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the sign moak

Il Caffè Pedrocchi di Padova

www.caffemoak.com

Caffè letterario Moak festeggia il suo decimo anno di vita

Concorso fotografico

The sign Moak su iPhone e iPad

Il caffè interpretato da due chef stellati

Designer industriale, Angelo Ruta

Cinema e caffè, storia di un grande amore

Cartoon e car, nel mondo dei motori fantastici

Un caffè con Fausto Arrighi

Moak e dintorni. Questa è la nostra storia

Forme Moak. La tazzina

Cappuccino e briosche una storia italiana

Donatella Finocchiaro, da Catania al red carpet di Cannes

I prodotti Horeca, GDO, Vending

Visto da vicino. Il chicco Moak

Gli ammazzacaffè, una grande tradizione italiana

Zonda e Huayra. Figlie del vento argentino

Postatarget Magazine - Tariffa pagata - DCB Centrale/PT Magazine ed./aut. n. 50/2004 - valida dal 7/04/2004 - Aut. Trib. Forlì n.18 del 2000 - Notizie n.1/2011Direttore Responsabile: Marco PederzoliDirettore Editoriale: Stefano Della CasaRedazione: Annalisa Spadola, Massimo Giardina, Marco Lentini, Sergio Iacono, Saro Giunta, Corrado Barone, Gian Paolo Galloni, Dino Della Casa, Stefano Della Casa. Coordinamento grafico: Studio Degò (MO)Art work: Chiara Ottolini e Eleonora CasconeEditore: Studio Della Casa S.a.SVia Emilia Ovest 1014 - 41123 Modena - tel.059-8396080www.studiodellacasa.it, mail: [email protected]

Azienda con sistema qualità certificato da BVQIin conformità alla normativa ISO 9001:2000Stampa in esclusiva per Edizioni Dott. Della Casa: Arbe (MO)A norma dell’art. 7 della legge n. 196/03 il destinatario può avere accesso ai suoi dati, chiederne la modifica o la cancellazione oppure opporsi scrivendo a: Studio dott. Della Casa S.a.s. -Via Emilia Ovest, 1014 - 41123 Modena (MO) - Italy

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di Dino Della Casa

Marie-Henry Beyle, noto al mondo con lo pseudonimo di Stendhal (1783 – 1842), autore di capolavori della letteratura come “La Certosa di Parma” e il “Rosso e il Nero”, scrisse dopo essere stato nel centro storico di Padova: “C’est à Padoue que j’ai commencé à voir la vie à la vénitienne, les femmes dans les cafés. L’excellent restaurateur Pedrocchi, le meilleur d’Italie”, che in italiano suona così: “E’ a Padova che ho cominciato a vedere la vita alla maniera veneziana, con le donne sedute nei caffé. L’eccellente ristoratore Pedrocchi, il migliore d’Italia”. Anche questo lo scrittore francese, uno dei tanti intellettuali che nel corso dei secoli si sono fermati almeno una volta in questo caffé, notò insomma l’atmosfera tutta particolare che si respira nel locale di via VIII Febbraio numero 15, che oggi si trova alla soglia dei due secoli e mezzo di vita. Tra Settecento e Ottocento il consumo del caffé in Italia si diffonde infatti enormemente e nasce quindi la tradizione del caffé – locale come punto d’incontro aperto della classe borghese, in contrapposizione alla dimensione privata dei salotti nobili. A Padova peraltro, la presenza aggiuntiva di oltre tremila persone tra studenti, commercianti e militari fece sì che, più che in altri centri cittadini, si sviluppasse questo tipo di attività. Ecco allora che in tale contesto, nel 1772 il bergamasco Francesco Pedrocchi apre una “bottega del caffé” in un punto strategico di Padova, a poca distanza dall’università, dal municipio, dai mercati, dal teatro e dalla piazza dei Noli (oggi Piazza Garibaldi). da cui partivano diligenze per le città vicine. Il figlio Antonio, ereditata la fiorente attività paterna nel 1800, dimostrando subito capacità imprenditoriali e decidendo di investire i guadagni nell’acquisto dei locali contigui al suo, tanto che nel giro di circa 20 anni si ritrova proprietario dell’intero isolato, un’area pressappoco triangolare delimitata a est dalla via della Garzeria (oggi via VIII Febbraio), a ovest da via della Pescheria Vecchia (oggi vicolo Pedrocchi) e a nord dall’Oratorio di San Giobbe (oggi piazzetta Pedrocchi). Il 16 agosto 1826 Antonio Pedrocchi presenta alle autorità comunali il progetto per la costruzione di uno stabilimento, comprendente locali destinati alla torrefazione, alla preparazione del caffè, alla “conserva del ghiaccio” e alla mescita delle bevande. Prima di questo cantiere, Pedrocchi aveva incaricato un altro tecnico, Giuseppe Bisacco, di eseguire i lavori di demolizione dell’intero isolato e di costruire un edificio ma, insoddisfatto del risultato, aveva richiesto a Giuseppe Jappelli, ingegnere e architetto già di fama europea e esponente di spicco della borghesia cittadina

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Il Caffé Pedrocchi di Padova

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che frequentava il caffé, di riprogettare il complesso dandogli un’impronta elegante e unica. Il piano terreno fu ultimato nel 1831, mentre nel 1839 venne realizzato il corpo aggiunto in stile neogotico denominato “Pedrocchino”, destinato ad accogliere l’offelleria (pasticceria). In occasione del “IV Congresso degli scienziati italiani” nel 1842 si inaugurarono le sale del piano superiore che, secondo il gusto storicizzante dell’epoca, erano state decorate in stili diversi, creando un singolare percorso attraverso le civiltà dell’uomo. Le sale del piano superiore erano destinate a incontri, convegni, feste e spettacoli e il loro utilizzo veniva concesso ad associazioni pubbliche e private che, a vario titolo, potevano organizzare eventi. Antonio Pedrocchi si spense il 22 gennaio 1852. Animato dalla volontà di lasciare la gestione del suo caffé a una persona di fiducia, aveva adottato Domenico Cappellato, il figlio di un suo garzone, che alla morte del padre putativo si impegnò nel dare continuità all’impresa ricevuta in eredità, pur cedendo in gestione le varie sezioni dello stabilimento.

Un inevitabile degrado dovuto alle difficoltà determinate dalla Grande Guerra caratterizzerà il caffé negli anni tra il 1915 e il 1924. Negli anni successivi va purtroppo dispersa gran parte degli arredi originari. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con il progetto dell’architetto Angelo Pisani si avvia un nuovo restauro che ridefinisce i vani affacciati sul vicolo posteriore, trasforma lo stesso vicolo in una galleria coperta da vetrocemento e ricava alcuni negozi, un posto telefonico pubblico e una fontana in bronzo. Per buona parte degli Anni Ottanta e Novanta il Pedrocchi rimane chiuso per difficoltà tra i titolari della gestione e il Comune; nel 1994 viene finalmente deciso il recupero dei locali e all’architetto Umberto Riva e ai suoi collaboratori viene affidato il compito di rimediare ai danni provocati dal devastante restauro Pisani. Dopo l’esecuzione del primo stralcio di lavori, il 22 dicembre 1998 il caffé viene restituito ai cittadini di Padova. Oggi, rimane una tappa fondamentale per la città di Padova. Per ulteriori informazioni: www.caffepedrocchi.it.

