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Testi di Filosofia Moderna e Contemporanea Magritte, Golconda Liceo Scientifico "G. Brotzu" - Quartu Sant'Elena Corso F insegnante: Gianfranco Marini

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Antologia di testi di autori della storia della filosofia moderna e contemporanea: Hegel, Comte, Spencer, Darwin, Schopenhauer, Marx, Nietzsche. Per gli studenti del quinto anno del liceo.

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Page 1: Antologia filosofia quinta

Testi di Filosofia Moderna e Contemporanea

Magritte, Golconda

Liceo Scientifico "G. Brotzu" - Quartu Sant'Elena

Corso F insegnante: Gianfranco Marini

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Indice Hegel La struttura della realtà 3

II lavoro e la coscienza servile 4 Differenza di filosofia e religione 5 Comte La legge dei tre stadi 6 Spencer

Che cosa intendo per filosofia 8 Integrazione e disintegrazione 8 L’evoluzione come processo d’integrazione 9 Darwin

Darwin: La selezione naturale 10 Nietzsche

La morte di Dio 12 Zarathustra: Prefazione di Zarathustra 13 Delle tre metamorfosi 16 Dei dispregiatori del corpo 18 L'Eterno Ritorno, La Gaia scienza, aforisma 141 19 L'eterno ritorno, da Zarathustra 19 Morale dei signori e degli schiavi 22

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Georg Wilhelm Friedrich Hegel Hegel: La struttura della realtà

Il presupposto idealistico secondo il quale la realtà è il risultato dell'azione dell'Idea implica che le leggi che regolano il pensiero siano le stesse che regolano il funzionamento della realtà. Pertanto «l'elemento logico», ossia la struttura che caratterizza il procedere della ragione, coincide con la struttura del reale, che è soggetto all'andamento triadico della dialettica. Nel brano seguente Hegel distingue i tre momenti della dialettica: il momento intellettivo o astratto, il momento dialettico e il momento speculativo.

L'elemento logico quanto alla sua forma ha tre lati: a) lato astratto o intellettivo; b) il lato dialettico o negativamente razionale; c) lato speculativo o positivamente razionale.

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Questi tre lati non costituiscono tre pani della logica, ma sono momenti di ogni elemento logico-reale, cioè di ogni concetto e di ogni vero in generale. Questi tre lati possono venir posti tutti insieme nel primo momento, quello intellettivo, e quindi tenuti separati l'uno dall'altro, ma allora non vengono considerati nella loro verità. [...]

a) II pensiero come intelletto si ferma alla determinatezza fissa e alla sua diversità da altre determinatezze. Una tale astrazione limitata vale

per l'intelletto come sussistente ed essente per sé. Quando si parla del pensare in generale, o, più precisamente, del concepire, spesso si ha l'abi-tudine di tener presente soltanto l'attività dell'intelletto. Ora, è certamente vero che il pensiero dapprima è pensiero intellettivo, ma il pensiero non si ferma a questo, e il concetto non è una semplice determinazione dell'intelletto. L'attività dell'intelletto consiste in generale nel conferire al suo contenuto la forma dell'universalità e, precisamente, l'universale posto dall'intelletto è un universale astratto che, come tale, viene tenuto saldamente contrapposto al particolare, ma, in tal modo, viene al tempo stesso anche determinato a sua volta come particolare. [...] b) Il momento dialettico è il superarsi proprio di tali determinazioni finite e il loro passare nelle determinazioni loro opposte. [...] La dialettica viene usualmente considerata come un'arte estrinseca che arbitrariamente porta

confusione in concetti determinati e produce una semplice apparenza di contraddizioni in essi, in modo che non queste determinazioni, ma quest'apparenza sarebbe un nulla e l'intellettivo invece sarebbe il vero. [...] - Nella sua determinatezza peculiare la dialettica è piuttosto la natura propria, vera, delle determinazioni dell'intelletto, delle cose e del finito in generale. La riflessione è dapprima l'oltrepassare la determinazione isolata e il metterla in relazione; così questa de-terminatezza viene messa in rapporto e, per il resto, viene conservata nella sua validità isolata. La dialettica invece è questo immanente oltrepassare, in cui l'unilateralità e la limitatezza delle determinazioni dell'intelletto si espone per quello che è, cioè come la loro negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l'anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così come in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito. [...] c) L'elemento speculativo o positivamente razionale coglie l'unità delle determinazioni nella loro contrapposizione, l'elemento affermativo che è contenuto nella loro risoluzione e nel loro passare in altro. La dialettica ha un risultato positivo, perché ha un contenuto determinato, o perché il suo risultato veramente non è il nulla vuoto, astratto, ma la negazione di certe determinazioni che sono contenute nel risultato proprio perché questo non è un nulla immediato, ma un risultato. Quest'elemento razionale perciò, per quanto sia un elemento pensato, anche astratto, è al tempo stesso un concreto, perché non è unità semplice, formale, ma unità di determinazioni distinte. La filosofia quindi non ha per nulla a che fare con semplici astrazioni o con nozioni formali, ma soltanto con nozioni concrete. G.W.Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, paragrafi 79-82; trad. it. Di V. Verra, Torino, Utet, 1981, pp. 246-254

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Hegel: II lavoro e la coscienza servile

La figura del servo e padrone è un momento centrale nel faticoso cammino dello spirito, presentato nella Fenomenologia, dalla semplice certezza sensibile alla coscienza di essere il Tutto. Nel confronto tra padrone e servo, a partire da un'iniziale condizione di supremazia del primo sul secondo, acquista dialetticamente importanza il lavoro del servo, con tutta la sua portata formativa e civilizzante.

I momenti si presentano [dunque] come due figure opposte della coscienza: l'una è la coscienza autonoma che ha per essenza l'essere-per-sé, l'altra è la coscienza non-autonoma la cui essenza è la vita, l'essere per un altro. Uno è il signore, l'altro è il servo. [...] II signore si rapporta mediatamente alla cosa attraverso il servo. Anche il servo, infatti, in quanto autocoscienza in generale, si rapporta negativamente alla cosa e la rimuove; per lui, però, la cosa è a un tempo autonoma, ed egli pertanto, pur negandola, non può annientarla del tutto: il servo può solo elaborare la cosa, trasformarla col proprio lavoro. In virtù di questa mediazione del servo, per converso, il rapporto immediato diviene per il signore la negazione pura della cosa, diviene cioè il godimento; e ciò che non era riuscito al desiderio - annientare la cosa e appagarsi nel goderne -, riesce adesso al godimento del signore. Il fallimento del desiderio era dovuto all'autonomia della cosa; adesso, invece, inserendo il servo tra la cosa e se stesso, il signore si fonde insieme solo con la non-autonomia della cosa e quindi ne gode allo stato puro. Il lato dell'autonomia della cosa egli lo lascia al lavoro del servo. [...] Per la servitù, inizialmente, l'essenza è il signore. Ai suoi occhi, dunque, la verità e la coscienza autonoma essente per sé, ma tale verità, per la servitù, non è ancora nella servitù stessa. In effetti, invece, la servitù ha in se stessa la verità della pura negatività e dell'essere per sé, in quanto ha fatto in sé esperienza di questa essenza. In altre parole, tale coscienza non ha tremato per questa o per quella circostanza, né in questo o in quell'istante: essa ha provato angoscia dinanzi alla totalità della propria essenza perché ha avuto paura della morte, cioè del signore assoluto. In questa angoscia, la coscienza è stata intimamente dissolta, ha tremato fin nel suo più remoto recesso, e tutto quanto c'era in essa di fisso è stato scosso. [...] Anche se la paura dinanzi al signore costituisce l'inizio della saggezza, la coscienza è qui per essa stessa, ma non è ancora l'essere per sé. In realtà, la coscienza giunge a se stessa mediante il lavoro.

