingua; dall’altra, si denuncia il processo didissolvimento della cultura indigena pur partecipando fattualmente alla“deforestazione fisica, culturale e linguistica” delle comunità indigene.

La mappa etnografica delle culture e comunità indigene delParaguay viene allora ad essere illustrata nell’intervento di JOSÉZANARDINI. Venti gruppi etnici, riuniti in cinque distinte famiglielinguistiche, si sono confrontati con la creazione dello Stato-nazione inParaguay. Questa confrontazione, ovvero la questione delle terre e dellaproprietà, conduce negli anni ’50 del secolo scorso alla costituzione diimportanti movimenti politici e sociali che si attivano in favore dellecomunità indigene, fino a permettere negli anni ’80 e ’90 il riconosci-mento pieno della cittadinanza e il diritto a reclamare la proprietà delleterre alle “popolazioni indigene”. Per Zanardini il concetto di “identitàetnica” assume allora dimensioni profonde e comincia a incidere neiprocessi decisionali e politici nazionali. I movimenti di insurgenciaétnica crescono di numero e di incisività nella vita politica e socialedando vita oggi allo Stato multinazionale nel contesto della modernità.

Nelle moderne società democratiche, osserva infatti VACLAVBELOHRADSKY, ogni rivendicazione, compresa quella dell’identitàlinguistica, attinge la sua legittimità da un insieme intrecciato di lin-guaggi, ideologie e miti che Belohradsky non esita a chiamare “lin-guaggi della modernità”. Ogni discussione sui diritti umani o sul degra-do ambientale provocato dalla crescita economica, ad esempio, lasciarilevare come le nostre argomentazioni sono tutte riconducibili ai gran-di linguaggi e miti della modernità. Queste argomentazioni sono incen-trate su sei metafore costitutive: lo Stato come macchina, il contratto

12

sociale come origine della società, il mercato come mano invisibile, lanatura come libro scritto in caratteri matematici, le scienze “umane” el’uomo come soggetto. Il processo che chiamiamo “globalizzazione”,infine, come sostiene Belohradsky, ha creato problemi –anzituttoambientali- che possono essere risolti solamente a condizione che ilpredominio dei linguaggi della modernità venga interrotto. In effetti,quest’ultimo censura le versioni alternative del mondo. Le lingue indi-gene contengono appunto un’informazione glo-cale, in cui, cioè, ilsapere locale concreto si mescola con il sapere globale astratto, la cro-naca di una comunità particolare si intreccia con la storia universale.Solamente recuperando questo sapere “misto” possiamo rompere allo-ra l’egemonia distruttiva dei linguaggi astratti della modernità, edentrare finalmente così in una “seconda modernità”.

Per il Paraguay, la questione delle lingue indigene è affrontatadirettamente da AíDA TORRES DE ROMERO che analizza le politi-che nazionali dell’educazione bilingue a partire dal 1994. Dopo averconsolidato le competenze nell’uso della lingua materna, in Paraguayogni studente si ritrova a seguire i programmi di insegnamento nellaseconda lingua. Per le comunità indigene ciò significa essere educatinella propria lingua: apprendere a comunicare in una delle lingue uffi-ciali (castigliano e guaraní) e recuperare la propria cultura partecipan-do attivamente ai programmi educativi. Ciò comporta la necessità dipotenziare la formazione di educatori professionali indigeni nel conte-sto nazionale. Questo permetterà la realizzazione di una “educazione diqualità elevata” della quale disporranno i pueblos indígenas per parte-cipare pienamente ai processi democratici nel conseguimento di unasocietà più equa.

L’attuale situazione degli indigeni in Brasile, censiti in circa 225comunità etniche, è invece descritta da MARCIO PEREIRA GOMES.I censimenti e gli studi dell’UNESCO documentavano nel 1955 l’e-stinzione di almeno 80.000-100.000 indigeni in Brasile. Negli ultimianni, tuttavia, sembra documentabile una ripresa demografica dellecomunità indigene, quantificabile con un tasso di crescita del 4,5%annuo. A questa crescita avrebbero contribuito proprio i programmi disupporto alle comunità indigene varati dal governo brasiliano. Il soste-

13

gno della cultura indigena attraverso la formazione di docenti qualifi-cati che insegnano in lingua madre avrebbe difatti permesso quellacomunicazione interattiva fra Stato e comunità indigene che ha con-dotto fra l’altro alla riduzione della mortalità infantile.

MARCIA MORAES BLANCK specifica quindi le attività nelcampo della “educazione indigena” intraprese in Brasile. Nel 2004infatti è stata promulgata la Convenzione dei Popoli Indigeni, unaConvenzione che promuove la partecipazione degli indigeni alla piani-ficazione e valutazione delle strategie relative ai programmi di forma-zione. Al contempo è stata rafforzata la partecipazione indigena allaelaborazione delle politiche pubbliche, come pure la valorizzazione deisaperi indigeni, in particolar modo dei gruppi etnici minoritari. Il dia-logo interculturale sarebbe così divenuto strategia privilegiata nell’am-bito del sistema educativo.

L’intervento di BRUNO FRANCISCO BARRIOS SOSA, ViceMinistro della Cultura del Paraguay, riprende proprio il tema del pro-cesso di integrazione delle minoranze linguistiche nei contesti naziona-li, sottolineando la necessità politica di costituire spazi effettivi apertialla partecipazione e al dialogo permanente con le comunità indigene. IlVice Ministro lascia così la parola al cacique KARAI MIRÏ degli MbyáGuaraní per raccontare delle esperienze dirette di una comunità indige-na nei contesti di modernizzazione e sviluppo del Paese. Questi riven-dica lo essere pobres pero ricos degli indigeni, analizzando il loro rap-porto con la terra e sollevando ancora una volta la questione della pro-prietà collettiva sulla terra come bene culturale, oltre che economico,per ognuna delle comunità indigene del Paraguay. Comunità, ricordaKarai Mirï, che hanno una propria visione del mondo e della società.

La posizione delle istituzioni internazionali impegnate allo svilup-po (Banca Mondiale, Banca Interamericana per lo Sviluppo, FAO,UNESCO, FIDA ecc.) viene discussa criticamente da ANTONINOCOLAJANNI nel contesto della cuestión indígena in America Latina.Colajanni mostra come queste istituzioni intendano per desarrollo indí-gena una forma specifica di pianificazione e esecuzione di progetti dicambiamento socio-economico diretto, adattato ai contesti locali enazionali. A partire dalla nozione di “etnosviluppo” elaborata negli

14

anni ’80 del secolo scorso, Colajanni rileva la innegabile esistenza diun “punto di vista indigeno” dal quale non si può prescindere. A que-sto sono connesse categorizzazioni e interpretazioni che lasciano benriconoscere il pensiero indigeno e le relative strategie per affrontare ilcambiamento sociale. In tale prospettiva, dunque, lo “sviluppo alterna-tivo” è possibile, come pure sono possibili “forme sociali e economi-che alternative allo sviluppo”. Colajanni illustra l’utilità teorica dellevisioni indigene del mondo e della società attraverso l’analisi di casietnografici ben documentati, insistendo nella analisi del “linguaggiodello sviluppo”, un linguaggio che mobilita e facilita, ma al contempocristallizza di fronte al grande pubblico, temi di vasta portata, quale la“modernità”, la “crescita nella produzione” e il “benessere”, solo percitarne alcuni.

Il processo di globalizzazione, secondo OLGA GALEANO DECARDOZO, appare essere un estintore di lingue; ma anche di identità,vista l’inscindibilità del rapporto lingua-identità. Proprio nel 1996, rile-va Galeano de Cardozo, l’UNESCO ha elaborato uno studio, chiamatoLinguapax, sulla relazione fra sviluppo e sopravvivenza delle lingue, inparticolare indigene. La situazione descritta ha destato da allora enor-mi preoccupazioni proprio per la riduzione progressiva del numero dilingue attualmente in uso. Impegnarsi dunque per il mantenimentodelle lingue minoritarie, conclude Olga Galeano de Cardozo, significatout court impegnarsi nel mantenimento delle identità etniche e cultu-rali delle minoranze, partecipando così alla promozione della culturadella pace.

Secondo ANTONIO RENÉ MACHACA in Argentina, invece, si ègeneralmente avuta una negazione storica dei popoli indigeni. Questisono stati considerati “uno scoglio per la realizzazione dei programmieducativi”. Tuttavia, nella Quebrada de Humahuaca, Jujuy, le praticheeducative sono riuscite a riconoscere l’identità etnica delle comunitàindigene. In questa regione del Nordest dell’Argentina, infatti, gli indi-geni appaiono sempre più essere gli attori sociali protagonisti, rivendi-cando con sempre maggiore successo il rispetto per la propria cultura,lingua e identità. Machaca racconta nella prospettiva indigena il modoin cui la identità etnica è trattata nelle aule delle scuole, mostrando così

15

quale ruolo fondamentale abbia la scuola nel sostenere la diversità cul-turale e nel trasformarla in punto di forza per la realizzazione dei pro-grammi di integrazione e di sviluppo.

La tavola rotonda conclusiva del Convegno viene aperta dall’in-tervento di GUSTAVO ARTETA, che ricorda come dalla nascita delloStato sociale nel XIX secolo si sia passati nel XX secolo alla discus-sione del concetto di “cittadinanza” e alla elaborazione della teoria deidiritti culturali e quindi alla ricezione delle relative teorie in tutti ipaesi. Arteta sottolinea come il discorso sui diritti umani non sia auto-referente, ma che questo vada analizzato in rapporto a Stato e società.Lo Stato è sottoposto oggi a un processo di ricostruzione, difatti, e lasua centralità è complementata e mediata ora dalle iniziative dellasocietà civile e dal principio di sussidiarietà. Ciò conduce a una esi-genza di crescente rispetto della molteplicità. Anche lo Stato può farsuo questo compito senza pertanto necessariamente delegare aiComuni le azioni di sostegno alle comunità indigene, vulnerabili strut-turalmente di fronte alle contingenze delle specifiche realtà politichelocali. All’interno dei processi di globalizzazione, la preservazione diculture e identità indigene, come pure di lingue locali, non può comun-que essere realizzata se non con “una educazione indigena che si com-pie dall’interno”. La urgente cuestión de los pueblos originarios, per-tanto, è da affrontarsi nel contesto delle politiche statuali, sempre con-siderando la capacità omogeneizzante della globalizzazione.

Le tematiche trattate da questi autori sono decisamente complesse,ma pure è facilmente rintracciabile un filo conduttore comune nellacontinuità della riflessione, ancor più includendo i precedenti semina-ri. Il confronto fra le diverse posizioni sostenute dagli autori e i loro dif-ferenti approcci disciplinari mostra come il rapporto fra America Latinae Europa possa ben svilupparsi anche o proprio in forza di temi inscin-dibilmente connessi: identità etniche e minoranze linguistiche, dirittidei popoli e programmi internazionali e nazionali di sviluppo, processieducativi e dialogo fra Stato e comunità locali. Un lavoro, dunque, chetutti coinvolge.

16

Sviluppi sulla protezione internazionale dei popoli indigeni:la dichiarazione Onu del consiglio sui diritti umani

PIEtRO PUStORINO (Università di Siena)

1. La recente approvazione della Dichiarazione delle NazioniUnite sui diritti dei popoli indigeni.Il Consiglio sui diritti umani, nuovo organo sussidiario

dell’Assemblea generale dell’ONU1, ha adottato, il 29 giugno 2006, laDichiarazione sui diritti dei popoli indigeni2, che costituisce un’evo-luzione significativa della prassi internazionale in materia di tutela deipopoli indigeni.

La Dichiarazione, che dovrebbe essere successivamente approva-ta dall’Assemblea generale, trova il suo precedente più rilevante, nelquadro delle Nazioni Unite, nella Draft Declaration on the Rights ofIndigenous Peoples adottata nel 1994 dalla Sotto-Commissionedell’ONU sulla prevenzione della discriminazione e la protezione delleminoranze3.

La Dichiarazione del 2006 presenta diversi profili di interesse,ponendosi prevalentemente in una linea di continuità rispetto alla pras-si preesistente, ma contenendo altresì alcuni elementi di innovazione dispeciale rilevanza, sui quali occorre maggiormente soffermarsi.

17

––––––––––––––––––––––––1 Il Consiglio, istituito con risoluzione dell’Assemblea generale A/RES/60/251 del 3 aprile2006, ha sostituito la Commissione sui diritti umani. Su di esso si veda A. BULTRINI, Il ‘nuovo’Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni unite, in Diritti umani e diritto internazionale,2007, p. 137 ss.2 Cfr. U.N. Doc. A/HRC/1/L.10. La risoluzione è stata approvata con il voto favorevole di tren-ta Paesi. Dei restanti membri del Consiglio, che è composto complessivamente di 47 Stati, 12delegati statali si sono astenuti, Canada e Federazione russa hanno espresso un voto contrario,mentre i tre residuali delegati statali (Djibouti, Gabon e Mali) non hanno partecipato alla vota-zione. Per un interessante commento in materia si veda S. ERRICO, La Dichiarazione delleNazioni unite sui diritti dei popoli indigeni, in Diritti umani e diritto internazionale, 2007, p.167 ss.3 Cfr. E/CN.4/Sub.2/1994/2/Add.1.

2. Rafforzamento degli obblighi positivi degli Stati in tema diprotezione dei popoli indigeni e titolarità di diritti individualie collettivi da parte delle comunità indigene.Un primo elemento di evidente continuità rispetto sia alla prassi

specifica riguardante la tutela dei popoli indigeni, sia alla prassi piùgenerale in materia di protezione dei diritti umani (ivi compresa ladisciplina riguardante la tutela delle minoranze), concerne l’ormaiacquisita consapevolezza che una tutela adeguata ed effettiva dellecomunità indigene non può essere realizzata soltanto in base alla pre-disposizione di obblighi negativi di astensione da comportamenti lesi-vi dei diritti dei popoli indigeni, ma esige piuttosto la formazione diprecisi obblighi positivi a carico degli Stati.

Muovendosi nel solco di questo consolidato orientamento dellaprassi, la Dichiarazione del 2006 ha migliorato ed ampliato il contenu-to degli obblighi di facere già riconosciuti ai popoli indigeni attraversoaltri strumenti giuridici, di cui, come si dirà in seguito4, occorre tenereconto nell’interpretazione e applicazione della Dichiarazione in esame.

In materia, particolare interesse assumono ad esempio l’obbligoper gli Stati di predisporre “effective mechanisms” per la prevenzionee l’eventuale riparazione dei danni prodotti da atti di assimilazione for-zata o di distruzione della cultura indigena (art. 7, par. 2); l’obbligo digarantire l’accesso o la restituzione degli oggetti cerimoniali e dei restiumani che rivestono particolare significato per i popoli indigeni (art.13, par. 2); l’obbligo di adottare misure effettive per garantire il diritto“to revitalize, use, develop and transmit to future generations” le tradi-zioni, usi e costumi propri dei popoli indigeni (art. 14, par. 2); l’obbli-go di adottare misure effettive per assicurare che ai membri dellecomunità indigene sia impartita nella loro lingua tradizionale un’edu-cazione riguardante la propria cultura indigena (art. 15, par. 3); l’obbli-go di predisporre strumenti adeguati perché si tenga conto della diver-sità culturale indigena nell’ambito dei mezzi statali di comunicazione(art. 17, par. 2); l’obbligo di proteggere con misure concrete soprattut-to i giovani che fanno parte delle comunità indigene ed evitare che essi

18

––––––––––––––––––––––––4 Cfr. infra, par. 6.

siano sottoposti ad uno sfruttamento economico, lavorativo o a qual-siasi altra pratica che comprometta la loro educazione, o comporti unpregiudizio alla loro salute fisica e mentale (art. 18, par. 2); l’obbligodi migliorare le condizioni economiche e sociali dei popoli indigeni,con particolare riferimento alle categorie di soggetti particolarmentedeboli (art. 22, par. 2); gli obblighi previsti rispettivamente a tutela deidiritti di proprietà da riconoscere ai popoli indigeni (art. 26 ss.) e a pro-tezione del diritto di mantenere e sviluppare sia il proprio sistema nor-mativo, economico e sociale (art. 21, par. 1; art. 26 bis; art. 33), sia ilproprio patrimonio culturale e le loro conoscenze tradizionali nelcampo delle scienze, della tecnologia, della medicina, dell’arte e di altrisettori, ivi compreso il riconoscimento dei diritti di proprietà intellet-tuale su tali espressioni culturali (art. 29)5.

È inoltre da notare che, sempre in senso conforme rispetto allaprassi internazionale preesistente6, ai numerosi obblighi negativi epositivi a carico dello Stato corrispondono a favore dei popoli indigenisia diritti di natura individuale, che possono quindi essere esercitati dalsingolo membro appartenente alla comunità indigena, sia diritti dicarattere collettivo, che vengono esercitati da determinati soggetti inrappresentanza dell’intera collettività indigena ed i cui effetti vantag-giosi si ripercuotono su tutti i membri del gruppo.

Questa duplice natura delle situazioni giuridiche soggettive attri-buite ai popoli indigeni è solennemente affermata in termini moltoampi, quindi non circoscritta ai diritti contemplati nella risoluzione inquestione, nel preambolo e poi specificata nell’art. 1 dellaDichiarazione del 2006, secondo cui “Indigenous peoples have the

19

––––––––––––––––––––––––5 Per un approfondimento di queste problematiche si veda M. FRABONI, F. LENZERINI,Indigenous Peoples’ Rights, Biogenetic Resources and Traditional Knowledge: The Case of theSateré-Mawé People, in F. Francioni, T. Scovazzi (a cura di), Biotechnology and InternationalLaw, Oxford-Portland, 2006, p. 341 ss. ; S. VEZZANI, Tutela della proprietà intellettuale dipopoli indigeni e comunità locali e Protocollo I alla Convenzione europea dei diritti umani, inDiritti umani e diritto internazionale, 2007, n. 2, in corso di stampa.6 Si fa qui riferimento alla prassi riguardante specificamente le popolazioni indigene, in quan-to è noto che la titolarità di diritti collettivi da parte di altri gruppi di individui (ad esempio leminoranze) è tuttora un problema controverso in dottrina e nella prassi rilevante in materia: suitermini della questione si veda P. PUSTORINO, Questioni in materia di tutela delle minoranze neldiritto internazionale ed europeo, in Studi sull’integrazione europea, 2006, p. 263 ss.

right to the full enjoyment, as collective or as individuals, of all humanrights and fundamental freedoms as recognized in the Charter of theUnited Nations, the Universal Declarations of Human Rights and inter-national human rights law”.

3. Carattere fondamentale, nel quadro della Dichiarazione, deldiritto all’identità culturale e del principio di autodetermina-zione dei popoli indigeni.Fra le principali garanzie che vengono espressamente riconosciu-

te nella Dichiarazione del 2006 particolare importanza assume il dirit-to al mantenimento e allo sviluppo dell’identità culturale indigena e ilprincipio di autodeterminazione dei popoli indigeni. Si può ritenereinfatti che tali garanzie costituiscano il fondamento di una serie di altridiritti e garanzie previsti nella Dichiarazione e più in generale rappre-sentino una prova dello sviluppo della disciplina internazionalistica atutela dei popoli indigeni.

Il diritto all’identità culturale, il cui contenuto e ambito di appli-cazione appare in costante evoluzione nella prassi internazionale7,viene contemplato nel preambolo8 e regolato con una formulazioneparticolarmente estensiva nell’art. 16 della Dichiarazione, in base alquale i popoli indigeni hanno il diritto “to the dignity and diversity oftheir cultures, traditions, histories and aspirations” 9.

20

–––––––––––––––––––––––– 7 Il diritto all’identità culturale, inizialmente riconosciuto ai popoli indigeni ed alle minoranze,è stato accolto anche nel quadro della regolamentazione sulla tutela dei diritti umani in gene-re: cfr. di recente la Convenzione UNESCO di Parigi del 20 0ttobre 2005 sulla protezione epromozione della diversità delle espressioni culturali, secondo cui il diritto alla diversità cul-turale implica “the recognition of equal dignity of and respect for all cultures, including the cul-tures of persons belonging to minorities and indigenous peoples” (art. 2, par. 3). Per un sinte-tico commento alla Convenzione si veda M. CORNU, La Convention pour la protection et lapromotion de la diversité des expressions culturelles, in Journal du droit international, 2006,p. 929 ss.8 Nella felice espressione dei primi consideranda del preambolo si rileva da un lato che gli“indigenous peoples are equal to all other peoples, while recognizing the right of all people tobe different, to consider themselves different, and to be respected as such”, dall’altro che “allpeoples contribute to the diversity and richness of civilizations and cultures, which constitutethe common heritage of humankind”.9 Una conseguenza naturale e necessaria della salvaguardia dell’identità culturale è data dalriconoscimento del diritto ad appartenere ad una specifica comunità indigena “in accordancewith the traditions and customs of the community” (art. 9).

Il principio di autodeterminazione dei popoli, che va inteso esclusi-vamente nella sua configurazione “interna” (senza quindi attribuire aipopoli indigeni il diritto di secessione dallo Stato nel cui territorio risie-dono)10, viene a sua volta consacrato nell’art. 3 e implica che i popoliindigeni possano “freely determine their political status and freely pursuetheir economic, social and cultural development”11. Pur essendo desumi-bile implicitamente da alcuni strumenti regionali di protezione dei popo-li indigeni12 e specificamente inserito nel quadro delle Nazioni unite nelgià citato Draft del 1994 (art. 3)13, il riconoscimento di tale principiosembra costituire un notevole “salto di qualità” nella protezione deipopoli indigeni, soprattutto nel senso della necessità di prevedere per taligruppi di individui regole particolari e più avanzate rispetto a quelle esi-stenti nel quadro dei diritti umani e della tutela delle minoranze.

Come già rilevato, dai principi fondamentali concernenti l’identi-tà culturale e l’autodeterminazione conseguono, quali applicazioni spe-cifiche, ulteriori diritti e garanzie a favore dei popoli indigeni.

Particolare rilevanza riveste ad esempio il diritto all’autonomia eall’autogoverno per le questioni interne e locali (art. 3 bis); il diritto amantenere e rafforzare le proprie istituzioni politiche, giuridiche, eco-nomiche e sociali (articoli 4, 21, 33, 3414); il diritto a praticare, mani-

21

––––––––––––––––––––––––10 La dimensione esclusivamente interna dell’autodeterminazione dei popoli indigeni sembraricavarsi dallo stesso preambolo della Dichiarazione, secondo cui il diritto all’autodetermina-zione va esercitato “in conformity with international law”, e soprattutto dall’art. 45, in base alquale è espressamente esclusa un’interpretazione della Dichiarazione che implichi “for anyState, people, group or person any right to engage in any activity or to perform any act con-trary to the Charter of the United Nations”. Al riguardo, è noto che fra i principi fondamentalidell’ONU vi è quello della stabilità e integrità territoriali degli Stati membri dell’organizza-zione.11 Sull’applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli ai popoli indigeni si vedaS. J. ANAYA, Indigenous Peoples in International Law, Oxford, 2004, p. 110 ss.12 In questo senso l’art. XV (Right to Self-Government) del progetto di dichiarazione sui dirit-ti dei popoli indigeni predisposto nell’ambito dell’Organizzazione degli Stati americani eapprovato il 26 febbraio 1997 dalla Commissione interamericana dei diritti umani. 13 Per un’ampia analisi del testo e dei lavori preparatori del Draft, con particolare riguardo alriconoscimento a favore dei popoli indigeni del principio di autodeterminazione ex art. 3, siveda A. TANCREDI, La secessione nel diritto internazionale, Padova, 2001, p. 290 ss.14 Sotto il profilo dell’autonomia normativa, un’importanza speciale va attribuita al contenutodell’art. 34 (“Indigenous peoples have the right to determine the responsibilities of individuals

festare, sviluppare e trasmettere alle generazioni future le proprie usan-ze e tradizioni culturali e religiose (articoli 12 ss., 24), provvedendo atale scopo alla gestione diretta e autonoma dei sistemi educativi neiquali garantire l’uso della propria lingua (art. 15).

Con riguardo all’effettivo godimento dei diritti sopra indicati daparte dei popoli indigeni appare legittimo ritenere che la Dichiarazionesia in particolare ispirata da due esigenze. In primo luogo, la necessitàdi attribuire forme assai estese di autonomia ai popoli indigeni per lequestioni che non incidono, se non in misura ridotta, su problemiriguardanti l’intera collettività statale. In proposito, si può dire che l’ef-fetto della concessione di queste forme particolarmente intense di auto-governo, già largamente riscontrabili in alcuni ordinamenti statali15,consiste nell’attribuzione ai popoli indigeni di poteri quasi sovrani dinatura legislativa, esecutiva e giudiziaria.

In secondo luogo, quando si tratta di questioni di interesse nazio-nale, la Dichiarazione accoglie il principio della cooperazione fra Statoterritoriale e comunità indigene, obbligando gli Stati nei quali risiedo-no comunità indigene ad acquisirne il consenso “free, prior and infor-med” nel caso di decisioni di natura legislativa o amministrativa chepossano pregiudicare i loro diritti (art. 20)16.

4. Rilevanza particolare per i popoli indigeni del riconoscimentodei diritti di proprietà.Dalla titolarità da parte dei popoli indigeni del diritto all’identità

culturale e del diritto all’autodeterminazione interna sembra inoltrediscendere la necessità del riconoscimento di diritti di proprietà sui ter-ritori da essi tradizionalmente occupati.

22

––––––––––––––––––––––––

to their communities”), che sembra costituire il fondamento per la predisposizione di regolespeciali in materia penale applicabili ai membri delle comunità indigene.15 Sulle esperienze normative dei Paesi di common law si veda M. MAZZA, La protezione deipopoli indigeni nei Paesi di common law, Padova, 2004, 63 ss. Con specifico riferimento all’e-sperienza canadese si veda l’ampia analisi condotta da E. CECCHERINI, Un antico dilemma:integrazione o riconoscimento della differenza? La costituzionalizzazione di diritti delle popo-lazioni aborigene, in G. Rolla (a cura di), Eguali, ma diversi. Identità ed autonomia secondola giurisprudenza della Corte Suprema del Canada, Milano, 2006, p. 58 ss.16 L’esigenza della cooperazione fra Stato e popoli indigeni è confermata in tema di sfrutta-mento delle risorse naturali esistenti sui territori appartenenti ai popoli indigeni (art. 30 par. 2)

Il carattere strettamente funzionale esistente fra l’attribuzione didiritti di proprietà territoriale alle popolazioni indigene e la tutela dellaloro identità culturale è stato adeguatamente rilevato nella giurispru-denza dalla Corte interamericana dei diritti dell’uomo17. Ad esempio,nel caso Comunidad Mayagna (Sumo) Awas Tingni v. Nicaragua, laCorte ha messo in luce come “la estrecha relación que los indígenasmantienen con la tierra debe de ser reconocida y comprendida como labase fundamental de sus culturas, su vida espiritual, su integridad y susupervivencia económica. Para las comunidades indígenas la relacióncon la tierra no es meramente una cuestión de posesión y producciónsino un elemento material y espiritual del que deben gozar pienamen-te, inclusive para preservar su legado cultural y transmitirlo a las gene-raciones futuras”18.

Pertanto, nel quadro della Dichiarazione ONU del 2006 e in con-formità ai criteri indicati dalla Convenzione OIL del 27 giugno 1989sui popoli indigeni e tribali (art. 13 ss.), si prevede da un lato che ipopoli indigeni hanno il diritto “to the lands, territories and resourceswhich they have traditionally owned, occupied or otherwise used oracquired” (art. 26, par. 1), con la conseguenza che gli Stati hanno l’ob-bligo positivo di riconoscere e proteggere tali diritti di proprietà “withdue respect to the customs, traditions and land tenure systems of theindigenous peoples concerned” (art. 26, par. 3). D’altro lato, tuttavia, silimita fortemente il godimento effettivo di tale diritto di proprietà, sta-

23

––––––––––––––––––––––––17 Per un esame di tale giurisprudenza, si veda P. PUSTORINO, Questioni in materia di tuteladelle minoranze, cit., p. 274 ss.18 Si veda la sentenza del 31 agosto 2001, par. 149, reperibile on line sul sitowww.corteidh.or.cr, concernente il ricorso presentato da una comunità indigena, insediatasi inprossimità della costa atlantica del Nicaragua, e relativo alla violazione da parte dello Statoconvenuto di diverse norme della Convenzione americana sui diritti dell’uomo del 1969, inparticolare per non avere provveduto a delimitare le terre appartenenti alla comunità e per nonaver rispettato alcuni obblighi positivi di tutela dei diritti di proprietà, nonché per avere auto-rizzato una concessione per lo sfruttamento delle risorse esistenti in tali territori senza il con-senso del popolo indigeno. In senso conforme alle conclusioni cui è pervenuta la Corte intera-mericana nel caso in questione si veda la sentenza del 15 giugno 2005 nel caso dellaComunidad Moiwana v. Suriname, par. 131. Su quest’ultima decisione della Corte si veda L.HENNEBEL, La protection de l’«integrité spirituelle» des indigènes. Réflexions sur l’arrêt de laCour interaméricaine des droits de l’homme dans l’affaire Comunidad Moiwana c. Suriname,in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 2006, p. 253 ss.

bilendo che i popoli indigeni, nell’ipotesi che non siano più proprieta-ri dei territori tradizionalmente occupati, hanno soltanto il diritto allariparazione “by means that can include restitution or, when this is notpossibile, of a just, fair and equitable compensation, for the lands, ter-ritoires and resources which they have traditionally owned or otherwi-se occupied or used, and which have been confiscated, taken, occupied,used or damaged without their free, prior and informed consent” (art.27, par. 1). Più specificamente e salvo che non sia accettata un’altraforma di riparazione19, il risarcimento a favore dei popoli indigeni“shall take the form of lands, territories and resources equal in quality,size and legal status or of monetary compensation or other appropriateredress” (art. 27, par. 2).

Va ritenuto che il contenuto delle suddette regole contenute nellaDichiarazione del 2006 in materia di riconoscimento di diritti di pro-prietà ai popoli indigeni non corrisponda integralmente agli sviluppirecenti della prassi internazionale, con particolare riguardo agli ele-menti desumibili dalla giurisprudenza della Corte interamericana. LaCorte infatti sembrerebbe interpretare in modo assai restrittivo le ecce-zioni all’attribuzione dei diritti di proprietà delle comunità indigene suiterritori tradizionalmente occupati, rilevando che soltanto la sussisten-za di “motivos objetivos y fundamentados” legittima lo Stato a nonprovvedere, in tempi peraltro assai ristretti20, alla restitutio in integrumdei territori in questione, assegnando in queste ipotesi del tutto ecce-zionali “tierras alternativas de igual extensión y calidad, que seránescogidas de manera consensuada con los miembros de los pueblosindígenas, conforme a sua propias formas de consulta y decisión”21. È

24

––––––––––––––––––––––––19 È da evidenziare che la stessa possibilità in astratto di concordare una forma minore di ripa-razione costituisce per molte comunità indigene il presupposto per accettare in concreto ripa-razioni del tutto inadeguate, ciò in quanto la “forza contrattuale” dello Stato territoriale è digran lunga superiore a quella di diverse comunità indigene e il livello di conoscenza e consa-pevolezza dei propri diritti da parte dei popoli indigeni è generalmente piuttosto modesto.20 Nella ormai consolidata giurisprudenza della Corte interamericana si stabilisce infatti unpreciso termine finale entro il quale provvedere alla restitutio in integrum dei territori illegitti-mamente acquisiti dallo Stato a danno dei popoli indigeni.21 Si veda la recente sentenza della Corte interamericana del 29 marzo 2006 nel casoComunidad Indígena Sawhoyamaxa v. Paraguay, par. 135, consultabile on line sul sitowww.corteidh.or.cr.

assai rilevante notare come, nel caso di specie, la Corte abbia rigettatoespressamente l’obiezione avanzata dallo Stato convenuto secondo cuila restituzione delle terre ai popoli indigeni non sarebbe stata pratica-bile in quanto esse erano ormai state trasferite a soggetti privati. In talespecifica circostanza, infatti, la Corte obbliga comunque lo Stato a ope-rare un delicato bilanciamento degli interessi contrapposti, verificandoin particolare “la legalidad, necesidad, proporcionalidad y el logro deun objetivo legítimo en una sociedad democrática (utilidad pública einterés social), para restringir el derecho de propiedad privada, por unlado, o el derecho a las tierras tradicionales, por el otro”22.

È infine da mettere in evidenza che l’indirizzo giurisprudenzialeseguito dalla Corte interamericana sembra essere confermato in alcunedecisioni di corti interne. Fra le più interessanti vi è senza dubbio unasentenza recentissima della Corte suprema del Botswana, che, conriguardo ad un ricorso presentato dalla popolazione indigena dei bosci-mani, ha stabilito la restituzione integrale di alcuni territori da tempoimmemorabile occupati da queste popolazioni, considerando illegitti-me le misure di espropriazione decise dalle autorità statali ai fini dellosfruttamento delle risorse minerarie esistenti in questi territori23.

5. Strumenti di attuazione e tutela dei diritti dei popoli indigeninella Dichiarazione ONU del 2006.Nella recente Dichiarazione ONU si affronta inoltre il delicato

problema degli strumenti di attuazione e garanzia dei diritti dei popoliindigeni. La scelta di tali strumenti rileva non soltanto per la loro par-ticolare efficacia, ma anche per le implicazioni collegate all’attuazionedi alcune delle misure previste che sono generalmente riservate a enti-tà statali o comunque dotate di soggettività internazionale.

La regola più interessante in materia è costituita dall’art. 36, per ilquale i popoli indigeni hanno il diritto “to the recognition, observance and

25

––––––––––––––––––––––––22 Ivi, par. 138.23 La decisione, adottata il 13 dicembre 2006, concerne in particolare la restituzione delle terredesertiche contenute nella riserva del Kalahari centrale, in Botswana: per il testo della decisio-ne si veda il sito http://survival-international.org/files/related_material/11_532_995_Bushmen%20Ruling.doc.

enforcement of Treaties, Agreements and Other ConstructiveArrangements concluded with States or their successors, and to haveStates honour and respect such Treaties, Agreements and otherConstructive Arrangements”. Secondo un’interpretazione che appare fon-data non soltanto sul contenuto della regola, ma anche sui diversi elementidella prassi in materia di conclusione di accordi fra comunità indigene eStato territoriale24, si tratta di una formula consolidata25 che riconosce ilpotere dei popoli indigeni di concludere accordi con gli Stati, quale formapiù efficace di protezione dei diritti delle comunità indigene.

E’ inoltre da segnalare, in materia di determinazione degli stru-menti di garanzia a tutela dei popoli indigeni, l’art. 39 dellaDichiarazione del 2006, secondo cui le comunità indigene hanno ildiritto “to have access to and prompt decision through just and fair pro-cedures for the resolution of conflicts and disputes with States or otherparties, as well as to effective remedies for all infringements of theirindividual and collective rights. Such a decision shall give due consi-deration to the customs, traditions, rules and legal systems of the indi-genous peoples concerned and international human rights”. La regolain esame sembra implicare la necessità per gli Stati di predisporre stru-menti specifici di soluzione delle controversie con i popoli indigeni.

Se si analizzano le regole sopra indicate insieme a quelle in prece-denza esaminate e riguardanti la concessione di poteri quasi sovrani afavore dei popoli indigeni, sembrerebbe potersi dedurre la progressivarilevanza nell’ordinamento internazionale delle comunità indigene,sino al punto che non appare azzardato ritenere, in linea del resto conquanto ricavabile da alcuni elementi della prassi internazionale26, che

26

––––––––––––––––––––––––24 In materia si veda S. J. ANAYA, Indigenous Peoples, cit., p. 188 ss.25 La medesima formula è ripresa nell’art. XXII del già richiamato progetto di dichiarazionesui diritti dei popoli indigeni predisposto dall’OSA nel 1997. Sulla natura e l’efficacia di taliaccordi si veda il rapporto finale del relatore speciale Martínez, adottato il 22 giugno 1999(Doc. E/CN.4/Sub.2/1999/20) e relativo allo Study on Treaties, Agreements and OtherConstructive Arrangements Between States and Indigenous Populations predisposto nel qua-dro dell’ONU dalla Sotto-Commissione sulla prevenzione della discriminazione e protezionedelle minoranze.26 In questo senso il preambolo (par. 7) del Draft OSA, per il quale “indigenous peoples are asubject of international law”.

ad esse vada attribuita una pur limitata soggettività internazionale, chesi esplica da un lato nell’esercizio di alcune funzioni caratteristiche diuno Stato (funzione legislativa, esecutiva, giudiziaria), dall’altro nelpotere di concludere accordi con Stati o con altri soggetti internaziona-li e risolvere le eventuali controversie con gli Stati territoriali sulla basedi un rapporto di sostanziale parità.

6. Valore giuridico della Dichiarazione e importanza, ai fini dellasua corretta applicazione, degli altri strumenti giuridici esi-stenti in tema di tutela dei popoli indigeni.Occorre adesso soffermarsi sul valore giuridico da attribuire alla

Dichiarazione ONU sui popoli indigeni del 2006. Al riguardo, va pre-liminarmente osservato che, di per sé, la risoluzione in questione nonha carattere vincolante, in quanto il Consiglio sui diritti umani non èdotato di poteri vincolanti e analoga considerazione andrebbe fatta nel-l’ipotesi che la Dichiarazione venisse in futuro approvatadall’Assemblea generale dell’ONU. In questo caso, si potrebbe unica-mente tenere conto della maggiore autorevolezza dell’Assemblearispetto al Consiglio e soprattutto del voto favorevole di un numeroassai più ampio di Stati27.

Ciò premesso, va precisato che, come è noto, le risoluzioni diorgani appartenenti ad organizzazioni internazionali sono provviste dideterminati giuridici28. In primo luogo, la risoluzione produce un effet-to di liceità limitatamente ai Paesi che hanno espresso un voto favore-vole all’approvazione della risoluzione. Di conseguenza, nel caso dellaDichiarazione del 2006 l’effetto di liceità opera soltanto, su base reci-proca, fra i trenta Stati che hanno votato a favore e non potrebbe esse-re invocato nei confronti degli altri 17 Paesi membri del Consiglio, chesi sono astenuti o hanno espresso un voto contrario, salvo ovviamenteche questi Stati, come tutti gli altri Stati appartenenti all’ONU, nondecidano di applicare spontaneamente la risoluzione.

27

––––––––––––––––––––––––27 La risoluzione dell’Assemblea dovrebbe infatti essere approvata a maggioranza semplice dei192 Stati membri dell’ONU.28 In materia, si veda per tutti CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2006, p. 37 e p. 161ss.

In secondo luogo, le risoluzioni in questione contribuiscono allosviluppo del diritto internazionale generale, costituendo espressione siadella prassi dell’organizzazione di riferimento (l’ONU nel caso dellaDichiarazione adottata dal Consiglio sui diritti umani), sia della prassie dell’opinio juris29 degli Stati che fanno parte dello specifico organoche ha adottato l’atto. A questo proposito, occorre rilevare che diverseparti della Dichiarazione sono ampiamente riproduttive di diritti egaranzie già riconosciuti ai popoli indigeni in base ad altri strumentigiuridici vincolanti (in particolare la già richiamata Convenzione OILdel 1989) o non vincolanti (ad esempio i già citati Draft Declarationdell’ONU del 1994 e il progetto di dichiarazione dell’OSA del 1997; larisoluzione del Comitato sull’eliminazione della discriminazione raz-ziale approvata il 18 agosto 199730), che risultano operanti sul pianouniversale o regionale.

Sembra pertanto ammissibile ritenere che alcuni specifici dirittiattribuiti ai popoli indigeni (ad esempio il diritto fondamentale all’i-dentità culturale e forse lo stesso diritto di autodeterminazione interna)siano ormai protetti a livello di diritto internazionale generale.

L’analisi degli altri atti rilevanti in materia di tutela dei popoliindigeni appare inoltre necessaria sotto un profilo diverso, relativo alladeterminazione della regola giuridica specificamente applicabile nelcaso concreto. Infatti, secondo la Dichiarazione del 2006 (art. 42) idiritti in essa previsti costituiscono soltanto il minimum standard a pro-tezione dei popoli indigeni. L’art. 44 aggiunge che “Nothing in thisDeclaration may be construed as diminishing or extinguishing therights indigenous peoples have now or may acquire in the future”31.

28

––––––––––––––––––––––––29 Sulla possibilità di desumere, pur con una certa cautela, l’opinio juris degli Stati dal con-senso da essi manifestato sul testo delle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU, conparticolare riferimento alla risoluzione n. 2625 del 24 ottobre 1970 sulle relazioni amichevolie la cooperazione fra gli Stati, si veda la nota sentenza della Corte internazionale di giustiziadel 27 giugno 1986 nel caso delle Attività militari e paramilitari degli Stati Uniti in Nicaraguae contro il Nicaragua, Niaragua c. Stati Uniti, par. 188 ss.30 Cfr. UN. Doc. CERD/C51/misc. 13/Rev. 4 (1997).31 Una previsione del tutto simile all’art. 44 è inserita nell’art. 36, par. 2, con specifico riguar-do ai diritti ulteriori che possono essere contemplati nei trattati conclusi dai popoli indigeni congli Stati territoriali.

Secondo un’interpretazione che sembra in linea con l’oggetto e loscopo degli strumenti giuridici a tutela dei popoli indigeni e con unachiara linea di tendenza ricavabile in tema di tutela dei diritti umani, leregole in questione implicano la necessità per l’operatore giuridico diapplicare al caso concreto le disposizioni più favorevoli per i popoliindigeni.

Ne consegue, in conclusione, che la Dichiarazione del 2006 deveessere letta e interpretata nel quadro assai più ampio della prassi com-plessiva in tema di protezione dei popoli indigeni, rappresentando perun verso una conferma e in certi casi un’evoluzione significativa dellaprassi esistente in materia; d’altro lato, soprattutto nei casi di “regres-sione” rispetto ad altre tendenze più favorevoli della prassi interna ointernazionale (ad esempio con riferimento alla tutela maggiore offertadal sistema interamericano in tema di diritto di proprietà dei popoli indi-geni di cui si è detto in precedenza), la Dichiarazione non pregiudicaaffatto il ricorso a regole giuridiche più avanzate, applicabili al casoconcreto, che garantiscano una tutela maggiore dei popoli indigeni.

29

30

Cultura, identidad y ecología humana

RAMIRO DOMíNgUEz (Comisión Nacional de Bilingüismo)

En América Latina, la cultura y por ende, la identidad de los pue-blos indígenas fue una proyección de una ideología etnocéntrica delimperio conquistador. Nos vimos y vimos a los demás a partir de unaconciencia alienada. Hasta se dudó al comienzo si las gentes de estasnaciones originarias pudieran tener alma, o eran meramente bestias conapariencia semihumana.

En Paraguay – o el Paraguay colonial que era definitivamentemucho más vasto que el territorio actual, -las cosas no pasaron de igualmodo, por circunstancias históricas que relegaron a la Provincia a unestado de postración y marasmo, en que muy pronto los criollos y“mancebos de la tierra” hubieron de quedarse con la lengua y culturade su madre india.

Así el guaraní, lengua predominante del Paraguay oriental, pasó aser la lengua franca y casi la única en los siglos de la Colonia, y el con-quistador hidalgo hubo de contentarse a cambio de metales nobles quetrataban de alcanzar por el “Río de la Plata” al Alto Perú, - en expre-sión muy plástica de Branislava Susnik – “con el maizal neolítico”. Detal modo, los conquistadores que venían de la cultura del hierro y elarcabuz y la pólvora, hubieron de asimilar la tecnología de nuestrosrecolectores incipientes, apenas salidos del ciclo del pre-cerámico y delperíodo de la cestería.

El primer impacto de la economía de mercado lo sufrieron los abo-rígenes, sometidos al régimen de la encomienda. En su avidez de hacerfortuna, los encomenderos echaron mano al único recurso codiciado enAmérica austral, y era nuevamente la yerbamate, un producto benefi-ciado ancestralmente por los sívides guaraní. Al enviarlos por meses aexplotar y acarrear el producto a centenares de leguas de Asunción, seprodujo la disolución de la familia indígena, por terminar las esposascomo barraganas del patrón español.

Otro elemento depredador, el ganado vacuno introducido a poco

31

de establecerse la provincia, obligó a los indios a abandonar sus tierrasde cultivo y refugiarse en la selva, por ceder las Leyes de India los cam-pos de pastoreo al conquistador como nueva fuente de riqueza.

El ciclo de depredación y expulsión de los indios de sus tierras, secierra con la construcción de las hidroeléctricas de Itaipú y Yacyretá, yel sobrecosto consiguiente de las tierras, lo que genera la instalación dela gran empresa agraria, con los cultivos de soja y las modernas gana-derías. Con los pocos remanentes de las etnias indígenas – aproxima-damente hoy día menos de cien mil -, también son expulsados lospoblados campesinos de agricultores minifundiarios, y descendientesde los antiguos “pueblos de indios”, asimilados a la ciudadanía de para-guayos por los decretos jubilares de Carlos Antonio López, mediado els. XIX.

El migrante rural, y los actuales indígenas sin tierra que merodeanla ciudad, son los exponentes de lo que alguna vez se ha dado en lla-mar la “deforestación humana” que sufre el Paraguay rural. Los guara-níes sílvides, que habían concebido sus mitos y su cosmogonía a partirde su habitat en la selva; en donde, en lenguaje de L. Cadogan, los gua-raní escuchaban la voz de su Padre Ñamandú que bajaba de los árboles–Ywyra-Ñe´ëry – fluye del árbol la palabra – han perdido el rastro desu identidad, aunque por su ethos verbo-dinámico – nuevamente enpalabras de Susnik -, arrastran su cosmovisión originaria en la lengua,hoy segunda lengua oficial del Paraguay; o, para decirlo mejor, arras-trando en su lengua la memoria de la patria de sus ancestros.

32

Culturas y minorías étnicas en Paraguay

JOSé zANARDINI (Universidad Católica, Paraguay)

Para abordar la problemática de las minorías étnicas me parececonveniente hacer referencia al Estado, concretamente al Estadomoderno; en realidad es difícil conceptualizar una minoría étnica sinhacer referencia a algo diferente, a algo o alguien que la define comominoría, o sea a un Estado abarcante. El modelo de Estado modernoeuropeo, surgido de la revolución francesa y basado sobre los princi-pios de la liberté, égalité y fraternité ha inspirado y orientado ademásque a los Estados europeos, también a los nuevos Estados americanosque se iban formando en el siglo XIX.

La pretension de la égalité, exasperada, acentuada y separada de lacultura, ha dado origen especialmente en América, pero no sólo enAmérica a un Estado, o sea a estructuras políticas donde en nombre dela légalité se apuntaba a nivelar e igualar a todos los ciudadanos. Es elcomienzo de un proceso de homogeneización donde el Estado imponela unidad y la igualdad a los ciudadanos, anulando las diferencias lin-güísticas, históricas, sociales y religiosas. Es el comienzo de lo que lla-mamos Estado-nación, de un estado que apunta y aspira a una únicacultura, la cultura nacional como base para la nueva y común identidaden que todos los ciudadanos deberían sentirse orgullosos de pertenecer.

El proyecto de Estado-nación con respecto a las minorías indíge-nas del Paraguay ha conocido varias etapas, de las cuales las de mayorrelevancia son:- 1825: el Presidente de la República ordena a todos los ciudadanos

de presentar títulos de propiedad para actualizar el Registro de losbienes; siendo que los pueblos indígenas eran ágrafos y ni siquierase enteraron del Decreto, la casi totalidad de ellos perdió la titulari-dad de sus tierras sin siquiera enterarse;

- 1848: un decreto del Presidente Carlos Antonio López confisca lastierras y los bienes de los últimos 21 pueblos indígenas que aúnquedaban organizados como pueblos; entre ellos están los pueblos

33

de Ypane, Guarambare, Ita, Yaguaron, Atyra, Altos, Tobati, Belén,San Estanislao, Caazapa, San Ignación, Santiago, San Cosme,Trinidad etc;

- en la segunda mitad del siglo XX aparece un Estatuto Agrario queen cierta medida se aplicó también a los indígenas;

- 1981: se promulga la Ley 904/81 Estatuto de las ComunidadesIndígenas, donde se empieza a reconocer los derechos ancestralesde los pueblos indígenas sobre sus tierras y el derecho a usar sus len-guas, tradiciones, rituales, creencias, sistemas educativos, judiciales,etc.

- 1992: en la nueva Constitución nacional, se dedican algunos artí-culos a los pueblos indígenas, por primera vez en la historia del país:se trata del cap. V, art. 62 al 67; y es sumamente respetuosa de lasculturas y asegura el apoyo legal para recuperar parte de sus terri-torios tradicionales, en concepto de derecho consuetudinario;

- 1993: el Parlamento ratifica el Convenio 169 de la OIT sobre pue-blos Indígenas;

- 2005: se ha presentado un proyecto de ley de modificación de la Ley904/81; fue aprobado por el Parlamento como Ley 2822/05 pero fuevetado por el Poder Ejecutivo y está en estudio para una modifica-ción.

Actualmente los indígenas del Paraguay constituyen el 1,7% de lapoblación total; una verdadera minoría numérica pero con un granvalor histórico-cultural. Se distinguen 5 familias lingüísticas con 20diferentes etnias, lenguas y culturas que mencionamos a continuación:

AcheAva-GuaraníPai TavyteraMbyaMakaNivacleManjui (Lumnanas)Toba qomGuaraní nandevaGuaraní occidentales

34

AyoreoYbytosoTomarahoAngaiteGuanaSanapanaEnlhetEnxetEnenlhetToba maskoy.La política de los Estados-naciones ha sido bastante similar en

todos los países del Mercosur y vecinos: Brasil, Uruguay, Argentina,Chile, Bolivia con características que paso a enumerar:- se ha estigmatizado a los pueblos diferentes;- se ha querido imponer una lengua europea;- se han desconocido los sistemas educativos tradicionales;- se ha tildado de brujería al chamanismo;- se ha construido “la vergüenza” de ser diferente;- se ha destruido el sistema organizativo y las autoridades internas tra-

dicionales, aplicando el principio de la “autoridad con poder”, enlugar de la “autoridad sin poder”, típica de los Pueblos Indígenas;

- se ha quitado el poder a la asamblea (el célebre aty guasu de losGuaraní) para poder así manipular a los jefes y líderes;

- se ha alterado sustantivamente el sistema judicial tradicional.Entre los años que van desde el Primer Documento de Barbados

(comienzo de los ‘70) y la conmemoración de 1992 (QuintoCentenario del “descubrimiento-encubrimiento” de América), los pue-blos indígenas profundizan el concepto de identidad étnica y lo con-vierten en “etnicidad”, o sea pasan de la resistencia pasiva al movi-miento étnico-político, sacudiéndose el incómodo y nunca aceptadoropaje socio-cultural impuesto por el Estado-nación. Es el comienzo deuna insurgencia étnica que gana cada vez más adeptos en los Estados,llegando así a reconocer y a formular el concepto de múltiples nacio-nes dentro de un Estado, o sea de un Estado multinacional.

Las minorías étnicas han perdido la vergüenza de ser indígenas,

35

han logrado hacerse conocer y re-conocer como pueblos preexistentesa la formación de los Estados-naciones. Tenemos como ejemplo elcaso de la Constitución Nacional del Paraguay, cuyo art. 62 dice: elEstado reconoce la existencia de los pueblos indígenas como pueblosanteriores a la formación del mismo Estado paraguayo, que ocurrió en1811.

Concordamos con el antropólogo Miguel Alberto Bartolomé en suanálisis sobre la construcción de la identidad étnica: es un proceso dia-léctico realizado entre “nosotros” y los “otros”; esto genera represen-taciones colectivas que se estructuran ideológicamente construyendola identidad étnica. La identidad étnica es una construcción realizadapor los grupos humanos, (especialmente los minoritarios) para expre-sar y afirmar su alteridad frente a los otros. Aplicando esto a los movi-mientos etno-políticos, resulta que éstos son el campo de acción y losinstrumentos privilegiados para las identidades en acción; o sea la iden-tidad se convierte en “etnicidad”, en fuerza política, en deseo y con-quista de poder.

Ahora bien, uno de los casos actuales en que la etnicidad halogrado insurgencia visible, es sin dudad el caso de Bolivia. El movi-miento étnico ha construido una etnicidad sólida, capaz de usar críticay dialécticamente instrumentos socio-políticos ajenos a las culturas tra-dicionales, con el fin de afirmar y defender la construcción y recons-trucción de la propia identidad cultural. Pero nos surgen muchas pre-guntas: ¿Cómo compaginan y armonizan los nuevos dirigentes bolivia-nos, la identidad étnica con la etnicidad, y las nuevas estructuras esta-tales, ajenas a la historia de esos pueblos, con sus sistemas sociopolíti-cos tradicionales?

¿Cómo se re-elaboran y transforman las culturas indígenas y cómose reconstruye la nueva identidad después de haber llegado a la cumbremás alta del poder político del Estado?

¿Intentarán imponer nuevamente un Estado-nación? ¿Un Estado-nación donde una nación dominante excluye a otras naciones y a otrospueblos no-indígenas que sin embargo son ya componentes del Estado?Son todas preguntas pertinentes que requieren un atento análisis antro-pológico.

36

Siendo el tema propuesto “Culturas y Minorías étnicas”, despuésde haber discutido los conceptos de minoría y de etnia, nos falta ahoradecir qué entendemos por “cultura”, sin llegar sin embargo al extremode Lewis Carroll que escribió lo siguiente: “ Cuando uso una palabra,esa palabra significa lo que yo decido que signifique”.

Pero, en definitiva los conceptos, y también el de cultura, son ins-trumentales, en el sentido que nos permiten dar significado preciso a loque nombramos, aunque no sea ésa la única significación.

No es aquí el momento para hacer una discusión analítica de lacultura; más bien nos interesa qué significa la cultura ad intra (para lasmisma minorías étnica), ad extra (qué imagen quieren proyectar de símismas las etnias) y finalmente qué significado atribuye la sociedadnacional a las culturas indígenas.

Es sobresaliente en los últimos años la idea de que la cultura marcala diferencia entre los grupos humanos y establece fronteras, para sepa-rarse, distinguirse y afirmarse.

Al respecto, Adam Kuper (1999) revisa críticamente los conceptosde cultura y cuestiona la así llamada “apología de la diferencia” por-que habría servido para legitimar diferentes formas de exclusión y dediscriminación; cita como ejemplo el caso del apartheid de Sudáfrica,su país originario.

Pero es justamente enfatizando la universalidad de lo humano que,históricamente, se ha impuesto una civilización universal, aplastandolas originalidades y las peculiaridades.

Muy fecundos son los aportes de García Canclini sobre las cultu-ras híbridas; este concepto es un instrumento muy útil para salir del ato-lladero de las culturas indígenas supuestamente inmóviles e incapacesde renovarse y re-crearse. La hibridación cultural entonces es aquelproceso por lo que determinadas formas (que tampoco eran puras, sinoya híbridas) se van separando de prácticas existentes para recombinar-se en nuevas formas y nuevas prácticas.

Asimismo es muy sugerente el concepto de “transfiguración cul-tural” utilizado por Miguel Alberto Bartolomé. Los pueblos están enun permanente proceso de cambio, inventan estrategias y prácticasadaptativas; y para sobrevivir, desdibujan su propio perfil cultural.

37

La expresión: “Para poder seguir siendo, hay que dejar de ser loque se era” es el camino que están recorriendo con incertidumbre yno sin dolor, los indígenas de Paraguay y probablemente de todaAmérica.

38

Preguntas y respuestas

Almidio Aquino:Para el Prof. Pietro Pustorino:¿Cómo colabora un país como Italia para ayudar a solucionar los con-flictos que existen entre la naciones indígenas tanto en Sudaméricacomo en el Paraguay?

Para el Dr. Ramiro Domínguez:¿Qué acción o gestión se toma a nivel de Estado en defensa de la len-gua mayoritaria, la guaraní, que sigue siendo considerada minoritaria?

Para el Padre José Zanardini:¿Qué aportará todo esto que se está realizando en nombre y a favor delos indígenas en cuanto a mejorar esa ley Nº 904 que sigue siendo muydiscutida?

Respuesta Prof. Pietro Pustorino:Sotto il profilo pratico, l’intervento dell’Italia in materia è subor-

dinato, dal punto di vista del diritto internazionale, al rispetto di dueprincipi: 1) il principio di non ingerenza negli affari interni di unoStato, che vieta agli altri Stati di intervenire in questioni che sono diesclusiva competenza dello Stato territoriale; 2) il principio che ammet-te l’ingerenza della comunità internazionale nei rapporti fra Stato terri-toriale e propri cittadini nelle ipotesi di gravi violazioni dei dirittiumani. Ne consegue che l’Italia, come qualsiasi altro Paese, potrebbeintervenire soltanto in questo ultimo caso, ma occorre ammettere che ilnostro Paese non ha intrapreso azioni di particolare rilievo nemmenonei casi di violazione grave dei diritti dei popoli indigeni. Sotto il pro-filo normativo, come è noto, va premesso che nel territorio italiano nonesistono popoli indigeni. Ne deriva che l’Italia non ha la possibilitàmateriale di partecipare in modo rilevante allo sviluppo del dirittointernazionale generale in tema di tutela dei popoli indigeni, non aven-do molte occasioni di prendere posizione sul problema e quindi di con-

39

tribuire alla formazione dello usus e della opinio juris necessari per lacostituzione delle norme consuetudinarie. Per quanto concerne i tratta-ti internazionali sul medesimo oggetto, vale quanto appena affermatoin relazione al diritto consuetudinario, anche se di recente sembraessersi sviluppato un interesse maggiore del nostro Paese alla ratificain particolare della nota Convenzione OIL, che è stata ratificata negliultimi tempi da altri importanti Stati europei. La ratifica italiana costi-tuirebbe un contributo importante all’evoluzione del diritto internazio-nale in tema di popoli indigeni.

Intervención público:Estamos intentando el grupo de ONGs italianas que se ocupan de las

cuestiones indígenas de América Latina, estamos reintentando formar ungrupo de apoyo a la discusión en parlamento en los próximos meses dela posible aprobación en Italia, la recepción de la 169 del ConvenioInternacional porque es importante también que países que no tienenindígenas, tienen minorías directamente, apoyen a la 169 porque es unmovimiento internacional que puede favorecer la importancia del reco-nocimiento de los derechos indígenas. Además de los movimientos de lasONGs italianas está produciendo ciertos proyectos en diferentes paíseslatinoamericanos, pero también nosotros tenemos un grupo de financia-ción del Ministerio de Relaciones Exteriores, tiene el título muy maloEducación al Desarrollo, pero es muy importante porque se producenproyectos de información para la gente, las escuelas, en las universida-des, para que puedan hacer un apoyo general de la gente de la que sellama sociedad civil italiana y pueda venir más plata del Ministerio deRelaciones Exteriores, de la Unión Europea para acciones a favor de laspoblaciones indígenas. Creo que la cuestión de los derechos, de la situa-ción de los pueblos indígenas en América Latina puede servir para pro-mover un debate más amplio en la sensibilización en la sociedad civil yhacer representar a Italia como financiador de posibles proyectos.

Intervención del Prof. Antonio Palmisano:Una breve osservazione e un invito. Chiamo i colleghi a riflettere su

quanto e in che modo, attraverso la terminologia giuridica, ad esempio

40

attraverso il concetto di “popolazione indigena”, così come espressodalla giurisprudenza internazionale, viene di fatto ad essere reificata l’i-dentità di un determinato gruppo etnico o di una deteminata comunitàindigena, quando questa viene ad essere fissata, una volta per tutte, nelsuo essere soggetto giuridico di determinati diritti-doveri, in una deter-minata identità; diritti che sono de facto anche doveri, visto il carico diaspettative internazionali e nazionali ad essi connessi. In qualche modo,il gruppo etnico e la comunità indigena vengono imprigionati in unaidentità fornita loro dal riconoscimento giuridico di determinate preroga-tive, poi magari anche sottratte attraverso vari e complessi processi lega-ti alle dinamiche delle economie internazionali di mercato; una identitàdunque resa statica, e tendenzialmente pronta alla musealizzazione. Mipreoccupa insomma l’uso e l’abuso del termine “popolazione indigena”,in particolare modo quando è impiegato fuori dal testo normativo.

Respuesta Dr. Ramiro Domínguez:El guaraní sigue estando en un nivel diglosico, en cierto modo no

reconocida oficialmente, no tiene presencia en los órganos del estado ycómo defender esa situación. En la Comisión Nacional de Bilingüismohemos venido trabajando mucho tiempo en la elaboración de lo que seda a llamar Proyecto de Ley de Lenguas que se elevó al parlamento,qué diferencias hay entre esta Ley de Lenguas y otros proyectos que seacercaron al parlamento, que en él se tratan de considerar la situaciónde todas las minorías lingüísticas, entonces por un lado reconocer ydefender el status del guaraní como lengua oficial, darle presencia entodos los órganos del estado, no solamente en la educación escolar sinoen la política social y oficial, pero al lado de eso reconocer el derechode las minorías lingüísticas y al recorrer el país durante más de dosaños planteando justamente este proyecto y devolviendo a las comuni-dades de base, el proyecto que estamos trabajando, nos encontramoscon que algunas zonas del chaco y otras regiones por ej. Ciudad delEste, ellos encontraban que se está dando algo así como con losAymara, ahora que tienen un Presidente y un Canciller Aymara puedecaer en la tentación de una hegemonía, y en el Paraguay se está dandode una forma incipiente todavía una tentación hegemónica del guaraní,

41

entonces inclusive los dos guaraní hablantes se traducen asimismohablando el guaraní, entonces es una manera de estimular a que vayamuriendo la lengua originaria como se hace la contraparte, entoncestambién al lado de la vigencia del guaraní al cual no podemos renun-ciar porque todos los paraguayos somos guaraní hablantes, garantizarque esas minorías, el caso de Zanardini que trabajó con Hannes Kalischen la defensa del Guaná, que es una lengua que esta prácticamentemuerta y entonces tratando de revitalizar otra vez una identidad lin-güística, eso no va por la línea del guaraní, sino va por la línea de unaLey de Lenguas. Eso lo que queremos hacer.

Respuesta Padre José Zanardini:En la Ley 904 que fue aprobada en Paraguay en el año 1981 es

todavía vigente, se ha presentado una Ley, que se llama la Ley 2822 enel 2005, después de una manifestación grande en la Plaza Italia detodos esos indígenas presionaron al parlamento se aprobó la Ley 2822en ambas cámaras, pero semanas más tarde vinieron otros centenaresde indígenas en la plaza a pedir de que se bloquee esa ley. Entonces elpresidente vetó 13 artículos de esa ley 2822 y eso ha creado dos blo-ques indígenas de lo que veo muy difícil salir de esa radicalización, porlo tanto me parece que descanse y que quede todavía la ley 904 quebien o mal es una ley bastante útil que ha servido por veinte años,puede servir por un tiempo más hasta que se tranquilicen los ánimos.Con eso quiero mencionar también que hay una ley de educación indí-gena que está ya en el parlamento también, quizá conviene concentrar-se en eso Aquino, empujar esa ley, enmendar algo, en fin, estar atentoa este proceso, entonces no encarar la ley de los pueblos indígenas, sinocomenzar con cosas puntuales como la educación indígena, la lengua,en fin, ir atacando por diferentes sitios hasta tener un panorama máscompleto.

También se preguntó sobre: ¿Qué puede hacer este foro? A mi meparece que sería interesante hacer surgir una iniciativa de organizaralgún curso de formación sobre concepto básico antropológico para losdocentes. En el 5to y 6to. de la media se enseña Antropología,Sociología, entonces dicen: ¿no tiene usted alguna bibliografía, no

42

puede venir a dar una charla? Nosotros queremos defender las culturasindígenas, entonces la gente piensa que defender la cultura indígena esalgo estático, algo que era del pasado y que hay que conservar porqueésta es la cultura, entonces su vestimenta, su música, todo lo que era delpasado como que lo hemos bloqueado allí. Entonces me parece conve-niente elaborar con ellos esos conceptos sobre cultura cambiante, adap-taciones culturales, transfiguración cultural, o sea conceptos básicosque los docentes están necesitando. Entonces quizás de este foro surjanalgunas iniciativas que sería oportuno organizar a nivel departamento,nacional, un curso no tan largo, para los docentes de Ciencias Socialesde la Media, sobre esos temas, establecer algunos conceptos.

