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Anno: 1948 Origine: Italia Colore: Bianco E Nero Genere: Drammatico Regia: Luchino Visconti Tratto dal romanzo: "I Malavoglia" Di Giovanni Verga

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Anno: 1948 Origine: Italia Colore: Bianco E NeroGenere: DrammaticoRegia: Luchino ViscontiTratto dal romanzo: "I Malavoglia" Di Giovanni Verga

Page 2: Anno: 1948 Origine: Italia Colore: Bianco E Nero Genere: Drammatico Regia: Luchino Visconti Tratto dal romanzo: "I Malavoglia" Di Giovanni Verga

Il neorealismo

Il neorealismo è, senza dubbio, il movimento del cinema italiano che ha

conquistato maggiori consensi e maggiore fama in tutto il mondo. Ancor oggi, a

più di quarant'anni di distanza da una stagione che fu di breve durata, il

cinema italiano viene spesso identificato con il neorealismo. Il successo

internazionale avuto alcuni anni fa da Nuovo cinema Paradiso (1989) di

Giuseppe Tornatore, film cui è toccato anche l'Oscar, si può in parte spiegare,

come scrisse Alberto Moravia, con il fatto che viene rievocata, in quel film,

un'immagine dell'Italia, provinciale e "stracciona", che per una larga parte del

pubblico internazionale coincide con l'immagine divulgata dal neorealismo.

Possiamo isolare tre aspetti principali: quello morale, quello politico e quello

estetico, precisando però che essi risultano strettamente intrecciati nei film. Fu

anzitutto la reazione morale agli orrori e alle infamie della guerra che spinse i

cineasti a ritrovare i valori essenziali dell'esistenza e della convivenza sociale.

Bisognava dare una risposta sul piano politico alla serie di tragici errori

commessi dal fascismo. Di qui la necessità di un linguaggio nuovo, che

riuscisse a esprimere in modo diretto una presa di coscienza e una volontà di

mutamento. Esiguo è, dopotutto, il numero di opere che questi caratteri

appaiono in modo netto e perentorio. E tuttavia poche opere sono state

sufficienti a definire una nuova estetica, capace di rinnovare non solo il cinema

italiano, ma anche di costituire un punto di riferimento per altre

cinematografie, in varie parti del mondo

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 Un'estetica della realtà

A partire dalla presentazione, nel 1946, alla prima edizione del Festival di

Cannes di Roma città aperta, il nuovo cinema italiano conobbe un

successo internazionale senza precedenti. Quella che fu subito chiamata

la "scuola italiana" divenne un punto di riferimento obbligatorio per

definire i nuovi sviluppi dell'estetica del film, come in passato lo erano

stati l'espressionismo tedesco o la "scuola sovietica" negli anni venti.

L'impiego di attori non professionisti (gli attori "presi dalla strada"); il

realismo dell'ambientazione ottenuto abbandonando gli studi di posa a

favore delle riprese in esterni e girando nei luoghi stessi in cui si svolge

l'azione; l'adozione di uno stile di tipo documentaristico; la narrazione di

vicende ispirate alla vita quotidiana, ai fatti di cronaca: sono questi i

principi estetici introdotti dal neorealismo. Il miglior testo per comprendere lo spirito con cui venne accolta, fuori

d'Italia, la nuova corrente cinematografica rimane ancor oggi l'articolo di

André Bazin Le réalisme cinématographique et l'école italienne de la

Libération apparso nel 1948 nella rivista "Esprit". In questo saggio, Bazin

si sofferma a analizzare soprattutto la tecnica narrativa, cercando di

definire il rapporto tra cinepresa (tipo di inquadratura e di raccordi tra

inquadrature, movimenti di macchina) e fatti narrati, ambiente, oggetti.

Secondo il critico francese, il racconto, che nasce da una necessità

biologica ancor prima che drammatica, "germoglia e cresce con la

verosimiglianza e la libertà della vita".

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Le radici del neorealismo

Il neorealismo non è tutto il cinema italiano del secondo dopoguerra.

Ne è la componente culturalmente più prestigiosa e più nota, ma

certo minoritaria in termini di incassi. Se la rinascita morale e la

vitalità estetica del cinema italiano sono legate alle opere neorealiste,

la sua sopravvivenza economica e la sua continuità produttiva sono

invece legate a film di carattere decisamente tradizionale.