Nel momento corrispondente al desiderio nella coscienza del signore, sembrava che alla co-scienza servile spettasse il lato del rapporto inessenziale verso la cosa, poiché in tale rapporto la coscienza mantiene la propria autonomia. Il desiderio si è riservato la pura negazione dell'oggetto, e quindi l'integrità del sentimento di sé. Tuttavia, mancandogli il lato aggettivo, cioè la sussistenza, questo appagamento è anch'esso soltanto un dileguare. Il lavoro, invece, è desiderio tenuto a freno, è dileguare trattenuto, e ciò significa: il lavoro forma, coltiva. Il rapporto negativo verso l'oggetto diviene adesso forma dell'oggetto stesso, e diviene qualcosa di permanente, proprio perché l'oggetto ha autonomia agli occhi di chi lo elabora. Questo termine medio negativo, cioè l'attività formatrice, costituisce nello stesso tempo la singolarità, il puro essere per sé della coscienza: con il lavoro, la coscienza esce fuori di sé per passare nell'elemento della permanenza. [...] Agli occhi della coscienza, la forma posta nell'esteriorità non diviene affatto un altro da essa; questa forma, infatti, è appunto il puro essere per sé in cui la coscienza vede divenire la propria verità. Nel lavoro, dunque, in cui essa sembrava essere solo un senso estraneo, la coscienza ritrova sé mediante se stessa e diviene senso proprio.

G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Autocoscienza, IV, Signoria e servitù, trad. it. di V. Cicero, Milano, Rusconi, 1995, pp. 283-91

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Hegel: Differenza di filosofia e religione

La religione e la filosofia hanno lo stesso contenuto, ossia lo spirito assoluto, ma lo presentano in forme diverse: l'una attraverso la rappresentazione, che unisce in sé elementi sensibili ed elementi concettuali; l'altra nella purezza del concetto.

Su ciò si fonda la differenza tra filosofia e religione. La filosofia è l'attività che converte nella forma del concetto quello che è nella forma della rappresentazione. Il contenuto è lo stesso, deve essere lo stesso ossia è la verità [...]. La rappresentazione ha sempre figurazioni più o meno sensibili; essa si trova tra la sensazione immediata, sensibile, e il pensiero propriamente detto. Il contenuto è di specie sensibile, ma vi si è già introdotto il pensiero che però non ha ancora permeato di sé il contenuto e non lo ha ancora sopraffatto. La rappresentazione non è il prendere il sensibile come singolo e immediato, ma essa ha già compreso il sensibile singolo nella sua universalità, nella sua interiorità spirituale. Tuttavia essa è conscia di questa interiorità e universalità che è ancora nella forma della singolarità e del sensibile. Perciò il rappresentato ha in sé ancora spazialità e temporalità; non è ancora capace di liberarsi dal naturale; perché esso stesso è il naturale preso nella sua universalità e questa stessa universalità è ancora nella forma della sua naturalità. Vi è già il pensiero ma altrettanto vi è ancora il sensibile nel pensiero, così che ne vien fuori una mescolanza spuria. La rappresentazione si serve perciò facilmente di espressioni figurate, analogie o modi indeterminati; una simile rappresentazione è, per esempio, la generazione del Figlio nell'eternità. Qui ancora si trova il pensiero generale della negatività assoluta nella forma del sensibile; ci sono rappresentazioni che sono prese dalle connessioni della vita naturale; un altro che è posto da un primo e superato come altro ed è uno con esso, si mostra qui come unità naturale che produce da sé un altro naturale e che in questa produzione produce sé stesso; così è della relazione tra Padre e Figlio.

(G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, a cura di E. Oberti e G. Borruso, Bologna, Zanichelli, 1973, I, pp. 323-25)

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Auguste Comte Comte: La legge dei tre stadi

In questo brano Comte formula la legge dei te stadi, in forma sintetica, per la prima volta. Nelle ultime righe del brano si affaccia un'altra importante considerazione.

Per esprimere convenientemente la vera natura e il carattere proprio della filosofia positiva, è indispensabile dare uno sguardo generale sul cammino progressivo dello spirito umano, colto nel suo insieme; una concezione qualsiasi non può in effetti essere ben valutata che attraverso l'esame della sua storia. Così analizzando lo svolgimento dell'intelligenza umana nelle sue di-verse sfere d'attività, dal suo primitivo moto ai nostri giorni, credo d'aver scoperto una grande legge fondamentale, alla quale l'intelligenza è soggetta in virtù di un'invariabile necessità, e che mi sembra poter essere solidamente stabilita sia attraverso prove razionali, fornite dalla conoscenza della nostra organizzazione e sia attraverso attente verifiche statiche risultanti dall'esame del

passato. Questa legge consiste nel fatto che ogni nostra fondamentale concezione, e che ogni settore delle nostre conoscenze, passano successivamente attraverso tre diversi stadi teorici: lo stadio teologico o fittizio; lo stadio metafisico o astratto; e lo stadio scientifico o positivo. In altri termini, lo spirito umano, per sua natura, usa successivamente, in ogni fase delle proprie ricerche, tre metodi di filosofare, il cui carattere è essenzialmente diverso e persino radicalmente opposto: dapprima il metodo teologico, poi il metafisico, infine quello positivo. Da qui, tre tipi differenti di filosofia, o di sistemi generali di concezioni sull'insieme dei fenomeni, che si escludono reci-procamente: il primo è il punto necessario di partenza dell'intelligenza umana; il terzo, il suo stato definitivo e stabile; il secondo ha unicamente il compito di servire di transito. Nello stadio teologico, lo spirito umano, mirando essenzialmente, mediante le ricerche, allo scoprimento dell'intima natura degli esseri, delle cause prime e ultime dei fenomeni che lo colpiscono, in una parola alle conoscenze assolute, si rappresenta i fenomeni come prodotti dall'azione diretta e continua di agenti soprannaturali, più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega le apparenti anomalie dell'universo. Nello stadio metafìsico, che nella sua sostanza è una modificazione del primo, gli agenti so-prannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere entità (= astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri del mondo, e concepite come capaci di produrre tutti i fenomeni che cadono sotto la nostra osservazione, la cui spiegazione consiste allora nell'assegnare a ciascuno l'entità cor-rispondente. Infine, nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l'impossibilità di avere delle nozioni assolute, rinuncia ad indagare sull'origine e sul destino dell'universo, e a conoscere le intime cause dei fenomeni, per tentare di scoprire unicamente, mediante l'uso ben combinato della ragione e dell'esperienza, le loro leggi effettive, ossia le loro relazioni invariabili di somiglianza e di successione. La spiegazione dei fatti, ridotta allora in termini reali, altro non è che il legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e qualche fatto generale, il cui numero tende via via a diminuire in seguito al progresso della scienza. Il sistema teologico ha toccato la più alta perfezione, di cui era suscettibile, quando ha sostituito l'azione provvidenziale di un unico essere al gioco delle numerose divinità indipendenti, che erano state immaginate in principio. Allo stesso modo l'ultima fase del sistema metafisico consiste nel concepire, al posto delle differenti entità particolari, una sola grande entità generale, la «natura» considerata come l'unico fondamento di tutti i fenomeni. Analogamente, la perfezione del sistema positivo, verso il quale la filosofia tende costantemente pur senza pretesa di mai raggiungerlo, consiste nella possibilità di rappresentare tutti i fenomeni osservati come casi particolari di un solo fatto generale, come ad esempio la gravitazione generale. [...] Dopo aver così stabilito la legge generale dello sviluppo dello spirito umano, così come lo concepisco, ci sarà facile a questo punto determinare la natura specifica della filosofia positiva, che è l'oggetto

