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Il lavoro autonomo e il lavoro agile alla luce della legge n. 81/2017 a cura di Umberto Carabelli | Lorenzo Fassina CGIL Ufficio Giuridico 1. i Seminari della Consulta giuridica della CGIL

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Il lavoro autonomoe il lavoro agilealla luce della legge n. 81/2017a cura di Umberto Carabelli | Lorenzo Fassina

CGIL

Ufficio Giuridico

1.

i Seminari della Consulta giuridica della CGIL

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I seminari della Consulta giuridica CGILn. 1

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Consulta giuridica

Il lavoro autonomo e il lavoro agilealla luce della legge n. 81/2017

Atti del Seminario tenutosi a Roma il 15 dicembre 2017CGIL, Sala Di Vittorio

a cura diUmberto Carabelli e Lorenzo Fassina

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Copertina e progetto grafico: Antonella Lupi

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Saluto introduttivodi Lorenzo Fassina 9

RELAZIONI

Il lavoro autonomo nella prospettiva del rischiodi Piera Loi 15

Il lavoro agile nel collegamento negozialedi Amos Andreoni 31

Collaborazioni e lavoro occasionale tra autonomiae subordinazionedi Umberto Carabelli 41

L’«equo compenso» tra contratto collettivo e leggedi Lorenzo Zoppoli 65

Le tutele del welfare per i lavoratori non subordinatidi Stefano Giubboni 83

INTERVENTI

Claudio Treves 95Francesca Carnoso 99

Indice

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Massimo Cestaro 105Cristian Perniciano 109Paolo Terranova 115Arianna Avondola 121Emanuela Bizi 125

Conclusionidi Tania Scacchetti 129

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Il lavoro autonomo e il lavoro agilealla luce della legge n. 81/2017

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Care amiche, cari amici, care compagne e cari compagni,premesso che, vista la densità dei lavori, non ruberò molto

tempo per introdurre questa giornata di approfondimento,vorrei però che mi fosse concessa una nota personale per in-quadrare meglio le trame dell’iter che ha portato sino ad oggi ele ragioni del percorso che da oggi prende le mosse.

La nota personale consiste nella sostanziale – e casuale – coin-cidenza temporale tra l’inizio della mia assunzione di respon-sabilità dell’Ufficio giuridico e vertenze legali della CGIL e losvilupparsi della nuova strategia della Confederazione in temadi politiche del diritto.

Mi riferisco, ovviamente, alla redazione della Carta dei diritti(che ho avuto il piacere e l’onore di seguire dal suo nascere, si-no alla sua presentazione in Parlamento), alla formulazione epresentazione dei referendum in materia sociale e, più recente-mente, alla implementazione (assieme ai compagni degli Ufficivertenze territoriali e al Coordinamento avvocati Alte Corti) diuna strategia di contenzioso giudiziario frutto, come sappiamo,di arresti giurisprudenziali da noi non condivisi e da scelte legi-slative che si sono poste in evidente rotta di collisione con l’a-nima pro-labour della Confederazione: il riferimento è, nel pri-mo caso, alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichia-rato l’inammissibilità del referendum sui licenziamenti e, nel se-condo caso, alla questione della reintroduzione surrettizia dei

* Responsabile dell’Ufficio giuridico e vertenze legali della CGIL.

Saluto introduttivodi Lorenzo Fassina*

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vouchers, recentemente conclusa con l’importante ordinanza del-la Cassazione (della quale parlerà Umberto Carabelli).

Indubbiamente un biennio difficile, quello che sta per con-cludersi, denso di sfide e di risultati raggiunti, sia in terminisindacali che, in senso lato, culturali.

A mio avviso, infatti, il patrimonio della CGIL si è ulterior-mente accresciuto sulla base di una fondamentale consapevo-lezza, quella cioè di continuare ad essere un punto di riferimen-to imprescindibile per il mondo del lavoro.

E allora quella nota personale da cui ho preso le mosse sistempera inevitabilmente nel segno di una grande strategia col-lettiva che ha coinvolto milioni di cittadini e di lavoratori, aiquali la CGIL ha voluto offrire una prospettiva nuova, una vi-sione diversa rispetto al disegno (direi meglio, al pasticcio) pro-posto loro dalla classe politica nell’ultimo ventennio.

Ci troviamo quindi, ora, ad un punto di svolta cruciale perché,se è vero che il patrimonio di elaborazione raggiunto (a tutti i li-velli, sia giuridico che contrattuale) può farci dire – con una bat-tuta – di avere un grande avvenire dietro le spalle, è però eviden-te che da subito occorrerà affrontare nuove sfide, forse ancorapiù impegnative di quelle passate, perché si tratta di «dare gam-be» a quel prezioso patrimonio, farlo vivere tra la gente con l’im-pegno e l’esempio quotidiano di tutte e di tutti e a tutti i livelli.

In questo preciso contesto storico e politico, a mio avviso, laCGIL ha assolutamente bisogno, per continuare ad essere unpunto fermo di riferimento, di attrezzarsi ulteriormente sul ver-sante dell’elaborazione giuridica, in vista di una stagione politicanuova ed incerta.

La Carta dei diritti è indubbiamente un patrimonio di libertà edi civiltà, un punto di riferimento, ma certamente è anche unpunto di partenza che non impedisce, anzi stimola, un’ulterioreelaborazione scientifica che possa affrontare temi, anche par-zialmente nuovi (come ad esempio il lavoro nelle piattaformedigitali), o aggiornare tematiche già affrontate.

Insomma, per prepararsi ad un’operazione di questo genere,la CGIL ha bisogno di ricostituire, per certi aspetti di rifondare,uno spazio collettivo di dibattito e discussione per rispondere,non solo sul piano tattico, ma anche su quello strategico, allesfide sul futuro del diritto sociale in Italia e in Europa.

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L’Ufficio giuridico e vertenze legali della CGIL si è sempreavvalso dell’attività di una Consulta giuridica (fondata nel 1987su impulso di Bruno Trentin), composta da operatrici/ori deldiritto (magistrati e avvocati) e da autorevoli personalità delmondo accademico. L’Ufficio giuridico e la Consulta giuridicahanno organizzato in passato, periodicamente, incontri di ap-profondimento su «temi caldi» del diritto sociale europeo e na-zionale.

Il contributo della Consulta giuridica si è rivelato determi-nante nel rapporto instaurato con la rappresentanza politica inpiù di un’occasione, offrendo all’occorrenza spunti critici eproposte di modifica delle normative in corso di approvazionea livello parlamentare (molte delle leggi sul lavoro della primametà degli anni Novanta sono state elaboratore con il contribu-to attivo dei componenti della Consulta).

Anche se, attualmente, il dialogo con la predetta rappresen-tanza politica incontra notevoli difficoltà per le note opzioni dipolitica del diritto che caratterizzano la gestione delle dinami-che sociali, il dibattito scientifico all’interno della Consulta giu-ridica potrà – nella pluralità delle opzioni culturali comunquepro-labour – creare un’humus culturale da cui poter trarre spuntoper elaborare proposte di politica del diritto e giudiziaria daparte della CGIL, soprattutto in un momento di transizione,come quello attuale, verso nuovi scenari politici e sindacali.

Si tratta quindi di richiamare alla memoria (e farne tesoro) ilmetodo «aperto» di lavoro che ha caratterizzato l’attività dellaConsulta giuridica negli anni passati, per attualizzarlo nel qua-dro generale della strategia della CGIL, segnata ormai da unostigma inclusivo e dal perseguimento dell’obiettivo dell’unifica-zione del mondo del lavoro, nell’intento di garantire a chiun-que presti la propria attività lavorativa a favore di un «terzo»una tutela universale basata sui fondamentali principi della Co-stituzione.

Insisterei molto sul metodo, perché ritengo assolutamentecruciale che dal libero dibattito in seno alla Consulta giuridicasui temi indicati dalla Confederazione o che dovessero emerge-re con urgenza, possano essere prodotte elaborazioni, anche ar-ticolate, che la CGIL possa discutere, modificare, fare proprie,o al limite rigettare.

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Insomma, la nuova Consulta giuridica dovrà essere, a mioparere, un bacino di elaborazione sempre vivo per affrontarecon strumenti adeguati le attuali difficili contingenze economi-co-sociali.

Concludendo, come ho esplicitamente evidenziato nella lette-ra di invito che ho inviato a ciascuno dei componenti della Con-sulta, le future direttrici di attività sono sostanzialmente tre:

1) costituzione di un luogo di confronto culturale plurale e pe-riodico, sia in relazione alla contingenza, sia in vista di stra-tegie di più ampio respiro, in una prospettiva di apertura in-terdisciplinare e in spirito di dialogo anche con forme di as-sociazionismo pro-labour esterne alla CGIL;

2) possibilità di costituire gruppi di lavoro con il compito dianalisi (anche critica) dei cambiamenti legislativi in corso;

3) rafforzamento del rapporto tra la Consulta e la Rivista giuri-dica del lavoro e della previdenza sociale, qui rappresentata dalsuo direttore, Umberto Carabelli, a cui va il mio più sentitoringraziamento per aver dato un contributo fondamentale al-l’organizzazione scientifica di questo primo importante in-contro seminariale.

Ringrazio tutti i componenti della Consulta che hanno volutopartecipare oggi, i compagni della CGIL qui presenti, i consue-ti compagni di viaggio Amos Andreoni e Andrea Allamprese ela segretaria confederale Tania Scacchetti, nostro referente inapicibus che concluderà questo nostro incontro.

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RELAZIONI

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Introduzione

Lavoro autonomo e lavoro subordinato sono nel nostro ordi-namento, in modo conforme a tutti gli ordinamenti dell’U-nione Europea, le due categorie giuridiche all’interno dellequali sono state tradizionalmente ricondotte le prestazioni lavo-rative svolte nell’organizzazione produttiva esercitata secondomodelli organizzativi dell’impresa profondamente mutati. Ladefinizione di due fattispecie distinte (art. 2094 c.c. e art. 2222c.c.) è stata funzionale all’individuazione delle tutele da ricono-scere al prestatore di lavoro subordinato e con la speculare ne-gazione delle tutele al lavoratore autonomo.

Una serie di fenomeni economici e sociali pongono tuttaviail diritto del lavoro di fronte a cambiamenti di grande rilevanzasui quali è urgente riflettere immaginando soluzioni che perora sono solo abbozzate dai legislatori. Si potrebbe parlare diconvergenze tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, che èun altro modo per dire che anche il lavoro autonomo manifestabisogni di protezione determinati dalla situazione di debolezzaeconomica di fasce sempre più ampie di lavoratori autonomi.Non si deve dimenticare, inoltre, che la rapida diffusione dellavoro attraverso l’uso delle piattaforme digitali pone il dirittodel lavoro di fronte a dilemmi inediti, compreso quello dellautilità delle fattispecie (lavoro subordinato e lavoro autonomo)

* Università degli studi di Cagliari.

Il lavoro autonomo nella prospettiva del rischiodi Piera Loi*

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come criteri per l’assegnazione delle tutele a coloro che svolgo-no le prestazioni lavorative.

Da non dimenticare è anche il fatto che il confine tra le duefattispecie ha sempre rappresentato l’actio finium regundorum tradue branche del diritto: il diritto del lavoro e il diritto privato ecommerciale. Ci vuole quindi anche una buona dose di corag-gio per dire che la definizione dei confini non è più così chiarae che questo comporterà una revisione degli obiettivi e delcampo di applicazione del diritto del lavoro (il lavoro autono-mo come nuova frontiera del diritto del lavoro?) nonché unarevisione degli obiettivi e dell’azione del sindacato.

Da studiosi dobbiamo oggi provare a ricondurre a sistema gliinterventi recenti del legislatore (in particolare da ultimo lalegge 81/2017) che hanno disciplinato il lavoro autonomo al fi-ne di individuare, se possibile, una ratio complessiva, e tentaredi individuare principi interpretativi comuni o proporre altripercorsi. Si seguirà nella relazione il seguente schema:

a. Breve quadro europeo: il lavoro autonomo e le sue tutele so-no al centro dell’agenda sociale europea rilanciata attraversoil Pilastro dell’Europa sociale;

b. Quadro italiano. Analisi di due fenomeni: a) blurring dei con-fini tra lavoro autonomo e subordinato (già da tempo); b) per-dita della monoliticità del lavoro autonomo e proliferazionedelle species del genus lavoro autonomo c) tecniche legislative efondamenti delle tutele da riconoscere al lavoro autonomo;

c. Teoria del rischio.

1. Il lavoro autonomo nella UE

Da tempo i tradizionali confini, disegnati dalla dottrina edalla giurisprudenza di diversi ordinamenti giuridici continen-tali e di common law, ai fini della distinzione tra lavoro autono-mo e lavoro subordinato, sono diventati mobili e, per certi ver-si, sono addirittura scomparsi1.

1 Eurofound, Exploring Self-employment in the European Union, Publications Of-fice of the European Union, Luxembourg, 2017, p. 3.

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Questo significa che alcune categorie di lavoratori autonomisvolgono la loro attività in condizioni molto simili a quella dilavoratori subordinati: la tradizionale autonomia nella deter-minazione delle modalità di svolgimento dell’opera o del servi-zio è sfumata e si è ridotta la capacità di determinare il com-penso o le condizioni di lavoro. L’effetto della scomparsa deiconfini tra lavoro autonomo e subordinato è che molti lavorato-ri autonomi si trovano nelle medesime condizioni dei lavoratorisubordinati di esposizione al rischio della precarietà, concettocomplesso e sul quale non esiste uniformità di definizioni, mache certamente implica l’insicurezza del reddito, la mancanzadi tutele della sicurezza sociale, nonché della tutela in materiadi salute e sicurezza2. Nel rapporto del Parlamento europeoPrecarious Employment in Europe: Patterns, Trends and Policy Stra-tegies si segnala che, in grado maggiore durante la crisi econo-mica, per tutti i lavoratori è aumentato il grado di esposizioneal rischio di precarizzazione, identificato in alto, medio e basso.I lavoratori autonomi (sia quelli con dipendenti che quelli senzadipendenti) sono classificati come lavoratori esposti ad un ri-schio medio di precarizzazione, assieme ai lavoratori delle a-genzie di lavoro temporaneo, ai lavoratori part-time e a tempodeterminato3.

Circa le dimensioni del lavoro autonomo è importante, in-nanzitutto, fornire alcuni macrodati che, almeno in parte,smentiscono l’opinione dominante che in tutti gli ordinamentidella UE vi sia una crescita del lavoro autonomo. Le statistichedell’European Union Labour Force Survey (EU-LFS) indicano chela percentuale di lavoratori autonomi nell’Europa a 28 rispettoal totale delle forze lavoro era del 15,1% nel 2002, e dopo unpicco del 15,4% nel 2004 si è ridotta al 14,9% nel 20154.

Se, quindi, la percentuale del lavoro autonomo in Europa èrimasta nel complesso stabile, ciò che è invece in aumento è lapercentuale di lavoratori autonomi senza dipendenti: nel 2002all’incirca il 10,1% della forza lavoro nella UE a 28 era compo-

2 Si veda Parlamento europeo, Precarious Employment in Europe: Patterns,Trends and Policy Strategies, July, 2016, pp. 20 e ss.

3 Ivi, p. 11.4 Eurofound, Exploring Self-employment in the European Union, 2017, cit., p. 7.

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sto da lavoratori autonomi senza dipendenti; la percentuale èsalita al 10,9% nel 2012 e si è leggermente ridotta al 10,7% nel2015. Inoltre è importante sottolineare che vi sono differenzerilevanti tra gli Stati membri: il lavoro autonomo è diffuso inGrecia (31%), in Italia (23%) e in Romania (19%) e lo è meno inDanimarca (8%) ed Estonia (9%). Ciò che va evidenziato è chein alcuni Stati membri si è assistito ad un incremento del lavoroautonomo (16 su 28) mentre in altri ad una riduzione (12 su28) e nei Paesi dove si segnala l’incremento questo è dovuto inlarga parte all’aumento del lavoro autonomo senza dipendenti.Quest’ultimo tipo di lavoro autonomo, in alcuni Stati come iPaesi Bassi, è aumentato talmente da portare il Consiglio del-l’Unione Europea ad indirizzare ai Paesi Bassi una raccoman-dazione nel country-specific recommendation (CSR) del 2016. In-nanzitutto si segnala che i lavoratori autonomi senza dipendentisono spesso sottoassicurati per l’invalidità, la disoccupazione ela vecchiaia, il che potrebbe incidere sulla sostenibilità a lungotermine del sistema di previdenza sociale5 e che pertanto occor-re «affrontare la questione del forte aumento dei lavoratori au-tonomi senza dipendenti, anche riducendo le distorsioni fiscalia favore del lavoro autonomo senza compromettere l’imprendi-torialità e favorendo l’accesso dei lavoratori autonomi a unaprotezione sociale di costo accessibile»6.

Altri rapporti, al contrario, mostrano cifre più elevate e intendenziale aumento della popolazione attiva impegnata concontratti di lavoro autonomo. Nel Rapporto McKinsey Inde-pendent Work: Choice, Necessity and the Gig Economy7 ad es. si sti-

5 Raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 2016 sul programma nazio-nale di riforma 2016 dei Paesi Bassi e che formula un parere del Consiglio sulprogramma di stabilità 2016 dei Paesi Bassi (2016/C 299/10), considerando 6.

6 Raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 2016 sul programma nazio-nale di riforma 2016 dei Paesi Bassi e che formula un parere del Consiglio sulprogramma di stabilità 2016 dei Paesi Bassi, cit., raccomandazione 2.

7 McKinsey Global Institute, Independent Work: Choice, Necessity and the GigEconomy, 2016, scaricabile da https://www.mckinsey.com/global-themes/employment-and-growth/independent-work-choice-necessity-and-the-gig-economy. L’a-nalisi è stata condotta analizzando gli USA e 15 Stati membri della UE: Austria,Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lus-semburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito.

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ma che il 20/30% degli attivi abbia un contratto di lavoro auto-nomo negli USA in 15 Stati membri europei.

Le differenze macroscopiche nei dati sono, in gran parte,dovute alla diversa qualificazione della categoria «lavoro auto-nomo»8. Il rapporto McKinsey sul lavoro autonomo esplicita-mente esclude i c.d. fissured workers: «who work for subcontrac-tors and vendors to which corporations outsource functions suchas janitorial services and security, (2) self-employed people withmany employees, and (3) ‘permatemps’ on long-term or con-tinuously renewed contracts, a trend in Europe».

L’aumento del lavoro autonomo può, naturalmente, nascon-dere tentativi di elusione dei sistemi di protezione normalmen-te riservati al lavoro subordinato. Si pone, a tal proposito, ilproblema di individuare, all’interno dei grandi numeri del la-voro autonomo, il falso lavoro autonomo (bogus self-employment)sul quale pone l’accento la Commissione europea. Ma è altresìvero che l’espansione del lavoro autonomo è spesso associata aiprofondi cambiamenti nell’organizzazione dell’impresa, in par-ticolare quando l’attività d’impresa si esercita attraverso l’usodelle piattaforme digitali. La casistica giurisprudenziale sullac.d. gig economy ha messo a nudo in diversi ordinamenti la diffi-coltà di qualificare come lavoratori subordinati i lavoratori dellepiattaforme e la tendenza a riversare, non senza difficoltà, nellavoro autonomo tutto ciò che non può essere qualificabile co-me subordinato. Emerge tuttavia in tutti gli ordinamenti (ancheoltreoceano) con chiarezza la necessità di assicurare forme diprotezione ai lavoratori delle piattaforme anche quando sia in-negabile un certo grado di autonomia. Le soluzioni sono spessoricercate nell’individuazione di un tertium genus (si veda la qua-lificazione come workers nel caso Aslam & Farrar vs. Uber e la

8 Nel Glossario di Eurostat la definizione di lavoratore autonomo o self em-ployed person è «A self-employed person is the sole or joint owner of the unincor-porated enterprise (one that has not been incorporated i.e. formed into a legalcorporation) in which he/she works, unless they are also in paid employmentwhich is their main activity (in that case, they are considered to be employees).Self-employed people also include: unpaid family workers; outworkers (whowork outside the usual workplace, such as at home); workers engaged in produc-tion done entirely for their own final use or own capital formation, either indi-vidually or collectively».

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proposta di Krüger negli USA). A fronte dell’aumentare delleforme di lavoro autonomo avanza anche all’interno delle istitu-zioni europee l’idea della protezione sociale dei lavoratori au-tonomi e, a dimostrazione di quanto siano mature certe idee,nel recentissimo Consiglio europeo di Göteborg (novembre2017) che ha proclamato il Pilastro europeo dei diritti sociali9 siparla di protezione dai rischi sociali indipendentemente dallatipologia contrattuale all’interno della quale è dedotta la pre-stazione lavorativa.

L’obiettivo dichiarato del Pilastro sociale è di proteggere tut-te le categorie di lavoratori che a causa del loro status occupa-zionale sono esposte ad un’elevata incertezza economica e aduna ridotta protezione contro i rischi sociali10. Pertanto nel con-siderando 15 si afferma che i principi sanciti nel Pilastro euro-peo dei diritti sociali che si riferiscono ai lavoratori si applicanoa tutte le persone occupate, indipendentemente dalla loro si-tuazione occupazionale, dalle modalità e dalla durata dell’occu-pazione. Il riferimento a tutti i diritti sociali dei quali dovrebbeessere assicurata la protezione è, dunque, molto ampio. Inmodo più preciso si afferma, al punto 12, che: «Indipendente-mente dal tipo e dalla durata del rapporto di lavoro, i lavorato-ri e, a condizioni comparabili, i lavoratori autonomi hanno di-ritto a un’adeguata protezione sociale».

2. La galassia del lavoro autonomo

Nell’ordinamento interno si deve prima di tutto partire dallaconstatazione che l’originale monoliticità del lavoro autonomo,coincidente sostanzialmente con la prestazione d’opera ex art.

9 Il testo è scaricabile da http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-13129-2017-INIT/it/pdf.

10 Ciò è chiaro anche nelle parole del vicepresidente delle Commissione eu-ropea Valdis Dombrovskis: «People should be able to seize them and feel pro-tected no matter what type of job they are in», nonché nelle parole del Commis-sario per gli affari sociali: «In today’s changing labour market, new forms ofwork are emerging and people change more frequently between jobs and em-ployment statuses. The share of non-standard employment and self-employ-ment is increasing in the labour market, especially among young people».

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2222 c.c., non corrisponde più alla realtà. Il legislatore nel cor-so del tempo ha dato forma a diverse fattispecie di lavoro auto-nomo, in risposta ai mutamenti delle tecniche organizzative eproduttive dell’impresa. Pertanto la fattispecie definita in talenorma può essere considerata come genus, accanto al quale sipongono diverse species del lavoro autonomo.

Tra le species rientrano le co.co.co. ex art. 409 c.p.c.; successi-vamente le collaborazioni a progetto disciplinate dall’art. 61 deld.lgs. 276 del 2003; il lavoro autonomo occasionale disciplinatodall’art. 54-bis della legge n. 96/2017; più di recente il lavoro au-tonomo eterorganizzato di cui all’art. 2 del d.lgs. 81/2015; leforme di lavoro autonomo delle professioni liberali.

Come è composta dunque questa galassia del lavoro auto-nomo? Il legislatore della legge 81/2017, che definisce il campodi applicazione della legge già nel titolo («Misure per la tuteladel lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favo-rire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavorosubordinato»), all’art. 1 chiarisce che il lavoro autonomo per ilquale si definiscono le tutele è quello «non imprenditoriale».L’obiettivo dichiarato nella relazione di accompagnamento èquello di costruire anche per i lavoratori autonomi un sistemadi diritti e di welfare moderno capace di sostenere il loro pre-sente e di tutelare il loro futuro, in attuazione dell’art. 35 Cost.Rientrano nel campo di applicazione i rapporti di lavoro auto-nomo di cui al Titolo III del libro quinto del codice civile», cioèsicuramente i lavoratori autonomi (Capo I. Disposizioni gene-rali), ma anche quelli che esercitano le professioni intellettuali(Capo II). Sono esclusi dal secondo comma dell’art. 1 gli im-prenditori «ivi compresi i piccoli imprenditori» (i coltivatori di-retti, i piccoli commercianti, gli artigiani e tutti coloro che eser-citano un’attività professionale organizzata prevalentementecon il lavoro proprio o dei componenti della famiglia (art. 2083c.c.). Può non essere agile la distinzione tra lavoratore autono-mo e piccolo imprenditore, ma pare chiara la volontà del legi-slatore di distinguere nettamente il lavoratore autonomo ex art.2222 c.c. dal piccolo imprenditore. Correttamente si evidenziail fatto che nella realtà vi sia una miriade di lavoratori autono-mi muniti di una micro-organizzazione che li distingue non sol-tanto sul piano quantitativo ma anche qualitativo da quella dei

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piccoli imprenditori11. Decisivo dovrebbe essere il fatto che illavoratore autonomo abbia o meno altri dipendenti, fatto cheanche a livello europeo è alla base di una distinzione tra le duecategorie.

3. Gli elementi strutturali comuni tra lavoro autonomoe lavoro subordinato: la continuità

Cosa giustifica l’applicazione delle tutele o almeno di alcunedi esse a lavoratori che non sono subordinati? Sicuramente lacontinuità della prestazione di lavoro autonomo è stata un ele-mento di cui il legislatore da tempo ha tenuto conto per rita-gliare all’interno del genus lavoro autonomo una species alla qualesi è ritenuto di dovere riconoscere alcune tutele. Già nell’art.409 c.p.c. la continuità è un elemento costitutivo della fattispe-cie delle collaborazioni coordinate e continuative, che differen-zia quella specifica fattispecie di lavoro autonomo dal genusdell’art. 2222 c.c. e fornisce la giustificazione per il riconosci-mento di tutele inizialmente solo processualistiche, in seguitoprevidenziali e relative alla disciplina delle rinunce e transazio-ni, e successivamente, per quelle che hanno assunto la formadel lavoro a progetto, anche in senso stretto giuslavoristiche.

Così anche l’art. 2, comma 2, del d.lgs. 81/2015 individua nel-la continuità uno degli elementi, assieme all’eterorganizzazione,che giustificano l’applicazione della disciplina del lavoro subor-dinato a queste fattispecie di lavoro autonomo.

Il rilievo dell’elemento della continuità della relazione con-trattuale indica la sua proiezione futura nel tempo, tale dacreare in entrambi i contraenti un’aspettativa circa la sua ripe-tibilità e la costruzione di un rapporto di fiducia.

Può essere utile un riferimento all’analisi svolta da Ian McNeili quale evidenzia che accanto allo spot contracting, cioè il contrat-to di tipo occasionale, vi sono i contratti di tipo relazionale, dilunga durata e dal tessuto complesso. Se adattiamo il suo sche-ma ai rapporti di lavoro possiamo dire che lo spot contracting ga-rantisce la flessibilità attraverso il mercato e ad ogni mutamen-

11 G. Santoro Passarelli, op. cit., p. 371.

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to della situazione corrisponde una nuova transazione, nei con-tratti di lunga durata e di tipo relazionale, di cui il contratto dilavoro subordinato rappresenta uno degli esempi più significa-tivi12; il problema degli adattamenti del regolamento contrat-tuale al mutamento della situazione è affrontato in modo diver-so. In questi tipi di contratto la flessibilità è ricercata all’internodel contratto stesso, con la previsione già al momento della sti-pulazione di meccanismi di adattamento, di cui la contrattazio-ne collettiva rappresenta uno strumento fondamentale.

Gli elementi che portano ad optare per un tipo di transazio-ne spot o relazionale sono la frequenza della transazione e laspecificità delle risorse (specifiche, miste e altamente specifi-che). Il mercato è considerato la più efficiente struttura di go-verno delle transazioni standardizzate, o non specifiche, sia oc-casionali che ricorrenti; è invece insoddisfacente come unicastruttura di governo per le transazioni che sono incentivate allaprosecuzione del rapporto, a causa della specificità delle risorsecoinvolte. Quando le transazioni sono oltre che frequenti anchecaratterizzate da una elevata specificità delle risorse coinvolte,la relational contracting può dare adeguate risposte alla continui-tà della relazione. Specificità delle risorse significa anche speci-ficità dei contraenti (ho bisogno di quella specifica professiona-lità offertami da Tizio) nel senso che esse possono essere ogget-to di scambio solo tra determinate parti contrattuali (di qui ilpericolo di comportamenti opportunistici e di possibili ricattida parte di entrambi i contraenti). Questi problemi possono es-sere superati da una struttura di governo unitaria, che tuteli lacontinuità della relazione, per cui le transazioni sono rimossedal mercato e organizzate all’interno dell’impresa (ciò che in al-tri termini viene definito integrazione verticale) o comunque icomportamenti opportunistici sono ridotti quando la relazionesia a lungo termine.

Se aggiornassimo lo schema di McNeil alle forme assunte dallavoro autonomo nella realtà attuale dovremmo affermare chesempre di più anche i contratti di lavoro autonomo hanno as-sunto una caratterizzazione di tipo relazionale a causa della lo-

12 R.C. Bird, Employment as Relational Contract, in U.Pa Journal of Employmentlaw, vol. 8, 2002, pp. 149 e ss.

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ro proiezione temporale, data da una certa continuità, nonchédalla specificità delle risorse coinvolte. Anche utilizzando lo sche-ma analitico offerto dalla teoria di McNeil è evidente, dunque,quanto i confini tra lavoro autonomo e lavoro subordinato sisiano ridotti a causa dell’elemento caratterizzante della conti-nuità anche nel caso del lavoro autonomo.

Questo è stato l’approccio seguito dal legislatore italiano cheha identificato una fattispecie di lavoro autonomo caratterizzatadall’elemento della continuità (l’art. 409 c.p.c. nonché il succes-sivo art. 61 d.lgs. 276/2003) alla quale ha riconosciuto determi-nate tutele.