Intervención Dr. Ramiro Domínguez:Me llamó la atención, parece por coincidencia, los tres por dife-

rentes matices hemos apelado al rol del estado frente a la defensa de laidentidad, mientras que frecuentemente los lingüistas trabajan más elaspecto de lengua y cultura, aquí se habla fundamentalmente de políti-cas con relación a la cultura y el rol del estado por presencia o porausencia. Por un lado la iniquidad que se cometió dentro de una lectu-ra etnocéntrica, ridícula, que descartaba la presencia de los pueblosindígenas, y por otro lado algo así como una construcción que señalóPustorino de una legislación internacional que vaya obligando a losestados a cumplir con un compromiso de respeto a las identidades. Perode cualquier modo entonces queda claro que no podemos trabajar en elsentido de integración y de identidad sin apelar al rol del Estado. Cuáles la presencia del Estado aquí con relación a todas estas iniquidadesque se han cometido y se vienen cometiendo. Por ejemplo anoche, está-bamos comentando en la cena con nuestro amigos italianos que porejemplo los sojeros hacen a través de terceras personas ofertas a lospobres campesinos que quedan embolsados así en sus enormes latifun-dios a preguntar ¿Cuánto pedís vos por tu tierra? Yo te ofrezco diezveces más. El campesino se viene deslumbrado con lo que él cree esuna fortuna y al mes ha comido todo lo que tiene y queda sin nada.Entonces qué hace el estado allí. Ese es un tópico fuerte. Celebro quelos tres hayamos enfatizado ese aspecto.

43

Pregunta el Prof. Marciano Crusabie:Para el primer ponente. No me fue claro si fue a través de dicta-

men o declaraciones de las NN.UU. que cada Estado tiene que tener untiempo límite de restituir las tierras a los indígenas cuando peticionanjustamente la restitución de sus tierras a centrales. Si es nueva esadeclaración, ¿porque usted habló de tiempo límite?

Respuesta Prof. Pietro Pustorino:Mi piacerebbe tanto dirle di sì e rispondere positivamente a questa

domanda. Forse c’è stato un equivoco: quando ho parlato di diritti reali,cioè di terre che devono essere riconosciute alle popolazioni indigene,in quella costruzione spero non troppo artificiosa che ho fatto, il prin-cipio base è l’ autodeterminazione dei popoli. Dall’autodeterminazionedei popoli discendono chiari i poteri sovrani delle popolazioni indige-ne. Come corollario, come conseguenza cioè di questa cessione di pote-ri reali, abbiamo la necessità di trasferire anche diritti reali, cioè pro-prietà. Ora, però, ho detto che purtroppo, in questo ambito specifico, larisoluzione delle Nazioni Unite, pur essendo recentissima, non è parti-colarmente coraggiosa perché riproduce pedissequamente il criterio giàcontenuto nella Convenzione OIL di quasi 20 anni fa, del 1989. LaConvenzione OIL dice molto chiaramente che lo Stato è tenuto alter-nativamente a restituire le terre tradizionalmente riconosciute allepopolazioni indigene, e questa è la strada preferenziale. Certo, se lo faè meglio, è chiaro, solo che non lo fa, in alcuni casi almeno. Quindi, ètenuto a restituire le terre tradizionalmente abitate da questi soggetti,oppure terre alternative di pari valore –si dice nella Convenzione OILed anche in questa risoluzione-; oppure ancora, in subordine, è tenutoa erogare un risarcimento concordato con le popolazioni indigene. Hodetto che questo criterio, del resto già contenuto nella prassi interna-zionale, nella convenzione Oil del 1989 e riprodotto in maniera pres-soché totale da questa risoluzione dello Human Rights Council, non èin linea, a mio avviso, e qui arrivo appunto a quello che lei stava dicen-do, con la prassi internazionale soprattutto non è in linea con gli svi-luppi della giurisprudenza internazionale più recente. Mi riferisco inparticolare alla giurisprudenza della Corte Costituzionale

44

Interamericana dei Diritti dell’Uomo, che dal 2001 sino a marzo 2006ha adottato quattro sentenze molto interessanti, ben argomentate dalpunto di vista giuridico, in cui si fa un salto di qualità che non è riscon-trabile né in questa risoluzione né in altri atti internazionali. Il salto diqualità è questo: il diritto di proprietà per le popolazioni indigene nonè soltanto importante di per sé come diritto reale da fruire, ma comediritto funzionale al godimento di tutti gli altri diritti spettanti allepopolazioni indigene –il diritto alla vita, la preservazione dei propri usie costumi, della propria religione, della propria spiritualità-, perché èsolo in quel determinato pezzo di terra che si possono svolgere le atti-vità economiche, di caccia, di pesca, le attività religiose e così via. Nonin altre terre, ma solo in quel pezzo di terra. Tra l’altro, con delle con-seguenze anche tragiche. Si faceva riferimento al fatto che i compo-nenti di queste popolazioni vivessero in un territorio contiguo a quelloche sarebbe stato necessario riconoscere, proprio perché speravano dientrare in questo territorio contiguo. Eppure lo Stato nulla faceva perriconoscere questo diritto di proprietà, con conseguenze tremende:molti di questi soggetti sono poi morti o comunque si sono ammalati inmaniera gravissima. Ebbene, qui la Corte Interamericana ha operatoquesto salto di qualità, e di conseguenza ha affermato che il diritto diproprietà su quelle terre è un diritto assoluto e deve essere riconosciu-to. Il fatto che di queste proprietà siano oggi titolari sia organi pubbli-ci che organi privati, dice la Corte Interamericana, è indifferente: nondeve essere un ostacolo al riconoscimento, cioè alla restituito in inte-grum di queste terre. Addirittura, nella giurisprudenza recentissima sipone un time limit, ciò a cui lei faceva riferimento. Ciò significa nonsoltanto che lo Stato deve riconoscere queste terre, ma non lo può faread elictum cioè senza un termine finale, ma lo deve fare entro un certonumero di anni. E questo vedremo se sarà fatto! Ecco, questo è un ele-mento di discrasia, cioè di antinomia, di contrasto, tra la risoluzioneche si pone in una linea di continuità con la Convenzione OIL e quelloinvece che dice la giurisprudenza internazionale che è molto più avan-ti. Speriamo che nell’applicazione di questa risoluzione si possa e sidebba tenere conto della sentenza della Corte interamericana dei dirit-ti dell’uomo. In questo caso, il processo interpretativo è molto impor-

45

tante, sia perché questa risoluzione dell’ONU deve essere inserita in unquadro sistematico, cioè insieme agli altri atti internazionali che riguar-dano le popolazioni indigene, sia perché in materia di popoli indigenied in generale di diritti umani, il criterio interpretativo fondamentale èquello di natura evolutiva, cioè di tenere conto, nel momento in cui siinterpreta un atto giuridico, dell’evoluzione che il diritto internaziona-le ha conosciuto in quel campo. Quindi, se un atto giuridico è del 1950,ebbene verifichiamo cosa è successo dopo quell’anno per tenere contodell’evoluzione e quindi interpretare estensivamente la norma cheabbiamo di fronte.

Intervención Prof. Marciano Crusabie:Mi suposición radica en que el dictamen de la Corte, el Estado

debe cumplir sí o no.

Respuesta nuevamente de Prof. Pietro Pustorino:Deve ripettarlo, sicuramente. L’ultima sentenza del marzo 2006 è

proprio contro il Paraguay. Lo Stato è tenuto a rispettare le sentenzeinternazionali. La sentenza ha un’applicazione limitata a quel caso spe-cifico. Bisogna comunque vedere quali sono le parti di quella contro-versia. In quel caso di trattava di una comunità indigena del Chaco,quindi una volta accertate le parti della controversia, lo Stato dovràsvolgere tutte le attività necessarie per restituire le terre a quella comu-nità indigena. Ciò non implica che non si possano presentare altri ricor-si collettivi. Oltre all’efficacia soggettiva, quando la Corte stabilisce unprincipio giuridico, questo principio entra nell’ordinamento internazio-nale. Il principio giuridico della protezione totale del diritto reale, deldiritto di proprietà delle popolazioni indigene in quanto funzionale allavita di questi soggetti è ormai entrato nell’ordinamento internazionale.

Intervención Lic. Aída Torres:Yo tengo una reflexión en la misma línea, en la relación que se

estuvo manejando entre los diferentes ponentes sobre la importancia deesta relación entre la identidad y tenencia de la tierra por parte de losgrupos indígenas. La importancia que asume en el afianzamiento de la

46

identidad. Y mi reflexión va hacia la perspectiva de que esta restituciónde tierra a los grupos indígenas tendría que ir acompañada con unapolítica integral en el sentido de la experiencia que me tocó vivir enParaguay con unas comunidades indígenas en el sur de Itapúa que esta-ban próximas a un Parque Natural, las personas que habitaban la comu-nidad nos contaban casos reales de la disminuición de tierras se reali-zaba a costa de este parque. Ellos decían que por la influencia de unaoferta muy tentadora, lo que hacían en vez de aprovechar y trabajar latierra es ir vendiendo gradualmente parte de ese bosque que le habíanrestituido y luego entraban las motosierras y los grandes empresarios atalar totalmente eso. Eso significaba para ellos días y semanas de ale-gría y abundancia para la comunidad, pero que posteriormente pasabaesa etapa iban retrocediendo e iban vendiendo más de la zona boscosa,entonces, la restitución de la tierra tiene que estar acompañada de unapolítica integral que les ayude a darles valor y aprovecharlo conve-nientemente, o estamos creando una cultura que genera más pobreza.El Dr. Domínguez es una de las personas que suele analizar de maneramás profunda el tema de relación de tenencia de tierras e identidad delos grupos y un poco para llamarnos la atención inclusive el valor quese puede ir dando a otros componentes de la identidad como el temalengua, como el tema inclusive religión y otras experiencias que sabe-mos que se constituyeron en nexo de identidad muy fuerte aún a faltade tierra que cobije a otros grupos, no hablo precisamente de indígenasen estos casos. Y la interrogante que me planteo es cuánto estamos pre-parados quienes estamos en educación para poder ir creando esa con-ciencia que refuerce la identidad de los pueblos originarios tanto desdela educación formal como de la educación no formal.

47

48

Contaminare i linguaggi della prima modernità

VACLAV BELOhRADSky (Università di trieste)

Diciamo anzitutto: le lingue indigene di cui parliamo oggi qui inAsuncion nel contesto delle istituzioni da cui siamo stati invitati, riven-dicano il riconoscimento, da parte dello Stato e delle sue istituzioni, diuna dignità pari allo spagnolo e attraverso questa rivendicazione siintegrano nella storia della modernità. La storia della modernità occi-dentale è la storia dell’abolizionismo, ovvero della lotta contro il pote-re che su di noi esercitano le tradizioni irriflesse, il passato che nonvuole essere compreso, ma semplicemente continuato, ripetuto; il ter-mine “abolizionismo” fu lanciato in questo senso dal filosofo franceseFinkielkraut nella recente discussione sul multiculturalismo, suscitatadalla recente “rivolta delle periferie” di Parigi. I moderni riducono ilcontenuto delle tradizioni a meri “pregiudizi del passato” e conduconoda tre secoli una battaglia senza quartiere contro i pregiudizi che vor-rebbero imporsi come fondamento dei nostri giudizi sugli altri e sulmondo; mero pregiudizio è considerato ogni criterio di giudizio che sifonda sul rispetto del passato, della comunità di appartenenza, che si facondizionare, per così dire, dal tempo e dal luogo condivisi.

Ora le lingue indigene diventate lingue dello Stato entrano a pienotitolo nella storia della modernità che è la storia della lotta per l’aboli-zione dei vincoli locali e tradizionali, della loro forza condizionante,per l’emancipazione da quel passato che chiamiamo “tradizione” e chevorrebbe solamente ripetersi.

Nelle moderne società democratiche ogni rivendicazione, compre-sa quella dell’identità linguistica, deve, per essere legittima, fondarsisulla retorica della modernità, deve, cioè, essere formulata mediante ilinguaggi della modernità.

Detto altrimenti: ogni gruppo che tenta di ridefinire la propriaidentità linguistica (o sociale o morale o politica) all’interno di unmoderno Stato industriale democratico, deve far conti con la forza vin-colante della “retorica della modernità”, costituita da un insieme intrec-

49

ciato di figure retoriche da cui le rivendicazioni traggono la loro legit-timità e forza. Nessuna lingua in contrasto con la retorica della moder-nità, incapace di dare risonanza ai suoi miti costitutivi, può arrivare aconquistare uno status di uguaglianza all’interno della società moder-na.

La retorica della modernità è l’insieme di figure retoriche, di modidi argomentare, di immagini attraverso le quali si pratica l’abolizioni-smo, cioè la lotta per l’indipendenza dal locale, dal passato, dai pre-giudizi impliciti nella tradizione. Essa ha una funzione fondamentalenella società moderna, quella, cioè, di rendere possibile una mobilita-zione di massa nella lotta per l’emancipazione dai pregiudizi del pas-sato, dalle autorità ”irrazionali”, dalla tradizione che vuole solamente“ripetersi” non essere compresa.

Ora sostengo che nei linguaggi della modernità è insito un poteredi mobilitazione che garantisce ad essi una superiorità decisiva sui lin-guaggi della tradizione; e che questa superiorità deriva da sei grandifigure retoriche costitutive di questi linguaggi; e che dalla forza per-suasiva di queste figure dipende la legittimità politica dell’abolizioni-smo che Finkielkraut propone di considerare come “il fine universaledella storia moderna”.

Anticipo ora le sei figure retoriche da cui il linguaggio abolizioni-sta della modernità trae la sua dirompente energia sociale: (i) la metafora secondo cui lo Stato è macchina amministrativa neu-

trale; (ii) la allegoria che situa l’origine della società in un contratto sociale

originario; (iii) la metafora della mano invisibile del mercato;(iv) la metafora secondo cui la natura è un libro scritto in caratteri

matematici (come suona la celebre formula di Galileo); (v) ) le scienze umane che promettono di sottomettere la società alla

razionalità scientifica emancipandola così dalla sottomissione alleforze oscure ed irrazionali del passato;

(vi) la metafora secondo cui l’uomo è soggetto, ovvero fonda la suavita sulla certezza della “auto-coscienza”, ovvero della coscienzadi sé – il celebre “cogito ergo sum”.

50

Si potrebbe certo discutere sulla definizione più precisa della paro-la “linguaggio” ma io mi limito ad usarla qui in un modo vicino al sensocomune: chi accetta le metafore citate, accetta pure implicitamente unvocabolario, una grammatica, una versione del mondo. Questo intrecciodi figure retoriche generatrici di versioni del mondo e di vocabolari con-nessi ad esse chiamo “retorica della prima modernità”; essa era la fontedi ogni legittimità politica ed etica nelle moderne società industriali, diogni diritto alla rivoluzione o al cambiamento radicale.

Della forza cogente dell’egemonia discorsiva della prima moder-nità, ai cui punti di partenza obbligati non è semplice sottrarsi, possia-mo convincerci facilmente: basta iniziare una discussione su un temacontroverso - ad esempio sui diritti umani o sul degrado ambientalecausato dalla crescita economica - per renderci conto che le nostreargomentazioni, nonostante la loro diversità, sono tutte “moderne”,vincolate, cioè, alla retorica della prima modernità secondo cui lo Statoè una macchina amministrativa neutrale, i governi derivano la lorolegittimità da un contratto sociale originale, la mano invisibile del mer-cato trasforma il vantaggio di alcuni nel vantaggio di tutti, la natura èdescrivibile in equazioni matematiche e ogni uomo deve aspirare adiventare soggetto della propria vita.

L’egemonia discorsiva della prima modernitàLa parola greca tròpos (in latino tropus) che significava originaria-

mente “cambio di direzione,” indica oggi la trasposizione e gli sposta-menti del senso nel linguaggio, ovvero le trasfigurazioni retoriche dicerte espressioni che generano nuovi vocabolari e trasformano radical-mente i linguaggi [cf. Richard Rorty 1985]. La storia si presenta, da que-sto punto di vista, come un susseguirsi di tropi i quali, imponendosi allacoscienza collettiva, generano un linguaggio coerente e condiviso. Ivocabolari ed i linguaggi dominanti della prima modernità sono statigenerati, sostengo, da sei grandi tropi costitutivi, ovvero da sei figureretoriche che hanno sovvertito i vocabolari e i linguaggi tradizionali.

Abbiamo visto che il ruolo fondamentale tra i tropi svolgono lemetafore. La metafora permette di costituire un vocabolario per nuovifenomeni ed esperienze e per questo ha un ruolo importante persino

51

nella scienza dove viene usata “per introdurre una terminologia là doveuna tale terminologia non esisteva in precedenza … l’uso della meta-fora assolve la funzione di un modo non definitorio per fissare riferi-menti, soprattutto nei casi in cui gli oggetti di analisi constano di pro-prietà di relazione complesse, più che di caratteri propri di una costitu-zione interna» [Boyd, Kuhn 1983, 21-23]. Pensiamo alle metaforecome ad esempio il “buco nero”, “codice genetico” o “super-io” ecc.

Umberto Eco [1990: 159] dice che le metafore originali possonoessere parafrasate solo nella forma del racconto (avventuroso, faticoso,interminabile) della loro interpretazione - «o meglio, del racconto dicome esse siano interpretabili in modi diversi». In questo modo sigenerano, partendo dalle elaborazioni di una metafora, vocabolarimolto complessi che hanno una funzione legittimante ed unificantenella società. Questi nuovi vocabolari e le narrazioni in cui sono nega-ti si istituzionalizzano e si stabilizzano per mezzo dell’educazione sco-lastica, della tradizione letteraria, della stampa e delle analoghe istitu-zioni; nell’insieme formano una rete di argomentazioni e di modi divedere il mondo che chiamo appunto “egemonie discorsive”.

L’egemonia discorsiva incentrata sulle metafore che analizzerò piùavanti ha una conseguenza politica: giustifica l’abolizionismo e questaparola è, essa stessa, una figura retorica. Il pathos della modernità stanell’abolizione di ogni dipendenza da ciò che l’individuo non sceglieliberamente guidato solamente dalla sua coscienza e ragione. Tutte esei le figure retoriche della prima modernità generano i linguaggi chelegittimano la crescente spinta “abolizionista” – ad esempio la volontàdi cancellare nel linguaggio ogni traccia dell’ineguaglianza culturaleche si esprime nel programma chiamato “politically correct” è una faseestrema di questa spinta..

Ed ora una breve analisi del contenuto dell’egemonia discorsivadella prima modernità.

I sei tropi della prima modernità: i loro effetti

(i) Stato-macchina

Il primo tropo costitutivo dell’egemonia discorsiva moderna è lametafora secondo cui lo Stato è una macchina che deve essere gover-

52

nata secondo regole razionali indipendenti dalle religioni, diventate difronte a questa interpretazione dello Stato, mere opinioni private. Laparola “opinione” è infatti un grande slogan della modernità che indi-ca un mutamento fondamentale nella struttura della civiltà occidentaleche consisteva nella riduzione del conflitto tra le versioni del mondoassolutamente diverse - ovvero tra le religioni - al conflitto tra le ver-sioni del mondo relativamente diverse - ovvero tra le opinioni diversenegoziabili : i dissidi sul quadro delle situazione diventano semplicidisaccordi sulle diverse definizioni possibili della situazione. Dopo chela religione diventa “mera opinione privata”, i conflitti diventano pila-stri della comunità politica moderna (Hirschmann 1994), una fonte diprogresso, una condizione fondamentale della straordinaria capacità diinnovazione e di cambiamento razionale della società industrialedemocratica; i sostenitori delle opinioni contrapposte si sentono orauniti dal legame condiviso alla comunità politica basata sui diritti lega-ti alla cittadinanza, al cui profilo storico più razionale contribuisconoproprio mediante il loro conflitto.

Lo stato –macchina è essenzialmente un apparato artificiale chepersegue con la massima “scientificità” il fine supremo della politica -quello di garantirci la pace civile: al di fuori di questo fine non ci sonoaltri punti di riferimento politici per l’uomo, soprattutto né morali néreligiosi.

(ii) Contratto sociale

Il terzo tropo costitutivo dell’egemonia discorsiva moderna è laallegoria (o narrazione allegorica che la retorica definisce “metaforacontinuata o tropo di pensiero), secondo cui il governo deriva la sualegittimità da un contratto originario, in virtù del quale gli uomini libe-ri e in possesso di tutti i propri diritti, hanno deciso di trasferirne alcu-ni al governo, per garantirsi la pace e la sicurezza. Si tratta di una nar-razione allegorica, cui si richiamano, come al proprio fondamento dilegittimità, tutte le istituzioni e tutti i movimenti politici della moder-nità.

È stato Locke a formulare questo principio nel modo più classico:nello stato di natura tutti gli uomini sono liberi, indipendenti, eguali e

53

nessuno può essere privato di questi diritti senza il suo consenso; l’u-nica via legittima per cui alcuni di questi diritti possono essere trasfe-riti al governo è il patto tra gli uomini liberi, il cui fine è quello di pro-teggere i cittadini contro gli intrusi nel rispetto della volontà della mag-gioranza; solamente il consenso degli individui liberi istituisce la socie-tà politica e solamente da esso può aver inizio un governo legittimo.

L’allegoria del contratto sociale collocato in un passato immagi-nario offre anzitutto un fondamento solido per i diritti umani: i dirittihanno solamente gli individui, le istituzioni derivano i propri dirittidalla decisione degli individui di cederli ad esse in qualche misura “nelproprio interesse e sempre in modo revocabile”. Il consenso diventacosì il principio legittimante delle istituzioni, le quali, sorgendo dalladecisione libera e razionale degli uomini, non riflettono più un ordinetrascendente.

Uno degli esempi più influenti dell’uso politico rivoluzionario diquesta meta-narrazione è La dichiarazione d’indipendenza degli StatiUniti del 1776, attribuita a Jefferson:

«Quando nel corso degli umani eventi diviene necessario per un popolo scio-gliere i vincoli politici che lo hanno legato a un altro e assumere tra le nazionidella terra la posizione separata e uguale a cui gli danno diritto le leggi dellaNatura e del Dio della Natura, il debito rispetto per le opinioni del genereumano esige ch’esso popolo dichiari le cause che lo spingono alla separazione.Riteniamo ovvie (we hold the following truths as self-evident) queste verità:che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che sono stati dotati dal Creatore di(impliciti e) inalienabili diritti; che tra questi sono la vita, la libertà, e il perse-guimento della felicità; che per conseguire questi diritti si stabiliscono tra gliuomini, governi i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati;che ogni qual volta una forma di governo diventa lesiva di questi fini, è nel dirit-to del popolo di modificarla o abolirla, e di istituire un nuovo governo, cheaffondi le sue basi su tali principi e organizzi il suo potere in tal forma quale alpopolo sembri più atta a conseguire sicurezza e felicità».

Gli elementi essenziali del vocabolario che questo tropo dellamodernità che generato sono la natura che “ha iscritto” nei nostri cuoricerti diritti, il consenso dei governati, i diritti inalienabili e il rispettoper le opinioni del genere umano. L’intreccio tra questi elementi puòvariare, ma la fabula è sempre la stessa: il potere politico è limitato

54

dalla “iscrizione dei diritti per opera della natura (di Dio) nel cuore diogni uomo”, i governi sono “prodotti umani”, istituiti per difendere idiritti datici dal Creatore, ogni popolo ha un diritto inalienabile di desti-tuire il governo che contravviene a questi diritti per istituirne un altro,ovvero il governo è sottoposto al giudizio sovrano dei popoli.

(iii) Mano invisibile

Il terzo tropo costitutivo di cui consta l’egemonia discorsiva dellamodernità è la metafora secondo cui il mercato è governato da una“mano invisibile” che trasforma il perseguimento del profitto privato daparte di ogni individuo nel vantaggio collettivo. Questo grande toposdella modernità postula, nella sua formulazione originaria, che tutti gliindividui agiscono perseguendo il proprio vantaggio, ma come se fosse-ro guidati da una mano invisibile contribuiscono invece al vantaggio ditutti. Nella sua celebre Favola delle api Mandeville illustra il senso pro-fondo del detto “vizi privati, pubbliche virtù”: le api sono vanitose, bra-mano le cose preziose, vogliono tutte le comodità; tutto questo sono vizianche gravi, ma in conseguenza di questi si sviluppano le arti artigiane,cresce il commercio e il benessere dell’intero alveare. La favola separail concetto di “bene pubblico” dalle intenzioni umane, il benessere col-lettivo risulta “spontaneamente” dalle azioni individuali non guidate danessuna dottrina morale - il bene pubblico è la conseguenza non inten-zionale dell’agire ispirato al proprio vantaggio.

La separazione del bene dalle intenzioni umane era (ed è) un’ideascandalosa per la morale cristiana che pone l’accento sulla qualitàmorale delle intenzioni che guidano le azioni umane - le opere diMandeville sono state messe all’indice.

«Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspet-tiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale».«Nella società civile l’uomo ha continuamente bisogno della cooperazione edell’assistenza di un gran numero di persone, mentre la durata di tutta la sua vitagli basta appena a guadagnarsi l’amicizia di pochi»(Smith).

La metafora della mano invisibile genera un linguaggio in cui l’e-goismo (self-interest) diventa un motivo moralmente legittimo delleazioni umane: self interest come strongest motiv delle azioni umane,

55

non è distruttivo per la collettività, perché la mano invisibile “silenzio-sa” fa convergere continuamente gli egoismi privati verso la realizza-zione del bene comune: tutte le vie che gli uomini percorrono per rea-lizzare il profitto individuale conducono infine al vantaggio di tutti. LaChiesa cattolica ispirata all’etica dell’intenzione solleva ancora oggiobiezioni irriducibili contro l’idea che il bene pubblico possa essere uneffetto non intenzionale delle azioni ispirate al perseguimento del pro-prio vantaggio.

Il mercato e il relativismo morale sono strettamente associati.Mandeville sottolinea quant piacere prova piacere ad esaminare «idiversi e spesso incredibilmente contraddittori atteggiamenti che lasperanza di guadagno e il pensiero di lucro fa assumere agli uomini»:l’organizzatore del funerale è contento per l’affare concluso, quandocon l’espressione rattristata ne contratta il prezzo con gli eredi. La con-trattazione tra un commerciante di stoffe e la sua cliente «crea un’at-mosfera di serenità artificiale, mille volte più accattivante di quella chela sola natura è capace di produrre» [Mandeville 1974: 30-31].

L’unica istituzione capace di far convivere pacificamente gliuomini tanto diversi, è la mano invisibile del mercato dove la convi-venza è una conseguenza inintenzionale del perseguimento razionaledel proprio vantaggio.

(iv) La Natura è un libro scritto in caratteri matematici

Il processo di matematizzazione del mondo che è alla base dell’e-poca della tecnica prende le mosse dalla metafora di Galileo, secondocui “la Natura è un libro scritto in caratteri matematici”; e questo è ilquarto tropo costitutivo dell’egemonia discorsiva della modernità. Lametafora “il mondo è un libro” è antica, Blumenberg ne analizza la sto-ria ad esempio nel libro La leggibilità del mondo, ma Galileo la modi-fica radicalmente. La natura interpretata come un libro scritto in carat-teri matematici ha dato origine ad un vocabolario che ha trasformato inprofondità la cultura occidentale ridefinendo il rapporto tra la cono-scenza e l’autorità.

La formulazione originale di questa metafora si trova nel libro didialoghi Il Saggiatore, in cui Galileo difende i principi della “scienza

56

nuova” contro la filosofia tradizionale, rappresentata nel libro dal filo-sofo Sarsi (pseudonimo del padre Grassi) - l’incarnazione dell’aristote-lismo cattolico:

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aper-to innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima nons’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli èscritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figuregeometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola;senza questi è un aggirarsi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Maposto pur anco, come al Sarsi pare, che l’inteletto nostro debba farsi mancipiodell’inteletto d’un altr’uomo … [Galileo Galilei 1965: 38].

Galileo è convinto che Dio comunica con l’umanità attraverso laScrittura nella sua età infantile, con l’umanità adulta comunica inveceattraverso il libro della Natura “scritto in caratteri matematici”. LaNatura come «osservantissima executrice dell’ordini di Dio» è unascrittura di tipo rivoluzionario, per intender la quale l’uomo non habisogno di “interpreti autorizzati”. La parola “conoscenza” deve essereora riservata, nel senso proprio di “discorso capace di rivelare la veri-tà”, solo alle asserzioni derivate dall’osservazione della natura e daicalcoli ma tematici, mentre tutto il sapere tradizionale, custodito, com-mentato e tramandato dagli interpreti autorizzati, diventa «meratestimo nianza della passata condizione dell’umanità».

Questa metafora-chiave della modernità emancipa anzitutto laragione umana dall’autorità dei “libri antichi”. Ciò che nella Bibbia sidice della Natura deve essere inteso come “favole per il volgo” comesottolinea Galileo nella lettera del 21 dicembre 1613 indirizzata alpadre Castelli. Divinizzando la Natura, Galileo ha confinato la Chiesacattolica ad essere una comunità di interpreti autorizzati della primarivelazione, fatta all’umanità ancora ignorante; a Galileo sembra esse-re un compito della Chiesa quello di conciliare la prima rivelazione conla seconda, fatta all’umanità ormai adulta mediante il libro dellaNatura. L’uomo non ha più bisogno di leggere i libri antichi che testi-moniano il contenuto della prima rivelazione, può ascoltare diretta-mente la parola di Dio studiando la Natura con metodo matematico.

La questione più inquietante oggi è questa: come conciliare il

57

sapere scientifico, la cui legittimità si basa sul rifiuto di ogni pregiudi-zio, con le tradizioni morali che sono essenzialmente dei pregiudizilegati alle comunità storiche di uomini, ovvero alle tradizioni e alle lin-gue attraverso cui si esprimono?

(v) Scienze umane

Il quinto tropo della modernità costitutivo dell’egemonia discorsi-va della modernità è l’ossimoro - human sciences, Geisteswissen -schaften, moral sciences oppure scienze umane e sociali. Un ossimoroè la figura retorica che consiste nell’accostare, nella medesima locu-zione, parole che esprimono concetti contrari, di modo che l’aggettivo,preso in senso letterale, sia in contrasto con il sostantivo che determi-na, ad esempio “il fuoco freddo”, “l’alba in Occidente” o “il silenziorumoroso”. Le scienze dello spirito o le scienze umane si formanocome reazione alle conseguenze di quel modo di interrogare la Naturache la metafora epocale di Galileo eleva a norma suprema della ragio-ne - ipotesi, verifiche, fatti, esperimenti, osservazioni, misurazioni, cal-coli.

Il ruolo delle “scienze dello spirito” (o delle humanities) nella ege-monia discorsiva moderna è sempre più importante ed attuale. I dis-corsi costruiti e fatti circolare dall’apparato culturale delle scienzeumane - fatte di parole come ad esempio classe sociale, stratificazionesociale, significato storico, società industriale, feudale, post-industria-le, rivoluzione culturale, interpretazione, teoria, ecc. - compensano ilruolo che hanno avuto nelle società pre-moderne le tradizioni, orasvuotate, frammentate e oscurate dalla mobilità orizzontale e verticaledegli uomini moderni. Le storie di orientamento, di sensibilizzazione,di conservazione e di conversione che le scienze umane fanno circola-re nello spazio pubblico, sono dei sostituti funzionali delle tradizioni,dei riferimenti contestuali che esse offrivano.

Attraverso questo linguaggio si riappropriano delle tradizioni…La ragione del grande successo del marxismo in Occidente deriva

dal fatto che si è presentato con successo come una rivoluzione nellescienze umane che consisteva nella scoperta delle “leggi della storiaumana”, in riferimento alle quali poi il partito comunista ha formulato

58

il suo programma politico. Lo sviluppo completo delle scienze socialicoincide, dal punto di vista marxista, con la fine della preistoria umanae l’inizio di una “storia veramente umana”, in cui i prodotti dell’uomonon gli si rivoltano più contro come “cieche forze della storia”; anzil’uomo riconosce nei propri prodotti industriali se stesso, le sue forze ele sue possibilità – ha superato la sua “alienazione”, diventa finalmen-te “padrone della storia”. Per quanto oggi queste concezioni rivelino illoro sfondo escatologico, una gran parte del canone sociologico siformò in risposta alle domande che il marxismo sollevava.

(vi) L’uomo è soggetto

Il sesto “tropo della modernità” è la metafora secondo cui l’uomoè soggetto da cui nasce il linguaggio dell’emancipazione che definiscela storia dell’umanità come processo in cui l’uomo si rende padrone dise stesso, ovvero diventa soggetto della sua vita. Nei corsi di filosofialiceali l’insieme degli effetti storici dell’irruzione della metafora “l’uo-mo è soggetto” nella storia viene indicato con la formula “rivoluzionecartesiana”. Infatti fino a Cartesio la parola “soggetto” non era usata inmodo privilegiato per indicare il modo d’essere dell’uomo, quel “cogi-to ergo sum” come fondamento di ogni certezza e di conseguenza dellasuperiorità dell’uomo-soggetto su tutti gli altri esseri viventi.

Dal punto di vista sociologico la ri-definizione dell’uomo in ter-mini di soggettività, è una risposta alla crisi suscitata in Occidente dalleguerre di religione e dal crollo della concezione geocentrica del cosmo.Il cartesiano cogito ergo sum ricolloca l’uomo di nuovo al centro delcosmo, seppure in un senso nuovo; la soggettività come punto di par-tenza sicuro per conoscere la realtà fa rida di soppiatto all’uomo la suaposizione al centro del cosmo che ha perso irrimediabilmente nella ver-sione galileana del mondo.

“Da Copernico in poi si direbbe che l’uomo sia finito su un pianoinclinato - ormai va rotolando, sempre più rapidamente, lontano dalpunto centrale - dove? Nel nulla? Nel trivellante sentimento del proprionulla?” si chiede Nietzsche in un celebre passo della sua Genealogiadella morale. Nella concezione del mondo elaborata dalla nuova scien-za galileana l’uomo perde la sua centralità, ma per rappresentare la

59

realtà con certezza deve partire dalla sua autocoscienza. La retoricadella soggettività è una meta-narrazione compensativa del posto mar-ginale cui Galileo ha condannato l’uomo: se i fatti scientifici hanno unsenso solamente a partire dalla soggettività, l’uomo torna al centro delcosmo. La certezza legata alla coscienza di se stesso è la nuova terra-ferma sotto i piedi dell’uomo – per questo Hegel chiama Cartesio, nellasua storia della filosofia, “Colombo dell’età nuova”.

Pascal ad esempio chiama l’uomo “canna pensante”, ovvero unessere fragile e minacciato che però penetra tutto l’immenso cosmo conil suo pensiero. Il più noto dei pensieri di Pascal è questo:

La grandezza dell’uomo è così evidente che s’inferisce dalla sua stessa miseria.Invero, ciò che negli animali è natura, nell’uomo lo chiamiamo miseria: rico-noscendo così che, essendo oggi la sua natura simile a quella degli animali, èdecaduto da una natura migliore, che era un tempo la sua … La grandezza del-l’uomo sta in questo: che esso ha coscienza della propria miseria. Una piantanon si conosce miserabile. Conoscere di esser miserabile è, quindi, un segno dimiseria, ma, in pari tempo, un segno di grandezza … Nel pensiero sta la gran-dezza dell’uomo. L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma unacanna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; unvapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo loschiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, per-ché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universonon ne sa nulla.

Rousseau ha celebrato nell’uomo, accanto al pensiero, anche i sen-timenti autentici, la capacità di percepire la bellezza del mondo, diudire la voce della natura che parla all’uomo come ad un essere privi-legiato ed unico.

Tutta la egemonia discorsiva della modernità è attraversata da aspriconflitti tra coloro che rafforzano l’antropocentrismo compensativodella filosofia moderna fondato sulla formula “cogito ergo sum” e colo-ro che invece considerano questa ricollocazione furtiva dell’uomo alcentro del cosmo un mito egocentrico dell’umanità ancora immatura.

Michel Foucault ha mostrato in una serie di studi molto influentiche la soggettività è anche “un uso di noi stessi” che richiede tecnolo-gie e pratiche storicamente consolidate, accesso alle quali è controllato

60

da élites culturali. La soggettività moderna, nella sua articolazionesocio-politica, rimanda ad una vecchia tecnica di potere provenientedalle istituzioni cristiane che lo stato moderno ha incorporato nei suoimeccanismi. Si tratta di “tecnologie del sé” che coesistono con le tec-nologie della produzione dei beni. Vi è un’industria di massa delle tec-nologie del sé che insegnano agli individui di essere se stessi, di esse-re autentici, di controllarsi, di sentire la voce della propria coscienza,del dovere, di sentirsi colpevoli, di farsi guidare dai propri istinti piùprofondi o al contrario di addomesticarli - è la padronanza di questetecnologie che fa di noi dei soggetti.

La confessione, un genere letterario che si sviluppa da SanAgostino fino a Freud, è l’esempio eloquente di una tecnologia del sé:ci insegna a parlare di noi stessi, a riflettere sulla propria identità, a cer-care, dire e sopportare la verità su noi stessi. Le scienze umane hannoaccolto le pratiche della rappresentazione di se stesso, inserendole peròin un contesto nuovo, non più quello cristiano di auto-rinuncia, ma inquello moderno del mutamento di sé, della costituzione consapevole diun nuovo sé (Foucault 1992: 47).

L’esaurirsi della discorsività modernaGli effetti emancipatori – “abolizionismo” li abbiamo chiamati nel

loro insieme - che queste sei figure retoriche hanno avuto nel processodi formazione delle società moderne costituiscono nel loro insieme l’e-gemonia discorsiva moderna. La storia della modernità è anzitutto unastoria di emancipazione provocata da questa egemonia discorsiva, edanche dalle sue contraddizioni, dalle resistenze che ha suscitate, dallecontaminazioni tra i vocabolari universalistici della modernità e quellidelle tradizioni particolaristiche come dicono i sociologi.

Non tutte le società moderne in Europa si sono mostrate ugual-mente capaci di adottare ad esempio l’idea di contratto sociale e sotto-mettere i propri governi ad un controllo efficace e stretto, di separare loStato dalla Chiesa o di accettare gli effetti razionalizzanti e secolariz-zanti delle human sciences (in molti paesi sono state censurate, neipaesi comunisti addirittura la sociologia fu vietata in quanto “scienzaborghese”). L’ordine politico e la forma delle società moderne sono

61

comunque determinate dal contenuto della retorica della prima moder-nità che è dato dall’impatto dei sei linguaggi della modernità sullasocietà - dall’efficienza della macchina statale, dalla rappresentativitàdelle istituzioni e della partecipazione popolare al governo della Città,dall’estensione dell’economia di mercato, dalla matematizzazione dellanatura incorporata nella conoscenza scientifica, dalla capacità di sosti-tuire le tradizioni con le scienze umane e dalla volontà di essere sog-getto della propria vita e scegliere i propri fini e i progetti d’azione perconseguirli.

Ora le lingue indigene locali (come in America latina) o i dialettilocali (come in Europa specificamente in Italia) rivendicano per sé unanuova dignità in un contesto storico che chiamiamo “globalizzazione”e che ci mette di fronte ai problemi per risolvere i quali l’egemonia dis-corsiva della prima modernità non costituisce una risorsa; anzi, essa èil problema più grande perché paralizza l’immaginazione ed inibisce ipunti di vista alternativi.

Permettetemi di ricordare due esempi di tensione tra la razionalitàdei linguaggi della prima modernità e il tipo peculiare di saggezza con-tenuta nelle lingue indigene o nei dialetti locali.

Il primo esempio riguarda Italia. Nella valle del fiume Vajont tra ilVeneto e il Friulì fu costruita una centrale elettrica. Il 9 ottobre 1963 icittadini della piccola Longarone hanno sentito un boato - nel lago arti-ficiale costruito sul fiume smottò la montagna che in dialetto locale sichiama “Toc”. 260 milioni di metri cubi di terra a velocità di 90 kmprecipitò nel bacino della diga, un’onda alta due cento metri tracimò ladiga travolgendo la cittadina di Longarone. Due mila morti, quasi quat-trocento bambini.

Racconto questo tragico episodio che appartiene alla “storia delmiracolo industriale italiano” per ricordare un punto: nel dialetto loca-le il nome della montagna - Toc appunto - significa “friabile”, ciò che„si frammenta”. Gli esperti hanno ignorato l’informazione implicita neldialetto locale, la consideravano una “superstizione locale”, intraduci-bile nel linguaggio moderno della “natura matematizata”. Confrontatacon il linguaggio della scienza comunque ogni lingua naturale diventanecessariamente “indigena”, un mero dialetto locale. In essa infatti si

62

mescola l’universale ed il particolare, il locale ed il globale, la previ-sione empirica con il mito e la leggenda. Il sapere locale è strettamen-te vincolato al contesto irriproducibile e per questo è ignorato dagliesperti che rispettano solamente quelle informazioni che hanno ricava-to dalle loro indagini metodiche.

Ora gettare un ponte tra il sapere locale, vincolato al contesto, e ilsapere universale prodotto dal metodo scientifico è nell’epoca dellaglobalizzazione una condizione di sopravvivenza dell’umanità. Si pote-va evitare uno dei disastri più gravi dell’agricoltura europea – la muccapazza, la BSE - se si rispettava un tabù millenario – non far mangiarela carne agli erbivori! Ci è voluta l’autorità della scienza e la pressionedel mercato globale per convincere i contadini a trasgredire questo tabù- ad ignorare l’esperienza millenaria sedimentata in esso - e a far man-giare alle loro vacche la farina fatta dai corpi delle vacche morte. Il pre-dominio incontrastato della conoscenza scientifica sul sapere localecostituisce per la società industriale globale un rischio infinitamentesuperiore a quello che ci deriva dal fatto che seguiamo “passivamenteed acriticamente” i nostri tabù.

E un’altra storia, forse solamente una leggenda, chi può dirlo. Quando trecento anni fa Robert Boyd, il governatore della Nuova

Inghilterra, sbarcò in quella terra, è rimasto sbalordito di fronte ai pre-giudizi antiscientifici degli indigeni e cercò di illuminarli. “La devo-zione verso la natura impedisce il progresso dell’umanità ed è di osta-colo al governo degli esseri superiori su quegli inferiori” - disse loro.Ma il capo Smohalla gli rispose: “Volete che io mi metta ad arare laterra, ma come posso prendere in mano il coltello e sfregiare il volto dimia madre?”. Noi oggi prestiamo a questa vecchia storiella un’atten-zione del tutto nuova: la globalizzazione economica è anzitutto l’umi-liazione della Terra, la distruzione dei beni comuni assoluti che ospita- ad esempio l’acqua o l’aria.

Nonostante la parola “globalizzazione” sia oggi una parola tutto-fare ha uno zoccolo duro, inaggirabile, essenziale: indica la venuta diun’epoca in cui gli uomini sono condannati a diventare “custodi dellaTerra”, a negoziare, cioè, patti politici per garantirsi un’aria respirabi-le, una mobilità socialmente sostenibile, un clima compatibile con i

63

limiti biologici della sopravvivenza umana, una flessibilità compatibi-le con le basi antropologiche dell’esistenza.

In una delle prefazioni al suo celebre libro The Ages of Gaia: ABiography of Our Living Earth James Lovelock scrive:

“Il concetto di sviluppo sostenibile offre un futuro triste a coloro che prendonodalla Terra più di quello che essa stessa può loro offrire. La mia ipotesi Gaiavuole mettere in guardia: se noi continueremo a prendere troppo dalla Terracondanniamo le generazioni future a portare un fardello tremendo, quello, cioè,di dover diventare custodi della Terra. Immaginiamo di dipendere dalle contrat-tazioni tra le frazioni e i gruppi in cui l’umanità oggi si divide, non solo perquanto ci nutre e la nostra casa, ma anche per ogni respiro dell’aria fresca, chefinora ci spettava naturalmente come agli abitanti della Terra”.

La parola “globalizzazione” significa anzitutto questo nuovo“fardello” che gli uomini debbono prendere su di loro. Debbono esse-re “custodi della Terra”, dato che possono distruggere il pianetamediante le loro azioni: ad esempio gli eventi climatici estremi di cuitanto si discute - uragani, alluvioni, desertificazioni, inverni caldi -sono tutti effetti dei mutamenti climatici antropogeni che possonoessere attenuati solamente attraverso i patti politici tra gli Stati e leimprese, sanzionati dalle organizzazioni sopranazionali come WTO oONU. La crescita economica di questi ultimi due secoli mostra il suoprezzo – gli uomini devono subordinare a negoziazioni basate su argo-mentazioni e contrattazioni ciò che prima era semplicemente un “donodella Natura”, indipendente dalle decisioni umane: per garantire agliuomini sulla Terra le condizioni ambientali compatibili con le loropossibilità di adattamento, bisogna inventare e imporre politiche glo-bali.

Per la prima volta nella storia dell’umanità, il demos è chiamato adecidere sul bios, sulla propria costituzione biologica collettiva. Lapossibilità di “manipolare geneticamente gli esseri viventi nella lorototalità” obbliga il demos della Terra di darsi una Costituzione cheregolerà esplicitamente l’informazione genetica a partire dal concettodi diritto, ovvero a partire dalla “ragione giuridica”. E il verbo “regola-re” non indica qui una generica volontà politica di difendere la natura;si riferisce alla necessità di inserire nella Costituzione una formula

64

scientifica che enumera specificamene ad esempio i geni da protegge-re con decisioni politiche come “bene comune dell’umanità”.

Inventare i nuovi linguaggi per risolvere i dissidiI problemi che si presentano all’inizio del nuovo millennio non

sono risolvibili mediante il ricorso alla retorica della prima modernità:la neutralità dell’apparato razionale dello Stato-macchina, l’immaginedella sovranità popolare contenuta nell’allegoria del contratto sociale,l’individualismo irresponsabile della mano invisibile, la capacità didominare la natura in virtù della matematizzazione della natura, ilpotenziale razionalizzante delle scienze umane o la soggettività eman-cipata sono retoriche che oggi stano perdendo la loro secolare forzalegittimante.

Il punto è questo: la soluzione dei problemi imposti dalla globa-lizzazione presuppone la sovversione dei linguaggi moderni a partireappunto dall’informazione, dei progetti e dalle esperienze contenutenei dialetti locali, nelle lingue indigene, nei tabù e nelle leggende.Dobbiamo però evitare l’ingenua antimodernità. La speranza vienedalle lingue indigene ma non nel senso semplicistico di sostituire le unealle altre: esse non possono sostituirsi al linguaggio della modernità –possono contaminarlo, problematizzarlo, “mestizarlo”.

E ora la mia conclusione: la rivendicazione della nuova dignità dariconoscere alle lingue indigene ed alle identità linguistiche che è carat-teristica per questa epoca della globalizzazione risponde al bisogno –ancora inconsapevole - di sovvertire l’oppressiva egemonia della reto-rica della prima modernità attraverso e contaminazioni reciproche.

I conflitti che pervadono la società umana possono essere divisi in“disaccordi” e dissidi”. I disaccordi sono conflitti che possiamo risol-vere mediante un ulteriore aumento:

(i) della neutralità del giudizio,(ii) dell’oggettività del giudizio,(iii) dell’universalità del giudizio.Neutralità significa che nel giudicare gli altri non sono vincolato

dalla lealtà verso un gruppo particolare, ad esempio verso il clan fami-gliare o dei parenti; l’oggettività significa che nel formarmi il giudizio

65

faccio ricorso alle pratiche come misurazione, documentazione, com-parazione, critica delle fonti ecc; l’universalità significa invece che leregole che esigo che gli altri rispettino debbono valere per tutti , nonper un gruppo specifico.

Vi sono però conflitti più radicali che il filosofo francese Lyotard(1983) ha chiamato différend ovvero “dissidio”. Si tratta di un conflit-to in cui il dolore di una delle parti in causa non significa nulla nel lin-guaggio dell’altra; ciò che è rilevante per gli uni è “senza senso” per glialtri e ciò che per gli uni è un comportamento pertinente, per gli altri èimpertinente; il torto di una parte non può essere descritto come tortonel linguaggio dell’altra parte. Immaginiamo, dice Lyotard, che unindigeno di Guadalupi vuole da un tribunale francese il riconoscimen-to del torto che ha subito diventando “francese”. Per risolvere un dissi-dio, dobbiamo inventare un linguaggio nuovo, più inclusivo per rende-re reciprocamente comunicabili i torti ed i dolori delle parti in contrap-poste.

I dissidi sono dunque problemi che non possiamo risolvere senzarigenerare il nostro linguaggio. I problemi imposti dalla globalizzazio-ne non sono disaccordi ma dissidi – pensiamo alla manipolazione gene-tica al riscaldamento globale, alla desertificazione, ai costi della cre-scita ecc.

Per risolver e i dissidi dobbiamo inventare linguaggi capaci di ren-dere i confini tra gli insiders e outsiders più permeabili e fluidi. Ed èqui che la rivendicazione di una nuova dignità per le lingue indigene oper i dialetti in Europa può svolgere un ruolo essenziale. Le lingue indi-gene non sono dominate dalla retorica della prima modernità, in esse siesprime una mescolanza liberatoria del locale e del globale, in esse èimplicita un versione del mondo che trascende l’antropocentrismodella prima modernità. Solamente attraverso la contaminazione dei lin-guaggi della prima modernità con dialetti e le lingue indigene è possi-bile risolvere i dissidi ci la globalizzazione ha precipitato la civiltàindustriale.

66

Bibliografia

BOYD R., KUHN T., La metafora nella scienza, Feltrinelli, Milano 1983

ECO U., I limiti dell’interpretazione, Milano 1990, Bompiani

FOUCAULT M., Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Milano 1992

GALILEO GALILEI, Il Saggiatore, Feltrinelli, Milano 1965.

HIRSCHMANN Albert, I conflitti come pilastri della società democratica, in “Statoe Mercato”, 1994, n. 2, pp. 133 – 152

LOVELOCK James, Le nuove età di Gaia, Milano 1991, Bollati Boringhieri

LYOTARD J.F., La condizione postmoderna, Milano 1985, Feltrinelli

RORTY Richard, Filosofia come scienza, come metafora e come politica, in “Rivistadi estetica”, 1985, pp. 3-17

MANDEVILLE, Ricerca sulla natura della società, Laterza, Bari 1974

67

68

Hacia la Integración y el Desarrollo: la Educación instru-mento privilegiado para afianzar la identidad de grupos ori-ginarios. La experiencia paraguaya.

AíDA tORRES DE ROMERO (Comisión Nacional de Bilingüismo)

1. La Educación Multicultural: una opción por la equidad

La discusión sobre educación multicultural surge en el momentoen que ciertos aspectos de la variable representativa de la diversidad, seintroducen en el aula a reclamar la atención diferenciada. Cuando exis-te una presencia de grupos claramente diferenciados por razones decolor de la piel, lengua materna, valores y comportamientos religiosos,y, junto a todo ello y otros elementos, más diferencias socioeconómi-cas, se reconoce la necesidad de una educación “especial” para atendertales diferencias. Aparece una nueva forma de conceptualizar la discri-minación que se practica a través de la escuela: la discriminación porla diferencia cultural. La vieja escuela discrimina ahora (siempre lohizo) a quienes pertenecen a grupos culturales diferentes al dominantey hegemónico en ella, y ambas discriminaciones, lógicamente, caminanjuntas.

1.1 ¿Por qué una Educación Multicutural?La educación multicultural nace de una reflexión sobre la presen-

cia en las escuelas de una minoría que, además de necesitar un tratoadecuado por la “distancia” entre su cultura y la cultura presentada yrepresentada por la escuela, necesita una atención especial ante el fra-caso cuando accede a esta última. Se diseñan entonces programas quetratan de la situación de estos colectivos en las escuelas y que, en algu-nos casos, promueven un respeto hacia su cultura de origen y una inte-gración en la cultura “acogida” (o al menos eso es lo que idealmentese pretende). Esta es la idea genérica sobre la aparición de la educaciónmulticultural, aunque hoy existen diferentes formas de entender qué esuna educación multicultural.

69

El análisis de las diferentes maneras de entender la educación mul-ticultural se debe realizar a partir del concepto de cultura.

Detrás de cada modelo de educación multicultural se encuentrauna concepción de la cultura. No puede ser de otra manera. El hecho deque en muchos casos tal concepto no sea explícito nos obliga a “denun-ciarlo” y a reflexionar sobre la necesidad de tal conceptualización. Apartir de ellos construiremos, desde la antropología social y cultural,una versión del concepto de cultura y desde allí lo que se entiende poreducación multicultural.

1.2 Educar para igualar: la asimilación de culturasLo que se pretende desde este primer modelo es igualar las opor-

tunidades educativas para alumnos culturalmente diferentes. Tal posi-ción surgió ante el fracaso académico continuado de los alumnos per-tenecientes a los grupos con diferencias culturales y también comorechazo de la hipótesis del déficit genérico y cultural como causa dedicho fracaso. Los supuestos claves que subyacen en este primer enfo-que son:

• Los niños culturalmente diferentes a la mayoría experimentarándesventajas de aprendizaje en escuelas sometidas por los valoresdominantes.

• Para remediar esta situación, creada por los programas de educa-ción multicultural, se debe aumentar la compatibilidadescuela/hogar y,

• Mediante los programas que promueven este enfoque se aumenta-rá el éxito académico de los supuestos de esos programas de edu-cación compensatoria que niegan las diferencias culturales, asumeuna patología del ambiente familiar e intenta cambiar a los niños,su lengua e, incluso, las pautas de su padres sobre la crianza. El diseño de programas para educar al excepcional o al cultural-

mente diferente, como lo denominan Sleeter y Grant (1988), está basa-do en la teoría del capital humano, según la cual la educación es unaforma de inversión en la que el individuo adquiere destrezas y conoci-mientos que pueden convertirse en ingresos – en el sentido económico– cuando son usados para obtener un empleo. En la medida en que los

70

individuos desarrollen su capital humano a través de la educación,hallarán unas mejores condiciones de vida y mejor será la economía yla sociedad en general. Así pues, a nivel teórico, la pobreza y la discri-minación provienen, en parte, del hecho de que los grupos marginadosno poseen, por lo común, las mismas oportunidades para adquirir elconocimiento y las destrezas necesarios. Rechazadas las teorías quedefendían la deficiencia fisiológica, mental o lingüística de estos colec-tivos, surgieron otras que sustituyeron el término “deficiencia” por elde “diferencia”, basadas en la idea de una multiplicidad de modelos dedesarrollo psicológico, de aprendizaje y/o de estilo comunicativo.Dado que estos modelos son inconmensurables y sólo se entienden a laluz del contexto cultural del que dependen, el objetivo de la educaciónserá lograr la compatibilidad entre la dinámica del aula y la dinámicacultural de origen de los grupos de individuos “diferentes” al grupo cul-tural dominante mayoritario que sirve como referencia en la escuela.

En definitiva se trata de diseñar sistemas de compensación educa-tiva mediante los cuales el “diferente” puede lograr acceder con ciertarapidez a la competencia en la cultura dominante, siendo la escuela laque facilita el “tránsito” de una cultura a la otra.

1.3 El entendimiento cultural: el conocer la diferenciaEn este segundo enfoque se apuesta por una necesaria educación

acerca de las diferencias culturales y no de una educación de los lla-mados naturalmente diferentes. Se trata de enseñar a todos a valorar ladiferencia entre las culturas. Partiendo de este criterio se piensa, enton-ces que la escuela debería orientarse hacia el enriquecimiento culturalde todos los alumnos. La multiculturalidad sería un contenido domi-nante. Necesitan aprender acerca de las diferencias culturales, hacia lascuales las escuelas deben mostrar mayor sensibilidad, modificando suscurrículum, si fuese necesario, para reflejar de manera más precisa susintereses y peculiaridades. Hay que preparar a los estudiantes para quevivan armoniosamente en una sociedad multiétnica, y para ello habráque abordar en el aula las deferencias y similitudes de los grupos, conobjeto de que los alumnos comprendan esa pluralidad (Grecia, 1978;Séller, 1973; Winn; 1974; Salomón, 1988).

71

Educación multicultural significa: aprender acerca de los diversosgrupos culturales, ahondando en las diferencias culturales y, con elmismo énfasis en el reconocimiento e identificación de las similitudesculturales.

1.4 El pluralismo cultural: preservar y extender el pluralismoEsta manera de entender la educación multicultural surge de la no

aceptación por parte de las minorías de las prácticas de aculturación yasimilación da las que se encuentran sometidas en el contacto con lasculturas mayoritarias. Para estas minorías ni la asimilación cultural nila fusión cultural son aceptables como objetivos sociales últimos.Habría que mantener la diversidad, y por ello, la escuela debería pre-servar y extender el pluralismo cultural. Para que pueda crecer el plu-ralismo cultural han de reunirse cuatro condiciones; 1) existencia dediversidad cultural dentro de la sociedad; 2) integración Inter o Intragrupos; 3) los grupos que coexisten deben compartir aproximadamen-te las mismas oportunidades políticas, económicas y educativas, y 4) lasociedad debe valorar la diversidad cultural.

Hay que afrontar la cuestión de la diversidad cultural en la educa-ción. Una primera acción ha de ser reflejar dicha diversidad en la com-posición del profesorado. El profesional que trabaja en el campo edu-cativo debe ser consciente de que no todos los grupos culturales con-ceden el mismo valor a los componentes curriculares, ni a las necesi-dades, deseos y aspiraciones de esos grupos.

1.5 La educación Bicultural: la competencia en dos culturasPara este cuarto enfoque la educación multicultural debería pro-

ducir sujetos competentes en dos culturas diferentes. Tal posición esconsecuencia del rechazo por parte de los grupos minoritarios de laidea de la asimilación. Para estos grupos la cultura nativa debería man-tenerse y preservarse y la cultura dominante debería adquirirse comouna alternativa o segunda lengua. La educación bicultural debe condu-cir a la completa participación del grupo mayoritario o de los minori-tarios en las oportunidades socioeconómicas que ofrece el Estado, ytodo ello sin que los miembros de un grupo minoritario tengan que per-

72

der su identidad y preparándoles a la vez para que participen de llenoen la sociedad dominante (Burger, 1969).

De entre los aspectos importantes señalados, destacaríamos el dela lengua en el desarrollo de competencias culturales, pues se entiendecomo un elemento decisivo en la labor de “puente” entre dos culturas.(Brennan y Donoghue, 1974).

Este cuarto enfoque sería similar al paradigma denominado porBanks “lenguaje” y, en buena medida, a mucha de la literatura queSleeter y Grant llaman “estudios sobre grupos concretos”.

Según Sleeter y Grant (1988), tres tipos de teorías convergen en labase de este enfoque. En primer lugar, teorías sociolingüísticas, comola teoría del conflicto y la teoría de la resistencia. El comportamientosocial está organizado a partir de una base grupal más individual, y losgrupos luchan por el control de los recursos de poder, riqueza y presti-gio que existen en sociedad. Cuanto más escasos son estos recursos,más intensa es esa lucha y más importante deviene la pertenencia algrupo. Para la solidificación, extensión, y legitimación del control queejercen, los grupos dominantes estructuran instituciones sociales queoperan para mantener o incrementar dicho control, y es esta estructura-ción la que lleva al racismo, al sexismo y al clasismo institucional. Aprimera vista parece imposible un cambio social, pero el desarrollo dela teoría de la resistencia a la situación, sino que luchan y se oponen aella, siendo muy variadas las formas de lucha y oposición.

73

2. Estrategias educativas en Paraguay para el afianzamiento dela identidad de nuestros pueblos

2.1 La Educación Bilingüe Nacional

2.1.1 El contexto socio-demográfico de la Educación Bilingüe

PARAGUAY. Lengua predominante en el hogar. 2002

Algunas referencias lingüísticas más significativas gráficas.

74

75

2.1.2 La filosofía de la Educación BilingüeLa filosofía de la Educación Bilingüe que proponemos para nues-

tro país debe tener en cuenta las necesidades, cada vez más urgentes,de la población campesina y urbana popular, que por falta de un pro-grama de Educación Bilingüe eficiente y viable no ha podido accedera una mayor participación social, política y económica –aquí no con-templamos la situación idiomática de la población indígena que debeser analizada con otros parámetros por su volumen y complejidad.

La distribución funcional de ambas lenguas y las actitudes positi-vas hacia el guaraní son cuestiones que contribuyen a facilitar la crea-ción de un plan bilingüe cuya meta final sea lograr escolares bilingüescoordinados con firmes conocimientos de lectura y escritura en ambaslenguas; lo que significa el uso correcto de las mismas en sus tres nive-les: comprensión, habla, lectura y escritura, en base a la separación desus respectivas estructuras. Si la adquisición de estas destrezas vaacompañada de una reforma del currículum educativo en función aldesarrollo socioeconómico del país, entonces la participación del cam-pesino en la educación formal, no necesariamente significa migracióna los centros urbanos departamentales y a la capital. Es preciso enfati-zar que la adquisición del español por parte de la población rural, noaportará beneficios si no se contempla el hecho de que la solución delos problemas educativos debe estar racionalmente relacionada al plan-teamiento socioeconómico regional y nacional.

◊ ¿Por qué la Educación Bilingüe?

Fundamentación de lo obvio: las ventajas de la enseñanza bilingüe ennuestro país.

Pedagógicos: A principios de la segunda mitad del siglo XX, laUNESCO recomendaba a todos los gobiernos del mundo la utilizaciónde la lengua materna del niño en los procesos educativos, a efectos deque el ámbito escolar no se divorcie del ámbito familiar, por un lado,considerando la posibilidad de que con ello se pueden lograr resultadosmás positivos en términos de aprendizaje.

Diversos estudios han comprobado que la utilización de la lenguade mayor predominio del educando en el proceso de enseñanza, ofrece

76

inmensas posibilidades para la apropiación de contenidos conceptuales,actitudinales y de procedimiento.

La enseñanza que se daba en las instituciones de varias zonas denuestro país demostró la necesidad de los docentes de utilizar la lenguaGuaraní como medio para hacerse entender a sus alumnos/as, perosabido es que la utilización era solamente coyuntural y ni bien termi-nada la explicación, la clase se fijaba, aplicaba y evaluaba en la lenguaCastellana. Esta realidad ha sido comprendida y replanteada en lanueva propuesta de Educación Bilingüe.

La propuesta de Educación Bilingüe implementada en el marco dela Reforma Educativa, se realiza sobre la base del reconocimiento delas bondades del sistema bilingüe para alcanzar aprendizajes significa-tivos. Y de hecho, así lo demuestran las evaluaciones realizadas en elcontexto de la enseñanza bilingüe: la utilización de las dos lenguasmejora cualitativamente la calidad de los aprendizajes.

La importancia del tratamiento de las lenguas oficiales de nuestropaís en el sistema educativo se patentiza a partir de las consideraciones delas inmensas posibilidades de las mismas, y fundamentalmente porque:

1. Son transmisoras de contenidos culturales propios, para cuyadivulgación son las más pertinentes.

2. Una vez adquiridas las habilidades lingüísticas, tanto el Castellanocomo el Guaraní pueden ser utilizados, sin limitaciones, para laadquisición de todo tipo de saberes. Este aspecto está implícito enla consideración de estos dos idiomas en su carácter de lenguas deenseñanza. Finalmente, el hecho de que vehiculicen elementos culturales pro-

pios no impide al Guaraní o al Castellano la posibilidad de ser utiliza-dos para el acceso a otros universos culturales, teniendo como únicacondición la competencia lingüística que se posea en tales idiomas.

Psicolingüísticos: en nuestro país, debido a la coexistencia ances-tral del Castellano y del Guaraní, la mayoría de los niños y de las niñasse encuentran en exposición directa a ambas lenguas desde la primerainfancia y, en muchos casos, las adquieren simultáneamente.

Esta realidad debería ser aprovechada positivamente en la educa-ción.

77

La capacidad de comprender y de producir mensajes en dos códi-gos lingüísticos abre posibilidades inconmensurables en cuanto a lashabilidades cognitivas, al facilitar la apropiación de conceptos, amplia-ción del acervo cultural lingüístico y la adquisición de nuevos hábitosprocedimentales y actitudinales.