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essenziale di questo discorso. Da quello che si è detto risulta chiaro che il carattere fondamentale della filosofia positiva consiste nel considerare tutti i fenomeni come sottoposti a leggi naturali invariabili, la cui

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scoperta precisa e la cui riduzione al minor numero possibile costituiscono lo scopo dei nostri sforzi, considerando come assolutamente inaccessibile e priva di senso, secondo noi, la ricerca delle cosiddette «cause», sia prime che finali. (A. Comte, Corso di filosofia positiva, I, i; trad. it. di A. Lunardon, Brescia, La Scuola, 1981*, pp. 9-13)

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Herbert Spencer

Spencer: Che cosa intendo per filosofia Se opponiamo l’una all’altra le suddivisioni della filosofia, o le sue strutture piú particolari, o le

contrapponiamo all’insieme, giungiamo alla stessa conclusione. La filosofia morale e quella politica si affiancano alla filosofia generale per la vasta comprensione delle loro argomentazioni e delle loro conclusioni. Benché con il nome di filosofia morale noi alludiamo alle azioni umane considerate come buone o cattive, in ciò non comprendiamo le speciali norme di condotta da osservare a tavola, negli affari o con i bambini, e benché la filosofia politica abbia come fine il comportamento degli uomini nelle pubbliche relazioni, essa non si occupa dei modi di votare o dei particolari amministrativi. Ognuno di questi rami della filosofia si occupa soltanto dei casi particolari come esempi indicativi di verità di vasta applicazione.

Ognuno di questi concetti implica perciò la convinzione che possa esistere un modo di conoscere le cose piú dettagliatamente che non mediante le semplici esperienze, immagazzinate meccanicamente nella memoria o condensate nelle enciclopedie. Quantunque nell’estensione del campo occupato dalla filosofia siano state date e si diano interpretazioni assai diverse, tuttavia troviamo un reale, anche se non esplicito accordo, nell’attribuire tale termine ad una conoscenza che oltrepassi quella comune. Eliminati i principi discordanti, ciò che permane come elemento comune in tali concezioni della filosofia, è identificabile nella conoscenza del piú alto grado di universalità. [...] In che modo dunque si costituisce la filosofia? Facendo un passo avanti rispetto al processo indicato. Fino al momento in cui tali verità vengono apprese singolarmente e ritenute indipendenti, anche la piú generale di esse non può, senza incorrere in una forzatura del termine, interpretarsi come filosofica. Ma quando, riducendola a semplice assioma meccanico, a principio di fisica molecolare, a legge di azione sociale, esse finiscono con il venir considerate corollari di una verità ultima, ci avviciniamo al tipo di conoscenze che costituiscono propriamente la filosofia. Le verità della filosofia possiedono quindi con le piú alte verità scientifiche la medesima relazione che ognuna di queste ha con le piú piccole verità della scienza. Come ogni vasta generalizzazione della scienza comprende e consolida le minori generalizzazioni del proprio settore, cosí le generalizzazioni della filosofia includono e rafforzano le vaste generalizzazioni della scienza. Di conseguenza la filosofia è una conoscenza di tipo diametralmente opposto rispetto alle conoscenze ricavate soltanto con l’esperienza. Essa si pone come il prodotto finale di quel processo che inizia con un semplice collegamento di osservazioni rozze, prosegue con l’elaborazione di proposizioni sempre piú ampie e distinte dai fatti singoli, e si conclude con proposizioni universali. Per dare una definizione in modo piú semplice e chiaro, diremo: la conoscenza d’infimo grado è non unificata; la scienza è una conoscenza parzialmente unificata; la filosofia è una conoscenza completamente unificata R. Bortot e V. Milanesi, Il concetto di filosofia nel pensiero contemporaneo, G. D’Anna, Messina-Firenze, 1984, pagg. 142-145

Spencer: integrazione e disintegrazione Sia negli esseri inorganici sia in quelli organici si verificano i due processi fondamentali della integrazione e della disintegrazione. In continua lotta tra di loro essi producono l’evoluzione e la dissoluzione.

Ogni massa, da un granello di sabbia a un pianeta, irradia calore verso altre masse, e assorbe il calore irradiato da altre masse; e in quanto compie il primo processo essa s’integra, mentre in quanto compie il secondo si disintegra. Negli oggetti inorganici questo doppio processo opera ordinariamente effetti non apprezzabili. [...]

Negli aggregati viventi, o specialmente negli animali, questi processi in conflitto tra loro si compiono con grande attività sotto parecchie forme. Non c’è semplicemente ciò che possiamo chiamare la integrazione passiva della materia, che risulta nelle masse inanimate da semplici attrazioni molecolari;

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ma c’è una integrazione attiva della materia sotto la forma di nutrimento. Oltre a quella disintegrazione superficiale passiva che gli oggetti inanimati subiscono per opera degli agenti esterni, gli animali producono in sé stessi una disintegrazione interna attiva, assorbendo tali agenti. Mentre, al pari degli aggregati inorganici, essi irradiano e ricevono passivamente moto, assorbono pure attivamente il moto latente contenuto negli alimenti, e attivamente lo spendono. Ma nonostante questa complicazione dei due processi e l’immenso vigore del loro conflitto, rimane vero che c’è sempre un progresso differenziale verso l’integrazione o verso la disintegrazione. Durante la prima parte del ciclo dei cambiamenti, predomina la integrazione – à luogo ciò che noi chiamiamo sviluppo. La parte media del ciclo è per solito caratterizzata non dall’equilibrio tra i processi d’integrazione e di disintegrazione, ma dall’alterno preponderare di essi. E il ciclo si chiude con un periodo in cui la disintegrazione, cominciando a predominare, alla fine pone termine all’integrazione, e dopo la morte disfa ciò che l’integrazione aveva originariamente fatto. In nessun momento l’assimilazione e il consumo si equilibrano in modo che non abbia luogo alcun incremento o diminuzione della massa. [...]

I processi che cosí sono ovunque in lotta, e ovunque acquistano ora un predominio temporaneo, ora un predominio durevole l’uno sull’altro, noi li chiamiamo Evoluzione e Dissoluzione. L’Evoluzione sotto il suo aspetto piú generale è la integrazione di materia e la concomitante dissipazione di moto; mentre la Dissoluzione è l’assorbimento di moto e la concomitante disintegrazione di materia. H. Spencer, I primi principii, Bocca, Milano, Roma, Firenze, 1901, pagg. 218-219

Spencer: l’evoluzione come processo d’integrazione In questa pagina Spencer tratta dei caratteri specifici dell’evoluzione e spiega come questo fenomeno si manifesti nel mondo organico e inorganico. Esso si esprime come processo d’integrazione, verificabile sia a livello generale sia a livello particolare.

