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2^ Relazione Annuale Sullo Stato della Media Impresa Italiana

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2^ Relazione Annuale Sullo Stato della Media Impresa Italiana

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INDICE

1 Introduzione

2 Il contesto economico italiano nell’analisi di Carlo Cottarelli

3 Scenario Macroeconomico Globale

4 Il primo anno di attività

5 Corporate Family Responsibility

6 Uno sguardo al 2019

Rassegna Stampa

Bibliografia e Fonti

Appendice

A cura del Centro Studi Cdo

Giulio Buciuni

Con contributi di

Mara BrumanaGiovanna Campopiano

Nicola Varcasia

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Introduzione

Con il Primo Forum Annuale della Media Impre-sa Italiana, svoltosi il 22 novembre 2017, a Mila-no, è partita ufficialmente l’attività di Fabbrica

per l’Eccellenza, la learning community Cdo dedicata alle me-die imprese italiane. Il progetto è nato dalla consapevolezza che le medie imprese sono la forza trainante dell’economia in Italia e in Europa. Esse affrontano e vivono ogni giorno una grande avventura per il bene proprio e per il bene del nostro Paese. Competono con le loro eccellenze, incontrando molte opportunità e rischi globali non sempre facili da comprendere senza un paragone aperto, continuo e competente con altri protagonisti del mercato e della società.

Proprio per approfondire e affrontare la natura di queste sfi-de, Fabbrica per l’Eccellenza si propone come una learning community dedicata alle medie imprese italiane, per condi-videre conoscenze, esperienze e progetti volti a una crescita aziendale sostenibile. I partecipanti alla community collabo-rano per promuovere una cultura imprenditoriale basata sulla dignità della persona e orientata allo sviluppo economico e sociale del Paese.Il metodo della Fabbrica si basa sulla condivisione di best practice per condividere esperienze utili per tutti, sullo scou-ting verso nuove risorse e talenti dentro e fuori l’impresa e su un confronto sistematico focalizzato ad argomenti specifici in un’ottica di problem solving.Le iniziative della Fabbrica per l’eccellenza sono supportate dal Centro Studi Cdo che, oltre a realizzare la Relazione An-nuale, coinvolge e supporta la learning community con una pluralità di contributi, offrendo al contempo spunti originali e best practice al dibattito economico-politico, anche in colla-borazione con altri Centri Studi italiani ed europei. In questo contesto, è stato istituito il Premio Cdo per l’eco-nomia, dedicato all’individuazione della Corporate Family Responsibility, un innovativo indicatore che aiuterà concreta-mente le imprese a valutare il proprio livello di attenzione al tema della conciliazione tra tempo del lavoro e tempo della famiglia in tutti i suoi aspetti e che viene presentato nella pre-sente pubblicazione.Identità e valori d’impresa, trasformazione digitale, ricerca e valorizzazione dei talenti, crescita sostenibile: su questi principali temi i protagonisti della nuova learning community

della media impresa eccellente italiana ha lavorato nel 2018. Il presente volume, mostrando le numerose acquisizioni del suo primo anno di vita ci introduce ad un nuovo orizzonte di confronto, collaborazione e ricerca che si realizzerà nel 2019.Lo scopo della Seconda Relazione Annuale sullo Stato della Media Impresa Italiana è quello di mostrare il rilievo scientifi-co-culturale delle attività di Fabbrica per l’Eccellenza, la lear-ning community Cdo per le medie imprese che ha raggiunto il traguardo del suo primo anno di vita. Nel far ciò, la prima parte della relazione sarà dedicata all’analisi del contesto economico attuale, con particolare attenzione a due aspetti specifici: lo stato dell’arte dell’economia italiana analizzato, attraverso il contributo dell’economista Carlo Cottarelli (capi-tolo 2) e il quadro macroeconomico globale (capitolo 3). Com-prendere ciò che sta accadendo attorno a noi e alle nostre

imprese è infatti il punto di partenza necessario per qualsiasi iniziativa orientata a sostenere dal basso la competitività del-le medie aziende eccellenti italiane. Particolarmente in questi difficili mesi, dove la crescente turbolenza del mercato globa-le sta creando i presupposti per un possibile rallentamento del commercio globale, inquadrare i principali fenomeni che oggi impattano sull’attuale e futura competitività delle nostre imprese è un esercizio essenziale per pianificare i prossimi mesi di lavoro. La relazione offrirà anche un sintetico resoconto sulle attività condotte nell’anno in corso (capitolo 4), con particolare at-tenzione ai Forum Tematici, i momenti di confronto e dialogo che nel 2018 hanno rappresentato uno dei tratti distintivi di Fabbrica per l’Eccellenza. Sulla scia del capitolo 4, il seguente sarà invece dedicato al tema della Corporate Family Respon-sibility (CFR), un indice ideato ed elaborato da Fabbrica per l’Eccellenza per misurare il livello di attenzione al tema del bilanciamento lavoro-famiglia da parte delle imprese affiliate. I risultati dello studio analitico condotto assieme all’Universi-tà degli Studi di Bergamo consentirà non solo di comprendere quanti e quali investimenti siano attualmente condotti dalle imprese medie eccellenti per favorire la coesistenza tra fami-glia e lavoro, ma permetterà inoltre di individuare delle aree di intervento verso cui indirizzare il nostro lavoro nei mesi futuri.Guardare al futuro (capitolo 6) è senza dubbio uno delle caratteristiche principali di Fabbrica per l’Eccellenza. Attra-verso questa relazione intendiamo infatti offrire ai lettori sia uno sguardo al futuro imminente, con il quale anticiperemo le attività guida per il prossimo anno, sia una prospettiva di

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medio-lungo periodo. È proprio questa, infatti, la grande sfi-da di Fabbrica per l’Eccellenza: creare le basi per un futuro economico sostenibile nel nostro Paese attraverso il sup-porto alle medie imprese eccellenti e il racconto delle loro best practice. Il nostro orientamento, nel perseguire questo ambizioso e difficile obiettivo, è di partire proprio dalle im-prese, riconoscendo il loro ruolo fondamentale nello sviluppo economico, sociale e civile di qualsiasi paese sviluppato. Par-tire dalle imprese significa anzitutto mettersi al loro ascolto e comprendere cosa funziona e cosa no nell’ambiente in cui operano, quali aspetti possono essere migliorati e quali inve-ce potenziati. Il lavoro svolto nel 2018 ci ha insegnato molto. Ha messo in evidenza un forte spirito di resilienza e di cre-atività attraverso il quale molte delle nostre imprese hanno saputo navigare i mari turbolenti degli ultimi anni; ma ci ha altresì restituito un quadro d’insieme al cospetto del quale ancora molto lavoro rimane da fare. A cominciare dalla ne-cessità di creare e coltivare un dialogo tra il mondo pubblico e quello privato, partendo ad esempio dall’annoso problema del mismatching tra le competenze create dalle università e quelle richieste dalle nostre imprese. Più in generale, rimane vivo, come un anno fa, il bisogno di raccontare le tante virtù delle nostre imprese e di metterle al servizio della comunità imprenditoriale e sociale del Paese in un orizzonte europeo. C’è infatti molto da imparare dalle medie imprese eccellenti italiane e di questo ne siamo ancora più convinti dopo i primi dodici mesi di intenso lavoro.

Il contesto economicoitaliano nell’analisi di Carlo Cottarelli

Il Forum Crescita Sostenibile tenutosi l’8 ottobre 2018 presso lo spazio Campari, a Sesto San Giovanni, ha ospi-tato l’intervento del professor Carlo Cottarelli, che qui ripro-poniamo. Già economista presso la Banca d’Italia e il Fondo Monetario Internazionale, Cottarelli è stato commissario alla revisione della spesa per il Governo nel 2013-2014 e conosce profondamente le dinamiche alla base della competitività del sistema paese Italia. Elaborando alcuni dei passaggi chiave del suo ultimo lavoro (I Sette Peccati Capitali dell’Economia Italiana, Feltrinelli | Serie Bianca, 2018), Cottarelli ha restitui-to uno scenario economico particolarmente sfidante.

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Il Fondo Monetario Internazionale, nel World Economic Outlo-ok presentato in questi giorni a Bali, indica una diminuzione della previsione di crescita per l’Italia, portandola all’1,2% per il 2018 e all’1% per l’anno prossimo, ben al di sotto dell’obiet-tivo del Governo, stimato per quest’anno all’1,5%. Tuttavia, al di là di un possibile rallentamento congiunturale della crescita economica, che sarebbe facilmente sopportabile, ciò che ci deve preoccupare di più è il possibile ripetersi di una crisi come quella del 2011 e del 2012, quando la reazione dei mer-cati finanziari è stata tale da portare lo spread a quasi 600 punti base, provocando un blocco dell’economia italiana1. Per valutare quanto sia probabile il ripetersi di una tale crisi dob-biamo, inevitabilmente, chiederci quali sono state le cause di quella perdita di fiducia nei confronti dello stato italiano nel ripagare il proprio debito, o di rimanere nell’area dell’euro.

Torniamo dunque indietro sette anni e chiediamoci cosa è successo, se allora fu una congiura, oppure se c’erano dei motivi effettivi per cui diventava legittimo, in qualche modo, in quel momento, per i mercati finanziari, preoccuparsi dell’usci-ta dell’Italia dall’euro o comunque del consolidamento del suo debito pubblico. Purtroppo, c’erano dei motivi effettivi, fonda-mentalmente due debolezze di fondo dell’economia italiana particolarmente importanti dal punto di vista dello sviluppo del mercato.

1 - Come è noto, quando lo stato ha difficoltà a prendere denaro a prestito, anche le banche hanno la stessa difficoltà e così le imprese.

Perdita di competitività

La prima debolezza è una perdita di competitività di costo, manifestatasi per le imprese italiane dopo l’ingresso nell‘eu-ro. Il problema non riguarda, infatti, le imprese sopravvissute alla crisi, ma tutte quelle che hanno chiuso in quel periodo e, in generale, tutte quelle che, dopo l’ingresso nella moneta unica, hanno avuto difficoltà a esportare a causa di una per-dita di competitività, dovuta a costi di produzione cresciuti più che nel nord Europa: bisogna ricordare che nei primi dieci anni dell’euro, da quando cioè sono stati fissati in maniera irrevocabile i tassi di cambio, il costo del lavoro per unità di prodotto in Italia è aumentato del 30%, mentre nello stesso periodo l’aumento è stato zero in Germania. Ciò significa che l’imprenditore medio italiano, rispetto a quello medio tedesco, in quel periodo ha perso in competitività 30 punti percentuali.