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di Annalisa Spadola

Per chi ancora non lo conoscesse, Caffè Letterario è il concorso rivolto a giovani, e meno giovani, scrittori di belle speranze che già da dieci anni Moak organizza e promuove. L’unico vincolo previsto per i partecipanti, oltre alla lunghezza del testo, è il tema che ovviamente non può non essere il caffè.Il caffè inteso nella sua accezione più ampia, quindi: la bevanda, il luogo, la pianta, il sapore, l’aroma etc.Negli anni Caffè Letterario, nato dalla volontà di creare una ricerca anche culturale intorno al caffè, è cresciuto in numero di partecipanti, nella qualità dei racconti e anche nel prestigio dei personaggi che a questo concorso si sono interessati, fino a diventare il terzo premio in Sicilia in ordine di importanza. Non è un caso se molti dei partecipanti alle passate edizioni hanno poi continuato a scrivere e molti a pubblicare con prestigiose case editrici nazionali.Come si diceva quello del 2011 è stata la decimo appuntamento e data l’importanza dell’anniversario è stata riservata a quest’ultima edizione una attenzione particolare, partendo dalla giuria composta da tutti i passati presidenti che vedeva insieme esponenti del mondo letterario del calibro di Walter Pedullà e di Raffaele Nigro. Per la serata di premiazione, che si è tenuta presso il centro direzionale Moak a Modica, si è scelto di affidare la conduzione a Iaia Forte, attrice teatrale e cinematografica di fama internazionale, che ha assolto gli onori di casa con grande stile e professionalità.Per quanto riguarda il concorso in senso stretto, la decima edizione ha visto la vittoria del racconto “Caffè Amaro” di Monica Gentile, un racconto dalle forti tinte verghiane, non privo però di femminile sensibilità e di raffinata e ricercata eleganza linguistica.I successi e i notevoli riscontri di questi dieci anni di attività del Caffè Letterario Moak, oltre che inorgoglirci, ci richiamano a un ulteriore impegno, ci spronano a dar voce a un rinnovato entusiasmo che vedrà l’anno prossimo il Caffè Letterario Moak ancora una volta, e sempre di più, un punto di riferimento per tutti quelli che come noi coltivano due passioni: il caffè e la letteratura.Durante la serata si è tenuta anche la premiazione di “Corto

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Caffè letterario Moak festeggia il suo decimo anno di vita

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Moak” il contest cinematografico riservato a cortometraggi che Moak organizza e promuove già da sei anni. Nonostante sia il più giovane delle iniziative culturali di Moak, viene considerato dalla stampa di settore come uno dei più interessanti concorsi per giovani autori nel panorama italiano.Il primo premio è stato vinto da “Vodka Tonic” di Ivano Fachin, un cortometraggio fortemente metaforico in cui la vita viene ridotta a un cocktail in cui sia gli ingredienti che le proporzioni possono essere sbagliate se non si ha abbastanza mestiere. Il mestiere di vivere, appunto. Vodka Tonic, girato interamente a New York, è un film in cui è già visibile il tratto stilistico e autoriale di Ivano Fachin che sta trasformando se stesso da promessa a realtà del cinema italiano.

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Caffè Moak ha sempre riservato una particolare attenzione al mondo della cultura e dell’arte, in particolar modo, le iniziative culturali di Moak sono state rivolte a valorizzare e promuovere nuovi talenti. Questa nostra pubblicazione ci ha dato l’opportunità di continua-re in tal senso offrendo ai cultori dell’arte della fotografia una

occasione di visibilità.Abbiamo infatti deciso di indire un concorso fotografico, rivolto a tutti e che ha come unico vincolo il tema del caffè. Le opere vincitrici verranno utilizzate per la composizione delle copertine dei prossimi numeri di The Sign Moak. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.caffemoak.com

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Concorso fotografico

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di Marco Pederzoli

The Sign Moak si appresta ad approdare anche sul web. Il progetto editoriale lanciato con questo numero, intende infatti accompagnare al piacere della carta anche tutti i plus offerti dalle nuove tecnologie. Collegandosi al sito internet ufficiale di Caffé Moak, www.caffemoak.com, ogni servizio sarà quindi a tutti gli effetti multimediale e, di conseguenza, potrà essere letto e commentato in qualunque parte del mondo. L’iniziativa si inserisce in una ben definita politica di Moak, che intende sempre più interagire con il proprio pubblico e i propri clienti per confrontarsi e scambiare opinioni, proprio come si usa fare quando si prende un caffé tra amici. L’informazione contenuta in The Sign Moak arricchisce oltretutto i contenuti già presenti sul sito internet, dove non mancano news aggiornate sulle iniziative e le novità aziendali, riguardanti non solo i prodotti ma anche il sostegno che da anni l’Azienda offre alla letteratura e alla cultura in genere. In altri termini, si potrà accedere alla lettura di The Sign Moak sia dal proprio personal computer, sia da dispositivi Ipad e Iphone, per essere sempre informati in tempo reale su tutto ciò che riguarda lo straordinario mondo Moak, dove il caffé si fa interprete di iniziative di forte richiamo.

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The sign Moak su iPhone e iPad

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di Gian Paolo Galloni

Enrico Bartolini lascia la sua Toscana nel 1998 ed inizia il suo percorso di apprendimento che lo vede a Londra da Mark Page, a Parigi con Carlo Petrini, a Pistoia da Pier Angelo Barontini e a Padova dagli Alaimo.Nel 2005 prende la gestione del ristorante Le Robinie a Montescano (PV), che diventa in poco tempo meta dei più esigenti gourmet, e il 24 novembre 2009, stesso giorno del suo trentesimo compleanno, riceve dalla Michelin la stella, che lo consacra definitivamente chef di livello internazionale. Nel giugno del 2010 lascia Montescano per prendere la gestione del Ristorante Devero a Cavenago (MB).Ricerca e innovazione sono gli obiettivi che Enrico insegue da sempre, per offrire ai suoi ospiti piatti che emozionano nel solco della tradizione.

Il piatto elaborato da Enrico con il caffè Moak è: “Ravioli di scampi affumicati al caffè Moak”

I Ravioli sono farciti con una crema di pesce, affumicati con il caffè e cotti al vapore. I ravioli sono saltati in padella con burro fresco e cognac e serviti con scampi crudi, erbe fresche leggermente piccanti e una spolverata di caffè selezione Moak. Il vino consigliato è il Rosé metodo classico Podere Forte di Castiglione d’Orcia (GR).

Il caffè interpretato da due chef stellati

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luca Marchini, laureatosi in economia e commercio, nell’attesa di organizzarsi per intraprendere la carriera da commercialista, nel 1998 decide di lavorare per qualche tempo presso il noto ristorante di Modena, l’Osteria Francescana, per soddisfare il suo hobby di cucinare. L’esperienza fu così travolgente e coinvolgenteda fargli abbandonare l’idea di diventare commercialista per abbracciare la carriera di cuoco. Dopo varie esperienze che lo vedono a New York nell’Upper East Side, presso la Locanda Solarola a Castel Guelfo (BO) e chef presso un noto ristorante di Bologna, nel marzo del 2003 apre il suo ristorante: L’Erba del Re a Modena. Nel 2009 riceve dalla Michelin la stella. Luca propone piatti semplici, leggeri e digeribili ma ricchi di sapore e di inventiva, nel rispetto della tradizione emiliana.

Il piatto elaborato da Luca con il caffè Moak è:spaghetti alle canocchie, panna al caffè, aneto e semi di coriandolo.

Cuocere gli spaghetti e non appena si ammorbidiscono, scolarli e metterli in una padella con il brodo di pesce, ottenuto con le carcasse delle canocchie, poco sale e olio di oliva extravergine. Portare a cottura, utilizzando per brasare solo il brodo di pesce. Spegnere la fiamma, unire agli spaghetti le cannocchie, saltarli energicamente e, per ultimo, uniamo i pomodori appassiti in cubetti e l’aneto finemente tritato. Adagiamo sul piatto di portata la panna fredda al caffè Moak e gli spaghetti mantecati, spolverandoli con un trito di semi di coriandolo.