L’Evoluzione, dunque, sotto il suo aspetto primario, è un cambiamento da una forma meno coerente a una forma piú coerente che risulta dalla dissipazione del moto e dalla integrazione della materia. Tale è il processo universale attraverso il quale passano le esistenze sensibili, individualmente e come un tutto, durante il periodo ascendente della loro storia. I fatti provano che questo è un carattere manifestato in quei primi cambiamenti che si suppone abbia subíto l’Universo visibile, e in quegli ultimi cambiamenti che possiamo rintracciare nella società e nei prodotti della vita sociale. E, da per tutto, l’unificazione procede in vari modi simultaneamente.

Durante l’evoluzione del sistema solare, di un pianeta, di un organismo, di una nazione, c’è del pari una progressiva aggregazione. Ciò può essere dimostrato dalla crescente densità della materia già contenuta nella massa; o dalla concentrazione in essa di materia che era prima separata; o da ambedue i processi. Ma in ogni caso l’aggregazione implica una perdita di moto relativo. Al tempo stesso, le parti in cui è divisa la massa separatamente si consolidano in simil guisa. Lo vediamo nella formazione dei pianeti e dei satelliti, che è andata operandosi contemporaneamente alla progressiva concentrazione della nebula che diede origine al sistema solare; lo vediamo nello sviluppo di organi separati che progredisce di pari passo con lo sviluppo di ciascun organismo; lo vediamo nel sorgere di speciali centri industriali e di speciali masse di popolazione, che à luogo unitamente al progresso di ciascuna società. L’integrazione locale accompagna sempre piú o meno l’integrazione generale. E poi, oltre che diventa piú stretta la giustapposizione tra i componenti del tutto, e tra i componenti delle parti, avviene anche un aumento di combinazione, che produce la loro mutua dipendenza. Questa mutua dipendenza, per quanto sia vagamente accennata tra le esistenze inorganiche, sia celesti, sia terrestri, diventa distinta negli esseri organici e superorganici. Dalle forme viventi inferiori alle superiori, il grado di sviluppo è indicato dal grado in cui le varie parti costituiscono una unione cooperativa – sono integrate cioè in un gruppo di organi che vivono gli uni per gli altri e gli uni per mezzo degli altri. Cospicuo è lo stesso contrasto tra società non sviluppate e società sviluppate; c’è una sempre crescente coordinazione di parti. E la medesima cosa è vera dei prodotti sociali, come per esempio della Scienza: la quale è divenuta altamente integrata non solo nel senso che ciascuna divisione è formata di proposizioni dipendenti, ma nel senso che le diverse divisioni non possono procedere nelle loro rispettive indagini senza ajutarsi reciprocamente. H. Spencer, I primi principii, Bocca, Milano-Roma-Firenze, 1901, pag. 252

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Charles Darwin Darwin: La selezione naturale Durante un viaggio alle Galàpagos, paragonando fossili di mammiferi relativamente recenti con quelli attualmente viventi nella pampas, Darwin coglie la logica della trasformazione delle specie; solo in seguito amplia questa teoria e l'evoluzionismo diventa la base per chiarire tutti i meccanismi di adattamento degli esseri viventi all'ambiente. Dopo la pubblicazione dell'Origine delle specie, nel 1959, durante il quarantennio dal 1860 al 1900 vengono superate gradualmente le resistenze culturali, al darwinismo. Il dibattito scientifico e ideologico sull'impostazione darwiniana continua ancor oggi. Nel brano seguente Darwin illustra la selezione naturale dimostrando che variazioni delle condizioni di vita in un ambiente producono trasformazioni nelle specie che vi abitano, in quanto, in base al meccanismo della selezione naturale, avranno più probabilità di sopravvivere e di riprodursi quegli individui nei quali si siano casualmente verificate delle mutazioni favorevoli all'ambiente. In conclusione Darwin paragona la selezione naturale con quella artificiale risultato dell'azione dell'uomo nell'allevamento delle specie domestiche.

Comprenderemo meglio il probabile andamento della selezione naturale prendendo il caso di una regione che subisca qualche lieve cambiamento fisico, per esempio, di clima. Le proporzioni numeriche dei suoi abitanti si altereranno quasi immediatamente, e alcune specie potranno estinguersi. Da quanto abbiamo osservato circa gli intrinseci e complessi legami esistenti tra gli abitanti di ogni regione, possiamo concludere che qualsiasi alterazione nelle loro proporzioni numeriche, indipendentemente dalle modificazioni del clima, influirebbe seriamente sugli altri. Nel caso in cui questa regione avesse confini aperti, di certo nuove

forme vi immigrerebbero, il che turberebbe gravemente i rapporti di alcuni degli antichi abitanti. Si ricordi la potente influenza che esercita la semplice introduzione di un nuovo albero o mammifero. Se invece si trattasse di un'isola o di un paese parzialmente circondato da barriere che non possano essere facilmente superate da forme nuove e più adatte, nell'economia della località si farebbero dei vuoti che potrebbero benissimo essere occupati se alcuni degli abitanti originari fossero in qualche modo modificati, poiché, se la zona fosse aperta alla immigrazione, questi vuoti sarebbero occupati da intrusi. In tali casi tenderebbero a conservarsi quelle lievi modificazioni che sono in qualche modo favorevoli agli individui di una qualsiasi specie, adattandoli meglio alle mutate condizioni, e la selezione naturale avrebbe libero campo per la sua opera di perfezionamento.

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"Come già abbiamo dimostrato nel primo capitolo, abbiamo buone ragioni di credere che i cambiamenti delle condizioni di vita accrescono la tendenza alla variabilità, e nei casi succitati infatti le condizioni sono mutate, fatto questo che è senz'altro favorevole alla selezione naturale, in quanto offre una miglior possibilità al verificarsi di variazioni vantaggiose. In mancanza di ciò la selezione naturale non può far nulla. Non si deve mai dimenticare che col termine «variazione» vengono semplicemente indicate le differenze individuali. Come l'uomo può ottenere grandi risultati con i suoi animali domestici e le piante che coltiva, accumulando le differenze individuali in una data direzione, altrettanto può fare la selezione naturale con assai maggiore facilità, giacché dispone di un periodo di tempo incomparabilmente più lungo. Non credo neanche che siano necessari grandi cambiamenti fisici, di clima per esempio, o un insolito grado di isolamento, che ostacoli l'immigrazione, perché siano lasciati liberi nuovi posti, che la selezione naturale potrà colmare migliorando qualcuno degli abitanti che siano in via di variazione. Infatti, siccome in ogni regione tutti gli abitanti sono in lotta fra di loro con forze piuttosto ben equilibrate, modificazioni assai lievi nella struttura o nelle abitudini di una specie possono spesso dare a questa un vantaggio sulle altre; e altre modificazioni dello stesso tipo potrebbero accrescere ulteriormente il vantaggio, finché la specie rimanesse nelle stesse condizioni di vita e disponesse degli stessi mezzi di sussistenza e di difesa. Non è possibile citare un paese in cui tutti gli abitanti indigeni siano così perfettamente adattati gli uni agli altri e alle condizioni fisiche in cui vivono che nessuno di essi possa adattarsi meglio o perfezionarsi; in tutte le regioni, infatti, le specie indigene sono state così completamente sopraffatte da specie naturalizzate, da permettere ad alcune di queste specie forestiere di prendere stabilmente possesso

