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La storia Gli autori e le opere Il-romanzo-italiano-- tra Ottocento e Novecento PREREQUISITI -- Conoscere e saper usare i principali strumenti di analisi di un testo in prosa Saper individuare i principali termini di un testo in prosa OBIETTIVI Conoscenze I caratteri del romanzo italiano tra Ottocento e Novecento Gli autori e le opere più rappresentative 1880 1890 1889 Viene fondata la Seconda internazionale 1881 Esce Malombra di Antonio Fogazzaro 1886 Matilde Serao pubblica Telegrafi dello Stato 1889 Gabriele D’Annunzio pubblica Il piacere Giovanni Verga pubblica Mastro-don Gesualdo 1892 Nasce il Partito socialista italiano Primo governo Giolitti 1898 Strage di Bava Beccaris a Milano 1890 Matilde Serao pubblica Il paese di cuccagna Emilio De Marchi pubblica Demetrio Pianelli 1895 Antonio Fogazzaro pubblica Piccolo mondo antico - 1 1900 1900 Umberto I viene assassinato; gli succede Vittorio Emanuele III 1903 Grazia Deledda pubblica Elias Portolu 1904 Luigi Pirandello pubblica Il fu Mattia Pascal 1906 Sibilla Aleramo scrive Una donna Unità

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Page 1: 1 Da Roma capitale Unità Ilromanzoitaliano · 2014. 1. 23. · Di scarso rilievo è il romanzo Mafarka il futurista (1910) di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944; vedi U.9), il

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sezione­1 Da Roma capitale al primo dopoguerra

© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà - Letteratura+

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ope

re

Il­romanzo­italiano­­tra Ottocento e Novecento

PREREQUISITI

­­Conoscere e saper usare i principali strumenti di analisi di un testo in prosa Saper individuare i principali termini di un testo in prosa

OBIETTIVI

Conoscenze I caratteri del romanzo italiano tra Ottocento e Novecento Gli autori e le opere più rappresentative

1880 1890

1889Viene fondata la Seconda internazionale

1881Esce Malombra di Antonio Fogazzaro1886Matilde Serao pubblica TelegrafidelloStato 1889Gabriele D’Annunzio pubblica IlpiacereGiovanni Verga pubblica Mastro-donGesualdo

1892Nasce il Partito socialista italianoPrimo governo Giolitti1898Strage di Bava Beccaris a Milano

1890Matilde Serao pubblica Ilpaesedicuccagna Emilio De Marchi pubblica DemetrioPianelli 1895Antonio Fogazzaro pubblica Piccolomondoantico

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1900

1900Umberto I viene assassinato; gli succede Vittorio Emanuele III

1903Grazia Deledda pubblica EliasPortolu 1904Luigi Pirandello pubblica IlfuMattiaPascal1906Sibilla Aleramo scriveUnadonna

Unità

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Il­romanzo­italianotra Ottocento e Novecento

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Competenze­ Comprendere e analizzare un testo in prosa Riconoscere le caratteristiche e le tematiche del romanzo italiano tra Ottocento e Novecento Riconoscere le scelte e stilistiche di ogni autore e ricondurle ai caratteri di genere Cogliere differenze e analogie tra autori e opere

1910 1920

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1912L’Italia conquista la Libia1914A Sarajevo l’arciduca Ferdinando viene assassinato: inizia la prima guerra mondiale1918Termina la prima guerra mondiale

1913Esce Cannealvento di Grazia Deledda1919Federigo Tozzi pubblica Congliocchichiusi

1923Esce LacoscienzadiZenodi Italo Svevo1926Grazia Deledda vince il premio Nobel per la letteratura Luigi Pirandello pubblica Uno,nessunoecentomila

1920Hitler fonda il Partito nazista1921Nascono il Partito comunista italiano e il Partito fascista1925Inizia la dittatura fascista in Italia1929Crollo della Borsa di Wall Street in Usa

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Verso il romanzo moderno

Tra­Verismo­e­Decadentismo­Compresenza­di­diverse­tendenze

Lo scenario della narrativa italiana della fine dell’Ottocento è caratterizzato da espe-rienze eterogenee. Negli stessi anni in cui Verga (vedi U.2) pubblicava I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1889), la poetica del Verismo influenzò molti autori, seppur con esiti diversi. Molti narratori, tuttavia, proprio in opposizione alla pretesa di rappresentare la complessità del reale secondo i modelli del Naturalismo e del Verismo, sentirono il bisogno di aprirsi a suggestioni di altre tendenze dominanti all’epoca, in particolar modo quella decadente, rappresentata in Italia dal romanzo estetizzante di D’Annunzio (vedi U.6) Il piacere (1889).

Questo momento di transizione preluderà al graduale superamento dei canoni natura-listi che avevano orientato il romanzo della seconda metà dell’Ottocento e porterà, agli inizi del Novecento, alle decisive innovazioni che caratterizzeranno il romanzo moder-no, con autori come Italo Svevo (vedi U.10) e Luigi Pirandello (vedi U.11).

Grazia­Deledda Un esempio emblematico di questa fase di passaggio è rappresentato dall’opera di Grazia Deledda (1871-1936; vedi Aula digitale), nella cui produzione sono ugualmente presenti le influenze del Verismo e del Decadentismo. Le prime raccolte di novelle e il primo romanzo, La via del male (1896), sembrano legati alla poetica verista e rendono testimonianza di una civiltà e di una cultura pressoché ignorate, descrivendo il mondo rurale e pastorale della Sardegna. Tuttavia nei suoi romanzi più importanti, Elias Portolu (1903) e Canne al vento (1913), incentrati sul tema del peccato e dell’espiazione, notevole è l’affinità con la narrativa decadente, soprattutto per i contenuti legati a vicen-de d’amore, di dolore e di morte, e per la percezione di una fatalità incombente sulle vicende umane. La Sardegna, ritratta dapprima secondo canoni naturalistici, viene ora quasi mitizzata nelle sue tradizioni e nelle passioni dei personaggi.

Matilde­Serao­e­l’ambiente­sociale

Matilde Serao (1856-1927; vedi Aula digitale), giornalista e autrice di novelle e roman-zi, aderì al Verismo nel periodo tra il 1880 e il 1909. In questa fase compose due raccon-ti lunghi (pubblicati entrambi nel 1886) che si ricollegano a esperienze autobiografiche e si possono definire studi di ambiente: Scuola normale femminile e Telegrafi di Stato (vedi Aula digitale). Quest’ultimo narra la vita di un gruppo di giovani impiegate ai Telegrafi di Stato a Napoli: a differenza della narrativa verista che ritraeva personaggi della società contadina del Meridione, la Serao scelse di descrivere dettagliatamente le condizioni del lavoro impiegatizio, esempio che seguirà anche Emilio De Marchi (1851-1901) in Demetrio Pianelli (1890), la storia di un modesto impiegato che sacrifica la propria vita per aiutare la famiglia del fratello.

Un aspetto rilevante nell’analisi della realtà condotta dalla Serao è comunque la sua angolazione regionalistica, benché priva delle frequenti incursioni nel linguaggio dialet-tale, tipiche di altri narratori del tempo. Questi tratti sono evidenti nel romanzo Il paese di cuccagna (1890; vedi Aula digitale), che illustra la “passione smodata” dei napoletani per il gioco del lotto e che trae origine da un’importante inchiesta giornalistica condotta dall’autrice a Napoli.

Antonio­Fogazzaro­­e­il­misticismo

Tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento nel panorama narrativo italiano si impongono la produzione narrativa di gusto estetizzante di D’Annunzio, e i romanzi pervasi di spiritualismo mescolato a una inquieta sensualità in cui si esprime l’arte di Antonio Fogazzaro (1841-1911). I protagonisti dei suoi romanzi erano cari al grande pubblico borghese, che vi si identificava nelle aspirazioni e negli ideali, nelle situazioni di dubbio, di passione, di tormento spirituale vissuti da personaggi ambigui, malati di

Il­romanzo­italianotra Ottocento e Novecento

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volontà, profondamente macerati in un conflitto tra misticismo ed erotismo, tra senti-mento religioso e le istanze del pensiero “moderno”. Il suo capolavoro è considerato Piccolo mondo antico (1895; vedi Aula digitale), ma forse la sua opera più originale è Malombra (1881), romanzo la cui protagonista, Marina, è una creatura stravagante e psichicamente instabile, mentre il suo amante, Corrado Silla, è un uomo senza equilibrio che, oscillando continuamente tra idealità e sensualità, non sa vivere. Nella loro tragica vicenda, proiettata verso il mistero e il sogno, si avvertono i primi segni di una sensibi-lità decadente.

Nel dibattito letterario emergevano anche le istanze del Futurismo (vedi U.9), un movi-mento d’avanguardia dei primi anni del Novecento che, pur rivestendo un ruolo impor-tante nel rinnovamento artistico e poetico, non ebbe una grossa incidenza sul romanzo (il manifesto futurista sul “romanzo sintentico” fece la sua apparizione solo nel 1939). Di scarso rilievo è il romanzo Mafarka il futurista (1910) di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944; vedi U.9), il teorico del gruppo. Ben più stravagante e originale appare l’im-pianto narrativo del Codice di Perelà (1911) di Aldo Palazzeschi (1885-1974; vedi U.7), un romanzo allegorico e farsesco ma anche malinconico, sull’impossibile missione redentrice dell’umanità da parte dell’«omino di fumo» (un personaggio dalle valenze cristologiche).

Sibilla­Aleramo:­una­scrittrice­controcorrente

Un caso a parte è costituito dal romanzo Una donna (1906) di Sibilla Aleramo (1876-1960; vedi Aula digitale), che trae ispirazione dall’esperienza autobiografica dell’autri-ce. La vicenda sentimentale, su cui è incentrata la storia, diventa un espediente per affrontare tematiche dolorose e profonde. È infatti la storia dell’infelice matrimonio della scrittrice con l’uomo che l’aveva violentata e testimonia il tentativo compiuto da parte delle donne, in questo periodo storico, di intraprendere il faticoso processo di emancipazione dall’uomo tutore, protettore e, in molti casi, marito-padrone.

­Il­romanzo­della­crisi­in­ItaliaIl­romanzo­moderno

L’apertura decisiva verso la modernità novecentesca avvenne in Italia per iniziativa di alcuni intellettuali che vivevano i fermenti della crisi, rilevanti soprattutto tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, in modo talora poco appariscente e isolato, non dissimile dagli altri grandi autori del romanzo europeo.

Tre sono i nomi significativi: Italo Svevo (1861-1928; vedi U.10), Luigi Pirandello (1867-1963; vedi U.11) e Federigo Tozzi (1883-1920; vedi sotto), tutti e tre accomunati dal proposito di scrutare con occhio indagatore la crisi dell’individuo nella società, utilizzando una scrittura semplice e un linguaggio piano e improntato alla quotidianità, lontano dai toni aulici e retorici che avevano segnato la produzione dannunziana.

Svevo­­e­Pirandello

I romanzi di Italo Svevo si concentrano sul tema del disagio psicologico dell’uomo del primo Novecento. I protagonisti delle sue opere, tutte ambientate a Trieste, sono figure di inetti e diventano proiezione delle incertezze dell’autore, del suo senso di inadegua-tezza, della sua incapacità di agire secondo le convenzioni sociali, e la logica comune. L’opera in cui l’indagine interiore viene condotta con maggiore approfondimento è La coscienza di Zeno (1923; vedi il Manuale, p. 452), una sorta di autobiografia del pro-tagonista, la quale procede non secondo un disegno organico, ma attraverso il racconto di occasioni e situazioni della sua vita.

Nel processo di evoluzione del romanzo, Luigi Pirandello rappresenta una figura di transizione. Dall’apprendistato naturalistico egli prese spunto per approdare a una razionalità analitica: con gli strumenti della ragione e della psicologia si propose di indagare la crisi della società e dell’uomo contemporanei. Pirandello scrisse romanzi (Il

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fu Mattia Pascal, 1904; Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1915; Uno, nessuno e cen-tomila, 1926) dalle strutture solo apparentemente tradizionali, giungendo a disgregare l’immagine unitaria della realtà, tipicamente ottocentesca, attraverso una molteplicità di apparenze, in mezzo alle quali l’uomo vive solo e dissociato, sconosciuto anche a se stesso.

Tozzi,­indagatore­dell’interiorità

L’opera del senese Federigo Tozzi (vedi Aula digitale), all’apparenza ancora legata al Verismo, si rivela in realtà, sul piano tematico, estremamente vicina alla narrativa europea contemporanea. Formatosi da autodidatta sui classici italiani e sulla letteratu-ra realista dell’Ottocento, soprattutto russa, Tozzi ambientò i suoi romanzi nello scena-rio a lui ben noto della campagna toscana, adottando un linguaggio ricco di forme popolari e dialettali. L’ambientazione regionalistica, tuttavia, non dà luogo a un’in-dagine sociale di stampo verista: al centro dei romanzi più significativi del narratore senese – Con gli occhi chiusi (1919), Tre croci (1920, postumo) – vi sono i temi dell’inet-titudine e del conflitto tra l’individuo e la famiglia. La narrazione, che in apparenza osserva il canone ottocentesco dell’impersonalità, si concentra sull’interiorità dei per-sonaggi, sui loro turbamenti e sulle loro ossessioni. Ne esce una realtà riprodotta attra-verso il filtro deformato della coscienza che fa affiorare la regione oscura dell’irrazio-nalità e dell’inconscio.

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Principali centri di diffusione del romanzo italiano tra Ottocento e Novecento

GEOGRAFIA DELLA LETTERATURA

Tenendo conto di quanto spiegato nelle pagine precedenti, osserva la carta e rispondi alle seguenti domande.

1. Quali tra le opere citate ritraggono il mondo rurale e pastorale della Sardegna? A chi appartengono?

2. Chi è e a quale area geografica appartiene l’autore di romanzi pervasi di misticismo?

3. In quale genere di romanzo è al centro la figura dell’inetto?

Firenze

Roma

Milano Vicenza Trieste

Pescara

Napoli

Nuoro

Agrigento

­ ­AREA­SETTENTRIONALE

Tra Verismo e Decadentismo• E. De Marchi (Demetrio Pianelli, 1890)• A. Fogazzaro (Malombra, 1881; Piccolo

mondo antico, 1895)Romanzo futurista• F.T. Marinetti (Mafarka il futurista,

1910)Romanzo della crisi• I. Svevo (La coscienza di Zeno, 1923)

­ ­AREA­MERIDIONALE

Tra Verismo e Decadentismo• G. Deledda (La via del male, 1896; Elias Portolu, 1903; Canne

al vento, 1913)• M. Serao (Scuola normale femminile, 1886; Telegrafi di stato,

1886; Il paese della Cuccagna, 1890)Romanzo della crisi• L. Pirandello (Il fu Mattia Pascal, 1904; Quaderni di Serafino

Gubbio operatore, 1915; Uno, nessuno e centomila, 1926)

­ ­AREA­CENTRALE

Romanzo futurista• A. Palazzeschi (Il codice di Perelà, 1911)Romanzo autobiografico• S. Aleramo (Una donna, 1906)Romanzo estetizzante• G. D’Annunzio (Il piacere, 1889)Romanzo della crisi• F. Tozzi (Con gli occhi chiusi, 1919; Tre

croci, 1920)

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Autore­e­opera­ Testo­ Contenuti

Percorso antologico

Grazia­DeleddaCannealvento(1913)

Una morte in solitudine • Le tradizioni popolari• Il rapporto servo-padrone nella società agricola della

Sardegna

Matilde­SeraoTelegrafidelloStato(1885)

Vita da ufficio • Il lavoro femminile• L’alienazione causata da un lavoro ripetitivo

Ilpaesedicuccagna(1890)

La mania del lotto • Affresco di vita napoletana e dei suoi personaggi tipici• La passione per il gioco

Antonio­FogazzarroPiccolomondoantico(1895)

La morte di Ombretta • L’annegamento di Ombretta• I vani tentativi del medico di rianimarla

Federigo­TozziCongliocchichiusi(1919)

La realtà svelata • Pietro scopre l’inganno di Ghìsola

Sibilla­AleramoUnadonna(1906)

Lo scandalo • Il sospetto del tradimento• La violenza del marito• Il tentato suicidio

AUTOVALUTAZIONE

­Ecco­alcune­domande­campione­su­cui­potrai­esercitarti­per­valutare­la­tua­preparazione.Per­ogni­domanda­è­indicato­il­riferimento­al­profilo,­che­puoi­consultare­nel­caso­tu­debba­sciogliere­eventuali­dubbi­prima­di­fornire­la­risposta.