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di Massimo Giardina

Questa rubrica è stata creata per presentare, in ogni numero, una personalità del mondo del design o della grafica. In questo primo numero abbiamo deciso di parlare con Angelo Ruta. Questa scelta è stata dettata oltre che dalla volontà di rendere omaggio a un giovane e brillante artista, anche da un moto d’affetto verso un nostro collaboratore che già da diversi anni contribuisce a rendere più bella e interessante l’immagine di Moak.

Lo abbiamo raggiunto nella sua casa di Milano dove vive da quando, finito il Liceo Classico a Modica, si è trasferito per iscriversi alla Civica Scuola “Arte e Messaggio” – era il 1986 e ancora di scuole di grafica e di illustrazione non ve ne erano molte. Solo due per la verità, una a Roma e una qui a Milano. Poi i corsi di illustrazione, grafica e di fumetto sono entrati anche nelle accademie, ma allora venivano ancora visti come degli insegnamenti “strani”. Quindi la passione per le arti visive è una passione “antica”? Sì, fin da quando ero al liceo mi piaceva disegnare, però non pensavo che sarebbe diventata la mia professione. Definirti solo un illustratore è riduttivo, tu infatti a questa attività alterni quella di drammaturgo, sceneggiatore, regista e scenografo. È vero. Dopo il corso di Illustrazione ho studiato Scenografia all’Accademia di Brera e mi sono avvicinato al teatro, mondo che ho esplorato prima come scenografo e poi anche come drammaturgo e regista. E il cinema? Tu sei anche sceneggiatore e regista cinematografico. Quando ho cominciato a interessarmi di cinema ero curioso di sapere “come funzionava”; perché, a differenza di tutte le altre arti visive, il cinema è un lavoro che si fa in squadra. E se ci si riesce, offre inaspettate possibilità di espressione. Ho cominciato seguendo un corso presso il “Centro di formazione professionale per la tecnica cinetelevisiva” di Milano. Qui l’esperienza davvero formativa è stata l’incontro con gli altri studenti. Con loro ho realizzato i primi cortometraggi. Torniamo al tuo lavoro di illustratore, c’è un autore che tieni come punto di riferimento? Più di uno. La storia dell’Illustrazione è ricca di visionari e tengo sempre sulla mia scrivania riproduzioni, libri, cartoline di chi mi ha preceduto. Mi piace guardarmeli ogni tanto e perdermici dentro. Penso a Larsson, a Rackam, oppure agli

americani: Rockwell, Steinberg, Spiegelman. Mi piace molto anche l’illustrazione francese. A Topor in particolare sono legato dalla circostanza di aver visto una sua antologica a Palazzo Reale, appena arrivato a Milano. Da quella mostra ho imparato che l’illustrazione non è un’arte minore, come spesso si crede. Il tempo che passi a disegnare è piacevole? Sì, molto. In alcuni momenti è addirittura terapeutico. Terapeutico? Perché? Quando ho risolto l’assillo creativo (la ricerca dell’idea) e ottenuto l’approvazione, allora posso dedicarmi solo al colore e al tratto. Ed è una cosa molto simile a un rituale: scegliere il foglio di carta su cui riportare il bozzetto, sciogliere il colore in questo o quell’altro piatto a seconda delle tonalità, fare la punta alle matite... Quali progetti hai per i prossimi mesi? - Intanto l’uscita imminente di tre libri per ragazzi (uno per San Paolo, uno per Einaudi e uno per Lion Hudson). Poi l’uscita di un cd di storie per bambini, narrate e cantate da Pietro Pignatelli, in cui ho fatto la doppia vece di autore e illustratore. Poi la ripresa del teatro: al Litta di Milano ci sarà “Il poeta volante”, uno spettacolo (che ho scritto e che dirigo) ispirato al poeta Lauro De Bosis. E la prossima estate sarò impegnato a dirigere un’opera lirica, “L’elisir d’amore” di Donizetti, per l’Orchestra Regionale del Molise.

Designer industriale,Angelo Ruta

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di Dino della Casa

Cambiano i tempi, mutano le stagioni, ma sul grande schermo rimane una costante: il cinema si nutre di caffé. La dimostrazione di questa tesi avviene esplorando i generi più diversi e le epoche più differenti, a cominciare dall’indimenticabile bianco e nero. L’avevano capita giusta, ad esempio, i protagonisti del western “I cavalieri del Nord Ovest” (titolo originale: She Wore a Yellow Ribbon), film del 1949 diretto da John Ford. Celebri rimangono le scene in cui i protagonisti si svegliano al mattino sorseggiando un buon caffé. E la cosa non è affatto scontata: le scene del film sono ambientate nel 1876, anno in cui la Cavalleria statunitense, dopo la sconfitta del Generale Custer a Little Bighorn, deve fronteggiare un’imponente offensiva degli

indiani. Rimanendo nel genere western, il caffé è ancora protagonista in “Ombre rosse”, altro capolavoro di John Ford del 1939, con Claire Trevor, John Wayne, Andy Devine e John Carradine. Questa pellicola, tra l’altro, segna il ritorno del regista al genere western dopo ben 13 anni. Sceneggiato da Dudley Nichols, il film è tratto da un racconto di Ernest Haycox, Stage to Lordsburg, a sua volta ispirato a Boule de Suif di Guy de Maupassant. Qui, è un’intera diligenza ad essere ristorata con una tazza di caffé presso una stazione di posta. In “Un dollaro d’onore” (titolo originale: Rio Bravo), produzione datata 1959 e diretta da Howard Hawks, con John Wayne, Dean Martin ed Angie Dickinson, è uno dei locali più classici del west, un saloon, a fare da sfondo al caffé che sorseggiano i protagonisti. Per chiudere con il legame tra caffé e genere western, ecco l’anti western per eccellenza:

Cinema e caffé, storia di un grande amore

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“Balla coi lupi”, il capolavoro datato 1990 di e con Kevin Costner. Qui, il grande valore che è sempre stato attribuito al caffé, è evidenziato particolarmente perché esso diventa merce di scambio per un baratto.Spostandosi poi sul neorealismo italiano, il “principe della risata” Totò, che per giunta era pure napoletano, terra di grande tradizione nel consumo di caffé, poteva forse esimersi dal fare comparire la tazzina in diversi suoi film? Ecco allora che in “Totò terzo uomo”, pellicola del 1951 diretta da Mario Mattoli, Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, in arte appunto Totò, sorseggia con gusto una tazzina. Scene analoghe si ripetono in “Miseria e nobiltà”, film del 1954 diretto sempre da Mario Mattòli, tratto dall’omonima opera teatrale (1888) di Eduardo Scarpetta, e in “La banda degli onesti”, commedia del 1956 diretta da Camillo Mastrocinque, dove il principe della risata è affiancato da Peppino De Filippo.E se Totò in qualche modo ha portato il caffé al cinema, la commedia all’italiana lo ha fatto diventare un momento immancabile nella descrizione della vita quotidiana. L’onore di un posto in un titolo di un film di grande successo, è ad esempio nella pellicola “Venga a prendere il caffé da noi”,

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produzione del 1970 diretta da Alberto Lattuada, con un indimenticabile Ugo Tognazzi impegnato a sedurre e circuire tre sorelle facoltose. Dieci anni dopo, il posto d’onore nel titolo non cambia: del 1980 è infatti la pellicola di Nanni Loy “Café Express”, dove Michele Abbagnano (Nino Manfredi) è un povero diavolo che, per sopravvivere e mantenere il figlio quattordicenne in un collegio, si improvvisa venditore abusivo di caffè sulla tratta notturna del treno da Vallo della Lucania a Napoli, viaggiando sempre senza biglietto. Il film narra delle sue vicissitudini e delle bugie che deve inventare per sbarcare il lunario mentre è braccato dalla polizia ferroviaria e da un gruppetto di ladruncoli che lo vorrebbero come complice coatto per consumare i loro borseggi. Ultimo ma non per importanza, uscendo nuovamente oltre i confini nazionali e andando a sbirciare nella grande cinematografia internazionale, il caffé è protagonista in altre pellicole del calibro di “Casablanca” (1942, per la regia di Michael Curtiz), “Notorius, l’amante perduta” (1946, di Alfred Hitchcock), “Vertigo” (1958, thriller psicologico ancora di Alfred Hitchcock) e dell’indimenticabile “A qualcuno piace caldo” (1959), con la bellissima Marilyn Monroe diretta da Billy Wilder.