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del territorio. E poiché in ciascun paese specie straniere hanno sopraffatto alcune delle specie indigene, possiamo concludere, senza tema di errore, che queste ultime avrebbero potuto essere modificate vantaggiosamente, così da poter meglio resistere agli invasori. Poiché l'uomo può ottenere, e certamente ha ottenuto, grandi risultati con la sua opera di selezione metodica ed inconscia, che cosa non può fare la selezione naturale? L'uomo può agire solo su caratteri esterni e visibili; la Natura, se mi si consente di personificare con questo nome la conservazione naturale o sopravvivenza del più adatto, non tiene conto alcuno delle apparenze, a meno che non siano utili a qualche individuo. Essa può agire su ogni organo interno, su ogni ombra di differenza costituzionale, sull'intero meccanismo della vita. L'uomo seleziona soltanto in vista del proprio vantaggio; la Natura soltanto per il vantaggio dell'essere cui rivolge le sue cure. [...] Egli spesso comincia la selezione da forme semimostruose, o per lo meno con modificazioni abbastanza appariscenti da attirare la sua attenzione o da presentare un evidente vantaggio per lui. In natura la più lieve differenza di struttura o di costituzione può rovesciare la ben equilibrata bilancia della lotta per l'esistenza, e così essere conservata. Quanto fuggevoli sono i desideri e gli sforzi dell'uomo! Quanto breve è il tempo di cui egli dispone! E, di conseguenza, quanto sono miseri i risultati della sua opera, al confronto di quelli accumulati dalla natura nel corso di interi periodi geologici! E dunque lecito meravigliarsi che i prodotti della natura abbiano un carattere «più genuino» di quelli dell'uomo, che essi siano infinitamente più adatti alle tanto complesse condizioni di vita, e che portino l'impronta di un magistero assai più perfetto? Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l'opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita. Questi lenti cambiamenti noi non li avvertiamo quando sono in atto, ma soltanto quando la mano del tempo ha segnato il lungo volgere delle età, ma così imperfette sono le nostre cognizioni delle remote ere geologiche che ci è soltanto dato di vedere che le forme viventi attuali sono diverse da come erano una volta. (Ch. Darwin, L'origine della specie, cap. IV; trad. it. di L. Fratini, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 148-50)

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Friedrich Wilhelm Nietzsche Nietzsche: La morte di Dio Dio è qui inteso come la più antica delle "millenarie menzogne vitali" che l'uomo ha prodotto per conferire un senso all'esistenza e sfuggire alla sua paura di fronte all'essere, fondato sul caos e sul non senso. Dio è quindi frutto di quella strategia che trae la sua origine nel prevalere dell'apollineo sul dionisiaco e prosegue con lo sdoppiamento del mondo compiuto da Platone che pone l'ordine e il senso un mondo che sta al di là di questo e in cui risiedono i valori assoluti, mentre questo nostro mondo si riduce a caos, imperfezione, non senso. In questo senso il Dio di cui parla Nietzsche è simbolo di ogni prospettiva teologico - metafisica che pone il senso e il fondamento dell'essere in un mondo di perfezione che sta al di là e al di sopra di questo mondo e vi si contrappone come ciò che è perfetto rispetto a ciò che è imperfetto. E' inoltre incarnazione e fondamento di ogni certezza e verità assoluta: vero, giusto, bene, bello, ecc. ricavano la loro universalità, eternità e assolutezza dall'essere fondati sulla perfezione e volontà divina. La morte di dio è quindi un evento traumatico per "l'uomo cristiano", che non sa vivere senza la sua guida e perde con lui il senso della vita e dell'essere, ma è anche la condizione necessaria affinché possa nascere il super-uomo, colui che è capace di imporre all'esistenza il senso che lui vuole, il superuomo è infatti portatore della "volontà di potenza"

L'Uomo folle. Avete sentito di quell'uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!»

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? - E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «Si è forse perduto?» disse tino. «Si è smarrito come un bambino? fece un altro». «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato»? gridavano e ridevano in una gran confusione. L'uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n'è andato

Dio»? gridò «ve lo voglio dire! L'abbiamo ucciso - voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma co abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il calice bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci me dette la spugna per strofinare via l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E' all'indietro, di fianco,in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? - Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non ci è giunto ancora nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli - chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci? Quali riti espiatori, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo anche noi diventare dei, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande - e tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, a una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!». - A questo punto l'uomo folle tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori:

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anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto», proseguì «non è ancora il mio tempo. Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino - non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, la luce delle stelle vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano viste e ascoltate. Quest'azione è ancor sempre più lontana dagli uomini delle stelle più lontane - eppure son loro che l'hanno compiuta!». - Si racconta ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio»? (La gaia scienza,, 125, in Opere, Adelphi, Milano, 1991, vol. 5, tomo II, pp. 150-152)

Nietzsche, Prefazione a Zarathustra: il superuomo e l'ultimo uomo Il persiano Zarathustra, fondatore dell'antica religione precristiana del mazdeismo, diventa, nella trasfigurazione compiutane da Nietzsche, il profeta del superuomo e dell'eterno ritorno. Nella prefazione di "Così parlò Zarathustra", opera pubblicata tra il 1883 e il 1885, si racconta di come Zarathustra, dopo essersi ritirato per 10 anni su una montagna, cominci la sua discesa tra gli uomini, il suo "tramonto". Ciò che Zarathustra annuncia agli uomini sono le due solo possibilità che ad essi si aprono dopo la "morte di dio": l'uomo può ora scegliere di essere o "l'ultimo uomo" o il "superuomo". Zarathustra stesso non è il superuomo ma solo il suo profeta: "io sono un messaggero del fulmine e il fulmine si chiama superuomo". Nel brano si possono non solo confrontare queste due diverse modalità di vivere - quella dell'ultimo uomo e quella del superuomo - ma appare anche evidente il carattere profetico dell'opera caratterizzata da immagini e parabole che rendone la sua lettura e interpretazione complessa e non scontata e univoca. 3

Quando Zarathustra giunse nella più vicina città, situata al confine della foresta, vi trovò molta folla adunata sul mercato: poiché era giunta notizia che un funambolo vi avrebbe dato spettacolo. E Zarathustra così parlò al popolo: "Io vi annunzio il Superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete voi fatto per superarlo? Ogni essere sinora ha creato qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di questo gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare l'uomo? Che cosa mai è la scimmia per l'uomo? Una risata, una penosa vergogna. Questo deve

essere l'uomo per il Superuomo: una risata, una penosa vergogna. Finora avete percorso la via che va dal verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme. Una volta eravate scimmie, e anche oggi l'uomo è più scimmia di qualunque scimmia. Chi tuttavia è fra voi il più saggio, non è che un essere disarmonico, un ibrido fra la pianta e il fantasma. Vi dico io forse di divenire piante o fantasmi? Ascoltate, io vi insegno il Superuomo! Il Superuomo è il senso della terra. E così il vostro volere dica: il Superuomo deve essere il senso della terra! Vi imploro, o miei fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Sono degli avvelenatori, consapevoli o meno: Sono spregiatori della vita, gente che sta morendo, avvelenati essi stessi da se stessi: la terra è stanca di loro: possano per sempre scomparire! Una volta il crimine contro Dio era il più grande peccato; ma Dio è morto, e con lui sono morti anche i colpevoli di quel crimine. Oggi la colpa più orribile è peccare contro la terra, e tenere in più alto pregio le viscere dell'impenetrabile che, il senso della terra!