Il cinema italiano sopravvive e conosce un florido sviluppo grazie alle

fortune della produzione di genere e di consumo, con la quale del

resto lo stesso neorealismo ha rapporti di scambio, se non altro per il

fatto che ne rinnova l'iconografia, come accade per generi come il

comico e il melodramma sentimentale.

Aspetti della realtà quotidiana avevano travato espressione nelle

commedie di Mario Camerini (Gli uomini che mascalzoni..., 1932,

Grandi magazzini, 1939) e nei film "rurali" di Alessandro Blasetti, Sole,

1929, Terra madre (1931), o in Quattro passi tra le nuvole (1942). Il

richiamo a una realtà quotidiana, ai tratti "regionali" e "paesani" della

vita nazionale (contapposti al cosmopolitismo cinematografico e

letterario) era emerso con vigore nel dibattito culturale in epoca

fascista, per esempio negli scritti di Leo Longanesi e in molti interventi

apparsi sulla rivista Cinema diretta dal figlio del duce, Vittorio

Mussolini.

Il ballo di Federico

Patellani

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La difesa di un cinema nazionale, popolare e realista che venne fatta

sulle pagine di Cinema negli anni immediatamente precedenti la

caduta del fascismo era assai più che compatibile con il regime, tanto

più che coincideva con l'esaltazione di film indubbiamente

propagandistici, come Sole (1929) o Vecchia guardia (1934) di Blasetti

o La nave bianca (1941) e L'uomo della croce (1943) di Rossellini.

Ossessione (1943), film d'esordio di Luchino Visconti, considerato da

molti l'opera che anticipò, ancor prima della caduta del fascismo e

della fine della guerra, temi e stile del neorealismo, è sicuramente

importante per il fatto che ci mostra angoli inediti della provincia

italiana (i dintorni di Ferrara), che gli esterni sono stati ripresi nei

luoghi stessi dell'azione, che rompe con gli schemi compositivi del

cinema italiano precedente. Ma l'elemento di maggior novità consiste nell'assunzione cosciente di modelli di

riferimento inediti nel panorama del cinema italiano: innanzi tutto, la narrativa

statunitense: il film è tratto da Il postino suona sempre due volte, 1934, di James Cain; il

cinema francese, e in particolare l'opera di Jean Renoir, un autore che aveva fornito

originali interpretazioni cinematografiche del naturalismo letterario dell'Ottocento e che,

soprattutto con Toni (1934) aveva dato un rilievo del tutto nuovo e di grande efficacia

all'ambientazione, al paesaggio, alle condizioni di vita di una comunità di provincia.

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Le radici culturali del Verismo.

Il Verismo nasce in Italia nella seconda metà dell’800 come conseguenza

degli influssi del Positivismo che suscitò negli intellettuali fiducia nel

progresso scientifico. L’influenza del Positivismo si manifestò in vari settori,

fra i quali la letteratura. Esso è un movimento filosofico che nasce in

Francia attorno alla metà dell’800 e si diffonde grazie al francese A.Comte

e all’inglese Darwin.

Luigi Capuana Verismo-Naturalismo

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Fra i principali motivi che contribuirono all’affermazione di questo

movimento vi fu prima di tutto la crescente attenzione verso lo

sviluppo del sapere scientifico, che sembra fornire gli strumenti più

adeguati all’osservazione e alla spiegazione dei fenomeni naturali e

dei comportamenti umani. Il secondo elemento determinante fu

l’emergere della questione sociale in genere e in particolare, il

diffondersi dell’interesse per le condizioni di vita del Meridione, un

argomento che costituiva la materia privilegiata per quell’analisi

oggettiva della realtà che i nuovi orientamenti della cultura

consideravano un’esigenza primaria. Un ulteriore motivo di

diffusione fu la volontà di favorire la crescita del livello culturale dei

ceti popolari.

La dottrina del Verismo fu elaborata nel centro culturale più vivace di

quel periodo, l’ambiente milanese. Colui che ne enunciò per primo i

canoni teorici fu Luigi Capuana e il suo romanzo "Giacinta", può

essere considerato un vero e proprio manifesto programmatico della

nuova poetica. Sulle sue teorie esercitarono il loro influsso i modelli

del realismo inglese, ma soprattutto i romanzi del naturalista

francese Emile Zola. Le idee del Capuana sul romanzo, ebbero una

palese influenza su tutto il gruppo della Scapigliatura lombarda e in

particolare su Giovanni Verga, che fu spinto verso il definitivo

abbandono della maniera tardo romantica.