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Cartoon e car, nel mondo dei motori fantastici

di Marco Pederzoli

Nessuno le ha mai costruite, eppure i loro motori hanno sempre funzionato. Nessuno le ha mai viste, eppure si ricordano perfettamente. Nessuno le ha mai guidate, eppure di alcune sono rimaste anche le targhe.

L’indovinello è semplice, anche perché le soluzioni sono tante: si tratta delle automobili immortalate dai fumetti e dai cartoni animati, quelle vetture che hanno emozionato generazioni di adolescenti, che con le loro prodezze o le loro disavventure hanno accompagnato e caratterizzato la vita di tanti eroi. Anche loro mai esistiti, eppure presenti più che mai nell’immaginario collettivo.Partendo dall’inizio, da quella che davvero è stata la prima auto in assoluto, come non pensare alla “quattro gambe” dei Flinstones, i simpatici personaggi preistorici che rappresentano il capolavoro fumettistico di William Hanna e Joseph Barbera? Nate negli Anni Sessanta, le avventure dei coniugi “antenati” Fred - Wilma Flinstone e Barney – Betty Bubble intendono ricalcare usi e costumi della middle class americana di quel periodo, in cui naturalmente anche l’auto giocava un ruolo importante. Ambientando il tutto nella Preistoria, tuttavia, era opportuno adattare la tecnologia ai tempi, per cui l’effetto comico è in questo caso assicurato dalla propulsione umana di cui necessitano le vetture di tali simpatici personaggi.Ritornando in epoca effettivamente automobilistica, cosa sarebbe Paolino Paperino senza la sua 313? L’effetto comico di questa inconfondibile utilitaria, dagli sgargianti colori rosso e blu, nasce fin dai carichi che spesso è costretta a trasportare:

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“omologata” soltanto per due persone, su di essa salgono sovente i nipotini Qui, Quo, Qua, nell’angusto spazio che dovrebbe fungere da bagagliaio. Se poi si aggiunge che altre volte è riempita all’inverosimile per viaggi o vacanze e che in alcune occasioni le sono richieste prestazioni impossibili, è comprensibile come la 313 lasci quasi sempre a piedi lo sfortunato zio Paperino, creando situazioni divertenti e paradossali agli occhi del lettore.

Rimanendo in ambito Disney, c’è un’altra vettura che ha lasciato il segno in questa collezione di “mirabilia” immaginarie: la 113 di Topolino. Per la verità, essa non è stata la sola ad essere posseduta e guidata dall’abile detective di Topolinia, ma è indubbiamente la più nota. Questa targa, tra l’altro, fu utilizzata molto spesso da uno dei disegnatori più noti delle avventure dell’abile topo: l’italiano Romano Scarpa (1927 – 2005). A seconda dei periodi storici, Topolino ha utilizzato diverse vetture, attraverso le quali si può leggere, perché no, l’evoluzione stessa dell’automobile. Basti citare, a tal proposito, la quattro ruote del 1935 che recava una “M” (iniziale di Mickey Mouse) sullo sportello del guidatore. Già alla fine degli stessi Anni Trenta, in diverse strisce non solo americane, troviamo però Topolino con altre auto, dotate di una carrozzeria dai colori variabili ma non troppo: o completamente rosse, o completamente blu, o rosse e

blu insieme. In linea generale, si tratta quasi sempre di utilitarie, raramente fuoriserie, che aiutano Michey Mouse in inseguimenti di banditi, pedinamenti o, perché no, fungono da necessario corollario per uscite galanti con l’eterna fidanzata, Topolina.

Ci sono poi situazioni in cui le auto occorrono davvero, e servono efficienti, veloci, in una parola straordinarie. Indovinato? La Batmobile, certo. Ovvero la vettura del super eroe Batman. Anch’essa, come la molto più modesta auto di Topolino, ha subito profonde evoluzioni nel corso degli anni, adeguandosi alle tecnologie e ai tempi. Basti pensare che all’apparizione di Batman in edicola, nel 1939, la Batmobile non si chiamava così. Era semplicemente un’auto imponente e lussuosa per quel periodo, una “sedan car” modificata ma ancora senza una precisa identità. Il nome, e di conseguenza la fama eterna, arriverà un paio d’anni più tardi, nel febbraio 1941, all’interno del numero 48 della serie. In seguito, si aggiungerà un particolare che sarebbe poi divenuto fondamentale per l’identificazione istantanea: il colore della carrozzeria, nero brillante. Per quanto riguarda i modelli adottati, sono appunto specchio dei tempi. Già negli Anni Cinquanta, ad esempio, l’auto a muso di pipistrello del periodo bellico apparve fuori moda, per cui ne fu disegnata una nuova, dopo che la vecchia fu fatta precipitare da un ponte

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durante un inseguimento. Le sue forme divennero più robuste e meno slanciate. Si ritornerà curiosamente ad un look più vicino a quello del periodo bellico a metà degli Anni Sessanta. Dopo altre vicissitudini, dagli Anni Novanta ad oggi la moda della Batmobile è stata interpretata nei modi più diversi, rendendo praticamente impossibile riconoscere una sola linea guida. Rimanendo in ambito di mitiche vetture sportive che hanno fatto la storia dell’automobilismo pur non essendo mai esistite, non si può fare a meno di citare la saga di Michel Vaillant,

l’eroe dei fumetti creato dal disegnatore francese Jean Graton. Le prime gesta del popolare pilota apparvero nel 1957, su Le Journal de Tintin. In seguito, uscirono circa 70 albi. Vaillant è un campione che con la sua attività, a bordo di una straordinaria auto, porta avanti i valori più sani ed autentici dello sport. Sebbene le sue vicende siano soltanto frutto di pura fantasia, questo fumetto ha contribuito a creare un mito in carne ed ossa: Alain Prost, che ammise in un’intervista di essersi appassionato al mondo delle corse anche leggendo Michel

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Vaillant. In Italia, un grande successo hanno avuto dagli Anni Sessanta agli Anni Novanta alcune serie di fumetti “noir” dove le automobili svolgevano un ruolo di degne comprimarie. Indimenticabile è senza dubbio la Jaguar E-Type di Diabolik, inseparabile compagna di questo eroe – antieroe nato nel 1962 da un’idea della milanese Angela Giussani (in seguito affiancata dalla sorella Luciana), che voleva trovare un passatempo ai tanti pendolari della stazione Nord di Milano (Angela abitava proprio nelle vicinanze). Nacque così un personaggio estremamente scaltro, genio del crimine ed eternamente braccato dalla polizia. Due soltanto le cose cui non poteva mai rinunciare: la sua bella fidanzata Eva Kant e, appunto, la sua automobile veloce ed affidabile. A proposito di Eva Kant, i tempi cambiano e così anche le automobili. A pochi mesi dalla sua uscita dalla casa madre, la bella fidanzata di Diabolik ha già cominciato a guidare una Land Rover Evoque, dimostrando non solo abilità ma anche un innato senso del “glamour”.