Tra­Verismo­e­Decadentismo­

1. Quali differenti tendenze furono presenti nella narrativa italiana di fine Ottocento?

2. Perché l’opera di Grazia Deledda è un esempio emblematico di questa fase della letteratura italiana?

3. Quali sono le opere principali di carattere verista di Matilde Serao e quali temi vi sono trattati?

4. Come sono delineati i personaggi da Antonio Fogazzaro? Quale nuova sensibilità è presente nella sua produzione?

5. Quali sono le opere più importanti di Fogazzaro?

6. Qual è il contenuto del romanzo Unadonna di Sibilla Aleramo? Quale la sua importanza?

Il­romanzo­della­crisi­in­Italia

7. Quali temi tratta Svevo nei suoi romanzi? Qual è la caratteristica princi-pale dei suoi protagonisti?

8. Qual è il capolavoro di Svevo?

9. I romanzi di Pirandello presentano strutture solo apparentemente tradi-zionali; quali sono in realtà i loro tratti peculiari?

10. L’ambientazione regionalistica dei romanzi di Tozzi dà a luogo a un’in-dagine sociale di stampo verista? Per quali motivi?

11. La narrazione di Tozzi che in apparenza segue il canone ottocentesco dell’impersonalità, si discosta in realtà dal modello verista: perché?

vai­a­p.­3­al­capoverso­­Compresenza di diverse tendenze

­vai­a­p.­3­al­capoverso­­Grazia Deledda

­vai­a­p.­3­al­capoverso­­Matilde Serao e l’ambiente sociale

­vai­a­p.­4­al­capoverso­­Antonio Fogazzaro e il misticismo

­vai­a­p.­5­al­capoverso­­Svevo e Pirandello

­vai­a­p.­5­al­capoverso­­Tozzi, indagatore dell’interiorità

­vai­a­p.­4­al­capoverso­­Sibilla Aleramo: una scrittrice controcorrente

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sezione­1 Da Roma capitale al primo dopoguerra

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Grazia­Deledda

La­vita­e­le­opere

Grazia Deledda nacque a Nuoro nel 1871 da una famiglia agiata. Interrotti gli studi fin dalle scuole elementari, fu un’autodidatta e mosse i primi passi nel mondo letterario a diciassette anni, con il racconto Sangue sardo. Del 1892 è Fior di Sardegna, che ottenne qualche recensione favorevole. Dal 1894 al 1895 si interessò di et-nologia (la scienza che studia i sistemi culturali dei popoli), pubblicando a puntate su una rivi-sta specializzata Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna; sempre in quegli anni pubblicò Anime oneste (1895) e La via del male (1896). Il 1900 fu un anno particolarmente importante, per diver-si motivi per la Deledda: si sposò con Palmiro

Madesani, un funzionario del Ministero delle Fi-nanze, e si trasferì a Roma, dove pubblicò Elias Portolu (1903). Nel 1904 uscì Cenere, da cui ven-ne tratto un film interpretato da Eleonora Duse (1916) cui seguirono Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913) e La madre (1920). Il 10 settembre 1926 le fu assegnato il premio Nobel per la letteratura, tuttora l’unico attribuito a una scrittrice italiana. L’ultimo romanzo pubblicato in vita, l’anno stesso della sua morte, è La Chiesa della solitudine (1936), mentre l’anno dopo uscì postumo Cosima, quasi Grazia, di ispirazione autobiografica (il nome della Deledda, in realtà, era Grazia Cosima).

Canne al vento (1913)

La­ trama­ e­ il­ significato­ dell’opera­ ­ Canne al vento è un romanzo imperniato sulla figura del vecchio servo Efix, devoto alle sue padrone (le sorelle Ruth, Noemi ed Ester Pintor), discen-denti di una famiglia potente e facoltosa, ma ora decaduta; egli coltiva l’unico podere rimasto di proprietà delle sorelle, che vivono del raccolto. Ma la vita di Efix è condizionata da un segreto: una quarta sorella, Lia, era fuggita dalla casa pa-terna per sottrarsi alla segregazione cui il padre condannava le figlie. Il padre aveva cercato di fer-mare Lia, ma Efix, probabilmente innamorato di lei, l’aveva aiutata contrastando il padrone che, nella colluttazione, era rimasto ucciso accidental-mente. Nessuno conosce questo segreto, tuttavia Efix si sente responsabile della morte del padrone e, di conseguenza, ne protegge in tutti i modi le figlie. All’inizio del romanzo, Giacinto, figlio di Lia, ormai morta, si presenta nella casa delle zie. Il giovane, conducendo una vita dissoluta, porta alla rovina le zie che si vedono costrette a ven-dere il loro podere a Don Predu, un ricco cugino respinto da Noemi (attratta, invece, dal nipote Giacinto). Il servo Efix si crede responsabile di una maledizione che regna sulla casa, perciò si allontana dal paese. Giacinto sposa infine Grixen-da, figlia di una serva, e Noemi accetta di sposare Don Predu. Finalmente Efix può trovare la pace:

muore il giorno delle nozze di Noemi, dopo aver confessato il suo segreto al prete.Il titolo Canne al vento simboleggia la precarietà della vita umana, come dice Efix a Ester: «Sia-mo canne, e la sorte è il vento»; e alla domanda del perché del destino, Efix aggiunge: «E il vento, perché? Dio solo lo sa».

Il­contenuto­folclorico­­Con Canne al vento l’au-trice è riuscita a dare risalto alla componente più cupa, e al contempo irrazionale, dell’animo uma-no. Anche le descrizioni dei paesaggi selvaggi e pittoreschi della campagna sarda fanno emergere gli aspetti più istintivi della sensibilità della De-ledda, quando racconta le leggende locali che parlano di luoghi popolati da spiriti, come le pa-nas (gli spiriti delle donne morte di parto) che si ritrovano a lavare i panni nel fiume e si fanno sen-tire con il loro battere i panni, dall’ammattadore, un folletto che nei suoi sette berretti conserva un tesoro, da nani e janas, fate che vivono in case di roccia nelle quali tessono stoffe d’oro. Queste leg-gende contribuiscono a dare un’immagine quasi mitica della Sardegna più primitiva.

La­ poetica­ ­Considerata da molti una scrittri-ce verista per l’ambientazione dei suoi romanzi, popolati da personaggi umili e nobili, la Deledda

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Il­romanzo­italianotra Ottocento e Novecento

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tuttavia è difficilmente riconducibile a una cor-rente precisa. Sicuramente la sua narrativa risen-te di un influsso verista, ma la sua specificità regionale la rende unica, nelle descrizioni delle feste locali in cui si mescolano sacro e profano, nella conoscenza del folclore e delle sue tradi-

zioni, nell’uso della lingua che, spesso, si avvale del sardo. Attraverso le sue opere scopriamo un mondo arcaico pieno di regole non scritte, in cui sopravvivono valori e comportamenti che fanno parte di un codice fortemente radicato nella po-polazione.

Efix avverte il presentimento che è arrivata la sua ora e, in qualche modo, si sente adesso libero di morire: Noemi si sposerà e aiuterà economicamen-te la sorella Ester.Il vecchio servo non ha più il dovere di proteggere le

padrone, eppure è ancora legato alla vita dal senso di colpa per l’uccisione del padrone; quando ne av-vertirà il peso insostenibile, chiederà di confessarsi. Il giorno del matrimonio di Noemi, Efix, che ha de-dicato l’intera vita alle sorelle Pintor, morirà solo.

Una morte in solitudine(canne al vento, cap. 17)

CONTENUTI Le tradizioni popolari Il rapporto servo-padrone nella società agricola della Sardegna

Efix era di nuovo laggiù, al poderetto. Terminata la buona stagione, raccolte le frutta, Zuannantoni1, a cui il padrone aveva dato l’incarico di pascolare un branco di pecore nelle giuncaie2 intorno al paesetto, se n’era andato di buon grado.

Ed ecco dunque Efix di nuovo seduto al solito posto davanti alla capan-na, sotto il ciglione glauco di canne3. Il cielo è rosso, in alto sopra la collina bianca; passa il vento e le canne tremano e bisbigliano.

«Efix rammenti, Efix rammenti? Sei andato, sei tornato, sei di nuovo in mezzo a noi come uno della nostra famiglia4. Chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi ma si piegherà domani e posdomani5 si spezzerà. Efix rammen-ti, Efix rammenti?».

Egli intrecciava una stuoia e pregava. Di tanto in tanto un acuto dolore al fianco lo faceva balzare dritto, rigido come se qualcuno gli infilasse un palo di ferro nelle reni; si ripiegava di nuovo su se stesso, livido e tremante, proprio come una canna al vento; ma dopo lo spasimo provava una gran debolezza, una grave dolcezza, perché sperava di morire presto. La sua gior-nata era finita.

Finché poté resistere rimase laggiù accanto alla terra che aveva succhiato tutta la sua forza e tutte le sue lagrime.

5

10

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1.­Zuannantoni: un ragazzo che aiuta Efix nei lavori.2.­ giuncaie: luoghi dove cre-scono i giunchi, piante erbacee tipiche delle zone paludose;

vengono usate anche per fare le stuoie.3.­ciglione...­canne: Efix vive in una capanna che ha il tetto fatto di canne e giunchi. Qui, sta sot-

to una specie di rudimentale tettoia di color glauco (il termi-ne «glauco» è usato sia per de-finire l’azzurro sia una tonalità di grigio-azzurro tendente al

verdastro).4.­Sei­andato...­famiglia: in pre-cedenza, Efix era fuggito per motivi legati alla famiglia Pintor.5.­posdomani: dopodomani.

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L’autunno s’inoltrava coi giorni dolci di ottobre, coi primi freddi di no-vembre; le montagne davanti e in fondo alla valle parevano vulcani; nuvole di fumo solcate da pallide fiamme e poi getti di lava azzurrognola e colonne di fuoco salivano laggiù dal mare.

Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava a blocchi, a cataste sull’orizzonte; operai invisibili lo lavora-vano, costruivano case, edifizi, intere città, e subito dopo le distruggevano e rovine e rovine biancheggiavano allora nel crepuscolo, coperte di erbe dora-te, di cespugli rosei; passavano torme di cavalli grigi e neri, un punto giallo brillava dietro un castello smantellato e pareva il fuoco di un eremita o di un bandito rifugiatosi lassù: era la luna che spuntava.

Piano piano la sua luce illuminava tutto il paesaggio misterioso e come al tocco di un dito magico tutto spariva; un lago azzurro inondava l’orizzonte, la notte d’autunno limpida e fredda, con grandi stelle nel cielo e fuochi lontani sulla terra, stendevasi6 dai monti al mare. Nel silenzio il torrente palpitava come il sangue della valle addormentata. Ed Efix sentiva avvicinarsi la morte, piano piano, come salisse tacita dal sentiero accompagnata da un corteggio7 di spiriti erranti, dal batter dei panni delle panas8 giù al fiume, dal lieve svolaz-zare delle anime innocenti tramutate in foglie, in fiori...

Una notte stava assopito nella capanna quando si svegliò di soprassalto come se qualcuno lo scuotesse.

Gli parve che un essere misterioso gli piombasse sopra, frugandogli le viscere con un coltello: e che tutto il sangue gli sgorgasse dal corpo lacerato, inondando la stuoia, bagnandogli i capelli, il viso, le mani.

Cominciò a gridare come se lo uccidessero davvero, ma nella notte solo il mormorio dell’acqua rispondeva.

Allora ebbe paura e pensò di tornarsene in paese; ma per lunga ora della notte non poté muoversi, debole, come dissanguato: un sudore mortale gli bagnava tutta la persona.

All’alba si mosse. Addio, questa volta partiva davvero e mise tutto in or-dine dentro la capanna: gli arnesi agricoli in fondo, la stuoia arrotolata ac-canto, la pentola capovolta sull’asse, il fascio di giunchi nell’angolo, il foco-lare scopato: tutto in ordine, come il buon servo che se ne va e tiene al giu-dizio favorevole di chi deve sostituirlo.

Portò via la bisaccia, colse un gelsomino dalla siepe e si volse in giro a guardare: e tutta la valle gli parve bianca e dolce come il gelsomino.

E tutto era silenzio: i fantasmi s’erano ritirati dietro il velo dell’alba e anche l’acqua mormorava più lieve come per lasciar meglio risonare il passo di Efix giù per il sentiero; solo le foglie delle canne si movevano sopra il ci-glione, dritte rigide come spade che s’arrotolavano sul metallo del cielo.

«Efix, addio, Efix, addio».Ritornò dalle sue padrone e si coricò sulla stuoia.«Hai fatto bene a venir qui» disse donna Ester coprendolo con un panno;

e Noemi9 si curvò anche lei, gli tastò il polso, gli afferrò il braccio cercando di convincerlo a mettersi a letto10.

«Mi lasci qui, donna Noemi mia» egli gemeva sorridendo ma con gli oc-chi vaghi come quelli del cieco, coperti già dal velo della morte.

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6.­stendevasi: si stendeva.7.­corteggio: corteo.8.­panas: nelle tradizioni popo-lari sarde, le panassono gli spi-riti delle donne morte di parto;

essi lavano i panni al fiume.9.­ Ester...­ Noemi: sono due delle sorelle Pintor (Ruth, la terza, a questo punto del ro-manzo è morta). Noemi sta

per sposarsi con un cugino, Don Predu.10.­cercando...­mettersi­a­letto: Efix ha sempre dormito su una stuoia; mettersi a letto gli sem-

bra una cosa non adatta alla sua condizione, un lusso che un servo non può conce dersi.

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«Questo è il mio posto».Più tardi un nuovo accesso del male lo contorse, lo annerì; e mentre le

padrone mandavano a chiamare il dottore egli cominciò a delirare.La cucina si empiva di fantasmi, e l’essere terribile che non cessava di

colpirlo gli gridò all’orecchio:«Confessati! Confessati!».Anche donna Ester si inginocchiò davanti alla stuoia mormorando:«Efix, anima mia, vuoi che chiamiamo prete Paskale? Ti leggerà il Vange-

lo e questo ti solleverà…».Ma Efix la guardava fisso, con gli occhi vitrei nel viso nero brillante di

gocce di sudore; il terrore della fine lo soffocava, aveva paura che l’anima gli sfuggisse d’improvviso dal corpo, come era fuggito lui dalla casa dei suoi padroni, e, scacciata dal mondo dei giusti si mettesse a vagabondare inquie-ta e dannata coi fantasmi della valle; eppure rispose di no, di no. Non voleva il prete: più che della morte e della sua dannazione aveva paura di rivelare il suo segreto.

In seguito Efix si confessa, poiché capisce che è il peso del suo segreto a tenerlo in vita. Il suo male avanza e i deliri sono sempre più frequenti, ma c’è ancora un avvenimento che deve compiersi, prima che egli si stacchi dalla vita: il matrimonio di Noemi con il ricco cugino Don Predu. Il fedele servo vuole assicurarsi che Noemi si sposi e, in questo modo, renda più facile la vita a se stessa e alla sorella. Arriva il giorno tanto atteso.

[...] Gli pareva di tenersi aggrappato all’orlo del panno per non cadere di là11; e di vedere dall’alto del muricciolo lo spettacolo del mondo.

Ed ecco Don Predu e i parenti arrivano per portar via la sposa12: entrano, si dispongono intorno nella cucina come le figure di un sogno, confusamen-te, ma con rilievi strani di particolari. [...]

Donna Ester, con lo scialle sciolto un po’ svolazzante sulle spalle, dispone il corteo: prima i bambini coi ceri alti in mano; poi la sposa con la parente; poi lo sposo coi parenti; in coda i pochi invitati; il Milese13 in ultimo pareva ridersi di tutti silenziosamente.

«Adesso mi lasciano solo» pensa Efix con un poco di amarezza. «Solo. E son io che ho fatto tutto!14».

Sulla porta Noemi si volse a fargli un cenno di addio con la croce d’oro15. Addio. Ed egli, come già per Giacinto, ebbe l’impressione che fosse lei a morire.

Uscivano tutti, se ne andavano: donna Ester si curvò su lui, parve coprir-lo con le sue ali nere.

«Torno presto, io, appena li avrò accompagnati: bisogna che vada; sta’ quieto, fermo fermo».

Sì, egli stava fermo al suo posto; fermo e solo. S’udiva la fisarmonica che Zuannantoni suonava in onore degli sposi, ed egli ricominciò a ricordare tante cose: il rumore del Molino, su a Nuoro, le nuvole sopra monte Gonare, il fruscio delle canne sul ciglione...

«Efix, rammenti? Efix, rammenti?».Com’era diventata grande la cucina! Scura e tiepida, coi muri lontani,

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11.­per­non­cadere­di­là: nel suo delirio, Efix si pensa seduto su un muricciolo.12.­la­sposa: è Noemi che sposa

il ricco cugino Don Predu.13.­il­Milese: il padrone dell’em-porio del paese.14.­E­son­io...­tutto!: Efix è con-

sapevole di aver sempre tutela-to, protetto e favorito le sue pa-drone, ma non si sente ricam-biato.

