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ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line

ANNO XII/XIII (2009-2010), N. 12 (1)

SEMESTRALE DI SCIENZE UMANE

ISSN 2038-3215

Università degli Studi di PalermoDipartimento di Beni Culturali, Storico-Archeologici, Socio-Antropologici e Geografici

Sezione Antropologica

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Direttore responsabileGABRIELLA D’AGOSTINO

Comitato di redazioneSERGIO BONANZINGA, IGNAZIO E. BUTTITTA, GABRIELLA D’AGOSTINO, VINCENZO MATERA, MATTEO MESCHIARI (website)

Segreteria di redazioneALESSANDRO MANCUSO, ROSARIO PERRICONE (website, paging), DAVIDE PORPORATO (paging)

Comitato scientificoMARLÈNE ALBERT-LLORCADépartement de sociologie-ethnologie, Université de Toulouse 2-Le Mirail, FranceANTONIO ARIÑO VILLARROYADepartment of Sociology and Social Anthropology, University of Valencia, SpainANTONINO BUTTITTAUniversità degli Studi di Palermo, ItalyIAIN CHAMBERSDipartimento di Studi Americani, Culturali e Linguistici, Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», ItalyALBERTO M. CIRESEUniversità degli Studi di Roma “La Sapienza”, ItalyJEFFREY E. COLEDepartment of Anthropology, Connecticut College, USAJOÃO DE PINA-CABRALInstitute of Social Sciences, University of Lisbon, PortugalALESSANDRO DURANTIUCLA, Los Angeles, USAKEVIN DWYERColumbia University, New York, USADAVID D. GILMOREDepartment of Anthropology, Stony Brook University, NY, USAJOSÉ ANTONIO GONZÁLEZ ALCANTUDUniversity of Granada, SpainULF HANNERZDepartment of Social Anthropology, Stockholm University, SwedenMOHAMED KERROUDépartement des Sciences Politiques, Université de Tunis El Manar, TunisiaMONDHER KILANILaboratoire d’Anthropologie Culturelle et Sociale, Université de Lausanne, SuissePETER LOIZOSLondon School of Economics & Political Science, UKABDERRAHMANE MOUSSAOUIUniversité de Provence, IDEMEC-CNRS, FranceHASSAN RACHIKUniversity of Hassan II, Casablanca, MoroccoJANE SCHNEIDERPh. D. Program in Anthropology, Graduate Center, City University of New York, USAPETER SCHNEIDERDepartment of Sociology and Anthropology, Fordham University, USAPAUL STOLLERWest Chester University, USA

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMODipartimento di Beni Culturali Storico-Archeologici, Socio-Antropologici e GeograficiSezione Antropologica

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Ragionare

Ricercare

Indice

5 Antonino Buttitta, Cavalieri dell’aldilà o della solitudine dell’eroe

11 Piercarlo Grimaldi, “Insieme dissimili e simili”. Un percorso evolutivo popolare

23 Rosario Perricone, La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’

37 Marco Assennato, Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia

51 David Gilmore, Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now

63 Ferdinando Fava, Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZEN

71 Giulia Viani, Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo

83 Matilde Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo

97 Sebastiano Mannia, In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e prospettive future

109 Abstracts

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Antonino Buttitta

Cavalieri dell’aldilà o della solitudine dell’eroe*

Chi è costui che sanza morte / va per lo regno de la mortagente? (Dante, Inferno, VII, 84-85).

... è duro convincerli gli umani, / che non ci sono due eternitàcontrarie, / il tutto è compreso in una sola e tu sei in ogni parte

/ anche dove pare che tu manchi.(Mario Luzi, La Passione).

Sappiamo dei rituali necessari all’assun-zione della qualità di cavaliere. In quanto ti-tolo non solo formale, esso si conseguiva nonsemplicemente attraverso l’investitura da par-te di chi rappresentava in massimo grado l’or-dine, in genere un nobile o addirittura un re.Occorreva che il destinatario avesse, median-te particolari atti, manifestato il possesso del-le virtù necessarie al conseguimento del tito-lo: forza d’animo, coraggio, spirito di sacrifi-cio, generosità, rispetto della parola, fedeltàagli ideali dell’ordine e a coloro che ne eranoal vertice. Tutte qualità inscritte in un oriz-zonte ideologico, articolato dalle opposizioni:alienazione vs integrazione, ignoto vs noto, al-dilà vs aldiquà, caos vs cosmos, morte vs vita.Una assiologia in sostanza presente nei ritidelle culture cosiddette primitive e in quelli,non sostanzialmente diversi, delle civiltà anti-che, finalizzati a formalizzare il passaggio dauno status generazionale, civile, professiona-le, morale, a una superiore condizione. I mi-steri del mondo antico di tutto questo rappre-sentavano l’aspetto più significativo, simulan-do per la loro rigenerazione la stessa morte erinascita dei partecipanti1.

Se non lo era nei comportamenti concreti,il cavaliere, lo era comunque nell’immagina-rio sociale e nella letteratura epica dove le suequalità eroiche erano evidenziate attraversocomportamenti che sconfinavano sempre nelmito. Né poteva essere altrimenti in conside-razione anche del fatto che le operazioni ri-tuali cui il cavaliere, non diversamente dal mi-

sto, si sottoponeva erano sempre miticamentereferenziate. I riti, infatti, come abbiamo ap-preso da Eliade, sono sempre forme operatedi miti (Eliade 1976a, 1976b).

Nel nostro caso il mito canonico che ispi-rava le imprese del cavaliere doveva necessa-riamente avere come protagonista un perso-naggio la cui vicenda sussumeva e risolveva lecontraddizioni irresolubili della prassi (cfr.Lévi-Strauss 1966). Di fatto era la figura deldio salvatore, con le sue versioni storiche:eroe, capo carismatico, messia, santo, nellequali convergevano e si sublimavano disagi ebisogni, contrarietà e ostacoli avvertiti comeinsuperabili. Era in essi che venivano a inter-secarsi, riconoscersi e dipanarsi gli snodi anu-lari attraverso cui individui e società ritrova-vano, e ancora ritrovano, la agognata speran-za, del loro perdurare e crescere nella storia.

«Gli uomini – ha scritto Nencioni seguen-do Carlyle che agli eroi credeva come sogget-ti storici reali e non come figure ideologiche,ma non per questo meno reali – possono divi-dersi in tre grandi classi:

quelli che sottomettono ciò che portano in sé aquel che trovano sulla terra, che sacrificano l’e-terno al perituro, l’anima alla materia; e questisono i geni del male; quelli (e sono i più) che schiavi delle sensuali ap-parenze pur serbano qualche orma fugace, qual-che confuso ricordo dell’Idea Divina; pei quali lavita è come una lanterna magica di successive ef-fimere scene, e passano i giorni fra le convenzio-ni, le incitazioni, le pretensioni e le ipocrisie so-ciali, uomini fantasma, piuttosto che divine realtà;e quelli finalmente che considerano la vita comecosa di seria, intensa, tragica importanza, come ilterribile ponte del tempo sospeso fra due Eter-nità: che soffrono e godono nella profonda co-scienza della invisibile presenza divina, e nellacostante preoccupazione del Dovere e della Re-sponsabilità: soldati della Verità e della Giustizia(Nencioni 1921: V-VI)2.

Ragionare

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Per intendere l’ordito intellettuale che so-stiene affermazioni tanto impegnative, è neces-sario riferirsi al pensiero simbolico. Solo questaforma di pensiero, infatti, consente le arbitrarieconnessioni e i salti logici, impediti al pensierologico-razionale, che possono dare credibilità everidicità, tanto a livello della prassi quanto a li-vello della rappresentazione, anche se lettera-ria, a personaggi reali o immaginari che opera-no nella storia tracimando la storia, facendosi –come con eloquente metafora è detto – «pontedel tempo sospeso fra due Eternità» (cfr. Carly-le 1921). È quanto alimenta la fede che è, se-condo Paolo «fondamento delle cose che sisperano e prova di quelle che non si vedono»(Ebrei, 11, 1).

Gli uomini e le comunità nascono, percor-rono un lungo o breve cammino e poi si perdo-no oltre l’orizzonte della storia, permanente-mente inquietati dalla inappagata ricerca di unEden improbabile, di un luogo dove poter darepienezza attuativa alla propria aspirazione al be-nessere fisico e psichico, dove dare realtà con-creta al loro strutturale bisogno di completezza,di ordine, di verità, di giustizia. Chi viene sceltocome affidatario di questa missione, sostanzial-mente improbabile, in nessun caso può sottrar-si ai sentieri del mito, perché è dal fondo dellavalle estesa e misteriosa, dai suoi tortuosi per-corsi che è stato, lui solo fra tutti, prescelto echiamato. Solo il pensiero simbolico, di cui ilmito è la perfetta ostensione, sa volgere l’impos-sibile nel possibile, l’invisibile sognato in visibi-le percepito: grazie al suo potere di sospenderele scansioni temporali e spaziali, di annullare leinsanabili contraddizioni e insufficienze fisichee sociali della prassi (cfr. Lévi-Strauss 1966), diconvertire le ineludibili e frustranti disgiunzioniirreversibili del tempo storico lineare nelle spe-rate congiunzioni reversibili del tempo sacrocircolare (cfr. Eliade 1999).

Diversamente dal pensiero logico-razionale,che procede operando progressive discrezionidel continuum della realtà convertendolo in di-screta sistematizzati e ordinati pur sempre per-mutabili, il pensiero simbolico si espande perconnessioni analogiche associando quanto nellarealtà concreta non è associabile: bene e male,passato e presente, vita e morte, riportando cosìil distinto del divenire all’indistinto dell’essere,l’eterogeneità definita in omogeneità indefinita(per usare espressioni di Comte) cioè il cosmosdella sfera del profano nel caos proprio alla di-mensione del sacro, individuando in questa di-mensione utopica e illimitata l’essenza della vitae il suo perdurare.

Tanta complessità necessita di un chiari-mento, reso possibile solo tenendo conto deipunti di vista dei soggetti interessati: da un latocoloro che si riconoscono nella figura dell’eroe,dall’altro, tutto ciò contro cui egli combatte.Rispetto a questi ultimi, in genere rappresenta-ti dal potere costituito, l’eroe impersona il di-sordine; rispetto ai suoi ammiratori le cosestanno invece in modo del tutto opposto. Egliincarna l’ordine, gli altri invece il disordine. Nél’opposizione fondamentale all’interno dellaquale egli si muove, è un’astrazione, risultandosempre situazionalmente connotata. Anchequesto la rende ambigua. Possiamo pertantoscrivere: cosmos/caos vs caos/cosmos. Dal pun-to di vista strettamente logico si ha una equa-zione apparentemente non singolare cioè A:B =B:A, il cui significato è che l’eroe e il suo even-tuale nemico rappresentano lo stesso valore macontrapposto. L’uno è l’immagine specularedell’altro e viceversa, dunque è permutabile.Questa situazione si rende possibile in quantoriferita a due diverse dimensioni esistenziali: ilquotidiano e lo straordinario, il profano e il sa-cro. Ecco perché l’eroe per essere tale devepossedere qualità che lo pongano fuori dallanorma pur non operando contro la norma.

Non è il solo paradosso. L’eroe ha mille vol-ti, eppure la sua vicenda è sempre la stessa (cfr.Campbell 1984). Intanto non è un soggetto sta-tico, ma la sua qualità eroica si afferma per scan-sioni evenemenziali. Noi percepiamo la tempo-ralità quando avvertiamo un prima e un poi, re-lazionati da un rapporto di diversità, dunque uncontenuto positivo o negativo, seguito da altrocontenuto contrario. È attraverso questo rap-porto, permutandolo, che l’eroe si qualifica co-me tale. In simboli possiamo dunque scrivere:xxxxxxxxx, sicché, come espresso dal doppioorientamento del simbolo di contrarietà, è que-sta stessa, che avendo come funtivo logico l’e-roe, ne richiede l’identità ambigua.

Come per ogni altro personaggio la sua figu-ra risulta dall’insieme di tutti i suoi tratti tantofattuali quanto qualificativi. La letteratura haparticolarmente studiato i primi. Ha trascuratoinvece i secondi. Anche perché non li ha consi-derati funzioni ma attributi. Forse per l’ambiguaconnessione tra azioni e qualificazioni. Tra que-ste e quelle il rapporto in realtà non è lineare e inogni caso le stesse azioni possono qualificare di-versamente in dipendenza da chi le compie.Inoltre, la stessa qualificazione può risultare daazioni diverse. Da qui la difficoltà di perimetra-re talvolta l’identità dei personaggi e in partico-lare di quelli eroici.

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A. Buttitta, Cavalieri dell’aldilà o della solitudine dell’eroe

In genere l’eroe è superdotato fisicamentee/o intellettualmente. Parrebbe questo un suotratto caratterizzante. In realtà non risulta indi-spensabile. Ci sono qualità di cui invece egli nonpuò mancare. Quando, nel passo citato all’ini-zio, Nencioni afferma che egli deve essere uncavaliere della verità e della giustizia, avvista difatto due di queste qualificazioni realmente fun-zionali. Un eroe è tale se le possiede: senza perquesto essere necessariamente virtuoso, rispettoalla griglia delle virtù proprie di ciascuna cultu-ra. Deve essere veritiero, anche se a certe condi-zioni gli è concesso mentire (cfr. Nigro 1990;Buttitta 2010). Per esempio, per nascondere lapropria identità, come nel caso di Ulisse.

L’autenticità eroica tuttavia è un dato asso-luto che non ammette occultamenti ingiustifi-cati. Non a caso Aristotele considerava l’ana-gnórosis, il riconoscimento del protagonista,una funzione narrativa risolutiva della narrazio-ne tragica. Di fatto l’eroe è la proiezione uma-na del modello etico ideale della società che nericonosce l’identità eroica. Non vanno trascu-rati però due dati. È raro trovare figure eroicheche possiedono tutti i tratti di quel modello. Ta-luni di essi a volte mancano. La qualità di eroesi può acquisire pertanto attraverso il possessoanche di uno solo di questi, purché essenziale alsignificato ultimo della sua vicenda eroica. Inogni caso, anche se le sue azioni possono appa-rire talora contraddittorie, rispetto alla suaidentità canonica, l’immaginario collettivoemargina i tratti sentiti come negativi enfatiz-zando quelli positivi.

La “diversità” è comunque sicuramente uncarattere che identifica l’eroe come tale. Se fos-se come gli altri non sarebbe più un eroe, pur sedegli altri può possedere tutte le debolezze. Lasua vicenda, in sostanza, è da leggere come unasuccessione di avvenimenti articolati dall’op-posizione: indentità vs alterità. Ripercorriamo-la in sintesi. L’eroe nasce miracolosamente o insituazioni particolari, mostrando quindi findall’inizio di possedere qualità speciali. Vieneperseguitato o disconosciuto. Consegue un pri-mo successo affermando la sua qualità eroica.Viene sconfitto, preso prigioniero, resta grave-mente ferito, addirittura, sia pure apparente-mente, muore, discende agli inferi e ritorna. Inquesto modo consegue una vittoria assoluta sulmale, sconfiggendo la morte stessa.

Alcuni di questi eventi si dispongono sulpiano dell’alterità (alienazione) rispetto allanorma del vissuto, altri su quello dell’identità(integrazione). Questa ne è la rappresentazio-ne grafica:

Le denominazioni dei due piani possono es-sere lette diversamente nel senso che a secondadel punto di vista le opposizioni: identità vs alte-rità, e equilibrio vs rottura dell’equilibrio posso-no essere capovolte (cfr. Greimas 1966). È questaoscillazione tra piani e relative funzioni a renderela figura dell’eroe un unicum. La sua vicenda inrealtà apparirebbe banale se dovesse semplice-mente perimetrarsi all’interno della contrapposi-zione: cosmos vs caos, come in prima approssi-mazione risulta. Sta di fatto che per realizzare lasua missione, l’eroe deve comunque provocare ildisordine per imporre l’ordine. Deve, come nelcaso del trickster, rappresentare con atti concretila sua diversità rispetto al discretum logico delquotidiano, fino ad apparire anche stupido, co-me Giufà (cfr. Miceli 1984). Per ottenere questo,e dunque sciogliere l’enigma della vita, egli nondeve sottrarsi al labirinto del mondo ma devemostrare di saperlo attraversare.

Accade spesso che qualcuno, o qualcosa,venga in suo aiuto per superare ostacoli e av-versari particolarmente difficili (cfr. Propp1966). La sua strutturale diversità tuttavia ne faimmancabilmente un solitario. Al momentodello scontro finale egli è solo. Da solo devevincere sopraffazioni, imposture, ingiustizie; insolitudine deve affermare l’essere della vita suldivenire esitante nella morte: una condizionetanto drammatica da riuscire talora anche a tra-volgerlo, sia pure psicologicamente, come sidenuncia nell’invocazione al Padre di Cristomorente, ma anche nell’«ora chi mi salverà daquesto labirinto» di Simone Bolivar sul letto dimorte, secondo il racconto di García Márquez(García Márquez 1989).

Estremamente duro è il compito di cui ven-gono fatti carico tutti i soggetti cui si attribui-scono connotati eroici. Essi, dovendo ristabili-re l’ordine in una situazione in cui per cause di-verse si è introdotto il disordine, debbono ri-portare il caos del vissuto al cosmos delle origi-ni, come dire l’insostenibile instabilità del dive-nire alla sostenibile fissità dell’essere. Non a ca-so: il «vissero felici e contenti» delle fiabe nellasua icasticità è la più convincente dimostrazio-ne dell’atemporalità assoluta quale condizionedella felicità. La missione assegnata all’eroe è insostanza rappresentabile in termini paradigma-tici utilizzando il gruppo di Klein nel ripensa-mento di Greimas (1970). Avremo così:

Ragionare

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Se intendiamo con X il cosmos e con X ilcaos come suo contrario, 1/X in quanto inversodi X e contraddittorio di X cioè non caos, dovrànecessariamente indicare la restituzione del-l’ordine, mentre 1/X in quanto inverso di X eperciò contraddittorio di X cioè non cosmos,indicherà la rottura dell’ordine. Se ora riflettia-mo sul fatto che l’opposizione: cosmos vs caos,è articolabile in prima vs poi, dobbiamo con-statare che la situazione valore 1/X (restituzio-ne del cosmos) viene a collocarsi nella deixis delprima mentre 1/X (imposizione del caos) inquella del poi. Il soggetto delle due situazioniessendo lo stesso eroe, annulla pertanto questaopposizione. Per quanto tutto ciò appaia assur-do in termini logici, risulta perfettamente nor-male in termini miticosimbolici, perché dispo-sto in una diversa temporalità.

È in conseguenza di una concezione circo-lare, non lineare, del tempo che l’eroe riesce aconiugare il futuro nel passato. Il suo è pertan-to un futuro passato o, se si vuole, un passatofuturo. È significativo che tutte le utopie politi-che, dal pensiero miticosimbolico sempre stret-tamente dipendenti, finiscono immancabil-mente col progettare società a venire che sonosempre la riproposizione di una improbabilesocietà comunistica originaria, senza proprietàe senza classi (cfr. Buttitta 1996: 175 ss).

Di questo mondo utopico, dove il futuro diantico non ha solo il cuore, in sostanza l’eroe è laproiezione antropomorfica. In forme umane, siapure talvolta addizionate o esponenziate comenel Cuculain celtico, egli oggettiva la volontà direstituire la condizione felice e utopica delle ori-gini. È significativo che un eroe di fantascienzacome Flash Gordon indossi abiti e si muova inuna dimensione nella quale il recupero antiqua-rio è apertamente esitato. Il principe delle fiabe,costretto a affrontare prove all’uomo comuneimpedite, conquistando alla fine la donna delsuo cuore, non a caso ristabilisce con il matri-monio il tradizionale assetto della società. Di es-sa infatti la famiglia viene confermata come con-dizione e fine ultimo in senso logico quanto cro-nologico. Ecco perché il cavaliere in definitiva ri-sulta con essere l’eroe del giorno prima.

La figura eroica, di fatto, in quanto simbo-lo del riconoscimento del futuro nel passato,

rappresenta qualcosa che nel presente non esi-ste, ma che dovrà esserci perché già c’è stata.L’eroe spesso non si manifesta come tale, nonc’è, ma è questo non esserci che ne fa parados-salmente una presenza attiva nell’esserci, unaqualità che come per le utopie, lo rende sog-getto di storia e di storie (Ibidem: 168 ss; Ga-raudy 1999). Questa contraddizione solo ap-parente può essere facilmente spiegata se rife-rita alla natura del pensiero simbolico spessoostativo allo sforzo del pensiero logico-razio-nale di imporre un ordine al disordine dellanostra esperienza della realtà, allo scopo dipoterla controllare e gestire, dandole un sen-so. È dunque sulle caratteristiche del pensierosimbolico che dobbiamo riflettere.

Alcuni autori considerano i simboli al paridei segni, mentre altri ne fanno una classe aparte. È bene ricordare che quando si ragionasul significato delle parole, con buona pace digrammatici, puristi e anime belle, bisogna rife-rirsi sempre all’uso, occorre cioè stare dallaparte della gente, di coloro che sono gli uniciveri titolari di quella catena produttiva e dimontaggio che chiamiamo linguaggio. Se nel-l’uso i termini segno e simbolo solo raramentevengono adoperati come sinonimi, mentre piùfrequentemente il ricorso a essi è differenzia-to, evidentemente si tratta di cose diverse. Acoloro tuttavia che ritengono questa diversitàdovuta alla loro appartenenza a classi distinte,è facile obiettare che tutti i simboli sono segni,mentre non tutti i segni sono simboli. Questovuol dire che i simboli non sono entità auto-nome ma segni speciali. Ritenerli una classeparticolare di indicatori comunicativi è per-tanto un modo per porre il problema della lo-ro identità su una pista sbagliata. Occorre dicontro trovare l’aspetto caratterizzante la lorospecificità segnica. È dunque dai segni che bi-sogna muovere per arrivare ai simboli.

Per comodità indichiamo con Se il segno,con Si il simbolo, con sg il significante, con scil significato, con re il referente. Quantomenoda Agostino in poi sappiamo che il Se = (sg→sc) → re. La stessa formula potremmo adotta-re per il simbolo, potremmo cioè scrivere cheSi = (sg → sc) → re. In realtà quando un segnofunziona come un simbolo si opera una dupli-cazione del suo significato e del suo referente.Lo stesso segno viene ad avere due significatie due referenti. Il significato e il referente im-mediati: il lessema ‘leone’ rinvia all’idea delleone che, a sua volta, rinvia al leone; il signi-ficato e il referente simbolici: non più l’ideadel leone né il leone ma la qualità, il coraggio,

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A. Buttitta, Cavalieri dell’aldilà o della solitudine dell’eroe

che viene addizionata ad altro referente, cioè achi sceglie il leone come marca della propriaidentità. Potremmo dunque scrivere Si = sg→(sc

0+ sc

1) → (re

0+ re

1). La formula è tuttavia sba-

gliata per due ragioni: A) nella fruizione con-creta, nei contesti d’uso il significato e il refe-rente del simbolo sono solo quelli simbolici;B) nel caso dei simboli il significante non rin-via a un significato e a un referente, è esso stes-so le due cose. La bandiera non rinvia a un po-polo e a un luogo, è essa stessa quel popolo equel luogo. Se fosse un segno come gli altrinon ci si farebbe uccidere per non farla cade-re nelle mani del nemico. Nella antica Meso-potamia un regno si riteneva definitivamenteconquistato, dunque cancellato, quando i si-mulacri degli dei dalla capitale dei vinti veni-vano trasportati in quella dei vincitori.

Appropriarsi dei simboli significava posse-dere ciò che essi rappresentavano. Le immagi-ni degli dei non erano degli indicatori ma deicontenitori. Erano gli dei stessi e il territorioche essi rappresentavano, con cui essi di fattosi identificavano. La resa grafica di tutto ciòpertanto sarà Si = sg + sc

1+ re

1. Intendiamo

così, grazie a questa formula e in termini piùnetti di quanto si possa a parole, come diver-samente dal pensiero logico-razionale cheprocede per opposizioni e correlazioni nelprodurre e ordinare i suoi sistemi di rappre-sentazione, il pensiero simbolico procede perassociazioni e cumulazione. È grazie a questofatto che riesce ad annullare ogni diversitàspaziale, temporale, sociale, morale, a ignora-re la distanza perfino tra cose, persone e le lo-ro immagini, al fine di convertire il caos nel co-smos. È dunque l’essere dimensionato in unasfera simbolica a consentire al personaggioeroico di rappresentare situazioni e valori con-trapposti e anche inversi, pure a quelli dellamorte e della vita. È assolutamente eloquenteche nella sua espressione massima, quella deldio salvatore, morte e vita vengono connotatidiversamente.

La natura ambigua dei simboli è un pro-blema che conta una estesa e notevole, anchese talora capziosa, letteratura3. Un segno simanifesta come simbolo, quando, contraddi-cendo la sua primaria funzione, che è quella diintrodurre il distinto nell’indistinto, finiscecon l’annullare ogni distinzione, assumendoparadossalmente maggiore forza semiotica.L’assunzione di connotati simbolici da partedei segni non si produce mai per un corto cir-cuito della mente. Denuncia, tuttavia l’inap-pagabile bisogno dell’uomo di passare dall’in-

finito al finito, dell’eterogeneo indefinito del-la realtà, sentita come caos, a una omogeneitàdefinita, sentita come cosmos.

Proprio la figura dell’eroe ne è una rap-presentazione significativa. La sua vicenda in-fatti ha un andamento circolare. È un susse-guirsi di eventi di cui il finale è sempre un ri-torno a quello iniziale. Egli è in perenne lottacontro il male, ma per vincerlo deve speri-mentarlo; per ristabilire il cosmos deve attra-versare il caos. Deve perciò alienarsi sia spa-zialmente (Astolfo sulla luna) sia mentalmente(Orlando furioso), per potersi integrare. Co-me gli iniziandi nei riti di passaggio, che di fat-to ne sono una metafora, l’eroe realizza la pro-pria identità attraversando l’alterità. Nei mi-steri il misto deve morire per poter rinascere.Il dio salvatore, con cui egli si identifica, comeè esplicitamente detto: mortem moriendo de-struxit, vitam resurgendo reparavit. Quella del-l’eroe ovviamente è solo una morte apparente,non diversamente da quella del misto. Così eranella letteratura epica nella quale la morte fisi-ca dell’eroe è sostituita dalla sua discesa agliinferi, vedi per esempio quella di Ulisse; nellegesta dei cavalieri dal loro immancabile viag-gio in Oriente, che in quanto territorio degliinfedeli, era una metafora dell’inferno.

In questo gioco incrociato di identità e al-terità si consuma, in sostanza, tutta la vicendaumana dell’eroe. Il destino ultimo, cui non puòsottrarsi, è di congiungere ciò che l’intrigo del-la vita disgiunge, di porsi come intersezione tracosmos e caos, tra due Eternità. La sua missio-ne in sostanza è quella di unificare la realtà vi-sibile e quella invisibile, tanto a livello dellequalificazioni quanto a quello delle funzioninarrative. Può farlo determinando un capovol-gimento speculare della dicotomia: identità vsalterità, oppure sospendendola, unificandol’aldiquà e l’aldilà, mostrando così che non cisono due Eternità contrarie. In questo modoegli si afferma come cavaliere anche dell’aldilà,finendo eroicamente ma amaramente per ritro-varsi per compagna, come Roland nella Chan-son, soltanto la solitudine.

Ragionare

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Note

* Per Gabriella D’Agostino

1 Cfr. Van Gennep 1973; Pettazzoni 1924; Kerényi1979; Scarpi 2002. Sul rito dell’investitura, con relativabibliografia, cfr. Rendina 2009: 374 ss.

2 Sull’argomento cfr. Carlyle 1921; vedi anche Breli-ch 1958 e Pàroli 1995.

3 Cfr. Benoist 1976; Sperber 1981; Augé 1982; Elias1998; Todorov 1984; AA.VV. 1988.

Riferimenti

AA.VV.1988 La funzione simbolica, trad. it. Sellerio, Palermo.

Augé M.1982 Simbolo, funzione, storia: gli interrogativi del-

l’antropologia, Liguori, Napoli.

Benoist L. 1976 Segni, simboli e miti, Garzanti, Milano.

Buttitta A.1996 Mito e utopia, in Dei segni e dei miti. Una intro-

duzione all’antropologia simbolica, Sellerio, Pa-lermo.

2010 Todo es verdad todo mentira. Menzogna della ve-rità e verità della menzogna nel mito, in I. E. But-titta (a cura di) Miti mediterranei, FondazioneIgnazio Buttitta, Palermo: 22-33.

Brelich A.1958 Gli eroi greci: un problema storico-religioso, Ate-

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Campbell J.1984 L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano.

Cardini F.1997 Alle radici della cavalleria medievale, Feltrinelli,

Milano.

Carlyle Th.1921 Gli eroi, prefazione di E. Nencioni, Barbèra, Fi-

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Elias N.1998 Teoria dei simboli, Il Mulino, Bologna

Flori J.1999 Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, Einaudi, Torino.2002 La cavalleria medievale, il Mulino, Bologna.

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Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestitovecchio; altrimenti il rattoppo nuovo porta via qualcosa

alla stoffa vecchia e lo strappo diventa peggiore.Vangelo di Marco (2,21)

1. Animale-uomo

Scopo di questo saggio è di lavorare attornoall’ipotesi che i complessi saperi orali e gestua-li che definiscono la tradizione, conservino an-cora oggi tracce, indizi, spie folkloriche che,seppur labili, decontestualizzate, risemantizza-te, ci permettono, opportunamente ricostruite,di sostenere che i nostri anche non troppo lon-tani antenati riconoscevano e rappresentavanoil profondo rapporto evolutivo che lega indis-solubilmente l’uomo all’animale e più in gene-rale alla natura che lo circonda.

Se questa ipotesi di lavoro fosse verificata,appare evidente che quando Charles Darwin,nel corso della prima parte dell’Ottocento(1859) elabora la rivoluzionaria teoria sull’origi-ne della specie, certifica con i protocolli scienti-fici propri della scrittura, quanto il mondo po-polare, in qualche modo, conosceva in prece-denza, perché era ben presente ed elaborato nelsuo sistema culturale d’impianto orale fatto dimiti, riti, fiabe, leggende, narrazioni, vissutiquotidiani fortemente connessi con i ritmi spa-zio-temporali della natura.

Consapevoli delle pluralità delle culturecompresenti nello stesso spazio e nello stessotempo, intendiamo sottolineare, per indicare larelativa autonomia dei percorsi conoscitivi, co-me il sapere scientifico e quello popolare ab-biano elaborato nei confronti degli animali, in-tesi quali nostri antenati, modalità e orizzonticonoscitivi e simbolici di notevole somiglianza.Non intendiamo avventurarci nelle dibattutequestioni connesse alla ‘discesa’ nella culturafolklorica dei saperi della cultura d’élite, che

hanno occupato tanta parte del dibattito scien-tifico dell’ultima parte dell’Ottocento e nellaprima parte del Novecento, in quanto la demo-logia popolare ha conquistato problematica-mente la concezione del pluralismo di orizzon-ti culturali contemporanei che nulla toglie allatematica di eventuali convergenze e analogie.

Il sapere scientifico, colto, razionale, devetrascorrere la soglia dell’Ottocento per dimo-strare, in modo trasparente, la genesi dell’uomoe il suo complesso e lungo processo evolutivoche lo differenzia dall’animale che sta alla suaorigine. «Benché non abbia inventato l’idea dievoluzione, Darwin fu certamente responsabiledella sua larga accoglienza» (Lewontin 2002:39): sarà proprio Darwin a spiegare in modoconvincente l’evoluzione della specie ricono-scendo i nostri progenitori negli animali, nellescimmie antropomorfe, e osservando come neidati naturali, biologici, climatici, ambientali enella loro interazione e mutazione, risieda laspiegazione delle nostre origini. A partire daquesta scoperta, un problema che ancora coin-volge e impegna antropologi, paleoantropologi estudiosi delle più diverse discipline con esiti so-vente incerti, è quello di definire compiutamen-te le tappe dell’evoluzione che conducono al-l’uomo e alle sue forme di umanità.

Se riconosciamo che i patrimoni di cono-scenza propri dell’oralità possedevano in qual-che modo una ‘visione evolutiva’ del mondo,possiamo pensare che la ricostruzione dei saperipopolari condotta in questa prospettiva porti acomprendere meglio come è avvenuto il proces-so evolutivo. Come si induce dai fossili e dai re-perti ritrovati e, soprattutto, come gran partedell’immaginario che si è riflesso in modo signi-ficativo anche nell’arte popolare e non solo, ab-bia lasciato a volte tracce compatte e, a volte,non opportunamente studiate e comprese.

L’uomo raccoglitore, cacciatore, pastore,agricoltore conservava, possedeva e interpreta-

Piercarlo Grimaldi

“Insieme dissimili e simili”. Un percorso evolutivo popolare*

Ragionare

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va nel suo bagaglio culturale costituito di gestie di parole, il nesso profondo che collega l’uo-mo all’animale, conosceva in trasparenza l’inti-mo rapporto di parentela che l’uomo intratte-neva con l’animale che l’aveva preceduto.

Questa congettura, se opportunamente veri-ficata, potrebbe offrirci inedite prospettive in-terpretative di ciò che è stata la cultura orale nelprocesso evolutivo e quanto questa possa anco-ra essere una risorsa cognitiva per l’uomo delpresente e per quello che verrà, al fine di ricom-prendere e reinterpretare il mai risolto supera-mento del complesso rapporto con la natura co-sì come è stato vissuto sino a poco tempo fa.

I saperi dell’oralità sono giunti sino a noi eancora oggi, anche se compresi in sistemi discrittura e di memorie tecnologiche, artificiali,sempre più sofisticate e pervasive, appaiononon domati e comunque in profonda trasfor-mazione: il che non implica necessariamente lascomparsa, ma il costruirsi di un sapere orale egestuale profondamente innovato e trasforma-to di cui non riusciamo a definire i variabilicontorni culturali.

La tradizione, come è risaputo, si è trasmes-sa nel tempo attraverso le generazioni. Da pa-dre in figlio, da nonno a nipote, dalla comunitàdegli anziani a quella dei giovani, il sapere ora-le e gestuale è trascorso dalla bocca all’orec-chio, dal gesto al suo ripetuto apprendimento.L’uomo, la comunità, la società si sono trasfor-mati lentamente nel corso del tempo e dellospazio operando modifiche, innovazioni chenascevano dalla ripetizione del gesto e della pa-rola, dalla pratica espressiva e dal fare.

Questo sapere popolare si è andato forte-mente e progressivamente depotenziando intempi relativamente recenti, sino a perdere itratti costitutivi, fondanti, da quando il proces-so che governava la transizione, il passaggiodall’oralità alla scrittura, ha subito una radicaleaccelerazione, da quando lo sviluppo industria-le, il diffondersi della città, della metropoli econ esso l’abbandono definitivo delle campa-gne hanno segnato la fine del calendario, dellascansione spazio-temporale che lo generava.L’abbandono dei ritmi fortemente connessi conla natura, il progressivo addomesticamento del-lo spazio e del tempo della tradizione hannodato vita ad una società, quella contemporanea,che si trova organizzata, intrappolata in scan-sioni sempre più cronometriche, quantitative,parcellizzate, artificiali, del presente. Il tempolineare si impone su quello circolare del passa-to contadino. L’indirizzo di senso che governail presente è una freccia temporale rivolta al fu-

turo che irrimediabilmente si allontana dal pas-sato dimenticandolo, mentre nella tradizione leragioni dell’essere al mondo trovavano la spie-gazione nella ciclicità del percorso umano. Ilmito dell’eterno ritorno governava il tempodella tradizione, il ricominciamento prevedevala morte e la rinascita della natura (Eliade1965). Le stagioni scandivano i ritmi del riposoe del lavoro, del freddo e del caldo, del buio edella luce, del grasso e del magro, del letargoinvernale e del risveglio primaverile.

2. Indizi folklorici

Per tentare una prima verifica dell’ipotesi dilavoro cercheremo di dimostrare come, attra-verso una sommaria lettura di alcuni tratti folk-lorici, di studi di casi, si possa utilmente proce-dere in questa direzione di ricerca.

2.1. Grotte e animaliCominciamo con il prendere in considera-

zione alcuni aspetti della vita tradizionale con-tadina: il passaggio dalla vita domestica condi-visa con gli animali alla divisione degli spazi.Nel 1877 veniva promossa in Italia un’impor-tante ricerca voluta dal Parlamento e diretta daStefano Jacini riguardante la condizione conta-dina (Jacini 1881-1886). La vasta e rilevante in-dagine, tra i tanti risultati cui è pervenuta, sot-tolinea alcuni dati di particolare interesse ai no-stri fini. Quattro quinti della popolazione na-zionale sono occupati nel mondo rurale e unaconsistente parte di questi vive in povertà, incondizioni igieniche e fisiche drammatiche espesse volte è analfabeta. A volte abita ancorain case ricavate nella roccia, nel tufo, condivisecon gli animali, in uno stretto, quasi intimo rap-porto che rimette ogni giorno in gioco i tratti diumanità che l’uomo cerca di ritagliarsi nel con-fronto dei parenti più lontani.

A distanza di circa quattro decenni, quandoil linguista ed etnografo Paul Scheuermeier per-corre il mondo rurale italiano tra il 1921 e il1932, al fine di fornire un quadro complessivodei dialetti, la condizione contadina, seppur mi-gliorata, non è ancora contrassegnata daprofondi processi sociali, economici e culturali.La ricerca che ci consegna è infatti la fotografiadi un mondo contadino profondamente segna-to da tratti tradizionali, in cui gli usi e i costumiche hanno caratterizzato la vita nelle campagnedell’Ottocento sono ancora per molti versi vita-li (Scheuermeier 1943-1956). L’approfonditaindagine riservata al territorio piemontese for-

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Ragionarenisce un quadro che, se da un lato, quando si

svolge nella pianura e nei pressi delle città, sem-bra già avvertire, soprattutto nell’abbigliamen-to, l’influenza dei moderni abiti urbani, dall’al-tro, quando risale le valli, rivela ancora caratteriampiamente connessi al passato, alla conserva-zione (Scheuermeier 2007; 2008).

Un quadro generale che non coincide con ladocumentazione rilevata a Corneliano, un pae-se del Cuneese poco lontano dalla città di Alba.Il ricercatore fotografa grotte adibite a stalla e amagazzino per gli attrezzi della cascina. In par-ticolare sono interessanti le due fotografie(Scheuermeier 2008, vol. II, fotografie 879 e880) in cui si vedono l’interno e l’esterno di unagrotta, tana, chiaramente non solo adibita al ri-covero degli animali ma anche utilizzata perospitare gli uomini. In primo piano la tavola èinfatti preparata per il pranzo e la culla è vicinoal bue, a favore del caldo che l’animale emana:

Chiusa anteriormente da un muro con por-ta e finestre, era destinata, nella parte anteriore,ad abitazione e misurava 4 m. in altezza e in lar-ghezza e 6 m. in profondità. L’ambiente retro-stante con soffitto a volta, tanòt o crutìn, servivacome stalla per il bestiame e misurava 3 m. in al-tezza e in larghezza e 2 m. in profondità(Scheuermeier 1980, vol. II: 13).

Le due fotografie sembrano essere statescattate a commento di una sincronica riflessio-ne di Euclide Milano a proposito delle famiglieche abitano nell’area delle rocche di Pocapa-glia, prossima a Corneliano:

Là dintorno, pochi anni orsono, non v’eranche boschi; ora convertiti per buona parte incampi, aridi e secchi, fra i cui solchi non vediche schegge di roccia e dove il grano intristisce(poca paglia). Vedi uomini, poveri e vecchi, odonne sfiancate, affranti zappare a stento fraquella gleba dura come pietre, laceri, coperti distracci che non han colore; e spesso sul cigliodel campo gruppi di poveri bimbi mocciosi epiangenti, sul cui volto la vita grama e la denu-trizione già scolpisce le sue orme profonde e leilluvie e la sporcizia sparge escrescenze malignedi scrofole sanguinolente. Povera gente! Vivo-no come bestie in tane da lupi contenti di pochepatate, di qualche sacchetto di frumento o digranoturco e di fagioli che il terreno producepiccoli e scarni: di questo poco si saziano nellungo inverno che dev’essere ben più crudo inmezzo a quelle rocche paurose. Talora la cata-pecchia di paglia, la misera capanna dal nome dicasa o la caverna dove abitano, sporge sul diru-po e quei poveri bimbi che traggono l’infanziacolà presso, s’abituano fin d’allora al terrore ealla paura e portano poi sempre negli occhisbarrati quel senso di sgomento e d’orrore colquale le madri li han trattenuti dall’orlo fatale.

E così crescono ignoranti e superstiziosi e con-tinuano senza quasi mutarle le tradizioni dei pa-dri e degli avi, tutte quante intessute di fanta-smi, del demonio, delle streghe e del fuoco mi-sterioso e di altre simili fandonie. Certo quandosu quelle rocche piene di ombre scende la notteo grava una giornata senza sole o incombe l’in-verno, non v’è luogo più adatto a creazioni fan-tastiche dell’anima spaurita. Ed ecco perciò lemolte leggende che corrono fra quei miserabili:il diavolo e i bastioni di Cherasco, le streghe,Auçabech, Millocchi, il sotterraneo di SantaVittoria, le meraviglie di questa santa, il fuocodi san Teobaldo, Delpero (Milano 1958).

La riflessione dello studioso cuneese rinviaad un mondo prossimo a noi che viveva intima-mente con gli animali e che troviamo attestatoanche nel contermine territorio astigiano:

Alle porte della tecnologica metropoli tori-nese, nella quasi sconosciuta frazione Momba-rone della città di Asti, si stanno riportando al-la luce le ‘casegrotta’ in cui i contadini hannovissuto ancora nei primi decenni del Novecen-to. Quasi una piccola Matera, i cui famosi sassisono riconosciuti dall’Unesco come patrimo-nio culturale dell’umanità e che oggi sono la te-stimonianza più eclatante dell’arcaico mondodella tradizione giunto sino a noi senza soluzio-ne di continuità.

A Mombarone come a Matera, nelle collinedel profondo Nord come nelle terre cerealico-le del Sud, in questi luoghi naturali si viveva acontatto con gli animali, in un complesso rap-porto di con-divisione dello spazio e del tempo(AA. VV. 2004). I contadini che campavano inquesta condizione naturale, tutti i giorni eranoimpegnati a ritagliarsi un po’ di umanità che liseparasse e li distinguesse dall’animalità, alla ri-cerca di un equilibrio precario che icastica-mente potremmo definire di ‘animanità’ (Gri-maldi 2007: 14-15).

Le casegrotta che si stanno riscoprendonelle colline tufacee del Piemonte collinaremeridionale, disvelano un mondo appena tra-scorso che pareva cancellato alla memoria deipiù anziani e non differiscono poi tanto dallecase della gente che viveva sulle alte terre del-le Alpi e nel più vasto mondo contadino delPiemonte. Il popolo di minoranza etnolingui-stica Walser, ad esempio, ha abitato sino a po-chi decenni or sono l’alta montagna attorno alMonte Rosa, sopravvivendo grazie ad unastretta condivisione con gli animali della stalla.Il calore delle mucche era condizione indi-spensabile per vincere il freddo dell’inverno.La cucina e la stalla davano vita ad un’unicastanza dove l’umanità segnava la sua separa-tezza dall’animale con un semplice steccato,una fragile, quasi intangibile barriera di legno.

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Nella montagna cuneese Nuto Revelli rac-coglie ancora nel corso degli anni Settanta delNovecento, dalla voce delle anziane contadine,le testimonianze drammatiche di una vita con-vissuta con gli animali (Revelli 1985). La donnapartoriva nella stalla, sulla paglia come la muc-ca e veniva assistita da persone, levatrici chenon avevano conoscenze scientifiche ma un sa-pere popolare specifico e che intervenivano peraiutarla così come faceva l’uomo con la mucca.Di questo complesso e condiviso rapporto uo-mo-animale segnaliamo una tavoletta votivapresente nel ‘Museo degli ex voto di Dogliani’,nella Langa cuneese. Nel dipinto viene rappre-sentata una stalla in cui una madre intercede laVergine affinché salvi il suo bambino nella cul-la minacciato da un bue imbizzarrito.

Nella pratica del venire al mondo nella stal-la, la famiglia contadina dedicava più impegnoe risorse alla nascita del vitello che a quella delfiglio. Tante testimonianze raccolte nella mon-tagna ci dicono che spesse volte l’uomo riserva-va più cure all’animale che alla moglie.

Le storie di vita che le donne hanno affida-to a Revelli certificano questa drammatica si-tuazione. Nelle loro memorie si sente l’amarez-za della donna trascurata dall’uomo e conside-rata alla stregua dell’animale. Nelle Alpi delCuneese la gente affida le sorti della stalla a sanMagno, martire della legione Tebea. In valleGrana, a milleseicento metri di altitudine, alsanto è dedicato un imponente santuario. Lagente ritorna, una volta all’anno, il diciannovedi agosto, per rinnovare la fede nel santo chenell’iconografia ha come attributo principaleuna mucca, dando vita ad una giornata di pre-ghiere, messe, processioni con il suo simulacro,in un quadro folklorico di notevole interesse. Èla badia, l’associazione virile, che ha il compitodi governare la giornata e di fungere da guardiaarmata durante le liturgie. La presenza e la per-sistenza di questo importante istituto folkloricoche ha caratterizzato profondamente il tempofestivo del Piemonte della tradizione, sottoli-neano l’importanza di un rito che serve a pro-teggere gli animali della cascina e ad assicurar-ne le fortune e la continuità. Alle pareti del san-tuario restano ancora tanti ex-voto. Tavolettevotive che la famiglia offriva al santo per aversalvato la mucca durante un parto travagliato oper altri incidenti che potevano accadere all’a-nimale in alpeggio. Si tratta di una pratica di re-ligiosità popolare ancora ampiamente testimo-niata nel mondo contadino della tradizione eindica come la famiglia tradizionale richiedessel’intervento della divinità più per gli animali

della stalla che per le donne che dovevano par-torire (Capobianco, De Angelis 1996). Nellastrategia economica del contadino della monta-gna l’animale era dunque considerato una ri-sorsa preziosa e per molti versi più importantedella famiglia e, in particolare della sposa, cuinon venivano riconosciute altrettante interces-sioni presso la divinità nel momento del parto.

Nella stalla la gente trascorreva le notti dellungo inverno e la veglia era un momento digrande socializzazione e di formazione che co-minciava canonicamente nei giorni d’inizio no-vembre, quando si ricordano i morti, e termi-nava il venticinque di marzo quando, come re-cita il proverbio, «L’Annunciazione fa creparela veglia». I saperi immateriali venivano tra-smessi dagli anziani ai giovani con le narrazionifantastiche, le fiabe e le leggende. La ritmicitàdel lavoro, della filatura e della tessitura scan-divano il lungo tempo della notte.

La famiglia contadina trascorreva l’invernoprotetta dal calore naturale degli animali, in-staurando con loro un rapporto simbiotico cheancora una volta rendeva difficile all’uomo se-parare la sua diversità da quella dell’animale.La sintesi più alta di questo complesso rappor-to la ritroviamo nella narrazione evangelica del-la nascita di Gesù. Nella stalla o nella grotta alcaldo del bue e dell’asinello, Gesù viene almondo così come siamo venuti al mondo anco-ra nelle campagne della tradizione di appena al-cune generazioni trascorse. Il Bambino che vie-ne a salvare il mondo con la sua umile nascita ciindica il percorso popolare per il farsi dell’u-manità. Una scelta che accompagnerà la vitadel Cristo in terra: il suo insegnamento divino èaffidato, infatti, esclusivamente al gesto e allaparola. Le poche parole scritte le traccerà sullasabbia, supporto fragile e instabile, se possibi-le, più della parola stessa. Saranno gli evangeli-sti, con la scrittura, a contribuire a fondare lareligione storica del presente.

L’inverno è anche la lunga stagione in cui glispazi che il contadino ha provvisoriamente ad-domesticato con il lavoro estivo dei campi, sicontraggono sino a limitare gli spostamenti del-l’uomo all’interno del villaggio, dell’abitato. Lacasa, la fontana, il forno collettivo, la stalla do-ve la piccola comunità si ritrova, sono, spessevolte, gli unici spazi entro cui la gente condivi-de un luogo antropizzato. Gli animali selvatici,i lupi, gli orsi giungevano a minacciare gli stes-si luoghi abitati, rinselvatichendo la montagnagelida e innevata. Come gli animali del letargoche ibernano nella grotta sino all’arrivo dellanuova stagione primaverile, così gli uomini del-

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Ragionarele terre alte attendono con gli animali domesti-

ci l’arrivo del Carnevale per uscire nuovamenteall’aperto e riconquistare gli spazi rinselvatichi-ti dall’inverno ad un nuovo processo di addo-mesticamento. Le barriere visibili e invisibili,produttive e rituali che l’uomo deve incessante-mente erigere e abbattere al trascorrere dellestagioni sono state analizzate e sviluppate conuna approfondita ricerca sul campo da AndréCarénini:

En montagne le cycle des saison est une évi-dence incontournable. L’occupation de l’espacepar l’homme, occupation par définition tempo-raire, repose nécessairement sur une concilia-tion réussie avec l’esprit chthonien du lieu. Cedernier doit pouvoir survivre à proximité, etpréparer son retour en force dès la fin de l’été.Annuellement, en période de Carnaval, lesjeunes hommes des sociétés traditionnelles al-pines avaient l’obligation de rejouer le mythe dela reconquête: rite de l’envahissement, de la lut-te, de la capture, et de la métamorphose. Lemeilleur moyen de convaincre les esprits gar-diens que le rituel de reconquête est accompli àleur avantage, c’est de duper les représentantsdu non-sauvage, c’est-à-dire les animaux domes-tiques, gardiens du foyer et gardiens de la cultu-re (Carénini 2003c: 62-63).

2.2. Animali miticiLa presenza e la funzione degli animali ri-

tuali nelle culture contadine conserva traccedel profondo rapporto tra uomo e animale. Nelmondo contemporaneo esistono ancora segnidella presenza di un sapere tradizionale chetanto ha riflettuto e tramandato su queste figu-re mitiche. È possibile infatti trovare ancoraconsistenti tracce attive di Carnevali in cui so-no presenti cortei di maschere animali, di figu-re antropomorfe.

Un lungo periodo di ricerca sui terreni et-nografici dell’Europa ha permesso di rilevareun complesso patrimonio di animali folkloriciche scandiscono l’inizio dell’anno, che ancoranarrano di una Europa contadina ‘selvaggia’,che annunciava il risveglio della natura e predi-ceva la nuova annata agraria attraverso il rap-porto che la maschera antropomorfa aveva conl’astro lunare. Non a caso il personaggio chepiù ha scandito il Carnevale della tradizione èl’orso. La maschera animale esce dal letargonella data canonica del due febbraio e si rac-corda alla luna per indicare l’arrivo prossimo orinviato della nuova stagione agraria e, nel con-tempo, predire al contadino il futuro dell’anna-ta (Gaignebet-Florentin 1974; Gaignebet -Lajoux 1985; Pastoureau 2008).

L’osservazione dei cortei mascherati, la co-noscenza della morfologia delle pratiche e lafunzione che essi assolvono permette di com-prendere che questi nostri parenti, questi nostriantenati lontani nello spazio e nel tempo, sonocomuni a tutti noi. Le tante varianti che atten-gono alle forme e alle pratiche di queste ma-schere rinviano sempre ad una ineludibilegrammatica rituale comune.

Se solo osserviamo, infatti le maschere ani-mali, le organizziamo, le compariamo e le ana-lizziamo all’interno dei mondi in cui si sonoprodotte ed evolute, scopriamo che la loro rap-presentazione annuale ha anche, se non soprat-tutto, il compito fondante di narrare, rinarrare,ricordare alla comunità le origini comuni dellavita. In altre parole i riti che scandiscono la finee l’inizio dell’anno tradizionale sono anche enon secondariamente una consolidata intuizio-ne popolare della storia della nostra evoluzionenon scritta, ovviamente, in termini scientificima mitici. Essa è soprattutto riconoscibile nel‘totemismo’ delle tante maschere carnevaleschee, comunque, in quel tempo tradizionale chetra inverno e primavera dà vita a pratiche ritua-li, a complesse procedure mnemotecniche di ri-sveglio, di rinascita, di ri-apparentamento, chenarrano incessantemente di questa evoluzionee dei nostri parenti prossimi e lontani. Di ante-nati che ogni anno ritornano per rinnovare ilmito di fondazione, l’enciclopedia tribale dellesingole comunità e nel contempo di un univer-so, quello della tradizione, che si fonda sul ge-sto e la parola (Ong 1986; Havelock 1987).Forme e pratiche di mascheramenti di oralitànelle quali Antonino Buttitta riconosce:

[…] il metro in cui l’umanità misura i confi-ni troppo angusti della propria condizione, lospecchio in cui, capovolgendosi, togliendosi lamaschera, il senso riflette, espone e protesta leproprie segrete ragioni, quanto di invisibile in-quieta l’ordito quotidiano e storico della nostravita e di cui il nostro io, o ciò che indichiamo conquesto nome, costituisce la maschera, quotidia-namente esibita e perennemente dissimulata(Buttitta 2003: 27).

Maschere che costituiscono «anche una sortadi sbocco a ‘quella nostalgia della naturalità’ chesembra a volte percorrere le culture tecnologica-mente avanzate» (Lombardi Satriani 2003: 33).

La trasmissione del sapere tradizionale e ilsuo Carnevale rinnovano ciclicamente nel ma-scheramento la narrazione mitica dell’uomo, lasua storia, la sua evoluzione, la sua antropo-poiesi, il modellarsi, il ritagliarsi forme di uma-nità (Remotti 2000).

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Queste maschere animali, poiché antenati,operano accanto ai nostri parenti più prossimiche presiedono dall’Aldilà alle nostre sorti, aquelle della famiglia, della comunità, e quindialla continuità della specie, all’interno di quelleforme d’identità superindividuali che defini-scono i tratti essenziali della cultura tradiziona-le. Jean Poirier sintetizza questi caratteri costi-tutivi della comunità nelle tre ‘structures d’ac-cueil’ presenti lungo tutto il corso della storia:la ‘codescendance’, la ‘corésidence’ e la ‘cotra-scendance’. In particolare la cotrascendenzariunisce i membri della comunità «attorno adun corpo di credenze e pratiche simboliche chehanno la funzione di assicurare la relazione tral’uomo e l’invisibile» (Poirier 1991: 1566). Diquesto universo degli invisibili fanno senz’altroparte gli animali mitici che scandiscono con laloro presenza il trascorrere dell’anno produtti-vo agrario e, in particolare, del Carnevale, chesono anche, come abbiamo visto, la chiave in-terpretativa per la predizione della nuova anna-ta agraria. Parenti tra i parenti, antenati tra gliantenati a cui l’uomo ha sempre ricorso nei mo-menti di crisi esistenziale, spiriti guida per af-frontare ed interpretare le incognite che il futu-ro ci riserva.

All’interno dell’ipotesi di un evolutivo per-corso mitico, alcune maschere sono particolar-mente paradigmatiche e didatticamente traspa-renti. La figura dell’uomo selvatico può essereanalizzata quale icona di un importante mo-mento adattativo della catena evolutiva, unanello di congiunzione evidente di questa strut-tura orale. Una maschera in parte animale, inparte uomo, esito biologico del rapporto ses-suale tra l’orso e la donna, un’autentica ieroga-mia. Una figura che conserva i caratteri dell’a-nimale, del mondo naturale e, nel contempo,quelli della civilizzazione, che sussume l’umanoe il pre-umano.

L’uomo selvatico è il conoscitore dei ritmidella natura, del tempo ciclico stagionale e, nelfrattempo, il costruttore e il portatore di cono-scenze, di saperi che determinano umanità poi-ché disvela all’uomo i segreti della meteorolo-gia e quelli relativi alla lavorazione del latte, aicicli produttivi (Plagio 1979; Centini 1989;Grimaldi 1993). Una figura folklorica che sem-bra dunque suggerirci come la saggezza sia ilfrutto di una ricerca di equilibrio tra natura ecultura, la sintesi positiva tra l’animale e l’uo-mo, un anello importante per spiegare il darwi-nismo mitico. La compresenza, l’integrazionedi questi due universi, diventano un modellopedagogico, una didattica di crescita, di co-

scienza e di trasformazione per la cultura po-polare. Le maschere animali ci parlano dunquedi un mondo folklorico che cercava di rappre-sentare l’equilibrio, il rispetto, il timore verso lanatura. Non sembra davvero un caso che lastessa aristocrazia medievale, ancora orgogliosadelle proprie origini barbariche, selvatiche,non esitasse a porre a capo delle genealogie fi-gure zooantropomorfe come il selvaggio, l’orsoe, come nel caso dei Lusignano, la fata Melusi-na, donna serpente o in altre varianti, sirena(Artoni 1999).

Che questa figura mitica fosse importantenel mondo della tradizione è anche testimonia-to dalla rilevanza che animali e uomini selvaticiassumono nell’iconografia, nei bestiari medie-vali (Tesnière 2005) e, in particolare, nelle rap-presentazioni presenti nelle chiese romaniche egotiche. Spesse volte nell’arte sacra popolaredel Medioevo troviamo una chiave trasparentedi questo processo evolutivo. Lontani dai nostrisguardi disattenti perché posti alla sommità dialte colonne oppure in alto, all’esterno dellechiese, figure e volti inquietanti e difficili da de-codificare e interpretare ci scrutano da lunghisecoli. Se osserviamo con attenzione queste fi-gure scopriamo che, spesse volte definisconoteorie che si susseguono e che sembrano volercinarrare qualcosa. Che un animale sia seguito dauna figura selvatica e successivamente da unvolto umano dando vita ad una morfologia nar-rativa che viene ripetuta uguale o con più va-rianti, sembra infatti indicare esplicitamente unpercorso evolutivo che procede dalla natura al-la cultura, da un passato, dall’animale all’uomo.Il bestiario, gli uomini selvatici che ritroviamosui capitelli, sono dunque il ricordo, la fotogra-fia di parenti lontani che coinvolgono lo stessopercorso storico della Chiesa. La stessa liturgiareligiosa conserva tracce di questo confronto-scontro, con la cultura folklorica. Non a casosant’Orso si celebra nel giorno canonico in cui ilplantigrado carnevalesco esce per le strade del-le comunità contadine, san Bernardo da Mento-ne, esattamente come il domatore di Carnevale,tiene in catene il male, in alcuni casi rappresen-tato da un orso (Carénini 2003b), Maria Mad-dalena sovente è dipinta vestita solo dei propricapelli, nel teatro sacro pasquale di Sordevolo,il diavolo che induce Giuda a tradire il Cristo,ancora nei primi decenni del Novecento avevale sembianze dell’orso; forme e pratiche religio-se che rinviano e sussumono i caratteri precri-stiani dell’alterità folklorica (Grimaldi 2000a).Il calendario della Chiesa è dunque anche l’esi-to di questo intenso dialogo, dei metodi sincre-

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Ragionaretici, connessi ai profondi processi di evangeliz-

zazione e di addomesticamento che hanno at-traversato, ancora in tempi relativamente recen-ti, le campagne dell’Europa selvaggia.

