aldo rossi. l'architettura della città

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Introduzione all'edizione 1995.L'"Architettura della Città", pubblicata nel 1966, ha avuto una straordinaria fortuna: tradotta in quasi tutte le lingue europee e stata base di studio e di discussioni nelle scuole d'Europa e d'America.In America poi ha trovato una larga fortuna per ragioni che qui sarebbe anche troppo lungo accennare.Il libro era uscito come un saggio, con richiami ad altri studi come è necessario; successive introduzioni e citazioni hanno appesantito il libro dandogli un carattere scolastico.L'editore ed io abbiamo deciso di riportare il libro alla prima edizione pur variandone la grafica.Questa non è una limitazione né una giustificazione.Se poi scrivessi una nuova introduzione verrei meno a me stesso; il testo è ormai un classico aperto a molte interpretazioni.Infine ringrazio l'editore e tutti coloro che hanno lavorato a questa edizione.Aldo Rossi.Milano, 18 settembre 1995.

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Aldo Rossi. L'ARCHITETTURA DELLA CITTA'. Prima edizione: maggio 1978 - Copyright clup. Seconda edizione: giugno 1987 - Copyright clup. Copyright 1995 CittàStudiEdizioni s.r.l., Milano. Terza edizione: ottobre 1995. Le precedenti edizioni, del 1966, del 1970, del 1973, sono state pubblicate presso Marsilio Editori, Venezia. Su concessione CittàStudiEdizioni. Introduzione all'edizione 1995. L'"Architettura della Città", pubblicata nel 1966, ha avuto una straordinaria fortuna: tradotta in quasi tutte le lingue europee e stata base di studio e di discussioni nelle scuole d'Europa e d'America. In America poi ha trovato una larga fortuna per ragioni che qui sarebbe anche troppo lungo accennare. Il libro era uscito come un saggio, con richiami ad altri studi come è necessario; successive introduzioni e citazioni hanno appesantito il libro dandogli un carattere scolastico. L'editore ed io abbiamo deciso di riportare il libro alla prima edizione pur variandone la grafica. Questa non è una limitazione né una giustificazione. Se poi scrivessi una nuova introduzione verrei meno a me stesso; il testo è ormai un classico aperto a molte interpretazioni. Infine ringrazio l'editore e tutti coloro che hanno lavorato a questa edizione. Aldo Rossi. Milano, 18 settembre 1995.

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INDICE. Introduzione.

Fatti urbani e teoria della città: pagina 4. Capitolo primo. Struttura dei fatti urbani.

Individualità dei fatti urbani: pagina 12. I fatti urbani come opera d'arte: pagina 14.

Questioni tipologiche: pagina 18. Critica al funzionalismo ingenuo: pagina 21.

Problemi di classificazione: pagina 24. Complessità dei fatti urbani: pagina 31.

La teoria della permanenza e i monumenti: pagina 35. Note: pagina 39.

Capitolo secondo. Gli elementi primari e l'area.

L'area studio: pagina 44. Area e quartiere: pagina 48.

La residenza: pagina 52. Il problema tipologico della residenza a Berlino: pagina 55.

Garden-city e Ville radieuse: pagina 61. Gli elementi primari: pagina 64.

Tensione degli elementi urbani: pagina 66. La città antica: pagina 69.

Processi di trasformazione: pagina 71. Geografia e storia.

La creazione umana: pagina 73. Note: pagina 79.

Capitolo terzo. Individualità dei fatti urbani. L'architettura.

Il locus: pagina 83. L'architettura come scienza: pagina 86.

Ecologia urbana e psicologia: pagina 89. Precisazione degli elementi urbani: pagina 93.

Il Foro Romano: pagina 98. I monumenti.

Critica al concetto di ambiente: pagina 105. La città come storia: pagina 107.

La memoria collettiva: pagina 110. Atene: pagina 112. Note: pagina 116.

Capitolo quarto. L'evoluzione dei fatti urbani. La città come campo di applicazione di forze diverse.

L'economia: pagina 121. La tesi di Maurice Halbwachs: pagina 124.

Considerazioni sui caratteri delle espropriazioni: pagina 127. La proprietà del suolo: pagina 132.

Il problema delle abitazioni: pagina 136. La dimensione urbana: pagina 138. La politica come scelta: pagina 141.

Note: pagina 144.

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INTRODUZIONE. FATTI URBANI E TEORIA DELLA CITTA'.

La città, oggetto di questo libro, viene qui intesa come una architettura. Parlando di architettura non intendo riferirmi solo all'immagine visibile della città e all'insieme delle sue architetture; ma piuttosto all'architettura come costruzione. Mi riferisco alla costruzione della città nel tempo. Ritengo che questo punto di vista, indipendentemente dalle mie conoscenze specifiche, possa costituire il tipo di analisi più complessiva della città; essa si rivolge al dato ultimo e definitivo della vita della collettività, la creazione dell'ambiente in cui essa vive. Intendo l'architettura in senso positivo, come una creazione inscindibile dalla vita civile e dalla società in cui si manifesta; essa è per sua natura collettiva. Come i primi uomini si sono costruiti abitazioni e nella loro prima costruzione tendevano a realizzare un ambiente più favorevole alla loro vita, a costruirsi un clima artificiale, così costruirono secondo una intenzionalità estetica. Essi iniziarono l'architettura a un tempo con le prime tracce della città; l'architettura è così connaturata al formarsi della civiltà ed è un fatto permanente, universale e necessario. Creazione di un ambiente più propizio alla vita e intenzionalità estetica sono i caratteri stabili dell'architettura; questi aspetti emergono da ogni ricerca positiva e illuminano la città come creazione umana. Ma per dare forma concreta alla società, ed essendo intimamente connaturata con essa e con la natura, essa è diversa e in modo originale da ogni altra arte e scienza. Queste sono le basi per lo studio positivo della città; essa già si delinea nei primi insediamenti. Ma col tempo la città cresce su se stessa; essa acquista coscienza e memoria di se stessa. Nella sua costruzione permangono i motivi originari ma nel contempo la città precisa e modifica i motivi del proprio sviluppo. Firenze è una città concreta; ma la memoria di Firenze e la sua immagine acquistano dei valori che valgono e rappresentano altre esperienze. D'altro canto questa universalità della sua esperienza non potrà mai renderci conto del tutto di quella forma precisa, di quel tipo di cosa che è Firenze. Il contrasto tra particolare e universale e tra individuale e collettivo emerge dalla città e dalla costruzione della cosa stessa: la sua architettura. Questo contrasto tra particolare e universale e tra individuale e collettivo è uno dei punti di vista principali con cui la città viene studiata in questo libro; esso si manifesta sotto diversi aspetti, nei rapporti tra sfera pubblica e privata, nel contrasto tra la progettazione razionale dell'architettura urbana e i valori del "locus", tra edifici pubblici e edifici privati.

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D'altro canto il mio interesse per i problemi quantitativi e per i loro rapporti con quelli qualitativi costituisce una delle ragioni dell'origine di questo libro: gli studi che ho condotto su città singole hanno sempre aggravato la difficoltà di stabilire una sintesi e di poter tranquillamente procedere a una valutazione quantitativa del materiale analitico. Infatti ogni area sembra essere un "locus solus" mentre ogni intervento sembra doversi riportare a dei criteri generali di impostazione. Così mentre da un lato io nego che si possa in qualche modo razionale stabilire degli interventi legati a delle situazioni locali, dall'altro mi rendo conto che queste situazioni sono poi quelle che caratterizzano gli interventi. Così negli studi urbani non daremo mai abbastanza importanza al lavoro monografico, alla conoscenza dei singoli fatti urbani. Tralasciando questi - anche negli aspetti della realtà più individuali, particolari, irregolari ma per questo anche più interessanti finiremo per costruire teorie tanto artificiali quanto inutili. Fedele a questo assunto ho cercato di stabilire un metodo di analisi che si presti a una valutazione quantitativa e che possa servire a raccogliere il materiale studiato secondo un criterio unitario; questo metodo è offerto dalla teoria dei fatti urbani qui indicata, dalla identificazione della città come manufatto e dalla divisione della città in elementi primari e in area-residenza. Sono convinto che vi è una seria possibilità di fare progressi in questo campo se si procederà a un esame sistematico e comparativo dei fatti urbani in base alla prima classificazione qui tentata. Circa questo punto mi preme dire ancora questo: che se la divisione della città in sfera pubblica e sfera privata, elementi primari e area-residenza, è stata più volte indicata e proposta, non ha mai avuto l'importanza di primo piano che merita. Essa è strettamente collegata all'architettura della città, perché questa architettura è parte integrante dell'uomo; essa è la sua costruzione. L'architettura è la scena fissa delle vicende dell'uomo; carica di sentimenti di generazioni, di eventi pubblici, di tragedie private, di fatti nuovi e antichi. L'elemento collettivo e quello privato, società e individuo si contrappongono e si confondono nella città; che è fatta di tanti piccoli esseri che cercano una loro sistemazione e insieme a questa, tutt'uno con questa, un loro piccolo ambiente più confacente all'ambiente generale. Le case d'abitazione e l'area su cui insistono diventano nel loro fluire i segni di questa vita quotidiana. Guardate le sezioni orizzontali della città che ci offrono gli archeologi; esse sono come una trama primordiale e eterna del vivere; come uno schema immutabile. Chi ricorda le città d'Europa dopo i bombardamenti dell'ultima guerra ha di fronte a sé l'immagine di quelle case sventrate dove tra le macerie rimanevano ferme le sezioni dei locali familiari con i colori sbiaditi delle tappezzerie, i lavandini sospesi nel vuoto, il groviglio delle canne, la disfatta intimità dei luoghi.

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E sempre, stranamente invecchiate per noi stessi, le case dell'infanzia nel fluire della città. Così le immagini, incisioni e fotografie, degli sventramenti, ci offrono questa visione; distruzioni e sventramenti, espropriazioni e bruschi cambiamenti nell'uso del suolo così come speculazione e obsolescenza, sono tra i mezzi più conosciuti della dinamica urbana; cercherò per questo di analizzarli compiutamente. Ma oltre ogni loro valutazione essi restano come l'immagine del destino interrotto del singolo, della sua partecipazione, spesso dolorosa e difficile, al destino della collettività. La quale, come insieme, sembra invece esprimersi con caratteri di permanenza, nei monumenti urbani. I monumenti, segni della volontà collettiva espressi attraverso i principi dell'architettura, sembrano porsi come elementi primari, punti fissi della dinamica urbana. Principi e modificazioni del reale costituiscono la struttura della creazione umana. Questo studio cerca così di ordinare e disporre i principali problemi della scienza urbana. Il nesso di questi problemi, e le loro implicazioni, riportano la scienza urbana al complesso delle scienze umane; ma in questo quadro io credo che questa scienza abbia una sua autonomia anche se nel corso di questo studio io mi chiedo più volte quali siano le caratteristiche di autonomia e i limiti di una scienza urbana. Noi possiamo studiare la città da molti punti di vista: ma essa emerge in modo autonomo quando la consideriamo come dato ultimo, come costruzione, come architettura. In altri termini, quando analizziamo i fatti urbani per quel che essi sono, come costruzione ultima di una elaborazione complessa; tenendo conto di tutti i dati di questa elaborazione che non possono essere compresi dalla storia dell'architettura, né dalla sociologia, né da altre scienze. Sono propenso a credere che la scienza urbana, intesa in questo modo, possa costituire un capitolo della storia della cultura e per il suo carattere complessivo uno dei capitoli principali. Nel corso di questo studio mi occupo di diversi metodi per affrontare il problema dello studio della città; tra questi metodi emerge il metodo comparativo. Anche qui la comparazione metodica della successione regolare delle differenze crescenti, sarà sempre per noi la guida più sicura per chiarire la questione fin nei suoi elementi ultimi. Per questo io parlo con particolare convincimento dell'importanza del metodo storico; ma insisto anche sul fatto che non possiamo considerare lo studio della città semplicemente come uno studio storico. Dobbiamo anzi porre particolare attenzione nello studio delle permanenze per evitare che la storia della città si risolva unicamente nelle permanenze. Io credo infatti che gli elementi permanenti possano essere considerati anche alla stregua di elementi patologici.

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Il significato degli elementi permanenti nello studio della città può essere paragonato a quello che essi hanno nella lingua; è particolarmente evidente come lo studio della città presenti delle analogie con quello della linguistica soprattutto per la complessità dei processi di modificazione e per le permanenze. I punti fissati da De Saussure per lo sviluppo della linguistica si potrebbero trasporre come programma per lo sviluppo della scienza urbana: descrizione e storia delle città esistenti, ricerca delle forze che sono in gioco in modo permanente e universale in tutti i fatti urbani. E naturalmente la sua necessità di delimitarsi e definirsi. Rimandando a uno sviluppo sistematico di un programma di questo tipo io ho cercato di soffermarmi particolarmente sui problemi storici e sui metodi di descrizione dei fatti urbani, sui rapporti tra i fattori locali e la costruzione dei fatti urbani, sull'identificazione delle forze principali che agiscono nella città intese come forze che sono in gioco in modo permanente e universale. L'ultima parte di questo libro cerca di impostare il problema politico della città; qui il problema politico viene inteso come un problema di scelta per cui la città realizza se stessa attraverso una propria idea di città. Sono infatti convinto che una parte importante dei nostri studi dovrebbe essere dedicata alla storia dell'idea di città; in altri termini alla storia delle città ideali e alla storia delle utopie urbane. I contributi in questo senso, per quanto io ne sappia, sono scarsi e frammentari anche se esistono ricerche parziali nel campo dell'architettura e della storia delle idee politiche. Vi è in realtà un continuo processo di influenze, di scambi, spesso di contrapposizioni tra i fatti urbani quali si concretizzano nella città e le proposte ideali. Io affermo qui che la storia dell'architettura e dei fatti urbani realizzati è sempre la storia dell'architettura delle classi dominanti; bisognerebbe vedere entro quali limiti e con quale successo le epoche di rivoluzione contrappongono un loro modo concreto di organizzare la città. In realtà, dal punto di vista dello studio della città ci troviamo di fronte a due posizioni molto diverse; sarebbe utile iniziare lo studio di queste posizioni a partire dalla storia della città greca e dalla contrapposizione dell'analisi aristotelica del concreto urbano e della repubblica platonica. Qui si aprono delle importanti questioni di metodo. Sono propenso a credere che l'impostazione aristotelica in quanto studio dei fatti abbia aperto la strada in modo decisivo allo studio della città e anche alla geografia urbana e all'architettura urbana. E' però indubbio che non possiamo renderci conto del valore concreto di certe esperienze se non operiamo tenendo conto di questi due piani di studio; infatti alcune idee di tipo puramente spaziale hanno modificato in modo notevole e in forme e con interventi diretti o indiretti i tempi e i modi della dinamica urbana. L'analisi di questi modi è per noi di estrema importanza.

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Per l'elaborazione di una teoria urbana ci si può riferire a una massa di studi imponente: ma dobbiamo prendere questi studi dalle parti più diverse e valerci di essi per quel che importa alla costruzione di un quadro generale di una specifica teoria urbana. Senza voler tracciare nessun quadro di riferimento per una storia dello studio della città si può affermare che esistono due grandi sistemi; quello che considera la città come il prodotto di sistemi funzionali generatori della sua architettura e quindi dello spazio urbano e quello che la considera come una struttura spaziale. Nel primo la città nasce dall'analisi di sistemi politici, sociali, economici ed è trattata dal punto di vista di queste discipline; il secondo punto di vista appartiene piuttosto all'architettura e alla geografia. Benché io parta da questo secondo punto di vista, come dato iniziale, tengo conto dei risultati dei primi sistemi che sono giunti a porre delle questioni molto importanti. Così nel corso di quest'opera faccio riferimento ad autori di diversa provenienza cercando di considerare alcune tesi che ritengo fondamentali indipendentemente dalla loro qualificazione. Gli autori di cui mi valgo non sono molti, considerata la massa del materiale disponibile: ma, a parte l'osservazione generale che o un libro e un autore fanno parte concretamente di una ricerca e il loro punto di vista costituisce un contributo essenziale a questa ricerca, oppure la loro citazione non ha alcun significato, ho preferito discutere l'opera di alcuni autori che ritengo comunque fondamentali per una trattazione di questo tipo. Le teorie di alcuni di questi studiosi, la cui conoscenza mi è oltremodo familiare, costituiscono le ipotesi stesse di questa ricerca. Da qualsiasi parte noi vogliamo iniziare i fondamenti di una teoria urbana autonoma non possiamo prescindere dal loro contributo. Rimangono naturalmente al di fuori della discussione qui intrapresa alcuni contributi che sono fondamentali e che andranno ripresi: così le profonde intuizioni di Fustel de Coulanges, del Mommsen e di altri. Per il primo di questi autori mi riferisco in particolare all'importanza da lui data alle istituzioni come elemento realmente costante della vita storica e al rapporto tra il mito e l'istituzione stessa. I miti vanno e vengono passando poco per volta da un luogo all'altro. Ogni generazione li racconta in modo diverso e aggiunge al patrimonio ricevuto dal passato elementi nuovi. Ma dietro a questa realtà che muta da un'epoca all'altra vi è una realtà permanente che in certo qual modo riesce a sottrarsi all'azione del tempo. In essa dobbiamo riconoscere il vero elemento portatore della tradizione religiosa. Le relazioni in cui l'uomo si viene a trovare con gli dei nella città antica, il culto che egli consacra loro, i nomi sotto i quali li invoca, i doni e i sacrifici che deve loro sono tutte cose legate a norme inviolabili.

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Su di esse il singolo non ha alcun potere. Io credo che l'importanza del rito e la sua natura collettiva, il suo carattere essenziale di elemento conservatore del mito, costituiscano una chiave per la comprensione del valore dei monumenti e per noi del valore della fondazione della città e della trasmissione delle idee nella realtà urbana. Io dò infatti in questo mio abbozzo di teoria urbana un grande valore ai monumenti; e mi soffermo spesso a considerarne il significato nella dinamica urbana senza trovare qualche soluzione del tutto soddisfacente. Questo lavoro dovrà essere portato avanti; e sono convinto che nel portarlo avanti bisognerà approfondire il rapporto tra monumento, rito e elemento mitologico nel senso indicato da Fustel de Coulanges. Poiché se il rito è l'elemento permanente e conservativo del mito, lo è anche il monumento il quale, nel momento stesso che testimonia il mito, ne rende possibili le forme rituali. Questo studio andrebbe iniziato dalla città greca; esso ci servirebbe a portare notevoli contributi al significato della struttura urbana la quale ha, alle origini, un rapporto inscindibile con il modo di essere e con il comportamento delle persone. I contributi dell'antropologia moderna sulla struttura sociale dei villaggi primitivi, aprono nuovi problemi allo studio delle piante delle città; esse impongono lo studio dei fatti urbani secondo i loro motivi essenziali. Per motivi essenziali intendo lo stabilire dei fondamenti allo studio dei fatti urbani e la conoscenza di un numero sempre maggiore di fatti, e l'integrazione di questi fatti nel tempo e nello spazio. Cioè l'individuazione di quelle forze che sono in gioco in modo permanente e universale in tutti i fatti urbani. Prendete il rapporto tra realtà dei singoli fatti urbani e utopie urbane; generalmente questo rapporto viene studiato e dato per risolto all'interno di un certo periodo, con un intorno abbastanza modesto, e con risultati del tutto precari. E quali sono i limiti entro cui possiamo integrare un'analisi settoriale di questo tipo nel quadro delle forze permanenti e universali che sono in gioco nella città? Sono convinto che le polemiche tra il socialismo utopistico e il socialismo scientifico nella seconda metà dell'800 costituiscano un importante materiale di studio; ma non possiamo considerarle oltre nel loro aspetto meramente politico, esse devono essere misurate con la realtà dei fatti urbani se non vogliamo portare avanti delle gravi distorsioni. E questo deve essere fatto su tutto l'arco dei fatti urbani. In realtà noi vediamo l'applicazione e l'estensione di risultati parziali alla storia della città. In genere le storie della città risolvono i problemi più difficili troncando i periodi tra loro e ignorando così, o non potendo cogliere, attraverso risultati diversi che pure costituiscono l'importanza del metodo comparativo, i caratteri universali e permanenti delle forze della dinamica urbana.

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Gli studiosi di urbanistica, ossessionati da alcune caratteristiche sociologiche della città industriale, hanno trascurato una serie di fatti di estrema importanza e che arricchiranno la scienza urbana di un contributo tanto originale quanto necessario. Mi riferisco agli insediamenti e alle città di colonizzazione iniziate dall'Europa soprattutto dopo la scoperta dell'America. Su questo argomento esiste poco; il Freyre, per esempio, tratta dell'influenza di certe tipologie edilizie e urbane portate dai portoghesi in Brasile e di come queste fossero strutturalmente legate al tipo di società stabilitosi in Brasile. Il rapporto tra famiglia rurale e latifondista della colonizzazione portoghese in Brasile, rapportata con quella teocratica ideata dai Gesuiti e con quella spagnola e francese, ha una enorme importanza nella formazione della città del Sudamerica. Mi sono reso conto che questo tipo di studio può portare un contributo fondamentale allo stesso studio delle utopie urbane e della costituzione della città ma il materiale che possediamo è ancora troppo frammentario. D'altro canto i cambiamenti politici negli stati moderni hanno dimostrato che lo schema urbano si modifica molto lentamente nel passaggio dalla città capitalistica a quella socialista; e ci è difficile immaginare concretamente la misura di questa modificazione. Anche qui vale il rapporto che si è istituito con i fatti linguistici. Ho diviso questo libro in quattro parti; nella prima mi occupo di problemi di descrizione e di classificazione e quindi di problemi tipologici, nella seconda della struttura della città per parti, nella terza dell'architettura della città e del "locus "su cui questa insiste e quindi della storia urbana, nella quarta infine accenno alle principali questioni della dinamica urbana e al problema della politica come scelta. Tutti questi problemi sono percorsi dalla questione dell'immagine urbana, della sua architettura; questa immagine investe il valore di tutto il territorio vissuto e costruito dall'uomo. Questa questione si è sempre imposta nei nostri studi tanto essa è connaturata ai problemi dell'uomo. Vidal de la Blache ha scritto che: La brughiera, i boschi, i campi coltivati, le zone incolte si fissano in un insieme inseparabile, di cui l'uomo porta con sé il ricordo. Questo insieme inseparabile è la patria naturale e artificiale a un tempo dell'uomo. Anche per l'architettura vale questa accezione di naturale. Penso alla definizione del Milizia dell'essenza dell'architettura come imitazione della natura: All'architettura manca in verità il modello formato dalla natura, ma ne ha un altro formato dagli uomini, seguendo l'industria naturale in costruire le loro prime abitazioni. Infine sono convinto che lo schema di teoria urbana presentato in questo libro possa comprendere più di uno sviluppo e che questo sviluppo possa assumere accenti e direzioni impreviste.

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Ma sono altresì convinto che questo progresso nella conoscenza della città possa essere reale ed efficace solo se non cercherà ancora di ridurre la città a qualche suo aspetto parziale perdendone di vista il significato. A questo punto sono anche convinto che sia necessario occuparsi degli studi urbani e della loro organizzazione nella scuola e nella ricerca confermando loro quell'autonomia che è necessaria. Questo mio schizzo di una fondata teoria urbana, comunque lo si voglia giudicare nel suo taglio e nella sua impostazione, è il momento di una lunga ricerca e intende aprire il discorso sullo sviluppo di questa ricerca più che sui risultati raggiunti.

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CAPITOLO PRIMO. STRUTTURA DEI FATTI URBANI.

Individualità dei fatti urbani. Nel descrivere una città noi ci occupiamo prevalentemente della sua forma; questa forma è un dato concreto che si riferisce a una esperienza concreta: Atene, Roma, Parigi. Essa si riassume nell'architettura della città ed è da questa architettura che io mi occuperò dei problemi della città. Ora per architettura della città si possono intendere due aspetti diversi; nel primo caso è possibile assimilare la città a un grande manufatto, un'opera di ingegneria e di architettura, più o meno grande, più o meno complessa, che cresce nel tempo; nel secondo caso possiamo riferirci a degli intorni più limitati dell'intera città, a dei fatti urbani caratterizzati da una loro architettura e quindi da una loro forma. Nell'uno e nell'altro caso ci rendiamo conto che l'architettura non rappresenta che un aspetto di una realtà più complessa, di una particolare struttura, ma nel contempo, essendo il dato ultimo verificabile di questa realtà, essa costituisce il punto di vista più concreto con cui affrontare il problema. Se pensiamo a un fatto urbano determinato ci rendiamo conto più facilmente di questo e subito si dispongono di fronte a noi una serie di problemi che nascono dall'osservazione di quel fatto; oltre ancora intravediamo delle questioni meno chiare: esse si riferiscono alla qualità, alla natura singolare di ogni fatto urbano. In tutte le città d'Europa esistono dei grandi palazzi, o dei complessi edilizi, o degli aggregati che costituiscono dei veri pezzi di città e la cui funzione è difficilmente quella originaria. Io ho presente ora il Palazzo della Ragione di Padova. Quando si visita un monumento di questo tipo si resta sorpresi da una serie di questioni che ad esso sono intimamente legate; e soprattutto si resta colpiti dalla pluralità di funzioni che un palazzo di questo tipo può contenere e come queste funzioni siano per così dire del tutto indipendenti dalla sua forma e che però è proprio questa forma che ci resta impressa, che viviamo e percorriamo e che a sua volta struttura la città. Dove comincia l'individualità di questo palazzo e da dove dipende? L'individualità dipende senz'altro dalla sua forma più che dalla sua materia, anche se questa vi ha grande parte; ma dipende anche dall'essere la sua forma complicata e organizzata nello spazio e nel tempo. Ci rendiamo conto che se il fatto architettonico che noi esaminiamo fosse, per esempio, costruito recentemente non avrebbe lo stesso valore; in quest'ultimo caso la sua architettura sarebbe forse giudicabile in sé, potremmo parlare del suo stile e quindi della sua forma, ma esso non presenterebbe ancora quella ricchezza di motivi con cui riconosciamo un fatto urbano. Alcuni valori e alcune funzioni originali sono rimaste, altre sono cambiate completamente, di alcuni aspetti della forma abbiamo una certezza stilistica

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mentre altri suggeriscono apporti lontani, tutti pensiamo ai valori che sono rimasti e dobbiamo constatare che benché questi valori abbiano una loro connessione nella materia, e sia questo l'unico dato empirico del problema, pure noi ci riferiamo a dei valori spirituali. A questo punto dovremmo parlare dell'idea che noi abbiamo di questo edificio, della memoria più generale di questo edificio in quanto prodotto dalla collettività; e del rapporto che noi abbiamo con la collettività tramite esso. Avviene altresì che mentre noi visitiamo questo palazzo, e percorriamo una città abbiamo esperienze diverse, impressioni diverse. Vi sono persone che detestano un luogo perché è legato a momenti nefasti della loro vita, altri riconoscono a un luogo un carattere fausto; anche queste esperienze e la somma di queste esperienze costituiscono la città. In questo senso, sebbene sia estremamente difficile per la nostra educazione moderna, noi dobbiamo riconoscere una qualità allo spazio. Questo era il senso con cui gli antichi consacravano un luogo ed esso presuppone un tipo di analisi molto più approfondita di quella semplificatoria che ci viene offerta da alcuni test psicologici che sono relativi solo alla leggibilità delle forme. Ci è bastato soffermarci a considerare un solo fatto urbano perché una fila di questioni siano sorte davanti a noi; principalmente esse sono rapportabili ad alcuni grandi temi che sono l'individualità, il "locus", il disegno, la memoria; e con esse si delinea un tipo di conoscenza dei fatti urbani più completo e diverso da quello che siamo soliti considerare; si tratta ora di vedere quanto è concreto di questa conoscenza. Ripeto che voglio qui occuparmi di questo concreto attraverso l'architettura della città, attraverso la forma poiché questa sembra riassumere il carattere totale dei fatti urbani; compresa la loro origine. D'altra parte la descrizione della forma costituisce l'insieme dei dati empirici del nostro studio e può essere compiuta mediante termini osservativi; in parte questo è quanto intendiamo con morfologia urbana, la descrizione delle forme di un fatto urbano, ma essa non è che un momento, uno strumento. Essa ci avvicina alla conoscenza della struttura ma non si identifica con essa. Tutti gli studiosi della città si sono arrestati davanti alla struttura dei fatti urbani dichiarando però che oltre gli elementi elencati stava "l'me de la cité", in altri termini stava la qualità dei fatti urbani. I geografi francesi hanno così messo a punto un importante sistema descrittivo ma non si sono addentrati a cercare di conquistare l'ultima trincea del loro studio: dopo aver indicato che la città costruisce se stessa nella sua totalità, e che questa costituisce "la raison d'tre" della città stessa, hanno lasciato inesplorato il significato della struttura intravista. Né potevano fare altrimenti con le premesse con cui erano partiti; tutti questi studi hanno rimandato una analisi del concreto che vi è nei singoli fatti urbani.

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I fatti urbani come opera d'arte. Cercherò più avanti di esaminare questi studi nelle loro linee principali; è necessario ora introdurre una considerazione fondamentale e accennare ad alcuni autori che guidano questa ricerca. Nel porci degli interrogativi sulla individualità e la struttura di un singolo fatto urbano si sono poste una serie di domande il cui insieme sembra costituire un sistema capace di analizzare un'opera d'arte. Ora, sebbene tutta la presente ricerca sia condotta in modo da stabilire la natura dei fatti urbani e la loro identificazione, si può subito dichiarare che ammettiamo che nella natura dei fatti urbani vi è qualcosa che li rende molto simili, e non solo metaforicamente, all'opera d'arte; essi sono una costruzione nella materia, e nonostante la materia, di qualcosa di diverso: sono condizionati ma condizionanti (1). Questa artisticità dei fatti urbani è molto legata alla loro qualità, al loro "unicum"; quindi alla loro analisi e alla loro definizione. Questa questione è estremamente complessa. Ora, trascurando gli aspetti psicologici della questione, io credo che i fatti urbani siano complessi in sé e che a noi sia possibile analizzarli ma difficilmente definirli. La natura di questo problema mi ha sempre interessato particolarmente e sono convinto che essa riguardi puntualmente l'architettura della città. Prendete un fatto urbano qualsiasi, un palazzo, una strada, un quartiere e descrivetelo; sorgeranno tutte quelle difficoltà che abbiamo visto nelle pagine precedenti parlando del Palazzo della Ragione di Padova. Parte di queste difficoltà dipenderanno anche dall'ambiguità del nostro linguaggio e parte di queste difficoltà potranno essere superate, ma resterà sempre un tipo di esperienza possibile solo a chi abbia percorso quel palazzo, quella strada, quel quartiere. Il concetto che voi vi fate di un fatto urbano sarà sempre alquanto diverso dal tipo di conoscenza di chi vive quello stesso fatto. Queste considerazioni possono comunque limitare il nostro compito; è possibile che esso consista principalmente nel definire quel fatto urbano dal punto di vista del manufatto. In altri termini definire e classificare una strada, una città, una strada nella città; e il luogo di questa strada, la sua funzione, la sua architettura e successivamente i sistemi di strade possibili nella città e parecchie altre cose. Dovremo quindi occuparci della geografia urbana, della topografia urbana, dell'architettura e di altre discipline. Già qui la questione non è facile ma sembra possibile e nei paragrafi seguenti cercheremo di compiere un'analisi in questo senso. Ciò significa che, in maniera più generale, potremo stabilire una geografia logica della città; questa geografia logica dovrà applicarsi essenzialmente ai problemi del linguaggio, della descrizione, della classificazione. Questioni fondamentali, come quelle tipologiche, non sono ancora state oggetto di un serio lavoro sistematico nel campo delle scienze urbane.

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Alla base delle classificazioni esistenti vi sono troppe ipotesi non verificate, e quindi necessariamente delle generalizzazioni prive di senso. Ma all'interno stesso delle scienze che ho richiamato stiamo assistendo a un tipo di analisi più vasta, più concreta e più completa dei fatti urbani; essa riguarda la città come "la cosa umana per eccellenza", essa riguarda forse anche quelle cose che si possono apprendere solo vivendo concretamente un determinato fatto urbano. Questa concezione della città o meglio dei fatti urbani come opera d'arte ha percorso lo studio della città stessa; e sotto forma di intuizioni e descrizioni diverse la possiamo ritrovare negli artisti di tutte le epoche e in molte manifestazioni della vita sociale e religiosa: e in questo senso essa è sempre legata a un luogo preciso, un luogo, un evento e una forma nella città. La questione della città come opera d'arte è stata però posta esplicitamente e in modo scientifico soprattutto attraverso la concezione della natura dei fatti collettivi e io ritengo che ogni ricerca urbana non possa ignorare questo aspetto del problema. Come sono rapportabili i fatti urbani con le opere d'arte? Tutte le grandi manifestazioni della vita sociale hanno in comune con l'opera d'arte il fatto di nascere dalla vita incosciente; questo livello è collettivo nel primo caso, individuale nel secondo; ma la differenza è secondaria perché le une sono prodotte dal pubblico, le altre per il pubblico: ma è appunto il pubblico che fornisce loro un denominatore comune. Con questa impostazione Lévi-Strauss ha riportato la città nell'ambito di una tematica ricca di sviluppi imprevisti. Egli ancora ha notato come in più delle altre opere d'arte la città sta tra l'elemento naturale e l'artificiale, oggetto di natura e soggetto di cultura (2). Questa analisi era stata avanzata anche da Maurice Halbwachs quando aveva visto nelle caratteristiche dell'immaginazione e della memoria collettiva il carattere tipico dei fatti urbani. Questi studi sulla città colta nella sua complessità strutturale hanno un precedente, anche se inaspettato e poco conosciuto, in Carlo Cattaneo. Cattaneo non ha mai posto in modo esplicito la questione dell'artisticità dei fatti urbani, ma la stretta connessione che hanno nel suo pensiero le scienze e le arti, come aspetti dello sviluppo della mente umana nel concreto, rendono possibile questo avvicinamento. Mi occuperò poi della sua concezione della città come principio ideale della storia, del vincolo tra la campagna e la città e di altre questioni del suo pensiero relative ai fatti urbani. Qui interessa vedere come egli si ponga di fronte alla città; anzi Cattaneo non farà mai distinzione tra città e campagna in quanto tutto l'insieme dei luoghi abitati è opera dell'uomo. Ogni regione si distingue dalle selvagge in questo, ch'ella è un immenso deposito di fatiche. [...] Quella terra adunque per nove decimi non è opera della natura; è opera delle nostre mani; è una patria artificiale (3).

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La città e la regione, la terra agricola e i boschi diventano la cosa umana perché sono un immenso deposito di fatiche, sono opera delle nostre mani; ma in quanto patria artificiale e cosa costruita esse sono anche testimonianza di valori, sono permanenza e memoria. La città è nella sua storia. Quindi il rapporto tra il luogo e gli uomini, e l'opera d'arte che è il fatto ultimo, essenzialmente decisivo, che conferma e indirizza l'evoluzione secondo una finalità estetica, ci impone un modo complesso di studiare la città. E naturalmente dovremo anche tenere conto di come gli uomini si orientano nella città, l'evoluzione e la formazione del loro senso dello spazio; questa parte costituisce, a mio avviso, il settore più importante di alcuni recenti studi americani e in particolare della ricerca di Kevin Lynch; cioè la parte relativa alla concezione dello spazio basata in gran parte sugli studi di antropologia e sulle caratteristiche urbane. Osservazioni di questo tipo erano state avanzate anche da Max Sorre sopra materiale analogo: e particolarmente sulle osservazioni di Mauss della rispondenza tra i nomi dei gruppi e i nomi dei luoghi presso gli eschimesi. Sarà forse utile tornare su questi argomenti; per ora tutto questo ci serve solo come introduzione alla ricerca e dovrà essere ripreso solo quando avremo preso in considerazione un numero maggiore di aspetti del fatto urbano fino a cercare di comprendere la città come una grande rappresentazione della condizione umana. Io cerco qui di leggere questa rappresentazione attraverso la sua scena fissa e profonda: l'architettura. A volte mi chiedo come mai non si sia analizzata l'architettura per questo suo valore più profondo; di cosa umana che forma la realtà e conforma la materia secondo una concezione estetica. Ed è così essa stessa non solo il luogo della condizione umana, ma una parte stessa di questa condizione; che si rappresenta nella città e nei suoi monumenti, nei quartieri, nelle residenze, in tutti i fatti urbani che emergono dallo spazio abitato. Da questa scena i teorici sono penetrati nella struttura urbana cercando sempre di avvertire quali erano i punti fissi, i veri nodi strutturali della città, quei punti dove procedeva l'azione della ragione. Riprendo ora l'ipotesi della città come manufatto, come opera di architettura o di ingegneria che cresce nel tempo; è una delle ipotesi più sicure su cui possiamo lavorare (4). Forse contro molte mistificazioni può valere ancora il senso dato alla ricerca da Camillo Sitte quando egli cercava delle leggi nella costruzione della città che prescindessero dai soli fatti tecnici e si rendessero pienamente conto della "bellezza" dello schema urbano, della forma così come essa viene letta: Noi oggi abbiamo tre sistemi principali di costruire le città: il sistema ortogonale, il sistema radiale e il sistema triangolare. Le varianti risultano generalmente dalle combinazioni dei tre metodi.

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Tutti questi sistemi hanno un valore artistico nullo; il loro scopo esclusivo è quello della regolazione della rete stradale; è dunque uno scopo puramente tecnico. Una rete viaria serve unicamente alla circolazione, non è un'opera d'arte, perché non è colta dai sensi e non può essere abbracciata di colpo che sulla carta. E' per questo che nelle pagine precedenti non abbiamo mai tirato in ballo la rete stradale: né parlando di Atene o dell'antica Roma, né di Venezia o di Norimberga. Dal lato artistico ci è appunto indifferente. Artisticamente importante è soltanto ciò che può essere abbracciato con lo sguardo, ciò che può essere visto: dunque, la singola strada, la singola piazza (5). Il richiamo del Sitte è importante per il suo empirismo; e anzi a mio parere esso si può qui riportare a certe esperienze americane di cui parlavamo più sopra; dove l'artisticità si può leggere come figurabilità. Ho detto che la lezione del Sitte può valere contro molte mistificazioni; ed è indubbio. Essa si riferisce alla tecnica della costruzione urbana, vi sarà pur sempre il momento, concreto, del disegno di una piazza e un principio di trasmissione logica, di insegnamento, di questo disegno. E i modelli saranno pur sempre, almeno in qualche modo, la singola strada, la singola piazza. Ma d'altra parte la lezione del Sitte contiene anche un grosso equivoco; che la città come opera d'arte sia riducibile a qualche episodio artistico o alla sua leggibilità e non infine alla sua esperienza concreta. Noi crediamo al contrario che il tutto sia più importante delle singole parti; e che solo il fatto urbano nella sua totalità, quindi anche il sistema stradale e la topografia urbana fino alle cose che si possono apprendere passeggiando su e giù per una strada, costituiscano questa totalità. Naturalmente, come mi accingo a fare, dovremo esaminare questa architettura totale per parti. Comincerò così da una questione che apre la via al problema della classificazione; quella della tipologia degli edifici e del loro rapporto con la città. Rapporto che costituisce l'ipotesi di fondo di questo libro e che analizzerò da diversi punti di vista considerando sempre gli edifici come momenti e parti di un tutto che è la città. Questa posizione era chiara ai teorici illuministi dell'architettura. Nelle sue lezioni alla Scuola Politecnica il Durand scriveva: De mme que les murs, les colonnes, etc., sont les éléments dont se composent les édifices, de mmes les édifices sont les éléments dont se composent les villes (6).

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Questioni tipologiche. La concezione dei fatti urbani come opera d'arte apre la strada allo studio di tutti quegli aspetti che illuminano la struttura della città. La città, come cosa umana per eccellenza, è costituita dalla sua architettura e da tutte quelle opere che ne costituiscono il reale modo di trasformazione della natura. Gli uomini dell'età del bronzo adattarono il paesaggio alle necessità sociali costruendo isole artificiali di mattoni e scavando pozzi, canali di scolo, corsi d'acqua. Le prime case isolano gli abitanti dall'ambiente esterno e forniscono loro un clima controllato dall'uomo: lo sviluppo del nucleo urbano estende il tentativo di questo controllo alla creazione e alla estensione di un microclima. Già nei villaggi neolitici vi è la prima trasformazione del mondo alle necessità dell'uomo. Antica quanto l'uomo è dunque la patria artificiale. Nel senso stesso di queste trasformazioni si costituiscono le prime forme e i primi tipi d'abitazione; e i templi e gli edifici più complessi. Il tipo si va quindi costituendo secondo delle necessità e secondo delle aspirazioni di bellezza; unico eppur variatissimo in società diverse, è legato alla forma e al modo di vita. E' quindi logico che il concetto di tipo si costituisca a fondamento della architettura e ritorni nella pratica come nei trattati. Sostengo quindi l'importanza delle questioni tipologiche; importanti questioni tipologiche hanno sempre percorso la storia dell'architettura ed esse si pongono normalmente quando affrontiamo problemi urbani. Trattatisti come il Milizia non definiscono mai il tipo ma affermazioni come la seguente si possono racchiudere in questo concetto: La comodità di qualunque edifizio comprende tre oggetti principali che sono: 1. La sua situazione. 2. La sua forma. 3. La distribuzione delle sue parti. Io penso quindi al concetto di tipo come a qualcosa di permanente e di complesso, un enunciato logico che sta prima della forma e che la costituisce. Uno dei maggiori teorici dell'architettura, Quatremère de Quincy, ha compreso l'importanza di questi problemi e ha dato una definizione magistrale di tipo e di modello. La parola "tipo" non rappresenta tanto l'immagine d'una cosa da copiarsi o da imitarsi perfettamente, quanto l'idea d'un elemento che deve egli stesso servire di regola al modello. [...] Il modello, inteso secondo la esecuzione pratica dell'arte, è un oggetto che si deve ripetere tal quale è; il "tipo" è, per lo contrario, un oggetto, secondo il quale ognuno può concepire delle opere, che non si rassomiglieranno punto fra loro. Tutto è preciso e dato nel modello; tutto è più o men vago nel "tipo".

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Così noi veggiamo che la imitazione dei "tipi" non ha nulla che il sentimento e lo spirito non possano riconoscere. [...] In ogni paese, l'arte del fabbricare regolarmente è nata da un germe preesistente. E' necessario in tutto un antecedente; nulla, in nessun genere, non viene dal nulla; e ciò non può non applicarsi a tutte le invenzioni degli uomini. Così noi vediamo che tutte, a dispetto dei cambiamenti posteriori, hanno conservato sempre chiaro, sempre manifesto al sentimento e alla ragione il loro principio elementare. E' come una specie di nucleo intorno al quale si sono agglomerati e coordinati in seguito gli sviluppamenti e le variazioni di forme, di cui era suscettibile l'oggetto. Perciò sono a noi pervenute mille cose in ogni genere e una delle principali occupazioni della scienza e della filosofia, per afferrarne le ragioni, è di ricercarne la origine e la causa primitiva. Ecco ciò che deve chiamarsi "tipo" in architettura, come in ogni altro ramo delle invenzioni e delle istituzioni umane. [...] Noi ci siamo abbandonati a questa discussione per far ben comprendere il valore della parola "tipo" preso metaforicamente in una quantità di opere, e l'errore di quelli che, o lo disconoscono perché non è un modello, o lo travisano imponendogli il rigore di un modello che importerebbe la condizione di copia identica (7). Nella prima parte della proposizione l'autore scarta la possibilità di qualcosa da imitare o copiare perché in questo caso non vi sarebbe, come afferma la seconda parte della proposizione, "la creazione del modello", cioè non si farebbe architettura. La seconda proposizione afferma che nell'architettura (modello o forma) vi è un elemento che gioca un suo proprio ruolo; quindi non qualcosa a cui l'oggetto architettonico si è adeguato nella sua conformazione ma qualcosa che è presente nel modello. Esso infatti è la regola, il modo costitutivo dell'architettura. In termini logici si può dire che questo qualcosa è una costante. Un argomento di questo tipo presuppone di concepire il fatto architettonico come una struttura che si rivela ed è conoscibile nel fatto stesso. Se questo qualcosa, che possiamo chiamare l'elemento tipico o semplicemente il tipo, è una costante, esso è riscontrabile in tutti i fatti architettonici. Esso è quindi anche un elemento culturale e come tale può essere ricercato nei diversi fatti architettonici; la tipologia diventa così largamente il momento analitico dell'architettura, essa è ancora meglio individuabile a livello dei fatti urbani. La tipologia si presenta quindi come lo studio dei tipi non ulteriormente riducibili degli elementi urbani, di una città come di una architettura. La questione delle città monocentriche e degli edifici centrali o altro è una specifica questione tipologica; nessun tipo si identifica con una forma anche se tutte le forme architettoniche sono riconducibili a dei tipi. Questo processo di riduzione è un'operazione logica necessaria; e non è possibile parlare di problemi di forma ignorando questi presupposti.

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In questo senso tutti i trattati di architettura sono anche dei trattati di tipologia e nella progettazione è difficile distinguere i due momenti. Il tipo è dunque costante e si presenta con caratteri di necessità; ma sia pure determinati, essi reagiscono dialetticamente con la tecnica, con le funzioni, con lo stile, con il carattere collettivo e il momento individuale del fatto architettonico. E' noto come la pianta centrale sia un tipo determinato e costante, per esempio, nell'architettura religiosa; ma con questo tutte le volte che si ha la scelta di una pianta centrale si creano dei motivi dialettici con l'architettura di quella chiesa, con le sue funzioni, con la tecnica della costruzione e infine con la collettività che partecipa della vita di quella chiesa. Io sono propenso a credere che i tipi della casa d'abitazione non siano mutati dall'antichità a oggi ma questo non significa affatto sostenere che non sia mutato il modo concreto di vivere dall'antichità a oggi e che non vi siano sempre nuovi possibili modi di vivere. La casa a ballatoio è uno schema antico e presente in tutte le case urbane che vogliamo analizzare; un corridoio che disimpegna delle camere è uno schema necessario ma tali e tante sono le differenze tra le singole case nelle singole epoche che realizzano questo tipo, da presentare tra di loro delle enormi differenze. Infine potremo dire che il tipo è l'idea stessa dell'architettura; ciò che sta più vicino alla sua essenza. E quindi ciò che, nonostante ogni cambiamento, si è sempre imposto "al sentimento e alla ragione", come il principio dell'architettura e della città. Il problema della tipologia non è mai stato trattato in forma sistematica e con l'ampiezza che è necessaria; oggi esso sta emergendo nelle scuole d'architettura e porterà a buoni risultati. Sono infatti convinto che gli architetti stessi, se vorranno allargare e fondare il proprio lavoro, dovranno di nuovo occuparsi di argomenti di questa natura (8). Non mi è qui possibile occuparmi oltre di questo problema. Accertiamo che la tipologia è l'idea di un elemento che gioca un proprio ruolo nella costituzione della forma; e che essa è una costante. Si tratterà di vedere le modalità con cui questo avviene e subordinatamente il valore effettivo di questo ruolo. E' certo che tutti gli studi che noi possediamo in questo campo, salvo poche eccezioni e degli attuali tentativi di superamento, non si sono posti molto attentamente questo problema. Essi l'hanno sempre eluso e spostato cercando subito qualcos'altro; questo qualcos'altro è la funzione. Poiché questa questione della funzione è assolutamente preminente nel campo dei nostri studi cercherò di vedere come essa sia emersa negli studi relativi alla città e ai fatti urbani in generale e come si sia evoluta. Si può dire subito che essa si è posta allorché, ed è questo il primo passo da compiersi, ci si è posti il problema della descrizione e della classificazione.

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Ora le classificazioni esistenti non sono andate in gran parte oltre il problema della funzione. Critica al funzionalismo ingenuo. Nel porci di fronte a un fatto urbano abbiamo indicato le questioni principali che sorgono; tra esse l'individualità, il "locus", la memoria, il disegno stesso. Non si è accennato alla funzione. Io penso che la spiegazione dei fatti urbani mediante la loro funzione sia da respingere quando si tratti di illuminare la loro costituzione e la loro conformazione; si illustreranno esempi di fatti urbani preminenti dove la funzione è mutata nel tempo o addirittura dove una funzione specifica non esiste. E' quindi evidente che una delle tesi di questo studio, che vuole affermare i valori dell'architettura nello studio della città, è quella di negare questa spiegazione mediante la funzione di tutti i fatti urbani; anzi io sostengo che questa spiegazione, lungi dall'essere illuminante, sia regressiva perché essa impedisce di studiare le forme e di conoscere il mondo dell'architettura secondo le sue vere leggi. Occorre dire subito che questo non significa respingere il concetto di funzione nel suo senso più proprio; quello algebrico che implica che i valori sono conoscibili uno in funzione dell'altro e che tra le funzioni e la forma cerca di stabilire dei legami più complessi che non siano quelli lineari di causa ed effetto che sono smentiti dalla realtà. Qui si respinge appunto quest'ultima concezione del funzionalismo, dettata da un ingenuo empirismo, secondo cui le funzioni riassumono la forma e costituiscono univocamente il fatto urbano e l'architettura. Un tale concetto di funzione, improntato alla fisiologia, assimila la forma a un organo per cui le funzioni sono quelle che giustificano la sua formazione e il suo sviluppo e le alterazioni della funzione implicano una alterazione della forma. Funzionalismo e organicismo, le due correnti principali che hanno percorso l'architettura moderna, rivelano così la propria radice comune e la causa della loro debolezza e del loro fondamentale equivoco. La forma viene così destituita dalle sue più complesse motivazioni; da un lato il tipo si riduce a un mero schema distributivo, un diagramma dei percorsi, dall'altro l'architettura non possiede nessun valore autonomo. L'intenzionalità estetica e la necessità che presiedono ai fatti urbani e ne stabiliscono i complessi legami non possono venire ulteriormente analizzate. Benché il funzionalismo abbia origini più lontane esso è stato enunciato e applicato chiaramente da Malinowski; questo autore fa anche esplicito riferimento al manufatto, all'oggetto, alla casa. Prendete l'abitazione umana. [...] Qui, ancora, la funzione integrale dell'oggetto deve essere tenuta presente quando si studiano le varie fasi della sua costruzione tecnologica e gli elementi della sua struttura (9). Da una impostazione di questo tipo si scende facilmente alla considerazione dei soli motivi per cui il manufatto, l'oggetto, la casa servono.