15.­croce­d’oro: è il regalo di ma-trimonio, fattole da Don Predu, un gioiello di famiglia.

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con sfondi misteriosi come una tanca16 di notte. L’usignuolo cantava, il cie-co17 raccontava la storia del palazzo d’oro del Re Salomone.

«... tutto era d’oro, come nel mondo della verità; tutto era puro, lucente. Melagrane d’oro, vasi d’oro, stuoie d’oro...».

Ed egli vedeva la casa di Don Predu, coi melagrani carichi di frutta, i palmizi, le stuoie coperte di grappoli d’uva e di zucche d’oro.

«Noemi starà bene... là... mangerà bene, ingrasserà, darà i denari a donna Ester per accomodare qui il balcone. Starà bene... Sarà come la Regina di Saba18. Ma anche lei, la Regina di Saba, non era contenta... Anche Noemi si stancherà della sua croce d’oro19 e vorrà andare lontano, come Lia, come la Regina di Saba, come tutti...».

Ma questo non gli destava più meraviglia; andare lontano, bisognava an-dare lontano, nelle altre terre, dove ci sono cose più grandi delle nostre.

Ed egli andava.Chiuse gli occhi e si tirò il panno sulla testa. Ed ecco si trovò di nuovo20

sul muricciolo del poderetto: le canne mormoravano, Lia e Giacinto stavano seduti silenziosi davanti alla capanna e guardavano verso il mare.

Gli parve di addormentarsi. Ma d’improvviso sussultò, ebbe come l’im-pressione di precipitare dal muricciolo.

Era caduto di là, nella valle della morte.

da Canne al vento, Milano, La Biblioteca Ideale Tascabile, 1995

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16.­tanca: in Sardegna, la «tan-ca» è un appezzamento di terre-no adibito al pascolo degli ovini.17.­il­cieco: personaggio minore

del romanzo.18.­Regina­di­Saba: espressione con la quale si identifica una donna molto ricca. Nella Bibbia,

infatti, Regina di Saba, era la so-vrana del regno di Saba, nota per le sue grandi ricchezze.19.­si­stancherà...­croce­d’oro: si

stancherà della ricchezza e del matrimonio.20.­di­nuovo: Efix aveva già pro-vato questa sensazione dolorosa.

  Il vecchio Efix sente avvicinarsi la morte: spaventa-to, riordina e pulisce il suo misero capanno e quindi lo lascia per sempre, recandosi dalle sorelle Pintor. Nonostante i violenti attacchi di cui soffre, il rimorso per il delitto involontario che ha commesso non gli la-scia tregua e non gli permette di morire; decide così di confessarsi per liberarsi di questo peso. Tuttavia il suo affetto per le padrone è così forte da tenerlo in vita fino al matrimonio di Noemi: vuole essere sicuro che la donna si sposi, risolvendo così i problemi economici che gravano sulla famiglia. E proprio nel giorno delle nozze, quando tutti lasciano la casa per partecipare alla cerimonia, Efix­muore­solo, dopo aver dedicato tutta la sua vita alle sorelle Pintor.

  Il protagonista di Cannealvento è presentato negli ultimi giorni della sua vita; tuttavia, anche in queste pa-gine, si può percepire la straordinaria umanità­del­per-sonaggio,­socialmente­umile­ma­di­grande­nobiltà­d’ani-mo. Ha dedicato tutta la vita alle sue padrone e ora tro-va assurdo perfino dormire – e morire – in un vero letto, piuttosto che su una stuoia, più adatta alla sua condi-

zione di servo. Efix, che nel suo delirio, a tratti, si crede seduto su un muretto da cui ha paura di cadere, teme non tanto la morte, quanto il dover confessare il suo segreto, ma, quando capisce che è proprio questo a co-stringerlo a vivere, si deciderà a liberarsi la coscienza e a lasciarsi cadere dall’altra parte del «muricciolo».

  Nella prima parte del brano emerge un importante elemento della scrittura della Deledda: la conoscenza del folclore, delle credenze e delle tradizioni­popolari della sua terra, popolate di spiriti.Efix vive circondato da queste presenze, in un rapporto­arcaico­e­magico­con­la­natura­che lo circonda, quasi ne fosse lui stesso un elemento, con la sua forza, la sua nobiltà, la sua saggezza.

  La scrittura della Deledda, difficilmente collocabile in una precisa corrente, è l’ideale anello­di­congiunzio-ne­ tra­ la­poetica­del­“vero”­e­quella­decadente (vedi U.4), soprattutto per quanto riguarda l’approfondimen-to­psicologico­dei­personaggi, lontano dall’osservazio-ne scientifica e distaccata della poetica naturalista.

­PER­LAVORARE­SUL­TESTO

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COMPRENSIONE

Il­riassunto

1. Riassumi il brano in un massimo di 6 righe.

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Efix,­il­servo

2. Perché Efix mette in ordine la sua capanna, prima di lasciarla per sempre?

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3. Per quale motivo Efix non vuole mettersi a letto nella casa del padr0ne?

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Il­segreto­di­Efix

4. Perché Efix si sente responsabile della vita delle sorelle Pintor?

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5. Qual è il suo segreto?

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­VERSO­L’ESAME­­ 1a­prova,­tip.­A Analisidiuntestoinprosa

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ANALISI

Il­lessico

6. Nelle pagine che hai letto compaiono alcuni termini del dialetto sardo: individuali. In quale rapporto è il loro uso con la poetica dell’autrice? In quale modo contribuiscono alla descrizione dell’ambiente?

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Il­protagonista

7. Delinea un breve ritratto di Efix, soffermandoti, in particolare, sul suo rapporto con la natura, con le persone, con la sofferenza e con la morte.

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Le­canne

8. Nel brano ricorre più volte l’immagine delle canne. Che cosa evoca la loro presenza? Di che cosa sono simbolo?

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Il­commento

9. Individua gli elementi descrittivi presenti nel brano: la Sardegna, come luogo di ambientazione del romanzo, ti sem-bra realistica o mitica? Motiva la tua risposta in un breve commento facendo riferimenti al testo.

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LA C

RIT

ICA

La Deledda evocò, come essa stessa ha scritto, pae-

saggi e persone della Sardegna, appoggiandosi a fatti che ave-va sentito narrare. Il mondo è quello patriarcale dei pastori e in esso sopravvivono miti e riti antichissimi che generano un sentimento religioso della vita. [...] Dal punto di vista esi-stenziale la condizione sociale non è senza influenza nel de-terminare la condizione uma-na. La Deledda colorisce con la fantasia la vita dei pastori ma non tende all’idealizzazione perché il suo intento è quello di cogliere la vita degli uomini richiamandosi a quella società pastorale-patriarcale da lei di-rettamente conosciuta. [...]

Il punto di vista della Deled-da non è quello dello scrittore contadino o dello scrittore bor-ghese: in questo senso il rac-cordo letterario con la tradizio-ne italiana è secondario perché

nella Deledda prevale il punto di vista esistenziale, la narra-zione della vita, di una vita ec-cezionale collegata, come si è detto, a un mondo patriarcale e a una psicologia pur essa ec-cezionale. L’opera della Deled-da appare, per questo motivo, scentrata nei confronti della tradizione e della cultura ita-liana: esistono i laterali raccor-di con il romanticismo e con il verismo ma il rapporto segreto di quell’opera è con se stessa, romanticismo e verismo corri-spondono genericamente all’al-terno pre valere di una accen-tuazione psicologica o di un’al-tra da parte della scrittrice, la quale solitamente soprattutto quando era nella pienezza del-la vitalità artistica, si attenne ai modi del verismo.

(A. Piromalli,Grazia Deledda,

Firenze, La Nuova Italia, 1968)

grazia deledda tra romanticismo e verismo Nel brano che segue il critico Antonio Piromalli esamina la narrativa della Deledda mostrando come essa sia difficilmente collocabile all’interno della tradizione letteraria italiana tra Otto e Novecento.

Per­comprendere

1. Quali sono, secondo il cri-tico, gli aspetti caratteristi-ci della narrativa di Grazia Deledda?

2. Che cosa significa il concetto di «punto di vista esistenzia-le»?

Approfondimento

3. Sotto quali aspetti la narrativa della Deledda può essere defi-nita verista? Approfondisci questo aspetto della poetica della Deledda.

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sezione­1 Da Roma capitale al primo dopoguerra

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Matilde­Serao

La­vita­e­le­opere

Matilde Serao nacque nel 1856 a Patrasso, in Grecia, da un patriota italiano in esilio, e da ma-dre greca. Nel 1861, dopo l’Unità d’Italia, la fami-glia si trasferì a Napoli, dove Matilde frequentò le scuole. Dal 1874 al 1877 fu impiegata all’Ufficio del Telegrafo. Nel 1882 si trasferì a Roma, dove divenne redattrice del “Capitan Fracassa”. Nel 1884 partecipò insieme a Edoardo Scarfoglio, che divenne suo marito, alla creazione della rivista culturale “Cronaca bizantina”, di impronta este-tizzante e decadente. Nello stesso anno pub-blicò Il ventre di Napoli, una raccolta di articoli-inchiesta in cui viene descritta in tono realistico la vita del popolo napoletano, i suoi mestieri, le

feste, i luoghi pubblici e privati.Nel 1890 uscì a puntate, e l’anno dopo in volume, il suo romanzo più famoso, Il paese di cuccagna, la cui ambientazione è la stessa del Ventre di Napoli. Nel 1892 la Serao e Scarfoglio fondarono “Il mattino”, al quale la scrittrice collaborò fino al 1904, anno in cui fondò “Il giorno”, dirigendolo fino alla morte, avvenuta a Napoli nel 1927. Noti sono anche: Fantasia (1883), la novella La virtù di Checchina (1884), Telegrafi dello Stato (1886), il romanzo Suor Giovanna della Croce (1901). Tra le raccolte di prose giornalistiche segnaliamo Nel paese di Gesù (1899), in cui la Serao narra il suo viaggio in Terrasanta.

Telegrafi dello Stato­(1886)

I­contenuti­ ­Telegrafi dello Stato è un racconto ispirato a un’esperienza autobiografica: dopo aver conseguito il diploma di maestra, la Serao lavorò infatti per tre anni come telegrafista e in quest’opera descrive realisticamente la vita di un gruppo di giovani impiegate dei telegrafi di Na-poli. La sua attenzione è rivolta alla descrizione delle ragazze dell’ufficio e all’alienazione dovuta alla ripetitività e ai ritmi sempre più intensi del

lavoro, da cui derivano fenomeni come la compe-titività e le gelosie tra le impiegate.Anche se la Serao si sofferma a raccontare vicen-de amorose e sentimentali, Telegrafi dello Stato non è una lettura di puro intrattenimento, ma una realistica rappresentazione del lavoro fem-minile all’interno della pubblica amministrazio-ne, un settore, per l’epoca, molto avanzato.

Nel brano che riportiamo Matilde Serao descrive l’ambiente di lavoro dei Telegrafi di Stato a Na-poli, con realismo espressivo e colorito. L’espe-

rienza delle impiegate è raccontata mediante la descrizione delle loro mansioni e dei loro rapporti reciproci.

Vita da ufficio(telegrafi dello stato)

CONTENUTI Il lavoro femminile L’alienazione causata da un lavoro ripetitivo

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Erano innanzi al palazzo Gravina1, severo palazzo bigio2, di vecchio traver-tino3, di architettura molto semplice. [...]

Sul pianerottolo le raggiunse Adelina Markò e si unì a loro.«Che freddo!» disse ella con voce molle e seducente.Si lisciava, con la punta delle dita, i capelli biondissimi, ondulati, che il

vento aveva scomposti; ma il vento aveva reso più vivida la bocca dalle lab-bra delicatamente rialzate agli angoli, aveva quella fine carnagione4 dorata di bionda. La leggiadra e flessuosa persona diciottenne era ben riparata in un vestito caldo e elegante di panno verde cupo. Una piuma bianca volitan-te5 sul cappello di feltro verde, le dava un aspetto di amazzone giovanile, una figura di fanciulla inglese, aristocratica, pronta per montare a cavallo. Non era povera né popolana, Adelina Markò era una delle due o tre signo-rine, che lavoravano solo per farsi i vestiti, per comperare la biancheria del corredo. Quando entrava in ufficio, Adelina Markò, col suo sorriso benevo-lo, col suo passo ritmico, portando i suoi vestiti fini e ricchi, i suoi cappelli bizzarri, i suoi profumi squisiti, pareva una giovane duchessa che si degnas-se visitare quella casa del lavoro, una infante reale6 e benigna e umana, che si compiacesse passare una giornata fra le umili operaie del telegrafo.

Parlavano ancora del freddo, innanzi alla porta bianca su cui era scrit-to: Sezione femminile. Venne ad aprire Gaetanina Galante, l’inserviente, mostrando il suo viso appuntito e olivastro di volpe maligna.

«È venuta la direttrice?» chiesero, quasi in coro, le tre ausiliarie7, entrando.«Ma che! è ancora a messa» rispose quella, sogghignando nella sua sfac-

ciataggine di servetta viziata.Respirarono. Era sempre meglio giunger prima della direttrice, per

dimostrar zelo e amore all’ufficio. Come entravano in quell’anticamera tetra, la burocrazia avvinghiava l’anima di tutte quelle ragazze, il frasario di ufficio, sgrammaticato e convenzionale, fioriva sulle loro labbra. Quelle già arrivate, chi seduta, chi presso la finestra per avere un po’ di luce, parlavano già di linee, di guasti, d’ingombri sui circuiti diretti8. Lo stanzone era cupo ed esse abbassavan la voce per istinto. L’unica finestra dava sullo stretto vicolo dei Carrozzieri; l’oscurità dell’anticamera era aumentata dal grande armadione diviso in tanti armadietti, dove le ausiliarie riponevano i cappel-li, gli ombrellini, i mantelli: quelle più povere, la colazione portata da casa: quelle meno povere, il ricamo e l’uncinetto: le più studiose e le più roman-tiche, i quaderni. In mezzo allo stanzone, un grande tavolino di mogano: a una parete un divano di tela rossa: nessun altro mobile. Negli spazi liberi delle pareti, chiusi in sottili cornici di legno nero, senza cristalli, pendevano l’indice alfabetico delle ausiliarie e delle giornaliere, il regolamento inter-no, l’ultimo editto editoriale9, una carta geografica e telegrafica dell’Italia. Nessuno li leggeva più questi stampati polverosi, insudiciati dalle mosche: l’interesse di tutte era quel foglio di carta che circolava di mano in mano e che le destinava, per quel giorno, a una speciale linea. La direttrice, con la sua scrittura rotonda e tutta svolazzi, scriveva da una parte in colonna, il numero d’ordine che porta la linea, dirimpetto10 il nome dell’ausiliaria che

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1.­ Erano...­ Gravina: le ragazze sono giunte al posto di lavoro; il palazzo Gravina, a Napoli, era la sede degli uffici dei Telegrafi di Stato.2.­bigio: grigio.

3.­ travertino: roccia calcarea usata come materiale da costru-zione.4.­ fine­ carnagione: colorito chiaro.5.­volitante: svolazzante.

6.­infante­reale: principessa.7.­le­tre­ausiliarie: sono le impie-gate alle macchine.8.­ di­ linee…­ diretti: problemi tecnici della linea telegrafica.9.­ editto­ editoriale: la legge

che regolava le procedure di trasmissione.10.­dirimpetto: di fronte.

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doveva lavorarvi, in quel giorno, per sette ore. Appena entrate, tutte cerca-vano questo foglio, avidamente, mentre ancora si cavavano il cappello e si sbottonavano il paltoncino11. E come ci erano linee buone e linee cattive, linee senza lavoro e linee con molto lavoro, linee dove ci vuole una pazienza infinita e linee dove è richiesta una sveltezza singolare, così le esclamazioni piovevano.

«È vero che sono una scema e che non so ricevere ancora bene», mor-morava Maria Vitale «ma mettermi ogni due giorni a Castellammare è insopportabile. Se faccio cinquanta telegrammi in sette ore, è un gran che: imparerò presto, a questo modo».

«E non ringrazi Dio?» le diceva Emma Torelli, una biondina alta e bian-ca, dalla forte pronunzia piemontese «io vorrei non saper ricevere, come te. Oggi mi hanno dato Salerno, quella linea indiavolata: è sabato e ci saranno i biglietti del lotto che i salernitani giuocano a Napoli. Centottanta dispacci, come niente! Ho l’emicrania, io: vedrai che lite, oggi, fra me e il corrispon-dente, se non ara diritto!» [...]