2.3. Il cibo in naturaVi è un’ulteriore linea di lavoro che pare

utile percorrere per i fini della nostra ricerca.L’allattamento al seno si configura come unodei crocevia antropologici più interessanti epromettenti per capire il modellarsi, il farsi e ildisfarsi di forme di umanità. L’alimentazionedel figlio con il proprio latte è, senz’altro, unmodello naturale che lega profondamente gliuomini agli animali. Nel mondo contadino ladonna ha sempre allattato il figlio. Spesse volteha contribuito al sostentamento di neonati a cuila madre non poteva provvedere per motivi disalute o mancanza del latte. Questo aiuto rien-trava in uno dei tanti modi di ‘scambiarsi, im-prestarsi il tempo’ tra le famiglie, che non pre-vedeva forme di monetizzazione del latte dona-to. Se questo accadeva nel mondo popolare,l’uso del sostituire il latte della madre con quel-lo della balia era pratica che apparteneva, già inpassato, alla nobiltà e alla borghesia che in que-sto ritmo naturale osservavano una certa, in-quietante animalità e quindi, negando il latte alfiglio, segnavano la propria diversità e dimo-stravano un egoistico interesse nel proteggere ilproprio corpo anche da un eventuale, rischiosoprocesso di rinselvatichimento. Anche in que-sto caso erano le donne contadine che provve-devano per necessità il latte ai neonati negan-dolo spesse volte ai propri figli.

È nel corso del Novecento che si è assistitoad una sostituzione del latte materno con l’al-lattamento artificiale. Tutto ciò è, in qualchemodo, l’esito della «pratica dell’allattamentoartificiale, nata cent’anni fa negli Stati Uniti»che «ha avuto da allora grande diffusione intutti i paesi occidentali, in concomitanza conl’affermarsi del parto ospedalizzato: negli ospe-dali le donne venivano più facilmente avviatead allattare col biberon piuttosto che incorag-giate ad allattare al seno» (Maher 1992: 11-12).

Più recentemente, soprattutto nel corso de-gli anni Settanta del Novecento il seno vieneconcepito soprattutto come strumento di bel-lezza e di sessualità, va protetto, preservato, fat-to, ri-fatto e ri-ri-fatto, in funzione dell’agogna-ta carriera e di uno status superiore e quindinon può essere logorato in quanto semplice estrumentale mezzo di nutrizione, seppur dei fi-gli che tanto diciamo d’amare. D’altra parte,come si può ostentare un seno che ha subito

l’affronto di essere considerato un sempliceproduttore di alimento, alla stregua degli altrimammiferi e quindi segnato da una fabrilitàche affatica e logora e che i canoni estetici del-l’Occidente rifiutano?

Nel corso di questi ultimi decenni una rina-ta coscienza verso il latte materno sembra farsistrada al di là delle mode veicolate dai mezzi dicomunicazione che ci trasmettono il profilo diuna figura femminile che si riproduce con ava-rizia e non allatta, caratterizzato da un corpo esoprattutto da un seno scultoreo, oppure ab-bondante, da grande madre, che però non di-spensa latte e quindi vita, umanità, speranza difuturo.

Se le cose stanno così prevediamo che ladonna stia abbandonando la pratica dell’allat-tamento artificiale per ritornare a quello natu-rale e, dunque, l’allontanamento del figlio dalseno materno sembra essere una moda passeg-gera connessa ad una società che si affrancadalla povertà e vuole essere a tutti i costi mo-derna. È stata, infatti, soprattutto la generazio-ne nata sul finire della guerra ad interromperel’alimentazione naturale con l’apparire della so-cietà dei consumi, negli anni Sessanta, quandoi tempi delle vacche magre sono stati sostituitida quelli delle vacche grasse. Un processo cul-turale voluto innanzitutto dalle multinazionalidel latte che hanno promosso questo stile di vi-ta all’insegna scientifica di una corretta, igieni-ca ed equilibrata alimentazione artificiale, piùbuona, sterile, dosata, integrata, che non tra-smette malattie, vincendo così i nostri semprepiù deboli sensi di colpa. Questa scelta è statavissuta, inoltre, come un radicale atto di libera-zione della donna dall’allevamento della prole ecome bisogno di proteggere una parte del cor-po diventata ormai una risorsa indispensabileper la sua competizione produttiva nella so-cietà contemporanea.

A ben vedere, però, il fiume di latte umanoche torna a scorrere è ancora un rigagnolo ava-ro poiché pochi e avari sono i parti che assicu-rano alla donna contemporanea l’esperienza ela gioia della riproduzione; così essa invece pre-serva dal logoramento parti strategiche del cor-po, spesse volte in carriera.

In Italia registriamo, infatti, uno dei piùbassi tassi di fecondità dell’occidente: lo 0,8%,un’implosione demografica che determina undrammatico invecchiamento progressivo dellapopolazione. Ancora nella seconda metà del-l’Ottocento la donna dava al mondo media-mente cinque figli per giungere, nel corso deglianni Settanta, a circa due (Livi Bacci 2000: 11).

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La famiglia nucleare italiana si assottiglia viep-più passando così «da una media di 2,4 com-ponenti per nucleo nel 1991 a 2,2 nel 2001»(Livi Bacci 2002b: 17). Se questo andamentodecrescente persisterà nel tempo, gli italianidovranno abituarsi ad essere minoranza nelproprio paese, poiché per far sì che una societànon invecchi eccessivamente ogni donna do-vrebbe avere almeno due figli. D’altra partequesta rivoluzione demografica non attiene so-lo all’Occidente ma è un fenomeno che più re-centemente ha investito sorprendentementeanche le società islamiche in cui:

Ancora verso il 1970, il controllo delle na-scite era praticamente sconosciuto, […] il nu-mero medio di figli per donna tra 6 e 7. Poche elimitate le eccezioni. Trent’anni più tardi il qua-dro è estremamente variegato coesistendo paesidove nulla è cambiato con paesi non lontani dacomportamenti tipici del mondo occidentale,quali la Turchia, l’Egitto, l’Iran e i paesi del Ma-ghreb (Livi Bacci 2002a: 13).

L’interruzione dell’allattamento al seno è,con ogni probabilità, l’atto che più di ogni altroha segnato paradigmaticamente le più recentitrasformazioni della nostra società. Scelta chepuò essere sussunta quale momento topico chesegna la definitiva frattura tra il mondo dell’o-ralità e quello della scrittura poiché spiega, me-glio di ogni altro evento, l’oblio dei saperi tra-dizionali che si trasmettono di generazione ingenerazione attraverso il gesto e la parola. Taleprocesso culturale su cui tanto si è discusso edel quale sono stati individuati diversi momen-ti emblematici che ne scandiscono il mutamen-to, forse può trovare nell’interruzione dell’al-lattamento al seno il più profondo e trasparen-te atto che testimonia l’avvenuto cambiamento.

Con l’allattamento naturale viene a manca-re un profondo sistema orale prevalentementegestuale ma nondimeno fortemente connessoalla parola. S’interrompe un complesso e inte-grato rapporto fisico e affettivo tra madre e fi-glio che è stato da sempre alla base della ritmi-cità che presiede alla crescita e all’evoluzionedell’uomo e che forse, più del crudo e del cot-to, ne spiega le grandi trasformazioni. Un attoche, è risaputo, si è ripetuto senza soluzione dicontinuità, almeno tra le classi subalterne, sinoai nostri giorni e che i nostri antenati-animalipraticano tuttora.

L’allattamento è la messa in opera di una ve-ra e propria cosmologia «in cui ordine del mon-do, della società e del corpo si combinano e sirichiamano a vicenda» (Remotti 2000: 125),che viene reiterata più volte al giorno e che de-

termina un legame inscindibile tra madre e fi-glio. Un rapporto di sopravvivenza e di affetti-vità che nel mondo contadino si prolungava an-che più anni poiché determinato da una strate-gia di sopravvivenza alimentare che nel lattematerno trovava la soluzione e che permettevaaltresì una sorta di controllo delle nascite.

Se le cose stanno così è forse troppo arditosostenere che un ritorno all’allattamento al senopotrebbe rappresentare anche un ritorno, uncosciente recupero di alcune forme e praticheche attengono all’oralità tradizionale? La madreche rimane vicino al bambino, che ritorna a pri-vilegiare il sistema riproduttivo rispetto a quel-lo economico, che inevitabilmente rallenta i rit-mi spazio-temporali connessi alla produttività,che non posa per i calendari ma ritorna a narra-re e ri-narrare le fiabe e le filastrocche che allu-dono al piacere di succhiare il seno e invitano alriposo successivo e predispongono ad un futu-ro migliore, permette di superare il lutto dellaperdita della forse più importante cosmologiaadattativa che sta alla base del primo e fonda-mentale momento di formazione biologica eculturale di ogni individuo, di ognuno di noi.

Tutto questo spiega bene perché oggi osser-viamo con evidente disagio una donna che inpubblico allatta al seno il proprio bambino, av-vertiamo quasi un turbamento sessuale, un sen-so di colpa voyeuristico. Il nostro sguardo inter-pretativo del seno di una mamma che nutre, rin-via a valenze erotiche, persino pornografiche epertanto inquietanti, poiché non sappiamo piùleggere la natura e i suoi comportamenti.

2.4. Formule per ricordareIn ultimo riteniamo utile fare un accenno al-

la formularità popolare connessa al rapportouomo-animale che stiamo elaborando. É risa-puto che i proverbi, i modi di dire, le frasi ri-tuali sono, per la loro intrinseca ritmicitàespressiva, ‘mattoni’, strutture mnemotecnicheche costituiscono e rendono, per definizione,più solida la fragile memoria orale costituita dalgesto e dalla parola. A tale proposito abbiamocercato di comprendere se nella memoria deglianziani rimanessero ancora tracce dei codiciespressivi che, in qualche modo, alludono aquella che riteniamo essere una storia evolutivadell’umanità da sempre conosciuta nel mondodella tradizione.

Lasciando da parte i proverbi che, come ab-biamo visto, riconoscono nell’animale compor-tamenti predittivi e di fertilità e aiutano autore-volmente a verificare la nostra ipotesi di lavoro,proponiamo la lettura di alcune espressioni po-

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Ragionarepolari che appartengono al mondo di minoran-

za etnolinguistica occitana della montagna cu-neese che sembrano essere spia di questa co-scienza popolare1.

Di una persona che vive isolata, che si ap-parta al mondo, che privilegia la solitudine, ciòche offre la sola natura e rifugge il dialogo e laconvivenza con gli uomini si dice: «Vive comeun selvaggio (servage), come un eremità (armìt),come un orso (ours)». La formula sembra evi-denziare nella sua estrema icasticità il processoevolutivo dell’uomo che rifiuta la società. Nelcorso del tempo il selvatico, l’eremita e l’orsocostituiscono, anche nell’arte popolare sacra eprofana, i tre principali anelli evolutivi, la rap-presentazione del farsi dell’umanità. Più sem-plicemente la stessa persona può essere tacciatadi “vivere come una bestia”. Un comportamen-to negativo che assimila l’uomo all’animale eche può essere rafforzato con il modo di dire:“Mangia e vive come una bestia”. Il modo e ciòche mangia può avvicinare una persona ad unospecifico animale: “Mangia come un crin”, co-me un maiale, oppure “come un lupo”. Nel pri-mo caso la somiglianza con il maiale allude adun comportamento estremamente impuro, nelcaso del lupo ad un comportamento aggressivo,selvaggio, non addomesticato, come richiede ilpercorso di umanità. Infine l’espressione “parlacome cammina” sembra, anche se in modo piùcriptico, andare nella stessa direzione. Il cam-minare, la postura non consona all’uomo in so-cietà, propria della persona che ancora ha con laterra, con la natura un rapporto più diretto, po-co addomesticato, definisce un linguaggio al-trettanto dis-umano. In questo quadro il detto:“Balla come l’orso” sembra confermare que-st’impostazione.

Queste poche formule che giungono da ciòche resta dell’oralità sembrano indicare an-ch’esse una promettente direzione di ricercanel verso dell’ipotesi che intendiamo verificare.

3. Alcune considerazioni finali

I primi risultati che emergono da queste ini-ziali trivellazioni volte a ricercare in alcune spe-cifiche aree della tradizione la verifica dell’ipo-tesi elaborata, sembrano indicare promettentiindizi che andranno, ovviamente, approfonditie ampliati in modi più organici e sistematici.

Da questa prima lettura emerge un elemen-to che ci pare interessante. I saperi della tradi-zione che sono ancora recuperabili dalla me-moria orale degli anziani, dalle fonti a stampa e

dai diversi segni che testimoniano questo pas-sato fatto di gesti, parole, oggetti, sembrano in-dicare la presenza di un ancora ricostruibile so-strato culturale profondo, caratterizzato da unasorta di evoluzionistica visione popolare delmondo, che tende a spiegare, a legare intima-mente l’uomo all’animale, a narrare il comples-so e fisico rapporto quotidiano che ha da sem-pre intessuto con la natura. Un sostrato che ciparla di un lungo e mai definitivamente risoltoprocesso di addomesticamento intrapreso daquando l’uomo ha generato il primo ritmo spa-zio-temporale (Leroi-Gouhran 1964) che gli hapermesso di iniziare il grande viaggio verso lacostruzione di forme di umanità.

L’uomo della tradizione ha costruito nelcorso del tempo questo complesso sapere chegli ha permesso di conservare, comprendere einterpretare la memoria della sua origine ani-male, operando quotidianamente per analogia,per comparazione, per similitudine. Il pensieromagico, la visione del mondo costituita da mitie riti, simboli che traducono e rappresentanol’intraducibile, gli permettono di custodirequesta conoscenza, di avere coscienza di quelloche la scienza certifica solo nell’Ottocento.

Questo sapere che sta scritto nella natura è,sia pure in un certo senso, da sempre inscrittonel libro rituale delle tradizioni e genera unastoria i cui miti «come opera umana sono al-trettanto veri quanto gli avvenimenti storici»come opportunamente riflette Antonino But-titta quando tratta di «storia mitica e miti stori-ci» (1996: 168).

Se partiamo dai processi culturali esaminatinel saggio possiamo dire che, in estrema sinte-si, l’uomo è il frutto di una continua e quoti-diana lotta volta ad elaborare forme di umanitàche lo differenziano dall’animale con cui convi-ve in modo simbiotico, in estrema e ambivalen-te dipendenza. Un processo evolutivo avvenutocon fatica e rispettando i tempi lunghi che l’o-ralità richiede.

Solo recentemente ciò che resta del mondodella tradizione ha, per molti versi, smesso diconfrontarsi con questo passato animale, daquando sempre più labili e precari si sono fattii rapporti con i ritmi naturali e il nostro venireal mondo, il vivere e il morire assumono sem-pre più forme e pratiche artificiali che cancella-no la memoria del passato.

Questo processo culturale evolutivo ha se-dimentato, come abbiamo già visto, consisten-ti tracce anche nell’arte presente nelle chieseromaniche e gotiche. Ma questi segni preziosi,spesse volte indispensabili ai fini del nostro la-

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voro perché veri e propri anelli della catenaevolutiva, sono l’esito tangibile di un percorsoche la Chiesa ha messo in atto per appropriar-si e combattere questi saperi, attraverso unprocesso di inclusione e/o di espulsione al fi-ne di imporre la sua egemonia religiosa sullavisione del mondo precristiana. D’altra parte èevidente che l’uomo, in quanto creato da Dionon può conservare e rinnovare la memoriaanimale del passato. Le tracce che ritroviamonell’architettura e nella liturgia cristiana nonsono dunque che i segni di un sapere orale op-positivo alla scrittura su cui si fonda il cristia-nesimo. La Chiesa, consolidando nel corso deisecoli il processo di evangelizzazione dellecampagne ‘selvagge’, ben presto cerca anchecon la forza di allontanare dai luoghi sacri itratti folklorici che alludono al paganesimo.Quello che rimane sono elementi segnici chesi fanno nel tempo vieppiù inquietanti, fram-menti di tradizioni, di un immaginario folklo-rico di una religione precristiana che la Chie-sa non può cancellare improvvisamente e chequindi oblitera nel corso del tempo, ponendo-li sempre più lontani dal cuore della liturgia,dall’altare, staccati dalla presenza fisica delSantissimo. Come per le fotografie dei paren-ti più lontani che per vari motivi non si vo-gliono più ricordare e si vogliono nascondereal mondo, le tracce di questo lontano passatovanno cercate sui capitelli avvolti nel buio del-le alte navate.

Ad ispirare questa narrativa popolare con-tribuisce anche il monumentale lavoro di Iaco-po da Varazze che, nella Legenda aurea scrittanel corso del milleduecento costruisce l’anno li-turgico attraverso la vita di molti santi. Soprat-tutto quelli che vivono come eremiti hanno unprofondo rapporto con l’animale che, a volte,viene addomesticato dal santo oppure combat-tuto perché assume le sembianze del male, delpeccato, del diavolo (Varazze 1995).

I saperi tradizionali che si sono andati co-struendo all’interno di un quotidiano dramma-tico rapporto di scontro, incontro, alleanze tral’uomo e l’animale, si formano, dunque, attra-verso forme e pratiche, procedure diverse daquelle che la scienza mette in campo nel for-mulare l’origine della specie. Darwin, nell’ela-borare la teoria dell’evoluzione, osserva constupore e meraviglia i mutamenti e le selezioni:

Vi è qualcosa di semplicemente grandiosonella concezione della vita, con le sue capacità disviluppo, assimilazione e riproduzione, inizial-mente insufflata nella materia in una o alcuneforme, e nel fatto che mentre questo nostro pia-

neta ha continuato a ruotare seguendo leggi fis-se, e mentre la terraferma e le acque in un ciclodi cambiamento hanno continuato a sostituirsireciprocamente, da un’origine così semplice, at-traverso il processo della graduale selezione dicambiamenti infinitesimi, siano evolute innume-revoli forme, bellissime e meravigliose (Darwin2009: 65-66).

L’evoluzione culturale popolare non si co-struisce tanto a partire dallo stupore per le“forme, bellissime e meravigliose” che contri-buirà ad illuminare Darwin, quanto nel quoti-diano duro e drammatico confronto che l’uo-mo instaura con l’animale, un teatro della vitain cui si percepisce come precario attore, possi-bile modello soccombente nella quotidiana lot-ta alla costruzione dell’umanità.

Se le cose stanno così, il complesso e sof-ferto sapere evolutivo che l’uomo della tradi-zione ha elaborato è riconoscibile anche nellapoetica mitologica quando si narra di come ilpopolo dei Cercòpi fu tramutato da Giove inanimali identificabili come scimmie (Ferrari2006: 369):

[…] un giorno il padre degli dèi presi inodio i Cercòpi, gente disonesta, spergiura e im-brogliona, li trasformò da uomini in animali,deformandoli in modo che apparissero insiemedissimili e simili all’uomo. Ridusse la loro taglia,appiattí e rincagnò davanti le narici, solcò le fac-ce di rughe da persone vecchie, e rivestitili pertutto il corpo di pelame giallastro, li spedì inquesto posto. Ma prima tolse loro anche l’usodella parola, l’uso di quella linguaccia nata perspergiurare orribilmente; lasciò loro soltanto lapossibilità di lamentarsi con rochi squittii (Ovi-dio, 14, 91-100).

Una paura antica, un dramma esistenzialedi essere “insieme dissimili e simili”, come ci haappena ricordato Ovidio, che deve aver accom-pagnato l’uomo dalla sua alba sino quasi aigiorni nostri, che ha permesso alla cultura del-l’oralità di conservare la conoscenza delle sueorigini e di elaborare questo inquietante passa-to attraverso un articolato sistema che ha persol’indirizzo di senso probabilmente proprio neipressi del tempo in cui la scienza formula, conrazionali categorie, una convincente originedell’uomo, della specie, di una ‘selezione natu-rale’, da sempre risaputa.

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RagionareNote

* Ringrazio Antonino Buttitta e Luigi Lombardi Sa-triani per la lettura del saggio e per i preziosi consigli.Ovviamente la responsabilità del lavoro è di chi scrive.Alcune parti di questo saggio sono presenti in Grimaldi(2003, 2004, 2008).

1 Informatrice Anna Aimar, nata a Roccabruna (Cn),il 22-07-1922.

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Rosario Perricone

La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’

Italo Calvino nel suo visionario romanzo Ilcavaliere inesistente, accanto al protagonistaAgigulfo, il cavaliere che non esiste, pone il suoalter ego Gurdulù, colui che non sa d’esserci eche spesso arriva a credere di essere ciò che stavedendo. Gurdulù è colui il quale «ha ingurgi-tato una pinta d’acqua salata prima di capireche non è il mare che deve stare dentro a lui maè lui che deve stare nel mare» (Calvino 1959:107). Lo sciocco-intelligente connota molte let-terature popolari e come tutte le figure dell’al-terità custodisce le chiavi per decifrare «l’in-treccio degli intrami e degli stami» della realtà.Come lo stesso Calvino ha spiegato, risponden-do ad alcune recensioni che davano de Il cava-liere inesistente un’interpretazione in chiave al-legorico-politica, il romanzo

è una storia sui vari gradi d’esistenza dell’uo-mo, sui rapporti tra esistenza e coscienza, trasoggetto e oggetto, sulla nostra possibilità di rea-lizzare noi stessi e di entrare in contatto con lecose; è una trasfigurazione in chiave lirica di in-terpretazioni e concetti che ricorrono continua-mente oggi nella ricerca filosofica, antropologi-ca, sociologica, storica (Calvino 1993: VII; cfr.anche Id. 1980: 39-45).

Gurdulù può essere dunque la nostra me-tafora antropologica. Consente di alludere almetodo della ricerca sul campo nella pratica et-nografica.

John Middleton, allievo di Evans-Pritchard,sosteneva che la situazione etnografica reale eratutt’altra cosa da ciò che si era potuto figurare;anzi quanto aveva appreso in fatto di modalitàdi osservazione e interpretazione dei fenomenietnoantropologici ha rischiato di fargli forzareil senso della documentazione raccolta durantele sue ricerche sul campo. Solo quando i datiraccolti coincidevano con i modelli precostitui-

ti venivano accettati e ciò gli ha impedito di ve-dere quale fosse il significato delle cose per i na-tivi (cfr. Middleton 1970). L’antropologo si re-ca sul campo per dimostrare la validità dellesue teorie, che molto spesso tengono conto so-lo di alcuni aspetti settoriali e non pongono ilquesito fondamentale: come, attraverso l’inda-gine particolare, si possa conoscere la strutturaprofonda del “mondo”. Solo una conoscenzaolistica permetterebbe di evitare l’appiattimen-to epistemologico del monismo o del dualismofilosofico. Bisognerebbe essere in grado di rela-zionarsi sotto varie prospettive con l’oggettodei propri studi affinché il “fare altrui” diventiil “nostro farsi”, si riesca a cogliere profonda-mente il senso dei fenomeni che si presentanoal nostro “sguardo” e si sia in grado di descri-verli attraverso le tecniche comunicative dellanostra “cultura”.

Questa procedura scientifica è stata messain discussione, come è noto, già a partire daglianni Settanta del Novecento da Lotman eUspenskij, i quali avevano rilevato che

persino nelle scienze naturali l’esperimento,tradizionalmente considerato come un valoreautosufficiente, è entrato in rapporto col puntodi vista dello sperimentatore […]. Sia nellescienze naturali che in quelle umane si è svilup-pata l’idea della relatività delle norme consuete(Lotman - Uspenskij 1973: XVI).

Nella storia della pratica antropologia, mol-to spesso le popolazioni “esotiche” sono stateconsiderate utili solo come fornitrici di dati dainterpretare. Tradizionalmente, il problema deicosiddetti “informatori” concerneva semplice-mente la scelta delle persone “giuste” (ossiaquelle meglio informate e/o più rappresentati-ve) e come questi potevano essere coinvoltinella ricerca. Esso è diventato un problema di

Una proposta di ricerca multidisciplinare

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maggiore complessità, e per certi aspetti cru-ciale, quando agli occhi dell’osservatore si èdissolta l’immagine di omogeneità e compat-tezza delle società indagate, immagine che sup-portava la convinzione che esse potessero esse-re rappresentate da persone “bene informate”.Questo interesse per l’informatore a lungo si èlimitato a descrivere il rapporto “intimo”, di«innamoramento» (cfr. Bianco 1994; Casa-grande 1966; Gallini 1981) di alcuni antropo-logi con le loro “fonti privilegiate” e non si ètrasformato invece in una condivisione dell’au-torialità etnografica e delle dinamiche di crea-zione del testo derivate dall’interazione tra idue soggetti in campo (cfr. Miceli 1982). È in-vece da qualche decennio che ci si è chiesti chie cosa ogni volta l’informatore rappresenti, e cisi è resi conto che egli è sempre, sia pure in mi-sura diversa, condizionato sia dalla propriasoggettività (idee, sentimenti e ri-sentimentipersonali, appartenenze, amicizie e inimicizie,ecc.), sia dal proprio status e dalle funzioni erelazioni ad esso connesse: all’interno di unamedesima cultura, il sistema dei valori, la per-cezione delle cose e l’idea di sé e degli altri pos-sono presentare varianti significative a secondadella posizione e del ruolo sociale dell’infor-matore, oltre che a seconda della sua sensibi-lità personale e delle sue predilezioni (cfr. Ai-me 2008; Antiseri 2005; Clemente-Mugnani2001; Matera 2006).

Questi elementi di costruzione del testo et-nografico diverranno l’oggetto privilegiatodell’antropologia interpretativa che, sulla sciadi Derrida (2006) e del decostruzionismo, hasvelato il processo creativo che si nascondedietro la presunta “autorità” della monografiaetnografica. Clifford ha portato a concepirel’etnografia come l’esperienza e l’interpreta-zione di «una transazione costruttiva coinvol-gente almeno due, e di solito di più, soggetticonsapevoli e politicamente intenzionati»(Clifford 1997: 57-58). I paradigmi della ricer-ca sul campo basati sull’esperienza diretta el’interpretazione cedono il passo al discorsodialogico tra antropologo e ‘fonte’ e alla po-lifonia degli sguardi e dell’interpretazione. «Ilmodello dialogico […] nella forma testualizza-ta che deve assumere per rendere conto delprocesso di “dare e avere” in cui consiste la ri-cerca sul campo, si configura comunque comerappresentazione del dialogo (D’Agostino2008: 156). L’esito ultimo di questa imposta-zione metodologica porta a considerare le «et-nografie come finzioni» nel senso di qualcosache è stato fabbricato, costruito a tavolino e

quindi che non rappresenta la realtà ma quelloche della realtà l’antropologo percepisce e at-traverso il mezzo della “scrittura” esperisce.Un rapporto triplice quindi tra mente, mondoe “l’altro” che rivela la profonda interrelazioneesistente tra i tre livelli di questa «isotopia com-plessa». Secondo Greimas il discorso plurivo-co permette infatti il manifestarsi di una «iso-topia complessa» quando, oltre ad occuparsidel «piano isotopo della manifestazione» deldiscorso, non dimentichiamo

che la comunicazione umana non è, come mol-ti credono, né univoca né unilineare […] il mitoche in ogni momento la nostra comunicazione so-ciale quotidiana riversa su di noi […] possiedesenza dubbio un contenuto diverso dal discorsoprimitivo, ma la sua incontestabile presenza con-ferma il carattere spesso plurilineare della manife-stazione. Pertanto, ciò che obbiettivamente contaper l’analisi del contenuto è la necessità di ricono-scere l’esistenza, in alcuni casi, di diversi piani iso-topi, in uno stesso discorso; e, in un secondo tem-po, l’obbligo di spiegare strutturalmente questaambivalenza (Greimas 2000: 138-140).

Solo quando un determinato fenomenopresenta queste caratteristiche si può dire cheesso manifesta una isotopia complessa, comenella ricerca sul campo (cfr. Greimas-Courtés2007: 171-173).

Il problema di come una persona interagi-sce con un’altra (come nel caso dell’informato-re con l’antropologo) è una questione episte-mologica di primaria importanza. Per megliodefinirla in questo saggio farò riferimento aglistudi condotti da John Searle (1994, 2000,2005) sull’intenzionalità e sul rapporto men-te/mondo che estendono al mentale la nozionetardo-wittgensteiniana di Sfondo associandolaalla nozione di Rete (ossia quella porzione del-lo Sfondo descritta facendo riferimento allasua capacità di provocare intenzionalità co-sciente), insieme all’«autoreferenzialità causa-le» tra intenzioni e percezioni che attua l’«in-ter-relazione» pensiero/mondo. Ciò implica ilsuperamento del «dualismo di schema concet-tuale e di contenuto empirico» affrontato daJohn McDowell (1999). In contrapposizionealle teorie di Davidson e di Evans, egli affermache le capacità concettuali sono già in atto nel-la stessa esperienza e che il linguaggio, in quan-to ricettacolo della tradizione, è indispensabileper creare le relazioni e le connessioni che ap-partengono allo Sfondo/Rete di riferimento.Una interessante prospettiva è inoltre quellatopologica: l’identità degli oggetti trova la suaconcretizzazione nella localizzazione spaziale.Franco Lo Piparo, nel suo volume dedicato ad

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Aristotele (2003), dimostra come si possa ap-plicarla anche al linguaggio. «Gli uomini nonusano il linguaggio, vivono il linguaggio»: il lin-guaggio è dunque un sistema autosufficiente emonofacciale (si ribalta così la nozione di bi-faccialità del segno linguistico postulata daSaussurre e da Hjelmslev). Per rappresentarlospazialmente bisogna ricorrere al nastro di Mö-bius, una figura autosufficiente, monofacciale eillimitata che si può utilizzare per rendere laspazialità monadica del linguaggio e quindi an-che della mente dell’uomo che lo genera. L’op-posizione ipotizzata tra realtà e rappresentazio-ne – ontologica e gnoseologica, percezione sen-soriale e sua conversione semiotica – richiedequindi una più attenta riflessione nel quadrodei più recenti sviluppi delle neuroscienze.Questo nuovo paradigma interpretativo erastato anticipato dal filosofo francese MauriceMerleau-Ponty che porta a compimento con iltema del «corpo proprio» la fenomenologianovecentesca. La percezione è l’esperienza cor-porea fondamentale in cui il corpo non è og-getto ma soggetto e dove l’incorporazione è lacondizione in virtù della quale possiamo co-struire una struttura oggettuale della realtà gra-zie ai processi corporei di percezione, attraver-so i quali le rappresentazioni si formano. Ilpunto di vista dell’incorporazione considera difondamentale importanza il carattere sinesticodella percezione. Il linguaggio sinestesicoesemplifica una caratteristica generale dell’e-sperienza sensoriale, cioè il suo dipendere inmodo trasversale dalle diverse modalità percet-tive. L’esperienza percettiva si basa quindi suuna architettura neurale altamente intercon-nessa e funzionalmente unimodale e cross-mo-dale allo stesso tempo. Tesi quest’ultima avva-lorata da Vilayanur Ramachandran (2004) se-condo cui il cervello esegue un’astrazione sine-stetica a modalità incrociata; da questo derivala teoria dell’innesco sinestetico del protolin-guaggio ancestrale (prima ancora del coniodelle parole era in atto un’astrazione sinesteti-ca a modalità incrociata, cioè una traduzionepreesistente dell’aspetto visivo in rappresenta-zione uditiva). Questa nuova branca del sape-re, chiamata “fenomenologia neurofisiologi-ca”, supera la tradizionale divisione del cervel-lo in cellule motorie, sensoriali e funzioni co-gnitive attraverso una nuova dimensione olisti-ca che vede nella percezione e nell’azione ununico processo indistinto che sfocia nell’imita-zione. La tesi è avvalorata dagli studi condottiin Italia da Giacomo Rizzolati e Carlo Siniga-glia (2006) e da quelli condotti in America da

Marco Iacobini (2008). La nostra capacità dirappresentare gli altri è dovuta a cellule cere-brali chiamate neuroni specchio che si attivanoquando vediamo un’altra persona compiereun’azione e si attivano anche quando siamo noia compiere la stessa azione. I neuroni specchiovengono considerati precursori evolutivi dei si-stemi neurali che ci consentono di comunicareattraverso il linguaggio e di attivare l’empatia ela socializzazione. Una prospettiva interessanteinfine è quella proposta da Thomas Csordas(2002) per l’analisi della cultura e del sé. Par-tendo dalla riflessione della fenomenologiadella percezione, Csordas trova nell’incorpora-zione una chiave di lettura possibile per l’ana-lisi dei fenomeni legati ai temi della salute, cuisi può accostare la nozione di habitus elabora-ta da Pierre Bourdieu (2003) quale principio dicreazione delle pratiche e delle rappresentazio-ni. Questa interazione tra filosofia del linguag-gio, fenomenologia, neuroscienze, body anthro-pology permetterà, spero, di delineare un per-corso di ricerca che consenta di comprenderemeglio i modi di interazione uomo/uomo egiungere a una conoscenza «plurilineare» nelcampo delle scienze umanistiche.

John Searle ritiene che la principale funzio-ne della mente dell’uomo sia quella di mettersiin relazione con il mondo attraverso la perce-zione e l’azione. «Mediante la percezione as-sorbiamo informazioni relative al mondo, quin-di coordiniamo tale informazione […] infineprendiamo decisioni oppure concepiamo in-tenzioni che producono azioni mediante lequali affrontiamo il mondo» (Searle 2005: 231).Questo richiamo all’adattamento mente-mon-do deve fare i conti con la teorizzazione sear-leana della Rete e dello Sfondo che rinvia a unpunto di contatto tra mente e mondo abbando-nando, come osserva Francesca Di LorenzoAjello, ogni corrispondenza tra mente, realtà e“in sé”. L’olismo, che si basa sull’idea che leproprietà di un sistema non possano esserespiegate esclusivamente tramite le sue compo-nenti, presuppone che i fatti siano tali solo al-l’interno di una teoria o di una forma di vita. In-cardinati in uno Sfondo determinato è a questifatti che si deve adattare «ogni teoria che vogliaessere vera, con la conseguente rinuncia adogni pretesa di “pura” corrispondenza ad unapresunta realtà in sé» (Di Lorenzo Ajello 1998:99). D’altronde la nozione tardo-wittgenstei-niana di Sfondo come elemento che contestua-lizza il linguaggio è estesa da Searle anche almentale; insieme all’«autoreferenzialità causa-le» tra intenzioni e percezioni si attua l’«inter-

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relazione» pensiero/mondo. Dall’analisi diqueste due nozioni si desume che le rappresen-tazioni, «lungi dal poter essere mere copie del-la realtà miranti al suo semplice rispecchiamen-to, ne sono piuttosto elaborazioni cognitive ditipo prospettico, imprescindibilmente selettiveed interpretative» (Ibidem: 13). L’ipotesi diSfondo, in origine riferita al significato lettera-le delle parole, è stata estesa da Searle ad ogniforma di intenzionalità

i fenomeni intenzionali – significato, com-prensione, interpretazione, credenze, desideri,esperienze – hanno luogo unicamente in virtù diun insieme di facoltà di Sfondo che, di per sestesse, non sono intenzionali […] i fenomeni in-tenzionali non fanno che determinare le condi-zioni di soddisfazione relative a un insieme di fa-coltà di per sé non intenzionali. Il medesimo sta-to intenzionale potrà dunque determinare con-dizioni di soddisfazione differenti secondo le di-verse facoltà di Sfondo coinvolte; d’altra parte,un certo stato intenzionale non determinerà al-cuna condizione di soddisfazione se non verràposto in relazione alle proprie facoltà di Sfondo,e se non verrà inserito all’interno di una Rete dialtri stati intenzionali ad esso collegati (Searle1994: 187-188, corsivo mio).

Ogni «unità sintattica» non corrisponderàdunque a una parola ma a una sequenza di «oc-correnze segniche» che si possono identificarecon le dicotomie, tanto care agli strutturalisti,che dipendono dallo Sfondo. Quindi la distin-zione tra Rete e Sfondo – continua Searle –«perde senso nel momento stesso in cui emergeche la Rete non è altro che quella porzione del-lo Sfondo descritta facendo riferimento alla suacapacità di provocare intenzionalità cosciente»(Ibidem: 204).

Quanto detto implica il superamento del«dualismo di schema concettuale e di contenu-to empirico» che John McDowell ha affrontatonel suo libro Mente e mondo. Secondo Mc-Dowell le capacità concettuali sono già insitenella stessa esperienza:

Non è che le operazioni effettive delle capa-cità concettuali facciano la loro comparsa solonell’attualizzazione delle disposizioni al giudi-zio, con cui le esperienze vengono identificate –così che l’esperienza sarebbe connessa con iconcetti solo tramite una potenzialità. Che le co-se ci appaiano in un certo modo è già, di per sé,un modo dell’azione effettiva delle nostre capa-cità concettuali […] Il pensiero può entrare inrelazione con la realtà empirica solo perché, indefinitiva, pensare significa abitare lo spazio del-le ragioni e agire in esso (McDowell 1999: 66,corsivo mio).

Ciò vuol dire che bisogna essere propensi a mu-tare il proprio atteggiamento psicologico in ba-se al contesto, alla situazione e quindi allo Sfon-do-Rete in cui siamo in quel momento colloca-ti e essere pronti a formulare costantemente ledomande che determinano le scelte1.Gli esseri umani – prosegue McDowell – si

evolvono «abitando lo spazio delle ragioni» o«vivendo le loro vite nel mondo». Osservandoil funzionamento del linguaggio ci si trova difronte a «una prima concretizzazione di un in-sieme di disposizioni mentali, della possibilitàdi un orientamento verso il mondo» (Ibidem:136); la caratteristica davvero importante dellinguaggio naturale è che esso «serve come ri-cettacolo della tradizione, un magazzino dellasaggezza accumulatosi nel corso della storia sucosa è una ragione per cosa. La tradizione èsoggetta alla modifica ragionata di ogni genera-zione che la eredita» (Ibidem: 137). Ricevere indote questo patrimonio di sapere equivale per isuccessori ad «acquisire una mente, la capacitàdi pensare e di agire intenzionalmente», ma perfar questo l’uomo «deve essere iniziato a unatradizione quale essa è» (Ibidem).

Bisogna quindi comprendere, come precisaRené Thom, «che il fondamento dell’identitàdelle cose è nella loro localizzazione spaziale:due cose che occupano simultaneamente duecampi disgiunti dello spazio non possono esse-re identiche» (Thom 2006: 77). Partendo daquesto postulato, cioè che l’identità degli og-getti ha la sua concretizzazione nella localizza-zione spaziale, applichiamolo al linguaggio co-me elemento centrale del rapportomente/mondo.

Franco Lo Piparo, in maniera efficace, haaffermato che

gli uomini non usano il linguaggio, vivono illinguaggio. Il linguaggio non è strumento ma at-tività specie-specifica di organi naturali […].L’uomo non sceglie il linguaggio. A partire dalmomento in cui comincia a parlare non è più li-bero di fare a meno del linguaggio o di prender-ne le distanze […]. Il parlante è soggetto parlan-te così come è soggetto respirante, soggetto ve-dente, soggetto udente, soggetto camminante […]il linguaggio è attività pervasiva […] questa è latesi forte e originale di Aristotele. Il parlare è[…] attività che, a partire dal momento in cuisorge, riorganizza e rende specifiche tutte le atti-vità cognitive umane, comprese quelle che l’uo-mo mostra di avere in comune con gli animalinon umani: percezioni, immaginazione, memo-ria, desiderio, socialità (Lo Piparo 2003: 3, 5).

Lo Piparo sostiene quindi che il linguaggio èun sistema autosufficiente e quindi monofaccia-

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le. Ciò ribalta la nozione di bifaccialità del se-gno linguistico postulata sia da Saussurre(2009) che da Hjelmslev (1968). Analizzando ilfoglio di carta come superficie bifacciale di rife-rimento la linea che unisce i punti A e B deveuscire dal foglio, quindi il modello spaziale del-la teoria di Saussurre presuppone che i duepunti sono in comunicazione solo attraverso unterzo elemento diverso dai due punti A e B. PerHjelmslev abbiamo due piani: un “piano dell’e-spressione” e un “piano del contenuto”; possia-mo fare coincidere i due piani con i punti A e Bche vengono messi in relazione attraverso le li-nee che li congiungono (traduttori semiotici).Queste linee di congiunzione però sono traccia-te da un osservatore che non si trova né in A, néin B e abbiamo quindi un elemento X esterno alsistema che lo determina2.

Il giudizio semiotico, osserva Franco Lo Pi-paro, è dello stesso tipo dei due punti che met-te in relazione.

La linea di congiunzione non esce mai dalla su-perficie. Nel linguaggio verbale non c’è disconti-nuità tra significante e significato e non c’è di-scontinuità nemmeno tra significato e significanteda una parte e l’implicazione semiotica che li met-te in relazione dall’altra. In termini filosofici: ipunti messi in relazione e la relazione medesima ri-cadono nella medesima regione ontologica […]. Isistemi bifacciali in quanto incapaci di autofon-darsi sono necessariamente convenzionali […] illinguaggio verbale, invece, in quanto costituzio-nalmente monofacciale è, volendo usare la termi-nologia della fisica contemporanea, un sistemabootstrap: si tira su reggendosi, per così dire, sui ti-ranti dei propri stivali (Lo Piparo 2003-04: 6).

Per rappresentare spazialmente la linguaquindi bisogna ricorrere a una figura con una so-la faccia, in modo che ciascun punto di essa pos-sa essere raggiunto senza uscire fuori, possa cioèautoesplorarsi in un processo di autopoiesi. Il na-stro di Möbius, dal nome del matematico che loha inventato, condivide con la lingua le medesi-me caratteristiche topologiche3.

Il nastro di Möbius è una superficie “uni-latera”: ha un solo lato e un solo margine. Perottenere un nastro di questo tipo è sufficienteunire le due estremità di una striscia di cartadopo averle fatto fare a una estremità una tor-sione di 180°. Il risultato è una superficie conuna sola faccia su cui ci si può spostare da unpunto all’altro senza mai attraversarne il mar-gine. Il nastro di Möbius è quindi autosuffi-ciente, monofacciale ed illimitato e si può uti-lizzare per rendere la spazialità monadica dellinguaggio e quindi anche della mente del-l’uomo che lo genera. «Forse la mente e la ma-teria sono come le due facce di un nastro diMöbius: appaiono diverse ma sono, in realtàla stessa cosa» (Ramachandran 2004: 36).Questa mossa epistemologica radicale che eli-mina il dualismo mente/mondo riducendo l’e-sperienza alla lingua, alla rappresentazione,non deve portarci a considerare le rappresen-tazioni come costrutti dell’esperienza; al con-trario, seguendo il detto di Heidegger secon-do cui il linguaggio può “dischiudere” l’espe-rienza, bisogna considerarle come costruttidell’esperienza adottando come termine teori-co chiave l’“essere-nel-mondo” del “corpo”.Questo nuovo paradigma interpretativo erastato sviluppato dal filosofo francese MauriceMerleau-Ponty che porta a compimento con iltema del “corpo proprio” la fenomenologianovecentesca:

Il tema del corpo proprio si è reso necessarioad una fenomenologia della percezione. Essoperò non è meno indispensabile ad una fenome-nologia dell’azione […]. Così il corpo proprio in-troduce un fattore di non simmetria tra la feno-menologia e l’analisi linguistica; si dà infatti comeuna “realtà” di carattere ambiguo: è un oggettotra gli oggetti e, ad un tempo, è l’organo non og-gettivabile della percezione e dell’azione. Più ra-dicalmente il suo ambiguo statuto ontologico in-frange il rapporto soggetto-oggetto. Non è un og-getto, cioè un’unità di senso in una diversità diprospettive variabili perché non è in alcun modoprospettivista, vale a dire tale che può essere vi-sto prima da un lato e poi da un altro lato; ma nonè neppure un soggetto nel senso della trasparen-za riflessiva. […] Ma è Merleau-Ponty che haspinto fino alla fine le implicazioni filosofiche delcorpo proprio: il corpo che percepisce, egli so-stiene, è la condizione organica del percepito neisuoi caratteri qualitativi e significativi; è per me-corpo che c’è qualcosa che è percepito (Ricœur1986: 169-171).

Merleau-Ponty ha definito la fenomenolo-gia come la scienza degli inizi rilevando che ilpunto di partenza del nostro “essere-nel-mon-do” è la percezione.

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Parlando di primato della percezione, di cer-to in nessun caso abbiamo voluto dire (il che rap-presenterebbe un ritorno alle tesi dell’empiri-smo) che la scienza, la riflessione, la filosofia sia-no delle sensazioni modificate […] Così parlan-do volevamo dire che l’esperienza della percezio-ne ci ricolloca in presenza del momento in cui sicostituiscono per noi le cose, le verità, i beni. In-tendevamo dire che l’esperienza della percezioneci restituisce un logos allo stato nascente, che ciinsegna, al di fuori di ogni dogmatismo, quali so-no gli effettivi requisiti dell’oggettività elle-mê-me, e ci ricorda ciò che è proprio della cono-scenza e dell’azione. Non si tratta di ridurre il sa-pere umano al sentire, ma di assistere alla nascitadi questo sapere, […] di riconquistare la co-scienza della razionalità che si perde quando sicrede che essa vada da sé e che, al contrario, si ri-trova se la si lascia comparire su di uno sfondonon-umano (Merleau-Ponty 2004: 48).

La percezione è l’esperienza corporea fon-damentale in cui il corpo non è oggetto ma sog-getto e dove l’incorporazione è la condizione invirtù della quale possiamo costruire una strut-tura oggettuale della realtà grazie ai processicorporei di percezione, attraverso i quali le rap-presentazioni si formano. Questi processi crea-tivi sono strettamente connessi con l’intenzio-nalità, che Merleau-Ponty descrive come un“tendere verso il mondo”-“dedicarsi al mon-do”; composta da elementi intenzionali che siintrecciano tra noi e il mondo, queste espressio-ni sono destinate a valere non come rappresen-tazione ma come significato esistenziale.

Da qui il concetto di incorporazione che ca-ratterizza la riflessione antropologica contem-poranea. Thomas J. Csordas sviluppa la nuovaprospettiva metodologica per l’analisi della cul-tura e del sé, portata avanti dal punto di vistadell’incorporazione che combina la “teoria del-la percezione” di Merleau-Ponty con la “teoriadella pratica” di Pierre Bourdieu, pensando ilcorpo non come un potenziale oggetto di stu-dio ma come il soggetto stesso della cultura. Ilparadigma dell’incorporazione annulla la con-trapposizione ontologica fra soggetto e mondo,fra individuo e società; un paradigma che radi-ca la “mente” nel “corpo” e il “corpo” nel mon-do e nella storia. Csordas definisce questo suoapproccio metodologico “fenomenologia cul-turale”

una prospettiva volta a cogliere il ruolo attivodel corpo (fenomenologia) non nelle sue vestitrascendentali ma nella sua fatticità storica (cul-turale) […]. La sua proposta è quella di non fer-marsi alle rappresentazioni culturali delle espe-rienze, ma di indagare l’esperienza stessa dei

soggetti culturali. Praticamente egli ci invita adaffiancare all’antropologia del corpo un’antro-pologia dal corpo. […] I due approcci vanno in-tesi come partner dialogici […] L’obbiettivo èquello di indagare dunque le dimensioni vissutedei processi culturali che sono al cuore della per-cettiva elaborazione dell’esperienza e dellarealtà. L’incorporazione, per Csordas, è dunqueun paradigma che ci aiuta a comprendere la na-tura dell’esperienza umana in riferimento ai pro-cessi culturali e la fenomenologia culturale unapproccio volto a sintetizzare l’immediatezzadell’esperienza incorporata con la molteplicitàdei significati culturali in cui siamo sempre e ine-vitabilmente immersi. […] Tuttavia, secondoCsordas, l’obbiettivo dell’antropologia non èquello di catturare l’esperienza ma di dare ac-cesso ad essa intesa nei termini di cosa c’è di si-gnificativo nel significato, della significativitàdel significato (cogliere le trasformazioni e i pro-cessi nella loro specificità esperienziale). Questadefinizione dell’esperienza è sottesa da un pre-supposto fondamentale: la dialettica fra linguag-gio e rappresentazione da un lato ed esperienzaincorporata ed essere-nel-mondo dall’altro(Quaranta 2008: 56-58, 64).

Per far questo Csordas si avvale delle nozio-ni, da lui stesso formulate, di «forme somatichedi attenzione» e di «formazione di immagini in-corporate»: la prima è definita «come modiculturalmente elaborati di impegnarsi, con ilproprio corpo, in contesti che includono la pre-senza incorporata degli altri» (esempio i riti te-rapeutici); la seconda è un costrutto correlatoal primo che si può definire solo partendo dalpresupposto che quando pensiamo alla forma-zioni di immagini ci riferiamo alle immaginimentali che sono immagini visive «che hanno laforma di figure o rappresentazioni» (Csordas2003: 31).

Questa prospettiva euristica trasforma la no-zione di incorporazione nella base esistenzialedel sé e della cultura, introducendo una materia-lità basata sull’esperienza corporea che si struttu-ra attraverso l’integrazione del tatto e della vistache rimanda alla formulazione di Merleau-Ponty

C’è un circolo del toccato e del toccante, il toc-cato afferra il toccante; c’è un circolo del visibilee del vedente, il vedente non è senza esistenza vi-sibile; c’è anzi inscrizione del toccante nel visibi-le, del vedente nel tangibile – e reciprocamentec’è infine propagazione di questi scambi a tutti icorpi dello stesso tipo e dello stesso stile che io ve-do e tocco, – e ciò per la fondamentale fissione osegregazione del senziente e del sensibile che, la-teralmente, fa comunicare gli organi del mio cor-po e fonda la transitività da un corpo all’altro(Merleau-Ponty 1969: 159).

Già il neurologo e psichiatra Erwin Walter

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Straus, nella sua critica ai fondamenti dei saperiorganicistici dell’uomo (saperi che mirano a ri-durre l’ambito e i problemi delle scienze umanea quelli delle scienze della natura), aveva notatoche la fisiologia del movimento considera il mo-vimento stesso separato da esso e proponeva diunificare le diverse particolarità. Per Straus sen-tire e muoversi, percepire e agire, traiettorie edirezione, spazio e orientamento nello spazio,infine soggetto e mondo risultano dimensioniindiscernibili e sono, fenomenologicamente, untutt’uno (cfr. Leoni 2006).

Bisogna quindi considerare di fondamentaleimportanza il carattere sinestico della percezio-ne. Il termine sinestesia (dal greco syn, “insie-me” e aisthánestai, “percepire”) indica, come ènoto, il procedimento retorico basato sull’asso-ciazione, all’interno di un’unica immagine, ditermini relativi a diverse sfere sensoriali che, inun rapporto di reciproca interferenza, creanouna percezione simultanea. Il termine “sineste-sia” è stato coniato da Francis Galton, cugino diDarwin, in riferimento ad un curioso fenomenonel quale alcune persone, perfettamente norma-li, quando sentivano una nota musicale “vede-vano” un determinato colore (cfr. Ramachan-dran 2004: 63-83; Sacks 2008: 50-60). In termi-ni linguistici, si parla di descrizione sinestesicaquando per nominare una esperienza percettivatipica di un determinato organo di senso utiliz-ziamo termini il cui referente è legato ad un di-verso sistema sensoriale (ad esempio, dire di uncolore che è caldo, un rumore alto, una visionedolorosa e così via). Il linguaggio sinestesicoesemplifica una caratteristica generale dell’e-sperienza sensoriale, cioè il suo dipendere inmodo trasversale dalle diverse modalità percet-tive. L’esperienza percettiva si basa quindi suuna architettura neurale altamente interconnes-sa e funzionalmente unimodale e cross-modaleallo stesso tempo.

Cristina Cacciari e Manfredo Massironi sot-tolineano che quando si parla di sinestesia sipensa che ciò comporti un coinvolgimento deidiversi sensi (tatto, vista, udito), i fenomeni si-nestesici possono invece avvenire anche entrouna stessa modalità sensoriale, «come nel casodi un sinesteta che riferisce di vedere dei colorimentre legge dei numeri. Occorre comunquedistinguere fra un uso sinestetico del linguag-gio, possibile a tutti, e il percepire sinestetica-mente il mondo, una esperienza infrequente»(Cacciari-Massironi 2003: 163). Vilayanur Ra-machandran sostiene, invece, che tutti quantisiamo di fatto sinestetici: «Il cervello esegueun’astrazione sinestetica a modalità incrociata,

riconoscendo la comune caratteristica (asprez-za dei contorni, asprezza del suono), estrapo-landola e giungendo alla conclusione che sia lalettera sia il suono sono kiki, cioè appuntite/acu-te» (Ramachandran 2004: 63, 83 corsivo mio)4.Considerando l’asimmetria funzionale tra gliemisferi cerebrali5 Ramachandran formula la«teoria dell’innesco sinestetico del linguaggio»,anzi – come sottolinea – questo principio valeper il «protolinguaggio ancestrale» (Ibidem:127, nota 11).

Il test di buba-kiki dimostra che esiste unapreesistente traduzione non arbitraria dell’a-spetto visivo di un oggetto (nel giro fusiforme)in rappresentazione acustica (nella cortecciauditiva). In altre parole, prima ancora del coniodelle parole era in atto un’astrazione sinesteticaa modalità incrociata, cioè una traduzione pree-sistente dell’aspetto visivo in rappresentazioneuditiva […]. Come vi è un’attivazione incrociatapreesistente e congenita tra suono e visione (l’ef-fetto buba-kiki), così vi è un’attivazione incro-ciata non arbitraria tra l’area visiva nel giro fu-siforme e l’area di Broca che, nella parte ante-riore del cervello, genera i programmi prepostial controllo dei muscoli della vocalizzazione,della fonazione e dell’articolazione, ossia il no-stro modo di muovere le labbra, lingua e bocca[…] ritengo vi sia anche un’attivazione incrocia-ta preesistente tra l’area corticale della mano el’area corticale della bocca, che sono contiguenella mappa motoria di Penfield nel cervello(Ibidem: 78-80).

Questo concetto si può spiegare grazie al fe-nomeno della sincinesia: osservata per primoda Charles Darwin il quale notò che quandoqualcuno taglia con le forbici apre e chiude in-consapevolmente anche le mandibole; il feno-meno è stato definito “sincinesia” perché nelcervello le aree della mano e della bocca sonocontigue nella mappa corticale e forse vi è unosconfinamento di segnali tra gesti e vocalizza-zione.

Abbiamo così definito tre cose: attivazione incro-ciata mano-bocca; attivazione incrociata tra bocca(area di Broca), forma visiva (giro fusiforme) e con-torni del suono (corteccia uditiva); attivazione incro-ciata acustico-visiva, con effetto buba-kiki. Agendoinsieme, le tre attivazioni hanno un effetto sinergicodi innesco: una valanga che culmina nell’emergere diun linguaggio primitivo (Ibidem: 80)6.

Queste considerazioni fatte da Ramachan-dran per il linguaggio, non essendo più da di-mostrare la stretta connessione tra linguaggio,cultura e società, si possono applicare a qual-siasi campo del sapere. Come afferma Antoni-no Buttitta, è nella mente che vanno ricercate le

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regole della comunicazione e di conseguenzadella cultura e della società. «È nella mente cheesistono le regole finite che consentono, pro-prio perché finite, di produrre un numero infi-nito di soluzioni […] È la mente che ne deter-mina l’ordine degli elementi costitutivi, i pro-cessi, dunque la dinamica, delle inclusioni edelle esclusioni: in una sola parola il senso»(Buttitta 2000: 84).

Il nostro cervello è composto da una rete dineuroni, le cui interconnessioni si

sovrappongono alla rete di interazioni geneti-che determinando la morfogenesi dell’encefaloumano. La rete neuronale che, come sappiamo,incrocia la rete d’espressione genetica e vi si in-castra, si assesta progressivamente nel corso del-lo sviluppo embrionale e durante la maturazionepostnatale. […] Nel corso di questo sviluppopostnatale il neonato compie un numero moltoalto di esperienze in relazione al proprio am-biente circostante. La connettività del cervellodel neonato e del bambino si trova esposta al-l’impronta di quell’ambiente. […] Si crea cosìun profondo intrico “epigenetico” tra la morfo-genesi connessionale del cervello e l’attività, tan-to stimolata dal contesto quanto spontanea, chel’investe. Si produce una stabilizzazione selettivadi sinapsi che fa cedere l’involucro genetico allatraccia dell’ambiente. Ormai può svilupparsiuna cultura e trasmettersi a livello del gruppo so-ciale (Changeux 2007: 40).

Ma cos’è che ci permette di capire quelloche gli altri pensano, provano e fanno?

Ludwig Wittgenstein sosteneva che «L’im-magine mentale è l’immagine che si descrivequando si descrivono le proprie rappresenta-zioni» (1967: 153)7. La nostra capacità di rap-presentazione si manifesta grazie all’azione diinterazione con il mondo e con gli uomini e alfeedback continuo che da questa relazione na-sce. Infatti, Merleau-Ponty ha rilevato che:«La comunicazione o la comprensione dei ge-sti è resa possibile dalla reciprocità delle mieintenzioni e dei gesti altrui, dei miei gesti edelle intenzioni leggibili nella condotta altrui.Tutto avviene come se l’intenzione dell’altroabitasse il mio corpo o come se le mie inten-zioni abitassero il suo» (2003: 256). La nostracapacità di rappresentare gli altri è dovuta acellule cerebrali chiamate neuroni specchioche forniscono una spiegazione neurofisiolo-gica alle nostre interazioni quotidiane. Rama-chandran sostiene che i neuroni specchio so-no per le neuroscienze ciò che il DNA è statoper la biologia, cioè una scoperta che rivolu-zionerà l’intero campo di studi. Oltre ad averavuto un ruolo evidente nell’empatia, «i neu-roni specchio hanno forse contribuito in ma-

niera determinante all’emergere di un’altraimportante capacità della mente: l’apprendi-mento attraverso l’imitazione e la conseguen-te trasmissione della cultura» (Ramachandran2004: 107).