4. Coordinamento ed eterorganizzazione

Altri elementi tipizzanti di fattispecie di lavoro autonomo aiquali l’ordinamento ha riconosciuto diversi gradi di tutela, sonoil coordinamento e l’organizzazione. Il coordinamento lo si ri-trova nell’art. 409 c.p.c. in cui il legislatore chiarisce espressa-mente che la collaborazione si intende coordinata quando, nelrispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune ac-cordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’at-tività lavorativa. In questa norma le modalità del coordinamentosono definite d’accordo tra le parti, mentre l’organizzazionedell’attività lavorativa è definita dal lavoratore autonomo.

Viceversa nella species del lavoro autonomo eterorganizzatodi cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 deve trattar-si di prestazioni continuative e personali, in cui le modalità diesecuzione delle prestazioni sono organizzate dal committenteanche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (tali elemen-ti devono sussistere congiuntamente). Non si fa nessun riferi-mento alle modalità di coordinamento ma esclusivamente al-l’organizzazione che è determinata dal committente. In questocaso all’accertamento del tipo lavoro autonomo eterorganizzatoil legislatore riconduce gli stessi effetti della fattispecie del lavo-ro subordinato.

A tal proposito alcuni autori affermano che «il nome collabo-razioni coordinate e continuative ha perduto la capacità diidentificare in modo univoco a quale tipologia di rapporti ci si

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riferisca, configurando un comune denominatore tanto dellecollaborazioni autonomamente organizzate sottoposte al regi-me del lavoro autonomo quanto delle collaborazioni eterono-mamente organizzate assoggettate alla disciplina del lavoro su-bordinato»13. In questa analisi l’elemento determinante ai finidell’applicazione o dell’esclusione delle tutele tipiche del lavorosubordinato a rapporti di lavoro autonomo (così sono infatti irapporti di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015) èl’organizzazione più che il coordinamento.

L’organizzazione delle modalità di esecuzione della presta-zione con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro non coincidetotalmente con l’esercizio normale del potere direttivo che com-porta l’impartizione di direttive (altrimenti si tratterebbe di la-voro subordinato), ma senz’altro ne condivide alcuni aspetti. Ladefinizione dell’orario e del luogo di esecuzione della presta-zione sono una manifestazione del potere direttivo dell’impren-ditore e sono, oltretutto, considerati quali indici di subordina-zione.

Restano tuttavia in piedi tutti i dubbi interpretativi relativialle ipotesi in cui concretamente si può dimostrare l’esistenzadel coordinamento e non l’organizzazione eterodeterminata.

5. La proliferazione di fattispecie di lavoro autonomoe le tensioni qualificatorie

Come si è cercato di chiarire, esistono nel nostro ordinamen-to diverse species di lavoro autonomo e la tecnica giuridica dellacostruzione di diverse fattispecie impone all’interprete l’utilizzodelle tecniche qualificatorie al fine di determinare gli effetti ri-conducibili a ciascuna fattispecie. Se la disciplina applicabilealle diverse fattispecie non si differenzia, la distinzione tra lediverse species non ha conseguenze drammatiche (caso mai que-ste ci sono state nella distinzione rispetto al lavoro subordina-to). Quando il legislatore, invece, differenzia gli effetti e cioè letutele riconoscibili alle diverse categorie di lavoro autonomo il

13 S. Ciucciovino, Le «collaborazioni organizzate dal committente» nel confine traautonomia e subordinazione, in RIDL, 2016, p. 327.

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conflitto e le tensioni qualificatorie si estendono o si spostanoanche all’area del lavoro autonomo.

In questo senso sia il legislatore dell’art. 2, comma 1, deld.lgs. 81/2015 che quello della legge 81/2017 hanno compiutoun’operazione che complica più che semplificare l’obiettivo diindividuare sistemi di protezione del lavoro autonomo in attua-zione del dettato costituzionale dell’art. 35 Cost.

Il legislatore individua un primo cerchio di categorie di lavo-ratori autonomi: le fattispecie di lavoro autonomo non impren-ditoriale, non continuativo, sia che si tratti di rapporti di lavoroautonomo del tipo contratto d’opera e contratto d’opera intel-lettuale, mandato, agenzia ecc.; professioni intellettuali quandonon svolte in regime imprenditoriale; sono esclusi i piccoli im-prenditori (lavoratori autonomi con dipendenti)14. Le tutelepreviste dalla legge 81/2017 sono le tutele contro le clausoleabusive: si tratta di tutele già elaborate dal diritto privato sulpresupposto della tutela dei contraenti deboli attraverso l’usodella figura dell’abuso del diritto. La funzione è quella, tipicadel diritto del lavoro, della correzione della disparità contrat-tuale attraverso norme di natura inderogabile. L’art. 3, comma1, della legge 81/2017 infatti considera, in primo luogo, privedi effetto le clausole abusive che attribuiscono al committente lafacoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contrat-to, così come è abusivo il rifiuto del committente di stipulare ilcontratto in forma scritta. In questo modo si tenta di riequili-brare una disparità nel potere di definire i contenuti del con-tratto. In secondo luogo sono considerate abusive, e pertantoprive di effetto, le clausole che privino il lavoratore del dirittoad avere un congruo preavviso in caso di recesso dal contratto.Anche qui è evidente la tecnica protettiva del diritto del lavoroche in funzione della conservazione del rapporto e della suacontinuità, limita il potere di recesso pur solo con una norma dicarattere procedurale come l’obbligo di preavviso. Il terzo tipodi clausola abusiva vietata è quel tipo di clausole con le quali si

14 Non è agevole distinguere le due figure. G. Santoro Passarelli, Il lavoroautonomo non imprenditoriale, il lavoro agile e il telelavoro, in RIDL, 2017, pp. 369 ess., ritiene che il piccolo imprenditore governi una (piccola) impresa cui sonostabilmente imputati mezzi e risorse che si combinano in un ciclo produttivo, alcui interno risulterà prevalente il lavoro del titolare e dei suoi familiari.

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concordano termini di pagamento superiori a sessanta giornidalla data del ricevimento da parte del committente della fattu-ra o della richiesta di pagamento. Qui l’inibizione all’uso di talitipi di clausole svolge una funzione protettiva del reddito e, so-prattutto, della sua certezza nei tempi. Si applica ai rapporti dilavoro autonomo l’art. 9 della legge n. 192/1998 «in quantocompatibile», in materia di abuso di dipendenza economica,quindi le situazioni di abuso possibili sono ulteriormente au-mentate, in quanto l’abuso è una clausola generale che il giudi-ce può specificare in caso di controversia.

L’art. 4 riconosce al lavoratore autonomo i diritti di utilizza-zione economica delle opere dell’ingegno e delle invenzioni rea-lizzate nell’esecuzione del contratto, a meno che l’attività inven-tiva costituisca l’oggetto del contratto e sia, a tale fine, compen-sata.

Un secondo cerchio è costituito dalle prestazioni continuati-ve e coordinate a carattere personale, se le modalità di coordi-namento sono state stabilite di comune accordo dalle parti e seil collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa.

In questo caso si tratta di collaborazione coordinata e conti-nuativa definita dall’art. 409 c.p.c. con tutele di tipo processua-listico e previdenziale (già previste) arricchite da quelle previstedagli artt. 7, 8, 13 e 14 della legge 81/2017. SI riconosce unatutela contro la disoccupazione (la DisColl di cui all’art. 7 dellalegge 81/2017); un trattamento economico per congedo paren-tale per un periodo massimo pari a sei mesi entro i primi treanni di vita del bambino (art. 8); l’indennità di maternità indi-pendentemente dall’astensione (art. 13); la sospensione dell’e-secuzione della prestazione in caso di malattia, infortunio ogravidanza per un periodo non superiore a centocinquanta gior-ni nell’anno solare (resta fermo, durante questo periodo, il di-ritto al corrispettivo e il rapporto di lavoro non si estingue). Ilquadro delle tutele si arricchisce con le tutele nel mercato dellavoro: sportello per il lavoro autonomo nei centri per l’impie-go e agenzie di intermediazione; integrale deducibilità dellespese per l’aggiornamento professionale (art. 9).

Il terzo cerchio è costituito da quelle prestazioni continuativee personali, senza accordo tra le parti circa le modalità di coor-dinamento, in cui le modalità di esecuzione della prestazione

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sono organizzate dal committente anche con riferimento aitempi e al luogo di lavoro. In questo la disciplina applicabile è,sulla base dell’art. 2, comma 1, d.lgs. 81/2015 quella del lavorosubordinato.

6. Verso l’abbandono della tecnica della fattispecieper una ricostruzione delle tutele in funzione del rischio

I problemi sollevati dalla moltiplicazione delle species nel lavo-ro autonomo sono fondamentalmente legati alla maggiore ominore tutela accordata alle singole fattispecie. Questo sposta letensioni qualificatorie all’interno dell’area del lavoro autonomo.

La crisi economica e finanziaria ha dimostrato che l’esposi-zione ai rischi sociali è stata elevata tanto per i lavoratori su-bordinati quanto per i lavoratori autonomi. I fatto di eseguirela prestazione in modo eterodiretto, coordinato o eterorganiz-zato non incide sull’esposizione al rischio cui è esposto il lavo-ratore nel mercato, che va invece misurato e valutato sulla basedi altri indicatori (età, professionalità, settore, sesso, disabilitàecc.). La protezione contro i rischi sociali va dunque definitasulla base dei fattori che aumentano o riducono la possibilitàche i rischi si producano.

La prospettiva che si propone è quella di definire le tutelesulla base dei rischi ai quali i lavoratori sono esposti. Il rischio,cifra della società moderna, non a caso definita «società del ri-schio»15 è una modalità di razionalizzazione della realtà: qua-lunque evento, qualunque situazione può essere descritta intermini di rischio. In una prospettiva del rischio i diritti fon-damentali elaborati dal diritto del lavoro possono essere riletticome tecniche di protezione dalla produzione di rischi sociali e,in tal senso, si propone di rivedere i criteri di assegnazione deidiritti fondamentali come legati al rischio e non solo alla fatti-specie. La protezione del lavoratore contro il rischio della di-soccupazione, il rischio del reddito, il rischio della formazione,il rischio della vecchiaia e della malattia può essere resa indi-

15 U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma,2000.

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pendente dalla fattispecie, e dalle modalità attraverso la qualela prestazione è resa ed organizzata. Ciò renderebbe menodrammatico il contenzioso sulla qualificazione. La prospettivadel rischio evidenzierebbe, inoltre, l’eccessiva rilevanza assegna-ta alla definizione delle modalità di integrazione della presta-zione lavorativa nel ciclo produttivo ai fini del riconoscimentodelle tutele. L’esposizione di un lavoratore ai rischi sociali nondipende dalle modalità attraverso le quali la sua prestazione èinserita nell’organizzazione produttiva (eterodirezione, coordi-namento, eterorganizzazione, autonomia), ma dipende dal fun-zionamento del mercato. Ci sono già segnali in tale direzioneanche nella legge 81/2017 (le norme di protezione nel mercato,la DisColl, la malattia ecc.) o nella disciplina in materia di salu-te e sicurezza in cui la protezione contro i rischi prescinde dallaqualificazione del rapporto di lavoro. Si tratterebbe di seguirecon determinazione questo percorso, incoraggiato, peraltro daidocumenti dell’Unione Europea16.

16 Eurofound, Exploring Self-employment in the European Union, PublicationsOffice of the European Union, Luxembourg, 2017 e supra nota 10.

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1. Introduzione

Nella legge n. 81/2017 l’art. 18 colloca il lavoro agile nel ge-nus del lavoro subordinato, caratterizzandolo solo per una di-versa modalità di esecuzione della prestazione. Il nuovo istitutosi caratterizza per la presenza di tre elementi: l’accordo tra leparti, il parziale svincolo dai normali parametri spazio-tempo-rali (la prestazione deve essere eseguita «in parte all’interno dilocali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa,entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro gior-naliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazio-ne collettiva») e l’utilizzo di strumenti tecnologici.

L’esercizio del potere organizzativo è condiviso tra il datoree il prestatore, partecipando il secondo alla determinazionedelle coordinate spazio-temporali dell’attività e potendo le mo-dalità di esecuzione essere formulate anche solo per obiettivi,ossia a prescindere dal costante e reiterato esercizio del poteredirettivo.

Restano i normali limiti di orario giornaliero e settimanale, ildiritto alla parità di trattamento con i lavoratori «stanziali» dipari mansione della medesima azienda (art. 20) e la tutela assi-curativa a carico del datore per i rischi connessi alla prestazioneresa all’esterno dell’azienda (art. 22).

* Avvocato in Roma, già professore di Diritto del lavoro, Università deglistudi di Roma «La Sapienza».

Il lavoro agile nel collegamento negozialedi Amos Andreoni*

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Il punto di riferimento centrale è l’accordo tra le parti: essospecifica il potere direttivo, gli strumenti utilizzati, i tempi diriposo e di disconnessione del lavoratore, l’attuazione del dirit-to all’apprendimento permanente, l’esercizio del potere di con-trollo e disciplinare.

La forma scritta è richiesta a soli fini di regolarità ammini-strativa e di prova e non quale requisito di validità dell’accordo;le parti, di poi, possono recedere liberamente con il solo vin-colo del preavviso (salvo il giustificato motivo nel solo accordo atempo determinato).

Benché l’assegnazione degli strumenti sia rimessa dalla leggeall’accordo tra le parti, la responsabilità della sicurezza e delbuon funzionamento degli stessi è oggetto della responsabilitàesclusiva del datore, salvo l’obbligo di cooperazione imposto allavoratore; d’altra parte l’assenza di una postazione esterna fis-sa rappresenta un elemento costitutivo del lavoro agile, e dal te-sto legislativo si evince che la concreta determinazione della se-de è rimessa al libero apprezzamento del prestatore. Tuttavia,risultano coperti dall’assicurazione obbligatoria solo gli eventiavvenuti nel tragitto da e verso un luogo di lavoro la cui sceltasia stata dettata «da esigenze connesse alla prestazione stessa odalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vitacon quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza» (L.Gallino, Tecnologia/occupazione: la rottura del circolo virtuoso, inQuaderni di Sociologia, n. 7, 1995, p. 8).

Dall’insieme dei fattori menzionati emerge il dato di una de-bolezza riconducibile allo squilibrio dei rapporti di potere, inragione della mancata previsione della mediazione collettivadegli interessi, presente invece come necessaria nella contiguadisciplina del telelavoro, caratterizzato dalla sistematica perma-nenza fuori sede; con l’effetto di far scadere l’accordo «agile» alruolo di un contratto per adesione (artt. 1341-2 c.c.).

2. Accordo «agile» e collegamento negoziale

Le numerose ambiguità della legge sullo spatium deliberandidell’accordo tra le parti possono essere superate ponendo men-te alla correlazione sussistente tra il contratto di lavoro origina-

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riamente stipulato, generativo del rapporto di lavoro, e l’accor-do successivo sul lavoro agile. Si tratta di un collegamento ne-goziale in cui l’accordo originario si pone come contratto stipitee l’accordo sul lavoro agile come contratto accessorio il cui con-tenuto specifica il contenuto del negozio principale per la pre-stazione resa fuori sede sicché per le parti non specificate nel-l’accordo ausiliario vale il riferimento al negozio stipite ed alladisciplina inderogabile che ne caratterizza il funzionamento (ingiurisprudenza sugli effetti della accessorietà v. Cass. sent. nn.11974/2010; 5851/2006; 4645/1995; 7415/1991; 3100/1987).Tale relazione di implicazione reciproca e di accessorietà del-l’una rispetto all’altra forma negoziale si desume dalla colloca-zione di entrambi i moduli nello stesso genus della subordina-zione; dalla circostanza che l’accordo «agile» trova la sua causanel rapporto di lavoro scaturito dal contratto stipite e dunquedalla sussistenza di un collegamento funzionale, ragion per cuil’accordo agile incide solo sullo svolgimento di un rapporto chenasce dall’altro contratto, evidentemente principale, talché ac-cessorium sequitur principale; dall’ulteriore circostanza che l’accor-do «agile» rappresenta solo una diversa modalità di esecuzionedel contratto stipite al quale resta dunque subordinato talché ces-sato questo viene meno anche l’accordo «agile»; dalla circostanza,infine, della reversibilità dell’accordo «agile» recedendo dal qualeriprende interamente vigore l’intera disciplina recata dal con-tratto stipite, senza bisogno di una rinnovazione negoziale.

D’altra parte, poiché per una quota parte dell’orario setti-manale è efficace il contratto stipite e per l’altra l’accordo ac-cessorio, tra l’una e l’altra fonte negoziale non può sussistere e-terogeneità dei connotati strutturali (es. mansione, inquadra-mento), necessariamente desunti dal contratto stipite in quan-to fonte del rapporto di lavoro. Esso è altresì prevalente anchedal punto di vista quantitativo rispetto al lavoro agile, essendoquest’ultimo generalmente limitato ad uno o due giorni a set-timana dalla contrattazione aziendale finora sviluppatasi. I con-tratti aziendali, di poi, sottolineano l’invarianza dei tratti fon-damentali del rapporto in ordine al potere direttivo, di con-trollo, disciplinare, e, altresì, con riguardo ai tratti essenzialidel rapporto di lavoro: orario, giornaliero e settimanale, retri-buzione, ecc.

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3. Gli effetti del collegamento negoziale

Stando così l’inquadramento giuridico della fattispecie sipossono enucleare le seguenti conclusioni:

• Il riferimento alla possibilità di organizzare il lavoro agile an-che «per fasi, cicli ed obiettivi» non esclude la natura subordina-ta del rapporto; esso tende solo a realizzare una nuova visionedell’organizzazione del lavoro, volta a «stimolare l’autonomia ela responsabilità dei lavoratori e a realizzare una maggiore con-ciliazione dei tempi di vita e di lavoro»: in tal senso, con riferi-mento alla pubblica amministrazione, si esprime la direttiva n.3 del 2017. Il lavoro agile, mediante un attento e strategico usodell’innovazione, favorisce la trasformazione digitale delle azien-de attraverso cambiamenti che presuppongono capacità di re-lazione che toccano non solo il lavoratore smart worker, ma tuttii livelli della gerarchia aziendale: «È un processo dove la forteresponsabilizzazione individuale si converte in un forte aumen-to della produttività complessiva dell’azienda».

Queste caratteristiche sono esemplificate dall’organizzazionedipartimentale, dall’informatizzazione del lavoro di ufficio, dal-le varie forme di telelavoro e dalla creazione dell’impresa vir-tuale dove l’unità centrale, il core, è ridotta al minimo e in largaparte i collaboratori sono saltuari e mobili.

D’altra parte l’attenzione al cliente rende sempre più diffusoil comando del lavoratore presso il cliente al fine di gestire inloco il raggiungimento dell’obiettivo commissionato, donde una«curvatura» della prestazione di lavoro in forma personalizzatae organizzata per risultati specifici da raggiungere.

• La possibilità che l’accordo individuale disciplini anche le«forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro»non rende consensuale l’esercizio del potere direttivo: il sensodella norma appare essere solo quello di attribuire all’autono-mia delle parti la definizione delle «forme», ossia le modalità conle quali le direttive del datore di lavoro sono impartite al lavo-ratore durante la parte della prestazione resa in forma agile incui possono risultare non funzionali i normali strumenti di co-municazione utilizzati quando la prestazione avviene all’interno

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dei locali aziendali (come le istruzioni verbali o gli ordini diservizio cartacei).

D’altra parte lo smart-working o il telelavoro, come ogni lavo-ro a domicilio, è caratterizzato da una forma «attenuata» di su-bordinazione: le direttive dell’imprenditore non devono neces-sariamente essere specifiche e reiterate, essendo sufficiente, se-condo le circostanze, che esse siano impartite una volta per tut-te, mentre i controlli possono limitarsi alla verifica della buonariuscita della lavorazione.

L’area del lavoro autonomo, da parte del lavoratore non dota-to di una struttura d’organizzazione, rimane pertanto circoscrittaa quei lavori che non presentano le caratteristiche indicate, co-me ad esempio nel caso in cui venga rimessa completamente allavoratore la scelta delle modalità esecutive, con esclusione diqualsiasi tipo di subordinazione, sia pure soltanto tecnica (v.Cass. 9812/2008 e 24717/2011, anche Cass. 22/4/2002, n. 5840).

In sostanza il vincolo della subordinazione per le varie formedi telelavoro viene a configurarsi come inserimento dell’attivitàlavorativa nel ciclo produttivo aziendale, del quale la prestazio-ne resa dal lavoratore diviene elemento integrante (cfr. Cass. 4maggio 2002, n. 6405) con l’effetto che la configurabilità dellasubordinazione, sia pura attenuata, che caratterizza tale lavoro,deve escludersi solo allorquando il lavoratore goda di piena li-bertà di accettare o rifiutare il lavoro commessogli, e allorquan-do sussista una sua piena discrezionalità in ordine ai tempi diconsegna del lavoro, venendo meno per tali modalità della pre-stazione un effettivo inserimento del lavoratore nel ciclo pro-duttivo aziendale, che necessita, di contro, di una piena e sicuradisponibilità del lavoratore ad eseguire i compiti affidatigli e asoddisfare le esigenze e le finalità programmate dall’impresa. Ilche non è, dato il preventivo accordo, nel lavoro agile.

Resta il fatto poi che il sistema informatico consente di pre-determinare, in ogni suo aspetto, il contenuto della prestazionee di accertare il rispetto delle direttive impartite, peraltro defi-nite nelle clausole dell’accordo agile determinativo delle moda-lità della prestazione (sugli effetti delle nuove tecnologie in-formatiche nella ridefinizione della nozione di subordinazionev. Cass. 21 luglio 2017 n. 18018; Cass. 21 marzo 2012 n. 4476).In definitiva la primazia dell’algoritmo consente la declinazione

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della subordinazione per «fasi, cicli ed obiettivi», mediante l’in-corporazione del potere direttivo nel dispositivo informatico.Qui più che altrove resta valida la nozione di eterodirezionepresente nel paradigma qualificatorio della Corte Costituzio-nale; nozione resa nella sentenza 5 febbraio 1996, n. 30 incen-trata sul canone della doppia alienità laddove si realizzi «l’in-corporazione della prestazione di lavoro in una organizzazioneproduttiva sulla quale il lavoratore non ha alcun potere di con-trollo, essendo costituita per uno scopo in ordine al quale eglinon ha alcun interesse [...] giuridicamente tutelato» e dunque invista di un risultato di cui il titolare dell’organizzazione è imme-diatamente legittimato ad appropriarsi.

• Analogamente anche il potere di controllo viene modulato inbase alla diversa strumentazione disponibile ed all’obbiettivo daraggiungere.

• Il potere disciplinare, data la non contiguità fisica del lavora-tore, richiede ed ammette le sole specificazioni non presenti nelcodice disciplinare di fonte collettiva. Né potrebbe essere diver-samente dato il collegamento accessorio e l’inderogabilità delcodice disciplinare applicabile al contratto stipite.

• Rispetto alla determinazione dei tempi di riposo e di discon-nessione, l’accordo opera all’interno dei limiti di durata massi-ma dell’orario giornaliero. Essi sono ricavabili, a contrario, dallanorma che impone un riposo minimo giornaliero di undici oreconsecutive ogni 24 ore; peraltro sussistono incertezze applica-tive, in ragione della giurisprudenza della Corte di GiustiziaUE, circa la qualificazione quale orario di lavoro dei periodi diattesa e mobilità, nel caso di prestazioni svolte all’esterno deilocali di pertinenza del datore, esponendo il lavoratore al ri-schio di un prolungamento, più o meno surrettizio, del tempodi lavoro complessivo (cfr. Corte di giustizia dell’Unione Euro-pea, C-266/14, Federaci6n de Servicios Privados del sindicato Comi-siones obreras, v. Tyco Integrated Security SL, Tyco Integrated Fire &Security Corporation Servicios).

Il dilemma è risolto dalla contrattazione aziendale che ac-corda lo stesso orario di lavoro, con le medesime pause, al lavo-

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ratore in sede ed a quello agile, ivi compresa la pausa di 15 mi-nuti ogni due ore di lavoro in video. La delimitazione social-mente tipica dell’orario giornaliero determina altresì il dirittosoggettivo perfetto alla disconnessione superato l’orario gior-naliero. Altri momenti di disconnessione potranno essere fruttodi accordo tra le parti.

• Al lavoro agile si applica l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori,che nella versione attuale (art. 23, d.lgs. n. 151/2015) accentua lapervasività dei controlli a distanza sulla prestazione lavorativa,per un verso rimuovendo i vincoli ordinari – finalità dell’installa-zione delle apparecchiature e previo controllo sindacale circa lesue concrete modalità – laddove il controllo avvenga su strumen-ti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa, eper altro verso consentendo l’utilizzo dei dati raccolti dal datoreper mezzo di tali strumenti «a tutti i fini connessi al rapporto dilavoro» (incluso, ad esempio, l’esercizio del potere disciplinare),alla sola condizione che il datore abbia adempiuto agli obblighidi informazione previsti dalla normativa sulla privacy.

E tuttavia il Garante per la protezione dei dati personali ha e-videnziato la necessità di limitare l’utilizzo delle informazioniraccolte dal momento che «i principi di legittimità e determina-tezza del fine perseguito con il trattamento, nonché della suaproporzionalità, correttezza e non eccedenza, non solo escludo-no l’ammissibilità di controlli massivi, ma impongono comun-que una gradualità nell’ampiezza e tipologia del monitoraggio,che renda assolutamente residuali i controlli più invasivi, legit-timandoli solo a fronte della rilevazione di specifiche anomalie ecomunque all’esito dell’esperimento di misure preventive menolimitative dei diritti dei lavoratori». Il che significa che i controllidel datore di lavoro sono ammissibili soltanto se «strettamenteproporzionati e non eccedenti lo scopo di verifica dell’adem-pimento contrattuale, limitati nel tempo e nell’oggetto, previstida preventive policies aziendali, mirati, mai massivi, e fondati suprecisi presupposti» (Audizione del presidente del Garante perla protezione dei dati personali Antonello Soro sugli schemi didecreti legislativi attuativi del c.d. Jobs Act presso la CommissioneLavoro della Camera dei Deputati [9 luglio 2015] e la Commis-sione Lavoro del Senato [14 luglio 2015]).

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I «contrappesi idonei per scongiurare i rischi del controllototale e per la salvaguardia dei diritti fondamentali» sono collo-cati nella fase prodromica dell’informativa che deve permettereal lavoratore di conoscere preventivamente quali siano le attivi-tà consentite e legittime nell’uso delle nuove tecnologie.

Pertanto, mediante il rinvio indiretto ai principi e agli istitutiprevisti dal d.lgs. n. 196/2003, il contratto agile derivante dalcontratto stipite mantiene pur sempre le garanzie poste a pre-sidio della sfera intima e privata del lavoratore, onde evitareforme di controllo occulto dell’attività del lavoratore.

• Il lavoratore «agile», più di altri, risulta esposto all’intensifi-cazione dei ritmi (iper-connessione, assenza di tempi di recupe-ro), alle disergonomie (posturali o oculo-visive), all’isolamento,alla connotazione labile dei confini tra spazi/tempi lavorativi enon lavorativi. Variabili in parte compensate dalla soppressionedei tempi di spostamento casa-lavoro e dall’autonomia nella ge-stione del tempo.

L’art. 18, c. 2, sancisce che il datore di lavoro è responsabiledella sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tec-nologici assegnati al lavoratore, salvo ogni rinvio alla disciplinacontenuta nel d.lgs. n. 81/2008 (Titolo I e Titoli III, VII).

L’art. 22, rubricato «Sicurezza sul lavoro» prevede che il da-tore di lavoro, in quanto garante della salute e sicurezza del la-voratore agile, consegni al lavoratore e al rappresentante per lasicurezza un’informativa scritta sui rischi generali e specificiconnessi alla modalità di esecuzione del rapporto. L’art. 3 deld.d.l. n. 2229-A prevedeva un parere preventivo del medicocompetente e lo svolgimento di visite ed accertamenti, poi e-spunti dal testo definitivo.

Un punto fermo è comunque posto dall’art. 173, c. 1, lett. c,del d.lgs. 81/2008, ove si definisce il lavoratore che ha diritto al-la protezione di cui al Titolo VII come colui che utilizza «un’at-trezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abi-tuale, per venti ore settimanali»: ai fini dell’applicazione delletutele in discorso occorre dunque che il lavoratore agile utilizziun videoterminale per almeno venti ore alla settimana; ove l’u-tilizzo delle apparecchiature non può che essere la risultantedella somma complessiva di lavoro standard e di lavoro agile in

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ragione proprio del collegamento negoziale sopra descritto.Ciò determina la copertura per tutti i rischi che il Titolo VIImira a prevenire riguardanti la vista, lo stress lavoro-correlato(o tecnostress) e l’affaticamento fisico e mentale.

Dal collegamento tra contratto stipite e contratto accessorioagile discende inoltre che all’art. 22 della legge n. 81/2017 puòessere estesa la lettura dell’obbligo di sicurezza del distaccante(art. 3, c. 6, d.lgs. n. 81/2008) che la Cassazione ha offerto intema. Ne deriva che «il datore di lavoro dello smart worker nonpotrà dare seguito all’accordo di cui all’art. 19 se prima nonavrà verificato e accertato l’esistenza delle condizioni di sicurez-za dei luoghi esterni ai locali aziendali nei quali il lavoratoreagile andrà a svolgere una parte delle sue mansioni» (A. Allam-prese, F. Pascucci, La tutela della salute e della sicurezza del lavo-ratore agile, in RGL, I, 2017, pp. 311 ss.).

Destano pertanto molti dubbi le previsioni contrattuali dell’ac-cordo Barilla del 2 marzo 2015 che rimettono al prestatore dilavoro la scelta «di un luogo idoneo che consenta il pieno eserci-zio della propria attività lavorativa in condizioni di [...] sicurez-za, anche dal punto di vista dell’integrità fisica secondo quantoprevisto dall’art. 2087 c.c.» sul semplice presupposto che «il la-voratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della pro-pria salute e di quella di altre persone presenti nello spazio lavo-rativo scelto per lo svolgimento della propria attività lavorativa insmart working». Lo stesso dubbio vale per l’accordo SNAM del 26novembre 2015 e per l’accordo Cariparma dell’8 marzo 2016.

