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    Figure e luoghi de l la fo l l ia    Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale

    Parte I

     Teatro e folliaNell’antica Grecia

    La maggior parte delle malattie si cura con ciò che le causa .Ippocrate

    Il rapporto tra teatro e follia è attraversato da una lunga storia mitizzata in cui lerispettive identità sembrano sovrapporsi. Dalla follia raccontata da personaggi

    della drammaturgia (Oreste, Aiace, Re Lear, Amleto, Enrico IV) alla follia vissutada attori coinvolti in un destino di alienazione e di vera e propria condizionepsichiatrica (Artaud per tutti), si è andato alimentando quasi un luogo comuneche vede il teatro come la patria della follia e l'attore come il genio un po’ folle!Cerchiamo di tracciare un percorso in grado di offrire spunti di riflessione e dichiarificazione in merito a tale rapporto. Un percorso che – attraversando varicontesti culturali, varie epoche e vari testi – sia in grado di restituire al teatro lasua identità e la sua funzione. L’identità del teatro pur incontrando spesso lafollia in vari modi non può essere ad essa ricondotta. Nella sua funzione critica,conoscitiva, trasformativa il teatro incontra necessariamente la follia in quantolimite sul quale misurare il senso e il destino dell’esistenza individuale e del

    legame sociale: la follia è stata da sempre, già a partire dalla tragedia greca, ilcampo privilegiato per interrogare l’umano. Per interrogarlo sugli enigmi che nonriescono a trovare risposte nel pensiero razionale o nel dialogo quotidiano.Nella tragedia ritroviamo i grandi temi che riguardano le sofferenze estreme,l’alterità, l’indicibile, temi che si condensano nell’esperienza della follia.

    Miti fondativi

    Una delle qualità essenziali del teatro è la sua capacità di misurarsi con l’indicibilee con l’alterità. Attraverso il linguaggio teatrale è possibile la dislocazione spazialee temporale;. è possibile dar corpo a infiniti mondi, tanti quanti l’immaginazionee le invenzioni tecniche dell’uomo possono continuamente edificare; è possibileimmergersi nelle oscurità che la ragione da sola non può esplorare. Talipossibilità hanno da sempre costituito la grande fascinazione del teatro.

     Ad affascinare e a sorprendere ogni volta lo spettatore è l’alterità delle identità,dei ruoli, delle forme in cui l’attore può immergersi. E il gioco dei personaggi, deitravestimenti, delle metamorfosi sembra fondare il teatro stesso.La capacità dell’attore di misurarsi con l’alterità, la sua identità multipla, le suemetamorfosi, richiamano i miti fondativi del teatro stesso, i suoi numi tutelari  chesono di fatto anche i riferimenti mitici della follia: Proteo e Dioniso.

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    Il mito di Proteo, divinità greca delle trasformazioni, può aiutarci a scoprire ilsenso e il motivo della comune radice nella pratica metamorfica del teatro e della

    follia.La vicenda di Proteo è narrata nell’Odissea  IV, vv. 350-570 e ripresa da Virgilionelle Georgiche  IV.Ulisse, giunto all’isola di Faro davanti l’Egitto, a causa della mancanza assoluta di

     vento, non riesce più a riprendere il mare. Le provviste e le forze degli uominisono ormai allo stremo, quando all’improvviso appare una dea, Eidotea, figlia diProteo (il vecchio del mare), commossasi per la triste sorte di Ulisse. Mentrequesti errava da solo sull’isola, ella gli confida il modo per poter riprendere ilmare:«Si aggira qui il Vecchio verace del mare,/immortale, Proteo egizio, il quale delmare/sa tutti gli abissi , servo di Poseidone;/questi è mio padre, dicono, e m’ha

    generata./Se tu, tendendogli insidie , potrai impadronirtene,/lui ti dirà il cammino e ladurata del viaggio,/e il ritorno, come potrai navigare sul mare pescoso./Anche tisaprà dire, se tu vuoi,/che male e che bene  nel tuo palazzo è avvenuto,/mentre tuerri lontano in lunga, difficile via».Ulisse le chiede come può catturare Proteo e la dea gli rivela che suo padre nelmezzo del giorno esce dal mare e si addormenta al fresco nelle spelonche inmezzo alle foche, che«dormono strette, uscite dal mare schiumoso,/l’acuto odore del mare riccod’abissi emanando». Con alcuni compagni Ulisse deve nascondersi e camuffarsitra le foche. Il vecchio prima conterà le foche, come un pastore con le sue greggi,e poi si addormenterà in mezzo a loro. A questo punto devono con forza brandirlo,

    immobilizzarlo «benché si dibatta e si slanci a fuggire./Tenterà allora di divenire ognicosa  che in terra/si muove, e acqua e fuoco che prodigioso fiammeggia,/ma voitanto più tenetelo fermo e stringetelo./Quando infine lui stesso t’interrogheràcon parole,/con l’aspetto con cui l’avrete visto dormire,/lascia allora la forza, libera ilVecchio,/o guerriero, e chiedi chi degli dèi ti perseguita,/chiedi il ritorno, comepotrai navigare sul mare pescoso».Scuoiate quattro foche, gli achei si stendono ricoperti della pelle e aspettano.Ecco che a mezzogiorno viene Proteo, conta e si stende.«E noi gridando balzammo e gli gettammo le mani/addosso: ma il Vecchio nonscordò la sua arte ingannevole ,/prima di tutto divenne chiomato leone,/e poiserpente e pantera e immane cinghiale;/liquida acqua si fece poi, albero d’alto

    fogliame:/ma noi tenevamo forte, con cuore costante ./Quando alla fine fu stanco  il Vecchio maestro d’astuzie,/allora interrogandomi con parole diceva…» ( corsivimiei  ).

     A questo punto Ulisse può farsi svelare tutto ciò che vuole sapere, in quantoProteo è divinità marina, anzi oceanica: del mare sa tutti gli abissi.Proteo è il mito dell’identità metamorfica come difesa. Usa l’arte dell’inganno,della metamorfosi, per sfuggire all’Altro, per eludere la presa. Proteo è preda e lasua unica difesa è la trasformazione. Ulisse è il cacciatore che si finge animale perpoter catturare la vera preda. Le varie identità che Proteo assume allo scopo dieludere la presa di Ulisse, sono finalizzate alla conquista di un’invisibilità cherende invulnerabili. “La difesa di Proteo, l’indovino che conosce il passato e il

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    futuro, non è la fuga, ma l’esporsi alla vista e insieme il rendersi invisibile pereludere la presa di chi lo minaccia o di chi minaccia il suo potere” (Mariti, in

     press  ). Lungi dall’essere un’allegra operazione di travestimento festivo, la

    metamorfosi appare come tentativo di sfuggire alla presa, alla sofferenza, aldolore. Ulisse stesso deve travestirsi per catturare Proteo e costringerlo a direquanto sa, impedendo le sue metamorfosi riuscirà ad ottenere le risposte in gradodi rimetterlo sulla rotta del ritorno.1  Troviamo in questo mito una apparentesovrapposizione del processo metamorfico, così evidente nel teatro come nellafollia. Come se lo sdoppiamento dell'attore richiamasse la divisione del soggettoschizofrenico e, anzi, ne ricalcasse le modalità, le trasformazioni.Ma la metamorfosi nel caso dell’attore può essere una scelta, una strategia perinterrogare e conoscere sé stesso e l’altro; nel caso del folle è uno smarrimento,un patimento, anche se può condurre alla fine a una reintegrazione.

    Un’altra divinità è condivisa dal teatro e dalla follia: Dioniso. Il profondo legametra Dioniso e il teatro (o meglio la tragedia greca), è ormai attestato, sia se loriconduciamo alla derivazione della tragedia dal satyrikón   e dal “drammasatiresco”, sia se lo facciamo derivare dal ditirambo.2  In ogni caso, la tragediasembra aver avuto origine da canti e danze in onore del dio. Le stesse gare deitragediografi si svolgevano in occasione delle Grandi Dionisie , all’inizio dellaprimavera.Ma al di là del rapporto storico, tra culti dionisiaci e nascita della tragedia, cisembra interessante rilevare come il mito stesso del dio abbia contribuito a creareuna immagine del teatro e dell’attore che risente fortemente della doppia naturadi questo dio. Dioniso si mostra gravido di materia teatrale: dio dell’ambiguità,

    della maschera e del travestimento.Nato da Zeus e da Sémele, il piccolo dio ha la facoltà di trasformarsi a suopiacimento; per sfuggire alla furia di Era, gelosa del nuovo figlio di Zeus. La suaabilità di cambiare forma sarà preziosa: prenderà le forme di una fanciulla, di uncapretto; da grande utilizzerà questa facoltà per vendicarsi dei suoi nemiciprovocando metamorfosi. Esemplare, da questo punto di vista, l’episodio narratonelle Baccanti  di Euripide, in cui si trasforma in toro per sfuggire alla cattura diPenteo, re di Tebe, che si opponeva al suo culto, e per vendicarsi induce Agave,madre di Penteo, al divino furore, la quale scambierà suo figlio per un cinghiale(o un leone) e lo farà a pezzi. Così come, per vendicarsi di Licurgo lo induce ascambiare suo figlio per un tralcio di vite, recidendolo. O ancora, per punire i

    pirati che lo avevano rapito nelle sembianze di un giovanetto, trasforma i remidella nave in serpenti e l’albero in tralci di vite e i pirati che si gettano a marespaventati sono trasformati in delfini.Come per Proteo, troviamo il dio che si traveste, che ricorre alle metamorfosi peringannare i mortali.

    1  Così come nell’agnizione , in cui alla fine dei giochi di travestimento, camuffamento e scambi diidentità, si arriva al momento di “riconoscimento”, il padre riconosce il figlio e viceversa, ilgiovane riconosce l’amata…. Questo momento di svelamento della vera identità è fondamentalein tutto il teatro dalla tragedia (vedi Edipo) alla commedia plautina a Shakespeare a Pirandello.2 Canti di culto in onore di Dioniso. Aristotele stesso era convinto di una filiazione della tragediadal ditirambo ( Poetica , 4, 1449 a 9 ss.).