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La domanda: A cosa servono? finisce per dar luogo a una semplice giustificazione bloccando un'analisi del reale. Questo concetto della funzione viene poi assunto da tutto il pensiero architettonico e urbanistico, e particolarmente nell'ambito della geografia, fino a caratterizzare, come si è visto, attraverso il funzionalismo e l'organicismo, gran parte dell'architettura moderna. Nella classificazione delle città esso diventa preminente rispetto al paesaggio urbano e alla forma; benché molti autori avanzino dei dubbi sulla validità e l'esattezza di una classificazione di questo tipo essi ritengono che non vi sia un'alternativa concreta per qualche classificazione efficace. Così lo Chabot (10), dopo aver dichiarato l'impossibilità di dare una definizione precisa della città poiché dietro di essa vi è sempre un residuo impossibile da discernere in modo preciso, stabilisce poi delle funzioni, anche se ne dichiara subito l'insufficienza. La città come raggruppamento è spiegata proprio in base a quelle funzioni che quegli uomini volevano esercitare; la funzione di una città diventa la sua "raison d'tre" ed è sotto questa forma che essa si rivela. In molti casi lo studio della morfologia si riduce a un mero studio della funzione. Stabilito il concetto di funzione, infatti, si giunge immediatamente alla possibilità di una classificazione evidente; città commerciali, culturali, industriali, militari, ecc. Anche se la critica qui avanzata al concetto di funzione è più generale è opportuno precisare che già all'interno di questo sistema sorge una difficoltà nello stabilire il ruolo della funzione commerciale. Infatti, così come è stata avanzata, questa spiegazione del concetto di classificazione per funzione, risulta troppo semplificata; essa suppone un valore identico per tutte le attribuzioni di funzione, il che non è vero. Una funzione preminente ed emergente è infatti quella commerciale. Questa funzione del commercio e dei traffici commerciali è infatti il fondamento, in termini di produzione, di una spiegazione "economica" della città che, partendo dalla formulazione classica di Max Weber, ha avuto uno sviluppo particolare e su cui ci fermeremo più avanti. E' logico immaginare come, accettata una classificazione della città per funzioni, la funzione commerciale, nel suo costituirsi e nella sua continuità, si presenti come quella più convincente a spiegare la molteplicità dei fatti urbani; ed a legarsi con le teorie di carattere economico sulla città. Ma proprio l'attribuire un valore diverso alle singole funzioni ci porta a non riconoscere validità al funzionalismo ingenuo; infatti anche sviluppato in questo senso esso finirebbe per contraddire la sua ipotesi di partenza. D'altra parte se i fatti urbani potessero continuamente fondarsi e rinnovarsi attraverso il semplice stabilirsi di nuove funzioni, i valori stessi della struttura urbana, rilevati attraverso la sua architettura, sarebbero continui e facilmente disponibili; la permanenza stessa degli edifici e delle forme non avrebbe alcun

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significato e lo stesso valore di trasmissione di una determinata cultura di cui la città è un elemento verrebbe messo in crisi. Ora tutto questo non corrisponde alla realtà. La teoria del funzionalismo ingenuo è però oltremodo comoda per le classificazioni elementari ed è difficile vedere come a questo livello essa possa essere sostituita; si può quindi proporre di mantenerla a un certo ordine, come mero fatto strumentale, senza però pretendere di ricavare da questo stesso ordine la spiegazione dei fatti più complessi. Si pensi alla definizione che abbiamo cercato di avanzare del tipo nei fatti urbani e architettonici sulla scorta del pensiero illuministico; da questa definizione di tipo si può procedere a una classificazione corretta dei fatti urbani e in ultima istanza anche a una classificazione per funzioni qualora queste costituiscano uno dei momenti della definizione generale. Se noi, al contrario, partiamo da una classificazione per funzioni dobbiamo ammettere il tipo in un modo del tutto diverso; infatti se teniamo in conto principale la funzione dobbiamo intendere il tipo come il modello organizzativo di questa funzione. Ora è proprio questo modo di intendere il tipo, e successivamente i fatti urbani e l'architettura, come organizzazione di una certa funzione, ciò che più ci allontana da una conoscenza concreta del reale. Se infatti si può ammettere di classificare gli edifici e le città secondo la loro funzione, come generalizzazione di alcuni criteri di evidenza, è inconcepibile ridurre la struttura dei fatti urbani a un problema di organizzazione di qualche funzione più o meno importante; è infatti questa grave distorsione che ha bloccato e blocca in gran parte un reale progresso negli studi della città. Se i fatti urbani sono un mero problema di organizzazione essi non possono presentare né continuità né individualità; i monumenti e l'architettura non hanno ragione d'essere, essi non ci dicono nulla. Posizioni di questo tipo assumono un chiaro carattere ideologico quando pretendono di oggettivare e quantificare i fatti urbani; questi visti in modo utilitaristico vengono assunti come prodotti di consumo. Vedremo più avanti gli aspetti più propriamente architettonici di questa impostazione. In conclusione si può affermare che un criterio funzionale di classificazione è accettabile come regola pratica e contingente alla pari di altri criteri; per esempio associativi, costruttivi, di sfruttamento dell'area, ecc. Classificazioni di questo tipo hanno una loro utilità; è però indubbio che esse servono di più a dirci qualcosa sul punto di vista adottato per la classificazione (per esempio il sistema costruttivo) che sull'elemento in sé. E' proprio da questo punto di vista che esse possono essere accettate.

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Problemi di classificazione. Nell'esporre la teoria funzionalista ho, più o meno volontariamente, accentuato quegli aspetti che danno a questa interpretazione una forma di preminenza e di sicurezza. Questo è anche dovuto al fatto che il funzionalismo ha avuto una particolare fortuna nel mondo dell'architettura e tutti coloro che sono stati educati in questa disciplina negli ultimi cinquant'anni possono a fatica staccarsene. Si dovrebbe indagare come essa abbia in realtà determinato l'architettura moderna, bloccandone anche oggi una evoluzione progressiva: ma non è questo l'obiettivo che qui mi propongo. Ritengo invece necessario soffermarmi su altre interpretazioni del dominio dell'architettura e della città che costituiscono i fondamenti per la tesi che qui avanzo. Le teorie su cui qui mi soffermo sono rapportabili alla geografia sociale di Tricart, alla teoria delle persistenze di Marcel Poète, e alla teoria illuministica e particolarmente all'opera del Milizia. Tutte queste teorie mi interessano principalmente perché si fondano su una lettura continua della città e dell'architettura sottointendendo una teoria generale dei fatti urbani. Per Tricart (11) la base della lettura della città è il contenuto sociale; lo studio del contenuto sociale deve venire prima della descrizione dei fattori geografici che danno al paesaggio urbano il suo significato. I fatti sociali, in quanto si presentano appunto come contenuto, sono precedenti le forme e le funzioni e per così dire le comprendono. E' compito della geografia umana studiare le strutture della città in connessione con la forma del luogo in cui queste si manifestano; si tratta quindi di uno studio sociologico in termini di localizzazione. Ma per procedere all'analisi del luogo bisogna stabilire a priori i limiti entro cui questo viene definito. Tricart stabilisce così tre ordini o tre scale diverse: a) la scala della strada che comprende le costruzioni e gli spazi non costruiti che la circondano; b) la scala del quartiere che è sostituito da un insieme di isolati con caratteristiche comuni; c) la scala della città intera considerata come un insieme di quartieri. Il principio che rende rapportabili, e omogenee, queste quantità, è il contenuto sociale che esse presentano. Cercherò ora dall'assunto di Tricart di sviluppare particolarmente un tipo di analisi urbana che, coerentemente con queste premesse, si svolge in direzione topografica e che riveste a mio parere una notevole importanza. Prima però di avanzare questa esposizione è bene introdurre una obiezione fondamentale sulle scale di studio o le parti in cui egli divide la città. Che i fatti urbani vadano studiati unicamente in chiave di localizzazione lo possiamo senz'altro ammettere ma l'obiezione è di natura diversa. Infatti ciò che non possiamo ammettere è che esistano delle scale diverse e che le localizzazioni si spieghino in qualche modo per la loro scala o la loro

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estensione; tutt'al più potremmo ammettere che questo serva dal punto di vista didattico, o al fine di una ricerca pratica, ma implica un concetto che non si può accettare. Questo concetto riguarda la qualità dei fatti urbani. Pertanto noi non sosteniamo semplicemente che non esistono diverse scale di studio, ma che è inconcepibile pensare che i fatti urbani mutino in qualche modo a causa della loro dimensione. Accettare la tesi contraria significherebbe, come da molte parti si sostiene, accettare il principio della città che si modifica estendendosi o che i fatti urbani in sé siano diversi per la dimensione in cui si producono. Conviene qui fare una citazione di Ratcliff: Voler considerare i problemi della cattiva distribuzione delle localizzazioni soltanto nel contesto metropolitano vuol dire incoraggiare l'asserzione popolare ma falsa che si tratti di problemi di dimensione. Noi possiamo osservare tali problemi, in diversa scala, nei villaggi, nelle cittadine, nelle città, nelle metropoli, poiché le forze dinamiche dell'urbanesimo sono vitali dovunque uomini e cose si trovano compatti e l'organismo urbano è soggetto alle stesse leggi naturali e sociali indipendentemente dalla dimensione. Rimandare i problemi della città a un problema di dimensione vuol dire intendere che le soluzioni stiano nel proiettare all'esterno il processo di crescita, cioè nella deconcentrazione; assunto e soluzione sono entrambi controversi (12).Uno degli elementi fondamentali del paesaggio urbano alla scala della strada è costituito dagli immobili d'abitazione e dalla struttura della proprietà urbana; parlo di immobile d'abitazione e non di casa perché la definizione è molto più precisa nelle diverse lingue europee. L'immobile è infatti una particella catastale in cui l'occupazione principale del suolo è costituita da superfici costruite. Nell'immobile d'abitazione l'occupazione serve in gran parte alla residenza (parlare di immobili specializzati e di immobili misti è poi una divisione importante ma non sufficiente). Se cerchiamo di classificare questi immobili possiamo partire da considerazioni planimetriche. Avremo così: a) case a blocco circondate da spazio libero; b) case a blocco unite le une alle altre che si affacciano sulla strada costituendo una cortina continua parallela alla strada stessa; c) case a blocco in profondità che occupano il suolo in maniera quasi completa; d) case a corte chiusa con giardino e piccole costruzioni interne. Un'analisi di questo tipo, si è detto, può considerarsi descrittiva, geometrica o topografica. Possiamo portarla avanti e conoscere altri dati interessanti che riguardano questa classificazione relativi alle attrezzature tecniche, ai dati stilistici, al rapporto superficie costruita/superficie verde, ecc.

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Questi tipi di questioni che nascono dai nostri dati possono essere riportati a dei filoni principali, essi sono, grosso modo, quelli relativi a: i dati razionali; l'influenza della struttura fondiaria e i dati economici; le influenze storicosociali. Di particolare importanza è la conoscenza della struttura fondiaria e delle questioni economiche; questi fatti sono poi legati intimamente a quelle che abbiamo chiamato le influenze storico-sociali. Per meglio renderci conto dei vantaggi dell'applicazione di un'analisi di questo tipo esamineremo nella seconda parte di questo libro il problema della residenza e il problema del quartiere. Portiamo avanti ora, per chiarire l'analisi qui proposta, sia pure sommariamente il secondo punto, quello relativo alla struttura fondiaria e ai dati economici. La forma dei lotti di una città, la loro formazione, la loro evoluzione, rappresenta la lunga storia della proprietà urbana; e la storia delle classi profondamente legate alla città; è stato detto molto lucidamente da Tricart che l'analisi del contrasto nel disegno dei lotti conferma l'esistenza della lotta di classe. La modificazione della struttura fondiaria urbana che noi possiamo seguire con assoluta precisione attraverso le carte storiche catastali indica il sorgere della borghesia urbana e il fenomeno della concentrazione progressiva del capitale. Un criterio di questo tipo applicato a una città che ha un ciclo di vita straordinario come l'antica Roma ci offre risultati di una chiarezza paradigmatica; dalla città di tipo agrario alla formazione dei grandi spazi pubblici dell'età imperiale e al conseguente trapasso dalla casa a patio repubblicana alla formazione delle grandi "insulae" della plebe. Gli enormi lotti costituenti le "insulae", con una concezione straordinaria della casa-quartiere anticipano i concetti della moderna città capitalistica e della sua divisione spaziale. E ne mostrano anche la disfunzione e la contraddizione. Ecco che allora gli immobili che prima avevamo rilevato topograficamente, alla luce di una analisi topografica, visti in chiave economico sociale ci offrono altre possibili classificazioni. Possiamo distinguere: a) casa extra capitalista, costruita dal proprietario senza fini di sfruttamento; b) casa capitalista, forma di rendita urbana, destinata a essere affittata e dove tutto è subordinato alla rendita. Questa casa può essere destinata a ricchi e poveri. Ma nel primo caso per l'evoluzione dei bisogni la casa si declassa rapidamente con l'alternanza sociale. Questa alternanza sociale all'interno della singola casa crea le zone "blighted" o degradate, che costituiscono uno dei problemi più tipici della moderna città capitalista e come tali sono particolarmente studiati, specie in USA dove sono più emergenti che da noi; c) casa paracapitalista per una famiglia con un piano in affitto; d) casa socialista. E' il nuovo tipo di costruzione che compare nei paesi socialisti dove non esiste più la proprietà privata del suolo, o in paesi di democrazia avanzata.

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Uno dei primi esempi in Europa si può far risalire alle case costruite dal Comune di Vienna nell'altro dopoguerra. L'ipotesi dell'analisi del contenuto sociale, applicata con particolare attenzione alla topografia urbana, si sviluppa così fino a darci una conoscenza più completa della città; si tratta di avanzare per ulteriori integrazioni in modo che alcuni fatti elementari possano disporsi attraverso l'analisi fino a comporre dei fatti più generali. Anche la forma dei fatti urbani assume un'interpretazione abbastanza convincente attraverso il contenuto sociale; in esso vi sono motivi e ragioni che hanno gran parte nella struttura urbana. L'opera di Marcel Poète (13) è senza dubbio una delle più moderne dal punto di vista scientifico dello studio della città. Il Poète si occupa dei fatti urbani in quanto indicativi delle condizioni dell'organismo urbano; essi costituiscono un dato preciso, verificabile sulla città esistente. Ma la loro ragione d'essere è la loro continuità; alle notizie storiche bisogna aggiungere quelle geografiche, economiche, statistiche, ma è la conoscenza del passato che costituisce il termine di confronto e la misura per l'avvenire. Questa conoscenza si ritrova quindi nello studio delle piante della città; le quali possiedono delle caratteristiche formali precise; l'andamento delle loro strade può essere diritto, sinuoso, curvo. Ma anche la linea generale della città ha un suo significato e l'identità di esigenze tende naturalmente a esprimersi in costruzioni che, al di là di puntuali differenze, presentano delle innegabili affinità. Nell'architettura urbana si stabilisce un legame più o meno apparente tra le forme delle cose attraverso le epoche. Attraverso il divario delle epoche e delle civiltà è possibile dunque constatare una costanza di motivi che assicura una relativa unità nella espressione urbana. Da qui si sviluppano i rapporti tra la città e il comprensorio geografico; rapporti che sono analizzabili positivamente dal valore della strada. La strada acquista così nell'analisi del Poète una grande importanza: poiché la città nasce in un dato luogo ma è la strada che la mantiene viva. Associare il destino della città alle vie di comunicazione è quindi una regola fondamentale di metodo. In questo studio del rapporto tra strada e città il Poète giunge a dei risultati estremamente importanti; per una determinata città si può stabilire una classificazione delle strade che deve essere rispecchiata dalla carta del comprensorio geografico. E occorre anche caratterizzarle a seconda della natura degli scambi che vi si effettuano, gli scambi culturali a pari titolo di quelli commerciali. Così egli riprende l'osservazione di Strabone a proposito delle città umbre lungo la via Flaminia il cui sviluppo è spiegato piuttosto perché si trovano situate lungo quella via che per qualche particolare importanza.

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Dalla strada l'analisi passa al suolo urbano, e il suolo urbano che è un dato naturale ma anche un'opera civile è legato alla composizione della città. Nella composizione urbana ogni cosa deve esprimere con la maggior adesione possibile la vita stessa di quell'organismo collettivo che è la città. Alla base di questo organismo vi è la persistenza del piano. Il concetto della persistenza è fondamentale nella teoria del Poète; esso informerà l'analisi del Lavedan, che per la sua commistione di elementi desunti dalla geografia e dalla storia dell'architettura si può considerare come una delle analisi più complete di cui noi disponiamo. Nel Lavedan la persistenza diventa la generatrice del piano; questa generatrice è l'obiettivo principale della ricerca urbana perché è dalla sua comprensione che è possibile risalire alla formazione spaziale della città; nella generatrice è compreso il concetto di persistenza che si estende anche agli edifici fisici, alle strade, ai monumenti urbani. Insieme ad alcuni geografi che ho citato come Chabot e Tricart, quello di Poète e di Lavedan è tra i contributi più alti della scuola francese alla teoria urbana. Il contributo del pensiero illuminista a una fondata teoria dei fatti urbani meriterebbe una ricerca particolare. In primo luogo i trattatisti del '700 cercano di stabilire dei principi d'architettura che possano essere sviluppati su basi logiche, in certo senso senza disegno; il trattato viene a costituirsi come una serie di proposizioni derivabili l'una dall'altra. In secondo luogo il singolo elemento viene sempre concepito come parte di un sistema e questo sistema è la città; è cioè la città che conferisce criteri di necessità e di realtà alle singole architetture. In terzo luogo essi distinguono la forma, aspetto ultimo della struttura, dal momento analitico di questa; così la forma ha una sua persistenza (classica) che non è ridotta al momento logico. Sul secondo argomento si potrebbe discutere a lungo ma sarebbero certamente necessarie maggiori conoscenze; certo che mentre esso comprende la città esistente postula la città nuova e il rapporto tra la costituzione di un fatto e il suo intorno è inscindibile. Già Voltaire nell'analisi del "grand siècle" aveva indicato come limite di quelle architetture il loro disinteresse verso la città mentre compito di ogni costruzione era quello di porsi in rapporto diretto con la città stessa (14). L'estrinsecazione di questi concetti si ha con i piani e i progetti napoleonici che rappresentano uno dei momenti di maggior equilibrio della storia urbana. Cercherò ora di vedere, in base ai tre argomenti esposti, i criteri principali forniti dalla teoria del Milizia come esempio di un trattista dell'architettura che si è posto all'interno delle teorie dei fatti urbani (15). La classificazione proposta dal Milizia, il quale tratta appunto degli edifici e della città a un tempo, distingue gli edifici urbani in privati e pubblici, intendendo con i primi le abitazioni e con i secondi degli elementi principali che io chiamerò primari.

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Inoltre il Milizia pone questi raggruppamenti come classi, ciò che gli permette di distinguere all'interno della classe considerata precisando ogni elemento come edificio-tipo all'interno di una funzione generale, o meglio di un'idea generale della città. Per esempio nella prima classe vi sono palazzi e case, nella seconda edifici di sicurezza, pubblica utilità, abbondanza ecc. Negli edifici di pubblica utilità si distinguono poi le università, le biblioteche ecc. L'analisi che si compie si riferisce quindi in un primo tempo alla classe (pubblica e privata), in un secondo tempo alla collocazione dell'elemento nella città, in un terzo alla forma e alla distribuzione dell'edificio. Il maggior comodo pubblico richiede che questi edifici (di utilità pubblica) sieno situati non molto lungi dal centro della città, e distribuiti intorno a una grandiosa piazza comune. Il sistema generale è quindi la città; le chiarificazioni degli elementi sono chiarificazioni del sistema adottato. Di che città si tratta? Di un'ipotesi di città che si costruisce assieme all'architettura. Anche senza sontuosissime fabbriche le città possono comparir belle e spirar vaghezza. Ma tanto è dire bella città, quanto buona architettura (16). Questa affermazione sembra decisiva per tutti i trattati dell'architettura dell'illuminismo; bella città è buona architettura, e la proposizione è reversibile. E' poco probabile che gli illuministi si siano soffermati in qualche luogo sopra questa affermazione tanto essa era connaturata al loro modo di pensare; sappiamo quanto la loro incomprensione della città gotica fosse basata proprio sulla impossibilità di cogliere un paesaggio senza cogliere la validità dei singoli elementi che lo costituiscono; senza capire il sistema. Ora, se per esempio nel non capire il significato e quindi la bellezza della città gotica essi sbagliarono, non per questo non è giusto il sistema da essi seguito. A noi la bellezza della città gotica appare proprio là dove essa si mostra come un fatto urbano straordinario dove l'individualità dell'opera è chiaramente riconoscibile nelle sue componenti. Proprio attraverso le ricerche condotte su questa città noi ne afferriamo la bellezza; essa pure partecipa di un sistema. E non vi è niente di più falso che definire organica o spontanea la città gotica. Converrà richiamare ancora un altro aspetto della modernità della posizione considerata. Dopo aver stabilito il concetto di classe, si è detto, il Milizia precisa ogni edificio-tipo all'interno di un'idea generale e lo caratterizza mediante una funzione. Questa funzione viene considerata indipendentemente dalle considerazioni generali sulla forma; ed essa è da intendersi piuttosto come fine dell'edificio che come funzione in senso proprio. Così vengono elencati nella stessa classe edifici di uso pratico, e edifici empiricamente osservabili come oggetti, ma costruiti in funzione di concetti non

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egualmente osservabili; così gli edifici per la salute pubblica o per la sicurezza si trovano all'interno della stessa classe di edifici per la magnificenza o la sublimità. Vi sono almeno tre argomenti a favore di questo modo di procedere; il primo e principale è il riconoscere la città come una struttura complessa dove si ritrovano di fatto pezzi di città intesi come opere d'arte, il secondo argomento è relativo alla validità di un discorso tipologico generale dei fatti urbani o, in altri termini, che io posso dare un giudizio tecnico anche di quegli aspetti della città che per loro natura richiedono un giudizio più complesso riducendoli alla loro costante tipologica, e infine che questa costante tipologica gioca "un suo proprio ruolo" nella costituzione del modello. Per esempio nel trattare di un monumento, il Milizia lo riporta a tre fattori di analisi: che siano 1) diretti al pubblico, 2) collocati opportunamente, 3) costituiti secondo le leggi della convenienza. [...] Riguardo alla convenienza della costruzione de' monumenti qui altro non si può dire in generale, se non che sieno significanti ed espressivi, d'una struttura semplice, con iscrizioni chiare e brevi, affinché al più leggiero sguardo facciano l'effetto per cui si costruiscono (17). In altri termini possiamo dire che, se riguardo alla natura del monumento non possiamo dire altro che una tautologia, un monumento è un monumento, possiamo però stabilire delle condizioni al contorno che, pur non pronunciandosi sulla natura del monumento, ne illuminino le caratteristiche tipologiche e compositive. Queste caratteristiche sono ancora in gran parte di natura urbana: ma esse sono altresì condizioni dell'architettura, cioè del comporre. Ed è questo un aspetto di fondo su cui si tornerà più avanti. Come infine classificazioni e principi non fossero che un aspetto generale dell'architettura e questa, nel suo farsi concreto e nel suo essere giudicata, appartenesse solo alla singola opera e al singolo artista nella concezione illuministica, non è qui il caso di insistere. Proprio il Milizia mette in ridicolo i costruttori di ordini architettonico-sociali e i fornitori di modelli oggettivi di organizzazione e di riassunto dell'architettura, quali dovevano prodursi dal romanticismo in avanti, quando afferma che derivare la distribuzione architettonica dalle celle delle api è un andare a caccia d'insetti (18). Anche qui l'ordine astratto dell'organizzazione e il riferimento alla natura, temi che saranno fondamentali in tutto lo sviluppo successivo del pensiero architettonico e che ho già indicato nei loro due aspetti di organicismo e funzionalismo legati alla stessa matrice romantica, sono colti in un unico aspetto. Circa la concretezza il Milizia ancora ha scritto: In sì prodigiosa varietà non può la distribuzione esser sempre regolata da precetti fissi e costanti, e per conseguenza deve essere di una somma difficoltà. Quindi la maggior parte dei più illustri architetti, quando hanno voluto trattare della distribuzione, hanno piuttosto esibiti disegni e descrizioni de' loro edifizi, che regole da potere istruire (19).

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Questo passo mostra chiaramente come la funzione a cui sopra si accennava è intesa qui come relazione e non come schema di organizzazione; come tale essa è addirittura respinta. Mentre si cercano delle regole che possano trasmettere i principi dell'architettura.

Complessità dei fatti urbani. Cercherò ora di rendere esplicite alcune delle questioni emerse nell'esporre le teorie assunte nelle pagine precedenti mettendo in risalto quei punti su cui intendo sviluppare il presente studio. Il primo argomento considerato è stato desunto dai geografi della scuola francese; ho detto che essi dopo aver messo a punto un buon sistema descrittivo si arrestano davanti all'analisi della struttura della città. Mi riferivo in particolare all'opera di Georges Chabot per cui la città è una totalità che si costruisce da se stessa e in cui tutti gli elementi concorrono a formare l'"me de la cité". Ritengo questo uno dei più importanti punti di arrivo nello studio della città; punto da tener presente per vedere concretamente la struttura del fatto urbano. Come si concilia questo col suo studio della funzione? La risposta, già implicita nell'analisi fin qui svolta, è parzialmente suggerita dalla critica di Max Sorre nella recensione al libro dello Chabot. Sorre ha scritto che in sostanza per lo Chabot: La vie seule explique la vie. Questo significa che se la città spiega se stessa, allora il classificarla per funzioni non costituisce una spiegazione ma rientra in un sistema descrittivo. La risposta può quindi essere impostata nel seguente modo: la descrizione della funzione è facilmente accertabile, essa è uno strumento come tutto lo studio della morfologia urbana; inoltre non ponendo alcun elemento di continuità tra il "genre de vie" e la struttura urbana, come vogliono invece i funzionalisti ingenui, questo sembra uno degli elementi di analisi possibile come tanti altri. Da questi studi terremo quindi fermo il concetto della città come totalità e della possibilità di avvicinarci alla comprensione di questa totalità mediante lo studio delle sue diverse manifestazioni, del suo comportamento. Dell'analisi di Tricart ho inteso mettere in luce l'importanza dello studio della città quando questo parta dal contenuto sociale; lo studio del contenuto sociale permette di mettere in luce il significato dell'evoluzione urbana in modo concreto. Ho accentuato gli aspetti di questa ricerca nel senso della topografia urbana, e quindi dello studio della formazione dei limiti e del valore del suolo urbano come elemento base della città; vedremo più avanti aspetti di questo problema dal punto di vista delle teorie economiche. Circa la ricerca del Lavedan si potrebbe avanzare la seguente questione: se la struttura intesa da Lavedan è una struttura materiale, formata da strade, monumenti ecc., in che senso essa può essere rapportata con l'oggetto di questa ricerca come è stata qui enunciata? La struttura, come è intesa da Lavedan, si

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avvicina alla struttura qui ricercata dei fatti urbani in quanto essa accoglie il concetto del Poète della persistenza del piano e delle generatrici del piano. Si ricordi inoltre che le generatrici sono di natura materiale e mentale; esse non sono catalogabili nel senso di funzione. E poiché ogni funzione è rilevabile attraverso una forma, la quale poi è la possibilità di esistenza di un fatto urbano, possiamo affermare che in ogni caso una forma, un elemento urbano, consente una rilevazione; e se questa forma è possibile, è possibile anche pensare che un fatto urbano determinato permanga con essa e che forse, come vedremo, sia proprio quanto permane in un insieme di trasformazioni a costituire un fatto urbano per eccellenza. Dell'aspetto negativo delle classificazioni del funzionalismo ingenuo mi sono già occupato; si può quindi ripetere che esse possono accettarsi in alcuni casi purché non vadano oltre i confini manualistici in cui le accettiamo. Classificazioni di questo tipo presuppongono che tutti i fatti urbani siano costituiti per una certa funzione in modo statico e che la loro stessa struttura sia coincidente con la funzione che essi svolgono in un determinato momento. Sosteniamo invece che la città è qualcosa che permane attraverso le sue trasformazioni e le funzioni, semplici o plurime, a cui essa via via assolve sono dei momenti nella realtà della sua struttura. La funzione viene quindi assunta soltanto nel suo significato di relazione più complessa tra più ordini di fatti scartando una interpretazione di legami lineari tra causa ed effetto che sono smentiti dalla realtà. Una relazione di questo tipo è certamente diversa da quella di "uso" e da quella di "organizzazione". E' necessario a questo punto introdurre anche alcune contestazioni a un linguaggio e a un modo di lettura della città e dei fatti urbani che costituisce un grave impiccio alla ricerca urbana. Questo modo è, attraverso vie diverse, legato al funzionalismo ingenuo da una parte e al romanticismo architettonico dall'altra. Mi riferisco ai due termini di "organico" e di "razionale", mutuati dal linguaggio dell'architettura, i quali mentre presentano una indubbia validità storica per definire un certo stile o tipo dell'architettura rispetto ad un altro, non servono affatto a chiarire i concetti e a comprendere in qualche modo i fatti urbani. Il termine "organico" è desunto dalla biologia; ho già detto come alla base del funzionalismo di Ratzel vi fosse l'ipotesi di assimilare la città a un organo e di ammettere che la funzione costituisse la forma dell'organo stesso (20). Questa ipotesi di natura fisiologica è tanto brillante quanto irriducibile alla struttura dei fatti urbani e, anche, alla progettazione architettonica. (Ma questa osservazione meriterebbe uno sviluppo diverso). Al linguaggio organico fanno capo i termini di: organismo, crescita organica, tessuto urbano ecc. I paralleli tra la città e l'organismo umano e i processi del mondo biologico sono stati anche teorizzati ma presto abbandonati negli studi ecologici più seri.

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La terminologia si è però assai diffusa tra i tecnici tanto da sembrare a prima vista intimamente legata alla materia di cui si tratta; e molti riuscirebbero solo a fatica a non usare termini come "organismo architettonico" e a sostituirli con termini più appropriati come edificio. Lo stesso si dica di "tessuto". Si pensi che a volte certi autori definiscono "organica" "tout court" l'architettura moderna. Per il suo carattere brillante questa terminologia è passata rapidamente da studi seri (21) ecc., al professionismo e al giornalismo. Non meno imprecise sono le espressioni della corrente razionalista; di per sé inoltre parlare di un'urbanistica razionale è una mera tautologia essendo condizione dell'urbanistica appunto la razionalizzazione delle scelte spaziali. Le definizioni "razionaliste" hanno però il pregio indubbio di fare sempre un riferimento all'urbanistica come disciplina (appunto per il suo carattere di razionalità) e quindi di offrire una terminologia di efficacia senz'altro superiore. Dire che la città medievale è "organica" significa un'assoluta ignoranza della struttura politica, religiosa, economica ecc. della città medievale oltre che della sua struttura spaziale, dire al contrario che la pianta di Mileto è razionale è vero anche se è talmente generale da essere generico e non offrirci nessuna nozione concreta sulla pianta di Mileto. (Oltre all'equivoco di confondere la razionalità con certi schemi geometrici semplici). L'uno e l'altro aspetto sono criticati molto bene dalla frase del Milizia che ho riportato (Derivare la distribuzione architettonica dalle celle delle api è un andare a caccia d'insetti). Quindi benché tutte queste espressioni possiedano una indubbia capacità espressiva poetica, e come tali possono essere oggetto del nostro interesse, esse non hanno nulla a che fare con una teoria dei fatti urbani, sono anzi veicoli di confusione, e quindi conviene lasciarle cadere del tutto. Si è detto che i fatti urbani sono complessi; dire questo equivale a dire che hanno dei componenti e che ogni componente avrà un valore diverso. (Così come parlando dell'elemento tipologico abbiamo detto che esso "gioca un suo proprio ruolo nel modello"; in altri termini anche la costante tipologica è un componente). Si potrebbe pretendere che io dia subito una lettura della città in base alla teoria dei fatti urbani e quindi alla loro struttura ma è necessario pervenire alla precisione nei modi possibili e via via che si va avanti. Si potrebbe anche chiedere in che modo concreto siano complessi i fatti urbani. In parte ho risposto a questa domanda nelle pagine precedenti analizzando la teoria dello Chabot e del Poète. Del primo quando si arresta davanti alla constatazione dell'"me de la cité", del secondo rilevando l'importanza di concetti come la permanenza; si dovrà concordare che queste affermazioni sono oltre il funzionalismo ingenuo e si avvicinano alla qualità dei fatti urbani.

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D'altra parte di questa qualità non ci si è dati molto pensiero; essa emerge a tratti solo nelle ricerche storiche. Qui si è anche fatto un deciso passo in avanti raccogliendo e sostenendo l'affermazione che la natura dei fatti urbani sia abbastanza simile a quella dell'opera d'arte e soprattutto che nel carattere collettivo dei fatti urbani vi sia l'elemento principale per la loro comprensione. Credo, in base a tutto questo, di essere in grado di delineare un tipo di lettura della struttura urbana, ma prima di far questo è necessario porci due domande di carattere generale. a) Da che punto di vista è possibile compiere una lettura della città e quanti modi vi sono per coglierne la struttura. Se è possibile dire e cosa significa dire che questa lettura è di tipo interdisciplinare e se qualche disciplina ha carattere di emergenza rispetto ad altre. Come si vede si tratta di un gruppo di questioni tra loro collegate. b) Quali sono le possibilità di autonomia di una scienza urbana. Delle due questioni la seconda è senz'altro decisiva. Infatti se esiste una scienza urbana il primo gruppo di questioni finisce per aver poco senso; quello che oggi in questo genere di studi sentiamo spesso definire come interdisciplinarietà non sarà altro, come non lo è, che un problema di specializzazione, come avviene in qualsiasi campo del sapere relativamente a un oggetto specifico. Ora per rispondere positivamente alla seconda domanda bisogna ammettere che la città si costruisca nella sua totalità, cioè che tutti i suoi componenti partecipino alla costituzione di un fatto. In altri termini, generalissimi, si può dire che la città è il progresso della ragione umana (in quanto cosa umana per eccellenza) e questa frase ha un senso solo allorquando illuminiamo la questione fondamentale e cioè che la città e ogni fatto urbano sono per loro natura collettivi. Spesso volte mi sono chiesto perché solo gli storici ci danno un quadro completo della città: credo di poter rispondere che questo avviene perché gli storici si occupano del fatto urbano nella sua totalità. Una qualsiasi storia civica fatta da una persona di buona cultura e diligente nella raccolta dei dati ci sottopone dei fatti urbani in maniera soddisfacente. Io so che dopo il tale incendio la città di Londra pensò a quelle tali opere, e come nacque l'idea di queste opere e come alcune furono accettate, altre respinte. E così via.

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La teoria della permanenza e i monumenti. Ma è evidente che pensare alla scienza urbana come a una scienza storica è errato; perché in questo caso dovremmo parlare solamente di storia urbana mentre quello che qui intendiamo dire è semplicemente questo: che la storia urbana sembra sempre più soddisfacente, anche dal punto di vista della struttura urbana, di ogni altra indagine o ricerca sulla città. Mi occuperò più avanti in modo particolare del contributo storico della scienza urbana esaminando dei contributi ai problemi della città che nascono da considerazioni storiche, ma poiché questo problema è della massima importanza sarà bene avanzare subito alcune considerazioni particolari. Queste considerazioni riguardano la teoria delle permanenze del Poète e del Lavedan; la teoria che ho esposto nelle pagine precedenti. Vedremo inoltre che la teoria delle permanenze è in parte legata all'ipotesi, che ho avanzato all'inizio, della città come manufatto. Per queste considerazioni dovremo inoltre tenere presente che la differenza tra passato e futuro, dal punto di vista della teoria della conoscenza, consiste proprio nel fatto che il passato è in parte sperimentato adesso, e che, dal punto di vista della scienza urbana, può essere questo il significato da dare alle permanenze; esse sono un passato che sperimentiamo ancora. Su questo punto la teoria del Poète non è altrettanto esplicita. Cercherò di esporla nuovamente in poche righe. Benché si tratti di una teoria costruita su molte ipotesi, tra cui ipotesi economiche relative all'evoluzione della città, essa è in sostanza una teoria storica ed è centrata intorno al fenomeno delle persistenze. Le persistenze sono rilevabili attraverso i monumenti, i segni fisici del passato, ma anche attraverso la persistenza dei tracciati e del piano. Quest'ultimo punto è la scoperta più importante del Poète; le città permangono sui loro assi di sviluppo, mantengono la posizione dei loro tracciati, crescono secondo la direzione e con il significato di fatti più antichi, spesso remoti, di quelli attuali. A volte questi fatti permangono essi stessi, sono dotati di una vitalità continua, a volte si spengono; resta allora la permanenza della forma, dei segni fisici, del "locus". La permanenza più significante è data quindi dalle strade e dal piano; il piano permane sotto elevazioni diverse, si differenzia nelle attribuzioni, spesso si deforma, ma in sostanza non si sposta. Questa è la parte più valida della teoria del Poète; essa nasce essenzialmente dallo studio della storia anche se non possiamo definirla completamente come una teoria storica. A prima vista può sembrare che le permanenze assorbano tutta la continuità dei fatti urbani ma in sostanza non è così, perché nella città non tutto permane, o permane con modalità tanto diverse da non essere spesso raffrontabili.

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Infatti in questo senso il metodo delle permanenze, per spiegare un fatto urbano, è obbligato a considerarlo al di fuori delle azioni presenti che lo modificano; esso è in sostanza un metodo isolatore. Il metodo storico finisce così non già per individuare le permanenze ma per essere costituito sempre e solo dalle permanenze, perché solo esse possono mostrare ciò che la città è stata, per tutto quello in cui il suo passato differisce dal presente. Quindi le permanenze possono divenire, rispetto allo stato delle città, dei fatti isolanti e aberranti; esse non possono caratterizzare un sistema se non sotto la forma di un passato che sperimentiamo ancora. Intorno a questo punto il problema delle permanenze presenta due fronti; da un lato gli elementi permanenti possono essere considerati alla stregua di elementi patologici, dall'altro come elementi propulsori. O noi ci serviamo di questi fatti per cercare di comprendere la città nella sua totalità o finiamo per restare legati a una serie di fatti che non potremo collegare oltre con un sistema urbano. Mi rendo conto che non ho reso in modo abbastanza evidente la distinzione esistente tra gli elementi permanenti in modo vitale e quelli da considerarsi come elementi patologici. Cercherò di avanzare ancora qualche osservazione anche se in modo non sistematico; nelle prime pagine di questo studio ho parlato del Palazzo della Ragione di Padova e ne ho rilevato il carattere permanente; qui la permanenza non significa solo che in questo monumento voi sperimentate ancora la forma del passato, che la forma fisica del passato ha assunto funzioni diverse e ha continuato a funzionare condizionando quell'intorno urbano e costituendone tuttora un fuoco importante. In parte questo edificio è ancora usato; e pur essendo tutti convinti che si tratti di un'opera d'arte si ritiene anche pacifico che a pianoterra esso funzioni pressappoco come un mercato al dettaglio. E questo prova la sua vitalità. Prendete l'Alhambra di Granada: esso non ospita più né i re mori né i re castigliani eppure, se accettassimo le classificazioni funzionaliste, dovremmo dichiarare che esso costituisce la maggior funzione urbana di Granada. E' evidente che a Granada noi sperimentiamo la forma del passato in un modo del tutto diverso da quanto possiamo fare a Padova. (O se non del tutto almeno in gran parte). Nel primo caso la forma del passato ha assunto una funzione diversa ma è intimamente nella città, si è modificata e ci vien fatto di pensare che potrebbe modificarsi ancora, nel secondo essa sta per così dire isolata nella città, niente gli può essere aggiunto, essa costituisce un'esperienza talmente essenziale da non potersi modificare (si veda in questo senso il sostanziale fallimento del palazzo di Carlo Quinto che potrebbe essere tranquillamente distrutto); ma nei due casi questi fatti urbani sono una parte insopprimibile della città perché essi "costituiscono" la città.

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Nello svolgere questo esempio io ho avanzato degli argomenti che avvicinano ancora e stranamente un fatto urbano persistente con un monumento; avrei potuto infatti parlare di Palazzo Ducale a Venezia, o del Teatro di Nmes, o della Mezquita di Córdoba e l'argomento non cambiava. Sono infatti propenso a credere che i fatti urbani persistenti si identifichino con i monumenti; e che i monumenti siano persistenti nella città ed effettivamente persistano anche fisicamente. (Tranne, tutto sommato, dei casi abbastanza particolari). Questa persistenza e permanenza è data dal loro valore costitutivo; dalla storia e dall'arte, dall'essere e dalla memoria. Esporrò più avanti e continuamente nel corso di quest'opera, come ho già fatto, diverse considerazioni sui monumenti. Qui possiamo infine constatare la differenza della permanenza storica in quanto forma di un passato che sperimentiamo ancora e la permanenza come elemento patologico, come qualcosa di isolato e di aberrante. Questa ultima forma è costituita in gran parte e largamente dall' "ambiente": quando l'ambiente è concepito come il permanere di una funzione in se stessa ormai isolata dalla struttura, anacronistica rispetto all'evoluzione tecnica e sociale. E' noto che generalmente quando si parla di ambiente ci si riferisce a un insieme prevalentemente residenziale. In questo senso la conservazione dell'ambiente va contro il reale processo dinamico della città; le conservazioni cosiddette ambientali stanno ai valori della città nel tempo come il corpo imbalsamato di un santo sta alla immagine della sua personalità storica. Vi è nelle conservazioni ambientali una sorta di naturalismo urbano; ammetto che esso possa dar luogo a immagini suggestive e che ad esempio la visita di una città morta (ammesso che questo possa avvenire in certe dimensioni) possa essere un'esperienza unica, ma siamo qui del tutto al di fuori di un passato che sperimentiamo ancora. Sono anche disposto ad ammettere che il riconoscere solo ai monumenti una effettiva intenzionalità estetica tanto da porli come elementi fissi della struttura urbana, possa essere una semplificazione; è indubbio che proprio ammettendo l'ipotesi della città come manufatto e come opera d'arte nella sua totalità, si possa trovare uguale legittimità di espressione in una casa d'abitazione, o comunque in un'opera minore, che in un monumento. Ma questioni di questo tipo ci porterebbero troppo lontano; io qui intendo solo affermare che il processo dinamico della città tende più all'evoluzione che alla conservazione e che nell'evoluzione i monumenti si conservano e rappresentano dei fatti propulsori dello sviluppo stesso. E questo è un fatto verificabile, lo si voglia o no. Mi riferisco naturalmente alle città normali che hanno un arco ininterrotto di sviluppo; i problemi delle città morte riguardano solo tangenzialmente la scienza urbana, esse riguardano piuttosto lo storico e l'archeologo.

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Ritengo però almeno astratto voler ridurre o considerare i fatti urbani come fatti archeologici. Inoltre ho già cercato di dimostrare come la funzione sia insufficiente a definire la continuità dei fatti urbani e se l'origine della costituzione tipologica dei fatti urbani è semplicemente la funzione non si spiega nessun fenomeno di sopravvivenza; una funzione è sempre caratterizzata nel tempo e nella società, ciò che da essa dipende strettamente non può che essere legato al suo svolgimento. Un fatto urbano determinato da una funzione soltanto non è fruibile oltre l'esplicazione di quella funzione. In realtà noi continuiamo a fruire di elementi la cui funzione è andata da tempo perduta; il valore di questi fatti risiede quindi unicamente nella loro forma. La loro forma è intimamente partecipe della forma generale della città, ne è per così dire una invariante; spesso questi fatti sono strettamente legati agli elementi costitutivi, ai fondamenti della città, ed essi si ritrovano nei monumenti. Basta introdurre gli elementi principali emergenti da queste questioni per vedere l'estrema importanza del parametro del tempo nello studio dei fatti urbani; il pensare a un qualsiasi fatto urbano come a qualcosa di definito nel tempo costituisce una delle più gravi approssimazioni che è possibile fare nel campo dei nostri studi. La forma della città è sempre la forma di un tempo della città; ed esistono molti tempi nella forma della città. Nel corso stesso della vita di un uomo la città muta volto attorno a lui, i riferimenti non sono gli stessi; Baudelaire ha scritto: Le vieux Paris n'est plus (la forme d'une ville/change plus vite, hélas! que le coeur d'un mortel) (22). Guardiamo come incredibilmente vecchie le case della nostra infanzia; e la città che muta cancella spesso i nostri ricordi. Le considerazioni fin qui avanzate ci permettono di tentare un tipo di lettura della città. Vediamo la città come un'architettura di cui rileviamo componenti diverse; esse sono principalmente la residenza e gli elementari primari. E' questa l'impostazione che svilupperò nelle pagine seguenti partendo dal concetto di area-studio. Ammettiamo che la residenza costituisca la parte maggiore della superficie urbana e che presentando essa raramente caratteri di permanenza vada studiata nella sua evoluzione assieme all'area su cui si trova; parlerò così anche di area-residenza. Riconosciamo invece agli elementi primari un carattere decisivo nella formazione e nella costituzione della città; questo carattere decisivo è rilevabile anche e spesso dal loro carattere permanente. Tra gli elementi primari giocano un ruolo particolare i monumenti. Cercheremo in seguito di vedere che parte abbiano effettivamente questi elementi primari nella struttura dei fatti urbani e per quali motivi i fatti urbani

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possano venir considerati come opera d'arte, o almeno come la struttura generale della città sia simile a un'opera d'arte. L'analisi che abbiamo compiuto precedentemente di alcuni autori e di alcuni fatti urbani ci ha condotto a riconoscere questa costituzione generale della città e i motivi della sua architettura. Non vi è nulla di nuovo in tutto questo; e mi sono valso dei contributi più diversi per procedere alla formazione di una teoria dei fatti urbani che sia aderente alla realtà. Per questo considero alcuni dei temi qui discussi, come quelli della funzione, della permanenza, della classificazione e della tipologia, particolarmente significativi. So che tutti questi temi meriterebbero uno sviluppo particolare; ma qui mi preme delineare soprattutto lo schema dell'architettura della città e affrontare alcuni problemi della sua costituzione totale. NOTE. Nota 1. Nella introduzione al suo più bel libro Mumford ha espresso tutto questo raccogliendo i termini più complessi e stimolanti degli studi sulla città. In particolare tutta quella letteratura anglosassone (e non escluso l'estetismo vittoriano) che egli ha sviluppato. Riporto il brano dalla traduzione italiana: La città è un fatto naturale come una grotta, un nido, un formicaio. Ma è pure una cosciente opera d'arte, e racchiude nella sua struttura collettiva molte forme d'arte più semplici e più individuali. Il pensiero prende forma nella città; e a loro volta le forme urbane condizionano il pensiero. Perché lo spazio non meno del tempo, è riorganizzato ingegnosamente nelle città; nelle linee e contorni di cinte, nello stabilire piani orizzontali e sommità verticali, nell'utilizzare o contrastare la conformazione naturale[...]. La città è contemporaneamente uno strumento materiale di vita collettiva e un simbolo di quella comunanza di scopi e di consensi che nasce in circostanze così favorevoli. Col linguaggio essa rimane forse la maggiore opera d'arte dell'uomo. LEWIS MUMFORD, "The culture of cities", New York 1938, ed. ital. Milano 1954. La città come opera d'arte diventa spesso il contenuto e l'esperienza insostituibile nell'opera di molti artisti: spesso il loro nome è legato a una città. Come esempio di particolare importanza per una ricerca dei rapporti tra la città e l'opera letteraria e per la stessa città come opera d'arte si veda il discorso di Thomas Mann su Lubecca. THOMAS MANN, "Lbeck als geistige Lebensform", in "Zwei Festreden", Leipzig 1945. La complessità dell'analisi della struttura urbana compare già in forma moderna nel giornale di viaggio di Montaigne e si sviluppa negli studiosi, viaggiatori, artisti del periodo dell'Illuminismo. MICHEL EYQUEM DE MONTAIGNE, "Journal de voyage en Italie par la Suisse et l'Allemagne en 1580 et 1581", Paris 1774. Nota 2. CLAUDE LEVI-STRAUSS<, "Tristes Tropiques", Paris 1955. La ville... la chose humaine par excellence. L'A. introduce le prime considerazioni sulla qualità dello spazio e sui caratteri misteriosi dell'evoluzione della città. Nella condotta dei singoli individui tutto è razionale ma non per questo non è riscontrabile nella città un momento incosciente; per questo la città nel rapporto individuo collettività offre uno strano contrasto.

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Pag. 122: ...Ce n'est donc pas de faon métaphorique qu'on a le droit de comparer - comme on l'a si souvent fait - une ville à un simphonie ou à un poème; ce sont des objets de mme nature. Plus précieuse peuttre encore, la ville se situe au confluent de la nature et de l'artifice. Nelle considerazioni dell'A. sull'argomento riconfluiscono gli studi di natura ecologica, i rapporti tra l'uomo e l'ambiente e tra l'uomo e la conformazione dell'ambiente. Comprendere la città in modo concreto significa cogliere l'individualità degli abitanti; individualità che è la base dei monumenti stessi. Comprendre une ville, c'est, par delà ses monuments, par delà l'histoire inscrite dans ses pierres, retrouver la manière d'tre particulière de ses habitants. Nota 3. CARLO CATTANEO, "Agricoltura e morale", in Atti della Società d'incoraggiamento d'arti e mestieri, Milano 1845. In queste pagine l'A. dà il quadro completo della sua concezione dei fatti naturali in un'analisi dove linguistica, economia, storia, geografia, diritto, geologia, sociologia, politica concorrono nella individuazione della struttura dei fatti. Oltre l'eredità illuministica il suo positivismo prende luce di fronte ai singoli problemi. La lingua tedesca chiama con una medesima voce l'arte di edificare e l'arte di coltivare; il nome dell'agricoltura ("Ackerbau") non suona coltivazione ma costruzione; il colono è un edificatore ("Bauer"). Quando le ignare tribù germaniche videro all'ombra dell'aquile romane edificarsi i ponti, le vie, le mura, e con poco dissimile fatica tramutarsi in vigneti le vergini riviere del Reno e della Mosella, esse abbracciarono tutte quelle opere con un solo nome. Sì, un popolo deve "edificare i suoi campi come le sue città (pag. 4). I ponti, le vie, le mura sono l'inizio di una trasformazione; questa trasformazione conforma l'ambiente dell'uomo e diventa essa stessa storia. La chiarezza di questa impostazione fa del Cattaneo uno dei primi urbanisti in senso moderno quando si applica ai problemi del territorio; si veda il suo intervento per i problemi che sorgevano dai nuovi tracciati ferroviari. Così Gabriele Rosa nella sua biografia di Carlo Cattaneo: Si trattava di aprirvi l'arteria tra Milano e Venezia. I matematici rigidamente studiavano la questione geografica, prescindendo dalla popolazione, dalla storia, dall'economia topica, elementi ribelli alle linee matematiche. Ci voleva la mente profonda e versatile di Cattaneo a recare limpida luce in questa nuova e grave questione[...]. Egli cercò quale linea promettesse maggiore ampiezza di lucro privato e di utilità pubblica. Disse che l'opera non doveva sacrificarsi alla tirannide del terreno; che lo scopo non era tanto di passare veloce quanto di rendere lucrosa la velocità; che l'andirivieni è maggiore a piccole distanze; che la massima corrente doveva essere sulla linea collegante i centri tenaci e antichissimi, e che in Italia chi prescinde dall'amore delle patrie particolari seminerà sempre sull'arena. Nota 4. Per la città come manufatto si veda: OSKAR HANDLIN, JOHN BURCHARD (a cura di), "The Historian and the City", Cambridge (Mass.) 1963. Nel saggio di JOHN SUMMERSON, "Urban Forms", si parla di "the city as an artifact" (pag. 166), e in quello di ANTHONY N.B. GARVAN, "Proprietary Philadelphia as an artifact", dopo aver illuminato il termine dal punto di vista archeologico e antropologico si sostiene che: If, therefore, the term can be applied to an urban complex at all, it should be applied in such a way as to seek all those aspects of the city and its life for wich the material structure, buildings, streets, monuments were properly the tool or artifact (pag. 178). In questo senso il Cattaneo parla della città come cosa fisica, come costruzione del lavoro umano: La fatica costrusse le case, gli argini, i canali, le vie, vedi nota 3. Nota 5. CAMILLO SITTE, "Der Stdtebau nach seinen knsterlischen Grundstzen", Wien 1889, ed. ital. Milano 1953, con premessa di Luigi Dodi.