Più modesta, ma comunque spesso risolutiva nei momenti importanti, è un’altra icona del fumetto italiano degli Anni Ottanta: il maggiolone cabriolet di Dylan Dog, nato come il suo proprietario nel 1986 dalla penna di Tiziano Scalvi. Di colore bianco, targato DYD 666, nel numero 200 della serie viene spiegato il motivo per cui l’indagatore dell’incubo è entrato in possesso del suo rumoroso veicolo. E’ successo dopo aver risolto il suo primo caso (uno zerbino stregato che assillava i proprietari di un’abitazione). Al posto della parcella, a Dylan viene offerta quest’auto piuttosto malmessa, che stava creando solo disagi ai suoi ex proprietari. In alcune storie, causa inseguimenti vari, accade anche che finisca distrutta, tuttavia ritorna completamente integra nella storia successiva. Miracoli dei fumetti…

Poco più anziano di Dylan Dog e con un successo internazionale è Martin Jacques Mystère, creato da Alfredo Castelli (testi) e Giancarlo Alessandrini (disegni) nell’aprile 1982. Soprannominato “Il detective dell’impossibile”, è specializzato nelle indagini su misteri irrisolti. Guida abitualmente una Ferrari Mondial, che fu lanciata sul mercato proprio un paio di anni prima dell’uscita del numero uno. Naturalmente, la targa è unica e inconfondibile: M.MYST. Una garanzia, questa, che rende la sua auto indistruttibile, o quanto meno della stessa materia dell’Araba Fenice: rinasce sempre dalle proprie ceneri.

Ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, con questo veloce excursus nel mondo dei fumetti abbiamo avuto una conferma: sogno e realtà, immaginazione e concretezza, non sono due opposti, ma facce diverse di una stessa medaglia. La natura imita l’arte e l’arte imita la natura, si direbbe con un po’ di filosofia. Anche nel mondo dei motori.

COLPO ALLARANGE ROVER

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di Gian Paolo Galloni

Le stelle sono nel piatto non nella tazzina, ma in Italia un ottimo caffè non deve mai mancare a fine pasto. Abbiamo incontrato Fausto Arrighi, direttore della Guida Michelin Italia, che ci ha fornito l’interessante punto di vista di un addetto ai lavori sul caffè. Arrighi è sicuramente uno dei critici enogastronomici più temuti ma anche più considerati dell’intero panorama italiano. Dal colloquio che abbiamo avuto col direttore, si comprende come sia importante il caffè nella ristorazione. Invitiamo gli amici ristoratori e i titolari dei bar a leggere attentamente questa intervista: contiene osservazioni molto interessanti e tanto buon senso.Quale importanza ha il caffè nella ristorazione italiana? Direi molta, basti pensare che in molti ristoranti di alta gamma troviamo una selezione di caffè incredibile, direi unica al mondo. L’introduzione delle cialde ha migliorato il caffè servito nella grande ristorazione? Forse non ha migliorato il caffè, ma sicuramente il livello d’igiene e, per molti ristoranti, la praticità. Cosa si apprezza di più in un caffè? Per gustare un ottimo caffè sono molti i particolari che fanno la differenza e da cui non si può prescindere. La giusta quantità, la cremosità, nessun retrogusto acidulo, importantissimo per chi lo beve amaro, e, non ultimo, deve essere servito con la tazzina calda al punto giusto. Per fare un ottimo caffè è indispensabile che a farlo ci sia un vero professionista!

A casa con cosa si prepara il caffè? Con la classica moka. E’ un piccolo rito, che non abbandonerò mai. Il caffè va zuccherato o bevuto amaro? Il caffè è un piacere, io lo bevo rigorosamente amaro ma non condanno chi lo zucchera, de gustibus… Cosa pensa della correzione? Sono vecchie abitudini da bar, tipiche di certe zone dell’Italia, soprattutto al nord. E’ vero che il miglior caffè si beve al Sud? Il caffè è buono dovunque. Un buon barman sa che il caffè risente molto dell’umidità e deve regolarsi di conseguenza. Frequento un locale dove preparano la miscela del caffè dopo aver misurato l’umidità, questo per servire sempre al cliente il miglior caffè. Al sud il caffè è un rito. Il caffè è sempre ristretto, solitamente lo bevono in un unico sorso ed è servito sempre accompagnato dal classico bicchiere d’acqua fresca. Ha un aneddoto da raccontare? Il mio primo caffè al bar lo bevvi con il nonno, che mi fece l’occhiolino e mi chiese se lo gradivo corretto. Non sapevo cosa fosse, ma io risposi si! Al primo sorso una vampata di calore mi avvolse e divenni rosso come un pomodoro. Il nonno si fece una super risata (avevo solo 10 anni). E per finire è vero che In Italia si beve il miglior caffè del mondo? Per come intendiamo noi l’espresso in tazza piccola, certamente. Ho bevuto orribili caffè espressi in giro per il mondo. Il concetto di caffè espresso è capito solo da noi, mentre se si vuole bere un caffè “americano” lo si trova buono un po’ dappertutto.

Un caffè con Fausto Arrighi

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di M. G.

«La lealtà dei nostri lavoratori è il nostro attivo più alto.»Adriano Olivetti

Quella che state per leggere non è soltanto una storia imprenditoriale che, per quanto affascinante, ha come fine ultimo il successo aziendale. Quella che state per leggere è soprattutto la storia di una avventura che dura da oltre 40 anni, una ininterrotta marcia verso un solo obiettivo: la qualità. Tutto inizia con 40 metri quadrati e una piccola tostatrice da 15kg. È il 1967 e Giovanni Spadola è appena ritornato nella sua Modica, dopo un’esperienza lavorativa alla FIAT di Torino, ha una passione, Giovanni, fin da quando è piccolo: il caffè. Per un giovane intraprendente e pieno di volontà come è lui, la cosa più naturale è trasformare questa passione nel proprio lavoro. Ha un locale a disposizione, proprio sotto la casa paterna, acquista una Petroncini e qualche sacco di caffè verde. Tutto è pronto per iniziare, manca solo una cosa: il nome. Per rendere omaggio alla propria città e come rimando alla cultura araba che il caffè lo

ha “inventato”, la scelta cade su Moak che per quanto possa sembrare esotico, in effetti altro non è che la maniera in cui i saraceni chiamavano la Città della Contea: Mohac.Nella piccola torrefazione lavorano in due Giovanni Spadola e un collaboratore, e nel primo anno di attività riescono a produrre 3.500 kg di caffè tostato. Il lavoro è duro ma gratificante, gli ordini crescono e anche il bisogno di nuova forza lavoro e di uno spazio adeguato. È il 1971 e Caffè Moak si trasferisce in una nuova sede, poco distante dalla prima, sempre a Modica Alta. Il nuovo locale è di ben 100 mq e in breve tempo vengono acquistate per esigenze di produzione prima una Petroncini da 30 kg e poi un modello in grado di tostare fino a 120 kg di caffè verde. Pochi anni dopo comincia una nuova fase per l’azienda, infatti siamo a ridosso del 1978 quando Giovanni Spadola decide di importare direttamente il caffè con cui creare le sue miscele. Non è una scelta dettata da ragioni di convenienza economica, piuttosto è suggerita dalla possibilità che questa scelta offre di andare a intercettare direttamente all’origine la migliore materia prima possibile. La scelta gli da ragione, gli ordini crescono ancora, il caffè Moak si sta diffondendo rapidamente in tutta la Sicilia e ne viene riconosciuta quotidianamente la qualità. La crescita costante crea nuovamente la necessità di una nuova sede. La nuova struttura nasce alla fine degli anni ‘70 in via Resistenza Partigiana, uffici, magazzino e produzione occupano una superficie di 500 mq, il personale impiegato