I neuroni specchio si attivano quando ve-diamo un’altra persona compiere un’azione, adesempio prendere una palla, e anche quandosiamo noi a compiere la stessa azione. Com-prendiamo le azioni degli altri perché nel no-stro cervello abbiamo un modello di quell’azio-ne, basato sui nostri stessi movimenti. È comese, guardando, stessimo anche noi compiendol’azione osservata. Si suppone che i neuronispecchio non si limitino solo ad accoppiareazioni eseguite e azioni osservate ma forniscanoanche una codifica delle intenzioni altrui. «Lastessa azione può essere associata a intenzionidifferenti» (Iacobini 2008: 33); i neuroni spec-chio sono, in sintesi, il correlato neuronale deiprocessi di simulazione necessari alla compren-sione delle altre menti. Questo assunto è com-provato da molti test di laboratorio realizzaticon le più innovative tecniche di neuroimaging(risonanza magnetica funzionale – fMRI; ma-gnetoencefalografia – MEG) che consentonoesperimenti non invasivi con soggetti umani(cfr. Rizzolati - Sinigaglia 2006).

Alcuni autori sostengono che la teoria feno-menologica di Husserl possa fornire alle neuro-scienze analisi ricche e dettagliate, che permet-tano la spiegazione di certi fenomeni, e offrireun metodo privilegiato per risolvere le diffi-coltà sollevate dal paradigma funzionalista (cfr.Cappuccio 2006). Infatti, lo studio della filoso-fia di Merleau-Ponty ha suggerito ai ricercatoridell’Università di Parma, che per primi hannoscoperto i neuroni specchio, «di concentrarel’attenzione sugli oggetti e sui fenomeni delmondo e sulla nostra esperienza interiore diquegli stessi oggetti e fenomeni» (Iacobini2008: 22). Una “fenomenologia neurofisiologi-ca” che supera la tradizionale divisione del cer-vello in cellule motorie, sensoriali e funzioni co-gnitive attraverso una nuova dimensione olisti-ca che vede nella percezione e nell’azione ununico processo indistinto che sfocia nell’imita-zione (cfr. Gallese-Goldman 1998; Gallese2006; Petit 2006; Varala 1996).

Richard Dawkins, nel celebre libro Il geneegoista (1976), mostra come l’imitazione sia laforza motrice per la trasmissione di atteggia-menti, pratiche, idee e persino di interi sistemi dicredenze. Dawkins prendeva a prestito concettidalla biologia e dalla genetica per evidenziareun’analogia tra la trasmissione di geni nel corso

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delle generazioni e la trasmissione di comporta-menti. La parola chiave da lui inventata fu “me-me” che nel Vocabolario della lingua italianaZingarelli è così definito: «Unità fondamentaledell’informazione culturale, per esempio un’i-dea o un determinato comportamento, trasmes-sa da un individuo a un altro verbalmente e conl’imitazione». Susan Blackmore (2002), sulla sciadelle intuizioni di Dawkins, sostiene che a di-stinguere in modo fondamentale gli umani datutti gli altri animali non sia, come diceva Ari-stotele, il linguaggio bensì la capacità di imitare.

Le indagini sperimentali condotte da Mar-co Iacobini alla UCLA di New York, partivanodall’ipotesi che la stessa azione può essere asso-ciata a intenzioni diverse e che sia il contesto adoffrire all’osservatore le indicazioni relative al-l’intenzione possibile. Questa ipotesi di ricercaha comportato l’abbandono del paradigma do-minante nel campo della psicologia dell’etàevolutiva, la “teoria della teoria” (che prevedecomplesse operazioni inferenziali per capireciò che le persone fanno) a favore della “teoriadella simulazione” (secondo la quale noi com-prendiamo gli stati mentali delle altre personefacendo finta di essere nei loro panni). Gliesperimenti hanno avvalorato l’ipotesi che sia-no i neuroni specchio che codificano le inten-zioni attraverso il modello della simulazione. Inche modo i neuroni specchio ci fanno capirel’intenzione associata all’azione? L’ipotesi di Ia-cobini è la seguente:

noi attiviamo una catena di neuroni specchio,così che queste cellule possano simulare un’inte-ra sequenza di azioni semplici che costituisce lasimulazione, nel cervello, dell’intenzione dellapersona che stiamo osservando. Per questa ipo-tesi, un sottotipo cruciale di neuroni specchiosono quelli definiti “logicamente correlati”, chenon ‘scaricano’ soltanto per la stessa azione, maanche per azioni logicamente correlate, qualierano, negli esperimenti con le scimmie, “affer-rare con la mano” e “ portare alla bocca”. Si trat-ta probabilmente di elementi neuronali determi-nanti nella comprensione delle intenzioni asso-ciate con l’azione osservata. Vedo qualcun altroafferrare una tazza con una presa di precisione,e i miei neuroni specchio della presa di precisio-ne scaricano. Fin qui sto solo simulando un’a-zione di presa. Però, dato che il contesto sugge-risce il bere, fa seguito l’attivazione di altri neu-roni specchio: sono questi i neuroni specchio“logicamente correlati”, che codificano l’azionedi portare la tazza alla bocca. Attivando questacatena di neuroni specchio, il cervello è in gradodi simulare le intenzioni degli altri […] I neuro-ni specchio ci aiutano a ricostruire nel nostrocervello le intenzioni delle altre persone, con-sentendoci una comprensione profonda dei lorostati mentali (Iacobini 2008: 72).

I neuroni specchio vengono consideratiprecursori evolutivi dei sistemi neuronali che ciconsentono di comunicare attraverso il lin-guaggio e di attivare l’empatia e la socializza-zione (si pensa infatti che certi deficit sociali,come quelli relativi allo spettro autistico, pos-sano essere dovuti a una disfunzione primariadei neuroni specchio)8.

Ritornando al personaggio di Calvino, Gur-dulù, le sue stravaganze portano inevitabilmen-te ad interrogarsi sulla relatività del mondo e sulmodo in cui noi interagiamo con esso: ascoltan-do i dodici rintocchi dell’orologio Gurdulù di-rebbe di avere sentito battere “l’una dodici vol-te”. Se il nostro cervello fosse una macchinasemplice, al medesimo stimolo dovremmo darela medesima risposta (dodici uguali rintocchi,dodici uguali risposte). Invece il nostro cervello«è fatto in modo tale che lo stimolo causato dalprimo rintocco provoca una modifica sinaptica.Quest’ultima induce una variazione nella strut-tura connessionale che riceve il secondo stimo-lo e che, pertanto, discrimina effettivamente isingoli componenti della sequenza» (Bellone1992: 111): inferiamo che “è mezzogiorno” per-ché, secondo Quine (2004), le relazioni tramondo e comportamento sono, appunto, fruttodi inferenze. In questo modo il dualismo mente-mondo viene a decadere a favore di un cervellodinamico e interagente con il mondo esterno at-traverso i suoi recettori sensoriali. Ci troviamodi fronte a un intersecarsi di corpo e mondo:«nessuno di noi ha consapevolezza della stra-grande maggioranza dei processi corporali me-diante i quali l’organismo percepisce e valuta[…] dei rapporti tra sensori, corpi e comporta-menti» (Bellone 2000: 131).

L’interazione mente/mondo avviene quindiattraverso l’utilizzo dei sistemi neuronali costi-tuiti dai neuroni specchio che attraverso l’imita-zione permettono di comprendere quello chegli altri fanno nel loro ambiente/mondo. Asso-dato questo postulato scientifico di matrice spe-rimentale, possiamo chiederci come allora av-venga la comprensione tra due persone che noncondividono la Rete/Sfondo searliana o nonspartiscono la “tradizione” macdawilliana o co-me si possa utilizzare spazialmente il linguaggioche è connotato all’interno di un circuito bifac-ciale chiuso (nastro di Mobius) e lo si possacomprendere solo stando all’interno di esso.

Nelle indagini etnografiche condotte con ilmetodo della ricerca sul campo, inaugurate daMalinowski, l’antropologo mette in atto l’“os-servazione partecipante”. Questa locuzione os-simorica, dal momento che la partecipazione si

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oppone radicalmente all’osservazione, dà con-to dei due aspetti che caratterizzano le discipli-ne antropologiche: la “partecipazione” e l’“os-servazione”. La prima implica che il ricercato-re si faccia accettare dalla comunità che studiae comprenda il suo modo di esprimersi e dipensare. Questo servirà a conferire alle sue co-noscenze ampiezza e profondità, perché, parte-cipando egli verrà in possesso di un numeromaggiore di informazioni. A un livello di piùprofondo impegno e di maggiore condivisione,la partecipazione consentirà la conoscenza“dall’interno”, cioè il ricercatore sarà in gradodi descrivere la cultura osservata. Partecipan-do, allora, l’osservatore creerà le condizioni perla comprensione della vita profonda della co-munità. La partecipazione tuttavia comporta ilrischio di perdita della capacità di comprende-re veramente, dal momento che vivere nonsempre e necessariamente è conoscere.

La pratica della “osservazione” preserva daquesto rischio. L’osservazione pretende il distac-co dalla situazione studiata, la capacità di esser-ne fuori (mentre si è, partecipando, dentro):questa distanza consente al ricercatore di com-piere analisi col soccorso dei suoi quadri concet-tuali e dei suoi strumenti scientifici, che sonoesterni alla cultura osservata. Per far ciò bisognain primo luogo individuare gli elementi primariche permettono di procedere all’osservazione.Questa macro categoria va distinta, secondoFrancesco Faeta, in tre livelli:

A un primo livello, le informazioni vengonopercepite dall’occhio, secondo un processo di ti-po biologico (l’occhio guarda) […]. A un secon-do livello […] le informazioni vengono ricono-sciute e immesse in reti di significato culturale(l’occhio vede) […]. A un terzo livello le infor-mazioni visive così elaborate in forma di cono-scenza sono inserite all’interno di una prassi con-tinua e finalizzata (l’occhio osserva). L’osserva-zione, dunque, è una pratica visiva tesa a metterein relazione gli oggetti e gli eventi […] all’inter-no di un campo di interazione sociale storica-mente definito […] al fine di produrre rappre-sentazioni della realtà (rappresentazioni mentali,descrizioni scritte, immagini fotografiche, filmi-che o videografiche, ecc.). Osservare significa, insintesi, vedere in situazione e per un fine (cultu-rale, sociale e politico) (Faeta 2003: 18-19).

L’osservazione è dunque indispensabile allaricerca quanto la partecipazione, a patto che sisuperino i rischi che derivano dall’estremizza-zione dell’uno e dell’altro atteggiamento. È ne-cessario, affinché si creino le condizioni più fa-vorevoli alla ricerca, che tra le due componentisi formi un equilibrio omeostatico.

La critica riflessiva ha concentrato la propriaattenzione sulla scrittura del testo tralasciandol’esperienza dell’osservazione, sulla quale la pra-tica della ricerca sul campo si costruisce, e ha ra-ramente prestato attenzione all’esperienza in-corporata dei ricercatori. Il fatto, cioè, che il ri-cercatore utilizza il proprio corpo come stru-mento di ricerca e attraverso il suo utilizzo si“accultura” durante il suo permanere sul cam-po. Attraverso lo scontro, e quindi la fusione,dei due termini sopra analizzati – “partecipazio-ne” e “osservazione” – si crea il nuovo concettodi riflettività. Csordas ha parlato di riflettivitàcome elemento del dialogo con il concetto di ri-flessività, cioè come nozione complementare,invitando a considerare prioritari i processi cor-porei attraverso i quali ci si accosta alle realtàche si studiano (cfr. Csordas 2003: 28)9.

Non a caso l’attività di trasformazione delpercepito in rappresentazione è più difficile inambito antropologico che nella vita quotidiana.«Ciò che viene percepito, stenta in ambito et-nografico, a divenire segno, a inserirsi in unorizzonte sincronico di relazione, a trovare unasua giustificazione diacronica» (Faeta 2003:20). Quando non si riesce a far coincidere il «si-stema di assi invariabilmente connesso con ilnostro corpo, che portiamo ovunque con noi,come dice Poincaré, e che struttura lo spaziopratico» con la nostra ricostruzione virtualedella situazione osservata, ciò significa che l’an-tropologia

deve solo rompere con l’esperienza indigenae la rappresentazione indigena di tale esperien-za; tramite una seconda rottura, essa deve mette-re in discussione i presupposti inerenti alla posi-zione di osservatore esterno che, preoccupato diinterpretare delle pratiche, tende a importarenell’oggetto i principi della sua relazione conl’oggetto […] la conoscenza che potremmo chia-mare prassiologica ha come oggetto non solo il si-stema delle relazioni oggettive che costruisce ilmondo della conoscenza oggettivata, ma anchele relazioni dialettiche tra tali strutture oggettivee le disposizioni strutturate all’interno delle qua-li esse si attualizzano e che tendono a riprodurle,cioè il duplice processo di interiorizzazione del-l’esteriorità e di esteriorizzazione dell’interiorità[…] La conoscenza prassiologica si distinguedalla conoscenza fenomenologica, di cui integrale acquisizioni, per un punto essenziale: comel’oggettivismo, essa suppone che, in contrappo-sizione all’evidenza del senso comune, l’oggettoscientifico sia conquistato attraverso un’opera-zione di costruzione che è anche indissolubil-mente una rottura rispetto a tutte le rappresen-tazioni “precostituite”, come classificazioni pre-stabilite e definizioni ufficiali (Bourdieu 2003:180, 185-186).

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L’unico mezzo che permette di realizzarequesta duplice rottura epistemologica è l’espe-rienza multisensoriale affidata al “corpo pro-prio” del ricercatore; questi attraverso l’“incor-porazione del mondo ricercato” cerca di esperi-re l’habitus culturale che custodisce i diversi per-corsi possibili della mappa della vita dell’uomo.

Quanto fino adesso detto si può concretiz-zare solo se spostiamo il concetto di riflessivitàdal “testo” al “campo”. La conoscenza etno-grafica diviene possibile solo se si è capaci dipassare attraverso le tre fasi tipiche di ogni ritodi passaggio: l’abbandono iniziale del proprioruolo di antropologo, la susseguente immersio-ne totalizzante in un altro sistema di vita e ilconclusivo ritorno (non sempre facile) attraver-so la narrazione sinestetica della propria espe-rienza. Se invece di riferirsi a tutti i campi pos-sibili ci si limita ad indagare contesti rituali dif-ficilmente esperibili, si capisce come solo gli“informatori/etnografi” che padroneggiano ildoppio codice e che non “fotografano” unaparte della realtà attraverso il loro racconto et-nografico, ma effettuano un “autoritratto”,un’autobiografia etnografica, possono riuscirea dare senso alle pratiche rituali più disparate.In questa nuova visione metodologica il ricer-catore è coinvolto in maniera pre-riflessiva e vi-scerale nella pratica della ricerca sul campo esolo attraverso il suo coinvolgimento sensorialee extra-sensoriale gli si dischiudono ambiti e re-lazioni altrimenti precluse. La ricerca etnogra-fica non consiste soltanto in dialoghi ma anchein esperienze corporee che hanno un ruolo fon-damentale nella produzione delle rappresenta-zioni etnografiche. Come suggerisce Csordas(2003) «mettendo sulla scena analitica anche ilricercatore come soggetto incorporato» la cul-tura diventa un processo intersoggettivo diproduzione di significati «in cui il ricercatorenon descrive un sistema di simboli ma è eglistesso implicato nella realtà che indaga e dun-que è attore partecipe di essa nella sua veste disoggetto incorporato» (Quaranta 2008: 65). Iltanto vituperato ossimoro antropologico della“osservazione partecipante” riacquista allorasenso e significato se si effettua «una deviazio-ne dall’osservazione partecipante all’osserva-zione della partecipazione» (Tedlock 1991: 69).

Questa posizione teorica è avvalorata, neglianni Settanta del Novecento, dall’antropologiadell’esperienza straordinaria. Goulet e Miller(2007) propendono per una partecipazione ra-dicale alla vita della comunità che si studia, cheampli anche l’adozione delle prospettive sia eti-che che epistemologiche dei nativi come stru-

menti indispensabili per la conoscenza del con-testo etnografico indagato. Goulet e Miller siricollegano a Turner e lo contrappongono aGeertz, concludendo che l’antropologia espe-rienziale debba «invece riflettere sulle cono-scenze che si producono partecipando attiva-mente alle performance in atto. Imparare signi-fica necessariamente partecipare (non soloascoltando e parlando ma anche agendo insie-me) e trasformarsi» (Aria 2007: 80-81).

Nel mondo del rito, infatti, parlare non ser-ve mai a informare, perché la parola non è sa-pere ma è sempre potere (cfr. Buttitta-Miceli1989, Giallombardo 2003, Severi 2004), ed èimpossibile quindi informare un etnografo sulcontenuto della parola “detta” perché altri-menti la parola perderebbe il suo potere risolu-tivo. Bisogna allora compenetrare nel discorsorituale, viverlo nel proprio corpo ed essere ingrado di trovare in se stessi quei significati al-trimenti inaccessibili. Come abbiamo visto, ri-ferendo dei neuroni specchio, riusciamo a in-tendere i comportamenti degli altri simulando-ne le procedure mentali in riferimento alla re-te/sfondo, ma «nel momento in cui spieghiamoil perché dei loro atti, sia pure provvisoriamen-te, noi ci identifichiamo con essi. Sospendiamoil nostro io e siamo gli altri. Non a caso dicia-mo, e le parole non sono mai innocenti: “mimetto nei tuoi panni”» (Buttitta 2003: 54). Intale prospettiva di può considerare anche la po-sizione di Johannes Fabian: «there is an ecstaticside to fieldwork which, again, should not bewritten off as a quirk but counted amog theconditions of knowledge production, and hen-ce of objectivity» (Fabian 2001: 31). Per questimotivi il nuovo paradigma antropologicodell’“osservazione della partecipazione” cheriformula il metodo della ricerca sul campo, inquesti termini e con questi confini, potrebbefar uscire fuori dalle secche ermeneutiche in cuisi è incagliata la nave dell’antropologia.

Note

1 Per una panoramica sugli studi di neuropsicologiasu Figura/Sfondo cfr. Savardi-Mazzocco 2003.

2 Per l’applicazioni della quadripartizione di Hjelmsleve del carré semiotico di Greimas all’antropologia cfr. Buttit-ta 1979.

3 Furono due matematici tedeschi, August FerdinandMöbius e Johann Benedict Listing, indipendentemente

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l’uno dall’altro, che si occuparono peculiarmente della to-pologia di questi nastri. Cfr. Pickover 2006.

4 La teoria si basa sul “test di buba-kiki” nel quale bi-sognava associare le parole “buba” e “kiki” a due figure:«una forma ameboide tondeggiante dai contorni morbidi eondulati e una forma angolosa con i contorni aguzzi e fra-stagliati del vetro rotto […] Il 98% delle persone ha bat-tezzato buba la forma arrotondata e kiki la forma acumi-nata […] le parole hanno qualcosa in comune con il suono:l’aspetto visivo di kiki ha una qualità aspra che il suonokiki, rappresentato nella corteccia uditiva dei centri acusti-ci del cervello, condivide» (Ramachandran 2004: 74-75,corsivo mio).

5 I due emisferi sono anatomicamente quasi identicima funzionalmente differenti: «Le proprietà funzionalidelle zone corticali “primarie” – dove le informazioni visi-ve, uditive o somato-sensoriali sono “proiettate” sulla cor-teccia – sono simmetriche. Semplicemente, il campo visi-vo di destra proietta alla corteccia visiva di sinistra, e vice-versa; le informazioni sensoriali provenienti dalla metà didestra del corpo proiettano alla corteccia somato-senso-riale di sinistra; e così via. Lo stesso avviene per l’unità ter-minale “dell’azione” del sistema nervoso, ovvero la cor-teccia motoria primaria, che è organizzata in modo altret-tanto simmetrico» (Solms - Turnbull 2004: 270-271).

6 Per un esteso confronto in ambito antropologico delbinomio funzionale mano/bocca cfr. Leroi-Gourhan checonsidera il binomio mano-utensile e faccia-linguaggiofondamentale per gli Antropiani: «facendo intervenire inprimo luogo la mobilità della mano e della faccia nel mo-dellare il pensiero in strumenti di azione materiale e in sim-biosi sonori […] si può quindi affermare che se, nella tec-nica e nel linguaggio di tutti gli Antropiani, la mobilità con-diziona l’espressione, nel linguaggio figurato degli Antro-piani più recenti la riflessione determina il grafismo» (Le-roi-Gourhan 1977: 221-222). Cfr. anche Corballis 2008.

7 Sul rapporto gesto/parola in Wittgenstein cfr. Cal-mieri 1997: 114-120.

8 L’autismo è considerato dalla comunità scientifica in-ternazionale un disturbo che interessa la funzione cere-brale; la persona affetta da tale patologia mostra una mar-cata diminuzione dell’integrazione sociale e della comuni-cazione. Più precisamente si dovrebbe parlare di Disturbidello spettro dell’autismo (DSA o ASDs, Autistic Spec-trum Disorders). Cfr. Frith 2005; Sacks 1998; Surian 2005.

9 Un primo momento di questo rapporto dialogico tra ri-flessività e riflettività è rappresentato dalle autobiografie rea-lizzate dai nativi, le storie di vita che tanto interesse hanno su-scitato nell’antropologia contemporanea. In questo senso si-curamente le storie di vita portano l’antropologo su un “cam-po” che è sì un “testo”, ma un testo che introduce «lo spetta-colo meraviglioso – per le scienze sociali – di un mondo ‘al-tro’ visto dall’interno, approfondendo l’idea centrale per l’an-tropologo dello studio delle autobiografie, quella del rappor-to tra regole e tratti comuni della società e variazioni indivi-duali, e quindi tra determinismo socio-culturale e libertà […]è lo scarto dell’individuo che vive e interpreta originalmentele regole collettive, a far sentire nelle biografie una idea di “li-bertà individuale”. È questa libertà che produce in noi cheleggiamo lo spettacolo meraviglioso e spesso imprevisto, diuna vita raccontata da dentro una cultura, di una cultura rac-contata da dentro una vita» (Clemente 2007: 35).

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RagionareNomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia

Marco Assennato

La città, sotto i colpi del divenire incessante,ha perduto il suo nome proprio. Attraversandol’epoca moderna, resistendo come oggetto con-creto alle piroette postmodern è giunta, l’anticapolis, al suo correlato opposto, riconfigurando-si sino a render plausibile la domanda circa lasua effettiva esistenza. Mai il mondo è stato co-sì urbanizzato, mai la città è stata più simile adun terrain-vague: spazio vuoto, residuo, eppurespazio di relazione, d’incontri inaspettati. Ciòche colpisce però, nella vicenda, è la persistentepotenza metaforica del problema urbano. Nellasua scomposta e tecnica morfologia la città per-mane come analogo politico. La sua fatica è lamedesima della forma politica. Il suo dilemma èdilemma del progetto (Cfr. Cacciari 1981): delfare le cose come vorremmo che fossero, darviforma in direzione futura. Metafora politica,metafora pedagogica, pure nella sua crisi. E delresto, senza perciò intendere la scoperta di unaqualche univoca origine, il rapporto tra città, si-stema politico-normativo ed educazione, è anti-co come il mondo. Da ultimo, profondamenteconnesso alla globalizzazione neoliberista il rap-porto tra cultura, identità, territorio, educazio-ne e politica è mutato ed in qualche misura pa-re essersi disperso. La città è il terrain vague sucui va in scena questa dispersione.

Ora, una analisi della città in prospettiva po-litico-pedagogica è tutt’altro che scontata. Oc-corre certo volger lo sguardo al passato. L’e-sempio deve essere trattato come principio d’a-nalisi delle strutture nelle quali le formazionisociali si sviluppano ricorrentemente – in parti-colare nei tre livelli di forma urbana, dispositi-vo pedagogico e dispositivo politico-normati-vo. Perciò interessano, oggi, tanto la polis,quanto l’urbs-orbs dell’Impero romano, e anco-ra Parigi, capitale della modernità e la città ge-nerica di Rem Koolhaas. E ciò anche a costo ditrattare queste forme sottraendole al conti-nuum del tempo, trascurando passaggi, esaltan-

do rotture, crisi, trasformazioni. Il discorso sul-la città è preso in una morsa: tra enfasi tecnolo-gica, proiezione infinita d’una mobilità tantopervasiva quanto immateriale – il sogno a-topi-co della città di bits, della comunicazione, vir-tuale (Mitchell 1995; Castells 2004; Griffa2008) – e l’idea nostalgica di un luogo origina-rio, ecologicamente puro, capace d’ispirare larinascita di significati e istituire identità – il ri-torno al locale, all’organico, alla città genetica,omogenea (Krier 1995).

Se la città tecnologica esaspera l’approcciotecnico-funzionalistico trascurando ogni riferi-mento al senso profondo dell’abitare in formaaggregata, e non vede l’intrinseca potenza poli-tica dello spazio urbano (dalla quale sorge il pe-dagogico come problema sociale), l’altra, no-stalgicamente connessa a passati immaginari,propone di arrestare il tempo, per giungere in-fine ad un ritrovato e irenico spazio unitario disignificato che si vorrebbe guastato dalla mo-dernità e dalla tecnica. In entrambi i casi è con-fermata «la povertà concettuale del nostro di-scorso sulla città» (Rykwert 2002), incapace ditenere insieme le diverse profondità del discor-so urbano. La grammatica architettonica equella antropologica tendono a comporre duelingue diverse e intraducibili, rispetto ad un di-scorso che invece è sempre, proprio nella suadimensione progettuale, tecnica, funzionale,razionale, anche un problema di pensiero, con-nesso a miti, sogni, vita, immaginazione, signi-ficato e sfera della formazione. Insomma, a di-spetto della sua immagine frantumata la città,come ha notato Gregotti, resta «il più impor-tante monumento costruito dall’uomo, la rap-presentazione fisica delle volontà, delle speran-ze e delle memorie di una intera collettività»(Gregotti 2009: 77).

Parallelo allo sviluppo tecnico della formaurbana in forma metropolitana, e accanto alpassaggio dalla metropoli industriale alla post-

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metropoli, s’è verificato un secondo e più com-piuto sradicamento. Il mondo in cui viviamo èintrinsecamente nomade. Il cittadino futuro èapolide. La città che viene dovrà essere casa dichi non può sostare. O non essere più. Insiemea ciò, il mondo ha perso ancoraggi stabili: nelproliferare di confini e piccole patrie si strut-tura uno spazio compresso e ipertrofico, inte-ramente occupato dalla post-metropoli, sulquale il dispositivo politico un tempo buono afare civiltà, spazio comune, si struttura comeImpero articolato in una miriade di poli me-tropolitani interconnessi. Attorno a questo fe-nomeno implode la relazione tra città, politicae formazione (la terza come formazione fina-lizzata alla buona vita in comune). Ma il pro-blema si pone all’altezza delle forme generalidella città, del politico e del pedagogico. Prividi forma generale non c’è progetto. Senza pro-getto non può esserci città, non può esserci po-litica, né pedagogia.

Prendiamo il piano pedagogico: per quantoci si sforzi di cercare una «pedagogia critica che[…] può solo proporre l’appartenenza come ri-sultato, sempre provvisorio, di una ricostruzio-ne a forte curvatura etico-politica ed una comu-nità come stile di vita, sempre da ridiscutere»(Marino 2005: 52) questa disciplina risulta infi-ne autocontraddittoria o semplicemente muta.Al più si tratta di buone intenzioni di illumina-ti formatori che non vogliono prevaricare suglialtri. Oppure, peggio, si riduce l’intervento pe-dagogico alla rilevazione delle forme di seg-mentazione sociale, frammentazione della per-sonalità, individualizzazione competitiva dellesoggettività che hanno reso liquida questa no-stra modernità (Bauman 2004). Così non v’èpiù critica, ma descrizione dell’esistente. Delresto, pensare la città futura, come la politica ela pedagogia, significa in ogni caso partire daldato descrittivo, prender atto della scomposi-zione e ricomposizione parziale delle relazionisociali, per individuare un orizzonte di sensogenerale. Quest’ultima mossa però, è bloccata.Nel pensiero prima che nei fatti.

Il nesso tra città, politica ed educazione si èistituito, nel mondo antico, a partire dal rap-porto tra accesso alla cittadinanza e cultura delsingolo individuo, o del gruppo. La città me-tafora della democrazia, chiedeva una specificatecnica in grado di produrre integrazione e so-sta all’interno della struttura politica democra-tica. Il cittadino era parte dello spazio comunein quanto era stato educato ad esser tale. Traforma urbana, forma politica e relazione peda-gogica correva un dialogo strettissimo e cogen-

te. Oggi, ormai compiutamente di fronte allasegmentazione sociale, allo sradicamento dellacittadinanza, alla mobilità culturale, non simuove critica che non sia nostalgica. Tale im-postazione si basa sull’immagine di un passatoomogeneo e pacificato, un’età dell’oro soggettaai colpi del divenire storico che ne produconola decadenza. Ad esempio si ipotizza che la for-ma urbana abbia una fonte archetipica compat-ta, la polis, che si è articolata nel corso della sto-ria. Un nucleo originario nel quale tempo e spa-zio, cittadinanza, territorio e stato coincideva-no, e che è stato disarticolato dalla forma puradella relazione capitalistica: lo scambio e la cir-colazione di merci. Il piano generale, dissoltonella pluralità degli scambi strumentali, perconseguenza, risulta oramai impensabile, al piùse ne ammette un ricordo lontano, che svolgeappunto la funzione di origine.

Da qui in avanti, si può guardare alle strate-gie individuali di risignificazione dell’esperien-za, sempre esposte alla sussunzione nella sferadello scambio mercantile, o pianger miseria esognare nuove comunità come enclaves omo-genee di senso nello spazio globale. Questa no-stalgia del locale, del micro-mondo, ispira ipensatori della comunità a proporre uno spa-zio limitato da contrapporre alle tendenze glo-bali e incrocia le teorie postmoderne: la diffe-renza è micro-identità da preservare rispettoall’arroganza dello spirito del tempo. Così, neltessuto metropolitano, basta rilevare il caleido-scopico catalogo dei marginali, degli esclusi,dei devianti, per ricostruire poi l’arlecchinescoimmaginario di un mondo altro che si contrap-pone a quello dominante. Ma la globalizzazio-ne istituisce davvero uno spazio culturale omo-geneo? Questa è la prima domanda. Come sicostruisce l’identità nell’era globale? Esisteuna forma culturale della globalizzazione? Chisono i cittadini dell’Impero globale? E che ef-fetto ha tutto ciò sulla forma della cittadinan-za? Solo dopo aver risposto a queste domandepotremmo pensare la città, e indagarne il rap-porto con la formazione e la politica.

Cultura, immaginario ed ecumene globale

Già Marshall McLuhan negli anni Sessantaaveva definito l’estensione del pensiero tecno-scientifico occidentale a tutto il pianeta con lafortunata formula di villaggio globale (McLuhan1967), alludendo così ad una ipotetica omoge-neizzazione dello spazio di pensiero. Con piùprecisione, potremmo riferirci ad un concetto

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M. Assennato, Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica e pedagogia

analogo, seppure depurato dalla fuorviante pre-sa irenica dell’espressione “villaggio” (che alludein qualche misura ad un luogo nel quale i rap-porti interpersonali sono diretti e “spontanei”),quello di «ecumene globale» definito da AlfredKroeber (Kroeber 1952). L’estensione dell’ecu-mene globale richiama l’antichità classica, matravalica il mondo conosciuto dai greci e dai ro-mani per coprire tutto intero lo spazio planeta-rio: un sistema nel quale tutto è dentro e non v’èpiù un fuori. In questo sistema decentrato e uni-co, il territorio perde la capacità di fornire iden-tità stabili, piuttosto si lascia attraversare daidentità multiple, erratiche, diasporiche. Questotratto muta completamente i caratteri della ri-flessione sul concetto di cultura. Con Ulf Han-nerz possiamo convenire nell’affermare che«quando la gente circola con i propri significatie quando i significati trovano il modo di circola-re anche senza la gente, i territori non possonoveramente essere i contenitori delle culture»(Hannerz 2001: 10). Dunque, il movimento èdoppio: di unificazione ma in uno spazio globa-le differenziato. Tra globale e locale si istituiscequi un paradosso: il piano generale è fondato sudifferenze, diaspore, attraversamenti, pur essen-do unitario; il piano locale invece, pur essendodisperso e frammentato si immagina come omo-geneo, identico e comunitario.

In questo quadro le peculiarità “nazionali”,afferma Giuseppe Burgio, «vanno annoveratenell’ambito dell’etnico inteso come particola-rità esotica perfettamente inserita nel grandemercato mondiale […], ridotta soltanto amerce o ad attrazione turistica. È difficile –continua Burgio – rintracciare una cultura,un’identità […] che sia distinguibile da quel-la, globalizzata e ormai egemone in tutto ilpianeta, dell’Occidente» (Burgio 2007: 74-75). L’etnico è così funzione del globale, e intal senso le ricostruzioni localistiche sono fin-zioni, artifici, hanno perduto, ammesso chemai l’abbiano avuta, ogni densità ontologica.Le trasformazioni indotte dal quadro descrit-to piegano la percezione del tempo. Infatti illibero mercato dei valori etnico-nazionali èedificabile solo a partire dall’acquisito annul-lamento del tempo storico, parallelo all’annul-lamento dello spazio geografico. Tempo eidentità sono legati dalla potenza significantedella storia. Ma è proprio questa potenza adessere rovesciata, secondo Roberto Finelli, in«assenza di senso e profondità della storia».Tale assenza si dà in un nuovo quadro percet-tivo nel quale, scrive Finelli, «prevale la su-perficie e la seduzione della forma sullo spes-

sore del contenuto, la realtà perde ogni siste-maticità di nessi e si fa valere la giustapposi-zione di figure, ciascuna di volta in volta piùappariscente delle altre. La storia diviene unmagazzino, un deposito di eventi, personaggi,stili, da cui estrarre materiale depositato e ac-cumulato, per ricostruire a proprio piacimen-to il volto sia del passato che della propriacontemporaneità» (Finelli 1998: 20). Dal ma-gazzino della storia vengono presi i tratti so-matici di nuove identità transtemporali. Manon è più discorso storico, piuttosto anamne-si, citazione, meta-discorso: un lavoro d’im-maginazione sul discorso storico disperso uti-le a riconfigurare tratti d’identità deboli.

Così, Occidente diviene il nome proprio del-l’ecumene globale, non nel senso di una specifi-ca entità geoculturale, complesso di praticheculturali particolari identificabili con una baseterritoriale, ma un modello narrativo, una ge-nealogia immaginaria, che risale alla Grecia diSocrate, Platone, Pericle e poi di Sofocle, Ari-stotele, Archimede e arriva ai giorni nostri pas-sando per il cristianesimo medioevale, la sco-perta dell’America e l’espansione neocoloniale.Questa genealogia immaginaria, come ha nota-to Giuseppe Mantovani:

è essenzialmente una storia morale centratasull’affermazione della libertà personale e dell’in-dipendenza politica, che culmina nella conquistadei diritti di libertà e […] del diritto alla felicità.Questa narrazione genera un’immagine isolazio-nista dell’occidente, che viene costruito non co-me il luogo di scambi che è sempre stato, con con-fini permeabili e infinite differenze al suo interno[…]. Naturalmente questa genealogia immagina-ria contiene omissioni e deformazioni. […] Nonsarebbe facile completare l’elenco delle influenzeche la genealogia ufficiale dell’occidente deveignorare per costruire il mito della discendenzaeuropea dalla Grecia di Pericle […]. La diversità,non l’omogeneità, è il carattere distintivo di ognicultura vitale (Mantovani 2004: 34-35)

La ricostruzione narrativa e ideologica del-l’Occidente come nome proprio dell’ecumeneglobale, possiede la forza di un dispositivo po-litico costituente, nonostante appaia segnata dauna fantasiosa continuità storica. I due avveni-menti simbolicamente centrali per questa ope-razione sono, ancora secondo Burgio «l’espul-sione degli ebrei dalla Spagna (con la creazionedi un paese omogeneamente cattolico) e la sco-perta dell’America (che darà il via al dominiocoloniale globalizzatore)» (Burgio 2007: 75).Attraverso questi eventi, spiega Arjun Appadu-

Ragionare

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rai, si è costituita l’idea «di comunità caratte-rizzate da comunanze biorazziali (al loro inter-no) e di differenze biorazziali (verso l’esterno)»vero e proprio «marcatore critico della svoltacoloniale nella politica del moderno stato na-zionale» (Appadurai 2001: 169). Ogni trasfor-mazione politico-economica del capitale portain grembo uno specifico standard di raziona-lità, ovvero agisce contemporaneamente sulpiano dell’immaginazione e della morfologiadel pensiero: così Occidente e Globalizzaione,in questo primo movimento, si fondono, l’unodiventa il nome dell’altro. A tal proposito Ser-ge Latouche invita a non limitare l’analisi all’i-dea di un dominio militare coercitivo o ad unmodello economico, ma a vedervi il trionfare diun modello culturale che si considera universa-le, in forza del quale non ha semplicemente uni-ficato l’occidente, ma ha occidentalizzato il mon-do1. Perciò «risulta – secondo Burgio – unaomogeneità culturale spaventosa che rendepartecipi dello stesso sistema di valori personedi Napoli, Bristol, Barcellona, New York, Ca-sablanca, Hong Kong, Stoccolma… l’interopianeta […] è ormai all’interno di uno scenariounico che possiamo approssimativamente chia-mare occidente» (Burgio 2007: 76).

Ma esistono altre globalizzazioni. Al movi-mento di occidentalizzazione s’interseca in mo-do complementare e antagonista un secondomovimento di disseminazione che rende effi-mero il primo. Un movimento di immaginazio-ne anch’esso, ma stavolta pluralistico, «una co-struzione transnazionale complessa di panora-mi immaginari» secondo la definizione di Ap-padurai:

il mondo in cui viviamo oggi è caratterizzato da unruolo nuovo assegnato nella vita sociale all’immagi-nazione. Per comprendere questo ruolo dobbiamomettere assieme la vecchia idea di immagine […]; l’i-dea di comunità immaginata […]; e l’idea francese diimaginaire come panorama costruito di aspirazionicollettive, […] mediato dal prisma complesso dei me-dia moderni. Immagine, immaginato, immaginario: sitratta in tutti i casi di termini che ci dirigono verso[…] l’immaginazione come pratica sociale. […] L’im-maginazione è diventata un campo organizzato dipratiche sociali una forma di opera e una forma di ne-goziazione tra siti d’azione (individui) e campi glo-balmente definiti di possibilità (Appadurai 2001: 50)

La rottura di senso tra territorio, identità ecultura, lascia emergere una moltitudine dia-sporica che negozia la propria identità con ilpiano globale, utilizzando esattamente l’esten-sione massima dell’ecumene ma attraversomolteplici dispositivi di risignificazione dei

tratti culturali. La base materiale di questa di-namica risiede nei processi di migrazione cheattraversano il pianeta, anch’essi presi dal dop-pio vincolo della globalizzazione del mondo,ovvero dall’avvento del tempo dell’era planeta-ria e da controspinte nazionalistiche o locali-smi. Il luogo geografico nel quale va in ondaquesta messinscena è la post-metropoli, la città-territorio che tendenzialmente copre il globo. Idue livelli di identificazione vengono utilizzatidai soggetti diasporici che attraversano il pia-neta, di volta in volta attivando il sistema glo-bale o la traduzione locale, persino simultanea-mente, determinando così un vero e propriocaleidoscopio culturale per il quale il mondo èovunque, in ciascuno di noi, ma spesso si con-trappone al mondo degli altri.

Migrazioni

La base materiale dell’ambigua tensione tral’istanza cosmopolitica e le controspinte nazio-nalistiche interne all’ecumene globale è costitui-ta dalle migrazioni contemporanee. Seppureincapace della densità e della stabilità collettivanecessarie alla produzione di potenza politica,il fenomeno delle migrazioni genera, conespressione foucaultiana, «il rumore sordo eprolungato della battaglia» (Foucault 1993:340). L’unico diffuso contropiano opposto aldomino emerge proprio dal più debole dei sog-getti incarnati che attraversano il pianeta, «inquesta umanità centralizzata, effetto e strumen-to di complesse relazioni di potere, corpi e for-ze assoggettate […], oggetti per discorsi che so-no a loro volta elementi di questa strategia»(Ibidem). Il processo non va dunque letto conattenzione esclusiva alle incarcerazioni e ai si-stemi di potere del nuovo sorvegliare e punireglobale, ma scorgendo, come ha fatto Moulier-Boutang «il racconto del suo contrappunto cheemerge nelle evasioni, nelle fughe, nelle diser-zioni, nelle migrazioni» (Moulier-Boutang2002: 27). Infatti ancora secondo Moulier-Bou-tang «c’è qualcosa di più della resistenza tena-ce, instancabile e ogni volta vinta del Lumpen-ploretariat […]. Al di qua del proletariato, maanche […] al di sopra, il sovra-proletariato co-stituisce la vera e propria trama della condizio-ne salariale […]. Questo fa del capitalismo-mondo un sistema non semplicemente freddo,[…] ma un movimento senza fine e riposo»(Ibidem).

La globalizzazione andrebbe osservata po-nendo attenzione al carattere multidimensiona-

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le del processo, alle trasformazioni che esso pro-duce e alle contraddizioni che innesca. Nessunanostalgia: occorre piuttosto un balzo in avanti.Assistiamo alla istituzione di un corredo di nuo-vi reati alcuni addirittura di sapore premoder-no, che definiscono una nuova tecnologia del-l’assoggettamento e del dominio, un insieme diprocedure per incasellare, valorizzare, rendereutili gli individui nel passaggio storico. Il pode-roso sviluppo tecnico, che consente livelli dimobilità alti in condizioni di efficienza inedite,pare limitato dalla decisione politica. Se le mer-ci non hanno dogane, le persone si trovano difronte una mappa mobile di confini chiusi e in-valicabili. Ma la tecnologia di selezione e seg-mentazione della migrazione contemporaneanon indugia sull’esclusivo dispositivo d’esclu-sione: cioè sulla distinzione rigida, di confine,tra chi è dentro e chi è fuori dalla fortezza occi-dentale, chi è dentro e chi è fuori dalla cittadi-nanza. Ma si basa su processi di inclusione diffe-renziale che definiscono una stretta relazione tramobilità del lavoro, istanze di accumulazionedel capitale e forma politica. Ci si deve potermuovere, ma sotto controllo.

Particolare interesse ha la questione se guar-data dal punto di vista della composizione delsoggetto produttivo nel mondo globale. Il regi-me globale di governo delle migrazioni costrui-sce un insieme di filtri e dighe che operano suun fenomeno letto nei termini, spesso forzati,dei flussi (o peggio delle invasioni). Non si trat-ta di una totale chiusura, almeno sulla carta.Del resto la mobilità globale non pare in alcunmodo arrestabile. Questi filtri che materializza-no la militarizzazione dei confini e la costruzio-ne di campi d’internamento ed espulsione, ven-gono messi in opera dagli stati nazionali, dalleformazioni post-nazionali (come l’UE) e danuovi attori globali (Ong). A dispetto della cul-tura xenofoba che sorregge queste opzioni, lagovernance globale non ha come obiettivo l’e-sclusione dei migranti ma è animata da una in-tenzione utilitaristica. Si tenta cioè un’opera-zione di integrazione governata, un processo diinclusione nel mercato del lavoro attraverso laclandestinizzazione dei soggetti. Come ha am-piamente dimostrato Yann Moulier Boutanglungo l’intero arco della storia del capitalismo idispositivi di liberazione del lavoro dalle catenefeudali, corporative e locali, attraverso l’iscri-zione nel rapporto di fabbrica hanno semprevisto un processo parallelo di imbrigliamento econtrollo degli spostamenti e delle migrazioni.Così, oggi l’abbattimento delle barriere per lemerci comporta il riarmo dei confini per le per-

sone. Se il mondo delle merci può godere diuna regolazione spontanea (mercantile) quellodelle persone va controllato politicamente. Iprocessi migratori sotto questo rispetto hannoun rilievo strategico e una forza ermeneutica“universale”.

Uno sguardo sui marginali, sulla misère dumonde (Bourdieu 1993), mette in luce gli ele-menti contraddittori della globalizzazione: nonpiù dato naturale, irenico, spontaneo ma pro-dotto di conflitti e contraddizioni. Nella guerraglobale – cornice generale dell’ideologia dellasicurezza e del controllo della mobilità, del la-voro e delle frontiere – si spostano persone, sto-rie, desideri, speranze. Emergono soggetti capa-ci di resistenza, «nuda vita»2 contro il dominioneoliberista. Questi soggetti pongono domanderadicali, essenziali per una riforma del sistemache ne scongiuri un esito catastrofico. In parti-colare i migranti pongono al centro dell’atten-zione la questione del soggetto dotato di parola,dell’uomo politico. Chi conta? Chi decide? Chiabita il mondo globale? Ma, qui il punto: nonpossiamo fermarci a rilevare la presenza d’unaresistenza marginale sempre in bilico tra circola-zione di merce e futuri possibili cui alludere.Occorre piuttosto riconoscere in questa fasestorica l’esistenza dell’antagonismo che le corri-sponde, le contraddizioni che apre, la possibi-lità che si determina per costruire uno spazio disoggettivazione volto al futuro. Ancora proget-to, politico, pedagogico, civile.

La mobilità e la differenza culturale tra i sog-getti sono cifre della globalizzazione. La capa-cità di guardarle dal punto di vista dei soggettiincarnati, scartando le semplificazioni quantita-tive e statistiche è oggi sempre più necessaria.Le migrazioni non possono essere spiegate coni modelli neo-classici (limitati a spiegazioni eco-nomiciste o demografiche), che riducono tuttoall’azione combinata di fattori oggettivi diespulsione e integrazione. Né l’analisi va limita-ta al quadro delineato dalla “new economics ofmigration” (Massey, Arango, Hugo, Taylor1993; Portes 1997) che si è imposta come spie-gazione globale sottolineando il pur importantecontributo delle reti comunitarie e familiari neldeterminare il fenomeno migratorio. Bisognainvece accogliere gli studi fondati sulla teoriadell’autonomia delle migrazioni (Mezzadra2001; Castels, Miller 2003), intendendo con ciòl’irriducibilità dei movimenti migratori alle leg-gi della domanda e dell’offerta di lavoro e po-nendo attenzione alle eccedenze che l’atto politi-co del migrare porta in sé, al carico di aspettati-ve, di desiderio, di paura e ricerca di salvezza;

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interrogando la trasformazione concreta che ilfenomeno innesta negli spazi post-metropolita-ni e nell’accesso alla cittadinanza.

È possibile procedere ad una analisi dell’ap-porto delle ondate migratorie sulle società d’in-gresso in quanto capaci di riaprire il discorsosui diritti, sulla formazione, sulla cultura e suilegami sociali. Come ha sottolineato Walzer, imigranti portano nelle società opulente la pos-sibilità di ridiscutere correttivi comunitari e disolidarietà sociale che lo sviluppo capitalisticoimpedisce di dispiegare o smantella (Walzer2004). Dobbiamo analizzare le pratiche sociali ediscorsive attraverso le quali si esprime il desi-derio di cittadinanza migrante. La descrizionedel regime di subordinazione della soggettivitàmigrante lascia spazio alla narrazione concretadelle aspettative dei soggetti concreti e ai movi-menti sociali animati da migranti, clandestini esans-papier, restituisce la base per la ricerca diuna apertura democratica, di una capacità co-stituente, nel doppio livello globale e locale, ingrado di sprigionare nuove possibilità politi-che. Il problema è posto, ma il livello generaleè ancora nascosto alla vista. Dalla descrizionedelle pratiche plurali dobbiamo dedurre la pos-sibilità di una mutazione di sistema, che diven-ti programma.

Cittadinanza e conflitto

L’eccedenza prodotta dall’autonomia e dal-l’irriducibilità politica delle migrazioni ha fattosì che alcune questioni, solitamente risolte al-l’interno dell’iter “normale” dei processi di co-struzione legislativa nelle democrazie occiden-tali, siano invece slittate dal piano interno aquello internazionale. In altre parole «si è veri-ficata una internazionalizzazione di situazioniinterne allo Stato» (Pocar 2005: 233), finorainedita. In tale direzione, possiamo rilevare co-me i problemi generalmente riferiti al tema del-la cittadinanza, siano connessi esattamente alpiano globale della possibilità/diritto di muo-versi nello spazio planetario, e confliggano conla tradizionale idea d’una polis che prende cor-po seguendo virtù riconosciute e codificate dauna comunità culturalmente omogenea e terri-torialmente continua.

Su questo crinale s’è esercitato in area anglo-sassone il dibattito tra liberals e communitarians(Marino 2005: 21-54; Rawls 1984 e 1994; Sandel1994; Walzer 1987), intenso confronto paradig-matico che cela però il quadro generale nel qua-le si è prodotto: quadro che chiama a schierarsi

sostanzialmente tra diritti individuali e diritti ci-vili, tra giustizia universale e comunità d’apparte-nenza o di destino, tra libertà negativa e libertàpositive. Si tratta, in fondo, dell’ennesima versio-ne del tema classico della sociologia moderna: latensione strutturale tra individuo e collettivitànella formazione delle leggi, del nomos, del poli-tico. Perciò va messa in rilievo la tara di questodibattito: esso s’esercita senza riuscire a scartarela tensione, ovvero riducendo l’uno all’altro i duepoli. L’articolazione del confronto, certo ricca eprofonda, nasconde insomma il limite d’unosguardo dicotomico, incapace di vedere in modocomplesso un fenomeno che in tal modo resta ir-risolvibile. Come e insieme alle culture e alleidentità, anche la cittadinanza resta presa nel le-game spezzato tra popolo-territorio e stato, edunque non si può, per riformularne i termini,che leggerla processualmente, dialogicamente eprogettualmente: si tratta in fondo d’un camponel quale esercitare negoziati tra differenti e con-trastanti esigenze, e dal quale può emergere unbagaglio di diritti e doveri comuni. L’accesso allacittadinanza deve rappresentare l’orizzonte nuo-vo del politico. Nulla di spontaneo, piuttosto unprocesso di apertura che chiama ad una nuovarelazione tra pedagogia e politica. Il nuovo citta-dino, proprio perché a-polide va educato, forma-to alla mobilità, al confronto, al dialogo, alla ri-costruzione post-identitaria del sé.

Privi di questo punto di vista non ci restache confermare lo status quo, basato su una fin-zione e su una miopia: la finzione vuole ancoracorrelare strettamente stato-territorio-popola-zione e dispositivi di senso culturale o civile –quand’invece è di tutta evidenza che questorapporto s’è spezzato; la miopia che consistenel non voler vedere il macroscopico dato del-le migrazioni di genti diverse che piega l’abita-re il mondo alla forma complessa e nuova del-l’attraversarlo, con il rischio sempre più urgen-te d’un attraversamento senza diritti. Come hagiustamente scritto Burgio:

è insomma cambiato, pluralizzandosi, il di-spositivo della cittadinanza e i margini dello spa-zio-nazione si sono trasformati; la differenza nonè più solo una minaccia rappresentata da un altropopolo ma diventa anche questione interna allacostituzione del noi. Lo stato nazione è così co-stituito da una serie di frontiere esterne ed inter-ne in cui la non-cittadinanza e la non-integrazio-ne si sostengono a vicenda ed escludono lo stra-niero così come le donne o i barboni con posi-zionamenti differenti e configurazioni in parteintersecate (Burgio 2007: 243).

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I due paradigmi, liberale e comunitario, nonriescono ad uscire dalla dicotomia tra universa-le e particolare, perché l’uno assorbito dal livel-lo globalista e universalista dell’astrazione disin-carnata e l’altro schiacciato da un differenziali-smo comunitario che replica e riproduce i vizidel colonialismo e dei nazionalismi in chiave lo-calista. In questo senso va accolto il tentativoproposto da Marisa Marino, di costruire la cit-tadinanza a partire da «una opzione in direzio-ne della costituzione dialogica e narrativa […]che rimanda ad un dialogo ininterrotto col pro-prio ambiente e ad un esercizio linguistico di at-tribuzione di significati» (Marino 2005: 26-27;Cfr. anche Benhabib 2005). Il punto è che que-sto processo complesso pare, per un verso, l’u-nico in grado di gestire e rendere produttivi iconflitti che, anche sul piano dell’esigibilità didiritti e cittadinanza, si producono e, per altroverso, l’unica strategia in grado di pensare inmodo disseminato e flessibile il tema in discus-sione. Allora queste disseminazioni vanno rico-nosciute, ma la difficoltà si presenta al passosuccessivo. Come si possa definire la relazionecon la forma generale del potere politico, restatema aperto: ovvero, come può la potenza di unprocesso epocale farsi potere, farsi reale, farsistoria? L’esistenza di punti di vista e di necessitàcontrastanti può divenire produttiva solo at-trezzando uno spazio teorico-politico nel quale«i conflitti non vengono repressi o evitati né so-no vinti da nessuna delle parti in causa ma, co-me nei giochi a somma positiva, considerati co-me possibile elemento di crescita per ciascunaparte se trasformati in direzione cooperativa»(Cozzo 2005: 73). In fondo il dibattito sulla cit-tadinanza non è che un analogo politico di quel-lo antropologico sulla cultura.

Più in generale tra conflitto/migrazioni e cit-tadinanza si determina lo spazio teorico dellariflessione sistemica sul mondo globale. Le mi-grazioni, che diano o meno vita a condizioniconflittuali, sono in sé stesse una figura del di-sordine, dell’innovazione, della perturbazionerispetto al livello politico, all’Impero come im-magine contemporanea dell’ordine complesso.Se definiamo potere la «capacità di scelta chesgorga da situazioni di incertezza», la funzioneregolatrice di un sistema politico in grado dimettere in opera la necessaria «riduzione del-l’incertezza nelle relazioni sociali», e insiemedefiniamo potenza la fonte di questa stessa in-certezza, l’origine dell’apertura del sistema, deldisordine, della trasformazione funzionale delpotere politico, allora «la storia può essere let-ta – come ha fatto Giorgio Ruffolo – come svi-

luppo della potenza e come dialettica di sfide erisposte tra la potenza e il potere» (Ruffolo1988: 13). Così è per il rapporto tra migrazionie conflitti ad essa connessi, da una parte, e cit-tadinanza come figura di regolamentazione,dall’altra. Anche nel caso del problema dellacittadinanza, possiamo notare che la nostraepoca è segnata da un divario tra potenza e po-tere. Ovvero: persiste una eccedenza dinamicache attraversa la società e ne chiede unaprofonda riorganizzazione, una potenza di qua-lità superiore al piano d’ordine, ma questa po-tenza non è stata interpretata, almeno sin qui,dal livello del potere, dal piano politico arroc-cato nella difesa di sé.

Secondo la teoria dei sistemi il divario tradisorganizzazione e organizzazione, tra ordinee disordine si può tradurre positivamente solose induce un aumento di complessità, dunqueun nuovo ordine: una nuova organizzazione,una trasformazione. In questo senso, la do-manda di cittadinanza attivata dalle migrazionicontemporanee porta sul livello politico delpotere la necessità di una modifica radicale del-l’organizzazione stessa del sistema. Questa ne-cessità è, in qualche misura, necessariamentesovversiva. Il problema è aggravato dal fattoche l’Impero esiste in una condizione struttu-rale di deficit di capacità di controllo. Auto-contraddittoriamente esso si è dato, nella ver-sione proposta dall’establishment neoconserva-tore, come puro dominio senza consenso, inca-pace di senso, conservativo. Così, tale è il ri-schio, si precipita nella progressiva riduzionedi complessità del sistema che tende a negare ilcrescente rumore di fondo prodotto dalla suastruttura. Possiamo dire, ancora con Ruffoloche «il potere politico non riesce a tenere ilpasso con la potenza sociale, con la forza spri-gionata dalle capacità tecnologiche e dalleistanze individuali. L’offerta, la produzione dipotenza, non riesce a tenere il passo con la do-manda. Si crea così un divario di potere che è lafonte dei problemi di stabilità […] della so-cietà complessa» (Ruffolo 1988: 16-17). Il pre-cipitato della crisi economica e politica si è de-terminato dunque come difetto di complessitàdel paradigma conservatore. Impotente difronte alla compiuta planetarizzazione del si-stema-mondo, la politica si riduce al fantasmadi ciò che fu lo Stato-Nazione. Bisognerebbeinvece pensare oltre. Ma pensare l’oltre-lo-sta-to è cosa difficile. Né si può ritenere immedia-tamente risolto il problema limitandosi a regi-strare le emergenze, le deviazioni dall’ordine, ipunti individuali di sovversione o rifiuto del

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dominio. Lo scarto tra potere e potenza è reale,materiale, concreto. O produce nuovo ordine,o determina la distruzione del sistema.

In tal senso andrebbe considerata la funzio-ne di queste emergenze come stimolo alla pro-duzione di ordine nuovo, di maggiore com-plessità, di trasformazione. Sul piano politico,vista l’incomprimibile presenza di una inviola-bile base di riferimento – che peraltro è l’unicacosa in grado di garantire coerenza all’insiemesociale – la concreta esistenza di soggetti incar-nati che si spostano sul pianeta andrebbe rico-nosciuta come capacità conflittuale della nudavita: cioè come domanda di un nuovo proces-so che metta il potere all’altezza della potenzasociale, e non contro di essa. Infatti, spezzare illegame tra i due termini condanna il sistema al-l’illusione del controllo coercitivo e, per questavia, al collasso. Le strutture politiche si reggo-no sulla loro capacità di attrarre consenso eprodurre senso: questo binario (così decisivoanche nei processi pedagogici) va riattivato.Allora l’anima del tempo nuovo dovrebbe vi-vere nella possibilità di trasformare il sistema eripensare la politica globale. Da questi obietti-vi non si sfugge.