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Una volta l'anima guardava con dispregio il corpo: e questo dispregio era il più alto valore: essa lo voleva magro, orrido, affamato. Così immaginava di sfuggire al corpo e alla terra. Ahimè, era l'anima stessa che era magra, orrida, affamata: e la crudeltà era la sua voluttà! Ma anche voi, fratelli miei, ditemi: che dice il vostro corpo della vostra anima? Non è essa meschinità e sozzura e tristo piacere? L'uomo è veramente un fiume melmoso. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume così sudicio senza rimanerne insudiciati. Ascoltate, io vi insegno il Superuomo: egli è questo mare, in esso può sprofondare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che potete vivere? L'ora del grande disprezzo. L'ora nella quale anche la vostra gioia diventa uno schifo, così la vostra ragione e la vostra virtù. L'ora nella quale voi dite: ‘Che me ne importa della mia felicità! È una cosa povera e sporca e un misero conforto. Proprio la mia felicità, dovrebbe da sola bastare a giustificare l'esistenza!’ L'ora nella quale vol dite: 'Che me ne importa della mia ragione! Forse avete fame di sapienza come il leone ha fame del suo cibo? Ma non è che cosa povera e sporca e un misero conforto!' L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia virtù! Essa non è riuscita ancora a farmi immpazzire! Come sono stanco del mio bene e dei mio male! Tutto ciò non è che povero e sporco e un misero conforto!' L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia giustizia! Io non vedo ch'io sia ancora divenuto un carbone ardente. Ma il giusto è un carbone ardente!' L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia compassione! Non è compassione la croce alla quale viene inchiodato colui che ama gli uomini? Ma la mia compassione non è una crocefissione'. Avete già parlato in questo modo? Avete già urlato in questo modo? Ah, se vi avessi udito già gridare in questo modo! Non il vostro peccato; è la vostra contentezza soddisfatta che grida vendetta al cospetto del cielo, la vostra avarizia stessa che nel vostro peccato grida vendetta al cospetto del cielo! Dov'è il fulmine che vi abbia lambito con la sua lingua? Dove la follia della quale voi abbiate dovuto essere vaccinati? Vedete, io vi insegno il Superuomo: egli è questo fulmine, egli è questa follia!" Quando Zarathustra ebbe parlato così, uno del popolo gridò: "Abbiamo sentito abbastanza parlare del funambolo; fatecelo finalmente vedere!" E tutto il popolo rise di Zarathustra. Ma il funambolo, che credette che il discorso fosse fatto per lui, cominciò a prepararsi. 4

E Zarathustra vide il popolo e si meravigliò. Allora parlò così: "L'uomo è una corda, tesa tra l'animale e il Superuomo, una corda sopra un precipizio: Un pericoloso oltrepassamento, un pericoloso andamento, un pericoloso volgersi indietro, un pericoloso trasalire ed arrestarsi. Ciò che è grande nell'uomo, è che egli è un ponte e non una mèta: ciò che può venire amato, è che egli è un transito e una catastrofe. Amo coloro che non sanno vivere, sia pure come decadenti, perché sono coloro che

vanno oltre. Amo i grandi dispregiatori, perché sono i grandi adoratori e le grandi frecce della nostalgia verso l'altra riva. Amo coloro che non cercano al dl là delle stelle una ragione per naufragare e sacrificarsi: ma si sacrificano alla terra, onde far sì che la terra sia un giorno del Superuomo. Amo colui che vive per riconoscere, e che vuol conoscere, onde far sì che un giorno viva il Superuomo. E così vuole il proprio tramonto. Amo colui che lavora e scopre, onde costruire la casa del Superuomo, e preparargli il terreno, gli animali e le piante: perché è uno che vuole la propria rovina. Amo colui che ma la sua virtù: perché la virtù è una volontà di naufragio e una freccia dl nostalgia.

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Amo colui che non trattiene per sé goccia alcuna di spirito, ma vuole essere interamente lo spirito della sua virtù; perché è uno che avanza come spirito sopra il ponte. Amo colui che fa della sua virtù la stia inclinazione e il suo destino: perché è uno che a causa della sua virtù vuole e non vuole più vivere. Amo colui che non vuole avere molte virtù. Una virtù è più virtù di due, perché è maggiormente un nodo a cui si appende un destino. Amo colui la cui anima si spende generosamente; e non vuole essere ringraziato, e neanche ringrazia: perché è uno che sempre dona e non si preoccupa della propria conservazione. Amo colui che si vergogna quando il dado della sorte cade in suo favore, e allora chiede a se stesso: sono forse un falso giocatore? Poiché è uno che vuole inabissarsi. Amo colui che fa precedere le sue azioni da parole d'oro, e sempre mantiene più di quanto promette: perché vuole la sua rovina. Amo colui che giustifica i posteri ed è un compimento per i trapassati: perché è uno che vuole che il presente lo distrugga. Io amo colui che maltratta il proprio Dio, perché è uno che ama il suo Dio, e dovrà andare in rovina per l'ira del suo Dio. Io amo colui la cui anima è profonda anche nella ferita, e può andare a fondo anche per un piccolo evento: perché è uno che passa volentieri sopra il ponte. Io amo colui la cui anima trabocca, tanto da dimenticare se stesso, e tutte le cose sono in lui: tutte le cose divengono la sua rovina. Io amo colui che ha libero spirito e libero cuore: così che la sua testa è soltanto un viscere del suo cuore, ma il suo cuore lo sospinge verso l'abisso. Io amo tutti coloro che sono gocce pesanti che cadono ad una ad una dal nembo oscuro che pende sugli uomini: e annunciano che il fulmine arriva, e come annunciatori vanno verso la loro rovina. Vedete, io sono un annunciatore del fulmine e una goccia pesante del nembo: ma il fulmine si chiama Superuomo. 5 Quando Zarathustra ebbe detto queste parole, guardò in faccia di nuovo la gente e tacque. "Eccoli lì," disse al suo cuore "ridono: non mi comprendono, io non sono una bocca adatta per orecchi. Sarà prima necessario spezzar loro gli orecchi, perché imparino ad udire con gli occhi? Sarà necessario far fracasso come i timpani e i predicatori di penitenze? O credono solo a coloro che balbettano? Hanno in se qualcosa di cui sono orgogliosi. Ma come la chiamano? Cultura la chiamano che li distinguono dai caprai. Perciò ascoltano malvolentieri l'espressione di 'disprezzo', indirizzata ad essi. E allora io parlerò al loro orgoglio. Parlerò loro della cosa più, spregevole di tutte: che è l'ultimo uomo." E così parlò Zarathustra al popolo: "È tempo che l'uomo definisca la sua mèta. E tempo che l'uomo pianti il seme della sua più alta speranza. A ciò il suo terreno è ancora abbastanza ricco. Ma esso diverrà un giorno povero e debole e nessun albero di alto fusto vi crescerà più. Guai! Viene il tempo nel quale l'uomo non scaglierà pii la freccia della sua nostalgia al di là dell'uomo; in cui il crine del suo arco non saprà più vibrare. Io vi dico che bisogna avere ancora in se stessi il caos, per poter generare una stella danzante. Io vi dico che avete ancora il caos in voi. Ma guai! Viene il tempo in cui l'uomo non avrà più stelle da generare. Guai! Viene il tempo dell'uomo giunto all'estremo limite della sua spregevolezza, che non saprà più neanche disprezzarsi. Ecco! Io vi mostro l'ultimo uomo. Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è stella? Così domanda l'ultimo uomo e ammicca. La terra allora sarà divenuta piccola, e su di lei andrà saltellando l'ultimo uomo, che renderà tutto piccino. La sua schiatta è indistruttibile come la pulce di terra; l'ultimo uomo è quello che vive più a lungo di tutti. Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano. Hanno abbandonato le regioni dove era duro vivere: perché c'è bisogno di calore. Si ama ancora il