Moak e dintorni.Questa è la nostra storia

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ora conta 10 unità, nel reparto produzione viene introdotta una tostatrice da 240 kg. Siamo nei “favolosi” anni ‘80, l’economia italiana galoppa, il benessere è sempre più diffuso, l’Italia scopre di essere una nazione moderna e di successo. Moak ha consolidato la sua posizione in Sicilia, è presente massicciamente in ogni provincia, fa un “caffè che piace”, come recita una campagna pubblicitaria. Piacerà anche oltre lo stretto? C’è solo da provarci. Anche questa volta l’intuizione è giusta. Con una attenta e oculata azione commerciale in breve Moak riesce a penetrare in questo nuovo mercato, diventando presto uno dei marchi di settore più presenti. La Calabria altro non è che la testa di ponte che porta al mercato del sud Italia, zona tradizionalmente molto attenta alla qualità del caffè. E un caffè di qualità non può che essere apprezzato. Nasce così una rete commerciale composta da agenti e concessionari che copre l’intera Italia meridionale, con conseguente incremento di ordini che per essere evasi necessitano di una diversa e maggiore forza produttiva. Nel 1990 la linea di produzione viene rinnovata totalmente e la sede passa da 500 a 2500 mq.Il 1994 è un anno cruciale per Moak. L’ingresso in azienda di Alessandro Spadola, primogenito di Giovanni, è nel segno della continuità e di un progetto di espansione che vuole esportare la qualità Moak oltre i confini nazionali, in un’altra stagione dell’azienda di cui avremo il piacere di parlarvi nel prossimo numero di The Sign Moak.

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di Marco Lentini e Sergio Iacono

Da qualche anno Caffè Moak si è dotata di un dipartimento totalmente dedicato alla gestione e allo sviluppo dell’immagine aziendale e al designi dei coordinati: for[me] Moak. Un laboratorio in cui creare e sperimentare strumenti di comunicazione alternativi ma sempre perfettamente riconducibili all’identità Moak. La qualità del lavoro svolto da for[me] Moak è stato riconosciuto anche da AIAP (associazione italiana progettazione per la comunicazione visiva) che l’ha voluta come partner per l’anno 2011, primo soggetto privato a cui l’ente si è legato. Uno dei progetti di maggior successo realizzato da for[me] è sicuramente la tazzina che da circa due anni Moak fornisce ai suoi bar. La tazza e i piattini disegnati da for[me] Moak sono stati progettati per ottemperare al meglio alla funzione di strumento di lavoro e di mezzo di comunicazione. Realizzata in Porcellana Dura Feldspatica, la forma e gli ingombri sono stati studiati in maniera tale da permettere una facile e sicura impilabilità. Il fondo a uovo agevola la conservazione della crema di caffè, mentre lo spessore della ceramica è stato studiato per trattenere il calore necessario a esaltare l’aroma dell’espresso.Il logo aziendale è riprodotto in intrusione all’interno della porcellana sul lato della tazzina, privo di colorazione e successivamente smaltato insieme alla tazza. Questa soluzione diminuisce l’impatto visivo ma introduce quello tattile, coinvolgendo una sensorialità spesso trascurata. L’elemento di maggiore effetto comunicativo è comunque il manico. Di forma quadrata con foro di presa rotondo, il manico oltre che in bianco viene declinato in altre due colorazioni che rimandano rispettivamente ai prodotti cui sono dedicate le tazze. Abbiamo quindi il manico bianco per i prodotti tradizionali; il manico verde per i decaffeinati; il manico platino per i prodotti Aromatik.

Forme Moak.La tazzina

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di Saro Giunta

Vienna 1683, Georg Michaelowitz, un giovane di origine polacca, apre quella che probabilmente è la prima bottega di caffè. Il caffè gli era stato donato come ricompensa per un servizio reso all’esercito austriaco impegnato a fronteggiare i turchi, servigio che si era poi rivelato decisivo per l’esito della guerra in favore degli austriaci. Un giorno entrò nella bottega di Georg un religioso italiano, tale frate Marco D’Aviano, a cui il giovane offrì una tazza di questo infuso allora ancora sconosciuto ai più. Il frate trovò il sapore troppo aspro e per stemperarne il sapore fece aggiungere del latte.

L’esito fu così straordinario che in poco tempo divenne la bevanda più in voga di Vienna. Per rendere onore a chi quella bevanda l’aveva, anche se inconsapevolmente, inventata gli venne dato il nome di Cappuccino, ordine religioso a cui apparteneva Marco D’Aviano.Stessa epoca e stesso luogo d’origine ha il cornetto a cui il cappuccino spessissimo si accompagna. La leggenda vuole che per festeggiare lo scampato pericolo dell’assedio delle truppe turche, un pasticciere viennese diede a una pasta sfoglia dolce la forma della luna che campeggiava sulle bandiere degli ottomani. Per la straordinaria bontà di questo dolce e forse anche per esorcizzare la paura che i turchi, nonostante battuti, continuavano a fare, i viennesi ne mangiarono in grandissime quantità, facendo la fortuna dei pasticcieri. Sia il cappuccino che il cornetto si diffusero durante la dominazione austroungarica nell’Italia settentrionale e da qui alla penisola intera. E qui in Italia

Cappuccino e brioscheuna storia italiana

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entrambi hanno avuto la loro gloria.L’accoppiata cappuccino e cornetto è oggi uno dei simboli dell’italian food, la maestria dei nostri baristi e dei nostri pasticcieri è riuscita a conferire a questi due protagonisti della prima colazione un livello qualitativo che ne fanno il punto di riferimento per il resto del mondo.Mlab, per conto di Caffè Moak, già da qualche anno organizza dei corsi di specializzazione per i baristi in cui

si forniscono i principi essenziali per riuscire a servire dei cappuccini di alta qualità. La formazione abbraccia sia la scelta delle materie da utilizzare, sia le tecniche da applicare per la riuscita di quello che per molti è l’unico modo di cominciare la giornata.Maggiori informazioni sul calendario dei corsi sono reperibili sul sito www.caffemoak.com alla voce for[me] training.

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di Marco Pederzoli

All’amore non si comanda. Così potrebbe iniziare una biografia di Donatella Finocchiaro, attrice catanese già insignita di numerosi premi per le sue interpretazioni. La via della ragione, per usare una metafora pascaliana, l’avrebbe voluta vestita con una toga a esercitare la professione di avvocato. Tanto che su quella strada ci si era messa d’impegno: dopo avere frequentato la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, si laurea nel 1996. E sembrava proprio che la carriera forense fosse naturale. Ma dal momento che, rimanendo col filosofo Pascal, ci sono ragioni del cuore che la ragione non conosce, Donatella

continua a coltivare con convinzione un sogno, che alla fine diventerà la splendida realtà di oggi: la recitazione. Negli stessi mesi della tesi, prende parte ai provini del Teatro Stabile di Catania, dove viene ammessa poco dopo. Nel 2001, la grande scommessa vinta: la trentunenne che si divideva tra il praticantato per l’avvocatura e i provini teatrali, si presenta ad un casting per il nuovo film di Roberta Torre e diventa la protagonista di “Angela”. La pellicola, dopo essere stata presentata con successo al Festival di Cannes, farà il giro del mondo con proiezioni in numerosi altri festival internazionali. Quella ragazza diventerà per tutti Donatella Finocchiaro.E le luci della ribalta si sono appena accese: la sua carriera lavorativa prosegue infatti al fianco di registi di primo piano, da Giuseppe Tornatore a Roberto Andò, da Marco Bellocchio a Mimmo Calopresti, da Edoardo Winspeare fino a Emanuele Crialese, che l’ha voluta protagonista nel suo film “Terraferma”, uscito proprio quest’anno. A proposito di questa ultima produzione, scrive una bella recensione: “In un’isola del Mare Nostrum, Filippo, un ventenne orfano di padre, vive con la madre Giulietta e il Nonno Ernesto, un vecchio e irriducibile pescatore che pratica la legge del mare.

