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5. LA «TETTONICA DELLE PLACCHE» I fenomeni sismici e vulcanici sono la testimonianza di un’attività interna del nostro pianeta che può rendere ragione dell’esistenza dei cicli litogenetici e geologici di cui abbiamo parlato. Queste modificazioni lente e continue della Terra sono evidentemente il frutto di una dinamica interna. Il modello della «tettonica delle placche», attualmente accettato, costituisce un modello attraverso il quale tutti i fenomeni osservati possono essere intercorrelati e inseriti all’interno di un unico processo evolutivo della Terra. 1) LA STRUTTURA INTERNA DELLA TERRA Un importante contributo alla conoscenza della struttura interna del nostro pianeta è venuto dalla sismologia: lo studio della propagazione delle onde sismiche e delle variazioni di velocità e direzione che subiscono nell’attraversare il pianeta ha permesso di evidenziare come questo sia costituito da materiali di diversa natura, fornendo una sorta di «radiografia» dell’interno della Terra. Infatti, un’onda meccanica che si propaga all’interno di un mezzo omogeneo possiede una velocità di propagazione costante e una traiettoria perpendicolare al fronte d’onda; inoltre, nell’attraversare la superficie di separazione di due materiali di diversa natura, l’onda modifica la propria velocità e la direzione. La velocità di propagazione dell’onda dipende dalla rigidità e densità del mezzo attraversato ed è maggiore nei solidi rigidi, minore nei solidi plastici e nei fluidi. All’interno della Terra le onde sismiche seguono traiettorie curve e ci indica che i materiali attraversati modificano le loro caratteristiche con continuità. Vi sono, altresì, delle superfici sferiche, indicate come superfici di discontinuità, concentriche rispetto alla superficie esterna del pianeta (fig. 1), in corrispondenza delle quali si osservano brusche variazioni di direzione e di velocità. Qui, evidentemente, le caratteristiche dei materiali cambiano in modo repentino. Si è osservato, inoltre, che per ogni sisma esiste una zona d’ombra, tra gli 11.000 e i 16.000 km dall’epicentro, in cui non giungono le onde S ed arriva solo una piccolissima parte dell’energia delle onde P: ciò ha permesso di scoprire l’esistenza di un nucleo costituito da materiali diversi rispetto alla parte esterna del pianeta, detta mantello, tale da determinare una forte rifrazione delle onde P. Il notevole rallentamento subito dalle onde P nel nucleo e la sua impenetrabilità alle onde S hanno evidenziato come questo debba essere fluido molto denso. La superficie di separazione tra il nucleo e l’esterno del pianeta è detta discontinuità di Gutenberg e si trova a 2.900 km di profondità. Attraverso lo stesso tipo di osservazioni è stata individuata un’altra superficie di discontinuità interna al nucleo, detta discontinuità di Lehmann, situata a 5.170 km di profondità, che separa il nucleo interno, solido e denso, dal nucleo esterno fluido. Analogamente il mantello è separato dalla crosta, il sottile involucro roccioso che ricopre l’intero pianeta, da una superficie di discontinuità detta discontinuità di Mohorovicic, situata a una profondità variabile tra i 5 e i 70 km. Infine, si è osservato che esiste una zona all’interno del mantello, tra i 70 e i 250 km di profondità, in cui le onde sismiche subiscono una notevole diminuzione di velocità, il che indica la presenza di materiali meno densi o parzialmente fusi. Questa zona, che evidenzia un comportamento plastico, è stata denominata astenosfera, mentre l’insieme della crosta terrestre e della prima parte del mantello, che evidenziano un comportamento rigido, è indicata globalmente col nome di litosfera.