Si può dunque concludere – se è vera la ricostruzione dellafattispecie complessa per negozi collegati, come sopra descrittae successivamente declinata – che il legislatore si è mosso conprudenza. L’accordo sul lavoro agile non costituisce un contrat-to novativo né facoltizza un pieno dispiegamento dell’autono-mia individuale, sotto l’apparente mantra del potere condiviso.

La disciplina introduce ragionevoli specificazioni nel conte-nuto, negli obblighi e nei diritti propri del rapporto primigenio,contemperando le esigenze dell’industria 4.0 con quelle del la-voratore «agile».

Starà all’esperienza applicativa calibrare l’esatta «temperatu-ra» del bilanciamento tra le opposte esigenze.

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1. Alcune considerazioni introduttive di carattere generale

Ho apprezzato molto l’analisi di Piera Loi, la cui relazioneintroduttiva, profonda e puntuale, ci ha offerto spunti preziosidi riflessione, anche di tipo comparato. L’aspetto che mi sem-bra più degno di nota è il suo invito a ripensare criticamente, difronte ai grandi cambiamenti del modo della produzione chesono di fronte a noi, alla tradizionale distinzione tra lavoro su-bordinato ed autonomo, arricchita dalle ulteriori frammenta-zioni prodotte dall’esperienza normativa di questi ultimi anni.Se ho ben capito, secondo Piera siffatte vecchie categorie ri-schiano di schiacciare il dibattito su articolazioni differenzialidelle tutele del lavoro non più adeguate ai nuovi ampi bisognidi protezione di tanti lavoratori afflitti da precarietà, disoccu-pazione, povertà. La relatrice ci propone allora di cimentarcicon un diverso paradigma generale, quello del rischio, il quale– in sostituzione dell’ormai difficile processo di qualificazionedelle fattispecie concrete, condizionante l’individuazione deivari, e profondamente differenti, assetti protettivi spettanti aciascun lavoratore – potrebbe diventare il referente unitario peril riconoscimento di tutele universali. La proposta ha l’indub-bio, stimolante fascino della provocante novità, e meriterebbeun’analisi approfondita, cui presumibilmente si dedicherà ladottrina nei prossimi mesi. A me, in questa sede, è solo possi-bile segnalare come essa richiami alla memoria le belle intui-

* Direttore della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale.

Collaborazioni e lavoro occasionaletra autonomia e subordinazione

di Umberto Carabelli *

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zioni contenute nel noto rapporto curato da Alain Supiot per laCommissione europea, Au délà de l’emploi, e come si coniughimolto bene con le scelte della Carta dei diritti fondamentali, lalegge di iniziativa popolare promossa dalla CGIL negli scorsimesi, il cui Titolo I mira a garantire un vasto pacchetto di dirit-ti a tutti i lavoratori, indipendentemente dal tipo di rapporto dilavoro da essi intrattenuto. Ma ricordo anche come la categoriadel rischio trovi un’eccellente sponda concettuale nella nota teo-ria di Ulrich Beck, posta a fondamento della sua concezione del-la modernità, con la sua problematica e complicata essenza dipericolo e paura.

Ciò detto, prima di passare a trattare più specificamente iltema che mi è stato assegnato, consentitemi, al fine di inqua-drarlo più correttamente nel mondo reale in cui ci muoviamo,di effettuare alcune brevi considerazioni di carattere generale,riguardanti le tendenze evolutive in atto nel modo della produ-zione dei beni e servizi per effetto della digitalizzazione, e leproiezioni sul lavoro che sono ricavabili dagli studi scientifici ditipo ingegneristico ed organizzativo.

L’aspetto che ritengo più rilevante è la certezza ormai diffusache i processi di digitalizzazione dei sistemi di produzione dibeni e servizi produrranno conseguenze di enorme rilievo sullavoro. Le c.d. piattaforme digitali diventeranno, infatti, un para-digma organizzativo generale, nel senso che tutte le imprese (enon solo quelle del mercato dei servizi e della gig economy), alfine di integrare tra loro le varie componenti dell’attività, dallestrutture fisse al lavoro, si organizzeranno per mezzo di sistemi diprogrammazione algoritmica, all’interno dei quali troverà spaziol’utilizzazione intensiva della robotica e dell’intelligenza artifi-ciale, a sostegno, ma anche a parziale sostituzione, del lavoroumano. E per effetto di tali trasformazioni si verificherannograndi cambiamenti in relazione a) alle modalità e b) ai contenutidelle nuove attività lavorative.

a) Sotto il primo profilo, grazie alle nuove tecnologie, la subor-dinazione – cioè il potere datoriale di eterodirigere ad libituml’esecuzione della prestazione – si manifesterà in modi diversidal passato, poiché la diffusione del lavoro cognitivo implicheràin generale un accrescimento degli spazi di autonomia operati-

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va e decisionale (si pensi, già oggi, al cosiddetto lavoro agile,caratterizzato, come ci ha spiegato Amos Andreoni, da luogo etempo di lavoro flessibili e da strumenti di lavoro digitali comenotebook, tablet, cellulari, che consentono di essere sempre con-nessi alla piattaforma aziendale).

Sempre in tale prospettiva è assai probabile che l’impresafortemente digitalizzata potrà servirsi, in modo ampio e relati-vamente stabile (e non sempre necessariamente fraudolento...),anche di lavoro autonomo, quantunque normalmente coordi-nato con la sua organizzazione (collaborazioni coordinate atempo indeterminato; tenuto conto, poi, che l’eterocoordina-mento appare di fatto inevitabile se il lavoro avviene tramitepiattaforma).

Peraltro, un’altra manifestazione dei predetti cambiamentitecnologici e organizzativi potrebbe consistere nella possibilitàper l’impresa di alleggerire ulteriormente il carico di forza la-voro occupato in modo continuativo, optando, grazie al con-trollo centralizzato operato tramite i sistemi informatici, perl’utilizzazione intensiva di lavoro di breve durata sia subordina-to (lavoro a termine, lavoro somministrato a tempo determina-to, e lavoro occasionale subordinato, nella misura in cui sia au-torizzato dalla legge) che autonomo. In tal senso, potrebbe cre-scere in modo assai significativo la quota di lavoratori precari diqualsivoglia tipo occupati ciclicamente, ovvero saltuariamente ooccasionalmente dall’impresa, così manifestandosi un’ulterioreacuta destrutturazione delle forme di occupazione dell’impresa(aggiuntiva rispetto all’inesorabile processo di sostituzione diforza lavoro da parte della robotica).

b) Sotto il secondo profilo, l’utilizzazione, in modo diffuso, del-la strumentazione digitale per l’esercizio della propria attivitàlavorativa renderà, poi, sempre più evidente il rischio (inverogià attuale in molte situazioni) dell’espansione dei controlli adistanza di quest’ultima oltre la linea di confine della dimen-sione personale, privata, dei lavoratori, così investendo il lorodiritto alla privacy ed alla riservatezza. Di qui l’esigenza di defi-nire con precisione i limiti a tali controlli ed alla costante di-sponibilità (raggiungibilità) del lavoratore, di cui il diritto alladisconnessione rappresenta l’aspetto più saliente.

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Un altro importante aspetto della profonda incidenza che legrandi mutazioni tecnologiche, organizzative e produttive all’o-rizzonte produrranno sul lavoro riguarderà, poi, come accenna-to, il contenuto dell’attività svolta dai lavoratori in favore dellenuove imprese digitalizzate. In questa prospettiva, saranno de-terminanti la tematica della tutela della professionalità dei la-voratori e quella, ad essa connessa, della regolazione della for-mazione di base e dell’accrescimento e aggiornamento dellecompetenze in ambito professionale (diritto/dovere alla forma-zione sia nel corso del rapporto di lavoro, sia nei periodi di nonoccupazione, dei quali si dirà più avanti).

Sarà inevitabile che io tralasci questi ultimi due aspetti deicambiamenti in atto, che non sono oggetto specifico della rifles-sione odierna, e per il cui studio sarà comunque necessario se-guire da vicino l’evoluzione tecnologico-organizzativa, al fine didefinire forme di tutela corrispondenti alle innovazioni che sipresenteranno nella concreta esperienza fattuale. Piuttosto è nelquadro delineato più sopra sub a) che vanno inserite le nostreriflessioni intorno alle trasformazioni dell’autonomia e della su-bordinazione (le relazioni di Piera Loi e di Amos Andreoni), especificamente, per quanto più mi riguarda, quelle relative aiproblemi giuridici attinenti all’utilizzo nelle nuove forme orga-nizzative delle collaborazioni coordinate e continuative e del la-voro occasionale autonomo. Fare chiarezza delle discipline at-tualmente vigenti in relazione a queste forme di lavoro può ser-vire a definire meglio le tutele che possono essere assicurate og-gi ai lavoratori, ma anche disvelare, implicitamente, quali caren-ze sono attualmente riscontrabili nelle predette discipline e qua-li bisogni di riforme si propongono per il legislatore.

2. Le collaborazioni coordinate e continuative: la fattispeciegenerale e le c.d. collaborazioni eterorganizzate

Conviene partire dalle collaborazioni coordinate e continuati-ve, alle quali sarà dedicata la maggior parte della mia attenzio-ne, stante la presenza ormai di nuove e specifiche disposizioniche enunciano le caratteristiche strutturali della fattispecie (art.

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409, n. 3, c.p.c., come modificato dall’art. 15, legge n. 81/2017)e che, per alcune forme di collaborazione dettano una normati-va assai forte di protezione, estendendo ad esse la disciplina dellavoro subordinato (art. 2, d.lgs. n. 81/2015).

Al lavoro occasionale autonomo dedicherò in seguito soltan-to alcune considerazioni conclusive, posto che riguardo ad essosi rinvengono nell’ordinamento soltanto alcune previsioni legi-slative di carattere fiscale e previdenziale.

Resta fermo, peraltro, in un caso e nell’altro, l’applicabilitàdelle generali, ‘povere e scarne’ norme del c.d. Jobs Act del lavo-ro autonomo (legge 81/2017), che non saranno oggetto specifi-co della mia analisi odierna, non avendo rilievo particolare aifini del discorso che svilupperò in questa sede.

2.1. Alcune considerazioni preliminari

Al fine di effettuare una corretta analisi della normativa intema di collaborazioni coordinate e continuative, sono necessa-rie alcune considerazioni preliminari.

a) La prima è che, a seguito delle modifiche apportate all’arti-colo 409, n. 3, c.p.c. da parte dell’art. 15, legge n. 81/2017, citroviamo oggi di fronte ad una nuova, e finalmente compiuta,definizione legale della figura delle collaborazioni coordinate econtinuative, onde è da essa che occorre prendere le mosse, alfine di procedere successivamente ad una corretta configura-zione delle collaborazioni c.d. eterorganizzate, disciplinate dal-l’articolo 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2015, rispetto alle quali il legislato-re prevede l’applicazione della disciplina giuslavoristica del la-voro subordinato.

In altre parole, oggi non è più possibile procedere ad una in-terpretazione di quest’ultima disposizione totalmente ‘scollega-ta’ da quella dell’art. 409, n. 3, c.p.c., posto che quest’ultima co-stituisce (per quanto in modo anomalo, essendo in realtà unanorma processuale) la norma definitoria generale in materia dicollaborazioni. Questo (scorretto) procedimento interpretativoè stato di fatto agevolato, fino ad oggi, dal totale silenzio dellavecchia (formulazione della) disposizione processuale circa lecaratteristiche tipologiche essenziali della fattispecie delle col-

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laborazioni, il quale ha probabilmente favorito l’emersione dicostruzioni ‘libere’ ed ‘ingegnose’ riguardanti le c.d. collabora-zioni eterorganizzate di cui all’art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2015. Lanuova versione dell’art. 409, invece, fissa oggi con molta chia-rezza tali caratteristiche; ragion per cui l’art. 2, in quanto nor-ma speciale che tratta di un particolare tipo di collaborazioni,va interpretato in modo del tutto coerente con esse, onde evitarecontraddizioni interne al sistema regolativo della figura. Que-st’ultima, insomma, deve sempre conservare, pure in presenzadi deroghe, i suoi tratti fondamentali.

Da quanto appena detto deriva che le interpretazioni del-l’art. 2, c. 1, effettuate fino oggi devono essere riesaminate pro-prio in ragione del fatto che hanno avuto origine in un momen-to in cui era assente una puntuale esplicitazione legislativa deitratti fondanti della figura delle collaborazioni. Come si dirà traun momento, la nuova formulazione dell’art. 409, n. 3, c.p.c.consente di individuare con precisione quei tratti, i quali do-vranno ricorrere puntualmente anche nelle collaborazioni c.d.eterorganizzate di cui all’art. 2, c. 11.

b) La seconda premessa serve a confutare una provocatoria in-terpretazione dell’art. 2, c. 1, del d.lgs. n. 81/2015, secondo laquale si sarebbe in presenza di una norma sostanzialmente inu-tile, poiché sancirebbe semplicemente il principio secondo ilquale, allorquando ricorrono gli indici della subordinazione (etali sarebbero quelli delineati nell’espressione «le cui modalitàdi esecuzione sono organizzate dal committente anche con rife-rimento ai tempi e al luogo del lavoro», nella quale non an-drebbe letto altro che una formulazione compatibile col princi-pio di eterodirezione ricavabile dagli artt. 2094 c.c. e 2104, c. 2,c.c.), il rapporto di lavoro deve essere considerato... subordina-to! Questa interpretazione presenta, infatti, un’evidente forza-tura concettuale che ha il sapore del paradosso, di un omaggio

1 Per il vero, il sottoscritto aveva cercato di evidenziare, in presenza del pre-cedente regime, come la maggior parte di tali interpretazioni sollevassero dubbidi coerenza già rispetto alla precedente previsione dell’art. 409, così come a suavolta interpretata nel corso dei tanti anni di vigenza; oggi la nuova versione ditale disposizione sembra offrire argomenti più robusti e convincenti per sostenerela tesi di allora, come cercherò di evidenziare nel prosieguo della relazione.

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a Monsieur de La Palisse, e in realtà mira soltanto a sminuire ilgrande potenziale insito nella disposizione, in termini di accre-scimento delle tutele da assicurare ai lavoratori autonomi cheprestano la loro attività come collaboratori coordinati e conti-nuativi. In realtà, è compito tipico dell’interprete cercare di da-re sempre alla norma un significato compiuto che ne giustifichirazionalmente l’emanazione; e ciò, come cercherò di dimostra-re, è senza dubbio possibile nel nostro caso, senza alcuna neces-sità di abdicare a siffatta precipua e nobile funzione.

c) Quest’ultima riflessione apre la strada ad un’ulteriore que-stione preliminare, e cioè la confutazione di un’altra interpre-tazione secondo la quale la predetta espressione rinvenibile nel-l’art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2015, pur non potendo essere interpre-tabile come equivalente semantico di quelle che denotano lasubordinazione, farebbe riferimento ad un profilo più generaledei poteri datoriali, quello della ‘organizzazione delle modalitàdi esecuzione della prestazione inclusive del tempo e del luogodel lavoro’. Di modo che l’applicazione ex lege della disciplinadel rapporto di lavoro subordinato alle collaborazioni che pre-sentano questo assetto dei poteri del committente andrebbe in-terpretata come un vero e proprio ampliamento della stessa no-zione di subordinazione. Siffatta interpretazione, la quale sipresenta senz’altro più coerente e ragionevole della precedente– in quanto rispetta l’indiscutibile obiettivo del legislatore di as-sicurare le tutele del lavoro subordinato anche a lavoratori au-tonomi, formalmente legati all’impresa con contratti di collabo-razione, ma soggetti ad un potere di coordinamento del com-mittente (v. meglio infra) – presta tuttavia il fianco ad una criti-ca difficilmente superabile. Essa, infatti, partendo dal presup-posto che l’art. 2, c. 1, nella parte in cui sancisce che «si applicala disciplina del rapporto di lavoro subordinato», opera una ri-qualificazione del contratto di lavoro, perviene, di fatto, ad unamanipolazione del concetto di subordinazione stratificatosi neltempo e consolidatosi con una elaborazione dottrinale e giuri-sprudenziale pluridecennale. Questa lettura, inoltre, trascura chel’espressione appena indicata si manifesta, obiettivamente, bendiversa da quella a suo tempo posta in essere dall’art. 69, c. 1,d.lgs. n. 276/2003, il quale prevedeva che «i rapporti di colla-

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borazione coordinata e continuativa instaurati senza l’indivi-duazione di uno specifico progetto [...] sono considerati rap-porti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla da-ta di costituzione del rapporto». Parlare di mera ‘applicazione’della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, come di-sposto dall’art. 2, c. 1, infatti, non significa affatto che il legisla-tore abbia inteso operare una diretta riqualificazione del contrat-to di collaborazione in una diversa fattispecie negoziale, ma sol-tanto, se le parole hanno un senso, che, ferma restando la natu-ra giuridica autonoma del medesimo (confermata dal fatto chela disposizione conserva la qualificazione di «committente» acolui che organizza le modalità di esecuzione della prestazio-ne), ad esso vengono estese le regole che disciplinano il lavorosubordinato. D’altro canto, si deve osservare che l’interpreta-zione criticata finirebbe per sovrapporsi alla volontà delle parti,e in particolare dello stesso lavoratore, il quale potrebbe nondesiderare affatto questa riqualificazione del contratto, che loesporrebbe ad una subordinazione non voluta; laddove la mera‘estensione’ delle tutele del lavoro subordinato, senza la riquali-ficazione del contratto, appare compatibile con una siffatta vo-lontà. Ma su questo aspetto tornerò più analiticamente nel pro-sieguo della trattazione.

d) Un’ultima considerazione riguarda, infine, la confutazione diun’ulteriore lettura della disposizione in questione, la quale,con l’intento di superare gli ostacoli qualificatori tradizionali,taglia, per così dire, la testa al toro, giungendo a sostenere chel’art. 2, c. 1, avrebbe dato vita ad un tertium genus rispetto al la-voro subordinato e a quello autonomo/coordinato, nel senso chela predetta ‘organizzazione delle modalità di esecuzione dellaprestazione, anche con riferimento ai tempi e al luogo del lavo-ro’ si collocherebbe, appunto, in una posizione intermedia trala subordinazione spettante al datore di lavoro ed il coordina-mento spettante al committente. A fronte di questa interpreta-zione, che si potrebbe definire di tipo ‘semplificante’, la primaosservazione che viene in mente è il richiamo del principio (c.d.rasoio) di Occam – secondo il quale entia non sunt multiplicandapraeter necessitatem (ovvero pluralitas non est ponenda sine necessi-tate) – che induce a rigettare la creazione di tipi contrattuali in-

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termedi quando ciò non sia necessario, in ragione della presen-za di soluzioni che salvaguardano l’assetto consolidato. Basticonsiderare che, in fin dei conti, a questa terza figura interme-dia si dovrebbe applicare la disciplina del lavoro subordinato.Operazioni interpretative come questa risultano, d’altronde, as-sai rischiose, posto che, tra il bianco della subordinazione e ilnero dell’autonomia (l’attribuzione dei colori non implica certo,per quanto riguarda queste osservazioni, alcun giudizio di valo-re), sarebbe possibile astrattamente l’individuazione di più di‘cinquanta sfumature di grigio’, che certo indurrebbe in futurol’immaginazione degli studiosi a dedicarsi alla costruzione diuna molteplicità di tipi contrattuali. In verità, di mostri ibridati(sorta di lavoratori ‘autonodinati’ o ‘suborditonomi’...) derivatidalle due fattispecie tradizionali non pare affatto esserci biso-gno; c’è piuttosto bisogno di un’applicazione estensiva di tuteleuniversali, quantunque spettanti a figure contrattuali che con-servano per il resto la loro tipica essenza causale. E questo, infin dei conti, è ciò che sembra fare la norma in questione, an-che se con alcune improprietà tecniche, su cui mi soffermeròtra breve, peraltro tutt’altro che insormontabili.

2.2. La fattispecie generale delle collaborazioni coordinatee continuative di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c.

Effettuate queste considerazioni preliminari, indispensabilidal punto di vista sia metodologico che sostanziale, occorre oradedicarsi alla proposizione di una interpretazione dell’art. 2, c.1, d.lgs. n. 81/2015, che sia coerente con quanto sin qui detto.Ma, come accennato più sopra, a tal fine la strada giusta dapercorrere parte ora dall’analisi prioritaria del nuovo art. 409,n. 3, c.p.c. (come modificato dall’art. 15, legge n. 81/2017), ilquale costituisce la norma generale che qualifica la figura dellecollaborazioni coordinate e continuative: si tratta di quei rap-porti «che si concretino in una prestazione di opera continuativae coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carat-tere subordinato», con la precisazione che «la collaborazione siintende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coor-dinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collabora-tore organizza autonomamente l’attività lavorativa».

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Il significato di questa disposizione appare, ad avviso del sot-toscritto, relativamente chiaro, se solo ci si impegna in un lavo-ro esegetico che tenga conto obiettivamente delle parole del le-gislatore. In primo luogo, la disposizione conferma in pieno lanatura autonoma («non a carattere subordinato», «organizzaautonomamente») del rapporto di collaborazione coordinata econtinuativa, onde si deduce che esso risulta sempre diretta-mente riconducibile ai rapporti di lavoro autonomo come defi-niti dall’art. 2222 c.c. (profilo questo che tornerà utile nel pro-sieguo dell’analisi). In secondo luogo, la disposizione confermaaltresì che la tipicità della figura sta nell’esigenza di un coordi-namento dell’attività lavorativa con l’organizzazione del com-mittente. La vera novità della modifica operata nel 2017 stadunque soltanto (si fa per dire) nella precisazione che le moda-lità del coordinamento sono «stabilite di comune accordo dalleparti»; una precisazione che mira a risolvere, anche da un puntodi vista teorico, l’incertezza emersa in precedenza, nel silenziodel legislatore, circa la spettanza ex lege di un potere di coordi-namento in capo al committente (con la conseguente posizionea suo carico dei rischi inerenti al coordinamento stesso), ovverol’imposizione ex lege di un obbligo di coordinamento in capo alcollaboratore (con conseguente inversione del carico dei pre-detti rischi).

Consentitemi di sottolineare, perché la questione ha granderilievo per l’interpretazione dell’art. 2, c. 2, d.lgs. n. 81/2015,che quanto appena detto, se, da un lato, significa che alle partiè assegnato il compito di definire analiticamente, al momentodel contratto, le modalità del coordinamento, dall’altro lato nonsignifica affatto che esse non possano stabilire pattiziamenteche (in toto o per quanto non previsto) sia attribuito un poteredi coordinamento in capo al committente ovvero riconosciutoun obbligo di coordinamento in capo al collaboratore.

Ciò detto, ancora due precisazioni che torneranno utili trabreve.

In primo luogo, quando la norma parla di «modalità di coor-dinamento», essa vuole riferirsi, appunto, alla fissazione dellecoordinate (si noti l’assonanza) entro cui deve collocarsi la pre-stazione dell’attività lavorativa del collaboratore. Ebbene, tenu-to conto dell’esperienza empirica, tali coordinate, che potrem-

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mo definire in un certo senso tridimensionali, possono riguarda-re il raccordo con l’organizzazione complessiva del committen-te tanto dell’esecuzione della concreta prestazione, quanto deisuoi profili spazio-temporali (si tratta, evidentemente, dei treaspetti essenziali che attengono, appunto, all’inserimento dellaattività di collaborazione all’interno di quell’organizzazione)2.

In secondo luogo vale la pena di sottolineare che, allorquan-do la norma utilizza l’espressione «il collaboratore organizzaautonomamente l’attività lavorativa», la parola ‘organizza’ nonassume nessun significato normativo particolare se non quellodi esplicitare in positivo quanto l’articolo 2222 c.c. definisce innegativo. Come noto, quest’ultimo stabilisce che si è in presen-za di un lavoro autonomo «quando una persona si obbliga acompiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio con la-voro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazio-ne nei confronti del committente». Ebbene ‘organizzare auto-nomamente’ non significa altro che ‘compiere un’attività senzavincolo di subordinazione’: e d’altronde è questa l’espressioneutilizzata abitualmente da dottrina e giurisprudenza per descri-vere in positivo il lavoratore autonomo, visto che sarebbe addi-rittura linguisticamente errato affermare che il lavoratore auto-nomo ‘dirige autonomamente’ la propria prestazione. Insom-ma, per farla breve, nella lingua italiana, all’eterodirezione dellavoratore subordinato non corrisponde l’autodirezione del la-voratore autonomo, ma appunto l’organizzazione autonomadella propria attività. Non si trascuri, d’altro canto, l’evidente

2 Un esempio concreto potrebbe essere utile a chiarire quanto appena detto.Si pensi ad un contratto di collaborazione stipulato da una biblioteca con ungiovane lavoratore, e finalizzato ad ottenere da quest’ultimo la classificazione diun determinato numero di libri entro un periodo di tempo dato. Il coordina-mento dell’esecuzione della prestazione potrebbe ben consistere nella previsio-ne, definita dalle parti per contratto, della necessaria utilizzazione di un pro-gramma informatico di classificazione compatibile con il sistema della bibliote-ca; così come il coordinamento spaziale potrebbe consistere nella possibilità del-l’esecuzione della prestazione dall’esterno della biblioteca con connessione weba distanza con il sistema informatico della biblioteca, ovvero all’interno della bi-blioteca, con accesso diretto al sistema tramite i computer della medesima; lad-dove il coordinamento temporale potrebbe consistere nella previsione di un ar-co di tempo giornaliero entro cui poter effettuare la prestazione, coincidentecon lo spazio di tempo di accensione del sistema informatico della biblioteca,ovvero di apertura della medesima.

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assonanza con l’art. 2082 c.c., dove l’imprenditore viene defini-to come colui che ‘organizza’ la propria attività economica alfine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

2.3. Le c.d. collaborazioni eterorganizzate, in realtà collaborazionieterocoordinate

Detto questo possiamo ora passare ad esaminare il dettatodell’art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2015, ribadendo ancora una voltache, per evidenti ragioni di coerenza sistematica, l’interpreta-zione di questa norma dovrà svolgersi tenendo conto dei risulta-ti appena raggiunti nell’interpretazione dell’articolo 409, n. 3,c.p.c. Le collaborazioni c.d. eterorganizzate sono, infatti, pursempre delle collaborazioni coordinate e continuative, solo chesono qualificate, come detto più sopra, da due elementi tipici:esse «si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente perso-nali» e le loro «modalità di esecuzione sono organizzate dal com-mittente anche con riferimento ai tempi e al luogo del lavoro».

Quanto al primo elemento, appare evidente che esso è inclu-so nel requisito del «prevalentemente personale» fissato dal-l’art. 409, n. 3, c.p.c., riducendone, ovviamente, la portata.

Quanto al secondo, balza subito all’evidenza come nella for-mula utilizzata dalla disposizione non si parli di ‘coordinamen-to’, come nell’art. 409, n. 3, c.p.c., ma di ‘organizzazione dellemodalità di esecuzione, anche con riferimento ai tempi e alluogo di lavoro’. Un’espressione quest’ultima che – come ac-cennato sub 2.1 – ha dato adito ad interpretazioni di vario tipo,tutte sottoponibili a critiche che ritengo non trascurabili.

In realtà, ove si consideri quanto detto più sopra in merito allainterpretazione dell’art. 409, n. 3, c.p.c., e tenuto conto che lanuova (e, in fin dei conti, più rigorosa) formulazione di quest’ul-timo risale al 2017, e dunque è successiva a quella dell’art. 2, c. 1,che risale invece al 2015, si può convenire che il linguaggio adot-tato dal legislatore nella formulazione di quest’ultimo possa esse-re stato in una certa misura improprio ed approssimativo.

a) Cominciamo proprio dal fatto che nella disposizione si parladi ‘organizzazione’ e non di ‘modalità di coordinamento’ (dellemodalità di esecuzione della prestazione).

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Ebbene, innanzi tutto a me non pare possano sorgere dubbicirca la sostanziale (benché solo parziale) sovrapponibilità delsignificato dei due termini. La loro differenza, infatti, consistenel fatto che, mentre il primo (organizzazione) descrive un pro-cesso che ha in generale ad oggetto l’intera gamma dei mezzi diproduzione, compreso il lavoro prestato in forza dei vari tipi dicontratto (si ricordi ancora una volta quanto previsto dall’art.2082 c.c.), il secondo (coordinamento) implica il raccordo dellasingola, specifica prestazione dedotta nel contratto individualecon il sistema complesso dei mezzi di produzione utilizzato dalcommittente. Il fatto che il legislatore abbia usato, in un certosenso atecnicamente, a mo’ quasi di sineddoche, il primo termi-ne piuttosto che il secondo, non mi pare possa alterare il signifi-cato intrinseco del precetto. Insomma, alla luce di quanto for-malmente sancito nel nuovo art. 409, n. 3, c.p.c., la ‘organizza-zione’ di cui parla l’art. 2, c. 1, altro non significa che definizio-ne delle ‘modalità di coordinamento’, prevista dall’art. 409, n. 3.

In secondo luogo, si noti che, se è vero che nell’art. 2, c. 1, siparla di ‘organizzazione delle modalità di esecuzione delle pre-stazioni di lavoro’, parimenti, ove si rilegga attentamente lacomplessiva disposizione dell’art. 409, n. 3, c.p.c., può notarsicome anche le ‘modalità di coordinamento’ attengano per l’ap-punto all’esecuzione della ‘prestazione di opera’, così manife-standosi una piena sintonia concettuale tra le due disposizioni.