Seppure attraversato dalla crisi, il sistemapolitico-economico contemporaneo ha trovato,secondo Saskia Sassen, «un assetto strategicointeramente nuovo, che in parte funziona attra-verso i mercati elettronici, e in parte è integra-to in una rete di circa quaranta città globalisparse per il mondo. È un sistema che sfugge al-la legge territoriale degli stati-nazione e, ciò cheforse è ancora più importante, che riesce a farentrare elementi del proprio programma nelleleggi nazionali» (Sassen 2005). In questo qua-dro l’iniziativa conflittuale tende a difendersidal piano politico formale, a ricostruirsi comeindipendente e conflittuale con esso. Questospazio informale del lavoro politico – che sem-pre più si rende pedagogicamente impensato,spontaneo, individuale si sostanzia negli «spazimeno formali delle città e dei territori […] e,cosa interessante, delle nuove reti informaticheche collegano fra loro punti diversi del mondo,creando una zona pubblica globale sempre piùampia» (Ibidem). Ciò però, secondo la stessaSassen, non può voler dire rinunciare al pianonormativo, ma è interessante solo in quanto po-ne da capo il problema della costruzione delnomos in relazione ad una qualche forma di de-mos (o di un qualche nuovo equivalente), ovve-ro in quanto riformula il problema dell’accessoalla cittadinanza e, per questa via, del rapportotra forma urbana, sistema politico e pedagogia.

Dal passato: la polis e l’urbs

La potente metafora della città torna dalpassato come chiasmo che incrocia il politico –forma concordata ed egemone dell’essere in co-mune – e pedagogico – come tecnica di accessoa quella forma. Corre la memoria ad immaginiche consentono una relazione piana ed armoni-ca. Riemerge il bisogno di pensare la polis. Mail ricordo della antica polis è meno pacificato diquanto si possa pensare. La forma di vita urba-na, politica, dell’antica Grecia come «tempo-spazio in cui città, stato, territorio e cittadinan-za coincidevano» (Burgio 2005: 89) forse s’èdata solo nell’immaginaria ricostruzione deiposteri. Ad ogni modo esistono altri racconti diquella forma urbana. E ciò non solo per la con-sueta osservazione del carattere sessuato e pro-prietario della città greca, ma per una più inti-ma natura aporetica e conflittuale tra internoed esterno, timos e polemos, polis e oikos, ami-cizia e libertà (Cacciari 1994 e 1996: 42 e ssgg).Certo, non v’è dubbio che la città greca era in-nanzitutto «la dimora, la sede, il luogo in cui undeterminato genos, una determinata stirpe, unagente […] ha la propria radice» (Cacciari 2008:7). Dunque in primo luogo essa esprimeva unaforte immagine di stabilità, di radicamento: «lapolis è quel luogo dove una gente determinata,specifica per tradizioni, per costumi, ha sede,ha il proprio éthos» (Ibidem). Nel termine ethosresta forte l’indicazione di un luogo specifico,una sede della sostanza etica, etnica e culturaleinsieme, non semplicemente il corredo di co-stumi, consuetudini, e tradizioni. La polis è«proprio il luogo dell’ethos, il luogo che da se-de ad una gente», la casa di una stirpe (Ibidem).Da luogo e da nome: i polites, i cittadini, sonotali in quanto abitanti della polis. Ovvero: la cit-tadinanza è definita dalla città, la forma urbana(che è anche etica ed etnica) viene prima. La po-lis è etica prima che politica, deriva la politicadalla sua etica. Il senso di chi vive in città è de-rivato dall’appartenenza alla forma urbana.

Eppure in questo rapporto si definisce unospazio conflittuale, differenziale, aporetico.Non v’è dubbio: alla città può appartenere so-lo chi appartiene alla stirpe cui il luogo da for-ma politica, ma questa appartenenza comuneva, al contempo, preservata, costruita lungo ladurata. E attraversa conflitti. Ciò che lega i cit-tadini gli uni agli altri, il loro spazio comune, èsempre anche un «doversi determinare, forma-re, caratterizzare – doversi ek-ducere, trarre-fuori dall’indistinto rammemorando la propriaindividua essenza» (Cacciari 1996: 30). Un la-

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voro improbo che consiste nella scoperta insie-me, sia della necessità di farsi individui autono-mi, sia del fatto che questo destino li pone in re-lazione eteronoma: secondo Cacciari si trattadell’improbus labor «consistente nell’accordarel’assoluta distinzione delle figure con l’assolutanecessità della loro relazione» (Cacciari 1996:31). In questo lavoro sui soggetti consiste ilprocesso pedagogico nella città greca, un pianoconflittuale ma fondativo di una forma politicanella quale si è membri legittimi di una comu-nità in quanto in parte se ne è fuori, e per con-verso si è liberi in quanto si sta in comunità.Ancora Cacciari ha descritto questo conflittorilevando come «nel termine attraverso cui ilGreco caratterizza il proprio demone, eleuthe-ria, occorrerà, sì, udire il timbro del lyein, dellalysis, della forza che distaccandosi dall’informe‘gregge’, rende possibile l’autonomia, ma, insie-me, in perfetta simultaneità, anche quello dellaphilia, dell’amicizia» (Cacciari 1994: 21).

Ora, è in questo spazio conflittuale che sidefinisce il rapporto tra forma politica, educa-zione del cittadino e parresia: il parlar franco ein pubblico che certa letteratura pedagogicaconsidera antenato delle storie di vita (cfr. Bur-gio 2005 e 2007; Cambi 2002; D’Agostino2008; Demetrio 1995). Solo che, a differenzadel discorso contemporaneo, che intende il di-re di sé come primo passo della soggettivazio-ne, la parresia greca, come Foucault ha amplis-simamente dimostrato (Foucault 2005), era unfenomeno pesantemente normato, politica-mente e pedagogicamente determinato eorientato ad un fine. Nulla di più differente dauna indistinta e libera autonarrazione. Tecnicaper l’educazione del singolo, certo insufficien-te per sé a definire il piano politico, la parresiasi definisce comunque insieme al politico. La re-lazione tra parresiastes e città, tra individuo epotere sovrano, si definisce sempre come ri-sposta della forma generale della sovranità alparlar franco. Ed essa in ogni modo non ri-guarda mai chi dalla città è escluso, lo stranie-ro, il barbaro – che in quanto tale e non a caso,non può parlare (Foucault 2005: 31). Nulla dispontaneo, avverte Foucault, al contrario (e daqui il suo interesse per l’argomento) la parresiaistituisce un campo normativo e pedagogicospecifico, relativo insieme alla forma urbana ealla forma politica: «perché la parresia possaavere effetti politici positivi, essa deve essereconnessa a una buona educazione, a una for-mazione intellettuale e morale, alla paideia e al-la mathesis. Solo allora la parresia sarà qualco-sa di più che un thorubos, un semplice rumore

di voce» (Foucault 2005: 43). E quando questamediazione pedagogica non si dà, «la città pre-cipita in situazioni gravi» (Ibidem).

Il rischio per la città deriva dall’intima apo-reticità dei due termini in questione: il poterparlare in pubblico presuppone una formazionein parte contraddittoria rispetto alla democra-zia. Come già rilevato da Cacciari, anche Fou-cault sottolinea il paradosso per cui qui è inazione una pedagogia che costruisce l’individuocome singolo, libero, autonomo dal politico cheperò proprio in forza di ciò costruisce la demo-crazia, partecipa della città, appartiene ad unospazio comune. Insomma l’autonomia è limitatadall’appartenenza ad un logos comune, e vice-versa questo logos è limitato dall’autonomia deisingoli individui. Se questo equilibrio si spezzala città muore: «se ciascuno nella città si com-porta come gli pare, se tutti seguono le proprieopinioni, volontà o desideri, allora si creano nel-la città tante costituzioni, tante piccole città au-tonome, quanti sono i cittadini che fanno quel-lo che più loro aggrada» (Foucault 2005: 56).Ed è precisamente la rottura di questo equili-brio che sposta la pedagogia greca verso per-corsi di formazione individuali, ormai indiffe-rente al piano politico, alla costruzione dellacittà, dopo il tramonto delle poleis.

Del tutto differente, è più pregnante per ilnostro presente, a me pare invece la relazionetra forma urbana, cittadinanza politica e peda-gogia nella Roma antica. La civitas romana nonha la determinatezza ontologica della polis gre-ca. La parola che definisce la città deriva diret-tamente da cives, cioè da un insieme di personeche si sono raccolte per dar vita a Roma. Comeha mostrato Benveniste (Benveniste 1986) inquesta etimologia c’è più della relazione tra for-ma urbana e cittadini che la attraversano. Lacittà è l’insieme dei suoi cittadini, uomini che,raccolti in uno stesso luogo, si sono accordatinel voler seguire le stesse leggi. Ma più a fondoessa è «l’insieme delle aggregazioni successivedei cives nel tempo» (Del Giudice 2009: 31) ov-vero si mette in evidenza su tutto, un nodo direlazioni di reciprocità e interdipendenza traindividui e gruppi differenti per cultura e co-stumi, progressivamente in grado di stringererelazioni politiche. Troviamo qui il rovesciodell’immagine greca: civitas deriva da cives,mentre polites deriva da polis. Dunque la civitasè essenzialmente politica, indipendentementedai valori etici e morali dei suoi cittadini (Cac-ciari 2008: 8-9).

Il mito fondativo di Roma, la concordia ro-mana, è esattamente questo «convenire di per-

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sone diversissime per religione, per etnie ecc.»(Ibidem). La primazia politica sull’etico-etnico,ovvero la persistente attenzione alla forma ge-nerale della sovranità collettivamente prodotta,determina la necessità di un progressivo allarga-mento dell’urbs. La città esiste se si diffonde,muore se si difende. Roma nasce come incontrodi genti diverse, esuli, criminali, raminghi, pro-fughi che confluendo in un luogo dedicano aldio Asylum (dell’accoglienza, del riparo) la fon-dazione della loro città. Dunque, nella città del-l’Impero «l’idea di cittadinanza non ha alcunaradice di carattere etnico-religioso» (Cacciari2008: 10). Da questo momento in poi, attraver-so l’influenza dell’Impero, questo modello sidiffonde in tutto il Mediterraneo, quand’essodiventa romano: il processo è compiuto nel IIIsecolo d.C. con la costituzione antoniniana diCaracalla, con la quale «tutti i liberi che abitanoall’interno dei confini dell’impero diventano ci-ves romani, siano essi africani, dell’Asia minore,spagnoli, galli, ecc., a prescindere completa-mente da ogni determinazione etnico-religiosa»(Cacciari 2008: 10-11).

Dunque in epoca romana nasce l’idea che lacittà è mobile, essa va, non è ferma. Ogni città sifonda su una qualche origine, su di un mito, mail mito romano è esattamente la confluenza digenti diverse, che non vengono sottomesse maconcordano nel perseguire un unico fine. Inquesto senso Cacciari ha scritto che più che suun’idea, Roma si fonda su di una strategia (Cac-ciari 2008: 14). E il fine che anima questa stra-tegia è l’imperium sine fine. La costruzione del-l’Impero romano come spazio senza confini(neanche temporali, perciò eterno). Roma èUrbs che da leggi a tutto il mondo, all’interoOrbs. Il fine della città romana è la globalizza-zione, ovvero un processo di integrazione attra-verso il quale la città (urbs) si fa mondo (Orbs).In tal senso la città è mobile, perché a Roma siproduce uno scarto rispetto all’idea Greca. Ro-ma innesca un dispositivo volto a far si che «ilcerchio magico che nelle poleis rinserrava e im-prigionava dentro i confini della città coincidacon il cerchio del mondo» (Cacciari 2008: 15-16).

La civitas è civitas augentes ovvero essa “cre-sce”, si allarga a tutte e tutti. Essa de-lira ovverosupera il solco, il seminato, il limite che la defi-nisce. Spezza i confini sacri (cfr. Rykwert 2002:107 e ssgg.), travalica il perimetro urbano men-tre lo istituisce, e non a caso essa si determinacome sfera politica già da subito meticcia, im-pura. Questa idea è inconcepibile rispetto allapolis greca la quale invece (sino a Platone ed

Aristotele) è dominata dal timore di “non cre-scere troppo” per non perdere il suo radica-mento, per non minare il suo ethos e il suo ge-nos. Questa forte idea del radicamento nei gre-ci si esprime nel loro logos che tra i cittadini di-venta parresia, parlar franco e pubblicamente,possibile solo tra appartenenti al genos: l’unicodialogos possibile è tra omogenei, più che trauguali (Cacciari 2008: 16-18). Al contrario laforza di Roma si esprime attraverso l’allarga-mento progressivo del suo dominio. Ed in que-sto allargamento c’è la consapevole relazionecon altri, l’accesso costituente d’ordine politicodi genti diverse nella strategia dell’Imperium. Lescuole, sotto questo rispetto, furono cardinaliper la costruzione di Roma. Qui la funzione del-la pedagogia muta, come ha scritto FrancoCambi:

la pedagogia con la nozione di humanitasviene a giocare un ruolo di centro ottico dellacultura, in quanto sua sintesi viva e personale,ma anche nella formazione dell’uomo, che ora –nella stessa Roma – si sente prima di tutto sog-getto umano, portatore di una umanità univer-sale, invece che cittadino, legato al mos maiorume al ruolo di civis romanus. Così, già a partire daCicerone, si ha la nascita di una pedagogia insenso proprio, come sapere riflesso sull’educa-zione, svincolato dal mos/ethos e reso più rigo-roso, più universale, meno contingente e locale,elaborato attraverso il discorso razionale (Cam-bi 2003: 49).

Mi pare che, ben al di là della retorica diffu-sa, noi abbiamo oggi assai più da imparare dal-la civitas augentes che dalla polis. Se un ricordodev’esser riportato alla mente, se un passato vastrappato dal continuum della storia, per ripen-sare il rapporto tra città, politica e pedagogia èproprio la forma urbana romana. Come ha no-tato Cacciari, infatti, oggi ci troviamo di frontea questa grande distinzione tra polis e civitas nelpensare la città. E la questione si pone radical-mente: «vogliamo ritornare ad uno spazio bendefinito, a un territorio ben delimitato che per-metta scambi sociali, relazioni sociali ricche edeterminate? […] è questa l’idea di città chevogliamo coltivare, o è la grande idea romana,gente diversa che viene da tutte le parti, cheparla tutte le lingue, che ha tutte le religioni,un’unica legge però […]? Quale riferimentoscegliamo: l’origine o il fine, il legame di stirpeo la legge?» (Cacciari 2008: 24). In relazione al-la risposta che diamo a questa domanda, purnella consapevolezza di ciò che la città è oggi –o non è più ormai, possiamo sviluppare il di-scorso pedagogico. Nel primo caso valgano le

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diffuse rielaborazioni dell’idea di spazio pub-blico, come le tesi dei neocomunitari; nel se-condo caso ci troviamo invece all’altezza deltempo: ovvero in condizione di dover ripensa-re non soltanto il processo pedagogico, ma pri-ma ed insieme ad esso, la città come luogo mo-bile, diasporico, sradicato, e il politico comeorizzonte del comune, ben oltre la scissione trapubblico e privato.

Post-metropoli e comune

I poli di urbanizzazione disseminati sul pia-neta sono ancora oggi spazi di verifica dello sta-to di avanzamento tecnico, economico e politi-co, ed accanto a ciò dei conflitti che esso gene-ra, per la nostra società (Gregotti 2009: 78). Inmezzo alle strade, alle piazze, ai crocevia post-metropolitani si mette in scena un palinsestocontinuamente riscritto, «stratificazione di se-gni cancellati e sovrimpressi che ne ricostitui-scono il senso» (Burgio 2005: 119). Il tessuto ur-bano, per un verso veicola significati individua-li – esso è sempre composto da singoli che lo at-traversano – e per altro verso restituisce infor-mazione, descrive, forma ad un modo di starenel mondo. Ma qui occorre la fatica del concet-to. La cittadinanza, ovvero il dispositivo politi-co derivato dalla forma urbana o prodotto in-sieme ad essa, non è, né sarà mai, l’aderente co-pia di stili di vita plurali e atomistici (Ibidem).Non basta, come mai è bastato se non al prezzodi distruggere ogni livello del politico, dire di séper innescare il dispositivo della sovranità. Alcontrario, la fatica che abbiamo di fronte è esat-tamente quella di ricomporre forme comuni al-l’interno del tessuto urbano. Ancora una voltaun logos e un nomos, ma internamente poliglot-ti e dinamici, per il tramite dei quali il dire di sépossa essere ascoltato, e il fare possa determina-re prassi politica. Dal punto di vista pedagogiconon ci si può fermare alla descrizione dei tantimicrogruppi che reagiscono all’assenza del pia-no generale di senso, ma, come ha notato laPiussi riprendendo Bateson, «il compito sem-mai è quello di disporsi intenzionalmente all’e-ducare, e non desistere dalla continua ricerca eproposta di una struttura che connette» (Piussi2001: 8).

La città ha perduto la profondità politica, lasua capacità di mediazione nei confronti dellasocietà, per l’effetto tutto moderno del degra-dare dell’utopia civica in forecast aziendale o indisincarnata utopia tecnologica (Gregotti 2009:80). Ciò è senz’altro vero. La metropoli indu-

striale moderna, quella descritta da Benjaminnei suoi Passagenwerke, era ancora adatta adospitare una qualche vita dello spirito (Simmel2007). E ciò in forza della persistente presenza,nel suo tessuto concreto, di alcune stabilità: zo-ne funzionalmente definite che contribuivano adar forma alla società del grande capitale indu-striale, alla sua divisione in classi, ai conflitti e al-la dialettica democratica che doveva andare inscena. Nella storia della pedagogia, su questestabilità si è articolato il dibattito positivista traborghesi e socialisti, attorno al problema di do-ver formare il cittadino, diffondere o difenderlodai valori borghesi e organizzare il consenso so-ciale (Cambi 2003: 236-254). Non a caso quellacittà, lungi dall’essere esclusivo dominio degliingegneri delle anime o della grande industria, èstata sognata come utopica, da piegare al riscat-to dell’umanità, ad esempio nei grandi piani ur-banistici del Movimento Moderno: si pensi, tratutti, ai progetti di Le Corbusier per la ville ra-diouse, alla città per tre milioni di abitanti, o alpiano di Algeri. Nulla di ciò è sopravvissuto aldivenire tecnico:

Oggi – scrive Cacciari – siamo in una fasesuccessiva. Mentre nelle metropoli queste pre-senze ancora articolavano lo spazio, fondavanodelle metriche ben riconoscibili nella dialetticacentro-periferia […] oggi questa possibilità ècompletamente saltata. La città-territorio impe-disce ogni forma di programmazione di questogenere. Si è ormai in presenza di uno spazio in-definito, omogeneo, indifferente nei suoi luoghi,in cui accadono degli eventi sulla base di logicheche non corrispondono più ad alcun segno uni-tario di insieme. […] La fabbrica non era la cat-tedrale, non aveva la stabilità dei vecchi centridella forma urbis, ma una certa stabilità l’aveva(Cacciari 2008: 37).

La post-metropoli, città di slums, spralwtown,è stata scandagliata in letteratura e ne conosciamoi caratteri fondamentali. Saskia Sassen ha definitola collocazione delle polarità post-metropolitanenella struttura economica globale (Sassen 1997):le città sono nodi nei quali si concentrano le ma-crofunzioni di comando mondiale. Le impresemultinazionali si articolano attraverso i networktransnazionali di città che godono della natura dipoli di smistamento. Nelle città globali si assistealla crescita dell’economia informale, ed a fiancodella economia direzionale delle grandi imprese edei flussi finanziari, il tessuto vitale della città èanimato – nei centri storici come nelle periferie –dalle attività svolte da immigrati privi di diritti, a-polidi, esclusi dalla cittadinanza.

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La forma urbana, di conseguenza muta. Edobbiamo a Mike Davis la più appropriata raf-figurazione dei fenomeni caratteristici dellametropoli postmoderna dal punto di vista delladisseminazione di micropoteri e dispositivi didisciplinamento sociale (Davis 1999). La cittàdi quarzo, si è costruita, secondo Negri, attra-verso «l’erezione di muri a limitare zone in-transitabili dai poveri, la definizione di spazi dasuburra o ghetto dove i disperati della terra po-tessero accumularsi, il disciplinamento delle li-nee di scorrimento e di controllo che tenesseroordine, una preventiva analisi e pratica di con-tenimento e di inseguimento delle eventuali in-terruzioni del ciclo: oggi, nella letteratura im-periale, quando si parla della continuità fraguerra e polizia globali, quello che si dimenticadi dire è che le tecniche continue ed omogeneedi guerra e polizia sono state inventate nellametropoli» (Negri 2008). Gli spazi pubblici,ormai inospitali o soggetti a forme di privatiz-zazione, sono stati progressivamente sostituitida grandi interni privatizzati – il centro com-merciale, l’aereoporto, la stazione di servizio –offerti come spazi di socializzazione (Gregotti2009: 79). O peggio, da new towns interne alterritorio metropolitano, città per ricchi che sidifendono dai poveri, blindate, private, armatee difese, sorvegliate per punire l’altro. «Se untempo – ha scritto Gregotti – qualcuno ha pen-sato che la liberazione collettiva valesse il sacri-ficio personale, oggi la libertà personale è agita,proprio nella supercittà, contro ogni liberazio-ne collettiva» (Gregotti 2009: 79). È semprepiù difficile per queste vie avere una immaginedell’altro, e sempre più diffusa invece l’ansia diricevere indietro un’immagine di se stessi.

Ed infine è stato Rem Koolhaas a restituirciun ritratto iperrealista della città generica, nellaquale l’unica attività collettiva è lo shopping e icaratteri della metropoli moderna sono implosiin Junkspace: spazio spazzatura (Koolhaas2006). Ma la questione resta aperta: non c’èdubbio che tra le pieghe della post-metropolipersistano zone di significazione, percorsi indi-viduali, stili di vita differenti e per certi versiantagonistici. E non v’è dubbio che, come giàper i fenomeni di controcultura nella Los An-geles degli anni Settanta e Ottanta, una qualcheforma di credito deve essere accordata alle for-me antagonistiche che spontaneamente vannoin scena nella metropoli (Davis 1999: 82-83).Ma né il politico – ovvero la cittadinanza post-nazionale e metropolitana – né il pedagogicocome “cassetta degli attrezzi” per la vita asso-ciata, possono vivere senza agire sulla forma ge-

nerale: ovvero senza darsi come ipotesi di pro-getto, in direzione emencipativa e sempre aper-ta, ma collettiva.

E allora? E allora urge la fatica del concetto.Abitare, avere una casa, avere una città, nonpossono più esser pensati come nel secolo scor-so. Perché? A mio avviso perché la straordina-ria mutazione della struttura politica della so-cietà contemporanea per un verso, e la potentequalità (più che quantità) delle migrazioni con-temporanee per altro verso, hanno mutato inradice la relazione tra nomadismo e stanzialità,e per questa via il significato dell’abitare, dell’a-vere una casa e dell’avere una città. Siamo pre-si in un doppio vincolo. In prima istanza è veroche l’implosione dello stato-nazione, delle sueistituzioni e della cittadinanza nazionale aprenuove possibilità politiche, più larghe e innova-trici: esse si esprimono nelle molteplici e inven-tive narrazioni degli stili di vita nei tessuti me-tropolitani. Su questo livello, costruire pedago-gicamente la possibilità di dire di sé è già unabella conquista, e si tratta di cose che, secondoGregotti «potrebbero essere materiale preziosoanche per il disegno urbano» (Gregotti 2009:84). Ma in seconda battuta non si può non ve-dere come lo stesso processo produca una co-stante e violentissima marginalizzazione dei piùdeboli, e dissolva al contempo lo spazio socialecivile sul quale si è costruita la relazione tra pe-dagogia, cittadinanza e forma urbana: la post-metropoli non è un semplice palinsesto delquale possiamo godere, atteggiandoci a spetta-tori di programmi in technicolor. È spazio seg-mentato, dominato, segnato da nuove enclosu-res, privatizzato, vilipeso, offeso, come i sogget-ti nomadi che lo attraversano. L’estetica dellaconstatazione, come nota Gregotti è, in questocontesto semplicemente la rinuncia al pensierocritico: «dopo il realismo socialista, il realismodegli interessi di mercato senza altri aggettivi»(Gregotti 2009: 85).

La fatica del concetto che urge parte alloradalla tessitura tra forma politica e ciò che controdi essa si agita, ciò che ne definisce la crisi: dob-biamo pensare, dare forma, ovvero educare per-ché ciò accada, portare fuori, portare alla luce, ladifferenza che sempre esiste tra forma politica –unica, generale – e forme di vita, multiverse, plu-rali, riottose, critiche. Consapevoli che la scissio-ne tra potere e potenza mai si concilia, e mai,d’altro canto, si verifica del tutto: «nessuna clas-se politica potrà venire a capo di tale differenza.Ogni decisione (e la politca è chiamata a pren-dere decisioni) presuppone tali scissioni. Ognisintesi politica sarà sempre rispetto ad esse arti-

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ficio. […] le forme politiche più durature sonoquelle che sanno adattarsi alle ragioni del con-flitto, che si piegano ai suoi movimenti» (Caccia-ri 2009: 24). Solo da qui può sgorgare una fontesovrana in grado di definire la cittadinanza per icives futuri. La pedagogia che occorre è quellache mette in condizione di pensare questa fatica.Come ritorna questo programma sulla forma ur-bana? Ritorna restituendoci la possibilità di unacittà, di una casa, di un abitare compiutamentenomadi: perché liberamente attraversabili e per-ché mobili, crescenti. Sarà allora, la città «indi-stricabile unità di opposti senza fondamento.Comunità che ogni giorno deve sapersi inventa-re, comunità sempre futura. […] Profondamen-te politica se, pur nel terremoto dell’epoca, lavo-rerà per cercare quel “comune” a tutti, possessodi nessuno, che ci permette di comparare idee evalori anche inconciliabili, di comunicare e fra-intenderci» (Cacciari 2009: 25).

Note

1 Latouche 1992. Sullo stesso argomento, riprendendola tesi dell’urto tra Occidente e mondo di Alfred Toynbee,Giacomo Marramao nota come «l’urto tra il mondo el’Occidente provocato dall’espansionismo planetario del-l’Europa moderna altro non sarebbe che un’occidentaliz-zazione tecnologica che s’imporrebbe con il contrappassodi una deoccidentalizzazione spirituale: “lo scontro attuale[nota Toynbee] fra mondo e Occidente si sta spostandodal piano tecnologico a quello spirituale”» (Marramao2008: 21).

2 «Se i rifugiati […] rappresentano […] un elemen-to così inquietante è innanzitutto perchè, spezzando lacontinuità tra fra uomo e cittadino, fra natività e nazio-nalità, essi mettono in crisi la finzione originaria dellanazionalità moderna. Esibendo alla luce lo scarto fra na-scita e nazione, il rifugiato fa apparire per un attimo sul-la scena politica quella nuda vita che ne costituisce il se-greto presupposto» (Agamben 1995: 145).

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David Gilmore

Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now

In Power/Knowledge, Foucault wrote thefollowing lines: «A whole history remains to bewritten of spaces – which would at the same ti-me be the history of powers […] from the greatstrategies of geo-politics to the little tactics of thehabitat» (Foucault 1980: 46). Recently, socialscientists have been probing the politics of thehabitat in terms both of power hierarchies andgender. They are examining how cultural normsand taboos configure the landscape of a society,determining where men and women should beat any time, and measuring how such rules im-pact the distribution of power – formal andinformal. An ecological approach to gender haslong been a staple of feminist sociology and ofwomen’s studies. In her groundbreaking Gende-red Spaces, Daphne Spain perhaps best summa-rizes the prevailing position

Spatial segregation is one of the mechanismsby which a group with greater power can maintainits advantage over a group with less power. Bycontrolling access to knowledge and resources th-rough the control of space, the dominant group’sability to retain and reinforce its position is enhan-ced. Thus, spatial boundaries contribute to theunequal status of women (Spain 1992: 15-16).

More recently, cultural anthropologists havetaken up the challenge of defining the spatial di-mension of gender. For example, Sheba George(2005) writes about the separation of the sexesin an Indian immigrant community in a NorthAmerican city. She notes that the divide betweenmen and women and the exclusion of womenfrom symbols of authority is clearly manifestedin the physical placement of men and womenand reaches an apogee, not surprisingly, in theparish church. The «gender hierarchy – she wri-tes – is starkly delineated and enforced, as bestexemplified by the physical separation of thecongregation by sex» (George 2005: 125). No-ting that certain key areas in the community are

«off limits to all women and girls», she arguesconvincingly that such proscriptions in the heartof the community’s spiritual consciousnessreinforce the subaltern status of women (Ibi-dem). Recent studies of Northern Ireland (Reid2008) and of Istanbul, Turkey (Mills 2007) havelikewise shown how powerfully spatial segrega-tion influences the social and political status ofwomen. Similar studies by other social scientistsin other parts of the world show that “place di-scourse” (Reid 2008: 489) articulates with iden-tity issues, systems of sexual inequality and withpatterns of social change (see for exampleStaeheli and Kofman 2004)1.

Some parts of the world manifest sexual se-gregation more strongly than others, of course.Stark rules of separation and exclusion are espe-cially well known to students of the Middle Eastand the Mediterranean where there still exists aresidual opprobrium attached to women beingunaccompanied in public spaces. Perhaps“sexual apartheid” is too strong a word to beused today for these societies, but in much of therural Mediterranean many public locales, espe-cially public houses and government offices, arestill “off limits” to women. Consequently, wo-men’s access to the critical nodes of socializing,commerce and decision-making, is thus effecti-vely limited (see Sciama 1981; Herzfeld 1985a,1985b, 1991; Taggart 1991; Brandes 1992; Mills2007). Obviously such symbolic systems of se-gregation and of distancing have crucial conse-quences for gender relations since they determi-ne the literal parameters of “place.”

One anthropologist working in Latin Ameri-ca, Setha Low (1996) calls this dimension ofcommunity life “spatialization” – an ungainly butuseful neologism. Cultural anthropologists haveargued for years that spatial arrangements are apowerful means by which society’s order is com-municated to individuals and “felt” by them. Thepower of space is that it semiotically functions as

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a «morphic language» (Hillier and Hansen 1984:198), a primary means by which society is bothinterpreted and experienced. The interplayamong the factors of gender, status, and spacearises from the constant re-negotiation and re-enforcement of historical patterns of differentia-tion, exclusion and hierarchy and the degree of“public access” (Weismantle 2008: 123). AsBourdieu (1977) noted long ago, the power of adominant group lies in the ability to maintain so-cial constructions, images, and norms that makethe present order of things “natural”. My goalhere is to describe sexual segregation in ruralsouthern Spain and to report on how this age-oldscheme is currently being infiltrated by women inan effort to re-negotiate “place”.

1. Public/Private : Male/Female?

The “public-private” distinction originatedas a heuristic device in feminist studies in the1970s as a way of conceptualizing the spatialconfinement and political disfranchisement ofwomen (Lamphere 1974). In this binary scheme,“public” means the open spaces wherein lay thereins of power, governance, commerce, informa-tion exchange, backdoor politics, and public di-scourse2. Conversely, “private” connotes the se-cluded domestic realm, indoors, the domain ofthe family: enclosed places, thus “marginalized”space (Reid 2009: 490-491). Although long a sta-ple in Middle Eastern and Mediterranean areastudies, the public/private scheme, like mosthoary conceptual dichotomies, has come in formuch second-guessing lately3. Perhaps Abu-Lu-ghod’s criticism (1998) is the most salient. Sheargues that like all conceptual dualisms, such abinary scheme ignores empirical ambiguitiesand is a reproduction of facile “orientalism” (seeMills 2007; Reid 2009). Still, most feministswould probably agree that this venerable dicho-tomy is useful if only as a starting point in mea-suring gender asymmetries (Staeheli 1996;Benhabib 1998); and what most feminists objectto is not the conceptual division itself, but «thegender hierarchy that gives men more powerthan women to draw the line between publicand private» (Fraser 1998: 331). Even in MiddleEastern studies the spatial dichotomy has beenuseful to delineate the fluidity of boundaries,their recent shifts and infiltrations due to na-scent women’s movements (Cope 2004; Nagar2004; Mills 2007). Instead of regarding the divi-sion of space as a static “thing”, a processual ap-proach seeks to enlighten how borders are ne-

gotiated, re-negotiated and diluted as an on-going process (see Cole 1991). Here the object isto highlight «the ways in which power and ex-periences from one sphere infiltrate the othersphere» (Staeheli and Kofman 2004: 10).

A watershed example of this new approachis a recent study of female factory workers inFez, Morocco, by Cairoli (2009). She showshow working-class women who were previouslyconfined to the home have upended the priva-te/public dichotomy by reformulating their con-ception what is public and what private. In theview of these women, the factories where theywork are an extension of the domestic sphere,and their relationships there with fellow workersand employers have taken on the idiom of kin-ship: women workers are “sisters”; male em-ployees are “brothers” and the owners and bos-ses of the factory are “fathers.” Thus, Cairolisays: «workers transform the public space of thefactory into the private space of the home in anattempt to assuage the contradiction inherent intheir presence inside the factory, outside the ho-me» (Cairoli 2009: 542). Like Cairoli and othersworking in areas that have been historically sexsegregated, I rely here upon the public/privatesplit as a starting point in a discussion of genderspatialization and its current vicissitudes inSpain as a means of grasping contours of genderin a broader sense, a metaphor for “place.” Thisis not only because the public/private division isethnographically and cognitively valid today, butalso because this very split between a male anda female domain, as it exists in the minds of wo-men, has encouraged a unique form of feministresistance. But unlike the case in Morocco re-ported by Cairoli, the women of rural Andalusiahave inverted the classic public/private split notby transforming public into private but by doingthe opposite: appropriating the public and tur-ning it into private, thus reformulating the boun-daries of sex within the moral order.

2. Andalusia: Sexual Boundaries

First let me give some ethnographic context4.Andalusia is the largest region of Spain andmakes up the southern part of the peninsula. Inmany ways it is similar to America’s “DeepSouth”, under-industrialized, classically agra-rian, culturally conservative and traditional. An-dalusia is also well known for cultural peculiari-ties, from which others often disassociate them-selves as being backward and “Moorish” – notsufficiently “European” that is. Aside from the

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olive-oil drenched cuisine and fine sherry wines,the most obvious examples of Andalusian ex-ceptionality are a regional obsession with thebullfight, the nucleated whitewashed hill pue-blos, and the sequestering of women. Andalusiais the region closely identified with the stereoty-pical Spain of the travel posters: flamenco mu-sic, raven-haired señoritas peeping out of irongrates, Arabic architecture, perfumed gardensand the sexual double standards of machismoand donjuanism. My fieldwork took place origi-nally in the 1970s and 80s in a farming town inSeville Provinces, but subsequently expanded toa number of pueblos throughout Andalusia.

I begin with the Andalusian custom of fema-le seclusion. Certain areas of the built environ-ment in the Andalusian pueblos are defined im-plicitly as either female or male territory, the ma-le space being outdoors, the female space beingindoors. These sexual “frontier-lines”, as Lévi-Strauss (1961: 397) calls them, are strictlydrawn; trespass is moral transgression of a parti-cularly egregious kind. These strict ground rulesof course affect both sexes, touching men too,because there are places in which men must notset foot (e.g. the marketplace). But the rules ofplace impact on women more onerously bydenying them access to the “important” do-mains of civic and social control. By this I meanthat women’s appearances in places like parksand plazas, government offices, bars and tavernsand public spaces, are still strictly limited by abarbed wire of convention, exiling the femalefrom public life, enacting a kind of cultural hou-se arrest. Severe sanctions come into play again-st women who are “out of place.”5. In Andalusiawomen who venture out have historically main-tained a stance of what Herzfeld (1991: 80), wri-ting about Greece calls «submission and silen-ce». Their bodies and voices take on a veiled or“muted” covering. I am not speaking here evenby allusion of the Islamic practice of veiling butrather the distinct, but obviously analogous,practice of deference, muteness, concealment –the masking of females “invisible”. The journali-st Anne Corneliesen (1976) captured the customperfectly in the title of one of her books onsouthern Italy: Women of the Shadows. Let medescribe one incident early in my fieldwork thatvividly illustrates this pattern.

One evening in 1973 I came upon an old wo-men dressed in black outside a tavern with herface turned toward the wall. With her blackshawl held up to her eyes, like a veil, she lookedvery uncomfortable and seemed almost on theverge of tears. As I passed her and went into the

bar she stopped me with a whispered “buenasnoches”, and having gained my attention timo-rously asked me a favor. What she wanted wasfor me to convey a message to her son who wasdrinking and playing cards inside the bar. I ha-stened to accept her request and did so and sheleft immediately. The young man got up abrup-tly and went home. Later this man told me thatlike most older women his mother would noteven step across the threshold of a bar, not evenin the direst emergency, and because of this theymust find some man as a surrogate to transmitmessages within (this is the era before telepho-nes were widespread in this part of Spain). Soher discomfort was due to the conflict betweenher need to contact her son and her anxietyabout entering the forbidden male world.

When women and girls do appear outsidethe home in Andalusian pueblos, for example inthe agricultural work gangs during the olive har-vest, which they do often because of a shortageof male laborers at this the time, they are garbedfrom head to toe in layers of covering not nor-mally seen in the village. Their hair, normally ex-posed during evening walks and on other festiveoccasions, is ritually covered in the presence ofstrange men during the harvests. This is a “limi-nal” or interstitial time when the more generalrules governing sexual segregation are relaxedtemporarily (see Brandes 1980; Taggart 1991).Men and women mingle together in olive-harve-sting squads. The covering of the females howe-ver is complete and from a visual and sartorialperspective bizarre, even to the women themsel-ves. The women wear two layers of exteriorclothing: skirts worn over full-length trousers,sweaters over shirts and the hair covered by botha cloth and a hat, all this resulting in a visual ne-gation of the body, a burqa-like transformationof person into shapeless bundle. Many complai-ned privately that they felt “curious” or “stran-ge” (curiosa) wearing such thick swaddling, ne-vertheless given the social pressure, they all suc-cumbed. It is as though some danger inherent inthe female body normally under control, wereunleashed in this promiscuous mixing of thesexes, so the women’s bodies and hair have to beconcealed, deleted as it were6.

The confinement to the house is an everydayburden for women, a life sentence. Let me giveone poignant example from my own fieldworkexperience: there was the case of my neighborFilomena, a peasant woman in her early fifties.Her husband, a hard-working farmer, was typi-cally absent all the time either at work or in theneighborhood tavern. Filomena had only her

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four grown sons, also wanderers, and no daugh-ters to keep her company. Because of this aban-donment and the paucity of female neighbors onthe small narrow street she lived on, was basical-ly restricted to the home and, on Sundays, to thechurch. People pitied her because of this isola-tion and called her a “pobrecita”, or a patheticcase. But she found an ingenious way to com-pensate for her misfortune of being confined tothe home. Once I found her leaning rather thea-trically outside her front door with her hand onher head, looking pale and tense. Breathing dee-ply and clutching her heart, she breathlessly toldme and my wife, who was, as Filomena, a medi-cal doctor, that she had developed “an allergy”to her own house. Not a part of the house, shesaid, but the “whole damned thing”. She couldnot abide remaining inside for another minuteand had to “take the air” or die.

Filomena suspected her illness had so-mething to do with the nasty chemicals her hu-sband used his farming and then brought intothe house, traces of insecticide maybe, she wa-sn’t sure. But the local doctors could findnothing wrong with her and her husband scof-fed. So she asked for some corroborating sup-port form my wife, so that her husband mightbow to foreign medical authority and let her takethe air on occasion just to counteract the allergyto the house. We promised to speak to her hu-sband, which we did shortly afterwards. A gen-tle, tolerant man, he smiled indulgently, noddedknowingly, but said nothing. Afterwards, Filo-mena began to take restorative walks around theblock which I believe did her much good. Butwhat stuck in my mind was that our neighborneeded medical justification to get of her ownhouse house for a few minutes a day. Other wo-men with more rigid husbands, or stronger su-peregos, were less fortunate.

3. Sexual Quarantine

This form of female “house arrest” is corro-borated by legions of ethnographic reports fromsouthern Europe (for a review, see Cole 1991); itis a sexual quarantine that stands out as an em-pirical fact of particular salience. In Fuentes,whenever the subject of women’s “place” arose,people would repeat a phrase like a mantra: “lamujer de la casa, el hombre de la calle” (womenindoors, men outdoors). As such it must be ac-cepted as a fragment of reality as personally ex-perienced by every person every day. My ownexperience in Andalusia suggests the depth of

commitment to sexual segregation leading to aoccasional incongruities between reality and thesenses. Things that were visibly there were eli-ded or openly denied. For example, men wouldtell me emphatically, with a great deal of sati-sfaction, that women would never venture outsi-de their houses except to go to the villagemarket. But not more than fifty feet away fromwhere we were talking, one could plainly see ofwomen picking cotton or weeding sunflowers,more women in fact than men, since most of themale laborers were then in Germany or Switzer-land. When alerted to this fact, the men wouldsimply dismiss it as a sort of statistical deviationby assuring me that what I was witnessing wasanomalous, unusual, rare, out of the ordinary,perhaps a mirage, or due to special circumstan-ces never clearly explained. But it was clear tome that this discrepancy between what I saw andmen’s idealization about the “place of women”represented an example of wishful thinking.“Women are at home” (la mujer de la casa) was atalismanic obsession that if repeated often enou-gh might became true or at least allay a certainmale anxiety about women being out of place.The men were in their own minds the masters ofvillage space.

The sanctions imposed upon women out ofplace were usually gossip and community-widecensure, resulting in ostracism and ruined repu-tation as a puta (slut). «What is she doingwalking the streets?» A man can be a callero(street corner fellow; bon vivant, spoken withsome sneaking admiration), but for a woman tobe called a callejera is the same as calling her “awoman of streets”, a streetwalker. Of course thishas the same connotations as in English or anyother European language. This contumely couldthen rebound upon a woman’s family, blacke-ning her daughters and sisters, so compliancewith the rules was almost always assured by thepressure of public opinion. Above and beyondthe abstract force of gossip, however, there wereadditional punishments meted out to waywardgirls, some of them bordering on the violent. Letme provide one example from my fieldwork.This happened in the 1980s, a time when thingswere just beginning to feel the winds of change.Having met some male friends in the 20s and 30sfor the evening, I was out walking at dusk. Wecame upon a group of about twelve boys, 13 or14 years old, milling about in one of the centralsquares of the pueblo. Observable everywherein the streets, these youth packs are called pan-dillas (cliques or gangs) and are a fixture of out-door life in the pueblos. While nothing unusual

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in that male pandillas are often seen lurking atany time of day or night, my ethnographic alarmbell went off and told me this group was poisedfor some mischief which might be of interest.The boys looked purposeful and expectant. So Imade inquiry to my companions who told methe following. What I was witnessing was the fir-st stage of a traditional adolescent activity calledthe “abuchear”, meaning loosely shouting, jee-ring, or hooting. My informants understoodwhat was going on because they had participa-ted in such rituals themselves in their teens.

The boys were in fact lying in wait for someunsuspecting and, more importantly, unaccom-panied, young girl to pass by. When one did,they would rush after her, hollering obscenities,jeering and grasping at her clothing, driving hercrying to her home, at which point they wouldrelent and reorganize to repeat the process withanother victim. The boys did not physically mo-lest the girls (actual physical abuse is against therules in these communities and rape unheardof), but their victims were usually shaken up andfrightened. In one famous case of abuchear, Iwas told, a girl ran home in tears, her clothes intatters, and told her father that she recognizedthe persecutors. Angry and insulted, her fatherthen went to the boy’s house to extract an apo-logy from the boy’s father; some words were ex-changed. But the response of the hooting boy’sfather remains a classic piece of folklore in thepueblo. Rather than being chagrined or apolo-getic, the father coolly replied «Why thank youfor telling about this: that means my boy must bea real macho. And what is your daughter doingout in the streets?»7.

4. The Public House: Power and Privilege

Turning now to adult entertainments, we no-te that in the rural Mediterranean World social li-fe centers on the village café or public establish-ment. As the main theater for masculine interac-tion in small villages, this “central place” may bea coffee-shop or teahouse as in the MuslimMiddle East, or a bar or casino as in south Euro-pe. Providing not only comestibles, but also en-tertainment, meeting rooms, and electronic ser-vices, these places serve as men’s clubs where re-gulars meet, eat and drink, play cards, gossip,and more germane to our interests here conductbusiness. In southern Europe these institutionsare functionally equivalent to traditional “men’shouses” in other cultures as Vale de Almeida(1966: 7) notes in his book on Portugal.

No one has expressed this pattern of public-house sex segregation better than the Frenchethnologist Germaine Tillion who writes:

On the Christian shores of the Mediterra-nean, one may follow the zigzag path of an invisi-ble frontier. On the inner side of this frontier,men walk the street alone; they go alone to thebars; and a woman’s presence in a café – even inthe company of a near relative – to this day ap-pears as unusual as it would in Baghdad (Tillion1983: 167).

This “invisible frontier” pervaded rural Spain– at least until the 1980s. The male-only café wasa symbolic moat dividing men and women in vil-lages not only in the south of the peninsula,always culturally conservative, but throughoutthe country including up-to-date Catalonia as EdHansen (1976) noted in his article Drinking toprosperity. This sex barrier was pervasive irre-spective of class, social position or marital statusof the people involved, as we have seen in theexample above. Every ethnography of ruralSpain acknowledges the central role of the bar ortavern in the lives of village men and the exclu-sion thereof of women as Henk Driessen (1983)points out. Indeed, because of its social functions(as well as inviting climate) the Spanish bar hasbeen the enduring fieldwork site for much of themale-oriented ethnography done in the past fortyyears. Because of its central role in formalizingsex apartheid, in the classic period of post-warSpain, the public house has received some bela-ted attention from anthropologists in and of it-self, as well as serving as a passive site for partici-pant-observation fieldwork. Studies by Hansen(1976), Stanley Brandes (1979), Driessen (1983),the Corbins (1984), and myself (1975, 1985,1991) describe functions of Spanish bars and ca-sinos (the casino is a private club, often with classpretensions and occasionally with musical, spor-ting, or other themes). These functions are criti-cal to understanding gender relations and socialprocesses in the towns and villages of rural Spain.

First, simply as recreational locales, Spanishdrinking establishments provide a context formaking friends and for the advancement of expe-dient goals. Hansen (1976) shows how importantthis strategic function was in Catalonia underFranco, because other loci for association wereoutlawed by the dictator, an observation thatholds true for other regions. In Andalusia, Dries-sen (1983) shows that bars also serve as an arenafor the maintenance of male dominance and thebuilding up of “macho” identity. Since Andalu-sian men must stay out of their homes to preservetheir manly self-image, they use the bar as a kind

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of exclusive men’s club. Having this home-away-from-home enhances their ability to evade theirwives, to exclude women from business andback-room politicking, and to manage symbols ofmasculine superiority. Thus bars function morethen as passive contexts: they reify and defendgender boundaries. In a similar way, Bourdieu(1971, 1977) sees the Kabyle house in Algeria asthe key setting in which body space and architec-tonics are integrated in the spatial symbolism ofthe home, social structures becoming concretizedand embodied in everyday practice. Long agoBourdieu proposed the concept of habitus, a ge-nerative principle of collective representationsused to reproduce symbolic codes and existingstructures as homologous systems. But for Dries-sen, Andalusian bars not only represented a de-fended repository for a threatened masculinity,but also help to «keep women in a subordinateposition» (Driessen 1983: 131). Kept out of thebars, women are denied access to power nodesand networks ensure naturally in public placeswhere ritualized exchange takes place. WhatDriessen says for Andalusia, however, seemsequally relevant for other parts of Spain includingCastile (Brandes 1979) and Aragon (Lison Tolo-sana 1966). For in the north, too, the sexes are so-cially segregated, to a greater or lesser degree, andmen congregate in single-sex bars to enact ritualsof masculinity and to run things.

All of the work on the bar in the Mediterra-nean area in the past three decades shares a con-ception of the central public place as a micropo-litical nexus or arena; that is, a critical locus whe-re strategic goals are met by men manipulating aninformal political field constituting the economi-cally active population of the pueblo. As Vale deAlmeida says in his book on hegemonic masculi-nity is southern Portugal: «In Mediterranean so-cieties, the bar or café is a focal institution in pu-blic life. It is the main stage of masculine sociabi-lity; it is the male gender that is associated withpublic life» (Vale de Almeida 1996: 88). Thus thepublic house is by definition the local expressionof the male occupation of the public “space” thatcontextualized political life. But an invisiblefrontier that lasted from who knows when to ju-st a few years ago has been challenged, assaultedand indeed overthrown through the ingenuity ofvillage women informed by the growing power offeminist unity, and abetted by a particular formof modernization that has been underplayed inthe literature on social change of the region:American TV shows.

5. The Present: a Reversal of Public/Private

In many pueblos of rural Andalusia, dramaticchange has transformed the gendering of publicspace. As everyone knows, women in Spain nowcomfortably inhabit public spaces, hold electiveoffice, walk boldly about the streets and plazas,linger in the parks, and have all the privileges thatmen enjoy in going wherever they want. Men ha-ve generally acceded. But one place remains stillto a certain extent “off limits” to women, andthat is the neighborhood drinking establishment.Recently Andalusian women have taken majorsteps to infiltrate and indeed take command ofthis remaining bastion of male domination. Howthey did so presents an interesting tale of sponta-neous social change in Andalusia, and alsoperhaps a lesson to woman in all such genderizedsocial environments.

As in most pueblos, the public houses inFuentes are of four kinds, based on governmentregistration, taxation, licensing, history and cul-ture. First and the oldest are the traditional nei-ghborhood tabernas, dimly lit dives which harkback to the Franco era and beyond; serving wineand beer, they are usually patronized by olderworking-class men. Second are the slightly moreupscale “bars” which arose in the boom years ofthe 1960s and cater to a younger, hipper moderncrowd, having modern accommodations and ser-ving fancy liquors. Third is the new-style “pub”(pronounced “poof”), dating to the early 1980sand modeled after an idealized version of the En-glish public house. Patronized by more sophisti-cated village youth, they are elegantly furnishedand stylish turned out with cushioned sofas, co-lored lighting and a fancy range of importedbeers and expensive whiskeys. Last are the stillmore fashionable discotecas, dating to the late1980s, which feature live rock music, karaoke,dancing, and resemble an American or Frenchnight club (I am not counting the stuffy casinos,or private clubs here, which are mainly patroni-zed by the elite and the elderly). The latter twoestablishments, the stylish pubs and youthful di-scotecas, are known specifically to welcome andto accommodate women and girls on weekends,and many unmarried young women attend onSaturday nights, always, however, in groups – it isstill rare to see a single woman in a public houseof any sort. The more forward-looking bars alsowelcome females, but usually get them only onweekend nights either in sizable groups or ac-companied by male companions. But the smokymasculine tabernas – especially the old-fashionedand rough working-class dives – remain strictly

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sex segregated. Women are still reluctant to entersuch a manly world of smoke, card-playing, tele-vised sports, heavy drink and male camaraderie.Indeed women in Fuentes still do not feelcomfortable in many of the bars and tabernas.They still complain about a sense of alienationwhen it comes to the traditional public houses.«Why should women be made to feel like prosti-tutes for going where men go all the time?» is anoften-heard complaint. For many women, di-sbarment from any of the public establishmentsin the village, even the hole-in-the-wall tabernas,represented a last frontier of sex discrimination,a galling challenge that sooner or later would ha-ve to be broached, don Quixote and the wind-mills. So some banded together and enacted avery dramatic remedy to turn the situationaround. Before describing these recent develop-ments, I must digress to explain the operativecultural principle of ambiente.

Literally this expression might be rendered inEnglish as “ambience” or “atmosphere”, but itmeans much more in colloquial Spanish. Perhaps“gaity” or “gregariousness” would be better glos-ses. When queried about its meaning, people inFuentes will say that ambiente is the key to theenjoyment of life and the source of emotional ful-fillment for people of both sexes, for young andfor old, a key to happiness. Ambiente emanatesprimarily from crowding, from the presence ofmany people in small spaces – from togetherness,interaction, social intercourse, conversation andcamaraderie. Propinquity creates social contact,providing the pleasures of sociability that are sokeenly felt in isolated small towns. Without expe-riencing ambiente, a person is said to be “sad”(triste) and lonely (solo) and is pitied as a pobreci-to(a) (sad sack). For example, a man without aneighborhood bar to go to every night or a manwithout dozens cronies is considered a “sad one”and a “lost soul.” People who live in isolatedfarmsteads outside the town are always said to beunhappy, lonely and desperate. Men who inhabitthe bars nightly for rounds of drink, cards andother sorts of manly fun are “happy” and “lucky.”Many people say simply that ambiente is “life”,and life without ambiente is not only depressingbut also not truly human. In Andalusia, the worstfate to befall a person is not poverty or poorhealth, but loneliness. There is also a verb form,ambientar, to make merry, to socialize. When yougo to a public place to meet friends or when youarrive at a festival or enter a crowded bar, peoplewill say it’s time to “ambientar”, time to makehappy. Probably the closet terms in colloquial En-glish would be “get loose” or “start partying.”

It should be obvious from the above, that am-biente is less accessible for women than for men,because any man can simply visit his local tavernand achieve some modicum of ambiente (thereare always crowds, albeit all-male). But for manywomen, who are still confined to the home, am-biente is difficult to achieve. If a woman hasmany daughters, sisters and other living kinswo-men within reach, she can socialize indoors andbe fulfilled. But many women are bereft of suchcompany, and for them a state of loneliness iscommon. Having put up with this sexist exclu-sion from a treasured part of life, and motivatedby the women’s movement in the 1980s, the pue-blo women finally got fed up with this state of af-fairs and decided to do something about it. Theresult is the banding together and the creation ofthe revolutionary concept of the “private festi-val”, on the face of it a contradiction in terms.

6. Bar Wars: To Go Boldly Where No Woman Has Gone Before

In Castilian fiesta means festival, feast, holi-day – whether religious or secular. A fiesta in An-dalusia is by definition a public event, and accessis unrestricted. Spanish secular fiestas, such asCarnival and the summer fair, and even religiousholidays such as Holy Week, are times wheneveryone is outdoors celebrating and cavorting.Fiestas are periods of broad disinhibition, bar-packing and carousing, moral rules temporarilyrelaxed. Women are permitted free reign in fie-stas: they can visit the bars, drink and indulgethemselves like men without much criticism (the-re is always tongue-clicking among the more con-servative). Pre-determined by the ritual or litur-gical calendar, fiestas are leaderless and no one isever in charge. Nobody has the power to limit ac-cess to such a public event. However, a sea-chan-ge has occurred in Andalusia regarding the con-cept of fiesta. On recent fieldtrips (2002, 2006), Iwas told that women in the pueblos had deviseda way to challenge the male monopoly over pu-blic spaces. Their strategy is to imitate a customthey have witnessed on American TV shows: th-rowing a private party in a public space. They callthis a fiesta particular. Previous to about 1990, su-ch a thing was unheard of in Andalusia.

I should point out that “particular” in Spani-sh differs slightly the synonym “privado.” Thelatter, as in English, is a legalistic term meaningprivate property or individual ownership. Analo-gous but not isomorphic, particular carries thesense of something controlled by a person or per-

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sons for the specific purpose of limiting access:thus it connotes “exclusivity in jus” rather than“private, in rem”. So a fiesta particular (we mightcall it an exclusive affair), has the curious self-contradictory sense of a public but restricted fe-stivity or celebration – historically an alien idea inSpain. By the 1990s, women in the pueblos hadbegun to pool resources and rent out bars forevenings. By means of this radical invention, theyhave seized control of male-only spaces and inva-ded the last bastion of male exclusivity. Havingestablished a beachhead in “enemy terrain”, thegirls invite like-minded female friends and libe-rated men to join them, posting a sentry at thedoor. When anyone approaches who is unaccep-table to the new spirit of gender-bending, thesentry sternly announces “fiesta particular!” tur-ning the intruder away. Thus an unprecedentedcustom has entered the world of the village, po-tentially an upheaval in gender rules. Few socialscientists have examined the implications of sucha spontaneous challenge to prevailing ortho-doxies. Are women using the fiesta particular tonetwork, to “do deals”, advance careers? Wemust remember that such trivia are, in aggregate,the stuff of “social change”: tiny first steps in thelong journey of cultural transformation. It hap-pened in the following way.

In the waning years of the last century, a num-ber of young women came up with a novel ideafor entertaining themselves on weekends. Con-stituting an informal tertulia, or friendship so-ciety, four women aged between 22 and 25, un-married, without serious novios, or boyfriends,they found themselves bored and unable to abi-de by he rigid rules of female housebound impri-sonment that their mothers and grandmothers ri-gidly followed. Of course they had all been to thebars with men, and had been accustomed togoing in large groups of single girls to the disco-tecas on Saturday nights for drinking and dan-cing. But they felt something was missing in theirliberated lives, something to do with control overthe environment. Having watched American TVshows in which public halls were rented by wo-men for parties, they conceived the idea of doingthe same thing in the local bars. So when onementioned her bright idea of going en masse to alocal bar and paying the owner in advance fordrinks, asking his wife to prepare tapas, orsnacks, and to decorate the bar with bunting.They had seen similar preparations in Americanmovies and on the TV Teledramas made in Spainthat imitate what they like to call the “Californialife style”, that is, modern hedonistic self-expres-sion. Essentially, the intention of the young wo-

men here was threefold: first to give vent to theneed for female for control over entertainment,and second, to demonstrate their newfound as-sertiveness and defiance of male dominance, andthird, just to have fun.

On the face of it, the contradiction in termsamong public, private, particular, exclusive andthe implicit the overthrow of male dominion, wasnot an issue to the first rank of organizers, the“revolutionaries”, as they joking began to refer tothemselves The girls were more intent uponmaking a social success and establishing a prece-dent, thereby getting men and older women ac-customed to seeing crowds of unaccompaniedfemales gallivanting in the streets and drinkingand socializing in public houses. Upon hearing ofthis, my first reaction was to query people in theolder generations to see what kind of responsethe girls might have encountered. The oldermen’s reactions were perhaps most interesting. Ispoke to a few “regulars” of a bar that had beenusurped by women for an evening in 1999, menin their 50s and 60s. In discussing the events, Ifound a surprising degree of acceptance andeven grudging approval. One man said simplythat women ruled inside the house and did mostthings formerly reserved for men, and so whyshould they not also rule in the public houses?Another older gent, less sanguine, argued thatthe bar was the “last refuge” for older males, asanctuary and escape from the female-domina-ted world of the indoors, a male fortress. Still,this man smiled and chuckled, adding sheepishlythat despite all his misgivings and the wrench ofseeing a tradition toppled, he was delighted tohave the female company (they let him in that ni-ght out of pity if I got it right) . He added that ju-st to be able to look at all the pretty young thingswas a “fashion show” and a “feast of the eyes”, ashe put it. I detected more a note of moral resi-gnation but also a certain understated elation atthe turn of events.