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    Ma Dioniso è anche dio della follia, della frammentazione3, del sacro entusiasmo,della possessione. I culti dionisiaci non sono riducibili all’ebbrezza da vino,l’aspetto centrale è la trance , la possessione, in cui l’individuo perde

    temporaneamente la sua identità per divenire altro. Il termine greco mania   puòessere considerato come l’equivalente esatto della trance o, a seconda delcontesto, della follia, del delirio. Platone stesso – come vedremo piùdettagliatamente dopo – parlando di mania   la riferisce sia alla pazzia - la mania  prodotta dalle umane debolezze, una forma di malattia; sia a un divino estraniarsi- in questo caso abbiamo le manie religiose ispirate dagli dei: la mantica  ispirata da

     Apollo, la telestica   ispirata da Dioniso, la  poetica   dalle muse, l’erotica   da Eros e Afrodite. La mania telestica, ossia rituale, è appunto legata a Dioniso e si esprimecome delirio o trance di possessione o entusiasmo, in cui il dio prende postonell’individuo. Il delirio mistico non equivale alla pazzia come stato di malattia odebolezza, bensì ad uno stato in cui si trascende temporaneamente la razionalità

    e, attraverso la musica e la danza, si conduce il processo entro la cornice rituale:colui che accetta in sorte la mania telestica ritrova la salute, essendo messo intrance   in modo corretto, in altri termini, osservando correttamente i riti dellatrance .4 

     Vediamo come, seppure il richiamo del teatro a Dioniso sembra giustificare unaprossimità con la follia, questa stessa va assunta non tanto nella accezione dipatologia o pura irrazionalità quanto invece nella sua natura di mania telestica , stato“altro”  di coscienza indotto e condotto all’interno di una cornice rituale,codificata. La danza e i canti delle baccanti non sono sfogo sfrenato eincontrollato ma esecuzione di figure simboliche e imitazione delcomportamento di divinità ( daimones  ), di animali, di ninfe, di satiri.

    La follia nella medicina greca

    Fare uno studio sulla follia nella medicina dell’antichità è impresa non semplice.Ovviamente il primo atteggiamento da eliminare è quello di affrontare il discorsoa partire da un punto di vista contemporaneo col tentativo di riportare il temadella follia nell’ambito della psichiatria - termine coniato per la prima volta solonel 1846  - o in un orizzonte concettuale che prescinda dal contesto storico-culturale di riferimento. Dobbiamo quindi prendere atto che non esiste una

    3 La sua stessa nascita è segnata dalla lacerazione del corpo, da uno smembramento. Dopo la suanascita Dioniso fu rapito dai Titani che, su ordine di Era, lo dilaniarono, fecero a pezzi il suocorpo e bolliti in una grande pentola. Per questo è anche chiamato il “lacerato” o il “nato due volte”. Ed è per questa sua natura che Nietzsche aveva considerato Dioniso il dio della tragedia:egli rappresenta il caos, la frammentazione, la sofferenza della ferita originaria, la sola capace disuscitare estreme emozioni (terrore e pietà), l’angoscia primordiale. Taglio sofferto, dolorosamancanza, smembramento. Dio dell’orgia, della danza, della gioia, dell’ebrezza, dell’entusiasmo,trasforma quella ferita, quel taglio, quella sofferenza in canto, danza, estasi, rinasce dai brandellidel suo corpo, mette insieme i pezzi, si trasforma in unità, è il dio capace di entrare in contatto colcaos e di edificare un nuovo cosmos.4 Rouget G., Musica e trance , Einaudi, Torino, 1986, p. 268. 

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    medicina psichiatrica antica, non c’è un medico specialista della follia e Ippocratestesso, come vedremo, la inserisce tra le altre malattie.Nella Grecia arcaica dei poemi omerici la medicina era legata al mito dell’eroe

    guaritore che tramandava l’arte della guarigione. Il mito è narrato da Omeronell’Iliade 5 come da Pindaro nella Pitica  III6. Chirone, il più saggio tra i centauri, fuun grande educatore e un grande medico. Era figlio di Crono e di Fìlira e avevatrasmesso la sua sapienza al principe tessalo Asclepio.Dai poemi omerici si possono desumere due atteggiamenti nei confronti dellamedicina: uno è quello mitico-religioso, secondo cui le potenzialità guaritrici( téchnê iatriké  ) sono di origine soprannaturale e divina, l’altro è quello più laico epragmatico dettato dall’esperienza di uomini esperti nell’uso di piante e didroghe, la cui esperienza derivava probabilmente dall’Egitto, come è deducibiledalle parole di Omero:

    Intanto altro pensò Elena, figlia di Zeus.Buttò improvvisa del vino, di cui bevevano, un farmacoChe l’ira e il dolore calmava, oblio di tutte le pene.Chi lo inghiottisce, una volta mescolato col vino,giù dalle palpebre pianto non verserebbe quel giorno,neppure se gli morisse il padre o la madre,né se davanti a lui col bronzo straziasseroun fratello e un figliuolo, e lui vedesse con gli occhi.

     Tali rimedi sapienti aveva la figlia di Zeus,efficaci, che Polidamna le diede, la sposa di Tone,l’egizia: la terra dono di biade là produce moltissimifarmaci, molti buoni, e misti con quelli molti mortali;

    e ognuno vi è medico, esperto al di sopra di tuttigli uomini, perché stirpe sono di Pèone.7 

    Ma le malattie inviate dagli dei per punire le offese procurate dagli uomini agli deistessi, erano le più terribili. Anche le azioni malevoli di un solo uomo siripercuotevano su tutta la popolazione con peste e carestie. L’Iliade si apreproprio con la descrizione della peste che colpisce l’esercito greco che assedia

     Troia. La causa è l’ira di Apollo offeso dal comportamento di Agamennone neiriguardi del suo sacerdote Crise. Quelle dovute alla volontà degli dei erano quindile malattie più funeste: vi erano sacrifici e pratiche da rispettare per esorcizzarle(tradizione magico-religiosa). Gli dei non sono solo causa di bene ma anche di

    malattie, sia del corpo che dell’anima. 

     A partire da questo punto si dipanano diverse concezioni della malattia nelmondo greco. In particolare riguardo alla malattia dell’anima, la follia: saràconsiderata a volte causata dagli dei, a volte umana, a volte sarà consideratamalattia, a volte dono divino.Secondo Platone esistono due follie che appartengono a due mondi differenti.Una è considerata da lui cattiva follia, ed è la malattia vera e propria, quella

    5 Iliade , XI 828 ss6 Pitica , III, 1-587 Odissea , IV, 219-232.

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    umana; l’altra invece è un’anomalia positiva, è una follia di matrice divina, undono, ed è propria dell’ispirato.

    [...] vi sono due generi di delirio, uno prodotto dall’umana debolezza, l’altro da undivino straniarsi dalle normali regole di condotta. [...] Del delirio divino noiabbiamo distinto quattro tipi attribuendoli a quattro dei, l’ispirazione profetica ad

     Apollo, quella mistica a Dioniso, quella poetica alle muse, e un quarto tipo cheabbiamo definito il più alto, delirio d’amore, ad Afrodite ed Eros.8

     

    Della follia propriamente umana Platone non dice molto ma è categorico. NelleLeggi  infatti scrive:

    Qualora uno sia pazzo ( mainòmenos, μαινόμενος ), non si faccia vedere per la città; iparenti di ciascuno badino a loro in casa [...]. In molti sono pazzi e in molti modi;quelli che ora abbiamo detto, lo divengono per malattie, ma ve ne sono alcuni chelo diventano per cattiva tendenza naturale all’ira, a cui si è aggiunta una cattivaeducazione.9 

    La follia quindi per Platone, al di là di un fattore solamente fisico e strettamentepatologico, può dipendere anche dal comportamento morale. Nel Timeo  infattidistingue le malattie fisiche da quelle psichiche che

    […] si manifestano a causa della condizione del corpo nel modo seguente.Occorre ammettere che la demenza ( anoìas, α       ν̉οίας ) è una malattia psichica; ma cisono due specie di demenza: la follia ( manìan,  μανίαν ) e l’ignoranza ( amatìan, α       μ̉αθίαν ). Qualunque delle due abbia un malato, bisogna chiamarla malattia, ma

    occorre stabilire che per l’anima le malattie più gravi sono i piaceri e i dolorieccessivi.10 

    L’ignoranza si ha per Platone quando l’anima si slancia verso la verità ma non sicongiunge con essa: questa ignoranza è follia; ignoranza è anche andare contro ilgiudizio della ragione o credere di sapere qualcosa non sapendola. L’ignoranza èla più grave malattia della mente.Ma la vera follia per Platone è quella inviata dagli dei, è la mania ( μανία ) comedono. Ci sono diversi tipi di mania , la prima e forse la più importante è, comeabbiamo già accennato, la mania   profetica ispirata da Apollo, anche detta mantica .Con il nome di mantica si intende la scienza di apprendere il futuro e le tecniche

    ad essa inerenti. In essa non rientrano le previsioni frutto del pensiero edell’esperienza, ma solo ciò che all’uomo è precluso di sapere con i procedimentidella ragione. Essa è sempre legata alla religione e si esprime attraverso ilresponso, mezzo di passaggio dal divino all’umano. Mediatori profetici sonoindovini, poeti e sapienti, uomini che possono vedere l’invisibile.11  Platone nel

    8 Platone, Fedro, Editori Laterza, Roma-Bari, 265b.9 Platone, Leggi, 934d.10 Platone, Timeo, 87.11 Cfr. Vegetti M. (a cura di) Introduzione alle culture antiche , Bollati Boringhieri, Torino, 1983, p. 279.