Ancora, in terzo luogo, il fatto che, nell’art. 2, c. 1, l’orga-nizzazione delle modalità di esecuzione avvenga ‘anche con rife-rimento ai tempi e al luogo del lavoro’, non contrasta per nien-te, ma al contrario aderisce perfettamente a quanto si è detto inprecedenza ragionando sull’art. 409, c. 3, c.p.c. In base a questaprevisione, infatti, il coordinamento definibile pattiziamente dal-le parti riguarda il raccordo con l’organizzazione complessivadel committente sia dell’esecuzione della prestazione sia deiprofili spazio-temporali in cui essa va eseguita.

Rispetto a questa affermazione, vale la pena di precisare cosasi intenda quando si parla di siffatto coordinamento (che sopraabbiamo chiamato ‘tridimensionale’), chiarendo subito che ci sivuole riferire a profili di organizzazione del lavoro autonomoche non sono confondibili con l’eterodirezione tipica del lavorosubordinato. Così, parlare di ‘coordinamento delle modalità di

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esecuzione della prestazione’ non significa affatto dare disposi-zioni per (eterodirigere) l’esecuzione e la disciplina del lavoro(art. 2104, c. 2, c.c.): queste ultime attengono, infatti, specificamenteai contenuti della singola prestazione dal punto di vista tecnico profes-sionale; mentre il coordinamento riguarda il rapporto tra la prestazio-ne stessa e gli altri fattori della produzione. Parimenti, il coordina-mento spazio-temporale della prestazione con l’assetto organiz-zativo del committente consiste nella eventuale definizione diluoghi (anche immateriali) e di periodi di tempo, compatibilicon tale assetto, entro i quali il collaboratore deve effettuare lapropria attività, fornendo il risultato atteso dal creditore. È dasottolineare, per quanto riguarda il coordinamento spazio-tem-porale, come, rispetto al luogo, esso potrebbe essere necessa-riamente condizionato dal (e dunque intrinseco al) tipo di pre-stazione da effettuare; ma anche come il coordinamento tem-porale della prestazione non abbia nulla a che vedere con vin-coli di orario di lavoro, ma attenga soltanto alla definizione diambiti temporali entro cui effettuare la propria prestazione.Sotto tutti questi profili appare chiaro come resti assolutamenteintatta l’autonomia (non-subordinazione) del lavoratore nell’ef-fettuazione della propria prestazione3.

b) Ciò detto, occorre soffermarsi su quello che costituisce l’a-spetto più significativo (e forse più controverso) della specificitàdella fattispecie disegnata dall’art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2015, ri-spetto a quella emergente dalla nuova formulazione dell’art.409, n. 3, c.p.c.: tale aspetto differenziale sta nel fatto che, men-tre nell’art. 409 si parla di «modalità di coordinamento stabilitedi comune accordo dalle parti», nell’art. 2, c. 1, ci si riferisce aduna situazione in cui sembra assente la dimensione pattizia, es-sendo direttamente imputato al committente il potere di ‘orga-nizzare’ la modalità di esecuzione della prestazione. E tuttaviaanche sotto questo profilo non ci si può lasciare ingannare dalmero dato formale, ma occorre procedere ad un’analisi siste-matica della disciplina emergente dal combinato disposto delledue previsioni. Si è detto infatti in precedenza che, se l’art. 409,n. 3, c.p.c., affida alle parti la definizione analitica, all’atto della

3 Si rinvia a quanto detto alla nota 2.

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stipula, delle modalità del coordinamento, ciò non esclude af-fatto la possibilità per le stesse di concordare che spetti poi di-rettamente al committente il potere di coordinare (anche soloper alcuni aspetti) l’attività del collaboratore autonomo in mo-do da inserirla nella propria organizzazione. Ebbene, questa èproprio la situazione delineata nell’art. 2, c. 1, il quale presup-pone, dunque, che l’accordo delle parti abbia prodotto la situa-zione predetta. Anche se vale la pena di sottolineare come, inrelazione alla fonte di questo potere di coordinamento, l’accor-do scritto potrebbe anche essere formalmente silente sul punto,rilevando in fin dei conti, ai fini del prodursi dell’effetto dell’e-stensione delle tutele del lavoro subordinato, semplicementeche esso venga esercitato.

Se quanto ho cercato di argomentare fin qui ha un fonda-mento, io credo che occorra, già da un punto di vista linguisti-co, cominciare a riportare le cose in ordine, evitando di utiliz-zare espressioni che hanno soltanto l’effetto di confondere leidee, così danneggiando i soggetti che più avrebbero bisogno dichiarezza, per poter godere senza incertezze dell’estensione del-la disciplina del lavoro subordinato assicurata dall’art. 2, c. 1:mi riferisco proprio ai collaboratori (autonomi) coordinati econtinuativi. Se è vero che l’‘organizzazione’ prevista dalla di-sposizione altro non è se non il ‘coordinamento’ di cui all’art.409, n. 3, c.p.c., allora è inutile e foriero di confusione parlare,come si fa abitualmente, di un (potere di) eterorganizzazionedel committente. Deve invece affermarsi senza incertezze che, afronte dell’eterodirezione del datore di lavoro subordinato, di cuiagli artt. 2094 e 2104 c.c., si staglia l’eterocoordinamento di cuiall’art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2015 (già incluso, peraltro, concettual-mente nell’art. 409, c. 3, c.p.c.)4. L’eterorganizzazione comeconcetto autonomo e differenziale non esiste, e soprattutto nonè necessaria; ed anzi la sua forzata ed ingiustificata proposizio-ne rischia di essere dannosa per i lavoratori.

Proprio in questa prospettiva, va chiarito che l’art. 2, c. 1, può

4 Vale forse la pena di aggiungere che l’esigenza di prevedere le coordinateentro cui si colloca la prestazione di lavoro sussiste anche nel lavoro subordinato,e spetta ex lege al datore di lavoro, essendo, come si è già detto in testo, una com-ponente dell’organizzazione complessiva dei mezzi di produzione (art. 2082 c.c.).

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essere configurato come una disposizione che, attraverso l’esten-sione alle collaborazioni eterocoordinate delle previsioni legi-slative applicabili al lavoro subordinato, persegue essenzialmen-te finalità antielusive e antifraudolente, in quanto considera, e-videntemente, l’attribuzione al committente del potere di coor-dinamento della collaborazione come un rischio di utilizzo dellavoratore secondo modalità che, di fatto, possono confondersifacilmente con la subordinazione. E tuttavia proprio questaconsiderazione ci conduce ad un’ultima osservazione di rilievo,che mira a tenere conto dell’effettivo interesse delle parti (inparticolare del lavoratore) nonché delle reali trasformazioniche stanno avvenendo nell’organizzazione del lavoro delle im-prese più digitalizzate, cui si è accennato in apertura.

c) L’osservazione in questione riguarda un problema derivanteancora una volta dalla formulazione impropria e atecnica del-l’art. 2, c. 1, nella parte in cui prevede l’estensione a fini anti-elusivi e antifraudolenti della «disciplina del rapporto di lavorosubordinato» alle collaborazioni eterocoordinate dal commit-tente. Il fatto è che, se, alla luce di quanto detto collaborazionidi questo tipo conservano in toto la loro natura di lavoro auto-nomo, la pretesa di estendere ad esse l’intera disciplina del la-voro subordinato solleva una grave questione di coerenza in-terna al sistema, nella misura in cui, applicando alla lettera taleprevisione si finirebbe per imporre alla specifica fattispecie re-golata dalla predetta norma (e quindi, in sostanza, al collabora-tore autonomo) l’applicazione non soltanto delle disposizioniriguardanti la tutela del lavoratore subordinato, ma anche diquelle più direttamente riguardanti l’attribuzione e l’eserciziodei poteri datoriali in cui si sostanzia la subordinazione; il cheappare decisamente incongruo, anzi addirittura inammissibile. Infin dei conti non si comprende per quale motivo dovrebbe ob-bligarsi il lavoratore a sottoporsi a regole che sono incompati-bili con il suo status di lavoratore autonomo, il quale potrebbederivare da una vera e propria scelta esistenziale.

Questo aspetto, d’altro canto, è stato percepito con chiarezzadagli estensori della Carta dei diritti universali del lavoro, la pro-posta di legge popolare presentata dalla CGIL, la quale, all’art.42, c. 2, prevede, in piena coerenza, che alle collaborazioni coor-

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dinate e continuative esclusivamente personali (tutte, non soloquelle eterocoordinate) «si applica la disciplina, compresa quel-la previdenziale, prevista per il contratto di lavoro subordinato,ad eccezione degli articoli 2100, 2101, 2103, 2104, comma 2,2106, 2107 e 2108 del codice civile».

Sul punto, stante il silenzio del legislatore, la risposta saràinevitabilmente data dalla giurisprudenza, la quale, nel caso con-venisse sull’analisi che precede, non potrebbe che ovviare all’in-congruenza appena rilevata, ragionando in termini di incompati-bilità della predetta estensione generale con la perdurante natu-ra autonoma delle collaborazioni continuative, quantunque ete-rocoordinate dal committente, e individuando le norme nonestensibili alle predette collaborazioni, per l’incompatibilità ap-pena enunciata. Quelle individuate dalla Carta dei diritti possono,a mio avviso, rappresentare un utile punto di riferimento.

Concludendo vale ancora la pena di segnalare, questa voltain termini di politica del diritto e non di interpretazione del di-ritto positivo, che nella prospettiva di un crescente bisogno difronteggiare i nuovi modelli di produzione e lavoro, su cui ci siè soffermati in apertura, probabilmente la scelta del legislatoredi confinare alle sole collaborazioni eterocoordinate l’applica-zione delle tutele del lavoro subordinato potrebbe rivelarsi in-sufficiente. E forse la soluzione offerta proprio dalla Carta deidiritti – e cioè estendere quelle tutele a tutte le collaborazioni,ma anche ai lavoratori autonomi ‘economicamente dipendenti’(sempre l’art. 42, c. 3, della Carta fa riferimento ai lavoratori,con o senza partita IVA, che si obbligano a compiere, in favoredi un committente, un’opera o un servizio con lavoro esclusi-vamente proprio, per una durata complessiva di più di sei mesiannui, e con un compenso superiore al 60% dei corrispettiviannui complessivamente percepiti) – potrebbe alla fine risultarela più ragionevole ed opportuna.

3. Il lavoro occasionale subordinato ed autonomo

Esaurita la trattazione del tema delle collaborazioni coordi-nate e continuative, resta da esaminare quello del lavoro occa-sionale subordinato ed autonomo.

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Non vi è, per il vero, molto da dire riguardo ad esso, se nonsottolineare che mentre per il lavoro occasionale subordinatoesiste comunque una disciplina di ambito giuslavoristico restrit-tiva, con limiti di accesso e di utilizzo esplicitati da una recenteordinanza della Corte di Cassazione, della quale darò notiziatra breve, per il lavoro occasionale autonomo non esiste, invece,alcuna regolazione di questo tipo, onde esso può essere consi-derato come un istituto privo di restrizioni nell’accesso e nell’u-tilizzo, una vera e propria area grigia, dove lo sfruttamento dellavoratore può risultare particolarmente accentuato. Ma proce-diamo per gradi.

In merito al lavoro occasionale subordinato (nel qualificarein tal senso la figura di cui all’art. 54-bis mi rifaccio alla correttalettura letterale e sistematica della disposizione che è stata datadi recente in dottrina), penso possa essere data per scontata laconoscenza da parte di tutti della vicenda referendaria che haportato in un primo momento all’abrogazione degli artt. 48, 49(come modificato, al comma 3, dal d.lgs. n. 185/2016) e 50, deld.lgs. n. 81/2015 (Jobs Act) – i quali disciplinavano il lavoro tra-mite vouchers – ad opera del d.l. n. 25/2017, poi convertito, sen-za modificazioni, nella legge n. 49/ 2017; ciò al fine di scongiu-rare il referendum dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzio-nale con sentenza 11-27 gennaio 2017, n. 28. Peraltro, subitodopo l’ordinanza della Corte di Cassazione del 27 aprile 2017,con la quale veniva statuito che il referendum non dovesse piùavere corso, il legislatore è nuovamente intervenuto in materiacon l’art. 54-bis della legge n. 96/2017 (a sua volta di conversio-ne del d.l. n. 50/2017), con il quale ha dettato una nuova disci-plina dell’istituto.

Quello che forse non tutti sanno è che, in data 7 agosto 2017la CGIL, i dirigenti della CGIL promotori della richiesta di refe-rendum hanno presentato una nuova «istanza di riesame e di ul-teriori provvedimenti», con la quale hanno chiesto alla Corte diCassazione di riesaminare l’ordinanza del 27 aprile e di emette-re i provvedimenti consequenziali (sostanzialmente dar corsonuovamente al referendum), in quanto il sopraggiungere dell’art.54-bis aveva di fatto reso vana l’abrogazione della normativa suivouchers del Jobs Act, dettando una disciplina del tutto sovrap-ponibile per sfera di applicazione a quella oggetto dell’origina-

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ria iniziativa referendaria, e sostanzialmente non differente daquest’ultima per i suoi contenuti, salvo marginali differenze.L’istanza, partendo dal presupposto che, in altra occasione(sent. n. 68/1978), la Corte Costituzionale aveva riconosciutoche un referendum già ammesso potesse essere ‘trasferito’ da unalegge abrogata ad una sopravvenuta prima della data in cuiavrebbe dovuto svolgersi la consultazione referendaria, chiede-va alla Corte di Cassazione di pronunciarsi in modo analogo nelcaso di specie, anche se il nuovo art. 54-bis era stato approvatodopo l’ordinanza del 27 aprile, visto che l’effetto di ‘mortifica-zione’ dell’istituto di democrazia diretta operato nel caso dellavoro occasionale era sostanzialmente corrispondente a quelloa suo tempo giudicato dalla Corte.

Ebbene, con la recentissima ordinanza del 29 novembre 2017,la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dei promotori, ma,nel far questo, ha affermato due principi di grande rilievo, ilprimo sul piano del diritto costituzionale, l’altro sul piano delladisciplina del lavoro occasionale.

Quanto al piano del diritto costituzionale, la Corte ha sancitoche: «È ineludibile il potere-dovere di riattivare il procedimen-to referendario già dichiarato chiuso, allorché il legislatore, an-ziché provvedere all’introduzione di una disciplina sostitutiva,operi attraverso la scissione dell’intervento in due fasi: unaprima, consistente nell’abrogazione tout court delle disposizionioggetto dell’iniziativa referendaria, idonea a determinare lacessazione delle relative operazioni (come avvenuto nella spe-cie); e una seconda – ravvicinata nel tempo – costituita dall’in-troduzione di una nuova disciplina della stessa materia [...]. Inrelazione ad una vicenda come quella in esame [...] il dupliceintervento legislativo si è verificato in tempi particolarmenteravvicinati, e quindi con caratteristiche chiaramente sintomati-che, sul piano oggettivo, di un uso strumentale della funzionelegislativa, idoneo a frustrare l’esercizio diretto della sovranitàpopolare, in violazione sostanziale dell’art. 75 Cost.».

Dopo aver affermato questo importante principio, destinatoa caratterizzare profondamente in futuro l’istituto referendario,la Corte, passando all’esame della normativa incriminata, hapoi rigettato l’istanza nel merito, stabilendo che: «la nuova re-golamentazione di cui all’art. 54-bis, in disarmonia con la pre-

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cedente, persegue un’accentuazione delle limitazioni, non soloquantitative ma anche qualitative, un’agevolazione della trac-ciabilità attraverso la gestione informatica unitaria da partedell’INPS, un aumento delle tutele per il prestatore sia sul fron-te retributivo che delle modalità del rapporto, un irrigidimentodel profilo sanzionatorio. Il passaggio dalla disciplina del c.d.lavoro accessorio a quella del c.d. lavoro occasionale non appa-re meramente terminologico ma di contenuto».

Ebbene, va segnalato come, nonostante il rigetto dell’istanza,nell’affermare che il ‘nuovo’ istituto si qualifica per la previsio-ne di limiti di ordine sia quantitativo che qualitativo, la Corteabbia formalmente sancito che i lavori per i quali le impresepossono ricorrere ai lavori occasionali, oltre che rispettare i li-miti economici e di durata di cui al c. 1, devono consistere effet-tivamente in «prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ri-dotta entità». Questa lettura della norma è di particolare im-portanza, perché apre la strada all’accertamento giudiziale del-la violazione di quei limiti da parte degli utilizzatori. In parti-colare, come evidenziato dalla Corte, la qualificazione del con-tratto di lavoro occasionale come avente ad oggetto ‘prestazionidi lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità’ costituisce una«indicazione qualitativa non puramente teorica ma [...] concre-tamente condizionante, attraverso la possibile verifica in sedecontenziosa, il corretto utilizzo dell’istituto». Parimenti, in rela-zione al limite dei 5.000 euro stabilito per ciascun utilizzatorein riferimento alla totalità dei prestatori – per il cui mancato ri-spetto non sono previste specifiche norme sanzionatorie – la Corte haaffermato che «sarà evidentemente la giurisprudenza a ricerca-re e individuare le applicabili conseguenze pregiudizievoli». Sitratta di affermazioni che costituiscono, in un certo senso, unasorta di ‘bilanciamento’ della mancata ammissione della nuovadisciplina alla verifica referendaria, tramite l’apertura di uncontrollo giudiziario sul corretto utilizzo dell’istituto. Ed al ri-guardo va sottolineato che:

a) qualora non sussista la natura occasionale o saltuaria della pre-stazione pare potersi richiamare quanto affermato dall’Ispet-torato Nazionale del Lavoro nella recente circolare n. 5/2017(del 9 agosto 2017), in caso di violazione del c. 5 dell’art. 54-bis,

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e cioè che: «la situazione integra un difetto ‘genetico’ affe-rente alla costituzione del rapporto e comporta dunque, inapplicazione dei principi civilistici, la conversione ex tuncdello stesso nella tipologia ordinaria (art. 1, d.lgs. n. 81/2015)del lavoro a tempo pieno e indeterminato, con applicazionedelle relative sanzioni civili e amministrative, laddove evi-dentemente sia accertata la natura subordinata dello stesso»;

b) nel secondo caso, invece, potrà applicarsi in via analogica, ri-spetto a tutti i lavoratori il cui utilizzo ha determinato il su-peramento del limite dei 5.000 euro di cui al c. 1, lett. b, del-l’art. 54-bis, la sanzione della trasformazione del rapportooccasionale in un rapporto a tempo pieno e indeterminato,come previsto dal c. 20 dello stesso articolo.

Se, dunque, a fronte della nuova disciplina del lavoro occa-sionale subordinato, si può riconoscere che essa non consentepiù abusi quali quelli perpetrati in vigenza degli artt. 48 e ss.del d.lgs. n. 81/2015, con non altrettanta tranquillità si puòconsiderare l’attuale statuto giuridico del lavoro autonomo oc-casionale.

Quest’ultimo, ancora una volta, può essere in un certo sensoidentificabile in negativo (ma si tratta, sia ben chiaro, di unamia personale elaborazione definitoria): un’attività svolta da unlavoratore in favore di un committente senza soggiacere a vin-coli di subordinazione o di coordinamento, in modo occasionale osaltuario. Orbene, al momento non esistono, in relazione a que-sto tipo di rapporto, disposizioni di tutela lavoristica come perle collaborazioni coordinate e continuative, ma (a parte le nor-me generali del c.d. Statuto del lavoro autonomo di cui allalegge n. 81/2017, che per il vero sono assai poco rilevanti perquello occasionale) solo previsioni di tipo fiscale e contributivo.

Va detto, peraltro, per chiarire bene la questione, che la nor-mativa fiscale non si interessa, in realtà, dell’occasionalità dellaprestazione di lavoro autonomo svolta dal lavoratore nei con-fronti di un committente, bensì dell’abitualità o meno, in gene-rale, dell’esercizio di un’attività da parte del lavoratore (dimodo che, essendo le sue prestazioni di lavoro autonomo spo-radiche, egli è esonerato dall’apertura di una partita IVA). Ovesussista questo requisito di non abitualità, il reddito prodotto

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dal lavoratore rientrerà nella categoria dei ‘redditi diversi’ aisensi dell’articolo 67, comma 1, lettera l, del d.p.r. n. 917/1986(TUIR), «i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo nonesercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare,non fare o permettere»); egli sarà assoggettato a ritenuta d’ac-conto e pagherà le imposte sulla base della differenza tra l’am-montare dei compensi percepiti nel periodo d’imposta e le spe-se specificamente inerenti alla loro produzione. Per contro, èda sottolineare che anche un professionista con partita IVA puòsvolgere, in favore di un singolo committente, una prestazionedi lavoro autonomo che, dal punto di vista lavoristico, risultioccasionale o saltuaria (e cioè priva di subordinazione e coordi-namento, e non continuativa), come tale non soggetta al mo-mento a regole di tutela lavoristica. Dal punto di vista del dirit-to tributario, peraltro, tale attività rientrerà nell’art. 53 delTUIR, ai sensi del quale (c. 1) «sono redditi di lavoro autonomoquelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Per eser-cizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professioneabituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomodiverse da quelle considerate nel Capo VI [...]». Insomma, perquel lavoratore, quella prestazione sarà occasionale dal puntodi vista del rapporto intercorrente con il committente, ma rien-trerà (ai fini fiscali) nella sua attività abituale, svolta professio-nalmente.

Analoghe considerazioni, solo parzialmente diverse, vannoeffettuate rispetto alla disciplina contributiva cui sono assogget-tate le prestazioni di lavoro occasionale. Anche in questo caso,l’occasionalità che interessa il legislatore non è tanto quelladella singola prestazione di lavoro nei confronti del committen-te, bensì quella dell’esercizio dell’attività da parte del lavorato-re. Solo che, in questo caso, la ‘sporadicità’ del medesimo vienericavata dal mancato superamento di un limite di reddito an-nuale, pari a 5.000 euro lordi. L’art. 44, c. 2, d.l. n. 269/2003,conv. nella legge n. 326/2003, prevede, infatti, che «[...] A de-correre dal 1° gennaio 2004 i soggetti esercenti attività di lavo-ro autonomo occasionale [...] sono iscritti alla gestione separata[...] solo qualora il reddito annuo derivante da dette attività siasuperiore ad euro 5.000. Per il versamento del contributo daparte dei soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasio-

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nale si applicano le modalità ed i termini previsti per i collabo-ratori coordinati e continuativi iscritti alla predetta gestione se-parata». Pure in questo caso, peraltro, parrebbe da ritenere –anche a fronte del tenore della disposizione – che finanche incaso di superamento del limite dei 5.000 euro, una prestazionedel lavoratore resti occasionale dal punto di vista giuslavoristicodel singolo rapporto di lavoro con il committente.

Queste ultime osservazioni mi inducono ad effettuare unaconsiderazione conclusiva.

Occorre essere accorti nell’adottare espressioni che possonoavere significati e valori differenti a secondo della specifica di-sciplina che si prende in esame, in particolare tenendo presen-te che l’occasionalità può costituire una caratteristica inerentead un rapporto di lavoro autonomo intercorrente con un de-terminato committente, ovvero, reciprocamente, può riguarda-re, in generale, un modo di essere dell’attività autonoma del la-voratore, indipendentemente dal singolo rapporto lavorativo5.

In verità l’assetto attuale dovrebbe essere innovato propriopartendo da una definizione legislativa chiara e precisa del la-voro occasionale autonomo e dalla fissazione di regole essen-ziali di tutela lavoristica dei lavoratori che lo praticano. Ciò an-che tenuto conto del fatto che tale figura potrebbe diventaresempre più diffusa con l’avanzare dei processi di digitalizzazio-ne dei sistemi produttivi, e specialmente nell’ambito della c.d.gig economy. Una volta raggiunto questo obiettivo, poi, nulla im-pedirebbe di incardinare su tale definizione conseguenze diffe-renziate in materia fiscale o previdenziale a seconda della ricor-renza di limiti e condizioni volta a volta stabiliti dal legislatore.Per tale via si raggiungerebbe non solo l’obiettivo di assicurare

5 D’altro canto, ove si legga con attenzione l’art. 54-bis, esaminato in prece-denza, si potrà notare come esso, al c. 1, faccia comunque riferimento a limitiquantitativi del lavoro occasionale addirittura di tre tipi: quello riguardante illavoratore in relazione ai rapporti intercorsi con un singolo committente (lett. c,€ 2.500); quello riguardante il lavoratore, con riferimento, questa volta, ai rap-porti intercorsi con la totalità degli utilizzatori (lett. a, € 5.000); quello delcommittente, in relazione ai rapporti intercorsi con la totalità dei prestatori(lett. b, € 5.000). Se ciò è vero, parrebbe di dover dedurre che il lavoro occasio-nale subordinato vada, in realtà, considerato tale solo dal punto di vista qualita-tivo (con riferimento alle esigenze del committente), mentre quelli appena indi-cati costituiscono limiti al suo utilizzo.

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a questi lavoratori sottoprotetti alcune tutele lavoristiche, maanche di fare un po’ di chiarezza in merito al campo di applica-zione delle stesse discipline fiscali e previdenziali.

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1. Il tema che mi è stato affidato oggi può essere consideratouna sfida significativa per la riflessione dei giuslavoristi dal puntodi vista sia teorico sia pratico. È innanzitutto poco usuale se ciatteniamo strettamente al termine utilizzato – «equo compenso»– che non appartiene propriamente al lessico giuslavorista. In-vero molte potrebbero essere le connessioni con la nostra mate-ria se seguissimo il titolo di questo intervento dove si collega latematica al contratto collettivo e alla legge, due pilastri del di-ritto del lavoro. Se però provassi a sviluppare tutti gli elementipresenti nel titolo avrei bisogno di un’ampiezza e una sistema-ticità improponibili in questa sede e in questa occasione. Viesporrò dunque delle prime riflessioni non molto strutturate.

In premessa direi che su questo tema occorre evitare la ‘pa-reidolia’, cioè la tentazione di ricondurre cose nuove a cose checonosciamo o pensiamo di conoscere bene. Intendiamoci, que-sta tentazione spesso rientra tra le consuetudini diffuse tra stu-diosi o tra tecnici espertissimi di determinate materie, in primistra i giuristi: ricondurre le novità a consolidate classificazioni ocategorie è assolutamente un metodo condiviso e praticato diindagare e sistematizzare. Però va riconosciuto che è un meto-do po’ pericoloso perché ci espone al rischio di non cogliere lenovità davanti a cui ci troviamo. Proprio dinanzi all’equo com-penso credo che dobbiamo fare uno sforzo molto marcato pertenerci lontani da una riflessione diretta a farlo confluire oconfondere con le nozioni che da giuslavoristi più ci sono fami-

* Università degli studi di Napoli Federico II.

L’«equo compenso» tra contratto collettivo e leggedi Lorenzo Zoppoli*

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liari, come i minimi tabellari o il salario minimo e persino i tet-ti/standard ai compensi (potremmo dire la tematica dei «com-pensi massimi»). In effetti l’equo compenso, come da ultimo vie-ne emergendo nella nostra legislazione, sembra avere un po’ ditutte queste categorie cui ho accennato, ma anche dei trattimolto diversi. Allora cerchiamo di capire meglio, anzitutto, dicosa si tratta esattamente. E mi riferisco non soltanto alla recen-te legge n. 81 del 22 maggio 2017 in materia di lavoro auto-nomo – che, come diceva poc’anzi Lorenzo Fassina, non con-tiene un vero e proprio equo compenso – ma al dibattito che c’èstato più o meno a ridosso di questa legge e che poi si è riaccesointorno al c.d. decreto fiscale, che invece contiene proprio unadisciplina dell’equo compenso per le prestazioni professionalidegli avvocati e, in quanto compatibile, degli altri professionistidi cui all’art. 1 della legge 81/2017 (v. art. 19-quaterdecies del d.l.16 aprile 2017 n. 148 convertito nella legge 4 dicembre 2017 n.172, che inserisce un art. 13-bis nella legge 247/2012).