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Non doveva necessariamente finire così, ma tutto ciò è acca-duto a causa di un insieme di errori nella gestione della poli-tica, soprattutto fiscale che, proprio dopo l’entrata dell’euro, è diventata molto espansiva. Gli anni ‘90 erano terminati con un avanzo primario – ossia il bilancio dello stato al netto della spesa per interessi – pari al 5% del pil che, nel giro di pochi anni, si è ridotto oscillando dall’1,5 al 2% del pil. Lo stato, cioè, ha cominciato ad aumentare la spesa, in particolare gli stipendi dei dipendenti pubblici, trascinando con sé quelli del settore privato. Tale aumento dei salari in eccesso rispetto al rapporto di redditività, che restava basso, ha portato all’au-mento del costo del lavoro per unità di prodotto, ossia a quei 30 punti percentuali rispetto allo zero tedesco. Le nostre esportazioni in quel periodo sono andate molto male, mentre la Germania, ha avuto uno dei migliori periodi di crescita della sua storia relativamente recente, con un ab-bassamento del tasso di disoccupazione al di sotto del 3,5%. È, anzi, proprio di ieri la notizia che la Germania ha deciso di accogliere 1 milione e 600.000 lavoratori specializzati dall’e-stero. Un Paese che perde competitività, potenzialmente, può gua-dagnare dall’uscita dall’euro, da una svalutazione ed è per questo, allora, che i mercati hanno cominciato a pensare che forse l’Italia, per recuperare la sua capacità di esportare, sa-rebbe uscita dall’euro.

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L’elevato livello del debito pubblico

L’altra debolezza per cui i mercati nel 2011 pensavano che l’Italia potesse guadagnare uscendo dall’eurozona era l’alto livello del debito pubblico che, tuttavia, proprio dopo l’entrata nella moneta unica, si era ridotto di dieci punti percentuali: da 110 si era arrivati intorno al 100% del pil 2. Se il debito è alto e comincia a crescere, come aveva ricominciato a fare nel 2011 in conseguenza della crisi economica globale iniziata nel 2008, ai mercati veniva il dubbio che lo stato non fosse in grado di ripagare il proprio debito, oppure, che per ripagarlo, uscisse dall’euro, convertendo per legge il debito da euro in nuove lire per poi stampare le nuove lire proprio e ripagare il debito. Con la presenza della bassa produttività di costo e del debito elevato, era del tutto razionale per i mercati finanziari temere un’uscita dell’Italia dall’euro e/o un consolidamento del suo debito. Per questo, chi comprava titoli di stato chiedeva di essere compensato a fronte a questo rischio con un tasso d’interesse più alto. Oggi sappiamo come è andata: c’è stata l’austerità nel 2012 e successivamente le cose si sono tran-quillizzate, poi c’è stato l’intervento fondamentale della Banca Centrale Europea per far scendere i tassi di interesse e gli spread e, dopo un periodo difficile, abbiamo ripreso a cre-scere.

2 - Nello stesso periodo, il Belgio, che era messo peggio di noi negli anni ‘90, ha ridotto il debito di 30 punti percentuali. Noi, nel 2011, avevamo il secondo debito pubblico più alto nell’area euro, secondo soltanto alla Grecia.

Come nel 2011/12?

Torniamo allora a porci la domanda se ci sono ancora le condi-zioni per una ripetizione di ciò che è successo nel 2011- 2012. La risposta è, in parte, sì. Dal punto di vista della competiti-vità, c’è stato un recupero, non enorme e soltanto parziale, alcuni indicatori lo confermano. Anche se si sta riducendo c’è, ad esempio, un avanzo nei conti con l’estero, ossia esportia-mo più di quando importiamo 3. Il recupero di competitività si vede ancora meglio dall’indicatore del costo di lavoro per unità di prodotto. Quel differenziale di 30 punti percentua-li creatosi tra il 1999 e il 2008 si è ora ridotto a 20 punti percentuali. Questo non tanto perché si sia ridotto da noi il costo del lavoro per unità di prodotto, ma perché in Germa-nia, visto il “surriscaldamento” dell’economia tedesca, il costo del lavoro tende ad aumentare più rapidamente che da noi e questo ci hai aiutati: un differenziale di 20 punti percentuali è però ancora molto elevato. Quindi esiste, in qualche modo, un miglioramento, ma il gap con la Germania non si è chiu-so, al contrario di quanto accaduto in Portogallo e Spagna. Questi due Paesi hanno colmato il divario sul costo del lavo-ro per unità di prodotto apertosi dal 1999, dunque, noi forse abbiamo guadagnato un po’ di competitività con la Germania ma, dal 2011, l’abbiamo persa rispetto a Spagna e Portogallo. Per quanto riguarda il debito pubblico, i problemi sono ancora immutati rispetto al 2011, anzi il livello del debito rispetto ad allora è ancora più alto, siamo al 131 % e non sta, finora, scen-dendo molto. Quest’anno c’è stata una piccola discesa, ma a una velocità “da tartaruga” 4.Domandiamoci, allora, qual è la causa immediata di una crisi,

ad esempio come quella del 2011, perché non basta avere un debito pubblico alto: nell’80% dei casi le crisi sul mercato avvengono quando il debito è alto e crescente. Bisogna allora vedere le cause scatenanti che, in presenza di una relativa debolezza dovuta alla bassa competitività e a un debito pub-blico elevato, potrebbero portare a un aumento del rapporto tra debito pubblico e pil e, quindi, alla ripartenza di una crisi irrefrenabile sul mercato dei titoli di stato.

3 - Potremmo dire che, in presenza di un avanzo, non sussista un problema di conti con l’estero, ma non è così semplice. L’avanzo c’è perché l’Italia è cresciuta poco e, con un reddito pro-capite più o meno uguale a quello di vent’anni fa, le importazioni sono compresse. Se noi avessimo un livello del reddito pro capite quale quello a cui vorremmo aspirare, l’avanzo delle partite correnti si trasformerebbe in deficit. Non grave come quello del 2011 o del 2008, ma saremmo, probabilmente, ancora in deficit.

4 - Per restare al paragone ora citato, l’anno scorso il Portogallo ha ridotto il rapporto tra debito e pil di oltre 4 punti percentuali e, più o meno, farà lo stesso quest’anno. Nel giro del 2020 il Portogallo avrà un rapporto fra pil e debito pubblico intorno al 115%. Due anni fa il rapporto era al nostro livello attuale di circa il 131%. Il problema dunque c’è ancora e quindi sussistono le condizioni per cui una crisi di fiducia si possa sviluppare.

Le cause scatenanti

Ci sono potenzialmente tre cause. La prima riguarda le politi-che interne adottate dal Governo che, se azioneranno leve di deficit pubblico molto elevato condurranno, ovviamente, a un aumento del rapporto con il pil. L’attuale Governo, da questo punto di vista, ha scelto un approccio diverso dal passato, ma senza arrivare a un estremo e infatti la reazione del mercato è stata mista. L’Esecutivo, da un lato, ha annunciato un aumen-to del deficit per il prossimo anno (anche se avrebbe dovuto ridurlo, secondo gli accordi presi con l’Unione europea) man-tenendo la previsione del 2,4 % 5 per il 2019: in proposito, io

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credo – l’ho già detto pubblicamente – che fino al 2% i mercati avrebbero reagito senza un aumento dello spread. Dall’altro lato, tuttavia, nelle previsioni, il deficit dovrebbe scendere al 2,1 % nel 2020 e all’1,8% nel 2021. Tale riduzione è però condizionata dall’esistenza di clausole di salvaguardia, quali l’aumento dell’Iva, che non sono state interamente cancellate e delle quali non conosciamo esattamente il valore. Ma io non credo che questo Governo possa permettersi, credibilmente, di promettere un aumento dell’Iva nel 2020 e nel 2021, sareb-be un anatema per chi lo guida. Quindi, in realtà, queste clau-sole comporteranno, probabilmente, una mancata riduzione del deficit negli anni successivi al 2019. In sintesi, il Governo non è arrivato a sfondare il 3%, cosa che avrebbe subito por-tato a una crisi, ma ha realizzato una via di mezzo e il mercato ha reagito con un aumento dello spread. Vedremo di giorno in giorno cosa succede, credo che se ci fermassimo a livelli intorno a 300, la situazione sarebbe sopportabile 6.

5 - Cifra confermata come limite massimale per il 2019, anche al momento della stampa di questo volume, ndr

6 - Questo è uno spread rispetto ai tassi di interesse pagati in Germania che attualmente è moto più basso di quello che veniva pagato in Germania nel 2011. Quindi il livello dello spread è piuttosto alto ma in termini di livelli di tassi di interesse siamo ancora su im-porti relativamente bassi. Io credo che un livello di 300 possa essere mantenuto senza entrare in quel territorio di non ritorno in cui l’aumento dei tassi di interesse addirittura è controproducente perché gli investitori smetterebbero di comprare titoli di stato perché penserebbero che lo stato con interessi così alti non potrebbe ripagarli. I rischi sono aumentati rispetto al passato.

La seconda causa che può far aumentare il rapporto tra de-bito pubblico e pil, che qui citiamo solamente, è l’aumento

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dei tassi di interesse in Europa. Questo prima o poi accadrà. Alcune simulazioni hanno tuttavia mostrato che se l’aumento sarà graduale potrebbe essere assorbito dell’Italia senza un aumento del rapporto fra debito pubblico e pil o almeno senza un forte aumento. Quello che davvero ci deve preoccupare – e a cui rimaniamo fortemente esposti – è il terzo fattore del possibile aumento del rapporto del debito pubblico e pil, cioè una recessione. Se l’Italia andasse in recessione, anche modesta, il rapporto tra debito pubblico e pil ricomincerebbe a crescere rapidamente e, di conseguenza, diventerà difficile fermare l’attacco speculativo e la crisi di fiducia. Soprattutto se si parte dai livelli di deficit e di debito quali quelli attuali e magari dai livelli di spread attuali, è facile andare a 400 e 500, così lo spread non lo fermerà più nessuno. Noi economisti, purtroppo, non siamo in grado di prevedere i fattori che possono causare una recessione. Sappiamo che prima o poi avvengono e, non conoscendone la causa, guar-diamo indietro per rintracciarvi il motivo della prossima. Pos-siamo ipotizzare un aumento del prezzo del petrolio, oppure un inasprimento della guerra dei dazi o, ancora, un’altra crisi finanziaria in qualche settore: prima o poi ci sarà un rallenta-mento della crescita. Anzi, in Europa c’è già e il Fondo Mone-tario ha comunicato previsioni verso il basso per il prossimo anno al riguardo. Il tasso di crescita italiano quest’anno è sta-to piuttosto basso e come si vede ci vuole poco per entrare in territorio negativo.Un paese in condizioni normali può resistere a una recessione modesta, dell’1 %, poi recupera. In Italia, invece, anche con una recessione dell’1 %, seguita da un anno di crescita zero,

come mostrano le simulazioni, che il rapporto fra debito e pil rapidamente riprenderebbe a crescere, facendo così ripartire lo spread, innescando la spirale. Una tale situazione si può verificare con una probabilità alta nel giro di due anni proprio perché in questo lasso di tempo l’economia mondiale ha at-traversato un periodo di crescita abbastanza lungo e anche l’economia americana prima o poi rallenterà.