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    Fedro, facendo derivare la mantica da “mania”, riconosce valido solo il profetismoispirato:

    [...] gli antichi artefici dei nomi non tennero il delirio dell’esaltazione né in vergogna, né in disprezzo, perché diversamente non avrebbero connesso questostesso nome con l’arte bellissima, per la quale si discerne il futuro, chiamandolaesaltazione profetica ( μανικήν ). No, fu perché essi la ritennero cosa bella,quando nasca da dono divino, che la chiamarono così. I moderni invece che nonhanno alcun senso del bello, inserendovi una “t” la chiamarono mantica( μαντικήν ).12 

    Il secondo tipo, la mania  mistica, o telestica era attribuibile al dio Dioniso che siimpossessava dell’iniziato: attraverso una forma rituale, il partecipante, portato aduno stato di incoscienza al suono della musica, si lanciava in una danza sfrenatacon il risultato di una purificazione, proprio attraverso questa follia. Aristotele

    avrebbe parlato di catarsi, come vedremo.Il terzo tipo di esaltazione e di delirio è quello che deriva dalle muse: esseispirano i canti e la poesia negli animi teneri e puri, e chi crederà che la sola suaabilità possa renderlo poeta, verrà offuscato dalla poesia di quanti sarannoispirati. I poeti non hanno conoscenza di quello che compongono ma agisconograzie alla loro natura; avviene come per gli indovini. Così Omero dovevainvocare: «Cantami o musa…. » nell’accingersi a narrare le vicende dell’Iliade   edell’Odissea .La quarta mania  è quella erotica che deriva da Eros e Afrodite che infondendol’amore permettono di varcare la soglia dell’isolamento e di accedere all’armonia ealla comunione mistica degli esseri viventi. La “follia d’amore” rimarrà un topos  

    della letteratura occidentale.Ma in particolare, la mania profetica continuò ad appartenere al pensiero grecoanche quando si svilupparono le tendenze filosofiche che attribuivano all’uomosempre maggiore responsabilità e sempre più libertà di agire nella vita pubblica eprivata.L’appello alle divinità, agli incantesimi e ai rituali catartici continuarono ad esserepraticati anche quando cominciarono ad emergere ed affermarsi le nuove teorie epratiche mediche della scuola di Cos.

     Ad Ippocrate, nato nel 460 a.C. nell’isola di Cos e discendente di Asclepio, vieneattribuito il Corpus Ippocraticum   (che comunque è quasi certamente frutto di piùmani). Il Corpus è una raccolta di testi differenti, di diverso argomento ma anche

    di diverso approccio teorico e metodologico; comprende testi di caratteremonografico, prognostico, terapeutico, anatomico, clinico, e anche deontologico.Esso è composto da una sessantina di opere tra cui:  Antica medicina, La naturadell’uomo, L’arte, Il regime, Arie acque e luoghi, La malattia sacra. Quest’ultimo è unodei testi di primo piano del Corpus . La malattia sacra   infatti tratta nello specificol’epilessia e la mania.Il nuovo approccio critica la concezione magica tradizionale e orienta l’attenzionedel medico ad un metodo “scientifico”. La medicina si configura sempre più

    12 Fedro, 244a-245c.

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    come ambito autonomo, con un proprio codice deontologico e una propriametodologia acquistando una certa distanza dalla superstizione e una notevoleattendibilità pragmatica. È evidente però che l’introduzione del nuovo approccio

    medico sia stato un processo lento e comunque parallelo alla medicina magica e aquella religiosa, a tal punto che i due fenomeni hanno continuato a convivere perlungo tempo e con pari credibilità.Ma come si pone Ippocrate di fronte a quelle malattie che non sono soltantostrettamente organiche ma coinvolgono altre sfere come quelle della ragione e deisentimenti? La follia è una malattia che il medico può curare? Cosa sono le suemanifestazioni: il delirio, l’isteria, l’epilessia? Come viene interpretata la mania   apartire dall’approccio medico? Abbiamo già accennato ad uno dei testi piùimportanti del Corpus , e cioè La malattia sacra   e a come Ippocrate critichil’atteggiamento tradizionale nei confronti della follia, alla quale non attribuisce

     valore profetico ma la annovera tra le altre malattie. Nel titolo stesso di questo

    scritto è implicita una critica, forse anche ironica, alla vecchia concezione dellamalattia, nel caso specifico l’epilessia, che lungi da essere un male inviato da deie/o demoni, è considerato semplicemente un’affezione del cervello invaso da unumore freddo e denso, il flegma. Dunque, l’autore del Corpus  rifiuta l’idea che ilmale sia inviato dalla divinità, è invece una malattia da curare con mezzi mediciesattamente come le altre avendo anch’essa un’origine organica:

    Così stanno le cose a proposito della cosiddetta malattia sacra. A me non sembraaffatto che sia più divina né più sacra delle altre malattie, ma come le altre malattieessa ha una causa naturale e da essa deriva. Gli uomini invece la consideranodivina per la loro incapacità e per il suo carattere straordinario, perché nonassomiglia in nulla alle altre.13 

    La malattia sacra è per Ippocrate una malattia congenita e si produce durante lafase intrauterina, ma è anche ereditaria.14  Nell’epilessia l’organo in causa è ilcervello.

    Gli uomini devono sapere che i piaceri, le gioie, il riso, e gli scherzi non ci vengono da nessun’altra parte se non da quella da cui derivano i dolori, le pene, letristezze, i pianti; [...] per causa sua siamo in preda alla follia e al delirio, cisovrastano timori e paure, a volte di notte, altre anche di giorno, insonnie,

     vaneggiamenti immotivati, preoccupazioni non fondate, incapacità di riconoscerela situazione presente e perdita della memoria. Tutto questo ci viene dal cervello

    quando non è sano ma è più caldo o più freddo del normale, o più umido o piùsecco, o quando subisce qualche altra alterazione del suo stato naturale che nongli è consueta. Siamo in preda alla follia per effetto dell’umidità: quando infatti ilcervello è più umido del normale è necessario che si muova; se esso si muove la

     vista non è salda e nemmeno l’udito, ma vedono e odono cose sempre diverse, e

    13 La malattia sacra , 1, 1-9.14 Bisogna considerare inoltre che non si può completamente accostare la nostra cognizione diepilessia a quella antica; comunque in entrambe il termine επίληψις ( epìlepsis  ) allude all’attacco dellamalattia nelle sue fasi più critiche. Letteralmente infatti la parola επίληψις è il prendere, l’afferrare,a in senso medico, l’attacco.

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    la lingua dice ciò che di volta in volta vedono e sentono; finché il cervello restafermo, invece, l’uomo è in possesso delle sue facoltà mentali.15 

    Dal cervello allora dipendono sia i sentimenti che la conoscenza, tutto dipendedalla sua stabilità:

    La corruzione del cervello avviene per effetto del flegma e della bile. Riconoscerail’uno e l’altro in questo modo: quelli che sono folli per effetto del flegma sonotranquilli, non gridano e non strepitano, quelli che lo sono per effetto della bilegridano, si comportano male e non riescono a stare fermi, ma compiono semprequalcosa che non dovrebbero; se dunque sono continuamente in preda alla folliaciò avviene per queste cause.Se invece sovrastano timori e paure, ciò avviene per effetto di un cambiamentodel cervello; esso cambia per effetto del calore; si riscalda per effetto della bilequando essa muove verso il cervello dal corpo attraverso le vene sanguigne; la

    paura resta fino a che la bile non torni di nuovo nelle vene e nel corpo, quindicessa.Soffre e ha nausea senza motivo se il cervello si raffredda e si condensa più delsolito. Questo gli succede per effetto del flegma; quando gli accade ciò perdeanche la memoria. Di notte grida e urla, quando il cervello si surriscaldaimprovvisamente (questo succede ai biliosi ma ai flemmatici no); si surriscaldaquando il sangue arriva al cervello in grande quantità e bolle; arriva in grandequantità attraverso le vene che abbiamo detto quando l’uomo vede un sognospaventoso ed è colto dalla paura e pensa a compiere qualche azione malvagia,così succede anche nel sonno; quando poi si sveglia e torna in sé ed il sangue sidisperde di nuovo nelle vene, smette.16 

    Nel testo La malattia sacra , con lo spostamento della causa dal divino al corpo,l’autore si sforza di decolpevolizzare il malato dal punto di vista religioso, magicoe morale. L’individuo è parte integrante dell’universo naturale ed è da questoinfluenzato. Il medico, prendendo le distanze da qualsiasi forma di spiegazionereligiosa, è colui che contrariamente al guaritore tradizionale confida nellaconoscenza e nel dominio della natura. La malattia è sempre un accidente e ilmedico deve darne spiegazioni scientifiche e non religiose o filosofiche. Lafilosofia è un altro tipo di sapere.Per questo motivo nello scientifico Ippocrate, a differenza di Platone, il terminemania   è usato per indicare non uno stato di ispirazione ma la  follia   in quantomalattia, qualunque siano le sue manifestazioni; ed è solo alle manifestazioni

    patologiche che il medico dedica la sua attenzione. Molto spesso nei testi delCorpus  si parla di mania  come della follia  in generale, anche se dai medici posteriorila mania  sarà definita come una patologia ben precisa: una malattia cronica conalienazione mentale senza febbre; sarà opposta alla  phrenítis   ( φρενίτις ),accompagnata invece da febbre, e distinta anche dalla melancolia  ( μελαγχολία ).