Al asumir la postura de ofrecer una educación en dos lenguas, lasmás utilizadas en el contexto nacional, se da una respuesta a la necesi-dad de atender la calidad de la oferta educativa, ya que se espera (y losdatos preliminares lo demuestran) un mejoramiento sostenible en losresultados de la propuesta curricular.

Por otra parte, se esperan productos similares en aquella franja dela población que no adquieren los dos códigos lingüísticos de manerasimilar a la mencionada anteriormente, es decir, aquel grupo en el quepredomina el uso de una sola lengua y en la otra tiene un manejo enmenor grado.

Esta población es la que adquiere y aprende la otra lengua (l2) enlas instituciones de enseñanza. Estas instituciones se constituyen enton-ces, en la instancia más adecuada para ofrecer espacios de exploraciónen las lenguas, brindar la suficiente motivación para utilizarlas en todoslos contextos y presentar situaciones para la reflexión sobre las posibi-lidades de diálogo de saberes y de la cultura misma a partir de la reali-dad nacional.

La responsabilidad de las instituciones educativas es mayor cuan-do se tiene conciencia de que en el proceso de adquisición de la lenguainteractúan una serie de factores que facilitan o limitan la asimilaciónde habilidades lingüísticas. Estos factores, en su mayor parte, nocorresponden a la lengua misma sino que están asociados a otros ele-mentos de entorno social y cultural. Corresponde, por tanto, a las insti-tuciones de enseñanza, y a las personas involucradas en las mismas,ofrecer la suficiente motivación para la utilización de las lenguas, crearuna actitud positiva hacia los hablantes de la lengua aprendida y pro-porcionar espacios para la adquisición de saberes adquiridos a partir delas dos lenguas.

Sociolingüísticos: Los datos oficiales sobre la distribución del usode las lenguas en nuestro país indican que la población paraguaya uti-

78

liza el 80% las lenguas castellana y guaraní, solo la lengua castellana7%, solo la lengua guaraní 37% y el 4% el uso de otras lenguas.

Sobre la base de estos datos se ha propuesto la educación bilingüeen el marco de la Reforma Educativa, atendiendo las necesidades demejorar y aumentar la calidad de la formación de nuestros/as niños/as.Si bien es cierto que la lengua castellana fue lengua oficial por muchotiempo, y el guaraní lengua nacional por la posición social que ocupa-ba, ésta refleja y se relaciona con la historia de un pueblo que la habla.

El nuevo estatus de la lengua guaraní, como lengua oficial, haimpulsado fuertemente su desarrollo en todas las instancias posibles,razón suficiente para comprender la necesidad de conservarla y apren-derla con el fin de utilizarla en todos los espacios comunicativos, lo queentraña el aspecto de su adecuación a las necesidades del desarrollo dela vida moderna en cuanto a adelantos tecnológicos y científicos.

Esto es imprescindible para ir acrecentando el estudio del guaraníya que es una lengua viva.

Legales: la puesta en marcha de una educación bilingüe tiene subase en nuestra Ley Fundamental. La Constitución Nacional, sancio-nada en 1992, establece en el artículo 77- De la enseñanza de la lenguamaterna.

“La enseñanza de los comienzos del proceso escolar se realizaráen la lengua oficial materna del educando. Se instruirá, asimismo, en elconocimiento y en el empleo de ambos idiomas oficiales de laRepública. En el caso de las minorías étnicas cuya lengua materna nosea el guaraní, se podrá elegir uno de los dos idiomas oficiales”.

Además el artículo 140 que habla de los idiomas, dice:“El Paraguay es un país pluricultural y bilingüe; son idiomas ofi-

ciales el castellano y el guaraní. La Ley establecerá las modalidades deutilización de uno y otro. Las lenguas indígenas, así como las de otrasminorías, forman parte del patrimonio cultural de la Nación”.

Las disposiciones mencionadas constituyen los sustentos legalespara la aplicación de la educación bilingüe en el curriculum correspon-diente a la Reforma Educativa.

La reglamentación de estos artículos constitucionales se realizaa través de la Ley 28/92 que establece que las dos lenguas oficiales,

79

castellano-guaraní, deberían ser utilizadas en todos los niveles del sis-tema educativo paraguayo: escolar básico, medio, terciario y universi-tario.

De ahí que la Ley General de Educación en el artículo 31, apo-yándose en estos artículos, dice que la enseñanza se realizará en la len-gua oficial materna del educando desde los comienzos del procesoescolar. La otra lengua oficial se enseñará desde el inicio de la educa-ción escolar con el tratamiento didáctico propio de una segunda lengua.

◊ El modelo de Educación Bilingüe adoptadoLa educación bilingüe implementada en nuestro país responde a

un modelo denominado “De Mantenimiento”, lo que implica que el ini-cio del proceso escolar se realiza con un gran porcentaje de utilizaciónde la lengua materna (sea Castellano y Guaraní) y gradualmente, se vaincorporando la segunda lengua (ya sea el Guaraní o el Castellano), sinperderse la lengua materna. Esto implica que en el tercer ciclo, cuandoel tratamiento diferenciado de las lenguas en las áreas programáticasdel primer y segundo ciclo confluyen en una modalidad única, debeconsiderarse que tanto el Castellano como el Guaraní deben tener unacontinuidad en su carácter de lenguas enseñadas y de enseñanza. Debeconsiderarse, además el equilibrio que debe lograrse en este ciclo entrealumnos/as que han utilizado con preferencia el Guaraní como lenguadidáctica y los que han utilizado el Castellano en el mismo carácter, enel segundo ciclo, específicamente, a los alumnos/as que correspondena la modalidad castellano hablantes se les deberán ofrecer espacios decontinuidad de uso de su lengua como medio válido de expresión entodos los niveles.

Cabe recordar que este diseño adoptado se ajusta al perfil de sali-da de los alumnos/as de la Educación Escolar Básica. En el mismo sehace clara mención del tipo de paraguayo que se desea formar, inclui-das sus habilidades lingüísticas y comunicativas en ambas lenguas.

Considerando las competencias comunicativas en guaraní, adqui-ridas por los alumnos y las alumnas que en 1999 ingresarán al séptimogrado, deberá utilizarse esta lengua en su carácter de lengua didáctica,en un marco de flexibilidad que permita el avance gradual de la aplica-

80

ción del diseño, en tanto se tomen las precauciones necesarias paraoptimizar los recursos disponibles para lograr la excelencia y así ase-gurar el éxito en la Educación Bilingüe Paraguaya, única en el mundopor sus características peculiares.

Los indicadores sociales observados en el Paraguay desde haceuna década, han demostrado cierto avance en el ámbito social, sinembargo persisten diferencias tanto cualitativas como cuantitativas enla cobertura de los servicios sociales y en la satisfacción de necesida-des básicas de los pobladores.

2.2 La Educación Indígena como Programa de la EducaciónEscolar BásicaSituación sociodemográfica de la población indígenaSegún el Censo Nacional indígena 2002, la población asciende a

87.099 personas, que representan el 1,7 de la población total del país.En consideración a la población arrojada por el Censo Indígena, se

podría pensar que en los últimos 21 años de la población indígena hatenido mayor crecimiento (3,9 %) que la población nacional que crecióun (2,7 %) anual acumulativo (1982-2002).

Un poco más de la mitad del total de la población indígena resideen la región oriental (44.135) y el resto (42.964) en la región occiden-tal. Esta nueva realidad en cuanto a la distribución espacial por regio-nes, es quizás uno de los hallazgos más notables del último Censo. Laregión occidental históricamente concentró la mayor proporción depoblación indígena. En el año 2002 la población indígena en la regiónchaqueña llega a 49,3%.

La población indígena se clasificó en 20 grupos étnicos, de loscuales tiene mayor volumen poblacional, los Ava Guarani, PaiTavytera, Mbya Guarani, Nivacle, Enlhet norte y Enxet sur, y de menorpoblación las sgtes. etnias: Guana, Manjui y Tomáraho.

Los indígenas del Paraguay están predominantemente en las áreasrurales (91,5%). Sin embargo, cabe destacar que 5 etnias tienen unapresencia significativa en áreas urbanas: Maká (77,4%), Maskoy(32,7%), Guarani Occidental (29,4 %), Nivacle (25,2 %) y EnlhetNorte (24,4 %). Esta distribución denotaría un desplazamiento hacia

81

los centros urbanos, y de mantenerse las condiciones actuales, proba-blemente podría intensificarse en los próximos años.

En cuanto a la distribución de la población indígena por departa-mento, se destacan en la región occidental: Boquerón (22,9 %) y Pdte.Hayes (22,8 %), y en la región oriental: Amambay (12,1 %), Canindeyú(11,1 %) y Caaguazú (8, %). En el otro extremo, Asunción la capital delpaís, alberga el 0,1 % seguido por el departamento Central con 1,2 %del total.

En cuanto a la distribución por sexo, existe un ligero predominiodel masculino (51,7 % varones vs 48,7 % mujeres). Esta diferencia seacentúa en algunas etnias.

EDUCACIÓN ESCOLAREn cuanto al promedio de años de estudio de la población de 10

años y más, existe un contraste pronunciado entre la población nacio-nal (7,0 años) en su conjunto y la indígena (2,2 años). La poblaciónindígena urbana supera levemente a sus pares que habitan en áreasrurales (3,2 años vs 2,1 años). Los Guarani occidental presentan el pro-medio más elevado, mientras que los Manjui verifican el promedio másbajo (5,0 años vs 0,7 años respectivamente).

Otro indicador que refleja con claridad la situación de desventaja encuanto a la educación formal de la población indígena es la tasa de anal-fabetismo. A nivel nacional, esta afecta al 7,1% de la población de 15años y más, en tanto el 51% de los indígenas presentan esa problemáti-ca. Nuevamente el analfabetismo tiene menor incidencia en la poblaciónindígena urbana, en relación a la que reside en área rural (29,2% vs53,3% respectivamente). Los Pai Tavytera ostentan el nivel más elevadode analfabetismo (82,2%) mientras que los Guarani Occidental seencuentran en una situación mucho más favorable (12, 2%).

LENGUAUn elemento vital de la cultura indígena que permanece viva cons-

tituye la lengua. El 76,5% de los indígenas hablan la lengua de su res-pectiva etnia. Contrariamente a lo esperado, los indígenas urbanos con-servan en mayor proporción la lengua de su etnia. Los Manjui y los

82

Tomárahos tienen la totalidad de su población utilizando la lengua desu etnia. Por su parte los Maskoy y los Guana presentan el menor por-centaje de mantenimiento de su propia lengua.

APLICACIÓN DE LA LENGUA DENTRO DE LA ESCUELALas etnias del País cuentan con grafía para la escritura de su len-

gua, esto se logró, gracias al trabajo realizado por especialistas que ensu mayoría pertenecen a organizaciones religiosas, además, algunosoptaron por la grafía del Guarani Paraguayo o grafía utilizado por elmismo grupo étnico que vive en otro País. Los materiales didácticos enlengua materna son elaborados en forma participativa, algunos especí-ficos para la lectoescritura para los primeros grados otros, traducciónde los hechos bíblicos, textos míticos, son utilizados por los docentescomo material de apoyo para la lectura dentro del proceso escolar. LaEscuela debe ser un espacio donde el niño afirme su identidad, esteplanteamiento lo lleva a los que trabajan con niños/as en muchos casospara revitalizar, preservar y en otro caso recuperar la lengua.

La estrategia de la oralidad dentro de la escuela y en la comunidadpara transmitir conocimientos se torna dificultosa cuando el maestro noes de la misma etnia, es decir, sin manejo de la lengua materna de losalumnos/as.

Situación sociolingüísticaA través de entrevistas a docentes, líderes, padres de familia, indi-

genistas, visitas realizadas a las escuelas, participación en seminariosrelacionados a situación indígena en el Paraguay, se pudo obtener algu-nos datos sociolingüísticos de las distintas etnias que por el contacto yla necesidad de comunicarse con la sociedad externa aprenden unasegunda lengua. La lengua materna es funcional en el ámbito familiary comunitario, en algunos casos es más usual por los adultos y menospor la nueva generación.

Considerando esta situación se detallan de la siguiente manera:1. Las etnias pertenecientes a la familia lingüística Guarani

Ava, Mbya, Pai, Ache, Guarani Occidental, Guarani Ñandéva,adquieren como segunda lengua el guarani paraguayo para comu-

83

nicarse con la sociedad externa.2. Las etnias pertenecientes a la familia lingüística Maskoy

Las etnias asentadas en el bajo Chaco como ser: Enlhet Norte,Enxet Sur, Sanapana, Angaite, Maskoy, Guana, la lengua de comu-nicación con la sociedad externa es el Guarani paraguayo, los queviven en el Chaco Central en el área de las colonias menonitas,aprenden el castellano, y algunos indígenas aprendieron el dialec-to menonita para comunicarse con los mismos.

3. Las etnias pertenecientes a la familia lingüística MatacoNivacle, Maká, Manjui adquieren como segunda lengua el caste-llano para comunicarse con la sociedad externa.

4. Las etnias pertenecientes a la familia lingüística ZamucoAyoreo, Tomaraho, Yvytoso la lengua adquirida para la comunica-ción con la sociedad nacional es el castellano.

5. La etnia perteneciente a la familia lingüística GuaicuruToba Qom: la lengua de comunicación con la sociedad no indíge-na es el Guarani paraguayo, en menor proporción utilizan el cas-tellano.Dentro de este contexto, el uso de la segunda lengua como medio

de comunicación se encuentran en categorías de bilingüe incipiente,subordinado y coordinado.

DEPARTAMENTO DE EDUCACIÓN INDÍGENASe confirmó a mediados del 2004, considerando que el MEC nece-

sita de un equipo técnico de gestión a nivel central con el fin de traba-jar referente a situaciones administrativas y pedagógicas en relación aeducación indígena. Se instaló dentro de la DGEI y EB, está confor-mado por técnicos con trayectoria y experiencia en educación indígenacuyas funciones son:

1. Acompañar el proceso de programas ejecutados que cuentan elMEC para pueblos indígenas

2. Asesorar administrativa y pedagógicamente a la DGEI y EB quecuenta con 350 escuelas indígenas con aperturaPara asegurar la enseñanza de la lengua indígena en las escuelas se

realizó la siguiente propuesta y actividad:

84

• Elaboración del anteproyecto de procedimiento de selección delpersonal docente para las escuelas indígenas.El documento fue presentado al equipo técnico de RRHH y a la

Comisión Nacional de Selección para su revisión, análisis y ajuste paraser incorporado como anexo o capítulo dentro del Manual de Seleccióndel Educador Profesional.

• Realización de talleres de capacitación sobre relaciones intercul-turalesInicio del primer taller de capacitación sobre relaciones intercul-turales dirigido a docentes y directores de escuelas indígenas delDpto. Central Objetivo general

◊ Afianzar conocimientos sobre Bases Pedagógicas InterculturalesBilingüe a directores y docentes de instituciones educativas indí-genas de E.E.B y Nivel Medio

Objetivos específicos◊ Ampliar conocimientos sobre Interculturalidad ◊ Fortalecer la enseñanza aprendizaje con Enfoque Intercultural

Bilingüe◊ Fomentar relaciones interculturales en la práctica pedagógica.

85

2.3 El programa Escuela Viva Hekokatúva en las EscuelasIndígenas

Mapa Paraguay Multicultural

86

2.3.2 Población Indígena del Paraguay

POBLACIÓN INDÍGENA DEL PARAGUAY: 86.540 PERSONAS

FAMILIAS LINGÜÍSTICAS / ETNIAS

1. GUARANI:1.1. Guaraní Occidental1.2. Aché1.3. Avá Guaraní1.4. Mbyá1.5. Pá? Tavyterã1.6. Guaraní Ñandéva

2. LENGUA MASKOY:2.1. Toba Maskoy2.2. Lengua Enlhet Norte2.3. Lengua Enxet Sur2.4. Sanapaná2.5. Toba2.6. Angaité2.7. Guaná

3. MATACO PARAGUAYO:3.1. Nivaclé 3.2. Maká3.3. Manjui

4. ZAMUCO:4.1. Ayoreo 4.2. Chamacoco Ybytoso4.3. Chamacoco Tomárãho

5. GUAICURU:5.1. Toba Qom

87

2.3.3 El deseo de los pueblos Indígenas de hoy:

◊ Educarse en su propia lengua.◊ Aprender/comunicarse en la lengua oficial.◊ Recuperar/reforzar los conocimientos de la propia cultura.◊ Participar en los planes educativos.◊ Tener educadores indígenas preparados.

“ESTE RECLAMO NO SE AGOTA EN LO CUANTITATIVO (másescuelas) SINO QUE CUESTIONA EL CONTENIDO DE ESAEDUCACIÓN ESCOLARIZADA QUE LE OFRECEMOS Y LOSFINES QUE PERSIGUE LA MISMA”

2.3.4 Docentes e instituciones indígenas por sexo

Sexo Frecuencia Porcentaje

Hombres 472 63

Mujeres 276 37

Total 748 100

Total Titulados No titulados

748 208 540

Fuente: MEC. DGPEC. SIEC, Base de datos 2004

2.3.5 Objetivo General del Programa

Contar con una Educación Escolar Intercultural y Bilingüe cons-truida de manera participativa con las Comunidades Indígenas queasegure el Derecho a la Educación y el Derecho de los PueblosIndígenas del Paraguay al mantenimiento y desarrollo de sus culturasparticulares originarias dentro de un marco de reconocimiento y res-peto de la sociedad nacional hacia las identidades indígenas presentes

88

3. A modo de conclusiones

◊ CERTEZAS PARA LA REFLEXIÓN

PRIMERA CERTEZA: ECUACIÓN: Identidad Cultural –Educación – Desarrollo e Integración.

SEGUNDA CERTEZA: MERCOSUR tiene a más de atender desafí-os de la Región, atender desafíos de las diversidades nacionales

TERCERA CERTEZA: Formación de recursos humanos para unnuevo paradigma.

CUARTA CERTEZA: Construcción de una lógica de la integraciónen el MERCOSUR desde el afianzamiento de la identidad de sus pue-blos originarios.

QUINTA CERTEZA: Una Educación de calidad para los pueblosindígenas es necesaria y fundamental para afianzar la convenienciademocrática y la real inserción económica y social de grupos minori-tarios en la sociedad.

SEXTA CERTEZA: La Educación de los pueblos indígenas es unatarea fundamental para fortalecer la democracia, incrementar laigualdad y la equidad social, la competitividad, el desarrollo económi-co y la integración.

89

90

Multiculturalismo en el Brasil

MARCIO PEREIRA gOMES (Ministerio de Justicia de Brasil)32

I. ResumenEl ponente explica que en su país existen 225 pueblos indígenas

diferenciados. Desde 1750 de Madrid, se volvieron “portugueses”.Haciendo un poco de historia, desde el año 1600 aproximadamente, losjesuitas formaron los pueblos, congregando indígenas los que, en losúltimos cuatro siglos fueron dispersándose. Durante el siglo XIX,desde el Amazonas hasta Rio Grande do Sul, se les dio muerte o se losdispersó y recién a inicios del XX, en 1910, fue establecido el “Serviciode protección al indígena”, que los antropólogos ayudaron a crearcomo conciencia nacional. Este servicio funcionó durante 30 añoshasta la dictadura militar.

Durante el tiempo que duró la política de protección del estado,prendió la conciencia de que los indígenas como parte de la nacióndebían ser tratados como ciudadanos. Mucha gente creía que estabanen vías de extinción, ya que la curva demográfica así lo indicaba peroa partir de los años 50 y 60, la demografía tuvo un impulso debido a labaja tasa de mortalidad materno-infantil, lo cual fue un hecho sorpren-dente para los antropólogos.

Así, en 1955 la UNESCO registró que se habían extinguido entre80 y 100.000 indígenas pero resulta interesante comprobar que se recu-peraron muchos de esos pueblos y ahora empiezan a “crecer” comocolectividad, con una tasa de 4,5 % anual. Las tasas de salubridad hanmejorado ostensiblemente. Actualmente existen 180 lenguas diferen-ciadas aunque hay dudas para diferenciar si todas son lenguas o algu-nas son dialectos. Existen cinco troncos lingüísticos:

• Tupi (mayá, tupi-guaraní, tupi mayá o tupi kavalú)• Tupi arawak• Tupi caribik

91

––––––––––––––––––––––––32 L’intervento di Marcio Pereira Gomes è disponibile nei due differenti estratti qui riportati.

• Tupi nok arawak• Otro indefinido

También existen casos dramáticos de lenguas que están muriendo,casi imposible de recuperarlas. Por ejemplo, en 1980 se encontrarondos hombres que, al parecer, eran hermanos que hablaban una lenguano identificada ya entre las existentes.

La lengua guaraní se cree que es la más hablada en Brasil, puesexisten casi 45.000 hablantes. En segundo lugar, el tikuna, que se hablacon los de Colombia y Perú. Se sabe también que los indígenas de laparte Atlántica, casi todos han perdido su lengua original. En MinasGerais se mantuvieron dos lenguas. En Brasil existen muchas dificul-tades para encarar una educación bilingüe, pero lo hace el Ministerio deEducación, que tiene incorporados un buen porcentaje de maestrosindígenas en su sistema educativo. Baste saber que el 0,27% de lapoblación brasileña es indígena.

II. ResumenEn Brasil se tienen 225 pueblos indígenas diferenciados desde el

tratado de Madrid de 1750 se volvió portugués, en el año 1600 losjesuitas junto con los indígenas formaron pueblos, en los últimos cua-tro siglos los pueblos en el Brasil fueron dispersados, durante el impe-rio brasileiro en el siglo XIX, el Amazonas, Río Grande do Sur, se diomuerte, se dispersó a los indígenas. A principios del siglo XIX se creóel servicio de protección al indígena. Este servicio funcionó hasta ladictadura militar durante 30 años más o menos. Los antropólogos ayu-daron a crear la conciencia indigenista desde 1907.

Esto mismo se está haciendo en Perú, en Bolivia, porque los lati-noamericanos trabajan actualmente con la recuperación de su identi-dad, premio la idea de que los indígenas forman parte de la nación y selos debe tratar como tal. Se creía en esos años de que los pueblos indí-genas estaban en un proceso de extinción. Las curvas demográficasindicaba esto. Se pensaba así porque a partir de los años 50 y 60 elmundo empezó a cambiar, los indígenas comenzaron a crecer demo-gráficamente, disminuyó la tasa de mortalidad infantil, hecho sorpren-dente para los antropólogos. En 1955 el antropólogo brasileño Darcid

92

da cuenta a la UNESCO que 70 pueblos indígenas en brasil estabandesapareciendo. Hoy día muchos de estos pueblos se recuperaron yempiezan a crecer para alegría de todos. En Brasil ahora la tasa anualde indígenas crece entre el 4,5%. Las reglas de la maternidad tambiéncambió entre los indígenas es menor. La tasa de gravidez es menor, envez de 4 años se reduce a 2, hecho que facilita este crecimiento demo-gráfico. Mortandad infantil disminuye anualmente.

Crecimiento de los pueblos asegura continuidad de las lenguas.Hay 170 ó 180 lenguas diferenciadas. Hay dudas para certificar si sontodas lenguas o hay dialectos entre algunas de ellas. Hay una cultura enel Norte que son 5 ó 6 pueblos distintos que hablan una sola lengua,esto es lo que crea entonces esa confusión. Se habla de que hay 5 o 6troncos lingüísticos, hay casos dramáticos de lenguas que estánmuriendo casi imposibles de recuperar. Daba un ejemplo de que en1980 se encontraron dos hombres, parecería ser de que son hermanos,que hablan una lengua propia no identificada por las lenguas existen-tes. La lengua más hablada en el Brasil en número es el Guaraní.45.000 hablantes se cree que existe. En segundo lugar el Xicuna y sehabla con los Xicuna en Colombia y Perú. Los indígenas de la parteatlántica casi todos perdieron su lengua original. En Minas Gerais doslenguas se mantuvieron, vuelve a recalcar que hay 225 pueblos y de170 a 180 lenguas.

Hay muchas dificultades para encarar una educación bilingüe. Secuenta con 9.100 profesores de los cuales 88% son indígenas.Educación Indígena, Educación Bilingüe en el Brasil es parte del tra-bajo del Ministerio de Educación. Un último dato que pude rescatar esque 0,17% de la población son indígenas en el Brasil en comparacióncon su población total.

93

94

Presencia indígena en Uruguay

MARíA DEL CARMEN CURBELO SALVO (Universidad  de  laRepública, Uruguay)

Desde el principioEl actual territorio uruguayo comparte con la región que abarca la

cuenca del Río de la Plata buena parte de las características culturalesde los grupos humanos que en él habitaron y los procesos de desarro-llo cultural ocurridos desde la prehistoria hasta la actualidad (Curbeloy Bracco, 2005; 2006; Morner, 1972; Poenitz y Snihur, 1999).

El período prehistórico (definido aquí como el anterior a la llega-da de los grupos occidentales) abarca desde el 12.000 a.P. hasta 1516d.C. Predominaron los grupos de cazadores recolectores, nómadas, conunos pocos horticultores semisedentarios hacia el 2000 a.P.

En el área del Uruguay Medio está fechado el poblamiento mástemprano para este territorio, ca. 12000 a.P. (Guidón, 1978) protagoni-zado por grupos de cazadores recolectores nómadas, con tecnologíalítica y explotación de amplios territorios que incluyen las áreas coste-ras fluviales y las planicies del interior. A lo largo de la prehistoria, laocupación del área y particularmente de las zonas ribereñas, muestra, apartir de los contextos arqueológicos, la presencia de diversos gruposhumanos, portadores de distintos tipos de complejidad cultural(Cabrera, 1994; Caggiano, 1984; Serrano, 1972).

A los cazadores recolectores nómadas con tecnología lítica inicia-les, se suman cazadores recolectores, pescadores nómadas con tecno-logía lítica y cerámica que estarían ocupando el área ca. 3200 a.P.(Cabrera, 1994; Serrano, 1972). Poseían un importante acervo tecnoló-gico en materia de armas arrojadizas (puntas de proyectil líticas y dehueso, propulsores, arpones y bolas) morteros, agujas, al que se sumanornamentos corporales (orejeras, colgantes y collares) (Serrano,1972:17). Producción cerámica representada por recipientes de cuerposimple, sin asas y cuerpo globular. La decoración, cuando está presen-te, es incisa formada por guardas de dos o tres trazos paralelos rectilí-

95

neos o quebrados, apareciendo a veces combinados con punteado a pre-sión. Está asociada a la presencia de artefactos líticos de carácter sim-bólico: piezas tabulares de arenisca cuyas caras están totalmente escul-pidas con dibujos geométricos (piedras grabadas) (Austral, 1977;Serrano, 1972).

Posteriormente, se identifica la presencia de grupos horticultorespescadores, semisedentarios y ocupantes principalmente del Delta delRío Negro. Poseen una importante industria lítica y su cerámica estácaracterizada en el ámbito estilístico, por su decoración con apliqueszoomorfos y el espesor de sus paredes (“cerámicas gruesas”) dandolugar a lo que se ha dado en denominar “ribereños plásticos” siendo susportadores el grupo reconocido en época histórica como Chaná-timbú(Serrano, 1972).

Por último, unos trescientos años antes de la llegada de los euro-peos, desde el Norte y utilizando los ríos Paraná y Uruguay para tras-ladarse, arriban los últimos nuevos ocupantes prehistóricos de estaregión. Se trata de grupos con características culturales de tipo selváti-co, guaraní parlantes, agricultores, semisedentarios. Los enclavesdemográficamente más importantes se encuentran en el Delta delParaná al Sur y en territorio de la actual Provincia de Misiones(Argentina) y Paraguay al Norte, pero se reconocen pequeños enclavesentre estos puntos a lo largo de los dos ríos mencionados (Cabrera,1994; Serrano, 1972). Presentan un grado de complejidad cultural dife-rente a las otras poblaciones con las que entran en más o menos con-tacto y sobre algunas de las cuales influyen. Esta observación puede serreconocida en los grupos horticultores, a partir de la cerámica (porejemplo los Chaná). Con tecnología lítica poco desarrollada, tienen unaproducción cerámica característica y bien identificada tanto por sumanufactura como por su decoración y funcionalidad. Sus plantacionesrealizadas con técnica de roza, incluían maíz y algodón además deotros cultígenos americanos (calabaza, poroto, ají, maní). Poseían orga-nización política y religiosa complejas, patrón de asentamiento en gru-pos de casas comunales asociados a las áreas de cultivo y densidaddemográfica más importante que los otros grupos que ocupaban el área(Cabrera, 1994; Métraux, 1928).

96

Esta realidad poblacional aquí definida para el territorio uruguayo seextiende a la región de llanuras con vegetación de gramíneas vinculadastambién a los territorios argentino y brasileño actuales (Cabrera yWillink, 1973) (Fig. 1). Conformamos parte de una extensa región quecomparte características geomorfológicas y ambientales que permitieronalta movilidad de individuos y grupos con características culturales simi-lares al interior de una región de fronteras más vastas y menos cerradasque las de los estados nación, situación que se incrementó después de laintroducción del ganado en la región, especialmente el caballar. El mane-jo del caballo como transporte dio a los grupos nómadas sobre todo, unamovilidad e interactuación con otros grupos que no habían tenido antes(Bracco, 2004; Cabrera, 2001; Pi Hugarte, 1969; 1993).

Cuando llegan los europeos a la región que ocupa hoy Uruguay seencuentran con un panorama poblacional que puede resumirse de lasiguiente forma:

– Cazadores recolectores nómadas con industria lítica.– Constructores de cerritos a partir del 3500 a.P., cazadores recolec-

tores pescadores y horticultores, semisedentarios, industria lítica,cerámica y ósea. En sus momentos finales (siglos XVI y XVII)ocupaban el área de humedales en el este del territorio, extendién-dose hacia territorio brasileño por el noreste.

– Cazadores recolectores nómadas, industria lítica y cerámica.– Horticultores, cazadores, recolectores, pescadores, semisedenta-

rios, delta del Río Negro: lengua Chaná.– Agricultores de roza, asentamientos en aldeas, estructura política

y religiosa complejas, lengua: guaraní.

Los que estaban y los que vinieronLa observación del europeo produce descripciones de los grupos

indígenas, crónicas asombradas y etnocéntricas que nos han dejado,tamizadas a partir de la lente occidental, descripciones de costumbres,aspecto físico, ubicación temporaria y han recopilado en algunos casosparte del léxico lingüístico de algunos grupos nómadas (Pi Hugarte,1969; 1993; Vidart, 1968). Por su parte, la lengua guaraní se generali-zó a través de los lenguaraces y baqueanos provenientes de los grupos

97

guaraní parlantes sedentarios y en mejor posición de comunicación conlos recién llegados (Meliá, 1986).

Entre los datos generados en este período de interactuación entrelos grupos occidentales y aborígenes quedaron los nombres de las dife-rentes etnias que poblaban el territorio. Nombres que se correspondíancon los que se autodenominaban los mismos grupos o que eran dadospor los guaraní parlantes como lenguaraces frente a los europeos. Lanomenclatura de los grupos fue efectiva durante su interactuación conlos europeos en la medida que si bien en el caso de los grupos nóma-das cazadores recolectores, su cultura material arqueológica no losdiferencia entre sí, así como tampoco de sus antepasados más antiguos.Muchos rasgos culturales, actualmente poco conocidos o desconocidosdel todo, eran los que servían para el reconocimiento de los grupos porel “otro”, así como su propia reproducción social los hacía diferentesde los demás.

Uno de los errores más serios para el conocimiento de nuestraprehistoria, fue la mala lectura de las fuentes hacia fines del siglo XIX.La misma, teñida del etnocentrismo evolucionista de la época y frentea un conocimiento del pasado prehistórico incipiente, mezcló el cono-cimiento de los grupos en el período posterior a la conquista con la pro-fundidad temporal del período prehistórico. Asimismo, la falta de críti-ca y de conocimiento de los comportamientos culturales, sobre todo delos cazadores recolectores confundió ubicaciones temporarias narradasen las crónicas, con asentamientos permanentes, adjudicándoles terri-torios estáticos y desconociendo que algunos de esos grupos habían lle-gado tardíamente a nuestro territorio, incluso posteriormente a la llega-da de los europeos, como es el caso de los denominados Charrúas,cuyos territorios originales se encontraban entre el Uruguay y el Paraná(Cabrera, 1988).

La colonización tardía de la región platense en relación con elresto de América, interactuó con los grupos indígenas en actividadespuntuales: comercio de intercambio, soldados en las guerras revolucio-narias por ejemplo (Bracco, 2004). La sociedad occidental avanzó pau-latinamente apropiándose de la tierra y forzando a los grupos indígenasa perder sus territorios naturales de subsistencia. Los grupos indígenas,

98

fueron marginales a la sociedad occidentalizada lo cual terminó con susprocesos de reproducción social, desapareciendo aisladamente subsu-midos en las clases más bajas de la sociedad rural en forma total haciael último tercio del siglo XIX.

Miradas cruzadasComo parte de los procesos de colonización, el actual territorio

uruguayo formó parte del amplio espacio ocupado por la MisionesJesuíticas, lo cual delineó el paisaje cultural al norte del Río Negro.Durante el período postjesuítico y hasta la década de 1830 se asentaronen él miles de indígenas que huían de la región de los pueblos misio-neros debido a los conflictos bélicos instalados en ella (Poenitz, 1996;Poenitz, 1999; Poenitz y Poenitz, 1993).

Hacia 1670, el área al Norte del Río Negro se incorporó al territo-rio de las Misiones Jesuíticas como parte de la estancia del pueblo deYapeyú. Esto ocurrió en constante enfrentamiento bélico contra losgrupos de cazadores recolectores, naturales ocupantes del territorio. Elespacio fue utilizado entonces como pasaje transitorio durante las arre-adas de ganado, o de ocupación permanente, en el caso de los puestosy capillas instaladas para el cuidado del ganado y la realización de losrodeos (Poenitz y Poenitz, 1993) (Fig. 2). Esta ocupación estuvo con-formada principalmente, por indígenas aculturados pertenecientes a lasMisiones: de origen selvático (Guaraníes) y pampeano (Charrúas,Guenoas, Yaros), con tecnologías “de contacto” reconocidas a nivel dela cultura material: en la cerámica que sigue manteniendo las caracte-rísticas de manufactura indígena (rodete y cocción a fuego abierto)pero incluye la presencia de bases planas, asas, imitación de algunasformas estilísticas europeas con tecnologías indígenas y terminación de“escobado”, y en el uso de instrumentos de metal. Asimismo, desarro-llan actividades simbólicas relacionadas con los ritos de la iglesia cató-lica cristiana (Curbelo y Bracco, 2005).

En el Uruguay, a diferencia de otros países de América las etniasaborígenes interrumpen definitivamente su reproducción social a lolargo del siglo XIX. Sin embargo, su presencia es tangible en rasgos novisibles como el genotipo y visibles, aunque no concientemente identi-

99

ficadas, como la toponimia, algunos paisajes culturales y los restosmateriales de sus asentamientos y actividades (Verdesio, 1996).

En este sentido debemos diferenciar lo que ha permanecido de losgrupos nómadas cazadores recolectores cuya integración a la sociedadoccidental tuvo un carácter más efímero debido a sus característicasculturales muy diferentes, entre ellas su movilidad y su economía desubsistencia, así como su tecnología (Bracco, 2004; Pi Hugarte, 1969;1993; Vidart, 1968). Conocemos a través de crónicas parte de sus com-portamientos simbólicos, aquellos que llamaron más la atención de loseuropeos: prácticas rituales de iniciación, funebria, algunos hábitos ali-menticios y sus preferencias por algunos de los productos introducidospor los europeos como el alcohol, el tabaco y algunos juegos (Cabrera,2001; Pi Hugarte, 1969; Vidart, 1968). De su lengua poco se sabe puesno fue transcrita. Conocemos algunas palabras aisladas de su vocabu-lario, entre ellas la numeración del uno al diez –en base cuatro-(Chiossi, 2002) y su uso desapareció con la reproducción social de losgrupos (Gómez Haedo, 1937; Perea y Alonso, 1939; Pi Hugarte, 1969;1993; Vilardebó, 1963).

Por otra parte, la presencia indígena misionera tuvo y tiene múl-tiples expresiones en el territorio uruguayo (Arteaga, 1999; Assuncao,1984; Cabrera y Curbelo, 1988; Gonzalez Rissotto y Rodríguez, 1982).Pero en contraposición a su extensión regional y persistencia temporalse le ha prestado muy poca atención en la construcción de la(s) identi-dad(es) nacional(es).

Modalidades de la presencia de indígenas misioneros en territoriouruguayo

“La instalación de indígenas provenientes de las MisionesJesuíticas en territorio oriental se inicia con las primeras explotacionesganaderas de la región en el siglo diecisiete, pero se continúa en lossiglos siguientes”. Según González Rissotto y Rodríguez (1982; 1990;1991) esta inmigración guaraní-misionera se ha producido siguiendotres modalidades. 1. Escapes de individuos aislados o en pequeños grupos, relaciona-

dos con las diferentes actividades generadas por la explotación de

100

ganado durante los siglos XVII y XVIII desde las Misiones. Estosindividuos, marginados sociales, errantes de la campaña, mano deobra circunstancial o aglutinada en grupos con otras parcialidadesindígenas, van conformando el grupo humano denominado: gau-chos, gauderios o gaúchos (Barrios Pintos, s/d, 1967; Bouton,1961; Sala y Alonso, 1986)

2. Traslados masivos de indígenas efectuados por las autoridadescoloniales para ser utilizados en tareas civiles y militares, haciafines del siglo XVII y casi todo el XVIII. Participaron en losenfrentamientos con los portugueses en Colonia de Sacramento yse emplearon en la construcción de los edificios y defensas milita-res de Montevideo y Maldonado, así como en la fundación de pue-blos como Minas, entre otros.

3. Inmigración masiva, luego de la expulsión de los jesuitas y duran-te el proceso de decadencia que le siguió, de grupos de familias deindígenas misioneros que erraban por el campo en busca de unasentamiento en paz. Se destaca la ocurrida a partir del episodiobélico protagonizado por el Gral. Fructuoso Rivera con la ocupa-ción de los Siete Pueblos Orientales en 1828 (Berazza, 1971;Falcao Espalter, 1924). Esta población, portadora de una ya muydesdibujada herencia misionera y de un número importante de ele-mentos materiales, vinculados fundamentalmente con el culto dela religión católica, va a dejar su huella al permanecer en nuestroterritorio. Causa directa de este movimiento producido y dirigidomilitar y políticamente por el Gral. Rivera, va a ser la fundaciónde la Colonia Santa Rosa del Cuareim (1828-1832), en el actualemplazamiento de Bella Unión, y posteriormente otros muchospueblos, entre los cuales se encuentran San Francisco de Borja delYí (1833-1862) y San Servando (1833-1853) (Antúnez deOliveira, 1979; Auboin, 1968; Curbelo y Padrón, 2001; Padrón,1996)” (Curbelo y Bracco, 2005).San Francisco de Borja del Yí representa al último grupo de indí-

genas misioneros nucleados en un poblado y defendiendo su derecho avivir dignamente en territorio uruguayo. En el momento de su disper-sión final en 1862, eran pocos los apellidos de origen guaraní que per-

101

manecían aún entre los propios indígenas y con el desmantelamiento deeste pueblo se dispersan los últimos misioneros culminando así sureproducción social en nuestro territorio (Curbelo, 1999; 1999a;Curbelo y Padrón, 2001; Padrón, 1996; Ramírez, 1958).

Investigaciones de archivo (González Rissoto y Rodríguez, 1982)han permitido reconocer una masiva presencia base de mestizaje a par-tir de indígenas misioneros hacia fines del siglo XVIII. Por su parte, losindicadores genéticos han permitido identificar un alto porcentaje demestizaje, si bien no se puede hacer diferenciación de los grupos ascen-dentes (Pollero y Sans, 1991; Sans, 1991).

Sobre la lengua “Es esta última presencia, la del indígena misionero, guaraní par-

lante, la que ha dejado una impronta que aún persiste en extensas áreasdel territorio uruguayo, donde estuvo vinculado a diferentes activida-des. En lo inmediato, decenas de nombres de accidentes geográficos(ríos, arroyos, cerros, etc.) son un elocuente testimonio de su proyec-ción en el presente. Esta geografía en guaraní es la consecuencia de laintegración temprana y planificada, de esas tierras, a uno de los moto-res económicos principales de las Misiones Jesuíticas: las estancias(Barrios Pintos, 1967; Cabrera, 2001)” (Curbelo y Bracco, 2005) (Fig.3).

En este sentido, González Rissotto y Rodríguez expresan que “Ladifusión del vocabulario guaraní fue posible por la influencia que ejer-cieron [los grupos guaraníes] demográfica, social, económica, militar yculturalmente en el territorio de la Banda Oriental” (1982:307). Estaafirmación se basa en el reconocimiento de que dicha influencia estu-vo ejercida desde la presencia importante de grupos guaraníes en laépoca precolombina y, ya durante el período colonial, por las diferen-tes inmigraciones provenientes de los Pueblos misioneros. En el primercaso, el hecho relevante, ya mencionado, es que los grupos guaraníessirvieron a los colonizadores que necesitaban baquianos conocedoresdel territorio y lenguaraces para comunicarse con otros grupos indíge-nas. Por otra parte, los individuos y grupos llegados desde lasMisiones, integrados a la sociedad a partir de la fundación de núcleos

102

urbanos o de su dispersión como fuerza de trabajo en los ejércitos, o enel trabajo rural, aportan sin duda, elementos de la lengua guaraní a lacorriente de comunicación general. Un reconocido historiador, el Dr.Andrés Lamas expresaba en 1843 que “…el conocimiento de esa len-gua /guaraní/ puede ser, con el tiempo, un medio de ensanchar el terre-no que domina nuestra actual civilización: se habla con pocas altera-ciones, en las últimas clases de la gente de nuestra campaña y en elinmenso litoral del Paraná, Uruguay y Paraguay.” (Lamas, 1922:70).“Coincidimos con los autores citados en que “es muy factible que enépocas prehispánicas una parte de nuestra toponimia ya fuera guaraní,pero que la mayor parte de ella proviene de los siglos siguientes,teniendo en cuenta la importante corriente migratoria que hacia finesdel siglo XVIII va a determinar el establecimiento de un número muyelevado de indígenas en nuestro territorio. (Op.cit.:310)” (Curbelo yBracco, 2006).

Nosotros... losotrosEl Uruguay se reconoce apenas y casi nada como un país con

ancestros indígenas (Domingo et al., 1987; Cabrera y Curbelo, 1992;Consens et al., 1987; López Mazz, 1990). La desaparición de las etniasy el predominio de una sociedad occidentalizante “blanca”, sumadas auna concepción de corte evolucionista, gestada a fines del siglo XIX yperpetuada por la sociedad hegemónica, principalmente a través delsistema educativo, ha hecho ver a nuestros indígenas como “salvajes”o “bárbaros”, en la errónea comparación con culturas “más avanzadas”que construyen ciudades, “palacios”, “pirámides” o manipulan metalespreciosos. Esta visión etnocentrista ha desdibujado y menospreciadolos intereses por conocer sobre los comportamientos culturales presen-tes en nuestra prehistoria, alejándonos de los procesos prehistóricosaborígenes americanos. A ello se suma la marginalización que se con-tinúa, en una sociedad que repite modelos, segregando la pobreza y al“otro” donde indígena o descendiente de, y pobre, se han aunado desdesiempre.

La historia oficial ha perpetuado las etnias conocidas y nomencla-das por los grupos europeos: charrúas, guenoas, minuanes, yaros entre

103

otros, mitificando románticamente la capacidad guerrera de estos gru-pos, sobre todo de los charrúas, pasando a formar parte del imaginariocolectivo la “garra charrúa” como símbolo de identidad y resistencia encualquier evento de enfrentamiento uruguayo –por ejemplo el football-(Cabrera y Curbelo, 1992).

Desde el punto de vista poblacional, el mestizaje indígena respon-de a la permanencia de individuos descendientes de cazadores recolec-tores y de guaraníes. Si bien no hay análisis cuantitativos totales ni par-ciales, se puede asumir, de acuerdo a los procesos históricos, que elporcentaje mayor de descendencia corresponde a los indígenas misio-neros, cuestión que está siendo estudiada (Curbelo y Bracco, 2005). Laidentidad aborigen actual reside fundamentalmente en la memoriaancestral y la tradición oral transmitidas y conservadas en el seno de lasfamilias (Padrón, 1987). En relación a la cultura material remanente,tanto la correspondiente a los grupos aborígenes prehistóricos e histó-ricos –aunque sin poder ser asignada a ningún grupo étnico específico-como la perteneciente a los indígenas misioneros, es numerosa y pasi-ble de ser recuperada –y lo viene siendo desde diferentes investigacio-nes y enfoques arqueológicos- para conocer mejor sus comportamien-tos culturales y su incidencia en la conformación de las identidadesregionales para alcanzar su pertenencia a la realidad latinoamericana.

BIBLIOGRAFIA

ANTUNEZ DE OLIVEIRA, O. 1979. Nacimiento y ocaso de la colonia del Cuareimo de Bella Unión. Bella Unión. M/S

ARTEAGA, J., 1999. Las consecuencias del Tratado de Madrid en la desarticulaciónde la frontera demográfica de la Banda Oriental: 1750-1761. M.E.C., ArchivoGeneral de la Nación, Centro de Difusión del Libro Eds. Montevideo.

ASSUNCAO, F., 1984. Presencia de las Misiones Jesuíticas en territorio uruguayo.Importancia histórica y socio-económica en la formación rural del país. En: FoliaHistórica del Nordeste, 6:33-58. Instituto de Investigaciones Geohistóricas,Resistencia.

AUBOUIN, J. 1968. Bella Unión. Reciente destrucción de los indios guaraníes y cha-rrúas. Primera versión en español de José J. Figueira, en A. Barrios Pintos, 1968:“Artigas: la tierra, el hombre, revelación y destino”, Ed. Minas, Montevideo.

104

AUSTRAL, A., 1977. Arqueología de urgencia en el yacimiento Bañadero, Depto. deSalto, Uruguay. En: Seminario sobre Medio Ambiente y Represas. OEA/FHC, 2:2-20, Facultad de Humanidades y Ciencias, Montevideo.

BARRIOS PINTOS, A. s/d. Historia de la Ganadería en el Uruguay 1574–1971.Biblioteca Nacional, Montevideo.

BARRIOS PINTOS, A. 1967. De las vaquerías al alambrado. Ed. Nuevo Siglo.Montevideo.

BERAZZA, A.., 1971. Rivera y la Independencia de las Misiones. Ed. BandaOriental. Montevideo.

BOUTON, R. 1961. La vida rural en el Uruguay. Monteverde y Cía, S.A.,Montevideo.

BRACCO, D. 2004. Charrúas, Guenoas y Guaraníes. Ed. Linardi y Risso.Montevideo.

CABRERA PÉREZ, L., 1988. Panorama retrospectivo y situación actual de la arque-ología uruguaya. Rev. Fac. Hum. y Cienc., Montevideo.

CABRERA PÉREZ, L., 1994. Subsistema tecnológico y estrategias adaptativas en elRío Uruguay medio. En: Arqueología de Cazadores-Recolectores. Límites, Casosy Aperturas, 5:41-49. J.L. Lanata & L.A. Borrero (Compiladores), Argentina.

CABRERA PÉREZ, L., 1999. Explotación ganadera guaraní-misionera en el territo-rio de la Banda Oriental. En: Actas XII Congreso Nacional de ArqueologíaArgentina, (2):155-162. La Plata.

CABRERA PÉREZ, L., 2001. El rol del ganado vacuno en la organizaciónsocio–económica del indígena de la Banda Oriental. En: Arqueología uruguayahacia el fin del milenio, Tomo II, Actas del IX Congreso Nacional de Arqueología,pp. 211–219, Gráficos del Sur, Montevideo.

CABRERA PÉREZ, L. & C. CURBELO 1988. Aspectos socio-demográficos de lainfluencia guaraní en el sur de la antigua Banda Oriental. En: As MissoesJesuítico-Guaranis: Cultura e Sociedade, pp.117-142. Santa Rosa.

CABRERA PÉREZ, L. y C. CURBELO, 1992. Patrimonio y arqueología en elUruguay: hacia el reconocimiento de un pasado olvidado. En Arqueología enAmérica Latina Hoy, G. Politis (ed.), Banco Popular, pp. 45-56. Bogotá.

CABRERA, A. y A. WILLINK, 1973. Biogeografía de América Latina. MonografíasCientíficas de la OEA, N° 13, Washington.

CAGGIANO, M., 1984. Prehistoria del NE argentino: sus vinculaciones con laRepública Oriental del Uruguay y Sur del Brasil. En: Pesquisas, 38:1-109, Brasil.

CHIOSSI, H., 2002. Consideraciones sobre la numeración y los charrúas.www.monografias.com Diciembre. (Consultado: 3.11.06)

CONSENS, M., P. DOMINGO y C. PALABEZ, 1987. Conceptos acerca del pasadoen el Uruguay. En: 1as. Jornadas de Ciencias Antropológicas en el Uruguay, pp.301-306. MEC. Montevideo.

105

CURBELO, C., 1999. Análisis del uso del espacio en “San Francisco de Borja del Yí(Depto. de Florida, Uruguay) En: Sed Non Satiata. Teoría Social en laArqueología Latinoamericana Contemporánea (A. Zarankin y F. Acuto eds.), pp.97-116. Del Tridente, Buenos Aires.

CURBELO, C. 1999a Los procesos de cambio en los guaraníes-misioneros en el sigloXIX. Un caso en estudio: San Francisco de Borja del Yí. (Depto. de Florida,R.O.U.). En: Actas del XI Congreso Nacional de Arqueología Argentina (DiezMarín, C. Ed.), 2: 171-181, La Plata, Argentina.

CURBELO, C. y R. BRACCO, 2005. Programa: Rescate del Patrimonio Culturalindígena misionero como reforzador de la identidad local. Norte del Río Negro,Uruguay. En: XXV Encuentro de Geohistoria Regional, CD ROM MultimediaDidáctico, Corrientes. Edición impresa en prensa.

CURBELO, C. y R. BRACCO, 2006. La construcción del espacio misionero y latoponimia en territorio uruguayo. En: III Congreso Nacional de ArqueologíaHistórica Argentina, Rosario. En prensa.

CURBELO, C. y O. PADRON 2001. San Francisco de Borja del Yí: una aproxima-ción a su emplazamiento y a las características socioculturales de su población.En: Arqueología en el Uruguay, Actas del IX Congreso Nacional de Arqueología(1997), 2:21-35. Colonia, Uruguay.

DOMINGO, P., M. CONSENS, Y. BESPALI, C. PALABEZ, V. LUONGO, 1987.Conocimiento de la prehistoria en nuestra cultura. En: 1as. Jornadas de CienciasAntropológicas en el Uruguay, pp. 311-318. Montevideo.

FALCAO ESPALTER, M. 1924 La recuperación de las Misiones Orientales en 1828Rev. del Inst. Hist. y Geog. del Uruguay, III(2). Montevideo.

FURLONG, G. 1936. Cartografía jesuítica en el Río de la Plata. Buenos Aires.GOMEZ HAEDO, J.C., 1937. Un Vocabulario Charrúa desconocido. Boletín de

Filología. Instituto de Estudio Superiores. Montevideo. GONZALEZ RISSOTTO, L. & S. RODRIGUEZ 1982. Contribución al estudio de la

influencia guaraní en la formación de la sociedad uruguaya. En: Rev. Histórica,54(160-162):199-316. Montevideo.

GONZALEZ RISSOTTO, L. & S. RODRIGUEZ 1990 Los últimos pueblos de gua-raníes en la Banda Oriental del Uruguay entre los años de 1820 y 1862. En:Missoes: Trabalho e Evangelizaçao, pp. 203-241. Santa Rosa.

GONZALEZ RISSOTTO, L. & S. RODRIGUEZ, 1991 Guaraníes y Paisanos. Ed.Nuestra Tierra. Montevideo.

GUIDON, N., 1978. Le sauvetage archeologique de Salto Grande. La Recherche,10(99): 400-402.

LAMAS, A., 1922. Escritos Selectos del Dr. Andrés Lamas. Tomo I. InstitutoHistórico y Geográfico del Uruguay. Bibl. De Autores Nacionales. Montevideo.

LOPEZ MAZZ, J.M., 1990. Identidad nacional, reconstrucción del pasado y labor

106

histórica. Facultad de Humanidades y Ciencias de la Educación, Avances deinvestigación. Montevideo.

MELIA, B. 1986 El Guaraní conquistado y reducido. Bib. Paraguaya deAntropología. Vol. 5. Asunción

MÉTRAUX, A. 1928. La civilisation matérielle des tribus tupi-guarani. Geuthner.París.

MÖRNER, M., 1972. La situación del indígena en América del Sur. Ed. TierraNueva. Montevideo.

PADRON, O., 1987. Sangre Indígena en el Uruguay. Mim. Pesce s.r.l. Montevideo.PADRON, O. 1996. Ocaso de un Pueblo Indio. Historia del éxodo guaraní-misione-

ro al Uruguay. Col Raíces. Ed. Fin de Siglo. Montevideo. PEREA Y ALONSO, S. 1939. Un inventario del acervo lingüístico conocido de los

indígenas de la Banda Oriental del Uruguay. Bol. de Filología, Tomo 2. Inst. deEstudios Superiores. Montevideo.

PI HUGARTE, R., 1969. El Uruguay Indígena. Ed. Nuestra Tierra. Montevideo.PI HUGARTE, R., 1993. Los indios del Uruguay. Ed. Mapfre, Madrid.POENITZ, A.J.E., 1995. La sociedad guaraní-misionera oriental entre 1830-1832.

En: XV Encuentro Regional de Geohistoria, pp. 47-59. Gdor. Virasoro, Corrientes.POENITZ, A.J.E., 1996. Las Misiones Orientales después de la administración de

Chagas. El colapso de su sociedad (1821-1828) En: XVI Encuentro de GeohistoriaRegional, pp. 411-425. Resistencia.

POENITZ, A.J.E., 1999. La ocupación del espacio y la consolidación de las fronterasen la cuenca del río Uruguay (1801-1840). En: Gadelha, R. (ed.), MissoesGuaranis: impacto na sociedade contemporanea. Pp. 117-130. Educ.-Fapesp, SaoPaulo.

POENITZ, A.J.E. y E. SNIHUR, 1999. La Herencia misionera. Identidad Cultural deuna región americana. El Territorio. Posadas.

POENITZ, E. y A. POENITZ, 1993. Misiones Provincia Guaranítica. Defensa ydisolución. Ed. Universitaria, UNM. Posadas.

POLLERO, R. & M. SANS 1991 Proceso de integración de la Sociedad Uruguaya:el ejemplo de Tacuarembó. Estudos Ibero-Americanos. PUCRS. XVII(2):99-111.Porto Alegre.

RAMIREZ, A. 1958 Dispersión de los últimos indios misioneros (La Colonia de SanBorja en Durazno). En: Bol. Del Bco. Hipotecario del Uruguay (82):62.Montevideo.

SALA, L. y R. ALONSO, 1986. El Uruguay comercial, pastoril y caudillesco. Tomo 1: Economía, Ediciones de la Banda Oriental, Montevideo.SANS, M. 1991. Genética e historia: hacia una revisión de nuestra identidad como

“País de inmigrantes”. En: Ediciones del Quinto Centenario, 1:19-42.Universidad de la República. Montevideo.

107

SERRANO, A., 1972. Líneas fundamentales de la arqueología del Litoral: una ten-tativa de periodización. Universidad Nacional de Córdoba, Argentina.

VERDESIO, G., 1996. La invención del Uruguay. La entrada del territorio y sushabitantes a la cultura occidental. Ed. Graffiti/Ed. Trazas. Montevideo.

VIDART, D. 1968. Las tierras del Sin Fin. En: Enciclopedia Uruguaya, Nº. 2.Editores Reunidos/Ed. Arca. Montevideo.

VILARDEBÓ, T.M., 1963. Noticias sobre los Charrúas (Códice Vilardebó). Ediciónanotada por Baltasar Luis Mezzera. Artes Gráficos Covadonga. Montevideo.

108

Preguntas y respuestas

Intervención de parte del público: (teniendo en cuenta la ponencia delProf. Belohradsky).

Yo creo que debemos de tener en cuenta una metáfora más “Laexistencia de un solo Dios y celestial”, eso podría estar mezclado en ellenguaje a diferencia del lenguaje que otras comunidades relacionancon la tierra y elementos de la naturaleza. Esa sería mi pregunta.

Prof. Vaclav BelohradskyE’ difficile rispondere, ma può darsi! Io ho scelto le metafore che

sono generative dei linguaggi che poi abbiamo appreso a scuola e costi-tuiscono il contenuto della modernità. E’ chiaro che poi tutto si iscrivein una storia come può essere, ad esempio, nel caso rappresentato dalmonoteismo: ci sono molti teorici della modernità che la consideranouna sorta di secolarizzazione dell’escatologia cristiana ecc. Ma io misono fermato nella mia descrizione della modernità a quel livello scola-stico, diciamo. Se per esempio noi, come qui accade, cominceremo adiscutere di un diritto qualsiasi, ad esempio del diritto della donna all’a-borto, oppure dei diritti sociali ecc., facilmente potremo accorgerci dopodieci minuti che tutti usiamo qualcuno di questi linguaggi. Sono lin-guaggi molto pratici. Uno comincia a dire che la donna deve scegliere,questo è un suo diritto fondamentale, che è la donna che ha diritto di sce-gliere, e così via… Allora siamo arrivati al punto di dire che cos’è il sog-getto e il soggetto delle proprie scelte. Se ci mettiamo a discutere dialcuni problemi ecologici, subito verrà fuori che in fondo pensiamo tuttiin termini matematici: la natura è un partner, un amico o qualcosa delgenere. Mi sono fermato a questo livello dell’analisi… ma la metaforaè generativa di un linguaggio millenario, molto più importante.

Lic. Aída Torres: (al representante del Brasil, Dr. Marcio PereiraGomes).

Hablaba de la diversidad de los grupos étnicos que viven en elBrasil, y esa diversidad es inclusive extensión y a tronco de otras rami-

109

ficaciones que llegaron hasta allí que fueron extendiéndose porAmérica. Desde el rol de la institución que preside, hay algunas estra-tegias que se plantean a partir de la institución y políticas mismas ela-boradas dentro de ella para atender procesos de integración de esos gru-pos a la sociedad en forma ya objetiva a pesar de sus diferencias, par-ticularidades, y que estrategias específicas se plantean para hacer via-ble una participación efectiva de esos grupos a la sociedad brasileña.

Respuesta Dr. Marcio Pereira Gomes:Hay una controversia en Brasil actualmente, respecto del concep-

to de integración, participación, de los indígenas de Brasil. Durantemuchos años la política indigenista brasileña como de otros paísescomo Paraguay, Bolivia, Perú, decía que los indígenas se debían deintegrar a la nación. ¿Qué se comprendía por el término integrar? Secomprendía que tenían una participación en la vida general del país,atender al mismo nivel de otros ciudadanos de respetabilidad, de parti-cipación, de vivencia económica, de vivencia política. Una estrategiaque todos nuestros países tendrían era que al final estos pueblos con susculturas se asimilarían a la cultura general que fue creada en 4 a 5siglos. Entonces el fin del pueblo fue un futuro diferenciado, se decíaque Brasil hacia una política de integración de este modo. Hay una Leyque fue creada en Brasil, se llama “Estatuto del Indio” que dice en suprimer artículo que la intención de esta ley es de ayudar a los pueblosindígenas a integrar armoniosamente la cultura y la nación en general.Cuando Brasil hizo su constitución de 1988, en un artículo 231 diceque el propósito de la nación brasileña al respecto de los indígenas esde respetar sus culturas, sus costumbres, sus hábitos, sus lenguas, susterritorios, no habla de integrar, ¿por qué no habla de integrar?Aparentemente la cuestión de integración se subsumía la gestión de laasimilación, la integración era un paso para la asimilación, es decir queera un paso para su desvanecimiento dentro de la cultura mayor delpaís. En Brasil tenemos muchos problemas pues la constitución ladebemos respetar, todas las políticas que se refieren a los pueblos indí-genas, son políticas de integración porque si la educación es bilingüe,el objetivo, la meta principal es de enseñar a los indígenas a través de

110

sus culturas, de sus lenguas, es una educación multicultural, es unaeducación en que el profesor enseña las cosas de la civilización occi-dental, oriental, como matemática, como ciencias, como los discursosoccidentales en general sobre todas las cosas y al mismo tiempo recibede los indígenas las visiones también científicas o paracientíficas, cul-turales que vienen de los indígenas. Entonces se van a crear nuevas cul-turas por este modo de ser educados, pero, es muy difícil de hacer estos,quienes son los maestros capaces de hacer esto. Entonces al final quese enseña, por ejemplo, hay una idea de enseñar matemática a través dela cultura por un método llamado etnomatemática, quiere decir quecada pueblo tiene su forma de hacer matemática, de contar, de percibirconjuntos, de hacer divisiones, multiplicaciones por un proceso que nodepende de los números porque la mayoría de los pueblos indígenas delBrasil de tantas otras partes no tienen más de 4, 5 números. ¿Cómo sehace una etnomatemática, cómo se enseña? Yo creo que muy pocas per-sonas pueden saber o descubrir las señas etnomatemáticas y si vamos aenseñarles matemática pura, u occidental, se debe dejar de lado estagestión de la etnomatemática, entonces estamos integrándolos al pen-samiento de matemáticas. ¿Entonces estamos o no integrando almundo? cuando hablo con los antropólogos brasileños, ¿que estamoshaciendo? ¿integración o diversidad cultural? Entonces crearon unapalabra tan bonita que es estamos enseñando la diversidad cultural. Leenseñamos a aprender matemática como metáfora de ciencias porejemplo, y después para que haga el curso fundamental, secundario,para después entrar a la universidad, y donde vamos a encontrar jóve-nes en una universidad que se les respete las proposiciones que vienende sus culturas, quien tiene la capacidad de hacer esto. En Brasil cuan-do entré en la FONAI hace 3 años había 1000 indígenas brasileños, esmuy poco para la población que tenemos y hoy hay como 2500. Ellosestán con dificultades de aprender porque con todos los problemas quehay en Brasil, los indígenas sienten más las dificultades, entoncesentran en la facultad, la mayoría se inclinan más por historia, filosofía,derecho y unos pocos hacen la carrera de matemática, menos medici-na, apenas unos 10, porque en Brasil es mucho más difícil esta carreraporque primero se debe uno formar en ciencias para luego entrar en

111

materias más complejas como biología, química, física que es muchomás difícil que la gente comprenda. Yo creo entonces, que esto es unproblema, decimos que vamos a integrar a los indígenas, pero los antro-pólogos quedan muy preocupados, entonces cómo vamos a asimilardicen, pero estamos haciendo políticas públicas que se dirigen a estotambién, no sé si es una forma conceptual que nosotros los antropólo-gos tenemos para dar más importancia a la constitución para el cambiode las actitudes que tenemos, algún día los indígenas tendrán sus pro-pias universidades, sus propias visiones del mundo y su autonomía cul-tural, científica tal como se encuentra en los EE.UU. con los indios.

Dr. Ramiro Domínguez: (a la Lic. Aída Torres):Tengo entendido que al Programa Escuela Viva Hekokatúva quie-

ren darle una proyección universal y en qué medida eso se inserta den-tro de la política de Educación Indígena y en los matices de diferencia.