Le misure possibili

Di fronte a questa situazione, credo che abbiamo bisogno di crescere più rapidamente. Ma abbiamo la giusta strategia di crescita? Quella dell’attuale Governo e dei precedenti è stata fondamentalmente basata sul traino della domanda interna. Il Governo Renzi ha varato il provvedimento degli 80 euro per far ripartire i consumi, mentre l’attuale esecutivo pensa al reddito di cittadinanza e alla controriforma della legge Forne-ro, con un aumento della spesa corrente. Al contrario, quella per investimenti è limitata a 4 miliardi per i prossimi anni. Quindi la ricetta è stata quella di un aumento della domanda interna attraverso aumento della spesa corrente oppure una tassazione in deficit. Credo che questa sia la strategia sbagliata perché richiede “munizioni” di cui attualmente non disponiamo. Con un deficit elevato, non appena si utilizzano le leve della politica fiscale per cercare di sostenere l’economia, aumentano lo spread e il debito. Facendo più deficit non è vero che il pil aumenti né che questo faccia ridurre il rapporto fra debito pubblico e pil: non funziona e non ha mai funzionato. Tutti lo sappia-

mo, secondo Keynes in certi periodi per sostenere l’econo-mia occorre accettare un aumento della spesa pubblica e del deficit. Infatti, l’adozione di politiche keynesiane, nel 2008 e nel 2009, da parte dei Paesi del G20, anche con la raccoman-dazione del Fondo Monetario Internazionale, è stata la cosa giusta da fare, ma il prezzo di questo è stato proprio l’aumento del rapporto del debito pubblico e pil. Per noi che abbiamo già alto questo rapporto, questa strategia non funziona. Occorre, invece, puntare sui mercati internazionali, sulle esportazioni, sulla domanda estera. Negli ultimi 20 anni il pro-blema dell’Italia è stato quello di una perdita di quote di mer-cato, mentre la Germania, ad esempio, ne ha guadagnate. Ma per fare meglio della Germania sui mercati internazionali non possiamo svalutare, per esempio uscendo dall’euro: occorre invece ridurre in tutti i modi possibili il costo di produzione delle nostre imprese, cercando di non tagliare i salari, che sarebbe a sua volta controproducente. Partiamo, allora, dai costi della burocrazia: le piccole medie imprese in Italia pagano ogni anno oltre 30 miliardi di euro soltanto per riempire moduli, quasi il 2 % del pil. Sono cifre enormi. I concorrenti tedeschi non pagano queste cifre. Oc-corre ridurre in maniera drastica il costo della burocrazia, che vuol dire anche tempi di attesa lunghi e, inoltre, difficoltà negli investimenti. Con meno investimenti, la produttività del lavoro cala: un lavoratore medio, in un’ora di lavoro, produce meno se, ad esempio, i macchinari non vengono rinnovati, cioè se c’è meno capitale investito. Per questo bisogna favorire tutto ciò che aumenti gli investimenti in Italia e la renda più attraen-te. Ai costi della burocrazia, aggiungo infine la lentezza della

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giustizia civile, altro deterrente fondamentale per gli investi-menti in Italia, e i livelli della tassazione. Lentezza della giustizia, burocrazia e livello della tassazione sono, d’altra parte sono tre i fattori che frenano gli investi-menti indicati dagli imprenditori in tutte le indagini e ricerche. Ma per ridurre la tassazione, occorrono leve finanziarie sta-bili. Non siamo credibili se diciamo che taglieremo le tasse prendendo i soldi in prestito: per diminuire la pressione fisca-le occorre trovare risorse permanenti, risparmiando sul lato della spesa. La mia idea fondamentale è che possiamo risolvere i nostri problemi attraverso un modello di crescita basato sulle espor-tazioni, favorendo un recupero della competitività. Questo si realizza anche con la riduzione della tassazione, finanziata in parte con un recupero dell’evasione fiscale e in parte evitando spese che non ci possiamo permettere. È importante che i risparmi derivanti dalla maggiore crescita siano utilizzati non per nuova spesa, ma per ridurre il deficit, risolvendo anche l’al-tro problema di cui abbiamo parlato, ovvero il debito pubblico elevato. Per questo occorrono riforme strutturali: burocrazia, lentezza della giustizia e pressione fiscale. Ci riusciremo? Non lo so. Ma senza queste scelte, le conseguenze saranno molto serie perché prima o poi torneremo in una situazione di crisi come quella che abbiamo sperimentato nel 2011 e 2012.

Scenario Macroeconomico Globale

Lo scenario macroeconomico degli ultimi mesi è caratterizzato da alcuni importanti eventi globali

la cui portata sarà verosimilmente avvertita da buona parte delle imprese italiane nel prossimo futuro. Da un lato, le po-litiche protezionistiche paventate dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, durante la campagna elettorale del 2016 sono state ampiamente confermate, scatenando una reazione a catena su scala globale che ha portato e porterà a una con-trazione del commercio internazionale; dall’altro, la crescente pressione esercitata sull’Unione Europea da parte di gover-ni populisti e con marcata ideologia nazional-sovranista, ha contribuito a movimentare ulteriormente il già precario ordine internazionale facendo emergere lo spettro di un possibile collasso della moneta unica, nonostante le smentite da parte dei detrattori dell’euro. A uno scenario già particolarmente volubile, va aggiunta l’ulteriore incertezza generata dall’usci-ta della Gran Bretagna dall’Unione Europea programmata per marzo 2019. La Brexit - in fase di perfezionamento proprio mentre si manda in stampa il presente volume - potrebbe ral-lentare ulteriormente il traffico internazionale di beni, perso-ne e servizi, ossia il grande motore dello sviluppo economico mondiale dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 alla gran-de crisi finanziaria del 2011.L’Italia si trova geograficamente ed economicamente in una posizione estremamente delicata. Il nostro Paese rappresenta

3 di fatto uno dei principali sfoghi per l’incessante crisi umani-taria che interessa la parte Subsahariana dell’Africa. Il cam-biamento climatico, ancora gravemente ignorato da una parte consistente della politica contemporanea, è uno dei fattori alla base della crescente povertà di Paesi quali Niger, Chad e Mali, e non sembrano esserci ad oggi delle politiche coordi-nate da parte dei principali paesi mondiali per affrontare con decisione uno dei grandi problemi della nostra epoca. Così come già nella guerra fredda, dove l’Italia tracciava fisicamen-te e culturalmente la separazione tra il mondo occidentale e quello sovietico, la grande crisi africana di questi anni trova nell’Italia un cuscinetto tra due placche sempre più conver-genti. Le turbolenze geopolitiche a cavallo tra Europa, Africa e Asia hanno dirette e pesanti conseguenze anche per quel che con-cerne la stabilità economica del nostro Paese. L’emersione di governi sovranisti in Italia e in Europa in generale è infatti anche il risultato di anni di globalizzazione non regolamen-tata. Così, non dovrebbe più di tanto sorprendere che, dopo anni di questioni internazionali irrisolte, le soluzioni ai grandi problemi della globalizzazione siano veicolate più dall’impulso e dalle frustrazioni di parte del ceto medio di svariati paesi occidentali che non da proposte razionali basate su evidenze empiriche. Il risultato è un generale movimento anti-globaliz-zazione che si estende dagli Stati Uniti all’Europa e, per certi aspetti, coinvolge anche un pezzo del Sud-est Asiatico. A fron-te di condizioni troppo permissive e poco garantiste rispetto a eventi epocali come l’ingresso della Cina nella World Trade Organization nel 2001 o il flusso migratorio da parte di milioni

di persone dal “Sud” al “Nord” del mondo degli ultimi quindici anni, una parte consistente del mondo occidentale ha rispo-sto in maniera forse scomposta e irrazionale, ma certamente non imprevedibile.Per un paese come l’Italia fortemente legato alle esportazioni, tutto ciò non può che rappresentare uno scenario preoccu-pante. Solo nel 2017, le esportazioni italiane ammontavano a circa a 448 miliardi di euro (Ministero dello Sviluppo Econo-mico, 2018), in crescita di 30 miliardi rispetto al 2016 e di ben 58 miliardi se prendiamo a riferimento il 2012. Il probabile, e a questo punto quasi inevitabile, rallentamento del commer-cio internazionale non sarà avvertito tuttavia solamente da quelle imprese italiane i cui prodotti finiti terminano in mano a utenti finali stranieri. A risentirne maggiormente saranno, invece, quelle imprese la cui produzione si concentra sulla manifattura di componenti, semilavorati o macchinari alla base di prodotti finiti assemblati in paesi stranieri o di im-pianti produttivi tedeschi, francesi o americani. Sono queste le imprese che costituiscono la colonna vertebrale del nostro settore della meccanica e della componentistica, uno dei veri fiori all’occhiello del Made in Italy. Dedicati principalmente al commercio B2B, i fornitori e subfornitori della meccanica sono ingranaggi preziosi nel delicato funzionamento delle ca-tene globali del valore di svariate industrie, quali l’automotive, l’agroalimentare e le costruzioni. Proprio a causa della fitta rete di relazioni esistenti in una catena globale del valore, un possibile rallentamento dell’interscambio commerciale tra Germania e Stati Uniti o tra Cina e Stati Uniti avrà effetti di-retti e quasi immediati sulle esportazioni delle imprese della

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meccanica italiane. Le ripercussioni negative di un rallentamento del commer-cio globale andranno a pesare su un contesto economico già in sofferenza. Come ricordato anche da Carlo Cottarelli nel capitolo precedente, secondo stime elaborate dall’FMI nello scorso settembre, le previsioni di crescita del PIL italiano per il 2018 si attestano attorno all’1,2% mentre quelle per il 2019 all’1%, numeri questi che ci collocano all’ultimo posto nell’U-nione Europea. Se a ciò si aggiunge un tasso di disoccupazio-ne del 10,1% (Istat, ottobre 2018) e una percentuale di NEET (giovani tra i 18 e i 24 anni che non lavorano né studiano) di quasi il 26% (Eurostat, 2018), capiamo facilmente perché un ridimensionamento del commercio mondiale rischia di compromettere la già precaria stabilità economico-finanziaria italiana. Mai quanto nel contesto attuale si rendono urgenti investi-menti in attività ad alto valore aggiunto che possano contri-buire nei prossimi anni a bilanciare una perdita di stabilità economico-finanziaria che i principali indicatori economici indicano come più che possibile. Investimenti in attività ad alto contenuto tecnologico e capital-intensive richiedono tut-tavia alcune condizioni fondamentali, tra cui un’ingente spesa privata e/o pubblica in asset fisici e immateriali produttivi, ossia in grado di generare conoscenza, innovazione e valore economico, e la formazione di nuove figure professionali in grado di governare tali asset. La questione della formazione secondaria e terziaria in Italia non sembra tuttavia essere all’ordine del giorno dell’agenda politica nazionale. Negli ul-timi dieci anni, infatti, la spesa pubblica in Italia dedicata alla

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ricerca e sviluppo è diminuita del 20% e non sembrano esserci significative inversioni di tendenza all’orizzonte. Il risultato del progressivo ridimensionamento degli investimenti in istruzio-ne è tangibile. In Italia infatti il numero di giovani laureati nel-la fascia d’età 30-34 anni è pari al 26,9%, di poco superiore all’ultimo paese in Europa, la Romania con il 26,3%. Di fronte a una spesa pubblica in ricerca e istruzione gravemente insuf-ficiente, i futuri investimenti in formazione dovranno giocofor-za essere affrontati dalle imprese private italiane. Non da ultimo, è fondamentale mettere mano al sistema della formazione professionale, da quella base fino a quella qua-lificata degli ITS (Istituti Tecnici Superiori), al fine di rispon-dere in modo concreto, lungimirante e innovativo al bisogno educativo-formativo dei giovani e alle crescenti necessità di professionalizzazione delle imprese.