     Mania ,  phrenitis   e melancolia  saranno le tre patologie che successivamente Galeno(medico del II sec. d. C.) raggrupperà all’interno di un’unica categoria definitacon il termine insania . Ma per Ippocrate esse non hanno ancora una

    15 La malattia sacra , 14, 1-7.16 Ivi , 15, 1-8.

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    caratterizzazione ben stabilita e le notizie che abbiamo dal Corpus   risultanoabbastanza confuse. Nell’universo ippocratico il termine mania  ha un significatomolto vasto ed impreciso: spesso si ritrova nel Corpus   il termine  máinestai  

    ( μαίνεσθαι ) come “essere folle” riferito anche ad una descrizione di  phrenítis ,definita come una malattia acuta.17 La  frenite   è una malattia che fa parte di quelgruppo che comprende anche la pleurite, l’infiammazione polmonare e la febbreardente, patologie legate alla cavità addominale. È evidente un legame tra la frenite  e il diaframma, tra l’altro il primo sintomo della malattia sembra essere proprio ildolore al diaframma che tra l’altro per alcuni era la sede del pensiero. Infatti, unaltro sintomo è la perdita di senno e anche lo sguardo fisso. I malati risultanoquindi “privi di senno” ( εκφρονές ): un aggettivo coniato sul tema del phren   ( φρήν )di  phrénes   ( φρένες ) con lo slittamento dal significato di diaframma a quello di«mente»/«pensiero».18 Rispetto alla melancolía  Ippocrate ne individua con sicurezza i sintomi scrivendo

    che «quando paura o depressione durano a lungo, si ha lo stato malinconico».19 La causa di questa patologia è soprattutto la bile nera (come è implicitonell’etimologia della parola stessa mélan-kolé , μέλαν-χολή: nera-bile). Nonostantecolpisca la mente essa presenta comunque dei sintomi nel corpo come il bloccoimprovviso della fonazione, o blocchi d’aria nelle vene, o paralisi parziale delcorpo. Ippocrate scrive in Aforisma VII, 40: «se la lingua è improvvisamente senzaforza o una parte del corpo è colpita da paralisi, si tratta di un’affezionemelanconica». In realtà la melancolia   risultava una patologia molto difficile dadiagnosticare, che richiedeva molto tempo prima di essere riconosciuta cometale. Dunque questo male, organico come tutti gli altri, portava tristezza,rassegnazione, indolenza, “paura e depressione prolungate”, tutti i sintomi del

    topos   letterario del “nero dolore” o “umore nero”. Questa malattia differiscedall’epilessia fondamentalmente perché non colpisce primariamente il corpo macolpisce la mente, riguarda l’anima. La melancolia   infatti dopo Ippocrate saràinterpretata fondamentalmente come malattia dell’anima che colpisce coloro cheimpegnano in modo speciale la mente e l’anima: si creerà così il nessomelanconia-pensiero, melanconia-filosofo, melanconia-genio, melanconia-artista.Il libro XXX dei Problemata dello Pseudo-Aristotele si apre con una domanda:perché tutti gli uomini che hanno dimostrato qualità eccezionale in filosofia,politica, poesia o nelle arti, sono malinconici?Non sempre la malinconia ha effetti patologici, poiché nella temperatura dellabile nera risiederebbero qualità particolari. Quindi diversi melanconici possono

    presentare aspetti diversi (positivi o negativi) a seconda dell’influenza della bilenera.

    Poiché l’anomalia può raggiungere un giusto equilibrio e una condizione positiva ela disposizione verso il troppo caldo può essere temperata dal freddo e viceversa,avviene che tutti i malinconici sono persone eccezionali non per malattia ma pernatura.20 

    17  Malattie  I, 30.18 Di Benedetto V., Il medico e la malattia: la scienza di Ippocrate , Torino, Einaudi, 1986, p. 55.19  Aforismi , VI, 23.20 Ibidem , 955a 29.

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    Dunque questa “eccezionalità”, questa “genialità” è un fattore naturale. Sisostiene che la melanconia non è, quindi, necessariamente patologica. Era

    sufficiente un bilanciamento di temperatura della bile, che non la portasse verso iltroppo freddo o il troppo caldo, per prevenire che il genio melanconicodiventasse un depresso o un maniaco. In tal caso il genio può degenerare infollia, che è sempre patologica: per Aristotele, ad esempio, non esiste una folliageniale o, come la definisce Platone, una buona follia.

    La follia nella drammaturgia classica

    Medicina ippocratica e tragedia nascono grossomodo contemporaneamente esono evidentemente due risposte a quella crisi dell’uomo di cui parla Nietzsche;

    secondo il quale, l’uomo paradossalmente per esorcizzare la propria angoscia sipone al centro dell’universo, ne diventa la misura, si propone di dominare larealtà, la natura, assumendo uno sguardo razionale, scientifico e rifiutando orelativizzando il mito. I miti e i riti sembrano non servire più per comprenderel’universo, per imparare le tradizioni, per ingraziarsi gli dei, per controllare glieventi esterni, per celebrare le feste. Per ognuna di queste necessità l’uomotroverà una spiegazione, una technè , un’istituzione. Allora il rito, rappresentazionedel mito, non avrà più senso. Esso resterà come testimonianza nella religione manon sarà più utile altrove. Non è più per gli dei che si canterà, si danzerà, siracconteranno storie: non sono più gli dei i destinatari dell’arte. I nuovi spettatorisono gli uomini. Nasce la tragedia.

    Il théatron , per Eschilo, diventa il luogo dove è possibile contemplare, non più gliavvenimenti poetici e mitici, ma la verità   e la sua capacità di salvare l’uomodall’angoscia del divenire e della morte, i dolori che gettano nella follia.21 

    Come ha osservato Ismail Kadarè, nella tragedia ritroviamo proprio i grandi tabù,quelli a cui l’uomo tenta di dare risposte e che, nonostante l’appello al divino,non riesce a spiegare. Non è un caso che i drammi delle tragedie parlino di doloriestremi. E due sono i dolori al limite dell’inspiegabile: la morte e la follia.E forse non è un caso se la patologia più rappresentata sulla scena tragica è lafollia. La tragedia è in grado di mostrare le manifestazioni esteriori e le cause dellafollia; attraverso queste manifestazioni così enigmatiche ed eclatanti la tragedia hala possibilità di suscitare interrogativi sul “male di vivere” e sollecitare risposte

    catartiche, attraverso reazioni estreme di pietà e terrore.Il teatro tragico, a differenza della medicina, è in grado di registrare le forme più

     violente della follia e di restituirne il senso. Sembra che le descrizioniframmentarie di Ippocrate dei casi di malattia vengano ricostruite e riflesse sullascena nei personaggi di Io, Aiace, Filottete, Eracle, Fedra, Medea. E qualora nellarealtà medica non si arrivi a casi estremi, la tragedia lo fa per mostrare i limitidella condizione umana e il suo senso: Aiace si suicida, Eracle fa strage della suafamiglia, Medea uccide i suoi figli, Fedra si impicca.

    21 Cfr Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale , BUR, Milano,2005, pp. 77-78.

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    Prendiamo in esame allora proprio alcuni di questi personaggi per metterne inluce alcune caratteristiche. Ovviamente questa breve panoramica sulla follia nelleprincipali tragedie tiene conto del fatto che i termini di follia, pazzia, mania,

    frenite, malinconia non si sovrappongono alle moderne definizioni dellapsicopatologia, alla rappresentazione che ci ha consegnato la psichiatria con itermini di psicosi, schizofrenia, paranoia etc.. Non sono diverse solo leconcezioni della malattia ma la visione stessa dell’uomo. Prenderemo pertanto inesame quelle tragedie in cui la dimensione della follia-pazzia viene direttamenteesplicitata da un personaggio, secondo i modi e i significati rintracciabili nel testostesso grazie alle categorie che abbiamo avuto modo di conoscere soprattuttoattraverso Platone e Ippocrate. Bisogna dimenticare per il momento ciò chesappiamo dalla psichiatria sulla follia ed avvicinarci ai personaggi della tragediaclassica per riconoscere la specifica rappresentazione che questi ne hanno dato.Cominciamo dal più antico dei tragediografi. Nelle tragedie di Eschilo  vi sono

    molti episodi e personaggi che possono essere visti come “casi” di follia, ma lafollia diviene tema centrale solo nell’Orestea   nel personaggio di Oreste e nelPrometeo incatenato nel personaggio di Io.I casi di follia descritti nel Prometeo e nell’Orestea , non sono leggibili secondo laconcezione medica, dipendono ancora da cause divine. Il confronto tra Eschilo ela medicina positivistica ippocratica è anacronistico,22  il primo tragediografo èstrettamente legato alla concezione religiosa del mondo e quindi dell’uomo.Concezione che muterà sempre più attraverso Sofocle e poi Euripide. Tuttavia,Eschilo fa certamente riferimento sia alla sua esperienza umana che alle sueconoscenze mediche, mutuando termini dai trattati nosologici pre-ippocratici.L’episodio di Io nel Prometeo, può essere considerato la prima vera

    rappresentazione della follia nella tragedia, quasi il modello,23

      poiché è la piùcompiuta ed elaborata descrizione della patologia da parte di Eschilo. Analizzando Io e basandosi sulle stesse descrizioni della fanciulla, la studiosaMaria Grazia Ciani individua quattro manifestazioni della follia che saranno poipresenti anche negli altri personaggi “folli” della tragedia greca: movimentiincontrollati, deformazione fisica, alterazioni espressive. Ma vediamo nellospecifico. Io, la sacerdotessa argiva amata da Zeus, allontanata dalla casa delpadre e costretta a vagare sotto le sembianze di una giovenca, in cui è statatrasformata a causa della gelosia di Era, entra in scena, nell’episodio centrale dellatragedia, e incontra Prometeo incatenato sulla rupe: Io è in preda al delirio per lasua sorte, costretta a vagare tormentata dal fantasma di Argo (sotto forma di

    tafano) e ridotta in quella condizione di bestia. È lei stessa a fare la descrizionedel suo stato dopo la richiesta del coro delle Oceanine:

    Di nuovo uno spasmo e un furore che sconquassa la mente gradatamente miinfiamma, il dardo dell’assillo mi punge, non temprato dal fuoco; il cuore misussulta nel petto per la paura; gli occhi si torcono come ruote vorticosamente; dalfolle vento della pazzia sono trascinata fuori strada, non più padrona della mialingua, pensieri stravolti urtano a caso contro i flutti di una terribile sventura. 24 

    22 Ippocrate nasce nel 460 a.C., Eschilo muore nel 456-55 a.C.23 Cfr. Ciani M. G., 1974.24 Prometeo Incatenato, vv. 878-886.