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Interessante è la biografia culturale del Sitte che è essenzialmente quella di un tecnico; studiò al Politecnico di Vienna e fondò nel 1875 la Staatsgewerbeschule di Salisburgo e successivamente quella di Vienna. Nota 6. JEAN-NICOLAS-LOUIS-DURAND, "Précis des leons d'architecture données à l'Ecole Polytechnique", Paris 1802-1805. Nota 7. ANTOINE CHRYSOSTOME QUATREMERE DE QUINCY, "Dictionnaire historique d'Architecture", Paris 1832. La definizione del Quatremère è stata ripresa recentemente da G.C. Argan e svolta con particolare interesse. GIULIO CARLO ARGAN, "Sul concetto di tipologia architettonica", ripreso in "Progetto e destino, Milano 1965. Per il problema si veda: LOUIS HAUTECOEUR, "Histoire de l'architecture classique en France", tome V, Paris 1953. Pag. 122: Comme l'a rappelé Schneider, Quatremère professait que il y a "correlation entre les dimensions et les formes et les impressions qua notre esprit en reoit" (R. SCHNEIDER, "Quatremere de Quincy", cit. in Hautecoeur). Nota 8. Tra i nuovi aspetti della ricerca compiuta dagli architetti sui problemi tipologici sono particolarmente interessanti le lezioni tenute da Carlo Aymonino all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. CARLO AYMONINO, "La formazione del concetto di tipologia edilizia, in AA.VV., "La formazione del concetto di tipologia edilizia. Atti del corso di caratteri distributivi degli edifici. Anno accademico 19641965", Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Venezia 1965. Possiamo quindi tentare di individuare alcuni "caratteri" delle tipologie edilizie che ci consentano di precisarle meglio: a) la unicità del tema, anche se suddiviso in una o più attività, da cui derivare una notevole elementarità (o semplicità) dell'organismo; ciò vale anche per i casi più complessi; b) l'indifferenza nell'impostazione teorica - all'intorno, cioè a una precisa collocazione urbana (da cui deriva una notevole intercambiabilità di questa?) e la costituzione di un rapporto solo con la propria planimetria, come un unico confine fruibile (rapporto incompleto); c) il superamento dei regolamenti edilizi in quanto il tipo è individuato proprio attraverso una sua forma architettonica. Il tipo è infatti condizionato anche dai regolamenti (igienici, di sicurezza, ecc.) ma non solo da essi (pag. 9). Nota 9. BRONISLAW MALINOWSKI, "A Scientific Theory of Culture and other Essays", Chapel Hill 1944, ed. ital. Milano 1962. Funzionalismo in geografia. Il concetto di funzione è stato introdotto da Ratzel nel 1891 e, improntato alla fisiologia, assimila la città a un organo; le funzioni della città sono quelle che giustificano la sua esistenza e il suo sviluppo. Studi più recenti distinguono tra funzioni legate alla centralità e alla relazione con la regione ("Allgemeine Funktionen") da funzioni particolari ("Besondere Funktionen"). In questi ultimi studi la funzione ha un maggiore riferimento spaziale. Per l'uso di questo termine in rapporto all'ecologia vedi nota 20. Già nel suo sorgere, il funzionalismo in geografia, si trovava in serie difficoltà nel classificare la funzione commerciale che acquistava naturalmente il predominio. Ratzel nella "Antropogeographie definiva la città come ...eine dauernde Verdichtung von Menschen und menschlichen Wohnsttten die einen ansehnlichen Bodenraum bedeckt und im Mittelpunkt grosseren Verkehrswege liegt. Anche Wagner insiste sulla città come punto di concentrazione del commercio ("Handel und Verkehr"). FRIEDRICH RATZEL, "Antropogeographie", Stuttgart 1882 (vol. I) e 1891 (vol. Il).

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Per un riassunto delle tesi dei geografi tedeschi al riguardo si veda: "Allgemeine Geographie", Frankfurt am Main 1959, in particolare la voce: Siedlungsgeographie; si veda infine: JACQUELINE BEAUJEUGARNIER, GEORGES CHABOT, "Traité de géographie urbaine", Paris 1963; JOHN HAROLD GEORGE LEBON, "An Introduction to Human Geography", London 1952. Nota 10. GEORGES CHABOT, "Les villes", Paris 1948. Lo Chabot classifica le funzioni principali della città in: militari, commerciali, industriali, terapeutiche, intellettuali e religiose, amministrative. Infine egli ammette che nella città le varie funzioni si confondano l'una con l'altra finendo così per acquistare il valore di un fatto iniziale; si tratterebbe quindi di funzioni elementari e originarie piuttosto che di fatti permanenti. Nel sistema dello Chabot la funzione è un momento, insieme al piano, della vita urbana. La sua concezione è quindi più ricca e articolata. Nota 11. JEAN TRICART, "Cours de geographie humaine", vol. I: "L'habitat rural", vol. Il: "L'habitat urbain", Paris 1963, avverte che: Comme toute étude de faits en eux-mmes, la morphologie urbaine suppose une covergence des données habituellement recueillies par des disciplines différentes; urbaine, sociologie, histoire, économie politique, droit mme. Il nous suffit que cette convergence ait pour but l'analyse et l'explication d'un fait concret, d'un paysage pour affirmer qu'elle a sa place dans le cadre géographique (pag. 4). Nota 12. RICHARD U. RATCLIFF, "The Dynamics of Efficiency in the Locational Distribution of Urban Activities", in AA.VV., "Readings in Urban Geography", Chicago 1960, pag. 299. Nota 13. MARCEL POETE, "Introduction à l'Urbanisme, l'évolution des villes, la leon de l'antiquité", Paris 1929, ed. ital. Torino 1958. Per l'influenza esercitata dal Poète sugli studi urbani si vedano le annate della rivista La vie urbaine edita a Parigi e diretta da Lavedan. La rivista ha pubblicato studi e ricerche sulla città, di carattere prevalentemente storico, di notevole livello. L'opera monumentale del Poète, forse ineguagliata negli studi complessivi sulla città, è: M.P., "Une vie de cité. Paris de sa naissance à nos jours", Paris 1924-31. Gli studi su Parigi sono condensati in: M.P., "Commente s'est formé Paris", Paris 1925. Il Mumford ha definito questo libro un libro minimo ricco del sapere di un'intera vita. Nota 14. Beaucoup de citoyens ont construit des édificies magnifiques, mais plus recherchés pour l'intérieur que recommandables par des dehors dans le grand got, et qui satisfont le luxe des particuliers encore plus qu'ils n'embellisent la ville. VOLTAIRE, "Le Siècle de Louis Quatorze", 1768, ora in "Oeuvres complètes de V.", tome IV, Paris 1827. JEAN MARIETTE, "L'architecture franaise, 1727", a cura e con prefazione di Louis Hautecoeur, Paris-Bruxelles 1927. ANTHONY BLUNT, "Franois Mansart and the Origins of French Classical Architecture", London, 1941. Nota 15. FRANCESCO MILIZIA, "Principj di Architettura Civile", edizione critica curata da Giovanni Antolini, Milano 1832. Nota 16. Ivi, pag. 663. Nota 17. Ivi, pag. 420. Nota 18. Ivi, pag. 235. Nota 19.

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Ivi, pag. 236. Nota 20. Una trattazione di questo problema dovrebbe affrontare il grande tema dell'ecologia che si sviluppa dalle opere classiche di Humboldt, Grisebach e Warming fino al dibattito moderno. ALEXANDRE DE HUMBOLDT, "Essai sur la géographie des plantes", Paris 1805. AUGUST GRISEBACH, "Die Vegetation der Erde", Leipzig 1872. EUGENIUS WARMING, "Ecology of Plants", Oxford 1909. Il punto di partenza è nel riconoscimento delle forme di crescita ("growthforms") della specie; e nello sforzo di condurre in primo piano il riconoscimento dei fattori esterni (ambiente fisico) senza dimenticare l'azione reciproca degli esseri viventi compreso l'uomo. Per un'ampia bibliografia al riguardo si veda l'opera del Brunhes. JEAN BRUNHES, "La géographie humaine", Paris 1910. E' evidente il fascino di questi studi per la scienza urbana. Il termine "ecologia umana" risale a Park (1921). AMOS H. HAWLEY, "Human Ecology; A Theory of Community Structure", New York 1950; vedi anche cap. IlI, e nota 9 di questo capitolo. Nota 21. Interessante ma poco fondato su uno studio della città come fatto concreto il saggio di Souriau. ETIENNE SOURIAU, "Contribution à la physiologie des cités. Le végétal ville ou rythme et raison", in AA.VV., "Urbanisme et architecture", Paris 1954. Nota 22. CHARLES BAUDELAIRE, "Tableaux Parisiens, LXXXIX, Le Cygne", in "Les fleurs du mal", Paris 1861. Baudelaire è uno dei letterati le cui intuizioni critiche sulla architettura e la città sono tra le più sorprendenti.

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CAPITOLO SECONDO. GLI ELEMENTI PRIMARI E L'AREA. L'area studio. Nel capitolo precedente nello svolgere l'ipotesi della città come manufatto, come architettura totale, si sono avanzate e sostenute tre distinte proposizioni. La prima di queste proposizioni sostiene che lo sviluppo urbano è correlato in senso temporale, cioè che nella città vi sia un prima e un dopo; questo significa riconoscere e dimostrare che lungo la coordinata temporale noi stiamo connettendo fenomeni che sono strettamente comparabili e che sono per loro natura omogenei. Da questa proposizione si è ricavata l'analisi degli elementi permanenti. La seconda proposizione riguarda la continuità spaziale della città; accettare questa continuità significa accettare come fatti di natura omogenea tutti quegli elementi che riscontriamo su un certo territorio, o meglio in un certo intorno urbanizzato, senza supporre che vi sia rottura tra l'un fatto e l'altro. Questa proposizione può essere molto controversa e dovremo tornare spesso sulle implicazioni che essa presenta. (Per esempio essa non è accettata quando si sostiene che tra la città storica e la città quale si conforma dopo la rivoluzione industriale vi è un salto qualitativo; e ancora quando si parla di città aperta e città chiusa come fatti di natura diversa ecc.). Infine come terza e ultima proposizione dobbiamo ammettere che all'interno della struttura urbana vi siano alcuni elementi di natura particolare che hanno il potere di ritardare o accelerare il processo urbano e che siano per loro natura assai rilevanti. Mi occuperò ora in modo più specifico del luogo in cui si manifestano i fatti urbani; cioè dell'area in cui è possibile rilevarli, del suolo urbano che è un dato naturale ma anche un'opera civile ed è parte sostanziale dell'architettura della città. Quest'area possiamo vederla nel suo insieme, e allora costituisce la proiezione della forma della città su un piano orizzontale, o per singole parti. I geografi chiamano questo il sito ("site") cioè l'area su cui sorge una città; la superficie che essa realmente occupa. Essa dal punto di vista geografico è essenziale per la descrizione di una città e, insieme alla localizzazione e alla ubicazione, è un importante elemento per classificare città diverse. Introdurrò il concetto di area-studio. Poiché noi supponiamo che esista una interrelazione tra qualsiasi elemento urbano e un fatto urbano di natura più complessa, fino alla città in cui essi si manifestano, dobbiamo chiarire a quale intorno urbano ci riferiamo. Questo intorno urbano minimo è costituito dall'area-studio; con questo termine intendo designare una porzione dell'area urbana che può essere definita o descritta ricorrendo ad altri elementi dell'area urbana presa nel suo complesso, per esempio al sistema viario.

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L'area-studio può quindi considerarsi un'astrazione rispetto allo spazio della città; essa serve per meglio definire un certo fenomeno. Ad esempio per comprendere le caratteristiche di un certo lotto e la sua influenza su un tipo d'abitazione sarà necessario esaminare i lotti confinanti, quelli costituenti appunto un certo intorno, per vedere se tale forma è del tutto abnorme oppure se essa nasce da condizioni più generali della città. Ma l'area-studio può essere un'area definita da caratteristiche storiche; essa coincide con un preciso fatto urbano. Il considerarla in sé significa riconoscere a questa parte di un più vasto insieme urbano delle caratteristiche precise, una qualità diversa. Questa qualità dei fatti urbani è di estrema importanza; il riconoscere delle differenti qualità ci avvicina alla conoscenza della struttura dei fatti urbani. Cercherò poi di illustrare altre definizioni dell'area-studio; ad esempio le relazioni tra il concetto spaziale di area-studio e quello sociologico di "natural area". Considerazioni di questo tipo potranno servire per introdurre il concetto di quartiere. In altri casi l'areastudio può considerarsi come un "recinto o una sezione verticale della città. Resta comunque che in ogni caso dovremo sempre definire i limiti dell'intorno urbano di cui ci occupiamo; sarà questa la miglior garanzia per non accettare le distorsioni più gravi che sono diffuse nel dominio dei nostri studi e che considerano la crescita della città, e il divenire dei fatti urbani, come un processo continuo e naturale dove scompaiono le vere differenze dei fatti. In realtà la struttura dei fatti urbani fa sì che le città siano distinte nel tempo e nello spazio "per genus et differentiam". Ogni cambiamento di un fatto urbano presuppone un salto qualitativo. Poiché mi rendo conto che gli argomenti recati a sostegno della natura di questa relazione non sono decisivi, non cercherò di proporre rapidamente qualche soluzione ma piuttosto di insistere su quelle distinzioni e quelle definizioni che spesso introduciamo occupandoci di argomenti di questo tipo. Tutto il presente lavoro è concepito secondo questo intento; si sosterrà qui che: a) fra questi due fatti, tipologia edilizia e morfologia urbana, esiste una relazione binaria e che il far luce su questa relazione possa portare a risultati interessanti; b) che questi risultati siano estremamente utili per la conoscenza della struttura dei fatti urbani la quale non si identifica con il rapporto di cui sopra ma è in buona parte chiarita dalla conoscenza di questo rapporto. Si è avanzata una prima definizione del concetto di area-studio. Essa intende definire a quale intorno urbano ci riferiamo. L'area-studio può considerarsi un'astrazione rispetto allo spazio della città; essa serve per meglio definire un certo fenomeno. Si dava quindi da una parte una definizione dell'area-studio come metodo di lavoro e una definizione dell'area-studio più complessa, intesa come elemento qualitativo specifico della città.

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Nel presente paragrafo e in tutto questo capitolo noi ci occuperemo della natura particolare di alcuni fatti urbani, anche se ci limiteremo in parte alla loro descrizione. L'importanza a priori che attribuisco qui all'area-studio può essere compresa tra queste due affermazioni: a) dal punto di vista dell'intervento credo si debba oggi operare su un pezzo di città definito senza voler precludere in nome di una astratta pianificazione dello sviluppo della città, possibilità di esperienze anche totalmente diverse. Un pezzo di città offre maggiori criteri di concretezza dal punto di vista della conoscenza e dal punto di vista della programmazione (intervento). b) La città non è per sua natura una creazione che può essere ricondotta a una sola idea base. Questo è vero per la metropoli moderna ma è altresì vero per il concetto stesso di città che è la somma di molte parti, quartieri e distretti che sono molto diversi e differenziati nelle loro caratteristiche formali e sociologiche. E' proprio questa differenziazione che costituisce uno dei caratteri tipici della città; voler costringere queste diverse zone in un unico principio di spiegazione non ha senso e così volerle costringere in un'unica legge formale. La città nella sua vastità e nella sua bellezza è una creazione nata da numerosi e diversi momenti di formazione; l'unità di questi momenti è l'unità urbana nel suo complesso, la possibilità di leggere la città con continuità risiede nel suo preminente carattere formale e spaziale (1). Credo che queste affermazioni servano a mettere in risalto che lo studio dell'area, intesa come parte costituente la città, interessa qui per l'analisi della forma della città in quanto elemento caratteristico e spesso decisivo della sua forma; esse non riguardano il senso comunitario dell'area e le implicazioni che le dottrine comunitarie hanno dato al quartiere. Esse almeno non riguardano direttamente questa questione, la cui natura è in gran parte sociologica, anche se ritengo necessario indicare questo aspetto della questione. Qui le aree sono sempre intese come unità dell'insieme urbano che sono emerse attraverso un'operazione di differenti processi di crescita e differenziazione oppure quei quartieri o parti della città che hanno acquistato caratteristiche proprie. La città viene vista come una grande opera, rilevabile nella forma e nello spazio, ma questa opera può essere colta attraverso i suoi brani, i suoi momenti diversi; è questa la rilevazione che noi possiamo compiere con sicurezza. L'unità di queste parti è data fondamentalmente dalla storia, dalla memoria che la città ha di se stessa. Ora queste aree, queste parti, risultano definite essenzialmente dalla loro localizzazione: esse sono la proiezione sul terreno dei fatti urbani, la loro commensurabilità topografica e la loro presenza. Queste aree originali possono venire individuate come unità dell'insieme urbano che sono emerse attraverso un'operazione di differenti momenti di crescita e

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differenziazione oppure quei quartieri o parti della città che hanno acquistato un carattere proprio. Infine possiamo arrivare a una estensione più generale e concettuale del problema definendolo come un concetto che comprende una serie di fattori spaziali e sociali che si producono come influssi determinanti sugli abitanti di un'area culturale e geografica sufficientemente circoscritta. Dal punto di vista della morfologia urbana la definizione è più semplice, comprendendo tutte quelle regioni urbane definite da caratteri di omogeneità fisica e sociale. (Anche se definire in cosa consista la omogeneità non è semplice soprattutto dal punto di vista formale; si potrebbe avanzare la definizione di omogeneità tipologica: cioè tutte quelle aree che presentano una costanza dei modi e dei tipi del vivere che si concreta in edifici simili. In questo senso l'omogeneità dei quartieri, delle "Siedlungen" ecc.). Ma lo studio di questi caratteri finisce per diventare specifico della morfologia sociale o della geografia sociale (in questo senso vedi la possibilità di definire l'omogeneità dal punto di vista sociologico) che analizza le attività dei gruppi sociali in quanto si manifestano durevolmente attraverso determinati caratteri territoriali. Lo studio dell'area diventa così il momento particolare dello studio della città e l'insieme di queste osservazioni dà luogo a una vera e propria ecologia urbana, condizione necessaria agli studi sulla città. I due tratti distintivi che vengono a configurarsi in questo rapporto sono così la massa e la densità che si manifestano attraverso la continuità dell'occupazione dello spazio sul piano orizzontale e su quello verticale. L'area come parte della città è una superficie relativa a una certa massa e densità ed è anche il momento di una tensione interna alla vita della città stessa; anche se in termini ecologici il rapporto è inscindibile la definizione possiede una grande capacità di apertura dei problemi.

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Area e quartiere. Il concetto di area svolto nelle pagine precedenti è strettamente collegato a quello di quartiere; ho introdotto problemi di questo tipo riassumendo la teoria di Tricart; penso che sarà più preciso riportarci al concetto di parte o pezzo di città ammettendo la città come sistema spaziale formato da più parti con delle loro caratteristiche. Una teoria di questo tipo è stata svolta in modo sufficiente dallo Schumacher; io penso che essa risponda abbastanza bene alla realtà. D'altro canto questa parte di città non è altro che una estensione dell'area-studio. Il quartiere diventa quindi un momento, un settore, della forma della città, intimamente legato alla sua evoluzione e alla sua natura, costituito per parti e a sua immagine. Di queste parti ne abbiamo un'esperienza concreta. Per la morfologia sociale il quartiere è una unità morfologica e strutturale; esso è caratterizzato da un certo paesaggio urbano, da un certo contenuto sociale e da una sua funzione; quindi un cambiamento di uno di questi elementi è sufficiente per fissare il limite del quartiere. Bisogna anche qui tenere presente che l'analisi del quartiere come un fatto sociale fondato sulla segregazione di classe o di razza, e sulle funzioni economiche o comunque sul ceto, corrisponde indubbiamente allo stesso processo di formazione della metropoli moderna; ed esso è tanto vero per l'antica Roma quanto per le grandi città di oggi. Ma qui si sostiene che questi quartieri non sono tanto subordinati uno all'altro ma sono delle parti relativamente autonome; i loro rapporti non sono spiegabili con una semplice funzione di dipendenza ma devono essere riportati all'intera struttura urbana. Sostenere che una parte di città costituisca un'altra città al suo interno significa contestare un altro aspetto della teoria funzionalista. Quest'altro aspetto è quello della zonizzazione. Io qui non intendo riferirmi alla zonizzazione in quanto pratica tecnica, che è qualcosa di accettabile e che ha un altro significato, ma alla teoria della zonizzazione così come è stata avanzata da Park e Burgess a proposito della città di Chicago; questa teoria offriva un modo di lettura della città apparentemente convincente anche se artificiale, tanto da avere un rapido quanto breve successo. Anche qui si era proceduto troppo rapidamente a un'estensione impropria di risultati in sé validi. Come era impostata questa teoria? L'enunciazione scientifica della teoria dello "zoning" è stata avanzata nel 1923 da Burgess (2) partendo dai suoi studi su Chicago; lo "zoning" viene definito come la tendenza della città a disporsi per quartieri concentrici attorno a un quartiere centrale degli affari o a un quartiere di tipo direzionale.

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Nella descrizione della città di Chicago Burgess indicava una serie di zone concentriche corrispondenti ognuna a delle funzioni ben definite: il centro degli affari che assorbe la vita commerciale, sociale, amministrativa e dei trasporti; la zona di transizione che circonda il centro e che è rappresentata da una specie di aureola di degradazione formata da residenze povere dove stanno i negri e gli immigrati recenti e dove si trovano piccole officine; la zona di residenza operaia dove stanno i lavoratori che desiderano vivere vicino alle loro fabbriche; la zona di residenza più ricca che comprende abitazioni individuali e case a più piani; e infine una zona esterna dove stanno gli immigrati quotidiani raggruppati attorno ai nodi delle strade che convergono verso la città. Tra le critiche fatte a questa teoria, che sembra schematica anche applicata alla stessa Chicago, ha avuto una certa fortuna quella di Hoyt che ha cercato di stabilire, pure in termini molto sintetici, un principio di crescita secondo certi assi di traffico, cioè secondo certe linee di trasporto; questo finisce per sovrapporre ai settori concentrici dei settori radiali a partire dal centro della città. Una teoria di questo tipo è tangente a quella dello Schumacher e soprattutto alle sue proposte per il piano di Amburgo. E' opportuno rilevare che se il termine di azzonamento compare sotto forma di teoria con Burgess, esso fa però la sua prima apparizione con gli studi di Baumeister nel 1870 ed entra come tale a far parte del regolamento prussiano per la città di Berlino nel 1925. Ma nel caso del regolamento di Berlino va inteso in un senso del tutto diverso; questo indica nella città cinque zone (residenziali, protette, commerciali, industriali, miste) ma la disposizione di queste zone non è intesa in senso radiocentrico. Anche se il centro degli affari corrisponde al centro storico vi è poi un alternarsi di zone industriali, residenziali e terreni liberi che contraddicono la enunciazione di Burgess (3). Si potrebbero analizzare altri studi e altre definizioni, in gran parte di geografi, più ricche e complesse, ma tutte troppo legate a situazioni particolari. Hugo Hassinger studiando Vienna descrive la città nel 1910 come costituita dalla "Altstadt", circondata dal "Ring", e dal "Grossstdtischer Vorstadtgrtel", cioè la parte ad altissima densità compresa tra il "Ring" e il "Grtel" (4). Al di fuori di queste zone che egli indica come quelle costituenti il "Grossstadtkern", il nucleo della città, egli parla del "Grossstdtischer Weichbild", cioè della zona costituita dalla città vera e propria e dalla campagna. (All'incirca ciò che gli studiosi americani hanno poi definito come frange urbane). Abbiamo indicato molto rapidamente queste teorie per renderci conto di come dall'inizio si sia cercato di leggere la posizione e i rapporti delle diverse parti della città. A queste teorie se ne sono aggiunte molte altre ma non è questa la sede per analizzarle. Non voglio nemmeno contestare la teoria di Burgess; questa contestazione è stata universalmente avanzata.

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Della teoria di Burgess mi premeva solo mettere in risalto come la debolezza fondamentale stia nel concepire le diverse parti della città come mere trascrizioni di una funzione e intendere questa in un modo tanto stretto da determinare tutta la città, come se non esistesse qualche altro fatto da tenere in considerazione. Questa concezione è limitata nel suo concepire la città come una serie di momenti semplicemente contrapposti che si risolvono in base a una semplice normativa basata sulla differenziazione; una concezione di questo tipo risulta troppo limitativa dei valori più profondi, della struttura dei fatti urbani; a questa concezione si oppone invece la possibilità di stabilire dei fatti urbani in tutta la loro interezza, capaci cioè di risolvere una parte di città in modo completo, determinando tutti i rapporti che si possono stabilire all'interno di un certo fatto. Svilupperò queste considerazioni occupandomi dell'architettura della città perché infine esse si occupano dei fondamenti e del volto della città. Dell'enunciazione di Baumeister ci possiamo invece servire come di un qualsiasi enunciato sulla città; che esistano zone specializzate è indubbio. Possiamo chiamare queste zone caratterizzate; esse hanno una fisionomia particolare, sono parti autonome. La loro disposizione nella città non dipende - o non solo - dalle diverse funzioni coordinate di cui la città abbisogna, essa dipende principalmente da tutto il processo storico della città, per cui essa è in quel modo e tende a essere in qualche modo preciso secondo la sua costituzione. Infine Hassinger, nonostante i rigidi piani e le lottizzazioni a scacchiera sovrapposte alla città, coglie una caratteristica di fondo che si mantiene fino ai giorni nostri e che è intimamente legata alla forma della città di Vienna; già qui non si tratta di una divisione meramente funzionale della città ma piuttosto di una definizione per parti e per forme, per caratteristiche; queste caratteristiche sono la sintesi di funzioni e di valori. Si potrà dire solo, in forma generale, che ogni città possiede un centro più o meno complesso, con caratteristiche diverse, e che questo ha nella vita urbana un ruolo particolare; le attività terziarie sono in parte concentrate in questo centro, in gran parte lungo gli assi di comunicazione esterni, in parte all'interno di grandi complessi residenziali. Ciò che caratterizza la città dal punto di vista generale dei rapporti tra zone è l'esistenza di una rete terziaria complessa e polinucleare. Ma questo centro e gli altri centri non possono essere studiati altro che come fatti urbani di natura primaria; solo conoscendone la struttura e la situazione potremo conoscere il loro ruolo particolare. Tutte queste considerazioni ci conducono quindi alla conferma della teoria che vede la città distinta in parti diverse e dal punto di vista formale e storico costituenti dei fatti urbani complessi; poiché in un quartiere è preminente la parte residenziale e questa con i suoi aspetti ambientali cambia notevolmente nel tempo caratterizzando l'area su cui insiste, piuttosto che le costruzioni, ho

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proposto di usare il termine di area-residenza. (Il termine di area, come si è visto, è sviluppato dalla letteratura sociologica). Le singole parti della città, concordemente con una teoria dei fatti urbani attenta alla struttura dei fatti stessi piuttosto che alla funzione, sono state distinte per caratteristiche; esse sono parti caratterizzate. Che i quartieri di una città fossero ben distinti gli uni dagli altri, con i loro centri, i loro monumenti e il loro modo di vita, nella città antica, è universalmente noto; ed è riscontrabile dalla storia urbana quanto dalla stessa realtà fisica dell'architettura. Queste caratteristiche non sono diverse nella città moderna e lo sono soprattutto nelle grandi città d'Europa sia là dove si è cercato di chiudere la città in un grande disegno unitario come a Parigi, sia in forma assolutamente emergente nella città che è tipicamente conformata da luoghi e situazioni diverse: Londra. Ma il fenomeno è poi del tutto preminente nelle città americane e attraverso le sue molte componenti emerge in primo piano tra i problemi urbani, spesso drammatici, di questo grande paese. Senza nemmeno sfiorare qui le componenti sociali del problema si indica soltanto nella formazione e nell'evoluzione della città americana una conferma della "città per parti". Lynch, analizzando il materiale delle sue ricerche, scrive: Molti intervistati sottolinearono con cura che Boston, benché sconcertante nel suo sistema di sentieri persino per chi vi abita da lungo tempo, trova un attributo di compenso nel numero e nella vividezza dei suoi differenziati quartieri. Nelle parole di uno dei soggetti: "Ogni parte di Boston è diversa dall'altra. Si può benissimo individuare l'area in cui ci si trova". [...] New York fu citata [...] perché possiede un certo numero di ben definiti quartieri caratteristici, situati in una ordinata cornice di fiumi e di strade (5). Sempre occupandosi del quartiere Lynch parla di aree di riferimento, con scarso contenuto percettivo, ma tuttavia utili come concetti organizzati e distingue tra quartieri introversi, rivolti in se stessi, con scarsi riferimenti alla città circostante e quartieri isolati che sorgono indipendenti dalla loro zona. Qui ho utilizzato il materiale raccolto dal Lynch per la tesi della città costituita da parti differenziate; indagini di questo tipo possono essere estremamente utili per la scienza urbana. Credo che, oltre le analisi condotte da Lynch dal punto di vista psicologico, si potrebbero condurre delle ricerche linguistiche che testimoniano gli strati più profondi della struttura del reale e quindi della realtà urbana. Si pensi alla espressione viennese di "Heimatbezirk", dove il quartiere si identifica con la patria e con lo spazio vitale. Giustamente Hellpach ha parlato della metropoli come della patria dell'uomo moderno. Lo "Heimatbezirk" esprime particolarmente bene la struttura morfologica e storica di Vienna, città in sé plurinazionale eppure probabilmente l'unico luogo concreto della concezione unitaria dello stato asburgico.

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A Milano la divisione delle parti esterne alle mura spagnole in borghi è riscontrabile solo a un attento studio storico-morfologico: ma un fenomeno di persistenza è rimasto vivo nella lingua, tanto che il principale di essi, corrispondente alla zona di San Gottardo, e la zona stessa, sono chiamati dai milanesi "el burg". Una ricerca linguistica del tipo qui accennato potrebbe dare interessanti risultati per lo studio della formazione della città, al pari delle ricerche condotte coi metodi della psicologia. Non intendo con questo riferirmi solo agli studi della toponomastica anche se questi ultimi offrono spesso un contributo importante per lo studio del divenire urbano; basti pensare come ogni città presenti esempi numerosi di profonde modificazioni fisiche del suolo che sono rimaste nei nomi delle vie e delle contrade. A Milano le vie Bottonuto, Poslaghetto e Pantano, insieme a San Giovanni in Conca, ricordano a un tempo una zona di palude e antichissime opere idrauliche. Lo stesso dicasi del quartiere del Marais a Parigi. Per quanto ci è dato di sapere queste ricerche confermeranno la costituzione della città per parti caratterizzate. Nei paragrafi successivi mi occuperò in modo più circostanziato dell'area-residenza e degli elementi primari. La residenza. Ripeto che l'assumere la residenza in sé non significa adottare un criterio funzionale di ripartizione dell'uso delle aree cittadine ma semplicemente trattare in modo particolare un fatto urbano che è di per sé preminente nella composizione della città. Ritengo inoltre che l'uso del termine area-residenza nel senso che è stato illustrato nelle pagine più sopra, possa riportare lo studio della residenza a una teoria generale dei fatti urbani. La città è sempre stata largamente caratterizzata dalla residenza. Si può dire che non esistono o non sono esistite città in cui non fosse presente l'aspetto residenziale; là dove questo aspetto aveva una funzione del tutto subalterna nella costituzione di un fatto urbano (il castello, l'accampamento militare) si arrivò ben presto a una modificazione a tutto vantaggio della residenza. Non si può affermare né mediante un'analisi storica, né mediante una descrizione della situazione attuale che la residenza sia qualcosa di amorfo, poco più di una zona la cui conversione sia facile e immediata. La forma con cui si realizzano i tipi edilizi residenziali, l'aspetto tipologico che li caratterizza, è strettamente legato alla forma urbana. D'altro canto la casa, che rappresenta il modo concreto di vivere di un popolo, la manifestazione puntuale di una cultura, si modifica molto lentamente. Viollet-le-Duc nel suo grande affresco dell'architettura francese contenuto nel dizionario dove ogni giudizio è sostenuto dall'analisi dei fatti concreti, scrive che:

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Nell'arte dell'architettura, la casa è certamente ciò che meglio caratterizza i costumi, i gusti e gli usi di un popolo; il suo ordine, come la sua distribuzione, non si modifica che in tempi molto lunghi (6). Nell'antica Roma la residenza, suddivisa abbastanza rigidamente tra il tipo della "domus" e il tipo dell'"insula", caratterizza la città e le 14 regioni di Augusto. L'"insula" quasi riassume la città nelle sue stesse divisioni e nella sua evoluzione; in essa vi è più mescolanza sociale di quanto comunemente si creda. Come nelle case costruite a Parigi dopo il 1850, vi è una differenziazione sociale in altezza. Le "insulae", la cui costruzione è estremamente povera e temporanea, si rinnovano su se stesse; esse costituiscono il substrato urbano, la materia, sulla quale si viene plasmando la città. Già sull"'insula", quindi sulla residenza di massa, si esercita una delle forze più importanti della crescita della città: la speculazione. Il meccanismo della speculazione, applicato ai terreni residenziali, è uno dei momenti di crescita più caratteristici della città imperiale. Senza conoscere questo fatto non possiamo comprendere il sistema degli edifici pubblici, la loro dislocazione, il meccanismo di crescita della città. Un rapporto analogo, seppure non egualmente caratterizzato da una così alta concentrazione, esiste nella città greca. La forma di Vienna nasce da un problema residenziale; l'applicazione della "Hofquartierspflicht" aumenta straordinariamente la densità al centro, determina la particolare tipologia edilizia delle case a più piani, e stimola in modo determinante lo sviluppo dei sobborghi. Il tentativo di riprendere la residenza come fattore determinante, come fatto urbano tipico nella forma della città, viene ripreso nella costruzione delle "Siedlungen" operaie negli anni seguenti la prima guerra mondiale. Il programma del Comune di Vienna si preoccupava soprattutto di realizzare dei complessi tipici la cui forma fosse estremamente legata alla forma della città. A questo proposito Peter Behrens scriveva: Criticare la loro costruzione sulla base di principi escogitati a tavolino significa in generale porsi su una via sbagliata perché nulla appare così mutevole ed eterogeneo quanto i bisogni, le abitudini e tutte le molteplici situazioni di una popolazione residente in una determinata regione (7). Il rapporto tra la residenza e la localizzazione diventa quindi preminente. Gli esempi della enorme superficie delle città americane non sono spiegabili senza la tendenza verso un tipo di residenza sparsa, di carattere unifamiliare. Lo studio del Gottman su Megalopolis è a questo riguardo molto preciso. La localizzazione della residenza dipende quindi da molti fattori; geografici, morfologici, storici, economici. Prima ancora dei fattori geografici sembrano esseri determinanti quelli economici. La alternanza delle zone residenziali, il loro costituirsi in modo specializzato dal punto di vista tipologico sembra largamente influenzato da motivi economici;

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questa alternanza è mossa dal meccanismo della speculazione di cui mi occuperò più avanti. Questo è valido anche negli esempi più recenti. La città socialista, per ora, non sembra offrire delle alternative di fondo al processo di crescita urbano; d'altra parte le sue difficoltà obiettive non sono facilmente individuabili. Evidentemente anche là dove non esiste il meccanismo della speculazione vi saranno sempre delle questioni preferenziali nella scelta delle localizzazioni difficilmente risolvibili. Questi problemi devono essere riportati al quadro più generale delle scelte nella dinamica urbana. E' logico supporre che il successo dei complessi residenziali sia collegato all'esistenza di servizi pubblici e attrezzature collettive e si rileva l'importanza di questo fatto. Esso è altresì causa della possibilità di dispersione delle parti residenziali; evidentemente la concentrazione residenziale della città antica e di Roma imperiale è plausibilmente spiegabile con la mancanza quasi assoluta di trasporti pubblici e la eccezionalità dei trasporti privati. Ma questa spiegazione non è sufficiente; si pensi per contrasto alla Grecia antica o alla morfologia di alcune città nordiche. E' difficile sostenere che questo aspetto sia caratterizzante. In altri termini si può affermare che, dato un sistema di trasporti pubblici, la forma della città non è ancora determinata o che quel sistema si può stabilire in ogni caso per ottenere una certa forma della città o per seguirla. Non credo che la metropolitana di qualsiasi grande città possa essere oggetto di dispute al di fuori della sua efficienza tecnica, mentre lo stesso non si può dire degli insediamenti residenziali i quali sono oggetto di numerose dispute nel senso che la loro costituzione, in quanto fatti urbani, può essere controversa. Esiste cioè un fatto specifico nel problema della residenza che è intimamente legato al problema della città, al suo modo di vivere, alla sua forma fisica e immagine; cioè alla sua struttura. Questo elemento specifico non riguarda nessun tipo di attrezzatura tecnica la quale non costituisce un fatto urbano. Ne risulta infine che lo studio della residenza può essere un buon metodo per lo studio della città e viceversa. Forse niente è così illuminante delle differenze strutturali tra una città mediterranea come Taranto e una nordica come Zurigo, degli aspetti diversi del problema residenziale; mi riferisco propriamente agli aspetti morfologici e strutturali. Considerazioni di questo tipo possono essere fatte anche a proposito dei villaggi alpini e di tutte quelle aggregazioni dove il fatto residenziale è di per sé preminente se non unico. Uno qualsiasi di questi paragoni non porrà in risalto l'affermazione di Viollet-le-Duc che la casa - il suo ordine e la sua distribuzione non si modifica che in tempi

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molto lunghi? Ritengo che su questi e altri punti si possano portare avanti i problemi della residenza; il trattare ulteriormente di questi problemi in modo specifico ci allontanerebbe troppo dall'obiettivo di questo libro. Naturalmente è utile ricordare che nei problemi tipologici della casa sono presenti molti elementi che non riguardano solo gli aspetti spaziali del problema; per ora non mi interessa comunque discutere quali basi vi siano per spiegare le corrispondenze che esistono all'interno del problema, né credo sia mio compito il farlo, ma ritengo necessario sapere che esse esistono. Infatti ad un certo punto, integrando il discorso fin qui fatto con gli accenni ad alcune posizioni sociologiche e più propriamente politiche sul valore del problema residenziale come momento della vita della città e dello stesso problema sociale, noi potremo ottenere dati molto interessanti. Ad esempio sarebbe possibile ricavare dati molto utili dallo studio dei problemi architettonici; vedere cioè il rapporto che è esistito ed esiste tra certi dati e le soluzioni degli architetti. Tenterò nelle pagine che seguono di seguire alcuni aspetti di questo problema, la residenza e gli architetti, applicato al problema della città di Berlino, su cui esiste una vasta documentazione non solo sul problema residenziale, cosa vera per molte altre città, ma sui quartieri moderni in particolare. Essendo inoltre il problema della residenza una delle questioni emergenti, a livello teorico e pratico, della tematica dell'architettura moderna in Germania, sarà utile vedere quali rapporti esistano in concreto tra le formulazioni teoriche e le realizzazioni. Intorno a questo problema la Germania, tra le due guerre, ha dato contributi eccezionali come quelli dello Hegemann, di Gropius, di Klein, di Van de Velde e di altri. Il lettore che non è interessato a questo problema può saltare al paragrafo successivo.

Il problema tipologico della residenza a Berlino. Poiché il problema della residenza insieme a molte altre questioni urbane è un problema che riguarda le città e le città sono qualcosa che, bene o male, possiamo descrivere, è utile riferire questo problema a città determinate. Nel trattare quindi il problema della residenza in città determinate, è implicito il fatto che noi cerchiamo di fare quante meno generalizzazioni sia possibile. E' chiaro che questi problemi, in ogni città, avranno sempre qualcosa in comune e che cercando di sapere quanto in ogni fatto vi possa essere di comune con altri fatti noi ci avvicineremo alla elaborazione di teorie generali. Cercherò di illustrare, in queste pagine, perché il problema della tipologia residenziale a Berlino sia particolarmente interessante e in quale misura questo interesse sia preminente rispetto ad altre città; cercherò inoltre di esporre i motivi che possono condurre a riconoscere una certa uniformità o continuità dei problemi della residenza a Berlino e infine quale sia la validità di alcuni tipici modelli residenziali, passati e presenti, rispetto a una serie di questioni entro cui

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oggi si colloca il problema della residenza rispetto alla realtà urbana e alle teorie dello sviluppo urbano.A) Il particolare interesse della residenza a Berlino risalta dall'esame della carta della città; esso è stato messo in evidenza da studi assai precisi (8). Nel 1936 il geografo Louis Herbert distingueva in quattro grandi tipi le costruzioni di Berlino; queste distinzioni appartenevano a quattro zone definite dalla loro distanza dal centro storico. 1) Costruzione uniforme e continua con edifici del tipo "grande città". Questi edifici possedevano almeno quattro piani. 2) Costruzione diversificata di tipo urbano. Questa viene distinta in due classi: a) nel centro della città, vi sono costruzioni mescolate con costruzioni molto vecchie e basse di tre piani e meno; b) ai margini del complesso urbano vi è un continuo inframmezzarsi di case alte e basse, spazi aperti, campi e terreni lottizzati. 3) Grandi aree per l'industria. 4) Aree residenziali aperte ai margini estremi della città che comprendono ville e costruzioni unifamiliari costruite principalmente dopo il 1918. Tra la zona 4 e l'esterno vi è un continuo miscuglio tra zone industriali, zone residenziali e i villaggi in trasformazione. Queste zone esterne sono tra loro molto differenti e vanno da quelle operaie e industriali di Henningsdorf e Pankow a quelle signorili di Grnewald. Proprio osservando questa distribuzione di Berlino, Reinhard Baumeister nel 1870 usò il concetto di "zoning" che comparve più tardi nel regolamento edilizio prussiano. Nella grande Berlino la morfologia dei complessi residenziali era quindi molto variata; i vari complessi non direttamente collegati tra loro erano caratterizzati da precisi tipi edilizi: case alte, case di speculazione, case unifamiliari. Questa varietà tipologica corrisponde a un tipo di struttura urbana molto moderno; cioè a un tipo di struttura che si è prodotta successivamente in altre città d'Europa anche se forse non ha mai raggiunto un'articolazione così accentuata come a Berlino. Questa articolazione, considerata nel suo doppio aspetto di struttura urbana e di struttura tipologica, è una delle principali caratteristiche della metropoli tedesca. Vedremo come le "Siedlungen" si collocano all'interno di queste condizioni e in queste condizioni devono essere giudicate. B) La struttura dei complessi residenziali si può far risalire ai seguenti tipi fondamentali: a) costruzioni a blocco; b) corpi liberi; c) case unifamiliari. Questi diversi tipi sono presenti a Berlino con frequenza maggiore che in qualsiasi altra città d'Europa per motivi storico-culturali e per motivi geografici. L'edilizia gotica è scomparsa quasi completamente nell'800 mentre, come è noto, essa si è conservata a lungo nelle altre città tedesche di cui ha costituito, fino alle distruzioni dell'ultima guerra, l'immagine preminente.

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Le costruzioni a blocco, che derivano dal regolamento di polizia del 1851, costituiscono una delle forme più integrali di sfruttamento del suolo urbano; esse sono costituite da diverse corti disposte normalmente alla facciata su strada. Costruzioni di questo tipo sono caratteristiche anche di città come Amburgo e Vienna. La presenza numerosissima di questo tipo di case a Berlino, definite "Mietkasernen", o caserme d'affitto, condussero alla definizione di "città caserma". La forma della casa a corte rappresenta però una soluzione tipica nel centro Europa; come tale viene assunta da molti architetti moderni, a Berlino come a Vienna. Le corti vengono ora trasformate in grandi giardini. Questi giardini vengono attrezzati con asili e chioschi di vendita. Alcuni dei migliori esempi della residenza del periodo razionalista sono legati a questa forma. Le costruzioni a corpi liberi caratterizzano le "Siedlungen" razionaliste; esse rappresentano la posizione più polemica e scientifica; la loro disposizione che richiede una divisione del terreno del tutto libera, dipende dalle condizioni eliotermiche più che dalla forma generale del quartiere. La costruzione di questi corpi è completamente svincolata dalla strada e, soprattutto per questo fatto, altera completamente il tipo di sviluppo urbano ottocentesco. In questi esempi ha una particolare importanza il verde pubblico. In tutti questi esempi è fondamentale lo studio dell'unità d'abitazione; la cellula. Tutti gli architetti che lavorano alla conformazione di questi quartieri e si cimentano intorno alla formulazione di tipi edilizi economici cercano di trovare la forma esatta dell'"Existenzminimum", dell'unità dimensionale ottima dal punto di vista distributivo ed economico. E' questo uno degli elementi preminenti nel lavoro dei razionalisti sul problema dell'abitare. Per le case unifamiliari vi è una forte tradizione nella tipologia residenziale berlinese. Benché sia questo uno dei punti di maggiore interesse circa il problema della tipologia residenziale del razionalismo, io non mi soffermerò su di esso poiché questo aspetto del problema richiede un tipo di trattazione parallela ma non coincidente con questo studio. Si può solo accennare qui che l'impostazione dell'"Existenzminimum" presuppone un rapporto di tipo statico tra un certo modo di vita, ipotetico anche se statisticamente accertabile, e un certo tipo di alloggio, con la conseguenza di un rapido invecchiamento della "Siedlung. Questa si rivela cioè una concezione spaziale troppo particolare, troppo legata a determinate soluzioni, per rappresentare un elemento generale universalmente fruibile, del problema dell'alloggio.

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Si tratta naturalmente di un solo aspetto di un problema peraltro complesso e a cui partecipano numerose variabili. Un'importanza particolare acquista il progetto del castello di Babelsberg per Guglielmo Primo, il castello di Charlottenhof e i Rmische Bder di Schinkel. La pianta del castello di Babelsberg presenta una struttura ordinata, quasi rigida dal punto di vista distributivo mentre la sua forma cerca di disporsi secondo la situazione dell'ambiente circostante soprattutto con interessi paesaggistici. Le caratteristiche dell'opera dello Schinkel per l'architettura berlinese sono state ampiamente studiate e qui non interessa parlarne; mi interessa invece rilevare come la concezione della "villa" si presti a offrire un modello tipologico adatto per una città come Berlino. In questo senso l'opera dello Schinkel che costituisce il trapasso dai modelli neoclassici a quelli romantici, soprattutto attraverso l'assunzione della casa inglese, offre le basi per il tipo di villa borghese dei primi anni del secolo. Con la diffusione della villa come elemento urbano e la scomparsa delle case gotiche e settecentesche, con la sostituzione dei ministeri al centro e delle "Mietkasernen" nelle zone periferiche, la morfologia urbana di Berlino si modifica profondamente. Sono significative a questo riguardo le immagini dell'"Unter den Linden" nei secoli successivi. La strada settecentesca è veramente una "promenade" sotto i tigli; la cortina delle case pur presentando altezze diverse ha una totale unità architettonica. Si tratta di case di città di tipo borghese, caratteristiche del centro Europa, con la presenza di elementi formali dell'edilizia gotica e costruite sopra lotti stretti e profondi. Case di questo tipo erano caratteristiche di Vienna, Praga, Zurigo e molte altre città; la loro origine, spesso mercantile, era legata alla prima conformazione della città in senso moderno. Con le trasformazioni della città nella seconda metà dell'800 queste case spariscono assai facilmente sia per il rinnovamento del patrimonio edilizio sia per l'alternanza nell'uso delle aree. Con la loro sostituzione si ha una profonda modificazione nel paesaggio urbano, spesso un suo irrigidimento monumentale come nel caso dell'"Unter den Linden". A questo tipo di case si sostituisce la casa d'affitto e la villa. Per lo Schumacher la divisione tra zona a "ville" e "caserme d'affitto" nella seconda metà dell'800 rappresenta la crisi dell'unità urbana delle città del centro Europa; la villa si pone con l'intento di un più stretto rapporto con la natura, con un intento di rappresentazione e divisione sociale, con il rifiuto o l'incapacità di inserirsi in una immagine urbana continua; d'altra parte la casa d'affitto diventando casa di speculazione si degrada e non ricupera più il valore dell'architettura civile. Eppure, anche se questa visione dello Schumacher è esatta, bisogna riconoscere che la "villa" ha gran parte nelle trasformazioni tipologiche che conducono alla casa moderna.

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Negli esempi berlinesi essa ha scarsi contatti con la casa unifamiliare inglese; dove la definizione corrisponde a un certo tipo di struttura urbana e dove la casa unifamiliare rappresenta una struttura residenziale continua. La "villa" è dapprima una riduzione del palazzo (si veda la citazione schinkeliana) poi elabora sempre maggiormente la distribuzione interna, la razionalizzazione e la divisione dei percorsi. A Berlino è importante l'opera di Muthesius che sviluppa i principi della casa inglese in senso razionalista, all'interno della costruzione, preoccupandosi della funzionalità e della libertà degli spazi interni. E' significativo che queste innovazioni tipologiche non siano parallele a sensibili modificazioni architettoniche; e che anzi a una maggiore libertà interna, intesa come rispondenza al modo di vita borghese, si accompagni una immagine monumentale dell'edificio, un suo irrigidimento rispetto ai modelli schinkeliani dove è marcata la differenza tra l'architettura degli edifici residenziali e quella degli edifici civili. In questo senso sono tipiche le costruzioni di Muthesius che rappresenta uno dei costruttori più tipici delle ville berlinesi intorno al '900. Le sue preoccupazioni per una casa moderna, esposte anche nella sua opera di teorico, riguardano la struttura tipologica della casa indipendentemente dal suo aspetto formale per cui si accetta una sorta di neoclassicismo di tipo germanico, cioè con l'aggiunta di elementi tipici della tradizione locale.Proprio al contrario dei modelli schinkeliani, dove la residenza era quella più slegata dalla rappresentatività e dove gli schemi tipologici, di tipo classico, non contrastavano con la sua architettura. Ma l'introduzione di elementi di rappresentatività nell'architettura residenziale fine secolo è una caratteristica tipica di tutta l'architettura di quel periodo: probabilmente essa corrisponde a mutate condizioni di struttura sociale e alla necessità di attribuire alla casa una portata emblematica. Certamente questo corrisponde alla crisi dell'unità urbana di cui parla lo Schumacher e quindi a un bisogno di differenziazione all'interno di una struttura dove vivono classi sociali sempre più diverse e sempre più antagoniste. Le ville dei più famosi architetti del movimento moderno a Berlino, Gropius, Mendelsohn, Hring ecc., sviluppano questi modelli tipologici in modo abbastanza ortodosso; non si può certo parlare di rottura con i modelli d'abitazione eclettici, anche se l'immagine di queste ville è profondamente mutata. Sarà compito dei sociologi stabilire come l'elemento rappresentativo o emblematico si sia trasformato; certo si tratta di denominazioni diverse di uno stesso fenomeno. Queste case portano alle loro ultime conseguenze le premesse della villa eclettica e da questo punto di vista si capisce perché architetti come Muthesius e Van de Velde possano essere posti come maestri; proprio perché essi hanno stabilito un modello di tipo generale magari traducendo altre esperienze di tipo inglese o fiammingo.