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Page 1: 5. LA «TETTONICA DELLE PLACCHE» · 2020-01-31 · 5. LA «TETTONICA DELLE PLACCHE» I fenomeni sismici e vulcanici sono la testimonianza di un’attività interna del nostro pianeta

5. LA «TETTONICA DELLE PLACCHE» I fenomeni sismici e vulcanici sono la testimonianza di un’attività interna del nostro pianeta che può rendere ragione dell’esistenza dei cicli litogenetici e geologici di cui abbiamo parlato. Queste modificazioni lente e continue della Terra sono evidentemente il frutto di una dinamica interna. Il modello della «tettonica delle placche», attualmente accettato, costituisce un modello attraverso il quale tutti i fenomeni osservati possono essere intercorrelati e inseriti all’interno di un unico processo evolutivo della Terra. 1) LA STRUTTURA INTERNA DELLA TERRA Un importante contributo alla conoscenza della struttura interna del nostro pianeta è venuto dalla sismologia: lo studio della propagazione delle onde sismiche e delle variazioni di velocità e direzione che subiscono nell’attraversare il pianeta ha permesso di evidenziare come questo sia costituito da materiali di diversa natura, fornendo una sorta di «radiografia» dell’interno della Terra. Infatti, un’onda meccanica che si propaga all’interno di un mezzo omogeneo possiede una velocità di propagazione costante e una traiettoria perpendicolare al fronte d’onda; inoltre, nell’attraversare la superficie di separazione di due materiali di diversa natura, l’onda modifica la propria velocità e la direzione. La velocità di propagazione dell’onda dipende dalla rigidità e densità del mezzo attraversato ed è maggiore nei solidi rigidi, minore nei solidi plastici e nei fluidi. All’interno della Terra le onde sismiche seguono traiettorie curve e ci indica che i materiali attraversati modificano le loro caratteristiche con continuità. Vi sono, altresì, delle superfici sferiche, indicate come superfici di discontinuità, concentriche rispetto alla superficie esterna del pianeta (fig. 1), in corrispondenza delle quali si osservano brusche variazioni di direzione e di velocità. Qui, evidentemente, le caratteristiche dei materiali cambiano in modo repentino.

Si è osservato, inoltre, che per ogni sisma esiste una zona d’ombra, tra gli 11.000 e i 16.000 km dall’epicentro, in cui non giungono le onde S ed arriva solo una piccolissima parte dell’energia delle onde P: ciò ha permesso di scoprire l’esistenza di un nucleo costituito da materiali diversi rispetto alla parte esterna del pianeta, detta mantello, tale da determinare una forte rifrazione delle onde P. Il notevole rallentamento subito dalle onde P nel nucleo e la sua impenetrabilità alle onde S hanno evidenziato come questo debba essere fluido molto denso. La superficie di separazione tra il nucleo e l’esterno del pianeta è detta discontinuità di Gutenberg e si trova a 2.900 km di profondità. Attraverso lo stesso tipo di osservazioni è stata individuata un’altra superficie di discontinuità interna al nucleo, detta discontinuità di Lehmann, situata a 5.170 km di profondità, che separa il nucleo interno, solido e denso, dal nucleo esterno fluido. Analogamente il mantello è separato dalla crosta, il sottile involucro roccioso che ricopre l’intero pianeta, da una superficie di discontinuità detta discontinuità di Mohorovicic, situata a una profondità variabile tra i 5 e i 70 km. Infine, si è osservato che esiste una zona all’interno del mantello, tra i 70 e i 250 km di profondità, in cui le onde sismiche subiscono una notevole diminuzione di velocità, il che indica la presenza di materiali meno densi o parzialmente fusi. Questa zona, che evidenzia un comportamento plastico, è stata denominata astenosfera, mentre l’insieme della crosta terrestre e della prima parte del mantello, che evidenziano un comportamento rigido, è indicata globalmente col nome di litosfera.