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    Io aveva già prima raccontato delle sue visioni notturne (v. 645) che laesortavano all’unione con Zeus, del suo aspetto e della sua mente stravolti (v.673) quando fu costretta a lasciare la sua casa, dei suoi balzi folli (v. 675). Inquesti versi il suo racconto così realistico parla del suo errare, tipico delcomportamento negli stati maniacali che saranno poi descritti nel Corpus , edell’οι            σ̃τρος, lo stimolo furioso che scatena la follia - che è anche il tafano che lapunzecchiava nelle Supplici . Le agitazioni notturne e i balzi (come quelli deglianimali giovani), la perdita della voce, gli occhi che roteano vorticosamente, sonotipici sintomi degli attacchi di epilessia che saranno descritti ne La malattia sacra .Il termine διάστροφος  (v. 673) che si riferisce alla roteazione degli occhi saràripreso anche da Sofocle e da Euripide nelle scene di follia. Io si vergogna (v.642) proprio come chi conosce il suo stato e quando sente che sta per avere unattacco si nasconde e fugge, così come Ippocrate descriverà le reazioni di chi,

    affetto dal male sacro, fuggelontano dalle presenze umane, a casa, chi l’abbia vicina, altrimenti nel luogo piùdeserto, dove pochissime persone potranno vederlo cadere, e subito si copre ilcapo: tiene questo comportamento per la vergogna della malattia e non - come ipiù pensano - per la paura della divinità.25 

    Il termine παράκοπος  del v. 581, è lo stesso termine che nelle  Epidemie III, 3indicherà il delirio mentale. Per descrivere i sobbalzi del cuore Eschilo usa iltermine laktìzo ( λακτίζω,  v. 881), vocabolo che ritroviamo ne La malattia sacra inriferimento alle reazioni fisiche durante una crisi epilettica, come sbattere i piedi.

     Anche il termine σπάκελος, molto frequente in Ippocrate con significati differenti

    come grande dolore o infiammazione o cancrena o forte tensione, convulsione,spasmo, è utilizzato dal tragediografo con un significato più generico.Nel contesto altamente poetico della tragedia eschilea possiamo ritrovare terminiestremamente tecnici o anche presi da campi disparati senza che mai l’autore sipreoccupi di dare un “quadro patologico” coerente, ma soltanto del modo in cuiil testo possa diventare più realistico e colpire la sensibilità dello spettatore con ilsuo forte potere evocativo.26 Nella trilogia che compone l’Orestea , la follia sembra il motivo dominante nellesue diverse fasi: l’irrazionale scelta di Agamennone di sacrificare Ifigenia perbuon auspicio alla partenza per la guerra; il tradimento di Clitemnestra cheinsieme al suo amante prima accoglie amorevolmente il marito e poi lo trucida

    spietatamente; la vendetta di Oreste che insieme alla sorella Elettra concepisce ilmatricidio. Ma è soprattutto nella figura di Oreste che si incarna il destino difollia: figlio di Agamennone e Clitemnestra, è indotto a smarrire la ragione dalleErinni, che lo perseguitano per l’uccisione di sua madre e del suo amante Egisto,che a loro volta avevano assassinato Agamennone.

     Anche da questo breve accenno alla tragedia, che richiederebbe un ampio spazioper essere analizzata, possiamo mettere in rilievo la cifra che la follia assume inEschilo: è la matematica conseguenza di una colpa.

    25 La malattia sacra , 12, 1-2.26 Cfr. Guardasole A., Tragedia e medicina nell’Atene del V secolo,  D’Auria, Napoli, 2000.

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    Con Sofocle  la tragedia subisce un rinnovamento sul piano dell’analisipsicologica dei personaggi. La fragilità dell’uomo viene fatta risaltare sullo sfondodell’onnipotenza degli dei. Il personaggio sofocleo che meglio rappresenta questa

    sproporzione che conduce alla pazzia è Aiace. Aiace è il vero caso di follia in Sofocle, mentre per Eracle e Filottete si tratta piùpropriamente di delirio, dovuto ad un dolore improvviso e ad una piagaincancrenita. La follia di Aiace è invece inviata dalla dea Atena per difendere icompagni di Aiace dalla sua furia; compagni divenuti suoi nemici per averglinegato le armi di Achille morto, armi che sono invece state assegnate ad Ulisse.

     Aiace, il più valoroso, è stato offeso e da questa offesa è spinto a una furiaomicida contro gli stessi achei. Ma Atena offusca la sua mente facendogliscambiare una mandria di pecore per i guerrieri achei.

    L’eroe oltraggiato agisce inconsapevole delle sue azioni, inconsapevole che così

    facendo si renderà ridicolo agli occhi di tutti coloro che prima lo avevanoammirato e stimato ma, quando ritornerà in senno e riuscirà a ricostruire nella suamente l’accaduto, l’onta lo travolgerà fino a portarlo al suicidio. Il processomentale che si sviluppa in questo personaggio, è un processo lento, graduale, che,in un certo senso, richiama quello che si evolve nella mente di Edipo. Aiaceprende coscienza dei suoi misfatti e non può più vivere sovrapponendo la folliaalla realtà; Edipo prende coscienza di sé e, più la coscienza si chiarifica, più eglisente la necessità di sottrarsi alla vista di chi lo ha onorato come re e salvatore. Inentrambi i casi, però, deve essere salvaguardata la fama: se Aiace fosse vissutodopo un simile atto di follia, la sua fama si sarebbe offuscata, le sue precedentiimprese sarebbero state cancellate. La morte, la morte è l’unico rimedio, l’unicofarmaco capace di cancellare l’onta di una follia.27 

    Possiamo individuare tre fasi della follia di Aiace: 1) la rottura dell’alleanzaumana, la hybris , il furore ribelle; 2) l’oscuramento della ragione, la follia indottada Atena, l’atto del massacro degli animali; 3) l’angosciante lucidità e la vergognainsostenibile che lo porta al suicidio.28 Nelle descrizioni della follia dell’eroe Sofocle non raggiunge i livelli di forzaevocative che Eschilo aveva raggiunto per Io, ma ne utilizza in parte laterminologia.Ma se in Eschilo vi sono solo “episodi” di follia, l’ Aiace  è la più compiuta tragediadella follia. In questo caso la follia pervade tutta la tragedia: cause (la punizionedella dea), crisi (il massacro del bestiame), reazioni estreme (presa di coscienza e

    suicidio), giudizio morale (dibattito sulla tumulazione).Nell’ Aiace , non troviamo il personaggio che descrive il suo momento di crisi,come invece era per Io che raccontava in prima persona il suo stato. Sofocleporta in scena Aiace direttamente in preda alla follia.29  Per questo c’è unamaggiore caratterizzazione psicologica del personaggio. L’interesse si soffermasull’uomo, più che sulla patologia, e sull’effetto che la situazione penosa crea suchi assiste, sugli altri personaggi ma ovviamente anche sugli spettatori:

    27  Bruni, 1991, pp. 19-20.28 Cfr. Starobinski, p. 51.29 Ciani, Lessico e funzione della follia , op. cit., p. 81.

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    Lui là dentro, finché era in preda all’attacco, solitario rideva del suo stato malato;infinita tristezza a noi – menti lucide – era stargli vicino. Ora è riemerso quieto dalmale, respira; ma una fitta maligna lo strema, lo annienta. Noi ugualmente, nulla

    cambia da prima. Lo vedi: da singolo, il male raddoppia.30 

    Il segno esteriore più concreto della follia di Aiace è quello del “riso” («solitariorideva del suo stato malato»), che contrasta con la drammaticità dell’attocompiuto ed evidenzia la miseria dell’eroe. Ancora, nei versi successivi:«intercalava schianti di risa» (v. 303). Ma è riso amaro e consapevole quello dellostesso eroe quando si accorge dell’accaduto e pensa allo scherno dei suoiavversari (v. 367: «ohimè ridicolo, oggetto di derisione») e soprattutto di Odisseo(v. 382: «quali grandi risate ti farai per il tuo piacere»). Adesso Aiace prova,

     vergogna ( αι       δ̉ώς ), la stessa vergogna che segue alle crisi di cui parla Ippocrate. Manon è più la vergogna intima dell’ingenua Io, è invece una vergogna pubblica, è

    atimìa  ( α       τ̉ιμία ), disonore, disprezzo: «ora sono nessuno!» dice al v. 427. Questa èla punizione umana che si aggiunge a quella divina inflitta dalla dea Atena perché

    l’eroe aveva peccato di  hybris   ( ύ       β̉ρις ), insolenza, tracotanza. La causa dell’attoinsensato è stata la sua stessa ira, la sua malattia primaria.La follia di Aiace è descritta anche con il termine mania , intesa come θεία μανία ( thèia manìa  ), follia inviata dalla dea. Altro termine con cui è indicato il nosos  ( νόσος ), la malattia della mente, è lyssòdes   ( λυσσώδης ,  v. 452), che vuol direfurioso, e indica la frenesia. E cheimòn   (v. 207), letteralmente gelo, tempesta,definisce metaforicamente lo stato di insania, ed è usato anche da Eschilo e daIppocrate. Un altro termine metaforico di uso medico è  oxùs   (v. 258), cioèpungente, acuto, violento, impetuoso, aggettivo che in campo medico appunto,

    indica l’incalzare repentino dell’attacco.In realtà in questa tragedia non vi è un grande utilizzo di termini tecnici, anche seSofocle dimostra di conoscerli tramite citazioni dai testi medici e da Eschilo.L’autore cerca di creare espressioni originali, magari metaforiche, ed estende itermini tecnici al campo più vasto delle passioni, degli squilibri, dei turbamentipsichici e fisici. In tal modo rende il suo lessico unico: indipendente sia dal saperetecnico medico, sia dal riferimento al contesto mitico-religioso (che inveceinforma letteralmente il lessico eschileo).