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Tutti questi motivi della casa unifamiliare si ripresentano all'interno della "Siedlung", la quale per il suo carattere composito sembra la più adatta ad accoglierli e a darne per certi versi una nuova definizione. Non voglio qui soffermarmi troppo sul problema della residenza come è stato inteso dagli architetti del razionalismo ma, come è nell'assunto di queste note, illustrare solo alcuni esempi berlinesi realizzati intorno agli anni '20. Esempi che, come è noto, sono d'altronde tipici come pochi altri del problema trattato; insieme agli esempi famosi di Francoforte e Stoccarda. La teoria urbanistica sostenuta dai razionalisti è chiaramente compendiata, almeno per quanto riguarda l'aspetto residenziale del problema, dalla "Siedlung"; la quale è probabilmente un modello sociologico ancor prima che un modello spaziale. Certo è che quando si parla di urbanistica razionalista si intende sia da parte dei profani che degli specialisti, l'urbanistica dei quartieri. Questo atteggiamento, considerato anche nelle sue implicazioni metodologiche, rivela subito la propria insufficienza. In primo luogo considerare l'urbanistica del razionalismo come l'urbanistica del quartiere significa limitare la vastità di questa esperienza all'urbanistica tedesca degli anni '20. E anche in questo caso, tali e tante sono le soluzioni reali, che la definizione non è valida nemmeno per la storia della urbanistica tedesca. (Inoltre il termine quartiere, che è traduzione tanto fortunata quanto imprecisa del termine tedesco "Siedlung", significa poi cose tanto diverse che è preferibile non servirsene, se non dopo averlo attentamente esaminato) (9). Risulta così necessario lo studio delle situazioni concrete, la descrizione dei fatti; e osservando la morfologia di Berlino, la sua ricchezza e particolarità di situazioni urbane e paesaggistiche, l'importanza delle ville ecc., è lecito pensare che la "Siedlung" abbia qui una sua coerenza particolare. E poi la stretta connessione tra situazioni come quella del Tempelhofer Felde e di Britz o oltre, dove il passaggio dal modello inglese è evidente, rendono più scoperti i riferimenti fondamentali alla situazione urbanistica. Mentre gli esempi della Friedrich Ebert sono più legati alla impostazione teorica del razionalismo. Ma in tutti i casi è difficile risalire da queste immagini a una ideologia della "Siedlung". Ritengo illegittimo continuare a considerare la "Siedlung" in sé senza riferimento alla situazione in cui si è prodotta o spesso nell'ignoranza della situazione in cui si è prodotta. Un'analisi urbanistica della "Siedlung", che è poi dire del problema della residenza a Berlino negli anni '20, può essere compiuta solo parallelamente al piano della Grande Berlino del 1920. Qual è la base del piano? Molto più vicina a certi modelli recenti di quanto si possa credere; nel quadro generale si può affermare che il problema della residenza risulta abbastanza indifferente alla localizzazione e che si pone come il

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momento di un sistema urbano che ha i suoi fulcri nel potenziamento del sistema di trasporti, il quale rappresenta il fluire della vita della città. E, interpretando il concetto di zonizzazione, si incrementa l'autoformazione del centro in funzione direzionale amministrativa mentre si rimandano al territorio i centri del tempo libero e le attrezzature sportive ecc. Un modello quindi abbastanza ripetuto e richiamato ancor oggi e dove il quartiere è la zona residenziale più o meno definita. Quindi osservando il piano della Grande Berlino si può affermare: a) che non è possibile sostenere che tale piano si basasse sulla autonomia delle "Siedlungen" concependo una città fatta per settori; una impostazione di questo tipo avrebbe potuto essere più rivoluzionaria di quanto in realtà fu fatto; b) che è falso affermare che i razionalisti tedeschi non videro il problema della grande città, l'immagine metropolitana; basti pensare ai progetti per la Friedrichstrasse e ai disegni di Mies e di Taut; c) che il problema della residenza non ebbe qui una soluzione del tutto autonoma rispetto ai modelli fondamentali relativi alla residenza ma che al contrario rappresentò una sintesi, certo felice e importante, del problema stesso.

Garden-city e Ville radieuse. Quando parlo di modelli fondamentali mi riferisco alla "garden-city" e alla "ville radieuse"; questa distinzione è stata fatta da Rasmussen (10), quando ha affermato che la garden-city e la ville radieuse rappresentano due grandi stili contemporanei dell'architettura moderna. Benché questa affermazione si riferisca a tutta l'architettura moderna, io la intendo in un senso molto più limitato; riferendola cioè a due impostazioni del problema della residenza. E' interessante come Rasmussen facendo questa affermazione abbia indicato come la questione tipologica sia qui più chiara, più esplicita, di quella ideologica, poiché nel tempo se ne è fissata un'immagine che sembra inalterabile. Questa affermazione non ha qui solo un significato storiografico; essa serve a chiarire un problema generale (presente). Il problema, su cui torniamo continuamente, è quello relativo al valore della residenza nella struttura urbana; sembra che i due modelli della "garden-city" e della "ville radieuse" siano gli unici espliciti a questo riguardo; essi sono anche i modelli più chiari per quanto riguarda l'immagine della città. Tenendo presente questo punto si potrà dire questo delle "Siedlungen" berlinesi in generale (ma sarà vero anche per altri esempi contemporanei, per esempio, Francoforte): che esse rappresentano un tentativo di fissare il problema della residenza in un sistema urbano più complesso quale risulta dalla conformazione concreta di una città e da una visione ideale della città moderna. La visione di questa città è basata sui modelli ricordati. Cioè la "Siedlung", quale possiamo conoscere e descrivere attraverso gli esempi berlinesi, non rappresenta un modello autonomo; negando poi una posizione

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autonoma della "Siedlung", non nego che questa abbia una sua posizione precisa nei modelli residenziali. Tutto ciò che sostengo in proposito è che la "Siedlung" in una situazione urbana come quella di Berlino e di altre città d'Europa rappresenta un tentativo di mediazione, più o meno cosciente, di due differenti concezioni spaziali della città. E ciò non significa sostenere che una posizione di questo tipo non possa essere valida. Al contrario non possiamo riconoscere condizioni di legittimità alle tesi e alle esperienze che collocano la "Siedlung" nella città come elemento separato dalla città stessa oppure senza preoccuparsi dei rapporti che esistono tra questa e la città. Per portare a fondo questa analisi della residenza rispetto ai due modelli fondamentali a cui si è accennato, "garden-city" e "ville radieuse", sarebbe necessario approfondire il rapporto che esiste tra certe teorie di carattere politico e sociale e questi modelli residenziali. Un lavoro di questo tipo è stato tracciato con eccezionale vivezza da Carlo Doglio riguardo alla città giardino; esso dovrebbe essere proseguito in quel senso (11). Riguardo alla città giardino, senza nemmeno tentare di riassumere il saggio del Doglio, che resta una delle pagine più belle scritte sull'urbanistica in Italia, voglio qui citare l'inizio del saggio che dà il quadro dell'esatta impostazione e della difficoltà e complessità del problema: E diciamo subito che nel caso in esame la situazione è particolarmente complessa a causa dell'intreccio egualmente conformista e sostanzialmente reazionario delle opinioni favorevoli; a causa di un equivoco che, insomma, non intacca soltanto l'aspetto formale del problema ma s'estende alle sue più riposte radici: quando lo Osborn, per citare il più noto attivista howardiano, propone le città-giardino quali esempi pilota di una ricostruzione veramente moderna e umana dei centri abitati (e quindi della società, teniamolo ben presente) e condanna sdegnosamente i quartieri popolari di Vienna o di Stoccolma, viene da contrapporgli la maggior validità, sia estetica, sia sociale, che quei quartieri hanno storicamente avuto [...]; ma allorché le soluzioni di Letchworth o di Welwyn sono tolte di mezzo dai rimasticatori del marxismo non soltanto per la forma che assunsero (e per il contenuto praticamente immobile che ne derivò) ma anche per il tipo di proposta strutturale che sottintendevano (città e campagna, decentramento ecc.), allora non si può fare a meno di dire che nonostante tutto erano più vive quelle soluzioni, più cariche di fermenti e di futuro, di quante altre ne sono state messe innanzi da allora a oggi. Accenno brevemente, poiché un'analisi di questo tipo ci allontanerebbe troppo dall'assunto di questo libro, come lo studio del rapporto alloggio-famiglia, con tutte le sue implicazioni di tipo culturale e politico, trovi un terreno di applicazione molto interessante in quel tipo di ideologie che possiamo definire comunitarie.

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Qui si illumina particolarmente il rapporto tra la comunità locale e la democrazia, tra la dimensione spaziale come momento della vita comunitaria e la vita politica della comunità stessa. E' evidente quindi in un rapporto di questo tipo l'emergenza del problema della residenza. Al contrario dove appare in primo piano la città nel suo insieme, cioè dove si esalta la concentrazione e la dimensione, il problema della residenza sembra perdere di importanza, è per lo meno sfocato rispetto alle altre funzioni della vita urbana; per esempio queste teorie affermano, in contrasto con quelle comunitarie, che nella città dell'800 le grandi operazioni per l'abbellimento e l'ingrandimento, che pure spesso nascondevano fenomeni imponenti di speculazione, erano godibili da tutti i cittadini, erano un elemento positivo per il loro modo di vivere. Poche definizioni sono così chiare per definire questo "effetto urbano" come una dello Hellpach che, in contrasto con i suoi tempi, fu fautore della validità della vita nelle grandi metropoli. Per la generazione plasmata dalla grande città, essa non significa soltanto spazio esistenziale, luogo di abitazione, mercato, ma può divenire biologicamente e sociologicamente quel che di più profondo può rappresentare per un uomo la scena ove si svolge la sua vita: la patria. Si potrebbe fare una storia parallela tra queste teorie e i quartieri realizzati negli ultimi sessant'anni. A volte come nei casi tedeschi ("Siedlungen"), italiani e inglesi, le traduzioni sono chiarissime; ricordiamo molti nostri quartieri dove sembrava si volessero riproporre comunità non urbane, staccate, quasi preservate dalla città, rivolte su se stesse e sul vicinato e altri successivi dove l'immagine architettonica, fortemente plastica, cercava di caricare con violenza gli effetti urbani; ancora le basse densità, poi rinnegate, delle prime "new-towns"; infine esperimenti di nuovi complessi residenziali come le proposte degli Smithson, di Lasdun e i blocchi di Sheffield. Gli architetti inglesi hanno ritrovato un motivo sicuro nei modelli tipologico-residenziali quando si sono resi conto, così come essi affermano, che la disgregazione degli "slums" comportava la parallela disgregazione di comunità che tradizionalmente vivevano con un livello di densità elevato e che non erano in grado di rimettere automaticamente radici, senza subire sostanziali mutamenti, nell'ambiente suburbano a bassa densità loro assegnato. Smithson riscopre la concezione della strada e nel progetto del Golden Lane propone vincoli di convivenza orizzontali disposti in tre piani, i quali costituiscono vie di accesso pedonale alle singole residenze. Impostazioni di questo tipo sono espresse molto chiaramente nel complesso residenziale di Sheffield, costituito da grandi corpi di fabbrica e posto in posizione elevata sulla città a cui dovrà essere strettamente collegato nei futuri lavori di ampliamento.

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Proprio sulla genesi di quest'opera esistono precise testimonianze del suo rapporto con teorie sociologiche; ad esempio sulla necessità di ricuperare la strada come palcoscenico della comunità: la strada [...è un] palcoscenico rettangolare dove hanno luogo incontri, chiacchiere, giochi, litigi, invidie, corteggiamenti e orgoglio. D'altro canto i grandi blocchi di Sheffield risentono originalmente della grande immagine lecorbuseriana dell'"Unité d'Habitation" di Marsiglia.

Gli elementi primari. Ma le aree e l'area-residenza nel senso avanzato nelle pagine precedenti non sono sufficienti a caratterizzare la conformazione e l'evoluzione della città; al concetto di area deve accompagnarsi quello di un insieme di elementi determinati che hanno funzionato come nuclei di aggregazione. Questi elementi urbani di natura preminente li abbiamo indicati come elementi primari in quanto essi partecipano dell'evoluzione della città nel tempo in modo permanente identificandosi spesso con i fatti costituenti la città. L'unione di questi elementi (primari) con le aree in termini di localizzazione e di costruzione, di permanenze di piano e di permanenze di edifici, di fatti naturali o di fatti costruiti, costituisce un insieme che è la struttura fisica della città. Definire gli elementi primari non è né semplice né facile; forse potrò solo spiegare a cosa mi riferisco. Se prendiamo uno studio sulla città vediamo che l'insieme urbano è suddiviso secondo tre funzioni principali; esse sono la residenza, le attività fisse, la circolazione. Le attività fisse ("fixed activities", come vengono chiamate nella letteratura americana) comprendono magazzini, edifici pubblici e commerciali, università, ospedali, scuole ecc. Inoltre la letteratura urbanistica parla di attrezzature urbanistiche, standards urbanistici, servizi e anche di infrastrutture. Alcuni di questi termini sono definiti e definibili, altri meno ma è presumibile che ogni autore usi questi termini all'interno di un certo contesto e con sufficiente chiarezza. Tra tutti questi termini, se volete semplificando, mi varrò del termine di attività fissa per affermare che gli elementi primari comprendono anche le attività fisse; potrei anche dire che la residenza sta all'area-residenza come le attività fisse stanno agli elementi primari. Ho usato questo termine perché la nozione di attività fisse è generalmente accettata. Ma anche se parlando di attività fisse o di elementi primari ci riferiamo - ma solo in parte - alla stessa cosa, i due termini presuppongono un modo di concepire la struttura urbana del tutto diverso. Quello che vi è di comune si riferisce al carattere pubblico, collettivo di questi elementi; questa caratteristica di cosa pubblica, fatta dalla collettività per la collettività, è di natura essenzialmente urbana.

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Mi sembra che su questo punto non si sia mai meditato a sufficienza anche se possediamo notevoli contributi. Voi potete compiere qualsiasi riduzione della realtà urbana e arriverete sempre all'aspetto collettivo; l'aspetto collettivo sembra costituire l'origine o il fine della città. D'altro canto il rapporto tra questi elementi primari e le areeresidenza corrisponde, in senso architettonico, alla distinzione operata dai sociologi tra sfera pubblica e sfera privata come elementi caratteristici della formazione della città. La definizione data da Hans Paul Bahrdt nei suoi "Lineamenti di sociologia urbana" può meglio illuminare il significato degli elementi primari: La nostra tesi dice così: una città è un sistema nel quale tutta la vita, e quindi anche quella quotidiana, mostra la tendenza a polarizzarsi, a svolgersi cioè nei termini di aggregato sociale pubblico o privato. Si sviluppano una sfera pubblica e una privata, che stanno in uno stretto rapporto senza che la polarizzazione vada perduta. I settori della vita, che non possono venir caratterizzati né come "pubblici" né come "privati" perdono invece di significato. Più fortemente si esercita la polarizzazione e più stretto è il rapporto di scambio tra la sfera pubblica e quella privata, e maggiormente "urbana" dal punto di vista della sociologia, è la vita di un aggregato. In caso contrario, un aggregato svilupperà in misura minore il carattere di città (12). Consideriamo ora gli elementi primari nel loro aspetto spaziale, indipendentemente dalla loro funzione; essi si identificano con la loro presenza nella città. Possiedono un valore "in sé" ma possiedono anche un valore disposizionale. In questo senso un edificio storico può essere inteso come un fatto urbano primario; esso risulta slegato dalla sua funzione originaria, o presenta nel tempo più funzioni, nel senso dell'uso a cui è destinato, mentre non modifica la sua qualità di fatto urbano generatore di una forma della città. In questo senso gli esempi di monumenti su cui ci siamo soffermati nelle pagine precedenti sono indicativi poiché i monumenti sono sempre degli elementi primari. Ma gli elementi primari non sono solo dei monumenti come non sono solo delle attività fisse; in senso generale essi sono quegli elementi capaci di accelerare il processo di urbanizzazione di una città e, riferendoli a un territorio più vasto, degli elementi caratterizzanti i processi di trasformazione spaziale del territorio. Essi agiscono spesso come dei catalizzatori. Originariamente la loro presenza può identificarsi solo con una funzione (e in questo caso coincidono con le attività fisse) ma presto essi assurgono a un valore più significativo.

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Ma non sempre essi sono dei fatti fisici, costruiti, rilevabili: possiamo considerare per esempio il luogo di un avvenimento che per la sua importanza ha dato luogo a delle trasformazioni spaziali. Mi occuperò più avanti di questo problema affrontando il tema del "locus. Questi elementi hanno quindi un ruolo effettivamente primario nella dinamica della città, mediante essi, e dall'ordine in cui sono disposti, il fatto urbano presenta una sua qualità specifica che è data principalmente dal suo insistere in un luogo, dallo svolgere un'azione precisa, dalla sua individualità. L'architettura è il momento ultimo di questo processo ed è anche ciò che è rilevabile della complessa struttura. Così il fatto urbano e la sua architettura, che sono tutt'uno, costituiscono un'opera d'arte. Ma tanto è dire bella città, quanto buona architettura, perché in quest'ultima si concreta l'intenzionalità estetica dei fatti urbani. E l'analisi del concreto di questa struttura non può che essere condotto sui singoli fatti urbani. Sarà utile avanzare qui due esempi relativi a queste questioni tolti dalla storia dell'urbanistica; o costituenti il tentativo di una comprensione verificabile in sede storica dei fatti urbani.

Tensione degli elementi urbani. Le città romane o gallo-romane dell'occidente crescono mediante la continua tensione di questi elementi. Questa tensione è ancora oggi riscontrabile nella loro forma. Quando alla fine della "pax romana" le mura delimitano le città esse coprono una superficie inferiore a quella della città romana. In questa definizione delle mura sono abbandonati dei monumenti, delle zone spesso popolose; la città si rinchiude nel suo nucleo. A Nimes l'anfiteatro è trasformato in fortezza dai Visigoti e racchiude una piccola città di 2000 abitanti; vi si accede da quattro porte corrispondenti ai quattro punti cardinali; all'interno si trovano due chiese. In un secondo tempo intorno a questo monumento comincerà di nuovo a crescere la città. Lo stesso fenomeno succede per la città di Arles. La vicenda di queste città è straordinaria; essa ci induce anche ad alcune considerazioni sulla dimensione e dimostra che la qualità di alcuni fatti è più forte della loro dimensione. L'anfiteatro ha una forma precisa e inequivocabile è anche la sua funzione; esso non è pensato come un contenitore indifferente, al contrario è estremamente precisato nelle sue strutture, nella sua architettura, nella sua forma. Ma una vicenda esterna, uno dei momenti più drammatici della storia dell'umanità, ne capovolge la funzione, un teatro diventa una città. Questo teatro-città è altresì una fortezza; racchiude e difende tutta la città.

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In altri casi una città si sviluppa tra le mura di un castello che ne costituiscono il limite preciso e anche il paesaggio; così a Vila Viosa in Portogallo. La presenza dell'opera, con il suo significato e con la sua architettura, che è il modo reale con cui l'opera viene definita, è il segno delle trasformazioni. Perché solo la presenza di una forma chiusa e stabilita permette la continuità e il prodursi di azioni e di forme successive. Così la forma, l'architettura dei fatti urbani, emerge nella dinamica della città. In questo senso ho parlato delle città romane, della forma rimasta della città romana; prendete l'acquedotto di Segovia che attraversa la città come un fatto geografico, i teatri e il ponte di Mérida in Estremadura, il Pantheon, il Foro Romano. Questi esempi che qui vediamo dal punto di vista dei fatti urbani possono condurre a numerose considerazioni nel campo della tipologia. Gli elementi della città romana si trasformano, cambiano la loro funzione. Un altro esempio eccezionale è costituito dal progetto di Sisto Quinto per la trasformazione del Colosseo in una filanda di lana; anche qui si tratta di questa straordinaria forma dell'anfiteatro. Al pianterreno erano sistemati i laboratori e nei piani superiori le abitazioni degli operai; il Colosseo sarebbe diventato un grande quartiere operaio e una fabbrica razionale. Così ne parla il Fontana: E di già haveva cominciato a far levare tutta la terra che vi stava a torno, & a spianar la strada che viene da torre de Conti, & va al Coliseo, acciò fosse tutta piana, come hoggidì si vedono li vestigi di detto cavamento; & vi si lavorava con sessanta carrette di cavalli, & cento uomini, di che [se] il Pontefice viveva un anno [di più], il Coliseo sarìa stato ridotto in habitatione (13). Ma come cresce la città? Il nucleo originale, racchiuso tra le mura, si protrae con una sua individualità; a questa individuazione formale corrisponde una individuazione politica. Al di fuori si sviluppano i borghi; essi sono i borghi della città italiana, i "faubourgs" delle città francesi. Milano, la cui struttura monocentrica è erroneamente attribuita a una sorta di dilagare del centro storico, è ben definita per tutto il medio evo da questi elementi; il centro gallico-romano, i conventi, le opere pie. La persistenza dei borghi è talmente forte che il principale di essi, S. Gottardo, viene chiamato tuttora in dialetto semplicemente come il borgo, senza altra attribuzione, come si è visto. A Parigi, fuori dalla Cité, si costituiscono localizzazioni diverse dalle due parti della Senna; monasteri, centri mercantili, l'Università. Attorno a questi elementi si costituiscono dei centri di vita urbana; intorno alle abbazie si costituiscono i "bourgs". L'abbazia di St. Germain-des-Prés, d'origine merovingia, risale al Sesto secolo; il borgo di St. Germain compare nei documenti soltanto intorno al Dodicesimo.

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Il borgo rappresenta un fatto urbano così forte all'interno della città che esso è riscontrabile ancora oggi nella pianta di Parigi; esso è rappresentato dalla convergenza di cinque strade verso l'incrocio della Croix-Rouge; là si trovava l'ingresso al borgo di St. Germain-des-Prés e il luogo era chiamato "le chef de la ville" o "le bout de la ville" (14). Il monumento sta al centro, è circondato da edifici, oppure esso diventa un luogo d'attrazione. Ma qui converrà soffermarci un poco sul concetto di monumento inteso come un elemento primario di tipo particolare. Esso è un fatto urbano tipico in quanto riassume tutte le questioni poste dalla città a cui mi riferivo all'inizio; ma esso diventa anche di natura particolare quando questi valori si impongono al disopra dei caratteri economici (anche se si può accettare la tesi che tutta la struttura monumentale della città presenta un carattere metaeconomico) e della necessità pratica, in virtù della loro bellezza. Essi diventano delle opere d'arte eccellenti e si caratterizzano soprattutto per questo aspetto. Essi costituiscono un valore che è più forte dell'ambiente ed è più forte della memoria. E' significativo che le grandi opere urbane non siano mai state distrutte e nessun difensore dell'antichità dovrà mai battersi, credo, per difendere la cappella Pazzi o S. Pietro. E' anche significativo che, contrariamente a quanto credono molti autori, questo valore sia la caratteristica emergente della città e sia l'unico caso dove tutta la struttura del fatto urbano sia riassunta nella forma; il monumento è una permanenza perché, si può sostenere, è già in posizione dialettica all'interno dello sviluppo urbano, cioè concepisce la città come qualcosa che cresce per punti (elementi primari) e per aree (quartieri e residenza) e mentre nei primi è preminente la forma compiuta nelle seconde compaiono in primo piano i valori del suolo. Una teoria di questo tipo tiene quindi conto ancora non solo della conoscenza della città per "pezzi di città", ma della crescita della città per parti e mentre da una parte offre il massimo valore all'esperienza precisa, empirica, degli elementi primari e del loro intorno urbano, dall'altro sempre più vanifica l'importanza del piano, del disegno generale della città che deve essere studiato da altri punti di vista.

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La città antica. I riferimenti avanzati nel paragrafo precedente, relativi al significato degli elementi primari nell'evoluzione della città antica, hanno messo in risalto l'importanza della forma dei fatti urbani; cioè dell'architettura della città. La permanenza di questa forma o il suo valore di riferimento sono del tutto indipendenti sia dalla funzione specifica a cui è destinata sia dalla coincidenza immediata con la continuità delle istituzioni urbane. Mi riferisco sempre infatti alla forma e all'architettura della città e non alle sue istituzioni; pensare che queste si mantengano e si trasmettano senza interruzioni e lacerazioni è una distorsione storica; una posizione di questo tipo, infatti, finirebbe per mistificare le lotte e i momenti concreti di trasformazione. L'enorme contributo che Henri Pirenne (15) ha dato allo studio della città e particolarmente ai rapporti tra la città e le civiche istituzioni testimonia il valore che viene qui dato ai luoghi, ai monumenti, alla realtà fisica della città come momento permanente del suo divenire politico e istituzionale; i monumenti, e tutta la costruzione urbana, sono un segno di riferimento che ha nel tempo significato diverso. Les cités et les bourgs ont joué pourtant, dans l'histoire des villes, un rle essentiel. Ils en ont été, pour ainsi dire, les pierres d'attente. C'est autour de leurs murailles qu'elles se formeront dès que se manifestera la renaissance économique dont on surprend les premiers symptmes au cours du dixième siècle (16). Anche se la città non esisteva né nel senso sociale, né in quello economico, né in quello giuridico, pure è attorno alle mura dei borghi e delle antiche città romane che inizia la rinascita. Questo è un fatto significativo. Pirenne dimostra come la città classica non conosca niente di analogo alla città borghese locale e particolaristica del medio evo. Nel mondo classico la vita urbana si confondeva con la vita nazionale; il sistema municipale si identifica dunque nell'antichità con il sistema costituzionale. Roma, estendendo la sua dominazione al mondo mediterraneo, fa delle città i punti del suo sistema imperiale; questo sistema sopravvive alle invasioni germaniche e a quelle arabe ma la città cambia completamente la sua funzione. Questo cambiamento è essenziale per comprendere l'evoluzione successiva della città. In primo luogo la Chiesa stabilisce le sue diocesi sulle circoscrizioni delle città romane; la città diventa così la sede del vescovo, così l'esodo dei mercanti, la decadenza del commercio, la fine dei rapporti tra le città, non avendo alcuna influenza sull'organizzazione ecclesiastica, non modificano la struttura urbana. Le città si identificano con il prestigio della Chiesa, si arricchiscono di donazioni, sono associate dai carolingi all'amministrazione, e mentre da un lato si arricchiscono dall'altro cresce il loro prestigio morale.

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Alla caduta dell'Impero carolingio i principi feudali continuano a rispettare l'autorità della Chiesa e ne deriva che pur nell'anarchia dei secoli Nono e Decimo la preminenza dei Vescovi conferisce naturalmente alle loro residenze, cioè alle antiche città romane, un'assoluta preminenza. Il Pirenne dimostra come sia questo il vero motivo che salva le città dalla rovina poiché nell'economia del Nono secolo esse non hanno ragione d'esistere; con la scomparsa dei mercanti esse non presentano per la società laica alcun interesse. Intorno ad esse le grandi proprietà agricole vivono di una loro vita propria e d'altro canto lo Stato, costituito su una base puramente agricola, si disinteressa della loro sorte. I castelli dei principi e dei conti si trovano nella campagna mentre è proprio la sedentarietà dell'ufficio ecclesiastico che lega i vescovi alla città. In questo senso la città si salva dalla rovina come luogo fisico della sede dei vescovi e non come continuità delle istituzioni urbane. L'esempio di Roma diventa, nell'analisi del Pirenne, di straordinaria evidenza: La ville impériale est devenue la ville pontificale. Son prestige historique a rehaussé celui du successeur de Saint Pierre. Isolé, il a paru plus grand, et il est en mme temps devenu plus puissant. On n'a plus vu que lui... En continuant à habiter Rome, il en a fait "sa" Rome, comme chaque évèque a fait de la cité qu'il habitait, "sa" cité (17). In che senso allora la città antica diventa il luogo o continua nella città moderna? Per Pirenne è del tutto falso attribuire la formazione della città del medio evo all'azione dell'abbazia, del castello o del mercato. Le città nascono, con le loro istituzioni borghesi, a causa del risveglio economico e industriale dell'Europa. Perché e come esse, per così dire, si installano nelle città romane? Perché le città romane, sostiene il Pirenne, non erano delle creazioni artificiali; esse riunivano al contrario tutte quelle condizioni di ordine geografico senza le quali un'agglomerazione urbana non può vivere e prosperare. Situate all'intersezione delle indistruttibili "strade di Cesare", che sono state per secoli le strade dell'umanità, esse erano destinate ancora a diventare le sedi della vita municipale. Les cités qui, du neuvième au dixième siècle, n'avaient guère été que le centre des grands domaines ecclésiastiques, par une transformation rapide et inévitable, vont récupérer leur caractère primitif qu'elles avaient perdu depuis si longtemps (18). Questa trasformazione rapida e inevitabile non poteva avvenire quindi che all'interno delle città antiche, o attorno ad esse; poiché queste rappresentano quel manufatto complesso, a metà strada tra l'artificio e la natura, come conferma il Pirenne riferendosi alle città romane, a cui l'umanità non può facilmente rinunciare nel corso del suo sviluppo. Vi è nell'utilizzazione dei vecchi corpi delle città un fatto economico e psicologico a un tempo.

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Esse sono tanto un bene quanto un riferimento.Una questione di questo tipo, che qui abbiamo visto applicata alla città antica, si presenta anche in tutte quelle questioni che si riferiscono al trapasso dalla città borghese alla città socialista; anche qui sembra ormai accertato come i tempi dei cambiamenti delle istituzioni non siano rapportabili all'evoluzione della forma. E che quindi porre un rapporto semplice tra i due fatti, come da alcuni si vuole, sia questione astratta e non rispondente alla realtà dei processi urbani. Quel che è sicuro è che elementi primari e monumenti, cioè ciò che rappresenta direttamente la sfera pubblica, acquistano un carattere sempre più complesso e necessario; e non si modificano tanto semplicemente. La residenza, che ha maggiore caratteristica dinamica come area, dipende dalla vita di quelli, partecipando al sistema che la città nel suo complesso costituisce.

Processi di trasformazione. Il rapporto aree-residenza e elementi primari configura in modo concreto la città: se esso è riscontrabile nelle città in cui le vicende storiche hanno sempre agito nel senso dell'unificazione dei vari elementi, esso è ancora più evidente nel caso delle città che non hanno mai riunito o tentato di riunire in una sola forma, i fatti urbani che le costituiscono: così Londra, Berlino, Vienna, Bari, Roma e molte altre città. A Bari la città antica e la città murattiana costituiscono due fatti estremamente diversi, senza quasi rapporti; la città antica non si è dilatata, il suo nucleo era assolutamente definito come forma. Solo la sua strada principale, che la legava al territorio, è emersa intatta e permanente nel tessuto murattiano. In ognuno di questi casi vi è sempre uno stretto legame tra gli elementi primari e l'area; spesso questo legame diventa addirittura un fatto urbano talmente preminente da costituire una caratteristica della città. E non è sempre la città la somma di questi fatti? L'analisi morfologica, che costituisce uno degli strumenti più importanti nello studio della città, mette in luce chiaramente questi aspetti. Nella città non esistono zone amorfe, o là dove esistono, esse sono momenti di un processo di trasformazione, esse rappresentano per così dire i tempi morti della dinamica urbana. Anzi là dove fenomeni di questo tipo si riproducono maggiormente, vedi sobborghi delle città americane, i processi di trasformazione hanno anche dei tempi più veloci in quanto, come è stato dimostrato, l'alta densità degli insediamenti produce una maggior pressione sull'uso del suolo. Queste trasformazioni si realizzano attraverso la definizione di un'area precisa; su di essa avviene il processo di "redevelopment". Questo processo caratterizza una grande città come Londra. Il concetto di una divisione delle città in settori ("precincts") scrive Peter Hall - è stata adottata istintivamente da secoli, dai costruttori e architetti, nei "Colleges

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di Oxford e Cambridge", nelle "Inns of Court di Londra", nei progetti originari per Bloomsbury, dove tutto il traffico diretto era trattenuto da cancelli (19). Una politica di questo tipo divenne la base dei famosi "precincts" di Abercrombie per Westminster e Bloomsbury. All'interno di un blocco circondato da strade principali, la struttura stradale avrebbe dovuto essere riadattata in modo tale che il traffico diretto non potesse penetrare. Ora si può affermare che il carattere distintivo di ogni città, e quindi anche della estetica urbana, è la tensione che si è creata e si crea tra aree e elementi, tra l'un settore e l'altro; questa tensione è data dalla differenza dei fatti urbani esistenti su un certo luogo e va misurata non solo in termini di spazio ma anche in termini di tempo. Questi si riferiscono sia al processo storico là dove sono presenti fenomeni di permanenza, con tutte le implicazioni che essi possiedono, sia in senso puramente cronologico dove sono riscontrabili fatti urbani avvenuti in tempi successivi. In questo senso noi ci rendiamo conto ormai pienamente di come siano belle parti già periferiche di grandi città in trasformazione; Londra, Berlino, Milano, Mosca ci rivelano scorci, aspetti, immagini del tutto impreviste. I tempi diversi, più ancora degli spazi immensi, della periferia moscovita ci danno l'immagine concreta di una cultura in trasformazione, di una modificazione della stessa struttura sociale attraverso un godimento estetico che è nella natura stessa dei fatti. Naturalmente noi non possiamo affidare così semplicemente i valori della città di oggi a questo succedersi di fatti; anche perché niente ce ne garantisce una continuità effettiva. E' importante conoscere il meccanismo e soprattutto stabilire come noi possiamo agire in questa situazione; non, io credo, attraverso il controllo totale di questo alternarsi dei fatti urbani ma attraverso il controllo dei fatti principali emergenti in un certo tempo. In queste osservazioni si profila ancora la questione della dimensione, e della dimensione dell'intervento. La mobilità nel tempo di singole parti di città è profondamente legata al fenomeno obiettivo della decadenza di certe zone. Questo fenomeno, generalmente noto dalla letteratura anglosassone col termine di "obsolescence", è sempre più evidente nelle grandi città moderne; esso ha caratteristiche particolari nelle grandi città americane dove appunto è stato particolarmente studiato. Per quello che qui ci interessa richiamare di questo fenomeno possiamo definirlo come una sopravvivenza di un gruppo di edifici, che può essere l'intorno di una strada come un quartiere, alla dinamica seguita dall'uso del suolo nell'ambiente circostante, dando a quest'ultima definizione un significato molto ampio. Queste aree della città non ne seguono quindi la vita, esse rappresentano per lungo tempo delle isole rispetto allo sviluppo generale; abbiamo visto che esse

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testimoniano i tempi diversi della città e nel contempo si configurano come grandi aree di riserva. Infine il fenomeno dell'obsolescenza mette in luce la giustezza dell'assunto relativo allo studio della città per aree intese come fatti urbani; le trasformazioni delle aree sono poi legate allo studio dei fattori accidentali come vedremo presentando le teorie di Halbwachs. Questa città costituita poi da tanti pezzi in sé compiuti, è, a mio avviso, quella che permette veramente la libertà delle scelte; e la libertà delle scelte diventa una questione di fondo per tutte le implicazioni che essa presenta; come non crediamo che vi siano delle questioni di valore che possano decidere a favore delle case alte o delle case basse, cioè di soluzioni architettoniche e tipologiche diverse, ma che queste questioni possano essere risolte solo al livello architettonico urbano, così siamo ben convinti che la libertà concreta del cittadino stia, in una società dove le scelte siano libere, nell'optare per una soluzione piuttosto che per l'altra. GEOGRAFIA E STORIA. La creazione umana. "Geografia o historia según que nos observen o cuando nos pensamos". Carlos Barral. Nelle pagine precedenti mi sono occupato principalmente: dell'arearesidenza e degli elementi primari; della struttura della città per parti. Subordinatamente mi sono occupato dei monumenti, della diversa fruizione degli elementi urbani, della lettura della città. Molte di queste questioni erano questioni di metodo; esse cercano di giungere a una classificazione. E' pensabile che vi siano altri modi per compiere questa classificazione e che io non abbia scelto il più lineare; ho però cercato di attenermi ai risultati più sicuri che possediamo e in parte di ordinarli. Ho già scritto che non vi è nulla di nuovo in tutto questo. Quello che importa è che dietro queste considerazioni vi siano dei fatti concreti; e che essi testimonino il rapporto dell'uomo con la città. Ho assunto l'ipotesi della città come manufatto e come opera d'arte; possiamo osservare e descrivere questo manufatto o cercare di capirne i valori strutturali. Ma in ogni caso la geografia della città è inscindibile dalla sua storia; e senza di esse non possiamo capirne l'architettura che è il segno concreto di questa "cosa umana". Ho citato all'inizio di questa ricerca studiosi di natura diversa; il fatto su cui insistiamo è tanto concreto che esso torna in tutti gli autori ed è la base della trattatistica. L'art de l'architecture - ha scritto Viollet-le-Duc - est une création humaine. E ancora: L'architecture, cette création "humaine", n'est donc, de fait, qu'une application de principes qui sont nés en dehors de nous et que nous nous approprions par l'observation (20).

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Questi principi sono nella città; essa è il paesaggio di pietra - "bricks and mortar", secondo l'espressione di Fawcett che simbolizza la continuità di una comunità (21). I sociologi hanno studiato la conoscenza collettiva, la psicologia urbana; geografia ed ecologia hanno aperto grandi orizzonti. Ma nel comprendere la città come opera d'arte, l'architettura non è essenziale? Uno studio più serrato dei grandi momenti della storia urbana ci chiarirà la questione dell'architettura della città come opera d'arte totale. Il Berenson si accorge, anche senza sviluppare questo concetto, che l'arte veneziana si esplica completamente nella città stessa: Non v'è nulla che i Veneziani non cercassero d'aggiungere alla grandezza dello Stato, alla sua gloria, al suo splendore. E questo li portò a fare della loro città un vivo, meraviglioso monumento dell'amore e della reverenza che nutrivano per la Repubblica; monumento che anche oggi suscita più ammirazione e dà gioia più d'ogni altra opera nata dal fervore dell'arte. Né si contentarono che Venezia fosse la più bella città del mondo; ma in suo onore istituirono cerimonie che avevano tutta la maestà dei riti religiosi (22). Osservazioni di questo tipo sono vere per tutte le città; esse si riferiscono a dei fatti; fatti che si possono manifestare in forma diversa e con vicende diverse ma non per questo non sono raffrontabili. Nessuna città è mai stata priva del senso della propria individualità. Il mio argomento si riferisce allo studio dell'architettura della città; mi limito all'abbozzo di un trattato. Può darsi che io usi la parola "trattato" in un modo un po' insolito; ma intendo rifarmi alla tradizione dei testi d'architettura, tradizione difficile e criticabile, ma autentica. Forse fin qui ho usato poco dei trattati più ortodossi, ma credo di averne usato in modo sufficiente e continuerò a farlo nei capitoli successivi. (Per esempio trattando del concetto di "locus). "Ma prima di passare ad alcuni aspetti dell'architettura, come modo di fare la città, voglio considerare quanto scritto in questo capitolo alla luce delle considerazioni avanzate in questo paragrafo. L'argomento principale emerso dalla seconda parte di questo capitolo è che nella città noi distinguiamo due fatti principali: l'arearesidenza e i fatti primari. Che neghiamo che la residenza (la casa) sia qualcosa di amorfo e di transeunte, una mera necessità. Per questo alla casa singola, per cui è riconoscibile empiricamente la decadenza tecnologica e il necessario adeguamento ai diversi livelli e modi di vita della società nel tempo, si è sostituito il concetto di area caratterizzata. Intere parti della città presentano dei segni concreti del loro modo di vivere, una loro forma e una loro memoria. Si sono individuate per l'approfondimento di queste caratteristiche delle indagini di tipo morfologico e delle possibili ricerche di tipo storico e linguistico. In questo senso il problema si apre sul concetto di "locus e di dimensione.

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Dall'altro lato gli elementi primari, si configurano come quegli elementi che con la loro presenza accelerano il processo della dinamica urbana. Questi elementi possono essere intesi da un mero punto di vista funzionale, come attività fisse della collettività per la collettività, ma soprattutto possono identificarsi con dei fatti urbani definiti, un avvenimento e una architettura che riassumono la città. Come tali essi sono già la storia e l'idea della città che costruisce se stessa, "a state of mind", secondo la definizione di Park della città. In base alla ipotesi della città come manufatto gli elementi primari hanno un'evidenza assoluta: essi si distinguono in base alla loro forma e in certo senso in base alla loro eccezionalità nel tessuto urbano. Essi sono caratterizzanti. Prendete la pianta di una città e considerate una sua parte: vi salteranno agli occhi, come macchie nere, queste forme emergenti. Anche in questo senso parlo di elementi primari; e lo stesso si può dire dal punto di vista volumetrico. Ripeto che cerco qui di dire a cosa mi riferisco piuttosto che di dare delle definizioni. Ora mi rendo conto chiaramente che pur affermando che gli elementi primari non sono soltanto i monumenti, nelle mie argomentazioni ho sempre finito per identificarli. Per esempio parlando del teatro di Arles, o del Palazzo della Ragione di Padova o di altri fatti ancora. Non credo di essere in grado di chiarire completamente questo punto ma introdurrò un argomento ulteriore. Voi sapete che molti testi di geografia o di urbanistica classificano le città in due grandi famiglie; città pianificate e città non pianificate. Negli studi urbani è normale mettere in rilievo per prima cosa la differenza tra città pianificate e non. Le prime sono state concepite e fondate come città, mentre le seconde sono sorte senza un disegno consapevole, come insediamenti che si sono particolarmente sviluppati e che di conseguenza si sono rivelati adatti per adempiere a funzioni urbane. Il loro carattere urbano è emerso solo nel corso del loro sviluppo e la loro struttura è essenzialmente risultata dall'aggregarsi di edifici attorno a qualche nucleo preurbano. Così, tra gli altri, lo Smailes nel suo testo di geografia urbana (23). Se, concedendo allo schema di teoria fin qui svolta la sicurezza di fondarsi su fatti autentici, noi giudichiamo una affermazione di questo tipo, vediamo che essa ha una concretezza relativa; si tratta tutt'al più di un tipo di classificazione elementare e contestabile da molti punti di vista. Infatti noi sosteniamo che in ogni caso riguardo alla genesi dei fatti di urbanizzazione - si tratta, per usare l'espressione dell'autore qui citato, dell'aggregarsi di edifici attorno a qualche nucleo preurbano.

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Questo nucleo rappresenta un inizio del processo di urbanizzazione quando è costituito in tutto il suo valore. Affermo ora che considero il "piano" un elemento primario, al pari di un tempio o di una fortezza. E che lo stesso primo nucleo di città pianificata si rivela come un elemento primario; che inizi un processo urbano, o che lo caratterizzi, come avviene a Leningrado o a Ferrara, la cosa non cambia molto. Il credere poi che un piano, la sua esistenza, offra alla città una soluzione spaziale definitiva dal punto di vista globale è del tutto contestabile; il piano è sempre un tempo della città, alla stessa stregua di qualsiasi altro elemento primario. Che poi una città cresca attorno a un nucleo ordinato o disordinato o attorno a un fatto singolo non cambia molto (anche se indubbiamente presenterà degli aspetti morfologici differenti): noi vediamo infatti queste situazioni come dei fatti caratterizzati, delle parti. Questo è successo per Leningrado e sta succedendo per Brasilia. E' auspicabile che si compiano ricerche in questa direzione. E' appena il caso di dire che maestri come Chabot e Poète accennano appena a questa divisione; e Chabot giustamente riporta la questione del piano a un problema teorico di architettura, fondamento delle operazioni urbanistiche. Una maggiore importanza a questa divisione è data dal Lavedan: dopo un lungo lavoro sulla città come architettura e sulla struttura urbana delle città francesi è logico che Lavedan insista su una differenziazione legata all'architettura urbana. Se l'enorme sforzo della scuola francese fosse stato accompagnato da tentativi di sintesi come quelli di Lavedan in forma più ampia, noi oggi potremmo disporre di un materiale meraviglioso; che le ricerche sull'abitazione e sulle città di Demangeon non tengano conto del materiale raccolto da Viollet-le-Duc è un problema che va al di là del mancato rapporto interdisciplinare; si tratta di un atteggiamento verso la realtà. Non si può quindi rimproverare a Lavedan di avere insistito sull'aspetto architettonico quando questo è proprio il merito maggiore della sua opera; e non penso di forzare il suo pensiero se affermo che quando egli ci parla del "piano" di una città, intende parlarci di architettura. Infatti occupandosi dell'origine della città egli scrive: Che si tratti di una città spontanea o di una città voluta, il tracciato della sua pianta, il disegno delle sue strade non è dovuto al caso. Esiste una obbedienza alle regole, sia inconscientemente nel primo caso, sia coscientemente e apertamente nel secondo. Esiste sempre un elemento generatore del piano (24). Con questa riduzione Lavedan riporta il piano al suo valore di elemento originario o di componente. Potrà sembrare che, nel tentativo di spiegare la differenza tra un elemento primario e un monumento, io abbia introdotto un altro argomento il quale alla fine invece di precisare ha allargato il discorso.

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In realtà questo allargamento ci ha permesso di tornare alla nostra ipotesi di partenza, che abbiamo analizzato da diversi punti di vista. La città non è per sua natura una creazione che può essere ridotta a una sola idea base: i suoi processi di conformazione sono diversi. La città è costituita da parti; ognuna di queste parti è caratterizzata; essa possiede inoltre degli elementi primari intorno a cui si aggregano degli edifici. I monumenti sono poi dei punti fissi della dinamica urbana; essi sono più forti delle leggi economiche, mentre gli elementi primari non lo sono in forma immediata. Ora l'essere monumenti è in parte il loro destino; non so fino a che punto questo destino sia prevedibile. In altri termini: per quanto riguarda la costituzione della città è possibile procedere per fatti urbani definiti, per elementi primari, e questo riguarda l'architettura e la politica; alcuni di questi elementi assurgeranno al valore di monumenti sia per il loro valore intrinseco sia per una particolare situazione storica, e questo riguarda appunto la storia e la vita della città. Ho scritto che tutte queste considerazioni sono importanti se dietro ad esse vi sono dei fatti; dei fatti che mostrano il loro legame diretto con l'uomo. Ora questi elementi costituenti la città, questi fatti urbani di natura caratteristica e caratterizzante non sono, in quanto prodotto dell'attività umana come fatto collettivo, una delle più autentiche testimonianze dell'uomo? E naturalmente quando parliamo di questi fatti noi non possiamo ignorare in qualche modo la loro architettura che è la creazione umana stessa. Uno studioso francese scriveva recentemente che pensando alla crisi istituzionale dell'università francese gli sembrava che niente potesse esprimere questa crisi in modo tangibile quanto la mancanza di un edificio che "fosse" l'università francese. Che Parigi, pur essendo culla delle grandi università d'Europa non fosse mai riuscita a "costruirsi" questa sede, era segno di una debolezza interna del sistema. La confrontation avec ce prodigieux phénomène architectural produisit sur moi un effet de choc. Une inquiétude naquit, et un soupon, qui devait se cofirmer lorsque, par la suite, il me fut donné de visiter Coimbra, Salamanque et Goettingen ou encore Padoue. [...] C'est le néant architectural de l'Université franaise qui m'a fait comprendre son néant intellectuel et spirituel (25). E' possibile affermare che le cattedrali e le chiese sparse per il mondo e S. Pietro non "costituiscano" l'universalità della chiesa cattolica? Io non mi riferisco al carattere monumentale di queste architetture, né ai loro valori stilistici: mi riferisco alla loro presenza, alla loro costruzione, alla loro storia. In altri termini alla natura dei fatti urbani. I fatti urbani hanno una loro vita, un loro destino. Andate in un ospizio: il dolore è qualcosa di concreto. Esso è nelle mura, nei cortili, nelle camerate.

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Quando i parigini distruggono la Bastiglia cancellano dei secoli di abuso e di dolore di cui la Bastiglia era a Parigi la forma concreta. Nell'aprire questo capitolo avevo accennato alla qualità dei fatti urbani e ad alcuni autori che avevano prospettato questo tipo di ricerca; Lévi-Strauss è andato forse più innanzi di tutti nel parlare di questa qualità e nell'affermare che per quanto ribelle sia divenuto il nostro spirito euclidiano a una concezione qualitativa dello spazio, non dipende da noi che questa esista. L'espace possède ses valeurs propres, comme les sons et les parfums ont des couleurs et les sentiments un poids. Cette qute des correspondances n'est pas un jeu de poète ou une mystification...; elle propose au savant le terrain le plus neuf et celui dont l'exploration peut encore lui procurer des riches découvertes (26). Cattaneo ha scritto della natura come patria artificiale che contiene tutta l'esperienza dell'umanità. Ci è concesso allora affermare che la qualità dei fatti urbani è emersa dalle ricerche positive, dalla concretezza del reale; la qualità dell'architettura - la "création humaine - è il senso della città. Dopo aver indagato sui possibili modi di intendere la città noi torniamo dunque alle caratteristiche più intime, più proprie dei fatti urbani. E su questi aspetti, i più legati all'architettura, inizierò le considerazioni dei prossimi capitoli. Per ora credo di poter affermare che qualità e destino distaccano gli elementi primari, intesi nel senso di una lettura geografica, dai monumenti. E sono convinto che sulla scorta di queste indicazioni si potranno arricchire le ricerche positive sul comportamento dei gruppi umani e dell'individuo nella città. Ho accennato al tentativo compiuto dall'americano Kevin Lynch, sia pure per vie diverse; speriamo che siano approfondite queste ricerche sperimentali e che possano offrirci importante materiale per valutare tutti gli aspetti della psicologia urbana. Così che si possa far luce sugli strati più profondi della coscienza collettiva come essa si forma nella città. Dal concetto stesso di qualità si potrà far luce sui concetti di area e di limite, di territorio politico e di frontiera, che né il mito della razza, né la comunità di lingua o di religione sono sufficienti a fondare. Qui si indicano solo delle direzioni di ricerca; molte di queste ricerche emergono dalla psicologia, dalla sociologia, dalla ecologia urbana. Mi sono convinto che esse prenderanno una nuova luce quando terranno maggior conto, o semplicemente potranno tener conto, dell'ambiente fisico e della architettura delle nostre città. Così come noi non possiamo più occuparci della architettura della città - in altri termini della architettura stessa - senza questo quadro generale in cui si collegano i fatti urbani. In questo senso ho parlato dell'esigenza di un nuovo trattato.