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2) LA COMPOSIZIONE DELLA TERRA Incrociando informazioni provenienti da diversi ambiti di ricerca, è stato possibile avanzare ipotesi sulla composizione interna della Terra. I calcoli effettuati relativamente alla sua massa e alle sue dimensioni stimano una densità media di circa 5,52 gr/cm3. La crosta, a noi nota e accessibile, evidenzia una composizione eterogenea e possiede densità variabile dai 2,7 gr/cm3 per le rocce granitiche ai 3 gr/cm3 per quelle basaltiche. In base al valore della densità media si deduce quindi che gli involucri interni del pianeta debbano possedere una densità nettamente superiore. Le proprietà fisiche desumibili dal comportamento di questi involucri nei confronti delle onde sismiche, associate allo studio in laboratorio del comportamento dei materiali, consentono di avanzare ipotesi sulla composizione degli strati interni della Terra. Al di sotto della crosta, separato dalla discontinuità di Mohorovicic, si trova il mantello terrestre, che rappresenta complessivamente l’82% del volume del pianeta. Nel passaggio dalla crosta al mantello le onde sismiche evidenziano un repentino aumento di velocità, segno di una maggiore rigidità e densità dei materiali, che varia all’interno del suo spessore da 3,3 a 5,6 gr/cm3. Tuttavia, questa variazione non è continua in tutto lo spessore del mantello: si è detto, infatti, che tra i 70 e i 250 km di profondità esiste uno strato di materiale a comportamento plastico, l’astenosfera, al di sotto del quale la rigidità del mantello torna ad aumentare con la profondità. Anche la pressione cresce con la profondità, passando da 9 a 1.400 kbar, e i materiali che in simili condizioni evidenziano il comportamento più vicino a quello del mantello sono le peridotiti, rocce ultrabasiche costituite da olivina e pirosseni. La natura peridotitica del mantello sembra confermata da frammenti di roccia emessi da alcuni vulcani. Con l’aumentare della profondità il mantello sembra mantenere la sua composizione elementare di Fe, Mg, Si, O, che passano, però, a minerali di maggiore densità, come lo spinello, e, a profondità e pressioni ancora maggiori, collassano nei corrispondenti ossidi di FeO e MgO. Al di sotto del mantello si trova il nucleo terrestre, che occupa il 16% del volume totale ed è a sua volta distinto in una parte esterna fluida e una parte interna solida, separate dalla discontinuità di Lehmann. La discontinuità di Gutenberg, che segna il passaggio dal mantello al nucleo, corrisponde a un brusco cambiamento di densità, che passa dai 5,6 gr/cm3 alla base del mantello ai 9,7 gr/cm3 del nucleo esterno. All’interno del nucleo la pressione aumenta da 1.400 a 3.600 kbar e la densità raggiunge il valore di 13 gr/cm3. Sulla composizione del nucleo sono state avanzate diverse ipotesi e attualmente la più accreditata, suggerita anche dalla composizione di alcune meteoriti metalliche giunte sulla Terra, è quella di una lega di Fe con un 5% di Ni, insieme a qualche elemento più leggero, come Si o S, tale da abbassare il valore della densità a quello stimato sulla base dei dati sismici. 3) LA CROSTA TERRESTRE E L’ESPANSIONE DEI FONDI OCEANICI La crosta terrestre è un sottile involucro roccioso che riveste esternamente il pianeta il cui spessore varia da circa 6 km nei fondi oceanici a 35 km nelle aree continentali, fino ad un massimo di 60-70 km sotto le grandi catene montuose. La crosta continentale, che comprende le terre emerse e la loro prosecuzione sotto il livello del mare (piattaforma e scarpata continentale), e la crosta oceanica, che è invece totalmente sommersa dagli oceani, evidenziano caratteristiche totalmente diverse. 3.1 LA CROSTA CONTINENTALE La prima e più evidente differenza tra crosta continentale e oceanica riguarda lo spessore, che mediamente differisce tra le due di circa 30 km. Poiché il livello medio delle terre emerse è circa 4.000 m maggiore del fondo degli oceani, si deduce che la crosta continentale è più affondata nel mantello rispetto alla crosta oceanica e ciò suggerisce l’idea che la crosta, in virtù della sua minore densità, si trovi a «galleggiare» sul mantello, affondando in esso in misura direttamente proporzionale al suo spessore. La posizione di questo equilibrio isostatico raggiunto dalla crosta è evidenziata dalla discontinuità di Mohorovicic. Molto diverse appaiono anche la tipologia e l’età delle rocce: la crosta oceanica ha una struttura stratiforme ed è costituita da un piccolo strato di sedimenti, al di sotto dei quali si trovano basalti e, più in profondità, gabbri, i corrispondenti intrusivi dei basalti. Si tratta di una struttura relativamente giovane, poiché l’età massima registrata per le rocce che la costituiscono arriva a 190 milioni di anni. La crosta continentale, al contrario, conserva rocce antichissime, risalenti fino a 4 miliardi di anni fa, ha una composizione eterogenea e una struttura complessa. Tuttavia, nonostante l’antichità delle sue rocce, la crosta continentale è una struttura in continua evoluzione, determinata dal ripetersi incessante dei cicli geologici. Nella crosta continentale si distinguono aree cratoniche, ossia zone più antiche, che sono state sedi di processi orogenetici in tempi molto lontani (oltre un miliardo di anni fa) e si trovano attualmente in una situazione di stabilità, e fasce orogenetiche, in cui si sono verificati in tempi più recenti, o sono ancora in atto, processi orogenetici dei quali resta ancora il segno, costituito dalla presenza di una catena montuosa. Le fasce orogenetiche, caratterizzate da intensa attività sismica e vulcanica, risultano fortemente interessate da processi erosivi e sono settori particolarmente ispessiti della crosta, che infatti può arrivare a 60-70 km di spessore. Considerato che le vette più alte del nostro pianeta non toccano i 9.000 m, ciò significa che ogni catena montuosa è dotata di profonde radici all’interno del mantello che le consentono di rimanere sollevata. Quando, in seguito all’erosione, i rilievi della crosta vengono progressivamente consumati, il peso del settore di crosta eroso diminuisce e l’area si solleva gradualmente: al termine di questo lungo processo, la catena montuosa risulta spianata, le sue radici sono scomparse e la crosta assume lo spessore medio di 35 km, tipico delle aree cratoniche.