    In tal modo, desacralizzando la follia e mortificandone anche la componente piùstrettamente patologica, ridimensiona e riduce l’intero problema dell’irrazionale. E

    forse proprio per questo contempla e descrive il fenomeno della follia con luciditàe distacco, senza l’angoscia partecipe e la paura incalzante che fanno arrestareEschilo sulla soglia della crisi, per timore del “dopo”.31 

    Con Euripide sembrano cadere le opposizioni umano-divino, colpa-espiazione,per lasciare il posto ad un dissidio interno all’animo umano. La scissione, ladebolezza, la pazzia non sono l’effetto di una colpa o dell’impotenza neiconfronti degli dèi, esse abitano già dentro l’animo, pronte ad essere evocate da

    30 Sofocle, Aiace , Garzanti, Milano, 2005, vv. 271-376.31 Ciani, 1974, pp. 85-86.

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    particolari circostanze. Medea può essere un esempio di come uncomportamento abnorme non può più essere letto sotto la categoria della colpa(come in Eschilo e Sofocle) e quindi la categoria stessa di follia diviene stridente,

    proprio in quanto, seppur abnormi, le azioni non sono insensate o indottedall’esterno ma frutto di precise determinanti psicologiche, hanno un senso.Euripide oppone all’idea di colpa che dovrà

    essere espiata anche da intere generazioni all’interno di una famiglia, quella dellaresponsabilità individuale. Giasone ha tradito Medea per cercare fortuna per ipropri figli, ma la donna non è concorde con le decisioni del marito e si appellaalla giustizia che diventa atroce vendetta. Ella attua la legge del taglione colpendoil marito non fisicamente, ma moralmente, proprio come lui ha fatto con lei. Lapunizione morale viene data all’uomo con la morte fisica di persone a lui moltocare: la sposa, il suocero, i figli […]. La follia di questa donna dall’animo virile, puòin un certo senso rappresentare la ribellione alla realtà quotidiana che le donne di

     Atene erano costrette a vivere ogni giorno.32 

     Anche in altri personaggi euripidei troviamo questa stessa “follia responsabile”, èil caso di Ippolito che, insensibile ai richiami di Eros, non si accorge dellapassione insana della sua matrigna Fedra. Questa confesserà il suo amoreincestuoso alla nutrice che crede di risolvere la situazione avvertendo Ippolito, ilquale sconvolto e furioso urla la sua maledizione alle donne. Fedra non potendosopportare la vergogna di quanto accaduto si impicca. La follia di Fedra nascedalla smodata passione e viene esasperata dallo sforzo di reprimerla. È lei stessaad analizzare il processo che l’ha portata alla perdita del controllo di sé: il nasceredel sentimento come un’aggressione subita dall’esterno, il tentativo di reprimerlo,

    di sopportare, di soffocare razionalmente tale follia, la confessione. Assediata,circondata, braccata, la mente di Fedra evade in una estraniazione evidente nelsuo linguaggio a tratti incomprensibile e “delirante”. È follia cedere a Eros, ma èegualmente folle non cedervi. La stessa Fedra parla esplicitamente di “folliainviata da un dio”. Al polo opposto, ma sullo stesso piano di follia è la posizionedi Ippolito, che appunto nega totalmente l’Eros.Le altre tragedie in cui Euripide affronta il tema della follia sono: l’ Eracle , l’Oreste  e le Baccanti .Nella tragedia Oreste , Euripide riprende la materia trattata da Eschilo e riconducela follia dell’eroe a un profondo sentimento di angoscia, di dolore, e tale ci apparela sua figura: un malato, un sofferente, inquieto e delirante. Egli stesso racconta le

    sue visioni, le allucinazioni.Ma è nelle Baccanti   che troviamo dispiegata la concezione euripidea della follia.Come ha notato la Ciani, in questa tragedia si possono distinguere due tipi difollia: «1) la grande follia dionisiaca, l’estasi della possessione divina; 2) la folliaumana di Penteo (e di Agave stessa nell’antefatto), l’hybris della negazione delladivinità».33 Ad esse la studiosa aggiunge la follia simulata di Cadmo e Tiresia e lafollia provocata in Penteo da Dioniso.

    32 Bruni, 1991, pp. 23-24.33  Ciani, 1974, p. 100.

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    Nell’ Eracle   la follia viene trattata e descritta letteralmente come fenomenopatologico, anche se ancora legata al divino.Dopo le parole di Iris, ancella degli dei, che introducono schematicamente il

    dramma - origine della follia (Era gelosa di Eracle lo punisce con la follia),responsabilità (punizione), conseguenze (strage dei figli) - a raccontare la folliadell’eroe in maniera estesa e analitica sono: prima la stessa Lyssa, la follia, checompare sul tetto della casa di Eracle, e poi il messaggero. I due racconti,enumerano i sintomi a tal punto da rendere chiara la patologia presentata nei suoiaspetti più spettacolari. Lyssa elenca e descrive i sintomi: scuotimento del capo,roteare degli occhi, respirazione irregolare, urla disumane. Così come ilmessaggero parla del suo silenzio, dello sguardo stravolto, degli occhi irrorati disangue, della schiuma alla bocca e delle risate inconsulte.Nel racconto di Lyssa:

    «scuote il capo con forza» v.867);

    «le sue pupille stralunate roteano come occhi di Gorgone» v. 868;«respira ma non è in sé» v. 869;«come un toro terribile mugghia» v. 870.

    Nel racconto del messaggero:«si bloccò in silenzio», v. 930;«con gli occhi stralunati e le pupille iniettate di sangue», vv. 932-933;«mentre la bava gli colava dal mento dalla morbida barba», v. 934;«ed esclamò con una risata satanica», v. 935.

    Euripide si rifà a un lessico già noto: qui allude da subito alla terminologiaeschilea. Infatti ritroviamo gli stessi termini che Eschilo utilizza in riferimento aibalzi di Io, manìais  ( μανίαις ), phren  ( φρήν ), skìrtema  ( σκίρτημα ). Sono molti anche iriferimenti a La malattia sacra , basta rivedere il passo della descrizione dei sintomi

    dell’attacco epilettico (7, 1): «perde la parola, soffoca, gli esce schiuma dallabocca, i denti sono serrati, le braccia si contraggono con spasmi, gli occhi sistravolgono, costoro non sono assolutamente in sé». Il “non essere in sé” èproprio di Eracle: «non era più in se stesso».34 Il sintomo della schiuma alla boccasarà tipico anche degli altri casi di follia delle tragedie euripidee ed è ancheesclusivo di Euripide. I versi disumani di Eracle ricordano il “muggito”: analogiatra follia e animalità che abbiamo trovato in Eschilo. La descrizione degli occhistravolti o iniettati di sangue, si ritrova spesso ne La malattia sacra  (15, 7). Il riso,invece, ricorda interamente le descrizioni nell’ Aiace . Altri sintomi ricordano sia ledescrizioni ippocratiche che degli altri tragediografi; dopo l’accesso Eraclesprofonda nel sonno, sia per volere della dea, sia per la stanchezza. Questo è un

    tipico caso di “sonno euripideo” in cui avviene un passaggio importante dalmondo irrazionale a quello razionale, e non è un sonno normale, ma è amnesia.Eracle non si ricorda dell’accaduto, proprio come accade nell’attacco d’epilessiadescritto da Ippocrate:

    34 Nell’elenco dei sintomi che enumera la Ciani non è scritto specificatamente il “non essere piùin sé”, che invece per esempio Ippocrate specifica tra i sintomi dell’accesso, anche se certamentenon possiamo attribuirgli un senso ben preciso. Forse la Ciani non lo ha specificato ritenendolo lacondizione generale in cui si inseriscono i vari sintomi.

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    […] per causa sua siamo in preda alla follia e al delirio, ci sovrastano timori epaure, a volte di notte, altre anche di giorno, insonnie, vaneggiamenti immotivati,preoccupazioni non fondate, incapacità di riconoscere la situazione presente eperdita della memoria.35 

    Con Euripide, il campo della follia si amplia rispetto ai suoi predecessori e i casida lui narrati diventano molto più realistici, con i sintomi della sofferenzaevidenti nel corpo e nel viso. Fra i tre tragici Euripide è senz’altro il più vicino anoi. La terminologia utilizzata da Euripide risulta precisa, non bisogna però farel’errore di considerare questa terminologia patologica in senso moderno.Per quanto riguarda la sua modernità rispetto al rapporto col divino, possiamomettere a confronto il caso di Io (nel Prometeo  eschileo) e il caso di Eracleappunto, per notare come entrambi i personaggi sono portati alla follia dalladivinità, senza che ci sia una colpa umana. Ma nell’ Eracle  si apre una questionenuova che in Eschilo non era presente. Se all’origine della follia di Io e di Eraclenon c’è una colpa ma il capriccio, la volontà gratuita della divinità, in Euripidetale constatazione porta a un giudizio sulla divinità. Già attraverso il discorso diLyssa, Euripide manifesta la sua condanna verso questa ingiustizia.In Eschilo e in Sofocle l’attenzione è sempre orientata alla responsabilità umanao al massimo sul caso. In Sofocle la hybris  ( ύ       β̉ρις ) di Aiace era la causa della suapunizione con la follia. Così come in Eschilo la follia di Oreste è l’esito finale diuna serie di colpe e di errori determinati dalla sua hybris .Nel caso di Eracle sembrano gli dei a peccare di tracotanza, che risulta una vera epropria ingiustizia nei confronti di un innocente tormentato dall’inizio della sua

     vita. Sarà questa consapevolezza che salverà Eracle dalla morte liberandolo dalla

    ignominia. È vero che in questo caso il dibattito tra uomo e divino si fa piùacceso, ma è anche vero che Euripide, colpevolizzando la divinità anzichél’uomo, cosa che non sarebbe stata possibile in Eschilo, non riesce a liberarsi finoin fondo di quella forma di superstizione che alimenta il credo dell’origine divinadella follia. E anche se la tragedia euripidea cerca di formarsi con il linguaggio diun credo moderno legato a quello “scientifico”, seppur poetico, si serve ancoradell’intervento di dei e di potenze ultraterrene per testimoniare la condizionedell’uomo greco.