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NOTE. Nota 1. Una concezione di questo tipo sta alla base dell'insegnamento urbanistico dello Schumacher; questa teoria ritorna nel piano di Colonia e in quello più famoso di Amburgo. Per l'insegnamento urbanistico dello Schumacher l'opera più importante è senz'altro: RITZ SCHUMACHER, "Vom Stdtebau zur Landesplanung und Fragen Stdtebaulicher Gestaltung", Tbingen 1951. In particolare a pag. 37: la differenziazione della città moderna è il tratto principale della sua particolarità ("Eigenart") e tutte le zone tendono a dividersi sempre più chiaramente le une dalle altre. Il modo di informazione e i suoi obiettivi ("Gestaltungsaufgabe") caratterizza la struttura della città indipendentemente da un'unica legge o principio formale. Per il piano di Amburgo si veda: RITZ SCHUMACHER, "Zum Wiederaufbau Hamburgs", 1945, ora in "Strmungen in Deutscher Baukunst seit 1800", Kln 1955. EMEINSAMER LANDESPLANUNGSRAT HAMBURG SCHLESWIG-HOLSTEIN, "Leitgedanken und Empfehlungen", Hamburg-Kiel 1960. Per l'area studio e alcune interpretazioni della natural area intesa come area originaria si veda la mia ricerca: A.R., "Contributo al problema dei rapporti tra tipologia edilizia e morfologia urbana", Milano 1964. Nota 2. ERNEST W. BURGESS, "The Determination of Gradients in the Growth of the City", in Publications of the American Sociological Society, XXI, 1927 e "The Growth of the City", 1923, ripubblicato in ROBERT E. PARK, ERNEST W. BURGESS, RODERICK D. MCKENZIE, "The City", Chicago 1925. OMER HOYT, "The Structure and Growth of Residential Neighborhoods in American Cities", Washington 1939. Per la discussione di alcune tesi di sociologia urbana americana: MAX SORRE, "Géographie urbaine et écologie", in AA.VV., "Urbanisme et architecture", Paris 1954. Nota 3. Per i regolamenti berlinesi si veda il libro di WERNER HEGEMANN, cit. nota 8, e il paragrafo "Il problema tipologico della residenza a Berlino. Nota 4. Le vicende urbane della città di Vienna sono particolarmente interessanti per l'importanza storica di questa città e per l'ampia documentazione su di essa esistente. L'evoluzione generale della città si comprende meglio studiando la costituzione e la conformazione delle singole aree che la costituiscono. Aree il cui uso è appunto intimamente legato alla residenza. La situazione della residenza a Vienna si spiega con la "Hofquartierspflicht". Essa risale all'insediamento della corte degli Asburgo nella città; non potendo soddisfare le esigenze residenziali del numeroso seguito di corte fu varata questa legge che significa che i padroni delle case private erano tenuti a sopperire seduta stante alle necessità d'acquartieramento della corte. Questo significò la distruzione delle case gotiche a tre piani nel periodo barocco per l'erezione di case a sei e sette piani, con due o tre piani di cantine. Il valore dei terreni all'interno delle mura divenne già talmente alto nel 1700 che lo strato povero della popolazione e gli artigiani si trasferirono nei distretti esterni che crebbero dopo il 1683. E' interessante notare come in questo caso una interpretazione schematica del fenomeno dell'urbanesimo non ci spiegherebbe la formazione della città fino all'800; quando dopo il 1850 inizia il processo di crescita del periodo industriale Vienna ha già distrutto una parte della città antica. ALDO ROSSI, "Un piano per Vienna", in Casabella-continuità, n. 277, luglio 1963. ROLAND RAINER, "Planungskonzept Wien", Wien 1963. Le annate di Aufbau e in particolare: n. 4-5, 1961, "Gemeinwirtschaft, Planen und Bauen"; n. 7-8, 1961, "1946-1961, 15 Jahre", con l'articolo di GEORG CONDIT, "Stadtplannung und Planungsgrundlagen"; n. 11-12, 1962, con gli articoli di SOKRATIS DIMITRIOU, "Die Wiener Grtelstrasse"; KARL FELTINEK, "Kulturelle Mittelpunkte in den Wiener Aussenbezirke". Si veda anche: ROBERT E. DICKINSON, "The West European City", London 1961. Nota 5. KEVIN LYNCH, "The Image of the City", Cambridge (Mass.) 1960, ed. ital. Padova 1964, pag. 83.

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Nota 6. EUGENE EMMANUEL VIOLLET-LE-DUC, "Dictionnaire raisonné de l'architecture franaise du onzième au seizième siecle", Paris 18671873, voce: "Maison". Nota 7. PETER BEHRENS, "Die Gemeinde Wien als Bauherr", in Bauwelt, n. 41, 1928, tradotto in Casabella - continuità, n. 240, giugno 1960 e introdotto dal mio articolo: A.R., "Peter Behrens e il problema della abitazione moderna". In questo articolo sostenevo che i punti fondamentali della tematica del maestro tedesco nel campo della residenza si potevano riportare a due punti principali: 1) solo un sistema di case basse con giardino e di case a più piani, su un terreno appositamente scelto e studiato rende il quartiere armonico, civilmente abitabile ed economico; 2) le singole parti della costruzione devono essere normalizzate e i materiali unificati. Fin dal 1910 Behrens ha già chiaro il processo formativo di un nuovo spazio urbano. Per il problema della residenza nel movimento razionalista è fondamentale: "Die Wohnung fr das Existenzminimum", Internationale Kongresse fr Neues Bauen Zurich, Stuttgart 1933. Contiene gli scritti principali degli architetti del movimento moderno sul problema dell'abitazione, tra cui: ERNST MAY, "Die Wohnung fr das Existenzminimum"; WALTER GROPIUS, "Die soziologischen Grundlagen der Minimalwohnung fr die stdtische Industriebevlkerung"; LE CORBUSIER, PIERRE JEANNERET, "Analyse des éléments fondamentaux du problème de la Maison Minimum"; HANS SCHMIDT, "Bauvorschriften und Minimalwohnung". Per alcuni aspetti metodologici del movimento moderno rispetto al problema della casa si veda: ERNESTO N. ROGERS, "Problemi di metodo", ("La prefabbricazione"), 1944 e 1949, ora in "Esperienza dell'architettura", Torino 1958. Il problema della residenza nel movimento razionalista è magistralmente esposto da Giuseppe Samonà che ha affrontato l'insieme di questi problemi mettendo a fuoco il rapporto architettura-città. Dell'esposizione di Samonà conviene riportare il seguente passo: Si cercò un organismo polemicamente contrapposto alla caotica corpulenza della città esistente e perciò commisurato in ogni sua attività e servizio ai bisogni di una vita associata, programmabile nei suoi comportamenti con la esattezza schematica di uno standard precostituito per ogni attività e capace di tradursi in ben determinate dimensioni. Il senso quasi istituzionale della dimensione come misura di ogni attività impedì che si sentissero le situazioni urbane dall'interno delle loro istanze sociali, che si penetrasse nella loro discontinuità e complessità, perché in esse l'impeto esplosivo di forze e di interessi contrastanti sarebbe stato irriducibile a uno schema, sia pur tecnicamente perfetto. GIUSEPPE SAMONA', "L'urbanistica e l'avvenire delle città negli stati europei", Bari 1959, pagg. 99-100. Nota 8. Questo studio è sviluppato nel mio articolo: A.R., "Aspetti della tipologia residenziale a Berlino", in Casabella-continuità, n. 288, giugno 1964. Pubblicazioni principali su Berlino: LOUIS HERBERT, "Die Geographische Gliederung von Gross-Berlin. Lderkndliche Forschungen", Stuttgart 1936; WERNER HEGEMANN, "Das steinerne Berlin. Geschichte der grssten Mietkasernenstadt in der Welt", Berlin 1930; ROBERT E. DICKINSON, "The West European City", London 1961; FRITZ SCHUMACHER, "Strmungen in Deutscher Baukunst seit 1800", Kln 1955; ERICH HAENEL, HENRICH TSCHARMANN, "Das Kleinwohnhaus der Neuzeit", Leipzig 1913; WALTER MULLER-WULCKOW, "Deutsche Baukunst der Gegenwart", Leipzig 1909; HERMANN ZILLER, "Schinkel", Leipzig 1897; W. FRED, "Die Wohnung und ihre Ausstattung", Leipzig 1903; HEINZ JOHANNES, "Neues Bauen in Berlin", Berlin 1931; ROLF RAVE, HANS-JOACHIM KNOFEL, "Bauen in Berlin seit 1900", Berlin 1963; ADOLF BEHNE, "Vom Anhalter bis zum Bauhaus", 1922 (ripubblicato in Bauwelt, n. 41/42, Berlin 1961) Berliner Morgenpost 27 novembre 1912, "Inchiesta su Berlino con una opinione di Peter Behrens", tradotto in Casabella-continuità, n. 240, giugno 1960; Moderne Bauformen, 1920-1930; Bauwelt; Deutsche Architektur; Quaderni della Deutsche Bauakademie, Berlin; Pubblicazioni dell'Institut fur Raumforschung, Bad Godesberg. Nota 9. Nella letteratura italiana "Siedlung" è stato tradotto in modo impreciso quanto fortunato con quartiere. "Siedlung", come è noto, ha il significato più generale di insediamento e colonizzazione; esso è però

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usato largamente per indicare i nuovi insediamenti residenziali nelle zone periferiche delle città tedesche. Lo Hassinger definisce la "Siedlung" nel seguente modo: Siedlung im weitesten Sinn des Wortes eine jede menschliche Niederlassung, sowohl der Ruheplatz schweifender Jager... als auch lngere Zeit am selben Ort stehende Zeltlager von Hirtennomaden oder ein fester Wohnsitz, wie der Bauernhof, das Dorf oder die Stadt. AA.VV., "Allgemeine Geographie", Postdam, 1993, pag. 403. Nota 10. STEEN EILER RASMUSSEN, "Towns and Buildings described in Drawings and Words", Liverpool 1951. Per una valutazione moderna della città giardino il giudizio più aggiornato resta quello di Rodwin che nello studiare le New Towns e tutta l'esperienza urbanistica inglese ne dà una valutazione precisa e positiva. LLOYD RODWIN, "The British New Town Policy", Cambridge (Mass.) 1956, ed. ital. Padova 1964. Riassumendo le varie proposte inglesi Rodwin afferma che: Le proposte inglesi forniscono, soprattutto pensando a chi le avanzava, una dimostrazione della tendenza inglese alla mediazione, in sostanza, "il modo di pensare britannico nella sua migliore espressione; sempre in contatto con il pratico sempre in vista dell'ideale". Tra tutte le invenzioni di Howard questa prometteva di essere la più riuscita. Lewis Mumford ha messo in evidenza quanto queste idee colpirono il pensiero della gente: "all'inizio del ventesimo secolo due grandi invenzioni presero forma dinanzi ai nostri occhi: l'aeroplano e la città giardino, che precorrono entrambe una nuova epoca; la prima dava all'uomo le ali, la seconda gli prometteva una migliore abitazione al suo ritorno sulla terra" (pag. 29). La frase di Mumford è tratta da LEWIS MUMFORD, "The Garden City Idea and Modern Planning", introduzione a EBENEZER HOWARD, "Garden Cities of Tomorrow", London 1945. Nota 11. Una valutazione suggestiva e problematica dell'esperienza inglese è compiuta da Carlo Doglio in un articolo che considero uno dei lavori più stimolanti e intelligenti della letteratura urbanistica italiana del dopoguerra. CARLO DOGLIO, "L'equivoco della città giardino", in Urbanistica, n. 13, 1953. La città giardino costituisce un nodo di tale importanza per l'architettura europea, in tutte le sue implicazioni, che meriterebbe una ricerca molto vasta. Nota 12. HANS PAUL BAHRDT, vedi nota 10, capitolo IV. Nota 13. "Della transportatione dell'Obelisco Vaticano et delle fabriche di Nostro Signore Papa Sisto Quinto fatte dal Cavalier Domenico Fontana architetto di Sua Santità", libro Il, Napoli 1603. La citazione è tolta da: SIEGFRIED GIEDION, "Space, Time and Architecture", Cambridge (Mass.) 1941, ed. ital. Milano 1954. L'importanza di questa trasformazione è stata per la prima volta vista dal Giedion anche se non intesa in questo modo. Nota 14. FRANOISE LEHOUX, "Le Bourg Saint-Germain-des-Prés depuis ses origines jusqu'à la fin de la Guerre de Cent Ans", Paris 1951. PIERRE LAVEDAN, "Les villes franaises", Paris 1960. Sulla formazione di Parigi (vedi anche nota 13, cap. I) esistono studi particolarmente importanti di topografia storica. Nella Bibliotheque d'Histoire de Paris si veda: LOUIS HALPHEN, "Paris sous les premiers Capétiens (987-1223). Etude de topographie historique", Paris 1909. Alcune opere acquistano un carattere di eccezionale importanza per la storia della struttura urbana fornendo una serie di dati e di indicazioni che permettono di conoscere a fondo il meccanismo della dinamica urbana nella formazione della città moderna. Si veda a questo proposito nella stessa biblioteca: GEORGES HUISMAN, "La juridiction de la Municipalité parisienne, de Saint Louis à Charles Sept", Paris 1912.

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In particolare il capitolo VII: "la juridiction du domaine de la ville", I; "la juridiction du domaine municipal public", Il; "la juridiction du domaine privè". Nota 15. HENRI PIRENNE, "Les villes et les institutions urbaines", Paris-Bruxelles 1939. H.P., "Les villes du Moyen-Age", Bruxelles 1927. Nota 16. H.P., "Les villes et les institutions urbaines", pag. 345, tome I. Nota 17. Ivi, pag. 338. Nota 18. Ivi, pag. 48. Nota 19. PETER HALL, "London 2000", London 1963, ed. ital. Padova 1965, pagg. 26,162-164 ed. orig. Nota 20. VIOLLET-LE-DUC, op. cit. (nota 6), voce: "style". Per Viollet-Le-Duc, l'architettura è la conseguenza d'una profonda osservazione dei principi sui quali l'arte può e deve appoggiarsi. L'architetto deve cercare il principio e dedurne con logica rigorosa tutte le conseguenze. Nota 21. "Brick and mortar". Si veda JOHN SUMMERSON, "Urbans forms", in "The Historian and the City", op. cit. (cap. I, nota 1). Pag. 166. ...because I am disposed to condemn the kind of urban history wich concentrates on architecture at the expense of total building output; such work may of may not be good architectural history but it is not the history of the city as an artefact. Our historian has to be on terms with the whole physical mass of marble, bricks and mortar, steel and concret, tarmac and rubble, metal conduits and rails - the total artefact. He has to deal with it within limits. Nota 22. BERNARD BERENSON, "The Italian Painters of the Renaissance", London 1952, ed. ital. Firenze 1954. Nota 23. ARTHUR E. SMAILES, "The Geography of Towns", London 1953, ed. ital. Padova 1964, pag. 95. Nota 24. PIERRE LAVEDAN, "Géographie des villes, Paris 1959, pag. 91. Pag. 92. ...Cet élément générateur n'est pas nécessairement le mme que l'élément générateur de la ville. Nous avons vu, par exemple, que beaucoup des cités devaient leur origine à une fontaine; ces sources n'ont presque jamais eu d'influence sur le tracé des rues; souvent mme elle se trouvaient en dehors de l'agglomération proprement dite. Voici Cahors, l'antique Divona Cadurcorum; la source qui attira les premiers habitants est aussi loin de la Cahors romaine que de la cité médiévale ou moderne. Si Cahors est, quant à son origine, une ville de fontaine, son plan est celui d'une ville de route...l'élément générateur du plan correspond a l'élément de croissance et non a l'élément d'origine de la ville. Nota 25. GEORGES GUSDORF, "L'Université en question", Paris 1964, pag. 83. Nota 26. CLAUDE LEVI-STRAUSS, op. cit. (cap. I, nota 2), pag. 121.

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CAPITOLO TERZO. L'INDIVIDUALITA' DEI FATTI URBANI. L'ARCHITETTURA. Il "locus". Si è accennato più volte nel corso di questo saggio al valore del "locus", intendendo con questo quel rapporto singolare eppure universale che esiste tra una certa situazione locale e le costruzioni che stanno in quel luogo. La scelta del luogo per una costruzione singola come per una città, aveva un valore preminente nel mondo classico; la "situazione", il sito, era governato dal "genius loci", dalla divinità locale, una divinità appunto di tipo intermedio che presiedeva a quanto si svolgeva in questo stesso luogo. Il concetto di "locus è stato sempre presente alla trattatistica classica, anche se già nel Palladio e poi nel Milizia la sua trattazione prende sempre più un aspetto di tipo topografico e funzionale; ma nelle parole del Palladio vi è ancora in forma viva il fremito del mondo antico, il segreto di questo rapporto che è poi evidente, al disopra della cultura specifica architettonica, in certe sue opere come la Malcontenta o la Rotonda le quali devono appunto alla "situazione" alcune delle condizioni per la loro comprensione. Anche Viollet-le-Duc, nel suo sforzo di intendere l'architettura come una serie di operazioni logiche fondate su pochi principi razionali, ammette la difficoltà della trasposizione di un'opera d'architettura. All'idea generale dell'architettura partecipa anche il luogo come spazio singolo e concreto. D'altro canto un geografo come Max Sorre accenna alla possibilità di una teoria del frazionamento dello spazio (1); egli indica a questo proposito l'esistenza di "punti singolari". Il "locus", così concepito, finisce per mettere in risalto, all'interno dello spazio indifferenziato, delle condizioni, delle qualità che ci sono necessarie per la comprensione di un fatto urbano determinato. Anche Halbwachs, negli ultimi anni della sua vita, doveva occuparsi della topografia leggendaria affermando che i luoghi santi presentano, durante le diverse epoche, varie fisionomie nelle quali si riscontrano le immagini dei gruppi cristiani che le hanno costruite e situate secondo le loro aspirazioni e i loro bisogni. Pensiamo per un momento allo spazio della religione cattolica; questo spazio copre tutta la terra poiché la Chiesa è indivisibile; in questo universo l'area singola, il suo concetto, passa in secondo piano così come il limite o il confine. Lo spazio è determinato rispetto a un centro unico: la sede del Papa, ma questo stesso spazio terrestre non è che il momento, una piccola parte dello spazio universale che è il luogo della comunione dei santi. (Questa nozione di spazio è parallela alla sublimazione dello spazio come è intesa dai mistici).

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Eppure in questo quadro totale e indifferenziato, dove lo spazio stesso si annulla e si sublima, esistono dei "punti singolari"; sono questi i luoghi di pellegrinaggio, i santuari, dove il fedele entra in comunicazione più diretta con Dio. Così come, per la dottrina cristiana, i sacramenti sono segni della grazia, perché con le loro parti, che sono sensibili, significano o indicano quella grazia invisibile che conferiscono; e ne sono segni efficaci perché significando la grazia realmente la conferiscono. L'identificazione di questi "punti singolari" può essere dovuta a un dato avvenimento che è successo in quel punto o può dipendere da altre infinite cause; vi è però anche qui riconosciuto e sancito un valore intermedio, la possibilità di una singola, anche se eccezionale, nozione dello spazio. Trasportando questo discorso al dominio dei fatti urbani sembra di non poter andare oltre il valore delle immagini, come se il loro intorno non fosse analizzabile in qualche modo positivo; e forse non resta che l'affermazione pura e semplice del valore del "locus"; poiché questa nozione del luogo e del tempo sembra inesprimibile razionalmente anche se essa comprende una serie di valori che "sono" al di fuori e oltre i sentimenti che noi proviamo nel coglierli. Mi rendo conto della difficoltà di questo argomento; ma esso ritorna in ogni ricerca positiva; esso fa parte dell'esperienza. Eydoux, nei suoi studi sulla Gallia, si riferisce espressamente a luoghi che costringono a continui e singolari raffronti e invita all'analisi positiva dei luoghi che sembrano predestinati alla storia (2). Questi luoghi sono i segni concreti dello spazio; e in quanto segni stanno in rapporto tra l'arbitrario e la tradizione. Penso spesso alle piazze dei pittori del Rinascimento dove il luogo dell'architettura, la costruzione umana, acquista un valore generale, di luogo e di memoria, perché così fissato in un'ora singola; ma quest'ora è anche la prima e più profonda nozione che noi abbiamo delle piazze d'Italia ed è quindi legata alla stessa nozione di spazio che noi abbiamo delle città italiane. Nozioni di questo tipo sono legate alla nostra cultura storica; al nostro vivere in paesaggi costruiti, ai riferimenti che noi facciamo per ogni situazione a un'altra situazione; e quindi anche al ritrovare dei punti singolari, quasi i più vicini a un'idea dello spazio quale ce lo siamo immaginato. Focillon parla di luoghi psicologici senza i quali il genio degli ambienti sarebbe opaco e inafferrabile. Così egli sostituisce la nozione di "arte come luogo" a quella di un certo paesaggio artistico. Il paesaggio gotico, o piuttosto l'arte gotica come luogo, ha creato una Francia inedita, un'umanità francese, tali linee d'orizzonte, tali profili di città, insomma una poetica ch'esce da lei, e non dalla geologia o dalle istituzioni capetinge. Ma non è la proprietà d'un ambiente quella di generare i suoi miti, di conformare il passato secondo i suoi bisogni? (3). Come ognuno può vedere, la sostituzione di "arte gotica come luogo" a "paesaggio gotico" ha un'enorme importanza.

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In questo senso la costruzione, il monumento e la città, diventano la cosa umana per eccellenza; ma in quanto tali, esse sono profondamente legate all'avvenimento originario, al primo segno, al suo costituirsi, al suo permanere e al suo evolversi. All'arbitrio e alla tradizione. Come i primi uomini si sono formati un clima, essi si sono formati anche un luogo, fissandone l'individualità. Le notazioni dei trattatisti sull'inquadramento del paesaggio riferito alla pittura, la sicurezza con cui i romani, nel costruire nuove città, ripetevano elementi identici affidando appunto al "locus" il valore di trasfigurazione, molte altre questioni ci fanno intuire l'importanza di questi fatti; ed è affrontando problemi di questo tipo che ci rendiamo conto del perché l'architettura fosse tanto importante nel mondo antico e nel Rinascimento. Essa "conformava" una situazione; le sue stesse forme si mutavano nella mutazione più generale della situazione, esse costituivano un "tutto" e servivano a un avvenimento costituendosi esse stesse come avvenimento; solo così si può capire l'importanza di un obelisco, di una colonna, di una lapide. Chi può più distinguere tra l'avvenimento e il segno che ha fissato questo avvenimento? Mi sono chiesto più volte, anche nel corso di questo saggio, dove comincia l'individualità di un fatto urbano; se è nella sua forma, nella sua funzione, nella sua memoria o in qualcos'altro ancora. Potremmo allora dire che esso è nell'avvenimento e nel segno che ha fissato l'avvenimento. Pensieri di questo tipo hanno sempre percorso la storia dell'architettura. Gli artisti si sono sempre cimentati su qualche cosa di originario, su un fatto che viene prima dello stile. Burckhardt ha intuito questo processo quando ha scritto: Là, nel santuario, avvengono i primi passi verso il sublime; essi [gli artisti] imparano a separare l'elemento casuale dalle forme; sorgono tipi e infine inizi di ideali (4). Così il rapporto tra le forme e l'elemento che sta prima si ripropone come necessità di un fondamento; e allora l'architettura mentre da un lato rimette in discussione tutto il suo dominio, i suoi elementi e i suoi ideali, dall'altro tende a identificarsi col fatto senza tener più conto di quella separazione che era avvenuta all'inizio e che le permette di svolgersi con autonomia. In questo senso si possono interpretare le parole di Adolf Loos: Quando nella foresta troviamo un tumulo lungo sei piedi e largo tre, foggiato a piramide con la pala, diventiamo seri e qualcosa dice in noi: "qui è sepolto qualcuno". Quella è l'architettura (5). ll tumulo lungo sei piedi e largo tre è l'architettura più intensa e più pura poiché essa si identifica nel fatto; poi solo nella storicità dell'architettura avviene quella separazione tra l'elemento originario e le forme che il mondo antico sembra aver risolto per sempre e da cui deriva il carattere di permanenza che noi riconosciamo a quelle forme.

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Anche per questo tutte le grandi architetture si ripropongono l'architettura dell'antichità come se il rapporto fosse fissato per sempre; ma ogni volta si ripropone con una individualità diversa. Il pensiero di una stessa architettura si manifesta in luoghi diversi; possiamo quindi derivare da un identico principio le nostre città cogliendo il concreto di ogni singola esperienza. Quanto dicevo all'inizio di questo libro parlando del Palazzo della Ragione di Padova, un esempio, è forse tutto qui; oltre le sue funzioni e oltre la sua storia ma non oltre il suo essere in quel luogo. Allora per renderci conto dei contorni di questo problema quale esso è, o confina, con il dominio dell'architettura, conviene porre in luce quegli aspetti singoli, emergenti, quei rapporti che possiamo vedere nei loro reciproci confini. Forse noi possiamo meglio renderci conto di qualcosa di questo luogo, che a volte ci sembra solo silenzio, guardandolo dall'altra parte, dagli aspetti che penetrano in esso con contorni non più razionali, certo, ma più familiari, più noti; fino a quando continuiamo a cogliere questi contorni che poi si sfumano e scompaiono. Questi contorni riguardano l'individualità dei monumenti, della città, delle costruzioni, e quindi il concetto di individualità e i suoi limiti, dove essa comincia e dove essa finisce; riguardano il rapporto locale della architettura, il luogo di un'arte. E quindi i legami e la precisazione stessa del "locus "come un fatto singolare determinato dallo spazio e dal tempo, dalla sua dimensione topografica e dalla sua forma, dall'essere sede di vicende antiche e nuove, dalla sua memoria. Ma questi problemi sono in gran parte di natura collettiva; essi ci costringono a soffermarci brevemente sullo studio dei rapporti tra il luogo e l'uomo; di vedere quindi i rapporti con l'ecologia e la psicologia.

L'architettura come scienza. "les plus grands produits de l'architecture sont moins des oeuvres individuelles que des oeuvres sociales; plutt l'enfantement des peuples en travail que le jet des hommes de génie; le dépt que laisse une nation; les entassements que font les siècles; le résidu des évaporations successives de la société humaine; en un mot, des espèces de formations".(Victor Hugo). Nella sua opera consacrata ai monumenti della Francia del 1816, Alexandre de Laborde lodava, come Quatremère de Quincy, gli artisti della fine del Diciottesimo secolo e dell'inizio del Diciannovesimo secolo per essersi recati a Roma a studiare e a cogliere gli immutabili principi degli studi superiori, percorrendo così le grandi strade dell'antichità. Gli architetti della nuova scuola si presentavano come degli studiosi attenti ai fatti concreti della loro scienza: l'architettura. Questa percorreva quindi un cammino sicuro perché i suoi maestri erano preoccupati di stabilire una logica dell'architettura basata su dei principi essenziali.

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Ils sont a la fois des artistes et des savants; ils ont pris l'habitude de l'observation et de la critique... (6). Ma a de Laborde e ai suoi contemporanei sfuggiva quello che era nelle sue grandi linee il carattere fondamentale di questi studi e che consisteva in una loro apertura verso i problemi urbani e verso le scienze umane: apertura che faceva spesso pendere la bilancia dalla parte del sapiente piuttosto che da quella dell'architetto. Solo una storia dell'architettura fondata sui fatti potrebbe darci un quadro complessivo di questo difficile equilibrio e permetterci una conoscenza più articolata dei fatti stessi. Ma le nostre conoscenze ci permettono già di indicare, come problema di fondo dei trattati e dell'insegnamento, quello della elaborazione di un principio generale dell'architettura, l'architettura come una scienza, e quello dell'applicazione e della formulazione degli edifici. Ledoux stabilisce dei principi dell'architettura secondo la concezione classica; ma poi si preoccupa dei luoghi e degli eventi, delle situazioni e della società. Così egli studia tutti gli edifici che la società richiede stabiliti con precise condizioni di contorno. Anche per Viollet-le-Duc la risposta dell'architettura, in quanto scienza, non può essere che univoca; davanti a un problema vi è una sola soluzione. Ma, e qui egli sviluppa la sua trattazione, i problemi posti all'architettura cambiano continuamente modificando le conclusioni. Principi dell'architettura e modificazioni del reale, costituiscono la struttura della creazione umana secondo la prima definizione del maestro francese. Così, nel "Dizionario ragionato dell'architettura francese" si dispone davanti a noi con una efficacia senza pari il grande affresco dell'architettura gotica in Francia. Conosco poche descrizioni complete e persuasive delle opere architettoniche come quella del castello Gaillard; il castello, fortezza di Riccardo Cuor di Leone, assume nella prosa di Viollet-leDuc la forza di una immagine permanente della struttura delle opere architettoniche; e la struttura e l'individualità del castello si rivelano via via dall'analisi dell'edificio alla geografia della Senna, dallo studio dell'arte militare e delle cognizioni topografiche dell'antichità, fino a investire la stessa psicologia dei due condottieri rivali, il normanno e il francese; dietro di essi vi è la storia di Francia ma vi sono anche i luoghi della Francia, di cui acquistiamo una conoscenza e un'esperienza personale (7). Così lo studio della casa parte da classificazioni geografiche e da considerazioni sociologiche per calare attraverso l'architettura nella struttura della città e del paese: la creazione umana. Viollet-le-Duc scopre che nell'architettura la casa è quella che meglio caratterizza i costumi, gli usi, i gusti di una popolazione; la sua struttura come i suoi caratteri distributivi non si modificano che in tempi molto lunghi. Dallo studio delle planimetrie delle case d'abitazione ricostruisce la formazione dei nuclei urbani e può indicare l'indirizzo di uno studio comparato della tipologia della casa francese.

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Con lo stesso principio descrive le città costruite ex novo dai re di Francia. Montpazier non è soltanto allineata con regolarità ma tutte le case sono di eguale dimensione e presentano la stessa distribuzione. Le persone che venivano a stare in queste città privilegiate, si trovavano a stare su un assoluto piano d'eguaglianza. Lo studio dei lotti e dell'isolato urbano fa intravedere a Viollet-leDuc una storia delle classi sociali in Francia ricavata dal concreto della storia, anticipando la geografia sociale e le conclusioni di Tricart. Bisogna leggere i migliori testi della scuola francese di geografia sviluppatasi ai primi di questo secolo per trovare un eguale atteggiamento scientifico; anche la lettura più superficiale del saggio di Albert Demangeon sulla casa rurale in Francia richiama gli scritti del grande trattatista (8). Partendo dalla descrizione del paesaggio artificiale della campagna, Demangeon vede nella casa l'elemento persistente che si modifica in tempi lunghi e la cui evoluzione è più lunga e complessa di quella dell'economia rurale, a cui non sempre e facilmente corrisponde; così egli prospetta la questione delle costanti tipologiche nell'abitazione preoccupandosi di cercare i tipi elementari dell'abitazione. Infine l'abitazione, ricavata dall'ambiente locale, dimostra di non essere solo derivata da quell'ambiente; presenta rapporti esterni, parentele lontane, riflessi generali. Quindi nella ripartizione geografica di un tipo di casa molte osservazioni sfuggono al determinismo locale, sia esso relativo ai materiali, alle strutture economiche, alle funzioni; e si profilano le relazioni storiche e le correnti culturali. L'analisi di Demangeon si arresta necessariamente di fronte a una concezione più vasta della struttura della città e del territorio che era stata invece intravista in forma globale dai trattatisti; rispetto agli studi di Viollet-le-Duc essa ha acquistato in precisione e in rigore metodologico quanto ha perso nella comprensione generale. E' significativo, quanto inaspettato, che toccherà a un architetto considerato del tutto rivoluzionario riprendere i temi apparentemente lontani di queste analisi per riproporli in una sintesi unitaria; nella definizione di casa come macchina e di architettura come utensile, tanto scandalosa per i cultori estetizzanti dell'arte, Le Corbusier (9) non fa che raccogliere tutto l'insegnamento positivo della scuola francese basata sullo studio del reale. Negli stessi anni infatti, nel saggio citato, Demangeon parla della casa rurale come di un utensile forgiato per il lavoro del contadino. La creazione umana e l'utensile forgiato sembrano quindi richiudere i fili di questo discorso in una visione dell'architettura basata sul concreto; attraverso una visione totalizzante che costituisce forse l'apporto dell'artista. Ma credo che una conclusione di questo genere finirebbe per chiudere il discorso senza aver stabilito un progresso se rimandasse alla singola personalità, e non a un progresso dell'architettura come scienza, la soluzione dei rapporti tra analisi e

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progettazione; negando quella speranza contenuta nell'osservazione di de Laborde che vedeva nella nuova generazione degli uomini d'arte e di cultura che avevano preso l'abitudine alla critica e all'osservazione; che vedeva in altri termini la possibilità di un intendimento più profondo della struttura della città. Credo quindi che solo una più profonda meditazione sull'oggetto dell'architettura quale qui si è continuamente intesa, la creazione umana, possa portare avanti l'analisi e la proposta. Ma questa meditazione si deve estendere necessariamente a tutta la struttura che comprende il rapporto tra opera individuale e sociale, il deposito dei secoli, l'evoluzione e le permanenze delle diverse culture. Senza compiacimento letterario quindi, ma in accordo con il desiderio di una analisi più complessa, questo paragrafo inizia con un passo di Victor Hugo che può essere un programma di studio (10). Nella passione spesso enfatica per la grande architettura nazionale del passato, Victor Hugo, come tanti altri artisti e scienziati, ha cercato di comprendere la struttura della scena fissa della vicenda umana. E quando ci indica l'architettura e la città nel loro aspetto collettivo e come des espèces de formation, arricchisce la ricerca di un riferimento tanto autorevole quanto suggestivo.

Ecologia urbana e psicologia. Nel paragrafo precedente ho avanzato alcune considerazioni sui risultati a cui sono giunti studiosi di formazione diversa nello studio della città, cercando di porre in luce come qualsiasi ricerca sulla città abbia in primo piano il discorso sull'architettura, riportando al filone più concreto dell'architettura stessa molte di queste analisi. Cerco di insistere sul fatto che dall'architettura, forse più che da altri punti di vista, si può giungere a una visione globalizzante della città e quindi alla comprensione della sua struttura; soprattutto in questo senso ho sottolineato gli studi sulla casa fatti da Viollet-le-Duc e da Demangeon, indicando come un'analisi comparata dei loro risultati possa dar luogo ad affermazioni di notevole interesse. Inoltre è nel campo dell'architettura - ho citato Le Corbusier - che si sono finora verificate queste sintesi. Questo discorso voleva introdurre - come si è annunciato dopo aver esposto il concetto di "locus" - alcune osservazioni sull'ecologia e la psicologia, intesa quest'ultima nelle sue applicazioni alla scienza urbana. Può sembrare quasi ovvio che un problema di questo tipo sia sollevato direttamente in una ricerca che è continuamente percorsa da riferimenti ai risultati ottenuti da questi tipi di analisi. Ma intendo stabilire alcuni criteri per una discussione più ampia di questo problema che tocca solo lateralmente il presente libro.

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L'ecologia come conoscenza dei rapporti tra l'essere vivente e il suo ambiente non può essere qui discussa; questo è un problema che appartiene alla sociologia e alla filosofia naturale a partire da Montesquieu. Accennarvi, per lo straordinario interesse che esso presenta, ci porterebbe anche troppo lontano. Consideriamo solo questa domanda: il "locus urbis", una volta determinato, in che modo influenza l'individuo e la collettività? Mi interessa qui questa domanda solo nel senso che Max Sorre ha dato alla domanda base dell'ecologia: in che modo l'ambiente influenza l'individuo e la collettività? Max Sorre ha risposto che questa domanda è tanto più interessante quanto più essa si pone assieme alla sua reciproca: in che modo l'uomo cambia il suo ambiente? (11) Con questo l'ecologia umana cambia bruscamente di senso: e coinvolge tutta la storia della civiltà. Noi abbiamo risposto alla domanda, o al sistema che queste due domande formano, quando all'inizio di questo studio abbiamo indicato le definizioni della città; come la cosa umana per eccellenza. Ma sarà allora necessario ripetere che anche per l'ecologia, e per l'ecologia urbana a cui ci riferiamo, la ricerca ha un senso solo quando la città viene vista in tutta la sua costruzione; come una struttura complessa. Non si possono studiare i rapporti e le influenze tra l'uomo, quale esso è storicamente determinato, e la città, riducendo questa a uno schema di città. Mi riferisco agli schemi urbani della ecologia della scuola americana da Park a Hoyt. E agli sviluppi di queste teorie le quali possono dare qualche risultato, per quanto io sappia, nella tecnica urbanistica, ma poco contributo allo sviluppo della scienza urbana la quale pretende di essere fondata su fatti e non su schemi. Che lo studio della psicologia collettiva abbia una parte essenziale nello studio della città mi sembra incontestabile. Alcune delle citazioni più importanti degli autori a cui intende ricollegarsi questa ricerca si basano sullo studio della psicologia collettiva; e quest'ultima è collegata alla sociologia. Su questi legami esistono ampie trattazioni. La psicologia collettiva compare quindi in tutte quelle scienze dove la città come oggetto di studio è in primo piano. Credo anche che risultati utili si possano ottenere dagli esperimenti condotti sulla scorta della psicologia della "Gestalt "come erano stati iniziati dalla Bauhaus nel campo della forma e come sono proposti dalla scuola americana di Kevin Lynch (12). Soprattutto come conferma sperimentale; in questo libro, a proposito del quartiere mi sono riferito proprio ad alcune conclusioni di Kevin Lynch per confermare il carattere distintivo dei diversi quartieri all'interno della città. Vi sono però delle estensioni improprie dei metodi della psicologia sperimentale. Ma prima di affrontare questo problema dobbiamo fermarci brevemente sul rapporto tra la città e l'architettura come tecnica.

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Quando parlo della costituzione di un fatto e della sua memoria io intendo che questi problemi sono in gran parte di natura collettiva; essi appartengono alla città, quindi alla collettività. Possiamo ora accettare la teoria, per cui in un'arte o in una scienza i principi e i mezzi di azione sono elaborati collettivamente o trasmessi per tradizione per cui tutte le scienze e le arti sono fenomeni collettivi. Ma nel contempo esse non sono collettive in tutte le parti essenziali; esse hanno per promotori degli individui. Ora è proprio questo rapporto tra un fatto collettivo, e tale è un fatto urbano perché altrimenti sarebbe inconcepibile, e colui che l'ha promosso e attuato singolarmente e d'altra parte il rapporto tra questo fatto urbano e colui che ne partecipa, che non può essere illuminato che attraverso lo studio delle tecniche con cui il fatto si manifesta. Queste tecniche sono diverse; una di esse è l'architettura e poiché è la tecnica assunta come oggetto di questo studio, noi ci occupiamo soprattutto di essa (e in parte dell'economia e della storia per quanto esse si manifestano nell'architettura della città). Questo rapporto tra il fatto urbano (collettivo) e l'individuo è singolare rispetto a qualsiasi altra tecnica o arte; è infatti da rilevare che perché l'architettura si imponga come un vasto movimento culturale e venga discussa e criticata al di fuori di una stretta cerchia di specialisti, bisogna che questa architettura si realizzi, che essa diventi parte della città, diventi "la città". In certo senso non esistono edifici "d'opposizione" poiché ciò che si realizza è sempre dovuto alla classe dominante, o almeno deve sorgere una possibilità di conciliare certe nuove esigenze con la specifica realtà urbana. Vi è quindi un rapporto diretto tra l'architettura in quanto formulazione di certe proposte e le costruzioni che si pongono nella città. Ma è altresì indubbio che questo rapporto deve essere considerato nei suoi termini distinti; il mondo dell'architettura può svolgersi ed essere studiato nella sua successione logica di enunciati e di forme in modo sufficientemente autonomo dalla concretezza del "locus" e della storia. Quindi l'architettura presuppone la città, ma può costituirsi all'interno di una città ideale, di rapporti perfetti e armonici, dove essa sviluppa e costruisce i suoi termini di riferimento. Diversa è l'architettura concreta della città; che sta alla prima con quel rapporto caratteristico, e ambiguo, che nessun'altra arte o scienza può presentare. Così è comprensibile la continua attitudine demiurgica degli architetti, di presentare sistemi in cui l'ordine spaziale diventa l'ordine della società e vuol trasformare la società. Come una sovrapposizione di piani diversi e non congruenti. Oltre il disegno, oltre l'architettura in sé, esistono i fatti urbani, esiste la città, esistono i monumenti; gli studi singoli operati su un certo periodo, in un certo intorno, ci illuminano su questo.

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Chastel nello studiare la Firenze dell'Umanesimo ci mostra chiaramente tutti quei legami di civiltà e quindi di arte e di storia e di politica che intercorrono tra la nuova visione della città, Firenze (e Atene e Roma e New York) e l'arte e le tecniche che andavano elaborando la nuova città. Si pensi al Palladio; alle città venete storicamente determinate in cui noi vediamo l'opera del Palladio, e come lo studio delle stesse città, delle stesse singole opere trascenda il Palladio architetto. Qui il concetto di "locus" da cui sono partito per svolgere questi ragionamenti acquista tutto il suo significato; e diventa il contesto urbano, esso si identifica con il fatto singolo. Ci chiediamo ancora; dove comincia l'individualità? Essa comincia nel fatto singolo, nella materia e nelle sue vicende, e nella mente degli elaboratori di questo fatto. Essa consiste anche nel luogo che determina un'opera: in senso fisico ma anche e soprattutto nel senso della scelta di quel luogo e dell'unità inscindibile che si è stabilita tra il luogo e l'opera. La storia della città è anche la storia dell'architettura; ma la storia dell'architettura è al massimo un punto di vista con cui guardare la città. L'incomprensione di questo ha spinto da molto tempo a studiare la città e la sua architettura riferendosi all'immagine, e per sbloccare lo studio dell'immagine da alcuni punti morti in cui essa era caduta, a cercare di vederla attraverso certe altre scienze; per esempio la psicologia. Ma cosa può dirci la psicologia se non che un certo individuo vede la città in quel modo e che più individui vedono la città in quel modo? E come è rapportabile questa visione privata e incolta con le leggi e i principi con cui la città sorge e attraverso cui essa forma la sua immagine? Se noi ci occupiamo architettonicamente della città non solo dal punto di vista stilistico, il non far questo non significa lasciar stare l'architettura e occuparsi d'altro. Al contrario; a nessuno verrebbe mai in mente che quando i trattatisti ci dicono che gli edifici devono rispondere a criteri di solidità, utilità e bellezza, dovrebbero poi preoccuparsi di spiegarci quali sono i moventi psicologici di questo principio. Quando Bernini parla con disprezzo di Parigi perché trova barbaro il paesaggio gotico di questa città, a noi non interessa nulla della psicologia di Bernini; interessa invece il giudizio di un architetto che in base a una cultura vasta e precisa della città giudica la costituzione di un'altra città; e che Mies van der Rohe abbia una certa visione dell'architettura ci importa non per sapere quale è il "gusto" o "l'atteggiamento" del tedesco medio verso la città, ma per poter vedere qual è la base teorica, l'eredità culturale sulla città tedesca del classicismo schinkeliano e di altri fatti ad essa connessi. Il critico che discute perché il poeta abbia usato un nuovo ritmo in un certo luogo della sua poesia, sta considerando quale problema compositivo gli si sia presentato in quell'occasione.

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E così il critico che studia quale rapporto vi sia o come noi intendiamo la poesia del Foscolo, si occupa della letteratura italiana e possiede tutti i mezzi atti ad occuparsi di questo problema. Naturalmente le tecniche e le arti non hanno risolto tutti i loro problemi; e via via che esse ne risolvono qualcuno se ne affacciano altri. E' possibile così che noi sappiamo molto poco sul rapporto tra la città e alcune architetture, tra un singolo fatto urbano e la nostra capacità di intenderlo e di promuoverlo, ma questo non significa che non ci sia concesso di studiarlo con gli strumenti che possediamo.

Precisazione degli elementi urbani. Ora per portare avanti questa analisi non ci è possibile far altro che porci di fronte ad alcuni di questi fatti, tipici o singolari, e cercare di capire come questi problemi sorgano e si illuminino in essi e attraverso di essi. Forse questi nuovi ragionamenti sulle cose, sulla città come architettura, potranno offrirci dei nuovi fondamenti o almeno una nuova comprensione. Gli architetti di tutti i tempi si sono resi conto di questo; e gli architetti dell'epoca moderna hanno tentato dei sistemi logici per ricuperare questo fatto, ma non sempre i loro risultati sono stati positivi; a volte i luoghi e le particolari culture li hanno favoriti, altre volte questi stessi elementi li hanno ingannati. Mi capita spesso di pensare, da questo punto di vista, al valore del simbolismo in architettura; che è probabilmente la spiegazione più sensata del simbolismo (pensare infatti al simbolismo come alla costruzione stessa del simbolo di un avvenimento è una mera posizione funzionalista). E tra i simbolisti agli architetti della Rivoluzione e ai costruttivisti (anch'essi tra l'altro architetti della Rivoluzione). Come se proprio nei momenti decisivi della storia l'architettura si riproponesse questa necessità di essere "segno" e "avvenimento" per poter fissare e costituire essa stessa un'epoca nuova (13). Un globe, en tous les temps, n'est égal qu'à lui-mme; c'est de l'égalité le plus parfait emblème. Nul corps n'a, comme lui, ce titre capital, qu'un seul de ses aspects a tout autre est égal. Nel simbolo quindi da un lato si riassume l'architettura e i suoi principi, dall'altro vi è la condizione stessa per costruire: il movente. La sfera non solo rappresenta, o meglio non rappresenta, essa è di per se stessa l'idea dell'uguaglianza, la sua presenza come sfera, quindi come monumento, è la costituzione dell'uguaglianza. Il legame con la continuità dei fatti urbani è come perduto e deve essere ritrovato in condizioni nuove che sono nuovi fondamenti. Si pensi sempre alla discussione solo apparentemente di natura tipologica sulle piante centrali nel periodo dell'Umanesimo: la funzione dell'edificio è doppia, disporre l'anima quanto meglio possibile alle sue facoltà contemplative e con questo arrivare ad una sorta di terapeutica spirituale che esalta e purifica lo

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spettatore; tuttavia la sublimità stessa dell'opera realizza un atto di adorazione che raggiunge il tono religioso attraverso la bellezza assoluta (14). Ora le dispute sulla pianta centrale mentre si accompagnano alle tendenze di riforma o di semplificazione della pratica religiosa all'interno della chiesa ricuperano un tipo di pianta che era stata una delle forme tipiche della bassa antichità prima di divenire il tipo canonico di chiesa dell'impero bizantino. Chastel riassume tutto questo quando afferma: Tre serie di considerazioni giocavano a favore della pianta centrale: il valore simbolico annesso alla forma circolare, il gran numero di speculazioni geometriche provocate dallo studio dei volumi in cui venivano a combinarsi sfera e cubo, il prestigio degli esempi storici (15). Prendete il San Lorenzo Milanese (16). Lo schema di San Lorenzo ritorna direttamente nel Rinascimento e continuamente analizzato in forma quasi ossessiva nei quaderni di Leonardo. Ma diventa poi un fatto eccezionale la sua presenza nei quaderni del Borromini che è terribilmente influenzato dai due maggiori monumenti milanesi; il San Lorenzo e il Duomo. Il Borromini media tra questi due edifici tutta la sua architettura e introduce caratteristiche sconosciute, quasi biografiche, nell'accompagnare il verticalismo gotico del Duomo con la pianta centrale di San Lorenzo. D'altra parte nel San Lorenzo quale lo vediamo oggi vi sono aggiunte di vario tipo; da quelle barbariche (S. Aquilino) a quelle rinascimentali (Martino Bassi) e tutta la costruzione permane sul luogo delle antiche terme romane, nel cuore stesso della Milano romana. Siamo ancora di fronte a un monumento; è possibile porci la questione del disegno dell'ambiente urbano? Parlare di quest'opera in puri termini di figurabilità? Mi sembra molto più giusto ricercarne il significato, la sua ragione, il suo stile, la sua storia. In questo modo essa compare agli artisti del Rinascimento; e diventa un'idea di architettura che si ripropone in un disegno nuovo. Nessuno può parlare di architettura della città ignorando questi fatti; ed essi devono sempre meglio essere conosciuti. Essi sono il principale fondamento di una scienza urbana. La particolare accezione che qui si è data dell'architettura del simbolismo può investire tutta l'architettura; e soprattutto per l'identificazione tra avvenimento e segno che essa comporta. E' la necessità di stabilire un nuovo giudizio che si pone più o meno necessariamente in certi periodi dell'architettura. Vi sono opere che costituiscono un avvenimento originario nella costituzione urbana e che permangono e si caratterizzano nel tempo trasformando la loro funzione o negando quella originaria fino a costituire un brano di città, tanto che noi le consideriamo più dal punto di vista prettamente urbano che da quello dell'architettura.