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In questi lenti processi di aggiustamento isostatico il mantello assume un comportamento plastico: infatti, anche un materiale rigido, sottoposto a una forza continua e prolungata nel tempo, può comportarsi come un fluido di viscosità elevatissima, deformandosi lentamente. 3.2 LA CROSTA OCEANICA La conoscenza della crosta oceanica è stata per lungo tempo molto limitata e la sua esplorazione, avvenuta nel corso degli anni Settanta del Novecento, ha portato a quella che venne definita la «riscoperta della Terra». Fra le scoperte più importanti si colloca quella delle dorsali oceaniche, rilievi alti 2.000-3.000 m ed ampi dai 1.000 ai 4.000 m, situati sul fondo dell’oceano ed estesi per oltre 60.000 km lungo la superficie del pianeta. La cresta delle dorsali presenta una struttura analoga a quella delle fosse tettoniche e viene infatti indicata col nome di rift valley: qui la crosta è molto assottigliata ed è sede di intensa attività sismica e vulcanica. Dal sistema di faglie che delimitano la rift valley risale continuamente magma basaltico proveniente dal mantello che, fuoriuscendo sul fondo dell’oceano, genera le tipiche lave a cuscini. Vi è poi un sistema di faglie trasversali rispetto alle dorsali, dette faglie trasformi, che disarticola l’intera dorsale in tratti spostati rispetto a quelli contigui. Ulteriori strutture scoperte sul fondo degli oceani sono le cosiddette fosse abissali, profonde depressioni del fondale oceanico lunghe migliaia di km, che arrivano fino a 10.000 km di profondità. Poiché alle fosse abissali è associato sempre un intenso vulcanismo, essenzialmente di tipo esplosivo, queste sono fiancheggiate da archi di isole vulcaniche, quando si trovano in mare aperto (come le isole Marianne, parallele all’omonima fossa), o da archi vulcanici, se si trovano ai margini di un continente (come le Ande, parallele alla fossa del Perù-Cile). In corrispondenza delle fosse si evidenzia anche un’intensa attività sismica, con ipocentri che vanno da superficiali, in prossimità della fossa, a molto profondi, allontanandosi dalla fossa in direzione dell’arco vulcanico, distribuiti su piani ideali, i cosiddetti piani di Benioff, che si immergono in profondità con un’angolazione compresa fra i 30° e i 70°. 3.3 L’ESPANSIONE DEI FONDI OCEANICI Nel 1960 H. Hess propose una spiegazione di quanto era stato scoperto sui fondali oceanici. La continua emissione di lave basaltiche dalle dorsali oceaniche lasciava ipotizzare che esistessero, in loro corrispondenza, correnti ascensionali di materiali molto caldi provenienti dal mantello. Giunte in prossimità della litosfera, queste correnti si dividono in due rami che si spostano in direzioni opposte rispetto alla dorsale, sottoponendo la litosfera soprastante a forze di attrito che tendono a trascinare i due lembi della dorsale in direzioni opposte. L’effetto di queste correnti è il forte assottigliamento della litosfera in corrispondenza delle dorsali e la formazione delle faglie che delimitano la rift valley. La parte del materiale che risalendo passa allo stato fuso per effetto della diminuzione di pressione fuoriesce da queste faglie come magma basaltico e solidifica rapidamente sul fondo della rift valley, generando basalti e, più in profondità, gabbri. Queste rocce di nuova formazione vengono nuovamente lacerate dalle forze distensive in atto e restano saldate in parte su uno dei fianchi della dorsale, in parte sull’altro. In base a tale ipotesi, le dorsali oceaniche costituirebbero la struttura presso la quale la crosta oceanica si rinnova e si espande in modo lento e continuo. Tuttavia, se la crosta oceanica si accrescesse senza venire in alcun modo consumata, le dimensioni della Terra dovrebbero aumentare progressivamente, fatto di cui non si ha evidenza. Deve esistere quindi una forma di consumo della crosta oceanica, che ha luogo evidentemente in corrispondenza delle fosse abissali, dove la litosfera, inflettendosi nel mantello, viene riassorbita. Queste inflessioni litosferiche si devono al fatto che i materiali caldi in risalita sotto le dorsali oceaniche, una volta diramatisi, continuano a spostarsi al di sotto delle piane abissali e, aumentando di densità in seguito al progressivo raffreddamento, cominciano a scendere. La litosfera segue questo movimento di subduzione e si inflette generando le fosse abissali. Venendo a contatto con i materiali caldi del mantello, la litosfera va incontro a fusione e in parte viene assimilata nel mantello, in parte risale per effetto della minore densità e va ad alimentare il vulcanismo dell’arco associato. La superficie di Benioff corrisponderebbe dunque alla superficie lungo la quale la litosfera si immerge nel mantello e a 700 km di profondità, dove non si registrano più gli ipocentri dei sismi, risulta totalmente riassorbita (fig. 2). Nel presentare questa affascinante teoria lo stesso Hess affermò che sarebbe rimasta «un saggio di geopoesia» finché non si fosse trovata una prova che ne avesse confermato la validità.