    La tragedia e la cura della follia

    La breve esposizione di alcuni esempi di follia nella tragedia greca potrebbetestimoniare il valore conoscitivo che il teatro ha avuto nell’esplorare i confinidella natura umana. La tragedia era il luogo in cui il mito si incontrava con ilsapere filosofico e medico, grazie alla sensibilità dei poeti che si interrogavanosull’uomo, sul rapporto col divino, ri-scrivendo i racconti e i significati del mitostesso. Ecco allora che per capire la follia la tragedia offre un punto diosservazione privilegiato.

    35 La malattia sacra , 14, 4.

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    Ma la tragedia non è stato solo il luogo dell’interrogazione e dellarappresentazione della follia. La tragedia ha avuto una funzione oltre checonoscitiva anche terapeutica. La catarsi è la cifra di questa funzione.

    Riportiamo le parole di Aristotele che hanno costituito la fonte e la pietra diparagone di ogni discorso sulla catarsi.

     Tragedia è imitazione di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certaestensione; in un linguaggio condito di ornamenti, ciascun elemento nelle sue partiseparatamente; in forma drammatica e non narrativa; la quale attraverso casi chesuscitano pietà ( ε       λ̉εου ) e terrore ( φόβου ) ha per effetto di sollevare e purificare( κάθαρσιν ) l’animo da tali passioni ( τω            ν̃ τοιούτων παθημάτών ).36 

    Queste sono le parole della poetica che hanno creato secoli di controversie per laloro interpretazione.

    Nella Politica  Aristotele parlando del potere della musica scrive:[...] non si deve usare la musica in vista di un unico vantaggio, ma di molti (perché

     va coltivata al fine dell’educazione e della catarsi – che cosa intendiamo per catarsiora accenniamo in modo generale, appresso lo diremo con più chiarezza neitrattati della Poetica  – in terzo luogo per la ricreazione, per il rilassamento e per ilriposo dopo la tensione).37 

    In realtà non abbiamo saputo con più chiarezza cosa intendesse dire Aristotelecon “catarsi”. Quello che ci resta nella Poetica  è troppo esiguo per pensare che siala spiegazione di quanto annunciato qui. Con molta probabilità la partecontenente il discorso è andata perduta con il secondo libro della Poetica  che non

    ci è pervenuto.La parola kátarsis   ( κάθαρσις ) è composta dall’avverbio  katà   ( καθά  o κατά,) cioè“come” (oppure “attraverso”, o “del tutto” o “verso il basso”) e la radice del

     verbo reo  ( ρέω ) cioè “scorrere”, “fluire”. Per questo la prima intenzione che èstata data alla parola si riferiva alla purificazione, intesa proprio come il fluireattraverso il corpo e il liberarsi, in questo caso dalle passioni. Ma che cosa vuoldire “liberarsi dalle passioni”? Aristotele attribuiva un effetto “terapeutico” allapurgazione, alla evacuazione delle passioni? Assistere a vicende umane terribili edegne di pietà sarebbe di per sé “catartico”?Nella lunghissima storia di commenti alla Poetica   e al concetto di catarsi, moltistudiosi hanno cercato di venire a capo di tali questioni. Lo studioso Pigeaud38 ha

    recentemente tentato una sintetisi delle diverse interpretazioni della catarsiriconducendole a cinque tesi:

    1.  la tesi morale;2.

     

    la tesi estetica;3.  la tesi aleatoria;4.  la tesi intellettualistica;5.  la tesi medica.

    36 Aristotele, Poetica , Editori Laterza, Roma-Bari, 1973, 1449 b 24.37 Aristotele, Politica , Editori Laterza, Roma-Bari, 1341 b 38-40.38 Cfr. Pigeaud J., 1995.

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     Tutte partono dalla constatazione che l’effetto della catarsi si manifesta suglispettatori della tragedia, non sugli attori. Quindi sarebbe una terapeutica dellafruizione.

    1. La tesi morale   viene esposta da Lessing nella Drammaturgia D’Amburgo  in cuiscrive che la purificazione della catarsi è una trasmutazione delle passioni in virtù.Essa porterebbe ad eliminare il carattere eccessivo di passioni quali la pietà e lapaura, a cui bisognerebbe aggiungere anche le altre passioni “filantropiche” e altristati emotivi come la tristezza e la malinconia.2. La tesi estetica  è quella di Goethe, secondo il quale Aristotele intende per catarsila realizzazione della tranquillità, che è sempre ricercata nelle rappresentazionidrammatiche e nelle opere poetiche. Interpretazioni successive hanno tradottoquesto significato di “realizzazione della tranquillità” come una soddisfazioneestetica più che come una cura: l’emozione purificata dunque si trasforma inpiacere. In tal modo, il teatro sarebbe un addomesticamento delle forze pulsionali

    (altro che teatro della crudeltà!).3. La tesi aleatoria  sostiene che Aristotele ha scelto arbitrariamente i termini paurae pietà, ai quali non tocca dare un valore speciale: non sono importanti i tipi dipassioni ma sono importanti le reazioni psico-fisiche che sono in grado diattivare; la poesia agisce sulle emozioni allo stesso modo che le droghe agisconosui corpi, per cui anche altre forti emozioni, oltre a pietà e terrore, possono avereuna funzione catartica.4. L’interpretazione intellettualistica  della catarsi riprende il significato di catarsi nelSofista   di Platone (226d-230f) in cui la catarsi sarebbe «il processodell’eliminazione dell’ignoranza mediante la dimostrazione che le false opinionisulle quali si fonda sono contraddittorie». Nel Fedone  (67c.d.) la catarsi è definita

    come la separazione tra anima e corpo. Più recentemente alcuni studiosi hannoposto il senso della catarsi in relazione alla mimesis   ( μίμησις ) che è un processocognitivo che procura piacere in quanto porta a comprendere la natura degliavvenimenti che implicano paura e pietà. Dunque la catarsi non è purificazionené purgazione ma “chiarificazione intellettuale”.5. La quinta tesi è quella medica   e in qualche modo si potrebbe inserire neldiscorso del rapporto tra teatro e medicina in maniera più tecnica. È la tesi di

     Jacob Bernays, che è uno storico della medicina antica. Lo studioso parte dallaPolitica   VIII per mettere in evidenza il punto di vista patologico. La catarsidiventa in questa accezione un tipo speciale di medicina, iatrèia  ( ι       α̉τρεία, termineusato nella Politica  ), un modo per ritornare in salute.

    Così come il trattamento medico ippocratico opera sulla sfera fisica, la catarsiopera sulla sfera emotiva; così come il malato viene riportato in salute, l’estatico viene riportato alla calma.

    Castarsi   è un termine trasposto dalla sfera fisica alla sfera delle emozioni, èutilizzato a proposito di una persona angosciata e indica non l’alterazione ol’inibizione dell’elemento che produce angoscia, ma l’eccitazione o il risveglio diquest’ultimo per, infine, eliminarlo e così realizzare una sorta di sollievo perl’oppresso.39 

    39 Pigeaud, op. cit., p. 190.

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    La catarsi corrisponde alla purgazione ippocratica dell’umore in eccesso,attraverso la sua sollecitazione e lo svuotamento. Essa agisce, per esempio, sul

    soggetto estatico non inibendo l’elemento che causa l’eccitazione marisvegliandolo ulteriormente per poterlo eliminare e portare il soggetto a unostato di sollievo.La catarsi è necessaria per i paurosi (  phobeticói, φοβητικοί,) per i compassionevoli( eleémones,  ε       λ̉εη      μ́ονες ) ma anche per gli estatici ( ekstaticói,  ε       κ̉στατικοι       ́ ), i  soggettiesposti all’entusiasmo, che allo stesso modo dei primi possono essere curati dallamusica entusiastica (“melodie che trascinano l’anima fuori di lei”). Questa tesi ciporta a riprendere la descrizione della catarsi nella Politica , dove è associata allamusica come strumento di purificazione.