Il primo anno di attività di Fabbrica per l’Eccellenza

Il primo anno di attività di Fabbrica per l’Eccel-lenza si è contraddistinto per la sperimentazio-

ne di un nuovo format di analisi e condivisione di tematiche rilevanti per le imprese italiane denominato Forum tematico. Ciascuno dei quattro Forum organizzati tra gennaio e ottobre di quest’anno – Identità e Valori; Talento, Competenze e Se-lezione; Trasformazione Digitale e Crescita Sostenibile – ha consentito di approfondire aspetti centrali per la competitività delle imprese del Made in Italy attraverso la condivisione di best practice adottate da aziende di successo, la discussione di problematiche riguardanti l’esercizio quotidiano dell’attivi-tà d’impresa e la ricerca costante di nuove soluzioni e talenti. Caratteristica principale dei Forum tematici è stata la volontà di intraprendere un dialogo sia con attori autorevoli esterni a Fabbrica per l’Eccellenza sia con le imprese aderenti a questa iniziativa, con l’obiettivo di creare nel tempo la prima learning community italiana delle imprese medie italiane. I risultati emersi dall’organizzazione dei quattro Forum tematici sono stati particolarmente positivi, quanto meno a giudicare dalla ricchezza dei contenuti maturati attraverso i vari momenti di confronto. Obiettivo delle prossime pagine sarà dunque quel-lo di riassumere e sistematizzare i principali risultati dei forum tematici e di leggerli attraverso una lente interpretativa origi-nale, quella dell’imprenditore di una media impresa italiana.

Forum Identità e Valori

Il Forum Identità e valori organizzato presso l’azienda farma-ceutica Zambon a Vicenza è stato dedicato all’importanza di individuare e valorizzare i valori distintivi di ciascuna organiz-zazione all’interno del contesto aziendale.

Tre, in particolar modo, sono gli ambiti competitivi coinvolti direttamente da un’attenta valorizzazione dei valori distinti-vi d’impresa: 1) la condivisione della cultura aziendale come elemento aggregante delle varie individualità che convivono all’interno di un’organizzazione; 2) la governance aziendale e l’indirizzo strategico d’impresa; 3) la valorizzazione della brand reputation anche attraverso l’esercizio dello storytel-ling. Sono questi, a ben vedere, ambiti piuttosto diversi all’in-

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terno di un contesto organizzativo aziendale ma che, tuttavia, necessitano e certamente beneficiano di una chiara definizio-ne di quei valori che compongono il DNA di ciascuna impresa.

I valori d’impresa, in questo senso, non rappresentano sem-plicemente la certificazione del livello di responsabilità civile e sociale di un’impresa quanto piuttosto la capacità di que-sta di creare e sostenere il proprio vantaggio competitivo nel tempo. La valorizzazione della brand reputation, ad esempio, è particolarmente legata al concetto della Corporate Social Responsibility (CSR) non soltanto in ottica di compliance con le regole e i bisogni della società civile contemporanea, ma anche e soprattutto come elemento che certifica la capacità di un’organizzazione di leggere e adattarsi alle mutevoli con-

dizioni dello scenario socio-economico attuale. Così, parlare oggi di problematiche quali l’integrazione razziale (si pensi allo spot Nike con Kaepernick o quello di Astoria contro le discriminazioni razziali) non è soltanto un’opera di captatio benevolentiae verso i propri clienti target ma diventa anche un modo per comunicare la contemporaneità della propria offerta.La veridicità dei valori e dell’atteggiamento di un’impresa di-ventano in questo contesto un elemento imprescindibile per la completa valorizzazione della mission aziendale. In un mon-do in cui le strumentazioni digitali permettono a chiunque di operare una veloce (seppur necessariamente sommaria) due diligence sull’attendibilità delle offerte disponibili sul merca-to, comunicare valori non rispondenti alla propria identità può diventare un’arma a doppio taglio. Lo stesso rischio, peraltro, l’impresa lo corre all’interno del proprio perimetro organiz-zativo, dove l’autenticità dei propri valori distintivi diventano un importante strumento di coesione sociale e conferiscono autorevolezza alla leadership aziendale. Al contrario, la man-canza di valori chiari e definiti o la comunicazione di valori non aderenti alla realtà rischiano di compromettere la trasmissio-ne della vision dell’imprenditore ai propri dipendenti, minando in questo modo la comprensione della strategia aziendale e la sua concreta attuazione. Oltre alla brand reputation e alla strategia aziendale, una corretta valorizzazione dei caratteri distintivi aziendali è fun-zionale anche alla gestione dell’attività d’impresa. In questo caso, la governance aziendale rappresenta quell’ambito in cui la comunicazione dei valori organizzativi all’interno del peri-

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cultura del lavoro. Il luogo del lavoro, attraverso le parole di Nembrini, torna ad essere un luogo dove educare i giovani alle regole della vita sia all’interno che all’esterno del contesto professionale in cui andranno ad operare. Lavorare è in que-sto senso il valore principale per una persona, veicolo di cre-atività e di espressione. È facendo, sostiene Nembrini, che si imparano le cose e ci si confronta con la realtà. È un messag-gio potente quello di Nembrini che ci rammenta l’importanza del lavoro e della fatica, non tanto attraverso una prospettiva di tipo puramente etico-prescrittivo, ma anche e soprattutto attraverso una lettura formativa. L’idea del lavoro è ancora presente in Italia e si distingue per alcuni aspetti unici e di-stintivi, come l’amore per la verità, per la bellezza e per la cari-tà. Sono questi aspetti, a ben vedere, che contraddistinguono le capacità produttive e inventive di molti operatori impegnati quotidianamente nella manifattura di valore del miglior Made in Italy. Nembrini non nasconde una certa preoccupazione per i giovani della generazione attuale. Sono giovani in difficoltà e il rischio è quello di perdere il loro talento. La scuola, secondo Nembrini, è una delle cause di questa difficoltà ed è respon-sabilità di tutti noi riconoscere e affrontare questo problema in maniera sistemica. Rimettere al centro elementi semplici come la passione per il lavoro e l’accettazione della fatica e del sacrificio deve essere il punto di partenza per ripensare il sistema valoriale sul quale far crescere le nuove generazioni.

metro aziendale facilita la gestione di dipartimenti e indivi-dualità che spesso possono entrare in contrasto per visioni o obiettivi contrastanti. Oltre all’utilizzo di formali strumenti di mediazione, una chiara definizione dei valori aziendali fa-cilita il compito di guida e di gestione dei vertici aziendali, esonerando o quanto meno sgravando il ruolo di leader in capo all’imprenditore o all’amministratore delegato. I valori, in questo senso, facilitano inoltre la gestione del passaggio generazionale, esercizio questo spesso causa di grandi pro-blematiche nel contesto aziendale. Uno dei momenti centrali del Forum di Vicenza è stato l’in-tervento di Franco Nembrini, preside della scuola La Traccia in provincia di Bergamo e divulgatore culturale. Attraverso un racconto sintetico ma molto efficace, Nembrini ha offerto di-versi spunti di riflessione stimolanti sul tema dei valori e della

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Forum Trasformazione Digitale

La seconda tappa di Fabbrica per l’Eccellenza si è focalizzata su uno dei grandi temi riguardanti la produttività e la competi-tività delle imprese italiane: la trasformazione digitale.

Un fenomeno che coinvolge privati e aziende di qualsiasi am-bito e dimensione, la trasformazione digitale è probabilmente il topic maggiormente discusso da chi in questi tempi si occu-pa di management e competitività d’impresa, specialmente in un sistema industriale come quello italiano tradizionalmente orientato a produzioni a bassa o media intensità tecnologi-ca. Riprendendo un’indagine condotta da GRS Ricerca su un campione di 253 imprese della meccanica e orientata a valu-

tare il livello di adozione di nuove tecnologie digitali, è emerso con chiarezza come i principali ostacoli alla digitalizzazione siano l’incertezza rispetto al rapporto benefici/investimenti (48.4%) e la mancanza di competenze interne (36.8%). Sono questi due aspetti che sembrano accomunati da una gene-rale assenza di competenze diffuse all’interno delle imprese italiane. Come confermato dall’indagine, infatti, nel 55.2% del campione analizzato è l’imprenditore stesso a farsi carico in prima persona del processo di aggiornamento digitale e la va-lutazione complessiva del livello preparazione del personale in azienda è piuttosto bassa (solo il 29.3% dei rispondenti si ritiene infatti soddisfatto). Il livello di competenze presenti in ambito organizzativo è anche il risultato degli investimenti soste-nuti in Ricerca e Sviluppo (R&S) e in formazione. In questo senso il 61.8% delle imprese del campione dichiara di investire meno del 10% del proprio fatturato in R&S, mentre solamente il 12.6% del campione dedica più di 40 ore l’anno per attività di formazione.Ragionando sui numeri appena discussi, il Forum organizza-to presso la sede Geico Taikisha di Cinisello Balsamo è stato pensato come un’occasione per il fare il punto sulle principali tecnologie di interesse per le medie imprese italiane e per evidenziare ancora una volta la necessità di coniugare investi-menti in tecnologia con investimenti in risorse umane. Questo aspetto, peraltro non necessariamente nuovo per chi si occu-pa di trasformazione digitale, pone l’accento su una parte del problema che ancora non appare pienamente compresa da buona parte della base di imprenditori che si accingono ad aggiornare il proprio modello di business. L’adozione di nuove soluzioni tecnologiche senza le necessarie e complementari

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competenze umane rischia di non trasformarsi in quegli au-menti di produttività auspicati da chi intraprende un percorso di questo genere. L’intervento di Ali Reza Arabnia (Amministra-tore Delegato di Geico Taikisha) ha insistito particolarmente su questo aspetto, evidenziando in maniera inequivocabile gli investimenti continuativi sostenuti da Geico Taikisha per for-mare e aggiornare i propri dipendenti.È all’interno di questo scenario che si riesce a comprendere e a valorizzare l’importanza di inserire in azienda figure pro-fessionali specializzate nell’accompagnare le imprese nella trasformazione digitale. Al fine di contestualizzare l’importan-za di questo tipo di figure, è necessario anzitutto precisare come la trasformazione digitale rappresenti un percorso da compiere in un orizzonte temporale di medio-lungo periodo e attraverso dei precisi step che non possono non iniziare dalla definizione di una chiara strategia aziendale. È proprio a partire dalla fase di definizione della strategia digitale di un’organizzazione che l’imprenditore spesso necessita di un supporto da parte di specialisti, sia nell’individuare le aree di deficit all’interno dell’azienda sia nello sviluppare un piano di investimenti rispondente alle possibilità dell’impresa stessa. L’accompagnamento di un’impresa nel percorso di trasforma-zione digitale non riguarda tuttavia solamente i vertici dell’a-zienda ma deve essere esteso all’intero contesto organizzati-vo. Ancor prima che tecnologico, il cambiamento infatti deve coinvolgere la cultura aziendale e favorire l’apertura all’utiliz-zo di nuove tecnologie da parte dei collaboratori che poi si tro-veranno ad utilizzarle su base quotidiana. Una comunicazione errata o non esaustiva dell’importanza strategica di affrontare

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un percorso di questa portata può alimentare la resistenza dei collaboratori meno inclini al cambiamento, rallentando in questo modo la trasformazione digitale.Investire nel potenziamento del personale già coinvolto in azienda rappresenta il primo grande ambito di investimento in formazione a carico dell’impresa. Il secondo riguarda la se-lezione di nuove figure professionali da inserire in azienda. In questo senso, l’ancora insufficiente collaborazione tra le imprese private e le università (e le scuole in generale) rap-presenta uno dei problemi più importanti in questo specifi-co ambito disciplinare. Il problema più evidente si manifesta attraverso il mismatch tra domanda e offerta, ossia tra chi cerca specifiche competenze professionali (le imprese) e chi queste competenze dovrebbe possederle (coloro che cercano lavoro). Proprio per questo, la terza tappa della Fabbrica si è addentrata in questa problematica con il suo tipico sguardo costruttivo.