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3.4 LE CONFERME DEL PALEOMAGNETISMO La Terra, come il Sole e molti altri pianeti, possiede un campo magnetico approssimativamente dipolare, il cui andamento è simile a quello che verrebbe generato da una barra magnetica posta al centro della Terra, avente asse magnetico inclinato di 11° rispetto all’asse di rotazione terrestre (fig. 3).

L’origine di questo campo magnetico è ancora discussa, anche se l’ipotesi attualmente più accreditata si rifà al modello della dinamo ad autoalimentazione, in base al quale la presenza al centro della Terra di un nucleo di ferro fuso, agitato da moti convettivi, potrebbe essere all’origine di questo campo. Il paleomagnetismo è un settore di ricerca che si occupa dello studio del campo magnetico fossile presente nelle rocce. Quando una roccia si forma per solidificazione di un fuso, al suo interno i minerali magnetizzabili si comportano come piccole calamite, le quali, orientandosi nel campo geomagnetico, conferiscono alla roccia una magnetizzazione che viene conservata nel tempo, fino alla successiva fusione. La magnetizzazione delle rocce ha rivelato che il campo magnetico terrestre esiste da almeno 3,5 miliardi di anni e ha subìto nel tempo ripetute inversioni, passando dalla direzione attuale, detta normale, alla direzione opposta, detta inversa. Attraverso campioni di roccia accuratamente datati è stata costruita la scala paleomagnetica (fig. 4), che riporta le inversioni magnetiche avvenute negli untimi cinque milioni di anni. Al suo interno si individuano quattro epoche magnetiche, in cui la direzione del campo geomagnetico si è mantenuta costante, salvo brevi inversioni, dette eventi.