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prossimo e ci si strofina a lui: perché c'è bisogno di calore. Ammalarsi e diffidare è per essi peccato: e si va avanti guardinghi. Pazzo chi ancora incespica sulle pietre o sugli uomini! Ogni tanto un po' di veleno: esso fa sognare gradevolmente. E alla fine molto veleno, per gradevolmente morire. Si lavora ancora, poiché il lavoro è un modo di passare il tempo. Ma si cerca di fare in maniera che questo divertimento non danneggi. Non si è più poveri o ricchi: entrambe le situazioni sono troppo impegnative. Chi vuole ancora dominare? Chi vuole ancora obbedire? L'una e l'altra cosa sono troppo impegnative. Non un pastore e il suo gregge! Ognuno vuole la medesima cosa, ognuno è uguale; chi sente altrimenti, va diritto al manicomio. In altri tempi tutti erano pazzi, dicono i più raffinati e ammiccano. Si è saggi e si sa tutto ciò che è accaduto: così non si finisce mai di sorridere. C'è ancora chi s'arrabbia; ma ci si rappacifica presto per non sciuparsi lo stomaco. Si possiede la piccola gioiuzza per il giorno e il piccolo piaceruzzo per la notte: ma si rispetta la salute. Abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini e ammiccano." E qui finì il primo discorso di Zarathustra, che è detto anche "prologo", perché a questo punto lo interruppe lo schiamazzo e l'allegria della folla. "Daccelo, quest'ultimo uomo, o Zarathustra" gridarono; "fa' che noi siamo questi ultimi uomini! Il tuo Superuomo te lo regaliamo!" E tutto il popolo giubilava e schioccava la lingua. Ma Zarathustra divenne triste e disse al suo cuore: "Non mi comprendono: io non sono una bocca adatta per le loro orecchie. Ho vissuto troppo a lungo nelle montagne, e troppo ho ascoltato la voce dei ruscelli e degli alberi: ora io parlo loro come fanno I caprai. Incrollabile è la mia anima, e chiara come la montagna nell'ora che precede il meriggio. Ma essi credono che io sia freddo e che non sappia che irridere con scherzi atroci. E mi guardano e ridono: e mentre ridono continuano ad odiarmi. Nel loro riso è il gelo." 6 Ma allora accadde qualcosa che rese ogni lingua muta e ogni occhio attonito. Il funambolo aveva cominciato la sua opera: era uscito da una piccola porta e stava avanzando sul filo, che era teso fra due torri; sospeso lassù in alto, stava sopra il mercato e la folla. Quando giunse a metà del suo cammino, la piccola porta si aprì ancora, e un suo compagno multicolore, simile ad un buffone, ne saltò fuori e a passi rapidi lo seguì: "Avanti, piedi dolci," gridò la sua voce terribile "avanti, poltrone, contrabbandiere, viso pallido! Vorrei farti assaggiare il mio calcagno! Che cosa stai facendo qui fra le torri? Dentro la torre devi stare, ti dovrebbero mettere in gattabuia, tu che impedisci il passaggio a chi è migliore di te!" E ad ogni parola che diceva, gli si avvicinava sempre più: ma quando fu giunto ad un passo da lui, accadde la cosa più spaventosa, che fece ammutolire tutti e restare con gli occhi incantati: sibilò in aria un grido come di diavolo e quell'individuo spiccò un salto oltrepassando colui che gli impediva il passaggio. Questi, quando si vide sopravanzato dal suo compagno, perse la testa e la corda; lanciò via la stanga e precipitò, più rapido di lei, come un viluppo di braccia e gambe nello spazio. Il mercato e la folla sembrarono il mare quando la tempesta lo sommuove: fu tutto un rimescolio e un accavallarsi, soprattutto nel punto dove il corpo doveva cadere. Ma Zarathustra rimase fermo al suo posto, e proprio accanto a lui cadde il corpo, ridotto a mal partito e spezzato, ma non ancor morto. Dopo un poco tornò la coscienza al disgraziato, che scorse Zarathustra in ginocchio accanto a sé. "Che fai tu lì?" disse finalmente; "io sapevo da molto tempo che il diavolo mi avrebbe dato un calcio. Ora mi trascina all'inferno: vuoi vedere se ti opponi a lui?" "In realtà, amico," rispose Zarathustra "non esiste ciò che tu dici: non c'è né diavolo né inferno. Morirà più presto la tua anima del tuo corpo: non avere paura di nulla!" L'altro lo guardò con diffidenza: "Se tu dici la verità," esclamò "allora io non perdo nulla perdendo la vita. Non sono molto più di un animale, a cui è stato insegnato a danzare a forza di percosse e di bocconcini". "Ma no" disse Zarathustra; "tu hai fatto del pericolo la tua professione, e su questo non c'è niente da dire. Ora tu muori in seguito alla tua professione: e io per mia parte ho intenzione di seppellirti con le mie mani." Quando Zarathustra disse questo, il morente non rispose più; ma mosse la mano, come se cercasse

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la sua mano per ringraziarlo. (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Montinari, in Opere complete, cit., vol. VI, tomo I, Adelphi, Milano 1986, pp. 5-6)

Nietzsche - Delle tre metamorfosi Primo discorso di Zarathustra, Le tre metamorfosi è una narrazione della storia dello spirito occidentale e delle sue metamorfosi molto diversa da quelle idealistico - hegeliane e positiviste. Qui la storia non è uno sviluppo unilineare e progressivo governato da una ragione dialettica o legge evolutiva che si realizzano irreversibilmente nella storia in un processo cumulativo e continuo. Nella narrazione nietzschiana si ha un mutamento di stato, lo spirito muore per rinascere in una diversa forma, la metamorfosi comporta la tragica consapevolezza di ciò che l'uomo è stato e di ciò che deve sopprimere per andare oltre ciò che è stato. Il passaggio dal cammello al bambino e alla sua innocenza giocosa e creativa, ha un carattere drammatico. Il cammello è l'uomo cristiano che si piega di fronte al "tu devi" dei valori assoluti e di dio che è posto a loro fondamento. Egli trova il proprio valore nella negazione di ogni valore alla propria vita terrena e nell'umiliazione nichilistica del proprio io di cui si compiace. Il leone afferma con la sua forza distruttiva la libertà del volere rispetto a ogni dovere e dover essere, l'io voglio del leone sopprime ciò che l'uomo aveva di più caro ma non è capace di andare oltre la "libertà da", è il nichilismo attivo che non è ancora capace di andare oltre la libertà negatività e creare un nuovo senso dell'essere e dell'esistenza. Il bambino e il suo sacro dire di si alla vita rappresentano la "libertà di", l'esistenza nel suo stato di innocenza che, liberata da ogni condizionamento e vincolo,si colloca al di là del bene e del male ed è capace di sperimentare ludicamente nuove possibilità e creare nuovi valori

Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare.