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Vi sono opere che segnano una nuova costituzione, il segno di nuovi tempi nella storia urbana; esse sono per lo più legate a periodi rivoluzionari, ad avvenimenti decisivi nel corso storico della città. E' evidente che, benché questo libro si occupi della architettura della città considerando strettamente uniti i problemi della architettura in sé e quelli della architettura urbana intesa come un tutto, esso non può affrontare alcuni specifici problemi dell'architettura; mi riferisco ai problemi compositivi. Ritengo infatti che questi problemi abbiano decisamente una loro autonomia; essi riguardano l'architettura come una composizione. Questo significa altresì che essi riguardano lo stile. Ho cercato più sopra di differenziare i fatti urbani in quanto tali e l'architettura in sé; voglio dire che ora dal punto di vista dell'architettura urbana i risultati più importanti, concretamente verificabili, si hanno per la coincidenza di questi due aspetti; e per l'influenza che l'un problema ha sull'altro. Quello che però voglio dire puntualmente sull'architettura, e sulla composizione e lo stile, è che questa è incidente e determinante nella costituzione dei fatti urbani quando è in grado di assumere tutta la portata civile e politica di un'epoca; quando essa è altamente razionale, comprensiva e trasmissibile. In altri termini: quando essa può essere giudicata come stile. Questo fondamento della architettura è anche il solo che implica la possibilità di un suo insegnamento; e di un insegnamento tale da poter rendere uno stile universale. L'identificazione di alcuni fatti urbani e della stessa città con lo stile dell'architettura è così immediato in un certo intorno di spazio e di tempo che noi possiamo parlare con discreta precisione della città gotica, della città barocca, della città neoclassica. Queste definizioni stilistiche diventano a un tempo definizioni morfologiche; esse precisano la natura dei fatti urbani. In questo senso è possibile parlare di disegno civico. Quindi perché questo avvenga è necessario che un momento di decisiva importanza storica e politica coincida con un'architettura razionale e definita nelle sue forme; è allora possibile da parte della comunità risolvere il problema della scelta, volere una città e rifiutarne un'altra. Mi occuperò di questo parlando del problema delle scelte e del problema politico della città. Per ora è utile affermare come nessuna scelta possa essere fatta senza queste condizioni; e come la costituzione di un fatto urbano non sia di per sé possibile senza questa coincidenza. Unici sono i principi dell'architettura e immutabili; ma continuamente diverse sono le risposte che le situazioni concrete, le situazioni umane, danno a questioni diverse. Da un lato vi è quindi la razionalità dell'architettura; dall'altro la vita delle opere. Quando l'architettura pone il problema della costituzione di nuovi fatti urbani non rispondenti alla situazione reale della città, si pone necessariamente sul piano

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dell'estetismo; i suoi risultati non possono che corrispondere storicamente ai movimenti riformisti. Questa assunzione dei fatti urbani come principio e fondamento della costituzione della città nega e si contrappone al problema del "towndesign". Il problema del disegno su scala urbana è inteso comunemente nel senso dell'ambiente; si tratta di configurare, di costruire, un ambiente omogeneo, coordinato, continuo che sia in grado di presentarsi con la coerenza di un paesaggio. Si ricercano leggi, motivi, ordini che non sorgono dalla realtà storica della città come essa è, ma sono legati a un piano, a un disegno generale di come essa deve essere. Queste teorie sono accettabili e concrete solo quando esse si rivolgono a un "pezzo di città" nel senso in cui abbiamo parlato di questo nella prima parte, o quando esse si riferiscono a un insieme di edifici. Questa teoria non può approdare a nulla di positivo nella formazione della città; è anzi accertabile che spesso i fatti urbani si pongono come delle lacerazioni all'interno di un certo ordine e soprattutto come qualcosa che costituisce, non come qualcosa che continua le forme. Una concezione di questo tipo, che riduce la forma dei fatti urbani a un'immagine e al gusto con cui questa immagine viene colta, risulta troppo limitata nella comprensione della struttura dei fatti urbani; a questa concezione si oppone invece la possibilità di stabilire dei fatti urbani in tutta la loro interezza, capaci cioè di risolvere una parte di città in modo completo determinando tutti i rapporti che si possono stabilire all'interno di un certo fatto. In un recente studio sulla formazione della città moderna, Carlo Aymonino (17) ha illustrato come il compito dell'architettura moderna sia quello di mettere a punto una serie di concetti e di relazioni che, se hanno dal punto di vista tecnologico e distributivo alcune leggi fondamentali comuni a tutti, si inverano in "modelli" parziali e differenziantisi proprio attraverso la loro risoluzione in una forma architettonica compiuta e quindi particolare e riconoscibile. Egli afferma inoltre che, rotto il sistema della destinazione d'uso sul piano orizzontale (previsione di zona) e della utilizzazione edilizia puramente volumetrico-quantitativa (norme e regolamenti), la sezione architettonica [...] diviene una delle "immagini" di partenza, il nucleo generatore dell'intera composizione. Mi sembra che il riproporre anche in sede di progettazione architettonica l'edificio in tutta la sua concretezza possa portare un nuovo impulso alla stessa architettura ricostituendo quella visione globale di analisi e di proposta su cui si è tanto insistito. Una concezione di questo tipo, in cui la tensione architettonica prevale imponendosi in primo luogo come forma, risponde alla natura dei fatti urbani come essi realmente sono. La costituzione di nuovi fatti urbani, che in altri termini significa poi la crescita della città, è sempre avvenuta per la precisazione di una serie di elementi; e

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proprio l'estrema precisazione di questi ha causato una serie di reazioni che non sono spontanee, e pur non essendo prevedibili nei loro modi concreti di attuazione, sono però previste in un quadro generale. In questo senso il piano di sviluppo può avere un significato. Ho cercato di dimostrare come questa teoria nasca dall'analisi urbana, dalla realtà; questa realtà contraddice tutti coloro che credono che funzioni preordinate possano di per sé indirizzare i fatti e che credono che il problema sia quello di dar forma a certe funzioni; in realtà sono le forme stesse nel loro costituirsi che vanno al di là delle funzioni a cui devono assolvere; esse si pongono come la città stessa. In questo senso anche l'edificio si immedesima con la realtà urbana; e qui si illumina il carattere urbano dei fatti architettonici i quali acquistano un più vasto significato rispetto alle caratteristiche del "progetto". Volerli intendere separatamente da queste, cercando di forzare e di interpretare le funzioni puramente distributive come momento di rappresentazione, riconduce il discorso all'angusta visione funzionalista della città. Visione negativa quando poi si pretende di concepire l'edificio come una impalcatura suscettibile di variazioni, un contenitore astratto che segue tutte quelle funzioni che progressivamente lo completeranno. Ripeto che so bene come l'alternativa alla concezione funzionale non sia né semplice né facile e come se da un lato dobbiamo opporci al funzionalismo ingenuo, dall'altro dobbiamo fare i conti con l'insieme delle teorie funzionaliste. Ma è anche opportuno individuare i limiti entro i quali questa si ripropone continuamente e gli equivoci che contiene anche nelle proposte più aggiornate che apparentemente sembrano contraddirla. Secondo la mia teoria noi non supereremo questi aspetti fino a quando non ci renderemo conto dell'importanza della forma e dei processi logici dell'architettura; vedendo nella stessa forma la capacità di assumere valori, significati e usi diversi. Precedentemente, nello svolgere questo stesso argomento, ho avanzato gli esempi del teatro di Arles e del Colosseo; in generale mi sono sempre riferito a questioni di questo tipo anche parlando dei monumenti. Cerco anche di dimostrare che è l'insieme di questi valori, compresa la stessa memoria, che costituisce la struttura dei fatti urbani; questi valori non hanno niente in comune né con la distribuzione né con il funzionamento presi in sé. Sono propenso a credere che lo svolgersi di certe funzioni non muti, o muti solo con caratteri di necessità. Sono inoltre convinto che la mediazione tra funzionamento e schemi distributivi possa avvenire solo attraverso la forma. Tutte le volte che noi ci troviamo di fronte a dei fatti urbani reali siamo in grado di renderci conto della loro complessità; questa complessità della loro struttura ha superato l'attribuzione univoca della loro funzionalità.

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Destinazione d'uso sul piano orizzontale e schemi distributivi possono essere soltanto riferimenti, indubbiamente utili per un'analisi della città come manufatto.

Il Foro Romano. Nelle pagine precedenti siamo partiti dal concetto di "locus "per avanzare alcune considerazioni sull'architettura della città e successivamente sul valore dei fatti architettonici nella costituzione e nella crescita della città. Alla luce di queste considerazioni ritornerò ora sul rapporto tra l'architettura e il "locus per prospettare successivamente altri aspetti di questo problema e il valore del monumento nella città. Tenteremo di osservare il Foro Romano da questo punto di vista, certi che ricerche approfondite su monumenti di questa importanza potranno offrirci del materiale fondamentale per la comprensione dei fatti urbani (18). Il Foro Romano, centro dell'Impero, riferimento nella costruzione e nella trasformazione di moltissime città del mondo classico e fondamento dell'architettura del classicismo, ha forme e situazione anomala rispetto alla scienza della città quale era praticata dai romani. Le sue origini sono geografiche e storiche nel contempo; una zona bassa e paludosa fra colline ripide, al centro acque stagnanti tra salici e canneti che si allagavano completamente durante le piogge; sulle colline boschi e pascoli. Così vede il foro Enea: passimque armenta videbant / Romanoque foro et lautis mugire Carinis, così i Latini e i Sabini che si insediano sull'Esquilino, sul Viminale, sul Quirinale. Questi luoghi favorevoli agli incontri dei popoli della Campania e dell'Etruria favorivano gli insediamenti. Gli archeologi accertano che già nel corso del secolo Ottavo i Latini scendevano dai loro colli per deporre qui i loro morti. Così la valle del Foro, una qualsiasi delle valli della campagna romana, entra nella storia, e la necropoli scoperta dal Boni tra il 1902 e il 1905 ai piedi del tempio di Antonino e Faustina costituisce la testimonianza più antica che l'uomo abbia in esso lasciata. Necropoli, poi sede di battaglie o più probabilmente di riti religiosi, essa diventa sempre di più la sede di una nuova forma di vita, il principio della città che si va formando dalle tribù sparse sulle colline; che qui si incontrano e si fondono. La conformazione geografica dettò il percorso dei sentieri, poi delle strade risalendo le valli nel senso della loro minima pendenza (via Sacra, Argiletus, vicus Patricius), determinò gli itinerari delle piste extraurbane; nessun chiaro disegno urbanistico, ma una struttura obbligata del terreno. Questo carattere di legame con il terreno, con le condizioni dello sviluppo della città, permane poi in tutta la storia del Foro, nella sua forma, che lo rende così diverso da quelli delle città di nuova fondazione. Quindi questa irregolarità già criticata da Livio (Ea est causa ut veteres cloacae primo per publicum ductae nunc privata passim subeant tecta, formaque urbis

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sit occupatae magis quam divisae similis), che ne attribuisce la colpa alla velocità della ricostruzione dopo l'incendio gallico, e la impossibilità di applicare la "limitatio" fu dovuta proprio al tipo di crescita molto simile a quello delle città contemporanee, che Roma ebbe a seguire. Intorno al Quarto secolo il Foro cessa la sua attività quale luogo di mercato (perde cioè una funzione che era stata fondamentale) e diventa piazza vera e propria quasi seguendo il dettato di Aristotele, che intorno a quell'epoca scriveva: La piazza pubblica [...] non sarà mai insozzata da mercanzie e l'ingresso sarà interdetto agli artigiani [...]. Lontana e ben separata da essa sarà quella che è destinata al mercato. E proprio in quest'epoca il Foro si va coprendo di statue, di templi, di monumenti; così la valle che era piena di sorgive locali, di luoghi sacri, di mercati, di taverne, diviene ora ricca di basiliche, di templi e di archi e rimane solcata da due grandi vie, la Sacra e la Nova, raggiunte da diversi vicoli. Dopo la sistemazione di Augusto e l'ampliamento della zona centrale di Roma con il Foro di Augusto e i Mercati traianei, dopo le opere di Adriano e fino alla caduta dell'Impero, il Foro non perde il suo carattere essenziale di luogo di incontro, di centro di Roma; Forum Romanum o Forum Magnum, esso finisce per diventare un fatto specifico nell'interno stesso della città, una parte che ne riassume il tutto. Così scrive il Romanelli: Sulla via Sacra e sulle strade adiacenti si infittivano i negozi di lusso, e la gente vi passava curiosando, senza voler nulla, senza far nulla, solo aspettando che giungessero le ore degli spettacoli e dell'apertura delle terme; ricordiamo l'episodio del seccatore che Orazio ci ha brillantemente descritto nella sua satira: "ibam forte via Sacra...". L'episodio si ripeteva mille volte al giorno, per tutti i giorni dell'anno, meno quelli in cui qualche tragico avvenimento, su nei palazzi imperiali del Palatino o al campo dei pretoriani, riusciva ancora a scuotere l'animo torpido dei romani. Perché il Foro fu ancora talvolta durante l'Impero teatro di eventi sanguinosi, ma furono eventi che si chiusero e si esaurirono quasi sempre in se stessi nei riguardi del luogo dove si svolsero, e, si potrebbe dire, della città stessa: le loro conseguenze erano più forti che qui (19). La gente vi passava senza voler nulla, senza far nulla: è la città moderna, l'uomo della folla, l'ozioso che partecipa al meccanismo della città senza conoscerlo, appartenendovi solo nella sua immagine. E il Foro diventa così un fatto urbano di straordinaria modernità; ha in sé tutto ciò che di inesprimibile vi è nella città moderna. Mi vien fatto di pensare alle parole del Poète che singolarmente nascono dalla sua conoscenza straordinaria della città antica e della Parigi moderna: Un alito di modernità sembra spirare fino a noi da questo mondo lontano: abbiamo l'impressione che non ci sentiremmo eccessivamente fuori del nostro ambiente in città come Alessandria o Antiochia, come in certi momenti ci sentiamo forse più vicini alla Roma imperiale che a qualche città medievale (20).

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Che cosa lega l'ozioso al Foro, perché egli è intimamente partecipe di questo mondo, perché si identifica nella città attraverso questa città? Si tratta del mistero che i fatti urbani suscitano in noi. Legato all'origine della città, estremamente e incredibilmente trasformato nel tempo ma sempre cresciuto su se stesso, parallelo alla storia di Roma che si documenta in ogni sua pietra storica e a leggende come il Lapis Niger e i Dioscuri; giunto fino a noi con i suoi segni più chiari e splendidi, il Foro Romano costituisce uno dei fatti urbani più illuminanti di quanti noi possiamo conoscere. Esso riassume Roma ed è parte di Roma, è l'insieme dei suoi monumenti ma la sua individualità è più forte dei suoi singoli monumenti; è l'espressione di un disegno preciso o almeno di una precisa visione del mondo delle forme, quella classica, ma pure il suo disegno è più antico, quasi persistente e preesistente nella valle dove si recavano i pastori delle primitive colline. Non saprei altrimenti definire cos'è un fatto urbano; esso è la storia e l'invenzione. Esso è quindi anche, e in questo senso viene qui particolarmente assunto, una delle più alte lezioni di architettura che noi conosciamo. E' opportuno a questo punto distinguere tra questo "luogo" e l'ambiente come viene spesso inteso nei discorsi d'architettura e in quelli relativi al disegno urbano. L'analisi che si è qui tentata dei valori del "locus" intende porre una definizione estremamente razionale di un fatto per sua natura complesso ma su cui è necessario tentare di gettare una luce, esattamente come fa uno scienziato quando affronta temi che cercano di chiarire il mondo indistinto della materia e le sue leggi; circa il valore psicologico di questa analisi, ci si è occupati più sopra. Comunque il "locus" così inteso non ha tangenze con l'ambiente; l'ambiente sembra stranamente legato all'illusione, all'illusività; linguisticamente è legato a espressioni del tipo si illudevano di vivere nel medio evo o lì è tutto diverso e altre perle di questo genere. Un ambiente così inteso non ha niente da dividere con l'architettura della città; esso è concepito come una scena, e in quanto scena richiede di essere conservato addirittura nelle sue funzioni; si tratta di un necessario permanere di funzioni che salvano solo con la loro presenza la forma e immobilizzano la vita e ci rattristano come tutti i falsi turistici di un mondo scomparso. Questo concetto di ambiente non per nulla è spesso applicato e raccomandato da coloro che pretendono di conservare le città storiche mantenendo le facciate antiche o ricostruendo in modo tale che si mantengano i profili e i colori e altre cose di questo genere; e che cosa ritroviamo dopo queste operazioni, ammesso che siano sostenibili e realizzabili? Una scena vuota, spesso ripugnante. La ricostruzione del centro di Francoforte, una piccola parte, secondo il principio del mantenimento dei volumi gotici con architetture pseudo moderne o pseudo antiche è una delle cose più squallide che io ricordi. Non si sa proprio dove sia andata a finire quella suggestività e quell'illusione che sembra tanto preoccupare queste iniziative.

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In realtà quando parliamo di monumento possiamo benissimo intendere anche una strada, una zona, un paese; ma allora se si conserva si deve conservare tutto come hanno fatto i tedeschi a Quedlinburg. Anche se vivere a Quedlinburg può essere alla fine abbastanza ossessivo è giustificabile in quanto questa cittadina è un efficace museo del gotico (e straordinario museo di tanta storia tedesca); altrimenti non vi è giustificazione. Un caso tipico a questo proposito è quello di Venezia che merita una trattazione particolare. Ora io non voglio soffermarmi su questo argomento che d'altronde è molto dibattuto e richiede di essere sostenuto con esempi molto precisi e difficilmente generalizzabili, ma farò ancora un riferimento partendo dall'analisi del Foro Romano più sopra avanzata. Nel luglio 1811 De Tournon esponeva al conte De Montalivet, ministro dell'interno, il suo programma per il Foro: "Lavori pei restauri dei monumenti antichi". Appena si affronta tale argomento, primo fra tutti si presenta alla mente il "Forum", celebre luogo in cui tali monumenti sono addirittura ammassati e si collegano ai più grandi ricordi. I restauri di tali monumenti consistono anzitutto nel liberarli dalla terra che ne ricopre le parti inferiori, nel raccordarli quindi tra loro, e finalmente nel renderne l'accesso comodo e gradevole. [...] La seconda parte del progetto contempla il collegamento dei monumenti tra di loro mediante una passeggiata irregolarmente sistemata. Io ho prospettato in un piano, tracciato sotto la mia direzione, un tipo di collegamento, e non posso che riferirmi a esso. [...] Soltanto aggiungerò che il monte Palatino, immenso museo tutto coperto dai magnifici avanzi dei palazzi dei Cesari, deve necessariamente esser compreso nella parte di giardino, da piantarsi, e tale giardino per i monumenti che dovrà racchiudere, per i ricordi di cui è pieno sarà certamente unico al mondo (21). L'idea del De Tournon non fu realizzata e probabilmente essa avrebbe sacrificato al disegno del giardino gran parte dei monumenti, privandoci di una delle più pure esperienze architettoniche; ma da questa idea, con l'avvento dell'archeologia scientifica, il problema dei Fori diventa un grande problema di urbanistica connesso con la stessa continuità della città moderna. Occorreva per prima cosa concepire l'esplorazione del Foro non più come uno studio dei suoi monumenti singoli ma come una ricerca integrale di tutto il complesso; concepire il Foro non come una somma di architetture ma come un fatto urbano globale, come la permanenza di Roma stessa. E' significativo che l'idea trovi appoggi e si sviluppi presso la Repubblica Romana del 1849; anche qui è l'azione della Rivoluzione che legge l'antichità in modo moderno e non sono estranee ma anzi direttamente collegate le esperienze degli architetti rivoluzionari parigini. Ma l'idea è più forte delle contingenze politiche e prosegue, con vicende diverse, anche sotto la restaurazione pontificia.

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Se consideriamo oggi questo problema, dal punto di vista architettonico, molti problemi si affacciano alla mente, molti pensieri ci spingono verso considerazioni archeologiche del secolo scorso di una ricostruzione del Foro e di una sua riunione con il Foro d'Augusto e i Mercati traianei addirittura riutilizzando questo enorme complesso. Ma qui basta l'aver esposto come questo grande monumento sia oggi una parte di Roma, che riassume la città antica, che è un momento della città moderna, che è un incomparabile fatto urbano. E vien fatto di pensare che se piazza San Marco a Venezia rimanesse in piedi con Palazzo Ducale in una città completamente diversa, come forse sarà la Venezia del futuro, noi non proveremmo per questo una emozione minore e non saremmo meno partecipi della storia di Venezia trovandoci al centro di questo eccezionale fatto urbano. Mi ricordo negli anni del dopoguerra della visione del Duomo di Colonia nella città distrutta; niente può assumere per la fantasia il valore di quest'opera rimasta intatta tra le rovine. Certo, una ricostruzione scialba e brutta della città circostante è dannosa, ma essa non tocca il monumento; come tante brutte sistemazioni di molti musei moderni possono irritarci ma non per questo deformano o alterano il valore di quanto viene esposto. Questo richiamo si deve intendere naturalmente nel solo senso analogico; mi sono fermato più volte a considerare il valore del monumento come fatto urbano; questa analogia con il valore dei monumenti nelle città distrutte serve solo a mettere in chiaro due punti: il primo che non è l'ambiente o qualche carattere illusionistico che ci serve a capire il monumento, il secondo che solo comprendendo il monumento come fatto urbano singolare, o opponendogli altri fatti urbani, si può stabilire un senso nell'architettura della città. Il significato di tutto questo è per me sintetizzato nella pianta di Roma di Sisto Quinto; le basiliche diventano i luoghi autentici della città, il loro insieme è una struttura che trae la sua complessità da questi fatti primari, dalle strade che li congiungono, dagli spazi (residenza) che si trovano all'interno del sistema. Il Fontana presenta in questo modo le caratteristiche principali del piano, il suo punto di partenza: Volendo ancora Nostro Signore facilitar la strada a quelli che, mossi da devotione, o da voti sogliono visitare spesso i più santi luoghi della Città di Roma, & in particolare le sette Chiese tanto celebrate per le grandi indulgentie, e reliquie, che vi sono; ha in molti luoghi aperte molte strade amplissime, e dirittissime: talché può ciascuno a piedi, a cavallo, e in cocchio partirsi di che luogo si voglia di Roma, e andarsene quasi per dirittura alle più famose devotioni... (22). Il Giedion che, forse per primo, ha capito l'estrema importanza di questo piano, così lo espone: Il suo non era un piano pensato sulla carta; Sisto Quinto aveva Roma, così com'era, nel sangue; egli stesso aveva seguito faticosamente a piedi le strade che i pellegrini dovevano percorrere, ed aveva sperimentato le distanze fra i diversi punti e, nel marzo 1588, quando aprì la nuova strada che univa il

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Colosseo al Laterano, la percorse tutta a piedi coi suoi cardinali fino al Palazzo del Laterano allora in costruzione. Sisto Quinto distese le sue strade organicamente come una spina dorsale là dove la struttura topografica di Roma lo richiedeva, ma fu però abbastanza saggio per incorporare con gran cura tutto quello che gli fu possibile dell'opera dei suoi predecessori. [...] Davanti agli edifici da lui costruiti, il Laterano e il Quirinale, e in tutti i punti in cui le vie si incrociavano, Sisto Quinto provvide ad aprire ampi spazi liberi sufficienti per sviluppi successivi. [...] Isolando la Colonna Antonina e tracciando il perimetro di Piazza Colonna, nel 1588 creò l'attuale centro della città. La Colonna Traiana, vicino al Colosseo, con la vasta piazza che la circonda, fu pensata come un raccordo tra la città vecchia e la nuova. [...] L'istinto urbanistico di Sisto Quinto e del suo architetto è ancora dimostrato dalla scelta del punto in cui eressero l'obelisco, alla giusta distanza dalla cattedrale non finita. [...] L'ultimo dei quattro obelischi che Sisto Quinto riuscì ad innalzare è quello che ebbe forse la posizione più significativa. Collocato all'ingresso settentrionale della città, segna la confluenza di tre strade principali (come pure del prolungamento della "Strada Felice" spesso progettato e mai eseguito). Due secoli più tardi la Piazza del Popolo si sarebbe cristallizzata intorno a questo punto. Soltanto un altro obelisco occupa una posizione così dominante: quello di "Place de la Concorde", innalzato nel 1836 (23). Credo che in questa pagina il Giedion, il cui apporto personale al mondo dell'architettura è sempre straordinario, ha detto molte cose sulla città in generale oltre che sul piano considerato. Significative sono le notazioni dove parla del primo piano non pensato sulla carta, ma di un piano addirittura vissuto nei suoi dati immediati, empirici, dove parla di un piano abbastanza rigido ma attento alla struttura topografica della città e soprattutto di un piano che, pur nelle sue caratteristiche rivoluzionarie, anzi direi in virtù di queste, incorpora e valorizza tutte le iniziative precedenti che si presentano con caratteri di validità, che "sono" nella città. A questo si aggiunga la considerazione sugli obelischi, sui luoghi degli obelischi, di questi segni intorno a cui si cristallizza la città; forse mai l'architettura della città, nemmeno nel mondo classico, ha raggiunto una tale unità di comprensione e di creazione; tutto un sistema urbano si realizza, si dispone secondo delle linee di forza pratiche ed ideali ad un tempo e la città si ritrova tutta segnata per punti di unione e di aggregazione futura.Le forme dei monumenti (si ricordi la trasformazione del Colosseo in filanda) e la forma topografica rimangono ferme in un sistema che cambia; come se, compresa la posa degli obelischi in luoghi particolari, la città fosse pensata nel passato e nell'avvenire. Si può obiettare che nell'avanzare queste considerazioni io faccia solo riferimento alla città antica; a questa critica si può rispondere con due argomenti: il primo, tenuto costantemente come ipotesi di questo studio, che qui non si fa nessuna

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differenza tra città antica e moderna, tra un prima e un dopo, dal punto di vista del manufatto, il secondo che non esistono esempi di città articolate esclusivamente su fatti urbani moderni, o che almeno tali città non sono per niente tipiche, essendo proprio della città il suo carattere di permanenza nel tempo. D'altro canto il concepire la fondazione della città per elementi primari è a mio avviso anche l'unica legge razionale possibile; cioè l'unica estrazione di un principio logico nella città per continuarla. Come tale essa è stata assunta nell'epoca dell'illuminismo e come tale essa è stata respinta dalle teorie distruttrici della città come progresso; si pensi alla critica di Fichte alla città occidentale dove la difesa del carattere comunitario della città gotica ("Volk") contiene già la critica reazionaria degli anni seguenti (Spengler) e la concezione della città come fatalità. Benché io qui non mi occupi di queste teorie o visioni della città è indubbio come esse abbiano la loro traduzione in una città senza riferimenti formali e come esse si oppongano, più o meno coscientemente negli epigoni, al valore illuministico del piano. Anche da questo punto di vista si può avanzare la critica ai socialisti romantici; ai vari concetti di comunità autosufficienti e ai falansteri. Essi ammettono e sostengono che la società non possa esprimere più alcun valore che la trascenda e nemmeno dei valori comuni che la rappresentino e pretendono che la riduzione utilitaristica e funzionale della città (quindi nella residenza e nei servizi) sia l'alternativa "moderna" alla prima. La concezione progressiva crede invece che proprio per essere la città un fatto eminentemente collettivo essa si precisi e sia in quelle opere la cui natura è essenzialmente collettiva; e che pur nascendo tali opere come mezzi per costituire la città esse diventino presto uno scopo; e abbiano questo scopo nel loro essere e nella loro bellezza. E che tale bellezza risieda a un tempo nelle leggi dell'architettura e a un tempo nella scelta per cui la collettività vuole queste opere. Di questi problemi mi occuperò nell'ultimo capitolo come dei problemi decisivi nello studio della città. Nel paragrafo successivo cercherò di riassumere le questioni principali trattate nel presente capitolo.

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I MONUMENTI. Critica al concetto di ambiente. Nelle pagine precedenti ci siamo occupati principalmente: del "locus" inteso come punto singolare e della situazione; dei fondamenti dell'architettura e del suo rapporto con la città; dell'ambiente e del monumento.Mi rendo conto che il concetto di "locus "deve essere oggetto di ricerche particolari; uno studio di questo tipo applicato a tutta la storia dell'architettura potrà dare luogo a risultati significativi. Allo stesso modo si dovrà analizzare il rapporto tra il "locus" e la progettazione. Solo alla luce di queste ricerche si potrà risolvere il contrasto apparentemente insanabile tra la progettazione come elemento razionale e come imposizione e la natura del luogo che partecipa all'opera. In questo rapporto è compreso il concetto di individualità. Si è cercato di vedere come l'uso del termine "ambiente" quale viene per la più parte inteso sia un impiccio alla ricerca. All'ambiente si è contrapposto il monumento; il monumento oltre al suo essere storicamente determinato ha una sua realtà analizzabile. Noi possiamo inoltre proporci di costruire "monumenti"; ma come si è osservato precedentemente, per far questo necessitiamo di un'architettura, cioè di uno stile. La riduzione dei problemi urbani alla loro realtà fisica non può avvenire diversamente. Solo l'esistenza di uno stile architettonico può permettere delle scelte originali: in queste scelte originali cresce la città. L'architettura si presenta qui come una tecnica. La questione delle tecniche non può essere sottovalutata da chi si pone il problema della città; anche qui è fin troppo facile notare come il discorso dell'immagine sia vano qualora esso non si concreti nell'architettura che forma questa immagine. L'architettura diventa quindi, per estensione, la città; essa ha la sua base, più di qualsiasi altra arte, nella conformazione della materia e nell'assoggettare la materia secondo una concezione formale. La città si presenta ancora come un grande manufatto architettonico. Non è possibile non occuparci più a lungo di questa concezione formale. Si è cercato di vedere la corrispondenza che vi è nella città tra segno ed evento; ma questo non è sufficiente se non estendiamo l'analisi a tutta la genesi della forma architettonica. Ora si può affermare che la forma architettonica della città è esemplare nei singoli monumenti, ognuno dei quali è un'individualità a sé. Essi sono come le date; senza di esse, un prima e un dopo, non potremmo comprendere la storia. Benché, come si è detto, non sia scopo del presente studio occuparsi dell'architettura in sé, ma della architettura come componente del fatto urbano, si devono qui avanzare alcune considerazioni.

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E' vano pensare che il problema dell'architettura possa risolversi dal punto di vista compositivo nella ricerca o scoperta di un nuovo ambiente o in una pretesa estensione, come si dice, dei suoi parametri. Queste proposizioni sono senza senso dal momento che l'ambiente è proprio quanto si costruisce mediante l'architettura; e che poi l'individualità di un'opera concresca con il "locus" e la sua storia questo anche presuppone l'esistenza di un fatto architettonico. Sono quindi propenso a credere che il momento principale di un fatto architettonico stia nella sua tecnica; cioè nei principi autonomi secondo i quali si fonda e si trasmette. E in termini più generali nella soluzione concreta che ogni architetto dà al suo incontro con la realtà; soluzione che è verificabile appunto attraverso certe tecniche. (E che costituisce quindi anche e necessariamente una limitazione). All'interno di questa tecnica come principio logico dell'architettura vi è la sua capacità di trasmettersi e di piacere; Nous sommes loin de penser que l'architecture ne puisse pas plaire; nous disons au contraire qu'il est impossible qu'elle ne plaise pas, lorsqu'elle est traitée selon ses vrais principes. [...] Or, un art tel que l'architecture, art qui satisfait immédiatement un si grand nombre de nos besoins, [...] comment pourrait-il manquer de nous plaire? (24). Da questa costituzione del fatto architettonico inizia una serie di altri fatti; qui l'architettura si intende estesa anche alla progettazione di una città nuova; Palmanova o Brasilia. Noi possiamo giudicare i progetti di queste città come progetti di architettura, la loro formazione è indipendente, autonoma: si tratta di progetti precisi con una loro storia; questa storia appartiene all'architettura. Anche qui essi sono concepiti secondo una tecnica o uno stile; secondo dei principi e secondo un'idea generale dell'architettura. Non possiamo più occuparci di questi principi e dell'idea generale dell'architettura; ma ci basta sapere che senza di essi non potremmo in alcun modo giudicare queste città; anche se ora noi abbiamo di fronte Palmanova e Brasilia come due notevoli e straordinari fatti urbani con una loro individualità e una loro vicenda. Di questa individualità il fatto architettonico costituisce solo la costituzione; ma è proprio questa costituzione che afferma la logica autonoma del processo compositivo e la sua importanza. Si capisce quindi che noi troviamo nella architettura uno dei principi della città.

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La città come storia. Il metodo storico sembra quello capace di offrirci la verifica più sicura di qualsiasi ipotesi sulla città; la città è di per se stessa depositaria di storia. In questa ricerca noi abbiamo visto il metodo storico da due diversi punti di vista; il primo riguarda lo studio della città come un fatto materiale, un manufatto, la cui costruzione è avvenuta nel tempo e del tempo mantiene le tracce, sia pure in modo discontinuo. Da questo punto di vista lo studio della città ci offre risultati di grande importanza: l'archeologia, la storia dell'architettura, le stesse storie municipali ci offrono una documentazione molto ampia. Le città sono il testo di questa storia; nessuno può immaginare seriamente di studiare i fenomeni urbani senza porsi questo problema ed è questo forse l'unico metodo positivo, perché le città si offrono a noi attraverso dei fatti urbani determinati dove è preminente l'elemento storico. Di questo argomento mi sono occupato continuamente nel corso di questo studio, ed esso ne costituisce in parte la base; esso è stato sviluppato dall'assunzione e dalla critica delle teorie del Poète e del Lavedan e quindi dalla teoria delle permanenze. Il secondo punto di vista riguarda la storia come lo studio del fondamento stesso dei fatti urbani; e della loro struttura. Esso è il completamento dell'altro e riguarda direttamente non solo la struttura materiale della città, ma anche l'idea che noi abbiamo della città come sintesi di una serie di valori. Esso riguarda l'immaginazione collettiva. E' evidente che il primo e il secondo argomento sono strettamente correlati fino a confondersi nei loro risultati. Atene, Roma, Costantinopoli, Parigi costituiscono delle idee di città che vanno oltre la loro forma fisica, oltre la loro permanenza; in questo senso noi possiamo parlare di città di cui rimangono pochissimi segni. In questo paragrafo e nel successivo svilupperò due tesi che si riferiscono al secondo argomento così come è stato prospettato. Entrambe queste tesi sostengono la continuità dei fatti urbani e che questa continuità vada ricercata negli strati profondi, dove si intravedono certi caratteri fondamentali che sono comuni a tutta la dinamica urbana. Riprendiamo gli scritti di Carlo Cattaneo; è significativo che Carlo Cattaneo, di formazione positivista, nel suo studio sull'evoluzione civile delle città considerate come fondamento delle storie italiane, ritrovi in esse un principio indefinibile in termini che non siano legati alla loro stessa storia (25). Nelle città egli ritrova quei ... termini immobili d'una geografia anteriore ai Romani [che] rimasero aderenti alle mura dei municipi. Nelle descrizioni delle vicende della città di Milano nell'epoca posteriore all'Impero egli spiega certe caratteristiche di preminenza della città rispetto agli altri centri lombardi, preminenza che non era giustificata né dalla dimensione, né dalla maggiore ricchezza, né da cause demografiche, né da altri fatti osservabili

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come un fatto intrinseco alla natura della città; quasi una caratteristica tipologica di ordine non verificabile: Questa preminenza era innata alla città; era la tradizione d'una grandezza anteriore alla chiesa ambrosiana, anteriore al papato, all'imperio, alla conquista romana: "Mediolanum Gallorum Caput. Ma questo principio di ordine quasi mistico diventa poi il principio della storia urbana quando si risolve come permanenza di civiltà: La permanenza del municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le istorie italiane. Anche nelle epoche di maggior decadenza, come nel basso impero, quando le città appaiono come semirutarum urbium cadavera, in realtà esse non sono dei corpi morti, dirà il Cattaneo, ma soltanto tramortiti. Il rapporto tra la città e il suo territorio è un segno caratteristico del Municipio, poiché La città formò col suo territorio un corpo inseparabile. Nelle guerre, nelle invasioni, nei momenti più difficili per la libertà comunale, l'unione tra il territorio e la città è una forza straordinaria; talora il territorio rigenera la città distrutta. La storia della città è la storia della civiltà: Nei quattro secoli incirca del dominio gotico e longobardo, la barbarie andò crescendo [...]. Le città non erano apprezzate se non come fortezze [...]. I barbari si andavano spegnendo, insieme alle città che avevano desolate. Le città costituiscono in sé un mondo; il loro significato, la loro permanenza si esprime in un principio assoluto: Gli stranieri si stupiscono di vedere fra le città d'Italia quella medesima perseveranza nelle offese che non si stupiscono mai di vedere fra regno e regno, perché non sanno intendere l'indole militante e regia di quelle città. La prova che la causa delle inimicizie che accerchiavano Milano era nella sua potenza, o per più giusto dire, nella sua ambizione, è questa, che molte delle altre città, quando la videro soverchiata e distrutta, e pensarono di non averla più a temere, si collegarono a sollevarla dalle ruine. "Il principio" del Cattaneo si può riportare a molti dei temi qui esposti; mi è sempre sembrato che quegli strati più profondi della vita della città esposti dal Cattaneo si possano largamente ritrovare nei monumenti e che essi partecipino di quell'individualità dei fatti urbani a cui più volte si è accennato nel corso di questo studio. Che un rapporto di questo tipo, tra "principio" dei fatti urbani e forma, esistesse anche nel pensiero del Cattaneo è indiscutibile se solo si esaminano i suoi scritti sullo stile lombardo e l'inizio della descrizione della Lombardia, dove addirittura la terra, coltivata e resa fertile nel corso dei secoli, è la testimonianza più importante di una civiltà. I suoi interventi per la polemica sulla piazza del Duomo di Milano testimoniano d'altra parte tutte le difficoltà, non risolte, che nascevano da una problematica così ricca; la ricerca dei temi della cultura lombarda, sia pure all'interno del suo federalismo, finiva per scontrarsi con tutti gli altri temi, reali e astratti del dibattito sull'unità d'Italia e sul senso nuovo e antico che le città della penisola finivano per avere nel quadro nazionale.

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Se il suo federalismo gli permetteva di evitare tutti gli errori dovuti alla retorica nazionalista, gli impediva d'altra parte di vedere pienamente il nuovo quadro generale in cui le città venivano a trovarsi. E' indubbio che il grande slancio illuminista e positivista che aveva animato la città si spegneva intorno agli anni dell'unità d'Italia ma non era certamente solo questa la causa di quella decadenza; e d'altra parte è indubbio pensare che le proposte del Cattaneo o lo stile municipale insegnato dal Boito potessero ridare alle città un senso che si era offuscato. Vi fu certamente una crisi più profonda. In una luce di questo tipo va visto il grande dibattito che percorse l'Italia all'indomani della unità sulla scelta della capitale; dibattito che fu imperniato su Roma. Esiste a questo proposito una nota di Antonio Gramsci di grande valore in sé, e per l'impostazione di uno studio di questo tipo. A Teodoro Mommsen che domandò con quale idea universale l'Italia andasse a Roma, Quintino Sella rispose: "Quella della Scienza". [...] La risposta del Sella è interessante e appropriata; in quel periodo storico la scienza era la nuova "idea universale", la base della nuova cultura che si andava elaborando. Ma Roma non divenne la città della scienza, sarebbe stato necessario un grande programma industriale, ciò che non fu (26). La risposta del Sella rimane quindi vaga e alla fine retorica, anche se fondamentalmente giusta; per realizzarla bisognava affrontare un programma industriale senza il timore di creare in Roma una classe operaia moderna e cosciente pronta a intervenire nello sviluppo della politica nazionale. Ma lo studio di questo dibattito è per noi anche oggi di grande interesse; sappiamo che per Roma il dibattito su Roma capitale vide impegnati uomini politici e studiosi di tutte le tendenze, preoccupati di vedere di quale tradizione doveva essere depositaria la città e verso quale Italia dovesse iniziare il suo destino di capitale. Ritengo che una ricerca su questo argomento sarebbe di estrema importanza per gli studi sulla città; è indubbio che oltre la retorica e gli interessi di parte vi è in questo dibattito un contenuto di estrema importanza; esso riguarda l'idea di città, e la forza indiscutibile di questa idea in modo concreto. In base a questa concretezza storica dovrebbe meglio emergere il significato di certi interventi tendenti a qualificare la città in senso moderno e a stabilire un rapporto tra il suo passato e il volto delle capitali europee principali. Ridurre questi problemi a quelli della retorica nazionalista, che indubbiamente vi fu, vuol dire porsi in limiti troppo angusti per giudicare un processo tanto importante; un processo del resto tipico per molti paesi e per molti periodi. Bisognerà piuttosto vedere come certe strutture urbane si identifichino con un modello di capitale e quali siano i rapporti possibili tra la realtà fisica di una città e questo modello; è noto che per l'Europa, ma non solo per l'Europa, questo modello è Parigi.

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E lo è al punto che non si può comprendere la struttura di molte moderne capitali, Berlino, Barcellona, Madrid, Roma e altre, senza tener conto di questo fatto. Qui tutto il processo storico politico ha nell'architettura della città un risvolto preciso: ma il senso di questo rapporto si potrà avere solo illuminando i modi concreti in cui esso si è attuato. Ancora una volta esiste un rapporto tra i fatti urbani strutturali della città e l'imposizione di un progetto e di uno schema; e i motivi di questo rapporto sono molto complessi. Certamente vi sono città che realizzano la loro vocazione e altre che non compiono mai i loro progetti.

La memoria collettiva. Queste considerazioni ci avvicinano alla conoscenza della struttura più profonda dei fatti urbani e quindi alla loro forma; cioè alla nostra tesi di partenza nella presente ricerca, l'architettura della città. Si tratta di conoscere la qualità di questi fatti; lo studio del Cattaneo da cui sono partito per le presenti considerazioni è tra i risultati più validi dei nostri studi; esistono importanti affermazioni e riferimenti su quell'"me de la cité" che altri autori indicano come il nesso strutturale della città, dopo essere partiti dalla descrizione dei fatti morfologici. Qui "l'me de la cité" diventa la storia, il segno legato alle mura dei municipi, il carattere distintivo e nel contempo definitivo, la memoria. In "La Mémoire collective", Halbwachs ha scritto: Lorsque un groupe est inséré dans une partie de l'espace, il la transforme à son image, mais en mme temps il se plie et s'adapte à des choses matérielles qui lui résistent. Il s'enferme dans le cadre qu'il a construit. L'image du milieu extérieur et des rapports stables qu'il entretient avec lui passe au premier plan de l'idée qu'il se fait de lui-mme (27). Ampliando la tesi di Halbwachs vorrei dire che la città stessa è la memoria collettiva dei popoli; e come la memoria è legata a dei fatti e a dei luoghi, la città è il "locus "della memoria collettiva. Questo rapporto tra il "locus" e i cittadini diventa quindi l'immagine preminente, l'architettura, il paesaggio; e come i fatti rientrano nella memoria, nuovi fatti concrescono nella città. In questo senso del tutto positivo le grandi idee percorrono la storia della città e la conformano. Così, occupandoci dell'architettura della città ci siamo sforzati di riferirci al "locus" come al principio caratteristico dei fatti urbani; il "locus, l'architettura, le permanenze e la storia ci sono serviti per cercare di chiarire la complessità dei fatti urbani. Infine la memoria collettiva diventa la stessa trasformazione dello spazio ad opera della collettività; una trasformazione che è sempre condizionata da quei dati materiali che contrastano questa azione.

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La memoria, intesa in questo modo, diventa il filo conduttore dell'intera e complessa struttura; in questo l'architettura dei fatti urbani si stacca dall'arte in quanto elemento che esiste di per se stesso; anche i maggiori monumenti dell'architettura sono intimamente legati alla città. Ci si pone la domanda: in che modo la storia parla mediante l'arte? Ciò accade innanzi tutto attraverso i monumenti architettonici che sono la volontaria espressione del potere, sia in nome dello Stato, sia della Religione. Ma ci si può accontentare di uno "Stonehenge", se in quel dato popolo non esiste il bisogno di parlare mediante forme. [...] Così il carattere di intere nazioni, civiltà ed epoche parla attraverso l'insieme di architetture che esse possiedono come attraverso un rivestimento esterno del loro essere (28). Credo che ora la conoscenza dei fatti urbani si possa estendere verso una ricerca più profonda di quella che si è qui tentata; e che questa ricerca superi i punti stessi di partenza del nostro saggio. Possiamo dire ad esempio che anche le scelte non ci sembrano più libere come potevano sembrare in un primo tempo ma che esse siano profondamente legate alla natura dei fatti urbani in cui si producono. Alla fine l'affermazione che la città ha per fine se stessa sembra emergere nelle cose stesse; ed essa ha per fine se stessa via via che svolge, intenzionalmente, una certa idea di città. All'interno di essa si pongono le azioni degli individui; e nei fatti urbani quindi non tutto è collettivo. Con questi problemi si era iniziato il presente capitolo; precedentemente si erano viste quelle questioni che sembrano più oggettivabili, che appartengono ai fatti urbani e alla loro natura collettiva. Natura collettiva e individualità dei fatti urbani si dispongono ora come la stessa struttura urbana. La memoria, all'interno di questa struttura, è la coscienza della città; si tratta di un'azione in forma razionale il cui sviluppo sta nel dimostrare con la massima chiarezza, economia e armonia, qualcosa di già accettato. Di questa dimostrazione ci interessano soprattutto i modi di attuazione e i modi di lettura; sappiamo che essi dipendono dal tempo, dalla cultura e dalle circostanze, ma poiché sono questi fattori nel loro insieme che determinano i modi stessi, è in essi che rileviamo il massimo di concretezza. Vi sono regioni molto piccole o grandi in cui la differenza dei fatti urbani non potrà mai essere spiegata se non si tiene conto di questo; esse hanno conformazioni e aspirazioni rispondenti a una individualità quasi predestinata. Penso adesso alle città della Toscana o dell'Andalusia o di altre regioni; come potranno dei fattori generali, abbastanza comuni, renderci conto della loro individualità tanto diversa? E' probabile che questo valore della storia, come memoria collettiva, intesa quindi come rapporto della collettività con il luogo e con l'idea di esso, ci dia o ci aiuti a capire il significato della struttura urbana, della sua individualità, della architettura della città che è la forma di questa individualità.

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La quale individualità risulta così legata al fatto originario, al principio nel senso del Cattaneo; che è un evento ed è una forma. E così l'unione tra il passato e il futuro è nell'idea stessa della città che la percorre, come la memoria percorre la vita di una persona, e che sempre per concretarsi deve conformare ma anche conformarsi nella realtà. E questa conformazione permane nei suoi fatti unici, nei suoi monumenti, nella idea che di essi abbiamo. Questo spiega anche perché nella antichità si poneva il mito a fondamento della città.

Atene. Ma gli storici attici, che volevano dare al loro paese una serie di re, fecero rivivere per così dire Cecrope in Erittonio, il secondo Ateniese primordiale, del quale sappiamo la strana storia della nascita dalle leggende riguardanti la Dea Atena. [...] Egli deve aver anche costruito il Santuario, già nominato, di Atena Polias, deve avervi eretta la statua in legno della Dea ed essere stato sepolto proprio colà. [...] Sembra che il suo nome, che significa in modo evidente uno "ctonio", essere del regno degli Inferi, in origine non indicasse un signore, un re di quassù, del nostro mondo, ma il fanciullo misterioso, che veniva venerato in alcuni misteri e nominato raramente nelle storie. [...] Da un essere primitivo gli ateniesi avevano preso il nome di Cecropidi, da questo loro re ed Eroe presero quello di Eretteidi (29). Potrà sembrare strano che questo capitolo dedicato alla storia si concluda con il ricordo di un mito, anche se questo mito precede la città di cui non possiamo tacere più a lungo: Atene. Atene è la prima idea chiara della scienza dei fatti urbani; essa è il passaggio dalla natura alla cultura, e questo passaggio, all'interno stesso dei fatti urbani, ci è offerto dal mito. Quando il mito diventa un fatto concreto nel tempio, emerge già dal rapporto con la natura il principio logico della città; e questa diviene l'esperienza che si trasmette. Così la memoria della città percorre il suo cammino a ritroso fino alla Grecia; qui i fatti urbani coincidono con lo sviluppo del pensiero e l'immaginazione diventa storia ed esperienza. La città concreta che noi analizziamo ha così la sua origine in Grecia; se Roma ha saputo fornire dei principi generali sull'urbanesimo e quindi costruire città secondo schemi logici in tutto il mondo romano, è in Grecia che rileviamo i fondamenti della costituzione della città. Ed anche fondamentalmente un tipo di bellezza urbana, di architettura della città, che diventa una costante della nostra esperienza della città; la città romana, araba, gotica e quella moderna si avvicinano a questo valore coscientemente ma solo a volte ne sfiorano la bellezza.

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Tutto ciò che vi è di collettivo e di individuale nella città, la sua stessa intenzionalità estetica sono fissate nella città greca in condizioni che non possono mai più tornare. Questa realtà dell'arte e della città greca presuppone la mitologia e il rapporto mitologico con la natura. L'analogia tra la città greca e il rapporto mitologico con la natura deve essere approfondito nell'esame concreto di tutte le città-stato del mondo ellenico; alla base di questa ricerca deve stare la straordinaria intuizione di Karl Marx che in un passo dell'introduzione a "Per la critica dell'Economia Politica" parla dell'arte greca come della fanciullezza dell'umanità; ciò che rende stupefacente l'intuizione di Marx è il riferirsi alla Grecia come "fanciullezza normale" dell'umanità, contrapponendola alle altre civiltà antiche la cui "fanciullezza" è deviata rispetto al destino dell'umanità. Vedremo come per altre vie questa intuizione ritorni in altri studiosi applicata propriamente alla vita e all'origine del fatto urbano. Ma la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e l'epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili. Un uomo non può tornare fanciullo o altrimenti diviene puerile. Ma non si compiace forse dell'ingenuità del fanciullo e non deve egli stesso aspirare a riprodurne, a un più alto livello, la verità? Nella natura infantile, il carattere proprio di ogni epoca non rivive forse nella sua verità naturale? E perché mai la fanciullezza storica dell'umanità, nel momento più bello del suo sviluppo, non dovrebbe esercitare un fascino eterno come stadio che più non ritorna? Vi sono fanciulli rozzi e fanciulli saputi come vecchietti. Molti dei popoli antichi appartengono a questa categoria. I greci erano fanciulli normali. Il fascino che la loro arte esercita su di noi non è in contraddizione con lo stadio sociale poco o nulla evoluto in cui essa maturò. Ne è piuttosto il risultato, inscindibilmente connesso con il fatto che le immature condizioni sociali in cui essa sorse e solo poteva sorgere, non possono mai più ritornare (30). Non so quanto Marcel Poète conoscesse questo passaggio di Marx; certo è che nell'esporci la città greca e la sua costituzione egli sente il bisogno di differenziarla dalle città dell'Egitto e dell'Eufrate quali esempi di quell'infanzia oscura, senza sviluppo, a differenza di quell'infanzia normale di cui parla Marx. Queste affermazioni ricordano irresistibilmente i miti contrapposti di Atene e Babilonia che percorrono la storia dell'umanità. In definitiva Atene ci offre l'insegnamento di una città diversa da quelle che abbiamo visto in Egitto o sulle vallate dell'Eufrate e del Tigri, nelle quali gli unici elementi formativi erano il tempio della divinità o il palazzo del sovrano.

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Qui invece, oltre i templi - pur essi diversi da quelli delle civiltà precedenti - troviamo come elementi generatori della città le sedi degli organi di una vita politica libera (boulé, ecclesia, areopago) e gli edifici connessi con esigenze tipicamente sociali (ginnasi, teatro, stadio, Odeon). Una città come Atene corrisponde ad un grado superiore della vita umana associata (31). Ecco che nella struttura di Atene quelli che abbiamo chiamato come fatti urbani primari sono qui effettivamente definiti come gli elementi generatori della città; il tempio e gli organi della vita politica e sociale, all'intorno variamente disposte e in continua evoluzione le aree della residenza. La residenza partecipa infatti attivamente alla formazione della città greca e ne costituisce il disegno di fondo attraverso cui noi ci rendiamo conto dei fatti principali. Per ben capire il valore che si dà qui alla città greca e il suo carattere di modernità in quanto fatto urbano che percorre la storia successiva, è opportuno ricordare il carattere originale della struttura della città greca rispetto alle altre città, comprese quelle romane. Oltre alla sua complessa costituzione politica nel senso ricordato dal Poète, la città greca è caratterizzata dallo svilupparsi dall'interno verso l'esterno, il suo elemento costitutivo sono le abitazioni e il tempio; solo dopo il periodo arcaico, per motivi puramente difensivi, le città greche si circondano di mura e in nessun caso queste sono l'elemento primitivo della "polis". Al contrario le città d'Oriente fanno delle mura e delle porte la "res sacra" della città, l'elemento costitutivo e primario; all'interno delle mura a loro volta i palazzi e i templi si circondano di mura, quasi delle cinte e delle fortificazioni successive. Lo stesso principio del valore dei limiti si trasmette alla civiltà etrusca e romana. Al contrario la città greca non ha limiti sacri; essa è un luogo e una nazione, è la dimora dei cittadini e quindi la loro attività. Alla sua origine non vi è la volontà di un sovrano, ma il rapporto con la natura sotto la forma del mito. Ma questa caratteristica della città greca, e ancora ripeto il suo modello ineguagliabile, non può essere compresa completamente se non si tiene conto di un altro fattore decisivo; la "polis" è una città-stato, i suoi abitanti appartengono alla città ma sono in gran parte dispersi nelle campagne. Il legame col territorio è fortissimo. Nell'avanzare queste considerazioni dobbiamo ancora riprendere una affermazione di Carlo Cattaneo poiché il legame tra quanto egli ci dice della natura della città e la costituzione effettiva della città greca è talmente illuminante da non poter essere tralasciato. Anche al Cattaneo era apparso chiarissimo, come già al Poète, il diverso destino della" polis dalle città d'oriente, le quali non sono che grandi accampamenti murati, e da quegli insediamenti dei barbari che solamente per vicos habitant.