Le più scontente erano le hughiste, le migliori ausiliarie che avevano imparato a lavorare sulla macchina stampante Hughes12. Ci si lavora in due a questa macchina complicata che pare un cembalo13: e vi è bisogno di forza e attenzione, in ambedue le impiegate. Ora in queste coppie, la direttrice non univa mai due che fossero amiche, per impedire il soverchio14 chiac-chiericcio; univa sempre una brava, a una più debolina. Così queste coppie mancavano di simpatia fra loro: l’una disprezzava l’altra, e l’altra sentiva il disprezzo. Queste galeotte del lavoro non si lagnavano ad alta voce, per superbia; ma se ne stavano ognuna in un cantuccio, imbronciate, senza parlarsi e senza guardarsi. Maria Morra si ripassava la parte di Paolina nei Nostri buoni villici15 che doveva recitare, da filodrammatica, al teatro di San Ferdinando; la sua compagna, Sofia Magliano, una brunetta, dal lungo viso caprino, covava il dispetto, lavorando a una sua stella, all’uncinetto; Serafina Casale, piccola, fredda, orgogliosa, pallida e taciturna, prendeva del citrato di ferro16 in un’ostia17 bagnata, per guarire dall’anemia che la minava; e Annina Pescara aveva la bella faccia rotonda tutta conturbata, all’idea di dover lavorare con quella noiosa di Serafina Casale.

In un angolo scuro, Giulietta Scarano pregava e supplicava l’inserviente, Gaetanina Galante, che le facesse questo favore, per amore della Madonna, che mandasse per qualcuno la lettera a Mimì. La Galante diceva di no; pro-testando che di cotesti affari non si voleva più mischiare, che aveva avuti troppi dispiaceri, che le ausiliarie erano tanto sconoscenti18, che lei, l’inser-viente, valeva molto meglio di tante che portavano superbia, perché erano impiegate alle macchine e poi dovevano umiliarsi a lei, per ogni genere di favori. Giulietta Scarano impallidiva, le tremava la voce innanzi a quella serva che la torturava, con un rifiuto villano, affogato in un profluvio di trivialità19: giunse sino a prenderle la mano, raccomandandosi.

A un tratto, sulle voci irose, lamentose e strascicate nella noia, sugli sfoghi dei rancori amorosi e di invidie di uffizio, un zittìo passò: entrava la direttrice. [...]

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11.­paltoncino: soprabito inver-nale.12.­ Hughes: si tratta dell’in-glese David E. Hughes (1831-1900) che costruì nel 1854 un telegrafo scrivente, adottato in

tutti i paesi europei.13.­cembalo: antico strumento musicale.14.­il­soverchio: l’eccessivo.15.­ Nostri buoni villici: opera teatrale del francese Victorien

Sardou (1831-1909).16.­ citrato­ di­ ferro: preparato effervescente a base di ferro.17.­ un’ostia: cialda di fior di farina sottilissima in cui si avvolgono, dopo averla bagna-

ta, polveri medicinali.18.­sconoscenti: ingrate.19.­profluvio­di­trivialità: gran-de quantità di volgarità.

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Ella salutava col capo, con un sorriso amabile sulle labbra di rosa morta. I fini capelli di un biondo cinereo erano tirati indietro, precisamente, non uno fuori di posto: tutto il volto aveva la grassezza molle, il pallore di avorio delle zitelle trentenni, vissute in monastero o in educandato20, in una castità naturale di temperamento e di fantasia. In verità ella aveva qualche cosa di claustrale, in tutto: nel vestito di casimiro21 nero, nel goletto22 bianco, nella cautela del passo, nella bassezza della voce, nella morbidezza delle mani che pareva si dovessero congiungere solo per la preghiera, nella limpidezza inespressiva degli occhi bigi, in certi reclinamenti del capo, per pensare. Ella toglieva i guanti e il mantello, chetamente e guardava le ragazze, osser-vando che Ida Torelli non aveva il busto, al solito; che Peppina de Notaris portava un anello d’uomo al dito mignolo, che Olimpia Faraone portava troppa veloutine23 sul viso. [...]

Le ausiliarie si trattenevano ancora in anticamera, visto che mancava-no cinque minuti alle sette; ogni minuto squillava il campanello elettrico, qualcuno sopraggiungeva. Era Peppina Sanna, una magrolina e snella, tutta inglese, col vestito a quadrettini bianchi e neri; con gli stivaletti a punta quadrata e senza tacco, col grande velo azzurro che le avvolgeva il cappello e la testa, con un ombrello da pioggia, un sacchetto di pelle nera e un volu-me dell’edizione Tauchnitz24 sempre sotto il braccio. Era Maria Immacolata Concetta Santaniello, una fanciullona bianca, grassa e grossa, che ondeg-giava, camminando, come un’oca, di cui tutti si burlavano, che era piena di scrupoli religiosi, che prima di trasmettere un telegramma, invocava il nome di Gesù e Maria. Era Annina Caracciolo, brunissima, coi capelli neri e ricciuti, la bocca rossa e schiusa come un garofano, gli occhioni languidi, l’andatura indolente di una creola25 impiegata svogliata, che nessun rimpro-vero e nessuna emulazione poteva risvegliare. Si parlottava, in un gruppo di due o tre, sogguardando verso la direttrice, che scriveva sempre, con la sua posa composta di alunna calligrafa26: appena ella udiva una voce troppo forte, o una risata troppo alta, levava il capo e faceva:

«Sts!»Poi, uno squillo del timbro e la voce limpida della direttrice:«Signorine, in ufficio».In silenzio, esse sfilarono avanti alla sua scrivania e si diressero alle mac-

chine. Nella piena luce del salone, rischiarato da tre finestre, si vedevano le facce assonnate di quelle che avevano troppo poco dormito, le facce smorte di quelle colpite dal freddo, le facce scialbe di quelle malaticcie; e da tutte si diffondeva un senso di pacata rassegnazione, di noia indifferente, di apatia quasi serena. Cominciavano la loro giornata di lavoro, senza ridere, tutte occupate meccanicamente in quei primi apparecchi: curve sulle macchine, chi svitava il coltellino d’acciaio che imprimeva i segni, chi metteva un rotolo nuovo di carta, chi bagnava d’inchiostro, con un pennello, il cusci-netto girante, chi provava la elasticità del tasto. Poi, nella quiete mattinale, principiò il ticchettio dei tasti sulle incudinette.

da Telegrafi dello Stato, Roma, Poligrafica Editrice Romana, 1957

20.­ educandato: istituto reli-gioso.21.­casimiro: cachemire.22.­goletto: colletto.

23.­veloutine: cipria.24.­Tauchnitz: è il nome di una casa editrice tedesca di Lipsia.25.­ creola: i creoli sono i figli

nati da genitori europei, spe-cialmente francesi e spagnoli, nell’America Latina.26.­calligrafa: detto di una per-

sona che ha una bella scrit-tura.

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 TelegrafidelloStato è un’importante testimonianza dellavoro­d’ufficio­ femminile in Italia alla fine dell’Ot-tocento. L’autrice si concentra su due elementi in par-ticolare:• il racconto fedele di una giornata lavorativa, che rivela

la noia­di­un­lavoro­sempre­uguale, l’ansia di non riu-scire a svolgere al meglio le proprie mansioni, le gelo-sie e le rivalità tra impiegate, la fatica della convivenza quotidiana con una direttrice rigida e severa;

• la descrizione­ realistica dei numerosi personaggi, osservati nei dettagli esteriori del loro aspetto fisico,

nell’abbigliamento, piuttosto che nelle sfumature dei loro caratteri.

  Proprio per questo manca, nelle pagine proposte, una vera protagonista: c’è piuttosto una rassegna­ di­tipi­umani, un panorama d’insieme privo di profondità e di penetrazione psicologica. Il realismo delle descri-zioni non arriva «all’impegnativo affresco ambientale che l’autrice forse si prefiggeva, sulla scorta dei grandi maestri francesi da Balzac a Zola» (C. Segre), ma si riduce a una rappresentazione vivace e superficiale.

­PER­LAVORARE­SUL­TESTO

COMPRENSIONE

Il­riassunto

1. Riassumi il testo in 5 righe.

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L’ufficio

2. Dove ha sede l’ufficio dei Telegrafi in cui è ambientato il racconto?

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3. Da che cosa è composto l’arredamento della stanza dove le impiegate aspettano di cominciare il lavoro?

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Le­impiegate

4. Di quale impiegata viene detto che ha una «forte pronunzia piemontese»?

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5. Qual è il ruolo di Gaetanina Galante e quale impiegata si rivolge a lei per chiedere un favore?

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6. Che cosa portano da casa le impiegate a seconda del loro livello socio-economico?

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­VERSO­L’ESAME­­ 1a­prova,­tip.­A Analisidiuntestoinprosa

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7. Quali sono, secondo l’autrice, le impiegate più scontente del proprio lavoro?

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La­necessità­di­lavorare

8. «Adelina Markò era una delle due o tre signorine che lavoravano solo per farsi i vestiti … »: che cosa intende dire la Serao con questa osservazione?

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ANALISI

Il­narratore

9. Quale tipo di narratore compare nel testo? Quale atteggiamento ha nei confronti dei personaggi?

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I­personaggi

10. Quali aspetti delle impiegate descrive l’autrice? Quale immagine dei personaggi ne deriva (un’immagine a tutto tondo, un’immagine bozzettistica ecc.)?

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Il­commento

11. Secondo te, con quali parole, espressioni e dettagli descrittivi l’autrice cerca di coinvolgere il lettore? Rispondi in un commento di 2 o 3 paragrafi.

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Le­“pari­opportunità”

12. Mentre in passato le donne venivano generalmente discriminate a livello lavorativo, oggi sono garantite le “pari opportunità”, cioè l’assoluta parità fra uomini e donne, sia nel campo del lavoro sia negli altri ambiti sociali. Si tratta però di un principio che spesso non trova attuazione, a causa di mentalità antiquate o pregiudizi difficili da abbattere. Tratta l’argomento esprimendo il tuo personale punto di vista, aiutandoti eventualmente con notizie prese dalla cronaca.

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­VERSO­L’ESAME­­ 1a­prova,­tip.­D Temadiordinegenerale

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sezione­1 Da Roma capitale al primo dopoguerra

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sezione­1 Da Roma capitale al primo dopoguerra

Il paese di cuccagna­(1890)

I­contenuti­­Il paese di cuccagna è un romanzo in cui vengono descritte la passione dei napoletani di ogni ceto sociale per il gioco del lotto e le con-seguenze che colpiscono chi non riesce a vincere la propria dipendenza da questa «malattia dello spirito». Alla descrizione di questo vizio del gioco la scrittrice si era già dedicata nel Ventre di Napoli, dove scrive: «Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l’acquavite, non muore di de-lirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l’acquavite di Napoli». In queste parole si coglie l’influsso di Zola (vedi nel Manuale L’as-sommoir, p. 23) e della sua analisi sociale, che la Serao traspone però in una realtà completamente diversa, quella dell’Italia meridionale, ancora ar-caica e carica di superstizioni.

I­personaggi­ ­ Il romanzo si compone di molti episodi, in cui incontriamo personaggi della più varia estrazione sociale (lustrascarpe, pasticceri, pizzaioli, lavandaie, impiegati, aristocratici impo-veriti, suore, medici, avvocati), che distruggono le loro vite per il gioco d’azzardo, dissipando ogni avere e rinunciando a tutto. Accanto alla folla di individui disperati, ci sono coloro che speculano su questa passione: la tenitrice del banco del

lotto e la sorella usuraia, don Pasqualino de Feo, detto l’“assistito”, perché, grazie all’“assistenza” degli spiriti, fornisce ai giocatori i numeri su cui puntare. All’interno di un fitto intreccio di vicende, si svolge la tragedia di Bianca Maria, il cui padre, il marchese Cavalcanti, si è rovinato con il gioco e perseguita la figlia con il suo attaccamento mor-boso e la sua superstizione, fino a portarla alla morte.

Varietà­di­ambienti­e­di­toni­­Le vicende si snoda-no tra i vicoli, le piazze, le chiese, i luoghi di lavo-ro, le abitazioni popolose e animate da una folla variopinta e caotica; non mancano descrizioni pit-toresche come quella del carnevale e del gran daf-fare che porta nelle botteghe artigiane di pasticceri e pizzaioli, guantai e sarte, calzolai, rappresentati con vivacità e cura per i dettagli. La varietà di personaggi e ambienti si coniuga con quella dei toni stilistici: sentimentale, patetico, grottesco, melodrammatico; essi tutti insieme compongono un grande affresco della realtà napoletana. Pur ricorrendo raramente all’uso del gergo dialettale partenopeo, la Serao riesce a rendere con efficacia e in tono sincero e partecipe la vita “vera” della gente di Napoli.

Matilde­Serao

Il brano seguente descrive l’ansia, mista alla spe-ranza di un futuro migliore, di un insieme eteroge-neo e chiassoso di persone in attesa dell’estrazione del lotto. Attraverso una serie di scene, l’autrice

introduce il lettore nel variopinto mondo napoleta-no, con le sue fissazioni e manie, non senza guizzi di leggera ironia.

La mania del lotto(il paese di cuccagna, cap. i)

CONTENUTI Affresco di vita napoletana La passione per il gioco

Le quattro si approssimavano e il cortile dell’Impresa1 si riempiva di gente. In quel centinaio di metri di spazio, una folla popolana s’infittiva, chiacchieran-do vivacemente, o aspettando in silenzio, rassegnatamente, guardando lassù, al primo piano, la terrazzina coperta, dove si doveva fare l’estrazione. Ma tutto era chiuso, lassù, anche le imposte di legno, dietro i cristalli del grande balcone. Come altra gente arrivava, sempre, la folla giungeva sino alla mura-glia del cortile: delle donne respinte, si erano accoccolate sui primi scalini della scala: qualcuna, più vergognosa, si nascondeva sotto il terrazzino, fra i pilastri che lo sostenevano, addossandosi alla porta chiusa di una grande

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1. il­ cortile­ dell’Im-presa: è la sede delle estrazioni.

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stalla. [ ] La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio2 che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercetti-bile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d’inverno impegnato3, sognando il terno4 che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d’impazienza torceva il loro volto smorto, dove la barba, non più rasa, cre-sceva inegualmente; erano cocchieri da nolo5 che avevano lasciata la carrozza affidata al compare6, al fratello, al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma7 del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali8 di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell’estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vico-li San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l’estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco9, l’opificio10, la bottega, abbandonato il duro e mal retribui-to lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta11 di cin-que soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo12, erano venuti a palpita-re innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricove-ro13, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell’estremo avvilimento.

Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte14, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio15, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate […].

Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente16 alle note più acute e scendente17 alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell’androne, quella che era nell’androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento18, mentre tutte le facce si levavano, prese da un’ardente curiosità, prese da un’angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall’attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva al collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. […] Questa gente si muoveva lentamente, con misura di movimenti, con una pre-cisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò:

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2. stambugio: ambiente mise-ro, di dimensioni modeste.3. impegnato: dato in pegno.4. terno: combinazione di tre numeri estratti.5. cocchieri­a­nolo: coloro che accompagnavano i passeggeri in carrozza dietro pagamento di una tariffa.

6. compare: letteralmente è colui che viene nominato dai genitori come padrino di bat-tesimo dei loro figli, ma qui indica una persona fidata.7. flemma: calma imperturbabile.8. sensali: mediatori in con-trattazioni di vario tipo.9. fondaco: deposito di merci.

10. opificio: laboratorio, stabi-limento industriale.11. bolletta: ricevuta, da cui risulta la giocata effettuata.12. giuoco­ piccolo: puntate minime.13. ricovero: luogo in cui rifu-giarsi. 14. sciatte: trasandate.

15. senza­servizio: disoccupate.16. saliente: ascendente.17. scendente: discendente.18. serramento: assembra-mento, calca di persone, stret-te le une alle altre.

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«Andiamo andiamo!».Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione,

quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall’urna i numeri dell’estrazione.

Era un fanciulletto vestito della bigia19 uniforme dell’Albergo dei Poveri20, un povero fanciulletto del Serraglio, come i napoletani chiama-no l’ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo senza madre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria e crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri21, indossò sull’uniforme da serragliuolo, una tunica di lana bian-ca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell’innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all’al-tezza dell’urna22. […]

Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desi-derio, un’invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guar-dando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell’urna; e un po’ discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v’era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato pros-simo e che veniva là per imparare, per assuefarsi23 alla manovra dell’estra-zione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sor-ridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. […]

Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell’urna, lo mostra-va spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità24, che vi gettavano sopra un’occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell’urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni o dalla Smorfia, o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine25. Ed erano scoppii di risa, erano grassi26 scherzi, erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta.

«Due!».«… la bambina!».«… la lettera!».«… fammi arrivare questa lettera. Signore!».«Cinque!».«… la mano!».«… in faccia a chi mi vuol male!».«Otto!».«… la Madonna, la Madonna, la Madonna!».Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie,

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19. bigia: color grigio cenere.20.­Albergo­dei­Poveri: ospizio.21. uscieri: funzionari.22. urna: il contenitore da cui ven-

gono estratti i numeri.23. assuefarsi: abituarsi.24.­tre­autorità: i tre funzionari pub-blici che presiedono all’estrazione.