Forum Talento, Competenze e Selezione

Il terzo forum del 2018 si è concentrato sul tema della selezio-ne e valorizzazione del talento e delle competenze nell’ambito aziendale. Organizzato presso la sede di Gi Group a Milano, il Forum Talento, Competenze e Selezione si è inserito in un di-battito, quello dell’intersezione e della complementarietà tra valori, tecnologia e risorse umane, già avviato nel corso dei forum precedenti. In questo specifico evento è stata dedicata particolare attenzione sia al già anticipato tema del mismatch sia al tema della retention, intesa come la capacità di un’orga-

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nizzazione di trattenere nel tempo i migliori talenti. Mismatch e retention dunque come due facce della stessa medaglia, la cui importanza andrebbe compresa a partire da un semplice quesito: cosa cercano i lavoratori d’oggi quando si uniscono ad un’impresa? Ascoltando la relazione di Simonetta Cavasin (Amministratore Delegato di OD&M Consulting - Gi Group) si è colto chiaramente come il mancato allineamento tra le aspet-tative dell’offerta e della domanda di lavoro sia alla base del problema del mismatch quanto della difficoltà delle imprese a trattenere i propri talenti. È un problema questo senza dubbio culturale e generazionale, dato che spesso mette a confronto proprietà e collaboratori separati da una o più generazioni. La comprensione dei bisogni e delle aspettative di chi oggi cerca lavoro (prevalentemente la classe generazionale dei millennial ma anche della cosiddetta generation Z) sembra non essere

ancora alla portata di una buona parte degli imprenditori a capo delle medie imprese italiane. Conferma di ciò ci giun-ge in primo luogo dalla scarsa adozione di pratiche lavorative ampiamente sperimentate negli ambiti di lavoro più dinamici, come gli orari di lavoro flessibili o l’introduzione di spazi ri-creativi e di svago a disposizione dei collaboratori aziendali. Secondo dati elaborati da Gi Group, infatti, il primo elemento di attrazione per i giovani di età compresa tra i 22 e i 38 anni è l’ambiente di lavoro (44,8%), seguito dalla flessibilità degli orari di lavoro (36,8%) e dalla retribuzione fissa (36,7%). Per quanto riguarda invece i giovani di età inferiore ai 22 anni, il fattore principale alla base di una scelta lavorativa rimane la qualità dell’ambiente di lavoro (45,5%), seguono gli orari di lavoro (35,4%) e le caratteristiche delle mansioni da svolge-

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re (34,3%). È interessante notare come rispetto ai suddetti fattori, il personale HR delle imprese coinvolte dall’indagine abbia opinioni marcatamente diverse. L’ambiente di lavoro è considerato prioritario solo per il 27,8% del personale HR, mentre la flessibilità degli orari di lavoro è ritenuta un fattore di attrattività per l’azienda per il 18,3% dei rispondenti. Oltre ad aggiornare le proprie pratiche lavorative, appare fon-damentale per le imprese riuscire a coinvolgere i propri col-laboratori all’interno di quelle attività e dinamiche che stan-no al centro dell’attività dell’impresa, come le performance aziendali e le scelte strategiche. Nonostante ciò non significhi necessariamente aprire il processo decisionale ai propri col-laboratori, coinvolgere i collaboratori in discussioni e attivi-tà ad “alto valore aggiunto” è una pratica che contribuisce

a rafforzare il senso di appartenenza ad un’organizzazione, facilitando in questo modo l’attività di retention. Esempi di questo specifico atteggiamento sono giunti da più fonti duran-te il forum dello scorso giugno. Seppur coinvolti in settori mol-to diversi, Stefano Sala (Amministratore Delegato del Gruppo Per) Natale Castagna (Presidente di Novotex) si sono soffer-mati sull’importanza di condividere informazioni di primaria importanza con i propri collaboratori, manifestando in tal sen-so una spiccata intelligenza emotiva. È proprio il ruolo guida dell’imprenditore che emerge con chiarezza in questa fase del dibattito, a testimonianza di come la leadership esercitata dai vertici dell’impresa rappresenti ancora un elemento di gran-de importanza nella creazione di un clima virtuoso all’interno dell’impresa. Sia nella codificazione e valorizzazione dei valori

distintivi d’impresa, quanto nell’adozione della trasformazio-ne digitale e nella capacità di attrarre e trattenere talenti in azienda, la centralità dell’imprenditore nell’impresa media ita-liana sembra essere un elemento ricorrente in tutte quelle at-tività che impattano sulla competitività delle aziende stesse.

Forum Crescita Sostenibile

Il Forum sulla crescita sostenibile organizzato il 9 ottobre presso lo spazio Campari a Sesto San Giovani ha avuto come obiettivo principale la discussione delle opportunità e dei vin-coli per la crescita delle imprese italiane. Essa rappresenta il driver principale allo sviluppo e alla sostenibilità economia di un paese a forte matrice industriale come l’Italia. A sup-portare questa visione è stato l’economista Carlo Cottarelli, il

cui intervento è riproposto integralmente nel capitolo 2 e che ha messo l’accento sull’esigenza di riguadagnare posizioni sul mercato internazionale piuttosto che concentrarsi soltanto sulla crescita interna. Una più alta produttività delle imprese italiane contribuirebbe a rafforzare il già positivo trend registrato dalle esportazioni negli ultimi anni. Dal 2009 al 2017, infatti, il valore dell’export italiano è salito da 291 a 448 miliardi di euro, con un incre-mento del 7,4% registrato dal 2017 al 2016. A dispetto della bassa produttività, le imprese italiane sono dunque riuscite a penetrare e presidiare nicchie di mercato globali, tanto in Europa che al di fuori dei confini dell’UE. Tale risultato viene peraltro confermato dalla crescita del valore aggiunto regi-strato dalle imprese italiane nel 2017 rispetto al 2016. Con una crescita del 3,8%, infatti, l’incremento del valore aggiunto generato dalle imprese italiane è stato superiore sia a quello registrato dalle imprese tedesche (+2,7%) sia a quello matura-to dalle imprese tedesche (+1,7%). Nonostante i trend positivi della crescita dell’export e del valore aggiunto, il percorso di apertura globale delle imprese italiane è lontano dall’essere completato. Testimonianza di ciò ci è stata offerta dai tavoli di lavoro dedicati alla crescita internazionale, nei quali, non solo si è colta la difficoltà per diverse imprese italiane ad en-trare ed affermarsi nei mercati globali (specialmente in quelli ad alto tasso di complessità come il Nord Africa e il Medio Oriente), ma si è inoltre constatato come per alcune impre-se l’esplorazione del mercato internazionale non rappresenti ad oggi una priorità. Dal confronto tra gli imprenditori, coor-dinato da Alberto Turchetto e Enrica Delgrosso di SACE, è

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emerso come una delle problematiche principali nel processo di crescita internazionale sia l’assenza di informazioni speci-fiche e affidabili relativamente a nuovi contesti di mercato. Una lamentela comune registrata è la generale assenza di supporto istituzionale, soprattutto nelle fasi di esplorazione e penetrazione di un nuovo mercato. Un secondo elemento di complessità è identificabile nella difficoltà a creare e mante-nere partnership di valore con attori locali. Oltre a un proble-ma di governance, la mole di investimenti diretti all’esterno necessari all’avviamento di strutture commerciali o produttive rappresenta ancora un ostacolo particolarmente significativo per diverse medie imprese. In questo senso, la recente contrazione dello stock di prestiti a lungo termine da parte degli istituti bancari italiani diventa un elemento di ulteriore complessità. Dal 2016 al 2017, infatti, si è registrata una contrazione di prestiti di circa 22 miliardi di euro, dai 513 del 2016 ai 491 del 2017. Questo scenario

conferma la necessità per le imprese italiane ad aprirsi a nuo-vi strumenti finanziari non convenzionali come ad esempio le obbligazioni, i minibond o il crowdfunding. Nonostante l’a-dozione di tali strumenti non sembri ancora particolarmente diffusa, è interessante registrare come il numero di imprese quotate attraverso AIM Italia sia considerevolmente cresciuto negli ultimi anni (da 57 nel 2014 a 113 nel 2018). L’apertura a fonti di finanziamento diverse dal debito bancario rappre-senta un aspetto cruciale per la futura crescita delle imprese italiane, sia nel contesto italiano attraverso ad esempio l’ado-zione di nuove tecnologie sia al di fuori dei confini nazionali come illustrato in precedenza. Proprio in relazione a questa tematica il contributo offertoci dal Professor Marco Giorgi-no è risultato particolarmente utile nell’evidenziare come le imprese italiane necessitino di allargare il set di strumenti finanziari a cui fanno ricorso. La finanza di mercato, secondo il docente del Politecnico di Milano, offre oggi delle soluzioni che possono integrare gli strumenti di finanziamento tradi-zionali. Una struttura finanziaria maggiormente diversificata sembra dunque essere la risposta ideale per cogliere le varie opportunità offerte dal mercato.