2. Considerando dunque questa norma specifica sull’equocompenso, nuova di zecca, teniamoci lontani dalla pareidolia,ma non rinunciamo alle nostre categorie. Io infatti sono in pie-na sintonia con l’intento di svecchiare il nostro sistema giuridi-co, ma senza dimenticare che quando si tratta di dettare nuoveregole è spesso difficile capire quali sono le esigenze reali, qualisono i dati di cui tener conto, quali sono gli interessi da tutela-re, quali sono i soggetti forti che promuovono tutele nuove orivisitazioni di tutele vecchie. In quest’opera di nuova regola-zione i giuristi – in quanto tecnici della regolazione – non sonosoggetti forti, anzi sono spesso subalterni ad altri soggetti o adaltre culture – si pensi alla politica, da un lato, e alla cultura e-conomica, dall’altro – e non ci rafforza rinunciare ad alcuni ele-menti concettuali di ampia diffusione o alle nostre categoriepiù consolidate, che molto possono servire per capirci tra di noie per farci capire anche al di fuori del nostro specifico stretta-mente tecnico. Non sto dicendo certo sconvolgenti novità, anzisto ripetendo impostazioni di metodo e di contenuto scritte inmolte occasioni. Però non tutti siete tenuti a conoscere il miopensiero. Io ritengo, ad esempio, che il «contratto» sia uno

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strumento concettuale importante, con precise valenze di prin-cipio, tecniche e regolative. Riguardo ad un altro strumento con-cettuale di grande importanza per la cultura giuridica, di cuioggi molto si parla e si è parlato, cioè «la fattispecie», io sareipure molto attento. Certo non la butterei via tanto a cuor leg-gero. Non possiamo indubbiamente ignorare il complesso di-battito in atto, che muove dal cuore della teoria civilistica, dovequalche autore sostiene che la fattispecie non conta più niente,è diventato uno strumento inservibile ai fini di una regolazioneall’altezza dei problemi moderni. Però andiamo a vedere benecosa c’è dentro questo invito ad «abbandonare la fattispecie».Non sempre è tutto oro quel che luce. Non sempre ad esempiodisfarsi della fattispecie significa dare uno strumento in più algiudice per raggiungere soluzioni equilibrate e prevedibili dellecontroversie. Anzi certe volte significa esattamente il contrario:abbandonare la fattispecie significa esaltare il ruolo del giudicee, soprattutto, la sua discrezionalità. Infatti se si abbandona lafattispecie come elemento concettuale intorno a cui ragioniamoin tanti – a cominciare dalla dottrina giuridica e dagli operatoridel diritto, ivi compresi i sindacati, sovente caratterizzati da unapluralità di approcci teorici e da diverse sensibilità a cogliere lecorrispondenze tra fattispecie astratte e concreta fenomenolo-gia socio-economica – esaltiamo il ruolo legislatore, un legisla-tore che dovrebbe apprestare una disciplina talmente differen-ziata e minuziosa da coprire tutta la gamma delle situazioni daregolare. Siamo sicuri che il legislatore sia in grado di sostituireuna razionalità complessiva del sistema normativo – raggiungi-bile, seppure a fatica e in modo mai del tutto assestato, con ilcontributo più ampio di tutti coloro che concorrono a riempiredi contenuti la fattispecie astratta, mantenendola in contattocon la pur mutevole realtà da regolare – con una regolazioneminuziosa e pervasiva dotata di un qualche equilibrio convin-cente? Non rischiamo di ritrovarci dinanzi a discipline legislati-ve sempre più frammentate e incomplete, fortemente condi-zionate da questa o quella maggioranza politica, da questa oquella convenienza elettorale, da lobbies non sempre individua-bili e trasparenti? Se è vero che il legislatore caratterizzato dallaregolazione incentrata su categorie «generali e astratte» da anninon gode di buona salute, nemmeno può dirsi che la fiducia in

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una legislazione capace di comprendere ogni dettaglio regola-tivo di un certo fenomeno sia facile da alimentare. Insomma mipare che si tratti di un discorso complesso quant’altri mai. Daun lato ci sono autorevolissimi storici e filosofi del diritto che ciinvitano ad abbandonare la fattispecie legislativa a favore diuna regolazione per principi, dall’altro civilisti di prim’ordine,come Natalino Irti, che parlano di un «diritto incalcolabile» do-ve la fattispecie non serve più a rendere prevedibile la decisio-ne del giudice che sarebbe invece necessario guidare con unalegislazione minutissima. Una prospettiva però assai temuta daaltri studiosi di gran fama, come Paolo Grossi (fino a poco fapresidente della Corte Costituzionale), convinti che il legislato-re come fonte di «certezze» sia già tramontato da cinquant’annie più e che oggi possiamo solo affidarci al giudice e alla sua ca-pacità di trovare composizioni caso per caso rispettosi dei prin-cipi di base e dei diritti fondamentali (con un marcato avvici-namento ai sistemi di common law). In questo dibattito sui mas-simi sistemi, io non riesco a trovare una collocazione agevoleper il diritto del lavoro italiano in trasformazione. Di certo nonriesco a nutrire incondizionata fiducia nel ruolo sistematico delgiudice che caso per caso trova la strada dell’equità e della giusti-zia. Perciò ci penserei bene prima di abbandonare la fattispeciecome concentrato di valori ed esigenze concrete cui è ispiratoun certo assetto regolativo.

3. Tornando ora all’equo compenso, io, pur rifuggendo dallapareidolia, tenderei a collocarlo in qualche scenario concettualeche ci sia almeno in parte familiare. Al riguardo, restando nel-l’ambito di una disciplina che prende a riferimento figure con-trattuali, mi chiederei anzitutto se l’equo compenso si collochiall’interno di un discorso di giustizia contrattuale di tipo com-mutativo o di tipo distributivo. In estrema sintesi, la prima ètutta all’interno degli equilibri del singolo contratto, evitandoscompensi nella regolamentazione degli interessi contrapposti;mentre la seconda, pur avendo ben presente gli interessi delleparti del contratto individuale, guarda oltre chiamando in cau-sa anche strumenti di tipo esterno al singolo contratto che ri-chiedono strumenti di governo «politico» delle dinamiche eco-

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nomico-sociali. Si tratta di una bipartizione non priva di pro-blematicità, tutta comunque collocata in un contesto giuridicodi tipo privatistico. In ogni caso la collocazione della tematicanell’ambito della giustizia contrattuale può aiutarci a proporrealcuni ragionamenti di fondo intorno all’equo compenso e almodo in cui si intreccia con la disciplina dei contratti di lavoro.

4. Quanto al contratto di lavoro subordinato, direi che mai si èparlato di equo compenso (salvo istituti importanti ma del tuttospecifici, come le invenzioni del lavoratore per le quali, se effet-tuate nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o diun rapporto di lavoro, in mancanza di apposita retribuzione, èprevisto «un equo premio»: v. art. 64 del d.lgs. 10 febbraio 2005,n. 36). Il tema della giustizia contrattuale in termini di un corri-spettivo adeguato si è sempre posto fin dall’art. 2099 c.c.; poidai primi anni Cinquanta del secolo scorso l’art. 36 della Costi-tuzione ha occupato l’intera scena e rispetto ad esso la termi-nologia è diventata, come ben noto, quella della «retribuzioneproporzionata e sufficiente» o, con linguaggio più propriamen-te giurisprudenziale, della «giusta retribuzione». Con una virataverso le tematiche della giustizia distributiva. Sempre però con-temperando dinamiche di mercato con l’esigenza di realizzareun qualche equilibrio nella distribuzione della ricchezza pro-dotta dal mercato. In questo assetto un ruolo fondamentale hagiocato la contrattazione collettiva – valorizzata anche dallagiurisprudenza in cerca di parametri per concretizzare la «giustaretribuzione» prevista dalla norma costituzionale ritenuta benpresto immediatamente precettiva – mentre la legge è interve-nuta ben poco (o è intervenuta su aspetti collaterali a maggiorevalenza pubblicistica, come la retribuzione da porre a base delcalcolo dei contributi previdenziali o delle ritenute fiscali).

Per i contratti di lavoro posti fuori della subordinazione insenso stretto a lungo non c’è stata alcuna regolazione legaleimperativa del corrispettivo, fatto salvo un riferimento generico– nella disciplina dei contratti d’opera (art. 2225 c.c.; ma v. an-che artt. 1657, 1709 e 1755 c.c.) e d’opera intellettuale (art.2233 c.c.) – in via sussidiaria alle tariffe e agli usi – che rinviavaalle tariffe minime previste per determinate prestazioni profes-

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sionali (in particolare per gli avvocati) senza un legame specifi-co con fattispecie contrattuali. In mancanza di patti, tariffe e usiil codice contiene anche un criterio di ultima istanza nel casosia il giudice a dover determinare il corrispettivo, criterio peròabbastanza generico seppure differenziato per il contratto d’o-pera tout court – per il quale occorre tener conto del risultato ot-tenuto e del lavoro normalmente necessario per ottenerlo (art.2225) – e per il contratto d’opera intellettuale – dove «la misuradel compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera eal decoro della professione» (art. 2233, c. 2).

Un primo intervento di una qualche rilevanza al di fuori dellavoro subordinato risale a quasi quindici anni fa, allorché ildecreto legislativo n. 276 del 2003 introdusse il vincolo impera-tivo di un corrispettivo proporzionato alla quantità e qualità dellavoro prestato (riecheggiando un dimezzato art. 36 Cost.) peril contratto di lavoro a progetto, fisiologicamente ricondotto allavoro autonomo. Vincolo reso prima più stringente dalla no-vella dell’art. 63 del d.lgs. 276 ad opera della legge 92/2012 –che parlava di un compenso non inferiore ai minimi previsti dacontratti collettivi interconfederali o nazionali (o da altri livellicontrattuali da questi delegati) stipulati da sindacati comparati-vamente più rappresentativi – e poi abrogato insieme all’interolavoro a progetto dall’art. 52, c. 1, del d.lgs. 81/2015. C’è da di-re però, al riguardo, che all’abrogazione del lavoro a progettosopravvivono regole eteronome sulla determinazione dei corri-spettivi di fattispecie contrattuali non pacificamente riconduci-bili al lavoro subordinato, che fanno anche riferimento, diret-tamente o indirettamente, alla contrattazione collettiva (v. art.2, commi 1 e 2, del d.lgs. 81/2015).

Sempre nel 2012 ha visto la luce nel nostro ordinamento unanorma poco considerata dagli studiosi di diritto del lavoro,l’art. 1, c. 1, della legge n. 233, che parla per la prima volta di«equo compenso» e lo fa con riguardo al lavoro autonomo gior-nalistico. La norma di legge si autoqualifica come estensiva del-l’articolo 36 Cost. ed è diretta a garantire ai giornalisti c.d. freelance un compenso proporzionato alla qualità e quantità del la-voro svolto, ignorando ogni riferimento alla retribuzione suffi-ciente, che, a mio parere, è un riferimento importante perchéin una certa misura sgancia la tutela della retribuzione da un

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legame stretto con le dinamiche di mercato (mentre la propor-zionalità è tutta dentro queste dinamiche, accentuando addirit-tura il carattere di obbligazione corrispettiva della retribuzio-ne). La tecnica regolativa è però innovativa per il nostro ordi-namento, in quanto rimette la determinazione dell’equo com-penso per i giornalisti autonomi ad un’apposita commissioneche deve tener conto della «coerenza con i trattamenti previstidalla contrattazione collettiva per i giornalisti lavoratori subor-dinati». La prima esperienza applicativa è andata per la veritàin altra direzione. Infatti una prima delibera della Commissio-ne del 2014 non ha tenuto in gran conto la contrattazione col-lettiva, definendo un tariffario molto riduttivo e minimalista.Talmente riduttivo e minimalista da avere il voto contrario delrappresentante del Consiglio dell’ordine dei giornalisti nellastessa commissione e da provocare un contenzioso amministra-tivo. Tanto il TAR (2015) quanto il Consiglio di Stato (2016) han-no ritenuto questa delibera in contrasto con la legge proprioperché non tiene conto delle tariffe previste dai contratti collet-tivi per i giornalisti subordinati.

Al di là della vicenda specifica, mi pare da rimarcare che que-sto primo contenzioso in materia di equo compenso non si siasviluppato in un contesto giuslavoristico, ma attinga più am-piamente ad una cultura di tipo amministrativistico. Anche inconsiderazione di quanto dirò tra poco, mi pare singolare chesull’equo compenso si stiano pronunciando più giudici ammini-strativi che giudici ordinari. Questo può avere a che fare con ilmodo in cui le categorie giuridiche si trasformano, o rischianodi trasformarsi, anche all’interno di sistemi concettuali stretta-mente tecnici, risentendo più o meno consapevolmente di logi-che non omogenee, seppure tutte genericamente riconducibilialla cultura giuridica.

Proprio per questo non mi pare da sottovalutare una recentegiurisprudenza della Corte di Cassazione (in particolare v. lasentenza del 1° giugno 2016 n. 11412) che affronta proprio laquestione di determinare il corrispettivo del lavoro giornalisticoautonomo ex art. 2233 c.c. La sentenza è interessante in gene-rale, perché non può non far riflettere su quelle tesi, anche direcente riproposte in ambito giuslavoristico (ad esempio da A-dalberto Perulli, in un recente convegno a Bertinoro), secondo

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cui basterebbero le vecchie norme del codice civile per giunge-re a determinare un equo compenso per i contratti che si collo-cano nell’ambito del lavoro autonomo. In ogni caso la Corte diCassazione citata ritiene nel caso specifico che, non essendociun compenso adeguato convenuto dalle parti ed essendo rimes-sa la questione al giudice, è inevitabile far riferimento alle ta-riffe fissate dall’ordine o a quelle previste dai contratti collettiviper il lavoro subordinato. Già in base alla normativa civilisticala Cassazione recupera dunque la contrattazione collettiva peril lavoro subordinato come possibile riferimento a carattere ge-nerale. Sia chiaro: non è un orientamento del tutto condivisi-bile e – visto lo stato della contrattazione collettiva che veleggiaintorno ai 900 contratti nazionali con testi e tariffe differenziateall’interno delle medesime categorie – nemmeno tranquilliz-zante o facilmente praticabile. Inoltre una sentenza, pure diCassazione, è come un’unica rondine che, se non accompagnatada suoi simili, non fa primavera e, tantomeno, «diritto calcola-bile». Però, come dicevo, la sentenza citata nemmeno è da sot-tovalutare.

Prima di arrivare all’introduzione dell’equo compenso vero eproprio c’è da segnalare un’ulteriore innovazione legislativa, dipoco precedente. La troviamo in una riforma di tipo settoriale,ma piuttosto importante perché riguarda il terzo settore, unmondo a sé stante ma caratterizzato da una quantità e qualitànotevole di datori di lavoro e di lavoratori. In particolare sonointeressanti due norme. La prima prevede che «in ogni caso, inciascun ente del Terzo settore, la differenza retributiva tra lavo-ratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno aotto, da calcolarsi sulla base della retribuzione annua lorda»(art. 16 d.lgs. 117/2017). La seconda riguarda soltanto le im-prese sociali, una delle tipologie di enti operanti nel terzo set-tore, per le quali è previsto un divieto di distribuzione ancheindiretta di utili e alla distribuzione di utili è equiparata «la cor-responsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzio-ni o compensi superiori al 40% rispetto a quelli previsti, per lemedesime qualifiche, dai contratti collettivi di cui all’art. 51 d.lgs.81/2015, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessità diacquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delleattività di interesse generale» (art. 3 d.lgs. 112/2017). Anche in

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queste norme, pur nella diversità di tecniche regolative utilizza-te, può rinvenirsi la tendenza a fissare dei criteri legali precisiper rendere più equi i compensi di tutti i lavoratori del settore,ivi compresi quelli autonomi. E risalta come a tal fine si gene-ralizzino i parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva.Tuttavia è molto evidente la differenza con le ipotesi preceden-ti in cui la limitazione dell’autonomia contrattuale individuale èvolta ad evitare squilibri tra i contraenti e, al più, a limitare l’as-soluta discrezionalità nella distribuzione dei redditi prodotti.Nel caso del terzo settore compare invece il criterio equitativointeso come limite all’abuso dei vantaggi previsti dal legislatoreper lo svolgimento di attività caratterizzate da finalità di prima-ria rilevanza sociale. Sul piano dei compensi dei lavoratori uti-lizzati ciò pare comportare la necessità di fissare dei tetti mas-simi: un tipo di interventismo legislativo che si può condividereo no, ma che va tenuto nettamente distinto dall’equo compensovero e proprio.

Tra i precedenti della legislazione del 2017 sull’equo com-penso si deve anche tener conto di importanti proposte di ri-forma della legislazione in materia di lavoro. In particolare vamenzionata, specie in questa sede, la Carta dei diritti universalidel lavoro, elaborata dalla CGIL già nel 2015 e divenuta oggettodi una proposta di legge di iniziativa popolare depositata inParlamento a fine settembre del 2016, dove, in un contesto diregolazione complessiva delle fonti di disciplina dei corrispetti-vi dovuti ai lavoratori titolari di qualsiasi contratto e in specie divalorizzazione della contrattazione collettiva, viene previsto uncompenso equo e proporzionato. L’art. 5, in modo molto sem-plice e lineare, prevede che «ogni prestazione di lavoro deve es-sere compensata in modo equo, in proporzione alla quantità equalità del lavoro svolto». Dopo aver riconosciuto una preva-lenza alle pattuizioni individuali conformi ai contratti collettivio agli accordi collettivi stipulati dalle associazioni dei lavoratoriautonomi, la norma, al comma 3, prevede che il lavoratore au-tonomo, in mancanza di accordi collettivi applicabili, possa chie-dere al giudice di determinare l’equo compenso «nella misuradesumibile anche dalle regole riguardanti prestazioni compa-rabili». Invece per i contratti di collaborazione riguardanti lavo-ratori parasubordinati o autonomi ma con «caratteristiche di

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dipendenza economica» un’altra norma (art. 42), in mancanzadi appositi contratti collettivi, prevede una più diretta applica-zione delle retribuzioni previste dai contratti collettivi applica-bili al committente «con riferimento alle figure professionali dicompetenza e di esperienza analoga a quella del lavoratore». Intal modo, pur molto attingendo ad una tecnica regolativa tradi-zionale, si tende a realizzare una sostanziale confluenza tra unpiù generico equo compenso per tutti i lavoratori e la disciplinavolta a garantire trattamenti retributivi corrispondenti a para-metri fissati dalla contrattazione nazionale piuttosto che daisingoli contratti.

5. Dinanzi a questo quadro regolativo sempre più ricco e fra-stagliato, mi pare anzitutto corretto chiedersi se vi sia qualcheobbligo di carattere costituzionale a prevedere per legge misuredi equo compenso al di là del lavoro subordinato. Il tema è sta-to a lungo dibattuto e acquista sempre maggiore rilevanza conil crescere di un’area di impiego del lavoro che si colloca fuoridelle classiche forme del lavoro subordinato, pur non potendosiritenere autonomo secondo i parametri più classici. Al di làdelle molte opinioni dottrinali, difficili da sintetizzare, mi paredi tutto rilievo che se la giurisprudenza più risalente era abba-stanza netta nell’escludere che l’unica norma costituzionale inmateria, cioè l’art. 36 Cost., potesse trovare applicazione al difuori del lavoro subordinato in senso stretto, orientamenti piùrecenti (tra i quali le sentenze richiamate nel precedente para-grafo) finiscono in un modo o nell’altro per far riferimento allanorma costituzionale anche per decidere controversie che sicollocano fuori della subordinazione (come appunto il lavoroautonomo dei giornalisti). Ciò però non basta a mio parere perritenere che l’art. 36 Cost. sia oggi di generale applicazione adogni prestazione lavorativa, prescindendo dalla qualificazionedel contratto in base a cui è dovuta.

Al riguardo si segnalano le diverse concezioni espresse dallerelazioni ai due disegni di legge prodromiche all’introduzionedell’equo compenso per i professionisti, su cui tra poco mi sof-fermerò. Quella del ministro Orlando al d.d.l. AC 4631 del 29agosto 2017 non riconduce l’equo compenso nel settore delle

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prestazioni legali (così è intitolato il d.d.l.) all’art. 36 Cost., evi-tando di prendere una qualsiasi posizione riguardo al problemasopra sollevato. Invece nel d.d.l. d’iniziativa del senatore Sac-coni, AS n. 2858 del 14 giugno 2017 (intitolato «Equità del com-penso e responsabilità delle professioni regolamentate»), l’art.36 Cost. è richiamato proprio all’inizio della relazione, nellaquale si afferma poi: «l’equo compenso non è peraltro solo unprincipio costituzionale applicabile a tutti i lavoratori ma unaoggettiva esigenza per tutti i consumatori perché li mette al ri-paro da servizi professionali di bassa qualità». Tecnicamente di-rei che nel secondo caso si fa quanto meno un uso disinvoltodel dettato costituzionale. A riprova si può citare un’antichis-sima, nutrita e consolidata giurisprudenza. Anche se, come det-to poco sopra, si possono fare tentativi di interpretazione evolu-tiva, come ha fatto la Cassazione che ho citato prima a proposi-to del lavoro giornalistico autonomo che, per concretizzare il36, ha usato il medesimo parametro usato per i lavoratori su-bordinati, cioè la contrattazione collettiva. Dietro c’è probabil-mente l’idea secondo cui l’art. 36 Cost. può essere invocato insituazioni che vanno ben al di là del lavoro subordinato in sen-so strettamente tecnico.

Al riguardo infatti è forse un po’ più interessante rifletteresulle modifiche allo scenario socio-economico in cui oggi si pro-pongono i problemi di tutele per i lavori non subordinati o, ingenerale, per quei lavori che caratterizzano e hanno caratteriz-zato in Italia il ceto medio e all’interno di esso i professionisti ele c.d. professioni liberali. Al di là dei processi più o meno fon-dati di proletarizzazione di questi lavoratori, da altri richiamaticon corredo di dati di vario genere, da giurista non posso nonrilevare come alcune allarmanti novità vengano da uno dei con-testi in cui più il ceto medio e i professionisti hanno avuto cer-tezze e occasioni di lavoro, cioè il mondo delle pubbliche am-ministrazioni. E non parlo del pubblico impiego in senso stret-to, ma proprio di quelle attività svolte in autonomia o con con-tratti di collaborazione con amministrazioni pubbliche, dovepare che da un po’ di tempo a questa parte si vadano diffon-dendo compensi bassissimi. Un caso tra i più eclatanti è quelloche si è verificato nel Comune di Catanzaro nel 2016 dove unbando per un appalto di servizi conferito con contratto di opera

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professionale per un piano di ristrutturazione del Comune diCatanzaro prevedeva un compenso di solo un euro. Il TAR Ca-labria accoglie il ricorso su questo bando proposto dai localiConsigli dell’Ordine degli architetti, degli ingegneri, dei geo-logi, dei geometri e del Collegio dei periti industriali in quantonon ritiene configurabile «un appalto pubblico di servizi a titologratuito, ovvero atipico rispetto alla disciplina di cui al d.lgs. n.50 del 2016». La sezione V del Consiglio di Stato, con la sen-tenza 4614/2017 (estensore Stefano Fantini), riforma però lasentenza del TAR in quanto «una lettura sistematica [...], conconsiderazioni degli interessi immanenti al contratto pubblico ealle esigenze che lo muovono, induce a ritenere che l’espressio-ne contratti a titolo oneroso può assumere per il contratto pubbli-co un significato attenuato e in parte diverso rispetto all’acce-zione tradizionale e propria del mondo interprivato. In realtà,la ratio di mercato [...] di garanzia della serietà dell’offerta e diaffidabilità dell’offerente, può essere ragionevolmente assicura-ta da altri vantaggi, economicamente apprezzabili anche se nondirettamente finanziari, potenzialmente derivanti dal contrat-to». E così, tra richiami ultramoderni a «figure del c.d. terzosettore, per loro natura prive di finalità lucrative» e al «rilievodell’economia dell’immateriale» dove risalta «la pratica dei contrat-ti di sponsorizzazione», il Consiglio di Stato giunge a conside-rare tecnicamente a titolo oneroso «il conferimento di incaricogratuito di redazione del nuovo piano di sviluppo comunale»(frase ripresa testualmente dal parere della Corte dei Conti ci-tato dalla sentenza). Una conclusione a mio parere pericolosis-sima perché apre la stura ad ogni svuotamento dello scambiosinallagmatico agganciato ai reali bisogni dei due contraenti,consentendo al contraente forte di scegliere la «nozione» dimercato per lui più conveniente. Tra l’altro l’estensore della ci-tata sentenza teorizza questa nozione di contratto in una recen-te monografia, collocandolo nell’ambito sistematico del contat-to di diritto pubblico di stampo europeo. Dinanzi a queste tor-sioni sistematiche – magari anche brillanti e ispirate alle mi-gliori intenzioni – rivendicherei, prima ancora dell’applicazioneestensiva dell’art. 36 Cost., un attento controllo sulle categoriegiuridiche alla luce del diritto nazionale dei contratti. E non mipare che la disciplina codicistica prima richiamata consenta al-

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cun contratto di lavoro – subordinato o autonomo – privo di uncorrispettivo dal valore economico immediatamente apprezza-bile sul piano sinallagmatico.

6. Piuttosto sul piano del diritto europeo ci si potrebbe chiede-re se per i lavoratori autonomi sia conforme ai principi regola-tori della libera concorrenza prevedere un intervento coercitivoda parte della contrattazione collettiva che potrebbe essere e-quiparata agli accordi tra imprese aventi «per oggetto o per ef-fetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorren-za nel mercato interno» (art. 101 del Trattato sul funzionamen-to dell’Unione Europea).

Anche tale questione è tutt’altro che semplice. Da un lato pe-rò va tenuta presente quella giurisprudenza che consente sen-z’altro la contrattazione collettiva quando si tratti di lavoro au-tonomo sostanzialmente eterorganizzato, cioè i c.d. «falsi auto-nomi» (v. CGUE del 4 dicembre 2014, C-413/18 FNV KustenInformatie, riguardanti le prestazioni degli orchestrali). Dall’al-tro possono essere importanti i riferimenti a quelle sentenzedella CGUE (due sentenze del 5 dicembre 2006, C-94/04 e C-202/04) che consentono di introdurre limiti a clausole vessato-rie con il fine di tutelare i consumatori e promuovere la buonaamministrazione della giustizia: due finalità che possono com-portare limitazioni alla libera prestazione di servizi, purché ilprovvedimento nazionale sia adeguato all’obiettivo perseguito enon travalichi l’obiettivo medesimo.

Proprio queste ultime sentenze sembrano aver ispirato l’in-troduzione dell’equo compenso per i professionisti.

7. Veniamo dunque al già citato, e piuttosto sconcertante, art.19-quaterdecies del d.l. 16 aprile 2017 n. 148 convertito nellalegge 4 dicembre 2017 n. 172, che inserisce un art. 13-bis nellalegge 247/2012, «in materia di equo compenso per le prestazio-ni professionali degli avvocati». Ad oggi la disciplina più ampiadell’equo compenso è sostanzialmente contenuta in questa nor-ma, che, come vedremo tra un attimo, ha un campo di applica-zione più esteso rispetto a quello indicato dalla rubrica. A dire

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il vero si potrebbe approfondire quanto già previsto nella legge81/2017 – applicabile a tutti i rapporti di lavoro autonomo –laddove (art. 3, c. 4) si fa riferimento all’abuso di dipendenzaeconomica, con un rinvio, in quanto compatibile, all’art. 9 dellalegge 192/1998, che sanziona con la nullità «l’imposizione dicondizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discrimi-natorie». Però al riguardo mi pare abbia ragione Perulli: le tu-tele codicistiche, pur essendo dispositive e alquanto generiche,sono più calibrate sulle esigenze di giustizia contrattuale, intesacome equilibrio tra le prestazioni dei due contraenti.

In ogni caso il nostro art. 13-bis intende andare oltre la legge81/2017 per quanto riguarda alcune categorie di professionisti.

L’aver limitato l’intervento sull’equo compenso ad alcuneprofessioni costituisce già una scelta precisa, che merita qualcheosservazione. La prima è che si tratta di una norma nata in unastagione elettorale avanzata con la quale si vuole mostrare sen-sibilità per i crescenti problemi di un influente ceto medio, im-poverito, ma politicamente agguerrito. In particolare i profes-sionisti appartenenti a tale ceto hanno visto inaridirsi una fonteimportante dei propri redditi a stretto contatto con la politica,cioè il mondo delle pubbliche amministrazioni. Secondo alcunidati, che ho sentito sbandierare da chi si è occupato di talinormative (ma che andrebbero meglio verificati), si può mette-re in relazione una riduzione degli investimenti da parte delleamministrazioni pubbliche che sarebbe pari al 30% negli ultimidieci anni con un calo del reddito dei professionisti pari al 60%nel medesimo periodo. C’è dunque una precisa ragione politicaper dare qualche segnale rassicurante agli avvocati come agli al-tri liberi professionisti.

Sul pano tecnico però l’intervento ha una portata alquantoridotta. Si potrebbe dire che la montagna partorisce un topoli-no. La chiave di volta sta già nella rubrica dell’art. 13-bis che èintitolato «Equo compenso e clausole vessatorie». Il limite postoalla determinazione dei compensi non ha ad oggetto tutte leprestazioni professionali (per gli avvocati: di assistenza, rappre-sentanza e difesa in giudizio; consulenza legale e assistenza le-gale stragiudiziale), ma solo quelle rese in «rapporti professio-nali regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento,anche in forma associata o societaria, in favore di imprese ban-

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carie e assicurative, nonché di grandi imprese». Tali convenzio-ni, salvo prova contraria, «si presumono unilateralmente predi-sposte» dalle suddette imprese; la legge poi indica le clausolevessatorie che devono essere considerate inesorabilmente nulle(art. 13-bis comma e quelle che invece possono stipularsi purchésiano oggetto di specifica trattativa e approvazione (non prova-ta però da dichiarazioni contenute nelle convenzioni che atte-stino genericamente l’avvenuto svolgimento delle trattative sen-za specifica indicazione delle modalità). Tra le clausole chepaiono affette da inevitabile nullità vi sono quelle che «deter-minano, anche in ragione della non equità del compenso pat-tuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvo-cato» (v. commi 4 e 8). A tal riguardo sono importanti due ulte-riori precisazioni. La prima, contenuta nel comma 2 dell’art.13-bis, è che «si considera equo il compenso [...] proporzionatoalla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenu-to e alle caratteristiche della prestazione legale, tenuto contodei parametri previsti» dal decreto del ministro della Giustiziache, a norma dell’art. 13, c. 6, della legge 247/2012, fissa le ta-riffe professionali in caso di «mancata determinazione consen-suale del compenso». In sostanza questa precisazione rende vin-colanti tali tariffe nel campo di applicazione del nuovo art. 13-bis. La seconda precisazione è che la nullità delle clausole vessa-torie non si ripercuote sulla validità del contratto in quanto «lanullità opera soltanto a vantaggio dell’avvocato» (comma 8). Sitratta cioè di una nullità di protezione, come suol dirsi, cioè atutela degli interessi di una delle parti, considerata la più de-bole. Questa disposizione è però bilanciata da un termine didecadenza di 24 mesi dalla data di sottoscrizione della conven-zione entro cui, in modo del tutto inusuale, deve essere propo-sta l’azione diretta alla dichiarazione della nullità (comma 9).

In ogni caso, se il giudice accerta la non equità del compensoe la vessatorietà di una clausola, dichiara la nullità della clau-sola e determina il compenso dell’avvocato tenendo conto deldecreto del ministro della Giustizia prima citato (comma 10).