Giovanni Verga e Luigi

Capuana

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Il Verismo che si diffonde in Italia, deriva direttamente dal

Naturalismo, ma è fedele alla indicazioni provenienti dalla

Francia più nella teoria che nell’applicazione concreta. Verismo e

Naturalismo condividono una narrativa realistica, impersonale e

scientifica, che non lascia trapelare nessun intervento né giudizio

da parte del narratore, mentre differiscono per quanto riguarda i

contesti dove sono ambientate le vicende.

Il Naturalismo si focalizzava di norma su ambienti metropolitani e

classi (dal proletariato all’alta borghesia) legate alle grandi città

e al loro sviluppo; il Verismo invece, privilegiava le descrizioni di

ambienti regionali e municipali e di gente della campagna. La

piccola provincia e la campagna, con la miseria e l’arretratezza,

gli stenti e le ingiustizie sociali divennero i luoghi e i temi

prediletti de esso e contribuirono in modo decisivo a svelare

aspetti profondi o addirittura sconosciuti della realtà sociale.

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In principio, Visconti aveva intenzione di fare non uno, ma tre

film; anzi, diceva, tre documentari: uno sui pescatori, uno sui

contadini e uno sui minatori. Tutti e tre in Sicilia, sulla Sicilia.

Tutti e tre, aspetti diversi della stessa lotta di esclusi contro le

avversità degli uomini e delle cose. L'intenzione di portare a

termine gli episodi della trilogia sul mare, sulla terra e sulla

miniera di zolfo effettivamente c'era in Visconti; ma quello che

io credo sicuramente prima di tutto desiderasse era fare un

film da I Malavoglia di Verga.

E siccome il tema di quel romanzo coincideva con quello che sarebbe stato l'episodio del mare

nella trilogia, parte comunque, nel 1947, per girare un documentario sui pescatori, ad

Acitrezza, paese di 'Ntoni e dei vinti di Giovanni Verga. I soldi erano pochi, pochissimi. Quindi

la composizione della troupe era quella per un documentario. Non c'erano scenografo,

costumista, arredatore, script, aiuti ed assistenti dei vari reparti. Non c'erano segretarie e

segretari. Visconti, ispirandosi all’opera di Verga, aveva inizialmente pensato di girare una

trilogia di film sulla condizione dei lavoratori siciliani nel dopoguerra. Dopo questo primo film

sulla vita dei pescatori ne sarebbe dovuto seguire un secondo quella sui braccianti agricoli e il

terzo sulla vita dei minatori. I tre film erano stati ideati originariamente come documentari per

aiutare la campagna propagandistica del Partito comunista italiano in vista delle elezioni

politiche del 18 aprile 1948.

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A questo scopo il Partito comunista aveva stanziato la

somma di 30 milioni di lire che si dimostrò assolutamente

insufficiente non permettendo quindi non solo di terminare

la trilogia me neppure di finanziare il film. Infatti Visconti

dovette vendere dei gioielli di famiglia e trovare un altro

produttore (Salvo D'Angelo della casa di produzione

"Universalia Film"). Il nuovo finanziamento richiedeva il

cambio di progetto trasferendo i “I Malavoglia” come film

di fiction e non più come documentario ispirato al libro. Se

però il testo di Verga è un ritratto corale di una famiglia

che si abbandona alla rassegnazione, il film fa intravedere

la possibilità di riscattarsi attraverso una lotta contro i

soprusi sociali. Il film, girato nel 1947 in bianco e nero,

secondo i canoni del neorealismo venne interpretato

esclusivamente da attori non professionisti, tutti pescatori

o abitanti di Aci Trezza, che parlavano, in presa fonica

diretta, il dialetto locale. Presentato alla Mostra Cinematografica di Venezia del 1948 ebbe molti consensi da parte dei

critici ma non conquistò il "Leone d'Oro", assegnato ad "Amleto" di Laurence Olivier. La stessa

uscita in sala, per la incomprensibilità del dialetto ma anche a causa dell’eccessiva lunghezza

(quasi tre ore) non ebbe successo. Per questo lo stesso regista ne fece una versione breve di

105 minuti e con un dialetto meno stretto ottenuto doppiando gli interpreti.

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La critica

Il film rappresenta uno dei documenti più significativi del neorealismo e come tale è stato

valutato dalla critica. Eccone un assaggio:

• “La terra trema è una grande opera del realismo costruita come un

romanzo e priva del sentimentalismo di altre opere di quel periodo".