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Lo studio del paleomagnetismo ha fornito dati molto importanti per la comprensione della dinamica della crosta terrestre. Le navi oceanografiche che esploravano il fondo degli oceani effettuavano, durante il loro percorso, registrazioni continue del campo magnetico terrestre, attraverso le quali veniva evidenziata la presenza di ripetute anomalie magnetiche: vi erano, infatti, zone in cui il campo magnetico misurato risultava minore di quello previsto su base teorica (anomalie negative) e zone in cui invece risultava superiore (anomalie positive). Le anomalie magnetiche, alternativamente positive e negative, risultavano distribuite in fasce parallele e simmetriche rispetto all’asse delle dorsali oceaniche (fig. 5).

F. Vine e D. Mattews diedero un’interpretazione a queste evidenze rifacendosi alla teoria dell’espansione dei fondi oceanici proposta da Hess: le lave basaltiche che fuoriescono dal fondo della rift valley, solidificando, acquistano una magnetizzazione concorde con il campo geomagnetico presente in quel momento. Successivamente, in seguito alla risalita di altra lava, queste rocce vengono lacerate e si allontanano in direzioni opposte, saldate ai due lembi della dorsale. Se il campo geomagnetico inverte la propria direzione, le rocce acquisiscono una magnetizzazione di direzione opposta alla precedente. Il campo misurato dalle navi oceanografiche è la somma del campo geomagnetico e del campo magnetico fossile presente nelle rocce che costituiscono il fondale oceanico. Di conseguenza, questo risulterà maggiore di quello calcolato se, nel punto in cui viene effettuata la misurazione, le rocce del fondale possiedono un campo fossile concorde con il campo magnetico terrestre, mentre risulterà minore se i due campi hanno direzioni discordi. L’ipotesi di Vine e Mattews ha trovato conferme nei campionamenti dei fondi oceanici: allontanandosi dalla dorsale i campioni prelevati evidenziano rocce sempre più vecchie, con strati di sedimento progressivamente crescenti. Correlando l’ampiezza delle bande magnetiche con la scala paleomagnetica è stato possibile stabilire sia la velocità di espansione del fondo oceanico, pari a pochi centimetri all’anno, sia l’età massima della crosta oceanica, la quale, come è stato anticipato, è di 190 milioni di anni. 4) IL MODELLO DELLA «TETTONICA DELLE PLACCHE» Quello della «tettonica delle placche» è un modello «globale» dell’evoluzione del nostro pianeta, all’interno del quale tutti i fenomeni osservati nella litosfera trovano una loro spiegazione e interrelazione. In base a questo modello la litosfera terrestre, ossia l’insieme della crosta e della parte rigida del mantello, è attraversata in tutto il suo spessore da fasce caratterizzate da forte attività sismica e vulcanica, identificabili con le dorsali oceaniche, presso le quali la litosfera si accresce, con le fosse di subduzione, dove la litosfera viene riassorbita nel mantello, e con le faglie trasformi, in corrispondenza delle quali due lembi di litosfera scorrono uno rispetto all’altro senza implicare consumo o creazione di nuova litosfera. Questo sistema di fasce costituisce una rete che individua un certo numero di placche litosferiche (fig. 6), ognuna delle quali può essere costituita da litosfera di tipo oceanico, di tipo continentale, oppure di entrambi i tipi.