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Il Cattaneo intuisce che gli accampamenti murati sono lo stacco completo dal territorio e che invece in Italia la città formò col suo territorio un corpo inseparabile. [...] Questa adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i più opulenti, i più industri, costituisce una persona politica, uno stato elementare, permanente e indissolubile (32). Non sappiamo quanto il Cattaneo spingesse questo paragone delle libere città comunali con la città greca; e su questo punto egli non si sofferma. Ma questo incontro tra l'intuizione di uno storico e la struttura effettiva della città getta una luce positiva sulla scienza dei fatti urbani e ci spinge ad approfondire le ricerche in questo senso. Ora questo legame tra la città e il territorio non è forse proprio ciò che caratterizza la città democratica greca e la città-stato per eccellenza: Atene? Atene è una città formata da cittadini; una città-stato i cui abitanti vivono su un territorio abbastanza vasto e in modo sparso ma che sono molto legati alla città. Anche se molti centri dell'Attica hanno un'amministrazione locale questa non è in concorrenza con la cittàstato. Il termine "polis" che designa la città indica anche lo Stato: inizialmente si applicava all'Acropoli, luogo primitivo di rifugio, di culto e di governo, e come tale punto di origine dell'agglomerato ateniese. L'Acropoli e insieme la città nel senso di Stato; questo è il duplice significato connesso al termine "polis". All'origine quindi "polis" è l'acropoli, mentre il termine "astu" indica l'abitato. La vicenda storica della città conferma il fatto fondamentale che il legame che unisce l'ateniese alla città è essenzialmente politico e amministrativo e non residenziale. I problemi della città non interessano l'ateniese che dal punto di vista politico e dal punto di vista urbano generale. A questo proposito l'osservazione di Roland Martin (33) è decisiva: egli nota come proprio grazie alla concezione della città come stato, come luogo degli Ateniesi, le prime riflessioni sull'organizzazione urbana siano di tipo puramente speculativo, siano cioè delle teorie che si occupano della migliore forma della città e della organizzazione politica più favorevole allo sviluppo morale del cittadino. Nelle stesse antiche disposizioni sembra che l'aspetto materiale della città sia secondario, quasi essa fosse puramente un luogo mentale. Forse anche a questo carattere speculativo dell'architettura della città greca è dovuta la sua straordinaria bellezza. E' a questo punto però che essa si stacca da noi, dalla nostra esperienza viva; al contrario di Roma che mostra nel corso della storia repubblicana e imperiale tutti i contrasti e le contraddizioni della città moderna, e forse con un carattere di drammaticità che poche città moderne conoscono, Atene rimane come la più pura esperienza dell'umanità, in condizioni che non possono più ritornare.

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NOTE. Nota 1. MAX SORRE, "Géographie urbaine et écologie", in AA.VV., "Urbanisme et architecture", Paris 1954. M.S., "Rencontres de la geographie et de la sociologie", Paris 1957. CLAUDE LEVI-STRAUSS, op. cit. (cap. I, nota 1). MARCEL MAUSS, "Essai sur les variations saisonnières des sociétés eskimos", in Année sociologique, IX, 1905-1906, pag. 51. In questo studio Marcel Mauss ha notato come i nomi dei gruppi siano spesso i nomi dei luoghi e come il finale dei nomi in "mut significhi presso gli esquimesi, abitante di. Così i popoli selvaggi si definiscono in base al territorio; l'uomo è l'uomo di quella montagna, di quel fiume, ecc. Il senso dell'orientamento diventa chiaro quando si tratta di unire due punti; il percorso acquista allora un valore soggettivo. MAURICE HALBWACHS, "La topographie légendaire des vangiles en Terre Sainte, étude de mémoire collective", Paris 1941. L'importanza di questo studio è messa in luce da Georges Friedmann (prefazione a MAURICE HALBWACHS, "Esquisse d'une psychologie des classes sociales", Paris 1955, ed. ital. Milano 1963). Il Friedmann rileva come l'importanza di questo libro, sebbene non sia stato concepito espressamente per questo, si affianca ai grandi lavori, dopo quelli di Strauss e Renan, dedicati ai problemi delle origini cristiane. Nota 2. HENRY PAUL EYDOUX, "Monumets et trésors de la Gaule", Paris 1958, in particolare il capitolo Dieux, héros et artistes à Entremont, capitale de la confédération gauloise des Salyens. H.P. EYDOUX, "Cités mortes et lieux maudits de France", Paris 1959. Lo studio dei luoghi archeologici della Provenza è di particolare interesse per gli studi urbani per la presenza viva dei monumenti nei luoghi stessi e la vastità del materiale. Costituiscono a questo riguardo un materiale di primaria importanza le carte archeologiche della Gallia Romana. INSTITUT DE FRANCE, "Forma Orbis Romani, Carte Archéologique de la Gaule Romaine", Paris 1939. Le singole carte corrispondono ai diversi dipartimenti. Per lo studio dello sviluppo urbano in Provenza si veda anche: PAUL ALBERT FEVRIER, "Le développement urbain en Provence de l'époque romaine à la fin du quatorzième siècle", Paris 1964. Nota 3. HENRY FOCILLON, "Vie des formes", Paris 1933, ed. ital. Padova 1945, pag. 39. Questo concetto si può ritenere in forma generalissima come la base dell'opera scientifica del Focillon. Si veda: H.F., "Art d'Occident", Paris 1938, ed. ital. Torino 1965. Il nostro lavoro non è dunque né un'iniziazione, né un manuale di archeologia, bensì un libro di storia, cioè uno studio delle relazioni diverse secondo tempi e luoghi, che si stabiliscono tra i fatti, le idee e le forme, le quali ultime non potrebbero essere considerate come semplici valori ornamentali; esse fanno parte dell'attività storica, ne rappresentano la parabola che hanno vigorosamente contribuito a delineare. L'arte del Medioevo non è una concrezione naturale né la passiva espressione di una società; in larga misura lo stesso Medioevo è una sua creazione (pag. 4). Nota 4. JACOB BURCKHARDT, "Weltgeschichtliche Betrachtungen", Stuttgart 1905, ed. ital. Torino 1958, pag. 258. Il B. si sofferma in queste lezioni (tenute nel periodo 1868-71) particolarmente sul rapporto tra l'arte e l'elemento storico. Nota 5. ADOLF LOOS, "Architektur", 1910, in "Trotzdem", Innsbruck 1931.

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Per la valutazione dell'opera di Adolf Loos anche rispetto alle tesi qui sostenute, si veda il mio saggio: A.R., "Adolf Loos", 1870-1933, in Casabella-continuità, n. 233, novembre 1959. Contiene anche una bibliografia completa fino al 1959. Recentemente gli scritti completi sono stati ripubblicati a Vienna a cura di Franz Gluck. ADOLF LOOS, "Smtliche Schriften in zwei Banden", Wien-Mnchen 1962. Finora è uscito solo il primo volume che raccoglie i due libri della edizione di Innsbruck: "Ins Leere Gesprochen 1897-1900" e "Trotzdem", 1900-1930. Nota 6. ALEXANDRE DE LABORDE, "Les Monuments de la France", Paris 1816, pag. 57. Nota 7. VIOLLET-LE-DUC, op. cit. (cap. Il, nota 6), voce: "Chteau". Il castello Gaillard, presso Andelys, fu costruito da Riccardo Cuor di Leone. La costruzione di questa fortezza, chiave della Normandia, era diretta contro i progetti dei re di Francia. Il castello fortezza è un sistema completo di opere difensive sulla riva della Senna nel punto dove il fiume può coprire Rouen da una armata proveniente da Parigi. La sua disposizione strategica è eccezionale soprattutto dal punto di vista delle lotte tra l'Inghilterra e i re di Francia. Viollet le Duc si sofferma molto su questo aspetto rifacendosi al libro del Deville. A. DEVILLE, "Histoire du chteau Gaillard et du siège qu'il soutint contre Philippe-Auguste, en 1203 et 1204", Rouen 1849. Nota 8. ALBERT DEMANGEON, "Problèmes de Géographie humaine", Paris 1952. In particolare L'habitation rurale en France, essai de classification des pricipaux types, a partire da pag. 261. Nota 9. LE CORBUSIER, "Manière de penser l'Urbanisme", Paris 1946; "La maison des hommes, Paris 1942. Nota 10. Sui rapporti tra Victor Hugo e l'architettura è uscita recentemente in Francia una splendida ricerca che riveste tutti i rapporti tra la cultura dell'800 e l'architettura. JEAN MALLION, "Victor Hugo et l'art architectural", Paris 1962. Nota 11. MAX SORRE, "Géographie urbaine et écologie", cit. (nota 1). WILLY HELLPACH, "Mensh und Volk der Grossstadt", Stuttgart 1939, ed. ital. Milano 1960. Si veda la mia recensione su Casabellacontinuità, n. 258, dicembre 1961. Qui, riprendendo una famosa frase di Bismarck citata da Hellpach, scrivevo che, nella città guglielmina, l'immigrato godeva, tutto calcolato, di una certa libertà, o almeno di una libertà maggiore di quella che godeva in campagna; la libertà consisteva anche in una forma della città dove certe strutture o modi di accrescimento erano positivi per tutto l'aggregato urbano. Anche se le preoccupazioni per l'abbellimento e l'ingrandimento delle capitali nascondeva spesso fenomeni imponenti di speculazione, pure quell'abbellimento era in parte godibile da tutti i cittadini. E allora questa forma della città borghese ebbe un senso e capitò che di quelle strutture residenziali e amministrative e delle maggiori soluzioni monumentali parteciparono i cittadini; e certamente l'uomo della metropoli dello Hellpach migliorò e affinò le sue percezioni, e il contadino di cui parlava Bismarck poteva passeggiare sotto i tigli dei viali e trovare un posto dove stare seduto ad ascoltare-un-po'-dimusica e a bere-la-birra. Si veda a proposito della polemica sulla grande città borghese il capitolo IlI, e le parti relative a Engels e a Hegemann. Nota 12. KEVIN LYNCH, op. cit. (cap. Il, nota 5).

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Nota 13. Per lo studio degli architetti della rivoluzione si veda l'opera del Kaufmann. EMIL KAUFMANN, "Von Ledoux bis Le Corbusier. Ursprung und Entwicklung der Autonomen Architektur", Wien-Leipzig 1933. E.K., "Three Revolutionary Architects, Boullée, Ledoux and Lequeu", Philadelphia 1952. E.K., "Architecture in the Age of Reason", Cambridge (Mass.) 1955. Per l'assunzione del termine di architetti della rivoluzione e sviluppando una tesi contraria a essi si veda l'opera di Sedlmayr. HANS SEDLMAYR, "Die Revolution der modernen Kunst", Hamburg 1955, ed. ital. Milano 1958. H.S., "Verlust der Mitte", Salzburg 1955. Per un'ampia valutazione di queste tesi, i miei studi: A.R., "Emil Kaufmann e l'architettura dell'Illuminismo", e A.R., "Una critica che respingiamo", rispettivamente in Casabella-continuità, n. 222, novembre 1958 e n. 219, maggio 1958. Un'analisi delle opere e una valutazione critica generale indispensabile è quella di Louis Hautecoeur. L.H., op. cit. (cap. I, nota 7). Per una valutazione dei rapporti tra le arti e le scienze in Francia durante la rivoluzione si veda la ricerca fondamentale di Fayet. JOSEPH FAYET, "La Révolution Franaise et la Science 1789-1795", Paris 1960. Nota 14. ANDRE' CHASTEL, "Art et humanisme à Florence au temps de Laurent Le Magnifique", Paris 1959, ed. ital. Torino 1964, pag. 148. RUDOLF WITTKOWER, "Architectural Principles in the Age of Humanism", London 1949, ed. ital. 1964. Nota 15. ANDRE' CHASTEL, op. cit., pag. 148. Nota 16. E' noto come la questione della pianta centrale sia uno dei temi classici della storia dell'architettura. Qui si è cercato di immetterla nel nostro saggio riferendola a un edificio, il San Lorenzo milanese, che è anche uno straordinario fatto urbano e una eccezionale permanenza in una città dove è fortissima la dinamica urbana. Architettura e storia costituiscono l'immagine di questo edificio: e questa immagine è collegata all'idea collettiva che la città ha dei suoi monumenti. Diamo qui una serie di studi essenziali per la comprensione e lo studio analitico del monumento. ARISTIDE CALDERINI, "La zona monumentale di San Lorenzo in Milano", Milano 1934. JULIUS KOHTE, "Die Kirche San Lorenzo in Mailand", Berlin 1890. GINO CHIERICI, "Un quesito sulla basilica di San Lorenzo", in Palladio, n. 1, 1938. FERNAND DE DARTEIN, "Etude sur l'Architecture lombarde et sur les origines de l'Architecture romano-byzantine", Paris 1865-1882. EBERHARD HEMPEL, "Borromini", Wien 1924, ed. ital. Roma 1962. HENRY VON GEYMLLER, "Die Ursprunglichen Entwurfe fur Sankt Peter in Rom", Wien-Paris 1875. Nota 17. CARLO AYMONINO, op. cit. (cap. I, nota 8). Nota 18. FERDINANDO CASTAGNOLI, CARLO CECCHELLI, GUSTAVO GIOVANNONI, MARIO ZOCCA, "Topografia e urbanistica di Roma", Bologna 1958. LEON HOMO, "Rome impériale et l'urbanisme dans l'antiquité", Paris 1951. PIETRO ROMANELLI, "Il Foro Romano", Bologna 1959. GIUSEPPE LUGLI, "Roma antica. Il centro monumentale", Roma 1946.

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LUDOVICO QUARONI. "Una città eterna-quattro lezioni da 27 secoli", in AA.VV., "Roma città e piani", Torino s.d. JEROME CARCOPINO, "La vie quotidienne à Rome à l'apogée de l'Empire", Paris 1939, ed. ital. Bari 1941. Queste pubblicazioni contengono un'ampia bibliografia. Di straordinario interesse, per l'intelligenza delle cose romane viste come in un tempo continuo, e per l'emergenza dei fatti urbani sono le lezioni di Ludovico Quaroni. Si vedano i seguenti passi: Quello che più ci interessa, però, è che il pomerio era il limite della città intesa in senso edilizio: il limite, diremmo noi, del piano regolatore e del regolamento edilizio, che non valeva fuori di esso, essendo considerata, oltre quello, finita la città. Per l'economia della difesa, delle distanze e dell'amministrazione, questa era intesa come una zona di fabbricazione continua, la più ristretta possibile. Naturalmente nulla impediva, poi, che la parte più povera della popolazione, quella che non godeva, del resto, di tutti i diritti della cittadinanza, costruisse le sue baracche abusive fuori del pomerio; i "continentia costituivano delle vaste borgate, come le "bidonvilles e i borghetti abusivi e semirurali che un po' dappertutto oggi proliferano intorno a Roma, dove il basso costo del suolo e la presenza di facili comunicazioni favoriscono l'insediamento (pag. 15). Da analisi di questo tipo, Roma, e particolarmente poi la Roma imperiale, con i suoi difetti, i suoi abusi, le sue contraddizioni risulta stranamente vicina all'immagine della grande città moderna. Più avanti Quaroni insiste tra la regola romana dell'amministrare e del costruire e le condizioni concrete della vita a Roma che era data dalla persistenza dei caratteri iniziali e dalla mescolanza degli elementi importanti più eterogenei. Siamo sempre più convinti che uno studio vasto e sistematico sulle vicende urbane di Roma, anche sull'enorme materiale analitico a disposizione, sarebbe fondamentale per la scienza urbana. Nota 19. PIETRO ROMANELLI, op. cit. (nota precedente, nota 20) pag. 26. Nota 20. MARCEL POETE, op. cit. (cap. I, nota 13). Nota 21. FERDINANDO CASTAGNOLI ecc., op. cit. (nota 18, pag. 537). PAOLO MARCONI, "Giuseppe Valadier", Roma 1964. Nota 22. SIEGFRIED GIEDION, op. cit. (cap. Il, nota 13). Nota 23. Ibidem. Nota 24. JEAN-NICOLAS-LOUIS-DURAND, "Partie graphique des cours d'architecture faits à l'Ecole Royale Polytechnique", Paris 1821. Riferimenti alle lezioni di Durand sono fatti da Aymonino (op. cit.). Nota 25. CARLO CATTANEO, "La città considerata come principio ideale delle istorie italiane", a cura con introduzione e note di G. Belloni, Firenze 1931. Questo saggio era stato pubblicato nel Crepuscolo di Carlo Tenca in quattro puntate dal 17 ottobre al 26 dicembre 1858. Ma benché - come osserva G. Belloni - più volte queste pagine siano state ricercate e più volte se ne sia invocata la produzione al pubblico, esso vide la prima volta la luce in volume solo nel 1931.Oltre il valore della scelta è evidente l'interesse di questo saggio per il Cattaneo. Si veda l'introduzione del Salvemini all'opera del Cattaneo (Milano 1922) dove le "Notizie naturali e civili sulla Lombardia" vengono definite modello di antropogeografia regionale tuttora insuperato in Italia. E il giudizio di Croce che lo definì uno spaccato della Storia d'Italia. BENEDETTO CROCE, "Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono", Bari 1921, pag. 211.

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Nota 26. ANTONIO GRAMSCI, "Il Risorgimento", Torino 1953, pag. 160. Per il dibattito su Roma capitale si veda il bel libro del Caracciolo: ALBERTO CARACCIOLO, "Roma capitale dal Risorgimento allo stato liberale", Roma 1956. ITALO INSOLERA. "Roma moderna", Torino 1962. Nel libro del Caracciolo si veda a pagina 20 i brani riportati del discorso di Cavour dove lo statista piemontese sosteneva che questa è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; e alle pag. 10-11: Roma fu prima di tutto, nel movimento nazionale, una forza unificatrice di straordinaria forza morale. Se una tradizione comune si poteva trovare a tutta la penisola, questa tradizione si chiamava Roma. Nessun studio sulle origini della coscienza nazionale italiana potrebbe prescindere da quel che fu attraverso i secoli la forza di attrazione di questo nome. Ogni qualvolta si è tentato di ritrovare una unità nella storia d'Italia, si è dovuto tornare, per un verso o per l'altro, a quel punto. La potenza di Roma antica e l'autorità di Roma papale sono gli elementi caratteristici che, determinano e quasi riempiono di sé la storia italiana di due millenni. Ogni forza attiva della penisola deve fare i conti con la potenza religiosa, politica, morale, riassunta nel nome di questa città. [...] Ancora agli albori del moto risorgimentale, tanto fra i neoguelfi che tra i liberali e i democratici di formazione laica il nome di Roma torna di frequente proprio perché il problema della Chiesa romana è sempre in piedi, ed è tale da condizionare il successo di ogni istanza di unificazione e di rinnovamento. Si può tentare di distruggerla, o di trascinarla con sé, o di neutralizzarla, ma non si può in nessun caso ignorare questa entità in Italia. Nota 27. MAURICE HALBWACHS, "La mémoire collective", Paris 1950. Nota 28. JACOB BURCKHARDT, op. cit. (cap. IlI, nota 4), pag. 98. Nota 29. KARL KERNYI, "Gli dei e gli eroi della Grecia", Milano 1963, vol. Il, pag. 212-213. CARL GUSTAV JUNG e KARL KERENYI, "Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia", Torino 1948. Volevo sviluppare alcuni risultati del Kerényi a proposito del concetto di locus e del valore della fondazione dei fatti urbani. Ma oltre all'economia di questo saggio, una ricerca di questo tipo richiede ancora anni di lavoro e una disponibilità di materiale analitico molto vasto. Nei prolegomeni Kerényi si occupa della fondazione delle città, così come essa attraversa continuamente il lavoro sugli dei e gli eroi in Grecia, illuminando nel contempo il molteplice e l'originario che la costituiscono; si veda anche il valore del fondatore della città e dello stesso disegno costitutivo. ...Non è soltanto lo psicologo che trova insieme tripartizione e quadripartizione. Le tradizioni antiche conoscono l'importanza del tre nelle piante di città sia nell'Etruria, sia a Roma stessa: esse narrano di tre torri, tre strade, tre quartieri, tre templi o templi ripartiti. Non possiamo fare a meno di osservare una molteplicità neanche quando cerchiamo l'uno e comune: l'originario. E ciò implica già una risposta per lo meno alla domanda se abbia senso indagare sull'origine particolare delle differenti formazioni locali e cronologiche ("Prolegomen", pag. 35). Nota 30. KARL MARX, Introduzione a "Per la critica dell'economia politica", Roma 1957. Nota 31. MARCEL POETE, op. cit. (cap. I, nota 10), pag. 232. Nota 32. CARLO CATTANEO, op. cit. (nota 25).Nota 33. ROLAND MARTIN, "L'urbanisme dans la Grèce antique", Paris 1956.

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CAPITOLO QUARTO. EVOLUZIONE DEI FATTI URBANI. LA CITTÀ COME CAMPO DI APPLICAZIONE DI FORZE DIVERSE.

L'economia. Si è più volte affermato che la città può essere definita solo riferendola precisamente allo spazio e al tempo; solo così possiamo comprendere di quale fatto urbano ci stiamo occupando. Roma oggi o Roma nell'epoca classica sono due fatti distinti, anche se in ogni caso dovremo vedere l'importanza dei fenomeni di permanenza che legano la Roma del passato a quella di oggi. Resta comunque che se ci vogliamo rendere conto delle trasformazioni dei fatti urbani, noi dobbiamo sempre occuparci di fatti molto circostanziati. Gli studi più approfonditi, e l'esperienza dell'uomo comune lo conferma, ci indicano che una città cambia completamente nel giro di cinquant'anni: chi vive nella stessa città si abitua lentamente a questa trasformazione ma essa non è per questo meno vera. Certamente esistono delle epoche, o dei periodi di tempo, più o meno lunghi, in cui le città si trasformano molto più rapidamente che in altri; Parigi sotto Napoleone Terzo, Roma alla sua ascesa a capitale d'Italia e così via in tutti quei casi in cui le trasformazioni sono rapide, impetuose, apparentemente impreviste. Ma in tutte le epoche tutte le letterature sono piene di descrizioni, di notazioni, spesso di sfoghi nostalgici sulla trasformazione del volto della città. Mutazioni, cambiamenti, semplici alterazioni hanno quindi tempi diversi; fenomeni particolari, accidentali come le guerre o le espropriazioni, possono rovesciare in poco tempo situazioni urbane che sembravano definitive, oppure questi cambiamenti possono prodursi in tempi più lunghi per successive modifiche, a volte per modifiche di elementi e di parti singole. In tutte queste modificazioni hanno campo molte forze che si applicano alla città; queste forze possono essere di natura economica, politica o altro. Una città può mutare per la sua ricchezza economica che impone forti trasformazioni nel modo di vivere, o può essere distrutta da una guerra; si pensi alle trasformazioni di Parigi e di Roma nelle epoche che sopra ho richiamato, alla distruzione di Berlino o dell'antica Roma, alla ricostruzione di Londra e di Amburgo dopo i grandi incendi che le hanno devastate o dopo i bombardamenti dell'ultima guerra. In ogni caso le forze che guidano questi cambiamenti sono individuabili. Un'analisi della città ci permette anche di vedere per quali vie esse si applicano; per esempio attraverso lo studio delle proprietà nelle serie storiche catastali rileviamo l'andamento delle proprietà in base a certe tendenze economiche, l'acquisizione delle aree da parte di grandi gruppi finanziari che, quando compare, determina la fine dello spezzettamento dei lotti e il formarsi di grandi aree disponibili a complessi completamente diversi.

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Quello che non è chiaro è il modo concreto con cui queste forze si manifestano e soprattutto il rapporto che esiste tra la loro forza potenziale e gli effetti che esse producono. Se noi studiamo ad esempio la natura della speculazione, intesa come manifestazione di certe leggi economiche, possiamo probabilmente stabilire alcune leggi che le sono proprie; queste caratteristiche saranno però probabilmente di natura generale. Se noi però cerchiamo di indagare il perché l'applicazione di queste forze produca effetti tanto diversi sulla struttura della città, ci è più difficile fornire una risposta. Bisognerà quindi che noi cerchiamo di conoscere meglio questi due ordini di fatti i quali si riferiscono alle forze che operano sulla città e alla natura della città e inoltre al modo concreto con cui si producono le trasformazioni. Il problema quindi principale dal nostro punto di vista non è tanto quello di conoscere queste forze in sé ma di sapere: a) come esse si applicano; b) come la loro applicazione produca cambiamenti diversi. Questi cambiamenti dipenderanno da un lato dalla natura di queste forze, dall'altro dalla situazione locale, dal tipo di città ecc. Dobbiamo quindi stabilire un rapporto tra queste forze e la città e conoscere i modi delle trasformazioni. In epoca moderna gran parte di queste trasformazioni possono essere spiegate dai piani, in quanto sono questi la forma concreta con cui si manifestano le forze che presiedono alla trasformazione delle città; i piani sono qui intesi come quelle operazioni compiute dalla municipalità, in maniera autonoma o accogliendo proposte di privati, che prevedono, coordinano e operano sugli aspetti spaziali della città. Abbiamo parlato di piani in epoca moderna; in realtà dalla loro fondazione, le città hanno la caratteristica di possedere e in parte di crescere mediante dei piani; proprio il carattere collettivo del fatto urbano implica che in qualche modo, all'origine o nel corso dello sviluppo, si manifesti in qualche forma un piano. Abbiamo anche visto come questi piani, dal punto di vista costitutivo si pongano alla pari di qualsiasi altro fatto urbano determinato; in questo caso essi costituiscono un inizio. Tra le forze che presiedono in massima parte a questi piani vi sono le forze di natura economica ed è interessante studiare, dato che la possibilità di questo studio ci è offerta da un ampio materiale, come queste forze si applichino. Questa applicazione si manifesta nella città capitalistica attraverso la speculazione; questa rappresenta una parte del meccanismo, dei modi, attraverso cui le città crescono. Qui interessa vedere quali sono i rapporti tra questi fatti di natura economica e il tipo di crescita della città; in quale modo cioè la forma della città dipende da essi; in altri termini se i fatti urbani nella loro configurazione sono o no indipendenti, o in che misura sono dipendenti, da queste azioni.

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Piani, espropriazioni, speculazioni agiscono sulla città; ma il rapporto con i fatti urbani concreti è talmente problematico da non poter essere facilmente assunto. In questo capitolo mi occuperò di due tesi diverse che hanno studiato la città dal punto di vista economico e assumendone i dati fondamentali cercherò di arrivare a qualche conclusione. La prima di queste tesi è svolta da Maurice Halbwachs e analizza il carattere delle espropriazioni; essa sostiene che i fatti economici sono per loro natura preminenti nell'evoluzione della città fino al punto da dar luogo a delle leggi generali, ma che dal punto di vista economico si ha spesso il torto di dare un'importanza di prim'ordine al modo preciso, concreto, della realizzazione di un fatto generale, che si deve produrre necessariamente ma che non cambia di significato per essersi prodotto in quella forma, in quel luogo e in quel momento, piuttosto che sotto una forma, un luogo e un momento diverso. L'insieme di questi fatti economici non ci spiega i fatti urbani nella loro struttura globale. Ma allora quale è il motivo della individualità dei fatti singoli? Halbwachs doveva rispondere a questi quesiti quando riportava la città allo sviluppo dei gruppi sociali e rimandava a un sistema più complesso, alla struttura della memoria collettiva, il rapporto tra la città come costruzione e il suo comportamento. In questo studio sui caratteri della espropriazione, che risale al 1925, ed è quindi dello stesso anno di "Les cadres sociaux de la Mémoire", Halbwachs partendo dalle sue conoscenze scientifiche si vale in modo magistrale dei dati statistici, così come farà nel suo "L'évolution des besoins dans les classes ouvrières". Su questa base poche opere sulla città sono concepite con tanto rigore. La seconda di queste tesi, sostenuta da Hans Bernoulli sostiene che la proprietà privata del suolo e la sua frammentazione è il male principale della città moderna. Il rapporto tra la città e il suolo urbano ha un carattere fondamentale e indissolubile; egli ritiene pertanto necessario che il suolo urbano ritorni alla collettività. Da questa tesi il discorso di Bernoulli si estende a considerazioni di ordine propriamente architettonico riferite alla struttura urbana. L'abitazione, il quartiere, le attrezzature dipendono strettamente dall'uso del suolo. Questa tesi, esposta e sostenuta con grande chiarezza, investe, come ognuno sa e può vedere, uno degli aspetti preminenti delle questioni urbane. Alcuni sostengono anche che la proprietà del suolo da parte dello Stato, cioè l'abolizione della proprietà privata, sia una differenza qualitativa tra la città capitalista e quella socialista. Questa affermazione è indubbia: ma riguarda i fatti urbani? Sono propenso a credere che essa li riguardi poiché l'uso e la disponibilità del suolo urbano sono elementi fondamentali; solo che essa sembra ancora una condizione, certamente una condizione necessaria, ma non un fatto in sé. Credo che queste tesi ci servano per renderci conto più pienamente della reale natura dei fatti urbani; vi sono molte altre tesi di carattere economico ma ho

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preferito scegliere queste per la loro chiarezza e perché esse si attengono alla realtà urbana. Comunque dietro e oltre i fatti e le forze economiche vi è il problema delle scelte; e queste scelte, di natura politica, non possono essere prese che alla luce della struttura totale dei fatti urbani.

La tesi di Maurice Halbwachs. All'inizio del suo studio Halbwachs (1) si propone di studiare dal punto di vista economico i fenomeni di espropriazione di una grande città. Egli parte dall'ipotesi che sia interessante, dal punto di vista scientifico, considerare le espropriazioni staccate dal loro contesto; ammettere cioè che esse possiedano dei caratteri propri e che costituiscano realmente una serie omogenea. In effetti se si paragonano due casi particolari si può prescindere dalle loro differenze; che la causa sia fortuita, un incendio, o normale, l'obsolescenza, o artificiale, la speculazione, sembra che essa non influisca sulla natura dell'effetto, che resta una demolizione o una costruzione pura e semplice. D'altra parte, l'espropriazione non si esercita in modo omogeneo su tutta la città; essa cambia completamente certi quartieri della città e ne rispetta altri. Bisognerà allora, per avere un quadro completo, esaminare le variazioni per quartieri secondo delle serie storiche; solo da un quadro generale di più quartieri, e per periodi diversi di tempo, potremo avere il metro delle grandi variazioni nello spazio e nel tempo. Circa queste variazioni è bene vedere certe loro caratteristiche. Vediamone due fondamentali: la prima riguarda il ruolo dell'individuo, cioè l'azione esercitata da una certa personalità in quanto tale, la seconda l'importanza considerevole data al fatto dalla successione pura e semplice dei fatti considerati. Se una strada - scrive testualmente Halbwachs - si chiama Rambuteau, un viale Pereire, un boulevard Haussmann, non è certo per rendere omaggio a questi individui; è che queste denominazioni sono dei marchi d'origine. Quando delle iniziative municipali riguardano dei bisogni denunciati dalla popolazione, e delle proposte discusse, vi sono molte influenze, molti motivi anche accidentali. Ma quando l'assemblea municipale non rappresenta la volontà popolare (come a Parigi dal 1831 al 1871) come non mettere in primo piano le idee di estetica, di igiene, di strategia urbana, di pratica sociale di un individuo o di pochi individui al potere? Da questo punto di vista, la configurazione attuale di una grande città, risulterà come la sovrapposizione dell'opera di certi partiti, di certe personalità, di certi sovrani; così piani diversi si sono sovrapposti, mescolati, ignorati, tanto che la Parigi attuale è come una fotografia composita, ottenuta dalla riproduzione su uno stesso foglio della Parigi di Luigi Quattordicesimo, di Luigi Quindicesimo, di Napoleone Primo, del barone Haussmann.

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Non è forse vero che molte strade incompiute, e la solitudine e l'abbandono di certi quartieri, testimoniano della diversità e della relativa indipendenza di un grande numero di progetti? La seconda caratteristica è relativa alla successione pura e semplice dei fatti considerati. Vi sono delle forze costanti che sono portate a costruire, ad acquistare e a vendere i terreni in tutti i tempi. Ma queste forze si sviluppano secondo certe direzioni concrete che vengono loro offerte, in modo da inserirsi in certi piani che vengono loro presentati. Ora queste direzioni cambiano bruscamente in un modo spesso imprevedibile. Se la natura di questi fatti economici normali non può essere modificata, la loro intensità può essere però molto aumentata o molto diminuita, senza che vi siano da invocare delle ragioni propriamente economiche. Haussmann ha dato, tra gli altri motivi di trasformazione di Parigi, delle ragioni di ordine strategico; cioè quelle di distruggere dei quartieri poco propizi all'assembramento di truppe. Queste considerazioni possono essere comprensibili da parte di un governo autoritario e impopolare come altre: il lavoro offerto largamente agli operai, delle ricche prospettive aperte agli speculatori, egualmente convenienti a un regime che cercava di compensare il minimo dei diritti politici con il massimo di prosperità materiale. Quindi i grandi movimenti di espropriazione a Parigi sotto questo regno si spiegano attraverso delle cause politiche: il trionfo, apparentemente decisivo, del partito dell'ordine sopra la rivoluzione, della classe borghese sopra quella operaia. Un altro esempio caratteristico del ruolo tenuto dalle circostanze particolari della storia sono, durante il periodo rivoluzionario, i grandi piani stradali che fecero seguito alla nazionalizzazione dei beni degli emigrati e del clero. La Commissione degli Artisti segna sulla carta delle grandi strade, utilizzando i terreni delle nuove, enormi proprietà nazionali. Lo studio delle trasformazioni di Parigi si ricollega quindi allo studio della storia di Francia; la forma di queste trasformazioni dipende quindi sia dal passato storico della città, sia dagli atti compiuti da certi individui le cui volontà hanno agito come forze della storia. Si può quindi dire che i fatti d'espropriazione differiscono per la loro stessa natura da tutti gli altri fatti che si trovano all'origine dei cambiamenti di proprietà. Un fatto legato a questa ipotesi è che gli atti d'espropriazione non si presentano in generale sotto forma isolata, non riguardano questa strada o quel gruppo di abitazioni, ma si ricollegano a un sistema di cui non sono che una parte. Essi si ricollegano alle tendenze di sviluppo della città. In tutti i casi dove sono richiamate delle ragioni storiche per spiegare i cambiamenti di Parigi, si vedono delle altre spiegazioni possibili che mettono in relazione dei fatti economici, le espropriazioni, con degli altri fatti economici. Si cita la nazionalizzazione dei beni del clero; ma d'altra parte non tutte le strade progettate dalla Commissione degli Artisti sono state realizzate; e

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l'espropriazione dei beni dei conventi non è essa stessa un fatto economico? Queste proprietà costituivano degli impedimenti, anche nella loro forma fisica, allo sviluppo della città e quindi in circostanze diverse esse sarebbero state espropriate dal re, o vendute dai frati, in modo non diverso da quanto avvenne più tardi per le ferrovie. Si ha cioè spesso il torto di dare un'importanza di prim'ordine al modo preciso, concreto, della realizzazione di un fatto generale, che si deve produrre necessariamente ma che non cambia di significato per essersi prodotto in quella forma, in quel luogo e in quel momento, piuttosto che sotto una forma, un luogo e un momento diverso. Così si dica del piano di Haussmann e di tutti gli argomenti di ordine strategico, politico ed estetico che si citano per questo piano. L'argomento strategico non ha modificato, non diciamo nella forma topografica, ma nella sua natura economica, la strada in questione, e allora non bisogna tenerne conto più di quanto il chimico tenga conto della forma e della grandezza della provetta dove esercita i suoi esperimenti; posto che dei motivi d'ordine, d'igiene, di estetica intervengano, fin quando essi non abbiano per effetto una modificazione economica importante, che non possa essere spiegata che da motivi economici, l'economista non deve preoccuparsene. O questi motivi hanno avuto questo effetto, e allora non possono essere trascurati, o è solo al termine della ricerca positiva, e dopo l'eliminazione di tutte le cause economiche, che è possibile stabilire l'esistenza di un tale "residuo". Si stabilisce perciò l'ipotesi del carattere puramente economico dei fatti di espropriazione, della loro indipendenza rispetto ai fatti individuali e della storia politica. L'espropriazione inoltre è un adattamento rapido e di insieme: le differenti componenti dell'operazione si realizzano simultaneamente e non successivamente; si può dunque immaginare che l'atto complessivo rivelerà la direzione e l'influenza delle forze presenti in un periodo precedente. (Il modo poi, anche giuridico, con cui l'espropriazione si manifesta non ha quindi importanza). Da quando la coscienza d'un bisogno collettivo si forma, da quando essa diventa chiara, si ha l'origine per un'azione totale. Vi possono certamente essere degli errori nella coscienza sociale; la città può essere condotta a tracciare delle strade là dove non ve ne è realmente bisogno, a urbanizzare dei terreni là dove essa non tende ad espandersi; delle strade create rapidamente possono rimanere deserte. Così l'espropriazione può precorrere un momento regolare della evoluzione; le cause per questo sono molteplici; per esempio progettando una strada le cui necessità sono urgenti si può essere condotti a costruirne altre per analogia. Comunque l'ipotesi di Halbwachs rifiuta di considerare l'espropriazione come un fatto anormale e straordinario ma anzi vuole studiarla come il fatto più certo e sicuro dell'evoluzione urbana.

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Lo studio dei fatti d'espropriazione è un punto di vista, e il punto di vista più sicuro e più chiaro per studiare un insieme molto complesso di fenomeni, poiché è nei movimenti d'espropriazione e nelle loro conseguenze immediate che si manifestano come in una sintesi, abbastanza condensata, le tendenze economiche attraverso cui analizzare l'evoluzione fondiaria urbana. Per l'importanza che attribuisco alla tesi di Halbwachs qui esposta voglio mettere in luce tre punti che ritengo fondamentali: a) il rapporto, e quindi anche l'indipendenza tra i fatti economici e il disegno della città; b) l'apporto della personalità, del singolo, nelle mutazioni urbane, i suoi valori e i suoi limiti; quindi anche il rapporto tra il modo preciso, storicamente determinato con cui si manifesta un fatto e le cause generali di esso; c) l'evoluzione urbana come un fatto complesso, di ordine sociale, che tende a realizzare se stesso secondo delle leggi e degli orientamenti di crescita ben precisi. A questi punti si aggiunga il merito di aver messo a fuoco il principio dell'importanza dello studio delle espropriazioni come momento decisivo nella dinamica dell'evoluzione urbana.

Considerazioni sui caratteri delle espropriazioni. In base alla ipotesi di Halbwachs si potrebbero compiere diversi studi su molte città e ritengo che sia questo uno dei metodi realmente più sicuri e importanti per lo studio della città. Qualcosa in questa direzione io ho tentato nello studio di un quartiere milanese, cercando di mettere in rilievo l'importanza di certi fatti, apparentemente accidentali, come le distruzioni provocate dagli eventi bellici, i bombardamenti, nella successiva evoluzione della città; credo che si possa dimostrare, e io stesso ho iniziato a farlo, come fatti di questo tipo non facciano che accelerare certe tendenze, modificandole solo parzialmente, ma permettendo di realizzare più rapidamente dei piani che nella loro forma economica già esistevano e avrebbero prodotto degli effetti fisici sul corpo della città, distruzioni e ricostruzioni, con un processo del tutto simile a quello di cui la guerra è stata artefice. E' però evidente che lo studio di questi fatti, per la forma rapida e brutale con cui essi si manifestano, permette di offrire dei risultati molto più immediati di quelli che otteniamo dallo studio di una lunga serie di fatti considerati attraverso le serie storiche delle proprietà fondiarie e della evoluzione del patrimonio immobiliare nella città. Uno studio di questo tipo ha poi in epoca moderna un appoggio notevole nello studio dei piani; piani di ampliamento, piani regolatori ecc. In sostanza questi piani sono strettamente collegati alle espropriazioni, senza le quali essi non sarebbero possibili, e attraverso le quali si manifestano. D'altra parte quello che Halbwachs accenna per Parigi, a proposito di due piani importanti, per motivi diversi, come quello degli Artisti e quello di Haussmann (e in entrambi i casi per la forma di questi piani ci si può rifare a molti piani della monarchia assoluta), è vero per molte città e probabilmente per tutte le città.

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Io stesso ho cercato di collegare l'evoluzione della forma urbana di Milano con le riforme prima di Maria Teresa e poi di Giuseppe Secondo concretatesi sotto Napoleone. Il rapporto tra queste iniziative di natura economica e il disegno della città risulta chiarissimo; ma soprattutto esso mostra chiaramente la preminenza del fatto economico, l'espropriazione, rispetto al fatto architettonico, la forma. E mette altresì in luce come il carattere dell'espropriazione, prescindendo dal suo momento politico che dimostrerà piuttosto come essa possa essere usata a vantaggio di una classe o di un'altra, sia un fatto necessario che si produce durante tutta l'evoluzione della città e come la base sia ben radicata nei movimenti di carattere sociale dell'insieme urbano. Si può dimostrare, a proposito di Milano (2), come la forma del Piano napoleonico, che si può considerare uno dei piani più moderni creati in Europa, sia pure sulla scorta del Piano degli Artisti della Convenzione di Parigi, sia l'esplicazione della lunga serie di espropriazioni e di rimozioni dei beni ecclesiastici, anche nella loro forma fisica, operata dal governo austriaco. Il Piano napoleonico è quindi semplicemente la forma precisa, architettonica, di questo fatto e in quanto tale può essere studiato di per sé; all'interno di questi limiti, se così si possono chiamare, il giudizio che noi possiamo dare deve essere basato sulla cultura neoclassica, sulle diverse personalità di architetti come il Cagnola o l'Antolini, su tutta una serie di proposte di tipo spaziale precedenti il piano e che si risolvono nel piano, e che restano indipendenti dalla natura economica del piano. In questo senso, cioè in quello della loro autonomia, esse possono essere verificate in quanto permangono anche nei piani successivi o si riallacciano a piani precedenti ma non promuovono delle trasformazioni economiche. Il successo della strada Napoleone, poi via Dante, è tutto compreso nella dinamica della vita urbana, quella stessa dinamica che ha permesso il successo del piano Beruto nella parte nord della città e ne ha decretato il fallimento nella parte sud dove alcune ipotesi erano o troppo avanzate o astratte dal contenuto della realtà economica. Ora questa forza, di natura economica, si sprigiona con gli atti di repressione degli ordini religiosi seguita nel ventennio tra il 1765 e il 1785 da Giuseppe Secondo d'Austria; un fatto politico e un fatto economico; la soppressione dei Gesuiti, dell'inquisizione, delle numerose e bizzarre congregazioni religiose che erano cresciute a dismisura a Milano come in poche altre città spagnole, non significò soltanto un passo verso il progresso civile e moderno ma significò concretamente la possibilità per la città di disporre di vaste aree urbanizzate, di sistemare le strade rettificando delle situazioni assurde, di costruire scuole, accademie, giardini; proprio sugli orti di due conventi di suore e su quello del Senato sorsero i giardini pubblici. Così il Foro Bonaparte non fu certamente un'esigenza architettonica; esso nacque con il bisogno della città di darsi un volto moderno costruendo un centro degli affari per la nuova borghesia che prendeva il potere.

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E questo è indipendente dalla forma, e dal modo concreto, topografico e architettonico con cui si scelse il Foro Bonaparte; e anche storico. (Nel senso che fu scelta l'area del castello che per motivi politici doveva essere distrutto). L'idea dell'Antolini rimase però come pura idea formale: e come tale, in un contesto politico del tutto diverso, ritorna nel progetto del Beruto e con notevole importanza nel suo piano; solo che, per fatti di natura ancora economica, il centro degli affari non sarà Foro Bonaparte e per la natura complessiva dei fatti urbani questa sistemazione avrà, nell'equilibrio urbano, un valore diverso. Questo valore, ripeto, è indipendente dal suo disegno. Lo sviluppo della teoria di Halbwachs ci può meglio far capire la confusione che si fa generalmente, partendo da presupposti per nulla scientifici e ignorando la natura dei fatti urbani, quando si parla di sventramenti, di piani assurdi ecc. A questo proposito è tipico il giudizio sull'opera di Haussmann; in sostanza, ampliando la teoria di Halbwachs, si può affermare che il piano di Parigi di Haussmann si può approvare o disapprovare, può piacere o non piacere, solo giudicandolo nel suo disegno. E naturalmente questo disegno è molto importante; ed è appunto questo di cui mi voglio occupare in questa ricerca. Ma è altrettanto importante poter giudicare che la natura di quel piano è legata alla evoluzione urbana di Parigi in quegli anni e che da questo punto di vista il piano è uno dei più grossi successi che si siano avuti, per una serie di coincidenze ma soprattutto per la sua adesione puntuale alla evoluzione urbana in quel momento, nella storia. Le strade aperte da Haussmann erano strade che seguivano la direzione reale dello sviluppo della città e vedevano chiaramente la funzione di Parigi nelle sue caratteristiche nazionali e sopranazionali. E' stato detto che Parigi è troppo grande per la Francia ma che, d'altro canto, è troppo piccola per l'Europa; ed è giusto nel senso che non si può valutare la dimensione di una città, e delle operazioni di un piano, prescindendo dal successo reale di questo piano, dalla realtà urbana che questo piano intravede. Si possono portare altri esempi parlando di città come Bari, Ferrara, Richelieu da un lato, Barcellona, Roma, Vienna dall'altro. Cioè nell'un caso il piano ha precorso i tempi o addirittura è rimasto soltanto un emblema, una iniziativa non tradotta se non in qualche costruzione e in qualche strada; nell'altro caso il piano ha incanalato e guidato, spesso accelerato, la propulsione di forze che agivano o stavano per agire sulla città. In altri casi ancora il piano è stato proiettato verso il futuro in un modo particolare; giudicato al momento inattuale, bloccato nelle sue prime manifestazioni, esso è stato poi per così dire "ricuperato" in epoche successive dimostrando la bontà delle previsioni. Certo, in molti casi, il rapporto tra le forze economiche e di sviluppo e il disegno del piano, non è né semplice né facile da individuare; un esempio molto importante, e non sufficientemente noto, è quello del Plan Cerdá di Barcellona.

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Un piano estremamente avanzato dal punto di vista tecnico e del tutto rispondente alle trasformazioni economiche che premevano nella capitale catalana. Un piano vasto e opportuno anche se prendeva l'avvio da una valutazione troppo ampia dello sviluppo demografico e economico della città; un piano quindi che non fu realizzato come doveva essere, o se si vuole non fu realizzato affatto in senso stretto, ma che pure determinò lo sviluppo successivo di Barcellona. Il Plan Cerdá non fu realizzato là dove le sue visioni tecniche erano troppo avanzate rispetto ai suoi tempi e dove le soluzioni che esso forniva richiedevano un grado di evoluzione urbana ben superiore a quello esistente in quell'epoca; un piano certamente più avanzato di quello di Haussmann e che quindi non poteva facilmente essere realizzato non solo dalla borghesia catalana ma da qualsiasi altra città europea. Vedremo brevemente le caratteristiche del Plan Cerdá, e qui non importa analizzarle, ma basti pensare ai punti fermi del piano; la viabilità, in questo comune alle preoccupazioni haussmanniane, un reticolo generale che permettesse la sintesi dell'insieme urbano e all'interno di questo la autonomia dei quartieri, dei nuclei residenziali. Il piano presupponeva quindi delle condizioni politiche, oltre che tecniche più avanzate, e cadde proprio in quei punti, come i complessi autonomi residenziali, che richiedevano appunto maggior impegno amministrativo e che furono in qualche modo ripresi dal gruppo del GATCPAC. D'altro canto il piano, come ha giustamente rilevato Oriol Bohigas (3), non era sostenibile, là dove presupponeva una molto bassa densità; ipotesi del tutto contraria al modo di vita e alla stessa struttura delle città mediterranee. Inoltre trasformando le "illes" in grandi blocchi costruiti e accettando il principio generale della maglia rettangolare, il piano finiva per prestarsi magnificamente ai disegni della speculazione e come tale, solo attraverso uno schema mortificato, venne accolto. Si può quindi vedere come in questo caso il rapporto tra il disegno e la situazione economica sia complesso e come non contraddica la tesi di Halbwachs, al contrario. La crescita urbana di Barcellona avveniva allora comunque e il Plan Cerdá fu sollecitato da quella crescita; esso non ebbe il potere di trasformarla nelle sue ragioni politico-economiche e fu poco più di un pretesto o di un canovaccio a cui attenersi. La sua importanza però, si stacca o non è rapportabile alla situazione delle forze economiche operanti a Barcellona, per diventare un momento della storia dell'urbanistica e per essere giudicato come tale. Naturalmente, possiamo ripetere a questo punto, poiché la città è una entità complessa, essa può coincidere, e a volte coincide perfettamente, con un piano che nasce da essa, a volte può non coincidere sia per le carenze di questo piano, sia per la particolare situazione storica in cui essa si trova. In ogni caso questo rapporto va giudicato solo lateralmente al suo sviluppo.