Other interviews with men revealed more ofthe same. One man in his 50s reported thatseeing so many unattached women in bars is so-mething he had awaited for 40 years and waspleased about it. He hoped they would come inmore often while the regulars were assembledand not just on their own nights with the youngermen; the girls were a “boost for us tired olddogs”, he added, smirking and tapping his tem-ple alongside the eyebrow as men in Andalusiado to indicate something visually striking. Out ofabout twenty preliminary chats with the oldermen, I got the impression more of relief than ofanything else, as though an ageless battle, bravely

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but uselessly fought for decades, had been hono-rably concluded with little real damage to eitherside. In the spirit of sexual ecumenicalism (a fa-vorite expression among young women), themen granted the women their long-overdue ri-ghts and indeed expressed a measure of approvaland solidarity with sisters and daughters: a happysurrender. The “old ways”, many men said, arenot only a thing of the antiquated past, the “oldSpain”, but also something they associated withthe Franco dictatorship (which ended in 1975);so any change has the whiff of political freedom– for both sexes.

Older women, however, had mixed reactions.One heard the usual criticism of old people whohave suffered some injustice or deprivation andwant their successors also to suffer. But somemothers and grandmothers, women over 50, feltproud and supportive, although of course they vi-gorously denied that they themselves would everthink of entering a bar without their husbands.And so, with only minor disapproval and little ac-tive opposition, the young girls of Andalusia havefound the key to ambiente and at the same time ameans of undermining the vestiges of patriarchyin public places. The solid wall of sexual bias hascrumbled under their gentle assault, guised in theform of innocent entertainment. More thananything, the recognized symbolism of the fema-le-dominated “private party” represents a revolu-tion in both the moral structure of space in the vil-lage and in the contours of sex as cognitive con-structs. And with ambiente come deeper boons:the increased social velocity of gregarious ex-change, promiscuous mixing, and the possibilityof social networking, career advancement, com-merce, and of course on a psychological plane,unity and sisterhood, although my data on thisaspect of the private party remain exiguous.Further research is planned for next year.

7. Final remarks

So with all this in mind, we return to the que-stion of why women have always been excludedfrom the male-owned spaces of life, the bar beingthe fons et origo of patriarchal property. Based onobservations about how bars are used by men tocreate a society of equals, we can make a few in-terpretations, none of which is singly valid. First,the bar is the place where informal exchange ofcommodities takes place. Such exchanges are akind of shadow economy. To say that women areexcluded from this of world power-brokering bybeing excluded from taverns is only to state the

obvious, but the question remains as to why thisshould be so. Exclusion here readily translates tosubordinate and oppression. What about the useof alcohol as a prime factor in sexual divisions?Drinking is of course associated with loss of con-trol and with sexuality in many pre-industrial cul-tures (Marshall 1979: 85). Alcohol works as aninhibitor to the moral sense, so that drinking of-ten precedes sex; therefore it must be denied wo-men except on special occasions, another instan-ce of women’s disfranchisement. Yet the fact thatalcohol is served in the café does not seem an ade-quate explanation for women’s exclusion by itself.As in other part of Spain and also in Mexico(Brandes 1979, 2002), men will sit for hours overa coffee or soft drink in bars and some regulars donot even drink at all, simply smoke and play cards– although this is unusual. For instance, I knew aman in Spain who spent most of his waking hoursin the local tavern without ever drinking anythingstronger than chamomile tea. Freely givenwithout even prompting, his excuse was “doctor’sorders” (he had a blood-sugar level problem).And alcohol of course is not served in MuslimMiddle East (the Turkish meyhane is a major ex-ception, very much like a Spanish tapas bar orGreek taverna in the voluminous flow of liquor).

But in southern Europe, alcohol, like mostnarcotics in most cultures, perhaps even more so,is a masculine privilege. But all this take us backto the sexual double standard which saves all thefun for the men. But which comes first: chickenor egg, sex or drink? Women’s entry into theworld of the public house in Andalusia, of cour-se also means an equality of tippling and the pri-vilege to indulge in the most public of all activi-ties, no small matter here. So the symbols of wo-men’s empowerment begin to pile up within thecontext of the private party: equality of place,freedom of movement, equality in commerce,equality in public access, moral equality, and lastbut not least equality of being inebriated. Whatall this shows, beyond the power of innovative(and certainly not passive) manipulation of rules,is the validity of the processual approach to pu-blic/private, as proposed by feminists. If we re-turn for a moment to the initial literature cited,we see that the dichotomy remains useful metho-dologically as well as a persistent “social fact”that must be taken into account in any under-standing of change. As Reid astutely puts it in re-lation to Northern Ireland (2008: 500) the nego-tiation of public space and the integration of per-sonhood and self-identity are inextricably mixedwith the use of “territory”. Her subject of courseis sectarian politics and religious divisions in the

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context of The Troubles. Here in southern Spain,territoriality means something superficially diffe-rent, not “named” factional cleavages so much,but rather venerable gender barriers that definespatialization in small communities and thus de-termine what Weismantel (2009) calls public ac-cess – the morphic language of patriarchy. AsMills writes, «visions of what it means to be a wo-man continue to be articulated in relation to thespaces of collective memory and of everyday life»(Mills 2007: 351). The dynamic approach to gen-der and territoriality that Mills and other socialgeographers have taken promotes «the imagi-ning of space as already ramified in its meaningsand uses» in everyday life, as Fincher (2004) cal-ls it: seeing “multiplicities” rather than “duali-sms” in the gendered frontiers of territory. Theideology and the idiom of space should not beseen a passive backdrops, but as primary discri-minators of social relations, no matter who theactors (Reid 2008: 500).

Finally, let me conclude with the usual – thou-gh in this case sincere – plea for further cross-di-sciplinary research. Ethnographers have donevery good work in the past two decades insouthern Europe, especially rural Greece (seeHerzfeld 1991; Papataxiarchis 1991) on thesubject of sex, public houses, power and socialchange8. However, parochial as usual, anthropo-logists working in the area have lagged in com-municating with the sister disciplines. More thantwenty years ago, the human geographer EdwardSoja deplored the lack of research «on the spatialdimension of societal organization on a level equi-valent to the extensive examination of kinshipand contract relations» (1979: 8) speaking direc-tly to the lack of inter-disciplinary fertilization.Some anthropologists have heeded the call; forexample the first-rate work of Herzfeld (1991),Low (1996), Lawrence (1996), Gilmore (1996)George (2005) and others. More recently the callhas been heard by other social scientists. But it istruly astounding that in her book on gender andspace in which she provides a whistle-stop over-view of sexual segregation from the Paleolithic tothe post-industrial age, Daphne Spain (1992) ne-ver even mentions the Mediterranean or alludesto its vast area literature on sexual apartheid, ex-cept for a brief mention of the Turkish harem/se-lamlik household division. I sincerely hope that adialogue can be heard among other social scienti-sts and cultural anthropologists working in theMediterranean area. Now in its death throes,sexual apartheid needs just as much attention asdo racial and class segregation – and for the samemix of intellectual and humanitarian reasons.

Notes

1 For more on the subject of space, ground rules, andsociety – that is, the third dimension of social structure –see the following works: Bourdieu (1971); Buttimer andSeamon (1980); Lawrence (1996); and Low (1996). Thereis a fine summary of the literature in Lawrence and Low(1990). For works specifically on gender and space, see:Ardener (1981); Callaway (1981); Hirschon (1981a,1981b); Hirschon and Gold (1984); Spain (1992); Thom-pson (2003); Nagar (2004).

2 Reneé Hirschon (1991: 72) refers to this dichotomyas “interiority/exteriority”. Many other rhetorical devi-ces are employed to capture Mediterranean sexualapartheid, almost one per ethnographer (see Sciama1981). For recent examples of such an approach outsidethe Mediterranean area, see Johnson (2002); Staeheli andKofman (2004).

3 Many anthropologists have examined sexual sym-bolism in the Mediterranean area from a variety of dua-lisms: left/right (Campbell 1964); sheep/goat (Blok1981); seed/soil (Delaney 1991); honor/shame (Pitt-Ri-vers 1977); activity/passivity (Herzfeld 1985; Brandes1980), etc.

4 Between 1972 and 2006, I have visited and re-visi-ted the inland areas near Seville, Cordoba, and Malaga ci-ties. I am mainly familiar with the following agrotowns:Fuentes de Andalucía, Montilla, Carmona, Ecija, LaCampana, Osuna, and Utrera, as well as smaller coastalpueblos like Santa María, Sanlúcar de la Barremeda inCádiz Province, and one mountain town: Zahara, in Má-laga Province. My field trips to Spain were supported atvarious times by generous grants from the following agen-cies: The National Institutes of Health, the NationalScience Foundation, the Wenner-Gren Foundation, theHF Guggenheim Foundation, the National Endowmentfor the Humanities, the Joint Committee of US Universi-ties and Spain’s Ministry of Culture, the Council for theInternational Exchange of Scholars (CIES), the John Si-mon Guggenheim Foundation, the American Philo-sophical Society, and the Research Foundation of the Sta-te University of New York at Stony Brook.

5 The title of a book by Braquette Williams (1996).

6 The sexual/anatomical symbolism is obvious. Forexcellent account of the sexual symbolism of the Andalu-sian olive harvest, see Brandes (1980). Brandes (1992) al-so provides superb description of spatial hierarchizationin Spanish culture, especially of children’s games andadult puns, riddles, and folklore; see also Taggert (1991).

7 Compare the symbolic sanctions for sex trespasshere with the violent physical punishments meted out inaboriginal New Guinea and South America, where wo-men could be raped or clubbed to death for spatial vio-lations (Lévi-Strauss 1961: 213-214).

8 For more ethnography on the traditions of bars,cafés, and the like in Greece before the turn of the pre-sent century, see Loizos and Papataxiarchis (1991); Papa-taxiarchis (1991); Zinovieff (1991); and Dubisch (1993).

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1. Una lunga introduzione

Nella città globale, plurale, “liquida”, alcunesue porzioni, non importa se periferiche o cen-trali, ad una prima osservazione si presentano co-me delle “sacche morte” dei sistemi urbani di cir-colazione economica, di rappresentanza politicae di rappresentazione simbolica. Queste aree ral-lenterebbero, quando non lo impedirebbero, pri-ma facies, lo scambio di beni, di servizi, di perso-ne, come sorta di veri e propri “buchi neri” ur-bani, a causa di una loro “viscosità” endogena.Viste più da vicino, sono invece conformazionisocio-spaziali di attori che pur “esterni” ai main-stream della città in cui risiedono, non ne sonomai completamente separati. È la caratteristicadella condizione di stare ai margini. Questi citta-dini, “esteriori” al lavoro regolare, alle forme do-minanti di morale e di rapporti sociali (coppia,famiglia, vicinato, ecc.), circolano infatti quoti-dianamente nel suo tessuto, integrandosi spessosolo attraverso rapporti di subordinazione.

Queste pagine propongono una riflessioneepistemologica e metodologica sulla modalità di“apprendere” queste aree di marginalità urbana,alla luce delle acquisizioni maturate dopo lapubblicazione della mia ricerca sul quartiereZEN di Palermo (Sicilia) (Fava 2008). Lo ZEN,e qui riprendo solamente alcuni elementi diquella analisi, è un quartiere d’edilizia popolare,costruito in due fasi distinte tra gli anni ’60 e glianni ’80, dando luogo ai cosiddetti ZEN 1 eZEN 2, impiantato nella periferia nord dellacittà, dove era atteso situarsi il suo polo indu-striale. Nell’intenzione degli estensori del Pianodel 1956 doveva mettere ordine anche al caosfunzionale del centro storico distrutto dallaguerra e svuotato ormai della sua borghesia. Erastato pensato come “quartiere satellite autosuffi-ciente” per accogliere la piccola borghesia rima-sta (la casa popolare entrava così nel suo imma-ginario ascendente) e più tardi, con il progetto

Gregotti dello ZEN 2, i contadini proletarizzatie urbanizzati da tutta l’isola. Niente di tutto ciòsarebbe accaduto. Dal terremoto del ’68 in poi, isuoi alloggi sono stati occupati abusivamente,spesso senza essere terminati e sprovvisti delleopere d’urbanizzazione primaria, dagli sfollatidel centro storico, il sotto-proletariato urbanodella città. Da quel momento, la casa popolareesce dall’immaginario piccolo borghese e parte-cipa solo di quello degradato dei lumpen dellacittà. Sarà necessaria una legge nazionale per po-tere realizzare le opere di urbanizzazione prima-ria (Decreto Sicilia 1988). Negli anni seguenti,l’occupazione avverrà attraverso il turnover diun mercato “immobiliare” informale, da coloroche, in gradi e per ragioni diverse, si sono con-frontati con la necessità di un alloggio a bassocosto. Le sanatorie regionali (1970, 1990, 2001)scandiranno i tentativi, inutili, di dare ordine aquesto turnover. Abitato in gran parte da pen-sionati, disoccupati di lunga durata, “lavoratorisocialmente utili”, giovani in età scolare, lo ZENè un enclave sociale, ricettacolo dei lumpen del-la città, invisibili alle statistiche ufficiali1 occulta-ti negli interstizi dell’economia urbana regolare(settore edilizio, servizi e del commercio al det-taglio), il motore nascosto della città. Lo ZENnon è mai stato un ghetto (Wacquant 1997) néuna banlieue operaia: esso esprime una segrega-zione spaziale governata da una logica di classe enon “etnico-razziale” senza mai essere però di-venuto un quartiere operaio. La marginalità ur-bana dello ZEN domanda quindi un quadro in-terpretativo proprio, che non è riconducibile auna zona di povertà ciclica tipica dell’economiafordista (ghetto o banlieue) o di marginalitàavanzata prodotta dalla ristrutturazione globaledel capitalismo e dalla trasformazione del setto-re industriale (l’iperghetto o la banlieue in decli-no). Con queste aree di segregazione urbana ti-piche della economia post-fordista esso è acco-munato dalla sola stigmatizzazione territoriale

Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZENPrima parte

Ferdinando Fava

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(Wacquant 2007a). La de-proletarizzazione dellavoro salariato infatti (e la crisi finanziaria re-cente, i futures per intenderci), caratteristiche diquesta marginalità avanzata, non hanno esercita-to alcun effetto diretto sulla maggior parte deisuoi residenti. L’economia urbana di Palermo,dal Dopoguerra sino a oggi, si è caratterizzata,infatti, per lo sviluppo ipertrofico di un terziariosenza industrializzazione che continua a espri-mere la lotta dei poveri per la sopravvivenzaquotidiana piuttosto che indicare livelli crescen-ti di ricchezza post-industriale.

Nelle linee che seguono, dunque, vorrei espli-citare i dispositivi concettuali disponibili per po-tere comprendere criticamente questo quartiere,il suo spazio sociale e il suo rapporto con lo spa-zio costruito. Lo farò a partire dalla prospettivaantropologica. Il gesto antropologico, proprioper l’originalità del suo approccio, fondato sul-l’incontro dialogico, sulle relazioni face to face inspazi di interconoscenza accessibili individual-mente, aiuta ad organizzare e a definire meglio ilquadro di riferimento in cui situare le diverseoperazioni conoscitive necessarie per compren-dere questi spazi, smontandone le intelligenzeacritiche. Ancorata all’esperienza del “qui edora”, la ricerca etnografica porta in sé la necessitàdi correlarsi, proprio in questi spazi, con “l’altro-ve e l’allora”. L’incrocio dello sguardo etnografi-co “da dentro e dal basso” e di quello “da fuori edall’alto” sui processi di localizzazione che costi-tuiscono queste aree, correlazione tra il micro-so-ciale delle traiettorie individuali e delle pratichesociali con le logiche strutturali che intervengonoa modellare e a governare la sua riproduzione2

socio-spaziale, mette in luce domande più gene-rali inscritte in filigrana in un oggetto che restapur sempre singolare. Lo ZEN, così “appreso”per eccesso e per contrasto, rinvia, come un uni-versale concreto, alla singolarità di una storia ur-bana, ma anche autorizza ad approfondire a par-tire proprio dal “locale” queste domande fonda-trici: in che modo i rapporti tra lo spazio co-struito e lo spazio sociale concorrono a produrreun “luogo”, in questo caso d’esclusione urbana?Come riconoscere e comprendere l’articolazionedi questi rapporti? Quali ordini di scala sono im-plicati? Quali le operazioni conoscitive corri-spondenti? Si tratterà di riprendere in parte ilmateriale già elaborato (Fava 2008) alla luce diuna esplorazione avvertita del ‘gesto’ antropolo-gico. Nel procedere della riflessione è possibilericonoscere i tratti di un dispositivo concettualeche permetta di situare la questione della margi-nalità nella città contemporanea in un dibattitopiù ampio. Non si tratterà, infatti, di aggiornare

su una realtà sempre dinamica (le occupazioni, ècronaca di questi mesi, continuano nella loro for-ma inaugurale, lo scasso, come in quella ordina-ria, il turnover del mercato informale degli allog-gi; i media locali e nazionali continuano a mante-nere dello ZEN una rappresentazione stereotipa,la dismissione della presenza delle istituzionipubbliche, ecc.), né di aggiungere una ulterioredescrizione di quello che accade in questo spazio,ma di “conoscerlo” e comprenderlo meglio, pro-prio in quanto “spazio” fatto di cemento e rap-porti sociali.

Proprio attorno al solo spazio modernistaprogettato da Vittorio Gregotti3 e al successivospazio costruito si sono concentrate, in questianni nella sfera pubblica, le analisi urbanistiche4

e i progetti pubblici d’intervento, ma è sullo spa-zio sociale, sul modo d’abitare dei residenti (leloro pratiche sociali) che si è costituita ed acca-nita la stigmatizzazione dei media e dei disposi-tivi socio-istituzionali. In effetti, allo ZEN, ab-biamo assistito sino ad oggi a una stigmatizza-zione continua dei residenti e del loro territorio(Fava 2009a: 125-132). Lo ZEN, nell’ordine del-la rappresentazione, è stato posto sempre comeuno spazio separato dal resto delle città, la cui li-nea di confine è stata segnata nel tempo da trat-ti fisici visibili (l’isolamento nella Piana dei Col-li, i cumuli di immondizie, la perimetrale e lacancellata). “Inferno”, “ghetto”, “lager” da ter-zo mondo, sono tra le categorie utilizzate più ri-correnti con cui, nei media, è restituita l’identitàcollettiva del quartiere5. Non sarebbe che unacrime zone, un universo sociale radicalmente di-verso da quello della città, contrassegnato dauna sociabilità perversa per cultura (deviante,un sistema di valori capovolto) o per natura (si ègiunti a dire che “negli occhi dei bambini delloZEN si vede la violenza”). Malgrado i lenti e par-ziali interventi di miglioramento strutturale e deiservizi, questa immagine continua ad essere ri-prodotta. La sua impermeabilità al reale rinvia aun suo uso politico da parte di diversi gruppi diinteresse, che illustra, d’altro canto, come essastessa sia presa nella dialettica del Darstellung edel Vertretung, della rappresentazione e della vi-carianza. Nel parlare d’altri vi è sempre con-giunto, in una certa misura, un parlare “per” lo-ro, cioè al posto loro. Il ritratto è sempre un po’il proxy di quanto ritrae. Questa rappresentazio-ne del quartiere arriva così a prendere il “suo po-sto”, sostituendovisi, nelle pratiche degli opera-tori, dei professionisti del mondo urbano, e an-che in una certa parte dei residenti. Guardare,dice Comolli, documentarista francese, (ma misembra si possa dire anche per gli effetti di sen-

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so della lettura di un testo), è incorporare unpunto di vista, determinato dall’effetto stessoche vuole riprodurre (Althabe - Comolli: 1994:14). Così, se il quartiere è un concentrazione diogni patologia sociale e devianza, i residenti ri-sulteranno essere sempre privati di ogni iniziati-va che non siano i comportamenti violenti o ille-gali, persone socialmente diverse, da isolare daicittadini “normali”, una minaccia per la parte re-stante della città. Le sue rappresentazioni me-diatiche, allora, aprono e chiudono i corsi d’a-zione possibili ed entrano nella macchina di co-struzione dello spazio sociale.

All’interno di questo quadro, desidero sotto-lineare un fenomeno inedito e unico che concer-ne lo ZEN, e che pone al centro della nostra ri-flessione il rapporto con lo spazio costruito. Sitratta della stigmatizzazione del rapporto dei re-sidenti con questo spazio, che sia quello dome-stico o di coabitazione: l’occupazione illegale, loscasso degli alloggi, la loro organizzazione inter-na, l’assenza di privacy e la promiscuità, la “pri-vatizzazione” degli spazi comuni, ecc. (Fava2009b: 56). Allo ZEN viene stigmatizzato pro-prio l’abitare, le pratiche spaziali dei residenti,vivere allo ZEN non è abitarvi. È un fenomenodi non piccola rilevanza. L’effetto di questa rap-presentazione è stato che alla dualità centro/pe-riferia si è sovrapposta progressivamente quelladentro/fuori e così alla idea di marginalità si è in-tegrata progressivamente quella dell’esclusione.

Per completare questa nota introduttiva,vorrei aggiungere anche un’altra dualità, rintrac-ciabile nell’ordine della rappresentazione e de-terminante nella costituzione del quartiere, ecioè quella del basso/alto, che indica la sua posi-zione nella gerarchia/geografia sociale di Paler-mo. Essa si dispiega tutta al suolo. Lo ZEN è unaenclave circondata dalle ville dello sprawl diMondello, le case a schiera della media borghe-sia di via PV 46 e i borghi storici di Borgo Pattie Tommaso Natale. Nella distanza di un chilo-metro è possibile attraversare tutta la strutturasocio-spaziale della città (e buona parte, vedre-mo, della sua storia recente): al suolo si traspon-gono le ineguaglianze delle risorse economiche,delle gerarchie di status e di potere, delle formedi rapporto rispetto allo spazio e all’abitare (pra-tiche del quartiere, rapporto con il lavoro, tem-po libero, distribuzione territoriale delle reti fa-miliari e amicali, accesso ai servizi urbani, fre-quentazione degli spazi pubblici). Questa diffe-renziazione spaziale, allo ZEN prende sensoperché colta attraverso i processi che la genera-no e gli effetti che essa a sua volta esercita sulletraiettorie individuali e sulle identità collettive.

Trattare lo spazio costruito dello ZEN dunquecome puro contenitore di quello sociale, comesolo decoro dove si distende la sua vita quotidia-na, significa mettere tra parentesi ciò che per-mette alla città di Palermo di costituirsi e rico-noscersi continuamente proprio generando que-sto spazio. La posta in gioco della sua compren-sione è dunque alta.

Come avvicinare allora lo ZEN senza restarefissati nella prospettiva della rappresentazionemediatica del suo spazio pubblico e della sua vi-ta domestica, prospettiva rafforzata dai discorsispecializzati sul disagio sociale, o da quelli piùeruditi degli urbanisti della pubblica ammini-strazione? Attraverso quali pratiche e operazio-ni intellettuali “deprendersi”6 dai processi omo-loghi (il giornalismo sensazionalista e la “ricercasociale” al servizio degli interventi pubblici) econoscere diversamente i campi microsociali delquartiere, lo spazio domestico, gli spazi di coa-bitazione e quelli di attività finalizzata (servizi,uffici, scuole, ecc.)? Come apprendere il rappor-to con questo “spazio costruito”, senza ridurloagli usi, alle necessità funzionali, a un processodi sola semiosi testuale, senza “estrarlo” dal quo-tidiano proiettandolo in un ordine oggettivoportato dell’esterno? Riassumendo, come “ap-prendere” lo ZEN in quanto “configurazione so-cio-spaziale”? Quale ermeneutica dello spazio ènecessario “edificare”? Sono queste le domandecui cercherò di abbozzare una risposta nei para-grafi seguenti di questa prima parte, che risulte-ranno talvolta euristiche e assumeranno la formadi un cahier de charges piuttosto che proporresoluzioni in sé compiute.

Organizzerò questo primo intervento attra-versando gli spazi costruiti del quartiere: inizieròdagli spazi domestici, gli interni degli alloggi ri-masti sempre occultati nelle rappresentazionimediatiche, per entrare poi negli spazi di coabi-tazione e nelle sue strade. Da qui mi interro-gherò poi sul modo di cogliere il quartiere nellasua relazione con la parte restante della città.

2. Lo sguardo etnografico: il “qui e ora”

2.1 Sense-experienceChe siano i colloqui in casa di Vita e di Vichi,

di Totò U’ Pacchiuni, o quelli con Dorotea, assi-stente sociale o l’architetto B., consulente del co-mune, nei loro rispettivi uffici, l’esperienza etno-grafica àncora al qui ed ora di ciò che è visibile,udibile, toccabile, odorabile7. Insomma l’incon-tro è un incontro sense-experience con singolaritàconcrete, la cui descrizione e il cui sforzo inter-

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pretativo mirano insieme a restituire un cosmoper apprendere non tanto o non solo informazio-ni, ma il modo di stabilire rapporti sociali, il mo-do di stare al mondo, un universo sociale dal suointerno. Quando entro nella cucina di Vita o nelsalotto di Vichi, avverto talvolta l’odore della pa-sta al forno o della cera profumata, sento sullosfondo della finestra aperta il vocio dei bambiniche giocano nel cortile dell’insula, in altri mo-menti solo l’abbaniari del venditore di sale, o nelpieno pomeriggio le casse a tutto volume diun’auto che sfreccia e poi si allontana. In quantosense-experience, l’incontro si presenta con la di-mensione tanto reale quanto seducente di unaimmediatezza che sembra trasparente ma entrocui, invece, occorre ritrovare un’istanza riflessiva.In che modo? Riconoscendo innanzitutto il suocarattere interno di parzialità: c’è sempre unospazio o un tempo che si sottrae alla presa diret-ta dei sensi, che sia nello spazio domestico o inquello pubblico (parzialità che diventerà centra-le per comprendere l’esperienza urbana), qual-cosa che è “fuori campo” dei sensi, oggetto dun-que solo di proiezione e di narrazione. C’è sem-pre una alterità che sfugge e che viene correlatacon il “qui” ed “ora”, e che talvolta è costitutivadi esso. Vita mi accoglie nel suo alloggio maquando mi racconta più volte del disordine dellastanza di Marta, sua figlia, non mi conduce a mo-strarmela. Vichi mi narra più volte della suaperformance di donna siciliana classica nel cortiledell’insula, ma io non sono accanto a lei quandoavviene. Dorotea mi confida le sue impressioni almomento delle sue visite domiciliari o l’architet-to B. dei suoi incontri nell’ufficio del Sindaco.

Queste relazioni dirette, immediate, portanoin sé, allora, una opacità costitutiva: sono condi-zionate da tutte le altre, inclusive, da quella postain essere con me antropologo, nel presente dellaricerca. Questa relazione catalizzerà tutte le altreche sono significative. La ricostruzione differita,non immediata, processuale cioè nel divenirestesso della relazione, della modalità con cui Vi-ta, Vichi, Dorotea interpretano il mio ruolo di ri-cercatore (modalità attraverso cui mi permettonodi partecipare alla loro rete di relazioni) e per cuistabiliscono con me la comunicazione, diventauna ulteriore istanza critica nell’incontro, costi-tuendo non solo le condizioni della sua possibi-lità ma anche il quadro di riferimento in cui risi-tuare dialoghi, gesti e luoghi dell’enunciazione invista della loro interpretazione. L’immediatezzadel dialogo non rima con la sua trasparenza. Ed ègrazie a questa operazione che è possibile rico-struire le logiche reali e attuali con cui vengonostabiliti in questi spazi i rapporti sociali.

La sense-experience è, allora, ad un tempo laforza e il limite dell’incontro etnografico e per-tanto richiede una ascesi: il controllo nella sceltadelle parole. Descrivere questo incontro e tuttociò che osservo in esso domanda di esercitarsi adistinguere, sempre più e sempre meglio, ciò chevedo e ascolto da ciò che so di esso. Le parole, losappiamo, non sono trasparenti, esprimono unapresa sul mondo. E anche quelle scelte da me lamanifestano. È questa ascesi però che permettedi distinguere tra una descrizione etnograficavolta a riconoscere dall’interno le logiche che go-vernano una situazione e una descrizione etno-grafica, giornalistica, romantica o esotica che sia,legittime certo, ma orientate ad altre imprese. Èquesta ascesi che prepara la susseguente inter-pretazione. Essa permette infatti di non ridurreciò che viene ascoltato o visto alla decodifica diun testo. Le pratiche dello spazio costruito e de-gli oggetti quotidiani, in maniera particolare,non sono riconducibili a un codice testuale e laloro interpretazione ad una “lettura”8. È perquesta ragione che parlo sovente di “apprende-re” per dire il capire. Ciò che è oggetto di perce-zione nello spazio costruito è anche oggetto diazione: la semiotica soggiacente non è priorita-riamente quella dell’equivalenza ma piuttostoquella dell’implicazione. La porta d’ingressodell’alloggio di Vichi e Piero apre o chiude sumodi distinti di mettere in scena, e di agire lapropria identità di genere, “femmina intu’ ciri-vieddu con un difetto tra le gambe” quando è ca-sa, o “frocio” o classica fimmina siciliana quan-do è nel cortile. Le bomboniere delle comunionie dei matrimoni esposti nella vetrinetta nell’an-dito di Franca, ricordi da contemplare, rinvianoognuno non a significati ma a reti di relazioni ead eventi di relazioni, che lei vuole mettere al si-curo. Anche l’arredamento della sua casa, la sua“sala”, da lei raccontata dischiude non significa-ti, ma annuncia relazioni, che non sono in sé di-rettamente oggetto di percezione, né a lei cheparla né a me che ascolto, ma altrettanto reali og-getti d’azione (gesti d’amore e d’amicizia, di af-fetto familiare) di cui questi mobili restano il se-gno. Così gli odori e i colori, mutevoli o costantidel quotidiano, il fritto dei cardi impanati perl’Immacolata o la nuova tenda beige della sala diVita riconducono a quegli atti routinari e anchetalvolta rinnovati con cui le identità personali so-no poste in essere, agite. Cucinare, lavare, pren-dere il caffé con le vicine del pianerottolo, mani-festano e producono una identità: i mille modi difarlo rivelano la continua negoziazione di questigesti con i vincoli esterni delle rappresentazionidominanti di genere e di classe.

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F. Fava, Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZEN

2.2 Da “dentro e dal basso”

La pretesa, per certi versi arrogante, dell’ap-proccio antropologico è quella di ricostruire ununiverso sociale “da dentro e dal basso”: cioè diprodurre una conoscenza intima di questo spa-zio, a partire dal punto di vista e dalla posizionedei residenti, proprio nel momento in cui i rap-porti sociali si costituiscono. Esso restituisce lospazio domestico con tratti diversi da quelli concui esso è messo in forma di discorso dagli ope-ratori o dai giornalisti cui basta “vedere” senzaentrare in dialogo, per ricondurre ciò che vedo-no e ascoltano a ciò che credono di sapere. Lefitte reti di relazioni, l’iniziativa individuale chedeve fare i conti con i vincoli economici dellaprecarietà, la costruzione di nuovi legami fami-liari come luoghi di investimento e di controllodi questa iniziativa, l’invenzione delle attivitàinformali, sono tutte logiche occultate aglisguardi esteriori degli operatori che vedono solo“l’incapacità di stabilire rapporti soprafamiglia-ri”, “l’assenza di progettualità”, “la fuitina”,“l’indolenza”, la “passività”9. L’etnografia urba-na dello spazio domestico riconsegna allora del-le conoscenze che smantellano i saperi stereotipisul disagio sociale, rafforzati dalle conoscenzeerudite e alimentati dalla rappresentazione me-diatica. Essa permette di avvicinare i residenti edi riconoscere il loro sforzo per fare fronte, conle scelte più razionali possibili, a un contesto dicostrizioni simboliche (lo stigma) e fisiche (lospazio costruito e l’abbandono delle istituzionipubbliche) nonché di rapporti di subordinazio-ne interni allo spazio residenziale.

Nello spazio di coabitazione, nel cortile del-l’insula, nella strada, la parzialità dell’esperienzaetnografica cui sopra facevo cenno viene a costi-tuire l’essenza della sense-experience urbana.Quando passeggio nel cortile dell’insula non ve-do ciò che dimora dietro le tapparelle o le ve-rande, così come ciò che è al di là della stradanon è oggetto di esperienza diretta. Lo sarà. C’èsempre qualcosa fuori dalla mia vista che diven-ta invece oggetto di proiezione e di rappresenta-zione (e di lì d’azione). Via Libertà e Viale Stra-sburgo, che i residenti non vedono (e che permolti restano solo nomi), diventano il polo di ri-ferimento immaginario con cui, costretti dallostigma, si ascrivono e reclamano la loro “norma-lità” (che non è che la generalizzazione della for-ma di vita di una élite cittadina). È importante ri-levare questo aspetto per due ragioni. Questasense-experience è al cuore dell’etnografia dellospazio urbano e della definizione stessa di città:«la città tira la sua realtà dall’ubiquità della sua

assenza: è presente in ciascuna delle sue vie inquanto è sempre altrove» (Sartre 1960: 57, corsi-vo nel testo). In strada essa costringe a descrive-re situazioni presenti così come a toccare aperta-mente la sua parzialità. “L’ubiquità dell’assenza”mostra il limite interno della esperienza etnogra-fica urbana e la necessità di identificare altre me-diazioni per ricostruire una totalità che restasempre fantasmatica e che potrà apparire solo,alla fine di questi processi di mediazione, comeuna totalità complessa, articolata, multistrato,non saturabile. Non c’è una esperienza direttadella totalità della città (neppure lo è la seducen-te visione della sua pianta).

Tiro le fila. Le relazioni con l’ambiente co-struito sono dunque un elemento chiave nellacostituzione del quartiere. Una volta in strada,però, la scala si allarga anche se il raggio dell’os-servazione rimane sempre limitato. Nel suo ga-rage Tanino ha recuperato la sua officina mecca-nica, all’angolo della strada la drogheria accata-sta i cartoni vuoti e i bancali di diverse acque mi-nerali, i bambini giocano nei cortili delle insulae;proseguendo, incontro altri spazi di vendita digeneri alimentari ricavati nelle aree comuni conpareti di latta. La piazza Zappa, poi, il giovedì siriempie per il mercato. Come dare senso alloraalle pratiche dei residenti nello spazio domesticoe a queste attività in quello pubblico?

3. Oltre l’etnografia: “l’altrove e l’allora”

Una risposta a questa domanda mi sembrapossibile se ci sforziamo di ricollocare quanto vi-sto e udito in un orizzonte più ampio, non solopersonale, intrecciando il “qui e ora” dell’intera-zione microsociale con “l’altrove e l’allora”, dicui, invece, non abbiamo una sense-experiencediretta. Il che comporta costruire delle lentibifocali, la prospettiva analitica “da dentro e dalbasso” da incrociare con quella “da fuori e dal-l’alto”. Non è un passaggio semplice. Il rischio èquello di costruire dei saperi di survol, parafra-sando Merleau-Ponty e non delle conoscenze alsol. Dove l’opposizione survol/sol non corri-sponde alle distinzioni alto/basso, macro/micro,quantitativo/qualitativo, visione d’insieme degliurbanisti/analisi particolare degli scienziati so-ciali, ma un rischio ben trasversale ad ogni di-spositivo conoscitivo (anche etnografico) e cioèquello di presumere un sapere dell’oggetto in ge-nerale, a surplomb, che non si scontra con le in-congruità del reale e che cela a se stesso i pro-cessi che lo costituiscono. All’osservazione zeni-tale, che esprime il desiderio di cogliere la tota-

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lità ed è figura mitica della oggettività, nessunoavrà mai l’accesso (le foto aeree restano pur sem-pre parzialità sul e del reale). Il passaggio all’al-trove e all’allora domanda dunque di riconosce-re ed assumere l’impossibilità di uscire da cir-cuiti di mediazione e di frustrare il fantasma del-la totalità immediata (che la mappa, la visioneaerea come la sense-experience, loro malgradoalimentano). Il passato storico (ma “l’allora”può indicare anche il futuro della pianificazione)e lo spazio costruito della città in tutta la suaestensione non possono che essere ricostruiti at-traverso delle operazioni mediatrici, necessariese vogliamo mettere in prospettiva le pratichesociali del quartiere con i cambiamenti storico-strutturali, “invisibili” che conferiscono sensooggi all’abitare dei residenti e generano “questospazio”. Il nodo sarà proprio mettere al vagliocritico queste operazioni (allo stesso modo delladecostruzione critica dell’approccio antropolo-gico) nel loro costituire il “fuori” e “l’alto”: la co-struzione dei “dati”, la realizzazione del loro og-getto nei rapporti con la vita concreta (cosa la-sciano fuori campo e cosa ritengono, come ridu-cono i fenomeni, ecc.), la misura delle conoscen-ze che esse generano, e i modi per correlarle conla precedente analisi del microsociale. Quantoposto in essere nella sfera pubblica da questeoperazioni, e cioè i discorsi, le mappe, i dia-grammi statistici, da questo momento in poi, e aquesta scala, terranno il posto dello ZEN.

3.1 “Da fuori e dall’alto”Le operazioni mediatrici sono molteplici,

complesse e articolate: occorre infatti ricostrui-re le serie di trasformazioni storiche del merca-to del lavoro, dell’economia urbana, del merca-to fondiario, delle politiche urbane, del welfare,del governo e degli interventi pubblici di Paler-mo per identificare le dinamiche strutturali chehanno concorso e concorrono oggi a produrrelo ZEN e, alla scala della città, i vincoli che suesso sono posti. Il confronto euristico con altre“zone urbane marginali” aiuta ad individuare ilcarattere unico di una storia urbana palermita-na così come anche i tratti ricorrenti che la in-tegrano nei meccanismi globali contemporanei.Qui desidero solo con brevi cenni richiamarel’attenzione sulla complessità che questa im-presa comporta, lasciando al mio interventoprossimo l’esplorazione critica e approfonditadi questi registri.

Le politiche urbane delle amministrazioniavvicendatesi al governo della città, la grandespeculazione del mercato immobiliare (dal “sac-co” di Palermo ai giorni nostri), la macchina

clientelare delle affiliazioni politiche, le contami-nazioni del crimine organizzato anche con unaparte della cosiddetta “società civile” e nel con-trollo del territorio (Maccaglia 2009), e parados-salmente, gli stessi interventi del privato socialehanno contribuito a mantenere la sua margina-lità urbana. L’etimologia della parola francesebanlieue suggerisce che a questa scala i dispositi-vi che reggono e mantengono lo ZEN, pur se-gnandolo profondamente, hanno luogo e sonogovernati altrove (Bourdieu 1993: 337) come erail caso per i luoghi fuori le mura del borgo in cuii ban, i bandi del signore medioevale venivanopromulgati e vincolavano governando i rapportidi coloro che erano residenti sotto pena. È l’in-dicazione che occorre andare a cercare fuori dal-lo ZEN le dinamiche strutturali che lo causano.Queste forze strutturali sono violente (Bourgois2003: 301-307; Wacquant 2007b) e violenti sonoi loro effetti sulla vita quotidiana dei residenti.

Lo ZEN, come appare da questi brevi note,non è dunque un “prodotto” semplice. La suaconfigurazione socio-spaziale va ricondotta al-l’interazione delle dinamiche macrostrutturalicon le decisioni dell’amministrazione pubblica,con i soggetti collettivi e individuali, interni edesterni al quartiere. Lo ZEN è una produzionesociale nel senso che è stato costituito da prati-che sociali, in condizioni storiche che lo hannoreso possibile: modellato dagli interessi degliesperti dell’urbano, di gruppi organizzati, di sin-goli individui, degli amministratori pubblici, lasua forma spaziale e il suo contenuto, la suastruttura urbana e le sue funzioni, non sono chele conseguenze delle loro pratiche spaziali nellasfera economica, politica e simbolica di Paler-mo. Pratiche che a loro volta risulteranno essereinfluenzate da quanto esse stesse hanno contri-buito a porre in essere. (continua)

Note

1 I “numeri” esatti dei residenti dello ZEN sono didifficile acquisizione: i dati statistici disponibili delleunità di censimento vengono sempre aggregati e resipubblici insieme a quelli delle unità amministrative su-periori (la circoscrizione) rendendoli così inutilizzabiliper la misura reale dei fenomeni. Essi sottostimano la po-vertà impedendone una apprensione corretta. In questolo ZEN condivide la sorte dell’informazione statistica(una sorta di cospirazione del silenzio) di tutte le aree dimarginalità urbana che tendono ad essere diluite nellemappe delle città cui appartengono.

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F. Fava, Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione dello ZEN

2 Il termine “produzione” è sovradeterminato. SetaLow utilizza production solamente per denotare i pro-cessi economici e politici di costituzione dello spaziopubblico, mentre utilizza construction per identificare, edistinguere dai precedenti, l’esperienza dei residenti che,in quanto attori, costruiscono quotidianamente la lororealtà e il suo significato (Low 1996). Produzione, però,declinata per lo spazio suggerisce che quest’ultimo deb-ba esser considerato alla stregua degli altri “beni” eco-nomici. Nella mia analisi dello ZEN ho utilizzato e uti-lizzo ‘produzione’ per interpretare il microsociale deicampi di comunicazione a causa della ambivalenza fe-conda che contiene la sua etimologia: produzione comefabbricazione e posta in essere, poiesi, e produzione co-me messa in scena, performance. In queste pagine, attra-verso di esso mi riferisco, in questo momento della ri-flessione e, a seconda delle scale in cui viene declinato, atutti i processi sopraricordati. Questi diventano manife-sti quando il caso palermitano viene comparato con altrearee di marginalità “avanzata”, l’iperghetto nord-ameri-cano e la banlieue francese in declino.

3 Per il racconto dettagliato e critico delle complessevicende legate alla realizzazione del progetto e alla sua al-terazione rinvio a Sciascia 2003.

4 «La rigida griglia ortogonale, priva d’ogni decoro,non offre spazi alla socialità, né mete alla percorrenza,che non siano gli interni delle insulae. Sicché l’insieme,se contiene una ricca articolazione di spazi d’abitazio-ne, di fatto è del tutto privo di spazio urbano che per es-sere tale deve pure essere significativo» (Quartarone2008: 257-267)

5 A titolo d’esempio riporto alcuni titoli: «ZEN nelfango del fango. Sottrarre l’inferno all’oblio» (Perriera1988); «L’inferno ZEN è femmina» (Pino 1989: 36-54.);«Lo ZEN 2 s’incammina verso la città. Nel quartiereghetto, la rivoluzione dei “residenti consapevoli”» (Cala-pso 2000 ); «Baby prostituta nell’inferno ZEN. Ha quat-tordici anni: “Mia madre voleva pagare Sky”» (La Re-pubblica, 2007).

6 Ricorro a questo francesismo perché mi sembra me-glio esprimere il modo in cui occorre edificare la diffe-renza del gesto antropologico nel suo rapportarsi al realequando confrontato con quello di questi gesti omologhi:secondo una istanza di “attiva negazione”, equivalente al“mollare la presa”, al distanziarsi, e una, per contro, di“passiva affermazione”, proprio implicita nella preceden-te, corrispondente al ritrovare, diversamente, lasciandoessere. Le pratiche poste in essere nel modo di procederedella ricerca rispondono a queste due istanze.

7 «Je n’observe jamais que des situations» (Bazin1996: 240)

8 Questo perché il nostro corpo non è un testo: «Em-bodiment is not primarily textual. The human body isnot principally a text» (Stoller 1995: 7)

9 Il rapporto tra servizi sociali e quartiere è costruitoposizionando quest’ultimo come un mondo separato, di-stante, sconosciuto. Questo spiega la conseguente ricer-ca di intermediari per raggiungere in qualche modo que-sto mondo rispetto al quale si sentono stranieri e collo-cati alle sue porte. Pur essendo con esso in contatto di-

retto, sono ciechi e quindi anche incapaci di anticiparegli effetti delle loro azioni poiché queste sono ridefiniteda logiche che restano loro inaccessibili. Gli operatoripromuovono, da una parte, la decomposizione di unmondo percepito come ostacolo da smantellare perchépossa emergerne uno nuovo e, dall’altra, la ricomposi-zione risolutiva di nuove sociabilità: la famiglia, i minorie le donne. Sono così comprensibili i giudizi di condan-na e la stigmatizzazione di alcune pratiche dei residentiche accompagnano molti interventi.

Riferimenti

Althabe G. - Comolli J.-L.1994 Regards sur la ville, Centre Georges Pompidou,

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Giulia Viani

Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo

1. Premessa

Le crisi rappresentano spesso i momenti piùpropizi per cogliere le strutture profonde che re-golano le relazioni umane. La conflittualità tra imembri della comunità mauriziana di Palermo,sfociata recentemente nello smembramento del-l’Associazione che la rappresentava, si è configu-rata come un elemento di difficile comprensione;la ricerca delle cause ha indotto ad affiancare al-le sporadiche osservazioni preesistenti (Giallom-bardo 2007, Pellegrini 2007) un lavoro di analisidelle sue linee di divisione interna. Ne è emersauna comunità complessa che si percepisce diffe-renziata in quattro gruppi “etnici”, riconducibilialla variegata composizione del Paese d’origine,conseguente a sua volta alla politica coloniale in-glese e alle migrazioni indiane dell’800.

Si ripercorreranno, pertanto, la storia e il sim-bolismo del viaggio dall’India e il loro nesso conla definizione delle nuove appartenenze e costru-zioni identitarie nell’Isola di Mauritius. Si trac-cerà, infine, un quadro inedito della comunitàmauriziana di Palermo, singolare e plurale al con-tempo, facendo ricorso a una narrazione creatadalle “voci” degli stessi protagonisti del fenome-no migratorio, poiché attraverso le modalità delracconto si manifestano i tratti distintivi delle lo-ro identità culturali1. La raccolta di “storie di vi-ta”, sulle quali ho basato il processo di conoscen-za etnografica, rappresenta infatti lo strumentoprivilegiato di questa analisi della realtà mauri-ziana, iniziata nel gennaio 2004 e sviluppatasi at-traverso la frequentazione assidua dei luoghi diculto e delle abitazioni di diverse famiglie stan-ziate da anni a Palermo; ho avuto inoltre la pos-sibilità di trascorrere un periodo di tempo aMauritius, ospite di Rajshree, un’amica tempora-neamente rientrata nel suo Paese, compiendoun’esperienza che ha rappresentato un’opportu-nità di conoscenza diretta del contesto di prove-nienza dei migranti2. Le attuali dinamiche sociali

aggregative/disgregative della comunità mauri-ziana si pongono infatti, come si cercherà di evi-denziare, all’interno di una storia migratoria dilunga durata, non eludibile ai fini della com-prensione della ridefinizione dell’identità e dellagestione dell’etnicità3 anche nel nuovo contestoinsediativo.

2. India.Kala pani, migrazione e ridefinizione identitaria

Li chiamavano così perché in cambio di de-naro il loro nome veniva inserito nei girmit, con-tratti scritti su un pezzo di carta. Il denaro andavaalle loro famiglie e loro venivano portati via, pernon tornare più. Era come se svanissero in unmondo sotterraneo […] come se parlassero dimorti viventi […] una barca li porterà […] in unposto che si chiama Mareech (Ghosh 2008: 81-83).

Ciò che più desiderava […] era vedere il ma-re. Il mare. L’acqua nera. Il kala pani. Dicevanoche chi andava al di là del kala pani perdeva la pro-pria casta. Che era maledetto (Appanah 2006: 10).

Kala pani, l’acqua nera che sono stati costret-ti ad attraversare e che ha cancellato dietro di loroogni traccia, ha spezzato ogni legame, ha inghiot-tito la loro memoria […] Chi può capire una taleesistenza in bilico, il senso di non appartenere?(Devi 2004: 128).

Da un po’ di tempo a questa parte, scrittori estudiosi indiani e mauriziani hanno cominciato ainteressarsi di un capitolo fino a oggi poco notodella storia e delle dinamiche antropologiche del-l’India: le migrazioni indiane nelle colonie, altempo della dominazione inglese. Parte della po-litica coloniale britannica ottocentesca si è basatasull’incentivazione del flusso migratorio da ognizona del continente indiano verso l’isola di Mau-ritius (o Mareech, nel suo nome indiano). Mi-gliaia di persone, in particolare detenuti, vedovee poveri appartenenti alle caste inferiori, sono

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state “costrette” – o incentivate spesso con in-ganni e false e lusinghiere speranze – a lasciare ilsuolo natìo superando il tabù del Kala pani (“l’ac-qua nera, il nero Oceano”). L’attraversamentodel mare rappresentava, infatti, un kalivariya, os-sia un “uso da evitarsi” per un indiano ortodos-so, in quanto la condizione di impurità a cui an-dava incontro fuori dal suolo indiano comporta-va la perdita della casta e l’abbandono dell’ap-partenenza alla comunità degli uomini social-mente “classificati” (Della Casa 1997). Il poterepericoloso del mare e del suo attraversamento èconnesso alla perdita dell’identità, alla crisi dellapresenza e dell’appartenenza. La polisemia del-l’aggettivo kala, che qualifica il mare, esprime lacomplessità di tali implicazioni: il termine san-scrito significa “nero”, ma possiede anche una se-conda accezione traducibile in “morte”. Kala,inoltre, è un attributo di Shiva e della dea Durganella sua forma ctonia, entrambe divinità delladistruzione ma anche della rigenerazione (Pontil-lo 1993). Ne consegue che il kala pani elargiscemorte simbolica, ma al contempo conferisce lapossibilità di rinascita e di nuova vita in un “al-trove”.

Il tabù del kala pani è metafora ampia e rive-latrice dello statuto del viaggio migratorio: l’attodel partire e del viaggiare produce sempre un ele-mento forte di caoticità, rimettendo in gioco laflessibilità dell’identità nella nuova patria. Qual-cosa si distrugge e qualcosa si conserva e, tra cri-teri vecchi e nuovi, un ordine sociale è destinato,inevitabilmente, a ricostituirsi.

3. Mauritius. Politiche culturali e “classificazione” sociale al di là dell’“acqua nera”

«La Repubblica di Mauritius è stata creatadagli immigrati». È questo il leitmotiv della mo-stra permanente Le Peupleument de Maurice, or-ganizzata dal Mauritius Museums Council aPort Louis per illustrare il profilo socio-cultura-le composito e variegato degli abitanti dell’Iso-la4. Punto strategico nell’Oceano Indiano perlungo tempo ambito e conteso dagli Europei(Portoghesi, Olandesi, Francesi e, infine, Ingle-si), Mauritius è oggi popolata dai discendenti de-gli schiavi e dei lavoratori che i colonizzatori de-portarono o reclutarono da altri Paesi (soprat-tutto da varie zone dell’India) per coltivare lepiantagioni di canna da zucchero. La politicabritannica, in particolare, ha la responsabilità diaver creato una “little India”, riunendo forzata-mente comunità eterogenee dal punto di vistageografico, linguistico, storico, religioso e cultu-

rale, “classificandole” poi a scopi “scientifici” eburocratico-amministrativi.

Negli ultimi anni, pertanto, molti studiosispecializzati nelle dinamiche antropologiche diMauritius tendono a decostruire l’immagineidilliaca del “mescolamento di popoli” e a riget-tarla come fuorviante. Oddvar Hollup ha messoin discussione l’unità e l’omogeneità della “co-munità” degli Indo-mauriziani, mostrandone laframmentazione e le complesse dinamiche inter-ne e mettendo l’accento sull’esistenza di una «di-versity in unity». Al contrario di quanto general-mente si creda, infatti, gli Indiani «form a farfrom homogeneous category because they aresubdivided into several socio-cultural groupswhich claim a separate identity» (Hollup 1996).I lavoratori indiani, infatti, vivevano una condi-zione che non conduceva al mantenimento dellacasta che, oltre a essere simbolicamente perdutacon la migrazione dall’India e l’attraversamentodel kala pani, è comunque legata al mestieresvolto, mentre essi erano accomunati dalle me-desime attività nelle piantagioni. Di fronte a unaffievolimento, se non alla scomparsa, delle di-stinzioni sociali basate sul sistema castale, si assi-ste perciò a un’accentuazione del criterio “etni-co” come categoria sociale “discriminante” perstabilire nuove identità su cui basare l’ordine so-ciale. Lo Studioso sostiene, appunto, la tesi del-la «transformation from caste identity to ethnicidentity and the fragmentation of the Indians in-to discrete identities» (Ibidem). Lo straniamentodella condizione migratoria, d’altronde, ha in-dotto i migranti a cercare un’appartenenza, tro-vando sostegno e protezione (materiale e simbo-lica) nel proprio gruppo di provenienza, come seil “modello etnico” fungesse da “mappa cogniti-va” per orientarsi nell’ambiente estraneo e po-tenzialmente rischioso.

Nella realtà mauriziana contemporanea si di-stinguono, pertanto, componenti di quattrogruppi, di cui uno maggioritario e tre minoritari:

They are identified by the Hindi dialect -Bhojpuri, share the same food habits, religiouspractices and rituals, and are the descendants ofindentured labourers from north India. […] TheHindu minorities such as the Tamils, Telugus,and Marathis claim a distinct cultural identity oftheir own (Ibidem).

Gli fa eco Thomas Hylland Eriksen, che hadedicato diversi studi alle comunità maurizianee alla compresenza dei fenomeni opposti di“multiculturalismo” e “creolizzazione”:

About half of the population are Hindus, butthey are subdivided into North Indians ("Hindi

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speaking"), Tamils, Telugus and Marathis, and donot consider themselves as belonging to the sameethnic group. […] They came from clusters of vil-lages in particular parts of India: Bihar, AndhraPradesh, Tamil Nadu and Maharashtra. […] InMauritius, controversies concern the relationshipbetween multiculturalism (seeking to “purify”their own culture) and creolisation (ecleticism,weak group identity) (Eriksen 1999: 4, 6, 15).

Crispin Bates, studioso delle diaspore dell’a-rea sud-asiatica, definisce Mauritius «an islandapparently without conflict», prendendo in con-siderazione il matrimonio come parametro deirapporti tra le comunità:

The terms Hindu and “Indien” refer exclusive-ly to north Indian Hindus. Migrants from Tamil-nad identify their religious group as Tamil, notHindu, and minority groups such as “Telugu” and“Marathis” are preoccupied with maintaining re-gional endogamy (Bates 2000: 7).

Oltre alle unioni endogamiche, si contraggo-no anche matrimoni “misti”, ma si oscilla tra illoro sanzionamento (spesso a opera della gene-razione più adulta) e l’accettazione in nome del-la “modernità” dei costumi e della “creolizzazio-ne”. Entrambi i casi, comunque, sottolineanol’esistenza di un “confine”.

L’indipendenza mauriziana dall’Inghilterra(1968) ha comportato il trasferimento del pote-re politico nelle mani degli Indiani, in particola-re della maggioranza hindu; in risposta, le mino-ranze hanno dato vita ad associazioni socio-reli-giose indipendenti, che agiscono politicamenteal fine di garantire gli interessi “etnici”. L’obiet-tivo della maggioranza al governo è stata, finora,di incoraggiare e mantenere una società “multi-culturale” e “multireligiosa”, attraverso diffe-renti “compromessi” (per esempio promuovereil valore simbolico delle cosiddette lingue “ance-strali”, dichiarare le maggiori feste religiose fe-stività pubbliche, ecc.), in modo da soddisfare leistanze dei vari gruppi e rispettare il loro “dirit-to alla differenza”:

Supported by political opposition or allianceand cultural revivalism they try to distinguishthemselves from the numerous and politicallydominant Hindus. Although entirely Kreolspeaking, the ancestral languages (Tamil, Telu-gu,Marathi) of the Hindu minorities still have im-portant symbolic meanings linked to culturalidentity and a shared past. Therefore, religious af-filiation, rituals, kinship bonds, and ancestral ori-gin have become more important for the con-struction of ethnic identity than language amongthe minorities (Hollup 1996).

La politica di revival culturale, con la sua

retorica dell’etnia, ha creato una divisionenon solo tra Indiani e altre comunità, «but al-so a north/south Indian opposition in whichMarathis were associated with and consid-ered culturally closer to the Hindus, com-pared to the Tamils and Telugus». Questa li-nea di separazione, particolarmente sentitadai Mauriziani, coincide con il criteriodell’“origine” dravidica o indoeuropea: Tamile Telugu sono affini perché discendenti daigruppi dravidici autoctoni dell’India che, al-cuni millenni fa, vennero sospinti al sud in se-guito alle invasioni di gruppi indoeuropei, dacui discendono invece Marathi e Hindu. Se-condo un meccanismo ben noto alla storia,disuguaglianze di potere hanno assunto unaconnotazione “etnica”.

La molteplicità delle feste e dei calendariinduisti riproduce la complessità, la varietà e ildinamismo del mondo mauriziano e induistain particolare. Non è ignoto agli indologi chel’induismo, in quanto categoria generica co-niata dagli Occidentali, inglobi in realtà al suointerno correnti o “sette” con credenze e pra-tiche rituali differenti (Knott 1999; Massenzio2005; Filoramo 2007). Ciò che in questa sedepreme sottolineare è il fatto che questi “indui-smi”, trapiantati dall’India al contesto migra-torio mauriziano e poi, come si cercherà dimostrare, a quello palermitano, abbiano strut-turato delle “appartenenze” che, secondo laconfigurazione di elementi elencata da Tullio-Altan (1995), possono definirsi appunto “et-niche” (dell’ethnos), in quanto basate sull’en-fatizzazione di una memoria storico-mitica edelle differenti origini indoeuropee e dravidi-che (epos), della diversa provenienza geografi-ca da Maharashtra, Bihar, Andhra Pradesh,Tamil Nadu (topos), delle lingue marathi, hin-di bhojpuri, telugu e tamil (logos), della conti-nuità della discendenza e dei caratteri fisiciquali la pigmentazione della pelle (genos) e,infine, proprio delle norme e del comporta-mento religioso (ethos). È questa complessitàa rendere interessante agli occhi degli studiosile comunità di Mauritius, dove i processi di in-tegrazione e separazione culturale lavorano si-multaneamente, dipendendo dai differenticontesti, livelli e situazioni, a seconda delletendenze politiche miranti alla creazione diuna identità nazionale o all’invenzione dellatradizione: «in Mauritian public discourse,notions of change, flux, personal choice andhybridity are routinely contrasted with tradi-tion, stability, commitment to fixed values andpurity» (Eriksen 1999: 14).