Respuesta de la Lic. Aída Torres:El componente de Educación Indígena del Programa Escuela Viva

hasta el momento es un componente que tiene una cobertura todavíamuestral, no abarca la totalidad de la población indígena que necesitaescolarizarse, sin embargo este programa está muy bien llevado con elfinanciamiento y el apoyo técnico que recibe como un programa prefe-rencial, y la tendencia desde el Ministerio de Educación es ir universa-lizando en relación a las evaluaciones que se hagan al respecto, en lamisma línea del programa de Educación Indígena, el Programa delMinisterio de Educación y Educación Bilingüe Nacional, los tres tienenuna cuestión común que es tratar de afianzar la participación comuni-taria en la toma de decisiones de los programas de los que van a serobjeto, y no ya como políticas elaboradas, haciendo un análisis, de esteénfasis que se está poniendo es importante destacar que ese nivel dedecisión de las comunidades para ser o no parte de un programa sea deeducación indígena o sea de educación bilingüe a nivel país tiene queser un componente muy bien trabajado por toda la carga que estábamosdiciendo hoy, en el caso del guaraní que trae consigo, nosotros había-mos tenido experiencias donde hemos desarrollado las acciones de sen-

112

sibilización con la comunidad para los programas de educación bilin-güe, castellano-guaraní y los padres y referentes principales de lacomunidad decían, si entendemos muy bien pero no queremos quenuestros hijos vayan a la escuela y vuelvan a estudiar y a ser enseñadosen guaraní. Ellos nos decían eso en guaraní, hablaban esa lengua yrechazaban la misma, y a pesar de que se les explicaba que no era unprograma monolingüe sino bilingüe solamente tomar la lengua mater-na e ir pasando gradualmente y complementar y enriquecer la otra len-gua nos poníamos a hablar 50 a 60 minutos y al final nos decían que lesgustaba lo que les decíamos pero que no lo aceptaban. Entonces nohabía razones lógicas y entonces la sensibilización y la aceptación dela comunidad en los papeles está muy bien y muy rápido pero en lapráctica no es muy rápida. Y cuando hablamos de la experiencia indí-gena lo que yo había comentado; el indígena nos dice en su lengua noqueremos que se trabaje nuestra lengua en la escuela y están optandopor el castellano normalmente y en ciertas comunidades por lenguas demigrantes extranjeros, que son los que les dan el trabajo y la manera desobrevivir, también es entendible desde esa perspectiva. El énfasis quese tuvo en cuenta, siempre estuvo allí, o sea que las comunidadestomen la determinación de que un programa esté allí tiene que ser uncomponente muy bien trabajado porque mirado de otra manera puedeser una valla antes que una fortaleza.

Intervención Mgr. Antonio René Machaca:El término integración en casi todo el continente es rechazado por

la mayoría de las organizaciones indígenas, existe una cantidad dedocumentos y hay que pensar en lo que quiere decir esto, ellos recha-zan la idea de que sean dominante la sociedad externa y mayoritaria yel prefijo in quiere decir que el grupo indígena tiene que introducirsedentro de un contexto, muchas veces inmerso en la palabra. Existensecretos ocultos de la cultura, la mayoría de la gente del pueblo piensaque el indígena tiene que dejar de ser indígena y asimilarse a la cultu-ra dominante nacional. Esa es una conciencia definida, los antropólo-gos han intentado modificar esta situación presentando algunas postu-ras de varias organizaciones indígenas y la propuesta, como todos

113

saben, es eliminar la palabra o el concepto de integración y sustituirlopor articulación con la sociedad mayoritaria, lo que quiere decir que escuestión de una postura diferente, es decir considerar la posibilidad deque los grupos indígenas puedan negociar con recíprocas concesionescon las autoridades del estado. ¿Hasta qué punto la sociedad mayorita-ria puede o quiere ceder en algo de lo que quiere imponer aceptandoparte del patrimonio de las propuestas de las elecciones de la actividadde decisiones del grupo indígena? Hay una cantidad de situacionesvariadas, depende del contexto, del estado de la aculturación si el indí-gena quiere, no quiere y también hay que pensar en términos tempora-les porque lo que dice la licenciada es verdad, porque tenemos ejem-plos en todo el continente de grupos indígenas que rechazan la educa-ción en su idioma, queremos aprender el castellano. Pero los jóvenesconversando con los antropólogos y mirando la experiencia de otrosgrupos, después de años se dan cuenta en la conservación y reproduc-ción del idioma incide una parte importantísima del proceso de repro-ducción cultural y político, entonces vuelven a decir no, tienen queenseñarnos bien a los niños la lengua nuestra en términos de estructu-ra moderna. Entonces el proceso es dinámico, la cultura brasileña no esque sea fija, se mueve y cambia todos los años, entonces si uno tieneuna concesión dinámica acepta que la cultura nacional va cambiandocon los aportes de los indígenas, lo que ha pasado durante siglos, pueseste continente es un continente mestizo, toda la región ha recogidoideas, valores, técnicas, y formas de alimentación del mundo indígena,desaparecieron formas culturales que han venido desde afuera.Entonces una concesión dinámica, una subjetividad de los pueblosindígenas, es decir uno tiene que irse hasta el fondo si acepta comoacepta el sistema jurídico internacional, la subjetividad colectiva de lospueblos indígenas tiene que considerarlos como interlocutores, y tieneque con gran paciencia negociar y articularse, es decir a veces aceptarlas propuestas, otras quizás no, pero esa respuesta a la sociedad mayo-ritaria ha cambiado sus articulaciones frente a las demandas indígenas.En mi carrera que tengo 30 años como indigenista, la pregunta que mehacen es usted indigenista o no. Sería magnífico que en una de lasponencias se presente un informe acerca de documentos indígenas, en

114

Internet hay como 15.000 sitios web que discuten el tema de integra-ción. Es un tema central para ellos.

Intervención Dr. Marcio Pereira Gomes:Estoy de acuerdo con lo citado en su intervención como antropó-

logo, yo creo que el problema que se plantea es que es difícil de haceresto porque las negociaciones con los indígenas son, o en grupos conlas asociaciones y organizaciones indígenas propiamente dichas sonvariables en Brasil, hay organizaciones que comprende grupos de pue-blos indígenas de la Amazonía, otros en el noreste, otros en el sur, sondiversas y tienen sus gestiones específicas regionales, sus problemasprácticos mas que estratégicos a resolver de inmediato. Por otro ladoexisten los que a la educación se hace directamente sin ninguna inter-mediación de las asociaciones, yo creo que hay una intención muybuena de hacer la educación bilingüe, bicultural, intercultural de ela-borar un propósito de integración que implica un concepto de asimila-ción al fin, es verdad, pero la dinámica social y política de un paíscomo Brasil es muy mayor que los pequeños pueblos indígenas, enton-ces nosotros vemos, vamos a hacer una educación intercultural con losChamán. Son 12.000 indígenas, muy guerreros, están divididos en 180pueblos cada una con una relación con los municipios de su alrededorque comprende cosas distintas, unos doctrinados por los salesianos,otros por organizaciones oficiales, por municipios, entonces es difícilpensar esto, y al final cuando todos se preguntan para que una educa-ción escolar, hay una respuesta que dice para que ellos tengan losmismos derechos que los demás brasileños, que sean respetados consus culturas, que sean respetados por su autonomía política, económi-ca, su autodeterminación, es un gran problema económico, que está pordebajo de todas estas dificultades. Algunos antropólogos se inclinanmás por otros conceptos muy usados, articulación, participación en lasociedad, autonomía, cuando hablamos sobre eso, negar estos proble-mas es ampliarlos, negar que cuando se ponen jóvenes y adultos paraseguir la universidad, al final la gran mayoría desea volver a sus tierrasy algunos se quedan en las ciudades y empiezan sus vidas como ciuda-danos urbanos. Si esto no es un proceso de integración, son dinámicas,

115

¿en que sentido es que son dinámicas? ¿De mantener sus culturas ante-riores o de integrarse a la sociedad mayor?

Brasil es un país con tradición de transformar a las personas enbrasileños, los turcos, los árabes, los portugueses, etc. Yo soy con-sciente de que los movimientos indígenas están en contra del conceptode integración y que esto dificulta a los gobiernos, la educación básica,la educación superior. Estas preguntas tienen un rasgo muy fuerte.

116

Immagine e rappresentazione indigena verso la ri-appro-priazione sociale, culturale e economica

ANtONIO L. PALMISANO (Università di trieste)

Linguaggio e identitàL’identità di una comunità locale, di un gruppo etnico o di una

società, perfino di un intero mondo sociale –con le sue coordinate tem-porali e/o spaziali-, sono il prodotto di complessi processi soprattuttosociali, essi stessi configurati da quelle identità in divenire qui in que-stione.

La relazione fra identità e linguaggio appare particolarmentestretta, in ogni società. Ma il linguaggio –facoltà addetta alla circola-zione codificata o ipocodificata di informazioni- è una istituzione com-plessa, nella quale è utile distinguere almeno alcune componenti: la lin-gua, la tecnologia e l’immagine. La lingua –il sistema di segni cheesprimono idee- di una comunità, di un gruppo etnico, di una società,difatti, viene trasmessa, sopravvive, si elabora e si espande quando nonè concepita come istituto isolato, a se stante, ma è intesa appunto comeparte del linguaggio. La stretta relazione persistente fra identità e lin-guaggio lascia rilevare come l’identità sia prodotta e sostenuta dallarappresentazione e autorappresentazione dello stesso gruppo sociale; asua volta, il linguaggio è uno strumento della rappresentazione e auto-rappresentazione di una comunità, di un gruppo etnico o di una socie-tà. Anche la tecnologia, ovvero la soluzione socialmente istituzionaliz-zata ad antichi e nuovi problemi –ostacoli esistenziali- in nuovi conte-sti, è parte del linguaggio e permette la comunicazione dell’identità –diuna comunità, di un gruppo etnico o di una società- verso l’esterno. Lestesse immagini, la stessa immagine di sé e del mondo prodotte conti-nuativamente da una comunità, sono forme del linguaggio di quelladeterminata comunità, gruppo etnico o società in questione; la creazio-ne di immagini è infine creazione di identità.

Insomma, il linguaggio è una forma di comunicazione, di espres-sione ma anche e soprattutto di partecipazione di sé al mondo e del

117

mondo a sé, operata da una comunità, un gruppo etnico o una società.Si tratta di una interpretazione costruttiva del mondo che viene con ciòad essere messa in scena e compartecipata.

Il linguaggio è così uno strumento della rappresentazione e dellaautorappresentazione; una componente essenziale di una identità, essastessa riflesso di una visione del mondo, essa stessa strumento dicostruzione del mondo. Nel costruire il mondo, questo viene interpre-tato per l’esterno, così come il mondo esterno viene costruito interpre-tandolo per l’interno della comunità, gruppo etnico o società in que-stione.

Identità e gruppi etnici in America LatinaIl dibattito relativo alle relazioni fra identità e sviluppo in America

Latina esige oggi una ricollocazione più consona: nell’ambito dei pro-cessi di rappresentazione e di autorappresentazione.

Le comunità indigene dell’America Latina, difatti, non solo hannosvolto un ruolo da protagonista nella costruzione del loro passato e delloro presente, ma continueranno a svolgere il ruolo di primari attorisociali e politici nella costruzione dell’America Latina contemporaneae del futuro.

L’identità è plurima, è molteplice, e si difende –e va difesa- dal-l’essere ridotta ad un cliché definito dall’esterno (ovvero, dal mondoglobale) o dall’interno della società nazionale. Essa è in perenne dive-nire, ed è in perenne interazione con la rappresentazione e la autorap-presentazione della comunità e della società. E’ dunque soggetta amanipolazioni, anche inconsapevoli.

L’identità primaria in quanto personae è fornita dalla dimensionespaziale: essere al mondo, essere insediati in un territorio.33 Questadimensione, tuttavia, non fa di un gruppo sociale una “popolazioneindigena”, ma appunto un gruppo sociale; sia questo gruppo una comu-nità locale, un gruppo etnico, una società ecc. La comunità è difatticomposta da attori sociali, politici, economici. Si tratta di un insieme dipersone giuridiche che si confrontano con istituzioni; ad esempio, con

118

––––––––––––––––––––––––33 Sulla nozione di persona in quanto insieme articolato e ordinato di ruoli e di status ascrittie/o acquisiti, cfr. Fortes 1970, pp. 67-95.

lo Stato. Se i gruppi sociali fossero ridotti a “popolazioni indigene”rischierebbe di scomparire anche l’insieme delle istituzioni, oltre chel’insieme degli stessi gruppi etnici e delle cosiddette “popolazioni indi-gene”. Oppure, le etnie sarebbero ridotte a costituirsi come mero pae-saggio, come gruppo d’individui, inseriti nel loro ecosistema, propriocome accade ad animali in uno zoo. E’ confrontandosi con tali termi-nologie –“popolazioni indigene”- che sorge in tutta la sua portata ilproblema della oggettivazione e reificazione dello “altro”; conseguiteproprio in virtù di proclamazioni dello “altro” in quanto “soggetto”. Masoggetto di che cosa? Soggetto della storia tout court o soggetto dellastoria del singolo caso giuridico contemplato nel diritto internazionale?Ed infine, come non chiedersi da chi è gestito questo diritto? Moltisono gli interessi in gioco e ancor più numerosi sono gli interessati atto-ri sociali, politici e economici.

Sulla scena mondiale, infatti, vi è una novità. Si tratta dell’avven-to di attori nuovi che non sono né le comunità indigene, né gli Statinazionali; sono soggetti di straordinaria potenza, di straordinaria forza,quali sono per esempio attualmente le multinational corporations esoprattutto le transnational holdings. In alcune situazioni, queste ulti-me hanno poteri economici e politici superiori a quelli degli Stati.34

Quindi, la relazione fra gruppi etnici e Stati nazionali è oggi confor-mata in maniera diversa: non può non essere tenuto in giusto conto epeso l’intervento delle transnational holdings in questo processo moltocomplesso di equilibrio.

Non parlo di articolazione con una maggioranza, né di integrazio-ne, ma di equilibrio. Parlo di identità, linguaggio e rappresentazione, inmodo da arrivare poi all’esempio che ci interessa: l’America Latina,ovvero gli Stati nazionali nel loro rapporto con l’esterno e con le comu-nità indigene. Trattiamo infatti di identità e, in particolare, di gruppietnici e di identità etniche.

Non adopero il termine “popolazioni indigene”; semmai, consape-volmente, adopero il termine “comunità indigene”. Non è questo ungioco di parole, né un voler essere preciso a tutti i costi. La differenza

119

––––––––––––––––––––––––34 Cfr. Palmisano 2006a, pp. 191-198.

è notevole, e lo è perché profondamente diverso è il mondo di signifi-cato e il mondo di pensiero dai quali queste parole vengono originate.“Popolazioni indigene” è un termine che viene usato in biologia o inzoologia. “Popolazione” è termine specifico della zoologia. Si parla di“popolazione di pinguini”, “popolazione di gabbiani”, “popolazione discoiattoli” e di altri animali. Non ha nulla a che fare con la “comunità”,che è una performance straordinaria, unica del genere umano. Che poile formiche o le api riescano a lavorare “insieme”, e in che termini, nonci riguarda; né ritengo che la società delle formiche o delle api sia unriflesso di quella umana. La differenza fra “popolazione” e “comunità”è talmente significativa che il termine “popolazioni indigene” è, per lescienze sociali, semplicemente da abolire. Il termine “popolazione”può essere comprensibilmente adoperato, allora, soltanto all’interno diuna certa società internazionale che ha tutti gli interessi a reificare eoggettivare le comunità, in modo da non trattare direttamente con que-ste; in una certa comunità internazionale che con l’escamotage di costi-tuirle a soggetto del diritto, le elimina invece dal campo della possibi-lità del trattare. Ad esempio, mentre ogni identità –in primis l’identitàetnica- è sempre in divenire, l’identità “popolazione indigena” è immu-tabile.

In cosa consiste l’identità? Le identità etniche, o dei gruppi etnici,sono i prodotti di un complesso gioco di rappresentazione e di auto-rappresentazione: un gruppo etnico o una comunità indigena si auto-rappresenta. E’ probabile che questa sua autorappresentazione restilimitata nei campi limitrofi, cioè che si tratti di un’autorappresentazio-ne limitata al vicino, ad un altro gruppo etnico confinante o a qualcunoche, comunque, si interessa a quella specifica comunità; e con questasua azione costituisce la comunità specifica, in quanto tale, nel mondoad essa esterno, ovvero nel contesto internazionale. Soprattutto, l’auto-rappresentazione è data e prodotta ai fini della riproduzione della pro-pria società nelle generazioni seguenti; ma quest’autorappresentazioneè profondamente influenzata dalla rappresentazione della stessa comu-nità proveniente dall’esterno. Basti pensare ad una delle comunità indi-gene del Paraguay, ovvero seguire l’argomentazione pensando ad unadi queste società. La rappresentazione che viene data di questa comu-

120

nità, ovvero che forniamo noi tutti, influisce sulla sua autorappresenta-zione. Ciò significa che la nostra rappresentazione di essa influiscesulla stessa costituzione di quella società, ovvero sulla profonda iden-tità di quella società o di quella comunità. Non possiamo dunque maipensare ad una comunità a se stante; difatti, una tale comunità non esi-ste. O per via diretta o per via indiretta, l’identità è in continuo diveni-re, in una continua transizione. Del resto, anche nella vita umana rile-viamo che, per continuare ad essere, è inevitabile modificarsi, trasfor-marsi. Per continuare ad essere ciò che si è, non si può essere ciò chesi è stati: ecco il continuo lavoro d’interpretazione e di re-interpreta-zione dell’identità di una comunità.

Il ruolo dello Stato, in questo senso, è fondamentale. Al di là deldiscutere dei processi di integrazione, interessanti o meno, lo Stato puòpartecipare in maniera attenta e delicata all’autorappresentazione diqueste società, in modo che la loro identità sia in grado di rispondere aicambianti nella struttura e nella organizzazione sociale che lo stessoStato nazionale, ma anche il continente intero, sta vivendo. Per deli-neare e articolare la rappresentazione e l’autorappresentazione abbia-mo infatti uno strumento straordinario: il linguaggio, nella sua almenotriplice composizione. Per la lingua c’è un lavoro importante che loStato può svolgere: aiutare a lavorare sulla lingua, aiutare ad elaborareuna specifica lingua; riportarla, anche trasportarla in altro luogo e fis-sarla eventualmente in forma scritta: una importante forma di dialogocon le comunità indigene. Anche le tecnologie, saperi antichi che nelmutato contesto di una società moderna sembrano obsoleti, lo Statopuò fare molto. Come mostra Belohradsky nel suo intervento,35 a voltealcuni tabù, tabù prodotti dalla comunità, si risolvono in una salvezzaper la comunità. Nella sua conferenza, Belohradsky ha citato il casodella “mucca pazza”. Mai nessuno in una comunità tradizionale dareb-be carne ad una mucca per mangime. Questo dar da mangiare carne allamucca ha prodotto la situazione che ha portato ad abbattere migliaia dicapi di bestiame in Europa e alla morte di numerosi consumatori dicarne, danneggiando significativamente l’economia di diversi Paesi

121

––––––––––––––––––––––––35 Cfr. Belohradsky nel presente volume.

europei.36 Il recupero di queste tecnologie è un lavoro che può essererealizzato dalle comunità locali insieme ad alcune istituzioni delloStato nazionale: sensibile alle questioni delle sue comunità indigene, loStato può lavorare in tale direzione. Per l’immagine, altra componentedel linguaggio, rileviamo che la creazione di immagini equivale allacreazione diretta di identità. Anche l’immagine che fornisco dellacomunità indigena aiuta dunque questa comunità indigena a costituirsi,ad aggregarsi o riaggregarsi. In questo campo è fondamentale il ruolodello Stato nazionale, svolto attraverso l’operato delle sue istituzioni.In una società globale come quella attuale lo Stato può prodursi, e neha il dovere per contratto iniziale, in attività che portino a sostenere ilprocesso di autorappresentazione della comunità indigena, ovvero asostenere il processo di conseguimento di identità. In un’era come lanostra –un’era globale, forse anche post-globale, un’era nella quale legrandi ideologie, per esempio l’ideologia del liberismo spinto e dell’e-voluzionismo selettivo, non sono morte ma sono semplicemente nasco-ste e camuffate-, le comunità indigene rischiano molto in termini di esi-stenza. Lo Stato nazionale non può non assumersi, fra i vari suoi com-piti, l’onere principale di mantenere e potenziare il dialogo con lecomunità indigene, in modo che queste possano lavorare alla costitu-zione e ricostituzione della propria identità. Un errore che lo Statopotrebbe compiere, e a volte compie, è quello di fossilizzare l’identitàdei gruppi etnici. Una forma della fossilizzazione consiste appunto neldichiarare il gruppo etnico come “popolazione indigena”, ovvero zoo-logizzare il gruppo etnico. Questo è un processo che va di pari passocon il processo di musealizzazione del gruppo etnico: si prende ungruppo etnico, gli si crea una gabbia dorata, in modo che si occupi didifendere quel microambiente o quell’ecosistema limitato, e lo si lascialì dentro, in modo che non disturbi più di tanto, a guardia di un tempoimmoto, fuori dalla storia sociale e politica: il tempo del documentario.

122

––––––––––––––––––––––––36 C’è sempre da porsi l’antica domanda latina: cui prodest? Da dove è venuta questa malat-tia? Da dove è venuto fuori ciò che ha portato al danneggiamento dell’economia dell’alleva-mento in Europa ed ha costretto ad importare esponenzialmente carne da altri Paesi, ma nonpurtroppo dall’America Latina?

Chiamo questa operazione politica “musealizzazione delle comunità”.E’ un processo che allontana tutti gli attori sociali da una dialettica, daun dialogo con le comunità.

L’identità è sempre e comunque in divenire. Ciò comporta delica-tissimi processi: ogni passo nella modifica di questa identità implicaper la comunità locale uno sforzo non indifferente di adeguamento almutato contesto. La comunità può sottrarsi a questo stress –e di stresssi tratta- o chiudendosi in se stessa, autoemarginandosi –e questa è unasoluzione che purtroppo abbiamo visto adottata molto spesso-, oppuretrasformandosi in tutt’altro, anche in istituzioni, talvolta perfino inte-ressanti. E’ possibile osservare gruppi etnici che si sono trasformati insocietà, cioè attivandosi come società per azioni, anche se costituitesiinformalmente, impegnate in occupazioni lavorative esclusive e alta-mente specializzate. E la storia di questi gruppi dipende poi dalla lorodimensione. Altri gruppi etnici hanno adottato strategie di dissolvi-mento di se stessi nella società della maggioranza, con una semplice eclassica migrazione dalla campagna alla città, magari frammentando ilgruppo in più quartieri della città. Sono strategie di sopravvivenza ela-borate per gli individui; elaborate una volta che si è ritenuto che lacomunità è comunque destinata a scomparire, ad essere terminata daqueste relazioni dominanti di forza globali: non nazionali, ma globali.

Dunque, non possiamo non parlare di movimenti identitari, ovve-ro della dimensione politica delle identità etniche. Questi movimentisono quanto ci interessa, anche se spesso sono stati giudicati negativa-mente. Ricordo, per esempio, alcune espressioni relative ai movimentiidentitari in America Latina:

Los movimientos identidarios no son mas que una ocasiòn de divi-siòn dentro de una sociedad desunida por un destino comun de explo-taciòn.37

Oppure, ancora:

123

––––––––––––––––––––––––37 Per una più approfondita analisi e discussione di questi temi, cfr. Palmisano 2005, pp. 109-122.38 Ibidem

Los movimientos identidarios no son mas que forma basicas deprivilegio corporativo.38

Non concordo con questa visione. Penso piuttosto che le identitàetniche,

permiten una referencia a determinados planes de acciòn politicay social, eficaces planes de l’existencia a l’alienaciòn, a la disgreciònsocial y a la atomizaciòn de las relaciones sociales en primar lugar delas relaciones de parentesco.39

Ed è anche per questo che le identità etniche, come le etnie,rischiano di essere fagocitate nei processi di globalizzazione.

Identità e rappresentazione nel mondo globaleL’America Latina ha milioni di abitanti, e la sua demografia sta

cambiando. In Bolivia, per esempio, gli indigeni sono il 65% dellapopolazione, mentre al momento dell’Indipendenza rappresentavano lo8% della popolazione.

E’ indubitabile la crescita straordinaria del numero degli attorisociali e politici in terra d’America Latina: non si tratta né si tratteràmai di puri “consumatori” o di “politicamente agiti”.

E la loro identità è in perenne divenire. L’identità stessa è transizio-ne continua: lo stesso sviluppo dell’America Latina, lo sviluppo dellecomunità indigene, sta nello sviluppo della sua identità. E questa identi-tà è complessa, è multiforme, e si ribella –e va aiutata in questo suo sfor-zo- dall’essere ridotta ad uno stereotipo oggettivato, talvolta perfino mer-cificato, dall’esterno (ovvero, dal mondo della globalizzazione); ma sidifende e va difesa dall’interno della sua società nazionale, difesa dallostesso Stato nazionale moderno. Ovvero: le identità sono contrattate sullabase di differenze, ma sempre all’interno di un processo di costruzionesituazionale delle stesse… Le identità sono situazionali: fissarle è impos-sibile senza uno “scontro”;40 uno scontro non agognato dai gruppi etnicima al quale questi non possono sottrarsi, pena la loro dissoluzione.

124

––––––––––––––––––––––––38 Ibidem39 Ibidem40 Per la discussione relativa alla contrapposizione di interessi intranazionali, ovvero alla que-stione classi/tribù, cfr. Palmisano 2005, pp. 116-117.

In prospettiva nazionale, eppure, le identità etniche sono una risor-sa significativa, specialmente in Stati nazionali e società nazionali chesono soggette a, o che stanno vivendo, trasformazioni particolarmenterapide, particolarmente pervasive e influenti, trasformazioni che lascia-no rilevare un processo addirittura violento, almeno per il suo impattosulle storie di vita degli individui: nuove forme dell’economia, che siimpongono a livello mondiale, a livello globale, sconvolgono identitàlocali. In questi casi –ad esempio ad Otavalo in Ecuador, dove si mani-festa una risposta straordinaria della comunità-, il recupero proprio diquei planes de acciòn basati sulle reti di parentela, ad esempio, posso-no permettere di superare momenti di particolare difficoltà, in attesa diuna ridefinizione dell’identità della comunità indigena.41 E lo Statostesso può trarne giovamento, e per la propria identità e per la proprialegittimità e credibilità.

Che l’identità sia in perenne divenire ed in perenne interazione conla rappresentazione e la autorappresentazione della comunità, dellasocietà, non esclude che sia soggetta a manipolazioni, malaugurata-mente, anche inconsapevoli.

Oggi, ad influire sulla rappresentazione ed autorappresentazionedella comunità indigena, si prospettano difatti tre grandi forme di rap-presentazione ad opera della società globale: una rappresentazioneliberista; una rappresentazione indigena; una rappresentazione terza,ovvero dei mercati commerciali. Ed alcune di queste rappresentazionipossono essere considerate manipolatrici.

Alla globalizzazione liberista (l’economia dei mercati finanziari)si affianca ora un’altra globalizzazione, in conflitto strutturale con essa:la globalizzazione dei mercati finanziari è contrastata di fatto dalla glo-balizzazione dei nuovi mercati commerciali. E le identità proposteall’America Latina da queste due rappresentazioni sono in contrappo-sizione alla autorappresentazione dell’America Latina, ovvero allaidentità delle comunità indigene. Mentre la prima rappresentazione–liberista- è prodotta dall’azione politica ed economica delle grandiconcentrazioni di capitale finanziario, la rappresentazione terza –dei

125

––––––––––––––––––––––––41 Cfr. Conejo 2005, pp. 207-214, 2006, pp. 103-112.

mercati commerciali- esprime l’azione di globalizzazione operata daimercati commerciali diretti dallo Stato (Cina in primis e India), comepure mutatis mutandis l’azione della globalizzazione musulmana.

In questo contesto di interazione fra rappresentazioni, ovvero dicontrattazione delle identità, la autorappresentazione dell’AmericaLatina è probabilmente destinata a fondare una nuova identità sullabase di nuove forme di sinergia e cooperazione fra paesi dell’AmericaLatina e fra questi e l’Unione Europea.

A. Rappresentazione liberista dell’America Latina, ovvero dellecomunità indigene (rappresentazione economica)La prima rappresentazione in questione è quella liberista o neo-

liberista dell’America Latina. Agli occhi del free world, così questomondo definisce se stesso –ed il termine anglosassone è di per sé signi-ficativo-, l’America Latina e, a maggior ragione, le comunità indigenedell’America Latina hanno una ben definibile identità.

Povertà elevata, catastrofi naturali ricorrenti, siccità, AIDS e altrepossibili forme di malattia –non da ultimo il morbo chiamato “febbredi dengue”, del quale si è molto parlato in America ed in Europa, unafebbre che oggi sembra stia infettando tutta Cuba- sono la conditio sinequa non della sua attuale identità. A questo, la rappresentazione liberi-sta aggiunge gli effetti perduranti del colonialismo; un colonialismoprettamente vetero-europeo, che mai sembrerebbe poter avere anchealtra provenienza, in questa visione. Un’insufficienza degli Stati comemotori dell’economia, ovvero la necessità per gli Stati di affidare tuttoalle famose e miracolose “leggi del mercato”, sembra la tragica e mec-canica conseguenza di tale storia passata. Un’altra parte costituente lavisione neo-liberista e iper-liberista dell’America Latina riguarda ilfamoso “deficit di democrazia”, di cui l’America Latina soffrirebbeautonomamente, e la stessa “corruzione dell’America Latina”; l’arre-tratezza istituzionale e culturale e quindi l’alta conflittualità socialecosì conseguita sarebbero il corollario delle cosiddette Latino dicta-torships. Alla base di questa visione traspare un concetto molto chiaro:le risorse dell’America Latina sono scarse o non ci sono tout court.Impossibile però non stupirsi: quanto è difatti credibile un’idea del

126

genere, ovvero che l’America Latina non abbia risorse? La risposta diquei visionari è chiara: è possibile che l’America Latina non abbiarisorse, perché è come se le risorse non ci fossero, date le insufficienzetecnologiche di cui l’America Latina soffre. Ci sono allora transnatio-nal holdings che suggeriscono: “Ci pensiamo noi: siamo più che suffi-cienti tecnologicamente e siamo in grado di far sì che quelle che nellemani delle comunità indigene non sono risorse diventeranno prestorisorse per tutti”, naturalmente sempre in nome del progresso ecc. E’evidente che questa rappresentazione ha specifiche ricette: ricette per lequali ovviamente vi è un prezzo da pagare.

Si tratta dunque di una rappresentazione che è espressione dellaglobalizzazione liberista, ma viene talvolta condivisa anche da marxi-sti, e in genere dai tecnocrati dello sviluppo sociale, politico e soprat-tutto economico.

Da questa rappresentazione consegue la programmazione econo-mica, politica e diplomatica per l’America Latina del futuro, una pro-grammazione espressa nel linguaggio delle Agenzie internazionali:

Action 1. State building and institutional building; democratizationand decentralization;Action 2. capacity building, capacity development;Action 3. technological enhancement.

Queste tre azioni principali si articolano innanzitutto in una richie-sta di democrazia, ovvero imposizione, secondo canoni internazionalinon meglio definiti, sostenuta dalla ideologia dei diritti umani.42 Neconsegue una forte proliferazione giuridica in America Latina, ovverouna sovraproliferazione nazionale e internazionale di leggi.Quest’ultima viene affiancata da interventi diplomatici di facciata,spesso non governativi –ovvero, visti con preoccupazione dai diploma-tici di carriera-, insieme a interventi economici tanto reali quanto di dif-ficile identificazione e definizione –ad opera, principalmente, delle

127

––––––––––––––––––––––––42 L’ideologia dei diritti umani di per sé mi trova favorevole, ma come prodotto del mercatoglobale, ovvero come performance di un diritto senza Stato e di un diritto senza Stati mi trovamolto diffidente; cfr. Palmisano 2006a, pp. 89-95, pp. 1609-162 e 2006b, pg. 126.

transnational holdings. La modernizzazione è ora intesa come de-tri-balizzazione e quindi de-indigenizzazione, con conseguente sfalda-mento di istituzioni attivamente presenti e funzionanti da secoli; quin-di, la de-tribalizzazione si concretizza eventualmente come musealiz-zazione delle comunità indigene. Gli interventi attraverso il FMI, consostegno agli Stati deboli –ovvero a Stati con debito estero, inefficien-za organizzativa ed amministrativa-, non riescono a innestare una spi-rale positiva. Eppure, l’asserzione ossessiva del dogma “la soluzioneeconomica porta con sé (e in sé) la soluzione politica” non manca difare proseliti: la free trade ideology impera, pur nulla risolvendo.

America Latina e etnografia immaginaria dell’America Latina,dunque, coincidono. L’America Latina resta un mondo imperfetto,quasi alla rovescia di un certo mondo Occidentale, ben mostrato damilioni di immagini diffuse dai mass media. O meglio, l’AmericaLatina resta un “mondo alla rovescia” del mondo Occidentale, auto-rappresentato come quintessenza della opulenza ed efficienza; unmondo che avrebbe già superato tutti gli esami della storia –economi-ca, politica, sociale ecc.- e che conoscerebbe solo problemi con ilmondo esterno, dovuti “naturalmente” a un deficit di democrazia inquest’ultimo… Ma è il caso di distinguere fra Occidente europeo eOccidente americano.

B. Rappresentazione Latino-americana dell’America Latina(rappresentazione politica e sociale)E’ comunque attiva anche una rappresentazione dell’America

Latina che risulta essere interna alla stessa America Latina. Divergedalla precedente, ed è anche essa molto interessante.

In questa rappresentazione, le diversità culturali ed etniche sonoriconosciute come agenti nella vita quotidiana.43 La discriminazionesociale e la discriminazione culturale includono crisi d’identità nazio-nale, ovvero implicano la costruzione di una “nazione” basata su prin-

128

––––––––––––––––––––––––43 Cfr. ad esempio la questione dell’identità nazionale e la realtà culturale, etnica e linguisticadi un paese (ad esempio, in Colombia, Brasile, Ecuador, Bolivia, Guatemala, Messico ecc.).44 Cfr. Conejo 2006, pg. 103

cipi culturali ed etnici non sempre condivisi o interiorizzati. I “governidemocratici” e la “democrazia borghese” evidenziano il rapporto fraoligarchie e classe politica dirigente anche come rapporto fra rappre-sentazioni.44 Il sistema dell’emarginazione economica, politica e socia-le è percepito come grande responsabilità e vergogna dell’Occidentenei confronti dell’America Latina;45 una responsabilità che comunquenon è qui considerata di matrice esclusivamente vetero-europea.L’irruzione dell’economia di mercato e la globalizzazione dimostranopoi che anche le immense risorse e ricchezze fornite dal petrolio pos-sono costituire più che una risorsa un problema effettivo, innestando unprocesso di ricchezza ma soprattutto di distruzione della struttura socia-le, quando non c’è redistribuzione. L’adozione indiscriminata dei pro-cessi di sviluppo neo-liberali evidenzia in effetti i limiti dei mercatiinterni e le difficoltà dello sviluppo industriale. La concentrazione delpotere e del denaro in mano alle oligarchie significa concentrazione deimezzi di produzione. Il sistema delle grandi piantagioni e la tratta deide facto schiavi si risolvono in una politica di annullamento dellecomunità indigene. La povertà, ovvero la ricchezza, è legata alla que-stione della redistribuzione; la stessa questione agraria, ovvero il lati-fondismo, verte sulla concentrazione della terra nelle mani di pochiproprietari.

L’incremento demografico -l’aumento del numero dei figli- lasciarilevare come nella stessa autorappresentazione l’America Latina siaproiettata proprio nei suoi figli. Con ciò si solleva l’immagine del lavo-ro minorile, come ineludibile e umiliante piaga sociale. La stessa cri-minalità organizzata giovanile (le maras, ad esempio), con la margina-lizzazione, la disoccupazione, l’alcolismo ecc. connota i contesti urba-ni e peri-urbani. La produzione, distribuzione e consumo di droghesegnano del resto un incremento; mentre il loro traffico istituisce eco-nomie troppo dipendenti da società e individui del tutto incontrollabilida parte di istituzioni civili, i.e. dallo Stato.

La fede, comunque, non segna il passo. Anzi, nuove organizzazio-

129

––––––––––––––––––––––––44 Cfr. Conejo 2006, pg. 10345 Ibidem

ni religiose si moltiplicano e potenziano; le “sette” religiose si trovanoa confronto con l’identità culturale di comunità, gruppi etnici e nazio-ni.

L’ostilità generalizzata, all’interno e verso l’esterno, è in crescita;l’isolamento dal mondo e nel mondo Occidentale come pure l’autoe-marginazione nei contesti nazionali sono riscontrabili, in particolare,nel campo della comunicazione. Ma l’interesse crescente al potenzia-mento delle relazioni con il mondo non-Occidentale ne è il corollario.

Da questa rappresentazione emica dell’America Latina conseguela programmazione economica, politica e diplomatica per l’AmericaLatina del futuro.

La soluzione all’isolamento è così identificata nella costituzione dinuove forme di Unione politica e economica interne all’AmericaLatina. Queste nuove unioni, questi sodalizi, hanno una nuova cosmo-gonia; una cosmogonia intesa in chiave spesso antistatale nazionale,che disconosce il principio territoriale dell’ordinamento; una cosmo-gonia che è filo-tribale e filo-indigena, che riconosce il principio diparentela e il principio di associazione per condivisione dell’azionecome momenti ordinatori della società.46 Del resto, le unioni regionaliin America Latina sono una soluzione efficace e non solo contingente,come anche le divisioni regionali: l’unione sud-sud è da perseguireprioritariamente.

I processi migratori campagna/città, immensi, sono inevitabili; e iprocessi migratori all’esterno, poderosi, sono auspicabili.

La repressione crescente della devianza non organizzata è vistacome prassi giornaliera delle politiche sociali. E, tragicamente, apparea molti ineludibile.

C. Rappresentazione dell’America Latina ad opera dei nuovimercati commercialiL’ultima rappresentazione dell’America Latina è quella con la

quale dovrà presto fare i conti la stessa America Latina. Le comunitàindigene in particolar modo, saranno le prime ad essere interessate. Si

130

––––––––––––––––––––––––46 A proposito dei principi di ordinamento della società, cfr. Palmisano 2006a, pp. 191-198.

tratta di una nuova forma di globalizzazione: non è la globalizzazioneliberista ma è una globalizzazione dei mercati commerciali. Non sonoi mercati finanziari ad essere in azione in questa rappresentazione masono i mercati commerciali. Quali sono questi mercati? Per esempio,mercati commerciali sono i mercati guidati dallo Stato –la famosa“economia socialista di mercato”, come è stata elaborata in Cina- omercati commerciali egualmente potenti, come realizzati in India e,altrove, dall’India. E’ il caso ormai di cominciare a familiarizzare conquesta rappresentazione, che è una rappresentazione molto diversa daquella liberista, e a prenderla in seria considerazione.

Alla globalizzazione liberista (economia dei mercati finanziari),condivisa de facto perfino dai marxisti, si affianca ora dunque l’altraglobalizzazione, parzialmente in conflitto con essa: la globalizzazionedei nuovi mercati commerciali. Si tratta dunque della globalizzazioneoperata dai mercati commerciali diretti dallo Stato (Cina e India), maanche della globalizzazione musulmana.

In contrapposizione a queste specifiche forme della globalizzazio-ne, l’identità delle comunità indigene vive una nuova crisi di trasfor-mazione. La struttura tribale tradizionale, ovvero la struttura e la orga-nizzazione delle comunità indigene, difatti, è funzionale alla globaliz-zazione operata dai mercati commerciali diretti dallo Stato; ma è fun-zionale, paradossalmente, proprio in chiave antistatale nazionale, lìdove lo Stato, ad esempio proprio in America Latina, può spesso esse-re percepito come un servo della globalizzazione liberista. E del resto,la stessa ideologia della free trade zone liberista rafforza e legittimaquesta convinzione popolarmente diffusa.

Agli occhi della Cina e dell’India, l’America Latina e le comunitàindigene dell’America Latina appaiono molto diverse da come sonorappresentate dal liberismo. Vengono viste o comunque rappresentatesu un piano apparentemente più ugualitario. E questa visione può esse-re agevolmente condivisa nella autorappresentazione delle comunitàindigene.

Lo stesso vale per il processo di rappresentazione dato dalla glo-balizzazione musulmana. Anche questa interesserà presto l’AmericaLatina e, in particolar modo, alcune comunità indigene. Ritengo che in

131

Paraguay, ad esempio, sia già osservabile un inizio di tutto ciò in alcu-ne zone, come mostra la regione di Ciudad del Este.

La rappresentazione e l’autorappresentazione sono fondamentalinella creazione dell’identità. E questa identità permette, ma può anchenon permettere, il dialogo fra lo Stato e le comunità indigene; quindi,il processo di rappresentazione o di autorappresentazione va seguitoattraverso un’attività attenta di rilancio di quello che è il linguaggio,ovvero il rilancio di lingua, tecnologia ed immagini indigene.

La rappresentazione operata dalla globalizzazione dei mercaticommerciali a guida statale propaganda le relazioni con l’AmericaLatina come relazioni strutturalmente simmetriche.

La verità è che in America Latina il danno è stato fatto ed è conti-nuamente reiterato, e consolidato. Colonizzazione e economia dellegrandi piantagioni hanno segnato un rapporto strutturale asimmetrico,come tale percepito dalle comunità indigene: l’ideologia della asimme-tria appare essere il principio di strutturazione delle relazioni sociali,almeno delle relazioni strutturali con un certo Occidente.

La Cina ha allora già vinto una sua prima partita. Come all’anticogioco del Go, la Cina ha acquisito un significativo vantaggio per erro-re iniziale dello storico avversario colonizzatore: trattare gli attorisociali su base razziale, ovvero con il supporto ideologico della pre-sunta “superiorità biologica e genetica di una razza sulle altre”. Questoerrore non viene mai dimenticato dall’America Latina.

Il dono stabilisce subito un rapporto asimmetrico. Forse, perdo-nando storicamente il colonialismo, l’America Latina sta praticando uncontrodono nel tentativo di stabilire una relazione simmetrica con laUE, nonostante gli errori della UE.

Del resto, timeo Danaos atque dona ferentes è asserzione ben notain tutte le società. E a ben poco valgono le dichiarazioni del tipo: “dob-biamo fare attenzione alla donor’s based welfare dependency degliStati dell’America Latina”, elaborate dagli operatori internazionali adapproccio liberista. Tali dichiarazioni non fanno altro, paradossalmen-te, che ribadire la volontà di mantenimento della posizione strutturaledi asimmetria.

Il dono è proprio ciò che nel Mercosud la Cina ha rifiutato di con-

132

cedere e di ottenere. Così, la Cina gode di una ottima immagine inAmerica Latina, perché apparentemente ha una buona immaginedell’America Latina: una volontà di relazione simmetrica, comunquecome tale percepita.

Verso nuove identitàLa struttura indigena e anche tribale può così assumere configura-

zioni contestuali. Una nuova cosmogonia motiva profondamente la dif-fidenza nello Stato (ovvero nel principio territoriale dell’ordinamen-to), visto come riflesso e incarnazione delle scelte del mondo neo-libe-rista e iper-liberista ecc. E’ una diffidenza però potenzialmente ambi-gua e in parte controproducente; basti pensare ad esempio all’azionedelle transnational holdings.

L’esaltazione del principio di parentela e del principio di associa-zione per condivisione dell’azione, in quanto principi ordinatori dellasocietà –presenti del resto nella ideologia categoriale e corporativadello “essere Latino Americani”- facilita la propria espressione nei ter-mini della unione dell’America Latina così come si sta oggi definen-do.47

Le già esistenti relazioni conflittuali Stato/comunità indigene siriproducono e moltiplicano, almeno sul piano della rappresentazione,perché tali relazioni sono considerate in prospettiva indigena comeasimmetriche, esattamente come asimmetrico è percepito il rapportocon il mondo Occidentale –almeno quando è neo-liberista e iper-liberi-sta.

Le comunità indigene vedono allora se stesse come esempi per ilfuturo, in quanto culla delle relazioni simmetriche, in relazione privile-giata con la presunta simmetria di relazioni proposta dalla globalizza-zione operata dai mercati commerciali diretti dallo Stato.

La relazione simmetrie der Handlung/a-symmetrie der Handlugcaratterizzerà dunque la strutturazione delle comunità indigene e con-seguentemente la strutturazione e configurazione del moderno Stato inAmerica Latina.48

133

––––––––––––––––––––––––47 Cfr. Palmisano 2006a, pp. 191-198.48 A proposito della nozione di simmetrie der Handlung, cfr. Thurnwald 1934.

Una certa economia liberista si manifesta come strumento eespressione di ideologie totalitariste (seppure camuffate), come espres-sione di una visione razzista e darwiniana del mondo: interpretazioneliberista e “metodista” del Vecchio Testamento, con trasformazioneultima dell’etica protestante, almeno rispetto all’etica come definitadall’analisi di Max Weber.

La plutocrazia, attraverso l’azione delle transnational holdings,diviene il linguaggio esprimibile di un inconfessabile Wahn: il “popoloeletto”, o meglio, laicamente autoeletto, ricompare nel novero delleideologie sempre operative, questa volta attraverso la specifica ideolo-gia del self made man; del resto, al popolo come soggetto giuridico estorico si è sostituito da tempo l’individuo.

Sull’eterna rappresentazione, in nuovo contesto, del White’s manburden si cimentano sia studiosi che funzionari di organizzazioni inter-nazionali o anche non governative: perfino insegnare ai curanderos,sulla base di antiche etnografie, come fare i curanderos diviene pro-gramma di interventi di cooperazione allo sviluppo presso le comunitàindigene presenti nei paesi del Mercosud.

Queste forme della rappresentazione dell’ “altro”, a loro volta,sono collegate alla concezione moderna di exercising power (strenght):stabiliscono una relazione asimmetrica di potere (Herrschaft) –anche eproprio in virtù della identità Stato/governo- al fine di ottenere e rea-lizzare consenso, che è la principale forma di legittimazione in questosistema di potere.

Vi è qualche motivo di ritenere, pur provocando imbarazzo, chel’Occidente abbia oggi almeno due volti: USA and GB, da una parte,ed UE, ovvero Europa continentale, dall’altra.

Se si apriranno due forme diverse di globalizzazione Occidentale(cfr. ad esempio la questione degli Accordi di Lomè e Cotonou per ipaesi ACP, perseguiti così volenterosamente da un Occidente e cosìcontestati proprio da parte dell’altro Occidente),49 cambierà il quadro

134

––––––––––––––––––––––––49 Cfr. quanto osservato ad esempio da Frau: “Nel 1998 e nel 2000 la CE ha definito la coo-perazione decentrata identificando attori e obiettivi generali della linea d’azione con paesiPVS, ACP e in particolare ALA ecc.”. Frau 2005, pg. 227.

A, lasciando comunque invariato –o limitato nella variazione-, il qua-dro B e il quadro C per i prossimi anni.

“L’economia dell’America Latina ha un budget inferiore a quello dimolti dei singoli Stati degli USA…”: ecco come agli occhi degli esper-ti degli USA appare l’America Latina. Questi occhi non riescono a rico-noscere nell’America Latina il palcoscenico di domani… Oppure lovedono ma lo disconoscono, ovvero vogliono non farlo vedere anchealla UE. Eppure, la presenza e il riconoscimento di un Occidente dupli-ce potrà essere di aiuto alla istituzione di un nuovo equilibrio mondiale.

E questo è un equilibrio determinato proprio dalla posizionedell’America Latina.

BIBLIOGRAFIA

Adams, Richard N. (ed.)- Ethnic Conflict and Governments in a Comparative Perspective, Washington D.C.,

The Latin American Program, Working Papers Series no. 215, 1995Almeida, Ileana y Arrobo, N.- En defensa del pluralismo y la igualdad. Los derechos de los pueblos indios y el

Estado. Quito: Fundación Pueblo Indio-Ediciones Abya Yala, 1998Belohradski, Vaclav- “La globalizzazione e i paradossi del multiculturalismo”, in Identità linguistica

delle popolazioni indigene della regione andina II: un approccio multidiscipli-nare. Palmisano, A.L. e Cataldi, G. (a cura di). Quaderni IILA, Serie economican. 30. Roma: IILA, 2006

Broekman, Jan M.- A Philosophy of European Union Law, Paris/Leuven: Peeters, 1999Conejo, Mario- “Espacios hegemónicos de la lengua kichwa en el campo de la educación, la políti-

ca y en la producción escrita”, in Identidad lingüística de los pueblos indígenasde la región Andina I, Ariruma Kowii (compilador). Quito: Universidad AndinaSimón Bolívar-Ediciones Abya-Yala, 2005

- “Interculturalidad e importancia de una comunicación multilingüe”, in Identità lin-guistica delle popolazioni indigene della regione andina II: un approccio multi-disciplinare. Palmisano, A.L. e Cataldi, G. (a cura di). Quaderni IILA, Serie eco-nomica n. 30. Roma: IILA, 2006

Fortes, M.- Time and Social Structure and Other Essays. London: Athlone Press, 1970

135

Frau, Aventino- Il diritto della cooperazione internazionale allo sviluppo. Padova: CEDAM, 2005Habermas, Jürgen- Theorie des kommunikativen Handels. Band I: Handlungsrationalität und gesell-

schaftliche Rationalisierung. Band II: Zur Kritik der funktionalistischen Vernunft.Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1981

Hutchinson, John and Smith, Anthony D. (eds.)- Ethnicity. Oxford: Oxford University Press, 1996Palmisano, Antonio L.- “Identidad étnica y relación entre derecho consuetudinario y Estado”, in Identidad

lingüística de los pueblos indígenas de la región Andina I, Ariruma Kowii (com-pilador). Quito: Universidad Andina Simón Bolívar-Ediciones Abya-Yala,2005:109-122

- Tractatus ludicus. Antropologia dei fondamenti dell’Occidente giuridico. CNR,Istituto di Studi Giuridici Internazionali. Monografie 6. Napoli: EditorialeScientifica, 2006a

- “Multiculturalità e diritto nel mondo post-globale”, in Identità linguistica dellepopolazioni indigene della regione andina II: un approccio multidisciplinare.Palmisano, A.L. e Cataldi, G. (a cura di). Quaderni IILA, Serie economica n. 30.Roma: IILA, 2006b:113-130

Schütz, Alfred - Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt. Eine Einleitung in die verstehende

Soziologie. Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1981 (1932)Stavenhagen, Rodolfo- Conflictos étnicos y estado nacional. México: Siglo Veintiuno, 2000Stavenhagen, Rodolfo- La cuestión étnica. México: El Colegio de México. Centro de Estudios

Sociológicos, 2001Thurnwald, Richard- Werden, Wandel und Gestaltung des Rechtes im Lichte der Völkerforschung. Berlin-

Leipzig, 1934Warner, W. Lloyd- The Social Life of Modern Community. New Haven: Yale University Press, 1941

136

Educação escolar indígena no Brasil

MARCIA MORAES BLANCk (Ministério da Educação de Brasil)

ApresentaçãoA Educação Escolar Indígena, como política pública desenvolvida

a partir dos marcos legais instituídos pela Constituição Federal nocampo dos direitos dos povos indígenas, fundamenta-se no reconheci-mento da organização social, do patrimônio científico, cultural, históri-co, socioeconômico, artístico e lingüístico dos povos indígenas. A ins-tituição escola insere-se na realidade sociocultural das comunidadesindígenas como espaço de construção de relações interculturais e inter-societárias que busquem a valorização e a manutenção da sociodiversi-dade no cenário de uma sociedade democrática.

A SECAD – Secretaria de Educação Continuada, Alfabetização eDiversidade, em sua missão de dar destaque político e institucional àsdiversidades socioculturais no campo educacional, vem desenvolvendopolíticas, programas e ações de modo a garantir o enraizamento de con-cepções e práticas gerenciais apropriadas ao reconhecimento das espe-cificidades dos sentidos e papel que cada povo indígena atribui à esco-la. São seis as principais ações desenvolvidas pela SECAD através daCoordenação Geral de Educação Escolar Indígena, a saber:

1. Formação de professores indígenas em cursos de licenciaturasinterculturais

IntroduçãoCom a ampliação e continuidade dos programas de formação de

professores indígenas para docência nos anos iniciais do ensino funda-mental, nos últimos dez anos houve um significativo crescimento deestudantes indígenas concluindo a primeira fase do ensino fundamen-tal e, com isso, buscando continuidade nos estudos. Muitas comunida-des passaram a encaminhar seus estudantes para matricularem-se nasescolas de cidades próximas às suas aldeias, o que originou uma série

137

de problemas para esses jovens e suas famílias. Em primeiro lugargerou um expressivo êxodo das comunidades para os núcleos urbanos,com famílias inteiras fixando-se nas periferias favelizadas, perdendoem qualidade de vida e esvaziando as aldeias. Por outro lado, muitosdesses jovens ao deixar o convívio familiar e comunitário viveram oimpacto da descontinuidade de sua aprendizagem nos valores e práti-cas socioculturais de afirmação da identidade e pertencimento étnicos,envolvendo-se com todos os riscos sociais próprios aos contextos urba-nos. Além disso, nas escolas não-indígenas, esses jovens sofrem com adiscriminação e preconceito que afetam seu desempenho escolar e suaauto-estima. Desse modo, lideranças indígenas, comunidades e seusprofessores passaram a demandar com forte ênfase a instalação deescolas que ofereçam toda a educação básica nas aldeias, considerandoas diretrizes e princípios da educação escolar intercultural indígena eseus projetos societários.

Para isso, o Ministério da Educação, desde 2003, vem priorizandoum conjunto de ações para impulsionar a formação de professores indí-genas em nível superior, habilitando-os para a docência nos anos finaisdo ensino fundamental e no ensino médio.

Como já estava consolidado na formação para o magistério inter-cultural, a formação no ensino superior também ocorre por meio dacriação de cursos específicos de licenciaturas interculturais. Em 2002,respondendo à consulta dos professores e lideranças indígenas deRoraima50, o Conselho Nacional de Educação argumentou pela especi-ficidade da formação superior de professores indígenas a partir da lei-tura e interpretação dos direitos constitucionais dos povos indígenas.

Desse modo, a demanda dos povos indígenas por processos deeducação escolar diferenciados em todas as etapas e modalidades daeducação básica, em conformidade com seus projetos autonomia e sus-tentabilidade socioambiental, está sendo implementada por meio daformação de professores das próprias comunidades em cursos de nívelsuperior.

138

––––––––––––––––––––––––50 Parecer 10/CNE – 2002, relator Carlos Roberto Jamil Cury, em resposta à Carta deCanauanim, encaminhada por professores e lideranças indígenas de Roraima.

Objetivo geralPromover a afirmação das identidades étnicas, a recuperação da

memória histórica e a valorização das línguas e conhecimentos dospovos indígenas na educação básica intercultural indígena com a for-mação de professores indígenas em cursos de licenciaturas intercultu-rais.

Objetivos específicos– Garantir a oferta da educação básica intercultural nas escolas indí-

genas.– Fomentar a criação, nas instituições públicas de ensino superior,

de cursos de licenciaturas interculturais para a formação de pro-fessores indígenas em diálogo com os projetos societários e iden-titários de suas comunidades.

– Apoiar a formação de professores indígenas para a docência nasegunda fase do ensino fundamental e no ensino médio.

– Apoiar propostas de formação de professores de professores quepromovam estudos de temas indígenas relevantes, como gestão esustentabilidade das terras e das culturas dos povos indígenas.

– Ensejar a valorização e fortalecimento das línguas indígenas naformação de professores indígenas e na educação básica intercul-tural oferecida nas escoals indígenas.

– Contribuir para as políticas voltadas para a formação docente coma implementação e avaliação de experiências de licenciaturasinterculturais indígenas.

Resultados alcançadosNo período entre 2005-2006, o PROLIND financiou as institui-

ções superiores de ensino relacionadas a seguir que estão atendendo a807 professores indígenas. 51

139

––––––––––––––––––––––––1 A UFG-Universidade de Goiás, associada à UFT-Universidade Federal do Tocantins e aUFGD-Universidade Federal da Grande Dourados realizaram vestibulares para o início do anoletivo em 2007, atendendo a 120 professores.

1. Projetos de Manutenção e Implantação de Cursos deLicenciaturas Interculturais

– Universidade Federal de Roraima – UFRR/Núcleo Inskiran deFormação Superior Indígena Cursos de Licenciaturas Interculturais para a formação de 180 pro-fessores dos povos Makuxi, Ingarikó, Wapichana, Yekuana,Taurepang, Wai WaiParcerias: Secretaria de Estado da Educação e FUNAIColaboram com a iniciativa a OPIR-Organização dos ProfessoresIndígenas de Roraima, OMIR-organização das MulheresIndígenas de Roraima, a APIR-Associação do Povos Indígenas deRoraima, o CIR-Conselho Indígena de Roraima e docentes daUFG-Universidade Federal de Goiás e do CTI-Centro de TrabalhoIndigenista. Valor: R$ 500.000,00

– Universidade Estadual de Mato Grosso – UNEMATProjeto de Formação de Professores Indígenas – 3º Gau Indígena,Campus de Barra do Bugres-MT300 professores indígenas em formação, provenientes de 35 povosindígenas52

Parcerias: Secretaria de Estado da Educação e FUNAI Colaboração do Conselho Estadual de Educação EscolarIndígena – CEEI/MT, Organização dos Professores de MatoGrosso – OPRIMT, Museu Nacional/UFRJ, UNICAMP,FUNASAValor: R$ 420.000,00

– Universidade Federal de Minas Gerais – UFMGProjeto de Formação Intercultural de Professores Indígenas

140

––––––––––––––––––––––––52 198 professores se licenciaram em junho de 2006. 180 são provenientes de povos no MatoGrosso e os demais dos estados do Acre, Amazonas, Ceará, Paraíba, Bahia, Rio Grande do Sul,Paraná e Espírito Santo. Hoje 100 novos licenciandos integram a segunda turma, oriundos dealdeias de Mato Grosso.

140 professores dos povos Maxacali, Xacriabá, Krenak, Pataxó eKaxixó Colaboração da Secretaria de Estado da Educação,Organização da Educação Indígena Xacriabá – OEIX,FUNAI.Valor: R$ 500.000,00

– Universidade do Estado do AmazonasProjeto de Formação de Professores Indígenas do Alto Solimões250 professores dos povos Ticuna, Kokama, Kaixana Parceria: Organização Geral dos Professores Ticuna Bilíngües– OGPTB, FIDA-Fundo Internacional de DesenvolvimentoAgrícola, FUNAI. Colaboração da Prefeitura Municipal de Benjamin Constant-AM,Valor: R$ 500.000,00

2. Projetos Elaboração de Cursos de Licenciaturas Indígenas

– Universidade Federal de Campina Grande – UFCG Projeto de Licenciatura para Professores Indígenas Parcerias: Organização dos Professores Potiguara – OPIP, FUNAIValor: R$ 99.992,00

– Universidade do Estado da Bahia – UNEB Projeto Universidade na Aldeia Parcerias: Secretaria de Estado da Educação, Fórum Estadual deEducação Escolar Indígena da Bahia, Associação de AçãoIndigenista – ANAí, FUNAI Valor: R$ 100.000,00

– Universidade Federal do AmazonasElaboração de Projeto de Curso de Licenciatura Específica paraFormação de Professores Indígenas MuraParcerias: Conselho Estadual de Educação Escolar Indígena –

141

CEEI/AM, Fundação Estadual de Política Indigenista – FEPI,FUNAI Valor: R$ 81.284,00

– Universidade Estadual de Londrina - UEL Diagnóstico Sócio-Educacional das Populações Indígenas noParanáFormação de Professores Kaingáng e Guarani Valor: R$ 94.987,00

2. Formação de professores indígenas para o magistério intercul-tural

Introdução A proposta de uma educação escolar indígena de qualidade –

intercultural, específica, diferenciada, bilíngüe / multilíngüe – pres-supõe que os próprios índios e suas respectivas comunidades estejamà frente como professores e gestores da prática escolar. Para que aescola indígena seja autônoma e fortaleça os projetos societários eidentitários dos povos indígenas é fundamental desenvolver práticasde formação docente considerando cenários de diversidade sociocul-tural.

Os sistemas de ensino estaduais são responsáveis pela oferta edesenvolvimento de programas de formação de professores indígenas.A maioria das secretarias estaduais de educação criou programas deformação inicial, aprovados pelos Conselhos Estaduais de Educação,para a habilitação para a docência nos anos iniciais do ensino funda-mental com oferta de escolarização concomitante. Também são reali-zados cursos de formação continuada, esperando-se que esses cursostambém sejam organizados a partir de programas contínuos e específi-cos e não em eventos isolados de formação.

Em 2002, o Ministério da Educação publicou os Referenciais paraa Formação de Professores Indigenas, republicado em 2005, paraorientar as Secretarias Estaduais de Educação na organização e gestãodos programas de formação de docentes indígenas. Baseado em dife-rentes experiências de formação de professores indígenas, os

142

Referenciais sistematizam as principais idéias e práticas implementa-das por diferentes projetos desenvolvidos no país.

Em 2003, o periódico EM ABERTO nº 76, do INEP, publicou umvolume sobre Experiências e Desafios na Formação de ProfessoresIndígenas no Brasil, com reflexões a partir da expansão quantitativa eda diversificação das experiências de formação professores indígenas.

Em 2006, integrando a Coleção Educação para Todos, foi lançadoFormação de Professores Indígenas – repensando trajetórias comosubsídio para diferentes atores - gestores e técnicos governamentais,especialistas, lideranças e comunidades indígenas envolvidos na for-mulação e implementação de programas de formação de professoresindígenas.

Garantir a efetivação do direito dos povos indígenas à educaçãoescolar intercultural de qualidade por meio da formação inicial e con-tinuada de professores, considerando a multiculturalidade e questõessociolingüísticas.

Objetivos específicos– Contribuir para os projetos societários e identitários dos povos

indígenas apoiando programas específicos de formação inicial econtinuada de professores indígenas para o magistério intercultu-ral.

– Incentivar o tratamento da temática da sustentabilidade socioam-biental e cultural nas propostas político-pedagógicas de formaçãode professores indígenas.

– Propiciar a qualidade e a autonomia pedagógica da escola indíge-na por meio da formação de professores indígenas.

– Fomentar a produção de materiais didáticos, a partir das realidadessocioculturais e sociolingüísticas e com a participação de suacomunidade, nos cursos de formação para o magistério intercultu-ral.

– Apoiar pedagógica, técnica e financeiramente as Secretarias deEducação para a criação de programas específicos de formaçãoinicial e continuada de professores indígenas para o magistériointercultural.

143

Resultados alcançadosNo período de 2003-2006, o Ministério da Educação financiou 67

propostas de formação de professores indígenas, investindo no períodoR$ 9.655.847,67. Descrevemos abaixo as instituições executoras daformação de professores indígenas e as principais instituições que cola-boram no desenvolvimento da ação.

Protocolo Guarani

Programa de Formação para a Educação Escolar Guarani naRegião Sul e Sudeste do Brasil Kuaa – Mbo’e = Conhecer – Ensinar

Executado pelas Secretarias de Estado de Espírito Santo, Rio deJaneiro, Paraná, Santa Catarina e Rio Grande do Sul, tem aCoordenação Executiva a cargo da SEDUC-SC e a CoordenaçãoPedagógica, pela SEDUC-RJ. Compõem a Secretaria Executiva cincorepresentantes dos professores Guarani em formação, MEC / SECAD,SEDUC-SC e FUNAI.

75 professores Guarani Mbya de 34 aldeias localizadas no litoraldo Espírito Santo ao Rio Grande do Sul.

Colaboração de formadores e pesquisadores da UERJ, UFRJ,UDESC, UFMT, UFSC e UFPR participam da formação dos técnicosdas SEDUCs e das etapas intensivas de estudos.

A FUNAI participa com assessoria técnica e financiamento departe das despesas.

O Conselho de Missão entre índios-COMIN, do RS, participa dasatividades decorrentes do curso.

Região NorteAcre1. Secretaria de Estado da Educação - Curso de Formação em Magistério Indígena

Povos Katukina, Kaxinawá, Poyanáwa, Nukini, Jaminawá, Nawá,Ashaninka, Apolima Arara, Jaminawá Arara, Shawandawa, Madija,Manxineri, Shanenawá e Yawanawá.