25. a­ ogni­ numero…­ figurine: secondo la tradizione popolare è possibile attribuire numeri a ele-menti tratti dai sogni o da eventi

reali che hanno suscitato clamore o interesse, fino a creare un codi-ce condiviso.26. grassi: licenziosi.

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erano stati buttati nell’urna dell’estrazione dal piccolo serragliuolo vestito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell’urna, e, vol-tando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. […]

Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l’agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull’alto macigno, aveva la mano raggricchiata27 intor-no alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo28 di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto con-vulso. […] La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico:

«Trentatré!».«… anni di Cristo!».«… anni suoi!».«… questo esce».«… non esce!».«… vedrete che esce!».[…] Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell’urna si arrestò:

il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell’urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando29 subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso.

«Dieci», gridò l’usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella.

Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi.

Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell’urna.

«Due», gridò l’usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella.

Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso terno secco30 cominciavano a temere fortemen-te la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciul-letto penetrò nell’urna, qualcuno gridò, angosciosamente:

«Cerca bene, scegli bene, bambino!».«Ottantaquattro», gridò l’usciere, dichiarando il numero e collocandolo

nella terza casella.Qui scoppiò il grande urlo d’indignazione, fatto di bestemmie, di lamen-

ti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l’estrazione e per i giuocatori. Con l’ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il

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27. raggricchiata: stretta.28. sciallo: scialle.

29. cavando: estraendo dall’urna.30. terno­secco: giocata di un

terno, con esclusione della possibilità di vincere con l’am-

bo (due numeri estratti).

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terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello scia-gurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuo-lo! gridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l’espressione paurosa della infinita delusione popolare. [ ]

Anche l’estrazione degli ultimi due numeri non soddisfa la folla.

E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero31 i due bimbi, le tre autorità, l’urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistal-lo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione.

Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt’i loro denari, quel-la mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna32 nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata33 di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l’infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco34: altri, i più folli, caduti dall’altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti – ed erano questi folli disperati che ancora figgevano35 gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bian-ca delle loro bollette di giuoco: – e i cabalisti36, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi.

da Il paese di cuccagna, Firenze, Vallecchi, 1971

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31. sparvero: scomparvero.32. visioni­ di­ cuccagna: sogni di abbondanza. Cuccagna è il nome di un immaginario paese

ricco di ogni genere di alimenti, senza limiti di quantità.33. spanciata: abbuffata.34. chetare­lo­stomaco: sfamarsi.

35. figgevano: fissavano.36. cabalisti: coloro che pre-tendevano di indovinare i numeri del lotto.

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  È sabato e a Napoli una grande folla aspetta con tre-pidazione il momento dell’estrazione del lotto. Si accal-cano così nel cortile dell’Impresa lustrascarpe, ciabatti-ni, servi, disoccupati, oziosi, poveracci: figure vivissime, afflitte dalla miseria, tutte dominate dalla mania­del­gio-co e animate dalla speranza di un sogno che potrebbe diventare realtà. La curiosità di scoprire i numeri fortunati è mista a una profonda angoscia, che fa stringere con troppa forza al petto i figli alle madri, che fa imprecare contro la miseria e la stessa passione per il gioco. Per tentare la fortuna, uomini e donne impegnano vestiti, tutti rinunciano a mangiare, a mantenere la famiglia; quasi sempre il risul-tato è soltanto una cocente delusione, ma ogni settima-na tutti ritornano in quel cortile, con le ricevute delle giocate e gli occhi rivolti al terrazzino dell’estrazione.

  La sacralità­ del­ gioco è confermata dal continuo accostamento di sacro e profano: Carmela ha al collo la medaglia della Madonna e un corno di corallo portafor-tuna; la stessa formalità della preparazione (il bambino

addetto all’estrazione vestito di bianco a simboleggiare l’innocenza, i gesti misurati e solenni dei funzionari, ecc.) rimanda a un’atmosfera rituale.Tutto il brano è giocato sui contrasti: alle voci della folla in attesa si contrappone il silenzio che accompagna l’ar-rivo degli uscieri; ai movimenti convulsi dei giocatori nel cortile, i gesti meccanici degli incaricati all’estrazione; all’uniforme bigia del trovatello, la tunica bianca dell’in-nocenza. Ciò contribuisce a dare all’intera azione un notevole dinamismo, vivacizzato dal­“colore” delle bat-tute popolari, originali e spontanee. È questo il realismo della Serao, evidente soprattutto nella presentazione della folla in attesa e nel suo allontanamento dopo la deludente estrazione. Tuttavia, nonostante sia talvolta annoverata tra i veristi, la Serao non ricorre alle tecniche verghiane dell’impersonalità e dell’eclissi dell’autore; la sua narrazione si caratterizza, infatti, per la costante pre-senza­della­voce narrante che sottolinea i particolari più struggenti (per esempio «e negli occhi desolati si dipin-geva il fisico, l’infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane»).

­PER­LAVORARE­SUL­TESTO

COMPRENSIONE

Il­riassunto

1. Riassumi il contenuto informativo del testo.

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I­personaggi

2. Chi sono i personaggi che si accalcano nel cortile dell’Impresa?

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3. A quale classe sociale appartengono?

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4. Qual è il loro atteggiamento prima e dopo l’estrazione?

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­VERSO­L’ESAME­­ 1a­prova,­tip.­A Analisidiuntestoinprosa

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5. In che cosa si differenzia da quello delle autorità e degli uscieri?

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Il­gioco

6. L’estrazione del lotto avviene secondo un rituale ben preciso: descrivilo.

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ANALISI

Il­lessico

7. Quali sono gli elementi lessicali che conferiscono “colore locale” alla narrazione?

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8. Individua almeno dieci parole o espressioni che evidenzino la miseria dei personaggi, seguendo l’esempio.«Soprabito… impegnato», «volto smorto»

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Il­narratore

9. Il narratore è esterno o interno? Interviene nella narrazione esponendo il proprio giudizio? Rispondi con precisi riferimenti al testo.

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La­regressione

10. C’è differenza, dal punto di vista lessicale e sintattico, tra le parole della voce narrante e quella dei personaggi nei discorsi diretti? In altri termini, l’autrice ricorre alla tecnica verghiana della regressione? Motiva la tua risposta con precisi riferimenti testuali.

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La­folla

11. Sottolinea le parti di testo nelle quali l’autrice descrive la folla. Come la caratterizza? Quali aspetti ne mette in evidenza?

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Il­commento

12. Il brano rappresenta un affresco di vita napoletana tratteggiato attraverso una serie di scene ricche di colore locale, di figure popolari e di particolari patetici. Scrivi un commento al brano, soffermandoti su questi aspetti.

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sezione­1 Da Roma capitale al primo dopoguerra

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Antonio­Fogazzaro

La­vita­e­le­opere

Antonio Fogazzaro nacque a Vicenza nel 1842 da una famiglia benestante di fervidi sentimenti cattolici. Il padre, combattente antiaustriaco nel 1848, si trasferì l’anno successivo con la famiglia a Torino e nel 1861 fu eletto al Parlamento del nuovo regno d’Italia. Antonio, laureatosi in legge a Torino nel 1864, si stabilì l’anno successivo a Milano dove entrò in contatto con gli artisti della Scapigliatura. Nel 1867 decise di tornare defi-nitivamente a Vicenza per dedicarsi all’attività letteraria. Si riaccostò alla fede nel 1873, dopo un lungo travaglio di cui si colgono tracce nelle sue opere. La sua formazione cattolico-liberale lo portò ad aderire al Modernismo (corrente di pensiero affermatasi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento) di cui condivideva la necessità di un’apertura da parte della Chiesa

alla nuova mentalità scientifica e alla politica dalla quale gli intellettuali cattolico-liberali, in seguito al Non expedit (1868), erano costetti ad astenersi. Nel 1881 pubblicò Malombra, una sto-ria d’amore che diventa un’ossessione e spinge la protagonista, Marina, a uccidere l’innamo-rato quando questi cerca di allontanarsi da lei. A Daniele Cortis (1883) seguì il suo più grande successo letterario, Piccolo mondo antico (1895), primo romanzo di una quadrilogia, che prose-guì con Piccolo mondo moderno (1901), Il Santo (1905) e Leila (1910), considerato una sorta di testamento spirituale dell’autore. Ormai scrittore affermato, Fogazzaro viaggiò molto per l’Italia conoscendo personalità di rilievo, come Zola e Giacosa a Milano, e Matilde Serao a Napoli. Morì a Vicenza nel 1911.

Piccolo mondo antico (1895)

La­trama­­La vicenda, ambientata tra il 1849 e il 1859, si svolge in Valsolda, il versante lombardo del lago di Lugano, nel periodo della dominazio-ne austriaca. Franco e Luisa Maironi si sono spo-sati contro il volere della ricca nonna, la marche-sa Orsola Maironi che, contraria al matrimonio con una ragazza di estrazione borghese, disereda il nipote con l’inganno. Mentre Luisa, all’insaputa del marito, va a incontrare la marchesa per esi-gere i diritti ereditari, la figlia Ombretta cade nel lago e muore. Questa disgrazia getta i due coniugi in una profonda crisi che porta Luisa a una dispe-

razione inconsolabile mentre rafforza in Franco la fede religiosa e lo slancio patriottico.

Lo­stile­­In questo romanzo, in cui l’autore com-pone in sintesi le varie contrastanti tendenze del suo animo, viene descritto l’ambiente angusto di provincia. La registrazione della realtà è compiu-ta attraverso il frequente ricorso a espressioni dialettali, proprie, soprattutto, dei personaggi minori. La narrazione ha un ritmo veloce e la prosa è caratterizzata dall’uso di una sintassi semplice.

Il brano è tratto da uno dei momenti più toccanti e anche più conosciuti del romanzo. Ombretta è la figlia del nobile Franco Maironi e della moglie Luisa Rigey. La famiglia è ospite dell’ingegner Piero Ribera, uno zio di Luisa, a Oria, sul lago di Lugano. La nonna di Franco, la marchesa Maironi, lo ha

diseredato, distruggendo il testamento del marito che lo aveva nominato erede universale. Durante un incontro tra la marchesa e Luisa, la piccola Ombretta cade nel lago. I tentativi di soccorso sono vani, ma continuano fino allo straziante urlo di dolore della madre.

La morte di Ombretta(piccolo mondo antico, capitolo xx)

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CONTENUTI L’annegamento di Ombretta I vani tentativi del medico di rianimarla La disperazione della madre

Giunta ansante sul sagrato di Oria1, Luisa ebbe ancora la forza di gridare: – Maria2! Maria mia! – La finestra dell’alcova era aperta. Alcune persone fra le quali il professor Gilardoni3 le uscirono incontro. Il professore teneva le mani giunte e piangeva silenziosamente, pallido come un cadavere. Gli altri bisbi-gliavano: – Coraggio! speriamo! – Ella fu per cadere, esausta. Il professore le cinse la vita con un braccio, la trasse su per le scale che eran gremite di gente, come pure il corridoio al primo piano. Luisa passò, quasi portata di peso, fra voci affannose di conforto. – Coraggio, coraggio! Chi sa, chi sa! – All’entrata della camera dell’alcova, si sciolse dal braccio del professore, entrò sola.

Avevan dovuto accendere il lume perché nell’alcova, causa la pioggia, faceva scuro. La povera dolce Ombretta posava nuda sul letto cogli occhi semi aperti e la bocca pure semiaperta. Il viso era leggermente roseo, le labbra nerastre, il corpo di una lividezza cadaverica. Il dottore tentava la respirazione artificiale, portando le piccole braccia sopra il capo e lungo i fianchi, alternativamente; facendo pressioni all’addome.

– Dottore? Dottore? – singhiozzò Luisa. – Facciamo il possibile – rispose il dottore, grave. Ella precipitò col

viso sui piedini gelati della sua creatura, li coperse di baci forsennati. – No no! – fece il dottore. – Coraggio, coraggio! – Si chinò sul visino di Maria, le mise la bocca sulla bocca4, respirò più volte profondamente, si rialzò. – Ma è rosea, è rosea!5 – sussurrò Luisa ansando. Il dottore sospirò in silenzio, accese, un cerino, lo accostò alle labbra di Maria.

Tre o quattro donne che pregavano ginocchioni si alzarono, si accosta-rono al letto palpitanti, trattenendo il respiro. L’uscio della sala era aper-to; altri volti si affacciarono di là, silenziosi, intenti. Luisa, inginocchiata accanto al letto, teneva gli occhi fissi alla fiamma. […] Il dottore spense il cerino. – Lana calda!6 – diss’egli. Luisa si precipitò fuori e il dottore riprese i movimenti delle braccia. Poi, quando Luisa, ritornò con la lana riscaldata, egli da un lato ella dall’altro si diedero a strofinar forte il petto e il ventre delle piccina. Dopo un po’ vedendo il pallore, il viso contraffatto di Luisa il medico fece segno ad una ragazza di pigliarne il posto. – Ceda, ceda – diss’egli perché Luisa aveva fatto un gesto di protesta. – Sono stanco anch’io. Non è possibile. – Luisa scosse il capo senza parlare continuando l’opera sua con energia convulsa. Il dottore alzò silenziosamente le spalle e le sopracciglia7, cedette il proprio posto alla ragazza e ordinò di far riscal-dare dell’altra lana per coprirne le gambe della bambina. […]

Nel corridoio e sulle scale la gente discuteva il fatto, il come, il dove. Non si sapeva per quanto tempo la bambina fosse rimasta nell’acqua. Durante la furia del temporale un tale Toni Gall8 si trovava nelle stalle dietro casa Ribera. Gli venne in mente che il battello del signor ingegnere fosse legato male e potesse fracassarsi ai muri della dàrsena. Discese a salti, vide aperto

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1.­sagrato­di­Oria: il sagrato della Chiesa dell’Annunziata, che sorge su uno scoglio a picco sul lago di Lugano, ai piedi del monte Boglia. 2.­ Maria: è il vero nome della figlia di Luisa, che però lo zio

ama chiamare Ombretta dal nome del personaggio di una filastrocca che le canta.3.­ il…­ Gilardoni: un amico di famiglia. 4.­ le­ mise…­ bocca: le pratica la “respirazione bocca a bocca”.

5.­Ma­è…­rosea!: Luisa non vuole ancora arrendersi alla terribile real-tà e spera sempre in un miracolo. 6.­Lana­calda!: si tenta di rianima-re il corpo di Ombretta già freddo per la morte. 7.­alzò…­le­sopracciglia: il dot-

tore è ben conscio della vanità di ogni ulteriore tentativo. 8.­Toni­Gall: un personaggio tratto dalla realtà. Lo stesso Fogazzaro, in una lettera a un amico, confes-sa di averlo introdotto nel roman-zo perfino col suo vero nome.

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l’uscio della dàrsena ed entrò. Il battello ballava spaventosamente, inondato dagli sprazzi delle onde che si frangevano sui muri; ballava, si dimenava fra le catene e s’era posto di traverso, avendo la poppa9 addosso al muro. In faccia all’uscio che mette dalla via pubblica nella dàrsena, corre un àndito dal quale due scalette scendono all’acqua, la prima di fianco alla prora della barca, la seconda di fianco alla poppa. Il Toni Gall discese per la scaletta seconda onde accorciare la catena di poppa. Là, fra la barca e l’ultimo sca-lino, dov’eran sessanta o settanta centimetri d’acqua, vide fluttuare il cor-picino di Maria col dorso a galla e il capo sotto acqua. Nel trarla dall’acqua scorse nel fondo una barchetta di metallo. Portò su la povera creatura che non dava più segni di vita. Gridando con la sua terribile voce, fece correre tutto il paese e anche il medico, che si trovava a Oria. […]

Maria doveva esser discesa in dàrsena dalla camera dell’alcova per mettere la sua barchetta nell’acqua e fatalmente aveva trovato aperta la porta di casa, aperto l’uscio della dàrsena. Il Toni Gall era d’opinione che avesse passato qualche minuto nell’acqua perché galleggiava discosto dal luogo dove la bar-chetta giaceva nel fondo. Egli descriveva per la centesima volta la sua scoperta spaventosa stando in sala con l’ingegnere, il professore ed altri del paese. Tutti singhiozzavano meno lo zio Piero. Seduto sul canapè, pareva impietrato. Non aveva una lagrima, non aveva una parola. Le chiacchiere del Toni Gall gli davano evidentemente noia, ma taceva. La sua nobile fisonomia era piuttosto solenne e grave che turbata. Pareva ch’egli vedesse davanti a sé l’ombra del Fato antico10. Neppure domandava notizie; si capiva che non aveva speranza. E si capiva che il suo dolore era ben diverso da quelle chiassose nervosità passeggiere che gli si agitavano intorno. Era il dolore muto, composto, dell’uomo savio e forte.