Corporate Family Responsibility

Con l’espressione responsabilità familiare d’im-presa o Corporate Family Responsibility (CFR) si

fa riferimento alla volontà dell’impresa di sostenere la famiglia e il bilanciamento tra lavoro e vita privata delle persone impie-gate in azienda. Il tema della CFR conferma dunque una visione dell’impresa come elemento portante dei sistemi economici e sociali e delle istituzioni che li caratterizzano (Faldetta, 2008). La CFR può essere vista come un sottoinsieme del più ampio concetto di responsabilità sociale d’impresa o Corporate Social Responsibility (CSR), argomento di grande rilevanza nel dibat-tito attuale. Politiche per favorire l’armonizzazione famiglia-la-voro o la responsabilità genitoriale, supportando i dipendenti anche con attività di formazione, sono solo alcuni degli esempi di pratiche poste in essere dalle imprese nell’ambito della CFR. Il tema della CFR trova riscontro nei lavori di ricerca che han-no considerato i dipendenti e le loro famiglie come stakeholder dell’impresa. Se l’obiettivo dell’impresa è generare valore per i propri stakeholder, allora è responsabilità dell’azienda formulare adeguate politiche di conciliazione tra esigenze lavorative e vita privata e familiare. Molte sono, infatti, le problematiche che i lavoratori devono affrontare quotidianamente per conciliare le proprie responsabilità lavorative con quelle familiari. Si pensi, ad esempio, al tema della cura dei figli, o di persone malate o anzia-ne che compongono il nucleo familiare durante l’orario di lavoro. Nonostante la letteratura sul tema della responsabilità sociale d’impresa si stia espandendo e il tema del welfare aziendale sia

5 sempre più dibattuto, risulta evidente la necessità di ulteriori ricerche, soprattutto empiriche, sul tema. Obiettivo dell’indagine condotta dal centro studi Cdo con il sup-porto del Centre for Young and Family Enterprise (CYFE) dell’U-niversità degli Studi di Bergamo è stato quello di approfondire il tema della CFR nel contesto delle medie imprese italiane. Tale contesto risulta essere particolarmente interessante ai fini di un approfondimento del tema della CFR sia per la scarsità di evi-denze empiriche e di letteratura (il materiale disponibile è per lo più riferito a grandi imprese), sia per la natura stessa di queste imprese. La forte dipendenza dalle competenze e dalla motiva-zione dei lavoratori e il forte radicamento nel contesto locale di riferimento (local embeddedness) che caratterizzano le piccole e medie imprese italiane, infatti, rendono la CFR una possibile fonte di particolare vantaggio competitivo. Un’accurata analisi della letteratura scientifica sull’interazione famiglia-lavoro e le politiche aziendali a sostegno della famiglia ha costituito il punto di partenza per la definizione del disegno di ricerca e, in partico-lare, per la predisposizione del questionario (Hammer, Kossek, Yragui, Bodner e Hansen, 2009; Kossek, Lewis e Hammer, 2010; Thompson, Beauvais e Lyness, 1999; Voydanoff, 2011).

Le dimensioni della CFR

Ai fini della misurazione della responsabilità familiare di impre-sa, due sono le dimensioni rilevanti: una dimensione strutturale e una culturale (Kossek, Lewis e Hammer, 2010). La dimensione strutturale della CFR, comprende pratiche e strumenti di gestione delle risorse umane volte a rendere più flessibile la gestione dei tempi lavorativi (es. part-time; orario di

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lavoro flessibile), ad aumentare l’autonomia dei lavoratori nella scelta del luogo di lavoro (es. telelavoro), o a fornire ulteriori risorse strumentali come bonus, o informazioni e servizi per consentire alle persone di combinare la loro responsabilità la-vorativa con gli impegni familiari (es. potenziamento dei servizi di custodia e assistenza ai minori o alle persone anziane tramite buoni o assistenza di cura; iniziative di sicurezza e salute sul lavoro per ridurre lo stress lavorativo e familiare). Il supporto dei dipendenti e collaboratori nella loro dimensione di vita familiare implica, tuttavia, una ulteriore e più complessa sfida per le imprese, ovvero la capacità di generare un clima e una cultura aziendale in linea con tale obiettivo (dimensione culturale della CFR). Le imprese devono operarsi al fine di gene-rare (a) forme di supporto sociale e relazionale mostrato diretta-mente e informalmente da supervisori e collaboratori, insieme a (b) norme culturali organizzative che aumentano la percezione individuale che i dipendenti contemporaneamente coinvolti in un ruolo lavorativo e familiare siano pienamente apprezzati dagli altri membri dell’organizzazione.

Questionario e campione di riferimento

Al fine di fornire una panoramica della responsabilità familiare delle medie imprese italiane, è stato predisposto un questiona-rio con domande volte a catturare entrambe le dimensioni della CFR, nonché altre informazioni di carattere più generale relative al rispondente e all’impresa in linea con quanto suggerito dalla letteratura sul tema della conciliazione famiglia-lavoro, gli aspet-ti strutturali della CFR sono stati ulteriormente sotto-categoriz-zati in pratiche e strumenti legati a benefit concessi ai dipen-

denti (es. bonus per la nascita di un figlio del dipendente o per risultati scolastici meritevoli da parte dei figli dei dipendenti), gestione del tempo (es. part-time, orario flessibile) e degli spazi (es. possibilità di scelta della sede di lavoro, telelavoro) (Voy-danoff, 2001). Analogamente per gli aspetti culturali: supporto da superiori e colleghi (es. sensibilità nei confronti dei problemi dei dipendenti e delle loro famiglie, incoraggiare i dipendenti a fissare dei limiti tra lavoro e vita privata), aspettative sul tempo lavorativo (es. [non] ci si aspetta che i dipendenti lavorino da casa, la sera o nel weekend), conseguenze sulla carriera (es. legame tra il rifiuto di una promozione o un trasferimento per ra-gioni familiari e le possibilità di carriera all’interno dell’impresa) sono le tre sottocategorie identificate da Thompson et al. (1999) che sono state misurate con il questionario e quindi tracciate nell’indagine. Il questionario è stato sottoposto a tutti gli associati a Fabbrica per l’Eccellenza, ovvero 63 imprese italiane di media dimensio-ne, tra luglio e settembre 2018. Al fine di cogliere punti di vista diversi sullo stesso fenomeno e accrescere la validità dei dati raccolti, il questionario è stato sottoposto a più persone all’in-terno della stessa impresa. I rispondenti possibili per ciascuna impresa sono stati identificati nelle seguenti figure: i) il titola-re, l’amministratore delegato o comunque un rappresentante il vertice aziendale; ii) un dipendente nel ruolo di quadro; iii) un dipendente inquadrato come impiegato o operaio. Grazie allo spirito collaborativo e alla curiosità degli associati rispetto al tema, sono stati raccolti 56 questionari da 37 imprese. I dati così raccolti sono stati analizzati a livello di impresa al fine di ot-tenere una classifica delle imprese partecipanti rispetto al tema

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della CFR. Maggiori dettagli sulla metodologia di analisi dei dati e il calcolo dell’indicatore di CFR per impresa sono disponibili in appendice (Appendice 1).

I risultati dell’indagine

I risultati dell’indagine ci hanno consentito di mappare il posi-zionamento delle singole imprese rispetto al tema della respon-sabilità familiare, nonché di elaborare qualche considerazione generale circa possibili aree di miglioramento. In particolare, la media dei valori relativi a ciascuna impresa per la dimensione strutturale e culturale ha consentito di definire una classifica ge-nerale delle imprese (Tabella 1). La classifica ha rappresentato il punto di partenza per un’analisi del legame tra CFR e alcune caratteristiche di impresa (es. struttura proprietarie, età).

Indice di performance CFR delle top 7 aziende del campione

Ragione Sociale Indice di CFR

ICI CALDAIE S.P.A.

GPI S.P.A.

CEFRIEL S.CONS.RL.

E PHARMA S.P.A.

ELMEC

OMET S.R.L.

GHELFI ONDULATI S.P.A.

11.04

10.75

10.70

10.16

9.45

9.41

9.18

Dalla Figura 1 emerge come il campione di imprese analizzato si caratterizzi, in media, per una migliore capacità di gestire tempi e spazi lavorativi in un’ottica di responsabilità familiare rispetto alla concessione di benefit (dimensione strutturale), e per generare aspettative sui tempi di lavoro congrue con la conciliazione di responsabilità lavorativa e familiare (dimensio-ne culturale) (Figura 1). Il campione risulta essere più caren-te relativamente alla creazione di un clima organizzativo di supporto da parte di superiori e colleghi (dimensione culturale) e in termini di benefit concessi ai dipendenti (dimensione strut-turale). Il confronto tra valori medi, il primo e l’ultimo classifica-to, per ciascun aspetto delle dimensioni strutturale e culturale, mostra come ci sia estrema variabilità all’interno del campione di imprese analizzate. Tale variabilità riguarda soprattutto gli aspetti strutturali e, in particolare, la gestione di tempi e spazi lavorativi ai fini della conciliazione famiglia-lavoro.

Figura 1. Confronto valori medi di CFR con primo e ultimo classificato

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Figura 3. Confronto valori medi di CFR per imprese familiari e non familiariFigura 2. Confronto valori medi di CFR per imprese suddivise rispetto all’età

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La Figura 2 mostra una suddivisione del campione in imprese fondate prima o dopo l’età mediana delle imprese analizzate (pari a 38 anni). Nonostante il grafico non evidenzi differen-ze significative tra i due gruppi di imprese, da una attenta analisi della classifica delle imprese, emergono considerazioni interessanti sulla relazione tra età dell’impresa e indice di CFR. Sia le due imprese più giovani del campione (con poco più di un decennio di attività alle spalle) che la più longeva (attiva da 135 anni) si trovano in coda alla classifica, con la più longeva a chiudere la lista di imprese investigate. La parte alta della classifica è, invece, dominata da imprese con età molto vicina alla mediana. Queste osservazioni, seppur non validate statisti-camente, porterebbero a chiedersi se non esista una relazione curvilinea (a U rovesciata) tra l’età dell’impresa e la probabilità di perseguire politiche di CFR. Le imprese giovani tendono ad essere meno performanti in termini di CFR. Questo potrebbe essere dovuto a una scarsità di risorse, o a un focus quasi to-talizzante sul core business che contraddistinguono le imprese più giovani. Con lo sviluppo e il consolidamento dell’impresa il tema della CFR acquisisce sempre più importanza. I dipendenti devono essere continuamente motivati e l’impresa potrebbe beneficiare della CFR a difesa del suo vantaggio competitivo. Questo però sembra valere fino a una certa soglia. Le im-prese più longeve registrano infatti bassi livelli di CFR e ciò potrebbe essere dovuto a strutture organizzative consolidate e poco propense alla flessibilità e apertura che una attenzione alla dimensione familiare del dipendente implicano. Il trend evidenziato dai dati raccolti potrebbe essere oggetto di futuri approfondimenti sfruttando campioni più ampi.

La natura del campione, composto per circa la metà da imprese a proprietà e controllo familiare, ci ha consentito di fare un confronto circa il grado di responsabilità familiare delle imprese familiari e non. I risultati ottenuti mostrano una situazione di quasi completa sovrapposizione tra i valori medi ottenuti da queste due categorie di imprese nelle varie dimen-sioni della CFR (Figura 3). Nonostante una forte similitudine tra le due tipologie di impresa, la Figura 3 mostra come le imprese familiari sembrano essere meno flessibili delle non familiari nella gestione dei tempi e degli spazi per venire incontro alle esigenze familiari dei dipendenti. Analisi future potrebbero mettere in relazione la quota di azioni detenuta dalla famiglia imprenditoriale (in percentuale sul totale) e il grado di respon-sabilità familiare dell’impresa.

Conclusioni e linee di ricerca future

I risultati dell’indagine sulla responsabilità familiare di impre-sa mostrano una certa variabilità relativamente al grado di adozione di strumenti e pratiche di CFR, nonché di consapevo-lezza circa l’importanza della dimensione culturale della CFR all’interno dell’impresa. D’altro canto, non risulta – almeno dal campione oggetto dell’indagine – che tali differenze siano imputabili all’essere imprese familiari o non familiari, piutto-sto che imprese giovani o meno giovani. Sembra, infatti, che proprietà e gestione familiare, così come l’età dell’impresa non siano fattori discriminanti circa l’implementazione della CFR, sebbene emergano alcune possibili specificità, per la cui verifica si rimanda ad indagini future.