Donatella Finocchiaro, da Catania al red carpet di Cannes

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Durante una battuta di pesca, Filippo ed Ernesto salvano dall’annegamento una donna incinta e il suo bambino di pochi anni. In barba alla burocrazia e alla finanza, decidono di prendersi cura di loro, almeno fino a quando non avranno la forza di provvedere da soli al loro destino. Diviso tra la gestione di viziati vacanzieri e l’indigenza di una donna in fuga dalla guerra, Filippo cerca il suo centro e una terra finalmente ferma. Terraferma è la terza opera che Emanuele Crialese dedica al mare della Sicilia in un’instancabile ricerca estetica avviata con “Respiro” nove anni prima. Come Conrad, Crialese per raccontare gli uomini sceglie “un elemento altrettanto inquieto e mutevole”, una visione azzurra ancorata questa volta al paesaggio umano e disperato dei profughi. Sopra, sotto e intorno a un’isola intenzionalmente non identificata, il regista guarda al mare come luogo di infinite risonanze interiori. Al centro del suo navigare c’è di nuovo un nucleo familiare in tensione verso un altrove e oltre quel mare che invade l’intera superficie dell’inquadratura, riempiendo d’acqua ogni spazio. Dentro quella pura distesa assoluta e lungo il suo ritmo regolare si muovono ingombranti traghetti che vomitano turisti ed echi della terraferma, quella a cui anela per sé e per suo figlio la Giulietta di Donatella Finocchiaro. Perché quel mare ingrato gli ha annegato il marito e da troppo tempo è avaro di pesci e miracoli. Da quello stesso mare arriva un

giorno una madonna laica e nera, che il paese di origine ha spinto alla fuga e quello ospite rifiuta all’accoglienza. La Sara di Timnit T. è il soggetto letteralmente “nel mezzo”, a cui corrisponde con altrettanta drammaticità la precarietà sociale della famiglia indigena, costretta su un’isola e dentro un garage per fare posto ai vacanzieri a cui è devoto, oltre morale e decenza civile, il Nino griffato (e taroccato) di Beppe Fiorello. Ma se l’Italia del continente, esemplificata da tre studenti insofferenti, si dispone a prendere l’ultimo ferryboat per un mondo di falsa tolleranza dove non ci sono sponde da lambire e approdare, l’Italia arcaica dei pescatori e del sole bruciante (re)agisce subito con prontezza ai furori freddi della tragedia...Nel rigore della forma e dell’esecuzione, Crialese traduce in termini cinematografici le ferite dell’immigrazione e delle politiche migratorie...”.Se poi ancora occorressero credenziali per dimostrare la bravura di Donatella, i successi della sua filmografia parlano per lei. Solo per citare qualche titolo di grande successo, si possono ricordare Il fantasma di Corleone di Marco Amenta (2004), Se devo essere sincera di Davide Ferrario (2004), Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio (2006), L’abbuffata di Mimmo Calopresti (2007), Baarìa di Giuseppe Tornatore (2009), Manuale d’amore 3 di Giovanni Veronesi (2011) e, appunto, il nuovissimo Terraferma.

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L’esperienza e la passione che Moak adopera nella creazione dei suoi caffè si sintetizza nelle due linee del canale Horeca: miscele di alta qualità rivolti al mercato dell’espresso più autentico.

Horeca deluxe

I caffè che compongono le 5 miscele della linea Horeca deluxe sono le migliori qualità di arabica e robusta. L’alta percentuale di arabica conferisce al caffè in tazza un aroma splendido con il giusto grado di acidità.Horeca superiorLe sei miscele di Horeca Superior sono composte da alcune delle migliori qualità di Arabica e Robusta. Moak le ha pensate per chi ama il caffè consistente e vigoroso.

G.D.O.

Per chi non vuole rinunciare a un caffè di alta qualità senza andare al bar, Moak ha creato la linea dedicata alla classica moka. Le qualità di caffè pregiate presenti nelle miscele di questa linea, sono tra le più adatte al consumo familiare. Tostati e miscelati con la usuale cura che Moak dedica ai propri clienti, G.D.O. presenta una gamma di miscele in grado di soddisfare tutte le esigenze.

Vending

L’offerta cialde proposta da Moak è la soluzione ideale per i ristoratori che vogliono offrire ai propri clienti l’aroma, il gusto e il corpo del vero espresso italiano, senza essere obbligati a investimenti importanti.Grazie al caffè in cialda di Moak, i ristoratori hanno la garanzia di un prodotto sempre fresco e pratico da preparare. Bastano solo 15 secondi e pochi gesti per offrire un perfetto espresso.L’offerta Moak per i ristoranti prevede la macchina espressa Spinel a due gruppi e 4 miscele che soddisfano le preferenze degli estimatori del caffè espresso. Tutto con la praticità e la sicurezza di poter contare sull’assistenza puntuale e la manutenzione costante della nostra azienda.

I prodottiHoreca, GDO, Vending

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di Corrado Barone

Gli esami non finiscono mai. Così recita un proverbio popolare. Anche un chicco di caffè, prima di poter far parte di una delle nostre miscele, deve superare degli esami severissimi. Tutto comincia molto lontano da qui, in quei paesi dove, su delle piante dalle foglie piccole di un verde intensissimo, crescono delle bacche. In un primo momento le bacche sono di colore verde, ma, in breve tempo la colorazione vira verso il rosso fino a raggiungere il colore della ciliegia, colore che ne indica la piena maturità. Raccolte dalle mani esperte dei contadini, attraverso procedimenti che

possono essere diversi a secondo della zona di provenienza, vengono estratti i semi, sono questi i chicchi di caffè verde. Dopo essere stati divisi in lotti, vengono sottoposti a una breve stagionatura. Da questo momento, per il chicco, cominciano una serie di esami che ne testeranno la qualità e il valore.

C’è da sapere che ogni piantagione, indipendentemente dalla qualità di caffè che vi viene coltivato, produce un chicco di caffè unico per sapore e struttura aromatica. Ciò avviene perchè i terreni su cui crescono le piantagioni si nutrono dei frutti delle colture limitrofe, le essenze e i sapori di questi frutti vengono assorbiti dalle piante che le trasferiscono ai chicchi. Questo fa sì che la scelta del chicco va operata sulla base del sapore finale che si desidera creare.