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Una placca può accrescere le proprie dimensioni, se delimitata prevalentemente da margini costruttivi (dorsali oceaniche), può diminuirle, se prevalgono i margini distruttivi (fosse di subduzione), o pu mantenere dimensioni più o meno costanti, se i due processi sono bilanciati o se è delimitata da margini conservativi (faglie trasformi). In questo accrescersi e consumarsi delle placche litosferiche la crosta continentale svolge in alcuni casi un ruolo del tutto passivo, venendo semplicemente trasportata dal movimento della placca a cui è solidale: ad esempio, quando un oceano è attraversato da una dorsale, tenderà ad espandersi e i continenti ai suoi margini ad allontanarsi, come accade tra Europa e Nord America e tra Africa e Sud America per effetto della dorsale medio-atlantica. In altri casi, invece, la crosta continentale può subire profonde modificazioni: quando un continente viene a trovarsi a ridosso di una fossa oceanica, la crosta continentale, meno densa, non entra in subduzione, mentre la crosta oceanica si inflette sotto il margine del continente. Al margine continentale si saldano frammenti di sedimenti distaccatisi dalla crosta oceanica in subduzione e ciò determina, insieme alle enormi pressioni che si sviluppano, l’ispessimento della crosta continentale: si ha così il sollevamento di una catena montuosa, che procede finché la fossa resta attiva, contrastato unicamente dall’erosione. La fusione dei materiali sottoposti alle elevate pressioni in gioco alimenta un intenso vulcanismo, essenzialmente di tipo esplosivo, che dà origine ad un arco vulcanico (fig. 7). Quando la collisione avviene tra due placche oceaniche, ai margini della fossa si osserva la formazione di un arco di isole vulcaniche, dovuto all’accumulo sul fondale marino di materiali fusi durante il processo di subduzione, che risalgono in superficie spinti dalla minore densità (fig. 8).

Quando entrambe le placche ai margini di una fossa comprendono dei continenti, questi, consumata la crosta oceanica, entrano inevitabilmente in collisione: il risultato di un simile processo è la scomparsa dell’oceano originariamente interposto e la loro unione in un unico, grande continente, all’interno del quale una lunga catena montuosa costituisce una cicatrice, segno della saldatura avvenuta. Sedimenti marini e lembi del pavimento basaltico della crosta oceanica in subduzione vengono compressi tra le due masse continentali, deformati, metamorfosati, spinti ad accavallarsi gli uni sugli altri e si ritrovano lungo l’asse della nuova catena montuosa (fig. 9).

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La collisione continentale porta all’inattività della fossa e all’apertura di una nuova fossa in qualche altro punto della litosfera. Analogamente, quando il flusso convettivo ascensionale che sostiene una dorsale si sposta in un altro punto del pianeta, la dorsale cessa la sua attività e si avvia l’apertura di una nuova dorsale nella parte di litosfera sollecitata dal flusso ascensionale. Ciò può avvenire sia sul fondo degli oceani che internamente ai continenti: qui la litosfera si assottiglia e si frattura, generando grandi fosse tettoniche come, ad esempio, la Great Rift Valley in Africa. L’emissione di lave dalle fratture genera nuova crosta, che diverrà la crosta del nuovo oceano, mentre il persistere delle forze tettoniche distensive determinerà la lacerazione del continente. Invasa dalle acque circostanti, la depressione così formata si trasforma in un giovane oceano, come è accaduto per il Mar Rosso, formatosi venti milioni di anni fa (fig. 10). Questo continuerà ad espandersi e i continenti ad allontanarsi fin quando al di sotto della dorsale si manterrà il flusso ascensionale. Cessata l’attività della dorsale, l’apertura di qualche fossa di subduzione può determinare nuovamente l’avvicinamento e la saldatura dei due continenti precedentemente separati.

Il modello della «tettonica delle placche», presentato da Wilson nel 1965, riportò alla luce quanto Wegener aveva già intuito circa quarant’anni prima, introducendo l’idea dell’esistenza di un ciclo del supercontinente o «ciclo di Wilson»: la distribuzione delle masse continentali e degli oceani nel nostro pianeta non possiede un assetto invariante nel tempo, ma subisce lenti e costanti mutamenti dovuti all’incessante movimento delle placche litosferiche. Ciò determina in alcuni casi la saldatura di masse continentali e la formazione di grandi continenti, in altri l’apertura di nuovi oceani all’interno delle masse continentali e la loro separazione in continenti distinti.