Ricerche future potrebbero partire dal modello sviluppato durante la presente indagine e somministrare il questionario a imprese che si differenzino per dimensioni e settori al fine di indagare ulteriormente le ragioni della variabilità registrata nel campione oggetto di analisi. L’adozione di strumenti e pratiche di CFR e la consapevolezza a livello culturale della stessa po-trebbero dipendere dall’essere oggetto delle politiche aziendali di medio-piccole o medio-grandi imprese. Inoltre, il settore di appartenenza delle imprese potrebbe guidare in maniera più o meno accentuata l’importanza della CFR. Un altro aspetto che può essere ulteriormente investigato riguarda l’adozione di politiche di bilanciamento famiglia-la-voro in contesti economici e socio-culturali diversi: campioni di imprese con sede in stati diversi, come anche di imprese multinazionali, consentirebbero di perseguire tale obiettivo. In-fine, è auspicabile che la ricerca futura si sposti anche al livello individuale di analisi. Studi che esplorino le diverse percezioni di individui che lavorano in team, piuttosto che in strutture for-temente gerarchiche, o di individui con ruoli diversi, potrebbero enfatizzare i livelli di sensibilità e comunicazione all’interno dell’impresa rispetto al tema della CFR, e quindi offrire possibili linee d’azione per una più ampia adozione e consapevolezza di politiche volte a favorire il connubio tra vita privata e professio-nale di tutti i dipendenti. Non da ultimo, l’effetto che la CFR ha sia sui risultati individuali, in termini di soddisfazione, impegno profuso, relazioni con superiori e colleghi, sia sulle performan-ce dell’impresa in generale, rappresenta un filone di ricerca da esplorare e investigare in studi futuri.

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Uno sguardo al 2019

Il capitolo conclusivo di questa Relazione ha il compito di introdurre e motivare le attività nell’agenda di Fabbrica per l’Eccellenza per il

2019. Tuttavia, riteniamo doveroso partire da alcune riflessio-ni che in qualche modo ci collegano a dove ci eravamo lasciati un anno fa. La 1^ Relazione sulla Media Impresa Italiana non è stato solo il calcio d’inizio di una nuova iniziativa a supporto delle media aziende italiane, ma ha avuto tra i principali obiet-tivi quello di sensibilizzare la società civile italiana rispetto ad alcune questioni prioritarie per il nostro Paese. La media impresa, su tutte, rappresenta il centro di queste priorità e costituisce una sistema di ingranaggi preziosi che sono alla base del motore produttivo. A dispetto di un contesto economico e industriale caratteriz-zato da anni di bassa produttività, le imprese medie italiane hanno saputo conquistare negli anni scorsi importanti quo-te di mercato nello scenario competitivo globale. Così, non stupisce più di tanto apprendere dalle recenti elaborazioni pubblicate dalla Fondazione Edison (su base dati ISTAT), che l’incremento di valore aggiunto generato dalle imprese italia-ne nel 2017 rispetto al 2016 è stato superiore sia al valore aggiunto creato dalle imprese tedesche sia da quelle francesi 7.

7 - 3.8 Italia, 2.7 Germania, 1.7 Francia

Complessivamente, tra il 2014 e il 2017 il valore aggregato del valore aggiunto prodotto dalle nostre imprese è cresciuto più

del doppio rispetto al PIL domestico, a testimonianza di come coesistano in Italia dinamiche economiche divergenti. Eppu-re, nonostante il contributo decisivo all’economia italiana, la media impresa continua, non senza sorpresa, a occupare una posizione solamente marginale nell’agenda della politica in-dustriale del Paese. Favorire la crescita dimensionale e qua-litativa delle medie imprese o delle piccole imprese ad alto potenziale dovrebbe essere una delle priorità non solo della classe politica ma dell’intera società civile. Per far ciò serve anzitutto capire di cosa hanno bisogno le medie imprese ec-cellenti per crescere.Uno dei concetti chiave elaborati nella relazione dell’anno scorso è stato quello della complessità elaborato da Ricar-do Hausmann, docente presso la Kennedy School di Harvard.

6 Il concetto della complessità, fa leva sulla complementa-rietà di elementi diversi (asset, conoscenza, esperienze) e trae beneficio dall’esistenza di varietà. Varietà intesa anche come coesistenza di forme organizzative diverse, sia in ter-mini di specializzazione industriale che di scala. Nel corso di quest’ultimo anno abbiamo avuto modo di constatare come pezzi importanti dell’industria italiana mancano ancora di varietà. Manca varietà nella forma della creazione di cono-scenza attraverso attività sistematiche di ricerca e sviluppo, nella forma di nuove competenze professionali a servizio dei bisogni delle imprese eccellenti e, infine, nella forma della di-mensione d’impresa. A distanza di un anno, non registriamo nuove imprese hi-tech italiane che abbiano “scalato” e rag-giunto valutazioni miliardarie come accade regolarmente in

altri paesi ad alta capacità innovativa come Stati Uniti e Cina e rimaniamo ancorati al prezioso lavoro svolto lontano dalla luce dei riflettori da migliaia di medie imprese di successo. Abbiamo imparato nel corso degli ultimi mesi che esistono molte medie imprese eccellenti, molto di più di quello che la narrativa politica e mediatica riesce ad esprimere. Abbiamo altresì appreso che molti degli imprenditori a capo di queste imprese lavorano sottotraccia spesso in una condizione di semi solitudine, se non di solitudine complessiva. È la solitudine che si è venuta a creare in anni di assenza di supporto da parte delle istituzioni e da una crescente cultura avversa alle imprese private simbolo di un capitalismo reale e democratico. È una solitudine che riflette in parte un cambia-mento epocale nei valori della nostra società, sempre meno

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abituata a riconoscere e a premiare chi lavora con continuità e costanza e sempre più incline a sostenere acriticamente un modello socio-economico che si basa sulla gratificazione istantanea e fugace e che fa leva su canali di comunicazione dove non vi è pressoché alcuna forma di accountability. È que-sto un modello che in parte ritroviamo negli illuminanti scritti di uno dei più grandi sociologi dell’epoca moderna, Zygmunt Bauman. Attraverso la teoria sulla società liquida Bauman già nella metà degli anni ‘90 ci offriva uno spaccato di una società consumistica e relativista che ritroviamo per molti aspetti nella società contemporanea. L’idea dell’individualismo esasperato e del consumismo come ragion d’essere e di appartenenza crea-no secondo Bauman una società liquida in cui viene a smarrirsi il concetto di comunità e di solidarietà tra individui.

È anche recuperando parte del pensiero di Bauman che ab-biamo deciso di forgiare il piano di lavoro che ci accompa-gnerà nei prossimi mesi. In antitesi al concetto di individuali-smo e solitudine, al centro del percorso del 2019 vi sarà infatti il tema delle relazioni, intese non solamente alla stregua di rapporti tra imprese ma nel senso più ampio possibile del ter-mine. Relazioni come funzione di interdipendenza tra persone appartenenti a una comunità che si basa e si riconosce su alcuni valori imprescindibili, come il rispetto per la persona e il valore della condivisone. Ma relazioni anche attraverso il significato di delega, collaborazione e condivisione. Che si guardi all’interno o all’esterno di un’organizzazione, la capaci-tà di un imprenditore o di un manager di saper creare e man-tenere relazioni di valore è alla base del successo di qualsiasi impresa. Le relazioni nel contesto italiano ci riportano quasi

automaticamente ai rapporti di filiera tra produttori e fornitori nei distretti industriali o, per restare all’interno di un ecosi-stema produttivo, tra le istituzioni finanziarie territoriali e gli imprenditori. Relazioni di questo tipo sono state per decen-ni alla base del miracolo industriale italiano, dove la fiducia e condivisione di valori comuni tra le parti abbassava i costi associati alle transazioni di mercato e permetteva l’implemen-tazione di modelli di coordinamento agili ma non per questo meno efficaci.Fabbrica per l’Eccellenza nel 2019 non vuole essere cer-tamente un inno al passato, semmai, ha come obiettivo il tentativo di recuperare elementi propri della nostra migliore cultura industriale e abbinarli a tematiche di attualità e rilie-vo contemporaneo. Temi come l’internazionalizzazione delle imprese, la selezione e valorizzazione di competenze umane,

l’innovazione incrementale e l’adozione di tecnologia in azien-da saranno per questo al centro della nostra agenda. Sono questi i temi che detteranno le sfide che ci aspettano nei prossimi mesi. Il primo appuntamento per il prossimo anno è previsto per il mese febbraio, quando presso il Kilometro Ros-so di Bergamo si terrà il Forum sull’Innovazione. A seguire, nel mese di maggio presso l’acquario di Genova, ci ritroveremo per il Forum sul capitale umano, mentre a ottobre sarà la volta del Forum sull’internazionalizzazione, questa volta a Bologna ospiti del gruppo Marchesini. Seguendo il format utilizzato già quest’anno, i tre Forum si concentreranno sui topic so-pracitati attraverso sia il contributo di esperti sia il confronto tra imprenditori tramite i tavoli di lavoro. Per ciascuno dei tre eventi, infine, abbiamo deciso di dedicare uno spazio da de-

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dicare ai giovani talenti di Fabbrica per l’Eccellenza, studenti delle superiori o dell’università che condivideranno assieme a noi prospettive e aspettative dei futuri professionisti italiano.La scelta di focalizzarci su temi quali l’innovazione, il capitale umano e la crescita globale delle imprese è motivata dall’im-portanza che questi fattori giocano nella competitività delle medie imprese italiane. L’innovazione è senza dubbio il fattore maggiormente discusso in campo economico-aziendale in Ita-lia e nei paesi a forte concentrazione industriale in generale, specialmente alla luce delle iniziative adottate in materia indu-strie 4.0 negli anni scorsi. Guardando al contesto italiano, ap-pare evidente come le imprese italiane dimostrino ancora una certa resistenza all’adozione di nuove soluzioni tecnologiche e digitali in azienda. Secondo uno studio condotto nel 2017

dal Laboratorio Manifattura Digitale dell’Università di Padova sul grado di adozione di strumenti di industrie 4.0 da parte di 668 piccole-medie imprese italiane, ben l’81,2% delle imprese del campione non ha adottato alcuna tecnologia annoverabile all’interno della macro categoria industrie 4.0, come l’additi-ve manufacturing o la sensoristica avanzata. Delle imprese adottanti nuove tecnologie a supporto della produzione sco-priamo che gli strumenti maggiormente utilizzati sono il laser cutting (48,8%), la robotica (47,2%) e l’uso dei big data (41,6%). È interessante inoltre notare come la dimensione media delle imprese cha hanno sostenuto investimenti in industria 4.0 è relativamente piccola (13 milioni di fatturano annuo; 55 ad-detti) e si concentra prevalentemente nei settori del legno-ar-redo (25,6%), della componentistica e l’elettronica (16,8%) e dell’automotive (14,4%). La maggior parte delle imprese inol-tre utilizza solamente una delle tecnologie di nuova genera-zione (36%), mentre solamente il 20,8% ne utilizza più di tre contemporaneamente. Tra le motivazioni alla base dell’utilizzo di nuova tecnologia vi sono principalmente tre fattori: la vo-lontà di offrire un miglior servizio ai clienti (51%), la ricerca di efficienza interna (43%) e l’esplorazione di nuove opportunità di mercato (40%). Tra le complessità maggiori emergono inve-ce la difficoltà a reperire figure professionali adeguate (20%), la mancanza di banda larga (18%) e la lunghezza dei tempi di implementazione (17%). Guardando invece alle imprese non adottanti, colpisce come ben il 65,9% dichiara di non ritenere queste tecnologie funzionali al proprio core business, mentre il 18.7% del campione ‘negativo’ dimostra una scarsa o limita-ta conoscenza del tema.