Una volta scelta la qualità di caffè da acquisire, un campione

Visto da vicino.Il chicco Moak

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del lotto trattato viene inviato presso il nostro laboratorio, qui viene esaminato per la prima volta e se i rigorosi parametri di qualità imposti dall’azienda sono rispettati, si procede all’acquisizione.Il caffè comincia un lungo viaggio attraverso i mari, dentro sacchi di iuta per permetterne la traspirazione, che può durare anche un mese. È proprio per assicurarsi che dopo un viaggio così lungo, non abbia subito danni causati dalle condizioni climatiche o dalla cattiva conservazione, che non appena in porto viene sottoposto a un ulteriore controllo che ne deve confermare i parametri qualitativi rilevati nel campione di prova. Se anche questa volta il chicco supera l’esame, i nostri tecnici provvedono a stoccarlo all’interno dei silos in attesa della tostatura, ma di questo elaborato e affascinante processo ci occuperemo nel prossimo numero.

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di Dino della Casa

Un’abitudine in uso presso le dimore aristocratiche era quella, dopo la cena, di trasferirsi in un’apposita sala per fumare, da soli o più spesso in compagnia. Accanto al sigaro, la servitù era solita portare in questa stanza anche uno o più liquori, che accompagnavano piacevoli pause durante la fumata e addolcivano la bocca dal sapore di caffé. Nacquero quindi i cosiddetti “ammazzacaffé”, che nel corso degli anni sono usciti dalle ville dell’alta borghesia per diventare una consuetudine ancora oggi molto in voga, specialmente dopo

Gli ammazzacaffé, una grande tradizione italiana

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una grande tradizione italiana

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pranzi o cene sontuose. Naturale, quindi, che sia nato un vero e proprio mercato di “ammazzacaffé”, con declinazioni anche molto diverse tra loro per soddisfare ogni tipo di palato. I più tradizionalisti, indubbiamente, puntano sull’amaro, alla cui famiglia appartengono come è noto una miriade di varietà. Si tratta di un liquore aromatizzato, spesso arricchito e impreziosito da una componente vegetale che ne caratterizza l’odore e alcune proprietà (non è raro trovare infusi di erbe medicinali). Innumerevoli sono quelli che si possono citare: dall’Amaro Giuliani allo Jägermeister, dall’Amaro Averna all’Amaretto di Saronno, dal Petrus al Cynar, dal Kambusa Bonomelli al Fernet Branca all’Amaro Ramazzotti. Senza contare le sempre apprezzatissime lavorazioni artigianali, dove non mancano implicazioni religiose (chi non ha mai sentito di amari prodotti da conventi di frati?) o antiche ricette che si tramandano di generazione in generazione. Un’alternativa all’amaro è la sambuca, liquore a base di anice stellato e successivamente aromatizzato con diverse erbe. L’originale ricetta di questo preparato proviene dagli antichi ricettari Certosini. La base della sambuca è costituita dagli olii essenziali ricavati dalla distillazione a vapore di anice stellato (e/o anice verde) e finocchio. Tali ingredienti, attraverso la distillazione, conferiscono al liquore un forte profumo di anice. Contiene anche estratti di fiore di sambucus bianco dal quale deriva il nome, nonché, in alcune preparazioni, finocchietto selvatico, timo, menta piperita, genziana etc. Gli olii così ottenuti vengono poi macerati e infusi in alcool allo stato puro, il tutto addizionato da una soluzione concentrata di zucchero e altri aromi naturali.Alternativa ad amari e sambuca è l’acquavite, la cui tecnica di produzione era già nota ai Babilonesi e agli Egizi, ma fu poi abbandonata da Greci e Romani prima di conoscere una nuova gloria attorno al X secolo, per merito della Scuola medica salernitana, che importò tecniche e conoscenze utilizzate dagli Arabi. Fanno parte di questa famiglia celebri distillati come il whisky, il Cognac o l’Armagnac, i quali a loro volta devono essere invecchiati in botti di legno per seguire il disciplinare di produzione. Per le grappe, invece, ciò dipende soltanto dalla scelta dell’azienda produttrice. La decantazione del preparato in botti di legno fa sì che i distillati si arricchiscano di aromi, molto apprezzati dagli intenditori.Una citazione a parte meritano poi altri liquori comunemente utilizzati come “ammazzacaffé” e di frequente produzione artigianale, come il limoncello (o limoncino nelle regioni del Nord Italia), il mirto, il nocino e altri ancora. In questi casi sono protagonisti non le erbe ma i frutti di alberi o arbusti, che adeguatamente preparati e infusi in soluzione alcolica, rendono conto anch’essi della varietà e della tradizione italiana per la bevuta del dopo caffé.

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di Gian Paolo Galloni

Zonda C12, che è la prima vettura Pagani realizzata dall’atelier di San Cesario sul Panaro, venne presentata al Salone di Ginevra nel 1999. Zonda C12 è stata ideata, progettata e sviluppata dall’atelier con passione e obbiettività, al fine di esprimere l’arte e la tecnologia del carbonio e di esaltare la natura dei materiali utilizzati. Tutto ciò nel rispetto di un concetto di vettura semplice, leggero e aerodinamicamente deportante in ogni condizione, e nella promessa di regalare sensazioni particolari di guida a tutte le velocità. Una promessa che è stata mantenuta e assicurata dalla sospensione molto curata dal punto di vista elastocinematico, dalla buona distribuzione dei pesi e dal baricentro molto basso. Sotto la livrea ispirata alle Mercedes gruppo C Frecce d’argento, vive l’essenza di un vento inconfondibile, dove arte e scienza si combinano per comporre una sinfonia unica, affascinante e vertiginosa. Come la passione di chi s’innamora, l’esecuzione melodica nasce dal motore per poi farsi sempre più crescente e coraggiosa, fino a esplodere in una fiammata blu dai quattro scarichi. Alla Zonda C12 sono seguite altre otto versioni, l’ultima in ordine di tempo è stata nel 2010 la Zonda Tricolore, che la Pagani ha realizzato in occasione della Celebrazione del 50° Anniversario delle Frecce Tricolori, come tributo alla Pattuglia Acrobatica Nazionale.La Hauyra, che affianca la Zonda, ha fatto la sua apparizione sul mercato quest’anno e ha già suscitato grande interesse e ammirazione sia nella stampa specializzata sia negli amanti

delle supercar. Lo studio di questa nuova vettura è iniziato nel 2003, anno della presentazione della Zonda S Roadster. Come ricorderete i primi anni 2000 sono stati importanti per il mondo delle supercar. L’impegno delle grandi case automobilistiche ha contribuito alla nascita di vetture straordinarie come la Bugatti Veyron, la Porsche GT, la Ferrari Enzo, la Mercedes McLaren SLR. Questa situazione ha portato Horacio Pagani e il suo staff a diverse riflessioni riguardo il futuro della Zonda e a quello che poteva essere una nuova Pagani. Poiché il progetto originale della Zonda risaliva ai primi anni ‘90, decisero di immaginare una vettura completamente nuova nella forma, nella dinamica, nelle dimensioni e tecnologie. La Huayra, pur avendo lo stesso family feeling della Zonda, è completamente nuova. L’idea che ha motivato la ricerca alla Pagani, è stata quella di dare la sensazione di un aereo in fase di decollo. La Huayra è la prima vettura al mondo che ha l’aerodinamica variabile grazie alle sospensioni attive anteriori e a quattro flap, 2 anteriori e 2 posteriori, che consentono un bilanciamento ottimale con un cx (coefficiente di penetrazione) e un cz (carico verso il basso) variabile ed una minore area frontale. Ciò consente di avere in qualsiasi frangente le migliori condizioni di tenuta di strada. Questo senza perdere l’essenza del loro pensiero, cioè seguire la filosofia rinascimentale di Leonardo da Vinci che vede arte e scienza camminare insieme. La chiave del Rinascimento, secondo Horacio Pagani, è stata l’intellettualità manuale.

Zonda e Huayra.Figlie del vento argentino

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