192 professores

144

Parcerias: Secretaria Extraordinária dos Povos Indígenas-SEPI,Secretaria de Assistência Técnica e Extensão Rural-SEATER, Institutode Meio Ambiente do Acre-IMAC, Secretaria de Produção Familiar-SEPROF, Secretaria de Estado de Cidadania Inclusão e AssistênciaSocial-SECIAS, Prefeituras de Santa Rosa do Purus, Jordão e MarechalThaumaturgo, FUNAI, Fundação Nacional de Saúde–FUNASA,Comissão Pró índio-CPI, Organização dos Professores Indígenas doAcre-OPIAC, Associação do Movimento dos Agentes Agroflorestais-AMAIAC, Conselho Indigenista Missionário-CIMI, Organização dosPovos Indígenas-OPIN, Manxinerine Ptowri Kajpaha Hajene-MAP-KAHA, Organização OKAEJ, Organização dos Povos Indígena do RioEnvira-OPIRE, Organização dos Povos Indígenas de Tarauacá-OPI-TAR, Organização dos Povos Indígenas do Juruá-OPIJE e Organizaçãodos Povos Indígenas do Acre, Sul do Amazonas e Noroeste deRondônia-OPIN.

2. OPIAC – Organização dos Professores Indígenas do Acre– Uma Experiência de Autoria - Formação Continuada deProfessores Indígenas

Povos Kaxinawá, Manchineri, Katukina, Jaminawa, Ashaninka,Yawanawa, Shawanawa

40 professores Parcerias: CPI-Acre, Rainforest da Noruega, SEDUC-ACColaboram com o projeto docentes e pesquisadores do IEL/UNI-

CAMP, USP, UFAL, UFMG.

Amapá1. Secretaria de Estado da Educação – Formação de Professores Indígenas

Povos Galibi, Karipuna, Tiriyó, Aparai, Wayana 70 professores

2. IEPÉ – Instituto de Estudos e Pesquisas em Educação – Formação para o Magistério Indígena

Povo Wajãpi

145

19 professores Parceria: SEDUC-AP A formação conta com consultoria de pesquisadores da USP

Amazonas1. Secretaria de Cultura e Qualidade da Educação – Projeto Pirayawara

Povos Sateré-Mawé, Mura, Apurinã, Deni, Munduruku,Kanamari, Kulina, Tenharim, Parintintin, Torá, Paumari, Jamamadi

530 professoresParcerias: FUNAI e SEMEDs

2. Centro de Trabalho Indigenista – CTI – Programa de Educação e Referência Cultural

Povos Marubo, Matis e Kanamari75 professores Parceria: FUNAI e CIVAJA Colaboração de pesquisadores da Museu Nacional / UFRJ

3. Instituto Socioambiental – ISA – Oficinas de Formação Continuada de Professores Indígenas 53

Povos Baniwa, Coripaco, Tuyuca Tukano, Wanano, Piratapuya,Tariano

72 professores Parcerias: IPOL-Instituto de Política e Desenvolvimento

Lingüísitico São formadores e consultores do projeto pesquisadores da UNE-

MAT, Museu Nacional/UFRJ, IPHAN, SEMEC de São Gabriel da

146

––––––––––––––––––––––––53 As oficinas são diferenciadas a partir das demandas dos professores e suas comunidades.Assim, os Wanano têm oficinas que envolvem os conteúdos de prática pedagógica, lingüística,manejo agroflorestal, educação em saúde, produção de material didático; os Tariano trabalhama formulação de projetos político-pedagógicos; os Piratapuya, conteúdos da lingüística; osTuyuka, gestão de projetos, manejo agroflorestal, informática, matemática, história, música edança, política lingüística, pesquisa e avaliação, os Tukano, manejo agroflorestal, produção dematerial didático, gestão escolar, alfabetização, astronomia, política lingüística, os Baniwa eCoripaco, meliponicultura, gestão de projetos, matemática, língua portuguesa, manejo agroflo-resta, pesquisa, astronomia.

Cachoeira, FOIRN-Federação das Organizações Indígenas do RioNegro

4. Organização Geral dos Professores Ticuna Bilíngües – OGPTB – Curso de Ensino Médio – Magistério Indígena

Povos Ticuna, Kokama e Caixana 126 professores Apoio da FUNAI e da Prefeitura Municipal de Benjamin

Constant-AM

5. IBCT – Instituto Brasileiro de Informação em Ciência eTecnologia / Ministério da Ciência e Tecnologia – MEDIATECA

– Curso de formação continuada - uso da informática no fortaleci-mento de projetos culturais

Povo Tukano – Alto Rio Negro 10 professores

Pará 1. Secretaria de Estado da Educação – Curso Normal em Nível Médio - Formação de Professores Índiosdo Pará

Povos Wai-wai, Tembé, Atikum, Amanayé, Anambé, AssuriniAikewara, Akranpikatejê, Guarani, Karajá, Kuikatejê, Xikrin,Parakatejê, Javaé

84 professores Colaboram para a iniciativa a FUNAI/Marabá e a SEMEC de

Oriximiná

2. Associação Carlo Ubialli– Projeto de Formação Continuada de Professores Tembé

Povo Tembé 19 professores Colaboração de lingüista e formador do Instituto de Investigação

de Desenvolvimento de Políticas Lingüísticas-IPOL

147

Rondônia Secretaria de Estado da Educação - Formação Continuada de Professores Indígenas Povos Karitiana, Gavião, Kaxarari, Macurap, Tupari, Kanoe,

Suruí, Jaboti, Amomdawa 120 professores

Roraima1. Secretaria de Estado da Educação– Projeto Tamî’ kan

Povos Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Taurepang, Wai-Wai,Yekuana, Yanomami

100 professores Colaboração da Organização dos Professores Indígenas de

Roraima-OPIR, Associação do Povos Indígenas de Roraima-APIR,Conselho Indígena de Roraima-CIR, FUNAI

Participação de docentes e pesquisadores da UFRR

2. Comissão Pró-Yanomami– Projeto Yarapiari – Formação de Professores para o Magistério

Povo Yanomami 24 professores

Colaboração da Rainforest da Noruega, Operação Dia deTrabalho/Noruega, FUNAI, INPA

Participação de Formadores e consultores do ISA, CPI Acre, USP,UnB, UFRR

TocantinsSecretaria de Estado da Educação– Curso de Formação Inicial Professores Indígenas

Povos Karajá, Xerente, Krahô, Apinajé, Javaé, Xambioá 159 professores Participação de formadores da UFG, UFTO e ULBRA

148

– Curso de Formação Continuada de Professores das EscolasIndígenas

159 professores não-indígenas70 professores indígenas

Maranhão54

1. Secretaria de Educação e Cultura – Formação Inicial no Magistério Indígena

Povos Tentehar, Ka’apor, Krikati, Pukobiê (Gavião), Apiniekrá(Canela) e Ramkokamekrá (Canela)

246 professores Parcerias: FUNAI e as Gerências Regionais da SEDUC

2. Associação Carlo Ubialli – Projeto de Formação Continuada de Professores Indígenas

Povos Guajajara e Kaápor90 professores

Região Centro-Oeste Mato Grosso

1. Secretaria de Estado da Educação –Projeto Haiyô – Magistério Intercultural 55

Povos Kamayurá, Kuikuru, Mehinako, Yawalapiti, Kalapalo,Waurá, Matipu, Tapirapé, Karajá, Xavante, Suyá, Kayabi, Trumai,Yudjá, Ikpeng, Zoró, Cinta Larga, Myky, Rikbaktsa, Paresi, Arara,Nambikwara, Terena, Bororo

278 professores Colaboração da FUNAI, FUNASA e SEMEDs

149

––––––––––––––––––––––––54 O estado do Maranhão foi inserido neste documento na região norte por suas característicassocioambientais mais aproximadas a esta região. 55 Integram a equipe de formadores professores indígenas licenciados pela UNEMAT, Projeto3º Grau Indígena.

2. Associação Ipren-re de Defesa do Povo Mebêngôkre – Curso de Formação de Professores Mebêngôkre, Panará eTapajúna

Povos Mebêngôkre, Panará e Tapajuna43 professores Parceria da Rainforest do Japão e da FUNAI Participação de docentes da UnB, UNICAMP, ISA, Museu Goeldi

3. Instituto Socioambiental 56

– Formação Continuada de Professores Indígenas do Parque doXingu

Povos Aweti, Waurá, Kuikuro, Kamaiurá, Suiá, Nahukuá, Matipu,Kaiabi, Trumai, Ikpeng, Kalapalo, Panará, Mehinaku, Yudjá,Yawalapiti

43 professores Participação de formadores da UNICAMP, USP, Museu

Nacional/UFRJ, PUC-SPParceria da Rainforest da Noruega e FUNAI

4. Organização Amazônia Nativa – OPAN – Curso de Formação Continuada de Professores Indígenas

Povos Katukuna-AM, Irantxe e Myky-MT24 professores Parcerias: Conselho dos Povos Indígenas de Jutaí-COPIJU/AM,

UNI-Tefé/AM, SEMEC Jutaí/AM, CIMI-MT e CEEI-MT

Mato Grosso do Sul Secretaria de Estado da Educação – Curso de Formação Continuada de Professores Indígenas

Povos Kadiwéu, Terena, Guató, Kinikinaw, Ofayé, Guarani,Kaiowá, Atikum, Kamba

150

––––––––––––––––––––––––56 O Instituto Socioambiental desenvolveu no período de 1994 a 2003 um curso de formaçãoinicial para professores dos povos do Parque Indígena do Xingu que habilitou um total de 40professores. Destes, 19 ingressaram no Projeto 3º Grau Indígena da UNEMAT, licenciando-seem 2006. À medida em que os professores indígenas se habilitaram, passaram a atuar comoprofessores auxiliares junto com a equipe formadora.

104 professores Participação de formadores da UCDB e UNICAMP

GoiásSecretaria de Estado da Educação– Curso de Formação Continuada de Professores Indígenas

Povos Karajá e Tapuio 26 professoresApoio da FUNAI e CIMI

Região NordesteBahiaSecretaria de Estado da Educação – Curso de Formação Continuada de Professores Indígenas

120 professores indígenas - Curso do Formação Inicial - Magistério Indígena

112 professores Povos Kiriri, Pataxó, Pataxó Hã-Hã-Hãe, Pankaru, Tuxá, Kaimbé,

Kantaruré, Tupinambá, Tumbalalá Participação de docentes57 da UFBA, UNEB Parceria com 16 SEMEDs

Ceará Secretaria de Estado da Educação– Magistério Indígena II

Povos Tapeba, Tremembé, Pitaguary, Jenipapo-Kanindé, Tabajara,Potuguara, Kariri

120 professores Participação de formadores da UFCE

Paraíba Secretaria de Estado da Educação – Curso de Formação Continuada de Professores Indígenas

Povo Potiguara

151

––––––––––––––––––––––––57 Integram a equipe de formadores três professores indígenas licenciados pela UNEMAT,Projeto 3º Grau Indígena.

120 professores Parceria da FUNAIParticipação de formadores da UFPE, UFPB e UFMT

Pernambuco1. Secretaria de Estado da Educação– Curso de Especialização em Educação Escolar Indígena

120 professores indígenas

– Curso de Formação Continuada de Professores IndígenasPovos Pankararu, Pipipã, Atikum, Truká, Kambiwá, Xukuru,

Kapinawá, Pankará, Fulni-Ô630 professores Parceria com a Comissão de Professores Indígenas de

Pernambuco-COPIPE, Centro de Cultura Luiz Freire-CCLF, UFPE,UPE, FUNAI e CIMI

2. Centro de Cultura Luiz Freire – Formação de Gestores das Escolas Indígenas

Povos Pankararu, Pipipã, Atikum, Truká, Kambiwá, Xukuru,Kapinawá, Pankará

80 professores Parceria com COPIPE e SEDUC-PE

SergipeSecretaria de Estado da Educação - Formação Continuada de Professores Indígenas

Povo Xocó13 professores não-índios e 02 professores Xocó Consultoria do CCLF-Centro de Cultura Luiz Freire

Região Sudeste Espírito Santo Secretaria de Estado da Educação Curso de Formação Continuada de Professores

Povos Guarani e Tupinikim

152

40 professores Parcerias: SEMED Aracruz e Pastoral Indigenista

Região Sul Paraná Secretaria de Estado da Educação– Formação de Professores Indígenas – Normal

Povo Kaingáng 80 professores Colaboração de formadores da UFPR, UFMT

– Formação Continuada de Professores Indígenas 60 professores

Santa Catarina Secretaria de Estado da Educação e Inovação – Formação Continuada de Professores Indígenas

Povos Kaingáng e Guarani 148 professores Colaboram na docência do curso professores da UFSC, IEL/UNI-

CAMP e UFG

Rio Grande do Sul1. Secretaria de Estado da Educação – Formação Continuada de Professores Indígenas

Povo Kaingáng 40 professores

2. FURI – Fundação Universidade Regional Integrada de SantoÂngelo – Curso de Formação Continuada - áreas de linguagem e história /geografia

Povo Kaingáng 60 professores Parcerias: UNICAMP, FUNAI, KAMURI

153

3. Produção e publicação de materiais didáti cos bilíngües oumultilíngües

IntroduçãoUm dos eixos de sustentação das políticas de educação escolar

intercultural indígena é a produção de materiais didáticos e paradidáti-cos que apóiem as práticas pedagógicas e curriculares dos professoresindígenas. A interculturalidade que fundamenta a educação escolarindígena, na sua vertente de valorização dos etno conhe cimentos, dasformas próprias de constituição e transmissão desses saberes e de con-textualização às realidades sociolingüísticas de cada povo indígena,devem ter como formas de expressão produções textuais manifestas emvariadas linguagens e suportes comunicativos.

A riqueza do patrimônio cultural e lingüístico dos povos indígenase sua apropriação dos conhecimentos relevantes para a interação cidadãcom a sociedade nacional devem ser expressas em formulações que refli-tam os projetos societários e identitários de cada comunidade. Marcadiferencial dessa política é a autoria de professores indígenas e a partici-pação de suas comunidades em atividades de pesquisa e elaboração des-ses materiais que, em sua grande maioria, ocorrem nos contextos dos cur-sos de formação docente inicial e continuada, com assessoria antropoló-gica, lingüística e de especialistas nas demais áreas de conhecimento.Além de recurso didático, muitas obras têm usos diversificados, servin-do também como literatura de registro e fruição de expressões culturais.

Objetivo geralPromover a afirmação das identidades étnicas, a recuperação da

memória histórica e a valorização das línguas e conhecimentos dospovos indígenas por meio da produção, distribuição e difusão de mate-riais didáticos e paradidáticos específicos aos contextos indígenas, con-siderando as questões lingüísticas e culturais.

Objetivos específicos– Fomentar a produção e distribuição de materiais específicos de

autoria dos professores indígenas com a participação de suascomunidades e com assessoria especializada.

154

– Disponibilizar materiais didático-pedagógicos de acordo com ocontexto sociocultural e sociolingüístico de cada povo indígena.

– Ensejar a valorização e fortalecimento das línguas indígenas pormeio da produção de materiais didático-pedagógicos bilíngües oumultilíngües.

– Possibilitar a expressão da variedade da língua portuguesa usadacomo primeira língua por alguns povos indígenas em materiaisdidáticos e paradidáticos.

– Contribuir para as políticas voltadas para o livro didático aportan-do as especificidades pedagógicas e socioculturais da educaçãoescolar intercultural indígena.

Resultados alcançadosEm resposta à Carta Convocatória da SECAD, de junho de 2005,

para financiamento de projetos pela CAPEMA, 68 projetos foramencaminhados por diferentes instituições, como secretarias estaduais deeducação, organizações indígenas, organizações de apoio,Universidades, Caixas Escolares Indígenas e órgão governamental.Foram aprovados integralmente e financiados 29 projetos, sendo 20livros, 7 Cds, 2 vídeos, e os demais pré-aprovados para uma nova fasede financiamento.

No período entre 2004 e novembro / 2006, a SECAD publicou edistribuiu 50 títulos,58 investindo R$ 2.292,026,09. Identificamos,agrupados por unidades da federação, os títulos das obras, acompanha-dos de pequenas resenhas, e a instituição executora.

4. Criação e funcionamento da comissão na cional de educaçãoescolar indígena - CNEEI

Introdução O exercício do diálogo intercultural se impõe nas relações que se

estabelecem entre o Estado brasileiro e os povos indígenas para odesenvolvimento das políticas públicas indigenistas a partir dos mar-

155

––––––––––––––––––––––––58 Trata-se de obras financiadas por meio de Planos de Trabalho Anuais apresentados ao FNDEem 2004, obras publicadas com recursos do Programa Brasil Alfabetizado e da CAPEMA, em2005 / 2006.

cos constitucionais. Tal prática é recente na realidade brasileira emfunção do histórico de políticas indigenistas que foram executadas. Oparadigma assimilacionista e integracionista que caracterizou asrelações entre os povos indígenas e o Estado brasileiro pretendia aanulação das diferenças culturais na construção de uma sociedadehomogênea cultural e lingüisticamente. Com relação aos direitos polí-ticos, os povos indígenas foram caracterizados como relativamentecapazes59, conceito que gerou práticas de tutela estatal sobre a popu-lação e seus territórios.

No Brasil, a política pública de atenção à saúde dos povos indí-genas está fundamentada na participação e controle social indígenas,como direito, nos organismos colegiados de formulação, acompanha-mento e avaliação das políticas e ações.60 A partir da instalação dosDistritos Sanitários Especiais Indígenas-DSEI61, que são modelos deorganização dos serviços de saúde orientados pelo espaço etno-cultu-ral e geográfico dos povos indígenas, foram criados ConselhosDistritais para cada um dos DSEI, como instâncias de controle socialde caráter deliberativo e paritário na representação dos usuários indí-genas, cujos Presidentes são escolhidos pelos Conselheiros. Tambémexistem os Conselhos Locais de Saúde Indígena constituídos porrepresentantes escolhidos pelas comunidades que possibilitam a arti-culação dos gestores e comunidades que demandam ações e os ser-viços e o Conselho Distrital. Além desses espaços já ocorreram quatroConferências Nacionais de Saúde Indígena.62 Esse formato de políti-ca pública com controle social institucionalizado vem gerando valio-sas experiências de aprendizado na participação social, desde o plane-jamento, acompanhamento, avaliação e prestação de contas dos recur-sos públicos em alguns DSEI, o que convergiu para que representan-tes indígenas passassem também a reivindicar a mesma participaçãonas políticas de educação.

156

––––––––––––––––––––––––59 Código Civil, de 1916. 60 Lei nº 9.836, de 23.09.1999. In Política Nacional de Atenção à Saúde dos Povos Indígenas.Brasília, Ministério da Saúde, Fundação Nacional de Saúde, 2002. 61 Hoje existem 34 DSEI.62 A primeira ocorreu em 1986, a segunda em 1993; a terceira em 2001 e a quarta em 2006.

A legislação educacional brasileira preconiza a interlocução indí-gena com os gestores públicos em diversos documentos. A LDB, noArtigo 79, estabelece que “os programas de provimento da educaçãointercultural devem ser planejados com a audiência das comunidadesindígenas”. O Plano Nacional de Educação orienta para “a plena par-ticipação de cada comunidade indígena nas decisões relativas ao fun-cionamento da escola”. A Resolução 03/CEB-CNE, de 1999, noArtigo 10, define que “o planejamento da educação escolar indígena,em cada sistema de ensino, deve contar com a participação de repre-sentantes de professores e de organizações indígenas”.63 No entanto, aparticipação social nas políticas de educação é de recente implemen-tação, encontrando-se ainda muitas resistências nos sistemas de ensi-no para a plena efetivação do diálogo institucionalizado com repre-sentantes indígenas.

Em 2004, o governo brasileiro, por meio do Decreto 5.551, pro-mulga a Convenção sobre Povos Indígenas e Tribais,64 conhecidacomo Convenção 169, da Organização Internacional do Trabalho. Osconceitos básicos da Convenção são o respeito à diversidade sociocul-tural e a exigência de participação dos povos indígenas nas decisõeslegislativas ou do poder executivo, na medida em que isto afete suasvidas, crenças, instituições, bem-estar social e cultural. Desse modo, éresponsabilidade dos gestores públicos responsáveis pela oferta da edu-cação escolar indígena fundamentar suas decisões no diálogo intercul-tural com representantes dos povos indígenas, garantindo com issoresultados eficazes levando-se em conta as diferenças culturais e osprojetos societários dos povos indígenas.

Objetivo geralPromover a participação e o controle social indígena na proposição,acompanhamento e avaliação das políticas educacionais do Ministérioda Educação voltadas para a garantia dos direitos indígenas à educaçãoescolar básica intercultural.

157

––––––––––––––––––––––––63 As leis e a educação escolar indígena. MEC:SECAD, 2005. 64 Convenção nº 169 sobre povos indígenas e tribais em países independentes e Resoluçãoreferente à ação da OIT sobre povos indígenas e tribais. Brasília:OIT, 2005.

Objetivos específicosImplementar o diálogo intercultural com representantes das

organizações indígenas na definição das políticas educacionais emconformidade com os projetos societários e identitários dos povosindígenas.

Garantir espaços públicos de discussão e reflexão sobre as pers-pectivas indígenas na definição das políticas educacionais doMinistério da Educação a partir da consideração da sociodiversidadeindígena.

Fomentar a institucionalização de espaços públicos de participa-ção e controle social indígena nos Sistemas de Ensino.

Resultados alcançadosA Comissão, no período de 2003 a setembro/2006, desempenhou

um importante papel no desenvolvimento das políticas educacionais noâmbito do Ministério da Educação. Relacionamos abaixo algumasdecisões importantes da Comissão junto aos gestores do MEC.

Em 2003, membros da CNPI integram a Comissão Assessora daDiversidade, instalada na SEMTEC-Secretaria de Ensino Médio eTecnológico, e, no contexto do Programa Diversidade na Universidade,aprovam e deliberam sobre a realização do I Seminário de Políticas deEnsino Médio e Povos Indígenas.65 Participam também da definição eorganização do Diagnóstico sobre a Demanda e Oferta de EnsinoMédio nas Escolas Indígenas.

No biênio 2003/2004, são atores junto à SEMTEC e CGEEI naproposição de mudanças no escopo das ações do Programa Diversidadena Universidade, que previa ações de implantação de cursos de vesti-bular para ingresso na formação superior, passando a contemplar a for-mação de professores indígenas para o magistério e as licenciaturasinterculturais.

Em 2004, a CNEEI compõe a Comissão Especial para a FormaçãoSuperior Indígena-CESI, instituída pela SESu. Participam, discutem,

158

––––––––––––––––––––––––65 Anais do Seminário - Políticas de Ensino Médio para Povos Indígenas. Brasília:MEC/SEM-TEC, 2003.

deliberam e aprovam o PROLIND-Programa de Apoio à FormaçãoSuperior e Licenciaturas Indígenas. No âmbito da CESI, dialogam como INEP para a reformulação do Questionário Socioeconômico doENEM, incluindo a realidade dos estudantes indígenas, e com técnicosdo ENADE para a avaliação específica dos Cursos de LicenciaturasInterculturais que formam professores indígenas.

Em 2004, a CNEEI delibera e aprova a criação da CAPEMA –Comissão Nacional de Apoio e Produção de Material DidáticoIndígena. Alguns de seus membros integram a Comissão que formulouas diretrizes e critérios para o financiamento das obras a serem publi-cadas e selecionou os projetos de edição ou finalização de materiaisdidáticos específicos para as escolas indígenas.

Em 2005, a Comissão participa de Oficina sobre o Diagnósticosobre a Demanda e da Oferta de Ensino Médio nas Escolas Indígenase propõe a realização de uma reunião extraordinária para discutir a pro-posta de realização da Conferência Nacional de Educação EscolarIndígena.

Em 2005, a CNEEI delibera pela não participação institucional naConferência dos Povos Indígenas, realizada pela FUNAI.

Em 2006, membros da CNEEI integram o Grupo de Trabalho cria-do a partir de Portaria Interministerial MEC / MS para elaborarDocumento Base sobre oferta de educação profissional e técnica inte-grada à educação básica intercultural indígena.

Em 2006, a CNEEI delibera pela realização de um Semináriosobre Controle Social no âmbito da Comissão, convidando oito lide-ranças indígenas e a coordenadora indígena do Fórum de Presidentesdos Conselhos Distritais de Saúde Indígena.

Em 2006, a CNEEI delibera sobre a reformulação da Comissãomudando sua composição e suas atribuições.

5. Implantação do ensino médio intercultural nas escolas indíge-nas

Introdução As comunidades indígenas concebem a educação escolar como

espaço estratégico para a reflexão e construção de conhecimentos e

159

estratégias para o enfrentamento da situação de contato interétnico, ouseja, sobre as conseqüências da sua inserção na sociedade nacional queinterpõe enormes desafios para a sua sobrevivência cultural, política eaté mesmo física.

De instituição imposta para promover a assimilação das diferençasculturais e das identidades étnicas, do período colonial até as mudan-ças trazidas pela Constituição de 1988, a escola vem sendo apropriadapelos povos indígenas, ganhando uma identidade peculiar a partir docontexto de diversidade sociocultural e da recuperação da autonomiapolítica. No bojo da mobilização de muitos povos indígenas pela garan-tia de seus territórios tradicionais e recuperação da autodeterminaçãona condução de seu destino, a escola vem sendo reivindicada56 paraauxiliar no desenvolvimento e execução de seus projetos de sustenta-bilidade socioambiental.

Dessa forma, nos últimos anos vem sendo demandada comforte ênfase por inúmeras comunidades a oferta do ensino funda-mental completo e do ensino médio nas escolas indígenas, para aformação de crianças e jovens, fundamentada no fortalecimento deseu pertencimento étnico, na valorização dos conhecimentos tradi-cionais e de suas visões de mundo e no acesso aos códigos, ciên-cias e tecnologias da sociedade nacional que possam subsidiar seusprojetos societários e identitários. Ou seja, trata-se da oferta deeducação intercultural básica que proporcione um ensino escolari-zado contextualizado aos interesses, necessidades e anseios dascomunidades em garantir uma escola que afirma as identidadesétnicas e tem compromisso com seu desenvolvimento sociocultu-ral.

Objetivo geralPromover a implantação do ensino médio intercultural nas escolas indí-genas a partir dos princípios da educação diferenciada como direitoeducacional dos povos indígenas.

160

––––––––––––––––––––––––66 Educação em contexto de diversidade étnica – os povos no Brasil. Luiz Donisete BenziGrupioni, in Diversidade na educação – reflexões e experiências. Brasília:SETEC, 2003.

Objetivos específicosRealizar diagnóstico sobre oferta e demanda de ensino médio nas

escolas indígenas.Promover espaços de discussão sobre políticas de ensino médio

com professores, lideranças e estudantes indígenas, levantando suasconcepções e perspectivas para essa etapa de ensino.

Discutir referenciais e estratégias para implementação da educa-ção profissional integrada ao ensino médio indígena.

Fortalecer as escolas indígenas para a oferta de ensino médio dequalidade de acordo com as perspectivas indígenas.

Mobilizar os sistemas estaduais de ensino para a implantação deescolas de ensino médio nas comunidades indígenas integrado à edu-cação profissional ou técnica.

Promover ações direcionadas para a criação de cursos de licencia-turas interculturais para a formação de professores indígenas paradocência no ensino médio.

Resultados alcançados– Realização do I Seminário sobre Políticas de Ensino Médio para

Povos Indígenas. Brasília, outubro de 2003, com publicação dosAnais.

– Realização de 9 Seminários sobre Políticas de Educação EscolarIndígena para conhecimento das perspectivas indígenas quanto aoensino médio diferenciado.

– Publicação dos Diagnósticos sobre a oferta e demanda de ensinomédio nas Terras Indígenas.

– Apoio a 33 escolas indígenas que oferecem o ensino médio.– Realização de Oficina de Produção de Material Didático Indígena

com uso de computadores, para 46 professores de escolas indíge-nas que oferecem o ensino médio. Brasília, 26 de novembro a 3 dedezembro 2006.

– Realização do II Seminário de Políticas de Ensino MédioIndígena. Brasília, 6 a 8 de dezembro 2006.

161

6. Estruturação da rede física das escolas indígenas

Introdução

A maior parte das escolas indígenas passou a integrar os sistemasestaduais e municipais de educação a partir das mudanças legais esta-belecidas pela Constituição de 1988 que afirmou como princípios paraas políticas públicas indigenistas o reconhecimento, valorização,manutenção e proteção da sociodiversidade indígena, rompendo assimcom séculos de políticas assimilacionistas que negavam valor às dife-renças culturais.

Em decorrência desses novos paradigmas legais e conceituais,foram implementadas mudanças institucionais com a edição doDecreto Presidencial nº 26/91 que atribuiu ao Ministério da Educaçãoa coordenação das ações referentes à educação escolar indígena e suaexecução às Secretarias de Educação. Até então, a responsabilidadepela oferta de educação escolar era do órgão indigenista, a FundaçãoNacional do Indio-FUNAI, que atuava diretamente, mantendo escolase contratando professores, ou delegando as ações para algumas missõesreligiosas e mesmo secretarias de educação.

A partir deste Decreto, as secretarias de educação passaram a inse-rir as escolas indígenas em seus sistemas como política pública, já quealgumas já vinham desenvolvendo ações nessa área, principalmentecontratando professores indígenas.

Quando da edição do Decreto 26/91, as escolas indígenas já apre-sentavam um déficit de estrutura física para seu funcionamento e acarência de prédios escolares só veio a aumentar, com a expansão des-sas escolas em número de matrículas e em unidades, devido ao expres-sivo aumento de professores indígenas habilitados nos cursos de for-mação oferecidos pelos sistemas de ensino, além do acesso a recursospúblicos para desenvolvimento da educação, como a merenda escolar.Hoje um dos maiores desafios para o MEC e o Conselho Nacional deSecretários Estaduais de Educação- CONSED é a redução desse enor-me déficit, que tem impactos relevantes sobre a qualidade da educaçãoescolar intercultural que os povos indígenas demandam dos gestorespúblicos.

162

A maior parte das escolas indígenas passou a integrar os sistemasestaduais e municipais de educação a partir das mudanças legais esta-belecidas pela Constituição de 1988 que afirmou como princípios paraas políticas públicas indigenistas o reconhecimento, valorização,manutenção e proteção da sociodiversidade indígena, rompendo assimcom séculos de políticas assimilacionistas que negavam valor às dife-renças culturais.

Objetivo geralGarantir a qualidade da educação básica intercultural indígena pormeio da construção, reforma ou ampliação e aquisição de equipamen-tos para as unidades escolares localizadas em terras indígenas.

Objetivos específicosReduzir o déficit de prédios escolares nas comunidades indígenas

aportando recursos técnicos e financeiros para secretarias de educaçãoexecutarem ações de construção, ampliação, reforma e aquisição deequipamentos para as escolas indígenas.

Estruturar a rede das escolas indígenas levando em consideraçãoas concepções de edificação, ocupação espacial e condições socioam-bientais próprias de cada povo indígena.

Assessorar tecnicamente as Secretarias de Educação para garantira participação das comunidades na definição dos padrões arquitetôni-cos adequados às suas realidades socioculturais e ambientais.

Fomentar a flexibilização das estruturas destinadas a prédios esco-lares de modo a atender as especificidades culturais e ecológicas decada povo indígena.

Resultados alcançadosNo período de 2004 a novembro de 2006, foram alocados recursos

orçamentários no valor de R$ 25.883.428,56 do Ministério daEducação para as Secretarias de Educação.

163

164

Intervenciones

Intervención de Bruno Francisco Barrios Sosa (Viceministro deCultura del Paraguay)67

ResumenEl ponente resalta la importancia del evento que ha convocado a

tan selecto grupo de disertantes nacionales y extranjeros, en el tema dela integración y la multiculturalidad; sobre todo, esta participación delos grupos que se encuentran en la toma de decisiones. Expresa que, sinduda, será muy valioso que las decisiones sobre aspectos fundamenta-les, como el tema de la integración, sean decisiones tomadas tambiéndesde la visión de los afectados que son objetos del programa. Expresaque es necesario abrir espacios efectivos de participación y diálogo per-manente con los pueblos indígenas, por lo que refiere algunos datos delCenso 2002 sobre el número de familias y etnias indígenas existentesen nuestro país y destaca la enorme riqueza cultural de nuestros pue-blos originarios.

Asimismo, se refiere al Plan Nacional de Cultura que, desde elViceministerio de Cultura se está impulsando, puntualmente acerca delcapítulo o eje denominado “Culturas originarias” referido a los indíge-nas, donde se especifica la importancia de la valorización de ellas, elrespeto a sus identidades y a todas sus manifestaciones, así como la sal-vaguarda de sus derechos, la promoción y difusión de sus valores cul-turales, el propiciamiento del disfrute de ellos y su vasta produccióncultural, entre otros.

En este punto, el Viceministro solicita la intervención de un caci-que chamán de los Mbyá Guaraní, quien dirige sus palabras al audito-rio, traducidas luego al castellano por una docente que acompaña algrupo.

165

––––––––––––––––––––––––67 L’intervento di Bruno Francisco Barrios Sosa è disponibile nell’estratto qui riportato.

Intervención de Karai Mirï (cacique de los Mbyá Guaraní)68

I. ResumenEl cacique expresa con absoluta convicción cuanto sigue: la rela-

ción de ellos con la tierra como seres humanos; su condición de“pobres pero ricos”, sus conocimientos propios ancestrales y la rique-za de sus contenidos, su manera de ser y vivir que hoy día ya no esposible seguir practicándolo como ellos creen que debería ser, los sím-bolos de su vestimenta, la unidad de los pueblos indígenas, los valoresque ellos practican como permanentes y los ofrece a los asistentes.Todo el tiempo que duró su alocución, el auditorio escuchó con sumorespeto, aprecio y complacencia por haberlo expresado un referente tanimportante. Posteriormente, la docente que ofició de traductora tomó eluso de la palabra en su calidad de quien comparte y vive entre ellos,resaltando los siguientes puntos: que los planes educativos estén pre-parados para indígenas y desde ellos; la necesidad de valorar y apro-piarse de sus saberes para preparar dichos planes; la situación que seproduce cuando enseñan en las escuelas indígenas docentes que no losson; revisión de los programas de formación continua e integral paralos jóvenes; la relación entre educación escolarizada y educación per-manente y una formación docente con fuerte perfil humano.

II. ResumenHablo de uno de los principales problemas de la educación en

comunidades indígenas o para pueblos indígenas, uno de los factoresque hace que muy poco éxito se haya tenido hasta hoy “tiempo”. Elexpresa: nosotros hemos sido criados junto con la tierra, somos criatu-ras de la tierra, si nosotros termináramos, todos terminaríamos, puedodecirles que somos pobres, pero no somos totalmente pobres, porquetenemos a un creador, al creador de todos y muchos dicen que saben denuestra cultura pero sólo nosotros podemos saber de nuestra culturaaunque ustedes también podrían conocerla, así como nuestros jóveneshoy en día también están reaprendiendo nuevamente con nosotros.Nosotros somos indígenas, los originarios del Paraguay, nos llamamos

166

––––––––––––––––––––––––68 L’intervento di Karai Mirï è disponibile nei due differenti estratti qui riportati.

así, este país se llama así porque teníamos a nuestro gran abueloParaguá por estos lugares. Somos de aquí, no somos de ningún otrolugar, de aquí somos, aquí pertenecemos, y nosotros no podemos ense-ñarles nada a ustedes, tan solo podemos contarles, a pesar de quemuchos dicen saber de la forma de vida de los indígenas, que nosotrostenemos que dormir en el suelo o como tenemos que vivir, y yo que yaestoy anciano les digo que eso ya no es posible, aunque dentro de pocopodamos morir todos sería ideal que nosotros también tuviéramos cier-to bienestar antes de morir todos. También debo recordar a las madre-citas todas, a las mujercitas, no sé que decir, porque no sé hablar comoustedes, tan solo expreso el sonido de mi espíritu, pero están aquí misdescendientes, los jóvenes, los corazones tiernos, tal vez ellos puedancontarles más. Estas cosas que usamos no son para burla, hacen partede nuestra identidad, pedimos a nuestro verdadero padre por todo elParaguay, por nuestra tierra a su verdadero creador el que definió laidentidad de todos los seres vivos, a los árboles (citó varias especies deárboles) y si nosotros los originarios desaparecemos, todo esto tambiénacabará, nuestro mayor problema es que no somos respetados, nuestroterritorio se reduce cada vez más, tanto los paraguayos, como los bra-sileños, los alemanes, todos, se apropian cada vez más de nuestro terri-torio, nuestras aguas están contaminadas, nuestros arroyos están enfer-mos y nosotros bebemos de ella, para eso estamos aquí, para contarlesun poco de eso y además para decirles que los indígenas somos unosolo, a ustedes tampoco los discriminamos, porque este sol nuestro cre-ador no se cansó aún de nosotros, cuidamos como él de todos, clama-mos por nosotros y clamamos por ustedes, doy mi gratitud y mi verda-dero amor para ustedes.

167

168

El lenguaje del desarrollo: acciones de la cooperacióninternacional y respuestas de los pueblos indígenas deAmérica Latina

ANtONINO COLAJANNI (Universidad de Roma “La Sapienza”)

1. Una premisa oportuna: la antropología y los procesos de desa-rrolloEn el cuadro de la problemática social, política y económica de

América Latina de las últimas décadas, está asumiendo siempre mayorimportancia un tema que hasta los años sesenta del siglo pasado esti-mulaba exclusivamente las investigaciones y las propuestas - que que-daban muy frecuentemente sin respuestas - de los antropólogos y soció-logos. Se trata del tema de las condiciones de las poblaciones indíge-nas del continente y de las responsabilidades de los gobiernos y de lassociedades civiles hacia su futuro, que la mayoría de las veces se per-cibe y se encuadra en el interior de un proceso planetario y de una con-ceptualización sintetizada en una palabra-clave de la edad moderna: eldesarrollo.

Para tratar este tema, que involucra dos protagonistas activos: lospueblos indígenas del continente y una perspectiva de transformaciónidentificada con un concepto y un proceso básico de la modernidad,conviene dedicar algunas consideraciones previas de carácter históricoy teórico-metodológico a la relación que se ha constituido en las últi-mas décadas entre los dos elementos mencionados.

Ante todo, vale la pena enfatizar que las relaciones entre la antro-pología (ciencia social dedicada a las diferencias y analogías existentesentre los sistemas culturales de los diversos grupos humanos) y el temadel desarrollo, se han presentado en dos posiciones opuestas. La pri-mera es una posición crítica y escéptica: es la de los antropólogos quehan preferido “no meterse” en las cosas del desarrollo, manifestandouna postura de oposición radical a las iniciativas económicas delOccidente en los países marginales, considerándolas como no más queempresas substancialmente explotadoras y opresoras. La posición men-

169

cionada se expresa por lo general en la idea de “no ensuciarse lasmanos”. La segunda posición es más posibilista, acepta que el desarro-llo es hoy un proceso ya demasiado adelantado para que se pueda blo-quear, que tiene algunos – pocos – elementos que pueden volverse enfactores positivos para las sociedades marginales, y entonces el proble-ma es de “meterse en alguna forma, pero con espíritu crítico y estu-diando, con mucha atención, el cuándo, el cómo y el con quién”. Unode los mejores representantes de esta segunda posición es Riall Nolan,autor de un buen libro reciente que presenta en todos sus aspectos,prácticos y teóricos, el tema de las relaciones entre Desarrollo yAntropología (Nolan 2002).

Las relaciones formales entre antropología y actividades de desa-rrollo han sido clasificadas en tres diferentes modalidades que presen-tan un grado desigual y progresivo de autonomía e independencia delos aspectos prácticos con respecto a la reflexión teórica y a la investi-gación como tal. El primer nivel es el de la antropología del desarro-llo. Es un nivel en el cual, en total independencia y respondiendo úni-camente a las reglas de la academia, un antropólogo escoge un proyec-to ó un programa de desarrollo, como también una política entera dedesarrollo, entre los temas posibles de investigación autónoma y llegaa tratarlo como cualquier diferente tema antropológico (la mitología,los sistemas de parentesco, la brujería, las formas ceremoniales).Estudia el proceso de desarrollo de acuerdo a las cosas que se hacen,las cosas que dicen los actores sociales, las simbologías involucradas,los intereses que se mueven, los efectos sociales y culturales de corto,mediano y largo plazo. El segundo nivel es el nivel de la antropologíapara el desarrollo. Se trata, en este caso, de la presencia de un antro-pólogo en el interior de un curso de formación para personal técnicodestinado a trabajar en un proyecto ó programa de desarrollo. Es uncaso de transmisión de unos conocimientos específicos de la antropo-logía (cómo se analiza una sociedad marginal en sus componentes bási-cos, cómo se trata el tema de los cambios sociales y culturales, cuál esla importancia del simbolismo en la vida social, y cosas por el estilo)que se puedan integrar en el cuadro de los conocimientos técnicos decada experto, con la idea de que puedan ejercer cierta influencia sobre

170

las decisiones y las acciones prácticas. Aquí también, el antropólogoutiliza sus conocimientos, sus estilos de argumentación, sus experien-cias, en cuanto académico, y responde como en el caso anterior a laacademia; pero tiene que ajustar sus formas de comunicación, y laselección de sus materiales, al contexto específico, constituido por laagencia de desarrollo que lo ha contratado. El tercer nivel es el nivel dela antropología en el desarrollo. Es muy diferente de los otros dos.Aquí el antropólogo, que obviamente tiene que tener una formación yposiblemente una posición académica, se pone a disposición – para untiempo delimitado - de una agencia de desarrollo. Es contratado sobrela base de unos “términos de referencia”, y se obliga a actuar como“consultor”, aceptando cierta dependencia de la agencia mencionada yno exclusivamente de su academia. Sus actividades y sus opinionestendrán que ser orientadas hacia los problemas prácticos con los cualesla agencia se habrá enfrentado. Obviamente tendrá una limitada auto-nomía, pero su trabajo se concluirá con un informe, y con sugerencias,que la agencia podrá o no podrá aceptar y consecuentemente podrámodificar, de esta manera, sus actividades prácticas (Colajanni 1994).

Vale la pena añadir algo sobre el concepto de desarrollo como tal.De hecho, con esta palabra-clave de la modernidad se entienden por lomenos tres cosas estrechamente vinculadas recíprocamente:

a. Un proceso histórico sui generis, único y específico, no fácilmen-te transferible, que se ha manifestado en Europa a lo largo de casiun siglo, vinculándose estrechamente a los caracteres propios delcapitalismo. Basado en la separación entre ciudad y campo, en elcrecimiento de la ciencia y la técnica, en la industrialización, en laeconomía financiera y la dinámica de los préstamos, y finalmenteen los mercados.

b. Un aparato institucional internacional impresionante (BancoMundial, FAO, UNESCO, IFAD, OMS, BID, PNUD, etc.), finan-ciado por vías multilaterales y bilaterales (ONGs, Oficinas nacio-nales de Cooperación), que invierte millones y millones de dóla-res y moviliza la actividad de miles y miles de expertos y técnicos.

c. Un sistema teórico-justificativo muy articulado y coherente, queorganiza y coordina las formas de expresión pública de los temas

171

del desarrollo y manifiesta la existencia de una ideología del desa-rrollo, contínuamente reelaborada en libros, ensayos, y probada enexperiencias prácticas. La mencionada ideología revela una con-cepción del mundo, de la historia como mejoramiento sin límiteshacia el alcanzamiento del “reino de la abundancia”, y finalmenteuna visión muy particular de la diferencia existente entre las socie-dades y culturas.Con base en lo anteriormente dicho, es evidente que la transposi-

ción de los principios, métodos y contenidos del desarrollo hacia unasociedad marginal, de otra cultura y de otra historia, no es cosa fácil nisimple. Necesita una compleja “traducción” en el idioma social y cul-tural del grupo receptor, una “adaptación” y sobre todo una fuerte “par-ticipación” local (Tommasoli 2003).

La antropología del desarrollo ha elaborado recientemente algunascondiciones irrenunciables para realizar una plena y completa colabo-ración crítica y constructiva con las empresas del cambio social y eco-nómico dirigido, sin perder sus características básicas de investigaciónsocial independiente, y su posición de neutralidad frente a los interesesy poderes económicos y políticos del mundo actual:

a. Una investigación intensiva de campo, comparable con la investi-gación antropológica común y corriente, con una preparación teó-rica previa y adecuada sobre cambios sociales y culturales. Y almismo tiempo una sensibilidad especial de tipo multidisciplinario,que incluya conocimientos de economía, relaciones internaciona-les, historia social. La investigación tendría que producir conoci-mientos nuevos desarrollándose en el contexto mismo y durante eltiempo mismo de la consultoría. En la mencionada investigacióntendría que ser asegurada una fundamental importancia a la reco-lección del “punto de vista local sobre el desarrollo”.

b. Una capacidad de análisis no sólo de la sociedad indígena y de susprocesos de cambio, sino también de la sociedad modificadora deorigen externo (contexto socio-político local, grupos sociales loca-les, agencia de desarrollo, equipo de proyecto, etc.).

c. Una capacidad de ejercer influencia sobre las acciones de trans-formación y las decisiones de la agencia responsable del proyecto,

172

identificando consecuencias posibles de ciertas acciones, estu-diando alternativas posibles y proponiendo soluciones a los pro-blemas identificados, sobre la base de la introducción - entre losdatos relevantes - de las variables socio-culturales, y tomándolasen cuenta muy seriamente.

2. Los pueblos indígenas de América Latina: un problema socialsui generis

Las consideraciones y las opiniones arriba mencionadas me pare-cen indispensables para iniciar a tratar el tema de las relaciones que sehan constituido en las últimas décadas entre los pueblos indígenas deAmérica Latina y los procesos de desarrollo. Como se ha dicho alcomienzo de esta ponencia, las condiciones de las poblaciones indíge-nas del continente han empezado, desde los años sesenta-setenta delsiglo pasado, a preocupar a gobiernos, a intelectuales y a organizacio-nes internacionales, que les han reconocido el hecho de ser parteimportante de los problemas sociales de cada país.

Los materiales publicados en las décadas pasadas, y las posicio-nes oficiales de los gobiernos, se quedaban al principio en considerarnecesaria ante todo una actividad de protección, de salvaguarda de losgrupos indígenas como tales (físicamente ante todo, pero en algunoscasos se manifestó también la idea de proteger sus patrimonios cultu-rales). En una segunda fase se empezó a planificar diferentes formasde promoción social de los dichos grupos indígenas, con actitudes fre-cuentemente paternalistas, aceptando la idea del “cambio necesariopara sobrevivir”. Es decir, los indígenas serían obligados a abandonarla mayor parte de sus costumbres para adaptarse a la modernidad. Conla aparición, en el panorama social y político del continente, de las pri-meras organizaciones indígenas, representantes y defensoras semi-autónomas de los intereses de los grupos étnicos, que empezaron aganarse un espacio siempre más relevante en el panorama de los paí-ses latinoamericanos (a pesar de las muy relevantes diferencias encuanto a su importancia demográfica en los conjuntos poblacionalesde cada país), la situación ha cambiado mucho. Se ha desarrollado len-tamente un lenguaje orientado hacia la consideración de los grupos

173

indígenas como sujetos de derecho, titulares de legítimas pretensionesfrente a los poderes del estado. Estas pretensiones, muy lentamente, sehan estabilizado alrededor de dos grandes temas sociales: primero, losderechos subjetivos de los grupos indígenas en cuanto ciudadanoscomunes y corrientes, que han soportado durante muchos siglos unosprocesos de discriminación y exclusión social. Como decir que el esta-do tenía que reparar a las injusticias del pasado, simplemente median-te el abastecimiento de los servicios básicos propios de la modernidad,negados en el pasado (escuelas, hospitales, vías de comunicación ytransporte, luz y agua, trabajo y cosas por el estilo). Pero también sedesarrolló un segundo tema, más específico y difícil de tratar: el temade la defensa del ejercicio de la libertad de escoger y practicar usos,costumbres, valores y visiones del mundo propias y tradicionales,encaminándose en un camino propio y posiblemente original. En unapalabra, se introdujo lentamente la convicción de que los grupos indí-genas eran también titulares de unos derechos especiales de tipo cul-tural, constituyendo de hecho una posible alternativa a las prácticasculturales dominantes de los estados nacionales. Los grupos indígenasaprovecharon pronto esta nueva dimensión y se asistió a una reivindi-cación frecuentemente instrumental de una diferencia. La cultura sevolvió pronto en un recurso político. También las normas fundamen-tales de muchos países del continente se ajustaron a estas nuevas pers-pectivas, y muchas Constituciones de América Latina aceptaron elprincipio del pluralismo cultural. La sociedad internacional, política ydiplomática, empezó lentamente a considerar el problema indígenacomo problema de interés internacional, a partir del 1983, año en quefue creado en Ginebra el Grupo de Trabajo sobre Pueblos Indígenas(Working Group on Indigenous Peoples) en el interior de la Comisiónde Derechos Humanos del Consejo Económico y Social de lasNaciones Unidas. Se impuso de esta forma la definición de los gruposindígenas como “pueblos”, y la mencionada terminología no faltó deproducir efectos positivos en el campo social, jurídico y político. Ellargo e intenso proceso de encuentros, debates, discusiones y polémi-cas en Ginebra concluyó, después de años y años, con la Declaraciónde los Derechos de los Pueblos Indígenas, la que finalmente en Junio

174

de este año 2006 ha sido presentada ante la Asamblea General de lasNaciones Unidas.

En muchos países del continente el tema indígena llegó a formarparte de los principales problemas nacionales, y la “cuestión indígena”entró establemente en la agenda social y política. Pero todo eso hapasado a nivel teórico más que práctico, que quede claro: a nivel de losdiscursos y de los programas y mucho menos a nivel de las acciones yproyectos. Pero, a pesar de lo dicho, no se puede negar que los indíge-nas llegaron a ser en buena parte protagonistas de la historia recientedel continente, después de cinco siglos de discriminaciones, margina-ciones, exclusiones, explotaciones.

Mientras tanto, el cuadro general de las dinámicas económicas ypolíticas del continente había cambiado mucho. En todas las regionesmarginales una gran cantidad de proyectos y programas de cambio eco-nómico-social planificado estaban transformando las sociedades rura-les, frecuentemente con financiaciones de la cooperación internacional.Desde los años ochenta del siglo pasado en adelante diferentes formasde promoción de la agricultura, escuelas, hospitales, infraestructuras,lentamente se difundieron en los países latinoamericanos. La edad deldesarrollo había comenzado sus pasos accidentados, en sus bienescomo en sus males. Los procesos de transformación de las sociedadesmarginales fueron orientados por una visión muy específica de la eco-nomía y de la transferencia técnica, que el concepto de “desarrollo”, alque hemos dedicado algunas consideraciones generales en las páginasanteriores, verdadero “eje cultural” del siglo XXI, sintetiza muy bien.La cooperación internacional, sea bilateral como multilateral (a travésde las grandes instituciones internacionales del sistema de las NacionesUnidas) jugó un rol fundamental, con grandes inversiones y con laconstrucción de un gigantesco aparato institucional.

Los grupos indígenas del continente se encontraron pronto con lasolas de desarrollo que venían de las ciudades y se montaron lentamen-te algunos proyectos de “desarrollo en áreas indígenas”, con la idea deque algunas especificidades y algunas diferencias en la metodología deacción y en las finalidades generales y particulares de las iniciativas,fueran necesarias. Lentamente, como consecuencia de las resistencias

175

de los actores locales, de la ineficiencia e ineficacia de ciertos proyec-tos, de una crisis teórica, política y metodológica de las estrategias deldesarrollo a un nivel más general, el caso de los grupos indígenas afec-tados por proyectos comunes y corrientes de desarrollo comenzó agenerar dudas y correcciones en las acciones de todas las empresas depromoción del desarrollo. Paulatinamente, el “desarrollo indígena”empezó a ser categorizado como una forma de desarrollo sui generis.Casi todos los documentos sobre proyectos e iniciativas de cambiosocial y económico planificado entre los grupos indígenas empezarona utilizar una terminología diferente y específica. Se empezó a hablarde “desarrollo con identidad”, de “desarrollo participativo”, de “desa-rrollo adaptado social y culturalmente”. En pocas palabras, el caso delos proyectos en áreas indígenas – con sus problemas en cuanto a lasrelaciones con los beneficiarios, a los contenidos específicos de lasacciones, a las dificultades de comunicación y de adaptación al con-texto local – terminó por generar consecuencias en el cuadro más gene-ral y teórico-metodológico de las concepciones mismas del desarrolloy de sus estrategias. En el lenguaje general del desarrollo manejado porlas instituciones internacionales y por buena parte de las ONGs, empe-zó entonces, en los años 90, a reconocerse que existían “opciones dedesarrollo en situaciones de diversidad cultural”, y – por otro lado - quelas primeras investigaciones sistemáticas en el continente latino-ameri-cano revelaban la existencia de los mayores índices de pobreza, demarginalidad y de alejamiento de las fuentes de acceso a bienes y ser-vicios del estado moderno, justamente en las áreas indígenas. De estaforma se empezó a reconocer que en la gran heterogeneidad de los pue-blos indígenas las demandas de cambio se acompañaban a un procesode reafirmación étnica (Uquillas, Partridge y Johns Swartz 1998). Peroel mencionado proceso se caracterizaba también por la emergencia deformas originales y nuevas de organización social que representabanactivamente, en diferentes maneras, los intereses de los grupos indíge-nas ante las instancias promotoras de cambio que venían del mundoexterno: las organizaciones indígenas, más o menos fuertemente vin-culadas a los movimientos indígenas. En esta sede este tema muyimportante lo podemos simplemente aludir, recordando algunos de los

176

estudios básicos como Bonfil Batalla (1981a), Barre (1983). Y se podrátambién hacer referencia a AA.VV. (1985), Colajanni (1998), y al másreciente cuadro, completo y exhaustivo, contenido en el ensayo deJackson y Warren (2005). Una satisfactoria panorámica del argumentoafuera de América se puede encontrar en el importante libro de PeterBlunt y D. Michael Warren (Blunt, Warren 1996).

3. Las grandes instituciones internacionales y el desarrollo indí-genaEn el sistema internacional de las Naciones Unidas el tema indí-

gena llegó a ser importante en las últimas décadas. Las grandes institu-ciones internacionales se ocuparon del argumento aquí presentadodesde los primeros años ochenta del siglo pasado, y lentamente seformó – como hemos anticipado - una “categoría especial de proyec-tos”, caracterizada por la presencia de sujetos especiales, los pueblosindígenas. Estos destinatarios empezaron a aparecer en los proyectosno sólo como “beneficiarios”, sino como “contrapartes” directas,receptores de los fondos y responsables de la ejecución de las acciones,evitando muchas veces la intermediación de otros sujetos (como lasentidades del estado, las organizaciones internacionales ó las ONGs).

La primera y más importante de las instituciones internacionalesque se ha ocupado, desde los años 50 del siglo pasado, de los pueblosindígenas es la Oficina Internacional del Trabajo O.I.T/I.L.O.), que en1957 había lanzado el Convenio n. 107 sobre los Pueblos Indígenas yTribales, y en años más recientes, al terminarse un largo proceso deconsulta internacional, ha lanzado el Convenio n. 169 (con el mismotítulo) en 1989, que es el documento más importante, a nivel interna-cional, sobre los derechos de los pueblos indígenas. El mencionadoConvenio ha sido aprobado y ratificado por 17 países, de los cuales 13pertenecen al continente latino-americano. No nos vamos a detenersobre este documento, porque es el más conocido y estudiado de todos.Para un intenso, muy informado y competente análisis de toda la histo-ria del I.L.O. en sus relaciones con la problemática indígena vale lapena mencionar la investigación de Rodríguez-Piñero (2003).

El Banco Mundial ya en 1982 publicó la primera demostración de

177

interés por la cuestión indígena, entendida como un problema social ycultural muy específico que necesitaba de un tratamiento muy especial.En la Environmental Division que apenas se había creado, RobertGoodland publicó una obra de interés general y de orientación meto-dológica, que contiene también una bibliografía abundante y detallada(R. Goodland, Tribal peoples and economic development. Human eco-logic considerations, W. B., Washington 1982). Todos los trabajos pos-teriores del Banco, dedicados a la problemática indígena, tienen unarelación muy fuerte con el tema ambiental. Como decir que el temaindígena entra en la gran institución de Washington por la ventana delambientalismo prudente y controlado que este “Santuario delDesarrollo” podía permitirse. El tema que más que otros despierta laatención es el tema de la tierra, porque se reconoce que es la necesidadmás importante que presenta la situación de las poblaciones indígenas,sea por el despojo, antiguo y reciente por parte de los colonos, sea porel régimen muy contradictorio del manejo de los recursos naturalesexistente en los diversos países del continente. Existe un grupo depublicaciones bastante importantes, fruto de investigaciones atentas yprofundas y dedicadas a “los indígenas y la tierra de acuerdo al BancoMundial”. P. Poole, Shelton Davis, A. Wali, son los autores de estosestudios. Se publican también, en los años noventa, las primeras eva-luaciones y balances de los proyectos en áreas indígenas financiadospor el Banco (Uquillas, Rivera 1993; Montgomery Roper, Frechione,DeWalt 1997). A nivel operativo, la Directiva Operacional 4.20 (1991),organizó, durante más de una década, los principios y los métodos paragestionar proyectos en áreas indígenas. Solamente el año pasado, des-pués de un proceso de consulta muy intenso e interesante, el Bancomodificó la 4.20, adaptándola a las exigencias directas de las poblacio-nes indígenas y a las sugerencias de numerosos consultores internacio-nales que han participado en el interesante proceso de consulta(Operational Policies 4.10 y Bank Procedures 4.10, Julio de 2005).

Puede ser útil resumir las posiciones del Banco en lo que se refie-re a los proyectos en áreas indígenas y/o con poblaciones indígenas. Enlos documentos pertinentes aparece una premisa importante: “Los pue-blos indígenas son poblaciones distintas en el hecho que la tierra en la

178

cual viven, y los recursos naturales de los cuales dependen, son inex-tricablemente vinculados a sus formas identitarias y a sus culturas”.Otra consideración previa es que los pueblos indígenas han sufrido ysufren discriminaciones y exclusiones sociales. Hoy en día estos pue-blos quedan entre los grupos humanos más pobres y que soportan lasmás fuertes formas de exclusión social en el mundo. Se repite muchasveces la referencia a la “vulnerabilidad” de los pueblos indígenas y alhecho de que “los proyectos de desarrollo pueden afectar a los indíge-nas muy fuertemente, y por lo tanto se necesitan medidas especialespara asegurar que estas comunidades reciban beneficios culturalmentecompatibles”. Aquí terminan las consideraciones de principio expresa-das en un lenguaje afirmativo y declaratorio de nivel general, y se pasaa sostener, en un lenguaje más indirecto y que reporta opiniones expre-sadas por sujetos diferentes del Banco, que: “Desde la perspectiva delos pueblos indígenas, los beneficios del desarrollo tendrían que serconcentrados en los aspectos sociales, culturales, ambientales, espiri-tuales y comunitarios, aparte y añadiéndolos a los avances de caráctereconómico. Los pueblos indígenas frecuentemente consideran los prin-cipios y los esfuerzos del camino maestro del desarrollo (mainstreamof development) como insostenibles, inadecuados ó hasta intrusivos”(World Bank 2005a, 1). De hecho, no hay duda de que el Banco hapasado en las últimas décadas desde una actitud concentrada sobre todoen evitar los efectos dañinos de los proyectos de desarrollo sobre lospueblos indígenas, hacia una nueva actitud más positiva y constructiva,dedicada a promover efectos positivos en proyectos específicos. Lasinnovaciones más importantes en las normas y principios internos delBanco, que a través de las Directivas Operacionales llegan como dis-posiciones obligatorias propias a cada Director de proyecto en elcampo, son las siguientes: a) La introducción de la regla que impone unproceso de consulta libre, previa y bien informada, con los grupos indí-genas, a través de sus organizaciones representativas y también direc-tamente a través de encuestas específicas; b) La introducción de laregla que impone en cada proyecto la existencia demostrada de un“amplio soporte directo de la comunidad involucrada en el proyecto”;c) La formulación obligatoria de un “Plan para los pueblos indígenas”

179

al interior de todos los textos de proyecto, que se basa en una investi-gación operativa previa (social assessment) que pueda demostrar lacongruencia entre las medidas estudiadas y los objetivos de proyecto deuna parte, y los beneficios económicos y sociales culturalmente ade-cuados que recibirán los indígenas de la otra; y también la previsión yel estudio de posibles efectos negativos, que tienen que ser de algunamanera evitados, minimizados, mitigados y/o objeto de formas de com-pensación; d) La introducción entre las consideraciones de principio,que sirven para identificar a los pueblos indígenas, que hay que corre-gir la vieja visión según la cual los mismos correspondían a comunida-des caracterizadas por “formas de producción orientadas primeramen-te a la subsistencia”, y finalmente también la insistencia en los dere-chos “colectivos” más que individuales sobre la tierra y los recursosbásicos; e) La introducción, entre las “consideraciones especiales”, ylas sugerencias del Banco, de una atención sistemática al tema de losderechos consuetudinarios y sobre la tierra, de un empuje a los gobier-nos para que refuercen la legislación en favor de los indígenas, yfomenten la mayor participación posible de la gente. Se hace referen-cia también, entre otras cosas, a un argumento que en otros documen-tos es central y estratégico: el tema de la “protección del conocimientoindígena (Indigenous Knowledge)”, incluyendo el reforzamiento detodo lo que se refiere a los derechos de propriedad intelectual (WorldBank 2005a, 4-5).

Como se puede ver, es mucho pero no es todo. El pensamientoindígena sobre el desarrollo, las críticas abiertas a los errores de lasacciones corrientes, la visión pluralista y diversificada de las estrate-gias posibles, de acuerdo a las diferentes sociedades y culturas, y losaportes creativos y propositivos de elaboración autónoma por parte delas comunidades, no aparecen en estos documentos. Y además, variasveces se repite que, cuando no sea posible evitar los efectos potencial-mente adversos y negativos de un proyecto hacia una comunidad indí-gena, hay que compensar, mitigar, minimizar estos efectos. La idea deque, después de una consulta previa muy detallada que recoja opinio-nes contrarias e identifique posibles efectos negativos, y después de lasprevisiones de los expertos que concuerden con las mismas, un pro-

180

yecto sea retirado, o pueda ser cancelado del todo, no aparece para nadaen estos documentos. En un análisis crítico reciente de los proyectos enáreas indígenas gestionados por el Banco se ponen en evidencia, ade-más, y con buenas razones, las incertidumbres y las aproximaciones enel uso y la práctica de la “participación indígena en los proyectos”, ysobre todo la acogida acrítica y el uso instrumental del concepto de“cultura” aplicado a los grupos indígenas receptores de proyectos, queno utiliza sino en forma muy reducida los aportes críticos de la teoríaantropológica de las últimas décadas (Salviani 2002).

Pero, a parte de estas deficiencias, lo importante es que el Bancoempieza a tratar el tema indígena como tema específico y diferencial,que exige un tratamiento particular, y que destine cada vez más recur-sos a estas iniciativas. Prácticamente, de esta forma, el Banco comien-za a utilizar un lenguaje específico que se caracteriza por unas adapta-ciones y unas cuantas correcciones al lenguaje más general del desa-rrollo. Haciendo así, el Banco Mundial confirma su actitud en aparecercomo “Institución Guía” en la formulación de principios, metodologí-as y formas de expresión de la problemática del desarrollo, que puedanser adoptadas también por otras instituciones internacionales, organi-zaciones no gubernamentales y actores varios de la promoción deacciones en favor de los pueblos indígenas. En una serie di artículos desíntesis y de presentación de las líneas de acción de Banco en el temade los proyectos indígenas, también en ocasión de Conferencias inter-nacionales, la gran agencia de Washington ha difundido con eficaciauna información detallada y pertinente sobre sus actividades (Partridge1990; Davis 1993; Davis, Partridge 1994; Davis, Patrinos 1996; Sfeir-Younis 1999). Sería entonces sumamente útil seguir en esta presenta-ción y análisis del lenguaje de desarrollo del Banco, examinando conmucha atención sea los documentos oficiales, sea los documentos inter-nos a los diferentes proyectos en su proceso de producción en el cursode los años. Pero tenemos que aplazar este análisis a otro ensayo queestamos elaborando.