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4. Palermo. Narrazioni polifoniche,identità plurali e appartenenze multiple

Quando, qualche anno fa, ho chiesto a Sati-sh, un mio amico mauriziano, di aiutarmi a tra-durre le parole e i canti della festa di GaneshaCaturthi, con mia sorpresa mi sono resa contoche le sue difficoltà non erano molto diversedalle mie: «Questo è Marathi» mi ha detto,spiegando le ragioni della sua non facile com-prensione, «vedi i ragazzi che si buttano in ac-qua? Loro sono tutti parenti, familiari. Sono inpochi, in minoranza, quindi non parlano la lo-ro lingua con gli altri». I Marathi si distinguo-no, mi ha fatto notare, perché legano al colloun fazzoletto arancione («mentre i ragazzi in-diani non hanno questa cosa al collo, loro lomettono per dimostrare che fanno parte diquesto»). L’arancione è il colore dei devoti diGanesh, divinità principale dei Marathi, manon degli Hindu come Satish: «Ganesh è un al-tro ramo. Loro fanno questa cosa tra di loro.Loro tengono al loro “santo”. Noi siamo perDurga».

Differenze di lingue, colori, devozioni reli-giose e pratiche rituali hanno cominciato così aprofilarsi e delinearsi, attraverso le forme di ca-tegorizzazione noi/loro operanti nelle pratichediscorsive dei migranti. È emerso così che ognicomunità religiosa è associata a una divinità: iMarathi a Ganesh, gli Hindu a Durga, i Telugua Visnu e i Tamil a Mourouga. Come ogni divi-nità è associata, secondo la mitologia indiana, aun colore, così anche i loro fedeli e devoti sonoidentificati da una diversa tonalità cromatica.Continuando ad approfondire la questione re-lativa ai colori («ognuno ha un colore»), si è ri-levato che ai Marathi pertiene l’arancione, agliHindu il rosso, ai Musulmani il verde e così via.L’esempio scelto da Satish ha messo in luce co-me la “distanza” religiosa tra Hindu e Marathifosse da lui percepita sullo stesso piano di quel-la con i Musulmani. Ho avuto modo, in segui-to, di ascoltare esempi e dichiarazioni simili, aconferma di come, per i Mauriziani, l’islami-smo, il cristianesimo e i vari induismi si ponga-no a distanze simili, secondo una “classificazio-ne” alquanto lontana da quella operata dal pen-siero di matrice “occidentale”.

La comunità mauriziana induista, stanziata-si a Palermo nella metà degli anni Ottanta delNovecento in seguito a una migrazione di tipoeconomico5, presenta e riproduce, infatti, quelmedesimo pattern “etnico”, linguistico e reli-gioso descritto nel paragrafo precedente. Laprincipale linea divisoria è tra gruppi di “origi-

ne” indoeuropea da una parte e dravidica dal-l’altra; all’interno di questi due grandi gruppivi è un’ulteriore bipartizione degli indoeuro-pei in Marathi e Hindu e dei dravidi in Telugue Tamil. In questa partizione, gli Hindu costi-tuiscono la maggioranza e gli altri tre le mino-ranze. Frequentando assiduamente i Maurizia-ni, ho avuto modo di seguire, nel corso di que-sti anni, vicende grandi e piccole che hanno in-fluito sulla composizione dei gruppi e delle af-filiazioni. I Mauriziani di Palermo avevano da-to vita a una Associazione – Mauritius GaneshMandir – che sino al 2007, tra alterne vicende,aveva regolato iniziative ed eventi della comu-nità. Al termine di un lungo periodo di tensio-ni, durante il quale sono andate formandosinuove alleanze e schieramenti di potere, l’As-sociazione si è scissa in due fazioni. Secondo ilpresidente di una di queste, il numero degliiscritti all’Associazione sarebbe oggi così ripar-tito: settanta famiglie hindu, trenta tamil, tren-ta telugu e venti marathi. Se Mauritius è una“piccola India” in cui si ritrovano per la primavolta insieme comunità con differenze cultura-li, linguistiche e religiose, che precedentemen-te erano distanti e indipendenti anche per lalontananza geografica, Palermo è una “piccolaMauritius” in cui gruppi socio-religiosi, chehanno interiorizzato un modello di separazio-ne e di convivenza senza mescolamento, si tro-vano “costretti”, visto il numero esiguo di ele-menti, a formare un’unica comunità. La politi-ca della “creolizzazione” e di un’unica identitàmauriziana concorre ad agevolare questa unio-ne, ma la specificità del gruppo di appartenen-za, anche se non esplicitamente esibito e riven-dicato, è presente nei Mauriziani ed emergequalora vengano poste domande mirate e spe-cifiche al riguardo, soprattutto per quantoconcerne i Marathi, i Telugu (o Telegu) e i Ta-mil, che anche a Palermo sono la minoranza ri-spetto agli Hindu, quindi la “minoranza di unaminoranza”. Anche se la differenza linguisticatra questi gruppi si è affievolita con le nuovegenerazioni, sembra permanere una distinzio-ne di tipo socio-religioso con ricadute associa-tive e di politiche identitarie non sottovaluta-bili. Nella consapevolezza che l’individuo è unosservatorio privilegiato poiché rappresentasempre ruoli in conflitto tra loro e molteplicitàdi sistemi diversi, riporto di seguito alcuniesempi più significativi di storie di vita di Mau-riziani6 appartenenti ai quattro gruppi “etni-ci”, affidando alla “narrazione polifonica”7 ilcompito di disegnare la complessità di una co-munità singolare e plurale al contempo.

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Il racconto di Kalyani. Kalyani è una mauri-ziana di 49 anni, a Palermo da 17. Alla mia do-manda sulle varie lingue parlate alle Mauritius,lei è intervenuta, contenta, affermando «io sonomarathi». Ricostruisce il suo genos, ripercorren-do a ritroso le generazioni fino alle origini inMaharashtra («loro prima di Maharashtra, cittàdi Bombay. Mio bisnonno…tutti di là»). Nellasua famiglia, infatti, sono tutti marathi, senza in-trusioni e interferenze nei “rapporti di sangue”.La conoscenza della lingua è patrimonio soprat-tutto della generazione più antica, mentre lanuova ha spesso una competenza linguistica pas-siva, conseguenza del numero esiguo di parlantimarathi («è un po’ difficile, perché c’è pochipersone marathi all’Isola. Ci sono indiani hindudi più»). Ganesha Caturthi è, come abbiamo vi-sto, la festa marathi per eccellenza: «vedi quellafesta che va a mare, per Ganesh, questa è ma-rathi. Proprio da nostro Paese»; dove per “no-stro paese” Kalyani intende chiaramente ilMaharashtra e non Mauritius. A proposito dellacomunità mauriziana palermitana, Kalyani sentela necessità di spiegare così l’eterogeneità dellefeste religiose: «perché qui a Palermo siamo ungruppo di tutte le religioni e noi dobbiamo met-tere d’accordo tutti perché noi siamo pochi a Pa-lermo». La “religione” marathi, che durante ilcorso dell’anno si confonde con gli altri indui-smi, trova il suo riconoscimento semel in anno,esplicandosi attraverso la processione per Gane-sh e l’utilizzo di uno spazio “altro” rispetto altempio: la strada e il mare. Se da una parte ri-corrono al “tempio”8 come spazio dell’incontroe delle celebrazioni collettive, dall’altra i Marathiricercano luoghi di autonoma aggregazione e so-cializzazione fondati sull’appartenenza religiosae linguistica. In alcune giornate libere, infatti, siriuniscono tra loro, in una casa messa a disposi-zione da qualcuno, per celebrare preghiere per il“proprio” dio Ganesh, nella “propria” lingua(«pandit 9 domenica fa preghiera in marathi a ca-sa sua. Quando facciamo questa cosa è in ma-rathi questa preghiera. Sempre per Ganesh»).Alcuni individui della comunità, per i qualiKalyani ha grande ammirazione, possiedonouna competenza maggiore della lingua, anchegrazie ai continui contatti con la comunità ma-rathi inglese («parla marathi, proprio marathi.Loro parla sempre marathi»). Il cugino del pan-dit, anch’egli officiante, è venuto spesso da Lon-dra a Palermo, in occasione delle feste, per con-celebrare. Le comunità mauriziane mantengo-no, così, contatti con le altre sparse nel mondo,creando una comunità “multisituata” con un’i-dentità “translocale”.

Kalyani ha sposato un altro marathi, a se-guito di un matrimonio combinato («sua ma-dre mi ha trovato per matrimonio, ha fatto fi-danzato, non è che conosco prima. Da noi siusa così»; «lei dice “questa ragazza è brava: èmarathi come noi”»). Per quanto riguarda imatrimoni “misti”, le idee di Kalyani riprodu-cono la divisione marathi-hindu da una parte etamil-telugu dall’altra. La donna vorrebbe chei suoi due figli sposassero, anche in vista di unritorno in Patria, ragazze mauriziane e «maga-ri uno sposa marathi, uno hindu»; un hindu,infatti, «è un po’ vicino». Alla domanda se unmarathi può sposare un tamil, Kalyani ha ri-sposto negativamente, aggiungendo, però, chequesto diniego e la preferenza assoluta per unconiuge dello stesso gruppo socio-religiosoerano rispettati soprattutto dalla generazioneprecedente, mentre la nuova tende a discostar-si da queste direttive («Tamil no. Però ora sisposa, però prima no assolutamente, perché inostri genitori dice che quando sposa devi spo-sare sempre nostra religione).

A proposito dei matrimoni “misti”, ancheRajshree – giovane donna di famiglia hindu –descrive un’inculturazione tesa al mantenimen-to dell’endogamia, motivandola col raccontodei problemi seguiti all’unione tra il cugino euna ragazza tamil:

Mio padre dice no e scherzando scherzandote lo metteva in testa sin da piccola. Allora quan-do tu vedi un ragazzo che non è della stessa reli-gione eviti: “no, questo non è possibile perchépoi ci saranno problemi”. Poi quando ho vistomio cugino che ha conosciuto una ragazza tamil,ha avuto problemi. Il padre della ragazza dice“no, mia figlia entrare nella religione hindu nonse ne parla”. Non considerava più la figlia, dice“se esci fuori da casa mia non esisti più”.

Il racconto di Anandi. Trasferitasi a Palermo23 anni fa, al seguito dei cugini, Anandi è unatelugu mauriziana di 47 anni. Le catene migra-torie riproducono, di consueto, le “apparte-nenze” di gruppo, incidendo sull’affitto degliappartamenti e sui connazionali frequentati.La donna, di famiglia telugu, ha sposato 14 an-ni fa un altro telugu conosciuto nella comunitàdi Palermo, con cui ha avuto tre bambine.Anandi considera la possibilità che, una voltacresciute, le figlie si sposino “al di fuori del-l’induismo”, magari con italiani, non dimo-strando d’altro canto alcun interesse a rientra-re a Mauritius, dove (caso che si riscontra piut-tosto raramente) ha rinunciato persino a co-struire la casa. La tipologia del progetto migra-torio rivela così la sua capacità di influenzare le

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G. Viani, Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Palermo

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idee relative all’appartenenza e al manteni-mento dell’endogamia.

Anandi mi fornisce informazioni sulla “co-munità” telugu – composta da più di un centi-naio di persone – e sulle sue riunioni. I Telugudi Palermo, infatti, come i Marathi, si sono uni-ti alla più numerosa comunità hindu per potercelebrare le proprie festività al “tempio” e ave-re occasione di vedersi («visto che noi non ab-biamo il posto – e dobbiamo pregare – va dahindu, perché è simile. Allora andiamo e ognu-no prega a maniera sua»). A questi momenticondivisi, si affiancano però le occasioni in cuii Telugu si incontrano tra loro, per esempio perfesteggiare specifiche ricorrenze come il lorocapodanno Ougadi («Ougadi, sì, è diverso, per-ché noi festeggiamo un altro [capodanno]. Pre-pariamo tante cose, tipi di mangiare, facciamola festa, balliamo»). Anche Rajshree ricordal’organizzazione di queste feste riservate ai Te-lugu, a cui lei e il marito non erano invitati per-ché di “religione” hindu («c’è un signore checonosce tante persone […] ha la possibilità diorganizzare delle feste, li riunisce per il loro ca-podanno, ogni anno ci riesce. […] Lui non favenire gli altri, lui non mi inviterà anche se miconosce. Inviterà soltanto di quella religione»).

Ad Anandi e ad altre mauriziane devo laspiegazione degli ornamenti, veri e propri“contrassegni” visivi, che permettono di rico-noscere e “inquadrare” la donna all’interno delgruppo di appartenenza, di primo acchito e alprimo sguardo. Sono soprattutto le donne, in-fatti, che cercano di mantenere viva nel paeseospite la propria “identità”, a cominciare dalmantenimento del costume tradizionale e dellasua funzione di “carta d’identità” e “messaggiosociale”. Ornamenti fondamentali per l’identi-ficazione sono la collana («si nota dalla collana:noi hindu hindu c’abbiamo così, lei che è ma-rathi di Bombay ce l’ha differente») e l’anello alpiede, indossato sempre nel contesto rituale espesso anche nella quotidianità casalinga e la-vorativa («quando io esco me lo porto sem-pre»), in particolare nella stagione estiva che nefacilita l’uso grazie alle scarpe aperte. Varianonella forma, nel materiale e nel colore a secon-da del gruppo (per es. la collana è di corda gial-la o di smalto nero e oro, la medaglietta è sin-gola o doppia, è rotonda o di altra forma, l’a-nello è circolare o a spirale). È interessante chele hindu, invece, non portano generalmente l’a-nello al piede, attributo identificativo che sem-bra connotare esclusivamente marathi, telugu etamil, ossia le minoranze. I gruppi marginalimauriziani, perciò, presentano maggiore con-

servatività e ostentazione della “tradizione”, ri-spetto alla maggioranza hindu.

Il racconto di Radhika. Radhika è maurizia-na tamil. Ha 55 anni e vive a Palermo da 18, inuna zona del Borgo Vecchio dove vivono pa-recchi tamil, anche dello Sri Lanka. Radhikaracconta di avere molti amici tra questi e diaver fatto parte anche di un coro di tamil sri-lankesi. È fiera di questo e di conoscere benela lingua tamil. Per questo gruppo, infatti, il lo-gos, la conoscenza della lingua, è un tratto de-terminante della definizione identitaria el’“iniziazione” all’insegnamento dell’alfabetoassume caratteri rituali. Mentre gli Srilankesi«loro parla tamil tamil proprio», i Tamil delleMauritius lo usano in modo quasi esclusivonelle occasioni rituali, ricorrendo invece alcreolo come lingua usuale negli scambi con-versazionali quotidiani (al pari di tutti gli altriMauriziani). Radhika, quindi, non ha l’abitu-dine di parlare tamil, ma è in grado di utilizza-re questo codice nella comunicazione scritta onelle preghiere e canti religiosi («lo leggo, loscrivo, canto con loro in chiesa») e, grazie aqueste capacità, è arrivato il riconoscimentodella sua “identità tamil” («io cantavo, loronon pensavano che io conosco loro lingua, poipiano piano io detto “anch’io sono tamil!”»).La donna, infatti, è stata spronata dalla fami-glia, sin dalla tenera età, ad andare a scuola perimparare la “lingua dei padri” («quando noieravamo piccola dice sempre “vai alla scuolatamil, devi studiare nostra lingua”. Allora, aquesto punto, noi ci siamo andata»). Nel con-testo migratorio, Radhika ha assunto il ruolodi promotrice delle festività peculiari dei tamilmauriziani, come Govinden, e prima di ognicelebrazione riattiva i suoi contatti transnazio-nali, chiamando lo zio pandit alle Mauritiusche, tramite la figlia che abita a Londra, inviaa Palermo le informazioni necessarie («Govin-den l’ho fatto io. […] Se io non conosco unacosa e devo fare una messa qua in nostra lin-gua tamil di Paese, se io non sono sicura io te-lefona “sai io devo fare questo, manda frasiche devo dire”. Lui manda a sua figlia in In-ghilterra che mi manda un fax»). Il rito cele-brato dai Tamil mauriziani, a cui ho avuto mo-do di assistere grazie a Radhika, si avvale diuna disposizione dell’altare diversa rispetto al-le celebrazioni hindu, manifestando la ricercadi distinzione sin dall’uso e dalla costruzionedello spazio sacro. L’altare laterale, infatti, di-venta in questa occasione il punto di riferi-mento primario per la preghiera, orientando ifedeli secondo un altro asse e rendendo subal-

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terno l’altare in cui la statua di Durga occupail posto principale (in quanto dea della mag-gioranza hindu), mettendone così in discussio-ne la centralità e l’egemonia con la creazionedi un altro “ordine” del mondo.

La simpatia di Radhika verso gli Srilankesi,che a Palermo rappresentano un gruppo nu-mericamente consistente e ben organizzato, èanche conseguenza della loro maggiore capa-cità di celebrare le proprie feste, rispetto aiMauriziani («c’è abbastanza tamil mauriziani,però loro non ce n’è il potere di fare le funzio-ni che sono di nostro Paese. Allora quando c’èfesta grande io dico ai tamil, chiedo loro lachiesa e facciamo»). Quando la comunità mau-riziana non fornisce, pertanto, un adeguato so-stegno materiale e simbolico, i Tamil maurizia-ni trovano più funzionale sottolineare il trattotamil e la comune identità con gli Srilankesi; al-trimenti mettono in evidenza il tratto mauri-ziano della comune identità nazionale, o sem-plicemente quella “dravidica” con i Telugu.Tamil e Telugu, inoltre, sono presenti in mag-giore concentrazione nella “fazione” dell’asso-ciazione più impegnata in attività di “promo-zione” della comunità (attraverso l’organizza-zione di mostre, balli ecc.), finalizzate alla ri-chiesta di fondi al Comune, alla concessione dilocali migliori e più adatti da adibire a “tem-pio” e al riconoscimento dei Mauriziani in am-bito cittadino. È ipotizzabile che questi gruppi“dravidici”, proprio in quanto minoranze checercano di “riscattarsi”, abbiano scelto di farparte della “comunità” in cerca di maggiore vi-sibilità pubblica.

La testimonianza di Radhika è significativaper comprendere i legami profondi tra la pre-senza di diversi gruppi socio-religiosi e la crisidella comunità mauriziana induista di Palermo.Tutti i Mauriziani affermano, infatti, di parteci-pare alle varie feste, a prescindere dalle “ap-partenenze”. Al di là di queste dichiarazioni –analizzando meglio le interviste – emerge, tut-tavia, una dicotomia comportamentale tra par-tecipazione attiva e passiva, tra organizzatori e“ospiti”. Anche se le altre “comunità” parteci-pano come “visitatori” ai riti altrui, soltanto imembri del gruppo interessato e devoto a quel-la divinità svolgono un ruolo attivo nell’orga-nizzazione della festa, lamentando l’assenza diaiuto e collaborazione da parte degli “altri”(per esempio per le incombenze pratiche, qua-li cucinare, lavare, preparare il tempio). Espli-cito a riguardo il seguente brano dell’intervista,sulle motivazioni dello “scisma” mauriziano:

Ognuno vuole diventare presidente, dice co-sa che non va, poi c’è stato litigio e finalmente lo-ro hanno diviso. Sette anni ho passato ogni do-menica in chiesa, andata la mattina apri alle diecichiudi alle due, nessuno aiuto. Io sono stanca, so-lo membro visitatrice, non mi interessa aiutare,quando serve aiuto per festa tamil vengo ad aiu-tare, per gli altri vengo come ospite. Poi tu vai lorofesta aiuta loro, quando tu devi fare Govinden lo-ro non viene, nessuno aiuto. A me m’arrabbia. Ledonne che aiuta per altre feste, quando noi fac-ciamo feste, loro non viene, viene come ospite, nonviene che ci lava piatti o cucinare o un aiuto. Ioora pure faccio così, basta.

Anche il presidente dell’Associazione, pur in-sistendo sulla partecipazione collettiva alle cele-brazioni, delinea una differenza tra chi organiz-za effettivamente la festa e chi si accoda sempli-cemente: «Lì [a Mauritius] sei sul luogo e ognifesta la puoi fare come vuoi. Invece noi qui sia-mo pochi, siamo fuori. Però partecipiamo tuttiinsieme. Se è una cosa di hindu allora la prenditu l’iniziativa e noi siamo dietro di te, se è cosa ditamil allora la prendo io e tu vai dietro di me».La difficoltà di trovare un proprio rappresen-tante è da imputare probabilmente a questa par-tizione interna e a una coesistenza “forzata” chegenera “con-fusioni” in merito ai riti religiosi eagli orizzonti di senso ad essi collegati e da essiveicolati. Rajshree, per esempio, esprime i suoidubbi riguardo alla pratica dei pandit marathi dirompere e mangiare le noci di cocco benedette,impensabile per un hindu per cui questo fruttorappresenta il cosmo e la dea madre Durga. L’al-ternarsi di pandit delle diverse correnti religiosedell’induismo produce spesso, infatti, incom-prensioni sul loro operato e “delegittimazioni”del ruolo. Inoltre, poiché ogni religione coincidecon una visione del mondo e i suoi riti sono attifinalizzati a “rassicurare” gli individui di frontealle incertezze e alle tensioni dell’esistenza, la di-versità rituale con cui i Mauriziani sono in conti-nuo contatto genera in loro quello stato di con-fusione che non è strettamente religioso ma ri-guarda, appunto, l’ordine del mondo e la co-struzione di senso e identità:

ogni prete hanno un rito, noi indù ci sono di-versi tipi di indù, ci sono i marathi che preganoGanesh, tamoul che pregano Mourouga, teleguche pregano Visnu. Noi per ora siamo tutti in-sieme, quelli che vedi in chiesa. Ora il prete cheè venuto fa i riti come quelli dei marathi, peròriesce a fare Durga Puja, riesce a fare quello chepuò fare. Però secondo me non è un prete vero eproprio. Durga è rappresentata da una noce dicocco. Però non si mangia questa cosa, però ilfatto che lui ha distribuito queste noci di cocconon lo capisco. È una cosa benedetta, sacra.Non si può mangiare e neanche rompere, per-

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ché diventa come se devi rompere la testa diqualcuno, la stessa cosa. Siccome loro sono diun’altra religione, la pensano in un altro modo.[…] Ora c’è un altro prete che viene da Londraed è bravissimo. E fa le cose diversamente. Ognu-no viene… e non capisci, ti confondi alla fine.

Il racconto di Soopriya. Una delle testimo-nianze più interessanti per comprendere ledistinzioni tra le varie comunità, le specificitàe i rapporti (anche “gerarchici”) che intrat-tengono tra loro è quella di Soopriya, giovanemauriziana trentenne di padre hindu e madretamil. In seguito ad alcuni dissapori, la ragaz-za si è allontanata dalla comunità maurizianadi Palermo, per trasferirsi nell’Italia del nord(«qua con tutti questi Mauriziani […] c’hopassato tanti problemi con loro, ti sparlano,mi dicevano sei nera, sei di qua, sei di là. Poii Mauriziani sinceramente con gli altri si com-portano bene, ma con noi stessi non si com-portano bene»). Soopriya descrive una vera epropria “classificazione” legata all’apparte-nenza socio-religiosa degli induisti («comenostri antenati derivano dall’India abbiamo laclassificazione delle religioni, come una pira-mide prima c’era faraone e all’ultimo c’eranogli schiavi»), in cui all’apice stanno i Marathi(«prima vengono marathi che sarebbe quelliche celebrano la cerimonia. Loro vengono alprimo posto»). Questo primato sarebbe daimputare anche al colore più chiaro della pel-le che, secondo il mythos dell’origine indoeu-ropea, li distingue dagli altri indiani renden-doli più simili e affini agli europei («marathihanno la pelle chiara come te. Tutti hannocarnagione chiara e già lo capisci che tipo direligione è»). Anche tra indiani, infatti, la per-cezione di una pigmentazione più chiara o piùscura della pelle viene valutata come caratte-ristica della posizione nella scala sociale (pro-babile eredità del colonialismo e dei privilegidei “bianchi”)10; Soopriya è scura e occupa,quindi, il “gradino” socio-religioso meno ele-vato: «io e mia sorella siamo scuri. […] Mi di-cevano nera, perché non tutti sono neri laggiù.Io sono più scura di tutti; […] da parte di miamamma siamo quasi ultimo posto come classi-ficazione, quando tu vai a classificare la reli-gione siamo all’ultimo posto». È interessantenotare come le accuse di “essere scura”, cheSoopriya riferisce di aver ricevuto dai Mauri-ziani, siano in realtà di altro ordine. In altrimomenti dell’intervista, infatti, la ragazza ri-vela di essersi guadagnata (a suo avviso im-meritatamente) la nomea di «rubare i maritidegli altri»; il timore delle mogli, nei confron-

ti di questa giovane donna non sposata, trovaperciò espressione nell’utilizzo dell’efficace“discorso” etnico e, attraverso questo, si tra-sforma in una condanna “giustificata”. Simi-larmente Deeti racconta, riguardo alla suastoria di vita, che la madre del marito avevaespresso un parere contrario al loro matrimo-nio adducendo il fatto che lei fosse «tropposcura» – e quindi considerata anche «brutta»– adombrando il reale motivo della maggioreetà della donna rispetto all’uomo.

Un interessante differenziale sociale deiMarathi, oltre all’abbigliamento, è costituitodall’odore. Nei contesti di stratificazione so-cioculturale, infatti, l’olfatto costituisce un in-dicatore decisivo per il riconoscimento corpo-rativo: l’odore che si emette discrimina gli in-dividui e ne rivela l’identità11. I Marathi utiliz-zano un profumo particolare che li indentifica,li distingue e ne denota lo status economico-sociale («hanno un diverso profumo che usanoper distinguere tra di loro. È un profumo co-stoso e particolare, che quando tu senti questoodore già sai che sono loro, perché solo loro lousano»); questo «segreto» non viene pertantocondiviso con gli altri gruppi («vai a trovarequesti profumi! Non sai nome, non sai niente,è come un segreto tra di loro»). La descrizioneaccurata di questo gruppo, da parte di Soo-priya, è da attribuire a una conoscenza ravvici-nata e a motivi familiari, poiché la zia lavoravapresso alcune famiglie marathi («te lo dicoquesto perché mia zia lavorava per un marathi.E poi stanno sempre in grandi ville. Vedeviqueste villone, questi grandi abiti. E la gente vaa lavorare per loro. E hanno panificio, nego-zi»). Emerge, quindi, un discorso che mette incampo relazioni di egemonia e subalternità.Per “legittimare” questo status, i Marathi sipresentano come i più “tradizionalisti” tra gliindiani, attraverso il ricorso a un codice visivo(vestiario) e olfattivo (profumo) che rimandaesplicitamente all’India; ricollegandosi alla“madrepatria” – la “tradizione” come restau-razione della “purezza” – il gruppo avvalora lapropria importanza sociale («si scambiano peruna che viene dall’India, portano molto quelletradizioni e non si vestono mai con pantaloneoppure la maglietta»). Continuando la “classi-ficazione”, seguono gli Hindu e, poi, Telugu eTamil, somiglianti per le comuni “origini”, macon lievi divergenze linguistiche, fisiche e reli-giose («si avvicina, sono sempre le stesse fami-glie. La lingua è diversa. Anzi i Telegu sono piùchiari di carnagione. I Tamil… c’è più radicecon la religione loro. I Telegu sono un pochino

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più leggera»). Infine, in merito alla situazionepalermitana in cui le comunità migranti si ri-trovano insieme in un unico tempio, commen-ta: «Non sono uguali. Tamil, Telegu, Indiano,anche i Marathi. Tu li vedi tutti insieme, maognuno è diverso tra di loro».

5. Osservazioni conclusive

Attraverso il racconto di queste storie di vi-ta, emerge la complessità di definizione dell’i-dentità dei Mauriziani, sia in riferimento all’in-serimento nel concreto sistema relazionale siain merito alla rappresentazione collettiva e al-l’orizzonte simbolico in cui sussistono i grup-pi. È interessante riflettere sullo scarto tra di-mensione in intellectu e in obiecto (Buttitta1996) che si delinea nel contesto migratorio.Nel paese ospite, infatti, i migranti sono acco-munati da analoghe condizioni socioeconomi-che, quali la situazione abitativa in rioni popo-lari o comunque in case modeste di vecchia co-struzione e in affitto, l’attività lavorativa di col-laborazione domestica e una retribuzione simi-le. Nonostante questa isotopia, a livello di rap-presentazione di se stessi e della propria co-munità, i Mauriziani tendono a riprodurre ledivisioni interne del Paese di provenienza. Purnella medesima condizione subalterna – chefunziona da riduttore della complessità, ap-piattendo le differenze culturali, sociali e eco-nomiche preesistenti – il processo di identifi-cazione dei migranti rimanda alle relazioni esi-stenti nei luoghi di partenza che “posizionano”i gruppi in base all’“appartenenza”, disegnan-do “confini invisibili” a un osservatore ester-no. La doppia identificazione col “gruppo et-nico” e con lo “stato-nazione” esprime la du-plice esigenza dei migranti di affermare le dif-ferenze e, contemporaneamente, di condivide-re una vita comune, manifestando il propriobisogno di riconoscimento nella forma di voltain volta più congeniale. L’appartenenza è con-tinuamente costruita e i “confini” ridefiniti; ilsostegno di cui si è alla ricerca viene trovato inun gruppo ora più ristretto ora più ampio, inuna comunità immaginata che possa soddisfa-re tale bisogno. È ipotizzabile che la composi-zione plurale della comunità mauriziana di Pa-lermo, pur non essendo necessariamente l’uni-ca causa, abbia svolto un ruolo destabilizzanteper la sua unità, influendo sulla crisi dell’asso-ciazione, sui continui cambiamenti nella presi-denza e sulla difficoltà a sentirsi rappresentati,attribuendo a mancanze personali un proble-

ma più profondo. La comunità si configura,pertanto, come un “campo di forze” in unostato di tensione dinamica, nella quale le ten-denze di fissione e coesione agiscono conti-nuamente le une contro le altre, esitando incrisi o in nuovi e precari equilibri. Siamo difronte a una situazione di coesistenze e diffe-renze, intrecci e separazioni, tradizione e inno-vazione, aperture e chiusure, senso di identitàe alterità che contraddistingue il compositomondo induista dei Mauriziani, attraverso di-namiche complesse e variabili che influisconosui rapporti religiosi, sociali (nell’amicizia e an-cor di più nella scelta del partner) nel proprioPaese e anche, come “discorso” spesso incon-sapevole, nella situazione migratoria.

Note

1 Le interviste e le storie “dal basso”, come suggeriscegià da anni la riflessione sociologica (Ferrarotti 1981), co-stituiscono la fonte primaria di espressione del punto divista di attori sociali marginali o esclusi, come i migranti(Dal Lago 2004). Al racconto dei fatti si accompagna larappresentazione della vita e il processo di “creazione delsé” (Bourdieu 1995, Atkinson 2002, Bruner 2002) in unacontinua ricostruzione della memoria, soggetta alle solle-citazioni del presente e alla negoziazione tra le prospetti-ve dell’antropologo e del suo interlocutore (Clifford-Marcus 1997). Per ulteriori riferimenti bibliografici inmerito all’uso delle fonti orali e delle storie di vita nella ri-cerca antropologica cfr. D’Agostino 2008.

2 Ho affrontato queste analisi nell’elaborato finaledella laurea triennale in Beni demoetnoantropologici(Ricerche indiscrete. Nelle case e nei templi dei Maurizia-ni a Palermo e nei luoghi d’origine, aa. 2005/2006, relato-re Prof. G. D’Agostino) e nella tesi della magistrale inAntropologia culturale ed Etnologia (Le comunità mau-riziane induiste: Marathi, Hindu, Telugu e Tamil a Paler-mo, a.a. 2007/2008, relatore Prof. G. D’Agostino).

3 Il concetto di “etnia”, in linea con la revisione criti-ca di cui è stato oggetto da parte dell’antropologia con-temporanea, è qui utilizzato non come categoria ontolo-gica, ma come artefatto storico, spesso politicamente in-dotto. Si riconosce però che, una volta “inventate”, le et-nie assumono una consistenza concreta per coloro che visi riconoscono e sono investite da forte carica emotiva edefficacia sociale, che si esplica nella regolamentazione deimatrimoni, nella pratica del proprio particolarismo reli-gioso e nella gestione dei segni dell’appartenenza(Epstein 1983; Fabietti 1998; Fabietti-Matera 1999; Gal-lissot-Kilani-Rivera 2001; Amselle-M’Bokolo 2008).

4 Oltre agli Indiani, che rappresentano percentual-mente la maggioranza della popolazione, l’isola diMauritius è abitata da altre comunità di diversa prove-nienza, come i “Creoli” africani, i Franco-mauriziani e

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i Cinesi. Dal punto di vista religioso, oltre all’indui-smo, si professano in particolare il cristianesimo e l’i-slamismo. La maggior parte dei musulmani è di prove-nienza indiana ma, in virtù del proprio credo, si consi-dera più affine al mondo arabo.

5 La migrazione mauriziana verso l’Italia risale allametà degli anni ’80 del Novecento, conseguenza dell’at-trazione economica e simbolica dell’Occidente, frutto diuna percezione distorta risultante dall’eredità del colo-nialismo (Lingayah 1991). I Mauriziani sono presenti, inparticolare, nelle città di Palermo, Catania (Scidà 1993),Bari (Viola 1995) e, più recentemente, Milano. A Paler-mo, secondo i dati statistici del 2007, ne risiederebberooltre 1500. Nonostante le ricerche si siano incentrate fi-nora sulla comunità induista, numericamente più consi-stente, si ricorda la presenza di gruppi praticanti altreprofessioni di fede.

6 I nomi di alcuni intervistati sono stati sostituiti, al fi-ne di garantirne la riservatezza.

7 Per quanto riguarda l’utilizzo della polifonia nelcontesto etnografico cfr. Clifford 1999.

8 A Palermo, i Mauriziani non hanno un tempio veroe proprio e sono stati costretti a prendere in affitto un ga-rage in un semi-interrato, adibendolo a luogo di culto.

9 Il pandit è l’officiante di un rito religioso.

10 Si ricordi che il colore della pelle, al pari di altri ca-ratteri morfologici, non è un elemento neutro e naturale,ma è esso stesso strutturato e socialmente costruito, finoa condizionarne la percezione.

11 Per una storia sociale degli odori nel contesto eu-ropeo cfr. Corbin 1983.

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Diventare donna nella Comunità tamil di PalermoMatilde Bucca

1. Premessa

La pubertà, ovvero il periodo della vita indi-viduale durante il quale si manifestano per laprima volta lo sviluppo e l’attività delle ghian-dole sessuali maschili e femminili, è comune-mente considerata punto d’arrivo dell’età in-fantile e punto d’inizio dell’età adulta. La pro-duzione di sperma nell’uomo e la comparsa delmenarca nella donna, prima ancora che altri se-gnali di crescita adolescenziale, segnerebbero ilpassaggio individuale dalla fanciullezza allamaturità, mentre i rituali di iniziazione pubera-le, osservati presso numerose società, convali-derebbero agli occhi della comunità l’ingressoentro il raggruppamento sessualmente diffe-renziato degli adulti1.

In realtà le cose vanno diversamente, poichénon soltanto alle pratiche rituali è riconosciutoun compito sociale senza dubbio più determi-nante che la valorizzazione dei fatti naturali2 –scrive Francesco Remotti «la ritualizzazionenon consiste in un riconoscimento dei fonda-menti naturali, […] è la creazione di eventi so-ciali» (Remotti 1981: XXI) – ma è altresì bendifficile che sviluppo puberale fisiologico e ritidi iniziazione all’età adulta collimino. Ritualiz-zare significa produrre una sovrastruttura cul-turale ‘relativamente autonoma’ che inevitabil-mente finisce con il divergere rispetto alla na-tura (cfr. Ibidem).

In tal senso, nelle società che praticano ri-tuali di accesso all’età adulta, non solamentepossono distinguersi una “pubertà fisiologica”e una “pubertà sociale”, intendendo con la pri-ma la maturazione anatomica dei caratteri ses-suali secondari3 e con la seconda l’acquisizionedello status di adulto a motivo del rituale ini-ziatico, ma soprattutto tali riti di iniziazionetrasformano la condizione sociale delle persone‘a prescindere’ dal mutamento operato dallanatura, in modo che il conseguimento della ma-

turità sia primariamente deciso dalla società enon “subordinato alle bizzarrie del caso” (cfr.Lincoln 1983). La pubertà fisiologica non ne-cessariamente rappresenta il punto di partenzadella pubertà sociale4; laddove lo sia, sarà co-munque ancora il rituale, non la natura, ad as-segnare all’individuo la nuova posizione e ilnuovo ruolo che ricoprirà all’interno della so-cietà, stabilendo il momento a partire dal qualela comunità dovrà considerarlo dotato delle suepiù mature funzioni sessuali (Ibidem).

Riconoscendo agli iniziati la posizione socialedi uomo o di donna indipendentemente dai mu-tamenti che la natura opera sul loro organismo, iriti di accesso all’età adulta forniscono alle so-cietà gli strumenti per dominare gli eventi dellapubertà fisiologica ed evitare che il loro incon-trollato verificarsi sia causa di sconvolgimento epericolo per l’intera comunità. I rituali di inizia-zione – potrebbe più esattamente affermarsi conVictor Turner – spogliano del loro aspetto anti-sociale l’accidentale e l’incomprensibile per ri-condurlo entro le coordinate dell’ordine socialenormativo (cfr. Turner 2001).

In particolare, nelle cerimonie di pubertàfemminile, le pratiche rituali – e per il loro tra-mite le società – accordano alle iniziate non so-lamente gli status e i ruoli peculiari delle donneadulte, ma altresì le funzioni sessuali e procrea-tive, decretandone l’appropriazione da partedelle fanciulle a prescindere che tale conferi-mento sia anticipato da un’acquisizione effetti-va o simbolica. Così accade per un processo fi-siologico distintivo della maturazione sessualefemminile, che è il ciclo mestruale, e per la so-stanza organica che quel processo produce, ov-vero il sangue mestruale, un sangue da sempreoggetto di attrazione e avversione insieme.

In accordo con l’analisi di Mary Douglas,che largo spazio riserva alla distruttività e allapotenzialità insieme insite negli stati di disordi-ne che scaturiscono allorquando soglie “proibi-

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te” vengano oltrepassate (cfr. Douglas 1993)5,la misteriosa ambiguità che contraddistingue lecategorizzazioni culturali del sangue mestrualederiverebbe dal disordine simbolico che par-rebbe essergli peculiare, ovvero dalla sua con-dizione di fluido organico che originatosi all’in-terno del corpo umano fuoriesce dai suoi con-fini inviolabili disgiungendosi dalla sua intimastrutturazione. Il sangue mestruale è “forma” e“non forma”, è “essere” e “non essere”, perchéscorrendo attraverso l’orifizio vaginale occupe-rebbe una posizione “intermedia” affatto defi-nita a metà strada tra un dentro e un fuori cor-poreo diversamente strutturati. Una sostanza“liminale”, potrebbe dirsi con Victor Turner,impura poiché non classificabile, sede di poterioscuri che inducono le società all’adozione diattente misure di controllo (cfr. Turner 2001)6,persino – si verifica sovente – dove la simboliz-zazione del sangue mestruale appare lontana daimmagini funeste7.

Per rimando, l’ambiguità ascritta al sangueuterino non solamente è veicolo efficace dellapericolosità che stigmatizza l’organismo fem-minile nel tempo mestruale, ma ancor più dra-sticamente fa del corpo della donna un corpocongenitamente impuro, contaminante, proibi-to (cfr. Douglas 1993), concorrendo a relegarloentro gli angusti confini assegnatigli di fre-quente dalla società. È un corpo “aperto” quel-lo della donna, aperto perché sanguinante,aperto e dunque incompleto (cfr. Ibidem)8.

È su questo sfondo teorico che veniamo al-l’oggetto specifico del presente articolo, ovveroil rituale di pubertà femminile celebrato per lefanciulle della Comunità Tamil di Palermo9 al-la comparsa del primo sangue mestruale. Unacomunità, quella tamil palermitana, che comele altre comunità tamil del mondo10 si costitui-sce a partire dagli anni ‘80 dello scorso secolocon l’arrivo via via più frequente di interi nucleifamiliari in fuga da uno Sri Lanka devastatodalla guerra civile tra il governo e la popolazio-ne singalese da una parte e la popolazione tamildall’altra11.

A Palermo le attività politiche, culturali edeconomiche dei Tamil sono guidate dal Comi-tato Coordinatore Tamil Italy che sovente si faportavoce del controllo esercitato dalla comu-nità sui suoi stessi componenti: una sorveglian-za che il contesto migratorio certamente inten-sifica, perché il confronto, soprattutto da partedei giovani, con le società dei paesi “ospitanti”rappresenta un’inquietante minaccia. Eppure,per quanto si possa fare dell’appartenenza etni-ca un legame da preservare da “corruzioni” al-

tre, è indubbio che l’odierno inevitabile incon-tro tra mondi culturali eterogenei – universi diper sé niente affatto statici – produca meta-morfosi spontanee che non possono essere evi-tate, senza con questo provocare catastroficheeclissi. Così è per tutto quanto rappresenti aPalermo l’appartenenza all’etnia tamil, come ilrapporto uomo-donna12, la relazione tra Tamildi religione differente13 e, non per ultimo, il re-pertorio rituale che i Tamil portano a Palermodal contesto abitato in precedenza. Ciò a dimo-strazione del fatto che non esistono praticheculturali immutabili, ma situazioni sociali con-crete, agite da uomini e donne concreti, chereinterpretano e riconfigurano variamente leproprie rappresentazioni, così che l’incontrotra ciò che di una cultura «risiede» e ciò chedella medesima cultura «viaggia» (Clifford2008: 59) dia luogo ad espressioni sociali total-mente nuove.

2. Manjal neer-attu vizha tra induismo e cattolicesimo tamil

Manjal neer-attu vizha, o “cerimonia del ba-gno di curcuma”14, è il rito di pubertà femmini-le celebrato per ogni fanciulla tamil al momen-to del menarca: un rituale di origini presumi-bilmente indiane15, somigliante alle cerimoniedi iniziazione femminile attualmente osservatenell’Asia del Sud (cfr. Winslow 1980)16, chedallo Sri Lanka alle comunità tamil del mondosancisce l’ingresso delle adolescenti nell’uni-verso delle donne adulte.

Come qualsivoglia rito di passaggio è dato inlinea di principio da una sequenza cerimonialetripartita17, così la Manjal neer-attu vizha preve-de che l’inizianda tamil osservi in successioneun rito di separazione dal gruppo di apparte-nenza o Nalangu (“pittura”), un rito di segrega-zione nell’abitazione familiare o Kudisai (“ca-panna”), un rito di reintegrazione alla società oManjal neeru (“acqua di curcuma”; anche det-to Satangu), in un complesso percorso iniziati-co che la trasforma da fanciulla a donna (cfr.Narayan et al. 2001).

Pur essendosi in passato offerto quale rito so-stanzialmente omogeneo a prescindere dalgruppo tamil dello Sri Lanka presso il quale lacelebrazione veniva praticata (cfr. Ibidem)18, lacerimonia del Manjal neer-attu presenta oggidelle varianti che non solamente si collegano aidifferenti credo religiosi professati dai Tamil –Induismo, Cristianesimo e Islamismo – e alledifferenti concezioni sociali della donna che

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quelle tradizioni religiose producono e veicola-no (cfr. Winslow 1980), ma che rispondono al-tresì ai molteplici contesti internazionali delladiaspora tamil nei quali il rituale viene osserva-to19. Dissomiglianze che in generale non concer-nono la struttura della cerimonia, rivelandosiquesta immutata nel tempo e nello spazio (cfr.Narayan et al. 2001), ma che allo stesso modofanno della Manjal neer-attu vizha un rito inevi-tabilmente diverso a seconda della fede ideolo-gica e religiosa proclamata dai Tamil e a secon-da del quadro sociale e culturale da loro abitato.

Vero è che i rapporti tra i Tamil di religionediversa sono costantemente orientati allo scam-bio e per nulla animati da un ostinato interessealla diversificazione20, com’è vero che le comu-nità tamil del mondo adottano un comporta-mento estremamente tutelare delle proprie tra-dizioni “etniche” di fronte alle culture non tamilcon le quali entrano in contatto (cfr. Burgio2007). Tuttavia, se è indubbio che i sistemi reli-giosi forti influenzano le forme di conoscenza ele rappresentazioni collettive dei gruppi umanidistinguendole in misura mutevole da quelleformulate altrove e su basi concettuali differen-ti, altrettanto certo è che la residenza in territo-ri che non sono quelli d’origine e l’incontro traculture eterogenee producono metamorfosi divaria natura che non possono essere evitate.

In tal senso, da una parte Deborah Winslowsottolinea quanto le immagini tamil della fan-ciulla mestruata siano sorprendentemente di-verse a seconda dei credo religiosi professati estraordinariamente affini alle figure femminilipiù importanti di quelle religioni (cfr. Winslow1980)21, dall’altra il rito del Manjal neer-attu as-sume particolarità disuguali a seconda che siacelebrato in Sri Lanka o in qualunque altro con-testo della presenza tamil22.

A Palermo i Tamil induisti e i Tamil cattolicicelebrano la Manjal neer-attu vizha in manierasì somigliante, ma non identica; soprattuttonon è identico il modo in cui il rituale è perce-pito, tanto che la cerimonia hindu è avvertitaspecialmente quale ‘rito di purificazione’, men-tre la cerimonia cattolica è avvertita special-mente quale ‘rito di protezione’.

Ciò che differenzia le due maniere di recepi-re il rituale è anzitutto la dissonante interpreta-zione dei Tamil induisti e dei Tamil cattolici delsangue mestruale in generale e del menarca inparticolare: una sostanza potenzialmente peri-colosa per entrambi i raggruppamenti di fedeli,è vero, soprattutto quando si tratta della suaprima comparsa; ma da una parte i Tamil hinduritengono il sangue femminile più propriamen-

te ‘impuro’ (killa), dall’altra i Tamil cattolici ri-tengono il sangue femminile più propriamente‘sporco’ (kata), diversità che pare proprio in-fluire sulla connotazione prima che il pericoloassumerebbe. Nel primo caso, infatti, l’“impu-rità” è considerata sorgente di contaminazionesociale, specie per la parte maschile della co-munità, mentre nel secondo caso la “sporcizia”è considerata richiamo individuale di minacciademoniaca, specie quando la fanciulla perde ilsuo primo sangue uterino.

In tal senso, l’inizianda tamil induista, “im-pura” e “infetta”, è principalmente un rischioper la comunità di appartenenza, invece l’ini-zianda tamil cattolica, “sporca” e “vulnerabi-le”, è principalmente un rischio per se stessa.Non a caso sono soprattutto i Tamil hindu a fa-re attenzione a che l’inizianda si mantenga lon-tana dagli uomini della propria famiglia perquasi tutta la durata del rituale, come – cosa piùgenerale – sono soprattutto i Tamil hindu ad es-sere meno permissivi nei riguardi delle donne ea richiedere da loro un comportamento privatoe pubblico più riservato, sebbene la maggioretolleranza del Cattolicesimo moderno per l’e-mancipazione femminile si combini, nel casodei Tamil cattolici, con una cultura che favori-sce il dominio maschile.

Per il resto, Tamil induisti e Tamil cattolicidi Palermo dispongono la nascita della “nuovadonna” per il tramite di un rituale relativamen-te simile, quantunque la cerimonia conclusivadi riaggregazione sociale conservi la sua funzio-ne originaria di individuazione del futuro spo-so dell’iniziata più nel rito hindu che in quellocattolico, elemento che ben si spiega con il ruo-lo sociale che l’Induismo assegna alle donne23.

3. Rito del Nalangu

Veniamo pertanto alla ricostruzione della se-quenza rituale tripartita della Manjal neer-attuvizha così come è osservata dai Tamil di Palermo24.

Il rito di iniziazione femminile del Manjalneer-attu ha dunque inizio nel momento in cui lafanciulla perde il suo primo sangue mestruale:un evento che i familiari adulti dell’adolescentesenza dubbio attendono, soprattutto all’appros-simarsi della sua età puberale, ma che a dettadelle donne incontrate è poco o nulla rivelato acolei che in prima persona affronta il mutamen-to fisiologico e più tardi il mutamento sociale.

La ragazza tamil, in sostanza, non è in alcunmodo preparata alla comparsa del menarca senon per le scarse informazioni apprese al di

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fuori delle mura domestiche. In tal senso Mariaracconta divertita:

Io stavo ballando con mio fratello no?Quand’ero piccola mi piaceva, ballavo sempre. Aun certo punto mi sono fermata e gli dico: «Guar-da, mi esce il sangue, mi sono fatta male». Lui al-l’inizio è rimasto così – a quest’ora pensava: «Maio non l’ho vista che è caduta!» – poi però l’ha ca-pito subito, infatti è andato da mia madre egliel’ha detto. [Maria, Palermo 26 agosto 2009]

Mentre Anna ricorda quale shock abbia rap-presentato per lei la vista di un sangue “anoma-lo” e imprevisto:

È successo che mentre ero in bagno ho vistodelle macchie rosse. Avevo 12... 13 anni… co-sì… Mi sono spaventata, non capivo da dove ve-niva, pensavo che stavo male. Mia mamma è en-trata e mi ha detto che ero diventata signorina25.Poi quando vengono le tue zie e le altre signoreal Nalangu un po’ si dice cosa significa, se nomentre stai a casa tutto quel tempo26 la madre telo spiega, oppure tua nonna. [Anna, Palermo 27febbraio 2010]

Luisa conferma quanto poco l’argomentosia discusso in casa e come invece possa più fa-cilmente esser trattato anzitutto in ambientescolastico:

A scuola… me ne sono accorta in bagno.Già alcune mie compagne l’avevano avuto quin-di qualcosa la sapevo, anche per la maestra. Ioperò ho aspettato e sono andata a casa all’uscita.E mia madre! Sempre a dirmi: «Ma perché nonmi hai chiamato? Ma perché non mi hai chiama-to?». «E tu perché non me l’hai detto?». Perchéforse dovevo andare a casa subito27. [Luisa, Pa-lermo 11 novembre 2009]

La mamma della fanciulla si preoccupa aquesto punto di allontanare la figlia dalle occu-pazioni ordinarie peculiari delle ragazze di gio-vane età e di invitarla a sedere in un angolo ap-partato dell’abitazione familiare fino a quandonon avrà luogo la celebrazione del Nalangu,che significa “pittura”, in riferimento alla colo-razione del corpo dell’inizianda effettuata dalledonne invitate dalla madre a intervenire alla ce-rimonia. Così spiega Anna:

Ti siedi in un angolino così non tocchi nes-suno28 e aspetti che vengono le altre signore. Disolito al Nalangu vengono tutte le zie, le nonne,tutte le parenti femmine, e vengono anche leamiche più strette della madre o quelle che abi-tano vicino e che lo sanno. Può capitare che ven-gono anche le ragazze, però solo quelle che giàsono signorine, anche se la maggior parte sonodelle signore sposate. Perché nel frattempo tuamamma o tua nonna lo dicono che sei diventatasignorina! [Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

Analogo il resoconto fornito dalle donne checontrariamente ad Anna, la cui religione è indui-sta, professano il credo cattolico, malgrado esseriferiscano di essere state invitate a sedere in di-sparte più per la propria incolumità che non perla salvaguardia dei propri familiari:

Io per esempio mi sono seduta dietro il di-vano così ero più riparata e nel frattempo miamamma chiamava delle mie zie e si mettevanod’accordo per fare il Nalangu. Mia nonna è a Jaf-na, però se era a Palermo anche lei veniva. E an-che altri miei parenti non sono a Palermo, peròl’hanno saputo tutti29. [Maria, Palermo 26 ago-sto 2009]

La cura maggiore della madre della fanciul-la, cosa che tuttavia si verifica specialmente nelcaso che la famiglia professi la religione indui-sta, consiste nel rivolgere l’invito di partecipa-zione al Nalangu anzitutto alla moglie del fra-tello o alla sorella del marito (rispettivamentezia materna acquisita e zia paterna della ragaz-za), figure destinate con tutta probabilità a di-venire future suocere dell’inizianda. A questoproposito Anna specifica:

La cosa importante, comunque, è che vengo-no o la moglie del fratello di tua madre o la sorel-la di tuo padre. Figurati che delle volte è successoche se abitano in un’altra città partono e vengonoqui, anche se questa cosa di solito si fa più per lafesta30, così partono tutti31, perché il Nalangu de-ve essere organizzato presto, quando arrivano lemestruazioni, e poi devono venire solo le femmi-ne. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

Le donne la cui religione è quella cattolica,e il cui sposo non può essere scelto tra i paren-ti, sottolineano certo l’importanza della pre-senza delle familiari al Nalangu e alla Manjalneer-attu vizha in genere (sono soprattuttoqueste ultime ad assistere la madre nell’istru-zione dell’inizianda al comportamento previ-sto per ciascuna donna), ma nulla riferisconoin merito al ruolo di rilievo rivestito dalla ziamaterna o dalla zia paterna.

Le vedove, tradizionalmente ritenute figure“di cattivo augurio”, sono escluse dalla parteci-pazione al Nalangu e dall’intera cerimonia pu-berale soprattutto qualora la famiglia dell’ini-zianda osservi la religione induista. Ciò nono-stante, tutte le intervistate esprimono unaprofonda disapprovazione nei riguardi dellasuddetta prescrizione, evidenziando come il ri-fiuto sociale cui tali donne sono generalmentecostrette si converta a Palermo nella conduzio-ne di una vedovanza moderatamente riservata.

Altra informazione che parrebbe riguardareprincipalmente le donne di religione induista

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(nessuna delle intervistate cattoliche ha preci-sato quanto segue) concerne la scelta della ca-mera della propria abitazione provvisoriamen-te destinata alla celebrazione del Nalangu. Intal senso Teresa chiarisce:

Da noi si usa che a casa abbiamo un mobiledelle preghiere32 – preghiera si dice puja – dovec’è più spazio. In Sri Lanka si mette nel salotto33,ma qui dove c’è spazio. E il Nalangu si fa lì. Di-cono che così chi viene è protetto dal sangue eche il rituale si fa bene, che non ti dimentichiniente. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009]

La presenza dell’altare con le immagini delledivinità maggiormente venerate, in breve, nonsolamente proteggerebbe la casa e le ospiti dal-l’impurità contaminante del sangue mestruale,ma altresì garantirebbe la corretta esecuzionedel rito anche in assenza di figure sacerdotali.

Le donne coinvolte giungono quindi all’orastabilita ognuna portando cibi e bevande checonsentono sì l’allestimento di un banchetto co-munitario, ma che soprattutto rispondono al-l’urgenza di offrire alla fanciulla mestruata pie-tanze che rinvigoriscano il suo fisico “debilita-to”. Premura delle commensali, inoltre, saràquella di donare alla giovane inizianda vivandedi buon auspicio per il suo futuro di moglie e dimadre. A illustrazione di ciò Francesca afferma:

Tutte queste signore portano le cose permangiare insieme, specialmente il pukai34, che èdi buon augurio. Ora, in Sri Lanka queste cosesi mangiano nelle foglie grandi non lo so di qua-le pianta, del banano35 mi pare; qui no, si pren-dono i piatti oppure si mangia direttamente daivassoi. [Francesca, Palermo 18 settembre 2009]

La stessa difformità è evidenziata dalle altreintervistate, informate dell’originaria modalitàdi esecuzione del pranzo specialmente dalledonne più mature delle loro famiglie:

Io so che si dovrebbero usare le foglie di ba-nano, ma qui usiamo i piatti quelli di plastica e poili buttiamo36. Prepariamo delle cose veloci tipo ilpukai, così il Nalangu si fa presto, e le portiamo nel-la casa dove abita quella ragazza. Mangiamo tuttisì, però la ragazza deve mangiare di più perché habisogno. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

Il banchetto rituale è comunque anticipatodalla vera e propria cerimonia del Nalangu, unrito di separazione del tutto femminile che no-nostante i toni gioiosi e goliardici delle parteci-panti riveste in realtà lo scopo di preparare lafanciulla all’imminente e più o meno prolunga-

to periodo di isolamento. Ecco di seguito unadescrizione minuziosa:

Prima del pranzo ti mettono davanti dueciotoline, una con una polvere rossa e una con…il manjal si chiama, tipo una spezia gialla cheadesso non mi ricordo come si dice in italiano, euna o due ciotoline di acqua. Siamo sedute tuttea terra37, solo che la ragazza è seduta su un tap-petino38. A quel punto la madre ti toglie i vestitiche hai e ti mette dei vestiti per stare a casa, sem-plici39. Le donne che sono venute si bagnano undito nell’acqua, lo passano nella polvere – primain quella rossa e poi nel manjal – e ti fanno dellestrisce sui piedi, sulle mani, sulle braccia. Di piùsui piedi e sulle mani. Da noi si dice [che questosi fa] per tenere il diavolo lontano, per farti di-ventare forte. Poi ti fanno vedere tutti i piatti chehanno portato e ognuno fa tre cerchi con ognipiatto davanti alla faccia della ragazza40. [Luisa,Palermo 11 novembre 2009]

L’esposizione appena riportata in generalecoincide con le narrazioni fornite dalle altre in-tervistate, sebbene le donne di religione indui-sta attribuiscano alla colorazione delle mani edei piedi un significato sicuramente diverso:

Si fa perché è come un segnale che dice chesei pericolosa. Il sangue si pensa che può fare ve-nire delle malattie, soprattutto a tuo padre o aituoi fratelli. A tua madre no, infatti quando de-vi stare a casa il mangiare te lo porta lei peresempio, oppure con lei ci puoi stare, anche se lacosa giusta sarebbe starsene in una stanza per ifatti tuoi. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009]

Spesso alle polveri di ocra e di curcuma vie-ne aggiunta della pasta di calcare così da con-ferire maggiore tenuta alle strisce dipinte sulcorpo della ragazza. In questo modo le pitturesi conservano per tutta la durata della segrega-zione, fungendo senza sosta quali segnali diprotezione o di allontanamento. A questo pro-posito Francesca spiega:

Alcune volte usiamo anche una cosa biancache fa diventare i colori più duri così ti rimango-no per tutto il tempo. Però quando si usa più chealtro si mette nelle mani e nei piedi, perché nel-le braccia può dare fastidio. [Francesca, Paler-mo 18 settembre 2009]

La cerimonia del Nalangu, in sostanza, è unrito di commiato esclusivamente femminile inoccasione del quale le donne della comunitànon soltanto sono chiamate a rivelare all’ini-zianda la trasformazione che di lì a poco la suanatura affronterà (compito assolto più avantianzitutto dalla madre e dalle parenti più vicinealla ragazza), ma che congedano dalla società lasua fanciullezza e la sua infecondità.