Dall’uscio aperto dell’alcova venivan voci ora di interrogazione ora di comando. Nessun però poté dire, per un’ora e mezzo, di aver udita la voce di Luisa. Qualche volta venivano pure voci trepide, quasi liete11. Pareva a qualcuno, là dentro, notare un moto, un alito, un tepor di vita. Allora tutti quelli che eran fuori accorrevano. Lo zio Piero volgeva il capo verso l’uscio dell’alcova e solo in quei momenti si disordinava un poco nel viso. Pur trop-po ogni volta vide la gente ritornarsene lentamente, in un silenzio accorato. Passarono le cinque. Il tempo durando piovoso, la luce mancava.

Alle cinque e mezzo si udì finalmente la voce di Luisa. Fu uno strido acuto, inenarrabile, che agghiacciò il sangue nelle vene a tutti. Rispose la voce del dottore con un accento di premurosa protesta. Si seppe che il dot-tore aveva fatto un gesto come per «oramai è inutile: desistiamo» e che al grido di lei aveva ripreso il lavoro12.

Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fitta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casa parve divenuto più sepolcrale. La sala, il corridoio andavano diventando bui, vi si andò avvivando il debole chiaror di candele che usciva dall’alcova. La gente cominciò a ritirarsi, un’ombra dopo l’altra, silenziosamente, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato della via gli scarponi passanti, passi senza voci.

da Piccolo mondo antico, Milano, Garzanti, 1992

9.­ la­poppa: l’estremità poste-riore di una imbarcazione; l’estremità anteriore, invece, è detta prua, o prora. 10.­ Fato­ antico: secondo gli antichi l’uomo era soggetto alla volontà ineluttabile del Fato, pote-

re misterioso e incontrastato che agiva irresistibilmente su tutto e su tutti: concezione, questa, che domina nella tragedia classica. 11.­voci­trepide,­quasi­liete: men-tre Luisa è silenziosa, combat-tuta tra la speranza e la dispe-

razione, altri, invece, stentano ancora ad ascoltare la voce della ragione: prima di arrendersi alla cruda evidenza dell’irreparabile, sentono il bisogno di illudersi e di illudere. 12.­ strido…­ lavoro: in questo

grido, quasi disumano, si coglie tutto il disperato amore mater-no, capito e premurosamente assecondato dal dottore, che riprende il suo ormai inutile «lavoro».

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  Quello di Fogazzaro è, per certi aspetti, un ro-manzo storico nel quale l’autore aderisce sentimen-talmente alla realtà di un «piccolo mondo antico» di provincia, appartenente al passato. Egli compie un’at-tenta analisi­ psicologica­ dei­ personaggi, siano essi principali o secondari. Lo vediamo qui nella figura di Luisa, che si rifiuta di credere alla realtà e si aggrappa a una vana speranza, mostrando una grande forza di carattere nel tentativo di rianimare Ombretta, o nel personaggio del dottore che si prodiga «grave» nel suo compito vano di salvare la bambina, sempre com-prensivo e attento alle reazioni della madre.Attraverso il contrasto con la figura di Toni Gall, uomo loquace, poco sensibile, che non si rende conto di quanto le sue «chiacchiere» stonino in tanto sconfor-to, emerge la figura dello zio Piero, austero e compo-sto, con un viso «impietrato», che non piange e non parla, lasciando appena trasparire i propri sentimenti.

  La scena si svolge quasi completamente all’in-terno del palazzo Ribera. Solo alla fine del brano

Fogazzaro si sofferma sull’ambiente circostante, la cui caratterizzazione riproduce­ lo­ stato­ d’animo­dei­ personaggi: il picchiettio monotono della piog-gia e l’oscurità che avvolge la casa sottolineano la commozione dei presenti alla notizia della morte di Ombretta.

  La prosa di Fogazzaro è piana e lineare. Attraverso un­ ritmo­ narrativo­ lento, che intreccia descrizioni e scene dialogate, l’autore ottiene un effetto­di­realismo che guarda non tanto ai romanzieri francesi dell’Otto-cento, quanto piuttosto a Manzoni: in questo senso egli rifugge dalla descrizione di particolati stravaganti o macabri, animato dall’intenzione di raffigurare in maniera fedele un ambiente provinciale.Per lo stesso motivo, egli cerca di adottare uno stile­dai­registri­più­vari, da quello drammatico e patetico a quello lirico; la morte di Ombretta viene dunque rac-contata con uno sguardo distaccato, evitando eccessi di partecipazione emotiva e lasciando al lettore il compito di immedesimarsi nella tragedia.

­PER­LAVORARE­SUL­TESTO

COMPRENSIONE

Il­riassunto

1. Riassumi il brano in un massimo di otto righe.

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Il­tentativo­di­rianimazione

2. Quali cure vengono prodigate alla bambina? Chi interviene attivamente in queste cure?

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3. Come si relaziona il dottore con la madre di Ombretta?

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­VERSO­L’ESAME­­ 1a­prova,­tip.­A Analisidiuntestoinprosa

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Il­fatto

4. Chi ha scoperto il corpo della bambina e come ricostruisce il fatto?

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5. Perché il comportamento di questo personaggio risulta fastidioso?

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6. Come viene annunciata la morte di Ombretta?

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ANALISI

Il­narratore

7. Quale tipo di narratore compare nella vicenda? La voce narrante a tratti lascia la parola agli altri personaggi, attra-verso il discorso diretto: quali aspetti della vicenda vengono narrati con questa tecnica?

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Il­punto­di­vista

8. Da quali punti di vista è narrata la vicenda?

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Il­tempo­della­narrazione

9. Nel brano riportato è presente un flashback: individualo e spiegane la funzione.

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I­personaggi

10. Luisa alterna speranza e disperazione, mostrando grande forza psicologica e fisica nel cercare di rianimare la bam-bina: ricerca nel brano questi aspetti del suo carattere e del suo comportamento.

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11. Lo zio Piero era molto affezionato a Ombretta e il suo dolore, muto e composto, contrasta con l’atteggiamento di Toni Gall. Delinea in breve la psicologia dei due personaggi.

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APPROFONDIMENTO

La­poetica

12. In un breve elaborato metti in evidenza gli aspetti di genere, di contenuto e di stile che caratterizzano la poetica di Fogazzaro in Piccolomondoantico.

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sezione­1 Da Roma capitale al primo dopoguerra

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Federigo­Tozzi

La­vita­e­le­opere Federigo Tozzi nacque a Siena nel 1883. Suo

padre, un uomo rude e abile negli affari, possede-va una trattoria e diversi poderi. Il giovane Fede-rigo si rivelò ben presto inadatto a seguire le orme del padre, di cui deluse sempre le aspettative, a causa del suo carattere chiuso e scontroso che la malattia agli occhi, che lo colpì all’età di vent’anni, accentuò. Nel 1907 abbandonò Siena per Roma, dove cercò di affermarsi come giornalista e scrit-tore; ma la capitale, affascinata dall’estetismo dannunziano, non apprezzò il suo realismo aspro e severo. Il ritorno a Siena, in casa del padre, si ri-

velò tutt’altro che facile. Trovò allora lavoro pres-so le ferrovie, a Pontedera e poi a Firenze, finché, alla morte del padre, vendette la trattoria, man-tenendo solo alcuni poderi, e cercando di vivere di rendita. Nel frattempo pubblicò raccolte di ver-si, un poemetto, un’antologia di scrittori senesi e scrisse due romanzi che restarono inediti (Ricordi un impiegato e Ghìsola, che divenne poi Con gli occhi chiusi). Nel 1917 pubblicò la raccolta di rac-conti Bestie e, nel 1919, Con gli occhi chiusi. Morì a Roma nel 1920. Gli altri suoi romanzi, Il podere, Tre croci, L’egoista, furono pubblicati postumi.

Con gli occhi chiusi (1919)

La­trama­­Pietro Rosi è un adolescente introver-so, goffo e insicuro. Suo padre Domenico, proprie-tario di una trattoria, è un uomo rozzo e irascibile ma dotato di un solido senso pratico, sua madre Anna è malata di epilessia e succube del marito. Domenico vorrebbe che il figlio lo affiancasse nella conduzione della trattoria e nella gestione dei terre-ni di famiglia, ma Pietro, malinconico e sognatore, si rivela inadatto alla “lotta per la vita”. A Poggio a’ Meli, podere dei Rosi, vive Ghìsola, una giova-ne contadina bella e sensuale, dal temperamento forte e aggressivo. Pietro si innamora di lei e fra i due nasce una tormentata relazione. Le redini del rapporto sono tenute dalla ragazza, che domina il debole Pietro e lo tradisce ripetutamente. La morte della madre rende più difficili i rapporti di Pietro con il padre, il quale ignora o disprezza i sentimen-ti e le aspirazioni del figlio. Pietro, che ha ormai vent’anni, decide allora di trasferirsi a Firenze per continuare gli studi, ma va incontro a una serie di insuccessi. Il tempo passa e in città ritrova Ghìso-la, che scatena in lui un amore possessivo e totale, rendendolo incapace di accorgersi della realtà: la donna conduce infatti una vita dissoluta ed è man-tenuta da un commerciante molto più anziano di lei. Quando rimane incinta di un altro, Ghìsola cer-ca di combinare in tutta fretta un matrimonio ripa-ratore con Pietro, che è all’oscuro di tutto. E solo quando una lettera anonima gli rivela il luogo dove Ghìsola si guadagna da vivere, una casa di tolleran-za, Pietro apre finalmente gli occhi e la lascia.

Un­romanzo­di­ “deformazione” Con gli occhi chiusi può essere considerato un romanzo di formazione secondo i modelli ottocenteschi, per la scelta di raccontare la vita del protagonista dall’adolescenza ai vent’anni attraverso una serie di esperienze formative: l’amore passionale per Ghìsola, il distacco dal padre-padrone Domenico, l’esperienza scolastica, le letture, le idee politiche, insomma le varie tappe del suo inserimento nella società. Tuttavia, secondo alcuni critici, si trat-terebbe, piuttosto, di un romanzo di “deforma-zione”, perché le esperienze del protagonista lo portano verso il fallimento di ogni sua più pura, ingenua e autentica aspirazione, mettendolo di fonte alla sua inadeguatezza, alla sua incapaci-tà di affermare la propria personalità per farsi strada nel mondo. In questo senso Pietro è una delle più notevoli figure di “inetto” della nostra letteratura.

Un­romanzo­autobiografico Il romanzo Con gli occhi chiusi è intessuto di spunti autobiografici. La giovinezza di Pietro Rosi ricorda quella vissuta da Tozzi, che ebbe un’adolescenza difficile fatta di delusioni amorose, conflitti familiari, insuc-cessi scolastici. Il suo fallimento esistenziale si spiega come riflesso dell’incapacità di resistere all’influenza negativa di un padre egocentrico e violento, di un mondo contadino gretto e chiuso, di coetanei più spesso sadici che solidali.

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Siamo alla fine del romanzo. Una lettera anonima ha informato Pietro dei tradimenti di Ghìsola, fornendo l’indirizzo della donna: si tratta di una casa di tolleranza e Pietro decide di verifica-re personalmente come stiano le cose. Quando incontra la donna, stenta a credere alla realtà che

gli si presenta, rimanendo “con gli occhi chiusi”, ancorato all’immagine idealizzata di lei. Sarà solo l’evidenza dello stato di gravidanza di Ghìsola a far prendere coscienza a Pietro della cruda realtà, distruggendo in modo traumatico le sue illusioni d’innamorato.

La realtà svelata(con gli occhi chiusi)

CONTENUTI Pietro scopre l’inganno di Ghìsola

Entrò nell’uscio indicato dalla lettera, passando tra alcune donne che non si scansarono. La scala era buia e sudicia, con odore di lezzo1 e di cipria.

Al primo piano, dalla porta aperta un poco, scorse, con una vestaglia rosea, una prostituta; che lo guardò quasi ironicamente.

Al secondo piano era un altro appartamento aperto lo stesso. Si soffermò per ascoltare: udiva alcune voci allegre di donne; una canticchiava. Se ne dette la peggiore spiegazione e poi la migliore. Ma rabbrividì: «È possibile che Ghìsola si trovi in mezzo a tale gente?». E, come per fuggire, salì più in fretta gli altri scalini.

Si fermò, con il respiro mozzato, all’ultimo piano. Vi era un salotto con una tavola ovale in mezzo: la vista gli si offuscò.

Allora intravide, confusamente, una donna distesa in un canapè2, che conversava con un soldato, il cui berretto era distante da loro, sopra una sedia.

Questa donna ebbe paura di Pietro, che la fissò stravolto. Toccò con una mano il ginocchio del soldato, ed ambedue gli posero gli occhi addosso. Egli fece un altro passo, ma gli pareva di non avere più gambe: era come dinanzi ad un incubo improvviso; a cui non voleva credere. Balbettò qualche cosa, ma la donna non rispose. Allora egli si convinse d’averla offesa e stava per andarsene.

Ma in quel momento, Ghìsola s’avanzò da un uscio aperto. Scorgendolo, si arrestò subito; impallidì fino quasi a svenire; ma poi tornò a dietro, sorreggendosi con un gomito lungo il muro, come torna indietro un topo mezzo schiacciato dal colpo avuto.

Per non soccombere alla sensazione che Pietro aveva di perdere l’equi-librio, dopo essersi sentito afferrare come da una forza, la seguì a caso in una stanza di cui vide soltanto la finestra.

Ella si era già tolta la giacchetta troppo sporca, quando egli entrò; ma aveva dovuto sedersi, perché fosse meno visibile il profilo della gravidanza.

Egli si curvò a baciarla, quasi piangendo: – Perché stai così? Ella non sapeva quel che rispondere: «S’è accorto che sono gravida? E

quando glielo devo dire? Mi aspettavo che avvenisse questo». Poi parlò: – Sono tutte donne qui. Egli, istantaneamente, non le credette più, e rispose:

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1.­ lezzo: puzza tipica del bestiame.2.­canapè: divanetto.

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– Ma io non voglio. Rivestiti. Perché hai questo livido nel braccio? Ella temeva d’imbrogliarsi, ma rispose: – Mi son morsa da me. Egli pensò che poteva esser vero. Poi, dopo una pausa, nella quale sperò

che tutto si dissipasse, le disse: – Andiamo via di qui, ti voglio parlare. – Stiamo qui. Io non esco oggi. Ci fu un’altra pausa, che gli fece pensare: «Perché non ho chiesto di

quale specie è il tradimento suo? Così non mi accerterò mai di niente. Che posso dirle?».

– Non mi piace questa casa. E che cosa è? – Te lo dirò; non c’è niente di male. Ella aveva deliberato più d’una volta di confessargli la gravidanza; ma

ora le parve impossibile; e voleva nasconderla proprio davanti alla sorpresa. Egli si decise a parlare più in fretta:

– Alzati. Entrò la padrona dell’abitazione: una donna robusta e tarchiata, con una

cintola3 di cuoio bianco intorno alla vita; una levatrice che teneva a retta le partorienti.

Pietro si volse a lei intimorito dell’effetto che i suoi sospetti avrebbero potuto produrle. Cercò di spiegarle perché si trovasse lì. La donna, che sapeva tutto, non vide nessun riparo per Ghìsola; e temette ch’egli l’avrebbe uccisa.

Ghìsola guardava la finestra, per buttarvisi; con un impulso isterico, reso più possibile dalla sua gravidanza.

La donna s’indugiò, accomodando il lavamano4, ripiegando una salviet-ta, vigilando Pietro con la coda dell’occhio e cercando di chiedere a Ghìsola quel che dovesse fare.

Pietro aspettava ch’ella se ne andasse, mentre tutti i suoi gesti lo impa-zientivano. In fine, con grande sforzo, le disse:

– Voglio restare solo con Ghìsola. E Ghìsola, avendo nel frattempo infilata un’altra camicetta, senza alzarsi

dal canapè e senza che egli vedesse niente, rispose: – Vada pure… Ci penso io. Ma il suo terrore non diminuiva; e le pareva che avrebbe dovuto ingi-

nocchiarsi subito. La donna uscì con circospezione; e non chiuse l’uscio, ponendosi ad origliare. Pietro, accorgendosene, prima di chiedere qual-che spiegazione, volle chiuderlo; ma non riuscì a spingere il chiavistello. Nondimeno non avrebbe voluto offendere Ghìsola, con le domande che doveva fare, più propenso ad attendere ancora.