De hecho, ya desde más de una década, se ha aceptado - en las dis-cusiones teóricas sobre el desarrollo - que el aspecto de la “comunica-ción”, de la “expresión”, de la “argumentación de tipo pedagógico”, del

181

“diseño general de valores”, de la “filosofía de vida con relación a losbienes”, ha llegado a ser fundamental en este campo. Entonces, el desa-rrollo no es sólo un proceso de cambio económico y técnico, sino tam-bién un complicado proceso de “transformación integral”, ideológica ycosmológica, de una sociedad, que tiene que ser ilustrado, comunicado,dibujado en formas sutiles y convencedoras. El tema del “discurso deldesarrollo” ha sido afrontado con fuerza en una cantidad de publica-ciones, de las cuales sobresale el hecho de que la industria del desarro-llo no solamente hace cosas, sino que dice, expresa ideas, valores,opciones, deseos, expectativas, aspiraciones. Libros como Discoursesof Development. Anthropological Perspectives (recopilado por RalphGrillo y Robert Stirrat; Berg, Oxford-New York 1997) resultan funda-mentales. Así como la otra importante colección de ensayos ArguingDevelopment policy: Frames and Discourses (recopilado por RaymondApthorpe y Des Gasper; Frank Cass/EADI, London 1996). El aspectode los “discursos del desarrollo” es tratado muy detenidamente tambiénen otra importante antología de ensayos muy estimulantes sobremodernidad y desarrollo (Alberto Arce y Norman Long, Editores,Anthropology, Development and Modernities. Exploring discourses,counter-tendencies and violence, Routledge, London-New York 2000).Y por último, también en un libro más antiguo pero sumamente impor-tante, aparece la mencionada conexión entre procesos, actividades dedesarrollo y dinámicas de comunicación, de expresión, de movilizacióndel conocimiento sobre los hechos sociales. Se trata del libro recopila-do por Mark Hobart, y dedicado a las críticas al desarrollo que ponenen gran evidencia el manejo de la información, sea exhibida en formaexplícita, sea ocultada en forma consciente y/o inconsciente, donde la“ignorancia” puede jugar un rol fundamental (M. Hobart, AnAnthropological Critique of Development. The Growth of Ignorance,Routledge, London-New York 1993).

Además del Banco Mundial, hay otra institución relevante para eltema que estamos tratando. El Banco Interamericano de Desarrollo,una de las más importantes agencias de financiación de proyectos entoda América Latina, se ha concentrado en los últimos años en formamuy seria sobre el tema de los pueblos indígenas del continente. El

182

Departamento de Desarrollo Sostenible y la Unidad de PueblosIndígenas y Desarrollo Comunitario han gestionado numerosos pro-yectos en áreas indígenas y han producido una cantidad de documentosde investigación y de política indígena que merecen una especial aten-ción. Hasta el momento, más de 14 estudios específicos y detalladossobre pueblos indígenas y pobreza en diversas regiones de AméricaLatina, sobresalen por su carácter serio y profundo de investigacionesde base, fundamentos oportunos para la programación de intervencio-nes. Se trata de documentos de varios centenares de páginas, fruto detrabajo de campo de muchos meses, elaborados por sociólogos, econo-mistas y antropólogos profesionales. El B.I.D. ha producido tambiéndocumentos de carácter general, de síntesis de la problemática y confinalidades de introducción al tema (Deruyttere 1997). Pero, entre losaportes teóricos y metodológicos cabe destacar un importante docu-mento licenciado en este año 2006 y dedicado a la política operativasobre pueblos indígenas y a la estrategia para el desarrollo indígena(B.I.D. 2006). Desde el prólogo del documento se registra un relevan-te cambio de actitud en las estrategias de la Institución: “Desde 1994 seha aprovado la inclusión sistemática de los temas indígenas en las polí-ticas y proyectos del Banco. Este nuevo enfoque proactivo comple-menta el anterior que se centraba en evitar o mitigar los impactos nega-tivos de los proyectos del Banco sobre los pueblos indígenas y coinci-de con el creciente protagonismo de los pueblos y organizaciones indí-genas en sus respectivos países en el plano internacional. El Banco, através de sus experiencias, ha llegado a reconocer las necesidades,derechos, demandas y aspiraciones de estos pueblos de acuerdo a lacosmovisión de los mismos”.

Es interesante lo que dice el documento sobre el tema clásico de laidentificación de los pueblos indígenas: son grupos que descienden delos que habitaban el continente en la época de la Conquista y de la colo-nización, conservan parcial o totalmente sus propias instituciones yprácticas sociales, económicas, políticas, linguísticas y culturales, y porúltimo se autoadscriben como pertenecientes a pueblos y culturas indí-genas. Se le entrega desde el comienzo de las argumentaciones decarácter general una gran importancia a la gobernabilidad indígena, o

183

sea a la capacidad de control de su propio desarrollo económico, socialy cultural, de gestión interna de sus tierras y territorios, en reconoci-miento de la relación especial que existe entre el territorio y la identi-dad étnica y cultural. Los objetivos generales de la política indígena delBanco Interamericano de Desarrollo son: a) Apoyar el “desarrollo conidentidad” (que es la fórmula básica de la política indígena de laInstitución); b) Salvaguardar a los pueblos indígenas y sus derechos deimpactos adversos.

Es oportuno detenerse con mayor atención en el concepto deDesarrollo con Identidad. El documento insiste en la consideracióncentral que se le confiere a la cultura y al hecho de que los grupos indí-genas son herederos y creadores de un importante patrimonio culturaly social que ha sido erosionado por las políticas de exclusión, integra-ción y/o asimilación que dominaron la acción pública hasta los añoscincuenta. Y sigue argumentando que las organizaciones indígenas rei-vindican con razón sus derechos a su identidad como pueblos, revalo-rando su patrimonio no sólo como base para la identidad y el sobrevi-vir cultural, sino también como un recurso para el desarrollo económi-co y social de sus propios pueblos y de la sociedad en general. El pro-ceso del desarrollo con identidad comprende entonces el fortaleci-miento de los grupos indígenas, la armonía e interacción sostenida consu medio ambiente, la buena administración de los territorios y recur-sos naturales, la generación y ejercicio de autoridad y el respeto a losvalores y derechos indígenas. Este concepto se sustenta en los princi-pios de equidad, integralidad, reciprocidad y solidaridad. El documen-to hace resaltar también la especificidad de las sociedades y culturasindígenas, y sostiene que:

“Adoptar conceptos diferenciados para el desarrollo indígenaimplica la aceptación de los objetivos económicos de estos pueblosque, en muchos casos, no buscan necesariamente maximizar la renta-bilidad de los recursos a corto o mediano plazo, sino que le dan priori-dad a una visión de suficiencia del bienestar. De equilibrio con el medioambiente, y de preservación de los recursos para necesidades futuras.Estas economías tradicionalmente no consideran que la acumulaciónde riqueza mediante excedentes de producción, especialmente indivi-

184

dual o en grupos de elite, contribuya al bienestar o a la seguridad de sussociedades” (B.I.D. 2006, 17-22).

Se debe al Banco Interamericano de Desarrollo la promoción y lapuesta en marcha de un Fondo para el Desarrollo de los PueblosIndígenas, que desde 1993 ha empezado a financiar proyectos en áreasindígenas sobre la base de las contribuciones de una “Mesa de Donantes”constituída por varios países e instituciones. En la base de este nuevo ins-trumento de promoción del desarrollo de los pueblos indígenas quedan:las demandas específicas de las organizaciones indígenas, para tener unainstitución propia a la cual dirigir pedidos de financiación, las tendenciasde buena parte de los gobiernos del continente a establecer mecanismosespeciales para administrar recursos en favor de los sectores pobres ymarginados de sus sociedades, y por último la inquietud de las agenciasde cooperación internacional por colocar sus recursos de modo másdirecto y eficiente, sin servirse de instituciones y grupos técnicos inter-mediarios. Las funciones principales del Fondo son: 1. Ayudar a los pue-blos indígenas en la preparación de proyectos y programas que cumplancon sus propios objetivos de desarrollo; 2. Apoyar la identificación,negociación y concertación de recursos técnicos y financieros; 3. Ofreceroportunidades de encuentros e intercambios entre las organizacionesindígenas, los gobiernos, las agencias multilaterales y bilaterales de asis-tencia técnica y financiera. La reglas básicas de esta institución son lassiguientes: apoyar exclusivamente programas y proyectos que beneficiendirectamente a pueblos y comunidades indígenas, actuar únicamente asolicitud de las organizaciones indígenas representativas de los benefi-ciarios directos, apoyar proyectos que contribuyan a establecer condicio-nes de autodesarrollo indígena. En los documentos del Fondo se recono-ce la “necesidad y posibilidad de la reproducción dinámica, activa y cre-ativa de las formas de vida y de organización socio-cultural” de los pue-blos indígenas, se plantea la posibilidad de que surja una nueva “moder-nidad indígena”, diferente de la modernidad científico-técnica que dioorigen a la economía de mercado y a la destrucción ambiental, y se poneen relación la obligatoria protección de la biodiversidad, que es necesa-ria más que todo en áreas indígenas, con la “diversidad cultural”(Iturralde, Krotz 1996, 17, 27-28, 38-39, 46).

185

En años más recientes el Fondo ha recogido una serie de ponen-cias extensas y exhaustivas, provenientes de organizaciones indígenasdel continente, que constituyen la mejor e indispensable premisa parala identificación, planificación e implementación de proyectos de desa-rrollo en áreas indígenas. En esta importante publicación se recogenestudios históricos e interpretaciones de los procesos de relación con lasociedad mayoritaria, que vienen de organizaciones indígenas y cam-pesinas de Bolivia, Chile, Ecuador y México, de los cuales aparecemuy clara la importancia de las formas organizativas, político-socialesy económicas que vienen del pasado, y los procesos de innovación y dereestructuración de las sociedades indígenas, en vista del contacto conlas instituciones nacionales y/o internacionales. La “recuperación críti-ca y constructiva del pasado para tener un mejor futuro” es tema recu-rrente en esta recopilación de ensayos de autores indígenas, que son losmejores existentes sobre las dinámicas históricas y las percepciones-decisiones de los actores sociales del mundo indígena. Es recurrenteuna afirmación como la siguiente: “No habrá ‘desarrollo’ si éste no seapoya en nuestras formas de organización y en nuestros sistemas deautoridades”. La “reconstrucción de los ayllus (pequeñas unidadessociales basadas en el parentesco que quedan en la base de las socieda-des andinas)” es un proceso de abajo hacia arriba que moviliza las ener-gías sociales y políticas de un sinnúmero de organizaciones indígenasdel área andina. Aparece también una propuesta de modificar radical-mente los instrumentos básicos de la implementación de procesos dedesarrollo: desde el proyecto (instrumento clásico de origen externo, ydominado por los tecnicismos y la temporalidad de la economía occi-dental) al contrato (que tiene una lógica horizontal y conlleva obliga-ciones de las dos partes, quedando su ejecución en las manos indíge-nas). Uno de los ensayos contenidos en esta publicación del Fondo ter-mina con la importante afirmación siguiente: “Ojalá que quienes leanestas páginas entiendan que para que exista el ‘desarrollo’, primero tie-nen que aceptar nuestra historia, nuestras organizaciones, nuestra cul-tura, nuestra identidad”. Y los Mapuche chilenos afirman con grancapacidad de análisis de su forma propia de organización en la moder-nidad: “Nuestra forma de organizarse nos pone frente a la enorme difi-

186

cultad de que no seamos una organización de fácil comprensión, admi-nistrativa ni ideológica, por el estado ni por la sociedad chilena en suconjunto. No somos una empresa, no somos un sindicato, no somos unaasociación de comunidades campesinas, no somos un partido político,no somos un movimiento indígena organizado ni parte de alguno... enfin, no somos una organización que queda dentro de los esquemas tra-dicionales occidentales” (Carrasco, Iturralde, Uquillas 2001, 37, 50-51,109).

Otra Institución importante en la elaboración de reflexiones teóri-co-metodológicas y también en la realización de proyectos y programasde cambio económico y social entre pueblos indígenas de AméricaLatina es el Fondo Internacional para el Desarrollo Agrícola(IFAD/FIDA) con sede en Roma. Se trata de una pequeña agencia, unBanco acostumbrado a financiar gobiernos y organizaciones de basedespués de haber realizado intensas y largas investigaciones en misio-nes de campo repetidas, evaluaciones previas, planificaciones meticu-losas. A parte del muy conocido “Regional Programme in Support ofIndigenous Peoples in the Amazon Basin”, que es un proyecto finan-ciado por medio de un “grant”, y es realizado en cuatro países del con-tinente (Colombia, Brasil, Venezuela, Bolivia), el FIDA ha gestionadoproyectos entre los Ngobe de Panamá, los Aguarunas del Alto Mayo(Perú), los Quiché Maya de Guatemala, los Ticuna de la Amazonia bra-sileña, los pueblos indígenas del Beni (Bolivia) y otros proyectos detipo ambiental en la sierra peruana, donde la presencia de actores socia-les indígenas es mayoritaria.

El FIDA ha sido una de las pocas organizaciones interguberna-mentales que desde el inicio de sus actividades (1978) se ha dedicadocon mucha atención al tema de la pobreza entre los pueblos indígenasy tribales, insistiendo en que estos grupos merecen una especial aten-ción antes de todo porque resultan ser los “más pobres de los pobres”.En el período 1979-2002 esta agencia ha prestado a gobiernos deAmérica Latina y Asia, para proyectos en áreas indígenas, alrededor del26% del total de los fondos invertidos. En un documento muy recien-te, que sintetiza todas las actividades del FIDA, los logros y lo apren-dido de la experiencia, se presenta un cuadro muy completo de los pro-

187

yectos más importantes y de los principios metodológicos que orientanlas acciones. Una premisa de carácter general, que acepta sin dificultadlos errores y los fracasos del pasado, es importante porque indica unafuerte penetración, a nivel de los fundamentos teóricos-políticos, dealgunos resultados de la investigación antropológica sobre pueblosindígenas y desarrollo:

“El camino maestro del desarrollo ha recibido una mala aprecia-ción por parte de los pueblos indígenas y tribales en muchas partes delplaneta. Después de la colonización, las empresas del desarrollo hanjugado un papel fundamental en la destrucción y denigración de los sis-temas económicos, culturales, políticos y sociales de los grupos indí-genas. Los nuevos estados-naciones independientes han considerado alos pueblos indígenas y a sus sistemas como la representación del atra-so cultural y de la primitividad. La misión, entonces, consistía en qui-tarlos del atraso y empujarlos hacia la modernidad a través de lasempresas del desarrollo. Su asimilación o integración al interior de lasociedad dominante y adentro del camino maestro del desarrollo hasido la opción política escogida por muchos gobiernos. Todo esto haconducido a la violación de los derechos básicos de los pueblos men-cionados con referencia a sus tierras ancestrales y a sus recursos. Estaes la razón por la cual algunos pueblos indígenas hacen referencia alcamino maestro del desarrollo como a la ‘agresión del desarrollo’”(Tauli-Corpuz 2005, 1).

El concepto básico de la metodología de planificación y gestiónde los proyectos del FIDA es “self-determined development” (desa-rrollo auto-determinado), donde los procesos de decisión y la inter-vención de los grupos indígenas desde las fases preliminares del ciclode proyecto son fundamentales. Los aprendizajes de la experiencia deveinte años de intervenciones en áreas indígenas de esta agencia sonlos siguientes: a. Considerar la oportunidad de programar tiempos lar-gos (por lo menos diez años) para tener resultados satisfactorios enáreas indígenas; b. Darle prioridad a programas y no a proyectos indi-viduales; c. Tomar un acercamiento “olístico” y no sectorial, teniendoen cuenta las interferencias e interconexiones entre sectores de la viday la experiencia de estos pueblos; d. Reforzar las instituciones tradi-

188

cionales y las estructuras sociales de gobierno de estos grupos, encambio de introducir instituciones nuevas y ajenas; e. Considerar a lospueblos indígenas como los principales actores en todo el ciclo de pro-yecto; f. Adoptar un acercamiento basado sobre el reconocimiento delos derechos, en todo el proceso de planificación; g. Considerar al pro-blema de la tierra y de los recursos naturales como problema básico yprioritario (reconocimiento y titulación de las tierras, etc.); h.Reconocimiento del rol central de la contribución de las mujeres paralos procesos de transformación social y económica de acuerdo a losritmos, capacidades y expectativas de las sociedades indígenas (Tauli-Corpuz 2005, 4-5).

En otro importante documento, que recoge y discute los aportes demuchos expertos internacionales que han dialogado con los funciona-rios de la Institución, se insiste de manera particular sobre la aprecia-ción del rol de la cultura, de la identidad y del conocimiento tradicio-nal indígena en los procesos de desarrollo, en relación con las ideasbásicas de la “auto-estima” y de la “confianza en sí”, y de todo el patri-monio espiritual (creencias, rituales, formas de simbolización), queaparentemente no tiene relaciones directas con las actividades de desa-rrollo. Se observa muy oportunamente que “Las agencias de desarrollofrecuentemente consideran a los pueblos indígenas desde el punto devista folclórico, como si no fueran capaces de participar en su propiodesarrollo ò en los procesos decisionales. Y los consideran ademáscomo si estuviesen metidos en un tiempo frío, caracterizado por tradi-ciones inmóviles. En realidad, la tradición ha evolucionado siempre enrespuesta a cambios en el medio ambiente ó a través de las interaccio-nes con otros pueblos, incluyendo la colonización. Obviamente existenconflictos y chantajes entre la modernidad y la tradición, pero la aten-ción central tiene que ser dedicada a ayudar la restauración y la recu-peración revitalizada de los valores culturales y de las formas de vidatradicionales, y al mismo tiempo la auto-estima de los pueblos indíge-nas” (IFAD 2005, 12). La aceptación de ciertas innovaciones (en laescuela, en las tecnologías modernas, en la defensa de la salud) tendráentonces sentido y eficacia, siempre y cuando sea incorporada en elcontexto de la sociedad local, de su sistema socio-cultural y económi-

189

co, de sus recursos intelectuales y espirituales. Lo que quiere decir:pasar desde una actitud centrada en la enseñanza (el desarrollo comopedagogía vertical) hacia un acercamiento caracterizado por el apren-dizaje y la capacidad de “escuchar”. En este sentido, los proyectos ten-drían que ser conceptualizados como “procesos de aprendizaje a travésde relaciones sociales y de conocimiento recíproco”.

Es evidente que un acercamiento de este tipo es muy innovador ytendría que generar una serie de estudios antropológicos aplicadossobre las sociedades indígenas y su progresiva adaptación a los proce-sos de cambio socio-económicos y culturales. La transformación muyrelevante de los principios básicos del desarrollo, cuando se apliquen alos grupos indígenas, hace parte de una pequeña “revolución” en lasbases teóricas de las actividades de promoción del desarrollo. No sepuede negar que tal transformación no ha llegado todavía directamen-te y completamente al nivel de los proyectos concretos. Hay que reco-nocer, de hecho, que los verdaderos estudios de base son muy pocos.Pero la influencia de la práctica de los proyectos indígenas sobre lasconcepciones generales del desarrollo es un éxito. Lo admite sin difi-cultad el documento más reciente de síntesis sobre las actividades enáreas indígenas del FIDA: “El pensamiento general del FIDA sobre eldesarrollo ha sido indudablemente reajustado a través de sus largosaños de compromiso con los pueblos indígenas y tribales... En realidadel acercamiento olístico al desarrollo.... es el modelo que tiene lasmayores posibilidades de éxito” (Tauli-Corpuz 2005, 18).

En realidad, la larga trayectoria del FIDA en las cuestiones indí-genas se remonta a los primeros años noventa del siglo pasado. Ya enun documento de 1994 se ponían en gran relieve los elementos básicosnecesarios para los proyectos en áreas indígenas, que coinciden enbuena parte con las anotaciones y los principios metodológicos másrecientes: la asistencia técnica para obtener el reconocimiento de losderechos sobre la tierra (demarcación, titulación y control), la necesi-dad de la plena participación de las comunidades, la oportunidad dereforzar las organizaciones indígenas promoviendo la cooperaciónhorizontal entre los diferentes grupos, la necesidad del uso y de la recu-peración de las tecnologías tradicionales para la producción agrícola y

190

la gestión de las selvas, el fomento a la validación cultural y a la iden-tidad (Helms 1994, iii). Ya en este documento se le reconocía a laspoblaciones indígenas que eran las más pobres del continente, de jugarun rol vital en la conservación del medio ambiente, y por fin de poseerformas organizativas y comunitarias que podrían servir como buenascontrapartes del FIDA en sus proyectos.

El proceso de consulta, de organización de seminarios y grupos detrabajo con expertos, ha continuado en el FIDA en las últimas décadas,como se puede ver – por ejemplo - en el informe del “BrainstormingWorkshop” organizado en 2005 en ocasión del U.N. Permanent Forumon Indigenous Issues (IFAD 2005). En otro documento de 2005 toda-vía no publicado, producido por un experto lingüista y antropólogoconsultor del FIDA se leen cosas muy importantes sobre el procesofundamental de la innovación y respuesta creativa por parte de laspoblaciones indígenas, que es central para todo nuestro tema. Se reco-noce la habilidad para promover innovaciones, el carácter dinámico ycontinuamente cambiante de las identidades indígenas, que se formany se reforman paulatinamente de acuerdo a las complejas dinámicas delas relaciones con el medio ambiente y con los actores sociales encon-trados en el curso de su camino histórico. La continuidad y la rupturacon el pasado, la aceptación y la crítica-rechazo a las propuesta que vie-nen desde afuera, la reinterpretación y la readaptación de lo nuevo a loviejo, conviven lado a lado en los procesos de cambio económico ysocial, de los cuales lo que nosotros llamamos “desarrollo” no es sinoel más impresionante de los ejemplos históricos. Y todos los cambiosen la técnica y en la vida social y económica, conllevan cambios con-secuentes en las auto-representaciones y las percepciones identitarias.En conclusión, cada innovación puede ser interpretada sea como unacausa que puede generar otras innovaciones, o – mejor dicho y másprofundamente – como parte de una cadena de causas y efectos que enmuchos casos quedan en una recíproca interconexión en una formaextremadamente compleja. Los ejemplos citados de inventos, adapta-ciones, creaciones nuevas, reinterpretaciones, innovaciones creativas einstitucionales, son muchos. Pueden convencer sin dificultad que losprocesos de promoción del desarrollo en áreas indígenas son mucho

191

más difíciles y complejos de lo que se creía anteriormente, y necesitanun verdadero “diálogo intercultural” (Gnerre 2005).

Si volvemos un momento a comentar algunos documentos delFIDA relativos a uno de los programas de mayor éxito en áreas indí-genas del continente (el “Programa Regional de Apoyo a los PueblosIndígenas de la Amazonia” – PRAIA -), tenemos que reconocer queel Programa es uno de los que han difundido la mejor y más refinadainformación sobre sus actividades. Se trata de una donación de2.000.000 de dólares y de un aporte de 150.000 dólares de la CAF(Corporación Andina de Fomento) que ha empezado sus actividadesen cuatro Países desde 1992 y este año está en fase de evaluaciónfinal. La estrategia de trabajo ha sido la de una multiplicación depequeños proyectos coordinados (75 proyectos hasta 1997) con largae intensa participación local, y con continua producción de informa-ción pertinente (hasta ahora se han publicado 17 entre libros, libritos,colecciones de fotos e ilustraciones de aspectos específicos de losproyectos realizados: ecoturismo indígena, territorios indígenas, floray fauna, gestión comunitaria, plantas medicinales, crianzas familia-res, frutales y hortalizas, etc.). Un documento de balance delPrograma, de 1998, nos ofrece algunas consideraciones metodológi-cas que tienen un valor general para todas las iniciativas del mismotipo. Ante todo, se declara muy firmemente que el Programa ha cons-tituido un gran desafío al carácter común y corriente de los proyectosde desarrollo: el paternalismo. Y también ha llegado a estimular loque es un ingrediente indispensable para los proyectos en áreas indí-genas, la autoestima de los actores sociales. Este logro se ha alcanza-do a través del cuidado muy especial que ha recibido la informacióny a través de la utilización del conocimiento local, así como pormedio del método del “aprender haciendo”. Se encuentran tambiénafirmaciones muy detalladas y explícitas, que tienen un gran valorteórico y metodológico: “Un proyecto con los pueblos indígenas noes un business donde el capital inicial es igual a la contribución de lacontraparte, y cuando esté terminado, un mayor capital podrá serinvertido de manera que todos los objetos sean reevaluados y losderechos de propiedad repartidos como una ‘propiedad de business’.

192

Un proyecto con una población indígena es un proceso continuodonde el capital es fundamentalmente aportado por una serie deinversiones escondidas en la forma del trabajo, el tiempo y los recur-sos (que se adjuntan a la inversión inicial); y estas inversiones no tie-nen un reconocimiento monetario y se mezclan con los resultados delas dinámicas económicas que el proyecto genera” (Iturri Salmón,Schulze, Haudry de Soucy 1998, 5, 7, 10, 15, 27).

Este panorama de los aportes de varias instituciones internaciona-les de cooperación internacional al desarrollo, a los problemas del tra-bajo de promoción económica y social en áreas indígenas ha demos-trado, creo, los grandes cambios que se han dado en las últimas déca-das. A nivel teórico, de los principios y métodos generales, no podemossino aprobar estos cambios. Claro que la situación es bastante diferen-te a nivel de los proyectos concretos, de las dinámicas de acción en losdiversos contextos locales, donde frecuentemente aparece una mayordistancia de los intereses reales, de las opiniones, decisiones y expec-tativas de las comunidades indígenas. El proceso está hoy en día encurso y la creciente importancia que se le está brindando a las evalua-ciones de impacto de los proyectos del pasado, la creciente flexibilidadque se está imponiendo en las diferentes formas de intervención (másprogramas que proyectos, extensión de las líneas flexibles de financia-ción, apoyo institucional, etc.), y por fin la importancia siempre mayorque están ganando sistemas internos de control de las actividades(como el “Inspection Panel” el Banco Mundial), nos hacen mirar a lacuestión indígena de los años 2000 con cierto relativo y prudente opti-mismo, por lo menos en lo que se refiere a los aportes de las grandesinstituciones de la cooperación internacional.

4. El “Etno-desarrollo”: concepto y aplicaciones prácticasEn los documentos recientes de las instituciones internacionales e

intergubernamentales del desarrollo han aparecido, entonces, nuevosconceptos, ideas y metodologías, que consideran a los pueblos indíge-nas como “sujetos especiales”, que merecen un tratamiento muy parti-cular. Los nuevos conceptos e ideas utilizan muy de cerca aportes delas ciencias sociales y manifiestan cierto alejamiento de las orientacio-

193

nes tecnicistas y economicistas que habían dominado hasta los añossetenta del siglo pasado en la teoría y en las prácticas del desarrollo.Los conceptos y términos mencionados son: “desarrollo auto-determi-nado”, “desarrollo con identidad”, “desarrollo autónomo y autocentra-do”, “desarrollo participativo”, “proyectos de vida”.

Pero, uno de los conceptos más eficaces e innovadores que empe-zaron a ser utilizados como “palabras-claves” en los discursos del desa-rrollo indígena fue el concepto de etno-desarrollo, una forma de expre-sión de la “diferencia específica” de los problemas, y de las soluciones,a la cuestión indígena en términos de planificación del cambio social yeconómico dirigido. Esta nueva concepción del proceso de modifica-ción de las condiciones de las poblaciones indígenas de América Latinatenía su origen en el reconocimiento de los derechos fundamentales delos mismos en cuanto “pueblos originarios”, y en una visión del mejo-ramiento de sus condiciones de vida dentro de una renovada idea de lamodernización. La participación activa de los grupos indígenas, lamovilización de sus ideas, principios y costumbres, la adaptación plenade cualquier tipo de intervención a los procesos sociales, políticos, eco-nómicos y culturales en curso en el contexto de las sociedades benefi-ciarias, se concebían como condiciones irrenunciables de esta nuevapropuesta de corrección a las posiciones corrientes acerca del desarro-llo.

La primera definición del etnodesarrollo, que dio origen al impor-tante movimiento de ideas acerca de este tema, la debemos, como sesabe, al antropólogo mexicano Guillermo Bonfil Batalla, y fue presen-tada en 1981 en una importante reunión internacional en San José deCosta Rica, organizada por la FLACSO y la UNESCO. Vale la penareleerla con atención:

Por etnodesarrollo se entiende el ejercicio de la capacidad socialde un pueblo para construir su futuro, aprovechando para ello las ense-ñanzas de su experiencia histórica y los recursos reales y potenciales desu cultura, de acuerdo con un proyecto que se defina según sus propiosvalores y aspiraciones (Bonfil Batalla y otros, 1982, 133).

Para esta orientación resulta fundamental la noción de cultura pro-pia, entendida como la totalidad de los rasgos culturales presentes en la

194

vida de un grupo étnico en un momento dado, sea los que vienen delpasado y son definidos como “originales”, “auténticos”, “tradiciona-les”, sea los que son ajenos y se han incorporado a lo largo de los siglosen los patrones de comportamiento y de pensamiento indígena pormedio de la difusión o de la imposición por parte de los estratos socia-les dominantes y/o de los poderes externos coloniales. El problema cru-cial es, entonces, que un grupo minoritario pueda mantener un ciertogrado de capacidad de manejo sobre los elementos que constituyen sucultura y pueda decidir sobre el uso de sus recursos culturales, a travésde la generación de proyectos propios, a corto o largo plazo, explícitoso implícitos. Este es el principio fundamental del control cultural, con-dición necesaria para realizar formas de autonomía operativa y de“desarrollo propio” (Bonfil Batalla 1981; 1989).

En la Declaración de San José, la cual fue suscrita al terminar lareunión arriba mencionada, el tema en su totalidad fue sintetizado enestos términos:

Entendemos por etnodesarrollo la ampliación y consolidación delos ámbitos de cultura propia, mediante el fortalecimiento de la capaci-dad autónoma de decisión de una sociedad culturalmente diferenciadapara guiar su proprio desarrollo y el ejercicio de la autodeterminación,cualquiera que sea el nivel que se considere, e implica una organizaciónequitativa y propia del poder. Esto significa que el grupo étnico es unaunidad político-administrativa con autoridad sobre su propio territorioy capacidad de decisión en los ámbitos que constituyen su proyecto dedesarrollo, dentro de un proceso de creciente autonomía y autogestión(Bonfil Batalla y otros, 1982, 24).

La fuerza crítica de esta nueva orientación frente a las concepcio-nes tradicionales del desarrollo, de tipo estrictamente economicista ybasadas en una pedagogía vertical de las transferencias técnicas, esindudable. Una gran reforma de las estrategias del cambio económicoy social dirigido se estaba diseñando en términos generales y teóricos.Pero pronto se empezaron a realizar las primeras experiencias prácti-cas, orientadas por la mencionada posición teórica. Los primerosexperimentos provienen de los Cuiva de Venezuela (Fonval 1982), delas comunidades indígenas del Cauca en Colombia (Londoño 1982),

195

de los Amarakaeri de la Amazonia peruana (Gray 1986) y por fin delos Mapuche de Chile (Mariqueo 1989). Pero sin duda los casos másinteresantes e intensos fueron los de los diversos grupos Guaraní deParaguay y de Mato Grosso do Sul en Brasil, donde la extensa dura-ción de las iniciativas y la adaptación local de las innovaciones pro-venientes del mundo externo, el riguroso control de los excesos de lamodernización y la participación plena y responsable en las decisionespor parte de los grupos locales indígenas, así como la investigaciónantropológica sobre las complejas dinámicas socio-culturales, llega-ron a encontrar un equilibrio raro y sumamente eficaz (Grünberg1979, Thomaz de Almeida 1991). El proyecto de Grünberg con losGuaraní, que ha continuado en la década de los ochenta, se ha carac-terizado por el necesario y continuo ajuste que tuvo que hacer el inves-tigador-promotor del proyecto al ritmo temporal de la sociedad indí-gena, reduciendo al mínimo su autoridad formal e informal. Los mis-mos indígenas en sus reuniones libres de discusión pública, en su idio-ma y de acuerdo a su organización social y cultural y a su estilo decomunicación y toma de decisiones, identificaron los objetivos y losinstrumentos para la realización del proyecto. La toma de decisionesno se adaptó a la forma foránea (típica de casi todos los proyectos) de“talleres” o “reuniones de la Junta Directiva”, sino que se realizó enlas asambleas tradicionales, con su ritmo temporal y de acuerdo a sudinámica social y cultural. Los aportes externos al proyecto – recursostécnicos, recursos financieros, asesoramientos – siempre se introducí-an en forma reducida y controlada, para que nunca llegaran a superar,en consistencia y en importancia, los aportes locales. La sociedad indí-gena, de hecho, alcanzaba a dominar y controlar el proceso de cambioy la introducción de las innovaciones a partir de un sistema socio-eco-nómico y cultural dado, que tenía siglos y siglos de experiencia orga-nizativa.

La difusión del concepto y de la metodología del “etnodesarrollo”ha sido muy extensa a partir de los años noventa del siglo pasado, y hallegado hasta las grandes instituciones internacionales del desarrollo,como por ejemplo el Banco Mundial. Una publicación de 2000, auspi-ciada por el “Latin American and Caribbean Office on Environmentally

196

and Socially Sustainable Development” está dedicada a las enseñanzasque se pueden traer de un proyecto del Banco entre los pueblos indíge-nas y afro-americanos del Ecuador, y declara muy explícitamente haberadoptado los conceptos básicos de “ethno-development” y de “deve-lopment with identity”, caracterizados por la incorporación, en la pla-nificación y en la implementación del proyecto, de las “cualidadespositivas de las culturas indígenas”, como el fuerte sentido de identidadétnica, la radicada vinculación con la tierra ancestral, la capacidad demovilizar el trabajo de la gente para finalidades comunes, la intensaparticipación en las decisiones, y por último la utilización de la red muyintensa de relaciones sociales locales que constituyen un importante“capital social” (van Nieuwkoop, Uquillas 2000). Y en un interesante ycompleto trabajo más antiguo de síntesis sobre el tema, que contienetambién un balance de las actividades y proyectos del Banco, con unbreve análisis de algunos casos concretos de proyectos, aparece unaevaluación muy bien equilibrada de las “condiciones” para que se rea-lice un verdadero etno-desarrollo indígena, y es presentada una propo-sición general que vale la pena reportar: “Es más probable que el etno-desarrollo indígena ocurra cuando los pueblos indígenas tengan accesoa los recursos básicos para su reproducción social; cuando hayan logra-do alcanzar un nivel elevado de organización social y de movilizaciónpolítica; hayan podido preservar su identidad cultural (especialmentesu propia lengua); hayan establecido lazos sólidos con instituciones delexterior; y cuando tengan patrones de producción que les permitan sub-sistir y obtener ingresos en efectivo. Sin duda, un factor contribuyentelo constituye una política ambiental favorable” (Partridge, Uquillas,Johns 1996, 7). En su bien como en su mal, esta declaración revelamucho de la actitud del Banco y de sus consultores frente a la temáticadel desarrollo indígena.

También el FIDA ha utilizado muchas veces, como por ejemplo enproyectos en Bolivia, el concepto de “etnodesarrollo”.

En la literatura especializada no faltan algunas críticas al concep-to que se acaba de tratar, que de acuerdo a algunos comentadores, pro-venientes más que todo del mismo mundo indígena, revela su prove-niencia de autores “externos”, frecuentemente académicos; y a pesar de

197

contribuir no poco a la causa indígena como avance en la dirección dela autonomía y de la autodecisión, de hecho manifiesta una actitud arepresentar y proponer una “forma corregida de desarrollo”, y no una“alternativa al desarrollo de origen occidental”. Luisa Fernada Velascoha presentado un cuadro rico y satisfactorio de estos aportes críticos,enfatizando la radical diferencia que existe entre las propuestas dedesarrollo indígena, que toman un punto de vista externo, también enfavor de los grupos indígenas, y las propuestas indígenas de desarro-llo, que toman un punto de vista interno (Velasco 1999).

Además del concepto de “etno-desarrollo”, se ha utilizado enmuchos documentos, y ha asumido el rol de concepto orientador de unacantidad de proyectos y programas en áreas indígenas, el concepto-tér-mino muy vinculado al anterior, de “desarrollo autónomo”, como ya seha indicado anteriormente. Lo que significa subrayar y enfatizar lanecesidad que sean los grupos de beneficiarios, las comunidades indí-genas, los actores principales de los procesos, proyectos y programasde desarrollo. En el sentido más difundido y común la “autonomía” serefiere a los procesos decisionales, principalmente, y a la producción denormas propias en cambio de aceptar normas foráneas. O sea, se con-sidera indispensable la participación activa de las comunidades, desdela fase preliminar de una iniciativa de cambio socio-económico dirigi-do (identificación, planificación, pre-evaluación) hacia las fases deimplementación y ejecución. Lo que conlleva inevitablemente la tomaen consideración y la activación de las instituciones locales, de lasestructuras de decisión y de poder existentes a nivel local; y, conse-cuentemente, la independencia de cualquier interés, poder, y/o decisiónque venga desde afuera.

El concepto de desarrollo autónomo es también aplicable al sec-tor específicamente económico, que está vinculado estrechamente alas decisiones políticas y a todas las iniciativas de cambio planificado.Conocer a fondo la economía indígena y sus tendencias a la transfor-mación, sus relaciones con las economías de mercado, antes y a lolargo de los procesos de desarrollo, es entonces indispensable.Investigaciones sobre las economías indígenas, con una atención espe-cífica a sus peculiaridades, sus instituciones propias, sus vínculos

198

estrechos con las estructuras sociales y culturales, no son frecuentes enla literatura corriente sobre desarrollo y pueblos indígenas. Es por lamencionada razón que vale la pena citar un libro no muy reciente, peromuy importante, dedicado al conocimiento de las economías indígenascomo base fundamental para cualquier tipo de intervención de cambiodirigido. En este libro sobre la economía indígena y el mercado comobases para una seria planificación del desarrollo autónomo, apareceevidente una cierta actitud que se ha manifestado en algunas ONGsdedicadas a la causa indígena, hacia el estudio y la registración atentay bien documentada de las fuerzas sociales de la economía (institu-ciones formales e informales) que ya existen en un contexto indígenadado, antes de que se planifique una intervención. Las formas socialesde la producción y las respuestas a las innovaciones técnicas, la divi-sión social del trabajo entre sexos y edades, la importancia del inter-cambio de servicios, de alimentos y de trabajo, las deudas sociales yla circulación monetaria, y por fin la presencia de la economía indíge-na en los mercados locales, son todos temas que rescatan la persisten-te pobreza de datos que caracteriza todavía la mayoría de los textos deproyectos en áreas indígenas (Chase Smith, Wray 1995). La recolec-ción de datos de investigación sobre las estructuras sociales de podery decisión, de producción repartición-intercambio, y de consumo,entre las diferentes comunidades involucradas en proyectos y progra-mas de desarrollo, constituye entonces el fundamento irrenunciablepara que se llegue a una correcta identificación y planificación deintervenciones. Pero por sí solas, estas dimensiones son insuficientes.Es necesario también, como aparece en toda una literatura reciente,que se le conceda un espacio apropiado a todo el patrimonio de ideas,concepciones, percepciones y categorizaciones, que acompañan desdecerca los procesos de acciones económicas y políticas. Es necesarioentonces meterse también en el campo de los “factores inmateriales”que acompañan todo proceso social. La mentalidad, los valores, lasaspiraciones, las expectativas, y los términos-conceptos mismos utili-zados – en pocas palabras, los sistemas de pensamiento indígena – sonparte esencial, no secundaria, del proceso de desarrollo de los pueblosindígenas.

199

5. El “punto de vista” indígena sobre el desarrollo Hasta ahora hemos tratado el tema indígena de acuerdo a las posi-

ciones expresadas por las grandes instituciones internacionales deldesarrollo, o por intentos de análisis externos al mundo de los pueblosoriginarios de América Latina. Vale la pena, ahora, dedicarnos directa-mente a tratar la otra cara del problema. El “punto de vista indígena” esentonces de gran importancia, siempre y cuando los promotores y rea-lizadores de proyectos en áreas indígenas, y los investigadores queposiblemente actúan como consultores, estén dispuestos a registrar lavoz y las reacciones activas de los pueblos indígenas frente a las ini-ciativas de desarrollo. Y no solamente las acciones, el aprendizaje delas enseñanzas provenientes del personal técnico de origen externa, lascantidades, los números de la producción y los movimientos del mer-cado, sino también todos los otros aspectos, sociales e inmateriales,vinculados con los procesos de cambio social y cultural.

Algunos ejemplos concretos podrán servir para mostrar la com-plejidad y el interés que tiene este aspecto de la dinámica de las activi-dades de cambio socio-económico dirigido o influido por agentesexternos. En el curso de un proyecto de ONG, financiado por laCooperación Italiana y por la Comunidad Europea de Bruselas, en laSierra Nevada de Santa Marta (Colombia), los indígenas Kogi yAruaco, beneficiarios de dicho proyecto, destinado a la recuperaciónambiental, a la creación de centros médicos rurales, a la formación delíderes y a la recuperación de formas tradicionales de agricultura, serealizaron largas conversaciones con algunos líderes y con la gentecomún sobre ideas, conceptos, metodologías de trabajo en el campo deldesarrollo. El intento era medir las reacciones mentales y conceptualesindígenas, y provocar una mayor participación y compromiso con lasactividades del proyecto. Apareció de inmediato una diferencia bastan-te radical entre los Aruacos y los Kogi. Los primeros entendían perfec-tamente algunos aspectos fundamentales de las teorías y de las estrate-gias del desarrollo programado por el “Hermanito Menor” (así ellosidentificaban a los blancos). Interpretaban la palabra “desarrollo” enforma bastante correcta, pero privilegiaban en sus expresiones al res-pecto el aspecto “material” de las acciones de desarrollo (hacer que el

200

beneficiario tenga siempre más cosas, adquirir siempre más y alcanzara los blancos en su carrera continua; en el fondo se vislumbraba unaespecie de expectativa mesiánica y una visión del futuro como “reinode la abundancia”). Pero no insistían nunca en un carácter fundamentaldel desarrollo occidental como actividad de trabajo duro y forzoso, deinversiones bien calculadas, con renuncia a satisfacciones actuales paratener mayores satisfacciones en el futuro, y sobre todo como inversiónde plata, istrumentos técnicos y trabajo para producir más. La versióndel desarrollo che percibían era más que todo vinculada a la idea de“tener más cosas”.

Las conversaciones con los Kogi, una población más “tradicional”,vinculada a una visión mística y religiosa del mundo, llegaron a ser muydiferentes. La mayoría de los Kogi no entendían mucho de las teorías,de las estrategias y de las actividades de los blancos en los proyectos dedesarrollo. Criticaban mucho a los “Hermanitos Menores” porque acu-mulaban demasiados objetos, demasiadas cosas y no se preocupabanpor el “aspecto espiritual” que siempre queda al lado del material, entodas las cosas. Se reían a la idea de que ellos habían sido definidoscomo “un pueblo subdesarrollado” y los que conocían el español noentendían como se podía sostener que una sociedad fuera pasible de“desarrollo”. En su criterio todas las sociedades, desde que se formaroncon sus héroes culturales, sus espíritus y sus dioses, con sus chamanesy sus complicadas costumbres, con todas sus sabidurías y sus rituales,son “desarrolladas” por sí mismas y definitivamente, sin lugar a dudas.Él que se desarrolla es el niño, en sus primeros años, pero lo hace conla ayuda de los rituales del mama (el sacerdote existente en cada grupo).Muchos de ellos recordaban que la palabra “desarrollo” no existía antesen su idioma y algunos de los grandes mama del pasado se habían pro-nunciado en contra de esta palabra y de las cosas que llevaba consigo:“Mi papá solía decir que nosotros nunca hemos sabido de eso y de estapalabra. No quería que la pronunciáramos, y decía: ‘es cosa de los blan-cos, no es para nosotros’. Prohibiendo la palabra él pensaba que de estaforma se podía impedir también que entrara la cosa que le correspon-día”. Empujados a “traducir” la palabra “desarrollo” en su idioma, losKogi encontraron muchas dificultades. Puesto que se trataba de un neo-

201

logismo, no correspondiente a sus experiencias previas, antes intentaroncon un término como ri-hinshi, que retro-traducido al español sería “cre-cer mucho y en continuación”. Por este camino llegaron a elaborar elconcepto de “crecer demasiado” (en términos de bienes materiales) queno les gustaba para nada. Pero al final, después de muchos debates entreellos, y muchas noches pasadas conversando en la “Casa de losHombres” mascando hojas de coca, llegaron a proponer una nueva tra-ducción: jatgua, que quiere decir en realidad “divinación”. Los Kogi, dehecho, veían una fuerte analogía entre el proceso de divinación (que sehacía botando unas piedras rojas con puntas agudas en unas calabazascon agua, y observando e interpretando las burbujas que resultaban delchoque entre las piedras y el agua) y el desarrollo traído de los blancos.De acuerdo a sus reglas de interpretación de las burbujas la divinacióndibujaba un futuro positivo para el postulante. Fue difícil para el inves-tigador que actuaba como consultor del proyecto de desarrollo entre losKogi y Aruaco, argumentar en favor de la “gran diferencia” que él veía,entre la divinación y las acciones de desarrollo, citando el trabajo, lasinversiones, las técnicas y su capacidad de generar una mayor produc-ción. Los Kogi basaban la analogía en la oposición entre un presente dedeseo de mejorar y de falta de algo, y un futuro mejor, deseado y alcan-zado después de haber esperado largo tiempo la respuesta del mamadivinador. Presentando sus réplicas a las objeciones del investigador, losKogi revelaban su desconfianza hacia los proyectos de los blancos, suineficacia, sus incapacidades que se acompañaban siempre a sus preten-siones. Un anciano comentó: “Estoy observando desde muchos años elHermanito Menor con sus proyectos, sus agrónomos y sus aparatos téc-nicos. Después de pocos años las cosas vuelven como eran antes, elHermanito regresa a su casa, y nos deja una cantidad de instrumentosrotos e inutilizables. Siempre sabe hablar el Hermanito Menor de “refo-restar la Sierra”, a la Gran Madre, poniendo miles y miles de arboles unoa lado del otro, que pasados algunos meses se mueren casi todos. Creoque, antes de venir por acá, los Hermanitos Menores tendrían que refo-restarse adentro, estando en sus casas” (Colajanni 2005; se vea tambiénPerafán-Pabón 1998).

Otro ejemplo, siempre en Colombia, puede ser tomado de las

202

interpretaciones y categorizaciones lingüísticas de los Wayú, indíge-nas de la península de la Guajira. Los Wayú conocen desde hace tiem-po las actividades de promoción del cambio social y económico diri-gidas por los blancos y están perfectamente en condiciones de criticarlas ineficacias y las incongruencias de los proyectos de desarrollo quese han llevado a cabo en sus tierras. Cuando hablan de estas cosas, losWayú pueden utilizar dos términos y dos conceptos diferentes querevelan su capacidad crítica y de elaboración frente a las iniciativas delos blancos. Para identificar la mayoría de los proyectos de desarrolloque llegan desde la ciudad de Riohacha o a veces desde Bogotá, ellosusan un término indígena (asulaja) que traducido directamente alespañol quiere decir “regalo”, “donación”, pero regalo y donaciónafuera de la red tradicional de obligaciones sociales básicas. Seríacomo decir, “regalo tonto”, sin mucho sentido, pero que puede corres-ponder a cosas que ellos “han pedido al gobierno”. Y el hecho de“pedir” es considerado fundamental para esta idea-concepto. Perocuando describen una actividad propia, o uno de los raros proyectospensados, definidos y organizados por ellos mismos, proyectos que sehan perfectamente involucrado en la red de las relaciones sociales y sedesarrollan de acuerdo al pensamiento propio de los indígenas, utili-zan una palabra en idioma wayunaiki que quiere decir “tejer el pre-sente”, arreglar algo (akumaja akuaipa), construir con hilo un enredoy un cruce de figuras que después de mucho tiempo resultan en unacobija, o en una red de dormir. De la misma forma un buen proyectoes una red de hilos entre sujetos diferentes y una red de significadosdirectos y simbólicos. La diferencia es significativa e importante. Enlos últimos años también los Wayú han empezado a concebir las acti-vidades de proyectos de desarrollo como un “crecer”, “engrandecerse”(aapulawa, emióujawa). De todas formas, permanece – en la visión delos Wayú - la oposición entre la estrategia de los blancos (arijunas), deacuerdo a la cual el desarrollo y el progreso coinciden con la destruc-ción de la naturaleza, y la ideología indígena, según la cual el bienes-tar de los vivientes está vinculado a la reproducción de la naturaleza(Mancuso 2002, 527-533).

Entre las fuentes que muestran con gran intensidad la adopción

203

del “punto de vista indígena” sobre las cuestiones del desarrollo valela pena citar un libro reciente que es el resultado del encuentro entreun conocido teórico y crítico de las estrategias oficiales del desarrolloy unos agrónomos peruanos estrechamente ligados, por una experien-cia de largas décadas de trabajo común, a los grupos indígenas y cam-pesinos de la zona andina. El libro presenta una demostración muy efi-caz de la substancial incompatibilidad entre las ideas, los objetivos yla estrategia de la mayoría de los proyectos de desarrollo, concentra-dos en el crecimiento de la producción y en la transferencia de recur-sos técnicos, y el sistema milenario – muy complejo y caracterizadopor una estrecha interdependencia entre prácticas, recursos técnicos,ideología, cosmología y valores sociales – que es propio de la agricul-tura andina. Se trata de una agricultura de altura, que contempla lacomplementaridad entre diferentes pisos térmicos, a través de unaimpresionante variedad de plantas y una utilización masiva del traba-jo humano. En esta investigación la información sobre prácticas y for-mas de pensar originales, la crítica al desarrollo y la presentación deuna alternativa eficaz, socialmente y culturalmente compatible, ecoló-gicamente sostenible, alcanzan un equilibrio que es muy raro en laliteratura existente sobre el tema (Apffel-Marglin 1998). En la mismadirección, con una orientación que es menos técnica y más “filosófi-ca”, se mueve un trabajo que utiliza experiencias en la misma regiónandina, en el área aymara, y analiza en profundidad, con muchosejemplos prácticos, el concepto-palabra aymara de qamaña, entendidocomo “espacio de bienestar a través de una trama de vida caracteriza-da por mutua interconectidad”. Esta idea hace parte de un conjuntoconceptual-semántico que diseña las concepciones aymaras de lo quepodemos definir un “desarrollo propio”, en términos de “crecimientoen convivencia, animales, personas y plantas”. Diversos ejemplos decasos exitosos de “buena vida” en comunidades andinas enriqueceneste cuadro muy rico de datos y de propuestas alternativas con res-pecto a las propuestas del desarrollo técnico y consumístico, que traensus raízes de la tradición andina revisitada y adaptada a la modernidad(Medina 2001). Entre este tipo no común de fuentes antropológicas deinformaciones y análisis de las elaboraciones originales indígenas y de

204

prácticas de acciones autónomas e independientes, quiero citar tam-bién a la importante monografía de Andrew Gray sobre los Arakmbutde la Amazonia peruana (Gray 1997), donde se presenta un cuadromuy detallado de los procesos de cambio económico y social de estosgrupos indígenas, en su difícil proceso de adaptación a la presión delos colonos de origen externo y a la introducción de la minería del oro.Los Arakmbut no son contrarios al desarrollo y al cambio bastanteradical que es ofrecido por las nuevas circunstancias del contacto.Pero para ellos los aspectos fundamentales del desarrollo tienen queser el mantenimiento – en sus manos - del control sobre el acceso a losrecursos, y el consenso – de su parte – a todo tipo de innovación quepretende ser introducida en sus territorios. Ellos contrastan y rechazanmuy firmemente sólo los aspectos y elementos que no pueden contro-lar y que constituyen un chantaje a sus recursos comunitarios. Paraentender la forma en que estos indígenas conceptualizan el desarrollo,el autor declara que hay que entender en lo profundo sus concepcio-nes del tiempo y la forma en que ellos piensan los cambios en térmi-nos de fenómenos espaciales, así como su idea del “crecimiento”como no más que un fenómeno de “reorganización”, dominado por laestrecha relación entre “visible” e “invisible”. La idea de desarrollo,para ellos, está vinculada a todo lo que puede permitir mantener cier-ta estabilidad en sus vidas. Y la estabilidad se puede mantener tambiénmodificando ciertos aspectos de la vida. Así que para esta sociedad dela Amazonia peruana el desarrollo no puede significar ni “crecimien-to” ni “progreso” en sentido occidental, sino el hecho de alcanzar acontinuar la vida así como siempre ha sido, aceptando los cambioscuando necesarios para el mencionado fin. Su modelo de vida es la“auto-suficiencia”, en la cual los beneficios de origen externo son uti-lizados para suplementar la falta de ciertos recursos al interior de lacomunidad. La idea básica queda para ellos en la estabilidad, en lasuficiencia y en el control sobre el medio ambiente (Gray 1997, 251-54).

Las opiniones de líderes indígenas bien fundadas en una experien-cia de muchos años de trabajo con organizaciones locales y en relacióncon la cooperación internacional, son muchas y frecuentemente bien

205

equilibradas entre la “conservación”, la “protección de lo propio”, lasinnovaciones prudentes, y más que todo el control directo en manosindígenas. Por ejemplo, un dirigente muy experto, coordinador deEconomía de la COICA (Coordinadora de Organizaciones Indígenas dela Cuenca Amazónica), se expresa de esta forma sobre el punto de vistaindígena en lo que se refiere al desarrollo: “Nuestro punto de vista delo que se debe entender por desarrollo es diferente. No es el de la mayorrentabilidad a costa de nuestros territorios y en perjuicio de las futurasgeneraciones. No es el desarrollo de pequeños propietarios individua-les temerosos por las subidas y bajadas de precio del mercado. No es eldesarrollo para obtener plata que nos permita comprar una lata de atún,acostumbrados a comer zúngaros y paiches. Nuestro desarrollo esdesarrollo de todo un pueblo, con consideración a su futuro, no un futu-ro de 5 años que dura un gobierno o un proyecto, sino un futuro de pue-blos que existen desde los primeros tiempos. Nuestro desarrollo es paracompartir y no para dominar. Es para mantener nuestro mundo y nopara cambiarlo por las atrocidades urbanas....Tenemos derecho a serinformados, consultados y sobre todo a participar en la toma de deci-siones” (E. Nugkuag Ikanam, El desarrollo indígena Amazónico, en:Mugarik Gabe 1995, 24-25, 26).

6. Una importante y reciente innovación: los “Planes de VidaIndígena” Un ejemplo muy importante del proceso de innovación terminoló-

gica y conceptual en las categorizaciones indígenas del desarrollo es unneologismo introducido, en los documentos sobre el tema, a partir definales de los años ochenta del siglo pasado. Se trata del término-con-cepto de Plan de Vida, que se ha difundido muy extensamente en todoel continente, sustituyendo prácticamente el término, y en buena parteel concepto, de “desarrollo”. La innovación se debe a la ONIC(Organización Nacional Indígena de Colombia), que en 1989 concluíauna serie de talleres y seminarios de discusión dedicados a la “reflexiónacerca del futuro de los pueblos indígenas y de nuestros planes de vidacomo pueblos diferenciados culturalmente para seguir perviviendo, conuna identidad y una forma de ver el mundo muy distinta a la sociedad

206

mayoritaria” (ONIC/IICA 1989, 5). El documento sigue definiendo enforma general la nueva orientación:

“En la mayoría de las organizaciones regionales se viene plante-ando que el plan de vida puede constituirse en una herramienta funda-mental para decidir nuestro futuro de manera autónoma y crítica y ade-más para proponer frente a las políticas del desarrollo, nuestras propiasalternativas de vida. Por tanto es importante que las organizaciones, loslíderes, las autoridades, los sabios, las mujeres, los hombres, los jóve-nes y los niños, construyamos en forma conjunta y lleguemos a acuer-dos básicos acerca del significado, la metodología, los conceptos, lasnociones y los requerimientos que la construcción o fortalecimiento denuestros planes de vida requiere......Es necesario que tengamos unosconocimientos claros acerca del significado del desarrollo y los planesde desarrollo promovidos desde Occidente, para tener elementos quenos permitan fijar una posición crítica frente a los efectos positivos onegativos de estos........Para decidir acerca de nuestro futuro plasmadoen nuestros planes de vida es fundamental que hagamos una reflexiónprofunda de acuerdo a nuestros propios métodos y formas de pensar ydecidir, es decir debemos empezar preguntándonos acerca de nuestraley de origen, de nuestra forma de vivir y de los elementos esencialesque nos han permitido pervivir como culturas diferentes” (Ibidem, 5-7). Este proceso de reflexión llega a producir la conciencia de que “elplan de vida sirve en primer lugar para fortalecer nuestra identidadcomo elemento fundamental que nos permite identificarnos o asumir-nos como miembros de un pueblo indígena” (Ib.,14).

El documento mencionado sigue presentando algunas críticas a lasconcepciones y prácticas corrientes de desarrollo entendido como acti-vidad de promoción técnica y económica, concentrada en el crecimien-to económico sin límites y en una acumulación individual de bienes,que actúa “dejando de lado aspectos tan importantes como la conser-vación de la naturaleza, el respeto por la diversidad cultural y las rela-ciones sociales”. Y termina con un cuadro sinóptico de gran eficacia,en el cual se oponen de forma radical los “Planes de Desarrollo” a los“Planes de Vida”.

(ONIC/IICA 1989, 16-17)

207

El éxito de la propuesta de la ONIC fue inmediato. Sobre todo enColombia, pero también en numerosos otros países de América Latina,en pocos años la idea, la metodología y los elementos básicos de los“Planes de Vida” se difundieron rápidamente. Hay varios ejemplos quese pueden considerar. Como el Plan de vida del pueblo Cofán yCabildos indígenas del Valle del Guamuez y San Miguel, Putumayo,Colombia, publicado en 2002; y como el documento publicado en 2005

208

PLANES DE DESARROLLO

Bienes materiales

Crecimiento económico de maneracompetitiva

Recursos naturales consideradoscomo fuentes de ingresos económi-cos

Participación entendida como invo-lucración más o menos pasiva de loslíderes y representantes

Trabajo por sectores ya definidoscon asignación presupuestal rígida

Trabajo ajustado a los diferentesprogramas del gobierno, en perío-dos de tiempo de tres a cuatro años

Indiferencia al problema de las dife-rencias culturales

Se busca la transformación delmundo

PLANES DE VIDA

Pervivencia de los pueblos

Recursos y bienes compartidos deacuerdo a principios de redistribu-ción, intercambio y solidaridad

El hombre considerado como parteintegral de la naturaleza, mantenien-do relaciones de equilibrio con ella

Participación plena que incluye atodas las personas de la comunidad,realizándose en los espacios y tiem-pos propios

Visión integral con flexibilidad yadaptación al proyecto de vida decada pueblo

Realización permanente, de genera-ción en generación, que tiene comopunto de referencia principalmentea la sociedad y la cultura local

Relación estrecha con la cultura y laterritorialidad de cada pueblo

Se busca la transformación delhombre

por los Páez de Tierradentro (Pensamiento ancestral: Por la construc-ción del tejido social y el fortalecimiento de las relaciones intercultu-rales. Plan de vida de la Asociación de Cabildos Juan Tama). Es muyinteresante anotar que estas elaboraciones las cuales insisten en la auto-nomía decisional, en la necesaria correspondencia entre visión del futu-ro y pasado de la tradición cultural del pueblo, re-elaborada y adaptadaa la modernidad, en las críticas a algunas cuando no a todas las carac-terísticas de los proyectos y planes de desarrollo corrientes, han termi-nado por ejercer una influencia estable en un sinnúmero de organiza-ciones territoriales de pequeñas y medianas dimensiones de la sociedadcivil, habitadas en su mayor parte por blancos y mestizos. Como decir,que los pueblos indígenas están actuando en su calidad de “puntas delanza” en un proceso continental, de tipo global e intercultural, que nodeja de ejercer influencias benéficas sobre los otros componentes de lassociedades latino-americanas, en temas como la autonomía, la libertadde decisiones, la participación política en los cambios de la moderni-dad. Por ejemplo, bajo la influencia de las elaboraciones indígenas enla región de Tierradentro, Cauca (Colombia), una entidad territorial delestado colombiano, el Municipio de Inzá, ha adoptado casi completa-mente las nuevas orientaciones de los Planes de Vida y ha producido undocumento de gran interés, el Plan Territorial para el Mejorestar de loscomuner@s de Inzá, Tierradentro, 2004-2007. En este documento, acargo de la Alcaldía Municipal de Inzá, aparece la afirmación de que esnecesario “construir colectivamente una nueva noción de desarrollo”, yque es necesario que “en los hogares se hable acerca de lo que se pien-sa del desarrollo, y que esta noción, con el correr del tiempo, se con-vierta en una construcción colectiva, que permita en todo escenariodeterminar con claridad y ‘desde lo propio’ el rumbo de las comunida-des asentadas en el municipio, y cuestionar con autonomía las distintaspolíticas de desarrollo definidas ‘desde afuera’, que tradicionalmentehan ignorado la realidad de las regiones donde se han impuesto”.

Un interesante aporte al tema de los Planes de Vida se encuentraen un reciente trabajo dedicado a los pueblos indígenas y a su futuro,donde reaparece la oposición entre proyectos de vida y desarrollocomún y corriente. Mario Blaser presenta de esta forma la oposición:

209

“Los proyectos de vida divergen del desarrollo en su atención a la uni-cidad de la experiencia de un pueblo acerca de un lugar y de sí mismo,y en su rechazo a las visiones que pretenden ser universales”.Substancialmente se subraya el contraste entre perspectivas “basadasen un lugar dado” y visiones universalísticas (consistentes en la aplica-ción de reglas generales sin considerar las especificidades de un lugarparticular), que se acompañan frecuentemente con estructuras emer-gentes de gobierno y de dominación. Por consecuencia, los proyectosde vida corresponden a una “política y epistemología de la elasticidad(de la capacidad de recuperación), que asume las relaciones, el flujo yla abertura en calidad de su base ontológica”. Así que estas perspecti-vas se presentan con su inherente imprevisibilidad y con la capacidadde arreglar en los tiempos largos las interacciones entre ecosistemas ysociedades humanas, manteniendo siempre su actitud fundamental, quees la conservación de la habilidad en responder a los cambios (Blaser,Feit, McRae 2004). El mismo Blaser profundiza el análisis crítico delos proyectos corrientes de desarrollo en áreas indígenas enfatizando laimportancia que tienen las ideas dominantes de lo que constituye la“indigeneidad”. De acuerdo a este autor, “Si la indigeneidad se entien-de como un estado de subdesarrollo y atraso, entonces se puede asumir,como lo han hecho las retóricas de la misión civilizadora y del desa-rrollo, que una de las necesidades de los indígenas es el progreso guia-do por aquellos que están más desarrollados. Contrariamente, si la indi-geneidad se ve como un estado de armonía con la naturaleza, la con-servación de la cultura ‘tradicional’ se puede ver como una necesidadde los indígenas”. En cambio, si pasamos a examinar las actitudes deun pueblo indígena del Paraguay sobre estos temas (los Chamacocos-Yshiro del Chaco), podemos observar que “los líderes Yshiro impulsan‘proyectos de vida’ que están densamente conectados con sus historiasy que incluyen visiones del mundo y de su propio futuro que se distin-guen de los proyectos de desarrollo impulsados por indigenistas. Losproyectos de vida se distinguen de los proyectos de desarrollo precisa-mente en que los primeros están basados en la particularidad de lasexperiencias de cada pueblo y en su rechazo de verdades universales.Así, los proyectos de vida están siempre en construcción y por ello no

210

encajan dentro de las definiciones de indigeneidad establecidas de ante-mano y que aquellos que apoyan o rechazan las demandas indígenasusan para justificar sus visiones del desarrollo”. El autor mencionadoinsiste en su presentación crítica de las “pre-condiciones teórico-ideo-lógicas” de todos los proyectos corrientes de desarrollo en áreas indí-genas anotando que – con todas las buenas intenciones – algunos antro-pólogos han favorecido la difusión, en Paraguay, de una noción de indi-geneidad referida a los indígenas de la región chaqueña, asociada conel ‘modo de vida cazador-recolector’. De acuerdo a esta visión los pue-blos del Chaco tendrían una “moral ecológica” característica de loscazadores-recolectores (viviendo en armonía con la naturaleza) y prac-ticarían una “moral económica” típica de estos grupos, caracterizadapor mecanismos de reciprocidad generalizada. De hecho estos pueblosmanifiestan una preferencia cultural por actividades con retorno inme-diato (mientras que la agricultura se identifica con actividades de retor-no diferido). De acuerdo a esta posición, se interpretan como justifica-bles los fracasos de los proyectos corrientes implementados entre estospueblos, puesto que los mismos han asumido una motivación econó-mica que no existe entre los indígenas y han tratado de hacerles adop-tar actividades económicas que interfieren con su búsqueda de retornosinmediatos. Mientras que, en cambio, el verdadero problema es la “pro-tección de los recursos naturales” y la respuesta positiva a los reclamosde tierras por parte de los indígenas. La conclusión es que no se solu-cionan los problemas de los indígenas comprando cosas y construyen-do infraestructuras que pronto serán ruinas abandonadas de la moder-nidad inalcanzada, y que colapsarán por falta de una organización ade-cuada, con recursos humanos capacitados para gestionarlas y usarlas.