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4. Rito del Kudisai

Al rito di separazione del Nalangu segue ilrito di margine del Kudisai, ovvero “capan-na”, in riferimento alla piccola capanna co-struita all’interno della camera più ampia del-le abitazioni tamil dello Sri Lanka (alle volte,laddove ci sia disponibilità di spazi privatiesterni, è collocata all’aperto) dai familiariadulti della ragazza mestruata. Lì l’iniziandatrascorre un periodo di isolamento più o me-no prolungato (il numero dei giorni, informa-no le donne intervistate, deve rigorosamenteessere dispari)41 osservando una grande quan-tità di divieti cautelativi42 che rispondono alloscopo di difendere se stessa e la comunità diappartenenza dall’“ambiguità contaminante”che la contraddistingue.

A Palermo le dimensioni delle case tamilnon consentono la costruzione di capanne me-struali che siano interne all’abitazione (d’altrocanto gli spazi esterni sono sempre pubblici),così che il rito del Kudisai assume una configu-razione inevitabilmente diversa rispetto a quel-la conservatasi in Sri Lanka.

Ciò che parrebbe essere analoga, tuttavia, èla durata variabile del periodo di segregazionedomestica cui la ragazza deve sottostare – unarco di tempo che in generale dipende dal gior-no che i familiari stabiliscono per la celebrazio-ne della cerimonia conclusiva – sebbene la fre-quentazione obbligatoria delle scuole elemen-tari o medie italiane produca non poche tra-sformazioni nel tradizionale svolgersi del rito.Così Luisa chiarisce:

Di solito si dovrebbe restare a casa tipo perundici giorni, tredici giorni, però poi dipende daquando si può fare la festa. Io sono rimasta a casatre mesi. Tre mesi! Non ce la facevo più guarda!Senza uscire! Senza andare a scuola! Infatti quel-l’anno sono stata bocciata. Perché cos’era succes-so? Mio fratello era in Germania perché lavoravalì e prima di un certo periodo non poteva scende-re se no lo licenziavano. E allora lo abbiamoaspettato43. [Luisa, Palermo 11 novembre 2009]

Mentre Teresa illustra:

In genere dura tredici giorni, anche se qual-cuno lo fa durare di più, qualcuno lo fa durare dimeno… In Sri Lanka si usa che il padre va da unsacerdote e lui tramite la tua data di nascita e ilgiorno del ciclo ti dice quando ti devi fare il ba-gno44. E quindi stai a casa fino a quel giorno. Quiinvece quando i tuoi sono pronti per la festa fi-nisce. Tra l’altro quando ti viene il ciclo ancoravai a scuola, quindi bisogna considerare anchequesto. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009]

In assenza della capanna mestruale, allora, legiovani iniziande sono autorizzate dalla comu-nità a circolare per casa, malgrado la libertà deiloro movimenti sia ostacolata specialmente nel-l’eventualità che la famiglia professi la religioneinduista:

In Sri Lanka preparano come una casettapiccola tutta coperta di foglie45 e la ragazza devestare là dentro fino a quando non si fa il bagno.Quelli che vengono la possono vedere sì, perònon si devono avvicinare tanto e neanche lei de-ve uscire. E in questa casetta la madre ti mette lecoperte per dormire, l’acqua, la spazzola, tuttoquello che ti serve. Qui no, non è così, perché almassimo stai in una stanzetta46 e la madre ti por-ta le cose da mangiare, anche se di solito puoistare in tutta la casa. Certo magari quando c’ètuo padre e pure altri maschi ti stai seduta daparte oppure devi stare attenta a toccare pochecose, però non è come in Sri Lanka. [Anna, Pa-lermo 27 febbraio 2010]

Le ragazze tamil cattoliche, viceversa, nonsoltanto godono di maggiore autonomia – fre-nata unicamente qualora l’inizianda esprima ildesiderio di spostarsi al di là delle pareti dome-stiche – ma altresì possono ricevere ospiti di en-trambi i sessi (accade soprattutto quando i ge-nitori gradiscono che la figlia non trascuri i pro-pri studi) e conversare con loro a piacimento. Aquesto proposito Francesca riporta:

Io stavo in tutta la casa. L’unica cosa nonuscivo, però mi venivano a trovare anche i mieiamici quindi… In Sri Lanka costruiscono unastanzetta dentro al salotto – kudisai si dice – contutte le foglie di cocco, di mango… Ti posso direche una mia amica hindu è stata quasi sempre se-duta in un angolino su un tappeto, però quellecristiane su per giù come me47. Poi da noi non c’èquesta cosa di non stare con tuo padre, con i tuoifratelli… [Francesca, Palermo 26 agosto 2009]

I tabù alimentari e comportamentali che co-stellano l’intero periodo di isolamento sono mol-teplici, sia per le iniziande induiste, sia per le ini-ziande cattoliche, quantunque le prime esponga-no divieti maggiormente orientati alla salvaguar-dia della famiglia, della casa e della comunità e alrispetto delle divinità (si consideri la proibizionedi avvicinarsi all’altare domestico in quanto ciòcostituirebbe un atto “contaminante”), mentre leseconde elenchino prescrizioni maggiormentevolte alla protezione e al rafforzamento della ra-gazza (si pensi alla rilevanza conferita alla sostan-ziosa dieta alimentare che l’inizianda è chiamataad osservare e alla cura delle parenti nella prepa-razione di pietanze tonificanti).

In tal senso Teresa, di religione induista, di-chiara:

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M. Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo

Da noi si dice che quando mangi non devi la-sciare briciole, che non devi guardare dal balco-ne, che non devi uscire, che non ti devi avvicina-re all’altare. Infatti delle volte si mette come unaspecie di tendina, così nemmeno lo puoi vedere.Poi dovresti mangiare sempre da sola, almenocon tuo padre e con i tuoi fratelli non devi man-giare. E poi non devi toccare tipo la marmellata,il formaggio, lo zucchero, il sale, se no buttanotutto. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009]

Maria, invece, di religione cattolica, spiega:

Quando devi andare in bagno o ti accompa-gna qualcuno oppure se vai da sola ti porti uncoltello48. Per il resto mangi, mangi e mangi49.Mangi di continuo credimi! La mattina uova, apranzo uova, di sera uova. Figurati che mio fra-tello a un certo punto ha detto a mia mamma:«Mamma basta! Sta diventando grossa!». E mi-ca ti danno solo uova! La carne, il pesce, le ver-dure, il riso, la frutta… E infatti poi quando so-no uscita camminavo sempre, così dimagrivo.[Maria, 26 agosto 2009]

Anche Luisa professa la religione cattolica,nondimeno l’elenco di tabù da lei fornito rive-la palesemente quanto le tradizioni culturali ta-mil, le abitudini comportamentali della societàpalermitana e le visioni dettate da entrambi icredo religiosi riconosciuti dalla Comunità Ta-mil di Palermo possano non solo incontrarsi,ma anche fondersi, così da dare origine a nuo-ve consuetudini:

Io so che le cose più importanti sono che nondevi toccare i maschi e non devi toccare i santi50.Poi ci sono altre cose certo, ma dipende: se ci cre-di le fai se no niente. Devi lasciare tutto pulitissi-mo quando mangi, quando vai in bagno ti deviportare una chiave o comunque una cosa di fer-ro, oppure ti porti un’immaginetta di Maria, sehai cani non li devi accarezzare, non devi toccarele piante, ti devi cambiare spesso51, devi lavare letue cose a parte52, devi cambiarti le lenzuola spes-so… [Luisa, Palermo 11 novembre 2009]

5. Rito del Manjal neeru o Satangu

La conclusione del periodo di segregazione sicontraddistingue per l’esecuzione di un “bagnopurificatorio”, o puniya thanam, che l’iniziandatamil è chiamata ad effettuare in presenza dei fa-miliari. Ad aiutarla saranno soprattutto gli ziimaterni o gli zii paterni; il loro ruolo di rilievo siconserva anche adesso, specialmente nell’eve-nienza che un loro figlio sia prescelto quale fu-turo sposo della ragazza. Così Anna illustra:

La mattina del giorno della festa vengono acasa tua il fratello di tua madre e sua moglie no?Tu nel frattempo ti prepari, perché ti devi met-

tere tipo una sottana. Tua mamma invece pren-de una bacinella grande e dei contenitori pienidi acqua, che è giallina perché c’è quella spezia53.Quando arrivano questi zii che succede? Tutta lafamiglia si riunisce nel salotto, tu ti metti dentrola bacinella e i tuoi zii ti versano addosso l’acqua.[Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

Francesca, la cui religione prescrive il divie-to del matrimonio tra consanguinei e affini,spiega quale mutamento abbia subito l’origina-rio puniya thanam in ambito cattolico:

La tradizione sarebbe che questo bagno lodovrebbero fare54 o il fratello della madre con suamoglie o la sorella del padre con suo marito, perònon succede sempre così, può capitare che lo fa lamadre, specie se sei cristiana. E allora la ragazzaentra dentro una specie di secchio, una bacinella.Davanti a questa bacinella ci sono come dellebrocche con acqua e manjal. Chi deve fare il ba-gno le prende e bagna la ragazza dalla testa ai pie-di. È una cosa che si fa per purificarla, per rinfre-scarla. [Francesca, Palermo 18 settembre 2009]

Un’informazione che parrebbe riguardareesclusivamente le intervistate di religione in-duista concerne la restaurazione dei rapportiche la ragazza intratteneva in fanciullezza conle figure maschili della famiglia, malgrado lanatura di tali relazioni sia destinata ad alterarsi:

Se per tutto quel periodo la ragazza non havisto nessun maschio – solo suo padre e i suoifratelli – da qui li ricomincia a vedere, perché giàvengono o lo zio materno o lo zio paterno, e poialla festa vengono tutti, cioè gli zii, i mariti delleamiche, i figli maschi grandi… [Anna, Palermo27 febbraio 2010]

La purificazione del corpo dell’inizianda siaccompagna sovente alla depurazione dell’abi-tazione, benché gli affitti temporanei delle casepalermitane dissuadano i tamil dall’impiego deitradizionali mezzi detergenti. In tal senso Tere-sa chiarisce:

Per la casa la cosa giusta sarebbe fare comesi fa per la ragazza, usare una pezza con acqua ecurcuma – questa cosa magari si fa per l’altarino.Solo che siccome i muri potrebbero rimaneregiallastri, e le case per lo più sono affittate, allo-ra si preferisce pulirla solo con l’acqua. [Teresa,Palermo 9 settembre 2009]

Invece Anna racconta:

Quando sono diventata signorina io, miamamma l’ha lavata tutta con acqua e latte55. I mu-ri, per terra, i mobili… Un odore che non ti dico!E se non mi ricordo male anche i miei genitori sisono fatti un bagno con l’acqua e il latte o con l’ac-qua e manjal56. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

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Luisa rammenta al contrario – e con lei le al-tre donne cattoliche – come a seguito del ritodel Kudisai i genitori abbiano preferito contat-tare un sacerdote che consacrasse l’intero ap-partamento:

No, quella pulizia con l’acqua e il manjal nonl’abbiamo fatta – lo so che si fa, forse di più gli hin-du ti devo dire – però prima della festa è venuto unprete e ha benedetto la casa e la stanza dove dor-mo57. [Luisa, Palermo 11 novembre 2009]

La cerimonia di riaggregazione alla società èanticipata da un’accurata vestizione dell’ini-zianda: qui la madre e le zie assistono la ragaz-za nell’ornamento del proprio corpo facendoanzitutto attenzione a che i simboli tamil corri-spondenti alla condizione sociale di donna sia-no da questa indossati. In particolare l’inizian-da esibirà per la prima volta un pottu58 non so-lamente a indicazione della sua conquistata ma-turità, ma pure a segnalazione dello stato civileche la qualifica59. Nel corso della cerimoniainoltre, altresì per la prima volta, la ragazza ve-stirà l’abito tradizionale femminile tamil, ovve-ro il saree60, solitamente regalatole dai nonnipiù maturi. Ecco dunque la testimonianza diMaria:

Dopo il bagno c’è la festa, anche se non su-bito, perché di solito il bagno si fa di mattinapresto, mentre la festa si fa di sera. Sempre a ca-sa della ragazza. Comunque: prima che arrivanogli invitati la ragazza si veste, si trucca… L’aiuta-no la madre e le zie. La cosa più importante, im-portantissima, è che per la prima volta si mette ilpottu. Si mette anche un’altra cosa per la primavolta, cioè il saree, però quello a metà della festa,perché di solito lo regalano i nonni, e infatti al-l’inizio della festa la ragazza è con un mezzo sa-ree61, quello che già si metteva prima di diventa-re signorina. [Maria, Palermo 26 agosto 2009]

Analogo il resoconto fornito da Teresa, seb-bene la sua testimonianza comprovi come lamodalità di celebrazione del rituale adottata aPalermo faccia della anzidetta cerimonia un ri-to più dimesso e riservato rispetto a quello chesi osserva in Sri Lanka:

Di pomeriggio ti cominci a vestire, a trucca-re, ti fanno i capelli tutti eleganti con delle deco-razioni di fiori, ti metti tantissimi bracciali62, ilpottu, ti metti il saree più bello che hai – anche seancora non è il saree vero e proprio, quello allafesta – e poi aspetti che vengono gli invitati. InSri Lanka il padre addirittura fa fare dei cartel-loni grandi63 e la festa si fa in un locale e si invi-tano tantissime persone, invece qui io so che lofanno tutti a casa e più che altro si invitano i pa-renti e gli amici quelli stretti. Perché certo dove

si devono mettere tutte quelle persone? Tra l’al-tro, siccome i genitori della festeggiata offrono ilpranzo64 a tutti, non è che si possono spenderetutti i soldi che si hanno! Alcuni però fanno deidebiti. [Teresa, Palermo 9 settembre 2009]

Dalle dichiarazioni rilasciate dalle donne ta-mil induiste emerge come la celebrazione con-clusiva del rito iniziatico (in generale l’interaManjal neer-attu vizha) rappresenti un prere-quisito femminile essenziale all’auspicata unio-ne matrimoniale:

Se hai una figlia femmina quando diventa si-gnorina lo devi fare per forza! Se no non si spo-sa! È come se rimane sempre bambina. E anchese non hai tanti soldi devi farla la festa! Tant’èvero che spesso si chiedono dei prestiti, oppurevendi dei gioielli. Oppure, ora che ci penso,mentre c’è il pranzo, può capitare che gli uomi-ni danno qualcosina al padre così può pagare lafesta. [Anna, Palermo 27 febbraio 2010]

Non sono dello stesso avviso le intervistatedi religione cattolica, quantunque il rituale diaccesso al mondo delle donne rivesta per loroun’importanza ugualmente notevole.

La camera adibita alla celebrazione del ritoculminante è in ogni caso la stanza più ampiadell’abitazione: i familiari della ragazza avran-no cura di vuotarla, così da sfruttare al megliol’intero suo spazio. A questo proposito Luisachiarisce:

Allora, la stanza è tutta vuota. Ci sono soloda una parte un tappeto dove poi si deve sederela ragazza, invece dalla parte opposta ci sonodelle sedie per i maschi. Alcuni mettono una se-dia anche dietro al tappeto e poi lì si siede la ra-gazza quando ritorna con il saree65, altri no.[Luisa, Palermo 11 novembre 2009]

L’arrivo animato degli ospiti dà inizio al ritodi reintegrazione alla società del Manjal neeru oSatangu, che significa “acqua di curcuma” o“acqua alla curcuma”, in riferimento al liquidoottenuto dalla miscela di acqua, curcuma e ocra(sovente si verifica l’aggiunta di calce polveriz-zata) che la comunità tamil denomina haratti eche in contesto cerimoniale si adopera soprat-tutto quale sostanza augurale e tutelare (la ne-cessità di protezione, informano le intervistate,si motiva con il timore che l’invidia delle ami-che possa nuocere all’inizianda).

Le offerte alimentari portate dalle donne par-tecipanti sono tutte accomunate dalla capacitàdi evocare immagini vitali, mentre i regali dona-ti alla ragazza dai parenti più vicini assumono unruolo analogo a quello rivestito dagli omaggielargiti in occasione dei giorni del compleanno.

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Così attesta Maria:

Quando arrivano gli ospiti i maschi si vannoa sedere, invece le femmine aspettano che la ra-gazza esce dalla sua stanza e stanno tutte in pie-di con i vassoi. Chi ha la frutta, chi ha il riso, chidei regali. Le cose che si regalano di più sonogioielli e vestiti. E poi c’è anche chi tiene un con-tenitore con dentro l’haratti, che è un liquidorosso che le donne ti mettono sulle guance e sul-le braccia, e chi tiene un piattino con un colorenero, che è quello per fare il pottu. [Maria, Pa-lermo 26 agosto 2009]

Invece Francesca spiega:

Le offerte sono fiori, frutta, olio, riso – lafrutta soprattutto il cocco – dolci, carne. L’ha-ratti lo prepara la madre e la madre fa preparareanche il mala, che è una specie di collana di fio-ri66. I regali tipo bracciali, collane, soldi li porta-no i parenti, non tutti. Ora, solo le donne hannoi vestiti nostri tradizionali, invece gli uomini no,quelli si mettono i pantaloni e una giacca67.[Francesca, Palermo 18 settembre 2009]

I gesti e gli oggetti che pervadono il rito delManjal neeru sono molteplici e difficili a espor-si a prescindere dalla religione professata dagliattori principali (l’unica differenza tra il rito in-duista e il rito cattolico parrebbe consistere nel-la presenza di una candela, a fianco dell’ini-zianda, che i tamil hindu accendono prima chela ragazza occupi la sua postazione sullastuoia)68. In tal senso, tra le testimonianze rice-vute dalle donne intervistate, quella di Luisa èsenz’altro la più particolareggiata:

Quando la ragazza esce dalla camera e si sie-de sul tappeto tutte le donne mettono le offerteaccanto a lei e una le mette la collana di fiori lun-ga. C’è da dire che in Sri Lanka si fa tutta unaprocessione con la musica69 dalla casa della ra-gazza fino al locale, ma qui no. Magari alcuni ilgiorno dopo la fanno uscire con il saree per farele foto tipo in un giardino70. A questo punto, do-po che si è seduta, una donna si avvicina, si ba-gna le dita nell’haratti e gliele passa sulle bracciae sulle guance e dopo l’haratti gli mette il pottu71.Poi prende ogni vassoio con le offerte e lo gira trevolte davanti al lei72. Quando questa donna ha fi-nito si avvicina un’altra donna che fa le stesse co-se e poi di nuovo un’altra e poi di nuovo un’altra.Lo devono fare tutte insomma, anche la madre.A un certo punto i genitori cominciano a offrireil pranzo – tantissime cose buone73 – e la ragazzasi va a mettere il saree. Perché nel frattempo si so-no avvicinati i nonni e le hanno regalato un sareedi seta. Quando la ragazza ritorna con il saree sifa le foto con tutti e i parenti le danno i regali.[Luisa, Palermo 11 novembre 2009]

La cerimonia conclusiva del Manjal neer-at-tu è dunque un rituale di riaggregazione e di

accoglienza che sancisce l’ingresso della nuovadonna nella società per il tramite del riconosci-mento pubblico conferitole dai membri dellacomunità.

Sin dai giorni immediatamente successivifondamentale è che affiori chiaramente la tra-sformazione fisica e comportamentale della ra-gazza (si consideri anche solo la presenza qua-si costante del pottu tra le sopracciglia), mal-grado le intervistate di religione induista rive-lino come il cambiamento da loro subito siaancor più radicale.

A questo proposito Maria, la cui religione ècattolica, afferma:

Già dal giorno dopo si può uscire tranquil-lamente, infatti si va di nuovo a scuola, il pome-riggio si esce con le amiche, oppure puoi andarea fare i compiti a casa di una tua compagna. Lasera no, o esci con la tua famiglia o se no niente.[Maria, Palermo 26 agosto 2009]

Laddove Teresa, la cui religione è induista,dichiara:

Puoi uscire sì, però di solito accompagnatoda qualche tuo parente grande. Anche quandovai a scuola, in genere ti deve accompagnaresempre qualcuno. Se ti fai fidanzata no, più chealtro viene lui a casa, oppure può capitare diuscire con qualche amica, ma così, tipo per an-dare al mercato, al panificio… [Teresa, Palermo9 settembre 2009]

6. Rituali della prima mestruazione e rituali matrimoniali e della gravidanza a confronto

L’originaria funzione della Manjal neer-attuvizha (in particolare del rito del Manjal neeru)quale esibizione pubblica della donna pronta almatrimonio e alla maternità trova a Palermoconferma non soltanto nell’intrinseca respon-sabilità che i Tamil hindu riconoscono al me-narca come l’inizio di un impegno coniugale eriproduttivo74, ma in generale nelle analogie an-cora oggi individuabili tra i rituali puberalifemminili e i rituali matrimoniali75 e della gravi-danza76 tamil, somiglianze che senza dubbioconsentono di interpretare l’iniziazione dellafanciulla quale processo di acquisizione simbo-lica dei ruoli sociali di moglie e di madre.

La prima affinità risiede nell’identico svol-gersi della cerimonia del Nalangu (nel suo signi-ficato letterale di colorazione e con la presenzadel banchetto comunitario ricolmo di pietanzeaugurali) in tutte e tre le tipologie rituali, sebbe-ne il Nalangu dei riti puberali e della gravidanza

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prescriva l’intervento delle sole donne, mentreil Nalangu dei riti matrimoniali preveda la par-tecipazione congiunta di uomini e donne77.

All’urgenza di segnalare lo status “indefini-to” che contraddistingue i protagonisti dellecerimonie, inoltre, il Nalangu dei riti matrimo-niali associa la necessità che la coppia di fidan-zati trascorra in reciproca compagnia il tempoantecedente all’unione coniugale78.

Una seconda somiglianza tra questi ritualiconsiste nella medesima dieta alimentare che ledonne sono chiamate a rispettare: una nutrizio-ne energetica a base di cibi tonificanti che da unaparte ha la funzione di sopperire alla debilitazio-ne dell’inizianda, dall’altra risponde alla cura disostenere la sposa e la gestante a fronte degli im-pegni gravosi che il loro fisico dovrà affrontare.

Si consideri per ultima l’omogeneità rintrac-ciabile nel vestiario e nella decorazione corpo-rea peculiari delle donne festeggiate. Come laconclusione delle cerimonie puberali, infatti,prescrive che la giovane donna indossi contem-poraneamente un saree di seta riccamente or-nato, un pottu di colore nero, un mala vario-pinto e i gioielli donatile dai familiari, così si ve-rifica per la sposa sia imminente che novella79 eper la gestante e la puerpera, quantunque il co-lore e la dimensione dei loro pottu muti a se-conda della fase del rito80.

Le corrispondenze di forma appena delinea-te sembrano indicative di come i rituali dellaprima mestruazione e i rituali matrimoniali edella gravidanza rappresentino i momenti dimaggiore rilievo nella vita di una donna tamil,quei momenti che insieme completano il pro-cesso di costruzione di genere.

Note

1 Asserendo che l’iniziazione ha luogo al momentodella pubertà Bruno Bettelheim rileva: «solamente conla pubertà si ha lo stabilirsi di una distinzione netta tracarattere maschile e carattere femminile. Dunque i ritisembrano dare un valore particolare alla fine di un pe-riodo della vita in cui una simile differenziazione non èancora completamente stabilita, e inaugurare una nuovaepoca, che dovrebbe essere del tutto libera da ambiva-lenze nei riguardi del ruolo sessuale adulto» (Bettelheim2006: 22).

2 Alla tesi delle pratiche rituali come valorizzatrici deifatti naturali si avvicina la posizione sostenuta da MirceaEliade. Scrive lo storico delle religioni: «L’iniziazione co-stituisce per i ragazzi l’introduzione in un mondo che

non è immediato: il mondo dello spirito e della cultura.Per le ragazze invece l’iniziazione comporta una serie dirivelazioni che riguardano il senso segreto di un fenome-no naturale: il segno visibile della loro maturità sessuale»(Eliade 1980: 75). Un’affermazione, quella appena cita-ta, che non solamente nega alle donne il potere poco pri-ma accordato all’iniziazione – «con l’iniziazione si supe-ra il modo naturale di esistere, quello del fanciullo, e siaccede al modo culturale» (Ibidem: 19) – ma che soprat-tutto perpetua gli effetti di ciò che Pierre Bourdieu chia-ma la ‘violenza simbolica’, ossia la reiterazione della pre-minenza maschile sulle donne che è inscritta nella tota-lità delle cose e dei corpi e che è generata dalla natura-lizzazione dell’opposizione tra il maschile “superiore” eil femminile “inferiore” (cfr. Bourdieu 2009).

3 L’anatomia distingue i caratteri sessuali umani in“caratteri sessuali primari” e “caratteri sessuali seconda-ri”: i primi sono quelli già presenti alla nascita, mentre isecondi sono quelli che si sviluppano alla pubertà sottol’influsso degli ormoni sessuali.

4 Arnold Van Gennep esclude che la pubertà fisiolo-gica possa essere la causa principale di cerimonie tantoprolungate quanto le iniziazioni alla pubertà (cfr. VanGennep 1981).

5 Scrive l’antropologa: «nel disordine non vi è alcunmodello, ma un infinito potere di crearne» (Douglas1993: 157).

6 Di documentazioni di tabù mestruali la letteraturaantropologica è ricca: interdizioni diversamente configu-rate e più o meno rigorose che nondimeno rivelano unamedesima tensione, ovvero la preoccupazione di proteg-gere la società dal misterioso nonché contaminante pote-re del sangue femminile o, come meglio puntualizzaFrançoise Héritier, da «quella catastrofe ciclica costitui-ta dalle mestruazioni» (Héritier 2006: 56).

7 Così i componenti della casta bengalese VaishnavaBauls percepiscono sì il sangue uterino quale flusso vitalecarico di poteri benefici, tuttavia ne prescrivono l’inge-stione solo a seguito di un trattamento rituale volto all’at-tenuazione del suo “calore nocivo” (cfr. Hanssen 2002).

8 A fronte di ciò è difficile essere d’accordo con quan-ti hanno sostenuto che la peccaminosità attribuita al san-gue mestruale si motivasse con l’esigenza di proteggere ladonna dall’esuberanza sessuale dell’uomo nei momentipiù delicati dell’esistenza femminile (cfr. Zevi 1999).

9 La scelta di riportare le iniziali dei termini ‘comu-nità tamil’ in maiuscolo quando seguite dalla specifica-zione ‘di Palermo’ risponde allo stile di trascrizione conil quale i Tamil “palermitani” indicano la suddetta co-munità sulle loro insegne.

10 La diaspora tamil incrementatasi parallelamente al-lo scoppio della guerra civile tra Singalesi e Tamil nel1983 si è strutturata in una vasta comunità transnaziona-le distribuita tra lo Sri Lanka e la Francia, tra gli StatiUniti e la Germania, tra l’Italia, il Canada e l’Australia. InItalia i gruppi tamil più numerosi risiedono nelle città diBologna, Torino, Napoli, Reggio Emilia e soprattutto Pa-lermo, dove dimora la comunità tamil più grande d’Ita-lia, terza al mondo per dimensioni.

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11 Per un breve esame del conflitto srilankese vediAdduci 2002, Natali 2004 e Rajah 1996.

12 A differenza delle società del mondo occidentale, lequali ‘in generale’ e ‘almeno teoricamente’ promuovono unrapporto tra uomini e donne che sia paritario, la comunitàtamil della diaspora si caratterizza per un riconoscimentopiù o meno condiviso di una rigida distinzione dei sessi eper una approvazione più o meno concorde di una nettadivisione dei ruoli e degli ambiti di azione e responsabilitàmaschili e femminili. Tale separazione si traduce in unaprofonda gerarchizzazione sociale di genere a discapitodella indipendenza della donna. A Palermo tuttavia posso-no essere ravvisati segnali timidi di cambiamento, perchéquantunque l’organizzazione sociale “di sempre” sia pocomessa in discussione, le giovani generazioni tamil tendonoa biasimare tale ordinamento e molte donne ottengono disvolgere attività lavorative o di studio che le conducono aldi là della sfera familiare. Nondimeno, il matrimonio se-guita ad occupare anche per la Comunità Tamil palermita-na una centralità istituzionale talmente forte da essere con-siderato non solamente un orizzonte ineluttabile per tuttigli uomini e le donne, ma soprattutto una «conditio sinequa non per potere parlare di famiglia» (Burgio 2007: 130;corsivo dell’autore). Di solito si tratta di matrimoni combi-nati dai genitori degli sposi, contratti per la più parte tra cu-gini incrociati (in verità sono solo i Tamil induisti a cele-brarli, non i cattolici), sebbene la tradizionale discreziona-lità genitoriale nel riconoscimento dei partners venga at-tualmente messa in discussione a favore di un’unione dicoppia basata sugli affetti e sulla libera scelta.

13 Sebbene i Singalesi e i Tamil dello Sri Lanka profes-sino credo religiosi molteplici (Buddismo e Cristianesimoi Singalesi; Induismo, Cristianesimo e Islamismo i Tamil),il conflitto tra le due etnie si è unicamente connotato co-me scontro tra buddisti e induisti. A Palermo invece i Ta-mil sono manifestamente sia cattolici (del Cristianesimo èpraticato anche l’Evangelismo, ma in percentuale piùbassa) che induisti, malgrado il capoluogo siciliano nonaccordi gli stessi diritti ad ambo i raggruppamenti di fe-deli (mentre i Tamil cattolici godono di una chiesa di ri-ferimento, i Tamil hindu non hanno un loro tempio e so-no costretti ad utilizzare un garage che condividono con icorreligionari del Bangladesh e delle isole Mauritius).

14 Anche detta ‘zafferano delle Indie’, la curcuma èuna spezia dal colore ambrato (si ottiene dall’essiccazio-ne e dalla macinazione della radice della pianta CurcumaLonga) largamente utilizzata in Asia sud-orientale per lapreparazione di alimenti e medicinali e in occasione dicelebrazioni rituali. La curcuma è principalmente unbuon antibatterico e un buon antinfiammatorio e in con-testo cerimoniale è ampiamente adoperata anzitutto perle sue proprietà rinfrescanti e purificanti.

15 Il rito tamil del Manjal neer-attu potrebbe esserederivato dall’incontro dei rituali iniziatici femminili cele-brati dalle genti dell’india del Nord e del Sud sussegui-tesi sull’isola a partire dal I millennio a.C., oppure po-trebbe essersi originato unicamente dal rifacimento delrito di pubertà femminile osservato dai Dravida dell’In-dia del Sud giunti in Sri Lanka nel I e nel II millenniod.C.

16 In India i rituali di pubertà femminile dovevano ve-rosimilmente essere celebrati in ogni stato, mentre adesso

sono osservati soprattutto in Tamil Nadu e presso pochialtri gruppi dell’India del Sud (cfr. Narayan et al. 2001).

17 Vedi Van Gennep 1981.

18 Rito originariamente induista, le difformità cele-brative più rilevanti del Manjal neer-attu si motivavanotutte con il diverso grado di agiatezza della famiglia del-l’inizianda (cfr. Narayan et al. 2001). L’omogeneità del ri-tuale si spiegava non certo con l’esistenza di autorità cen-trali o testi sacri che definissero in ogni sua tappa la pra-tica cerimoniale, ma con la trasmissione attenta alle nuo-ve generazioni delle conoscenze possedute dalle donnepiù anziane. Pur nel mutamento e nella pluralità dellecoordinate socio-culturali la stessa cosa accade oggi, tan-to che Deborah Winslow scrive come ogni rito di pu-bertà femminile tamil cominci sempre con la sua rievo-cazione (cfr. Winslow 1980).

19 Un’informazione che, come la maggior parte deidati che seguiranno, si evince dalle interviste rilasciate daalcune delle donne della Comunità Tamil di Palermo icui parenti o amici risiedono in altre città del mondo.

20 La differente adesione tamil alle religioni cattolica einduista si traduce a Palermo in un rapporto interperso-nale profondamente rispettoso, costantemente votato alconfronto e allo scambio. Indicativa a tale proposito è lafrequente compresenza sugli altarini delle case private del-le immagini induiste di Ganesh e della trimurti (Brahma,Visnu, Shiva) e delle immagini cattoliche di Gesù e dellapatrona palermitana Santa Rosalia (cfr. Burgio 2007).

21 In particolare la giovane donna mestruata è relazio-nata nell’Induismo alle divinità Lakshmi e Kali (rispetti-vamente consorte di Visnu e personificazione dell’energiageneratrice e consorte di Shiva e personificazione dell’e-nergia distruttrice), nel Cattolicesimo a Maria (madre diGesù pura e innocente poiché non coinvolta nelle conse-guenze della sessualità), nell’Islamismo a Fatima (figlia diMaometto e modello ideale di donna matura nei suoi ruo-li di moglie e di mamma) (cfr. Winslow 1980).

22 Basti pensare che fuori dallo Sri Lanka la Manjalneer-attu vizha è quasi ovunque interamente celebratanelle case private dei Tamil (senza che dunque si verifi-chi alcuna uscita dell’inizianda dall’abitazione familiare eil suo gioioso ritornarvi quale donna adulta) o a causadello scarso sostegno accordato ai Tamil dalle società“ospitanti”, o per via degli alti tassi di affitto dei localipubblici, anche se i Tamil più facoltosi o i Tamil in gradodi usufruire di prestiti monetari affrontano volentieri laspesa. Ovviamente tali difficoltà possono incidere altresìnel numero degli invitati alla cerimonia finale.

23 Il ruolo tradizionale rivestito dalla donna hinduconsiste nell’unirsi in matrimonio ad un uomo scelto dal-la propria famiglia e dare alla luce dei figli. L’adempi-mento di tale compito eleverà la sua posizione sociale ecompenserà la sua sottomissione nei riguardi del marito.

24 Certo non negando la probabilità che possano regi-strarsi anche descrizioni sensibilmente dissimili da quelleda me raccolte. L’analisi qui condotta è basata sulle testi-monianze rilasciate da alcuni dei membri della ComunitàTamil di Palermo, in particolare dai risultati delle intervi-ste realizzate da giugno 2009 a febbraio 2010 grazie alcontributo di cinque giovani donne tamil – due di reli-

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gione induista, tre di religione cattolica – il cui passaggiodal mondo infantile al mondo degli adulti è stato celebra-to appunto nel capoluogo siciliano. Per la tutela della ri-servatezza delle donne intervistate non soltanto ho utiliz-zato nomi fittizi, ma ho altresì omesso indicazioni anagra-fiche o di altro genere che non sono espressamente ne-cessarie alla comprensione del rituale esaminato.

25 Si intenda: ‘donna giovane non coniugata’.

26 L’intervistata si riferisce al periodo di segregazionedomestica che l’inizianda è chiamata a trascorrere a se-guito del rito del Nalangu.

27 La fuoriuscita del primo sangue mestruale richie-derebbe che la fanciulla tamil venga separata quanto pri-ma dagli altri membri della società.

28 L’intervistata si riferisce al pericolo che la ragazzamestruata contamini con la sua impurità i membri dellapropria famiglia.

29 Emerge qui non soltanto l’importanza che il rito dipubertà femminile riveste per i parenti tutti dell’inizian-da, ma anche l’impegno dei gruppi tamil del mondo almantenimento di canali di comunicazione che faccianoda collegamento dell’intera comunità diasporica.

30 L’intervistata si riferisce al rituale di reintegrazionealla società celebrato per l’inizianda tamil a conclusionedel periodo di isolamento. Mentre i tempi di celebrazio-ne di tale rito consentono l’eventuale attesa di parentiche giungano da città lontane, è preferibile che il Nalan-gu sia osservato anche solo poche ore dopo rispetto allacomparsa del menarca.

31 Nonostante la Manjal neer-attu vizha sia prevalen-temente presieduta da donne, la cerimonia di riaggrega-zione finale prevede anche la presenza degli uomini.

32 Si intenda: ‘piccolo altare con esposte le effigi ca-ratteristiche delle religioni induista e cattolica’.

33 Nelle case tamil dello Sri Lanka il salotto rappre-senta sovente la grande sala d’ingresso, ovvero la sala cheprima e più delle altre accoglie tutti coloro che accedonoall’abitazione. A Palermo invece le case dei Tamil sonospesso anguste e progettate in maniera tale che la came-ra d’ingresso non sia la più spaziosa. In circostanze simi-li l’altare è posizionato altrove, eccezion fatta per la cuci-na e per il bagno.

34 Il pukai è un alimento a base di riso dolce assuntodalla cultura tamil quale simbolo di abbondanza e fertilità.

35 Il valore simbolico riconosciuto dai Tamil alle fo-glie del banano è analogo al significato frequentementeassegnato a tutte quelle piante secernenti una sostanzabiancastra che in quanto similare al latte o allo spermadiviene metafora di fecondità A questo si aggiungonotuttavia motivazioni più di ordine pratico, poiché in SriLanka le foglie del banano sono utilizzate perché di age-vole reperibilità, perché supporti resistenti e capienti eperché materiali facilmente eliminabili.

36 Emerge già l’attenzione a disfarsi di tutto quantovenga utilizzato nel rituale e che per questo rischia di di-venire veicolo di contagio.

37 Interessante è la riflessione offerta da Pierre Bour-dieu a proposito dei limiti psicosomatici imposti alledonne sin dalla loro formazione: «la sottomissione fem-minile può trovare una traduzione nel fatto di piegarsi, diabbassarsi, di curvarsi, di sottomettersi, perché le posecurve, morbide, e la docilità correlativa sono le uniche ri-tenute confacenti alla donna» (Bourdieu 2009: 37).

38 Probabilmente l’uso della stuoia risponde allo scoposimbolico di separare l’inizianda dalla superficie della terra.

39 Ossia: ‘abiti poco appariscenti o impersonali’.

40 L’intervistata si riferisce alla modalità di presenta-zione all’inizianda delle offerte alimentari approntate dal-le donne partecipanti. Il numero tre non è certo casuale,in quanto la sua simbolica perfezione contribuirebbe a tu-telare la fanciulla dal sopraggiungere di spiriti ostili.

41 Presso la cultura tamil i numeri dispari sono sim-bolicamente associati all’energia e alla vitalità. Questa laragione per la quale si prediligono giorni dispari per losvolgimento di eventi lieti come la presentazione pubbli-ca di un nuovo membro adulto della comunità.

42 Vedi Narayan et al. 2001.

43 Emerge qui l’importanza che il rito conclusivo del-la Manjal neer-attu vizha riveste soprattutto per i genito-ri e i fratelli e/o sorelle dell’inizianda.

44 L’intervistata si riferisce al bagno purificatorio ese-guito per l’inizianda a conclusione del periodo di isola-mento e prima del rito di aggregazione. Il ricorso all’a-strologia per la determinazione della data del bagno ritua-le riguarda unicamente le famiglie di religione induista.

45 Le foglie utilizzate per ricoprire il tetto della ca-panna sono anzitutto foglie di cocco e foglie di mango.

46 La segregazione dell’inizianda in una camera dellacasa avviene esclusivamente quando l’abitazione dispon-ga di molti ambienti.

47 L’intervistata si riferisce a giovani donne che hannocelebrato il loro rito di pubertà a Palermo.

48 Presso la cultura tamil gli oggetti di metallo allon-tanerebbero le presenze demoniache.

49 Anche qualora ricorrenze religiose induiste o cattoli-che prevedano il digiuno alimentare da parte dei fedeli.

50 L’intervistata si riferisce alle effigi peculiari della re-ligione cattolica.

51 La frequenza con la quale l’inizianda lava il suo cor-po e sostituisce la propria biancheria sembrerebbe di-pendere unicamente dal suo volere. Ciò nonostante le in-tervistate induiste riferiscono come il rito di pubertà ta-mil prescriverebbe in realtà l’esecuzione di un unico ba-gno, ovvero quello purificatorio. È allora possibile sup-porre come l’allentamento di tale norma si motivi con laconvivenza con una cultura differente.

52 In Sri Lanka le famiglie tamil induiste affidano lapulizia degli abiti dell’inizianda a una barbiera, mentre a

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M. Bucca, Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo

Palermo gli indumenti delle iniziande induiste e cattoli-che sono sempre lavati in casa.

53 L’intervistata si riferisce alla curcuma.

54 Si intenda: ‘dovrebbero aiutare a farlo’.

55 I Tamil attribuiscono al latte le stesse proprietà an-tibatteriche riconosciute alla curcuma.

56 Emerge il timore dei familiari dell’inizianda difronte all’impurità contaminante che caratterizzerebbela ragazza sino a questo momento.

57 La benedizione sacerdotale mira ad allontanare leeventuali presenze demoniache precedentemente attrat-te dal sangue mestruale.

58 Pottu è il termine tamil per indicare il bindi (dalsanscrito bindu, significa “goccia”, “particella”, “pun-to”), ovvero la decorazione che molte donne dell’Asiadel sud e dell’est applicano fra le sopracciglia giornal-mente o in occasione di cerimonie religiose. Forma e co-lore variano a seconda dello stato civile, del credo reli-gioso o del dio venerato e della casta di appartenenza,anche se a partire dal 1871 la categoria di casta viene ‘for-malmente’ abolita nei censimenti dello Sri Lanka poichégli inglesi ritengono che l’assenza dei brahmani compor-ti una non legittimità del sistema castale.

59 Sono il colore nero e la dimensione ridotta a speci-ficare lo stato civile di donna nubile.

60 Il saree è una striscia di stoffa riccamente decoratadella lunghezza di nove metri che la donna tamil avvolgeintorno alla vita drappeggiandola su una spalla. È gene-ralmente indossato al di sopra di una sottoveste oppureal di sopra di una maglietta a maniche corte che tienescoperta la pancia.

61 Il mezzo saree è una striscia di stoffa meno lunga(quattro o cinque metri) e meno decorata rispetto al sareeche la fanciulla tamil non ancora iniziata è autorizzata aindossare in occasione di festività pubbliche di rilievo.

62 Presso la cultura tamil i gioielli sono emblemi rap-presentativi di maturità sociale.

63 L’intervistata si riferisce ai cartelloni pubblicitari re-clamizzanti l’ora e il luogo della festa che il padre dell’ini-zianda espone nell’intero quartiere in cui sorge la sua casa.

64 Si intenda: ‘banchetto comunitario e celebrativo’.

65 La vestizione del saree da parte dell’inizianda de-creta la conclusione del suo percorso d’accesso alla ma-turità. In tal senso può accadere che la piena trasforma-zione sociale della ragazza sia indicata dal cambiamentodi collocazione da occupare sino alla fine della festa, nonpiù per terra ma su una sedia.

66 Grande ghirlanda di fiori multicolore che l’inizian-da tamil è chiamata ad indossare al collo come simbolodi buon auspicio.

67 Interessante a tal merito è la riflessione operata daPierre Bourdieu a proposito del compito conferito alledonne (e sovente unicamente a loro) nella salvaguardia

del capitale simbolico peculiare della società di apparte-nenza: «oggi le donne danno un contributo decisivo allaproduzione e alla riproduzione del capitale simbolicodella famiglia, innanzi tutto manifestando, con tutto ciòche concorre alla loro appartenenza, cosmesi, abbiglia-mento, tenuta ecc., il capitale simbolico del gruppo»(Bourdieu 2009: 116).

68 Presso la religione induista il fuoco inaugura e di-spone ogni contesto cerimoniale.

69 Si intenda: ‘preceduta da musicisti’. Di solito il nu-mero dei musicisti è cinque: tre suonano degli strumentia percussione, due degli strumenti a fiato.

70 Le foto e i video che documentano il rito del Manjalneeru e l’eventuale passeggiata del giorno successivo cir-coleranno entro l’intero circuito diasporico tamil qualiprove visive dell’avvenuta trasformazione sociale dellaragazza.

71 In realtà l’inizianda indossa già il pottu, pertanto ledonne partecipanti rimarcano quel simbolo così da con-fermare la loro accettazione della nuova donna.

72 È la stessa modalità di presentazione delle offerteprescritta per le donne che intervengono al rito del Na-langu, con la differenza che lì il numero tre ha più lo sco-po di proteggere la fanciulla dal sopraggiungere di spiri-ti ostili, mentre qui ha più lo scopo di augurare alla ra-gazza una vita ricca e gioiosa.

73 Il banchetto del Manjal neeru in generale prevederiso con mandorle e uvetta, un grande assortimento didolci, frutta fresca e caramellata, pane al cocco, verdurefritte in pastella.

74 Nonostante l’età matrimoniale sia stata innalzatadagli hindu a 25 anni.

75 I rituali matrimoniali tamil sono generalmente ce-lebrati a cominciare dalla settimana precedente rispettoalla cerimonia di unione coniugale.

76 I rituali della gravidanza tamil sono generalmentecelebrati a cominciare dal nono mese della gestazione.

77 Si tratta degli sposi futuri e dei relativi familiari eamici.

78 Le donne intervistate informano come l’insuffi-ciente frequentazione dei fidanzati tamil richieda un lo-ro avvicinamento prima della celebrazione nuziale.

79 In realtà le donne tamil cattoliche indossano semprepiù di frequente l’abito nuziale tipicamente occidentale.

80 Il pottu della sposa è nero e piccolo prima del ma-trimonio e nero e grande dopo il matrimonio, mentre ilpottu della gestante e della puerpera è nero e grande pri-ma del parto e rosso e piccolo dopo il parto.

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Sebastiano Mannia

In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia eprospettive future

1. Sino agli anni Settanta del secolo scorso, ilpastoralismo sardo si è strutturato su due co-stanti fondamentali: la carenza di terre per il pa-scolo degli animali – dovuta alla frantumazionee alla dispersione della proprietà derivate da fat-tori ambientali, storici e socioculturali – e le va-riabili climatiche che ancora influenzano laquantità e la qualità delle risorse disponibili. Perfar fronte a questi ineludibili condizionamenti, ipastori hanno elaborato specifiche strategie so-ciali ed economiche. Tra queste la transumanzasi costituisce sicuramente come l’esito più signi-ficativo: infatti, come osserva Benedetto Calta-girone, «nelle rappresentazioni che i pastorihanno dello spazio e del tempo della transu-manza si può cogliere tutto il peso dell’inter-vento culturale posto in atto per controbilancia-re il negativo incontrollabile che proviene dallanatura» (Caltagirone 1986: 30-31).

È inoltre opportuno precisare che, sebbenela variabile climatica e la carenza di pascoli sia-no stati gli elementi che storicamente hannomaggiormente influito sulla determinazionedelle forme del pastoralismo sardo, la transu-manza è divenuta una pratica necessaria anchein ragione dell’incremento progressivo e sovra-dimensionato del patrimonio zootecnico. Que-sto processo ha preso avvio sul finire dell’Otto-cento con l’arrivo degli industriali caseari con-tinentali e, conseguentemente, con l’apertura aimercati internazionali del formaggio pecorino.La ricerca di terre pascolabili si è fatta pressan-te soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settantadel Novecento, quando il numero degli ovini ècresciuto ulteriormente a seguito di un nuovosviluppo dei mercati e degli interventi politiciche a partire dal secondo Dopoguerra, seppurcon esiti alterni, sono stati diretti a favore delsettore. Il derivato rapporto tra capitale anima-le e capacità di carico del territorio utile al pa-scolamento è risultato in questo modo forte-mente scompensato, spingendo da una parte

all’emigrazione numerosi pastori – molti deiquali, per esempio, hanno occupato le terre ab-bandonate dai mezzadri toscani (cfr. Meloni2004; Solinas 1989-1990) –, dall’altra a trovareadeguata soluzione al problema dello sverna-mento del bestiame – in quanto i pascoli comu-nali e/o privati non erano più sufficienti a so-stentare il numero di animali1.

Questi i motivi per cui sino agli anni Settan-ta del secolo scorso, nei mesi autunno-invernali,era possibile vedere migliaia di pecore che attra-versavano le strade rurali dell’isola, dalle monta-gne verso le pianure e verso i litorali marini.

La transumanza è stata dunque per secoliuna pratica caratterizzante dell’economia agro-pastorale della Sardegna, con elementi similaritra le numerose comunità, in particolare perquanto concerne le funzioni e le regole che sot-tendevano la struttura sociale (Meloni 1984;1988).

2. Nel basso Medioevo, quando nell’isola sidiffonde il feudalesimo, la transumanza era unfenomeno noto. Ciò ha spinto ad ipotizzare, no-nostante la documentazione in possesso deglistudiosi sia lacunosa, una diffusa mobilità pasto-rale già dai secoli precedenti. Gian Giacomo Or-tu, oltre a segnalarci che in quell’epoca i pastoridei paesi montani erano «ospiti noti e temuti intutte le piane e i litorali della Sardegna meridio-nale» (Ortu 1988: 824-825), delinea le caratteri-stiche fondamentali del loro operare e i suoi esi-ti a livello dell’immaginario mitico:

i movimenti delle greggi sembrano […] li-beri in età giudicale, e tali restano in regime feu-dale, almeno di diritto, né il sovrano opera al-cunché per disciplinarli in istituti pubblici. Eneppure senza pretese a subentrare fiscalmenteai feudatari, pretese che del resto sarebbero sta-te intese come gravemente lesive delle prerogati-ve o immunità feudali. La transumanza “attra-versa” quindi i feudi, tiene aperti canali di scam-

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bio e di comunicazione, e non soltanto econo-mica, che valgono ad attenuare gli effetti di quel-l’isolamento interno delle diverse regioni e co-munità che è tra i portati più certi e negativi del-la feudalizzazione dell’isola. Si aggiunga a que-sto che il pastore transumante deve stringere colfeudatario un rapporto che è sempre contrattua-le: gli chiede l’erba ed offre prodotti e denari.Ne deriva, tra l’altro, che le comunità del centropastorale, per quanto pur’esse assoggettate al re-gime feudale, possono mantenere nei suoi con-fronti un atteggiamento o disposizione di mag-giore autonomia culturale e mentale. Questo cifa intendere meglio gli avvenimenti successivi al-l’abolizione dei feudi, nel 1836, quando il pasto-re si troverà a dover ridefinire la sua posizionecontrattuale nei confronti del nuovo signore su-bentrato sul demanio feudale, lo stato, e soffriràforte il disagio di dover trattare con una contro-parte senza volto. Il contrasto che ne scaturirà,per tutto l’Ottocento, finirà con l’attribuire alpastore, e per esso al centro montuoso dell’isola,i connotati quasi mitici del diverso, dell’opposi-zione irriducibile alle ragioni e prevaricazionidella statualità. Le comunità pastorali dell’inter-no diverranno, insomma, il luogo talora anchereale, ma più spesso simbolico, della resistenzadell’etnia sarda, depositaria di tratti economici,sociali e culturali che nessuna dominazioneesterna ha potuto distruggere (Ortu 1988: 826).

A partire dalla seconda metà del XVIII seco-lo, nel quadro degli interventi politici piemonte-si – finalizzati a favorire l’agricoltura a discapitodella pastorizia brada e transumante, nonché laprivatizzazione delle terre e un regime capitali-stico delle attività produttive –, la transumanza epiù in generale tutta l’economia isolana inizianoa cambiare rapidamente. Nel 1820, l’“Edittodelle chiudende” segna, infatti, l’avvio di un pe-riodo di crisi per le comunità pastorali che siprotrae per tutto l’Ottocento fino all’arrivo degliindustriali caseari e all’internazionalizzazionedel mercato del pecorino, condizioni che contri-buiranno a risollevare le sorti del comparto zoo-tecnico. Da allora sino alla seconda metà del se-colo successivo – quando la transumanza scom-pare –, la mobilità pastorale, come è stato già ac-cennato, segue in simbiosi la crescita progressivadel patrimonio ovino isolano.

3. Come hanno osservato alcuni studiosi,la transumanza sarda era una transumanza in-versa e prevedeva lo spostamento degli anima-li dalle montagne e dalle zone di alta collinaverso le pianure e i litorali marini dove le con-dizioni climatiche erano più favorevoli2. Inpassato pochi pastori possedevano terre neiluoghi di svernamento e la maggior parte diessi prendeva in affitto i fondi pagando un ca-

none che poteva essere in natura o in denaro.Talvolta i proprietari terrieri, che affittavano ipascoli ai pastori transumanti, erano gli stessipossidenti delle industrie o delle cooperativeper il conferimento del latte; essi stipulavanoaccordi, spesso svantaggiosi per i pastori, inrelazione al periodo di permanenza nelle pa-sture. Il prezzo poteva variare sia in base alledimensioni del terreno affittato sia in base alnumero di animali.

La transumanza in Sardegna ha interessatoprincipalmente i paesi che circondano le areemontane del centro dell’isola; infatti, i pastori simuovevano dalle comunità del Gennargentu,del Supramonte e del Montalbo. Ogni centroaveva date di partenza e di rientro differenti,così come erano diversi i luoghi di arrivo persvernare. Gli spostamenti dei pastori e delle lo-ro greggi seguivano annualmente linee fisse diriferimento, elaborate dalla tradizione e con-suetudinarie dei sistemi pastorali locali, per cuii punti di partenza, di transito e di arrivo eranodi solito invariabili. Si è pervenuti in questomodo alla formazione di una rete viaria oltre-modo articolata.

È necessario chiarire che esistevano diversitipi di transumanza sulla base delle distanze dacolmare: quelle a lungo raggio verso i Campi-dani e i litorali marini e quelle più corte prati-cate all’interno di uno stesso territorio comu-nale o massimamente nell’agro contiguo. GiàMaurice Le Lannou aveva identificato questavariegata composizione e Robert Bergeron sen’è occupato in modo sistematico, distinguen-do fra transumanze “parziali”, ossia le transu-manze a corto raggio, e le transumanze “tipi-che”, cioè quelle lunghe3. Il contributo di que-st’ultimo è particolarmente interessante inquanto prende in considerazione numerosipaesi e i diversi tipi di spostamenti a cui si ri-correva, variabili a seconda delle aree geografi-che più o meno esposte ai rigori dell’inverno(Bergeron 1967: 312-323). Le transumanze acorto raggio erano praticate in diverse localitàe il caso di Lula è significativo: chi possedevaterre pascolive in su Marghine e nella piana delSologo – zone con temperature miti nel perio-do invernale – portava il gregge a svernare inqueste aree. Anche la comunità di Austis, co-me ha rilevato Benedetto Meloni, praticava ta-li forme di spostamento (Meloni 1984). Esiste-va, in pratica, un panorama variegato e com-posito che presentava differenze, spesso, an-che su piccole distanze: per esempio, mentre aDesulo e Fonni le transumanze lunghe gene-ralmente coinvolgevano tutti gli animali dell’a-

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gro, ad Austis erano previsti, oltre alla mobilitàdi lungo percorso verso le aree pianeggianti ele zone costiere, anche brevi spostamenti inter-ni all’agro paesano (Meloni 1988). La perma-nenza nel territorio comunale naturalmentepresupponeva un numero di trasferimenti su-periore alla transumanza di lungo percorso.Ad Austis,

i pastori che stazionano nei terreni comuna-li praticano ogni anno almeno 4 spostamenti, se-condo un codificato sistema pendolare, entropasture di altitudini differenti nelle quali variasia il clima sia il sistema vegetativo. La transu-manza esterna e il pendolarismo interno alle ter-re aperte si coniugano poi con gli spostamentidell’intero gregge o di parte di esso nei terrenichiusi in proprietà o in affitto. Se si tiene contodella frantumazione e dispersione delle terre inproprietà, il numero degli spostamenti di picco-lo raggio può essere anche di molto elevato (Me-loni 1988: 847-8).

Il frazionamento della proprietà e la disper-sione delle terre erano, quindi, alla base di que-sti movimenti intra-comunitari.

Per quanto riguarda le transumanze lun-ghe, i percorsi erano variabili: in direzione del-l’Iglesiente il tragitto era di circa 100-150 km;per l’Oristanese il tratto era approssimativa-mente di 80-100 km; per il Sarrabus il cammi-no era di 100-120 km (Caltagirone 1986: 44).Più diffusamente, i Campidani, la Nurra, gli al-tipiani di Bonorva e Macomer, la piana di Chi-livani vicino a Ozieri, la valle del Coghinas, learee litorali che si estendono da Olbia sino algolfo di Orosei, le Baronie erano i luoghi di ar-rivo principali dei pastori transumanti dellearee montane della Sardegna centrale4. Essisceglievano i pascoli invernali sulla base di va-lutazioni economiche e culturali, esito dell’e-sperienza che consentiva loro di riconoscere lediverse terre e di scegliere quelle migliori. Lafrequente mobilità, infatti, ha contribuito all’e-laborazione di un sostrato di saperi utile nellagestione dell’attività pastorale.

In turvera, a turvare, in tramuda, tramutannesono i termini e i modi con cui si designava latransumanza a seconda dei luoghi. A nos pon-nere in caminu, ossia “ad incamminarsi”, era ilriferimento comune per chi annualmente si spo-stava con il gregge. «Significativamente, nellaparlata fonnese transumanza era s’isverrare(svernare), ma anche s’istrangiare (andare fragenti straniere), mentre il ritorno ai pascolimontani e alla comunità era sa muda, il rinnova-mento» (Murru Corriga 1990: 29). Più di recen-te, Antoon Cornelis Mientjes ha rilevato che

il termine transumanza non esiste nel dialet-to di Fonni, sebbene attualmente i pastori ne co-noscano il significato. L’espressione in viaggiuera quella usata per indicare il trasferimento sta-gionale di pastori e greggi in luoghi lontani. Inriferimento alle pianure come zone in primo luo-go di pascolo invernale veniva usato il nome‘Campidanu’ che in pratica si riferiva non solo al-la grande pianura nel meridione dell’isola, maanche ad altre zone pianeggianti a nord e ad estdi Fonni come la zona di Ozieri in Gallura. Iltermine deve dunque essere considerato una si-neddoche che indica però l’importanza delCampidano nel ciclo annuale della produzione(Mientjes 2008: 200).