(G. Sadoul)

• “Dal diretto legame cinema-esseri umani l’opera trae una delle ragioni della sua potenza

drammatica, della sua plausibilità... ‘Ntoni è un’altra delle figure destinate ad entrare nella

ideale e ristretta galleria dei grandi personaggi del nostro cinema”. (P. Bianchi)

• “Ai dati neorealistici fa riscontro la raffinata bellezza dell’immagine, l’attenzione agli effetti

plastici e tonali della composizione che contrastano a volte con la crudezza degli eventi”. (A.

Canziani)

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• “Il dialetto non è affidato alla libera invenzione dei parlanti: segue

piuttosto un rigoroso tracciato di traduzione della lingua verghiana. E’

un dialetto letterario…”. (G. P. Brunetta)

• “La terra trema rappresenta il grande tentativo limite di una determinata concezione

cinematografica. Ha splendore e profondità di suggestioni. Forse costituisce con Ladri di

biciclette e Paisà, la maggior prova del cinema italiano, per la maestà figurativa, il respiro

epico dello spirito che la anima”. (Vito Pandolfi)

• “Opera di fascino indiscutibile, ma anche esemplare dell'interno

dissidio viscontiano tra raffinato decadentismo e marxismo

programmatico, tensione romanzesca e aristocratica contemplazione.

Un frutto del decadentismo è l'uso del dialetto nell'edizione originale,

il vernacolo di Aci Trezza, parlato dagli interpreti, veri pescatori locali,

in presa diretta e poi sostituito da un dialetto più comprensibile. Sin

da allora Luchino Visconti sfugge al populismo e punta al romanzo,

ma guarda ai personaggi con un distacco che non si lascia

commuovere e non commuove”. (M. Morandini)

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La Terra Trema fu un'avventura. Ma non pericolosa nè catastrofica. Una felice ed esaltante,

anche se dura, esperienza di lavoro per chi ebbe

la fortuna di parteciparvi, un'opera fondamentale

per la storia del cinema

Gli attori furono tutti scelti tra i pescatori e la gente di Acitrezza. Ma Visconti non si

accontentava dell'autenticità dell'uomo della strada. Da quella gente semplice e ignara

delle regole del mestiere dello spettacolo, esigeva la disciplina e il dominio del mezzo che

solo un attore professionista avrebbe potuto avere. Il film veniva girato in presa diretta e la

recitazione era considerata non una transizione per una fase successiva, la

sincronizzazione, ma il momento definitivo, immodificabile. Pretendeva, e ci riusciva,

riprodurre, mitizzati già dall'atto creativo, alcuni momenti del comportamento reale di

quelle persone che, quasi naturalmente, finirono poco a poco per identificarsi nei

personaggi della sua finzione. I dialoghi li scriveva con l'aiuto degli stessi attori che gli

comunicavano la maniera più vera di come avrebbero espresso nella vita quei sentimenti

che egli andava loro proponendo per lo sviluppo della sua storia. Naturalmente un metodo

simile presuppone poca preoccupazione del tempo: la lavorazione del film richiese sei mesi

di riprese...

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La troupe, come quasi sempre una troupe di cinema,

era un mondo eccezionale. Visconti poteva chiedere

l'impossibile, lo otteneva. Un giorno gli venne voglia di

riprendere la scena con un movimento di grù. In

qualche ora di lavoro, con l'aiuto dei carpentieri

costruttori di barche, fu pronta una grù di legno, una

stupenda macchina leonardesca...Oggi tutto ciò appare

più che normale. Ad Acitrezza, trenta anni fa, con a

disposizione i mezzi per un documentario, aveva del

miracoloso. Quando tutto era pronto, si girava il rientro delle barche dalla pesca notturna: un concentrato di

movimenti dal mare, rintocchi di campana da terra, voci dalle barche annuncianti l'esito della

pesca e voci di risposta dal molo, dei grossisti e dei rivenditori. Una magia che durava qualche

minuto. Poi, tutto da capo. Poi, il sole si faceva più forte, la luce non era più quella giusta e allora si

passava a un'altra sequenza; tra l'una e l'altra c'era un momento di pausa: il caffè e un panino

nell'osteria delle ragazze Giammona, le attrici del film, che recitavano, ci servivano a tavola e

tornavano a recitare. E siamo arrivati alla fine, all'uscita del film al Festival di Venezia.

Indimenticabile serata.