Las posiciones mencionadas se oponen a las perspectivas innova-doras radicales, que piensan que es fundamental introducir la agricul-tura y generar un cambio radical entre los indígenas del Chaco (comoes el caso de las inciativas económicas y de desarrollo de los gruposMennonitas).

Si consideramos con atención los puntos de vista de los pueblosindígenas (por ejemplo las propuestas y los reclamos de la UCINY -Unión de las Comunidades Indígenas de la Nación Yshir ), nos damos

211

cuenta de que un ‘proyecto de vida’ conceptualizado y planificado porlos indígenas no es comparable con ninguna de las visiones de desa-rrollo que debaten los indigenistas, y que se basan en una u otra visiónde la ‘indigeneidad’. El tema central debatido por los Yshir en muchasreuniones fue el de la “representación”, es decir de quien hablaba porellos, quien tomaba las decisiones. Se daban cuenta de que la verdade-ra cuestión es que la desorganización y el individualismo impedían unavisión unificadora dentro de las comunidades. Y las divisiones en lascomunidades de hecho eran aprovechadas por los no-indígenas. Muyabiertos en lo que se refería a los contenidos específicos de posiblesproyectos de desarrollo en sus tierras, de acuerdo a una visión muydinámica de su situación cultural, los Ishir aparecían concentrados casiexclusivamente en el tema de eliminar las intermediaciones, tomar ensus manos las decisiones y la representación ante las entidades delgobierno o las agencias internacionales, rechazando cualquier interpre-tación de su situación social en términos de la oposición entre “auten-ticidad indígena” e “inautenticidad”. Al fin y al cabo, Blaser sostieneque “los proyectos de vida son un intento de cambiar el foco de aten-ción desde las definiciones de indigeneidad usadas por los diferentesplanes de desarrollo hacia la idea que las tomas de decisión deben estaren las manos de aquellos que van a ser afectados por las decisiones”(Blaser 2004, 194-95, 197, 198, 209, 210, 220, 221).

El tema de los Planes de Vida ha suscitado también investigacio-nes comparativas de gran importancia. En un trabajo muy interesantepara nuestro tema David Gow ha analizado con intensidad y meticulo-samente tres diferentes Planes de Vida propuestos en los años Noventapor tres grupos indígenas de Tierradentro (Occidente Colombiano): losGuambianos, y dos grupos Nasa-Páez, el de Vitoncó y el de Tóez, des-pués de la avalancha que damnificó en forma muy grave la mayoría delas comunidades indígenas de la región. Es impresionante como los tresPlanes de Vida, a pesar de ciertos caracteres comunes de los cualespronto diremos, presentan idiosincrasias y aspectos muy particulares,que tienen mucho que ver con las situaciones históricas específicas decada comunidad y las circunstancias en las que ha soportado el desas-tre y ha sido afectada por el mismo. Los Guambianos son los más pre-

212

ocupados por su etnicidad y son los que confieren mayor importanciaa su historia en el proceso di planeación de su futuro. Pero hay dife-rencias. En las palabras de este autor: “En el caso de Vitoncó la cultu-ra está considerada de manera pragmática, como algo que puede con-tribuir a la salud tanto física como moral, a la educación, la conserva-ción y la expresión artística. De la lectura del plan se concluye que lacultura se presenta como una cosa dada, como algo incrustado quepuede realizar una contribución positiva a su futuro.... pero no es claro,por lo menos en el plan, cómo puede contribuir a aliviar o resolver losproblemas estructurales más graves – por ejemplo la escasez de tie-rra......Tóez, la comunidad menos definida desde el punto de vista étni-co y más desindianizada de las tres, está realizando un esfuerzo delibe-rado para recuperar su cultura, preservarla y practicarla en escuelas,hogares, mercados. La justificación descansa, no en la preservación dela cultura nasa, sino en su reinvención, como la forma de enfrentar lamodernidad en términos indígenas......El desarrollo, lejos de ser vistocomo una causa de la pérdida de cultura, está considerado explícita-mente como medio de supervivencia cultural y, por lo tanto, étni-ca.....En realidad, Tóez, en el momento de la avalancha de 1994, esta-ba más interesado en la modernización y la política de partido que enel movimiento étnico y la política de la cultura....Todo esto ha cambia-do para reflejar un orden del día y unas prioridades nasas inspiradas enparte por comunidades vecinas”. Los indígenas, entonces, aspiran adiferentes tipos de modernidades, a través de una movilización dife-rente de sus recursos culturales y aprovechando de forma diferente laspropuestas de la sociedad mayor. De todas formas, las palabras másrecurrentes en los textos mencionados son: “recuperación” (de concep-tos, de formas de autoridad propia, de justicia, de pensamiento),“reconstrucción”, “redescubrimiento” (“de lo que somos y de lo quehemos sido”), “búsqueda de nuevos caminos”, “autonomía”, “necesi-dad de investigar la vida y el pensamiento de los ancianos”. Gow anotacomo estos Planes de Vida aparecen en alguna forma contradictorios yparadójicos. En realidad, por una parte aparecen antimodernistas y porla otra pro-desarrollistas. Es evidente a veces la presentación de unpasado romantizado que glorifica el conocimiento local, contrastado

213

con un futuro pragmático que depende de insumos agrícolas modernose, implícitamente, de la producción de cosechas de alto valor.

Pero, a pesar de lo dicho, estos planes son asimismo políticamen-te astutos, pragmáticos, y tienen muy en cuenta la sensibilidad y losmodelos de pensamiento de la sociedad mayor con la cual se van aenfrentar. Contienen estrategias inteligentes y adecuadas para obtenerrecursos utilizando el “lenguaje del desarrollo” elaborado por la socie-dad envolviente, también si en otros pasajes de los mismos textos apa-recen críticas severas o reivindicaciones de una completa “diversidadde pensamiento” (Gow 1998, 151-53, 161, 163-64, 167). En un ensayomás reciente el mismo autor insiste en la observación que: “estos gru-pos indígenas han aprendido no sólo a entender la sociedad dominantesino también a representarse a sí mismos en formas comprensibles yaceptables para los de afuera, sean estos indígenas o no; esas represen-taciones pueden incluir la cuidadosa pero flexible combinación de pers-pectivas esencialistas, centradas en aquellos aspectos de la cultura queponen de manifiesto su diferencia cultural, con otras constructivistasque enfatizan la reconstrucción cultural y la lucha indígena por el reco-nocimiento como actores políticos independientes”. Y sigue sostenien-do que en cierta forma la postura de estos grupos indígenas puede serconsiderada como un ejemplo de “contra-desarrollo”, demostrado poracciones que contradicen el discurso y la práctica dominante desarro-llista. Aparece también una formalización un poco nueva de la oposi-ción entre Planes de Vida y Planes de Desarrollo: los primeros ofrecenuna estrategia de largo plazo para el desarrollo integral del grupo ytoman en cuenta todos los aspectos de la sociedad y cultura indígena,presentando una visión para el futuro y contestando implícitamente alas preguntas ¿quiénes somos?; ¿de dónde venimos?; ¿adónde vamos?Mientras, por el contrario, los Planes de Desarrollo son vistos comoalgo más práctico impuesto o inducido desde afuera, que trata – princi-palmente - de las necesidades inmediatas y concretas del grupo a cortoplazo, e incluidas en categorías predeterminadas de origen ajeno. Claroque entre los dos niveles hay algunas interferencias. Por ejemplo, en losdocumentos indígenas aparece frecuentemente el deseo de reinventaraspectos del sistema económico indígena en un esfuerzo consciente por

214

incorporar valores claves de los Nasa dentro de las realidades de unaeconomía de mercado (Gow 2005, 64-65, 67, 68, 86).

Si examinamos más de cerca algunos documentos recientes – yamencionados - de Planes de Vida indígenas, bajo el estímulo de lasobservaciones de Gow, podemos encontrar ejemplos muy relevantes dela elaboración indígena (que toma en cuenta también – obviamente –algunas sugerencias de ciertos asesores que vienen del mundo acadé-mico y político de afuera) de conceptos, estrategias y objetivo concre-tos para el futuro social y económico de sus pueblos. El Plan de Vidadel Pueblo Cofán del Putumayo (Colombia) es uno de los documentosmás completos. Contiene parte filosófico-mitológica, análisis histórico,descripción del largo proceso de elaboración del documento a través demuchos encuentros y reuniones con las autoridades tradicionales, y porúltimo la propuesta de 24 programas y 66 proyectos específicos, en losdiferentes sectores de la vida de las comunidades. Las palabras-clavesson: “participación”, “reflexión sobre la historia Cofán”, “reafirmaciónde la identidad cultural”, “toma de conciencia de los principales pro-blemas y capacidad de identificar soluciones propias”, “recuperación yampliación del territorio”. El reconocimiento de las autoridades tradi-cionales y el fortalecimiento organizativo son objetivos de fondo, juntocon un objetivo estratégico de mayor alcance: mejorar las relacionesexistentes entre el Estado Colombiano y las comunidades indígenas. Sepropone además una interesante diferenciación entre Calidad de Vida(fomento al ser de la gente, a través del espíritu, del conocimiento, delpensamiento, de los valores, de las emociones) y Condiciones de Vida(cuando se alcanza el tener de la gente, como conjunto de recursos parasatisfacer las necesidades materiales que permitan llevar una vidadigna). El documento es de una riqueza impresionante (en sus 219páginas) en cuanto a capacidad de programar acciones, en diferentessectores, en favor de la población indígena de las comunidades Cofán,articulando con competencia un sistema coherente de actividades, enrespuesta a los problemas del grupo. Está también enriquecido connumerosas partes que hacen referencia directa a la “cultura tradicional”de los Cofán (mitos, rituales, historia del pueblo, aspectos lingüísticos),pero en realidad la conexión entre estas partes y la programación de

215

actividades, o la presentación de los instrumentos para alcanzar losobjetivos, no siempre es directa, explícita y coherente. De hecho, elPlan de los Cofán es un excelente ejemplo de “propuesta de desarrolloindígena”, corregido y adaptado (Fundación Zio-A’I 2002).

También el Plan de Vida de los Nasa-Páez de Tierradentro(Colombia), un documento más ligero, presenta la mencionada yuxta-posición entre partes dedicadas a la mitología, a la cosmología tradi-cional y a los rituales locales, y partes abiertamente dedicadas a objeti-vos de desarrollo referidos a los temas clásicos como tierra, medioambiente, salud, educación, organización y toma de decisiones. Lasreferencias a la historia del grupo son constantes y la insistencia sobrela necesidad de planificar desde el punto de vista indígena se subrayamuchas veces: “Hemos considerado como necesidad fundamental ini-ciar un proceso de reflexión profundo acerca del futuro de las comuni-dades indígenas, de acuerdo con métodos y formas de pensar y de deci-dir propios. Es decir, empezar preguntándonos acerca de nuestra ley deorigen, de nuestra forma de vida y de los elementos esenciales que noshan permitido pervivir como pueblo diferenciado culturalmente paraseguir perviviendo, con una identidad y una forma de ver el mundo dis-tinta de la sociedad nacional......hasta proponer nuestras propias alter-nativas de vida frente a los efectos positivos y negativos de las políti-cas de desarrollo promovidas desde occidente”. Los diferentes temas yobjetivos del Plan se presentan encuadrados en dos figuras simbólicasque para estos indígenas tienen un gran valor expresivo: el rombo y laespiral, los que – se dice en el texto – “son dos figuras complementa-rias que conjugan nuestro pensamiento cultural más profundo”. Lascaracterísticas de la planificación de los Nasa de la Asociación JuanTama son las siguientes: 1. Una planificación lenta que se refiere a unamanera indígena de proyectarse a largo plazo y no a pocos años; 2. Secompone de partes materiales y partes espirituales, que deben conci-liarse; 3. Está de acuerdo con el “temperamento y las formas de comu-nicación de los Nasa”, que son muy reservados y vinculados a sus jerar-quías y a sus conocimientos tradicionales; 4. Está basada en una con-sulta amplia y en la participación de todo el pueblo; 5. Cualquier recur-so, producto del trabajo y de las inversiones tiene que ser colectivo,

216

para no generar desequilibrios ni desarmonía dentro de las comunida-des. Y además se admite la capacidad del pueblo Nasa de producir nue-vos conocimientos y respuestas desde la cultura a diferentes épocas ycondiciones históricas. Todo el Plan se fundamenta en las normas del“derecho mayor”, que constituye el “marco jurídico básico, la guía paracontinuar y fortalecer el Plan de Vida”. Este derecho mayor está orga-nizado con base en principios cósmicos. Con unas autoridades indíge-nas que ejercen su aplicación. La expresión “tener gobierno propio” serepite muchas veces, y este aspecto se considera como condición fun-damental para el desarrollo indígena. El Plan, a pesar de ser absoluta-mente indígena, se abre a las relaciones con el resto de la sociedadcolombiana: “Buscamos una buena armonía en la interrelación. Unpueblo avanza en la medida en que se interrelacione y adopte elemen-tos de otras culturas que le permitan seguir tejiendo vida sin perder laidentidad, de lo contrario el pueblo muere” (Asociación de CabildosJuan Tama 2005).

7. Algunas consideraciones conclusivasAl terminar nuestro recorrido en el interior de la literatura que se

ha acumulado en los últimos años sobre el tema de las poblacionesindígenas y el desarrollo, podemos proponer algunas consideracionesgenerales, de carácter conclusivo. Antes de todo, hay que subrayar laoportunidad y la eficacia de un acercamiento antropológico al desarro-llo indígena. En la tradición antropológica hay elementos que nos per-miten investigar más profundamente las dinámicas de las sociedadesindígenas frente a la modernización de origen externo: como por ejem-plo la investigación intensiva de campo, la sensibilidad específica paralas diferencias culturales y los procesos diferenciales de cambio socialy cultural, y por último la atención a las reacciones activas y creativasde los pueblos indígenas frente a las presiones y las acciones pedagó-gicas de grupos e instituciones provenientes del Occidente urbano. Laantropología puede permitirnos, además, tomar en cuenta no sólo lasacciones y reacciones de nivel material, técnico y económico, sino tam-bién los aspectos mentales, conceptuales, de valores y de simbologíaque siempre se acompañan a los procesos sociales y económicos.

217

Asimismo, el acercamiento antropológico nos puede hacer apreciar lasteorías y las prácticas del desarrollo, por parte de las instituciones, lasagencias y los gobiernos, como parte de un proceso complejo que hacedel desarrollo un “foco cultural” de impresionante eficacia y fuerza his-tórica en el mundo contemporáneo.

Los indígenas de América Latina constituyen entonces – en estasdécadas – un problema social sui generis para los estados en vías demodernización, sea por la permanencia de buena parte de sus formasorganizativas y de pensamiento, sea por su resistencia a veces explíci-ta y muy activa a las iniciativas modernizantes del estado. Las políticaspúblicas han reconocido – por una parte – la responsabilidad de unamarginación histórica muy costosa para los indígenas (todos los índi-ces de pobreza, falta de servicios elementales, son los más altos enáreas indígenas), y por ende la necesidad de intervenir enérgicamentepara llevarlos al nivel de vida de los otros ciudadanos de las modernasrepúblicas. Por otra parte, ya desde más de una década se empieza aadmitir que los grupos indígenas son sujetos sociales sui generis, conderechos especiales propios (tierra, cultura, autonomía) que merecenuna consideración diferenciada por parte de la ley y de los gobiernos.Lo que genera una necesidad de planificar en forma muy diferentetodas las iniciativas de cambio social y económico dirigido.

Por su parte, las instituciones internacionales del sistema de lasNaciones Unidas han sido estimuladas a considerar de una forma parti-cular a los grupos indígenas y han elaborado documentos generales,proyectos y programas de defensa y potenciación de estos grupos, dedi-cando fondos siempre crecientes, en los últimos años, a la causa indíge-na. Es muy difícil entender si se trata de un verdadero y profundo cam-bio de actitud y de un reconocimiento tardío, por parte de la sociedadinternacional, de los derechos humanos, culturales y identitarios, deestos pueblos. A veces el cambio de actitud se limita a unas declaracio-nes y principios de tipo general, que muy frecuentemente son destina-dos a perderse en el proceso de descenso desde las reglas generaleshacia los proyectos concretos en el terreno. Pero hay muchos casos enque se han propuesto reglas operativas obligatorias (por ejemplo lasOperational Directives del Banco Mundial) que alcanzan a cambiar el

218

comportamiento diario de los directores de proyectos y de los técnicosinvolucrados en las actividades de promoción del desarrollo.

Y las organizaciones indígenas, después de tres décadas en lascuales se ha acumulado una extraordinaria experiencia de contactosinternacionales y de experimentaciones de proyectos con fuerte parti-cipación indígena, ya han llegado a manifestar una buena capacidad deinterlocución con las sociedades mayoritarias de los estados modernosen los que viven. Han tomado conciencia de sus derechos especiales yde sus especificidades culturales e identitarias, que se han convertidoen instrumentos de incalculable valor en las relaciones con el mundoexterno. La cultura (que antes se consideraba como un “obstáculo en elintento de alcanzar el desarrollo”) hoy en día empieza a ser considera-da un importante “recurso político” (Amadio 1989). La involucraciónde elementos culturales propios (visiones cosmológicas y simbólicas,mitología e historia del pueblo, principios sociales de organización,aspectos jurídicos y morales, instituciones econonómicas tradicionales,etc.) en el interior del proceso de planificación de proyectos y progra-mas para mejorar las condiciones de vida de los grupos indígenas es unhecho, en los últimos años. La insistencia sobre el “pensamiento pro-pio” y sobre la “adaptación de los principios del desarrollo” al contex-to específico local, se ha difundido en casi todas las iniciativas en áreasindígenas. Pero es obvio y evidente que estas innovaciones no son otracosa sino una presentación de “correcciones” a las metodologías yprácticas corrientes del desarrollo. Se trata, en otras palabras, de unasformas de desarrollo adaptado a los contextos indígenas. Muy rara-mente se llega a formas de “desarrollo alternativo” y mucho menos aformas de “alternativas al desarrollo”. Claro que hay ejemplos endonde es mucho más consistente el aporte de la sociedad indígena ydonde los modelos de origen externo aparecen muy transformados ycorregidos, hasta perder algunos de los carácteres idiosincráticos deldesarrollo económico de origen occidental. Pero esto se da muy rara-mente. Por lo general, los elementos críticos del desarrollo occidentalaparecen también – más que nada atenuados – en los proyectos en áreasindígenas (transferencia de tecnologías, empuje a la mayor producciónhacia el mercado externo, empresarialidad individual, urbanización,

219

estratificación social vertical, educación formal y medicina modernaespecializada y sectorializada con orientación hospitalaria, y cosas porel estilo).

Lo que sí, está cambiando de forma clara y evidente, es la partici-pación directa de los pueblos indígenas (y de sus componentes inter-nos: por ejemplo las mujeres como grupos específicos) en todas lasfases del ciclo de proyectos, desde la identificación hasta la evaluaciónfinal. Y la mencionada participación se vuelve pronto en la capacidadde asumir las decisiones, en una palabra en mayor poder de negocia-ción frente a las fuerzas de origen externo. Hay que reconocer que noes poco. El tema de la “toma de decisiones”, de la “autonomía” (quequiere significar también la capacidad de promulgar normas propias, yno someterse a las normas de otros), del “auto-gobierno”, aparece enmuchísimos documentos sobre desarrollo indígena (véanse por ejem-plo las dos colecciones de ensayos publicados por el InternationalWorking Group on Indigenous Affairs de Copenhagen sobre“Indigenous Self-Development”: IWGIA 1989; Assies – Hoekma1994).

Muchas de la formas de “corrección” a los aspectos teóricos ymetodológicos del desarrollo común y corriente vienen también de loscontactos e intercambios de los grupos indígenas con unos frentes radi-cales y disidentes de la intelectualidad marginada y minoritaria de lospaíses desarrollados (ambientalistas, anti-capitalistas, grupos “anti-cre-cimiento económico”, grupos religiosos y morales, etc.). Esta conver-gencia ha dejado unos resultados muy positivos, y ha contribuido dealguna forma a “universalizar” la causa indígena con relación a los pro-blemas del desarrollo. De esta forma el desarrollo indígena empieza aconvertirse en un tema central en el debate internacional sobre la “crí-tica al desarrollo”, que sigue siendo bien difundido y activo sea en loscírculos políticos y mediáticos, sea en las academias. Los indígenaslatino-americanos pueden entonces convertirse en “puntas de lanza” deun movimiento mundial de reivindicación de la importancia de losaspectos no-económicos y no-técnicos en los procesos de desarrollo.

Las posiciones radicales, de rechazo al desarrollo y de “alternati-va” radical al mismo, que también conservan su importancia en el

220

debate europeo y americano (quiero mencionar sólo el muy conocidoDictionary of Development y los otros trabajos de Wolfgang Sachs), noreciben un gran apoyo en el mundo indígena latino-americano.Frecuentemente se hace referencia al “derecho al no-desarrollo” comoespacio de libertad y autonomía de las poblaciones indígenas, o seacomo derecho a generar tipos de economía distintos de la economíadominante, que puedan asegurar la calidad de la vida alejándose de la“irracionalidad” propia del mercado capitalista que margina, rechaza yexcluye a los pueblos indígenas como tales (Regidor, Steigerwald1992; Bamonte 2003); pero no son muy comunes los casos de clausu-ra de una sociedad indígena a las propuestas de afuera y de acciones decontraste radical con los principios del desarrollo económico y técnico.Y si nos detenemos un poco en la mencionada Declaración de lasNaciones Unidas sobre los Derechos de los Pueblos Indígenas, frutomaduro de más de doce años de luchas y negociaciones por parte de lamayoría de las organizaciones indígenas del planeta, podemos anotarque el artículo 23 acepta sustancialmente el desarrollo, siempre y cuan-do las decisiones sean en manos indígenas: “Los pueblos indígenas tie-nen derecho a determinar y a elaborar prioridades y estrategias para elejercicio de su derecho al desarrollo. En particular: los pueblos indíge-nas tienen derecho a participar activamente en la elaboración y deter-minación de los programas de salud, vivienda y demás programas eco-nómicos y sociales que les conciernan y, en lo posible, a administraresos programas mediante sus propias instituciones” (AsambleaGeneral, Naciones Unidas 2006).

Es muy común que en los grupos indígenas se establezcan – aveces - formas de contraste entre las generaciones a propósito de laaceptación selectiva de elementos de origen exterior que tienen rela-ciones con las dinámicas del desarrollo. La reivindicación de la auto-nomía de decisiones y de manejo de los proyectos es un hecho, pero nosiempre aparece la conciencia de los riesgos que los modelos econó-micos y sociales llegados desde afuera puede generar para el grupoindígena.

Lo que es cierto es que las dinámicas del desarrollo indígenamuestran una gran atención al tema de la negociación, también lin-

221

güística y simbólica, con el mundo exterior, en una palabra al tema dela comunicación. Los procesos de cambio social y económico dirigidoy/o negociado revelan la importancia de los factores inmateriales, sim-bólicos y expresivos. Todo lo que se refiere al desarrollo presenta, seaen los documentos de las grandes instituciones internacionales, sea enlos documentos de las organizaciones indígenas, una insistencia - quemerecería una mayor atención - a la producción de mensajes y de sig-nificados. Como decir que los procesos de desarrollo no se limitan aproponer cambios técnicos, en el trabajo y en la producción, sino tam-bién generan formas nuevas de lenguaje para comprender, interpretar ymanejar, la modernidad. Esto es, participan continuamente en la elabo-ración, corrección y adaptación del lenguaje del desarrollo. Y es bas-tante sorprendente encontrar una cierta conformidad entre los términos,las palabras claves, los conceptos y las ideas presentadas por algunasgrandes instituciones internacionales y los documentos provenientesdel mundo indígena organizado. A veces parece que se habla el mismolenguaje. Argumento, éste apenas aludido, que merecería una atenta yespecífica atención y análisis, más que todo con base en un examen cui-dadoso de las actividades concretas de los proyectos, en su eficiencia,eficacia e impacto sobre las sociedades indígenas y su entorno, en tér-minos generales. Pero ésta es tarea no fácil, que tenemos que reservarpara otro trabajo futuro de investigación.

Referencias bibliográficas

- AA. VV., Del indigenismo a las organizaciones indígenas, Ed. Abya Yala, Quito1985.

- M. Amadio, La cultura como recurso político: dinámicas y tendencias en AméricaLatina, en: L. E. López, R. Moya (Editores), Pueblos indios, estados y educación,Ed. EBI-MEC-GTZ, Lima 1989, pp. 425-39.

- A. Asencio et al., Los pueblos indígenas y el etnodesarrollo en América Latina,Anuario Indigenista, XXXIII (1994).

- F. Apffel-Marglin, with PRATEC, The spirit of regeneration: Andean culture con-fronting Western notions of development, Zed Books, London & New York 1998.

222

- Asamblea General de las Naciones Unidas, Consejo de Derechos Humanos,Declaración de las Naciones Unidas sobre los Derechos de los PueblosIndígenas, New York, 21 de Julio de 2006 (Aplicación de la resolución 60/251 de15 de Marzo de 2006 [A/HRC/1/L.3]).

- Asociación de Cabildos Juán Tama, Plan de Vida de la Asociación de Cabildos JuanTama. Pensamiento ancestral: Por la construcción del tejido social y el fortalec-imiento de las relaciones interculturales, Programa Tierradentro – UniónEuropea, Inzá 2005.

- W. J. Assies, A. J. Hoekma (Edited by), Indigenous peoples’ experiences with self-government, IWGIA Document n. 76, Amsterdam 1994.

- G. Bamonte, Diritto al non sviluppo: culture emergenti in Amazzonia, en: id.Indigeni, Indigenismo e Diritti Umani, Ed. Bulzoni, Roma 2003, pp. 181-203.

- Banco Interamericano de Desarrollo (B.I.D.), Política Operativa sobre pueblosindígenas y Estrategia para el desarrollo indígena, Washington 2006.

- M-Ch. Barre, Ideologías indigenistas y movimientos indios, Siglo XXI Editores,México 1983.

- M. Blaser, H. A Feit, G. McRae (Edited by), In the way of development. Indigenouspeoples, life projects and globalization, Zed Books/IDRC, London-Ottawa 2004.

- M. Blaser, Indígenas del Chaco paraguayo: ¿proyectos de vida o proyectos de desar-rollo?, Suplemento Antropológico, Vol. XXXIX, n. 1 (2004), pp. 193-229.

- P. Blunt, D. M. Warren, Indigenous organizations and development, IntermediateTechnology Publications, London 1996.

- G. Bonfil Batalla, Lo propio y lo ajeno, una aproximación al problema del controlcultural, Revista Mexicana de Ciencias Políticas y Sociales, 103 (1981), pp. 181-190.

- G. Bonfil Batalla (Compilador), Utopía y revolución. El pensamiento político con-temporáneo de los indios en América Latina, Ed. Nueva Imagen, México 1981a.

- G. Bonfil Batalla, Etnodesarrollo: sus premisas jurídicas, políticas y de organiza-ción, en: G. Bonfil Batalla y otros, América Latina: etnodesarrollo y etnocidio,FLACSO, San José 1982.

- G. Bonfil Batalla, La teoría del control cultural en el estudio de procesos étnicos,Arinsana. Revista de la Cooperación Internacional en áreas indígenas deAmérica Latina, V, n. 10 (1989), pp. 5-36.

- T. Carrasco, D. Iturralde, J. Uquillas (Coordinadores), Doce experiencias de desa-rrollo indígena en América Latina, Fondo para el Desarrollo de los PueblosIndígenas de América Latina y el Caribe, Abya-Yala, Quito 2001.

- R. Chase Smith, N. Wray, Amazonia: economía indígena y mercado. Los desafíosdel desarrollo autónomo, Oxfam América/COICA, Lima-Quito 1995.

- A. Colajanni, Problemi di antropologia dei processi di sviluppo, Ed. ISSCO, Varese1994.

223

- A. Colajanni (a cura di), Le piume di cristallo. Indigeni, nazioni e Stato in AmericaLatina, Ed. Meltemi, Roma 1998.

- A. Colajanni, Nozioni locali dello sviluppo. Interpretazioni contrastanti tra gli indi-geni Kogi e Aruaco della Sierra Nevada de Santa Marta (Colombia), Voci.Semestrale di Scienze Umane, a. II, n. 1 (2005), pp. 29-45.

- Sh. Davis, The World Bank and indigenous peoples, Paper presented to a PanelDiscussion on Indigenous Peoples and Ethnic Minorities, at Denver InitiativeConference on Human Rights, Univ. of Denver Law School, Denver 1993.

- Sh. Davis, W. Partridge, Promoting the development of indigenous peoples in LatinAmerica, Finance and Development, 31, 1 (1994).

- Sh. Davis, H. A. Patrinos, Investing in Latin America’s indigenous peoples: thehuman and social capital dimension, Paper presented at the “Seminar onIndigenous Peoples Production and Trade”, Nordic Council of Ministers,Copenhagen 1996.

- A. Deruyttere, Indigenous peoples and sustainable development: the role of theInter-American Development Bank, Presentation made at the IDB Forum on theAmericas – April 8, 1997, Washington 1997.

- European Community, D.G. VIII, Report from the Workshop on Indigenous Peoples& Development Cooperation, Brussels, March 12-13, 1998.

- European Community, Report from the Commission to the Council of 11 June 2002.Review of progress of working with the indigenous peoples [COM (2002) 291],Brussels 2002.

- F. Fonval, Los problemas del etnodesarrollo de una población india en América delSur: el caso de los Cuiva de Venezuela, en: G. Bonfil Batalla y otros, AméricaLatina: etnodesarrollo y etnocidio, FLACSO, San José 1982.

- Fundación Zio-A’I, Plan de Vida del pueblo Cofan y Cabildos indígenas del Valledel Guamuez y San Miguel. Putumayo – Colombia, Bogotá 2002.

- M. Gnerre, Indigenous peoples, modernity and innovation. Paper Draft, IFAD,Rome 2005.

- D. D. Gow, ¿Pueden los subalternos planificar? Etnicidad y desarrollo en el Cauca,Colombia, en: M. L. Sotomayor (Editora), Modernidad, identidad y desarrollo.Construcción de sociedad y re-creación cultural en contextos de modernización,Instituto Colombiano de Antropología, Bogotá 1998, pp. 143-172.

- D. D. Gow, Desde afuera y desde adentro: la planificación indígena como contra-desarrollo, en: J. Rappaport (Editado por), Retornando la mirada: una investiga-ción colaborativa interétnica sobre el Cauca a la entrada del milenio, Ed.Universidad del Cauca, Bogotá 2005, pp. 65-96.

- A. Gray, ¿Y después de la fiebre del oro? Derechos humanos y autodesarrollo entrelos Amarakaeri del sudeste del Perú, Documento IWGIA n. 3, Copenhagen 1986.

- A. Gray, Indigenous rights and development. Self-determination in an Amazonian

224

community, Bergham Books, Providence-Oxford 1997.- G. Grünberg, Etnología práctica y desarrollo rural en el Paraguay, en: AA.VV.,

Indianidad y descolonización en América Latina, Nueva Imagen, México 1979.- B. S. Helms, Indigenous peoples in Latin America: IFAD policy and projects, Latin

American Division, IFAD, Roma 1994.- I.F.A.D., Valuing diversity in sustainable development. IFAD experience with

indigenous peoples in Latin America and Asia. Draft for discussion, IFAD, Roma2002.

- I.F.A.D., Indigenous peoples and sustainable development. Roundtable DiscussionPaper for the Twenty-Fifth Anniversary Session of IFAD’s Governing Council,IFAD, Roma 2003.

- I.F.A.D., Brainstorming workshop: indigenous and tribal peoples’ perspectives onselected IFAD-funded projects. Workshop report, IFAD, Roma 2005.

- International Work Group for Indigenous Affairs (IWGIA), Indigenous self-deve-lopment in the Americas, Copenhagen 1989.

- D. Iturralde, E. Krotz (Compiladores), Desarrollo indígena: pobreza, democracia ysustentabilidad, Fondo para el Desarrollo de los Pueblos Indígenas de AméricaLatina y el Caribe, La Paz 1996.

- J. Iturri Salmón, J. C. Schulze, R. Haudry de Soucy (Editors), “We just want whatbelongs to us”, Published by the Regional Programme in Support of IndigenousPeoples of the Amazon Basin, IFAD/CAF, La Paz 1998.

- J. E. Jackson, K. B. Warren, Indigenous movements in Latin America, 1992-2004:controversies, ironies, new directions, Annual Review of Anthropology, 34 (2005),pp. 549-73.

- A. M. Lema Garrett (Compiladora), Pueblos indígenas de la Amazonia Boliviana,TCA/PNUD/OFAD/CAF, La Paz 1998.

- E. Londoño, El etnodesarrollo y los problemas de la información en las comunida-des indígenas del Cauca, en: G. Bonfil Batalla y otros, América Latina: etnode-sarrollo y etnocidio, FLACSO, San José 1982.

- A. Mancuso, Essere Wayúu e diventare Arijuna. Processi sociali e identità etnichein una popolazione della Colombia nord-orientale all’inizio del XXI secolo, Tesidi Dottorato in Scienze Etno-Antropologiche, Università di Roma “La Sapienza”,Roma 2002.

- R. I. Mariqueo, The ethno-development of the Mapuche people, en: Indigenous self-development in the Americas, IWGIA Document n. 63, Copenhagen 1989, pp.105-116.

- J. Medina (Edición al cuidado de), Suma Qamaña. La comprensión indígena de laBuena Vida, GTZ/FAM, La Paz 2001.

- J. Montgomery Roper, J. Frechione, B. R. DeWalt, Indigenous people and develop-ment in Latin America. A literature survey and recommendations, Center for Latin

225

American Studies and the World Bank, Latin American Monograph andDocument Series, 12, Pittsburg 1997.

- MUGARIK GABE, Pueblos indígenas. Nuestra visión del desarrollo, Icaria,Barcelona 1995.

- M. van Nieuwkoop, J. E. Uquillas, Defining ethnodevelopment in operationalterms: lessons from the Ecuador Indigenous and Afro-Ecuadorian PeoplesDevelopment Project, Latin American and Caribbean Region SustainableDevelopment Working Papers, n. 6, The World Bank, Washington 2000.

- R. Nolan, Development anthropology. Encounters in the real world, WestviewPress, Boulder 2002.

- ONIC/IICA, Planes de vida de los Pueblos Indígenas. Fortaleciendo la perviven-cia,

Organización Nacional Indígena de Colombia (ONIC)/Instituto Interamericano deCooperación para Agricultura (IICA), Bogotá 1989.

- W. Partridge, The fate of indigenous peoples: consultation and coordination canavoid conflict, The Environmental Forum, VII, 2 (1990).

- W. L. Partridge, J. E. Uquillas, K. Johns, Inclusión de los excluidos: el etnodesarro-llo en América Latina, Trabajo preparado para la Conferencia Anual del BancoMundial sobre Desarrollo en América Latina y el Caribe, Bogotá 1996.

- C. C. Perafán, M. C. Pabón, Los modelos de adaptación y culpabilidad. El concep-to de desarrollo en la región de la Sierra Nevada de Santa Marta, en: M. L.Sotomayor (Editora), Modernidad, identidad y desarrollo. Construcción de socie-dad y re-creación cultural en contextos de modernización, Instituto Colombianode Antropología, Bogotá 1998, pp. 187-223.

- J. Rappaport, Cambio dirigido, movimiento indígena y estereotipos del indio: elEstado Colombiano y la reubicación de los Nasa, en: M. V. Uribe, E. Restrepo(Editores), Antropología en la modernidad: identidades, etnicidades y movimien-tos sociales en Colombia, Instituto Colombiano de Antropología, Bogotá 1977,pp. 361-399.

- J. R. Regidor, J. Steigerwald, Diritto al non sviluppo, en: J. R. Regidor, A. Binel (acura di), Dissenso sul mondo, Campagna Nord-Sud/Terra Nuova, Roma 1992, pp.269-73.

- L. Rodríguez-Piñero, Between policy and law: the International LabourOrganization and the emergence of the international regime on indigenous peo-ples (1919-1989), Ph.D. Thesis, European University Institute, Department ofLaw, Florence 2003.

- R. Salviani, As propostas para participação dos povos indígenas no Brasil em pro-jetos de desenvolvimiento geridos pelo Banco Mundial: um ensaio de análisecrítica, Dissertação de Mestrado, Programa de pós-Graduação em AntropologiaSocial, Univ. Federal-Museu Nacional, Rio de Janeiro 2002.

226

- A. Sfeir-Younis, Role of indigenous people in the next millennium: World Bankpolicies and programs, Statement delivered at the United Nations ECOSOC,Geneva 1999.

- V. Tauli-Corpuz, IFAD’s work in support of indigenous and tribal peoples.Challenges & ways forward, Paper presented at the “Permanent Forum onIndigenous Issues” United Nations, New York 2004, Roma 2005.

- R. E. Thomaz de Almeida, O projeto Kaiowa-ñandeva: uma experiência de etnode-senvolvimiento junto aos Guarani-kaiowa e Guarani-ñandeva contemporâneosdo Mato Grosso do Sul, Dissertação de Mestrado, Programa de Pos-Graduação doMuseu Nacional, Univ. Fed. De Rio de Janeiro, Rio de Janeiro 1991.

- M. Tommasoli, El desarrollo participativo. Análisis sociales y lógicas de planifi-cación, IEPALA, Madrid 2003.

- J.Uquillas, J.-C. Rivera, Editors, Indigenous peoples and development in LatinAmerica. Proceedings from the second Inter-Agency Workshop on IndigenousPeples and Development in Latin America, LATEN Dissemination note n. 8, TheWolrd Bank, Washington 1993.

- J. E. Uquillas, W. Partridge y K. Johns Swartz, Tendencias del desarrollo indígenaen América Latina, en: C. Landázuri N. (Compilador), Memorias del primerCongreso Ecuatoriano de Antropología, Vol. II, Ed. Abya Yala, Quito 1998, pp.95-127.

- L. F. Velasco, Lo “etno” del Desarrollo: una mirada a las estrategias y propuestas dedesarrollo indígena, Revista Mad [Dep. De Antropología, Univ. de Chile], 1(1999).

- World Bank, Revised draft Operational Policy/Bank Procedures (OP/BP 4.10),Indigenous Peoples. Issues and Proposals, Environmentally and SociallySustainable Development, April 14, 2005a.

- World Bank, Staff Response to Public Comments. Revised Draft Policy onIndigenous Peoples (O.P . 4.10) of December 1, 2004, Environmentally andSocially Sustainable Development, April 6, 2005b.

- World Bank, The World Bank Operational Manual. Operational Policies OP 4.10.Indigenous Peoples, July 2005c.

- World Bank, The World Bank Operational Manual. Bank Procedures BP 4.10.Indigenous Peoples, July 2005d.

227

228

Idiomas y tradición en una sociedad global

OLgA gALEANO DE CARDOzO (Comisión Nacional de Bilingüismo)

La comunicación entre las diversas regiones del mundo se ha ace-lerado con la cibernética, red que ya llega a casi todos los lugares delplaneta.

Ir de un continente a otro ya es común para muchas personas.La globalización se ha incorporado ya al vocabulario común de la

humanidad en todos los aspectos de la vida, concretamente en la eco-nomía, las lenguas y las culturas. La internacionalización del comerciocon los intereses políticos que traen consigo, influyen directamente enel comportamiento lingüísticos de los pueblos ya que promueven el usoextensivo de algunas lenguas consideradas mundiales como el inglés,el alemán, el castellano, el francés, incluso algunas lenguas de Asia yÁfrica, como el Indonesio, Suajili, etc. en detrimento directo de las len-guas consideradas minoritarias.

La globalización amplía, así, el uso de las lenguas primero men-cionadas, pero al mismo tiempo comportan aspectos inquietantes yamenazadores para mantener la diversidad lingüística ya que tiene elpotencial de disminuir la importancia de las lenguas regionales e indí-genas, al punto de acelerar la extinción de muchas de ellas.

Lengua e identidad están íntimamente ligadas, por tanto el reco-nocimiento de la identidad lingüística y cultural lleva al reconocimien-to de la importancia de la tolerancia y el respeto hacía el “otro”.

La única actitud razonable que podemos adoptar quienes habla-mos desde la perspectiva de las culturas y las lenguas pequeñas es latoma de conciencia de que debemos batallar por la supervivencia denuestras lenguas y culturas. Esto implica un largo camino jalonado dedificultades para el reconocimiento de la diversidad lingüística y el res-peto de las lenguas fuera de sus territorios y la lucha porque los ciuda-danos puedan usar sus propias lenguas en sus relaciones con las diver-sas instituciones como factor importante para reforzar su identificaciónen el ámbito universal.

229

De hecho esto ya es una realidad en Europa por ejemplo pues laUnión Europea ya en 1994 aprobó la Carta Europea de LenguasRegionales ó Minoritarias. Actualmente también en América muchosgrupos han ampliado la capacidad de ejercer su ciudadanía a través delreconocimiento de sus identidades étnicas indígenas para relacionarsecon el conjunto de la sociedad y el estado.

Por otro lado la UNESCO, a través de Linguapax ha planteado en1996, la necesidad de realizar una investigación sobre la situación delas lenguas del mundo con el fin “de elaborar un informe UNESCOsobre el estado de las lenguas del mundo, que describa la riqueza lin-güística del planeta y que explique los problemas que afectan a las len-guas de las diversas regiones del mundo, con el fin de fomentar la con-ciencia del patrimonio lingüístico, contribuir a observar su evolución,y recomendar medidas actualizadas para proteger las lenguas vivas”(Federico Mayor Zaragoza, Leioa, 11 de marzo de 1996).

Por razones de tiempo no me es posible hablar sobre los resulta-dos de la investigación.

Debo decir sin embargo que los datos han revelado situaciones enextremo preocupantes. En los últimos 30 años se ha observado lareducción progresiva del número de lenguas, la disminución progresi-va de hablantes en la mayoría de las lenguas y el aumento de hablantesque se encuentran en proceso de difusión (Inglés, Suajili, Indonesio,etc.). Se calcula que existen entre 5000 y 6000 lenguas en la actualidad,pero muchas de ellas van a morir en los próximos años. Actualmenteunas 2000 lenguas ya no se están transmitiendo.

Tal como lo proclama la DECLARACIÓN UNIVERSAL DEDERECHOS LINGÜíSTICOS (Barcelona 6/6/96) “para garantizar laconvivencia de las comunidades lingüísticas, hace falta encontrar unosprincipios de orden universal que permitan asegurar la promoción, elrespeto y el uso social público y privado de todas las lenguas y queestablezca los principios de una paz lingüística planetaria, justa y equi-tativa, como factor principal de la convivencia social”

230

BIBLIOGAFIA

- “Declaración Universal de los Derechos Lingüísticos”

- García Bravo, W.: “La Reconstrucción de las Identidades indígenas en el MarcoMulticultural de las Naciones”

- Mejia, Anne Marie: “Toward a recognition of Languages, Cultures and Identities”

- Ortega, Paul: “Informe sobre las Lenguas del Mundo”

- Valadez, Concepción: “La Globalización y las Políticas Lingüísticas”.

231

232

La identidad de los pueblos indígenas en la escuela. Unestudio de caso entre los kollas del noroeste argentino69

ANtONIO RENé MAChACA (Programa Nacional de EIB, Ministeriode Educación, Ciencia y tecnología de la República Argentina)70

IntroducciónEn quechua, la palabra llakiy nos habla de pena, tristeza o pesar.

Un recuerdo de mi vida alimenta el llakiy personal que motivó este tra-bajo:

Tenía 15 años y cursaba tercer año de secundaria. Un día salí declase y caminaba junto a compañeros por una acera de una calledel pueblo. De frente, por la misma acera y a pocos metros, veníami abuela con su sombrero, sus simbas71, su pollera y ojotas.Antes de que me reconociera me cambié de acera. No quería quemis compañeros me insultaran por tener una abuela kolla72 ... yono quería saber nada con los kollas. (Recuerdo personal)

La negación de nosotros mismos como indígenas, tiene que vercon condiciones históricas de subordinación y sometimiento que veni-mos sufriendo los pueblos originarios de América desde la invasióneuropea, la colonia y la etapa republicana. Estas condiciones no hancambiado mucho hasta el presente. Los kollas del noroeste argentino,en otros tiempos orgullosos de nuestras abuelas y abuelos, de la lenguaindígena (ahora desplazada casi definitivamente por el castellano) y denuestra manera de vivir y de concebir el mundo, nos desvalorizamospara ver en la cultura hegemónica, el modelo de vida por alcanzar. En

233

––––––––––––––––––––––––69 Los datos reflejados aquí, son parte de una investigación realizada entre los años 2004 y2005, desde el PROEIB Andes (Programa de Educación Intercultural Bilingüe para los paísesandinos).70 Indígena kolla, antropólogo por la Universidad Nacional de Jujuy, magíster en EIB por laUniversidad Mayor de San Simón.71 Simba: Del quechua simp’a, cabello trenzado que llevan las mujeres kollas.72 Kolla: En Argentina es el término que designa, a nivel general, al grupo étnico de origenandino. Se lo encuentra igualmente con las grafías coya, colla y qulla (en quechua).

la negación y decadencia de la identidad indígena ha influido decidi-damente la escuela como principal instrumento del Estado en su pre-tensión de unidad y uniformidad nacional.

En el aula se producen y reproducen estereotipos, representacionesy estigmas sociales discriminatorios que causan daño al rostro indíge-na de nuestra América, e inciden negativamente en la sensibilizaciónnecesaria para la implementación de una educación respetuosa de ladiversidad.

Un sistema educativo homogeneizante que ha sido concebido paraimponer una lengua y una cultura, obviamente ha concentrado esfuer-zos para enfrentar la diversidad, pero no cualquier diversidad sinoaquella representada por las culturas de los pueblos indígenas deArgentina73. Como apunta María Ibáñez (2003: 71), este país se hadiferenciado del resto de Latinoamérica por mostrarse hacia dentro yhacia fuera, como “un país blanco y sin indios”.

¿Por qué debe preocuparnos el tratamiento de la identidad de lospueblos indígenas en la escuela? Precisamente porque el devenir histó-rico de una práctica pedagógica homogeneizante ha empobrecido laautoestima y el desarrollo afectivo y cognitivo de los estudiantes indí-genas. El peor empobrecimiento, dice Luis Enrique López (2003: 218),“es que hemos formado a la población indígena como gente insegurade sí misma, que no se respeta y un sujeto inseguro no puede contribuiral desarrollo de un país.”

¿Cómo puede contribuir la escuela al fortalecimiento de la identi-dad de los pueblos indígenas? ¿Qué políticas educativas deben revisar-se en los países del MERCOSUR y de la región para que la diversidadcultural y lingüística de los pueblos indígenas sea considerada máspositivamente? Para ayudarnos a responder estas preguntas, en los pun-tos 1, 2 y 3, analizamos representaciones relacionadas con el “nosotrosindígena” en la práctica educativa desarrollada en espacios escolares.

234

––––––––––––––––––––––––73 Actualmente, el total de habitantes indígenas de Argentina ronda el 1,5% a 2 % de la pobla-ción general. Los pueblos indígenas autoidentificados son 24: mapuche, kolla, toba, wichí, dia-guita, guaraní, ava guaraní, tupí guaraní, mocoví, huarpe, tehuelche, comechingón, rankulche,pilagá, mbyá guaraní, atacama, chorote, chané, omahuaca, sanavirón, tapiete, chulupí, ona yquechua (cf. www.indec.mecon.gov.ar/webcenso/ECPI Consulta: 17/10/06).

Los datos apuntados en estos acápites son complementados con ladimensión que adquieren las representaciones de “lo indígena”, enactores de la comunidad. En el punto 4 incluimos opiniones de lacomunidad educativa respecto a actitudes y acciones para una “EscuelaIntercultural”. Finalmente, apuntamos algunas reflexiones finales yrecomendaciones, a modo de cierre.

1. Los ancestros en la enseñanza de la historiaEl “pucará”74 de Tilcara75, antiguo asentamiento indígena prehis-

pánico ubicado al lado del pueblo actual y hoy visitado por miles deturistas, es un atributo no renunciable de primer orden para la recons-trucción de la identidad étnica de los estudiantes tilcareños. ¿Qué sedice de él en la escuela? ¿Cómo lo mira una abuela de la región?¿Cómo lo describe una arqueóloga contemporánea? Veamos en lossiguientes ejemplos:

235

––––––––––––––––––––––––74 Literalmente, en lengua quechua, “pukara” significa fortaleza aunque puede tener otras con-notaciones más profundas en la cosmovisión de los pueblos andinos. Entre lo kollas de Tilcara,remite a poblados antiguos o “antigales”.75 Tilcara es un pueblo de la Quebrada de Humahuaca. En 2003, esta región fue declarada porla UNESCO, “Patrimonio natural y cultural de la humanidad”.

Cuadro 1: El Pucará de Tilcara

Si bien es cierto que nadie puede pasar por Tilcara sin observar o porlo menos enterarse de la existencia del Pucará, puede resultar sorpren-

236

Descripción de una actividadáulica en 1º año de secunda-ria (CC05a: 49)

P: ¿Hasta acá está clarito?¿Cuándo se funda la“EscuelaNormal”?

A: 1 de abril de 1974.P: ¿A pedido de quién?A: Del doctor Eduardo

Casanova.P: ¿Sólo de él?A: De los vecinos.P: En Tilcara los vecinos

piden. ¿Cómo se llamabaesta escuela antes?

A: “Colegio Nacional”.A: En 1986 se convierte en

Escuela Normal [Dr.Eduardo Casa nova].

P: ¿Quién era EduardoCasanova?

A: Era doctor en filosofía ehistoria.

P: ¿Qué hizo en Tilcara?A: Ayudó a reconstruir el

Pucará.P: ¿Qué más?A: El museo.P: ¿Qué es un Pucará?(Silencio de toda la clase)P: Si vamos a [la ciudad de]

Jujuy nos van a pregun-tar…

(Sigue el silencio)P: Pucará es una fortaleza.

¿Cómo es la estructurade la escuela? (Pasa aotro tema).

Entrevista a una abuela kolla(JM 5.97)

- ¿Qué son los antigalesabuela?

- Los antigales... ahi’tan losgentes muertos ahi deba-jo. El diluvio lo ha tapaopueblos enteros. Aquí porejemplo... en Pucarita76. Áhi era un pueblo,por eso ahi ‘tan gentesmuertos en ese cardonal.Ese era un pueblo ¿com-prendís?

Áhi debajo ‘ta enterrao unpueblo, un pueblo de losricos, un pueblo quemanejaban plata blanca.

Andi hay un antiguo es enInca Cueva. Áhi dice queera un pueblo tremendo.Áhi dice que era la casadel rey. Áhi era un pue-blo grande, más que estePucarita. Este Pucarita nosé, creo que es un pueblochico.

Aquí en Juella hay otroPucarita, otro pueblo,otro pueblo enterrado.Áhi’tan los gentes muer-tos, áhi’tan los pobresindios, nuestros herma-nos indios...

Cita bibliográfica (Zaburlín 2005: 36)

Se puede plantear que la ocu-pación de este morro [elPucará] podría remontar-se hasta el siglo VIII des-pués de Cristo. Las cons-trucciones que se venactualmente en la super-ficie corresponden alsiglo XIII, es decir delmomento previo a la con-quista inka y algunos edi-ficios construidos du -rante la dominación cuz-queña.

No se trata de un asentamien-to defensivo tipo fortale-za, sino que consiste enun poblado. Las cons-trucciones cubren aproxi-madamente 8 hectáreas ypresentan una organiza-ción espacial me diantetrazados de vías de circu-lación y plazas, en tantolas viviendas se encuen-tran distribuidas por“barrios”.

––––––––––––––––––––––––76 Pucarita: Pucará en diminutivo, usado por la abuela con más cariño. Inca Cueva y Juella,son nombres de lugares con sitios arqueológicos de distintas épocas: Inca Cueva: CazadoresRecolectores (10.000 a.C. a 3000 a.C.) y Juella: Período Tardío (1.000 d.C. a 1.430/80 d.C.)Cf. Albeck y González (1998).

dente que 35 adolescentes del lugar, que ya tienen ocho años de escola-ridad y para los cuales este lugar forma parte de su transcurrir cotidianoen el pueblo, se queden mudos cuando se les pregunta “¿Qué es unPucará?”. En el ejemplo, cuando se hace referencia a este lugar ances-tral tan significativo, no se profundiza en la conexión que los procesos deenseñanza y de aprendizaje debieran establecer con la realidad cercanapara conocer más detalladamente la historia prehispánica de Tilcara.

Se sigue enseñando que el Pucará es una “fortaleza”; idea de asen-tamiento defensivo militar que fue concebida hace casi cien años porlos primeros investigadores que imaginaron a los “aguerridos indiostirando flechas desde sus murallas”.Esta representación está vigente–casi todos los guías de turismo que muestran el lugar, se esmeran endar la explicación de “fortaleza”– a pesar de que los saberes orales,como el relatado por la abuela, y estudios científicos señalan que setrata de un poblado.

El Pucará se convierte en una representación cargada de simbolis-mo para los “otros” cuando la docente reclama saberlo porque “nos vana preguntar…”. De esta manera, deja de ser un aprendizaje significati-vo que podría contribuir a la reconstrucción intercultural de la identi-dad de los adolescentes kollas. Antes que buscar explicaciones paraindagar en la identidad ancestral, la docente ubica el valor del aprendi-zaje fuera de los estudiantes cuando les pide explicar el Pucará para“los otros”, es decir para la gente de la ciudad o para turistas extrañosa la cultura del lugar.

Una escuela respetuosa de la identidad indígena, debe propugnar eldiálogo entre alumnos, abuela, investigadora y docente. La representa-ción indígena en torno al Pucará cumple una función simbólica impor-tante en la identidad individual y social que los adolescentes de Tilcaraestán construyendo. Además, “la reivindicación del pasado y del pre-sente indígena, en términos equivalentes a la historia de los ‘blancos’,permite un posicionamiento clave para el análisis y el mejoramiento dela situación de la comunidad” (Ferrán y Dujovney 2001: 14)77.

237

––––––––––––––––––––––––77 Expresiones de Gabriela Ferrán y Silvia Dujovney, integrantes del equipo pedagógico delPlan Social Educativo, en Jornada de Evaluación Final de la experiencia de Historia Regionalllevada a cabo en Tilcara por el PEETUEPT (2001: 14).

No obstante, la representación del indígena en torno al Pucará,construida “para los otros”, tiene que ver con la ventana abierta al turis-mo por parte de autoridades del gobierno, investigadores y miembrosde élites local y provincial, principalmente. Aunque el turismo pareceser, actualmente, una oportunidad importante, y controvertida a la vez,de desarrollo económico para la región, es innegable que en sus oríge-nes no contó con la participación activa de las comunidades indígenasque asistieron pasivamente a la folclorización de representaciones delindio “para su venta”. La escuela se ha adherido a esta perspectiva,como se muestra a continuación.

Observación en escuela (CC05a: 01)

En paredes de la oficina donde trabajan preceptores, pordonde circulan periódicamente estudiantes, docentes ypadres de familia, ostentan láminas grandes. Una tiene unmapa del departamento Tilcara, dibujado a mano por estu-diantes, que incluye nombres de localidades, cerros, ríos yarroyos. Está adornada con fotos de paisajes y de festivida-des. Dos párrafos destacan en letras grandes:

Tilcara, palabra que podría significar “lugar de buen cuero” o“cuero fuerte”. Se la considera “capital arqueológica de laprovincia” por los restos encontrados de la antigua civiliza-ción indígena. Un poco más al norte está Huacalera, voz que-chua que significa “sepulcro sagrado” y pasa por este lugar elTrópico de Capricornio.

Este sol que siempre sonríe en Jujuy y más en Tilcara alumbró consus rayos a los primeros pobladores de la región, como los diaguitas,los omaguacas. Es por eso que, a través del tiempo y de las diversasmezclas de razas, mucha sangre aborigen corre en nuestras venas.

Aunque los primeros arqueólogos que visitaron el Pucará, habíanpropuesto “restaurar las ruinas con fines didácticos […] los trabajos secentraron más en la reconstrucción y habilitación para el turismo queen la investigación” (Zaburlín 2005: 9). Habiéndose restaurado parte

238

del complejo arqueológico de las ruinas para el turismo se propició lanominación de Tilcara como “Capital arqueológica” de Jujuy. Estarepresentación, acuñada principalmente “para los otros”, como lo veni-mos proponiendo, sostenía que el Pucará había sido una fortaleza de laque sólo quedan ruinas y cenizas o “ecos de una cultura milenariapero… que está muerta. Si está muerta la cultura aborigen prehispáni-ca, no hay continuidad de derechos en los nativos contemporáneos”apunta Gabriela Karasik (1994: 49).

Lo plasmado en las láminas denota una atención al turismo porparte de la escuela, pero a partir de una reconstrucción desactualizadade la historia; se incurre en agudo error cuando se reproduce el postu-lado del arqueólogo Juan B. Ambrosetti, quién, en el año 1912, habíaplanteado que el Pucará estuvo habitado por los diaguitas, pueblo delque numerosos estudios arqueológicos contemporáneos afirman, seubicaba 300 km al sur, y hablaba otra lengua, el “cacán”.

La representación indígena en la lámina fue más allá de los aspec-tos históricos. Al final de la última frase, los estudiantes reprodujeronel postulado tradicional del paradigma homogeneizante“mestizaje/‘crisol de razas’” cuando escribieron: “…diversas mezclasde razas”. Luis Enrique López (2003: 66) propone que la noción deinterculturalidad surge como alternativa a la de mestizaje, pero que,lamentablemente, esta última ha sido constitutiva de toda la educaciónlatinoamericana. Así nos dice que, el mestizaje en sentido amplio, noes otra cosa “que crear un nuevo ente a partir de identidades de basediferente. El mestizaje es más bien un proyecto de asimilación de loindígena hacia la corriente mayoritaria de la cultura hegemónica”(Ibíd.). La escuela argentina corrobora, según este testimonio, el plan-teo de López.

Cabe además preguntarnos: ¿Definiremos nuestra identidad, susatributos, desde y para responder al fortalecimiento de nuestra propiahistoria y experiencia o para responder a la mirada del turista? ¿Quénos dicen miembros de una Comunidad Indígena en relación al turis-mo? En el siguiente ejemplo se observa un claro posicionamiento refe-rencial del “nosotros indígena” frente a los “otros” (“la gente que vienede afuera, los gringos”).

239

Entrevista a Comunidad Indígena “Cueva del Inca” (20.11.04)

Doña M: Sí, la verdad que la gente que viene de afuera, losgringos... allá abajo ¿no ve que hay un lugar por dondeviene un arroyo? [Ese arroyo] ha traído piedritas de variasformitas y al otro día estaban los gringos meta juntar esaspiedritas. […]

R: Y en ese sentido, nosotros cuando vemos piedras bonitaslas dejamos, no las sacamos a comercializar. La gente deacá no lo hace pero la gente que viene de afuera, buscan esoporque para ellos les sirve.

J: A veces nosotros mismos no valorizamos. A veces ¿la ver-dad? Caminamos arriba de la plata. Si una sencilla piedraestá tirada, nosotros pasamos por ahí pero el que viene deafuera le ha visto, le ha levantado, le ha puesto unas cosi-tas más y usted va a ver en la plaza y ya está para la venta.

R: Y encima ellos dicen que son aborígenes y les dan unaexplicación que ni son tampoco. Nosotros que somos deaquí no hacemos nada, ni siquiera alzar una piedra e ir aexplicar... ellos saben mejor que nosotros.

J: Eso nos tenemos que concientizar nosotros mismos, valo-rarnos nosotros mismos porque uno a veces, los jóvenespor vergüenza, a veces nos pasa eso, y otros porque nosaben... Se tendríamos que concientizar en eso.

Es importante tomar en cuenta las reflexiones que miembros de laComunidad Aborigen destacaron del “nosotros indígena” y de los“otros” en relación al turismo. Mientras que “los otros” (no indígenas)son percibidos como personas que valoran más, que sacan beneficioseconómicos, se atribuyen la identidad aborigen (“encima ellos dicenque son aborígenes”), le atribuyen identidad aborigen a sus “hallaz-gos”, “saben más mejor que nosotros” y pueden brindar mejores expli-caciones; el “nosotros aborígenes” –que enfatiza en la poblaciónjoven– es percibido a partir de un fuerte llamado de atención: “nos ten-emos que concientizar”, perder la vergüenza, apreciar más nuestras

240

cosas y, por supuesto, aprender para poder explicar y valorar. A esteanhelo puede contribuir una escuela respetuosa de la identidad indíge-na, una escuela que está centrada en un enfoque intra e intercultural dela educación, una escuela que cumple un rol preponderante en el apren-dizaje de una historia que nos haga sentir herederos de una culturaancestral preciosa para valorarnos y reafirmarnos con y desde ella. Sinembargo, “esta verdad tan sencilla, real y contundente en la Quebradade Humahuaca fue negada conciente e inconcientemente, implícita yexplícitamente” por la escuela tradicional (PEETUEPT 2001: 12). Enoportunidad de un Taller de Historia Regional realizado con la comu-nidad en Tilcara, una participante manifestó: “Siempre nos dijeron quedebíamos valorar nuestra historia. ¿Cómo la íbamos a valorar si no laconocíamos?” (Ibíd.: 10).

2. Kollas y… ¿punto?

Testimonio de Ernestina Cari (2003: 30), artista y defensorade la cultura kolla

- No sé de dónde provienen aquellos que tienen vergüenza.Nosotros los kollas tenemos que reconocer que realmentesomos descendientes de kollas, de indígenas. No somosdescendientes de europeos, ni de asiáticos, ni de africanos,somos descendientes de kollas, de los que han habitado estesuelo. Somos kollas y punto. Entonces, el mensaje para losjóvenes es que quieran a su tierra, que quieran a su cultura,y que sepan defender sus raíces.

Actualmente, en el noroeste argentino, y muy particularmente enlas tierras altas de Jujuy, el término kolla está siendo resignificado posi-tivamente y cada vez con más fuerza en la palabra oral y escrita del dis-curso de auto-identificación étnica de líderes, comunidades y defenso-res de la “causa indígena”. En el imaginario social colectivo, apareceligada al paisaje norteño, a los cerros, a la piel y a la sangre, al lugar denacimiento y, por supuesto, a la identidad indígena. Las apreciacionespositivas del término dan cuenta de una connotación diferente al carác-

241

ter negativo de estigma y al sentido despectivo que lo ha caracteriza-do.78

Como evoca Fernando Prada (2006: 103): “la palabra libera uoprime, es látigo o intemperie”, Puna desolada o monte cerrado79. Lapresencia del término kolla es cada vez más elocuente en el discurso dereivindicación indígena, entendido éste “no solamente como aquelloque manifiesta o encubre los deseos, [sino como] aquello por medio delo cual se lucha, aquel poder del que quiere uno adueñarse” (Ibíd.). Eltérmino kolla atraviesa profundidades de los planos subjetivos indivi-dual y social, para liberar y sacar a flote la identidad indígena oprimi-da, ocultada, reprimida y castigada.

Cabe preguntarnos, sin embargo, sobre la importancia del términoal interior de la vida misma de una comunidad indígena:

Todos los que viven en la comunidad son originarios dellugar; algunos no usan el apelativo “kolla”. Más que kollassomos lugareños porque hemos perdido el idioma; no hemostenido una discusión en asamblea para definir una identifica-ción con lo aimara o quechua. La terminología no hace a lavida de la comunidad. (Entrevista a dirigente de laComunidad Aborigen. Octubre de 2005).