Rispetto a questo assetto regolativo va osservato che: a) si u-tilizza la tecnica delle clausole vessatorie, che sono strumentotipico di tutela del diritto dei consumatori a garanzia del corret-

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to funzionamento della libera concorrenza nel mercato di benie servizi; b) si prevedono vincoli solo per specifiche regolazionicontenute nelle più volte menzionate convenzioni unilaterali conimprese medio-grandi o appartenenti a settori specifici (banchee assicurazioni) che, prevedendo compensi bassi, potrebberoprivilegiare i professionisti meno validi disposti comunque arendere i propri servigi facendo concorrenza a colleghi piùqualificati e indisponibili a pattuire compensi inferiori alle ta-riffe ministeriali; c) si detta una complessa regolazione delleclausole vessatorie, minuziosa e diversificata, ma non al puntoda ricomprendere tutte le possibili patologie (manca ad esem-pio la clausola con cui si predetermina il valore della controver-sia sul quale si calcolano poi sovente gli onorari da corrispon-dere); d) l’ancoraggio alle tariffe ministeriali – che spesso sonodefinite con riferimento a valori medi o compresi in una «forbi-ce» che può oscillare tra il -50% e il +80% – non è fonte di cer-tezza (o «calcolabilità») in quanto il giudice ne «tiene conto»(art. 13-bis, comma 10), con conseguente indeterminatezza del-l’entità dell’equo compenso.

In sintesi può dirsi che l’equo compenso così configurato èalquanto indeterminato e riguarda un ambito ristretto di pro-fessionisti e di utenti, ingenerando il dubbio che sia diretto atutela solo di alcuni ceti professionali che, tra l’altro, operanosui mercati più «ricchi», per settori o per dimensioni di impre-sa. Non pare infondato il dubbio di quanti osservano che si trat-ta di tutele dei professionisti più forti già presenti nelle migliorifette di mercato volte ad impedire ad altri professionisti – ma-gari più giovani – l’accesso alle migliori occasioni di lavoro at-traverso la concorrenza tariffaria. Ai secondi resta l’attività pro-fessionale per le imprese medio-piccole dove la concorrenzanon avrebbe limiti tariffari.

Di più ampia portata sembrerebbe la norma riguardante l’e-quo compenso per le prestazioni rese dai professionisti neiconfronti «della pubblica amministrazione». Infatti l’art. 19-qua-terdecies, oltre ad introdurre il più volte menzionato art. 13-bisper gli avvocati, prevede al comma 3 che «la pubblica ammini-strazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon an-damento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il princi-pio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai

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professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la datadi entrata in vigore della legge di conversione del presente de-creto». Questa disposizione, rimarcando la specifica onerositàdegli incarichi professionali, può rivestire una funzione di argi-ne a comportamenti come quello prima ricordato con riferi-mento al bando del Comune di Catanzaro (anche se alquantoipocrita appare poi il comma 4 dell’art. 19-quaterdecies che, ri-tualmente, recita: «dall’attuazione delle disposizioni del presen-te articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a caricodelle finanze pubbliche»). Dunque questa norma ha certamenteuna sua utilità sul piano dei principi. Però non può non balzareall’occhio come si passi da una disciplina minuziosissima e det-tagliata per l’equo compenso degli avvocati che stipulano con-venzioni con le imprese bancarie e assicurative o comunque gran-di ad una norma dal tenore assai generico: sia nell’individuazio-ne dei soggetti obbligati («pubblica amministrazione») sia nelledeterminazione del contenuto dell’obbligo (quale sarà mai «ilprincipio» dell’equo compenso al di là della previsione di unqualche compenso? L’applicazione delle tariffe ministeriali? Matenendone conto o applicandole in modo pedissequo?). Insom-ma si sarebbe potuto fare certamente di meglio.

Da non tralasciare infine è che l’art. 19-quaterdecies del d.l.148/2017 estende le disposizioni dell’art. 13-bis della legge247/2012, da esso stesso modificato, a «tutte le prestazioni resedai professionisti» di cui all’art. 1 della legge 81/2017, che sianoo no iscritti ad ordini e collegi. Anche questa estensione presen-ta problemi esegetici non di poco conto. Certamente si va benoltre le prestazioni professionali degli avvocati, fino ad abbrac-ciare tutte le prestazioni professionali rese in virtù di contrattidi lavoro autonomo ovvero di prestazione d’opera intellettuale(art. 2229 c.c.), che siano o no iscritti ad ordini e collegi. Restail dubbio che la disposizione non riguardi tutti i professionistiche eroghino le loro prestazioni in base a contratti non ricon-ducibili all’art. 2229 c.c., come quelli stipulati in base all’art.409 del c.p.c. o riconducibili all’art. 2 del d.lgs. 81/2015 (chesarebbero fuori dal campo di applicazione della legge 81/2017).

In ogni caso l’art. 13-bis si applica con il limite della compa-tibilità e purché sussistano i decreti ministeriali sulle tariffe pro-fessionali adottate in base al c.d. decreto liberalizzazioni (art. 9

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d.l. 1/2012, conv. con legge 27/2012). Soprattutto il limite dellacompatibilità può comportare significative restrizioni all’ambitodi applicazione dell’equo compenso per tipologie professionalidiverse dagli avvocati, essendo le disposizioni dell’art. 13-bis del-la legge 247/1992 incentrate, come si è visto, intorno a deter-minate convenzioni unilaterali riguardanti settori in cui non èdetto che le altre professioni siano presenti quanto gli avvocati(per ingegneri e architetti, ad esempio, è assai più rilevante ilsettore dell’edilizia o dei trasporti).

Il pur generico «principio dell’equo compenso» previsto perle pubbliche amministrazioni dal già citato comma 3 dell’art.19-quaterdecies sembrerebbe applicabile a tutte le prestazioniprofessionali rese da professionisti, senza la limitazione ai con-tratti di lavoro autonomo contenuta nel precedente comma 2.Ma, come si è visto, si tratta di una norma assai generica, il cuieffetto più prevedibile, al di là di una deterrenza verso le piùgravi patologie, mi pare quello di incentivare il contenzioso conle pubbliche amministrazioni (dunque anch’essa utile soprattut-to per gli avvocati).

8. A voler trarre qualche pur minima considerazione conclusivada questa prima analisi dell’equo compenso, direi che siamoancora lontani da una legislazione chiara, sistematica ed equili-brata sulla tematica esaminata. Si può registrare qualche primasensibilità, accompagnata però da molti, troppi difetti, cherendono gli ultimi sviluppi normativi addirittura ambigui nellefinalità e assai limitati e farraginosi nelle tecniche regolative.Purtroppo i rischi di teorie e prassi mortificanti per il lavorodei professionisti, soprattutto giovani, sono talmente elevati daindurre a guardare con indulgenza anche ad una legislazioneindubbiamente tortuosa e ambigua. Occorrerebbe però trovareun baricentro valoriale più saldo, che assuma anche un puntodi vista più centrato su una nuova qualità del lavoro dei cetiprofessionali interessati, senza mai dimenticare che per tutti iliberi professionisti è centrale poter svolgere le loro complesseattività conservando la propria indipendenza anche economica.

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1. Ringrazio molto anch’io Umberto Carabelli e Lorenzo Fassi-na per avermi invitato a questa bella e stimolante occasione diconfronto e discussione su questioni così centrali nella comples-siva strategia del sindacato.

Lo specifico tema che mi è stato assegnato – relativo alle nuo-ve tutele di welfare per i lavoratori autonomi – sollecita due or-dini di riflessioni: il primo di taglio più tecnico, diretto ad offri-re una sintetica ricognizione delle principali previsioni conte-nute nella legge n. 81 del 2017; il secondo di taglio più sistema-tico, in connessione con le riflessioni svolte da Piera Loi nellasua bella relazione introduttiva.

2. In realtà, le osservazioni da svolgere sul tema specifico chemi è stato assegnato possono essere mantenute entro limiti piut-tosto contenuti, perché a dispetto dell’immagine mediatica chefu offerta dal governo all’indomani dell’approvazione dellalegge, il cosiddetto Jobs Act del lavoro autonomo introduce – sulpiano delle tutele sociali – poche, e davvero modeste, novità so-stanziali. Ritengo infatti che, in particolare in materia di ridise-gno delle tutele previdenziali del lavoro autonomo non im-prenditoriale, quella introdotta dalla legge n. 81 del 2017 costi-tuisca null’altro che una (modesta) operazione di manutenzioneordinaria dell’assai disorganico assetto regolativo esistente inmateria.

* Università degli studi di Perugia.

Le tutele del welfare per i lavoratori non subordinatidi Stefano Giubboni*

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Siamo oggettivamente di fronte ad una legge molto debole,certamente sul piano delle tutele di welfare per i lavoratori auto-nomi. Questa è, anzi, a mio avviso, la parte probabilmente piùdebole e meno innovativa della legge, che pure introduce, su al-tri piani, elementi potenzialmente anche significativi di riforma.

3. La legge si muove, invero, in una timida logica incrementaledi aggiustamenti «al margine», con modeste estensioni – intermini soggettivi e oggettivi – dell’ambito di applicazione o deicontenuti delle tutele previdenziali per i lavoratori autonomi.In ciò, essa si mantiene rigorosamente fedele allo schema cate-goriale e frammentato che è tipico, nel nostro ordinamento pre-videnziale, anche del welfare del lavoro autonomo.

Questi piccoli incrementi al margine delle tutele riguardanoin parte l’estensione soggettiva della platea dei beneficiari delleprestazioni e per altra parte alcuni aggiustamenti – talvolta nondel tutto disprezzabili, come è giusto riconoscere – del contenu-to delle stesse (pensiamo per esempio alla tutela della materni-tà oppure a quella della malattia, con l’equiparazione di alcunepatologie gravi alla protezione prevista per la degenza ospeda-liera, cosa che comporta, in pratica, l’innalzamento ad un mas-simo di 180 giorni, contro quello dei 61 giorni previsto per lemalattie semplici, del periodo di godimento dell’indennità).

4. Mi pare comunque opportuno dedicare qualche cenno piùpuntuale a queste previsioni della legge n. 81 del 2017.

L’art. 7 prevede l’introduzione di tre ulteriori commi all’art.15 del d.lgs. n. 22 del 2015, che ha introdotto in via sperimen-tale l’indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapportodi collaborazione coordinata e continuativa. Più in particolare,il nuovo comma 15-bis prevede la stabilizzazione della DisColl el’estensione della platea dei relativi beneficiari. Infatti, a partiredal 1° luglio 2017, ed in relazione agli eventi di disoccupazioneverificatisi a decorrere da tale data, l’indennità spetta ai colla-boratori coordinati e continuativi iscritti alla gestione separatadell’INPS nonché agli assegnisti e ai dottorandi di ricerca conborsa di studio.

Quanto ai requisiti per la fruizione dell’indennità, uno deitre (quello consistente nell’aver maturato nell’anno solare in cui

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si verifica la cessazione del rapporto un mese di contribuzioneoppure un rapporto di collaborazione pari ad almeno un mesee che abbia dato luogo a un reddito pari alla metà di quello ri-chiesto per il corrispondente accredito contributivo) viene op-portunamente soppresso, mentre il requisito contributivo deitre mesi viene riferito all’anno civile precedente alla cessazionedella collaborazione.

5. In tema di trattamento economico per congedo parentale,l’art. 8 prevede alcune novità per la platea dei lavoratori che,non disponendo di una cassa autonoma, siano iscritti alla ge-stione separata dell’INPS, non siano titolari di pensione e sianotenuti al versamento della contribuzione maggiorata di cui al-l’art. 59, comma 16, della legge n. 449 del 1997. In tali casi, iltrattamento viene esteso anche ai lavoratori padri e viene am-pliata la durata di fruizione della prestazione, passandosi dalperiodo massimo attualmente previsto (tre mesi entro il primoanno di vita del bambino) a quello di sei mesi entro i primi treanni di vita, con l’ulteriore precisazione che i trattamenti fruitinon possano comunque superare per entrambi i genitori il limi-te complessivo di sei mesi (comma 4).

Peraltro, l’ambito di applicazione della norma viene ridotto,prevedendosi che la prestazione (calcolata per ciascuna giorna-ta nella misura del trenta per cento del reddito di lavoro) siacondizionata all’accredito di almeno tre mensilità di contribuzio-ne nei dodici mesi antecedenti il periodo indennizzabile (com-ma 5), salvo che si tratti di congedo fruito entro il primo annodi vita del bambino dai lavoratori che abbiano titolo all’inden-nità di maternità o paternità (comma 6).

6. Con riguardo al trattamento in caso di malattia, l’art. 8,comma 10, della legge n. 81 del 2017 specifica, come accenna-to, sempre per gli iscritti alla gestione separata, che i periodi dimalattia certificata come conseguente a trattamenti terapeuticidi malattie oncologiche o di gravi patologie cronico-degenerati-ve ingravescenti, o che comunque comportino un’inabilità lavo-rativa temporanea del 100 per cento, siano equiparati alla de-genza ospedaliera.

L’art. 13 incide sul secondo comma dell’art. 64 del d.lgs. n.

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151 del 2001, relativo alla tutela della maternità delle lavoratri-ci iscritte alla gestione separata e non iscritte ad altre formeobbligatorie di previdenza, integrandolo con la previsione allacui stregua l’erogazione della prestazione da parte dell’INPS,nei due mesi antecedenti e nei tre successivi al parto, debba av-venire – come è già previsto per le libere professioniste – indi-pendentemente dall’effettiva astensione della lavoratrice dallapropria attività.

Nell’articolo successivo è stata anche prevista la possibilitàper le lavoratrici in maternità, previo consenso del committen-te, di farsi sostituire da altri lavoratori autonomi di loro fiduciache siano in possesso dei necessari requisiti professionali, non-ché dai soci (art. 14, comma 2). Anche questa è previsione che,nella sostanza, si limita a confermare (e a generalizzare) unaregola già presente nel sistema (v. l’art. 4, comma 5, d.lgs. n.151 del 2001).

7. Sempre in tema di gravidanza, ma con previsione qui riferitaanche ai casi di malattia e di infortunio, l’art. 14, comma 1,della legge n. 81 del 2017 prevede, per le lavoratrici autonomeche prestino la loro attività in via continuativa in favore delcommittente (e ne facciano richiesta), la sospensione del rap-porto contrattuale, senza diritto al corrispettivo, per un periodonon superiore a centocinquanta giorni per anno solare. Duran-te l’iter parlamentare è stato chiarito, però, che in questo caso ilcommittente, il cui interesse alla prestazione sia venuto meno,potrà recedere dal rapporto. La debolezza di una siffatta previ-sione è di tutta evidenza.

Non è d’altra parte del tutto agevole individuare la plateadei rapporti ai quali la disposizione fa riferimento (che sonoquelli dei lavoratori autonomi che prestino la loro attività in viacontinuativa per il committente). Il riferimento al carattere con-tinuativo dell’attività in favore del committente, se evidente-mente evoca le forme di lavoro parasubordinato «genuino» dicui all’art. 409, n. 3, c.p.c., non è però idoneo a restringere lanorma solo a tali rapporti, visto che, oltre che dalla continuità,essi sono caratterizzati dal carattere prevalentemente personaledella prestazione e – soprattutto – dal requisito del coordina-mento.

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8. Tra le previsioni di tutela in caso di malattia e infortunio vainfine annoverata la cosiddetta «moratoria contributiva», con-templata dal terzo comma dell’art. 14. In caso di malattia o in-fortunio di gravità tale da impedire lo svolgimento dell’attivitàlavorativa per oltre sessanta giorni, è ora prevista la sospensio-ne del versamento della contribuzione previdenziale ed assicu-rativa fino ad un massimo di due anni, decorsi i quali i contri-buti maturati dovranno essere versati in rate mensili entro unperiodo pari al triplo dei mesi di sospensione.

È dubbio se la moratoria contributiva si debba applicare atutti i rapporti di lavoro autonomo disciplinati dal Capo I dellalegge oppure soltanto a quelli indicati nel primo comma del-l’art. 14. Anche in questo caso sarebbe stato opportuno un in-tervento chiarificatore in sede di approvazione, che prendesseesplicitamente posizione in favore della prima e più ampia op-zione interpretativa, la quale appare, comunque, sicuramenteda preferire in ragione dello scopo della tutela (che soddisfa uninteresse fondamentale sicuramente riferibile a tutti i lavoratoriautonomi).

9. La disciplina in tema di malattia e maternità è completatadalla delega prevista dall’art. 6. Nel testo legislativo è stato, in-fatti, introdotto un certo numero di previsioni (di cui agli arti-coli 5, 6 e 11) contenenti altrettante deleghe al governo ad a-dottare, entro dodici mesi, uno o più decreti legislativi in temadi semplificazione e riduzione dei tempi dell’attività delle pub-bliche amministrazioni, di rafforzamento delle prestazioni di si-curezza e protezione sociale, di salute e sicurezza degli studiprofessionali.

Più in particolare, e senza scendere qui nel dettaglio, le aree dirilevanza previdenziale o assistenziale sulle quali il governo vie-ne chiamato a dettare la legislazione delegata riguardano: a) l’a-bilitazione degli enti previdenziali di diritto privato ad attivareanche prestazioni (purché finanziate da apposita contribuzione)di sostegno agli iscritti che abbiano subito una significativa ri-duzione involontaria del reddito o siano stati colpiti da gravi pa-tologie; b) l’incremento delle prestazioni legate al versamentodella contribuzione aggiuntiva per gli iscritti alla gestione sepa-rata, non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme pre-

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videnziali, attraverso la riduzione dei requisiti di accesso alleprestazioni di maternità ed all’indennità di malattia, a fronte diun aumento dell’aliquota di contribuzione aggiuntiva di cui al-l’art. 59, comma 16, della legge n. 449 del 1997.

10. Assolto – spero – il compito specifico che mi era stato asse-gnato, posso ora finalmente venire, dall’angolatura dello stu-dioso del diritto della previdenza sociale, ad alcuni dei notevolispunti metodologici che ci sono stati offerti a partire dalla rela-zione di Piera Loi e sui quali anche Lorenzo Zoppoli ha volutosoffermare il suo intervento. Lo farò molto rapidamente, e inmodo interrogativo, individuando tre chiavi di lettura sulla fal-sariga delle coppie di opposti analitici che sono state per l’ap-punto evocate nella relazione introduttiva; vale a dire: 1) ri-schio vs. bisogno; 2) fattispecie vs. tutele (o rimedi, come oggi sitende a dire); 3) universalismo vs. selettività.

11. Primo: rischio o bisogno? Se vogliamo, la lettura della cate-goria del rischio sociale che Piera Loi ci propone nella sua rela-zione in proiezione universalistica, in quanto programmatica-mente rivolta al superamento delle ingessature dogmatiche econcettuali che hanno tradizionalmente indotto a perimetrarele discipline protettive essenzialmente intorno alla fattispeciedel lavoro subordinato, letta dal punto di vista del diritto dellaprevidenza sociale si presta, almeno potenzialmente, ad equi-voci che devono essere accuratamente evitati.

Nell’ottica classica del cultore del diritto della previdenza (o,come un tempo si preferiva dire anche nel denominare i corsiuniversitari, della sicurezza) sociale, la categoria del rischio èinfatti piuttosto evocativa – ci basti ricordare la famosa prolu-sione di Francesco Santoro-Passarelli del 1948 – di una istanzadi perimetrazione dei confini soggettivi della tutela che restapiù o meno rigidamente ancorata alla definizione di presuppo-sti e requisiti assicurativi e contributivi, mettendo in secondopiano i bisogni sociali al cui sollievo la forma di tutela è preor-dinata. Quindi, la categoria del rischio evoca una concezionetipicamente assicurativa della tutela previdenziale, pensata inorigine a misura dei rapporti di lavoro subordinato anche se viavia estesa a sempre più significative categorie di lavoratori au-

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tonomi (e di piccoli imprenditori) già a partire dalla metà deglianni Cinquanta del Novecento.

12. La mia perplessità metodologica in ordine alla prospettivache ci ha illustrato Piera Loi sta allora proprio in ciò, che il ri-corso alla categoria del rischio, in contrapposizione a quella delbisogno, potrebbe all’apparenza contraddire quella logica diuniversalizzazione delle tutele sociali a cui guarda, invece, deltutto condivisibilmente, la relazione introduttiva. Il binomio ri-schio/bisogno finisce infatti per rievocare vecchie contrapposi-zioni dogmatiche – che dobbiamo invece superare – nella lettu-ra dell’art. 38 della Costituzione.

Insomma, il concetto di rischio sociale, quantomeno se vistodal prisma del dibattito storico sui fondamenti costituzionalidella tutela previdenziale all’ombra dell’art. 38 Cost., apparegravido di ambiguità che andrebbero quantomeno chiarite. Perquesto io preferirei parlare piuttosto di bisogni di protezione,che in molti casi e sempre più spesso debbono essere sganciatida un concetto assicurativo tradizionale di rischio sociale, pro-prio perché sono le stesse categorie assicurative ad essere al-meno in parte spiazzate dall’evoluzione dei rapporti produttivie delle forme sociali.

13. Quanto appena detto mi consente di venire alla secondaquestione metodologica affrontata da chi mi ha preceduto, chepuò essere seccamente riassunta nella domanda: fattispecie otutele? Anche tale alternativa sollecita, infatti, riflessioni che misembrano di grande interesse pure dal punto di vista del dirittodella previdenza sociale.

Anche il diritto della previdenza sociale agisce, naturalmen-te, per fattispecie. Ma è bene avvertire che il modo in cui il di-ritto della previdenza sociale ha sempre elaborato le propriefattispecie di riferimento è, ed è sempre stato, molto più prag-matico di quello che è tipico del diritto del lavoro, che poggiaancora saldamente sul basamento dogmatico dell’art. 2094 c.c.

14. Se ad esempio guardiamo alle fattispecie di riferimentodelle forme di assicurazione o in genere di tutela sociale più si-gnificative, ci accorgiamo (e lo rivediamo agevolmente anche

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nell’impianto della legge n. 81 del 2017) di una quasi connatu-ra tendenza allo sconfinamento, direi quasi alla «infedeltà» allafattispecie, esibita dal legislatore previdenziale. Il prototipo diquesta modalità ibrida e pragmatica, che mescola continuamen-te il riferimento ai rapporti giuridici con le esigenze di prote-zione che nascono dalla vita materiale del lavoro, è ancora oggiquello del testo unico del 1965 sull’assicurazione obbligatoriacontro gli infortuni e le malattie professionali. Ma questa ten-denza – appunto molto radicata – continua a manifestarsi an-che oggi, sia pure in forme diverse, ad esempio facendo riferi-mento a nozioni prelevate, seppure con qualche correzione, daldiritto tributario.

Tuttavia, il diritto della previdenza sociale, pur essendo prag-maticamente portato ad una certa incoerenza o, come ho detto,ad una certa dose di infedeltà alla fattispecie astratta per finipratici, nello stesso tempo ha mantenuto, almeno concettualmen-te, una coerenza di fondo con l’impianto assicurativo-sociale nelnostro sistema di previdenziale. Perché in fin dei conti esso fi-nisce sempre per mettere al centro la classica definizione deipresupposti assicurativi e contributivi della tutela.

15. Se leggiamo il testo della stessa legge n. 81 del 2017, siamosubito immersi nella riproduzione meticolosa di questo schema,che appunto si articola per fattispecie definite in modo più omeno lasco o ibrido (ho fatto sopra l’esempio dell’art. 14) maalla fine va a parare, per definire il perimetro soggettivo delleforme di tutela, vuoi sui requisiti assicurativi e contributivi, vuoi,ancor prima e «a monte», sulle tradizionali demarcazioni occu-pazionali dei diversi ambiti categoriali di tutela previdenziale.

Si prenda ancora l’esempio della delega di cui all’art. 6 dellalegge in merito all’estensione della tutela per la malattia e lamaternità. Qui il meccanismo selettivo tipicamente assicurativocampeggia in virtù dell’espressa delimitazione dell’innalzamen-to della copertura assicurativa nei limiti dell’aumento del pre-lievo contributivo fino ad un massimo dello 0,5% nella gestioneseparata dell’INPS. Questo vale anche per la delega previstasempre dall’art. 6 della legge per le casse dei liberi professioni-sti, le quali (senza peraltro che ve ne fosse bisogno, vista l’am-pia autonomia normativa loro riconosciuta) sono autorizzate ad

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introdurre forme di tutela del reddito in caso di discontinuitàlavorativa legata a gravi patologie o comunque ad eventi chenon dipendono dalla volontà del prestatore, anche in tal caso afronte di un’adeguata copertura contributiva.

16. Posso venire così all’ultimo punto di metodo sollevato daPiera Loi e da Lorenzo Zoppoli, ovvero alla questione dell’al-ternativa fattispecie-tutele (o rimedi), sulla quale si è di recenteintrattenuto anche Tiziano Treu in un saggio pubblicato su La-voro e diritto.

Questa alternativa – con una giusta sollecitazione a ragionaresempre di più in termini di bisogni di tutela, piuttosto che difattispecie astratte – mette opportunamente al centro l’esigenzadi un aggiornamento dei criteri di giustizia sociale che presie-dono alla distribuzione delle tutele in nome di un nuovo uni-versalismo, che potremmo definire ben governato e temperato:attento, cioè, alle tante differenze che si insinuano anche den-tro le medesime fattispecie.

Se guardiamo ai nuovi bisogni di protezione sociale che e-mergono a prescindere dall’incasellamento in una certa fatti-specie astratta di attività lavorativa (subordinata, autonoma, pa-rasubordinata, e via dicendo), dobbiamo allora prendere atto –per quanto ho osservato sopra – che il sistema non sarebbe ingrado di dare a tutti le risposte necessarie mantenendosi dentrouna logica strettamente assicurativo-categoriale. Occorre perquesto immaginare, proprio ripartendo dai temi del welfare, unnuovo universalismo in coerenza con l’impianto della Carta deidiritti universali del lavoro varata dalla CGIL.

17. La Carta delinea in modo molto chiaro l’orizzonte riformi-sta nel quale deve muoversi il ridisegno in chiave universalisticadel sistema di welfare anche del mondo del lavoro autonomo.Dobbiamo, però, e per ciò stesso, anche avere piena consape-volezza che una base universale di protezione sociale di tutti ilavori presuppone essa stessa un pavimento di diritti fonda-mentali di cittadinanza sociale, a prescindere da qualunque ti-po di inquadramento occupazionale o professionale, che ancoramanca al nostro Paese.

Il reddito di inclusione sociale ha solo avviato un percorso

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che ha bisogno di essere completato e rafforzato quanto prima,in una logica – appunto – autenticamente universalistica.

18. La risposta non può essere – come evidente – una irrealisti-ca e sbagliata idea di reddito incondizionato di cittadinanza.C’è però bisogno, anche in Italia, seguendo una traiettoria sucui si sono da tempo incamminati tutti i principali Paesi euro-pei (e che non a caso è evocata anche dal Social pillar approvatolo scorso novembre nel vertice di Göteborg), di un vero schemadi reddito minimo garantito per tutti quanti si trovino in condi-zioni di disagio economico e di marginalità sociale.

Ma occorre più in generale investire su politiche sociali uni-versalistiche, sia nei servizi sia nella distribuzione delle tuteleeconomiche. Pensiamo solo – per concludere questo interventoin una direzione che mi pare del tutto coerente con quella trac-ciata nella sua introduzione da Piera Loi – all’istituzione di unapensione di garanzia per i lavoratori che (come tipicamente ilavoratori autonomi iscritti alla quarta gestione dell’INPS) deb-bono poter contare sull’effettiva capacità del sistema contributi-vo di garantire, in futuro, prestazioni realmente adeguate, nel-l’ottica dell’art. 38 della Costituzione.

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INTERVENTI

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Cercherò di dire sinteticamente le riflessioni suscitate, in par-ticolare, dalle relazioni di Piera Loi e di Umberto Carabelli, chemi hanno molto convinto.

In effetti mi pare di poter dire che il legislatore abbia opera-to, non so quanto consapevolmente, un progressivo avvicina-mento tra le disposizioni che reggono le due fattispecie fonda-mentali, il lavoro subordinato e quello autonomo: da un latoriducendo sensibilmente le tutele e i diritti del primo, e dal-l’altro avviando, con molta cautela, qualche embrionale ricono-scimento di diritti per i secondi, compiendo peraltro dei guastisulle collaborazioni, come poi dirò. Che questo movimento siaispirato da una sorta di teoria dei vasi comunicanti, per cui allasottrazione di diritti per il lavoro dipendente corrisponda unaumento di tutele per i lavoratori autonomi, è stato teorizzatoda Pietro Ichino quale mezzo per superare il dualismo tra insi-ders e outsiders e accrescere così l’occupazione. L’esito mi paresconfortante, vuoi sul piano dei numeri, vuoi – cosa che qui in-teressa – sul piano dei diritti, ma sono cose troppo note per in-sistervi.

Mi pare più interessante, invece, provare a ragionare sullacategoria del rischio, opportunamente enfatizzata da Carabelli:vorrei provare a forzare un po’ il suo ragionamento collegan-dolo alle trasformazioni dell’impresa. La mia impressione è chenella crisi stiano mutando l’organizzazione del lavoro e l’assettodelle filiere produttive, nel senso cioè che il ricorso alle diverse

* Segretario generale di NIdiL-CGIL.