L’adozione di strumenti innovativi da parte di imprese italiane sembra dunque essere un fenomeno che riguarda oggi sola una minoranza delle nostre aziende. Tale evidenza ci viene peraltro confermata da un’analisi condotta dal World Econo-mic Forum sulla presenza di robot nelle imprese delle princi-pali economie mondiali. In testa alla classifica presentata nel 2018 vi è la Corea del Sud con 631 robot per ogni 10.000 ad-detti occupati dal settore industriale privato. Segue Singapore con 488 per 100.000 e la Germania con 309 robot. Allo sta-to attuale l’Italia presenta un tasso di adozione di 185 robot per 100.000 lavoratori, statistica che ci posiziona in ritardo rispetto ad altri grandi paesi manifatturieri come il Giappone (303) e gli Stati Uniti (189). Lo stesso World Economic Fo-rum ci consegna attraverso l’analisi The Future of Jobs (2018)

un quadro alquanto allarmante circa la necessità di investire nella formazione di una serie di nuove figure professionali ri-chieste dalla crescente digitalizzazione delle imprese. In par-ticolar modo, si stima che entro il 2022 saranno creati nel modo 133 milioni di nuove posizioni lavorative, come il data analyst, l’artifical intelligence (AI) e machine learning (MLS) specialist e il general and operations manager. Sono queste figure professionali che già oggi molte delle nostre migliori imprese faticano a reperire e che ci invitano a dedicare anco-ra maggior attenzione al tema del capitale umano in azienda. Una delle problematiche maggiormente discusse attualmen-te riguarda appunto la crescente difficoltà delle imprese di reclutare tecnici e operatori in possesso delle competenze richieste dal mercato e dalle nuove tecnologie. Secondo stati-stiche recenti elaborate da Unioncamere e l’Agenzia Naziona-le Polituche Attive Lavoro (ANPAL), le imprese manifatturiere italiane creeranno nei prossimi 5 anni 469.000 nuovi posti di lavoro per tecnici, periti e laureati nelle cosiddette materie STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) ma avranno crescenti difficoltà a reclutare personale con queste specifiche competenze nel mercato del lavoro. Già oggi, in-fatti, il 33% delle competenze richieste dalle aziende non è disponibile nel mercato. Una delle principali cause alla base dell’esistente mismatch tra domanda e offerta di nuove com-petenze professionali sembra risiedere nel mancato aggior-namento dell’agenda formativa per il Paese. Attualmente solo l’1% dei giovani italiani si iscrive a percorsi di ITS contro una media OCSE del 14%; di contro, in Italia i laureati triennali in lettere sono il 39% dei totali (23% di media nei paesi OCSE).

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La necessità di formare nuove figure professionali a suppor-to delle imprese italiane non riguarda solamente l’adozione di nuove tecnologie, ma interessa anche un ulteriore grande ambito di azione per le aziende del Made in Italy: il presi-dio dei mercati internazionali. Dopo diversi anni di crescita dell’export, il 2019 si presenta infatti come un anno di pos-sibile rallentamento per le esportazioni italiane e per il com-mercio mondiale in generale. Secondo elaborazioni ISTAT (ot-tobre 2018), nei primi 6 mesi del 2018 la crescita dell’export italiano è stata marcatamente inferiore rispetto alla crescita delle esportazioni registrata nel 2017 (+3.7% rispetto al +7.8% del 2018). Mentre le esportazioni verso paesi dell’UE registra-no un andamento stabile per l’ultimo trimestre disponibile (giugno-agosto 2018), le esportazioni verso paesi extra UE a settembre segano una marcata flessione (-3.7%). Sempre con riferimento a settembre 2018, sono in particolare contrazione le esportazioni verso Turchia (-31.1%), Russia (-24.9%), Medio Oriente (-18.6%), Giappone (-17.5%) e Cina (-17.3%). Tra i settori in maggiore difficoltà si segnalano quello dell’energia (-13.9%) e dei beni strumentali (- 4.3%). Il rallentamento delle espor-tazioni verso alcuni dei principali mercati extra UE sembra essere causato da una serie di fattori, quali il forte rallenta-mento dell’economia di alcune aree geografiche (Turchia), le continue difficoltà dell’economia Russa e l’instabilità politica nel Medio Oriente. Di più difficile comprensione sono invece le riduzioni delle esportazioni verso Giappone e Cina, nono-stante la crescita dell’interscambio internazionale cinese po-trebbe già risentire delle crescenti misure restrittive adottate dal governo nazionale in risposta alle misure protezionistiche

promosse dall’amministrazione Trump.Il complicarsi delle dinamiche alla base dell’interscambio commerciale globale richiede alle medie imprese italiane di ripensare le strategie attraverso le quali si aprono al merca-to mondiale. Di fronte ad una crescita delle esportazioni in possibile calo e ad un contesto globale altamente volubile e incerto, pensare a modelli di crescita internazionale diversi dalle esportazioni diventa necessario. Investire all’estero in strutture commerciali e produttive rappresenta una modalità di crescita globale tanto necessaria quanto complessa per le imprese italiane, soprattutto se consideriamo la propensione storica delle aziende del Made in Italy a condurre investimenti diretti esteri (IDE) attivi. Secondo elaborazioni del 2017 dell’I-stituto di Commercio Estero (ICE) e del Politecnico di Milano

su dati UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development), il rapporto tra stock di IDE e PIL in Italia nel 2016 ammontava al 24,9%, marcatamente inferiore rispetto al 51.1% registrato in Francia, al 39,4% in Germania e al 41,9 del-la Spagna. In generale, la media stock IDE/PIL in Europa nel 2016 era pari al 55,5%, trenta punti percentuali in più rispetto al dato italiano. Le imprese italiane, specialmente quelle mag-giormente strutturate finanziariamente, investono dunque molto meno della media europea in attività all’estero. Anche per questo specifico problema, comprendere a fondo le cau-se alla base di un ritardo così marcato rispetto ai principali competitor europei sarà uno dei temi su cui si concentrerà la Fabbrica tematica sulla crescita internazionale.In aggiunta ai tre principali Forum tematici evidenziati nelle pagine precedenti, Fabbrica per l’Eccellenza ha previsto inol-tre l’organizzazione di una serie di laboratori tematici che si terranno durante tutto il 2019. Come già nel 2018, Fabbrica per l’Eccellenza si metterà all’ascolto degli imprenditori.

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è stata seguita la seguente procedura. Per quanto riguarda gli aspetti strutturali sono state considerate le risposte date dal titolare dell’impresa, in quanto si assume che sia la persona con la maggiore visibilità rispetto a strumenti e pratiche mes-si in atto dall’impresa stessa. Per quanto riguarda gli aspetti culturali è stata calcolata la media dei valori riportati dai vari rispondenti per impresa.2. All’interno della dimensione strutturale e culturale, sono state ricostruite le sotto dimensioni identificate nella fase di progettazione, ovvero per gli aspetti strutturali: pratiche e strumenti legati a benefit, gestione del tempo e degli spa-zi; per gli aspetti culturali: supporto da superiori e colleghi, aspettative sul tempo lavorativo, conseguenze sulla carriera.3. Calcolo dell’indice di CFR per impresa. Per gli aspetti strut-turali è stato assegnato punteggio pari a zero nel caso di ri-sposta “no”, punteggio pari a 0,5 nel caso di risposta “L’azien-da sta valutando di introdurre questo strumento”, punteggio pari a 1 nel caso di risposta “sì”. La somma di questi punteg-gi per ciascuna sotto-dimensione e, in generale, per tutti gli aspetti strutturali ha consentito di definire una classifica delle imprese rispetto a tale dimensione della CFR. Per gli aspet-ti culturali è stata calcolata la media dei valori per ciascuna sotto-dimensione e una media delle medie al fine di definire una classifica delle imprese rispetto a tale dimensione della CFR. Infine, è stata calcolata la media dei valori ottenuti per le due dimensioni, ottenendo i valori dell’indice della CFR e consentendo di classificare le imprese partecipanti rispetto a tale indice (Tabella 1).4. I radar plot per visualizzare la distribuzione media, nonché

il confronto con la prima e l’ultima impresa individuate tramite il calcolo dell’indice della CFR, sono stati costruiti dopo aver normalizzato i valori dei singoli aspetti strutturali e culturali, su una scala tra 0 e 1. In tal modo, si consente un’immediata visualizzazione del grado di completezza relativa all’adozione di strumenti e pratiche di CFR per quanto riguarda la dimen-sione strutturale e di consapevolezza dell’importanza dei di-versi aspetti legati alla dimensione culturale. 5. L’ulteriore analisi relativa alla distinzione tra imprese fa-miliari e non familiari, così come alla distinzione sulla base dell’età dell’impresa ha permesso di investigare, in maniera qualitativa tramite i radar plot, delle possibili cause delle diffe-renze riscontrate dal calcolo dell’indice della CFR. Per quanto riguarda l’individuazione delle imprese familiari, sono state usate le risposte alle domande del questionario relative alla presenza di una famiglia nella proprietà e nella gestione del-le imprese partecipanti all’indagine. Le imprese, per le quali entrambi i criteri fossero soddisfatti, sono state annoverate come imprese familiari; qualora uno solo o alcuno dei criteri fosse stato soddisfatto, l’impresa – viceversa – è stata consi-derata non familiare. Per quanto riguarda la distinzione rispet-to all’età, è stata individuata la mediana rispetto alla distribu-zione dell’età delle imprese partecipanti, che risulta pari a 38 anni. Non è stata considerata la media delle età delle imprese in quanto vi sono nel campione aziende particolarmente lon-geve, con più di 100 anni dalla loro fondazione, che avrebbero distorto in maniera significativa il valore medio.

Bibliografia e Fonti

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APPENDICE

Protocollo di analisi dei dati per l’attribuzione del valore della CFR.Di seguito vengono descritti nel dettaglio i passaggi svolti sui dati raccolti ai fini dell’elaborazione dei risultati descritti nel report. Ulteriore materiale relativo alla raccolta e all’analisi dei dati è disponibile su richiesta.1. Dal database iniziale a livello individuale (56 rispondenti) abbiamo costruito un database a livello impresa (37 impre-se). In particolare, il campione consiste di 4 imprese con 3 rispondenti ciascuna, 11 imprese con 2 rispondenti ciascuna, e infine 22 imprese con un solo rispondente. Per le imprese con un solo rispondente abbiamo considerato i dati forniti dal-lo stesso. In presenza di più rispondenti per la stessa impresa

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Rassegna Stampa

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