Teniendo en cuenta que “la terminología no hace a la vida de lacomunidad”, ¿vale la pena insistir en la búsqueda de la “esencia” del“ser kolla”? En todo caso habría que preguntarse para qué buscarla. ¿Esel kolla un indio “imperfecto”? Quienes nos identificamos como kollas,a menudo asistimos al debate de la interpelación que se da en variosplanos y escenarios. Por ejemplo, del lado de otros grupos étnicos se

242

––––––––––––––––––––––––78 Asunción Ontiveros Yulquila (2004), periodista kolla, ha revelado en su Tesis deComunicación Social: “Pobreza y abundancia en la cultura kolla: representaciones y valores.El caso de la ‘Cuadrilla de cajas y copleros del 1800’. (La Banda, Humahuaca, Jujuy)”, carac-terísticas y sentidos negativos y/o positivos del término.79 En su artículo intitulado “La búsqueda del territorio y la letra”, Fernando Prada (2006) dacuenta de una investigación realizada con el pueblo indígena chiquitano de Lomerío, localidadque “se encuentra en una zona de transición entre el bosque tropical lluvioso de la Amazoniay los bosques bajos y espinosos de clima seco del Gran Chaco” boliviano. Aludiendo a carac-terísticas de este paisaje dice: “La palabra libera u oprime, es látigo o intemperie, encierro osabana y selva”.

nos ha reclamado la identificación otorgada por la posesión de una len-gua indígena80 (“hemos perdido el idioma” dijo el dirigente indígena),mientras que, del lado de muchos investigadores, se cuestiona dura-mente la construcción propia de nuestra identidad por la “visión de lacarencia” (hibridación de la cultura o pérdida de la lengua entre otras)y/o por la búsqueda de “las raíces”. En este sentido, muchos kollasentusiasmados con la búsqueda de “las raíces”, a menudo fuimos cali-ficados como “esencialistas” y/o “fundamentalistas”.

La escuela tradicional argentina, en su afán homogeneizador de“razas y culturas”, en su insistencia sobre el mestizaje como crisoldonde se funden las identidades, ha forjado el ser nacional ejerciendoviolencia simbólica sobre los pueblos indígenas para moldearlos comocuando se moldea el metal al calor del fuego y a puro golpe contra elyunque. ¿Y cuál es el parto, el hito fundante del ser argentino? ¿Es el“primer grito de libertad” dado en 1810? ¿Es la declaración de la inde-pendencia de 1816? La escuela tradicional ha insistido, con altos nive-les de logro, en varias generaciones de argentinos que históricamentenegaron sus “raíces indias”, en la imposición arbitraria de un ser nacio-nal imaginario que pocos cuestionan. Sin embargo, hay indígenas con-temporáneos auto-identificados que han experimentado tremendaangustia en el encuentro con su identidad, hay indígenas no hablantesde lenguas originarias, hay indígenas que viven definitivamente en lasciudades. La identidad de estos nuevos indígenas es cuestionada por-que le faltan nexos con los ancestros (¿tienen los actuales kollas deTilcara nexos “verdaderos” con los constructores del Pucará del sigloXII?) o porque no encuentran fundamentos sólidos para sostenerla. Losprogramas de atención a comunidades indígenas, por parte del Estado,deben atender estos nuevos desafíos.

Una escuela que se plantea desde el enfoque de la interculturali-dad puede interpelar la acuñación de identidades únicas y estáticas queenfatizan los extremos antes que los encuentros y enseñar que: “lo cier-to siempre está, no en las orillas, sino en los puentes que hermanan ori-llas espaciales y temporales, más propiamente en la voluntad de her-

243

––––––––––––––––––––––––80 “Pueblo que pierde su lengua, pierde también su cultura” sentencian algunas afirmaciones.

manarlas con plena lealtad al espíritu que generó esa voluntad, es decir,sin perder autenticidad cultural, generacional o personal” (Rojas 1996:12). ¿Puede la escuela intercultural generar acciones y actitudes paratender puentes entre la construcción de la identidad nacional y lareconstrucción de la identidad étnica? En algunos países del continen-te, ya se ha comenzado a debatir sobre el derecho de los pueblos indí-genas a una doble ciudadanía étnica y nacional.

3. Una escuela que valora la identidad de los pueblos indígenasEn los siguientes datos, la palabra de actores de la comunidad edu-

cativa destaca aspectos que fortalecen la esperanza en el avance de unaescuela intercultural que debe generar actitudes y acciones para valorary respetar la identidad de los pueblos indígenas.

Cuadro 2: Una escuela que nos valora

244

Entrevistas

Estudiante (10.11.04)

M: En la escuela tendrían quevalorar lo que uno sabehacer. [Un estudiante queviene del campo] sabe ira hacerse su quinta, ir ahacerse su propia casadesde chicos; cosas queotros alumnos no saben.Creo que tendría quevalorarse todo lo que elchico sabe hacer. Todostendríamos que sabercada palabra que habla-mos, por ahí como decían“kolla”, término con elque se discrimina, saberque les estoy diciendo“kolla” pero yo tambiénlo soy. Aparte de serlotendría que sentirmeorgulloso.

Docente (18.11.04)

E: El tema pasa por conocer-se uno mismo y conocerla historia propia ¿no?[…] Tratar de que sevalore lo que el [alumno]tiene, su propia historia.Y para eso las fuentes, sío sí, son los abuelos, noqueda otra. Cuando noso-tros reconocemos quié-nes somos vamos a poderadaptar cualquier culturasin perder la nuestra. […]Pero para adaptar hayque conocerse interior-mente, conocer la fami-lia, saber realmente quié-nes somos porque por ahísomos los mismosdocentes los que discri-minamos.

Cita bibliográfica(Preparatorias La Quiaca2002)64

Que en la escuela nuestroshijos aprendan primero avalorar nuestra cultura,nuestra vestimenta, nuestramanera de pensar, y tambiénque aprendan, entiendan yrespeten otras culturas. Quese enseñe a no discriminar,que nuestros hijos no se aver-güencen de las manifestacio-nes de su cultura.La escuela no ha valorado lacultura de los pueblos aborí-genes. Los docentes aver-güenzan a nuestros niños.Que la escuela no desvaloricela cultura nuestra. Desdesiempre se ha tendido a unifi-car, a borrar rastros de nues-tra cultura para hacernos lomás similar posible a la cul-tura general del país.

––––––––––––––––––––––––81 Cf. Seminario de Organización y Comunidades Originarias de Jujuy 2003: 10.

Habida cuenta de que una de las principales misiones de la escue-la intercultural es tender puentes para el re-encuentro con el compo-nente indígena de la identidad, la búsqueda de actitudes positivas quealimenten ese cometido debe empezar por “conocerse uno mismo yconocer la historia propia”. En palabras de un estudiante y de un voce-ro de la comunidad indígena, esta búsqueda se refuerza cuando laescuela “valora todo lo que el chico sabe hacer”, y cuando empieza adesandar el camino que “ha tendido a unificar, a borrar rastros de nues-tra cultura para hacernos lo más similar posible a la cultura general delpaís”. Sin embargo, el desarrollo de una actitud intercultural por partede los docentes no basta; como lo señalan Claudia Cuestas y Ana MaríaGonzález (2006: en prensa), los “profesionales de la educación tene-mos que poder traducir esta actitud en propuestas metodológicas, enestrategias de aula, en herramientas concretas que lleven a los alumnosa alcanzar también ellos, esta actitud ante otros diferentes”. Vale decir,que las actitudes positivas y las interacciones para la convivencia enri-quecedora entre “otros diferentes”, que genera el docente, deben tras-cender el plano de la reflexión intracultural para que los alumnos“aprendan, entiendan y respeten otras culturas”; así lo expresa el voce-ro de la comunidad indígena en el recuadro anterior.

El fortalecimiento de la identidad de los pueblos indígenas va dela mano con el respeto por las personas mayores. “No queda otra”,enfatiza el docente entrevistado. La escuela intercultural propende a laincorporación de los saberes de las abuelas y de los abuelos, a la pro-moción de la participación comunitaria y a la búsqueda del apoyo quese puede encontrar en la familia o en las personas mayores de la comu-nidad. Esta intención es reafirmada por una docente:

“Contar con los abuelos, recurrir a la familia. Cuando trabajo conlos chicos [les digo]: ‘Pregunten a los abuelos cómo es esto’, si no tie-nen abuelos al tío, y si no tienen, al vecino y así, buscando una perso-na mayor que los pueda guiar” (Entrevista GFD 18.11.04).

Alentado por el desarrollo de actitudes y acciones, el enfoque edu-cativo de la interculturalidad tiene muchas posibilidades de contribuir,desde la escuela y con la comunidad, a la realización de una sociedadmás democrática, justa y equitativa que supere los resabios del colo-

245

nialismo y el autoritarismo, acepte la diversidad como fortaleza y cele-bre el re-encuentro con la identidad de los pueblos indígenas.

Reflexiones finales En Argentina, a la escuela del siglo XXI le cabe el papel impor-

tante de transmitir gran parte del acervo, valores y saberes82 que emer-gen de la diversidad cultural y lingüística del país representada por suspueblos indígenas. La escuela debe contribuir a representar más positi-vamente la imagen denigrada del “nosotros indígena” incorporando elenfoque educativo de la EIB desde el tendido de puentes que permitanestablecer diálogo crítico entre las exigencias de los tiempos contem-poráneos y el tiempo ancestral; un diálogo que los quechuas proponencomo ñawpaq manpuni, “un mirar hacia atrás que también es un irhacia delante” (Antezana 1984: 11).

En particular, es necesario desarrollar desde el Estado una políticaactiva de inclusión curricular de los aprendizajes que permitan quetodos nuestros niños y jóvenes conozcan y valoren en profundidad elpapel que desempeñaron los pueblos originarios de estas tierras ennuestra historia y el que desempeñan en la actualidad. (Documentopara el debate del actual Proyecto de Ley Nacional de EducaciónArgentina, Buenos Aires, mayo de 2006)

Nunca más estudiantes que permanecen en la escuela, o egresan deella, desconociendo o negando la diversidad de pueblos y culturas ori-ginarios de indoamérica. No más estudiantes indígenas desconectadoso avergonzados de sus antepasados, de sus lenguas y de sus culturas,homogeneizados en lo nacional o fundidos en el crisol de razas. No másdocentes que se aferran a viejos paradigmas o que sólo cumplen elpapel de funcionarios del Estado.

246

––––––––––––––––––––––––82 El Sistema Educativo argentino que, en el nuevo milenio, acepta el desafío planteado poruna sociedad cada día más preocupada en valorar el conocimiento, la ciencia y la tecnología,debe repensar el rol que le cabe a la escuela en ese cometido, permitiendo delinear con imagi-nación y creatividad estrategias que recreen y transmitan su acervo cultural, valores y sabe-res de calidad en forma democrática (Filmus y Kirchner 2006). Resumen de las intencionesexpresadas por el presidente Néstor Kirchner y el ministro de educación Daniel Filmus (cf.Documento para el debate del actual Proyecto de Ley Nacional de Educación Argentina,Buenos Aires, mayo de 2006, nuestro énfasis.).

Las miradas hacia dentro y hacia fuera, de indígenas y no indíge-nas, las miradas múltiples que buscan desarrollar sentidos de pertenen-cia hacia el interior de la cultura y hacia el exterior de ella, deben sertomadas en cuenta por la Escuela Intercultural para que niñas y niñosaprendan a valorar el entorno propio, aprendan a quererlo, respetarlo yhonrarlo como lo hacen nuestros ancianos con la Pachamama83.

En el horizonte político de la identidad de los pueblos indígenas,se deben tener en cuenta las conquistas sociales logradas hasta elmomento84 y las demandas actuales por mejores condiciones de vidaque buscan superar: (i) el atraso económico, (ii) la falta de trabajo, (iii)la desnutrición y la mortalidad infantil, (iv) el analfabetismo, el rezagoy la deserción escolar y, (v) el alcoholismo y el suicidio, entre otrasproblemáticas que ubican a las poblaciones indígenas, entre las másexcluidas del desarrollo y/o de la integración social.

La gestión de políticas educativas centradas en el enfoque inter-cultural debe recoger aportes de experiencias de participación indíge-na85 y buscar alternativas para romper con el aislamiento contribuyen-do al tendido de puentes interculturales que acerquen posiciones en elmarco de una sociedad pluralista y democrática.

Por su parte, las actitudes y acciones que promueven una intercul-turalidad, entendida como enriquecimiento mutuo y para todos, podránir mucho más allá de las buenas intenciones de líderes, burócratas eintelectuales de la “causa indígena”, en la medida que el puente inter-cultural pueda sostenerse con la interpelación permanente de los pue-blos y organizaciones indígenas.

247

––––––––––––––––––––––––83 Término quechua-aimara para designar a la madre tierra.84 Por ejemplo los avances en cuanto a legislación y los programas de atención a poblaciónaborigen (INAI, PNEIB); así también la lucha misma, por la obtención de títulos de posesióncomunitaria de la tierra, que, en Jujuy, ha aglutinado los reclamos de las comunidades en elForo de Comunidades Indígenas.85 Por ejemplo el caso de los Consejos Educativos de Pueblos Originarios (CEPOs) que, enBolivia, promueven la participación de madres y padres de familia en la gestión escolar.Recientemente, en septiembre de 2006, se ha constituido en Argentina el CEAPI (ConsejoEducativo Autónomo de Pueblos Indígenas).

Bibliografía

Albeck, Mariette y Ana María González1998 Quebrada de Humahuaca, más de 10.000 años de historia. Tilcara: PEE-

TUPT / Escuela Normal / Plan Social Educativo.

Antezana, Luis1984 Prólogo del libro de Silvia Rivera, Oprimidos pero no vencidos. Luchas del

campesinado aymara y qhechwa. 1900-1980. La Paz: Hisbol. 11-14.

Bonfil, Guillermo1995 [1º ed. 1972] “El concepto de indio en América: Una categoría de la situación

colonial” en Obras escogidas de Guillermo Bonfil. México: InstitutoNacional Indigenista. 337-357.

Cari, Ernestina2003 Entrevista sobre la Pachamama en Amara, Revista de testimonios de histo-

ria y tradición oral de la Quebrada de Humahuaca Nº 3. René Machaca(Director). Humahuaca: Talleres Libres de Artes y Artesanías de la Quebrada/ Escuela de Artes Nº 2 de Humahuaca. 30.

Cipolloni, Osvaldo2004 “Haciendo camino al andar. La Educación Intercultural Bilingüe desde el

Ministerio de Educación de la Nación” en Educación Intercultural Bilingüeen Argentina. Sistematización de experiencias. Buenos Aires: Ministerio deEducación, Ciencia y Tecnología de Argentina / PROEIB Andes / UNICEF.467-479.

Cuestas, Claudia y Ana María GonzálezEn prensa “Interculturalidad como enfoque educativo” en Hacia una educación

intercultural en el aula. Mariana Lasala y Mercedes Sosa (coordinadoras).Buenos Aires: PEETUPT / Escuela Normal de Tilcara / MECT.

Filmus, Daniel y Néstor Kirchner2006 “Documento para la discusión de la Ley de Educación Nacional. Hacia una

educación de calidad para una sociedad más justa”. (Presentación del docu-mento por parte del Presidente y del Ministro de Educación, Ciencia yTecnología de Argentina). Buenos Aires: MECT. 1-31.

Freire, Paulo1993 Prólogo del libro de Henry Giroux La escuela y la lucha por la ciudadanía.

México: Siglo XXI. 12-13.

Ibáñez, María2003 “La educación intercultural bilingüe en Argentina: un desafío” en Qinasay,

Revista de Educación Intercultural Bilingüe Nº 1. Elizabeth Uscamayta yVidal Carbajal (eds.) Cochabamba. 71-77.

248

Karasik, Gabriela2005 “Etnicidad, cultura y clases sociales. Procesos de formación histórica de la

conciencia colectiva en Jujuy, 1970-2003”. Tesis de doctorado. Tucumán:Universidad Nacional de Tucumán, Facultad de Filosofía y Letras.

1994 “Plaza grande y plaza chica: Etnicidad y poder en la Quebrada deHumahuaca” en G. Karasik (estudio preliminar y compilación): Cultura eidentidad en el Noroeste argentino. Buenos Aires: Centro Editor de AméricaLatina. 35-75.

López, Luis Enrique2006 “Desde arriba y desde abajo: Visiones contrapuestas de la educación intercul-

tural bilingüe en América Latina” en Qinasay, Revista de EducaciónIntercultural Bilingüe Nº 4. Vidal Carbajal et al. (eds.) Cochabamba: PRO-EIB Andes – GTZ. 81-100.

2004 “Interculturalidad y educación en América Latina: Lecciones para y desde laArgentina” en Educación Intercultural Bilingüe en Argentina.Sistematización de experiencias. Laura González (coord.). Buenos Aires:Ministerio de Educación, Ciencia y Tecnología. 449-465.

2003 “Educación e interculturalidad en América Latina”. Primeras Jornadas deEducación Intercultural en Jujuy. Un desafío para la educación.(Conferencia dada en San Salvador de Jujuy, 24 y 25 de octubre de 2002). SanSalvador de Jujuy: PROEIB Andes / Secretaría de Educación de Jujuy / OEI.62-87.

López, Luis Enrique y Rodrigo Montoya1988 ¿Quiénes somos? El tema de la identidad en el altiplano. Lima: Mosca

Azul.

Ontiveros, Asunción2004 “Pobreza y abundancia en la cultura kolla: representaciones y valores. El caso

de la ‘Cuadrilla de cajas y copleros del 1800’. (La Banda, Humahuaca,Jujuy)”. Tesis de Licenciatura en Comunicación Social. San Salvador deJujuy: Universidad Nacional de Jujuy. Facultad de Humanidades y CienciasSociales.

Prada, Fernando2006 “Turu napese (puerta del cielo). La búsqueda del territorio y la letra” en

Qinasay, Revista de Educación Intercultural Bilingüe Nº 4. Vidal Carbajalet al. (eds.) Cochabamba: PROEIB Andes – GTZ. 101-122.

Proyecto “Elaboremos entre todos una escuela para todos”2001 “Para empezar a dialogar sobre educación intercultural con los docentes de las

provincias de Jujuy y Salta”. Documentos de la experiencia. (Coordinaciónde Ana María González). Tilcara: PEETUPT / Escuela Normal. 5-23.

249

Rengifo, Grimaldo2006 “Entrevista realizada por Elizabeth Uscamayta y Neri Mamani” en Qinasay,

Revista de Educación Intercultural Bilingüe Nº 4. Vidal Carbajal et al.(eds.) (Cusco, octubre de 2005) Cochabamba: PROEIB Andes – GTZ. 181-186.

Rojas, Luis1996 El orden y el caos. Colección “Esta América”. Cochabamba: Runa.

Seminario de Organización y Comunidades Originarias de Jujuy2003 Primeras Jornadas de Educación Intercultural en Jujuy. Un desafío para

la educación. (San Salvador de Jujuy, 24 y 25 de Octubre de 2002). Jujuy:PROEIB Andes – Secretaría de Educación de Jujuy – OEI.

Smith, Linda2005 “25 proyectos de investigación indígena” en Qinasay, Revista de Educación

Intercultural Bilingüe Nº 3. Vidal Carbajal y otros (eds.). (Traducción deenunciados por Nancy Hornberger). Cochabamba: PROEIB Andes – GTZ.187-188.

Zaburlín, María2005 “El proceso de activación patrimonial del Pucará de Tilcara”. Tesis para optar

al grado de Magíster. La Rábida (Huelva): I Maestría en conservación delPatrimonio íberoamericano. Universidad Internacional de Andalucía. SedeIberoamericana de La Rábida.

250

Preguntas y respuestas

Prof. Antonio Palmisano: Para el Mgr. Antonio René Machaca:¿Qué tiene que hacer ahora el Estado argentino para desarrollar o

corregir la identidad sustituida de los Kollas? ¿El funcionario delEstado argentino?

Respuesta Mgr. Antonio René Machaca:Algunas acciones se vienen desarrollando en el caso de los Collas,

y de otras poblaciones indígenas también en la revisión de la historia,y esto no es algo exclusivo que se le debe de delegar a los profesoresde historia, a los arqueólogos, a los lingüistas, etc. Se tiene que hacerun puente intercultural con los investigadores y que puedan reescribiruna nueva historia junto con las comunidades indígenas, en estemomento en la región colla, de Jujuy, muy particularmente que yo hepresentado, ya se han escrito 3 libros, uno de Geografía, uno deHistoria y uno de Lengua. El libro de Lengua aunque no refleja preci-samente la lengua indígena, puesto que ha sido desplazada por el cas-tellano, sí refleja el respeto por la variedad que marca la identidad paranuestro pueblo colla, aun sin ser indígena la variedad es muy impor-tante y en el proceso de escritura del libro de historia ha habido instan-cias de talleres participativos con la comunidad, es decir, trabajamoscon arqueólogos invitados, enamorados de nuestra causa indígena, losllevamos a las comunidades a dictar los talleres, es decir tenían quehablar en un lenguaje sencillo para nuestros mismos abuelos, que nosaben siquiera leer ni escribir, para reconstruir la historia. Explicarles aellos que tenían que recoger lo que decían los abuelos y eso se va aplasmar en un libro de textos con los cuales los niños collas estánaprendiendo en la historia. La historia contada de otra manera, porquetradicionalmente lo que ha hecho el sistema educativo argentino escontar la historia desde el momento de la fundación del Estado nacio-nal. Lo previo al momento del trauma que ha sido la conquista y lainvasión para la colonización, llevando incluso a los tiempos sinmemoria para poder contar la presencia del hombre en las regiones

251

hace diez mil años de historia, actualmente en la quebrada de Mauacadonde viven los collas ha sido declarada en el 2003 patrimonio naturaly cultural de la humanidad. Ahora la comunidad se está interpelandoconstantemente la reconstrucción de su identidad en vista de recibir unconstante bombardeo de gente extraña que viene a visitarnos de otroslugares, esto tiene que hacer el Estado, respondo como funcionario,tiene que alentar este tipo de trabajos, de reconstrucción participativa,de reconstrucción del material didáctico, de la formación docente, etc.Una señora de nuestra comunidades nos decía, siempre nos han dichoque valoren, valoren, valoren, pero cómo vamos a valorar nuestra his-toria si no la conocemos? Los indígenas necesitamos reconstruir nues-tra historia, contarla y aprenderla a la vez, tenemos que aprendermuchas cosas que se han perdido en esos 500 años. Hay muchas pos-turas muy fundamentalista también, si se quieren, dentro de la militan-cia indígena que dicen, no ahora hay que tirar todos los santos y vírge-nes porque eso es símbolo del colonialismo y no es así, hay que ir rear-mando y reconstruyendo la identidad pero sí, disociar totalmente lapostura, y el Estado tiene que alentar precisamente eso.

La Escuela de mi pueblo en Pilcara se llama Domingo F.Sarmiento, y siempre han estado pegados los ideales orden, progreso,paz, los ideales tradicionales del mestizaje y evidentemente ha sidoconcebida de esa forma la educación latinoamericana, una improntaque se transmitido hacia los distintos sistemas educativos, ahora dentrode las posturas de estas que llevan más a los extremos vimos nosotrosindígenas collas que dicen, no los inviten a los escritores, historiadoresa escribir nuestras historias, yo les digo que soy antropólogo, y medicen, vos si podes porque sos colla, dicen, tenemos que escribir noso-tros, porque debemos ir sensibilizando al otro no indígena para poderir haciendo eso de una forma intercultural, no es sencillo la historia,desde nuestra visión solamente, algunos con posturas más extremasdicen, no, la escuela no debe meterse con nuestras culturas, yo en formamuy particular pienso que si a la escuela le corresponde un papelimportante, no todo, hay cuestiones como la cosmovisión, la religiosi-dad, que necesitan trabajarse más profundamente dentro de la culturaindígena y no tanto en la escuela para no sacarlo de su contexto, pero

252

hay otras cosas que la escuela sí tiene mucha responsabilidad en estaconstrucción de la identidad.

Padre José Zanardini:En la década del 80 aquí en Paraguay creíamos mucho en la trilo-

gía tierra, tenicidad y poder, en esa trilogía se armó aquí en Paraguaytoda la Ley 904, la recuperación de las tierras nacionales, con cierta ilu-sión de que cuando un indígena mantiene su hábitat natural y tradicio-nal, automáticamente reconstruye su forma de vida, porque la tenicidadnecesita su territorio y en su territorio tiene su poder, o sea su desarro-llo, su capacidad de avanzar y desarrollarse con la naturaleza y tambiéncon la sociedad. Después de 25 años de la Ley 904 muchas comunida-des, más de la mitad, tienen ahora sus tierras y debemos analizar qué eslo que ha sucedido, el concepto de desarrollo limitado, que sea unpoquito desarrollo económico, reducirnos un poco a eso, no viven delos recursos de sus tierras. Tenemos comunidades que con 10.000,20.000 hectáreas no logran desarrollarse, la mayoría de los pueblosindígenas acá en Paraguay viven de trabajo asalariado fuera de sumisma comunidad, fuera de sus tierras, hay casos de tierras recupera-das, que por Constitución no pueden ser alquiladas, pero que se alqui-lan a extranjeros, o a comerciantes, se venden los pocos árboles quequedan y aumenta cada vez no sólo la pobreza en términos materialessino en términos de autoestima, y no se ve cuál es la salida. Hay peque-ña experiencia aislada, piensen que los últimos indígenas que han sali-do del chaco paraguayo, los Ayoreos, en el año 2004, 17 personas, unade las razones por las que han buscado el contacto con los otrosAyoreos, es la siguiente frase: “La selva ahora es más dura que antes”hasta los tigres son más feroces con nosotros, indican que tienen menoscomida, menos agua, entonces eso impone a nosotros reflexionar eltema de la supervivencia en términos globales, porque esa trilogía, lacual hemos logrado no se puede políticamente, quizás se podrá no losé, por ello quisiera hoy la opinión del Prof. Antonino sobre este punto,o explorar nuevas fórmas más amplias de desarrollo, de intercambiopara poder así tener un futuro. Especialmente en los temas económicoy desarrollo.

253

Respuesta Prof. Antonino Colajanni:Yo creo que hay que buscar otro camino, eso es obvio, hay que

dialogar más, hay que conocer más las situaciones locales, a veces pen-samos conocer el contexto dado, dialogamos 2 ó 3 días y volvemos ala ciudad, hay que vivir meses, años, hay que estudiar bien el sistemaproductivo y la distribución de los recursos, los bienes, hay que mirarbien las relaciones con el mundo externo y las ilusiones que vienen dela ciudad hay que estudiar los casos negativos de indígenas que hanemigrado a la ciudad. Todo esto puede ser argumento de conversacio-nes en las noches hablando con la gente para ver hasta qué punto exis-te la capacidad local de hacer programas, hacer proyectos es una expe-riencia de investigar las formas en que grupos indígenas proyectanalgo, que tiene que hacer un indígena, por ejemplo, en términos de lacosecha, como hacen progresión de las actividades en el tiempo, y par-tir de una cosa que ya saben hacer y seleccionar las experiencias exito-sas porque a veces hay artesanías que funcionan, otros que hacen pescay venden bien el pescado, entonces partir de cosas que han funcionadoy ver como organizan ellos, conversar largo tiempo, buscar. Nosotrostenemos un camino, porque el camino maestro del desarrollo técnico esun camino que quita al indígena de su tierra, lo concentra en su ciudady lo hace una persona o ciudadano de segundo nivel, hay casos tristísi-mos, uno pensaba resolver el problema con la tierra y no pasa nada,porque la tierra está allá y no funciona ese sistema, tenemos que ela-borar una crítica al desarrollo muy fuerte con coraje, el desarrollo comose presenta en la historia de los últimos 40, 50 años no es cosa buenapara un pobre, es cosa para los que ya se han adelantado, la globaliza-ción no le sirve a un grupo de indígena marginal, si a los grandes acto-res económicos, entonces buscar formas alternativas, si existen. EnEuropa y América se están estudiando formas de dinamización de lasituación económica que son diferentes al desarrollo clásico, hay queleer el libro de Boltanzac hay algunos artículos tremendos, críticos, eserespeto que todos tenemos hacia la gran economía, son cosas para losricos, el pobre no tiene ventajas, pero con eso no quiero decir que debe-mos entregarles las cosas que pida, tenemos que conversar bien paraevaluar la ventaja y la desventaja, hay que conversar más, los jóvenes

254

son importantísimos, deben de sentarse con los viejos y formar redesde conocimiento mutuo e intercambio. Aquí en Paraguay se hizo algo,ustedes lo conocerán, el caso de Bruno Barras, líder de los Chitiros,participó en las investigaciones de Blazer, y dice cosas en nuevo libroque se publicó el año pasado, camino para el desarrollo, elabora y tieneexperiencia, entonces hay que movilizar los ancianos y hacerlos con-versar con los jóvenes, porque el futuro yo lo veo muy negro si no seutiliza toda esa crítica, entrando en la experiencia cierta de saber pro-yectar, como proyecta, como hacen ellos, como piensan ellos, y cuan-do dicen “la escuela para los niños” yo quiero que mis niños sean todosprofesionales, no es la solución, no podemos nosotros pretender, tene-mos que vivir con ellos, dedicarnos a saber profundizar, conocer elidioma, todos los vocablos, traducciones del vocablo desarrollo, perocon eso no puedo decir que esa es la solución, tengo mucha experien-cia, muchos años, muchos dolores. Yo me acuerdo, la federación Suaren el 71´ cuando fui al Ecuador la primera vez, me acerqué a ellos, lospadres salesianos, solos con la producción económica, vendiendo car-nes, ellos sobresalen y miren lo que ha pasado en estos años, es tristeporque no se ha estudiado bien el contexto local y la forma de pensar,la modernidad por parte del grupo indígena, yo creo que la culpa muysinceramente como antropólogo, porque la categoría profesional a laque represento no se ha portado bien, y podía hacerlo, porque teníamoslos elementos, entonces el dialogo, intercambio, conocimiento, estudio,contactos horizontales entre diferentes grupos indígenas, es muyimportante que los Cuna de Panamá, venga aquí a hablar con losChamacocos para intercambiar entre ellos experiencias para ver dóndela cosa no ha funcionado, pero eso tiene que realizarse a nivel local, noestoy muy de acuerdo con las reuniones internacionales de la Coica, detodas estas organizaciones, son cosas de nivel de nosotros, de cómointercambiamos ideas, etc., hay que vivir con las gentes y ver y estu-diar formas de transformación positiva e inventar nuevos desarrollos.

255

256

Mesa redonda – Debate final

Moderador: Gustavo Arteta (Secretario Socio-Económico del IILA)Quisiera empezar con tres temas que he recopilado de las ideas

que se han venido discutiendo en este seminario: la identidad en elámbito internacional, la cultura e identidad respecto la educación, y elconcepto de desarrollo.

Hemos escuchado aquí que existen importantes avances en lasestructuras institucionales internacionales de desarrollo, el mismo queactualmente ya se ve plasmado en instituciones como el BancoMundial, el BID y organismos de las Naciones Unidas. Se observa unproceso lento pero firme, de la dirección hacia donde se están encami-nando los temas de la cultura, la identidad, y la de los pueblos indíge-nas. Se está afianzando la preocupación por estos temas que hasta haceunos pocos años eran ignorados por completo, e inclusive ahora soncontempladas como ejes principales de los proyectos que esas institu-ciones promueven. Algo similar estaría ocurriendo en el ámbito dederecho internacional donde se está plasmando jurídicamentesic algu-nos derechos mediante decisiones judiciales al mismo tiempo que estánestableciéndose reglas y normativas internacionales sobre los derechosde los pueblos indígenas. En este sentido hay más movimiento en lascortes que en las mismas instituciones democráticas como las NacionesUnidas. En todo caso, son avances y no debe sorprender que estos orga-nismos se muevan lentamente porque esas instituciones se mueven alritmo de las instituciones multilaterales de desarrollo, porque cada unase va apoyando en la otra; así, evitan que nadie se adelante con un cri-terio que establezca certeza legal sin que los otros hayan hecho losestudios que brinden el respaldo legal. Esto aunque parezca un tipo decírculo de movimientos burocráticos sin fin, en efecto es un montajeque ha permitido a otros temas, en sus momentos controversiales, nue-vos o discutibles, pudieran llegar a adoptarse con amplio consenso yperdurable duración; ejemplo: la protección ambiental.

Se ha demostrado claramente como la “globalización” está contri-buyendo a diluir la identidad, homogeneizándola, pero también se han

257

presentado argumentos indicando que también podría estar ayudando afortalecerla. De la misma manera que se está más conectado en elmundo actual, se ha vuelto necesario identificar mejor dónde está cadauno, y con ello se fortalece la identificación con lo local. Por ejemplo,utilizando el Chat, cualquier persona que está conectada al mundo, loprimero que pregunta es: ¿de dónde eres? La respuesta exige identifi-carse si es de Ecuador, de Asunción o de Roma. El ejemplo muestracomo aunque vivamos en un mundo globalizado por la informática,también vivimos dentro de lo local y con nuestra cultura. Tal vez estosmecanismos pueden ayudarnos, a futuro, a identificarnos mejor noso-tros mismos ya que tenemos que hacerlo para otras personas. Sinembargo, hemos escuchado sobre diferentes aspectos sobre el tema dela identidad según la visión de investigaciones como por experienciasespecíficas, que existen complejas paradojas entre la aceptación yrechazo de las mismas identidades; algo complejo para resolver aquí.

La identidad estaría compuesta de varios elementos como el deconocerse a si mismo, el del cocimiento y la memoria, y de la existen-cia del autoestima, entre otros, que son necesarios comprender parapoder identificarnos. A esto se refiere el ejemplo anterior. Al compa-rarnos con otros, existen también elementos de identidad, la imagen,imágenes que están alrededor nuestro, y del lenguaje. En efecto el len-guaje y la identidad parecerían ser inseparables en cierta forma. El otroelemento importante de la identidad es el de sí ésta surge como unaposición subjetiva o positiva ya que esto incide en el carácter dinámi-co de la identidad. Este es un tema muy importante porque como se ve,ello determina muchas actitudes, percepciones políticas y acciones dela gente. Sí percibimos que queremos capturar o recapturar algo delpasado, porque pensamos que eso es lo que somos, entonces ello secontrapone a que somos algo en evolución y en función de los insumosque son agregados en el proceso de vida.

El concepto como de la igualdad en el ámbito de la cultura se haidentificado de ser difícil de manejar. Ha sido un concepto que, si bienvenía con buenas intenciones filosóficas, su aplicación también pudellevar a un proceso de homogenización de las culturas en nombre de laigualdad económica o igualdad de oportunidades. En el pasado este

258

concepto, loable en lo filosófico, en el pasado ha contribuido a destruiridentidades y ese es un tema para reflexionar porque todos los díasestamos discutiendo en el ámbito público sobre lo qué es justo, lo querepresenta la equidad. Estamos hablando sólo de cantidad de dinero, dela cantidad de oportunidades o también de la equidad en las diferencias.Los conceptos y las ideas se matizan y se condicionan en el lenguaje yeso es algo que también debemos reconocer como externos a las comu-nidades indígenas.

Algo que se tocó reiteradamente es el tema de la educación. Elconsenso parecería ser que se necesita educación, el disenso me pareceque es el ¿Cómo?

En general las experiencias de los proyectos que hemos escucha-do, las iniciativas educativas han contribuido a la homogeneización envez de la construcción de una diversidad armónica. Se siente que espe-cialmente viniendo de las comunidades sigue existiendo un sentir deimposición o el irrespeto a sus formas o a su cultura. Alguien hizo unejemplo de la conquista: que los profesores todavía son conquistadores.Se ha dado mucho énfasis a que se necesita más multiculturalidad en laeducación. Es decir, no sólo pensar en bilingüismos o hablar de len-guajes. En la aplicación del lenguaje tiene que estar el componente dela cultura porque si no, no es posible que haya el proceso de educacióncomo debiera ser, porque existen diferentes maneras de percibir lascosas, las palabras y nuestro entorno. Es decir, mejor capacitación deprofesores en esos sentidos en los cuales estoy mencionando. Y estacapacitación de profesores debe tener, entonces, mejor entendimientode los indígenas y debe ser posiblemente profesores provenientes de lascomunidades indígenas. Pero claro, surge el problema de cómo capaci-tar al capacitador y puede seguir a toda una cadena infinita de decisión,y quizás el mensaje más fuerte que siento yo en el tema de educación,es que lo primordial es escucharles primero antes de querer enseñarlesnada.

El último tema, lo he resumido en el término de desarrollo, espe-cialmente porque está conceptualizado en el título del seminario en elcual estamos participando y es algo que siente que el concepto no sig-nifica lo mismo para todos.

259

Y esto no creo que sea un tema, un problema que solamente com-pete en relación a la temática indígena sino que es un tema que tambiéntrasciende otras áreas donde hay gran discusión sobre el significado de“desarrollo”. El significado para los economistas es uno (y entre ellosla variación es inmensa) el de una madre es otro y el de las comunida-des es aún diferente. En este sentido creo que el mejor mensaje vuelvea ser el de oír a la comunidades y a los mismos indígenas sobre lo queellos consideran desarrollo.

La globalización es homogenizante. Las estrategias han ido cam-biando, también el proceso, y lo que se considera desarrollo. Se ha vistotambién como han cambiado los procesos de capacitación de u educa-ción. Van cambiando estos también a la par de lo que vamos apren-diendo en el proceso. Antes no se consideraba el tema de identidades,ahora ya se lo considera pero debemos reflexionar sí cómo lo estamosconsiderando ahora sea la manera correcta. Es un tema que hay quecontinua debatiendo porque es un proceso dinámico de aprendizaje.Finalmente en este proceso de desarrollo, en lo que compete no solo alas comunidades indígenas sino también a los países en un contextomás amplio y global, debe considerar cómo avanzar hacia un multicul-turalismo con respeto. Ello es lo que involucra vivir en un mundo inter-nacional.

Estos temas han sido tocados en torno al tema de la identidad lin-güística y desarrollo, y con estas últimas palabras quisiera abrir la mesay discutir especialmente aquellos temas que han quedado sueltos.

Intervención Dr. Ramiro Domínguez:Creó que quedo algo en el tintero, uno de los tópicos que se trató

el primer día, que es el rol del Estado es de la identidad y la globaliza-ción, no es la escuela el único órgano que tiene que trabajar sino comoplanteó un expositor ayer, una de las metáforas es el contrato social,entonces en que medida el Estado, un Estado equilibrado que no estaoperando en función de los grupos de poder sino que esta dando a cadacual lo que le corresponde, entonces el juego de moderador del Estadocreo que tiene que ser más trabajado inclusive hoy, es decir, yo creo quede aquí tiene que salir, porque si nosotros estamos endosando toda la

260

carga a la educación, es el eterno problema, la maestra tiene que parir,alimentar, generar y conducir. No, a lado de eso esta justamente la fun-ción del Estado entonces allí me parece que es un tópico que tendría-mos que trabajar juntos de común acuerdo, de esa metáfora tiene quesalir algo.

Quiero referirme al tema de las identidades culturales y la globa-lización. Cuando nosotros estamos creando así como un súper estadoresponsable como el padre de distribuirnos todos los bienes, debemosquedarnos como desprotegidos es decir evidentemente no es como undiario empírico que puede tener sentimientos muy altruistas, pero en elfondo son grupos de poder que reciben presiones evidentemente no delos más pobres, entonces yo creo que el moderador tiene que seguirsiendo por mucho tiempo el estado, inclusive ahora mismo hasta elParaguay se declara ya multiétnico, pluricultural es decir, ya no estadefendiendo al paraguayo tradicional, sino a todas las identidades, perocomo interlocutor entre el supra Estado que es la globalización meparece que tendremos que seguir fortaleciendo el rol del Estado.

Intervención del Público:En el asunto del Estado, yo quisiera traer a colación, todos los pro-

gramas de educación de los que se hablaban sentía que eran programasestatales de educación, lo que quisiera añadir en función a lo que seacaba de decir, es cual es verdaderamente el rol del Estado, el Estadotiene los mismos intereses chiquitos que están expresados en grande enlos bancos mundiales, yo lo que considero que el Estado es un ente quede alguna manera es un ente en el que podríamos discutir diferentesteorías del Estado, contrato social y otros. El tema creo que es que elEstado va a reflejar lo que la sociedad quiera cuando la sociedad mismaya quiera convivir en este proceso con una sociedad multicultural. Yahí es donde la educación sirve, no solo pensando en la educación enlas comunidades indígenas.

Me parece que la globalización ha favorecido relaciones, conoci-mientos, tiene algunos aspectos positivos, las informaciones, entoncesel mundo nos parece hoy día una gran pueblo global. Por una parte laglobalización es un conjunto de fuerzas de uniformación, los mismos

261

bienes viajan sin obstáculos y las ideas e informaciones a través deInternet. Pero como todos saben por una parte hay uniformación perola misma globalización genera reacciones contrarias. Hay un ejemplointeresante “turismo” donde se ven las dos fuerzas uniformación yrecolarización secundaria. El estado internacional del turismo es casiuniforme en el mundo. Todos los turistas pretenden encontrar sábanaslimpias, cocina internacional con agua limpia, etc., etc., todos los hote-les internacionales tienen algunos estándares, al mismo tiempo entodos los países donde hay turismo se encuentra algo que trasmite alturista la idea que es único en el lugar en donde esta, porque es el únicolugar donde hay arte, folklore, indígenas, naturaleza, etc., y la compe-tencia internacional hace que cada país se especialice en un mensaje asíque el turista escoge el lugar que es el más típico, cocina típica, trajetípico y hay muchos países que viven y sobreviven movilizando ideas,formas y aparentes imágenes de tipicidad que algunas veces es inven-tada, otras veces no. Todas las fiestas populares de los municipios detodo el mundo han sido reconstruidas en el 1.800. Entonces en la fuer-za de la uniformación forma parte la relocalización y la especificaciónen reacción a la uniformidad. Pero los contactos internacionales nosrepresentan una situación interesante, todo el mundo esta pasando unmismo proceso y tiene relación con el Estado pero con una acentuaciónun poco diferente. En todo el mundo se ve que la fuerza unificadora yde construcciones típicas del Estado en el 1.800 esta cambiando. Todoel mundo presenta situaciones de descentralización a varios niveles dela economía, mercados locales, mercados en archipiélago, en red Italiatiene una situación económica un poco original, tiene un poco la eco-nomía archipiélago donde en dos regiones hay conexiones laterales ytiene contacto directo con el mercado internacional, no tiene ningunavinculación con el Mercado de país del Estado, las situaciones delEstado se están reduciendo, en todo el mundo los localismos, los pro-vincialismos por una parte hay reivindicaciones, por otra parte haycuestiones de facilidad de administración, no se puede centralizar todo,si ustedes no tienen organizaciones regionales fuertes no pueden dirigirdesde la capital todo, es imposible hoy día. Entonces estamos viendoque las fuerzas unificadoras materiales e imaginarios de todos los pue-

262

blos del mundo que era una característica del 1.800 se esta reduciendo.Descentralización. Colombia tiene una Ley de Descentralizaciónimportantísima. Bolivia esta encaminara hacia la misma dirección, esdecir se regionaliza, se divide, se administra y se potencializa las enti-dades locales, municipios, provincias o regiones. Está tomando unaimportancia nueva y eso es importante para nosotros, porque un ciuda-dano no tiene más como un elemento de referencia el parlamento, lacapital, el gobierno del municipio esta siendo importante en todo elmundo. En Colombia por ejemplo con la Ley de la elección pública delos alcaldes ha cambiado completamente todo el panorama, porqueantes los alcaldes eran nombrados directamente por el gobierno. Lapolítica fiscal del Estado ha cambiado en casi todos los países latinoa-mericanos, la acumulación de las rentas y pagos de los impuestos sedistribuye por entidades provincianas y regionales y municipales,entonces estamos frente a un proceso de descentralización en donde seestán estimulando las organizaciones intermedias entre el individuo yel Estado, es decir que ese es un cambio interesante, nosotros los vemosa través de la cooperación internacional, viajando, en todo el mundoesta pasando las minorías en Europa son fuertes, y la cooperación inter-nacional entre los vascos y América Latina indígenas, ustedes no losaben, los Vascos están financiando cantidades de proyectos aquí, loscatalanes, es decir todos los grupos minoritarios que tienen reivindica-ciones fuertes de autonomía regional en Europa se ponen en relacióncon iniciativas semejantes en América Latina, la colaboración quieredecir también eso, entonces yo digo que estamos a un proceso dereconstitución y la teoría esta atrás con respecto a la práctica, las cosasse mueven mucho y los teóricos de la política nos dicen las cosas dehace 50 o 100 años, entonces esa es la primera consideración de quehay bastantes analogías en la potencialización de las entidades inter-medias y varias inspiraciones ideológicas, político-teórica, si insisteentre el individuo-estado se formen organizaciones intermedias en latradición católica la familia, todas las políticas sociales de países cató-licos insisten en que se invierta plata, se potencialice la familia comoentidad fundamental. El centro organizativo de la república la familiaque es denominada tercer sector en Europa, es decir asociaciones, gru-

263

pos de iniciativa local de ONGs., y realiza también cooperación inter-nacional, tiene relaciones directas hasta los sindicatos hacen proyectosde cooperación, entonces se esta multiplicando la iniciativa de la socie-dad civil para llenar el hueco que esta dejando la organización tradi-cional del Estado que no alcanza a llegar a los objetivos, no se si losaben pero ha habido una gran tradición fuerte, viene de las encíclicasde finales del siglo pasado se llama el principio de la subsidiaridad,importantísimo, es decir que las iniciativas sociales no tienen que venirdel Estado, el Estado puede subsidiar siempre y cuando haya iniciati-va, inversión y capacidad de organización de las formas intermediasque son familia, parroquia y unidades territoriales, esa es una gran tra-dición de la política social de la iglesia realizada por múltiples perso-nas, la izquierda por ejemplo, la tradición laica tiene otras ideas perosiempre la misma en entidades intermedias, las sociedades obreras quese fundaron a finales del 1.800 eran formas, retículos sociales de soli-daridad que suplían a la incapacidad del Estado. Entonces, la primerareflexión es que hay que potencializar todas las entidades intermedias,segundo; los contactos internacionales tienen que sugerirnos una des-provincialización y una de universalización del occidente nosotrossomos protagonistas de una historia especial, y todo el mundo piensaque el occidente representa la cultura universal, entonces vamos a escu-char a ver si hay alguna propuesta que viene desde afuera del mundoeuro americano, nosotros tenemos que cambiar de actitud y no pensarsimplemente tenemos un interlocutor que es el occidente, euroAmérica, hay otras propuestas que pueden venir de China, India, etc.,entonces el proceso de intercambios tiene que por una parte empujar-nos a mirar bien el mundo en su variaciones que las tiene, y por otraparte no pensar en occidente que es el centro del mundo y es el lugardonde se va elaborando una teoría universal de futuro, porque todossaben que el occidente, euro América tiene 70, 90 años, cuando pasa100 años la supremacía de EE.UU. ya están condenados, ya hay previ-siones de los expertos que dicen que China e India van dominando atodo el mundo y lo van dominando económicamente, sus capacidades,exporta, compran etc. Y después comienzan a producir ideas que sacandel repertorio millonario que tienen. Entonces yo creo que los contac-

264

tos lo local, las propuestas que vienen de las culturas locales, de la ree-laboración de patrimonios milenarios que están en todo el mundo, y porotra parte hay que frenar el proceso de universalización del occidenteporque son propuestas que están en crisis en términos internacionalesno están funcionando, porque uno debe preguntarse el porque de laeconomía china esta caminando como camina, es decir tenemos otrosfocos de civilización, Europa no es el único, yo reivindico una fuerzaen Europa que tiene que unificarse bien. Entonces con hacer eso tene-mos que favorecer el crecimiento espontáneo de iniciativas locales yactuar un acercamiento a las cuestiones internacionales. Uganda sellama así porque los ganda han dominado, se ha extendido y entoncesuniformar, amalgamar es política colonial y hoy día multiplicar los cen-tros, multiplicar los mercados. Yo me declaro anti globalización,entiendo los intereses de los grandes transnacionales, entonces plura-lismo es fuerza útil importante para el futuro de la humanidad, la plu-ralidad se vuelve utilidad recíproca porque si nosotros somos muchosy sabemos dialogar nos potencializamos. Decía Levistrotes un famosoy antiguo de los años 50, un paquete de culturas cercanas similares,pero no demasiados similares porque sino no tenían nada que comuni-carse y no demasiadas alejadas porque sino no tendrían nada que decir-se es decir una cierta cercanía para intercambian entre multiplicidades.La multiplicidad es un valor importante en la historia de la humanidad.

Intervención Dr. Ramiro Domínguez:Yo acepto todo lo que dijo el Prof. Menos su teoría sobre el

Estado. El Estado así como se señala es también una dinámica, no es elEstado de Luís XIV, no es el Estado de Napoleón, no es el de Strossnerque soportamos 35 años en Paraguay. El Estado se reformula por ejem-plo cuando los estado modernos realizados en confederaciones ya noeran un leviatán y cuando hoy día las constituciones modernas hablande Estados descentralizados hasta el Paraguay que esta en la cola evo-lución en la constitución del 92´ específica que es una república des-centralizada, entonces esto es un orden jurídico y eso es el Estado,entonces el Estado no es Napoleón el Estado no es un déspota, elEstado es un orden jurídico que se mueve y que en cierto modo esta

265

vigilando la intelección de este ciudadano que cuando se va ante elCitibank por ejemplo le ha sido un cuentacorrentista excepcional y dela noche a la mañana porque simplemente mi cuenta corriente no alcan-zaba los 250 mil $, que era el mínimo para ser cuentacorrentista allí, meborraron, entonces tuve que andar por la calle mendigando para que meaceptaran en otro banco, entonces esa indexación del ciudadano comúntiene que estar tutelado por alguien, yo voy a acudir a quien, alPresidente para que me proteja no, tiene que ser el Estado, entonces hayuna dimensión entonces el Estado moderno acepta estos matices queusted señala en cambio la descentralización, la incalculación de losmunicipios, cuando la dictadura existía el munícipe era un pobre des-graciado, era un secretario que dependía del Ministerio del Interior hoydía el munícipe esta administrando un presupuesto más autónomo, conmás legalidad, todo es gradual, entonces hagamos crecer el Estado perofrente a esa globalización que usted pinta con un poco colores de rosa,va a traer una serie de conocimientos, bienestar, esta bien, pero a ladode eso están los riesgos, yo le estoy presentando el caso simple de unciudadano a pie que se encuentra con que un día que era cuentacorren-tista de Citibank que lo que era por debajo de los 250 mil $ no sonclientes, quién nos defiende, para eso esta la ley, y la ley es un órganojurídico que esta administrado por el Estado.

Intervención Dr. Marcio Pereira Gomes:El tema de Integración vs. Articulación, Participación del Estado

vs. Sociedad Civil, el derecho nacional e internacional de los pueblosautónomos y La Autodeterminación vs. La Tutela, creo que estos pun-tos fueron tocados muy brillantemente por todos los aquí presentes,quería añadir más dos reflexiones sobre el derecho internacional y lospueblos indígenas, yo estuve presente en los últimos tres años y medioen las reuniones en Ginebra discutiendo el derecho internacional de lospueblos indígenas que pasó muy apretadamente no conforma en elnuevo consejo de derechos humanos que se fue creando para sustituirel autocomisariado de derechos humanos en Ginebra, hay 47 represen-tantes, 30 votaron favorablemente, 15 se abstuvieron y 2 votaron encontra. Canadá y Rusia, y esta declaración esta ahora en la Asamblea

266

Internacional de la ONU y ahora se paso para el tercer comité porquela Asamblea no quiere discutir en este momento, pasó como casi 12años para que se produzca la discusión sobre esta situación, desde1993, antes fue escrita por una serie de antropólogos, escritores y abo-gados como un Borrador, entonces se discutió por muchos años estadeclaración, y la impresión es que va ser muy difícil porque en estetema hay muchos altibajos, las discusiones más humanistas, más favo-rables a los pueblos indígenas en el mundo alcanzó su auge, su cumbrehace 10 años y esta en proceso de deceso, yo lo cito esto en Brasil, quetiene la tradición de trabajar con los pueblos indígenas, de trabajar conel Estado, hubo personas importantísimas en la historia del Brasil,Mariscal Rondón, Orlando y Claudio Villasboa, y tantas otras personasmuy importantes para el Brasil, que trabajaron otras épocas y quedespués durante el fin de la dictadura militar y durante la década del90´ cuando se demarcó casi 13% el territorio nacional y es un hechoextraordinario, un país que tiene 0,26% de su población indígena, reco-nocer como tierras indígenas casi 13% de su territorio, como se dioesto, es claro que cuestiones internas motivaron al país, el sentimientode culpa, que hay un sentimiento de que los indígenas hacen parte dela nación, durante todo este proceso hubo una reacción muy fuerte defuerzas internas que fueron rechazadas por el discurso más fuerte de laautonomía, la respetabilidad, la autodeterminación en relación a lospueblos indígenas y yo me siento como representante de un órgano delEstado que defiende a los indígenas las presiones de todas las partesdesde las partes económicas y políticas y las partes religiosas o ideoló-gicas que están allá, y yo creo que así como hay dificultades con estadeclaración universal en New York también yo creo que nuestros paí-ses están en un proceso lento pero me parece que es un momento histó-rico en cuanto a lo que se está haciendo por los indígenas y hay variasrazones para esto que lo que el Prof. Antonino trajo a colación, que esel desarrollo?, por si mismos, por ayuda del Estado, por ayuda dequién?, hay proyectos pero no se desarrollan como se esperaba, se danentendimientos sobre culturas etc., esas gestiones se están sentimenta-lizando en la enajenación del pueblo en general que es lo que nos diri-ge a hacer esto o lo otro. Yo creo que Brasil ha demarcado esto porque

267

el pueblo brasileño lo permitió, en un momento creo que va haber uncambió en esta actitud, porque hubo en otras épocas históricas en Brasily también en Paraguay, en todas las partes del mundo. Otro punto sobreel rol del Estado, estoy de acuerdo con el Dr. Ramiro, que yo creo quees muy importante todavía para nuestros países en América Latina por-que el Estado es aún la instancia política ideológica que permite tra-scender intereses mayores de los que activamente controlan la nación,que son los de la burguesía y otros, es una instancia de disputa que seprecisa conocer, después la historia, en Brasil es así: cada vez que se leda poder a las provincias en Brasil los indígenas pierden porque la rela-ción directa, los intereses de los munícipes, de los provincianos de losciudadanos de las ciudades, de los hacendados son tan inmediatas quees más fácil de seducirles para alquilar tierras y perder su identidad.Desde el siglo XIX en Brasil este fue el siglo de pierda de tierras enzonas del Atlántico y la federalización fue la que trajo para sí la pro-blemática indígena y esto lo asume el Estado mayor, es evidente que elEstado tiene una actitud de tutela y de esto que se llama comúnmentede paternalismo, es una actitud que parece imposible de evitar, porquesi el Estado se pone como defensor pues los defendidos requieren quesea el padre el defensor y eso también lo hacen los ciudadanos en gene-ral, y este es un problema del Estado.

268

269

270

STAMPA 3 SNC

00143 Roma - Via del Colle della Strega, 49/51

Tel. / Fax 06.5917592 - E-mail: [email protected]

271

Il Seminario è stato realizzato con il contributo dellaDirezione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del

Ministero degli Affari Esteri d’Italia

Quechua Sureño Guaná Chané Chaná Allentiac Huarpe Northwest Jujuy Millcayac Alyentiyak Huarpe~Warpe Milykayak Mocoví Guaikuruano Lule Mokoví Vilela Lule-VilelaTonocoté~Tonokoté Mataco Matacoano Matako Tehuelche Ona Haush Chon Chorote Matacoano Matako Chulupí Pilagá Toba Guaikuruano Qom Saraveca Paresí Sarave

Saraveka Waimaré Ayoréo Zamucoano Ayoweo~Ayoré Guaraní Boliviano~Bolivian Guaraní Guarayú Tupí -Guaraní Ñañañe Nyanyanye Guarani’ ete KapixanKapishan· Kanoé Wanham Chapacurano Wanyam Abitana-Cumana Kumaná Kabixí Cabishi Habaishi P0arecí s Nambikuara Urupá-Jarú Txapakura Yaru Jaru Torá NorthernChapakúran Katapolí tani-Moriwene-Mapanai Karu Kadawapurí tana Paresí Salumí Waurá-Meinaku Mehinaku Yawalapití Waurá Apuriná Piro Ipuriná Kangite Apuriní Dení

Arahuano Jamamadí Kapaná Juruá Pauiní Mamorí a Cuchudua~Maima Tukurina Kanamantí Jawara Jaruara Banawá Banavá Jafí Paumarí Kurukurú Wayai Zuruahá ArahuanoSuruahá Nad Shuriwai Marahan Kamán Kaburí area Guariba Puináveano Wariva Wariwa Catuquina Katukina Southern Katukinan Dyapá Kanamarí Katawixi

Catuquinana Hewadie Katawishi Arapaso Kaxararí Panoano Kashararí Marubo Nehanawa Paconawa Waninnawa Katukina de Acre Tuxinawa TushinawaNishinawa~Cujareño~Moronawa Parannawa Parãnawa Poyanawa Puí nawa Kuyanawa Xipinawa Shipinawa Karipuna Xaninawa Shaninawa Mura Múran Pirahã Pirahán Bohurá

Yahahi Matanawí Mura-Matanawí an Guachí Guaikuruano Wachí Bororo Coroado Umutina Barbado Krenak Chonvugn Nakrehé Guéren Botocudo Borun RikbaktsáMacro-Je Timbira Kanela Ramkókamekra Krahó Krinkatí Pukobyé Krenjé~Mehí n~Timbira Parakáteye~Kenkatayé~Gavião do Pará Ipewí Kree-akarore Apinayé Apinajé Kayapó

Shikrí ~Dyoré Gorotire~Chukahamãi~Metuktire Suyá Xavante Shavante A’ we Akroá Koroá Acroá Xerente Sherente Akwe Xakriabá Shakriabá Xikriabá~Shikriabá Kaingang XoklengShokleng Aweikoma Guayan´ Ye Wayaná Guanhanan Jeikó Jaikó Kamakã Kamakán Maxakalí Mashakalí Kapoxó~Kaposhó Kumanaxó~Kumanashó PanyameMonoxó~Monoshó Makoní Purí an Fulnió Karnijó Yathé Xambioá Karajá Shambioá Ofayé Macro-Je Otí Baenã Baenán Kukurá Katembrí Mirandela Karirí Kirirí

Tuxá Tushá Pankararú Natú Xukurú Shukurú Ichikile Gamela Umã Wamoé Umán Atikún~Atikum Tarairiú Xokó Shokó Jabutí Kipiu Arikapú Mashubí Jabutí an Koaiá Koayá AikanáKorumbiara Northern Nambikuara Nambikuara Sararé Kabishí Sabané Nambikwára Irantxe Iranshe Münkü Kaingwá Kaiwá~Kayová Tavüterán Xetá Shetá Tupinambá~Colonial Tupí

Tupí austral Southern Tupí Lí ngua Geral Paulista Potiguara Araweté Tapirapé Akuawa Parakaná Akuawa~Asurí Asuriní do Tocantins Avá Tenetehara Tembé GuajajaraAmanayé Amanayé Anambé Guajá Urubú-Kaapor Karipuna Kayabí Parua Asuriní Asuriní do Xingo Parintintí n Tenharin Kagwahiv Uruewauwau Makirí Apiaká Kamayurá Jo’ é

Tupí -Guaraní Awetí Mawé-Sateré Mundurukú Kuruaya Juruna Xipaya Shipaya Manitsawá Tupiano Arikem Ariquemes Karitiana Kabixiana Kabishiana Tuparí Amniapé Mekë WayoróAjurú Apichum Makurap Kepkiriwat Ramarama-Urumí Ramarama Urumí Arara-Urukú Arara do Jiparaná Itogapuk Itogap Mondé-Sanamai Mondé Sanamai~Salamãi

Suruí Suruí do Jiparaná Paiter Aruá Aruáshi Puruborá Salumá Caribano Kaxuyana Kashuyana Pauxi Pawishi Kahuyana Warikyana Hixkaryana Hishkariana Waiboi Faruwaru BoanaríYawaperí Atroarí ~Atroahí Waimirí Krishaná Sapará Pawixiana Pawishiana Paravilhana Paravilyana Arakajú Apalaí Aparaí Wajumará Bakairí Kura Kalapalo

Amonap Upper Xingú Kariban Arara-Parirí Arará do Pará Apiaká-Apingi Juma Yarumá Txikão Chikaon Palmela Pimenteira Panare E’ nyapa Guató Macro-Je Terena Tereno KinikanaoEtelena Tariana Arahuacano Taliáseri Yavi Hupda Puináveano Ubde Yahup Tikié Papurí Guanana-Pirá Kótiria Waí kena Wanana Pirá Piratapuyo Yurí Yurí -Ticuna

Jurí Ipeka-Kurripako Karu Curripaco Karupaka Payuáliene Yawareté Onhon Enhen Kadawapurí tana Ipeka-Pakú Karútana-Baniwa Karru Adzáneni~Tatú Máulieni~KawaKadawapurí tana Karútana Baniwa-Hohódene-Siusí Jeral Yeral Nye’ engatú~Nhengatu Lí ngua Geral Amazónica Palikur Arahuacano Auka yene Taruma Waiwai Caribano KatawianaParukotó Wapishana Wapixána Atoraí Aruma Amariba Maopidyán Mawakua Shikuyana Caribano Makuxí Makushí Macushí Teweya Piro Chontaquiro~Chontakiro Culina Arahuano

Madihá Kulina Amahuaca Amawaka Cashinahua Kashinawa Kaxinawa Caduveo Guaikuruano Kadiwéu Guaicurú Waikurú Mbü’ a Ahuaqué Kalianano Uruak AwakéAoaquí Arutani Macu Maku Nanomam Central Yanomaman Surara Patimitheri Yanomam~Naomam~Warema Yanomai~Tootobi Nanoman~Karimé Yanomam Yanoam

Yanomam Yanam-Ninam Yanomamano Eastern Yanomaman Yanam~Northern Ninam~Southern Jawarib Mapudungu Mapuche Araucano~Araukano Huilliche~Wilyiche CacuaPuináveano Kakua Vaupés Macú-Paraná Kerarí ~Bará Cubeo P?mí w? Kubewa Kobewa Hehénawa Desana-Siriana Winá Desano Suriana Bará-Tuyuca Teyuka Tuyuka Wantya Carapaná

Tucanoano Karapaná Mehtá~Möxdöa Meneka Huitótoano Southern Huitoto Kapong Caribano Kapon Macá Matacoano Maká Payaguá Guaikuruano Payawá Mascoy MascoyanoMaskoi Machikuy~Machikui Abipón Guaikuruano Callaga Kalyaga Inapari Inamarí Kushitineri~Cushitineri Kuniba~Cuniba Sharanawa Sharanahua Mastanahua Majoruna-Matsé’ sPanoano Majoruna Mayoruna Cocama-Cocamilla Kokoma-Kokamilya Kaskihá Guaná~Waná Sanapaná Sanapaná Lanapsua Enenlhit Lengua Mascoyano Angaité Southern~Kokoloth

Chamacoco Zamucoano Chamakoko Ebitoso~Ebidoso Pãi~Pany Guaraní Paraguayano~Paraguayan Guaraní Avanya’ e Jopará Tapieté~Nyanaigua Guayaquí Tupí -GuaraníGuayakí Aché Chiripá-Nyandeva Ñandeva Nhandeva Chiripá Nyandeva Tiriyó Pianakoto Wayana Urukuyana Upuruí Chaná Charrúa Charruano Güenoa Wenoa Mandahuaca

Guarequena Mandawaka Baré Arahuacano Balé Ihini Caliana Kalianano Kaliana Sapé Kariana Purukotó Maquiritare Caribano Makiritare Ye’ kuana Du’ kuana Sanemá YanomamanoGuarequena Guarequena Walékhena Warekena Pemong Pemón Taurepã Taulipang Tuarepang Kamarakotó Arekuna~Pemong Kari’ nya Caribe Galibí