Ella si alzò: – Non chiudere… Non ci ode nessuno. Allora egli, voltandosi a lei con uno sguardo pieno di pietà e di affetto,

vide il suo ventre. Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai piedi di

Ghìsola, egli non l’amava più.

da Opere, a cura di G. Tozzi, Rizzoli, Milano, 2003

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3.­ cintola: toscanismo per “cinta”.4.­ lavamano: bacinella di ceramica, appoggia-ta su un treppiede, con-tenente acqua destina-ta all’igiene personale.

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  Pietro avanza nella casa spaesato e incapace­di­ ri-conoscere­l’ambiente in cui si trova, nonostante gli evi-denti segnali: l’«odore di lezzo e di cipria», le figure femminili che si scansano, la prostituta che lo guarda ironicamente, la donna e il soldato nel salotto. Egli a tratti sembra comprendere come stiano le cose, ma subito cerca di sottrarsi alla verità autoingannandosi: «Se ne dette la peggiore spiegazione e poi la migliore».Pietro assume lo stesso atteggiamento­ ambivalente nei confronti di Ghìsola: la segue «dopo essersi sen-tito afferrare come da una forza», le crede ingenua-mente, spera che tutto “svanisca” rifiutandosi di com-prendere la situazione. L’incontro fra i due segna per entrambi la fine di un’illusione: la donna è sorpresa, ma cerca comunque di proseguire nel suo inganno; Pietro la segue quasi inebetito, ma ancora si ostina a non credere all’evidenza, fino a quando non scorge il «ventre» di lei.

  Il protagonista mostra di subire la vita “a occhi chiusi”, rinunciando a vedere, prigioniero di una soli-tudine che gli rende difficile la comunicazione con gli altri, passivo e inerme anche quando la realtà si fa evi-dente. Anche Pietro, pertanto, è un “inetto” incapace di affrontare la vita: come altri grandi personaggi del contemporaneo romanzo della crisi (vedi il Manuale, pp. 363 ss.), egli resta chiuso nel suo mondo senza essere capace di confrontarsi con la realtà che lo circonda. Tuttavia, a differenza dei personaggi piran-delliani che cercano di sottrarsi al dissidio tra vita e forma attraverso la pazzia o gesti eclatanti (si pensi,

per esempio, a Belluca della novella Iltrenohafischia-to, vedi il Manuale, p. 550), o del protagonista della Coscienza di Zeno (vedi il Manuale, pp. 452 ss.), che tenta di scoprire la causa della sua inettitudine con la psicanalisi, Pietro è prigioniero della sua condizione. Schiacciato da una figura paterna ingombrante (in maniera non dissimile da Gregor Samsa, protagonista della Metamorfosi di Kafka, vedi U.8) e dalla sua fra-gilità psicologica, egli è destinato a soccombere nella lotta della vita e, per certi aspetti, può dunque essere definito un “vinto”; emblematica, in tal senso, è la reazione della padrona del bordello. La donna pensa che egli ucciderà senza’altro Ghìsola, ma Pietro si preoccupa soprattutto di non offendere la ragazza e di giustificare la sua visita improvvisa: solo dopo aver visto il suo stato di gravidanza, si accorge di essere stato ingannato e di non provare più niente per lei. Egli «non l’amava più» è la frase lapidaria, che testimonia l’impossibilità di una qualsiasi forma di riscatto, con cui si chiude il romanzo.

  Lo stile di Tozzi è­frammentario, basato su periodi brevi, caratterizzati da una sintassi lineare in cui la subordinazione è assai rara, e sull’uso frequente del discorso diretto, anch’esso costruito con frasi scarne, semplici, che sottolineano la solitudine dei personaggi, incapaci di comunicare fra loro. Il linguaggio è collo-quiale e ricco di espressioni che riproducono il parlato della campagna toscana da cui l’autore proveniva (per esempio, «gli pareva di non avere più gambe», «gravi-da», «come un topo mezzo schiacciato»).

­PER­LAVORARE­SUL­TESTO

COMPRENSIONE

Il­riassunto

1. Riassumi il brano in 5 righe.

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La­realtà

2. Che cosa vede Pietro una volta entrato nella casa? Quali aspetti della realtà fanno chiaramente riferimento a una casa di tolleranza?

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­VERSO­L’ESAME­­ 1a­prova,­tip.­A Analisidiuntestoinprosa

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Gli­“occhi­chiusi”

3. Perché il protagonista sembra avere gli “occhi chiusi”?

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ANALISI

La­sintassi

4. Analizza la sintassi delle sequenze narrative e delle sequenze dialogate e indicane le caratteristiche. Quale effetto espressivo produce questa scelta dell’autore?

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I­personaggi

5. Il narratore si sofferma a descrivere stati d’animo e sentimenti dei personaggi? Da quali elementi del testo è possibile ricostruirne il carattere?

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APPROFONDIMENTO

L’interpretazione

6. Anche Pietro può essere considerato un inetto: quali tratti lo caratterizzano come tale? Rispondi fornendo una tua interpretazione complessiva del brano letto, tenendo presente anche l’introduzione all’opera.

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Il­commento

7. Delinea un breve ritratto di Pietro, soprattutto relativamente agli “occhi chiusi” con cui cerca di non vedere la realtà. Scrivi sull’argomento un commento di una o due colonne di metà di foglio protocollo, facendo precisi riferimenti testuali all’ambivalenza del suo atteggiamento.

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sezione­1 Da Roma capitale al primo dopoguerra

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Sibilla­Aleramo

La­vita­e­le­opere

Sibilla Aleramo, il cui vero nome era Rina Faccio, nacque ad Alessandria nel 1876. In seguito visse a Milano, a Porto Civitanova Marche e, infine, a Roma. A sedici anni sposò un dipendente del padre che l’aveva violentata, ma la rozzezza dell’uomo e la sua prepotenza trasformarono il matrimonio “riparatore” in un inferno. Lasciato il marito e trasferitasi a Roma, dove aveva stabilito in precedenza dei contatti di lavoro come giornalista, si dedicò alla scrittura, e all’impegno di femminista. Fondò insieme allo scrittore Giovanni Cena, cui si era legata sentimentalmente, le Scuole dell’Agro Romano, con la finalità di alfabetizzare la popolazione dell’Agro Pontino.

Sulla sua vicenda matrimoniale scrisse il romanzo autobiografico Una donna (1906), che riscosse su-bito un enorme successo, del quale lei, tuttavia, non seppe approfittare; la sua seconda opera, in-fatti, Il passaggio, un poema in prosa, uscì soltanto nel 1919. In seguito condusse una vita errabonda e allacciò numerose relazioni amorose, specie con intellettuali e scrittori dell’epoca, tra cui Dino Campana. Nel 1946 si iscrisse al Partito comunista italiano e si dedicò a un’intensa attività di confe-renze e congressi. Morì a Roma nel 1960. Tra le altre opere ricordiamo il romanzo Amo dunque so-no (1927) e la raccolta di liriche Luci della mia sera (1956).

Una donna (1906)

La­trama­­Lina conduce un’esistenza tranquil-la all’interno di una famiglia borghese: il padre, con il quale ha un intenso legame affettivo, è pro-prietario di una fabbrica dove anche lei lavora co-me impiegata.La tranquillità di Lina viene improvvisamente turbata dal tentato suicidio della madre: come verrà a sapere da un suo collega, la ragione dell’at-to è da ricercarsi in una relazione extraconiugale che il padre ha da diverso tempo.A questa prima, cocente delusione, si aggiunge la corte serrata e aggressiva di un collega che, una volta violentata la ragazza, pretenderà un matri-monio riparatore. Lina si trova così, a soli sedici anni, moglie di un uomo profondamente diverso da lei, rozzo e inca-pace di comprenderla: l’aveva tradita durante il fidanzamento – come Lina scoprirà in seguito – e ora la ama in maniera autoritaria e possessiva. Dopo la nascita del figlio, Lina si rifugia nell’amore per il bambino per sfuggire alla sua solitudine; qualche anno dopo, si sente attratta da un altro uomo, all’apparenza sensibile, sincero e desideroso

di offrirle quell’amore che non ha mai vissuto; ma anche lui, a un certo punto, le si avvicina in manie-ra rude, ricordandole lo stupro subito dal marito. Questi, venuto a sapere che la moglie si incontra con un altro uomo, la picchia selvaggiamente in-ducendola a tentare il suicidio; la vita di Lina, per qualche tempo, è soltanto una sopravvivenza con l’unico conforto dell’amore per il bambino. In seguito, tra contrasti, liti e proibizioni, la don-na comincia a collaborare come giornalista con alcuni giornali romani. Il suo successo professio-nale e le nuove conoscenze acuiscono ancora di più l’astio, la possessività e il senso di inferiorità del marito; Lina non riesce più a vivere accanto a lui, ma egli le impone un ricatto: se lei lo lascerà, non potrà mai più rivedere il figlio.Dopo un periodo tormentato, la donna decide co-munque di andarsene, convinta di non poter ga-rantire al figlio la felicità che merita, accanto a una madre che rinuncia a vivere.Il romanzo si conclude con la speranza di Lina che il figlio, una volta adulto, capisca le ragioni di questa dolorosa scelta.

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CONTENUTI Il sospetto del tradimento La violenza del marito Il tentato suicidio

Fino a quel giorno io m’ero creduta in possesso d’una salda morale, sempli-ce ed evidente, colla quale sarei passata nella vita senza dubbi e senza prove. Se il perché dell’esistenza mi sfuggiva, se intorno a me dalla fanciullezza in avanti avevo visto scemare via via i motivi di entusiasmo, di commozione, di orgoglio, se la mia individualità era da me stessa quasi ignorata e perenne-mente tradita, non m’era però mai venuta meno la fiducia nella volontà e m’erano riuscite sempre incomprensibili le disfatte provocate dal sentimen-to o dal senso, lo sfacelo d’un’anima. Il primo grande dolore che avevo pro-vato mi era venuto da mio padre1, dalla scoperta della debolezza d’un uomo che m’era parso un dio. Io avevo bisogno di ammirare innanzi di amare. Accettando l’unione con un essere che m’aveva oppressa e gettata a terra, piccola e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino di donna che m’imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar sola2. Ma avevo così anche voluto che la fatalità non fosse più forte di me, avevo mostrato un volto umano a quel fato.

Avrei ora ammesso nella mia vita miseranda l’intervento ironico d’una forza estranea e sconosciuta? Mi sarei potuta credere suo ludibrio3? Mi sarei detta ch’io non era che un essere ibrido4, incerto, in balìa dell’ambiente, fa-cile preda alle voglie infami che mi circondavano?

[...] E i miei vent’anni insorsero... Perché non avrei potuto esser felice un istante, perché non avrei dovuto incontrare l’amore, un amore più forte di ogni dovere, di ogni volere? Tutto il mio essere lo chiamava. Quell’uomo mi aveva soggiogata per tante settimane, aveva saputo imporsi al mio pensie-ro... Perché? Perché ero sola, disamata, assetata ed anelante5...

Lui?6 Era proprio lui, quell’uomo miserevole che m’era apparso, la sera avanti, spoglio d’ogni poesia e d’ogni illusione, brutale e ridicolo? E un’ira folle mi prendeva contro me stessa, che cadeva subito per lasciar posto ad una vergogna profonda. Io avevo rinunciato a me stessa. Quel poco ch’ero divenuta, quella creatura umile ma splendente d’una pura maternità, io

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1. Il­primo...­padre: si riferisce alla relazione extraconiugale del padre, la scoperta della quale è stata per lei un vero trauma.

2.­Accettando...­sola: si riferisce al marito.3.­ludibrio: derisione, scherno.4.­essere­ibrido: insieme di cose

o sentimenti male assortiti.5.­anelante: ardentemente desi-derosa (di essere amata).6.­Lui?: si riferisce all’uomo di

cui si è invaghita e che l’ha de-lusa.

Lina, che sta vivendo tutta l’infelicità del suo matri-monio, ha conosciuto un uomo e si è invaghita di lui. Anche lui è sposato: sua moglie, una donna ari-da e molto malata, sta per morire. Le confidenze reciproche sull’infelicità coniugale li uniscono e Li-na, per la prima volta, pensa di aver trovato l’amo-re; ma una sera l’uomo l’aggredisce, riportando alla

mente di Lina la violenza che aveva subito dal pro-prio marito. Per la ragazza, ancora ventenne, è un’ulteriore delusione e la conferma che gli uomini la considerano soltanto come possibile preda da conquistare. A questa amara constatazione, si ag-giunge il fatto che il marito viene a conoscenza del-la sua relazione.

Lo scandalo(una donna, cap. ix)

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l’avevo buttata ai piedi d’un essere volgare, dallo stupido egoismo, che s’af-frettava a gualcirmi come un’erba sulla strada7! Ero dunque discesa così in basso? La mia smania di vivere m’aveva accecata. La vita che cercavo era l’errore, era l’abiezione... Mi confrontai con mio marito: eravamo allo stesso livello, ed io più abbietta di lui perché lo sapevo.

Alcuni giorni dopo, ero appena tornata col bimbo dal giardino di mio padre, una bracciata di fiori era sul tavolo, l’anima interrogava cupamente il vicino avvenire, senza ricever risposta: quando vidi entrare il dottore con uno strano viso, il dottore che in quell’ora doveva compiere il suo consueto giro professionale.

Bastarono poche parole. Egli veniva dalla casa di quell’uomo, a cui la mo-glie, il mattino, aveva trovato in tasca una mia lettera. La sciagurata sospetta-va da qualche tempo. Ma la verità non l’aveva atterrata. Si sapeva poco lonta-na dalla morte e d’altronde non era quello il primo tradimento del marito, né il primo giorno in cui ella aveva sentito di odiarlo. Voleva vendicarsi prima di morire. Per questo aveva chiamato il dottore, sapendolo mio amico.

Egli mi porgeva la lettera ch’era riuscito a farsi consegnare insieme alla pro-messa del silenzio. E dinanzi al mio volto che si decomponeva per l’insulto, e per lo spasimo, il buon giovane non poté che chiamarmi per nome tremando...

Ci stringemmo la mano, come trovando un reciproco conforto in quel patto di silenzio.

Che cosa credeva? Potevo io spiegargli?Disse quel che gli pareva consigliabile per sfuggire una catastrofe. Dal

canto suo avrebbe vigilato, nulla risparmiato.«Ma non lo riceverà più, mi promette?»Non risposi. Si alzò: e allora soltanto, afferrandogli di nuovo la mano, si

sciolse il nodo che avevo in gola; un singhiozzo mi troncò la voce mentre balbettavo che non sentivo di aver perduto la sua stima.

«Lo credo» e mi guardò triste.[...]Intanto quella donna non aveva saputo o voluto tacere; s’era sfogata con

un’amica, e la notizia, ghiotta quanto incredibile, aveva serpeggiato sino a giungere all’orecchio di un caporione8 della fazione clericale, chiamato per nomignolo l’avvocatino.

Il dottore alle prime voci venne di nuovo a trovarmi; mi disse che biso-gnava che tutto apparisse mera invenzione diffamatoria. [...]

La sera egli tornò, chiese di parlare da solo con mio marito. Posi a letto il bambino, udendo come trasognata il bisbiglio delle loro voci nella stanza at-tigua. Indi fui chiamata; il dottore aveva raccontato che l’avvocatino si diver-tiva da qualche giorno a malignare sulle riunioni serali in casa dell’assessore nostro parente, e sulla recente festa da ballo: io e un’altra signora della comi-tiva eravamo sopra tutto bersaglio di quelle chiacchiere infami: all’una si at-tribuivano parecchi amanti alla volta, a me uno solo, discretamente e ancor platonico, poiché si parlava di sole occhiate dalla finestra e di lettere...

Il dottore era calmo, bonario come il solito, sollecito di rassicurarmi: aveva consigliato al marito dell’altra signora, ed ora al mio, che entrambi chiedessero conto al diffamatore delle sue parole: era l’unico mezzo per rin-tuzzare9 una buona volta l’audacia di quel mascalzone, mostrargli che non lo si temeva.

Mio marito, pallido, si frenava. Rimasti soli, si limitò dapprima a rimpro-verarmi la mia leggerezza, la smania nuovissima venutami in quell’anno di frequentar gente, di mostrarmi elegante e brillante. Per esser tranquilli in paese non bisognava uscir dal proprio guscio!

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7.­ gualcirmi…­ strada: sciuparmi, come l’erba calpestata.8.­caporione: capo.9. rintuzzare: contene-re, fre nare.

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Ma il dubbio lavorava nel suo spirito, dava via via alle sue parole un tono più acre ed imperioso; egli era di coloro che la propria voce accende ed esal-ta fino al parossismo10, nelle ore di tempesta. Io sapevo che nulla più ormai l’avrebbe fermato sulla via delle inquisizioni; sentiva spuntare, annodarsi nel suo cervello i sospetti. Incapace di padroneggiarsi più oltre, esigeva che ne-gassi quello di cui già mi insultava, e che protestassi insieme d’amar lui solo. La faccia convulsa e paonazza, gli occhi fuor della fronte, diventava spaven-toso: ebbi l’improvvisa sensazione d’essere una piccola creatura indifesa sot-to una potenza cieca e bestiale. Rimasi muta, rigida.