    [...] le emozioni che colpiscono con forza talune anime, esistono in tutte, ma

    differiscono per la maggiore o minore intensità, ad esempio la pietà, la paura, eanche l’entusiasmo: ci sono infatti, taluni, soggetti a questo perturbamento e,come effetto delle melodie sacre, noi li vediamo costoro, quando sono ricorsi allemelodie che trascinano l’anima fuori di lei, ridotti in uno stato normale, come seavessero ricevuto una cura e una purificazione. Questo stesso effettonecessariamente devono provare quelli che hanno pietà, paura e, insomma questiaffetti in generale, e gli altri, nei limiti in cui ognuno ne partecipa, e per tutti deveesserci una qualche purificazione e un sollievo accompagnato da piacere.40 

     Aristotele suggerisce anche quali possono essere gli strumenti utilizzati, a secondadello scopo della musica: quelli usati al fine dell’educazione non saranno gli stessiper la ricreazione e il rilassamento né tanto meno saranno come quelli utili per la

    catarsi:

    Non bisogna introdurre nell’educazione gli auli né altro strumento professionale,come la cetra o un altro di tal sorta, bensì quelli che ne faranno ascoltatoriintelligenti o nel campo dell’istruzione musicale o in altro. Inoltre l’aulo non servea esprimere le qualità morali dell’uomo ma è piuttosto orgiastico sicché bisognausarlo in quelle determinate occasioni in cui lo spettacolo mira più alla catarsi cheall’istruzione.41 

    L’aulo era uno strumento utilizzato nei riti in onore di Bacco e della dea Cibele,per questo veniva definito “orgiastico”, e in quelle feste l’auleta di professione

    doveva non solo suonare ma anche accompagnare la musica col movimento delcorpo. Dunque uno strumento come l’aulo poteva essere utilizzato anche per“spettacoli di catarsi”. Ancora una volta è la musica la protagonista dellapurificazione e della guarigione.Ma Aristotele parla della funzione catartica soprattutto della tragedia. Che cosapuò voler intendere Aristotele per catarsi attraverso il teatro? Si può ritrovare lostesso potere curativo della musica anche nel teatro? È sulla vista che si basa lospettacolo; e la vista “passiva” di uno spettatore che è seduto a guardare una

    40 Politica , 1342a, 5-10.41 Politica , 1341a, 20.

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    storia avrà lo stesso effetto della musica e del movimento del corpo che loaccompagna? Se il teatro e la musica sono diversi, dovrà essere diverso anche ilprocesso attraverso il quale indurranno la catarsi. Inoltre, non bisogna

    dimenticare l’importanza del significato religioso e morale che Aristotele dà allacatarsi, soprattutto nella Poetica   e nella Retorica , a differenza della Politica  dove èmesso in risalto il significato medico-umorale.

     Aristotele ci parla di paura e di pietà. Probabilmente queste passioni umane sonolegate proprio ai due temi legati alla tragedia, di cui abbiamo parlato poco fa ecioè: la morte e la follia. Siamo d’accordo con Pigeaud infatti, quando scrive chela paura è paura della morte. Nella Retorica   (II, 1382a, 23) troviamo: «il timore èun dolore o un turbamento proveniente dall’immaginazione di un male che puògiungere, che arreca distruzione e dolore» e troviamo anche:

    Definiamo dunque la pietà un dolore causato da un male distruttivo o doloroso

    che colpisce chi non lo merita e che ci si può attendere porti a far soffrire noistessi o uno dei nostri e questo accade quando il male sembra vicino; infatti perprovare pietà bisogna evidentemente credere di essere esposti, nella propriapersona e in quella dei propri cari, a ricevere un tale male.42 

    Questa pietà, è la stessa che provava Tecmessa, e quindi anche il pubblico cheassisteva, nel vedere Aiace ridotto in quello stato “pietoso” a tal punto dadiventare ridicolo. E pietà abbiamo anche provato guardando la povera Io, cosìingenua e disperata, da farci sentire la tenerezza e la pena. E pietà per Eracle,nato già costretto a lottare non per sua volontà. L’eroe, per volontà divina, arrivaa lottare anche contro se stesso, contro sua moglie e contro i suoi figli, in predaalla follia. Come si può non provare pietà per queste parole:

    Poi punta una freccia sul secondo, che si nasconde in un cantuccio / sui gradinidell’altare pensando di non essere scorto. / Lo sventurato si precipita adabbracciare le ginocchia del padre / e, sfiorandogli con la mano il mento e il collo,grida: «papà caro, non farmi morire! sono io! Non stai uccidendo il figlio diEuristeo, ma il tuo.43 

     A questo allude Aristotele quando parla di pietà e di paura, perché sempre lamorte o la follia colpiscono improvvise anche chi non le merita. Possono colpirenon solo la vita di un personaggio in scena, ma la nostra stessa vita. Chi ciassicura che potremo domani vivere come viviamo oggi? E se perdessimo ognicosa? E se diventassimo folli? La follia e la morte potrebbero sopraggiungere daun momento all’altro e sono le uniche cose che non possiamo spiegare e sullequali non possiamo avere un controllo, non possiamo agire. Ma possiamoconoscere e forse riconoscere in noi passioni e sentimenti di cui potremmoimparare a non essere schiavi. Riconoscere il  páthos   ( πάθος, passione) prima chediventi páthema  ( πάθημα, malattia). Forse è questa la catarsi.Ma se agisce sulle passioni e cerca di ristabilire un equilibrio psichico e morale,allora la catarsi si rivolge all’anima?

    42 Retorica , 1385b, 13.43 Euripide, Eracle , vv. 986-989.

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    Secondo Platone l’epodo  (il canto capace di ammaliare), agisce generandosophrosyne ,

    […] virtù che, come ciascuno sa, è lontana dall’essere uno stato del tutto razionalenell’uomo; il bel discorso e il mito, diversamente dall’argomentazione razionale,agiscono sull’anima facendo nascere in essa opinioni persuasive e, infine credenze,che non sono mai interamente riducibili alla pura ragione.44 

    L’epodo diviene efficace quando è ben detto e quando il paziente lo riceve dopoaver offerto e presentato il suo animo. Dunque per Platone l’agente catartico chela “malattia dell’anima” richiede è la parola adatta ed efficace, il bel discorso e ilmito. E allora che funzione avrebbe la rappresentazione di un’azione se lo stesso

     Aristotele aveva detto, come abbiamo prima ricordato, che la tragedia dovrebberiuscire a suscitare paura e pietà anche ad occhi chiusi? Attraverso cosa? Le belleparole? La musica? E allora l’immagine? Forse con i bei discorsi ottenere un

    effetto e con le immagini un altro? Gli uni agirebbero sull’anima, come l’epodo perPlatone, e le altre sul corpo? Ma Aristotele nel De anima scrive:

    Pongono un problema anche le affezioni dell’anima, se cioè sono tutte comuni alsoggetto che la possiede, oppure se ce n’è qualcuna che sia propria della stessaanima: comprendere ciò è necessario, ma non facile. Per ciò che riguarda lamaggior parte di queste affezioni, risulta che l’anima non subisce e non opera nullaindipendentemente dal corpo, com’è il caso della collera, del coraggio, del desiderio, ein generale della sensazione, mentre il pensiero assomiglia molto ad un’affezionepropria dell’anima. Se però il pensiero è una specie di immaginazione o non operasenza l’immaginazione, neppure esso potrà essere indipendente dal corpo.45 [...] Sembra che anche le affezioni dell’anima abbiano tutte un legame con il corpo:l’ira, la tenerezza, la paura, la pietà, il coraggio, e inoltre la gioia, l’amore e l’odio.Infatti non appena esse si riproducono, il corpo subisce una modificazione.46 

    La catarsi coinvolge l’uomo nella sua totalità nella misura in cui la pietà e la paurasono date, come tutte le affezioni dell’anima, assieme al corpo. Ma c’è di più inquesta parte del De anima . Ed è qualcosa che ci riporta direttamente nell’ambitodello spettacolo. «Ma un fatto ancor più evidente è questo: pur non accadendonulla che provochi timore, si hanno le stesse emozioni di chi è impaurito».47 Per concludere, sono state esposte numerose teorie sul processo della catarsi:psicologi, medici, letterati, filosofi si sono impegnati a cercare di capire cosafosse. Abbiamo voluto richiamare tali teorie non per fare una sintesi o gettare

    nuova luce sulla questione, ma per sottolineare come la catarsi avesse a che farecon la follia, per considerare il perché fosse stata creata una vera e propriaistituzione, la tragedia appunto, un’istituzione legata al culto di Dioniso, con unafunzione ben precisa, che avesse come materia la fragilità umana e che pensassedi poterla socialmente controllare, in qualche modo. E probabilmente doveva

    44 cfr. J. Pigeaud, La follia nell’antichità classica, Marsilio editori, Venezia 1995, p. 199.45 De anima , 403a, 5-10.46 Ivi , 403a, 15-20.47 Ibidem .

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    essere anche molto forte il suo effetto, se pensiamo che durante o dopo averassistito ad una tragedia, non sono stati rari i casi di suicidio.Ci sono stati anche dei casi in cui, nell’età classica, il teatro è stato proposto come

    “cura” della follia, luogo della terapeutica, pharmakon  prescritto ai malati di mentedal medico. A titolo di esempio, riportiamo alcune note sulla mania , di Celio Aureliano, raccolte da Pigeaud. Celio Aureliano, medico vissuto nel V sec. d.C.,traduttore latino del medico greco Sorano di Efeso (vissuto nel II sec. d.C.), ci halasciato importanti osservazioni sulla mania . Non dimentichiamo che la mania   èuno dei generi in cui era articolata la follia, gli altri erano la phrenitis  e la melancolia .Scrive Celio Aureliano in Malattie acute  I, V, 163:

    Così, dopo la lettura, se i folli soffrono la tristezza, bisogna sottoporre loro unlavoro teatrale, o un mimo; o, al contrario, se sono affetti da una gaiezza infantile,una rappresentazione che comporta tristezza e timore tragico ( tristitiam vel tragicumtimorem  ). Infatti conviene correggere la qualità dell’alienazione attraverso il suocontrario, affinché lo status   dell’anima, in tal modo, recuperi la condizione diequilibrio ( mediocritas  ) della salute.48 

    Sono evidenti le considerazioni sul teatro come vera e propria “psico-terapia”che a partire dal concetto di catarsi di Aristotele arrivano ad Aureliano e cheriemergeranno nell’Umanesimo.Rimandiamo al testo di Pigeaud per un approfondimento. Volevamo, qui,suggerire la molteplicità dei vertici da cui osservare il rapporto teatro-follia esicuramente non abbiamo esaurito neppure le suggestioni. Certamentequest’ultimo vertice “medico” non è il più esauriente ma apre direzioni di ricercainteressanti e riflessioni inedite, sia nel campo degli studi teatrali sia nel campodegli studi psichiatrici e psicologici.

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    48 In Pigeaud, op. cit., p. 183.

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