Per G. Sadoul, il maggiore dei critici francesi del tempo, La terra trema è: una grande opera del

realismo costruita come un romanzo e priva del sentimentalismo di altre opere di quel periodo".

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La terra trema, quindi, vuole riprodurre la realtà, non ricrearla.

Visconti struttura e gira la pellicola con un senso della profondità e

del movimento molto accentuato, la fotografia è strettamente

collegata all'umore del film, l'andirivieni ed il rapido scorrere delle

scene iniziali cede progressivamente il passo al colore nero, quasi

claustrofobico, in corrispondenza della sconfitta della famiglia. Gli

attori siciliani, non professionisti, improvvisano il dialogo su di una

canovaccio fornito da Visconti e parlano esclusivamente nel loro

dialetto anche se, così facendo, il film diventa praticamente

incomprensibile al pubblico italiano della penisola. La musica

sorregge la struttura del film e, anche se viene usata con economia, il

suono delle voci è vitale per l'impatto del film, così come il fragore del

mare, o il flauto di zio Nunzio che suona l'aria “ Ah, non credea

mirarti” da La Sonnambula del catanese Vincenzo Bellini, durante la

salatura delle acciughe.

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Didatticamente, il film si presenta ricco di elementi storici e permette un

utilizzo stimolante di diverse sue componenti:

- la povertà degli interni, con pochi mobili essenziali, scrupolosamente

rigovernati quotidianamente, che racchiudono i beni di un intero gruppo

familiare

- l'aspetto macilento delle persone, provate da un lavoro che non concede

soste e che non dà ricchezza- gli abiti rattoppati e lisi- il cibo, quanto mai

limitato e poco nutriente

- il lavoro, visto in tutte le sue fasi, dal rientro dalla pesca alla cucitura delle

reti, dalla rigovernatura della barca alla salatura delle acciughe

- la coralità di ogni avvenimento, anche privato

- i sentimenti costantemente condizionati dal denaro

- la figura della donna solo come madre e nume tutelare della casa

- la famiglia stretta come in un pugno da un vincolo arcaico di solidarietà

fraterna

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Un giovane pescatore di Aci Trezza, ‘Ntoni Velastro, lavora ogni giorno per

alcuni grossisti che gestiscono con prepotenza l’attività della manodopera.

Vessato dalle loro ingiustizie, ‘Ntoni insorge insieme ad altri pescatori, con i

quali viene arrestato dopo aver provocato dei disordini. Ma sono gli stessi

grossisti, costretti dalla mancanza di personale con cui sostituire i rivoltosi,

ad occuparsi del loro immediato rilascio. Tuttavia ‘Ntoni, che non è disposto

a fare passi indietro, convince la famiglia ad ipotecare la casa per mettersi

in proprio. Aiutati da una propizia pesca di acciughe, i Velastro vedono

spalancarsi le porte di un radioso futuro, fino al giorno in cui perdono la

barca durante una tempesta. Da quel momento, il loro destino viene travolto da un’inarrestabile catena di disgrazie, cui si

accompagna la perdita della casa per il mancato pagamento dell’ipoteca. La famiglia, lasciata

a se stessa, si avvia ad un repentino declino: ‘Ntoni, abbandonato dalla sua ragazza, cerca

sollievo nelle osterie; il nonno muore; il fratello diventa contrabbandiere; delle due sorelle, la

maggiore vede finire il proprio matrimonio e la minore viene compromessa dalle fastidiose

attenzioni di un maresciallo della finanza. Rassegnato ed incapace di trovare una via d’uscita,

il giovane pescatore è costretto a tornare dai grossisti, accettando di lavorare alle loro inique

condizioni. Tuttavia, egli ha la consapevolezza che quel gesto di ribellione è destinato a

sopravvivere sempre, nella sua coscienza ed in quella dei compagni.

La trama

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Luchino Visconti

Nacque a Milano nel 1906 e morì a Roma nel 1976. Di origini

aristocratiche, s’appassiona al cinema negli anni ‘30: durante un

soggiorno parigino, conosce Jean Renoir e ne diviene assistente.

Prestò servizio militare come sottufficiale di cavalleria a Pinerolo e

visse gli anni della sua gioventù agiata occupandosi dei cavalli di

una scuderia di sua proprietà.

Inoltre, frequentò attivamente il mondo della lirica e del melodramma, che lo influenzerà

moltissimo; l'intera famiglia infatti aveva un palco alla Scala (il padre era uno dei massimi

finanziatori del teatro) e il salotto della madre era frequentato, tra gli altri, da Arturo

Toscanini.