Claudio Treves*

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forme di esternalizzazione – dall’appalto alle cessioni di ramod’azienda, alla somministrazione usata come strumento normalee non più eccezionale di gestione della variabilità produttiva, allostesso ricorso alle prestazioni di lavoratori autonomi – stia ca-ratterizzando questa fase di sviluppo capitalistico. Se questo èvero, il concetto di rischio si estende, in quanto ciascun anello èsoggetto e – soprattutto – si sente soggetto alle scelte/decisionidell’anello precedente, a sua volta condizionato da quello pre-cedente e così via, di modo che le responsabilità fondamentalivengono nascoste e si offusca, agli occhi dei lavoratori, lo stessoassetto del ciclo produttivo, il che rende più difficile, a volteimpossibile, ricostruire la conoscenza del ciclo stesso, e con ciòle basi per una ricomposizione dei diritti, e al converso si am-plia considerevolmente «l’inspiegabilità» di ciò che accade, dal-l’interruzione dell’appalto al cambio di applicazione contrat-tuale, dall’interruzione della missione allo stesso rinnovo condiritti inferiori della precedente richiesta di prestazione profes-sionale: in questo senso il rischio non solo si scarica più facil-mente sulle persone, ma la ragione sottostante viene addebitatanon ad una scelta imprenditoriale del datore di lavoro presen-te, ma a decisioni del committente più o meno lontano. Di quiil sentimento di incombenza del rischio, di cui i lavoratori sonopervasi, ma contestualmente l’indeterminatezza della sua fonte,che è un ulteriore fattore di aggravamento. In questo, esisteeffettivamente una condizione soggettiva sostanzialmente analo-ga tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, ma il vissuto ditanti anni di predicazione liberista ha fatto invece sorgere unabarriera tra i due mondi, in quanto la coscienza del secondo èstata plasmata – nelle sue esperienze organizzative più note ecorteggiate quale Acta – in contrapposizione al primo. E poi l’a-zione del governo con il Jobs Act e la legge 81/2017 ha puntato aconsolidare questo schema di ragionamento

Di qui il tema – per noi – di un’azione in primo luogo cultu-rale e di sperimentazione contrattuale che faccia vivere la Cartadei diritti e la sua ispirazione, che abbia quindi lo scopo di rico-struire un sistema di diritti universale, a prescindere dalla for-ma del rapporto. E che chiede però, a mio avviso, di esserecompletata nella direzione di assicurare, per i lavoratori auto-nomi così come per i lavoratori dipendenti con periodi di lavo-

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ro intermittenti – nelle fasi di intervallo tra un lavoro e l’altro –forme di sostegno, continuità di reddito, sia pure condizionataad azioni di rafforzamento delle competenze.

Un commento infine sulla legge 81/2017: il legislatore ha a-dottato un approccio di tipo generalista nella prima parte, dovevuole assicurare a tutti i lavoratori autonomi, a prescindere daulteriori qualificazioni, alcuni diritti, tesi ad introdurre formeminime di tutela contro l’abuso del committente. Ma da un cer-to momento in poi (art. 12) il legislatore parla solo e soltanto diiscritti alla gestione separata INPS, non facendo alcuna distin-zione tra collaboratori e titolari di partita IVA: ciò determina daun lato un’ulteriore segmentazione di tutele rispetto all’uni-verso prima preso in considerazione, e dall’altro l’aggravamen-to delle condizioni dei collaboratori, fino ad allora protetti, siapure debolmente, dalle norme di derivazione precedente inparticolare su maternità, malattia e infortunio. Paradossalmen-te, la conclamata soppressione del lavoro a progetto come pro-va della lotta alla precarietà si è risolta nella cancellazione dellemisure introdotte dalla legge 92/2012 che avevano consentito,oltre ad un’azione ispettiva efficace, l’apertura di uno spazio allacontrattazione, che NIdiL aveva condotto con efficacia, e cheora si trova a dover difendere senza però lo schermo della nor-mativa. La prova di quanto sia diventato difficile è esemplificatadalle norme sulla maternità: dopo il varo della legge 81/2017 leiscritte alla gestione separata possono ricevere l’indennità dimaternità pur continuando a lavorare anche durante i mesi di(teorica) astensione obbligatoria. Ho sempre ritenuto questa di-sposizione totalmente sbagliata, e non ho mai compreso il so-stanziale silenzio della CGIL in proposito. Ma tant’è: quandoabbiamo pensato di reintrodurre contrattualmente dei periodidi assenza obbligatoria – a salvaguardia sia della madre che delnascituro – ci siamo resi conto che il legislatore aveva istituitouna (per me bizzarra) «libertà» soggettiva che la contrattazionenon poteva comprimere, il che credo sia un bel paradosso.

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1. Lavoro parasubordinato e rappresentanza. L’esperienzadel Protocollo per lo sviluppo sostenibile nel gruppo ISP

Il Protocollo per lo sviluppo sostenibile del gruppo IntesaSanpaolo siglato il 1° febbraio 2017 è un accordo che ha segna-to un passo nuovo nella strada della contrattazione collettivanel comparto del credito e delle assicurazioni.

Per la conclusione dello stesso l’azione del sindacato e dellaFISAC CGIL è stata tutta orientata sulle corde del messaggio diinclusività e apertura contenuto nella nostra Carta dei diritti.

L’esperienza di Intesa Sanpaolo, ancor prima della legge 81del maggio 2017 apre infatti un’importante finestra sul mondodelle partite IVA attribuendo loro tutele e possibilità di appro-do ad un impiego dipendente.

In buona sostanza il Protocollo consente che su un unicosoggetto insistano due distinte fattispecie contrattuali.

Una che rimanda ad un contratto di lavoro autonomo e unache rimanda ad un rapporto di lavoro subordinato.

Il lavoro parasubordinato NON è un lavoro a causa mista,come il tirocinio o l’apprendistato dove i momenti lavorativi eformativi erano sotto un unico tetto contrattuale (la cosiddettalegge Biagi ha introdotto l’aspetto formativo come uno degli a-spetti caratterizzanti la formazione).

Il caso del contratto parasubordinato, contenuto nel Proto-collo per lo sviluppo sostenibile di Intesa Sanpaolo, prevede la

* Dipartimento giuridico FISAC CGIL.

Francesca Carnoso*

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sperimentazione di una doppia forma contrattuale di tipo au-tonomo e di tipo subordinato offerta sia ai promotori finanziarisia a quei lavoratori già dipendenti che volessero sperimentarequesta modalità.

Per metà dipendente e per metà lavoratore autonomo, se-condo il testo del Protocollo «si prevede la possibilità di costitu-zione [...] di un contratto di lavoro subordinato a tempo par-ziale che ha natura di rapporto di base e di un parallelo, conte-stuale e distinto contratto di lavoro autonomo, che rimangonotra loro indipendenti e reciprocamente assoggettati alla specifi-ca disciplina legale e contrattuale loro applicabile».

Si tratta dunque di sottoscrivere due distinti contratti:

– uno da promotore finanziario da agente monomandatariocon retribuzione fissa;

– uno da dipendente a tempo indeterminato part time.

Recita il Protocollo: «Il contratto di lavoro subordinato atempo parziale a T I, è di 15 o 22 ore e 30 minuti ferme re-stando le ulteriori previsioni della normativa nazionale e azien-dale tempo per tempo vigenti».

Questi lavoratori dunque acquisiscono pro quota le tutele inmateria di welfare – di previdenza e fondo sanitario e tutele allamaternità e condizioni agevolate al personale + un ad personamdell’11% sulla retribuzione A3L1 (che cessa nel momento in cuiil lavoratore trasforma il rapporto di lavoro da parasubordinatoa subordinato).

Il contratto da consulente finanziario – offerto secondo ilProtocollo per un periodo non superiore ai due anni – si svolgesecondo le modalità dell’art. 1703 c.c. e seguenti ovvero del-l’art. 1742 c.c. per lo svolgimento a titolo personale di attivitàdi consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede iscrittoall’albo previsto dal TUF come modificato dalla 208/2015.

Alla fine del biennio di lavoro in modalità parasubordinata illavoratore potrà optare per la trasformazione del rapporto di lavoro atempo pieno e in modalità subordinata.

In tal caso l’azienda avrà nove mesi di tempo per trovare unacollocazione al lavoratore in regione o in regioni ad essa limi-trofe, coerenti al momento dell’accoglimento della proposta.

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Il contenuto del Protocollo è forte, in prima battuta anchetemuto e osteggiato e visto come prima falla nella tenuta dell’a-rea contrattuale. Il messaggio in esso contenuto è di grandeapertura invece perché consente di aprire una finestra di cono-scenza, di inclusione e di sindacalizzazione per un universo finoad oggi poco conosciuto in categoria.

Di qui, la grande campagna di ascolto per le patite IVA lan-ciata dalla FISAC CGIL, perché consapevole della necessità diuna grande cambiamento culturale: la partita IVA non è neces-sariamente il ricco padrone o il non lavoratore. Occorre nonsmarrire il messaggio costituzionale che sia all’art. 1 che all’art.4 tutela il lavoro in genere come valore per il progresso e comeelemento di dignità per la convivenza civile.

Ma non solo, l’art. 35 della Costituzione tutela infatti il lavo-ro in tutte le sue forme e applicazioni, comprendendo nel ter-mine lavoro ogni attività produttiva svolta. Non dimentichiamoinfatti che nella proposta originaria della Costituzione c’erascritto «fondata sui lavoratori» ma si ritenne che questa impo-stazione avesse un’impronta troppo classista riconoscendosi inquesta categoria i soli contadini e operai.

E così si decise di utilizzare la parola «lavoro» al singolareper esaltare il principio per cui lavoro è a fondamento di tutto,comunque esso sia svolto, con qualsiasi tipo, subordinato o au-tonomo, privato o pubblico, perfino imprenditoriale.

Il nostro ruolo infatti è quello di comprendere le nuove ti-pologie di lavoro che ci troviamo davanti sempre in maggiornumero e con sempre maggiore intensità.

La strada è quella di gestire ed estendere le tipologie con-trattuali che già abbiamo creando meccanismi di tutela specificie percorsi di tutela anche per gli autonomi che vogliono sinda-calizzarsi.

Il diritto a sindacalizzarsi è un diritto universale ed umano eva esteso al di là della qualificazione giuridica del rapporto.

L’idea è quella della Carta universale che punta ad estenderele tutele a prescindere dalla qualificazione giuridica del rappor-to ed è un idea molto interessante che deve essere perseguita.

Quando parliamo di lavoro 4.0, di gig economy e smart workparliamo di come interpretare la tecnologia, di come negoziaregli algoritmi e di quanto questo cambiamento impatti su di noi.

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Il punto non è quanti lavoratori saranno sostituiti dalle mac-chine ma quanta è l’incidenza dei lavori che se non automatiz-zati avranno bisogno di un cambio di mansioni che i lavoratoridovranno agire per restare sul posto di lavoro.

Occorre lavorare perché si possa riconoscere a tali lavoratorianche autonomi un nucleo protettivo irrinunciabile, di fonda-mento costituzionale, comprensivo della libertà di organizzazio-ne, associazione e conflitto collettivo, necessario per assicurareanche a tali lavoratori 4.0 il diritto all’autodeterminazione e al-l’autorealizzazione nel lavoro.

Il fine è quello di comprendere quale latitudine possa assu-mere l’azione collettiva intesa come vettore d’istanze protettivedi tali nuovi lavoratori, in quanto attori del mercato del lavorocontrassegnati da condizioni di debolezza contrattuale e/o so-cio-economica.

La vera sfida per il sindacato è la creazione di forme e mo-dalità di aggregazione collettiva in grado di intercettare e sinte-tizzare l’interesse collettivo di tali nuovi lavoratori imponendonuove forme di contrattazione.

Le modalità di organizzazione di tali nuovi soggetti potreb-bero passare riscoprendo soluzioni antiche da rivitalizzare (co-me la rappresentanza sindacale di mestiere) e/o adottando so-luzioni organizzative «a rete».

Rinnovare, nel senso di estendere a nuovi soggetti emergentinel mercato del lavoro la rappresentanza sindacale implica, an-che e soprattutto, una ridefinizione della base della solidarietàtra lavoratori.

3. Considerazioni conclusive

Quale che sia la soluzione organizzativa prescelta, occorreràcercare forme di rappresentanza in grado di attuare una nego-ziazione calibrata sulle peculiari esigenze dei nuovi lavoratori,ponendo al centro la parità nell’accesso alle opportunità di la-voro.

La strada della nuova contrattazione può ragionevolmenteessere quella di organizzare il lavoro sulla persona e non suiluoghi in maniera trasversale.

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Il tempo lavoro, la dimensione oraria cambia e cambia ancheil luogo e noi dobbiamo anticipare questo processo.

Gli accordi sottoscritti in tema di smart working, il Protocolloper lo sviluppo sostenibile di cui abbiamo parlato poc’anzi devo-no essere la bussola, interpretando il cambiamento e costruendonuove garanzie intorno ad esso in modo da tutelare la vita pri-vata e la vita lavorativa delle persone.

Occorre normare ciò che ad oggi non lo è e dare diritti a chisino ad oggi ne è privo. Questo perché occorre un nostro nuovoriposizionamento alternativo all’idea politica di disintermedia-zione che invece, abbiamo visto, raccoglie solo la rabbia di queisoggetti che dovremmo proteggere di più.

Occorrerà quindi lavorare ad un patto per governare e me-diare l’impatto dell’innovazione tecnologica tra chi la detiene echi la subisce e in questa fase l’idea di mediazione sociale è im-prescindibile.

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Grazie per l’invito.Non vi è alcun dubbio circa il ruolo che deve avere la Consul-

ta giuridica nella nostra organizzazione. Introduco questo brevesaluto, ricordando quanto mi disse quasi quarant’anni fa – quan-do muovevo i primi passi nel sindacato – l’allora segretariodella CdLT di Venezia: la CGIL deve avvalersi dei migliori av-vocati e i migliori giuslavoristi, con l’obiettivo di non utilizzarlimai nella risoluzione dei conflitti. Quella che sembrerebbe oggiuna contraddizione aveva allora il senso profondo del ruolo delsindacato della fine degli anni Settanta: da un lato, la necessitàdella «conoscenza» anche giuridica di diritti e doveri in capo ailavoratori e al sindacato che ogni dirigente sindacale aveva l’ob-bligo di avere; dall’altro, l’idea che il negoziato tra le parti so-ciali potesse produrre, sul versante del diritto del lavoro, risul-tati migliorativi di quanto la legge già non prevedesse. Parados-salmente, la funzione dell’avvocato, in quanto «coerente» con lenorme di legge vigenti, poteva persino considerarsi «conserva-tiva» rispetto alle dinamiche negoziali proposte dal sindacatoconfederale nei contratti collettivi, così come dai Consigli diFabbrica nella contrattazione aziendale. Non solo. Lo Statutodei diritti dei lavoratori, in quegli anni ancora «fresco di stam-pa», rappresentava, in realtà, un patrimonio culturale condivisoe di massa. Perfino la limpidezza e la semplicità del testo – lastessa che ritroviamo nel dettato costituzionale, non a caso! – te-stimonia la chiarezza dell’obiettivo: stabilire un riequilibrio nel

* Coordinatore Politiche lavoro autonomo CGIL nazionale.

Massimo Cestaro*

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luogo di lavoro tra il potere del datore di lavoro e il diritti costi-tuzionali del lavoratore e delle rappresentanze sindacali.

Oggi le cose sono profondamente mutate: il diritto del lavo-ro è diventato, per lo più, materia per esperti. Basta leggere ilnuovo articolo 18 e confrontarlo col vecchio; lo stesso dicasi perl’articolo 4 sul controllo a distanza: al di là del merito – su cui ilgiudizio è già stato dato – ciò che appare, confrontando i testi,è che i vecchi erano di immediata comprensione da parte dichiunque, mentre i nuovi hanno bisogno di essere interpretati espiegati; oppure basta pensare al fatto che si allarga sempre piùla zona grigia nella quale non si può più dire con certezza se, inquell’ambito, il lavoro sia subordinato o autonomo e dove il po-tere organizzativo del datore di lavoro può occultamente essereesercitato attraverso un algoritmo. Questo – e molto altro anco-ra – è il frutto della destrutturazione del diritto del lavoro che siè consumata negli ultimi due decenni. Da qui l’intuizione poli-tica di «aggiornare» la legge 300 del 1970 attraverso la propo-sta della Carta universale dei diritti di lavoratrici e lavoratori. Natu-ralmente quel lavoro – che, giustamente, abbiamo definito dirango costituzionale – è stato possibile attraverso il contributostraordinario della Consulta giuridica.

È evidente che un percorso che voglia incrociare il mondo dellavoro «non standard» appare immediatamente colmo di diffi-coltà. Si prenda, per esempio, il tema della formazione.

Da ogni parte viene rilevato come la formazione abbia assun-to – e sempre più assumerà – una funzione rilevante e centraleper il mondo del lavoro in relazione alla crescita esponenzialedello sviluppo tecnologico (tanto che ormai sempre più si parladi formazione legata alla «capacità di apprendere» piuttostoche formazione incentrata sull’evoluzione di «singole» e «speci-fiche» mansioni). Se questo è vero per le imprese e per i propridipendenti, lo è ancor di più per quei lavoratori con rapportodi lavoro «non standard» per i quali la permanenza nel mercatodel lavoro è data – direi esclusivamente – dalla possibilità di in-traprendere percorsi formativi e di apprendimento permanen-te per l’intero corso della propria vita lavorativa. In sintesi, seper un lavoratore «standard» la formazione può essere un’op-portunità, per il lavoratore «non standard» essa rappresentaun’assoluta necessità. Ciò risulta, tra l’altro, inequivocabilmen-

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te, da una serie di indagini/questionari realizzati da alcune ca-tegorie e dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, rivolti al mon-do del lavoro autonomo.

Tra l’altro è utile riportare qualche dato relativo al tenoredella formazione scolastica che evidenzia come in tutta Europagli appartenenti alla fascia di età 25-34 anni che al massimohanno completato la secondaria di primo grado sono scesi, men-tre da noi sono tornati a salire registrando un’inversione di ten-denza dopo 15 anni; il livello di preparazione per industria 4.0ci pone al di sotto della media europea dopo Repubblica Ceca eSlovacchia, ponendoci al 18° posto e, infine, va segnalato comesiano in forte contrazione le lauree scientifiche. Inoltre, sempresul versante della formazione, un’analisi più dettagliata dei datimanifesta una forbice sempre più ampia tra Nord e Sud.

In questo quadro appare evidente come una possibile rispo-sta al tema della formazione rivolta agli «autonomi» chiami incausa un profondo cambiamento dei criteri finora seguiti e coin-volga anche – ma non solo – il ruolo delle categorie nazionalinella contrattazione collettiva.

Questo solo per citare la formazione. Se poi aggiungiamo glialtri punti individuati dai questionari realizzati, la complessitàaumenta. Infatti le esigenze manifestate dagli intervistati ri-guardano le protezioni sociali, le coperture previdenziali e assi-stenziali per i periodi di non lavoro, il recupero crediti in parti-colare verso la Pubblica Amministrazione: temi sui quali la Con-sulta può svolgere un ruolo importante a sostegno dell’azionesindacale.

Chiudo dicendo che, fermo restando il percorso legislativo,sulla Carta occorre superare la fase della «convegnistica». Vi so-no esperienze importanti realizzate in diversi punti della nostraorganizzazione che provano a dare risposte positive ai cambia-menti del mondo del lavoro. Queste esperienze vanno messe «asistema», socializzate e fatte diventare patrimonio condivisodell’intera organizzazione.

Mi pare del tutto superfluo sottolineare l’importanza dell’in-formazione, del coinvolgimento e soprattutto della partecipazio-ne di quei lavoratori ai quali la Carta, in larga parte, si rivolge.

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Nel 2009 il compagno Davide Imola fonda la Consulta dellaprofessioni. Le associazioni che aderirono a quel progetto chie-devano fondamentalmente due cose: welfare ed equo compenso.Ed ecco, noi oggi, nel 2017, siamo a discutere in merito a duenorme – approvate – su welfare ed equo compenso, e siamo quia parlarne male, e magari ognuno ha le sue ragioni per farlo,non lo metto in dubbio. Sul welfare, sul d.lgs. 81/2017, vorrei fa-re un appunto ad un precedente relatore che sostiene che ilwelfare per gli autonomi nella legge 81/2017 sia stato toccatosolo collateralmente, ed ha sostenuto – in parte a ragione – chele prestazioni per gli autonomi sono ancora parcellizzate. Rac-conto una storia. Lavoravo all’INCA e cercammo con la presi-denza di instaurare un protocollo tra CEPA e le casse profes-sionali. Ci recammo quindi dall’allora presidente ADEPP avvo-cato De Tilla – da poco scomparso – con una bozza di proto-collo. Lui ci ricevette e ci disse chiaramente: «A noi casse pro-fessionali i patronati non servono, di avvocati possiamo occu-parcene solo noi Cassa Forense; guardate, neanche l’INPS potràmai occuparsene, grazie della proposta» – che neanche lesse –,ci regalò due suoi libri sul diritto del condominio e ci congedò.

Quello che voglio dire è che in questa stanza, in questo pa-lazzo o in qualunque palazzo romano non credo che ci sia inquesto momento qualcuno che sia davvero in grado di riunifi-care il welfare di tutti i professionisti e autonomi, degli iscritti

* Responsabile Consulta delle professioni della CGIL.

Cristian Perniciano*

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alle Casse. Casse professionali che hanno, peraltro, un sistemadi autogoverno molto molto difficile da scalfire. Quindi è vero,la legge 81/2017 non affronta del tutto il tema del welfare deiprofessionisti, ma intanto ora siamo qui e possiamo parlarne,spero con l’intento di proporne miglioramenti.

Prima, ascoltando l’avvocato Zoppoli che parlava di equo com-penso, credo che di fondo abbia ragione, ma non è vero chequella è una norma elettorale, sono almeno due anni e mezzoche tante associazioni provano a portare proposte del genere inParlamento (Damiano, Gribaudo, Sacconi, Orlando, ovvero Be-retta); quella che poi si è imposta è la proposta di Orlando, chepartiva per essere destinata ai soli avvocati. Questa norma hamolti problemi in effetti, e su tutti quello di essere nata per tu-telare solo gli avvocati, e non a caso è inserita nella legge pro-fessionale forense, perché gli ordini forensi, gli avvocati, sonostati gli unici a riuscire ad avere la forza di imporre le proprieesigenze al ministro (e vedremo quanto pagherà elettoralmentequesta decisione di ascoltarli). Se ora quella legge, che comedetto era tutt’altro che inclusiva, è stata estesa anche a tutti glialtri professionisti, pur con tutti i limiti, le tabelle e le profes-sioni cui si può applicare, i decreti necessari, la poca cogenzaper la pubbliche amministrazioni eccetera, io credo che il no-stro ruolo debba essere quello di provare a presidiare tutti iluoghi in cui questa legge sarà sviluppata ed integrata per pro-vare a migliorarla e, certo, analizzarne i limiti, ma per superar-li, non per un crucifige.

L’equo compenso comunque rimane un tema importante perle professioni, ed io spesso ricevo critiche dai professionistiquando dico che uno dei parametri per stabilirlo deve esserenecessariamente il contratto collettivo nazionale. Per ricevereparimenti critiche anche nella nostra organizzazione, tuttavia,terrei a specificare che il contratto nazionale è base di partenza,ma non è sufficiente per definire il compenso equo per i nondipendenti. Intanto perché non tutte le prestazioni d’opera so-no assimilabili ai mansionari dei contratti, e poi perché i para-metri dei contratti di lavoro autonomo non sono così scontati.Se concludo ad esempio un contratto con un archivista per 6mesi, e gli assicuro una paga da contratto, non è detto che que-sta paga sia giusta. Pensiamo al diritto al riposo che vogliamo

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assicurare a tutti anche nella nostra Carta. Di certo l’adegua-tezza del compenso cambia se questo archivista in sei mesi devesistemare 100 libri, 1.000 libri o la biblioteca di Alessandria d’E-gitto. Per questo io credo che serva inserire nei contratti tuttauna serie di elementi relativi alle prestazioni dei non dipenden-ti, che devono derivare da un confronto con i diretti interessati.Una buona pratica è di certo quella di SLC che nella collabora-zione con l’associazione di traduttori editoriali, oggi «S.trad.e.SLC» è riuscita a trovare l’equivalenza tra cartelle da tradurre etempo medio necessario. E non è la soluzione definitiva, è untassello, ma quel che vorrei dire è che non basta espandere icontratti nazionali ed inserirvi tutte le nuove professionalità, ènecessario anche far evolvere i contratti, individuare parametrinuovi per definire prestazioni, compensi e diritti.

Come ben diceva nel suo intervento la compagna Carnoso, ilavoratori ormai non identificano più necessariamente il lavorodipendente come il bene ed il lavoro autonomo come il male.La CGIL ha presentato una proposta di legge per permettereagli avvocati di studio di essere assunti con contratti di lavorosubordinato. Con tutti i dubbi del caso e le opposizioni corpo-rative di un mondo dell’avvocatura che è abbastanza legato avecchi schemi, noi continuiamo a credere che quella propostasia giusta, anche se fin dall’inizio abbiamo detto che non è no-stro obiettivo trasformare tutti gli avvocati di studio in dipen-denti. La vera finalità della proposta è quella di migliorare lecondizioni delle collaborazioni tra autonomi negli studi. L’ar-gine della possibilità del lavoro subordinato nella nostra ideadeve servire ad impedire che libere collaborazioni sfocino in unlavoro subordinato di fatto senza alcuna garanzia. Gli organi diautogoverno forensi, CNF e OCF, si sono da subito detti con-trarissimi, salvo poi avvicinarsi fino a dire – parole del presi-dente di OCF – di essere favorevoli alla possibilità di un com-penso minimo stabilito dall’ordine (non sia mai che si possa farcontrattazione...) e contributi in carico al Dominus. Non è il no-stro ottimo ma se davvero si arrivasse a questa situazione sareb-be un grande passo avanti ed un miglioramento delle condizio-ni materiali di migliaia di avvocati. Aggiungo che molti avvocatiche ci appoggiano non vorrebbero mai diventare subordinati, etuttavia questo è lo strumento che abbiamo a disposizione, le

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categorie di dipendente e autonomo, che poi ormai si vivonocon una fluidità assai maggiore che in passato.

Non è un caso se nella Carta prendiamo atto della fluidità esorpassiamo la dicotomia in nome del diritto in capo alla per-sona che lavora, e in questo dimostra di essere una proposta dilegge di iniziativa popolare innovativa e al passo coi tempi.

Credo però che come sindacato dovremmo prendere atto diquesta fluidità e confrontarci anche nelle nostre pratiche orga-nizzative. In passato ricordo che era considerato eretico o tradi-tore chi, nel patronato INCA, compilava i bollettini per i con-tributi delle colf e badanti ai pensionati. Ora è un servizio cheforniamo agli iscritti in quasi tutti i nostri CAF, senza problemi.Capisco, pur non condividendola, l’obiezione: se poi la lavora-trice farà vertenza al suo datore di lavoro, questi potrebbe op-porre che, in fondo, l’assistenza gliel’abbiamo fatta noi. Abbia-mo superato senza grossi traumi questa contraddizione. Il sin-dacato può aiutare a riempire i bollettini dei contributi, segna-lare diritti e doveri nel rapporto di lavoro derivanti da legge econtratti, e se poi il datore di lavoro è inadempiente non è cer-to colpa di chi l’ha esattamente informato ed invitato ad esserecorretto. Come abbiamo superato questa contraddizione, do-vremmo superare quella relativa agli autonomi e ai freelance.Quando parliamo della loro «fluidità» significa che un profes-sionista non sempre è un soggetto debole che lavora in solitu-dine. A volte, ed è il cosiddetto lavoro a rete, è possibile che unautonomo abbia necessità di instaurare una temporanea colla-borazione con un altro professionista, un collaboratore occasio-nale, insomma, un’altra professionalità, a prescindere dalla for-ma contrattuale. Allora io credo che sia necessario che quandoparliamo dei nostri servizi e della nostra rappresentanza, in-somma del nostro «far entrare» un professionista nel nostrosindacato, nelle nostre Camere del Lavoro, nelle nostre catego-rie, nelle nostre sedi, noi dobbiamo sfidare questa difficoltà; unavolta che stabiliamo i paletti, magari con la consulenza dell’uf-ficio giuridico, ad esempio soltanto i freelance che stanno nel re-gime dei forfetari, soltanto quelli che hanno un reddito inferio-re ad una certa soglia, soltanto quelli che hanno spese per di-pendenti o collaboratori inferiori ad esempio a 5.000 euro an-nui, o qualunque altro parametro che vorremmo individuare, io

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sono convito che dobbiamo far entrare – anzi cercare noi perprimi – tutti i non dipendenti che rientrano nel perimetro sta-bilito e che vogliano affiliarsi. Entrino pure tutti, e se ci sonocontraddizioni da affrontare si affrontino volta per volta. Af-frontiamo e risolviamo contraddizioni, in fondo, da oltre 110anni. Sono sicuro che non sarà impossibile continuare anche infuturo.

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La giornata di oggi è stata estremamente suggestiva e densadi stimoli, con alcune interessanti provocazioni. Dobbiamo af-frontare le contraddizioni, sosteneva il relatore che mi ha pre-ceduto. Soprattutto in un’epoca di grandi cambiamenti, comequella che stiamo vivendo, credo anch’io che non sia evitabile.Quindi, mi muoverò dentro le nostre contraddizioni e non pos-so non cedere alla tentazione di partire da quello che dicevaPiera Loi nella sua bella introduzione e, in particolare, dal temadel rischio. Mi perdonerete se lascio qualche spigolo nell’ar-gomentazione, favorendo la sintesi a scapito della completezza.Il tema del rischio è entrato nel mondo del lavoro. Questa è inqualche modo una novità degli ultimi anni, e ancora più recen-te è l’ingresso del tema del rischio nel dibattito sul lavoro. In-gresso per altro ancora parziale. Perché, fino a un certo puntodella nostra storia, noi abbiamo considerato il rischio comeelemento tipico dell’impresa, ma non appartenente al lavorato-re. O meglio, nel lavoro abbiamo considerato il rischio comevariabile il cui valore deve il più possibile tendere a zero. È evi-dente che questo possa ancora avere un senso, almeno per al-cuni istituti tipici della regolazione, normativa e negoziale, co-me ad esempio la salute e la sicurezza. Ma da qualche tempo ilrischio è entrato nel mondo del lavoro con accezioni nuove e,in qualche caso, dirompenti rispetto alle pratiche tradizionali.In particolare, il rapporto tra lavoro e rischio (anche nel sensodi rischio d’impresa) è stato modificato attraverso la regolazio-

* Presidente di Agenquadri.