Page 8: 5. LA «TETTONICA DELLE PLACCHE» · 2020-01-31 · 5. LA «TETTONICA DELLE PLACCHE» I fenomeni sismici e vulcanici sono la testimonianza di un’attività interna del nostro pianeta

Anche questi processi hanno una loro ciclicità: la Pangèa ipotizzata da Wegener come unica terra emersa esistente 250 milioni di anni fa non è stato certamente il primo supercontinente del nostro pianeta, bensì il risultato della collisione di continenti ancora più antichi derivati dalla frammentazione di un supercontinente, chiamato Rodìnia, esistito circa 750 milioni di anni fa. 5) IL MOTORE DELLE PLACCHE LITOSFERICHE Il motivo principale per il quale la teoria della deriva dei continenti di Wegener non venne considerata al momento della sua presentazione, nonostante il supporto di numerose e convincenti prove, fu la mancanza di un motore capace di mettere in gioco forze tali da determinare lo spostamento delle enormi masse continentali. Quarant’anni dopo, il modello della «tettonica delle placche» fu accolto con una migliore disposizione grazie ai progressi della sismologia, che aveva fornito un modello di struttura del pianeta, alla conoscenza dei fondi oceanici, alla scoperta delle anomalie magnetiche, ma soprattutto in seguito alla scoperta della radioattività (Henri Becquerel, 1896), che aveva permesso di individuare una possibile fonte per l’energia interna del pianeta. Il fatto che l’interno della Terra fosse caldo era acquisito dall’esperienza: oltre ai fenomeni vulcanici, che portano in superficie materiali caldi provenienti dall’interno del pianeta, gli scavi di miniere evidenziavano come la temperatura aumentasse con la profondità. Il gradiente geotermico, ossia l’aumento della temperatura della Terra all’aumentare della profondità, ha un valore medio di 30 °C ogni 1.000 m, anche se varia ampiamente da zona a zona. La sorgente di questo calore interno, tuttavia, rimase sconosciuta per anni e l’unica origine che gli si poteva attribuire era il calore residuo che il pianeta conservava del suo stato primordiale, quando era costituito da una massa fusa. La scoperta della radioattività e l’individuazione di elementi radioattivi nella crosta terrestre permisero finalmente di individuare un’origine plausibile per il calore terrestre. Le rocce della crosta continentale mostrano una concentrazione di elementi radioattivi nettamente più alta delle rocce della crosta oceanica, ma nonostante questo il flusso termico misurato in corrispondenza dei due tipi di crosta è più o meno lo stesso. Questo ha portato ad ipotizzare che nelle aree oceaniche al flusso termico dovuto al decadimento radioattivo si aggiunga un flusso di calore proveniente dal centro della Terra, legato all’esistenza di moti convettivi nel mantello terrestre, dovuti alla lenta risalita di materiale caldo proveniente dalle zone più profonde del pianeta. Le cause delle disomogeneità termiche del mantello, all’origine dei moti convettivi, sono da ricercarsi nel calore prodotto dai decadimenti radioattivi all’interno del nucleo terrestre, calore che da un lato alimenta i moti convettivi nel nucleo esterno fuso, probabilmente all’origine del campo geomagnetico, dall’altro innesca lenti moti convettivi nel mantello, responsabili dell’apertura delle dorsali. Inoltre, secondo questo modello, dai punti più caldi alla base del mantello si innalzerebbero colonne di materiale che giungono direttamente sotto la litosfera, alimentando il vulcanismo dei cosiddetti punti caldi, cioè punti fissi rispetto al movimento delle placche litosferiche che si evidenziano in superficie come punti di intensa attività vulcanica effusiva, attiva da milioni di anni. I punti caldi si trovano, infatti, all’estremità di allineamenti di vulcani ormai estinti e la loro età è tanto maggiore quanto più grande è la distanza dal vulcano attivo.