In linea generale, la percezione comune erache la transumanza it unu viaggiu, cioè era unviaggio, ed in questa affermazione si deve co-gliere il senso di vastità che rivestivano gli spazinella visione dei pastori. Le partenze – e sembraessere questo il dato maggiormente significativo– erano pianificate sulla base di tempi economi-co-produttivi definiti, in particolare sulle nasci-te degli agnelli. Gli arieti venivano immessi nelgregge per la monta il giorno di San Giovanni, il24 giugno, con variazioni di data secondo le tra-dizioni locali. Tra la fine di giugno e gli inizi diluglio, comunque, le pecore venivano fatte ac-coppiare e i parti erano previsti per quando glianimali avrebbero raggiunto i pascoli invernali.Si tentava sempre di partire prima che le peco-re figliassero per non avere problemi durante ilpercorso, anche se era frequente che la fatica delviaggio anticipasse le nascite.

I periodi di partenza per la transumanza va-riavano annualmente sulla base delle condizio-ni climatiche e ambientali. In certi casi si tran-sumava già in ottobre, anche se i mesi deputatial trasferimento degli animali erano novembree dicembre. Da Fonni, solitamente, i pastoripartivano a novembre o al massimo nei primigiorni del mese successivo; da Desulo, invece,si mettevano in movimento da metà ottobre erientravano il 20 maggio, giorno di aperturadelle terre comunali (Caltagirone 1986: 30).Esisteva un’importante differenza, inoltre, tra ilpartire all’inizio o alla fine del periodo di tran-sumanza per la disponibilità di pascoli che sipoteva trovare o meno lungo il tragitto. L’o-biettivo era infatti di transitare su percorsi nonancora attraversati da altre greggi (cfr. Mientjes2008: 202). C’erano poi giorni stabiliti dalla tra-dizione – generalmente il martedì, il venerdì ela domenica – in cui gli animali non dovevanoessere spostati (cfr. Caltagirone 1986).

Erano le donne che si occupavano di prepa-rare il vestiario e le provviste che il pastore por-

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tava con sé, in particolare il pane carasatu – no-to per la sua durata nel tempo – in quantità ne-cessarie per i mesi da trascorrere lontani dalpaese: per il resto non c’erano lunghi preparati-vi precedenti alla partenza. I pastori mettevanoassieme gli strumenti indispensabili, nello speci-fico quelli per la realizzazione del formaggio, esi servivano di cavalli e di asini per trasportarlidentro sas bertulas, le bisacce, e così per gliagnellini che nascevano durante il cammino.

La durata della transumanza dipendeva dal-le distanze che si dovevano colmare e dagli im-previsti che potevano capitare nel tragitto. Sitransumava da soli, ma molto spesso i pastori –talora di paesi differenti – si associavano percompiere assieme il viaggio e potersi aiutare re-ciprocamente. Da Austis occorrevano due o tregiornate per percorrere i circa cento chilometriche separano il paese montano dalle pianure delCampidano (Meloni 1984). I pastori di Fonniche transumavano verso Solarussa impiegavanodue, tre giorni di camminata, attraversando lecampagne di diverse comunità oltre ai centri abi-tati di Neoneli, Busachi e Fordongianus(Mientjes 2008: 202). Durante gli spostamenti sifermavano poche ore per notte, stando attentiagli eventuali furti e agli sconfinamenti. Le sosteerano stabilite in spazi conosciuti e già utilizzatiin passato, soprattutto perché nel viaggio di ri-torno si doveva provvedere alla mungitura e allaraccolta o alla trasformazione del latte. Spesso siconosceva qualcuno, sos cumpanzos de posata,che ospitava i pastori e garantiva la cura del greg-ge nelle ore notturne. L’attraversamento deicampi coltivati provocava rivalità e comporta-menti ostili da parte dei contadini, in quanto legreggi potevano danneggiare le terre seminate(cfr. Lai 1998). Talvolta, per contro, i rapportierano ottimali, come nel caso dei pastori di De-sulo con gli agricoltori delle pianure (Caltagiro-ne 1986: 40). Transumare significava comunquepassare su confini (cfr. Ortu 1988) ed era fre-quente che si entrasse in conflitto – e non solocon i contadini – per gli sconfinamenti, soprat-tutto se non si era in possesso delle autorizzazio-ni necessarie o non si erano preventivamente sti-pulati accordi tra coloro che transumavano e ipastori proprietari delle zone attraversate. Unesempio in questo senso è stato documentatoper quanto riguarda i fonnesi che hanno acqui-stato terre nel territorio di Solarussa (cfr.Mientjes 2008: 160-2). In sostanza, la transu-manza prevedeva scambi, opposizioni e, quindi,rapporti interpersonali che andavano pianificatiprima della partenza. La mobilità pastorale ave-va regole stabilite, consuetudinarie da seguire.

Non c’era un’unità di controllo centralizzata co-me la Mesta spagnola o la Dogana pugliese, mavi erano riferimenti normativi da rispettare. Nel-la dialettica tra pastorizia e agricoltura «la tran-sumanza resta il luogo e la condizione del massi-mo attrito possibile ed è tuttavia anche il luogo ela condizione della comunicazione, dell’osmosi edel ricambio tra le due realtà» (Ortu 1988: 836).Tale pratica ha avuto un ruolo fondamentale nel-l’organizzazione dello spazio rurale: infatti, «ilpastoralismo animava l’uso del territorio crean-do una rete di itinerari di uomini e bestiame»(Lai 1998: 76). Fernand Braudel ha evidenziatoche la transumanza metteva in gioco condizionifisiche, umane e storiche (Braudel 2002: 75); Or-tu ha aggiunto, correttamente, anche condizioniistituzionali: «i “camminos” percorsi dalle greg-gi transumanti non si trovano mai del tutto libe-ri ed aperti, occupati come sono, sempre, da “so-cietà politiche”, minime o massime che siano,comunità, feudi, stati. Le prospettive ravvicinatepossono essere allora tanto istruttive quanto leprospettive più dilatate e profonde» (Ortu 1988:835). Come già è stato accennato, il pastore do-veva avere rapporti fuori dal suo luogo di resi-denza per potere stipulare i contratti annuali cheerano, nella maggior parte dei casi, informali. Latransumanza presupponeva capacità organizza-tiva, decisionale, di trattare, di tessere relazionicon gli affittuari delle terre e con gli imprendito-ri del formaggio. I pastori isolani conoscevano lepersone e i luoghi: la dimestichezza con questiultimi era l’esito di un lungo processo di ap-prendimento per impregnazione che iniziava sinda bambini, quando si interiorizzava il fare e ilsaper fare guardando, facendo ed imitando i piùgrandi nei percorsi della transumanza5. Primadella partenza si dovevano sbrigare le praticheper ottenere i bollettini di transito degli animali;inoltre le compagnie barracellari dovevano esse-re informate sulle diverse aree che venivano at-traversate (cfr. Caltagirone 1986: 32). I barracel-li erano delle figure non molto stimate dallamaggioranza dei pastori: facevano «sos canes deistegliu ca ini mortos de gana»6, anche se, talvol-ta, erano i pastori stessi a non essere completa-mente in regola con le pratiche burocratiche ne-cessarie. I barracelli vigilavano ché le greggi nonsconfinassero nei campi coltivati ed in caso con-trario sanzionavano e riscuotevano immediata-mente il denaro per eventuali danni provocati,oppure richiedevano qualche capo di bestiamecome ammenda. Essi potevano anche tenturare,ossia “pignorare”, alcuni capi o addirittura l’in-tero gregge, i cavalli e/o gli asini sulla base di re-gole stabilite, qualora il pastore non avesse cor-

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risposto quanto prescritto dalla multa. I barra-celli erano volontari e per questo non percepiva-no uno stipendio, anche se un Regio Decretoprevedeva in loro favore la corresponsione di uncompenso da parte dei proprietari che in questomodo assicuravano le terre. Secondo i pastori, ibarracelli usavano il loro potere per avere un in-troito (Mientjes 2008: 199; Caltagirone 1986: 40-41). Si è potuto riscontrare che in alcuni paesi,per esempio a Lula, non veniva preparato nes-sun bollettino di transito né tantomeno venivanoavvisati i barracelli.

Durante i sei - sette mesi trascorsi nelle pia-nure e nei litorali marini, il ciclo pastorale se-guiva i ritmi di sempre: si svezzavano gli agnel-li, il gregge veniva diviso in gruppi (gli agnelli,le saccaie, le pecore), si mungeva e si produce-va il formaggio. In questo ultimo caso c’era chiconferiva il latte ai caseifici e chi invece trasfor-mava direttamente il prodotto che poi venivavenduto o trasportato in paese al ritorno (cfr.Olla 1969). Tali mansioni richiedevano un im-pegno gravoso e talvolta le unità familiari lavo-rative non garantivano la manodopera suffi-ciente per espletare le diverse fasi di lavoro. Ipastori perciò si associavano, accorpando inquesto modo anche i pascoli. Questa associa-zione era definita a cumpanzos e il contratto sibasava su una divisione del lavoro ordinato eregolamentato secondo regole stabilite dallatradizione. Tale unione si scioglieva al terminedella transumanza, quando i pastori rientrava-no in paese. In sostanza,

si tratta di un’associazione tra maschi adultiche conferiscono in termini proporzionali be-stiame e manodopera, e talvolta terra, nel perio-do della transumanza, ma anche nei pascoli co-munali, nella fase maggiormente produttiva delgregge. I cumpanzos utilizzano gli stessi pascoli,abitano lo stesso ovile, mettono in comune il ci-bo, costituiscono unità di produzione che bada-no unitariamente alle operazioni di pascolo e dilavorazione del latte, e il cui prodotto è suddivi-so in modo proporzionale al numero dei capi.L’associazione è limitata nel tempo e si scioglied’estate, quando si ritorna in paese e il singolonucleo si riunisce per attendere agli animali econtemporaneamente ai lavori agricoli. In que-sto modo è possibile che la famiglia come unitàdi produzione si ricomponga solo per periodi li-mitati dell’anno (Meloni 1988: 853; cfr. Caltagi-rone 1986: 36).

La transumanza era una pratica che interes-sava soltanto gli uomini e in questo periodo ilpaese era composto unicamente dalle donne,dai bambini, dagli anziani, dagli artigiani e dasos massaios, i contadini. Durante la loro assen-

za la gestione economica e l’organizzazione del-la casa e della famiglia erano prerogativa delledonne. Per tali motivi, in passato, qualche stu-dioso ha parlato impropriamente di matriarca-to in Sardegna7. Le donne allevavano ed educa-vano i bambini, gestivano i rapporti tra la fami-glia e la comunità, nonché quelli di parentela edi vicinato, coltivavano gli orti per l’autoconsu-mo, regolavano gli affari domestici e avevanouna parte attiva nelle questioni inerenti l’affit-to, l’acquisto e la vendita di terra e di bestiame.Erano sempre le donne che seguivano le prati-che burocratiche, quelle previdenziali e le au-torizzazioni dell’ufficio abigeato; era ugual-mente la donna che si occupava degli avveni-menti privati e pubblici del ciclo della vita le-gati alla comunità, come per esempio le feste, lericorrenze, le pratiche di cordoglio e di lutto.

Il ritorno dalla transumanza era previsto amaggio – solitamente tra il 15 e il 20 del mese –e la data mutava in relazione alla posizione geo-grafica dei pascoli montani, alla scadenza del-l’affitto delle terre in cui si svernava e soprat-tutto alle condizioni di accesso nei pascoli co-munali. Sos meres, ossia i pastori proprietari,potevano rientrare anche nei mesi precedenti,contrariamente ai servi pastori, sos theraccos,che dovevano tornare necessariamente a mag-gio. Anche il tempo del ritorno era pianificatosu variabili di tipo economico (cfr. Caltagirone1986) e dipendeva dai fattori climatici e am-bientali, dalle esigenze del gregge e dal ciclo ce-realicolo. In numerose comunità, infatti, l’an-nata pastorale era intersecata con quella agrico-la e il rientro dalla transumanza coincideva coni lavori di mietitura, trebbiatura e raccolta delgrano. Dopo il raccolto, i terreni venivanoaperti per pascolare s’istula, ossia le stoppie.

Prima di spostare il bestiame verso i pasco-li montani e collinari i pastori si preoccupavanodi tosare le pecore. Il ritorno dalla transuman-za it un atteru viazzu, cioè era un altro viaggio.Contrariamente al percorso di andata, in quel-lo del rientro si doveva provvedere alla mungi-tura. «Sulla strada del ritorno da Solarussa aFonni i pastori mungevano il gregge tre volte:vicino a Solarussa, al confine dei territori diNeoneli e di Austis e vicino a Fonni. Il latte diquest’ultima mungitura veniva donato a fami-liari e amici come segno di gratitudine per cele-brare il riunirsi dei pastori con la propria co-munità» (Mientjes 2008: 202). Nonostante ilviaggio di rientro prevedesse le incombenze e leincertezze del viaggio di andata – alle quali siaggiungeva, tra l’altro, la mungitura delle peco-re e il conferimento o la trasformazione del lat-

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te – il ritorno in paese era caratterizzato da unclima disteso e festoso. A Fonni il giorno delrientro era sa die primargia, mentre a Desulo sadie prima, cioè il primo giorno, a connotare unaspecifica scansione temporale propria dell’ini-zio di un nuovo ciclo. Caltagirone, riferendosi aquesta giornata, ha sostenuto che «come ognicapodanno che si rispetti si inaugurava con unvero e proprio rito chiamato anch’esso, perestensione, die prima: tutto il latte munto inquel giorno veniva offerto in dono, in tempi piùlontani ai poveri del paese, più di recente a pa-renti ed amici in segno di ringraziamento e difesta per il ritorno avvenuto» (Caltagirone1986: 33). In diverse comunità era diffusa l’u-sanza, al rientro dai pascoli, di donare il lattedella prima mungitura a tutte le famiglie. Inquesto particolare giorno il paese si ricompo-neva e buona parte della popolazione maschilesi reintegrava nel tessuto socioculturale ed eco-nomico comunitario.

Dal quadro fin qui tracciato della transu-manza si intuisce come la visione che ha perva-so buona parte delle analisi del fenomeno con-dotte sino agli anni Settanta del Novecento, se-condo le quali la vita dei pastori era segnatadalla più assoluta solitudine, fosse basata sustereotipi spesso costruiti dagli stessi studiosi.La transumanza, infatti, ha sempre attivatoscambi per finalità economiche che divenivanoscambi sociali e culturali. Per buona parte del-l’anno i pastori intessevano relazioni interper-sonali e stipulavano contratti associativi, so-prattutto con i proprietari delle terre; ciò evi-denzia la stretta correlazione tra pratiche pro-duttive e realtà socioculturale. In questo senso,come oramai stabilito da diversi studi, i pastorinon erano individui isolati, sempre “solos chefera”, ossia solitari come fiere – concezione eimmagine «più poetica che scientifica» comeha giustamente rilevato Caltagirone (1986: 34)–, ma erano inseriti all’interno di una rete dirapporti familiari ed extrafamiliari. D’altronde,i pastori transumanti che risiedevano per sei -sette mesi all’anno fuori dai propri paesi di re-sidenza – a contatto tra di loro, ma in partico-lare con i sedentari – non potevano costituiredelle comunità completamente chiuse ed isola-te dal mondo (cfr. Fabietti 1996).

4. Nella seconda metà del secolo scorso giun-ge a compimento una delle trasformazioni piùimportanti del comparto zootecnico sardo: la se-dentarizzazione. Nelle terre acquistate dai pa-stori prende avvio la razionalizzazione sistemati-

ca del settore che ha avuto esiti economici e so-cioculturali molto interessanti, nello specificoper quanto concerne l’attività e la vita pastoraleche subiscono a partire da questo momento uncambiamento epocale. La meccanizzazione e,quindi, la coltivazione di erbai (anche in virtùdella scomparsa dei contadini e il conseguenteaumento delle terre disponibili), la costruzionedi infrastrutture, l’innovazione tecnologica sonoalcuni fattori che hanno favorito la modernizza-zione della pastorizia isolana e la successivascomparsa della transumanza. Essa viene abban-donata gradualmente a partire dagli anni Qua-ranta - cinquanta anche se il processo si compienegli anni Settanta in concomitanza con l’utiliz-zo frequente di camion per il trasporto degli ani-mali. Ci sono episodi sporadici di pastori transu-manti anche nei decenni successivi (cfr. Mientjes2008: 205), mentre oggi sono pochissimi coloroche ricorrono alla mobilità pastorale e nella mag-gior parte dei casi vengono utilizzati i furgoniche riducono notevolmente le ore di viaggio.

La formazione di una proprietà fondiaria daparte di alcuni pastori di Fonni è un fenomenoin atto già a metà Ottocento:

Intrapresa inizialmente da due pastori nelCampidano di Cagliari, poi estesasi ad una élitedi famiglie nel primo ’900, la formazione del pa-trimonio fondiario fonnese nelle pianure si è an-dato sempre più estendendo […]. L’espansionedei pastori fonnesi si è estesa, negli anni fra le dueguerre, anche ad altre aree: Sulcis, Sarcidano,Oristanese, più di recente alla Nurra e alla mari-na di Valledoria, fino a diventare ormai un fattoeconomico e sociale di vaste proporzioni, che haprofondamente modificato, favorito anche daipiù vasti mutamenti in atto in tutta l’isola, la fi-sionomia produttiva del pastoralismo locale, e laricchezza pastorale (Murru Corriga 1990: 32-33).

Molti pastori di Fonni, infatti, possiedono at-tualmente migliaia di ettari di terra fuori dal pro-prio territorio comunale. Tale fenomeno ha per-messo loro, soprattutto in passato, di risolvere iproblemi legati al pascolamento invernale dellegreggi (cfr. Mientjes 2008). Anche diversi pasto-ri di Desulo, di Gavoi, in misura minore di Au-stis, si sono sedentarizzati nelle pianure e hannoacquistato le terre prima riservate allo sverna-mento degli animali. Si è pervenuti, in sostanza,a forme abitative definite, esito dell’importanterapporto che i pastori hanno stabilito nel tempo,nel corso di generazioni, con lo spazio e le per-sone che vi risiedono (cfr. Murru Corriga 1990;Caltagirone 1986: 39). In questo senso si è con-cretizzato quanto aveva auspicato Le Lannounei primi anni Quaranta del Novecento: il geo-grafo francese riteneva che il pastoralismo po-

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tesse mutare e la transumanza potesse scompari-re completamente soltanto con il passaggio daun modello pastorale di tipo nomade ad uno ditipo sedentario (Le Lannou 1992: 172).

In queste nuove proprietà i pastori

lavorano per la gran parte dell’anno. Compati-bilmente con l’organizzazione del lavoro […] fan-no rientro al paese d’origine, dove hanno casa emantengono la residenza, e dove mantengonoquindi anche il diritto di “cittadinanza”. Questaorganizzazione pastorale è di grande interesse, siaper la sua consistenza economica e numerica, siaper le trasformazioni che ha indotto nella pastori-zia tradizionale, per la creazione di aziende di me-dia e grande dimensione, l’introduzione della sta-bulazione, talvolta dell’irrigazione, delle colture fo-raggere stagionali o permanenti, e soprattutto per-ché i pastori abitano nelle case poste nel podere,ponendo fine in questo modo ai movimenti stagio-nali delle greggi. I pastori dei singoli paesi succita-ti sono penetrati, per gruppi omogenei di prove-nienza, in zone specifiche e delimitate, seguendomodalità di catene di richiamo, basate su logiche diparentela e amicizia. I casi osservati ad Austis sonoinvece isolati e non rispondono a questa logica mi-gratoria ed espansiva (Meloni 1988: 845-846).

La sedentarizzazione ha portato alla creazio-ne di

forme diverse di “località” dell’unità produt-tiva pastorale: a) stabilità nei pascoli montani e re-sidenza nel paese di tutto il gruppo domestico; b)stabilità nei pascoli di pianura con doppia loca-lità: sul fondo e nel paese, con separazione «a in-termittenza» del gruppo domestico; c) stabilitànei pascoli di pianura e insediamento sul fondo ditutto il gruppo domestico, con tendenza progres-siva al definitivo distacco dal paese. Se il modellob perpetua, con qualche modifica, forme tradizio-nali di residenza, i modelli a e c apportano invecemutamenti profondi alla struttura delle famigliepastorali, riconducendo ad una unità spaziale sta-bile le diverse componenti del gruppo domestico.Esito eclatante di questo lungo processo è co-munque oggi la tendenza, certo irreversibile, al-l’insediamento stabile nella proprietà di pianura eall’abbandono progressivo della transumanza(Murru Corriga 1990: 34).

Le terre diventate di proprietà – e non soloquelle pianeggianti acquistate nel Campidano,nella Nurra, ecc. – hanno consentito di espri-mere le capacità e le potenzialità produttive deipastori e delle aziende.

In sostanza, l’economia pastorale è mutatada un modello transumante ad uno sedentario.Si tratta di un cambiamento importante chenon è solamente economico ma in larga parteculturale. I pastori erano consapevoli dei sacri-fici che presupponeva la pastorizia e la transu-manza era fra le pratiche più obbliganti8. Dalle

parole di chi ha transumato per numerosi anniemerge un senso di rivalsa – che poi è parte co-stitutiva dell’identità pastorale – nei confrontidi un’emigrazione che annualmente spingeva ipastori ad abbandonare la comunità, la fami-glia e, più in generale, il proprio microcosmo diriferimento. Anche la reputazione e la pubblicaostentazione – come rileva Caltagirone – fannoparte di questa identità, e «nel raggiungimentodi questo traguardo la transumanza ha avutoun grande ruolo: in fondo, la conquista in-cruenta del Campidano da parte dei pastoridella montagna incomincia tutta da qui: libe-rarsi una volta per tutte del gravoso vincolo diun’emigrazione perpetua» (Caltagirone 1986:42). Nonostante oggi in Sardegna ci siano piùdi tre milioni di ovini, lo spostamento di centi-naia di pecore dalle montagne ai pascoli pia-neggianti è una pratica del passato che attual-mente vive soltanto nella memoria collettivadelle differenti comunità pastorali.

5. Negli ultimi anni le tradizionali vie dellatransumanza hanno attirato l’interesse dei GAL(Gruppi di Azione Locale) Barbagie e Mandro-lisai, Mare Monti e Ogliastra, i quali, con la col-laborazione di istituzioni politiche, enti e stu-diosi locali, hanno dato avvio al progetto Tra-mudas – corrispondente sardo di transumanza–, con l’obiettivo di promuovere l’identità rura-le di alcune aree dell’isola e di creare un’occa-sione di sviluppo turistico-culturale attraverso ilrecupero degli antichi percorsi pastorali. I pro-grammatori hanno predisposto anche una guidaper far conoscere ai visitatori le vie e le tappe dapercorrere. Nelle sue pagine è possibile leggere:«gli itinerari che proponiamo vi faranno scopri-re la Sardegna autentica delle zone più interne,dove si respirano i profumi della fitta vegetazio-ne che nasconde e al tempo stesso rivela le radi-ci del pastoralismo e le suggestioni di un mondoancora intatto»; e ancora: «il duro viaggio an-nuale del pastore, viste le sue unicità e la ric-chezza di rituali, metodi e leggende, può costi-tuire un filo conduttore per l’esplorazione delturista nella storia, la cultura e l’ambiente dellaSardegna».

Il progetto Tramudas è stato presentato nel-l’autunno del 2007 all’interno di un più ampioquadro di manifestazioni inserite nel program-ma Autunno in Barbagia – appuntamento sta-gionale che vede coinvolte diverse comunitàdell’isola nella proposta di pratiche, saperi, sa-pori “di una volta”. L’evento, dal titolo signifi-cativo “Pastores e tenores”, si è tenuto ad Ollo-

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lai e ha previsto una rassegna di film etnografi-ci sul pastoralismo, l’apertura della “casa dellatransumanza” ed altre rappresentazioni incen-trate sul tema della pastorizia.

Tramudas non è l’unico avvenimento – o tra-dizione inventata, se si considera che molte diqueste manifestazioni hanno una continuità euna riproposizione nel tempo – che ripercorre ifili della memoria storico-culturale degli sposta-menti pastorali. In numerosi paesi si promuovo-no passeggiate a cavallo lungo i sentieri dellatransumanza. Il turismo equestre, infatti, costi-tuisce uno dei principali motori trainanti dell’in-dustria turistica e si pone come alternativa aipercorsi inflazionati e omologati, con l’obiettivodi sviluppare l’economia delle aree interessate edi valorizzare il patrimonio ambientale e identi-tario rurale isolano. In questo senso è stata con-cepita un’altra iniziativa, “Camineras de tramu-da”, ossia percorsi della transumanza, che pre-vede la collaborazione di differenti partner nellarealizzazione di una progettazione integrata su-gli itinerari a cavallo nelle vie dei pastori.

Sul finire del 2009, un gregge di circa millepecore è stato fatto transumare dalle campagnedell’isola a quelle della Regione Abruzzo, in se-guito al terremoto dell’aprile dello stesso anno.La “transumanza della solidarietà” – così è sta-ta denominata – ha visto coinvolte istituzionipolitiche, associazioni di categoria, enti e ungruppo musicale locale ed ha puntato partico-larmente sulla tradizione pastorale sarda, nellospecifico su “sa paradura”, ossia la pratica – og-gi pressoché scomparsa – che presupponevauna questua per ricostituire il gregge perduto.

Le iniziative rivolte a tutelare le identità cul-turali della Sardegna e il suo patrimonio di benimateriali e immateriali si alternano con la ormaicostante proposta e riproposta di sagre, festivalfolkloristici, rassegne e fiere. La transumanza èl’elemento esemplare di una fenomenologia piùampia e diffusa assunta come modello identita-rio utile a destagionalizzare i flussi vacanzieri.Sagre della tosatura, pranzi con i pastori, per-nottamenti in sos pinnettos – le antiche abitazio-ni pastorali – sono solamente alcuni esempi diun imponente processo culturale-consumisticoche sta caratterizzando in questi ultimi decenniil panorama isolano.

La persistenza della pastorizia quale setto-re produttivo primario si incontra – ma si scon-tra anche – con le esigenze istituzionali di Entiper il turismo, Pro Loco, gruppi folkloristici eassociazioni culturali che propongono il revivale/o l’invenzione di tratti culturali ritenuti arcai-ci – o, secondo alcuni, idilliaci e misteriosi sul-

la base di un processo di stereotipizzazione cheva avanti ormai da tempo –, con l’obiettivo diattrarre «quei flussi turistici che oggi paiono isoli in grado di risollevare le economie depres-se di tanti piccoli e grandi centri di antica tra-dizione […], ma anche di ritrovare nuove ra-gioni all’esserci nel mondo, recuperando in unaprospettiva inedita la propria memoria cultura-le» (Buttitta 2010). In questa direzione, la Sar-degna forma un bacino al cui interno sono con-servate risorse tangibili e intangibili caratteri-stiche di un’economia pastorale che si ramificain tutto il territorio isolano ed in particolarenelle zone centrali – quelle aree montane delNuorese e delle Barbagie capaci di stimolarenell’immaginario dei turisti visioni bucoliche edi far rivivere ai vacanzieri attimi di tempi per-duti. Ed è propriamente sulle zone interne chesi punta da qualche decennio con l’intento disostituire questa economia – data sempre permorente – con una di tipo turistico, la qualenelle intenzioni dei promotori dovrebbe rap-presentare un incentivo di reddito economicoper le popolazioni locali. Esperienze recenti inquesto senso – il caso di Cortes apertas si costi-tuisce sicuramente come uno degli esiti più rap-presentativi – hanno tuttavia dimostrato il con-trario e l’investimento economico nella promo-zione di tali manifestazioni si rivela, nella mag-gior parte dei casi, controproducente.

All’interno della crisi che negli ultimi anni at-tanaglia in generale tutti i comparti zootecnicidel Mediterraneo, le tradizioni pastorali sonospesso rispolverate ed opportunamente propo-ste come palliativi che sortiscono un effettoprovvisorio e precario. Talvolta sono gli stessi pa-stori a promuovere le specificità locali e un esem-pio è dato dal “pranzo con i pastori” a Orgosolo– fenomeno che ha preso avvio già negli anni Ses-santa del secolo scorso – e si rivolge ai numero-si turisti che affollano il paese nei diversi periodidell’anno (Satta 2001). Più in particolare si trattadi una tappa che ha lo scopo di offrire ai visita-tori – tramite la mediazione di agenzie di viaggioe di promozione turistica – alcune ore da tra-scorrere con i pastori orgolesi, per antonomasiaconsiderati gli abitatori di un mondo esotico incui la figura del pastore-bandito è, spesso, idea-lizzata come una costante di tale realtà. I pastorimangiano tra loro dopo aver servito i turisti,scacciano via i maiali al pascolo secondo “arcai-che” consuetudini pastorali, cantano a tenore,ballano il ballo sardo e vendono i prodotti tipici.Tutto ciò è compreso nel pacchetto da destinareagli ospiti. Molti turisti provano addirittura di-sappunto quando dopo il pranzo, mentre visita-

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no il paese, riconoscono nei bar i pastori da cuisono stati serviti in precedenza, avvertendo unaperdita dell’autenticità originaria nel riscontrareche i pastori stessi non vivono perennemente iso-lati negli ovili. In linea generale,

l’idea che la “vera Sardegna” – la più cultu-ralmente autentica, quella che ha meglio conser-vato la sua originale (e originaria) identità – nonsi trovi nell’atmosfera anonima delle città, infondo simili a tante altre della provincia italiana,né nella magica sospensione dei luoghi di villeg-giatura marina, ma piuttosto nei paesi dellemontagne interne, è un vero e proprio luogo co-mune, ampiamente diffuso nella produzionemediatica, nelle guide di viaggio, nella propa-ganda turistica, nel parlare quotidiano, nel di-scorso politico […] Nella costruzione di una“vera Sardegna” (che naturalmente ha come ef-fetto di evocare per opposizione una Sardegnameno “vera”, se non proprio falsa) è data unaparticolare organizzazione al repertorio dei temiche si sono andati storicamente sedimentandosull’isola, i suoi abitanti, i loro costumi: isola-mento, arcaismo, resistenza, pastorizia, banditi-smo, vendetta, abigeato, e così via. Il turismo or-golese si fonda su questa costruzione, non senzacontribuire a manipolarla e modificarla, e ne fal’oggetto di una specifica esperienza. Cultura eidentità sarda sono implicitamente convocate inuna rappresentazione concreta che deve risulta-re efficace e sintetica, anche se non necessaria-mente coerente (Satta 2001: 16).

La nuove frontiere del pastoralismo – o al-meno di un pastoralismo per turisti – sembranodunque essere orientate verso la continua pro-posta di manifestazioni e pratiche riprese e in-ventate, soprattutto in questo periodo di “mo-dernità liquida” o “modernità in polvere”, do-ve tutto rischia di essere fagocitato dall’arenadella globalizzazione se non dell’omologazione;d’altronde è tutt’altro che raro

che la cosa si verifichi più frequentementequando una rapida trasformazione della societàindebolisce o distrugge i modelli sociali ai quali sierano informate le “vecchie” tradizioni, produ-cendone di nuovi ai quali queste non sono più ap-plicabili; oppure quando le vecchie tradizioni, leloro carriere istituzionali e i loro promotori non sidimostrano più abbastanza adattabili e flessibili, ovengono comunque eliminati: in poche parole,quando i cambiamenti sul piano della domanda odell’offerta sono abbastanza vasti e rapidi (Hobs-bawm 2002: 7).

La transumanza in particolare si è trasfor-mata da pratica obbligante del ciclo annuale diallevamento – con una ripetitività stagionalecontraddistinta da momenti rituali specificivolti a rifondare il tempo – a momento di relaxe divertimento per quanti, a piedi o a cavallo,

vogliano ripercorrere gli antichi sentieri attra-versati dalle greggi – opportunamente accom-pagnati da guide locali –, perdendo, dunque,quell’effettiva funzione economica e sociocul-turale che la caratterizzava. La transumanza sicostituisce attualmente come una icona cheraccoglie e rifunzionalizza un’eredità culturale,attraverso un efficace processo teso a seleziona-re, recuperare e dotare di senso nuovo i tratticostitutivi del passato per adattarli alle nuoveesigenze. Dotata di simboli che hanno la capa-cità di attrarre e di veicolare messaggi apposita-mente ricercati, la transumanza diventa cosìuna risorsa economica da sfruttare – sulla basedi una politica turistico-consumistica diffusa –e non una pratica del patrimonio culturale tra-dizionale da valorizzare.

In tal senso, infatti,

questo fare per gli altri per sentirci noi, que-sta riconversione della propria cultura tradizio-nale a favore delle logiche del mercato, questodepotenziamento dei referenti extra-umani so-lutori delle angosce più intime, che oggi ci appa-re soluzione facile e immediata alle crisi econo-miche e sociali, è piuttosto il segnale del disfaci-mento, del tramonto, della fine di una cultura.Risultato ineluttabile di tale processo si delineaessere, infatti, l’appiattimento di un ricco e va-riegato universo su standards di fruizione cheprivilegiano della festa gli aspetti ludici e spetta-colari, folkloristici, esitando nell’introduzione,anche forzata, di elementi nuovi e estranei al fi-ne di esaudire e incoraggiare le domande delmercato turistico. La speranza che sorregge taliinterventi è quella, in teoria legittima e apprez-zabile, di rilanciare l’economia locale stimolan-do i flussi turistici. Questa politica, raramentesostenuta da una sia pur minima sensibilità an-tropologica, come è facilmente comprensibile,non favorisce affatto lo sviluppo. Episodici e as-sai limitati nel tempo, gli afflussi di visitatori noncomportano l’incremento economico sperato(Buttitta in prep.).

In sostanza, nel nostro caso specifico, è pos-sibile parlare di rifunzionalizzazione o reinven-zione della transumanza. Le vecchie vie attraver-sate dai pastori sono ora percorse dai turisti, me-diante sentieri attrezzati, spazi di pernottamentoe punti di appoggio. Attualmente, nella maggiorparte dei casi, la funzione della transumanza èquella di servire da veicolo di tradizionalità perproporre un momento di spensieratezza istitu-zionalizzata e da occasione per enti e istituzionidi far mostra del loro interesse verso i propri cit-tadini. Uno dei tanti simboli della tradizione chediviene prodotto (ma anche nuovo simbolo)della contemporaneità e si fa portavoce della tra-dizione stessa per istituire effimeri profitti.

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Note

1 È inoltre opportuno specificare che i territori co-munali idonei allo svernamento del bestiame – ossia lad-dove queste terre avessero una conformazione adatta afavorire un clima mite durante l’inverno – erano pochi escarsamente coltivati, per cui non garantivano gli appor-ti di pascolo ottimali.

2 Alla transumanza inversa o invernale si oppone latransumanza normale o estiva, che prevede il trasferi-mento del bestiame dai pascoli di pianura alle pasturemontane.

3 Si riportano qui di seguito alcuni percorsi tradizio-nali. Per Austis, «luogo privilegiato della transumanza so-no soprattutto le zone non coltivate del Campidano set-tentrionale di Oristano. Alcuni pastori si fermano ancheprima nei pascoli riparati della sponda sinistra del Tirso(Chirru de Zosso), altri si spingono oltre, lungo la direttri-ce della statale Carlo felice, che va da Oristano a Cagliari,verso S. Anna e Villacidro. Alcuni pastori di capre rag-giungono talvolta le zone calde delle montagne di Pula eTeulada, all’estremo sud della Sardegna, dove abbonda lamacchia mediterranea» (Meloni 1988: 843). La meta deipastori desulesi erano le terre dell’iglesiente, dell’orista-nese, del Sarrabus e del sassarese; eccetto la Gallura essisi spingevano in tutte le sub regioni pianeggianti dell’iso-la (Caltagirone 1986: 30). Più in generale, «i pastori deipaesi dei versanti settentrionale, occidentale e meridiona-le del Gennargentu si spingono prevalentemente, conpercorsi variabili tra 50 e 120 km, verso i Campidani everso il Sulcis-Iglesiente; i pastori dei paesi del versanteorientale, che possiedono meno pecore ma più capre,scendono, con tragitti di 30-60 km, sulle coste sud-orien-tali dell’Ogliastra e nelle regioni del Gerrei e del Sarra-bus. In entrambi i casi la direzione della transumanza èverso sud; soltanto alcune comunità del versante setten-trionale del Gennargentu muovono in direzione opposta,verso le pianure costiere della Baronia e in misura mino-re verso la Nurra di Alghero. Si tratta di direttrici storica-mente costanti, che emergono abbastanza evidenti già nelBasso Medioevo. Esse derivano da fattori anzitutto fisicio geografici, ma non si può escludere che sul loro conso-lidamento abbiano influito anche ragioni storiche» (Ortu1988: 821-822). Descrizioni dettagliate sulle direttrici del-la transumanza sono quelle di Le Lannou e Bergeron chesi sono soffermati diffusamente sugli spostamenti pasto-rali (Le Lannou 1992: 171-176; Bergeron 1967: 312-323).

4 Alcuni studiosi hanno proposto la distinzione fratransumanza intra-regionale e inter-regionale: la primaconsisterebbe nello spostamento degli animali all’internodel territorio di una singola comunità; la seconda invecepresupporrebbe il trasferimento delle greggi al di fuori deiconfini comunitari (Cleary - Delano Smith 1990: 21-38).

5 Per i bambini la transumanza costituiva un viaggioavventuroso e desiderato. Compierlo, inoltre, era unodei momenti più importanti nella formazione e nell’ini-ziazione personale dei giovani pastori.

6 Letteralmente si traduce con: facevano «i “cani daciotola” perché erano dei morti di fame». In Sardegna,con cane istegliu si intende una persona di poco valore,che non serve a niente.

7 Si veda in particolare: Acciaro Pitzalis M. 1978, Innome della madre. Ipotesi sul matriarcato barbaricino,Feltrinelli, Milano.

8 I pastori, comunque, erano abituati a spostarsi con-tinuamente, per cui la transumanza era vista come unacondizione normale della loro esistenza.

Riferimenti

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Fabietti U.1996 Nomadi, sedentari e paradigmi in mutamento.

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Hobsbawm E. J.2002 Introduzione: come si inventa una tradizione, in

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Masuri M.1982 Società pastorale in Sardegna, in V. Lanternari (a

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S. Mannia, In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e prospettive future

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Ricercare

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1984 Famiglie di pastori. continuità e mutamento inuna comunità della Sardegna Centrale 1950-1970, Rosenberg & Sellier, Torino.

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Mientjes A. C.2008 Paesaggi pastorali. Studio etnoarcheologico sul

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Murru Corriga G.1990 Dalla montagna ai campidani. Famiglia e muta-

mento in una comunità di pastori, Edes, Sassari.

Olla D. 1969 Il vecchio e il nuovo nell’economia agro-pastorale

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Ortu G. G.1988 La transumanza nella storia della Sardegna, in

«Mélanges de l’Ecole française de Rome.Moyen-Age, Temps modernes», C, n. 2: 821-838.

Satta G.2001 Turisti a Orgosolo. La Sardegna pastorale come

attrazione turistica, Liguori, Napoli.

Solinas P.G.1989-90 (a cura di), Pastori sardi in provincia di Siena, 3

vol., Laboratorio etno-antropologico, Diparti-mento di Filosofia e Scienze Sociali, Siena.

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Abstracts

ANTONINO BUTTITTAUniversità di PalermoDipartimento di Beni CulturaliViale delle Scienze – 90100 [email protected]

Cavalieri dell’Aldilà o della solitudine dell’eroe

Le procedure del pensiero simbolico alla base delle co-struzioni mitico-rituali consentono di istituire connessio-ni astratte e salti logici che al pensiero logico-razionalenon è consentito compiere. Esse convertono l’impossibi-le nel possibile, invertono l’ordine temporale e spaziale,annullano le contraddizioni irresolubili nella prassi.Questa specifica forma di pensiero, che a livello perfor-mativo e narrativo è presente in tutte le culture, si mani-festa in modo esemplare nella figura dell’eroe – incarna-ta nel Medioevo nel cavaliere – personaggio ambiguo chesi situa al di fuori della norma senza opporglisi. Egli èchiamato a ricondurre il caos del vissuto nel cosmos ori-ginario, l’insostenibile instabilità del divenire alla soste-nibile fissità dell’essere.

Parole chiave: pensiero simbolico; mito; eroe; cavaliere;prove

Knights of the Otherworld, or about the loneliness of the hero

The procedures of the symbolic thought supporting themythic-ritual constructions allow to establish abstractconnections and to make logical jumps which the logicalthought is unable to make. They can turn the impossibleinto possible, change the time and the space order or sol-ve all contradictions into praxis. We can find this parti-cular procedure of thought in all cultures on a performa-tive or narrative level, but it clearly appears in the hero,who is embodied by the knight of the Middle Ages. He isan ambiguous figure who sets himself beyond the normswithout opposing them. The knight is called to changeeither the caos into the cosmos of origin or the unsustai-nable instability of becoming into the sustainable fixityof being.

Key words: simbolic thought; myth; hero; knight; trials

PIERCARLO GRIMALDIUniversità degli Studi di Scienze GastronomichePiazza Vittorio Emanuele 9Pollenzo - 12042 Bra (Cn)[email protected] - [email protected]

“Insieme simili e dissimili”. Un percorso evolutivo popolare

Scopo dell’articolo è dimostrare che le culture oralihanno una profonda e puntuale conoscenza dell’origi-ne dell’uomo. Evidenze tratte dall’ambito folkloricoconsentono di ricostruire il complesso e articolato si-stema materiale e simbolico che, ancora alcuni decennifa, riconosceva chiaramente e illustrava la relazioneevolutiva tra gli esseri umani e gli animali e, più in ge-nerale, la Natura. Così, quando nella seconda metà del-l’Ottocento Charles Darwin elaborò la sua rivoluziona-ria teoria dell’origine delle specie, per mezzo dei proto-colli scientifici propri della scrittura, certificava una co-noscenza che le comunità di tradizione orale già inqualche modo possedevano nel loro sistema culturalefondato su gesti e parole.

Parole chiave: relazione uomo/animale; cultura popola-re; oralità; teoria dell’evoluzione; Piemonte.

“Similar and different at the same time”. A folk evolutionary path

The aim of this paper is to demonstrate that oral cultureshave a profound and precise understanding of the originsof Mankind. Folkloric evidences permit the reconstructionof the complex and consistent material and symbolic sys-tem that, still not many decades ago, clearly recognizedand portrayed the evolutionary relationship that stronglylinks humanity to animals and, more broadly, Nature.Thus, when in the first half of XIXth century, Charles Dar-win elaborated the revolutionary theory on the origin ofspecies, through the scientific protocols of literacy, he justcertified the knowledge that the folk communities of oral-ity had always known, in some extent, since it was presentand elaborated in their cultural, existential system thatwas made by gestures and speech.

KEY WORDS: men/animals relationship; popular culture;orality; theory of evolution, Piemonte

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ROSARIO PERRICONEAssociazione per la conservazione delle tradizioni popolariMuseo internazionale delle marionette Antonio PasqualinoPiazzetta Antonio Pasqualino, 5 - 90138, [email protected]

La ricerca sul campo come ‘extraordinary experience’

L’antropologia riflessiva ha concentrato la propria atten-zione sulla scrittura del testo tralasciando l’esperienzadell’osservazione, sulla quale la pratica della ricerca sulcampo si costruisce, e ha raramente prestato attenzioneall’esperienza incorporata dei ricercatori. Il rapporto tri-plice che si istaura tra l’antropologo, il mondo e “l’altro”rivela la profonda interrelazione esistente tra i tre livellidi questa «isotopia complessa». In questo saggio si af-fronta il problema di come una persona possa interagirecon un’altra all’interno della pratica etnografica. La ri-cerca etnografica non consiste soltanto in dialoghi maanche in esperienze corporee che hanno un ruolo fonda-mentale nella produzione delle rappresentazioni etno-grafiche. Gli antropologi esperienziali ritengono che bi-sogna riflettere sulle conoscenze che si producono parte-cipando attivamente alle performance in atto. Bisogna al-lora compenetrarsi nella ricerca sul campo, viverla nelproprio corpo ed essere in grado di trovare in se stessiquei significati altrimenti inaccessibili.

Parole chiave: fieldwork etnografico; informatori; teoriadella conoscenza; incorporazione; neuroni specchio.

Fieldwork as ‘extraordinary experience’

Reflexive criticism focused its attention on writing texts,neglecting the experience of observation, on which thepractice of field research is built, and it rarely paid atten-tion to the experience of researchers. The triple relation-ship established between the anthropologist, the worldand the “other” reveals the deep interrelation between thethree levels of this “complex isotopy”. This essay addressesthe problem of how a person can interact with anotherwithin the ethnographic practice. Ethnographic researchdoesn’t consist only in dialogues but also in bodily experi-ences that have a key role in the production of ethno-graphic representations. Experiential anthropologists be-lieve that we must reflect on the knowledge that is pro-duced, by participating actively in the performances that isbeing executing, permeating in the field research, physical-ly experiencing it and being able to find in ourselves thosemeanings otherwise inaccessible.

Key words: ethnographic fieldwork; informants; theory ofknowledge; incorporation; mirror neurons.

MARCO ASSENNATOEcole Nationale Superieure d’Architecture de Grenoble Laboratoire de recherche «Les metiers de l’Histoire del’Architecture. Edifices - Ville – Territoires» 60, Avenue de Constantine, Grenoble, [email protected]

Nomadi dopo la città. Post-metropoli, politica, pedagogia

Scopo dell’articolo è analizzare la relazione, da una par-te, tra città, sistema politico-normativo e sistema educa-tivo e, dall’altra, tra cultura, territorio e politica. La nuo-va forma urbana che, alla fine del secolo scorso, ha vistoimplodere l’idea classica di città viene presa in conside-razione in rapporto al suo analogo politico, in particola-re a partire dalla crisi dello Stato-Nazione. Questa crisiha aperto la ricerca verso una serie di pratiche narrativeche sarebbero in grado di definire la pluralità delle for-me di vita che oggi si trovano in quel ‘terreno vago’ rap-presentato dalla grande città postindustriale. L’articoloespone criticamente questa tesi alla luce della necessità alcontempo politica, pedagogica e urbanistica di un pen-siero generale capace di assicurare stabilità a un proget-to civile che trovi diretta espressione nella forma urbana.L’approccio critico si fonda su una rilettura del rapportotra città, politica e educazione in epoca classica, greca eromana, che mostra un dispositivo complesso di stratifi-cazioni normative destinate ad assicurare una forma a di-namiche antropologiche sfuggenti e molteplici.

Parole chiave: città; cittadinanza; politica; polis; sistemieducativi

Nomads after the town. Post-metropolis, politics and edu-cation

The article aims at analyzing, on one hand, the relationbetween the city, as a political-normative and educationalsystem and, on the other hand, the relation between cul-ture, identity, territory and politics. The new urban formwhich, at the end of the last century, saw the implosion ofthe classical idea of the city is considered in comparison tohis political pendant, particularly since the crisis of the Na-tion-States. This crisis opened a research field to the so cal-led narrative procedures which are able to define the plu-rality of the ways of life of the post industrial metropolis.The aim of this paper is to review this thesis in the light ofthe political, pedagogical and urbanistic need of a generalthought, which is able to give stability to a civil project, asan expression of the urban form. This critical approach ori-ginates from a reading of the relationship between city, po-litics and education in the ancient world, where was atwork a complex device of norms, which was able to giveform to the elusive and various anthropological dynamics.

Key words: town; citizenship; politics; polis; education

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DAVID GILMOREDept. of AnthropologyStony Brook UniversityStony Brook NY [email protected]

Sexual Segregation in Andalusia. Then and Now

This paper examines changing patterns of sexual seg-regation in Andalusia. Working from the premise of“public/private” as both ethnographically and method-ologically valid, the author describes how youngwomen in Andalusia have invented an institutionspecifically designed to broach the barriers of malespace and attain public access. This new custom is the“private festival”, a concept previously unheard of inAndalusia and a reversal of prevailing orthodoxies.The author describes local reactions to this culturalrevolution among both men and women.

Key words: gender relations; Andalusia; public/pri-vate; gendered spaces; social change

La separazione tra i sessi in Andalusia. Ieri e oggi

Questo articolo esamina le trasformazioni dei modelli diseparazione tra i sessi in Andalusia. Partendo dall’oppo-sizione “pubblico/privato”, premessa valida sia dal pun-to di vista etnografico sia da quello metodologico, l’au-tore descrive in che modo in Andalusia le giovani donnehanno inventato una specifica istituzione espressamentefinalizzata a superare le barriere degli spazi maschili peraccedere a una dimensione pubblica. Questo nuovo co-stume, chiamato “fiesta particular”, del tutto inedito inAndalusia, rappresenta una inversione della norma do-minante. L’autore descrive le reazioni locali di questa ve-ra e propria rivoluzione culturale, da parte sia degli uo-mini che delle donne.

Parole chiave: relazioni di genere; Andalusia; pubbli-co/privato; genere e spazio; cambiamento sociale

FERDINANDO FAVADipartimento di StoriaUniversità degli Studi di PadovaVia del Vescovado, 30 - 35141 [email protected]

Spazio sociale e spazio costruttivo: la produzione delloZEN

L’articolo propone una riflessione epistemologicasullo ZEN (Zona Espansione Nord), un quartieremarginale (e marginalizzato) della periferia nord diPalermo (Italia). L’autore, sostenuto da un approccioantropologico, si muove tra spazi diversi, apparta-menti, cortili, strade. L’esperienza etnografica, intesacome sense-experience ancorata al “qui e ora” di cia-scuno di questi spazi, rappresenta in se stessa unaistanza critica che gli permette di comprenderli inmodo diverso. Essa tuttavia richiede anche altre me-diazioni che consentano di connettere il “qui e ora”con la più generale struttura spaziale della città e ilsuo passato prossimo, “l’altrove e l’allora”.

Parole chiave: etnografia; spazio costruttivo; spaziosociale; produzione; Palermo

Social space and stuctural space: the production of ZEN(Palermo)This paper is an epistemological reflection on the ZEN(Zone Espansione Nord), a marginalized public housingneighborhood at the north periphery of Palermo (Italy).The author walks between the different spaces of the nei-ghborhood (flats, courtyards, streets) with the anthropo-logical approach. The ethnographic experience, as a sen-se-experience anchored to the “here and now” of eachspace, brings in itself a critical instance. It allows to un-derstand these spaces differently but demands also othermediations to connect the “here and now” with the largerspatial structure of the city and its recent historical past,the "there and then".

Key words: ethnography; built environment; social space;production; Palermo

Abstracts

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Giulia VianiUniversità di PalermoDipartimento di Beni CulturaliViale delle Scienze - 90100 [email protected]

Le comunità mauriziane induiste: Marathi, Hindu, Telugue Tamil a Palermo

L’articolo analizza la composizione della comunità indo-mauriziana di Palermo, per lungo tempo considerata co-me pressoché omogenea. L’articolazione sembra corri-spondere alla situazione politica di Mauritius, esito dellasua storia coloniale. La comunità di Palermo risulta per-tanto articolata in quattro gruppi “etnici” – caratterizza-ti da propri sistemi di credenze, rituali, origini e lingua -ciascuno dei quali invoca per sé una diversa identità. At-traverso il metodo delle “storie di vita”, questo studioporta un nuovo sguardo sulla Comunità, considerandolaal contempo nella sua dimensione singolare e plurale. Difatto, nel contesto migratorio, integrazione culturale eseparazione agiscono simultaneamente, spesso in modoinconsapevole, portando a una situazione di crisi o di in-stabilità e costringendo i Mauriziani a ridefinire i loroconfini identitari.

Parole chiave: migrazione; identità mauriziana; diaspora;etnicità, storie di vita; Palermo.

Mauritian-Hindu communities in Palermo: Marathi, Hin-du, Telugu and Tamil.

This article analyses the internal composition of the Mau-ritian-Hindu community in Palermo, considered for a longtime mainly homogeneous. This division corresponds tothe political situation in Mauritius, deriving from its colo-nial history. As a result, Mauritian-Hindu community isfragmented into four ethnic groups - characterised by dif-ferent religious beliefs, rituals, origins and ancestral lan-guages - each one of these claiming a different identity.Using the “life history” methodology, this study aims togive a new insight into the Mauritian-Hindu communityin Palermo, considering its plurality and singularity at thesame time. In fact, in the context of migration, cultural in-tegration and separation act simultaneously, often uncon-sciously, leading to a situation of crisis or instability, andforcing Mauritians to redefine their identity boundaries.

Key words: migration; Mauritian identity; diaspora; eth-nicity; life histories; Palermo.

Matilde BuccaUniversità di PalermoDipartimento di Beni CulturaliViale delle Scienze - 90100 [email protected] - [email protected]

Diventare donna nella Comunità tamil di Palermo

La nascita della comunità transnazionale tamil, formatada migranti stanziatisi in diverse città del mondo occi-dentale, è una delle conseguenze della guerra civile nel-lo Sri Lanka. In questa situazione diasporica, continua-re a praticare i rituali tradizionalmente agiti nello SriLanka, adattandoli ai nuovi contesti, è uno dei modi incui i Tamil mantengono i legami con la madrepatria econ i parenti che vivono altrove. L’articolo descrive il ri-to di pubertà femminile così come praticato nella Co-munità tamil di Palermo, una delle più numerose d’Eu-ropa. Particolare attenzione è rivolta al modo in cui ladifferenza tra i Tamil di religione induista e cattolicaviene espressa nelle variazioni di significati, simboli eforme del rituale, e ai suoi cambiamenti e adattamentideterminati dall’inserimento dei Tamil nel contesto so-ciale palermitano.

Parole chiave: migrazione; cultura Tamil; rituale; inizia-zione femminile; Palermo.

Becoming woman among the Tamil Community in Palermo

The Civil War in Sri Lanka caused the birth of a Tamiltransnational community formed by the migrants living inseveral cities of the Western world. In this diasporic situa-tion, to continue performing the rituals traditionally prac-ticed in Sri Lanka, adapting them to the new context, isone of the way by which Tamil migrants maintain thelinks with their homeland and connect each other withtheir kinsmen living in other places. The article describesthe ritual of female puberty, as performed in the TamilCommunity of Palermo, one of the largest in Europe. Spe-cific attention is devoted to how the difference betweenHindu and Catholic Tamils is expressed in some differ-ences in the meanings, symbols and forms of its celebra-tion, and to the changes and adaptations the ritual under-goes following the Tamils’ insertion in the Palermo’s socialmilieu.

Key words: migration; Tamil culture; ritual; female initia-tion; Palermo.

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Sebastiano ManniaUniversità di Sassari Piazza Università 21 - 07100 [email protected]

In turvera. La transumanza in Sardegna tra storia e pro-spettive future

L’articolo esamina il fenomeno della transumanza in Sar-degna con una particolare attenzione alle dinamiche sto-riche, economiche e sociali che l’hanno caratterizzata inpassato. Nell’Isola, la transumanza ha visto una battutad’arresto negli anni Settanta del Novecento, a causa delprocesso di modernizzazione della locale industria zoo-tecnica, avviatosi all’indomani del secondo conflittomondiale. Nell’ultimo decennio, le istituzioni politiche,l’industria turistica, importanti apparati dell’Ammini-strazione, Pro Loco e Associazioni culturali hanno rivol-to la loro attenzione agli itinerari tradizionali della tran-sumanza al fine di promuovere l’identità isolana e crearenuove opportunità per lo sviluppo del turismo locale.

Parole chiave: pastoralismo; transumanza; sistemi fon-diari; cambiamento sociale; Sardegna.

In turvera. The transhumance in Sardinia between pastand future.

This paper explores the phenomenon of transhumance inSardinia with special attention to the historic, economic andsocio-cultural dynamics that have characterised it in thepast. The phenomenon of transhumance on the Islandcomes to an end in the 1970s due to the process of modern-ization of the local zoo-technological sector, which had be-gun in the immediate aftermath of WWII. Over the pastdecade, the political institutions, the Tourist Industry andrelevant Administrative Bodies, the ‘Pro Loco’, the Cultur-al and Folkloristic Associations have contributed to draw at-tention to the traditional paths of the local transhumance inan aim to promote the insular identity as well as creating op-portunities for the development of local tourism.

Key words: pastoralism; transhumance; land rights; socialchange; Sardinia.

Abstracts

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AARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO

ISTRUZIONI PER GLI AUTORI

L’Archivio Antropologico Mediterraneo accet-ta contributi in italiano, francese, inglese, spa-gnolo.

La redazione si occupa della valutazione preli-minare dei contributi proposti (articoli, recen-sioni di libri, recensioni di iniziative di interes-se antropologico, ecc.). I membri del comitatoscientifico, in stretta collaborazione con la re-dazione, possono proporre iniziative editoriali(numeri monografici, atti di convegni, ecc.).

Gli articoli ricevuti dalla redazione sono sotto-posti, in forma anonima, al giudizio di uno opiù membri del comitato scientifico o della re-dazione e a quello di un esperto esterno, secon-do la procedura “a doppio cieco”. La lista deilettori sarà resa periodicamente disponibile sul-la pagina on line della rivista.

Il manoscritto definitivo, una volta accettato eredatto, secondo le norme fornite agli autori(scaricabili dal sito), deve essere inviato alla re-dazione in formato elettronico.

Gli articoli non supereranno le 20 cartelle(2000 battute per pag., complessivamente40000 battute spazi e note inclusi). Contributipiù lunghi possono essere accettati su parerefavorevole dei lettori.

Le eventuali illustrazioni dovranno essere in-viate in formato JPG base 15 cm. I rinvii alleimmagini all’interno del testo dovranno esserechiaramente indicati in questa forma: (Fig. 0).Ogni immagine dovrà essere corredata di dida-scalia dell’indicazione della provenienza edeventualmente del copyright.

Ogni contributo dovrà essere accompagnatoda:

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Le recensioni non supereranno le 20000 battu-te.La presentazione dei volumi recensiti dovràpresentare: il nome e il cognome dell’autore inmaiuscoletto e grassetto, il titolo dell’opera incorsivo, luogo e data di pubblicazione, numerodi pagine, ISBN e prezzo e l’immagine della co-pertina.

Per proporre un contributo scrivere a: Gabriella D’Agostino: [email protected] Matera: [email protected] E. Buttitta: [email protected]

Redazione Università degli Studi di PalermoDip. di Beni Culturali Storico-Archeologici, So-cio-Antropologici e Geografici, Sezione Antro-pologicaPiazza I. Florio, 2490100, Palermo

ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XII/XIII (2009-2010), n. 12 (1)

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