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Non possiamo forse giudicare il piano di Ferrara dei duchi d'Este indipendentemente dal suo fallimento, dal cadere delle sue previsioni di sviluppo? O dovremo forse dire che quel piano non era buono perché non si attuò? Un altro esempio clamoroso può essere offerto dal piano murattiano per Bari (4); si tratta di un tipico esempio di "espropriazione" come è trattato da Halbwachs, una espropriazione caratterizzata, come tutte d'altronde, da una serie di circostanze precise di carattere storico e politico. Quello che qui interessa rilevare è che il piano progettato sotto i Borbone e approvato nel 1790 ebbe uno sviluppo edilizio, attraverso vicende diverse, che con periodi successivi, proseguì fino al 1918. Anche qui, e a tutt'oggi, il piano fu variamente alterato proprio nei suoi caratteri antispeculativi e nelle sue caratteristiche degli isolati, ma rimase non come l'impronta riconoscibile dallo storico, ma come forma concreta della città costituendo quel tipico disegno di Bari, caratterizzato dallo stacco tra città antica e borgo murattiano, che è immediatamente riconoscibile nella città pugliese. D'altro canto come è stato giustamente osservato noi potremmo studiare non solo come le città si evolvono ma anche come esse decadono; in questo senso potremmo fare uno studio nella stessa direzione di Halbwachs, ma di senso opposto. Dire che Richelieu (5) decadde rapidamente con la scomparsa dalla scena politica del grande cardinale-ministro perché era a questi legata non significa ancora nulla; la sua figura poteva essere quella che aveva provocato l'inizio, che aveva dato occasione al fondamento di questo centro urbano, il quale avrebbe poi potuto continuare a crescere per proprio conto. I secoli di decadenza di alcune grandi città, o di alcune piccole città, hanno alterato diversamente la loro struttura urbana senza peraltro intaccare la loro qualità; o dobbiamo credere che nel caso di città come Richelieu o Pienza non si sia mai avuta una vita urbana? Forse perché sono città artificiali? Ma lo stesso si potrebbe dire per Washington e per altre città; ad esempio per Pietroburgo. Non ritengo che importi nulla la diversità di scala, spesso stridente, di queste città; anzi è una riprova di come dobbiamo trascurare la dimensione nello studio dei fatti urbani se vogliamo avere qualche impostazione scientifica del problema. Ai suoi inizi Pietroburgo si poteva considerare un atto arbitrario dello zar e la continua bipolarità della Russia tra Mosca e l'attuale Leningrado sta a dimostrare come non sia stata affatto pacifica la crescita di quest'ultima al livello di capitale e poi di grande metropoli mondiale. I fatti concreti di questa crescita sono probabilmente altrettanto oscuri di quelli della decadenza di Nijski Novgorod rispetto a Mosca o del predominio di Milano a partire da una certa epoca sopra Pavia e le altre città lombarde.

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La proprietà del suolo. In una piccola opera Hans Bernoulli (6) ha illuminato uno dei problemi più importanti, forse il problema fondamentale, che costituisce un vincolo, una pesante catena per lo sviluppo della città. In questa piccola opera, più chiara e essenziale di molti dotti articoli e ricerche condotte poi su questo problema, Bernoulli ha messo a fuoco due questioni principali; la prima riguarda il carattere negativo non solo della proprietà privata del suolo ma altresì la dannosa conseguenza della estrema divisione di questo, la seconda, strettamente collegata, mette in luce i motivi storici di questa situazione e appunto le conseguenze che, da un certo punto in avanti, questa situazione ha avuto sulla stessa forma della città. La proprietà del suolo si trova suddivisa sia se si tratta di suolo rurale, sia se si tratta di suolo urbano; alle bizzarre forme dei campi si oppone la complessità e spesso l'assurdità della proprietà urbana: A ogni innovazione si oppone immediatamente il groviglio dei confini di proprietà, improntati dall'antichità, di carattere ben diverso da quei confini campestri lungo i quali scorrono l'aratro e l'erpice, ma non meno radicati e inamovibili. Questi lotti non sono poi circondati soltanto da pietre, ma anche occupati da costruzioni di pietra. Per quanto si sappia che le nuove strade e le nuove costruzioni che vi dovrebbero sorgere possano essere migliori delle strette stradicciuole che vi serpeggiano e delle casupole ormai consumate dall'uso, nulla si può fare se non quando siano risolte le inevitabili contese coi diritti di proprietà. Lunghe contese, che richiedono pazienza e denaro e molto spesso deformano lungo il cammino l'intenzione originaria (7). In gran parte il fatto storico che inizia questo processo di smembramento del suolo urbano è dovuto alla Rivoluzione Francese quando nel 1789 il suolo diventa libero; le grandi proprietà dell'aristocrazia e del clero vengono vendute a borghesi e contadini. Ma come in gran parte si sciolgono tutti i diritti fondiari della nobiltà, si sciolgono anche quelli dei Comuni e si disperdono così le grandi aree demaniali. Il monopolio del suolo passa alla proprietà privata; il terreno perciò diventa commerciabile come ogni altra cosa. Il terreno casualmente sfuggito alla Comunità e caduto in mano di prudenti contadini e di avveduti cittadini, doveva presto divenire oggetto di vera e propria speculazione. [...] La città si trovò nuovamente a quella svolta del suo cammino in cui il diritto di proprietà fondiaria si manifestò in pieno nei nuovi impianti di fabbricazione. I tempi nuovi, svegliatisi inaspettatamente ad un'altra attività industriale, diedero ai proprietari una possibilità quasi smisurata di valorizzare i propri terreni (8). Questa analisi è molto lucida e descrive chiaramente la situazione reale all'interno di un preciso momento storico della città. Ma a questa analisi è necessario opporre i seguenti argomenti.

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Il fenomeno della suddivisione negativa del terreno è indicato dal Bernoulli nelle conseguenze della Rivoluzione Francese; o almeno nel fatto che i rivoluzionari di allora non si resero conto dell'enorme capitale comune, i demani comunali, che dovevano essere mantenuti come proprietà collettiva, e le grandi proprietà della nobiltà e del clero che dovevano essere confiscate e tenute dalla comunità e non suddivise tra i privati, che essi alienavano pregiudicando lo sviluppo razionale delle città (e delle campagne). D'altro canto là dove questo non avvenne come in gran parte della Germania e a Berlino, il fenomeno si ebbe con le stesse conseguenze quando nel 1808, in esecuzione della proposta di Adam Smith, la legge finanziaria di quell'anno permise che i demani fossero impiegati nella estinzione dei debiti di Stato e i terreni demaniali fossero ... tramutati in proprietà privata il più possibile libera e irrevocabile. Così anche qui il suolo, divenuto merce commerciabile, diviene oggetto di monopolio economico. Nella sua storia dello sviluppo moderno di Berlino lo Hegemann (9) ha posto in piena luce le conseguenze spaventose che si ebbero per la città e per i lavoratori tedeschi a seguito di queste iniziative, fino a quel famigerato Piano Regolatore del Presidente di Polizia del 1853 che diede l'inizio ai famosi "cortili berlinesi". Questa esposizione del Bernoulli e tutte le tesi di questo tipo, particolarmente illuminanti per molti aspetti, devono essere criticate secondo due argomenti distinti. Il primo si riferisce alla validità nel tempo di questa analisi, al fatto insomma che essa ci spiega certi aspetti, certamente imponenti ma non definitivi della città capitalistico-borghese. E che inoltre questi aspetti fanno piuttosto capo a delle leggi economiche generali che dovevano comunque manifestarsi e che quindi, a mio avviso, furono concretamente un momento positivo nello sviluppo della città; il frazionamento del terreno, insomma, mentre da un lato è una degenerazione della città, dall'altro ne promuove concretamente lo sviluppo. Possiamo riprendere le conclusioni di Halbwachs, che ho appositamente esposto precedentemente, le quali ci dicono che non si deve dare un'importanza di prim'ordine al modo preciso, concreto della realizzazione di un fatto generale che si deve produrre necessariamente ma che non cambia di significato per essersi prodotto in quella forma, in quel luogo e in quel momento piuttosto che sotto una forma, un luogo e un momento diverso. Si è infatti visto come le grandi espropriazioni, e anche da una parte l'aumentata suddivisione dei terreni urbani, si pongano in primo piano con la Rivoluzione Francese e l'occupazione napoleonica ma abbiano già chiari precedenti nelle riforme degli Asburgo e persino dei Borbone, e che alla fine si manifestano anche in un paese così profondamente reazionario come la Germania prussiana. Si tratta insomma di una legge generale da cui dovevano passare gli stati borghesi; e come tale essa è positiva.

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Il frazionamento delle grandi proprietà, gli espropri e la formazione di una nuova situazione catastale è insomma un momento economico, necessario, dell'evoluzione della città in occidente; quello che si può rilevare è il carattere politico con cui avviene questo processo e solo nella scelta politica si può trovare una necessaria differenza. A questo punto infatti non si può ignorare l'aspetto sostanzialmente romantico dei socialisti alla Bernoulli e alla Hegemann che, in chiave storica ed economica, riflettono il romanticismo dei Morris e di tutta l'origine del movimento moderno in architettura. E' significativo come lo Hegemann combatta contro le "Mietkasernen" in sé senza porsi la questione che infine i grandi casamenti potevano essere altrettanto validi dal punto di vista igienico, tecnico ed estetico delle villette. Come capiterà appunto nelle "Siedlungen" di Vienna e di Berlino con la ripresa di certi aspetti locali. Non per nulla vi è sempre in questi autori il richiamo alla città gotica o al socialismo di Stato degli Hohenzollern; situazioni che, anche e proprio dal punto di vista urbano, dovevano essere superate, anche a costo di un inasprimento contingente della situazione. Con questo richiamo al socialismo romantico introduco qui il secondo argomento, ricollegando la tesi del Bernoulli alla visione che incentra il problema dell'urbanistica moderna, il problema della città, attorno al nodo storico della rivoluzione industriale. Questa visione sostiene che la problematica delle grandi città coincide con il periodo della rivoluzione industriale e che prima di questa il problema urbano sia qualitativamente diverso; da questa premessa sostiene che le iniziative filantropiche e utopistiche di questo (socialismo romantico) siano in sé positive e anzi costituiscano la base dell'urbanistica moderna tanto che, quando esse vanno perdute, la cultura urbanistica, isolata dal dibattito politico, si configura sempre più come pura tecnica al servizio del potere costituito. Io mi occuperò qui solo della prima parte di questa affermazione in quanto tutto questo libro non solo non considera ma nega l'assunto della seconda nei termini in cui è posto. Ora sostengo che la problematica delle grandi città precede il periodo industriale, questa problematica è legata alla città e quindi ha sempre formato oggetto dell'interesse di tutti coloro che si sono occupati della città. Bahrdt ha notato che la polemica contro la città industriale è sorta prima che questa nascesse; le uniche grandi città esistenti all'inizio della polemica romantica erano Londra e Parigi. Proprio la continuità dei problemi urbani all'interno di queste città smentisce la polemica romantica che attribuisce al sorgere dell'industria i mali, reali o presunti, dell'urbanesimo (10). Nei primi decenni dell'800, Duisburg, Essen, Dortmund erano piccole città con meno di 10000 abitanti.

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In grandi città industriali come Milano e Torino il problema dell'industria non esisteva. Lo stesso dicasi per Mosca e Leningrado. Ciò che a prima vista riesce misterioso è il vedere come gran parte degli storici dell'urbanistica abbiano potuto conciliare le tesi dei socialisti romantici con le denunce di Engels. Qual è la tesi di Engels? Semplicemente questa: che le grandi città hanno resa acuta la malattia dell'organismo sociale che nelle campagne si presentava in forma cronica, e con ciò stesso ne hanno messo in luce la vera essenza e il modo per guarirla (11). Engels non dice che le città prima della rivoluzione industriale fossero un paradiso, anzi nella denuncia delle condizioni di vita dei lavoratori britannici egli sottolinea come il sorgere della grande industria abbia peggiorato e fatto emergere delle condizioni di vita impossibili.Le conseguenze del sorgere della grande industria non sono quindi qualcosa che riguardi specificatamente le grandi città; si tratta di un fatto che riguarda la società borghese. La controprova di questo è la negazione che un contrasto di questo tipo possa essere risolto, in ogni modo, in termini spaziali. Questa è la critica sia ai progetti di Haussmann, sia al risanamento operato nelle città inglesi, sia ai progetti dei socialisti romantici. Questo significa anche che Engels nega che in qualche modo questo fenomeno riguardi l'urbanistica; anzi egli dichiara che il pensare che delle iniziative spaziali possano intervenire in questo processo è una pura astrazione, è praticamente un'operazione reazionaria. Io credo che tutto quanto si vuole aggiungere a queste posizioni sia falso.

Il problema delle abitazioni. Un'altra riprova di questa posizione è offerta dal discorso di Engels sul problema delle abitazioni. Qui la posizione non ammette equivoci. Il puntare sul problema delle abitazioni per risolvere in qualche modo il problema sociale è falso; il problema delle abitazioni è un problema tecnico che può essere risolto o no in base a una certa situazione ma non è caratteristico della classe operaia. In questo senso Engels conferma quanto si è sopra affermato, che la problematica delle grandi città precede il periodo industriale, quando afferma che: "Questa" penuria di abitazioni non è qualcosa di particolare dell'epoca presente, né è un male particolare del moderno proletariato che lo contraddistingua da tutte le classi oppresse che lo hanno preceduto; "al contrario", essa ha colpito tutte le classi oppresse di tutti i tempi in maniera piuttosto uniforme (12). E' ormai noto che il problema delle abitazioni nell'antica Roma, quando la città aveva acquistato le dimensioni di una grande metropoli con tutti i problemi ad essa inerenti, non era meno grave di quello delle città di oggi.

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Le condizioni dell'abitare erano certamente disperate e le descrizioni che ci restano degli scrittori classici mostrano come questo problema fosse preminente e fondamentale; come tale esso compare nella politica urbana da Cesare ad Augusto fino agli imperatori della decadenza. Problemi di questo tipo perdurano per tutto il medio evo; la visione che i romantici ci hanno lasciato della città medievale contraddice completamente la realtà. Dai documenti, dalle descrizioni, da quanto ancora oggi resta delle città gotiche è evidente che la condizione di vita delle classi oppresse in queste città era tra le più tristi della storia dell'umanità. In questo senso è esemplare la storia di Parigi e tutta la problematica relativa al modo di vivere urbano delle masse proletarie francesi nella metropoli; caratterizzazione che è d'altronde uno degli elementi decisivi della rivoluzione e che si protrae fino al piano dell'Haussmann. Anche in questo senso gli sventramenti dell'Haussmann, comunque li si voglia giudicare, rappresentano un progresso. Coloro che si commuovono per gli sventramenti della città ottocentesca dimenticano sempre che questi rappresentano comunque un'affermazione, sia pure demagogica e interessata, dello spirito illuminista. E che comunque le condizioni di vita all'interno dei quartieri gotici delle vecchie città rappresentavano qualcosa di obiettivamente impossibile e che comunque andava cambiato. Ma la tendenza moralistica implicita o esplicita nelle posizioni di studiosi come Bernoulli o Hegemann non ha impedito loro di giungere a una visione scientifica della città. A nessuno che si sia occupato seriamente di scienza urbana è sfuggito come i risultati più importanti siano provenuti da quegli studiosi in cui la ricerca è associata singolarmente a una città: Parigi, Londra, Berlino sono indissolubilmente legate, per lo studioso, ai nomi di Poète, Rasmussen (13), Hegemann. E' significativo come in queste opere così diverse sotto molti aspetti si profili il rapporto tra le leggi generali e l'elemento concreto della città in modo esemplare. E' appena il caso di ricordare che se la singola ricerca ha per ogni aspetto del pensiero scientifico delle aperture più larghe del suo oggetto specifico, nel caso della scienza urbana essa presenta degli indubbi vantaggi perché affronta comunque quell'elemento totale, così legato al concetto di opera d'arte, che è proprio della città e che rischia di divenire rigido e opaco o addirittura di perdersi in una trattazione generale. Ora uno dei pregi della piccola opera del Bernoulli è quello di non aver mai perso di vista questo rapporto con i fatti urbani; e di riferire sempre ogni asserzione a un fatto urbano preciso senza per questo diventare del tutto uno storico, come avviene nelle parti più convincenti del Mumford.

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Bernoulli vede la città come una massa costituita, così egli stesso la definisce, nella quale ogni elemento può avere la sua particolarità e la sua differenziazione all'interno di un piano di insieme. Il rapporto tra l'area e le costruzioni sta per superare il solo rapporto economico per porsi come una problematica più vasta; ma non si formula mai completamente. Il quartiere come complesso unitario richiama nella fitta polemica del teorico razionalista i precedenti storici dei grandi complessi edilizi unitari; ed è significativo che nel volgersi alla ricerca di un fondamento storico alla polemica urbana i razionalisti si volgano ai grandi teorici del Rinascimento e segnatamente a Leonardo; a quel piano di città costituito da un sistema di strade sotterranee e canali per il transito di carichi e per il servizio dei piani di cantina, con al disopra una rete di strade per la circolazione pedonale al livello del pianterreno delle case. Subito dopo viene, con una successione canonica che sarebbe bene studiare nel suo ordine classificatorio, il progetto dei fratelli Adam: il quartiere Adelphi a Londra. Il quartiere Adelphi a Londra, fra la City e Westminster, a sud dello Strand, dove i fratelli Adam si procurarono il diritto di fabbrica dal duca di St. Alban, proprietario di quel terreno. Il distretto era abbastanza grande per contenere un complesso edilizio nel quale potesse venire realizzato un sistema di strade sovrapposte, delle quali quelle inferiori collegate alla riva del Tamigi. In questi termini ci viene presentato il progetto dell'Adelphi. Ma solo in questi termini è esso importante? E solo nei termini di una proposta unitaria, di notevoli dimensioni, di forte impulso razionalizzatore era valutabile la proposta leonardesca? Bernoulli non poteva giungere a vedere tutto il progetto leonardesco come una delle più ambiziose affermazioni del Rinascimento; la costituzione della città come opera d'arte suprema al limite della natura, dell'ingegneria, della pittura, della politica. Il progetto leonardesco è ben oltre gli schemi di piante ideali; esso è già nella città, una città reale nei suoi rapporti immaginati come reali sono le piazze del Bellini e dei pittori veneti. Esso si aggiungeva a un'esperienza di città; dava forma concreta alla Milano di Lodovico il Moro così come forma concreta erano il grande ospedale che traduceva l'ordine del Filarete, come forma concreta erano i canali, le chiuse, le nuove strade. Nessuna città è tanto costruita nella sua totalità quanto quella del Rinascimento; ho già accennato come queste architetture erano segno e avvenimento e si ponevano su un ordine superiore allo svolgimento della loro funzione. Così appunto il grande ospedale milanese, non certo estraneo alle meditazioni leonardesche, e la cui presenza costitutiva nella città non ha modificato oggi il suo valore.

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Due secoli e mezzo più tardi ai fratelli Adam fu possibile costruire una parte della città, un fatto urbano definito; anche attraverso tutte le reali difficoltà dell'impresa. Ma un'opera di questo tipo è poi così eccezionale o non significa piuttosto che, forse questo sì in modo eccezionale, un grande elemento primario era originato dalla residenza?

La dimensione urbana. Nei paragrafi precedenti abbiamo indicato alcune deformazioni nello studio della città; l'importanza dello sviluppo dell'industria vista in modo generico e convenzionale rispetto alla reale dinamica dei fatti urbani, l'astrazione di alcuni problemi dal contesto della città, la confusione che alcuni atteggiamenti moralistici hanno portato nello studio, impedendo il formarsi di un "habitus" scientifico nella costituzione degli studi urbani. Benché molte di queste deformazioni e pregiudizi non siano usciti da un ambito alla fine limitato e non si siano costituiti chiaramente in forma sistematica - cosa che sembra difficile - essi sono fonti di molti equivoci e conviene considerarli in alcune loro parti. Io cercherò qui di esporre sinteticamente quelle opinioni le quali si costituiscono sommariamente per spiegare la genesi della città moderna; capita di trovare esposizioni di questo tipo come premessa a studi tecnici e settoriali (14). In primo luogo questa visione si impernia sulla problematicità del termine città oggi; questa problematicità, si sostiene, nasce essenzialmente dalla fine dell'omogeneità fisica e politica seguita al sorgere dell'industria. L'industria, fonte di ogni male e di ogni bene, diventa la vera protagonista della trasformazione della città. Il cambiamento viene distinto storicamente in tre fasi. Un primo tempo, e quindi l'origine della trasformazione della città, si può indicare nella distruzione della struttura fondamentale della città medievale che era basata sull'assoluta identità del luogo di lavoro e dell'abitazione all'interno dello stesso edificio. Inizia così la fine dell'economia domestica intesa come unità di produzione e di consumo. La distruzione di questa basica forma di vita della città medievale conduce a una catena di reazioni le cui ultime manifestazioni si misurerebbero appieno nella città del futuro. Nel contempo sorgono le case dei lavoratori, le case di massa, le case di affitto; sorgerebbe solo qui il problema dell'abitazione come problema urbano e sociale. Segno distintivo di questa fase, in termini spaziali, è l'ampliamento della superficie urbana mentre residenza e luogo di lavoro sono poco suddivisi nella città. Il secondo tempo, decisivo, inizierebbe con la progressiva industrializzazione provocando la separazione definitiva tra residenza e lavoro e distruggendo il rapporto di vicinato.

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La comparsa dei primi mezzi di lavoro collettivo permette di scegliere un'abitazione che non sia nell'immediata vicinanza del luogo di lavoro. Parallela a questa evoluzione si può considerare la separazione tra i luoghi di lavoro che producono merci e quelli che non producono merci. Produzione e amministrazione si separano; la divisione del lavoro nel suo senso più preciso è iniziata. E' da questa divisione dei luoghi di lavoro che si originerebbe la "city", creando precise interdipendenze tra gli uffici che hanno tra loro sempre maggiori necessità di contatto. L'amministrazione centrale di un complesso industriale, per esempio, ricerca la vicinanza delle banche, dell'amministrazione, delle assicurazioni più che quella del luogo di produzione. In un primo tempo questa concentrazione si produce nel centro della città dove le aree sono sufficienti. La terza fase del cambiamento della città si inizierebbe con lo sviluppo dei mezzi di trasporto individuali e con la piena efficienza di tutti i mezzi di trasporto destinati al lavoro. Questo sviluppo dovrebbe risultare non solo dall'aumentata efficienza tecnica ma anche dalla partecipazione economica delle amministrazioni pubbliche al servizio dei trasporti. La scelta dei luoghi di residenza diventa sempre più indipendente dai luoghi di lavoro. Nel contempo si sviluppano le attività di servizio che tendono a localizzarsi nel centro acquistando una importanza preminente. In contrapposizione è sempre più forte la ricerca di case d'abitazione fuori dalla città nella campagna limitrofa. Il lavoro e la sua localizzazione giocano nella scelta dell'abitazione un ruolo sempre più subordinato. Il cittadino va in qualsiasi parte del territorio dando luogo al "pendolare". Residenza e lavoro sono ora nel loro rapporto essenzialmente legati al tempo, sono funzione del tempo ("Zeitfunktion"). E' evidente come una esposizione di questo tipo contenga elementi veri e falsi continuamente mescolati; essa ha i suoi limiti più evidenti nella descrizione dei fatti dando luogo a una sorta di "naturalismo" della dinamica urbana dove le azioni degli uomini, la costituzione dei fatti urbani e le scelte politiche che la città compie, si assumono senza scelta. Finisce che alcune legittime, e tecnicamente importanti, proposte urbanistiche, basti pensare agli effettivi problemi del decongestionamento e del rapporto lavoro-residenza, diventano dei fini piuttosto che dei mezzi; quasi dei principi e delle leggi piuttosto che degli strumenti. Ma si tratta soprattutto di posizioni confuse nel loro assunto; che è quello di aver stabilito una troppo facile e schematica commistione di punti di vista, di affermazioni, di sistemi di lettura, di metodi diversi.

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Le tesi principali che sembra necessario contestare a questa visione della città sembrano principalmente quelle relative al problema dell'abitazione e a quello della dimensione. Del primo mi sono occupato sufficientemente, dato l'equilibrio di questo lavoro, e in particolare nei paragrafi precedenti attraverso la trattazione di uno scritto di Engels. Il secondo problema, quello della dimensione, richiederebbe una trattazione molto ampia; io intendo qui riferirmi solo ad alcuni degli aspetti principali di questa questione come essa può essere intesa alla luce degli argomenti sviluppati in questo studio. Una corretta trattazione del problema della dimensione dovrebbe iniziare dal problema del campo o dell'area di studio e di intervento. Di questo problema mi sono già occupato nei primi capitoli; e me ne sono occupato ancora parlando del "locus" e della qualità dei fatti urbani. Naturalmente questa ricerca del "campo" può essere applicata anche in altre direzioni; per esempio nel senso della dimensione operativa. Qui intendo riferirmi alla dimensione intesa come "nuova dimensione della città". E' logico che lo straordinario sviluppo della città negli ultimi anni, i problemi di inurbamento della popolazione, di concentrazione, di aumento della superficie urbana si siano posti con preminenza agli occhi degli urbanisti e di tutti gli studiosi di scienze sociali che si occupano della città. Questo sviluppo, la dimensione accresciuta, è rilevabile un poco dovunque, è un fenomeno comune alle grandi città; in alcuni casi essa ha una rilevanza straordinaria. Per definire la regione della costa nord-est degli Stati Uniti tra Boston e Washington da una parte e tra l'Atlantico e le Apalaches dall'altra, Jean Gottmann (15) ha usato il termine di Megalopolis, già coniato e illustrato dal Mumford (16). Ma se questo è il caso più clamoroso della accresciuta dimensione della città, non meno importanti sono i casi di espansione delle grandi città europee. Queste espansioni costituiscono dei fenomeni e come tali vanno studiate; le diverse ipotesi sulla città territorio hanno portato del materiale interessante che potrà essere utile per lo studio della città. In questo senso l'ipotesi della città regione può diventare veramente una ipotesi di lavoro; e sarà tanto più utile quanto maggiormente essa servirà a illuminare delle situazioni che precedenti ipotesi non ci hanno potuto spiegare completamente. Quello che vogliamo contestare è che la "nuova dimensione" possa mutare la sostanza di un fatto urbano. Si può immaginare che la dimensione modifichi in qualche maniera un fatto urbano ma non che ne cambi la qualità. Definizioni tecniche come quella di "nebulosa urbana" possono essere utili nel linguaggio tecnico ma non spiegano niente.

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D'altra parte l'inventore del termine precisa che egli l'ha usato per spiegare la complessità e la mancanza di chiarezza della sua struttura, ma che contesta in particolare la tesi di una scuola di ecologi americani per i quali la vecchia nozione di città, nucleo strutturato, definito nello spazio, distinto dal vicinato, è un concetto morto, e che vedono il nucleo dissolversi, formarsi un tessuto più o meno colloidale, la città rimanere assorbita dalla regione economica o addirittura nell'insieme della nazione (17). D'altro canto il geografo americano Ratcliff, da un punto di vista diverso dal nostro, ha egualmente contestato e condannato come popolare ma falsa la tesi secondo cui i problemi metropolitani siano problemi di dimensione (18). Ridurre i problemi metropolitani a problemi di dimensione significa ignorare completamente l'esistenza di una scienza della città; in altri termini significa ignorare addirittura la struttura reale della città e le sue condizioni di evoluzione. La lettura della città qui avanzata per elementi primari, fatti urbani costituiti, e aree di influenza permette di studiare la crescita della città senza che la dimensione mutata influenzi le leggi di sviluppo. Ma noi crediamo che lo sviluppo improprio dato dagli architetti alla nuova dimensione possa essere spiegato mediante altre suggestioni di carattere figurativo. Ricordiamo come Giuseppe Samonà all'inizio di questa polemica avvertiva dell'errore da parte degli architetti di una troppo facile identificazione dell'accresciuta dimensione urbana con il gigantismo dei progetti. E' assolutamente fuori questione a mio modo di vedere - egli dichiarava - ogni idea di parametri spaziali giganteschi. In verità ci troviamo, come in tutti i tempi, in una situazione che, dal punto di vista generale, presenta l'uomo e lo spazio in dimensioni equilibrate di rapporti analoghi a quelli antichi, solo che nei rapporti odierni tutte le misure spaziali sono maggiori di quanto non fossero quelle più statiche di cinquant'anni fa (19).

La politica come scelta. In questo capitolo ci siamo preoccupati di indicare alcune questioni fondamentalmente legate ai problemi economici della dinamica urbana o comunque da questi derivabili - che non sorgevano negli argomenti trattati nei capitoli precedenti. (O solo parzialmente a proposito della classificazione operata da Tricart). Per far questo ho esposto e commentato inizialmente due tesi; la prima di Maurice Halbwachs, il cui lavoro complessivo ha contribuito notevolmente ad aumentare le nostre conoscenze sulla città e sulla natura dei fatti urbani, e la seconda di Hans Bernoulli, teorico agile e intelligente di uno dei problemi più discussi della città moderna. Questi due autori prospettano da questi punti di vista, ancora alcuni elementi di discussione che hanno percorso questo studio e che richiedono di essere continuamente verificati.

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Bernoulli, sviluppando la sua tesi dei rapporti tra la proprietà del suolo e l'architettura della città, doveva giungere rapidamente a una concezione scientifica della città; non diversamente succedeva, partendo dalla progettazione, agli architetti teorici come Le Corbusier e Hilberseimer nello stesso clima del razionalismo. Nelle pagine precedenti abbiamo visto l'aspetto romantico di studiosi come Bernoulli e Hegemann; e come il loro moralismo, che tanto valore dà alla loro figura di polemisti e di innovatori, finisce per viziare il loro studio del reale; sono convinto che non si può eliminare così facilmente la componente moralistica nella valutazione degli studi dei teorici della città e che sarebbe un'operazione arbitraria. La posizione di Engels era senz'altro più facile; egli affrontava il problema per così dire "dal di fuori", cioè dal punto di vista politico ed economico, per dirci che da questo punto di vista il problema non esisteva. La conclusione potrà sembrare paradossale; ma è la sola considerazione chiarificante. Quando Mumford accusa Engels di sostenere che ci sono sufficienti abitazioni per andare avanti purché vengano "divise" , e di basare questa affermazione sulla presunzione non controllata che ciò che i ricchi posseggono è buono, deforma brutalmente il pensiero di Engels ma in sostanza riafferma la bontà della tesi di Engels (20). E non sorprende d'altro canto che la tesi di Engels non sia stata sviluppata negli studi sulla città; essa non poteva essere sviluppata in quei termini perché si poneva in puri termini politici. A questo punto si potrà obiettare che, dopo aver cercato di cogliere la complessità della questione urbana in tutti i suoi termini e quindi aver rimandato alla totalità stessa della struttura ogni singola spiegazione, qui si scinde ciò che pure costituisce il fatto primo della "polis", la politica, dalla sua costruzione. La domanda può essere cioè posta in questi termini; se l'architettura dei fatti urbani è la costruzione della città, come può essere assente da questa costruzione, ciò che ne costituisce il momento decisivo, la politica? Ma, sulla base di tutte le argomentazioni qui esposte, noi non solo affermiamo il legame politico ma anzi sosteniamo la preminenza di questo legame, e, appunto, il suo carattere decisivo. La politica infatti costituisce qui il problema delle scelte. Chi, in ultima istanza sceglie l'immagine di una città? La città stessa ma sempre e solo attraverso le sue istituzioni politiche. Si può affermare che questa scelta sia indifferente; ma sarebbe semplificare banalmente la questione. Essa non è indifferente; Atene, Roma, Parigi sono anche la forma della loro politica, i segni di una volontà. Certamente se noi consideriamo la città come manufatto, al pari degli archeologi, possiamo affermare che tutto ciò che si accumula è segno di

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progresso; ma ciò non toglie che esistono delle diverse valutazioni di questo progresso. E delle diverse valutazioni delle scelte politiche. Ma allora la politica, che sembrava estranea, quasi tenuta lontana da questo discorso sulla città, fa la sua comparsa in prima persona; essa si presenta nel modo che gli è proprio e nel momento costitutivo. Allora l'architettura urbana - che, sappiamo, è la creazione umana - è voluta come tale; l'esempio delle piazze italiane del Rinascimento non può essere ricondotto né alla loro funzione, né alla casualità. Esse sono un mezzo per la formazione della città, ma si può ripetere che ciò che sembra un mezzo è diventato uno scopo; e quelle piazze sono la città. Così la città ha per fine se stessa e non v'è più niente da spiegare oltre il fatto che la città è presente in queste opere. Ma questo modo di essere implica la volontà che ciò sia in quel modo e continui in quel modo. Ora avviene che questo modo è la bellezza dello schema urbano della città antica a cui ci accade di paragonare sempre la nostra città; certo funzioni, tempo, luogo, cultura modificano questo schema come modificano le forme della architettura; ma questa modificazione ha valore quando e solo quando essa è un atto, come avvenimento e come testimonianza, che rende la città evidente a se stessa. Si è visto come le epoche di nuovi avvenimenti si pongano questo problema; e solo una felice coincidenza dia luogo a fatti urbani autentici; quando la città realizza in se stessa una propria idea della città fermandola nella pietra. Ma questa realizzazione può essere valutata solo nei modi concreti con cui essa avviene; vi è un rapporto biunivoco tra l'elemento arbitrario e l'elemento tradizionale nell'architettura urbana. Come tra le leggi generali e l'elemento concreto. Se in ogni città vi sono personalità vive e definite, se ogni città possiede un'anima personale fatta di tradizioni antiche e di sentimenti vivi come di aspirazioni indecise, non per questo essa è indipendente dalle leggi generali della dinamica urbana. Dietro i casi particolari vi sono dei fatti generali e il risultato è che nessuna crescita urbana è spontanea, ma è per le tendenze naturali dei gruppi dispersi nelle diverse parti della città che si possono spiegare le modificazioni di struttura. Infine l'uomo non è solo l'uomo di quel paese e di quella città ma è l'uomo di un luogo preciso e delimitato e non vi è trasformazione urbana che non significhi anche trasformazione della vita dei suoi abitanti. Ma queste reazioni non possono essere semplicemente previste o facilmente derivate; finiremmo per attribuire all'ambiente fisico lo stesso determinismo che il funzionalismo ingenuo ha attribuito alla forma. Reazioni e rapporti sono difficilmente individuabili in modo analitico; essi sono compresi nella struttura dei fatti urbani.

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Questa difficoltà di individuazione ci può indurre a ricercare un elemento irrazionale nella crescita della città. Ma essa è tanto irrazionale quanto ogni opera d'arte; il suo mistero è forse e soprattutto nella volontà segreta e inarrestabile delle manifestazioni collettive. Così la complessa struttura della città sorge da un discorso i cui termini di riferimento possono sembrare scarsi. Forse è esattamente come le leggi che regolano la vita e il destino dei singoli uomini; vi è in ogni biografia motivo sufficiente di interesse sebbene ogni biografia sia compresa tra la nascita e la morte. E' certo che l'architettura della città, la cosa umana per eccellenza, è il segno concreto di questa biografia; oltre il significato e il sentimento con cui la riconosciamo. NOTE. Nota 1. MAURICE HALBWACHS, "La population et les tracés de voies à Paris depuis un siècle", Paris 1928. Per l'applicazione del metodo e dei risultati del nostro studio si veda anche la nostra ricerca: A.R., "Contributo..., cit. (cap. Il, nota 1). Nota 2. A.R., "Il concetto di tradizione nell'architettura neoclassica milanese", in Società, n. 3, giugno 1956. In questo studio già intravedevo, partendo dall'analisi del concreto storico della storia urbana milanese, la possibilità di una più vasta teoria urbana che tenesse conto dell'unità dello svolgimento dei fatti pur nei suoi molteplici aspetti. Così l'architettura del '700 diventava emblematica nel contrasto tra una concezione razionale e illuminata della città e l'interesse per le singole situazioni. Le linee principali della formazione del piano napoleonico sono le seguenti. Con decreto vicereale del 9 gennaio 1807, le municipalità di Milano e di Venezia erano dotate di una Commissione di Ornato con vasti poteri e larga sfera di azione. Precisamente era compito della Commissione rilevare un tipo generale delle strade interne della città per la sistemazione successiva delle medesime; fare, a richiesta della Municipalità, i progetti occorrenti per il miglioramento simmmetrico dei fabbricati fronteggianti le strade e per l'allargamento rettifilo delle medesime e per la esecuzione dei progetti medesimi concordarsi coi particolari..., invigilare per la sicurezza pubblica sulla possibilità dei fabbricati ecc.... La Commissione, nominata dal Governo, era composta dalle personalità più insigni che nel campo fossero allora a Milano e, tra questi, erano il Cagnola e il Canonica. Naturalmente il primo lavoro a cui si accinse la Commissione di Pubblico Ornato fu quello del Piano regolatore, il cui progetto si compì in quell'anno, ma essa tuttavia non trascurò un lavoro attento di guida, di disposizioni, di intervento diretto e continuo sullo sviluppo della città in quegli anni che vanno dal 1807 al 1814. Possiamo accennare al piano nelle sue grandi linee. Si prevedeva, dandola per realizzata, la costruzione di un nuovo grande centro, il Foro Bonaparte, progettato dall'Antolini davanti al Castello Sforzesco; da questo doveva partire la grande strada Napoleone (a un dipresso dove si trova l'attuale via Dante) che sboccava, circa, all'altezza del Cordusio, in una interessante piazza triangolare, e quindi proseguiva in linea retta avendo come sfondo l'Ospedale Maggiore e San Nazaro. Quasi parallela a questa, un'altra via, partendo circa dal fondo di via San Giovanni sul Muro, si dirigeva sul tempio di San Sebastiano del Tibaldi, isolato e descritto in una grande piazza rettangolare che, dilatandosi attorno alla sua pianta centrale, ne sottolineava il volume. Tra l'Arcivescovado e il Palazzo di Giustizia sfociava il corso della Riconoscenza (già corso di Porta Orientale e oggi di porta Venezia). La piazza del Duomo veniva allargata senza sconvolgere la primitiva rete romana.

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A conclusione dello studio scrivevo: Infine si considerino il rispetto per gli edifici artistici e le memorie storiche della città, i monumenti considerati quali sede e testimonianza della storia municipale, che sono posti a sfondo dei rettifili e al centro delle piazze, quasi elementi costitutivi di quel più vasto piano di costruzione e di ordinamento che la storia va formando nel tempo e in cui le città si vengono a rispecchiare (pag. 491). Sulla storia urbana di Milano esiste un vastissimo materiale analitico e utili valutazioni. Nota 3. ORIOL BOHIGAS, "Barcelona entre el Pla Cerdà i el barraquisme", Barcelona 1963. ILDEFONSO CERDA', "Teorìa general de la urbanización y aplicación de sus principios y doctrinas a la reforma y ensanche de Barcelona", Madrid 1867. Il Bohigas ha studiato e reso noto, forse per primo, il piano di Cerdà e il suo insegnamento; egli nota come l'opera, del 1867, preceda di ben 26 anni il libro dello Stbben, "Der Stdtebau", che è considerato il primo trattato d'urbanistica. Ritengo interessante riportare qui alcuni passi dell'opera del Cerdà, citati dallo studioso catalano, rimandando al saggio del Bohigas per una valutazione della sua opera e del piano di Barcelona. La urbe... no es más que una especie de estación o parador... Tendrà siempre una o más vías que partan... de la gran red viaria que cruza la superficie de nuestro globo. De estas vías que llamamos trascendentales parten otras que distribuyen el movimiento... por la generalidad de la urbe. De éstas, que son las vías propriamente urbanas, arrancan otras que van a comunicar con las viviendas particulares... Las circunscripciones formadas por las vías urbanas a consecuencia de sus recíprocas intersecciones han de ser mucho más pequens que las circunscritas por las trascendentales. Estas circunscripciones relativamente pequens, bien que mayores que las particularistas, son las que... se denominan barrios. Questi sono apartederos que el hombre se ha reservado para su estancia o permanencia siempre que desee separarse de gran movimiento que agita la humanidad. Il Bohigas rivela molto acutamente come, se pure molti temi del Cerdà siano comuni alla letteratura romantica, pure egli se ne distacchi completamente per l'importanza data alla classificazione urbana e all'analisi delle situazioni concrete. Nota 4. VINCENZO RIZZI, "I cosiddetti statuti murattiani per la città di Bari", Bari 1959. Nota 5. PIERRE LAVEDAN, "Les villes franaises", cit. (cap. Il, nota 14). La città di Richelieu è una creazione del grande cardinale, ministro di Luigi Tredicesimo, del 1635-1640. Verso il 1638, le mura della città, la chiesa e un certo numero di edifici sono iniziati. Nel 1641 l'insieme sembra terminato. Il piano è molto regolare, con un grande asse centrale, che divide la città in due parti simmetriche. L'asse, partendo da una porta, è circondato da case uniformi e sbocca in una piazza quadrata ad angoli chiusi, dove si trovano gli edifici principali. A Richelieu l'ordine è imposto non solo a una piazza, o a una strada ma a una città intera; è una magnifica unità monumentale che si è conservata fino ai giorni nostri. Scomparso è invece il castello che fin dall'inizio era estraneo alla città; nel disegno di questa non si tentò una composizione più vasta di cui il castello poteva essere un elemento di sviluppo. Con una evoluzione topografica molto più complessa è l'altra grande città residenziale francese: Versailles. Nota 6. HANS BERNOULLI, "Die Stadt und ihr Boden", Zrich 1946, ed. ital. Milano 1951. Nota 7. Ivi, pagg. 18-19.

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Nota 8. Ivi, pag. 67. Nota 9. WERNER HEGEMANN, "Das steinerne Berlin...", cit. (cap. Il, nota 8). Il volume dello Hegemann costituisce uno dei più importanti contributi della storia urbana di Berlino; un libro eccezionale dove l'impegno politico per un rinnovamento democratico delle istituzioni civili si fonde con una straordinaria conoscenza dello sviluppo della città. Per Hegemann Berlino, la più grande città di caserme d'affitto volute da un sinistro regolamento di polizia, è anche una città che ha in sé grandi possibilità di rinnovamento. Il seguente paragrafo (I falansteri voluti dalla polizia) è indicativo della forza e della precisione della sua opera. Berlino contava all'incirca 450000 abitanti quando il Presidente di Polizia di quell'epoca, in spregio alle richieste più che ventennali di sociologi ed economisti, varò il suo temerario Piano Regolatore che destinava - per l'avvenire sterminate superfici erbose dei dintorni di Berlino alla costruzione di giganteschi falansteri, strettamenti addossati, provvisti di mal illuminati cortili - da due fino a sei per ogni edificio - e la futura popolazione, calcolata a 4 milioni circa, a una forma di alloggiamento che solo un demonio avrebbe potuto concepire come un inferno per vivi! Le tavole illustrate mostrano anche al costruttore profano che cosa combinarono allora il Presidente di Polizia e i suoi Consiglieri Segretari e che cosa avrebbe potuto diventare Berlino se fosse andato un po' prima al potere quell'elettorato che guadagnò la maggioranza nel Parlamento prussiano dopo il crollo del 1918. Il quartiere di Schneberg irto di costruzioni intensive e quello più arioso di Britz così come i falansteri (Mietkasernen) di Tempelhof e la Città-giardino sono sorte su campi aperti esattamente della stessa natura. Soltanto un incorreggibile oppositore potrà affermare che le brutte, intensive e malsane costruzioni del periodo anteguerra che deturpano quasi tutta Berlino, siano state necessarie e di pubblica utilità. Nei precedenti articoli è stato dimostrato come l'arbitrio dei re e dei principi prussiani abbia spesso influito dannosamente sull'urbanistica berlinese. Eppure spesso questo arbitrio era accompagnato da una buona volontà e anche le sue goffaggini furono più sopportabili dell'anarchia costruttiva provocata dal governo prussiano nel secolo diciannovesimo. Nella lotta tra Stato e città il benessere pubblico venne affidato solo al caso o del tutto sacrificato al vantaggio del momento. Ma come si arrivò a una simile anarchia? Il governo da più di 100 anni si era sempre sottratto al dovere - che gli competeva - dell'allargamento della città. Improvvisamente dovette accollarsi i costi di costruzione delle nuove strade che alla fine bisognava pure costruire ed esso si oppose col pretesto che l'ordinamento comunale del 1808 aveva separate le finanze cittadine da quelle statali. Tuttavia il governo non volle decidersi a cedere alla capitale anche i diritti e i doveri governativi necessari per l'autonomia urbanistica. In un paese dove l'assolutismo ha soppresso del tutto o fortemente indebolita l'autonomia dei cittadini e perfino la possibilità - per i più ricchi cittadini - di costruirsi una casa decorosa, il benessere pubblico deve essere protetto con armi particolarmente efficaci contro gli abusi degli speculatori edilizi. Queste armi, nel caso particolare, erano rappresentate dall'ordinamento edilizio e dal Piano Regolatore. Ma - per una triste fatalità che pesa su Berlino - il governo prussiano riuscì a rendere inefficaci queste due armi. Perché? Per timore reazionario contro la autonomia amministrativa, per l'abitudine ereditaria di immischiarsi in ogni faccenda pubblica o privata, in breve per incapacità politica. Così il governo si riservò la compilazione dell'ordinamento edilizio. La stesura e la lavorazione dettagliata dei piani regolatori fu demandata - stizzosamente - alle città prussiane, dopo però di aver approvato e indicato come modello (molto spesso imitato) l'incredibile Piano Regolatore di Berlino non certo a vantaggio delle comunità ma per far piacere ai proprietari di terreni.Così l'ordinamento edilizio e il piano regolatore che possiamo definire come due facce della stessa arma (fucile e cartucce!) vennero affidate a due autorità diverse, la cui incompatibilità e sfiducia

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reciproca ebbero conseguenze molto peggiori che non - per esempio - la corruzione impiegatizia che ha danneggiato molte città americane. Avvantaggiati risultarono invece soltanto gli speculatori del suolo che avrebbero dovuto essere tenuti a bada con queste armi: rendendole inefficaci il governo prussiano finì con allettarli ad arricchirsi senza scrupoli e indisturbati, anzi con l'appoggio delle autorità, a spese della comunità. Gli svantaggi erano riservati solo alla cittadinanza indifesa, alla grande massa degli abitanti che l'errata azione governativa costringeva a un acquartieramento casermesco quale il mondo non aveva mai prima conosciuto. La urbanistica e l'edilizia berlinese ricadevano ancora - fino al 1853 - sotto l'ordinamento del 1641, integrato da norme aggiuntive del 1763. Il nuovo ordinamento edilizio-poliziesco del 1853 badò quasi esclusivamente alla massima sicurezza contro gli incendi. Questa protezione contro il fuoco (definita come piromania da Ernst Bruch, il miglior critico di tale Piano) era così esagerata e sottoponeva i costruttori a delle precauzioni così costose che praticamente la costruzione di case più economiche e più razionali fu resa impossibile. In compenso però sul fronte di strade larghe più di 15 metri si poteva innalzare edifici di qualunque altezza e anche su strade meno larghe erano ammesse altezze fino a 1 e 1/4 dell'ampiezza della strada. Ma queste norme - già di per se stesse insufficienti valevano solo per la facciata! Sui grandi terreni retrostanti il governo permise la costruzione dei famosi cortili berlinesi: per essi bastava la profondità e la larghezza di 5,3 metri, mentre le facciate posteriori che li circondavano potevano arrivare fino a 22 metri o essere esattamente così alte come le facciate verso le strade. Per lo meno la metà delle finestre di queste case si affacciavano sui piccoli cortili. Non esisteva limitazioni della superficie fabbricabile da utilizzare: perciò il rapporto tra la larghezza della strada e l'altezza della casa era soltanto una specie di bravata esteriore. Per quel che riguardava il retro delle case il governo prussiano avrebbe fatto anche a meno dell'aereazione e dei lucernari infatti non faceva alcuna obiezione per i vani privi di finestre - se però non avesse avuto paura degli incendi: perciò i cortili richiesti avevano esattamente la larghezza minima sufficiente per manovrare la pompa anti-incendio.Questo assurdo Piano Regolatore potè continuare a funzionare senza notevoli cambiamenti fino al 1887: esso venne perfino imitato rispettosamente da molte altre città tedesche!... Quando il governo, dopo più di 30 anni dal suo funzionamento tentò di migliorarlo un po', i proprietari di terreni lottarono come leoni per difendere i diritti acquisiti e continuare, anche per il futuro, a sfruttare il suolo contro l'interesse della comunità e a mantenere i prezzi al più alto livello possibile, come era stato loro permesso, anzi raccomandato dallo Stato prussiano. Uno dei problemi più importanti era rimasto però insoluto nell'ordinamento del 1853: chi doveva assumersi le spese per il suolo necessario ai lavori stradali particolarmente urgenti in ogni posto? Secondo il codice regionale ogni limitazione della proprietà deve essere basata su una legge. Nel 1855 il Ministro per il Commercio il quale, in Prussia, era competente anche per i Lavori Pubblici cercò di accollare ai Comuni l'obbligo di indennizzo del terreno stradale. Nota 10. HANS PAUL BAHRDT, "Die moderne Grosstadt. Soziologische berlegungen zum Stdtebau", Hamburg 1961, pagg. 12-34: Kritik der Grosstadtkritik. Nota 11. FRIEDRICH ENGELS, "Zur Wohnungsfrage", Leipzip 1887, ed. ital. Roma 1950; FRIEDRICH ENGELS, "Die Lage der arbeitenden Klasse in England", Leipzig 1845, ed. ital. Roma 1955. Nota 12. FRIEDRICH ENGELS, "Zur Wohnungsfrage", cit. nota precedente. Il parere complessivo di Engels sulla questione è poi espresso chiaramente quando egli dichiara: Nemmeno c'è bisogno che io mi difenda dall'altra accusa: che le infami condizioni di alloggio in cui vivono attualmente gli operai siano per me "piccolezze insignificanti". Per quanto sappia, sono stato il primo in Germania a descrivere questa situazione nella sua forma di evoluzione classica, qual è quella d'Inghilterra...

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Ma di risolvere la cosiddetta questione delle abitazioni non mi passa neanche per la testa: altrettanto come non mi occupo dei dettagli della soluzione della questione alimentare, che è ancora più importante. Mi ritengo soddisfatto se riesco a dimostrare che la produzione della nostra società di oggi è sufficiente a fornire di che mangiare a tutti i membri della società, e che ci sono abbastanza case da fornire per il momento ricovero spazioso e sano a tutte le masse lavoratrici. Speculare su fatti come il modo in cui la società futura regolerà la distribuzione dei viveri e delle abitazioni porta difilato all'utopia (pag. 136 ed. ital.). Nota 13. STEN EILER RASMUSSEN, "London: The Unique City", London 1937. Nota 14. Per esempio in: "Stdte verndern ihr Gesicht, Stadtplanungs und Vermessungsamt Hannover", Stuttgart 1962. Con una bibliografia interessante per questo tipo di impostazione dei problemi; bibliografia in gran parte di natura socio-economica. Si ricordi d'altronde che il riferimento alla prima rivoluzione industriale come il momento del salto qualitativo urbano accompagna (e paralizza) tutta la storiografia del movimento moderno. Nota 15. JEAN GOTTMAN, "Megalopolis. The Urbanized Northeastern Seabord of the United States", New York 1961. Nota 16. LEWIS MUMFORD, op. cit. (cap. I, nota 1). Nota 17. JEAN GOTTMAN, "De la ville d'aujourd'hui à la ville de demain; la transition vers la villè nouvelle", in Prospective n. 11, giugno 1964. Si veda anche l'introduzione di Pierre Massé. Nota 18. RICHARD RATCLIFF, op. cit. (cap. I, nota 12). Nota 19. GIUSEPPE SAMONA', in AA.VV., "La città territorio, un esperimento didattico sul centro direzionale di Centocelle in Roma", Bari 1964, pag. 91. Nota 20. LEWIS MUMFORD, op. cit. (cap. I, nota 1), pag. 521 ed. ital.