Esordisce nella regia con "Ossessione" (1942), che trasferisce su sfondi nostrani il romanzo di

James M. Cain "Il postino suona sempre due volte": restituendo alla fisicità due attori di

regime come Clara Calamai e Massimo Girotti, collocati in ambienti inusitati, espressione

d’un nuovo modo d’intendere il cinema. Arrestato nel ‘43 per la sua attività partigiana, torna

dietro la macchina da presa solo con "La terra trema" (1948), libero adattamento de "I

Malavoglia" di Verga: interpretato da attori non professionisti ed interamente recitato in

dialetto siciliano, il film è una saga familiare di potente plasticità, dove il gusto per il

melodramma si sposa ad un aristocraticismo non populista, seppur figlio d’influenze

evidentemente marxiste.

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La terra trema è uno dei quattro film interamente parlati in

dialetto e sottotitolati in italiano: gli altri sono

L'albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi (nel caso

specifico il dialetto è quello bergamasco) l'intellettualistico

Giro di lune tra terra e mare (1997) di Giuseppe Gaudino,

recitato in dialetto campano della zona flegrea con

citazioni latine, e infine LaCapaGira (2001) di

Alessandro Piva, parlato in dialetto barese. Ed è

gramsciana nel senso più autentico del termine la visione

del popolo che filtra dall’immenso "Bellissima"(1951), che

analizzava con una certa spietatezza il dietro le quinte del

rutilante mondo cinematografico con una delle attrici

simbolo del neorealismo italiano, Anna Magnani, qui

insieme a un'efficace Walter Chiari e con la partecipazione

del celebre regista Alessandro Blasetti, qui nel ruolo di se

stesso, come esaminatore dei provini, celebrazione in

articulo mortis del neorealismo e suo geniale

superamento: figlio d’influenze disparate (Zavattini e

"Cinema nuovo", la Magnani ed Hollywood), esso resta

opera primaria del cinema italiano, presagio d’un

mutamento antropologico di cui s’avvertivano solo sparuti

segnali, che troverà la sua espressione nel boom ed in

Pasolini il suo nostalgico, straziato cantore.

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In evidente stato di grazia, Visconti firma poi con "Senso" (1954) -

rilettura del Risorgimento scevra d’ipocrisie mistificatorie ed omaggio

insuperato al mondo verdiano - un capo d’opera indiscusso, nel quale

la perfezione della messa in scena (basti la sequenza iniziale nel

teatro od il veloce, febbrile scioglimento conclusivo) si coniuga ad una

esemplare direzione degli attori. Il periodo più fertile della creatività

del Nostro si chiude con "Rocco e i suoi fratelli" (1960), compendio e

summa dell’arte sua espressa nelle forme d’un melò a forti tinte, ove

si narra del disfacimento d’una famiglia di origine contadina nel

contatto con la città. Memore di Mann e Dostoevskij, il regista

milanese colloca i suoi tragici personaggi fra Mito e Storia, dando così

loro carattere di acronotopicità e regalandoci immagini

indimenticabili. Di qui in avanti, l’indiscutibile magistero del cineasta

milanese si piegherà ad operazioni più o meno di maniera: non per

questo mancheranno esiti splendidi ("Il Gattopardo", 1963, ove

nostalgia del passato e consapevolezza ideologica s’intrecciano in un

racconto impeccabile sotto l’aspetto figurativo) o comunque

d’inconsueto respiro, ma il versante estetizzante e borghese - che gli

varrà la pungente qualifica di "duca arredatore" - finirà per prevalere.

Fuori dal fuoco contingente della polemica politica, egli tornerà ad

essere regista più che autore: illustratore di gran rango per un

pubblico colto ed esigente, purtroppo sempre più lontano dal flusso

della Storia.

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Luchino Visconti muore nella primavera del 1976, colto da

una forma grave di trombosi poco dopo aver visionato

insieme ai suoi più stretti collaboratori il film nella prima

forma del montaggio, della quale rimase insoddisfatto. Il

film fu restituito al pubblico in quella veste, a parte alcune

poche modifiche apportate dalla co - sceneggiatrice Suso

Cecchi D'Amico sulla base di indicazioni del regista durante

una discussione di lavoro. Poco dopo lo seguirà anche

Rina Morelli, attrice che stimava moltissimo e con la quale

aveva condiviso le grandi stagioni teatrali di prosa del

dopoguerra immediato.