Paolo Terranova*

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ne normativa, ad esempio con i cosiddetti contratti atipici e laprecarietà, dagli anni Novanta in poi, rispondendo a pressioniprovenienti dalle modificazioni del modello di produzione e,quindi, di organizzazione dell’impresa e del lavoro. Certo que-sto è successo anche in funzione della fase economica, ma non ètutto qui. Le modificazioni che segnano l’ultima parte del XXsecolo investono anche la dimensione dei valori, cioè di queiconcetti che guidano le nostre scelte. Una sorta di mutazioneantropologica di cui ci parlano in molti, dai sociologi che stu-diano le società post-industriali agli esperti di marketing orienta-ti all’engagement dei millennials, allo European Values Study avvia-to alla fine degli anni Settanta e tuttora attivo. Senza entrarenel merito di un dibattito ampio, quello che intendo qui sotto-lineare è che esiste una differenza nella scala valoriale dellepersone, e quindi nelle persone che lavorano, nel valore attri-buito a concetti come l’autonomia, la sicurezza, il rischio, ecc. Equesto ci riporta ad un tema centrale nell’azione sindacale enella regolazione del lavoro: lo scambio tra autonomia e sicu-rezza. Per circa un secolo questo scambio è stato alla base: ri-nuncio ad una parte della mia libertà, accetto la subordinazio-ne, in cambio di una maggiore sicurezza. Non a caso questoscambio ha riguardato poco il lavoro professionale più tradi-zionale. Forte subordinazione, forte sicurezza: al lavoro, nei pe-riodi di non lavoro, alla fine del percorso lavorativo. In qualchemodo aveva un senso, perché questo scambio si sviluppa conl’industrializzazione e il movimento operaio, nei primi decennidel Novecento, e si rafforza dopo la seconda guerra mondiale,in periodi in cui la sicurezza è un tema centrale e la sopravvi-venza una questione quotidiana. Il dopoguerra è un periodoallo stesso tempo di povertà e di crescita economica, in cui il ri-cordo degli orrori e della miseria è ancora vivo, ma lo scambiotra libertà e sicurezza consente alle famiglie, ai padri e alle ma-dri che vivono di lavoro, un grande investimento sul futuro e,soprattutto, sul futuro dei propri figli. Una condizione difficil-mente immaginabile per una persona nata in Europa alla finedello stesso secolo. La generazione dei genitori dell’Italia dioggi, nata tra gli anni Settanta e gli Ottanta, ha conosciuto lamiseria in modo per lo più sporadico e indiretto e, d’altronde,il combinarsi di politiche liberiste e crisi economica ha deter-

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minato un sostanziale blocco della mobilità sociale verso l’alto,e ha ridotto enormemente l’idea che lo studio e il lavoro sianostrumenti di riscatto e/o realizzazione sociale e, di conseguen-za, quell’idea tipicamente novecentesca che i sacrifici dei pa-dri possano migliorare il futuro dei figli. Oggi il tema della si-curezza e della sopravvivenza, come problema quotidiano, nonè così forte come lo è stato per una buona metà del Novecento,almeno fino agli anni Sessanta. Questo è indubbio e troveretemolte persone, soprattutto ma non solo tra i lavoratori auto-nomi, che semplicemente non sono interessati o disponibili arinunciare alla propria autonomia in cambio di maggiore sicu-rezza, ovvero a ridurre contemporaneamente rischi e opportu-nità, oppure vivono con disagio uno scambio di questo genere.Il valore dell’autonomia, della libertà, è talmente alto che i tra-dizionali parametri di scambio, che davano valore alla subordi-nazione come sicurezza, non sono più così scontati. Oltre al fat-to che anche il lavoro subordinato è diventato meno sicuro,s’intende. Ma l’autonomia diventa indubbiamente un valore,anche per i lavoratori dipendenti. Chi ha avuto modo di dialo-gare con i quadri e le alte professionalità se ne è accorto datempo. Non a caso, la parte più consistente delle rivendicazionidei quadri, almeno nell’ultimo decennio, si è più spesso con-centrata sulle dimensioni dell’autonomia, delle competenze, del-la responsabilità. Questo nonostante dinamiche salariali che nonsono certo state positive. Anzi, in diversi casi di gestione di crisiaziendali, i quadri sono stati disponibili a rinunciare a piccolequote di retribuzione in cambio di una maggiore autonomia. Equesto, per altro, ha aiutato non poco il raggiungimento di ac-cordi e la costruzione di percorsi di superamento delle crisi.Dunque la dimensione dell’autonomia, cui naturalmente si as-socia la dimensione del rischio, ci indica che c’è un avvicina-mento, nei processi reali, tra lavoro subordinato e lavoro auto-nomo e che l’autonomia può diventare una delle chiavi per riag-giustare la regolazione del lavoro, legislativa e negoziale, in di-rezione di una riunificazione del lavoro.

Umberto Carabelli aggiunge ulteriori suggestioni, richia-mando l’Ulrich Beck de La società del rischio, e conducendoci co-sì sulla strada che porta dalla questione del rischio a quella del-l’individualizzazione. Un concetto su cui forse abbiamo ragiona-

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to poco, tendendo in alcuni casi a ridurlo al concetto di indivi-dualismo, con tutto il carico di negatività che questa parola por-ta con sé. Ma allora insieme a Beck converrebbe rileggere quan-to meno il caro Alain Touraine e anche Zygmunt Bauman. Per-ché l’individualizzazione è una caratteristica distintiva di questanostra epoca storica, e forse è quella che più di altre dà signifi-cato al passaggio da quella che abbiamo chiamato età indu-striale a quella verso cui siamo indirizzati, cui non abbiamo an-cora dato un nome. Forse un giorno la chiameremo età digita-le, ma al momento preferirei utilizzare la formula fase di transi-zione, più coerente con il momento di trasformazione in cui an-cora siamo immersi.

Rischio e individualizzazione, dicevamo. Suggestioni estre-mamente interessanti, che ci costringono a muoverci dentro lenostre contraddizioni e in qualche caso anche a risolverle. Iocredo, ad esempio, che accettare questi ragionamenti e provarea portarli dal livello teorico a quello pratico, anche sul pianonegoziale e della regolazione, significhi accettare l’idea (qual-cuno potrebbe dire: finalmente) che la pratica contrattuale nonsi ferma più un momento prima dell’individuo ma che, al con-trario, la contrattazione collettiva si pone l’obiettivo esplicito ditrovare una conciliazione tra la dimensione collettiva e la di-mensione individuale.

In altre parole, la contrattazione come esercizio collettivo di-venta strumento capace non solo di produrre, diciamo così, ob-blighi e prescrizioni, ma anche di costruire dei perimetri, deiframework, di riconoscimento, garanzia e tutela degli spazi diautonomia individuale. Anche perché, non facendolo o negan-do questa opzione, ciò che si ottiene è quello che nel mondodei quadri è già successo: la fuga dalla dimensione collettivaovvero la crescita di una contrattazione individuale difficilmen-te recuperabile dentro la contrattazione collettiva. Dico diffi-cilmente recuperabile perché in alcuni settori e in alcune gran-di imprese noi abbiamo verificato l’esistenza di retribuzioni difatto costruite con quote di retribuzione contrattate individual-mente che pesano dal 10% al 30%. È quindi molto difficile im-maginare un rinnovo contrattuale capace di garantire tali cifre,almeno con la strumentazione tradizionale. Ma significa ancheche esistono quote consistenti di retribuzione di lavoratori che,

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da una parte, non sono tutelabili nei momenti di crisi e di cui,d’altra parte, non si conoscono i criteri di assegnazione, lascian-do spazio a decisioni arbitrarie e potenzialmente discriminato-rie. In sintesi: quando i processi reali esistono e sono consolida-ti, o noi ci poniamo il problema di come regolarli oppure quellicontinuano ad esistere ugualmente e in più rimangono fuoridalla nostra capacità di influenza. Il tema di come conciliamocontrattazione collettiva e individuale o ce lo poniamo anchenell’ottica di accettare l’elemento del rischio oppure semplice-mente ci saranno parti di organizzazione del lavoro, di condi-zioni di lavoro, di negoziazione, che noi continueremo a nongovernare e in molti casi neanche a conoscere.

Volendo proseguire il cammino lungo la filiera di ragiona-mento che passa per rischio, autonomia, individualizzazione emodificazioni del mondo del lavoro, vorrei ragionare con voi diun’ultima questione: il progressivo passaggio di centralità dalconcetto di appartenenza a quello di relazione. Tema che ri-guarda sia il sindacato che l’organizzazione del lavoro. Se pen-sate ai diritti che definiamo «nuovi», a tutto quello che emergedalla lettura della fase di trasformazione e digitalizzazione, laquestione centrale è sempre quella della connessione. Tant’èche in qualche modo noi oggi potremmo sostituire l’idea di po-sto di lavoro con l’idea di connessione di lavoro. Anche perché,sostanzialmente, la maggior parte delle condizioni di lavorooggi si verificano non per il fatto che noi siamo sul posto di la-voro, ma per il fatto che noi siamo connessi con la nostra attivi-tà lavorativa. Il fatto che le dimensioni del posto e della connes-sione abbiano al momento, salvo alcuni casi, lo stesso spazio fi-sico potrebbe essere solo un accidente storico, dovuto alla fasedi trasformazione. Relazione anziché presenza, un cambio sto-rico nel modo in cui rappresentiamo il lavoro. Ma anche nelrapporto tra lavoratore e sindacato il tema dell’appartenenza edell’identità come appartenenza, su cui storicamente le orga-nizzazioni sindacali e quelle politiche si sono costruite, nel tem-po lascia sempre più spazio al tema della costruzione di unarelazione con l’organizzazione: scelta di appartenenza come esi-to e non più come presupposto. È l’identità come progetto,come comunità che si riconosce in un programma, per mutuarele parole di Bruno Trentin.

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Esercizio collettivo della negoziazione, dimensione individua-le della regolazione, nuova relazione con l’organizzazione sin-dacale, rappresentazione (anche sul piano simbolico) del lavoronon più come luogo ma come connessione, tutti questi temi iocredo possano rappresentare delle occasioni, soprattutto in unafase di transizione come questa, per ricondurre le riflessioni ele elaborazioni che sapientemente la Consulta giuridica portaavanti, dentro le nostre dinamiche organizzative e dentro le no-stre pratiche sindacali.

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1. Brevi riflessioni in tema di equo compenso

Dalle interessanti relazioni ascoltate stamattina emergono conevidenza due temi, o meglio due parole, che si ripetono con in-sistenza: rischio e protezione. Due concetti, che seppur diversa-mente analizzati, portano la mia attenzione ad un immediato einevitabile collegamento con la tematica dell’equo compenso.

Dunque, ci si pone un duplice, speculare, problema: da chibisogna essere protetti? Chi corre rischi?

Probabilmente qualche decennio addietro la risposta sarebbestata estremamente semplice: è il lavoratore (soggetto debole)che corre il rischio di non essere sufficientemente protetto daldatore di lavoro (storicamente, contraente forte). Eppure, oggi,questo sillogismo non trova la medesima coerenza empirica diun tempo, dato che è più realistico pensare che sia lavoratoriche datori di lavoro debbano trovare una comune protezionedai rischi legati al «mercato». Un mercato globalizzato, cherende i deboli più deboli e i forti ancora più forti.

Proprio a questa idea di necessaria protezione verso soggetticomunque considerati deboli sembrerebbero ispirarsi le nuovediscipline sull’equo compenso.

Se, infatti, tutti dobbiamo essere protetti dal mercato, non èpiù necessario imporre una differenziazione netta tra lavorato-re autonomo e lavoratore subordinato, perché tutti hanno dirit-to ad essere ugualmente «protetti».

* Università degli studi di Napoli Federico II.

Arianna Avondola*

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Non posso far riferimento all’ultimissima normativa in mate-ria (troppo recente per essere commentata sul piano degli effet-ti), ma mi richiamo alla precedente legge sull’equo compensoin materia di lavoro giornalistico: la legge n. 233 del 31 dicem-bre 2012.

Questa normativa prevede la corresponsione di un equo com-penso, inteso come remunerazione proporzionata alla quantitàe qualità di lavoro svolto dal giornalista «non lavoratore subor-dinato», estendendo di fatto l’ambito di applicazione dell’art.36 Cost. ben oltre l’area del lavoro subordinato.

In questo senso, l’estensione applicativa dell’art. 36 Cost. tro-verebbe giustificazione nella volontà manifestata dal legislatoredi «riequilibrare» le sorti di soggetti considerati deboli, am-pliandosi sostanzialmente l’ambito di applicazione di alcuni di-ritti a favore di soggetti considerati più vulnerabili, in quantoprivi di tutela (spesso a causa dell’assenza di un’esplicita previ-sione contrattuale). E mi riferisco ai collaboratori di testategiornalistiche, per il caso di specie, ma anche ad avvocati o altriliberi professionisti, tutti accomunati – in quest’ottica – daun’unica (presunta) debolezza contrattuale.

Soggetti ai quali, secondo il legislatore, deve essere ricono-sciuta una retribuzione «proporzionata alla quantità e qualità dilavoro svolto», con un’estensione di fatto della disciplina del-l’art. 36 Cost.

Benché questa «estensione» del dettato costituzionale sia cer-tamente auspicabile per ogni lavorista, è però necessario con-frontarsi con la realtà. Una realtà in cui l’ampliamento astrattodelle tutele non sempre trova adeguato riscontro nel dettatonormativo. Le leggi sull’equo compenso, rectius la legge sull’e-quo compenso giornalistico (preferisco non commentare la nor-mativa più recente in materia, che sembra comunque già averfatto tesoro degli errori di quella pregressa) ha dato infatti ri-sultati certamente non positivi, se non addirittura fallimentari.

Nella specie, benché il tariffario allegato alla delibera avreb-be dovuto porsi «in coerenza con i trattamenti previsti dallacontrattazione collettiva» (come richiesto dalla legge del 2012)e in coerenza con l’art. 36 Cost., la Commissione di valutazione(deputata alla stesura del tariffario medesimo) ha fissato non un«equo compenso», ma piuttosto un salario minimo garantito,

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rinviando peraltro non alla contrattazione collettiva, bensì allacontrattazione individuale con il singolo editore la determina-zione del compenso per prestazioni di lavoro superiori al mi-nimo, stabilendo parametri di determinazione della retribuzio-ne talmente bassi e lontani dai minimi garantiti contrattual-mente da far parlare di «iniquo» (e non certo di «equo») com-penso.

Ne è conseguito un aggravamento di fatto della posizione dilavoratori già contrattualmente deboli, in quanto non tutelatidal CNLG, «regolamentandosi» in pratica la diseguaglianza re-tributiva già esistente tra giornalisti subordinati e giornalisti au-tonomi, i quali ultimi potrebbero rischiare di trovarsi semprepiù alla mercé di datori di lavoro pronti a sfruttare la loro vul-nerabilità.

Ai tanti (troppi) giornalisti sottopagati, in questo modo, sem-brerebbe essere stata sottratta qualsiasi possibilità di rivendicarecompensi adeguati o comunque superiori ai minimi «equamen-te» stabiliti, escludendosi anche l’eventuale applicazione a que-sti stessi del contratto di lavoro giornalistico, anche se svolgono– come spesso avviene – attività che di autonomo hanno benpoco.

È altamente improbabile, infatti, che un giornalista autono-mo sia in grado di contrattare con il proprio editore compensipiù elevati di quelli prefissati dalla delibera, non foss’altro per-ché produzioni superiori al minimo annuo previsto potrebberofar ipotizzare la sussistenza di un rapporto di lavoro dipenden-te, smascherando conseguentemente falsi contratti di lavoro au-tonomo. Così, sotto le mentite spoglie di un ampliamento del-l’efficacia dell’art. 36 Cost., si è di fatto sdoganata una sorta di«sfruttamento obbligato».

Concludo. Procedere ad un’estensione dell’art. 36 Cost., dun-que, per quanto auspicabile anche nei termini di «dignità» peril lavoratore (tema che connota la seconda parte dell’articolocostituzionale), significherebbe procedere di fatto all’estensionedi un principio di giustizia distributiva.

Prima di realizzare un simile (condivisibile) ampliamento,però, bisognerebbe esser certi che esista un soggetto, chiamia-molo «negoziatore», che (diversamente da quanto accaduto conla Commissione nominata per l’equo compenso nel lavoro gior-

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nalistico) sia effettivamente in grado di dare attuazione al detta-to costituzionale, interpretando le intenzioni del costituentecoerentemente con le richieste e con le esigenze del mercato,reali, effettive e concrete.

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Pur non essendo tra gli interventi programmati, stimolatadalla discussione, ho chiesto di parlare per riferire quelle chesono le iniziative che abbiamo messo in campo, come SLC CGIL,settore Produzione Culturale sul lavoro autonomo.

Gli artisti devono versare i contributi all’ex ENPALS. Sin dal1943 la legge istitutiva dell’ENPALS si è limitata a dire che i la-voratori (senza specificare le tipologie) sono assicurati ai fini pre-videnziali e, successivamente, per la malattia a questo Istituto.

Da allora l’ENPALS tratta indifferentemente i lavoratori su-bordinati, parasubordinati e autonomi per quanto riguarda ilversamento e le tutele per la previdenza. Anche per i lavoratoriautonomi è quindi in capo al committente il versamento delcontributo, nella percentuale del 33%, di cui solo il 9,19% è incarico al lavoratore (la danza paga circa un punto percentualein più). Unica eccezione è costituita dal musicista autonomo, cheha un proprio codice ATECO. In questo caso l’artista paga dasé i contributi, nella stessa percentuale e nelle medesime mo-dalità dei lavoratori dipendenti.

Quindi già dal 1943 il legislatore, guardando al settore dellospettacolo ha saputo trovare tutele a questi lavoratori. Il settoredello spettacolo è caratterizzato da una parte ridotta di lavora-tori stabili. Circa l’80% dei lavoratori ha rapporti di lavoro atermine, nella tipologia della subordinazione e della parasubor-dinazione. Insiste anche una percentuale, che varia da categoriaa categoria, di lavoro autonomo. In generale questi lavoratori

* SLC CGIL.

Emanuela Bizi*

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non possono essere definiti precari, avendo strutturalmenteun’attività a termine.

Sono lavoratori atipici, isolati e deboli, nella maggior partedei casi difficili anche da raggiungere. Ma come sosteneva DavideImola: se vuoi rappresentarli, prima di tutto parla con loro.

Per questo abbiamo deciso di promuovere una ricerca, basatasu un questionario anonimo, preparato ed elaborato dalla Fon-dazione Giuseppe Di Vittorio. A partire dall’individuazione del-le domande il questionario è stato predisposto con la partecipa-zione degli artisti, ai quali era rivolto. Varie associazioni ci hannopoi aiutato a diffonderlo. Le numerose risposte (quasi 4.000)dimostrano che abbiamo intercettato un grido d’aiuto di questilavoratori, che pur svolgendo attività artistiche e quindi profes-sionali, godono di pochissimi diritti. Emerge anche una fortedifficoltà economica nella maggior parte del campione. Interes-santi anche le domande e le risposte riguardanti le possibili a-zioni sindacali. I tre quarti rispondono che non hanno mai par-tecipato ad attività sindacali, quasi la metà non conosce il sin-dacato. Oltre l’80% non è neppure iscritto a un’associazione.

La coesistenza di lavoro subordinato ed autonomo, l’atipicitàdelle prestazioni, la difficoltà di intercettarli: cosa può quindifare il sindacato per questi lavoratori?

La loro particolare condizione necessita di una interlocuzio-ne politica. Anche se in modo non del tutto soddisfacente, ab-biamo trovato ascolto nella predisposizione della legge per lospettacolo recentemente varata dal Parlamento. Dovremo vigi-lare sui decreti attuativi, ma partendo dalla risoluzione europeadel 2007, mai recepita dall’Italia, abbiamo chiesto di individua-re specifiche tutele per i lavoratori dello spettacolo, indipen-dentemente dalle tipologie contrattuali. Gli artisti, quando nonlavorano, non sono in un normale stato di disoccupazione, main generale si preparano per le future attività. Un musicista de-ve provare e usare lo strumento tutti i giorni, l’attore deve stu-diare i copioni e prepararsi per i casting. Va per loro quindi in-dividuato un ammortizzatore che non può essere la NASPI, mapiuttosto un ammortizzatore di continuità. Per quanto riguardala tutela dagli infortuni, abbiamo chiesto all’INAIL di tutelareanche i lavoratori autonomi dello spettacolo. Abbiamo trovatoun atteggiamento favorevole dell’Istituto, ma ovviamente serve

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un decreto ministeriale. Ci sono già state interrogazioni parla-mentari su questo tema, che è importante. Con l’Istituto ab-biamo anche concordato la necessità di allargare la tutela ai col-laboratori dello sport, che hanno come riferimento per la pre-videnza l’ex ENPALS.

Sul versante della contrattazione, siamo in fase di rinnovodel CCNL per gli scritturati. Gli artisti stipulano un «contrattodi scrittura», ma abbiamo verificato che in questi accordi, anchese stipulati da un lavoratore autonomo, si faceva sempre riferi-mento, per le parti non definite, al CCNL. Nella discussioneper il rinnovo ci è stata posta la richiesta di definire, con di-chiarazione iniziale, che le norme del contratto nazionale si ap-plicheranno esclusivamente ai lavoratori subordinati. Non ab-biamo ancora concluso la trattativa, ma da subito abbiamo chie-sto di inserire anche alcune tutele e l’equo compenso per i lavo-ratori autonomi. I nostri contratti nel settore della produzioneculturale definiscono nella maggior parte dei casi il compensominimo. Esiste anche per i lavoratori subordinati la possibilitàdi contrattare individualmente un diverso salario, rimanendocomunque nell’alveo della subordinazione. Per evitare che il la-voro autonomo faccia dumping sul costo del lavoro, abbiamochiesto che il costo minimo della prestazione sia maggiorato del50% rispetto al compenso del lavoratore subordinato. Ovvia-mente la trattativa, non facile, sta proseguendo, ma ritengo che,se riusciremo a condividere questa impostazione, sarà un bel ri-sultato, anche alla luce dell’attuale dibattito sull’equo compensodel lavoro autonomo.

Abbiamo anche un ulteriore problema. Questi lavoratori, co-me ha dimostrato anche la nostra ricerca Vita da artista, non so-no consapevoli dei loro diritti e non conoscono il contratto.Stiamo predisponendo moduli di formazione per gli artisti eutilizzeremo i social per dare informazioni in pillole.

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Come prima cosa mi associo ai ringraziamenti iniziali e mipare giusto anticipare che, siccome la discussione è stata impe-gnata ed impegnativa e ricca di riflessioni e spunti che traguar-dano anche l’orizzonte del nostro dibattito congressuale e futu-ro, proverò con questo intervento a dare un contributo, dialo-gando con alcune delle sollecitazioni.

Per prima cosa vorrei ragionare del metodo con cui abbiamocostruito questa iniziativa e della necessità che ci ha mosso diriprendere in modo sistematico un rapporto con la Consulta.Non voglio enfatizzare eccessivamente il tema, tuttavia è evi-dente che nella sua storia la CGIL ha passato periodi in cuiquesto rapporto era solido e forte, rapporto che ci ha consenti-to di essere protagonisti del dibattito politico sindacale su temidi enorme rilevanza (norme sulle rappresentanza, norme sui li-cenziamenti...). Questo rapporto, anche per chiare ragioni sto-riche e di cambiamento della relazione fra corpi sociali e politi-ca ha poi visto una cesura e probabilmente è rimasto in piedipiù per rispondere a singoli eventi e questioni che non comerapporto stabile di confronto continuo.

Al di là, quindi, di singoli incontri seminariali come questo, iltentativo che vogliamo proporre è quello di ripresa di un rap-porto da consolidare, uno spazio collettivo di discussione, di con-fronto plurale ed autonomo e di scambio di visioni e idee inuno scenario in cui l’intervento legislativo è stato particolar-mente invasivo per quanto concerne il diritto del lavoro.

* Segretario confederale della CGIL.

Conclusionidi Tania Scacchetti*

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Anche per questo riteniamo utile rafforzare anche il rappor-to tra Consulta e Rivista Giuridica, per l’apporto che questo puòdeterminare anche di sostegno all’attività vertenziale.

La partecipazione a questa giornata, per quantità numericadei presenti e per qualità delle analisi fatte, ci conforta nel ten-tativo che proponiamo.

Sul merito della nostra discussione sono stati sollevati moltitemi di alto spessore e complessità, come il rapporto tra con-trattazione e legislazione, la necessità di proporre un cambia-mento nelle protezioni sociali rispetto a quelle storicamente de-finite, la necessità di rapportarsi con temi quali quelli del sala-rio minimo o del reddito di cittadinanza. Temi che non pos-siamo affrontare in gruppi ristretti.

Il tema della considerazione dedicata al lavoro autonomo,dopo la riflessione che il 20 ottobre abbiamo dedicato alle sfidee alle contraddizioni proposte dalla gig economy, non è stato scel-to a caso.

Il lavoro autonomo ha subito forti contraccolpi dalla crisieconomica e dalla richiesta di flessibilità incontrollata e pochiaspetti della libertà e della responsabilità ed autonomia indivi-duale rimangono caratteristiche tipiche di questi lavoratori.

Anche il lavoro subordinato è stato impoverito nella sua tu-tela e nel riconoscimento di adeguati strumenti a tutela della li-bertà del lavoratore, perché quello che è andato in crisi in que-sti anni è il rapporto tra la partecipazione al sistema economicoe la protezione dai rischi che questa partecipazione ha storica-mente determinato.

Per questo il sindacato confederale che ha avuto molto chiarii confini della sua rappresentanza oggi naviga in un mare ‘a-perto’ e deve affrontare alcune questioni. La prima riguarda ilfatto di far comprendere anche all’esterno che esiste una titola-rità del sindacato a rappresentare questi lavoratori, che spessosono i primi a non riconoscerci questo, anzi a volte ci identifi-cano come uno dei soggetti che hanno contribuito alla loro con-dizione di debolezza.

La seconda questione riguarda quindi la capacità di afferma-re la Carta dei diritti come un punto di svolta, da rendere per-corribile, anche sugli elementi che non sono immediatamentetraducibili in coerenti enunciati legislativi.

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Mi fa piacere che qualcuno l’abbia definita una bozza legisla-tiva semplice, sottolineando una cosa che probabilmente diamoper scontata, cioè la necessità di definire un perimetro di dirittiriconosciuto a tutti i lavoratori indipendentemente dalla tipo-logia e dalle caratteristiche del loro lavoro.

Semplicità è esattamente il contrario delle valutazioni chesono state date sulla Carta, a partire da quelle di Confindustriache ne contesta la volontà di ingessare o di regolamentare ec-cessivamente i rapporti, complicando le relazioni e le strumen-tazioni. A dire il vero, se c’è stato in questi anni qualcosa di nonsemplice è la continua stratificazione di norme che ha resosempre più incerta la categorizzazione delle persone e i dirittiad essa collegata, eppure, nella differenza tra propaganda erealtà, non c’è un governo che non proponga la necessità diuna riforma del lavoro, continuando in tal modo ad alimentaredisuguaglianze.

Siamo stati in presenza in questi anni di un pensiero unico,neoliberista. Certamente vanno sottolineati alcuni punti di a-vanzamento in questo contesto, tra cui vorrei evidenziare l’im-portanza del Pilastro sociale dei Diritti, importante per il temache propone all’attenzione, che può essere considerato un cam-bio di rotta radicale nelle politiche europee, anche se l’otti-mismo finisce presto perché chi lo propone è lo stessa istituzio-ne europea che chiede di ratificare il Fiscal Compact nei bilancidegli Stati.

Il d.d.l. lavoro autonomo a cui abbiamo dedicato attenzioneoggi, pur essendo una normativa con moltissimi limiti, compre-so il fatto che alcuni diritti per come sono posti sono vere e pro-prie armi spuntate, ha però il pregio di costituire per la primavolta una dimensione identitaria chiara per questi lavoratori.Lavoratori a cui guardiamo anche noi con la Carta, che assumela necessità di costruire un perimetro di maggiori tutele per leprofessioni non regolamentate e per il lavoro autonomo condipendenza economica.

A maggior ragione rimettere al centro il tema dell’allarga-mento dei diritti è essenziale in un contesto in cui si pone il te-ma della prestazione gratuita del lavoro, nel caso limite quiproposto della pubblica amministrazione, ma di fatto ‘sdogana-to’ nella più ampia concezione dell’opinione pubblica.

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Discutiamo spesso della Carta in riferimento all’ambizioneche la stessa ha di riscrivere le norme di diritto del lavoro, tut-tavia la stessa Carta ha come strumento di attuazione non solol’intervento legislativo ma anche l’azione contrattuale attraversola pratica della contrattazione inclusiva.

Anche da questo punto di vista non ci sono meno difficoltà diquelle che incontriamo nell’interlocuzione politica, sia per ledifficoltà esterne (spezzettamento dei cicli produttivi, dumpingcontrattuale, frammentazione delle nostre controparti e proli-ferazione dei contratti) sia per nostre difficoltà, dettate da espe-rienze differenti e da titolarità differenti. Troppo spesso, men-tre tra di noi discutiamo di chi si deve occupare di questi lavo-ratori, li lasciamo soli.

Abbiamo aperto una buona interlocuzione con le associazionidei professionisti ma non è automatico che le richieste che ven-gono dalle associazioni siano in piena sintonia con le nostreproposte perché noi ci poniamo il tema della coerenza con unavisione complessiva delle tutele sociali. Questo direi in riferi-mento al tema delle norme sulla maternità citate da Treves nelsuo intervento.

La ‘frontiera’ della contrattazione inclusiva con cui tentiamodi allargare i riconoscimenti a tutti i lavoratori presenti nei cicliproduttivi non è oggi nell’agenda delle nostre controparti, nonha adeguata cittadinanza nel dibattito pubblico e per noi è resacomplessa da una stagione in cui ha prevalso la necessità di di-fendere la contrattazione ed il ruolo dei corpi intermedi, di di-fendere il contratto collettivo nazionale di lavoro ed il sistemadelle relazioni sindacali.

Per queste ragioni il d.d.l., figlio della sollecitazione continuadelle parti, è comunque importante e risponde alla necessità diriconoscere cittadinanza a migliaia di lavoratori autonomi aiquali anche noi con la Carta vogliamo dare una risposta forte einnovativa.

Ancora grazie per la partecipazione e per i contributi.

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