Ad un tratto mi risolsi11, investita dalla sua medesima esaltazione. A che mentire? Io avevo chiamato quell’uomo. L’avevo amato forse! L’avevo anche respinto, come respingevo lui, mio marito, e li odiavo entrambi... Mi cac-ciasse! Mi uccidesse! Sentendo il suo orgoglio montare implacabile, tutto il mio essere si levava in un impeto... Egli non interrogava, minacciava, accu-sava. Non mi credeva: mi ero data, lo confessassi...

Non ricordo altro. Rivedo me stessa gettata a terra, allontanata col piede come un oggetto immondo, e risento un flutto di parole infami, liquido e bol-lente come piombo fuso. Colla faccia sul pavimento, un’idea mi balenò. Mi avrebbe uccisa? Con una strana calma mi chiesi se l’anima mia sarebbe mai stata raggiunta in qualche parte dalle anime di mia madre e di mio figlio.

Ed ho il confuso senso della disperata ira che mi assalse quando, dopo una notte inenarrabile in cui il mio viso ricevette a volta a volta sputi e baci, e il mio corpo divenne null’altro che un povero involucro inanimato, mi sentii proporre una simulazione di suicidio... «Bisogna che io ti faccia mo-rire di mia mano; ma non voglio andar in galera: devo far credere che ti sei data la morte da te stessa...».

Ira silenziosa e vana, disperazione spasmodica, agonia atroce, ombre di follia... Giorni, settimane. Tutto è avvolto di grigio; non distinguo più la suc-cessione delle sofferenze, dei deliri, delle soste di stupefazione12. Mio padre, informato, era riuscito col dottore a persuadere l’uomo pazzo ed insieme vile a perdonarmi, a credere che tutto non era se non aberrazione momen-tanea. Mia cognata, mia suocera, avevano toccato il tasto dello scandalo: ogni cosa, piuttosto che la pubblicità di quell’onta! E, insieme, tutta questa gente mi circondava come in un sogno mostruoso: tutti mi credevano una bestia immonda, e tutti mi risparmiavano per viltà.

Ogni notte di me si faceva strazio; ogni giorno eran scene di rimpianto, eran promesse di calma, di oblìo. Mettevo paura?

E intanto la vita esterna doveva apparire immutata. Dovevo uscire a fian-co di mio marito e talvolta fra noi era il bimbo; il dolce fiore sorrideva fra due che s’odiavano.

La mia riputazione già era divenuta cosa pubblica che i due partiti dove-vano difendere od offendere. I miei partigiani potevano sprezzarmi in segre-to, ma dovevano esaltarmi ad alta voce; quelli dell’avvocatino e dell’arcipre-te non mi conoscevano per nulla e dovevano proclamarmi disonesta. In que-sta odiosa disputa che contegno teneva colui che n’era causa? Sua moglie, aggravata dal male, era partita, condotta via dai suoi genitori. Ma erano state notate da più d’uno le passeggiate sotto le mie finestre. Non era egli capace di assumere la posa di colui che ha tutte le ragioni per difendere ca-vallerescamente una donna? Il dottore me lo lasciava temere. [...]

A casa, il bimbo mi attendeva. Egli aveva due anni, mi amava, oh! mi amava con tutta la forza del suo cuoricino; era intelligente, forte, bello, con la dolcezza di mia madre negli occhi. Che cosa mi raccontava della giornata trascorsa? Il suo babbo era cupo; lo lasciammo solo: io composi il corpic-

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10.­parossismo: culmi-ne, esaltazione.11.­mi­risolsi: mi decisi.12.­stupefazione: stato di semi-incoscienza.

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ciuolo fra le lenzuola, rimasi colla mano sulla piccola tepida guancia fin che sentii il respiro del dormiente, tornai in sala da pranzo.

Mio marito aveva incontrato quel giorno l’uomo che credeva mio amante, e gli era parso di scorgere ne’ suoi occhi un lampo di dileggio13; quegli era tra due amici, certo suoi confidenti. Che ne pensavano, che sapevano? Par-lassi, parlassi, per Iddio!

Io restavo in attitudine prostrata, incapace di ogni moto. In verità quasi non udivo distintamente ciò che mi diceva. Sembrava che la mia vita mi sfi-lasse dinanzi, raccolta in pochi episodi, e ch’io la guardassi da un’altra spon-da, con occhi nuovi. Era breve, e non era bella. Che cosa avrebbe detto un giorno mio figlio conoscendola? Se egli quella sera stessa avesse potuto com-prendere e parlare, mi avrebbe pregata certo di trarlo in braccio e di andar lontano con lui nella notte, ad affrontare la miseria, la fame, la morte...

«Tu non parli, non parli! Che cosa mi nascondi, che cosa prepari per tra-scinarmi nel fango, di’, di’?...».

E, ancora, mi trovai a terra, ancora sentii il piede colpirmi, due, tre volte, udii insulti osceni, e, dopo quelli, nuove minacce...

Poi, mentre restavo distesa sul pavimento, trovando una sorta di refrige-rio, come un letargo ad occhi sbarrati, colui uscì sbattendo l’uscio, con un’ultima bestemmia. Aveva svegliato il bimbo?

No. Quando potei muovermi, mi trascinai accanto al lettino, al buio. «Fi-glio mio, figlio mio... La tua mamma non ti vedrà più... È necessario... Non può vivere, è stanca, e non vuol farti soffrire... Tu hai il suo sangue, ma sarai più forte, vincerai... qualcuno ti dirà un giorno forse che tua madre ti ha amato, che non ha amato che te sulla terra, che non era cattiva, che ti aveva sognato buono e grande...».

Tornai in sala. Nella credenza v’era una boccetta di laudano14, quasi pie-na. La trangugiai per due terzi, fino a che l’amaro non mi chiuse la gola. Mi stesi sul divano. E rapidamente mi sentii invasa da un dormiveglia leggero, da un riposo di tutte le membra...

Quando mio marito rientrò, non so se dopo un’ora o poco meno, il mio sopore dapprima gli parve simulato; e riprese, con minor violenza, ad insul-tarmi. La sua voce mi giungeva fiochissima. Dovette cadergli a un tratto lo sguardo sulla boccetta rimasta sul tavolo. Si chinò su me, comprese. Afferrò il vetro col resto del veleno e si precipitò in strada mentre io accoglievo va-gamente il pensiero che ogni aiuto sarebbe stato vano.

Due donne, ecco... Mia suocera preparava il fuoco, l’acqua tiepida, e mia cognata m’indirizzava scongiuri... indi lui che piangeva ai miei piedi. Io ve-devo tutto come attraverso un velo, senza dolore: avevo quasi il dubbio d’es-ser già via, fuori, e di assistere con lo spirito alle ultime convulsioni della mia spoglia15.

La donna mi scosse, mi diede l’acqua, che non potei trangugiare. Aveva preparato un foglio di carta: «Scriverai almeno che sei stata tu, perché que-sto povero cane non abbia anche da passare dei guai!»

Chi sa se il sorriso di compatimento che sentii guizzarmi nell’anima mi si abbozzò sulle labbra aride? Mi si pose la penna fra le dita, ma non la te-nevo. In quella entrò il dottore. Riuscii ancora a far cenno di no, mentre mi porgeva un bicchiere: mi lasciasse, mi lasciasse, almeno lui che sapeva!

Ma la mano ferma ed inflessibile mi resse il capo, mi costrinse.

da Una donna, Milano, Feltrinelli, 1975

13.­dileggio: scherno.14.­laudano: antico me-dicamento per calmare i dolori, a base di op-pio; come tutti gli op-piacei, induce sonno-lenza e, ad alte dosi, agisce come un veleno.15.­spoglia: corpo senza vita.

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  Lina è tormentata dalla delusione nei confronti dell’uomo che credeva di amare e che si è rivelato gretto e brutale.La paura di uno scandalo e la rabbia incontenibile per i pettegolezzi di cui la donna è fatta oggetto, spingono il marito a dichiarare che la ucciderà facendo poi credere che si sia trattato di un suicidio; ma Lina tenta davvero il suicidio e, mentre è in stato di semi-incoscienza, è costretta dalla cognata e dalla suocera a firmare una dichiarazione che scagioni il marito. All’interiorità tormentata della protagonista fa da con-trappunto la manifestazione tutta esteriore della vio-lenza­fisica­e­verbale­del­marito­e un contesto­sociale­ipocrita, che richiede soprattutto che siano salvi l’ono-re e le convenzioni sociali.

  La narrazione, autobiografica, è condotta in prima persona. L’autrice, attraverso la vicenda di Lina, sua alter ego, riflette in modo lucido e puntuale sul pro-prio vissuto, registrando con precisione gli eventi e le sfumature dei propri stati d’animo, quasi conducendo

un’autoanalisi del percorso­ di­ emancipazione­ che la porterà a vivere un’esistenza indipendente e a dedicar-si alla politica e alla causa del femminismo.Nel brano riportato sono già evidenti i segni di una consapevolezza e di una ribellione che ancora, però, non riescono a realizzarsi. La riflessione di Lina non è priva di una certa autocommi-serazione, accompagnata dallo sdegno che prova nei con-fronti del comportamento del marito e del conformismo secondo cui la sua vita «doveva apparire immutata».­

  L’autrice, giovane e autodidatta, adotta uno stile spontaneo e informale, anche se affianca a un lessico­colloquiale­ e­ dimesso alcune espressioni­ di registro elevato, come «miseranda» o «abiezione». La prosa non è esente da una certa enfasi, che si espri-me nell’aggettivazione («sola», «disamata», «asseta-ta» «anelante», ecc.), nei sostantivi – rafforzati dagli aggettivi – che rendono con foga il dolore e l’angoscia («disperazione spasmodica», «agonia atroce», ecc.), e nelle frequenti domande­retoriche.­

­PER­LAVORARE­SUL­TESTO

COMPRENSIONE

Il­riassunto

1. Riassumi il brano in un massimo di 5 righe.

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Lina­e­il­marito

2. Perché Lina è delusa?

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3. Come reagisce il marito di Lina quando viene a sapere delle chiacchiere che si fanno intorno alla moglie?

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­VERSO­L’ESAME­­ 1a­prova,­tip.­A Analisidiuntestoinprosa

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4. Perché Lina tenta il suicidio? Con quali conseguenze?

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ANALISI

Lo­stile

5. Analizza le caratteristiche stilistiche del brano, in particolare riporta qualche esempio di:• parole o espressioni colloquiali o, al contrario, letterarie e auliche;• domande retoriche;• espressioni dal tono enfatico.

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Le­sequenze

6. Lina mostra una notevole capacità di autoanalisi; infatti accompagna la narrazione degli eventi con l’indagine dei propri stati d’animo. Questo condiziona anche la tipologia di sequenze che compongono il brano: analizzale e indica quali sequenze prevalgono.

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I­personaggi

7. Delinea il ritratto dei due personaggi maschili: il marito di Lina e il dottore. Quali caratteristiche ne mette in evidenza l’autrice? Quale rapporto ha Lina con ciascuno di loro?

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8. Spiega l’atteggiamento della cognata e della suocera nei confronti di Lina: a che cosa è dovuto?

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Il­commento

9. In un breve commento delinea la personalità di Lina, soffermandoti sui seguenti aspetti:• la consapevolezza nei confronti della propria situazione;• la ribellione rispetto alla propria condizione e alle convenzioni sociali.

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La­condizione­della­donna

10. Quale condizione sociale della donna emerge dal brano? Rispondi in un elaborato di una o due colonne di metà di foglio protocollo dopo aver riflettuto sulle seguenti domande:• quali differenze emergono fra la condizione della donna e quella dell’uomo?• quali sono i valori di riferimento della cognata e della suocera di Lina (vedi anche esercizio 8)?• Lina come si pone nei confronti del marito? Avverte un senso di inferiorità o si sente pari a lui?

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APPROFONDIMENTO

Confronto­tra­testi

11. Metti a confronto il brano con altri testi che affrontano il tema della condizione della donna – per esempio Vitadaufficio di Matilde Serao (vedi Aula digitale) – e mettine in luce analogie e differenze. In particolare esamina:

• gli ambienti;• l’eventuale presenza di figure maschili e il loro ruolo;• la psicologia delle figure femminili.

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Il romanzo italiano tra Ottocento e NovecentoMappa­concettuale

Federico­Tozzi • La figura dell’inetto­• Ambientazione­regionalistica­• Conflitto­tra­individuo­e­famiglia • Attenzione all’interiorità dei

personaggi descritta attraverso il filtro­deformato­della­coscienza

Luigi­Pirandello­ • Realtà­come­molteplicità­di­

apparenze • L’uomo vive solo­e­dissociato,

sconosciuto­anche­a­se­stesso

Italo­Svevo • La figura dell’inetto • Indagine interiore

Grazia­Deledda • Romanzi psicologici ricchi di elementi

sia veristi sia decadenti • Il mondo rurale e pastorale della Sardegna

nella prima fase viene ritratto secondo canoni naturalistici, nella seconda viene mitizzato

Antonio­Fogazzaro­• Spiritualismo • Malattia morale • Senso del mistero ­• Sensualità • Frequenti descrizioni delle realtà

tra Naturalismo e Decadentismo

Il­romanzo­tra­verismo­e­decadentismo

Sibilla­Aleramo • Elementi autobiografici­• Testimonianza­dell’emancipazione­­

femminile

Autore più rappresentativo: Verga

VERISMO

Matilde­Serao • Elementi autobiografici­• Studi­d’ambiente: descrizione del lavoro

impiegatizio a Napoli­• Angolazione­regionalistica

Autore più rappresentativo: D’Annunzio (romanzo estetizzante)

DECADENTISMO

Verso­il­romanzo­della­crisi

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TRAVERISMOEDECADENTISMOLa letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento è influenzata da due correnti opposte: il Verismo e il Decadentismo. Nella prima produzione nar-rativa di Grazia Deledda è evidente una compo-nente di ispirazione verista, soprattutto nel modo di descrivere la civiltà contadina e pastorale della Sardegna. Tuttavia i suoi romanzi successivi sono incentrati sul senso del peccato, su storie d’amore e di morte, secondo un gusto più tipicamente de-cadente (EliasPortulu e Cannealvento).Un’adesione più marcata al Verismo caratterizza invece la produzione di Matilde Serao: partendo da spunti autobiografici, l’autrice compose dei veri e propri studi di ambiente, descrivendo le condizio-ni del lavoro impiegatizio, concentrando comun-que la propria indagine sulla specificità della realtà napoletana, come accade nel romanzo Ilpaesedicuccagna, in cui viene analizzata la dipendenza dei napoletani dal gioco del lotto.L’orbita regionalista a cui è improntata la narrativa della Deledda e della Serao, oltre a caratterizzare la letteratura più marcatamente verista, come quella di Verga, Capuana e De Roberto, non è estranea nemmeno ad autori dall’interiorità più inquieta, come il vicentino Antonio­ Fogazzaro, che scrive romanzi, incentrati sui temi tipicamente decadenti come il dramma passionale; non mancano, tutta-

via, anche proiezioni verso le dimensioni del mi-stero e del sogno. I suoi protagonisti sono spesso turbati da incertezze e inquietudini spirituali, alla ricerca della fede.

UNCASOISOLATOSibilla­Aleramo scrisse nel 1906 un romanzo che ebbe notevole successo di pubblico. Ispirato alla sua esperienza autobiografica, è la testimonianza del cammino verso l’emancipazione compiuto dal-le donne a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.

ILROMANZODELLACRISIINITALIAIl definitivo superamento dei canoni ottocenteschi del Verismo e dell’estetismo dannunziano, avvie-ne con il cosiddetto romanzo della crisi. Le tre voci che danno vita al romanzo moderno in Italia, sono quelle di Svevo, Pirandello e Tozzi, capaci di met-tere a nudo la crisi dell’individuo nella società mo-derna. I protagonisti dei loro romanzi sono inetti,­sopraffatti­da­angosce­esistenziale,­o­frustrati­nella­loro­identità, o incapaci di vivere in maniera auten-tica in una realtà ormai alienata. Pur nell’ambientazione regionalistica, Federigo Tozzi concentra l’indagine sull’interiorità dei per-sonaggi, piuttosto che sull’ambiente sociale. Così la real tà è rappresentata secondo la coscienza del protagonista.

Il romanzo italiano tra Ottocento e NovecentoPer­il­ripasso in­Sintesi

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Itinerario multimedialePer­l’approfondimento

Nell’Itinerario­multimediale vengono suggeriti numerosi siti dove potrai approfondire i contenuti dell’unità, scoprire curiosità, opere artistiche, film legati agli argomenti trattati.

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