Che cosa è gravoso? domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato. Qual è la cosa più gravosa da portare, eroi? così chiede lo spirito paziente, affinché io la prenda su di

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me e possa rallegrarmi della mia robustezza. Non è forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza? Oppure è: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore? Oppure è: nutrirsi delle ghiande e dell'erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell’anima? Oppure è: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi, che mai odono ciò che tu vuoi? Oppure è: scendere nell'acqua sporca, purché sia l'acqua della

verità, senza respingere rane fredde o caldi rospi? Oppure è: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuol fa

Sigfrido uccide il drago Fafnir, Kaulbach, 1848

re paura? Tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito: paziente prende su di se: come il

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cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, così corre anche lui nel suo deserto. Ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria. Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? "Tu devi" si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice "io voglio". "Tu devi" gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l'oro, e su ogni squama splende a lettere d'oro "tu devi !". Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei draghi: «tutti i valori delle cose risplendono su di me». «Tutti i valori sono già stati creati, e io sono -ogni valore creato. In verità non ha da essere più alcun "io voglio" ! ». Così parla il drago. Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione? Creare valori nuovi -di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione di questo è capace la potenza del leone. Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone. Prendersi il diritto per valori nuovi -questo è il più terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. Un tempo egli amava come la cosa più sacra il "tu devi" : ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose più sacre, per predar via libertà dal suo amore: per questa rapina occorre il leone. Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per se il suo mondo. Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo. Così parlò Zarathustra. Allora egli soggiornava nella città che è chiamata: "Vacca pezzata". (Nietzsche, Così parlò Zarathustra,Delle tre metamorfosi)

Nietzsche - Dei dispregiatori del corpo La dimensione della corporeità relegata dalla metafisica platonico - cristiana nella dimensione dell'apparenza e della negatività, viene riscattata da Nietzsche che la assume come sola dimensione dell'essere e dell'esistenza umana. La negazione del divenire caotico in nome di un ordine razionale assoluto, risultato del prevalere dell'apollineo sul dionisiaco, condusse Platone e successivamente il cristianesimo, a negare valore al mondo terreno e a porre il senso dell'essere in un mondo trascendente di immutabile ed universale perfezione. Il mondo del divenire, della vita terrena, della corporeità, è pertanto ridotto a imperfezione e negatività, in questo consiste il nichilismo cui conduce la tradizione dell'occidente. L'affermazione della originarietà e assolutezza del corporeo significa dunque il rifiuto del dualismo e del nichilismo, questo mondo non è manifestazione finita di un principio infinito, al contrario sono ciò che chiamiamo spirito, anima, pensiero, ragione, ad essere una manifestazione del corpo. Lo stesso io (Ich) è solo espressione di una realtà più fondamentale, il Sé (Selbst). La stessa identità razionale (il cogito cartesiano) della coscienza umana è solo un effetto secondario del Sé e il Sé è corpo: pulsione, istinto, vitalità. L'apologo di Zarathustra anticipa alcune delle fondamentali conclusioni cui giungerà Freud nel definire il rapporto tra Es, Io e Super-io, in effetti il Selbst di Nietzsche e il suo rapporto con l'Ich, ricordano la relazione freudiana tra Es e Io.

"Ora voglio dire la mia parola a coloro che disprezzano il corpo. Non serve a me che essi cambino le parole o i loro insegnamenti, ma che si stacchino finalmente davvero dal loro corpo; e divengano muti. "Sono corpo e anima" dice il bambino. E perché non dovremmo parlare come i bambini? Ma lo sveglio, l'esperto, dice: io sono tutto corpo e niente altro tranne questo, e l'anima non è che

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una parola per esprimere qualcosa che è sostanzialmente corporea. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un senso unitario, guerra e pace, gregge e pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, o fratello, che tu chiami 'spirito', piccolo strumento e gioco della tua grande ragione. 'Io', tu dici, e vai fiero di questa parola. Ma la cosa più grandiosa è - anche se non vuoi crederlo - il tuo corpo e la tua grande ragione: questa non dice Io, ma è Io. Ciò che il senso percepisce, ciò che lo spirito intende, non ha mai fine in se stesso. Ma senso e spirito desidererebbero convincerti di essere il fine di ogni cosa: così sciocchi essi sono. Strumenti e giocattoli sono senso e spirito: dietro di loro è nascosto il vero Sé. Il Sé ricerca anche con gli occhi del senso,ascolta anche con le orecchie dello spirito. È sempre il Sé che ascolta e ricerca: conforta, costringe, conquista, distrugge. Comanda ed è anche il signore dell'Io. Dietro ai tuoi pensieri e sentimenti, fratello mio, sta un forte dominatore, un saggio sconosciuto: è il Sé. Nel tuo corpo dimora, è il tuo stesso corpo. C'è più senno nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E perché mai il tuo corpo avrebbe dunque bisogno della tua migliore saggezza? Il tuo Sé ride del tuo Io e dei suoi orgogliosi sobbalzi. 'Che cosa mai sono per me questi salti e voli del pensiero?' dice fra sé. 'Un circolo vizioso per giungere al mio scopo. Io sono la briglia dell'io e il suggeritore dei suoi pensieri.' Il Sé dice all'Io: 'Ecco, avverti il dolore!' E quello soffre e pensa come riuscire a liberarsi dal dolore; e proprio per ciò deve pensare. Il Sé dice all'Io: 'Ecco, senti il piacere!' E quello gode e pensa come gustare quel piacere; e proprio per questo deve pensare. A coloro che disprezzano il corpo io voglio dire una parola. È il loro disprezzare che costituisce il loro apprezzamento. Chi creò l'apprezzamento e il disprezzo e il valore e il volere? Il Sé creatore creò l'apprezzare e il disprezzare, e la felicità e il dolore. Il corpo creatore creò lo spirito come una lunga mano del suo volere. Anche nella vostra follia e disprezzo, o dispregiatori del corpo, servite al vostro Sé. Io vi dico: è il vostro stesso Sé che vuol morire e si volge via dalla vita. Non può più fare quello che gli è più caro: creare al di là di se stesso. Questo è ciò che vorrebbe fare con tanta passione, questo è tutto il suo fervore. Ma ormai è troppo tardi: perciò il vostro Sé vuol morire, o dispregiatori del corpo. Tramontare vuole il vostro Sé, ed è perciò che voi siete divenuti dispregiatori del corpo! Poiché non riuscite più a superare voi stessi. E perciò siete in collera con la vita e con la terra. Una stupida invidia traluce nel fosco sguardo del vostro disprezzo. Io non andrò per la vostra via, o disprezzatori del corpo. Per me voi siete ponti per il Superuomo!" Così parlò Zarathustra.

Nietzsche, L'Eterno ritorno, La gaia scienza, aforisma 341 Nietzsche presenta la dottrina dell'eterno ritorno dell'identico come risultato di una scoperta avvenuta attraverso un'esperienza di carattere "mistico" che egli ebbe a Sils Maria, mentre passeggiava presso il lago di Silvaplana, in Engadina, nell'estate del 1881. Egli riferisce di essere stato "folgorato" dal suo pensiero più "abissale". Nel testo viene esposta la dottrina dell'eterno ritorno e le due conseguenze possibili che la sua rivelazione produce e che fungono da discriminante tra l'ultimo uomo, in cui tale pensiero produce orrore e il superuomo per cui esso costituisce una liberazione a cui egli reagisce con "gioia entusiastica".

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Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione [...]. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: "Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina"?

Uroboro, serpente che si morde la coda, simbolo della ciclicità del tempo

(Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 341)

Nietzsche – La visione e l'enigma, Zarathustra La teoria dell'eterno ritorno è avvolta in un alone di mistero e, per ammissione dello stesso Nietzsche, lascia insoluti non pochi interrogativi. Essa era già stata introdotta nella Gaia scienza, sotto forma di rivelazione di un demone: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e innumerevoli altre volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo». Anche Zarathustra la presenta come una visione e un enigma, come il più abissale dei suoi pensieri, e Nietzsche racconta nell'Ecce homo di averla intuita improvvisamente durante una passeggiata in alta montagna. Certamente la teoria dell'eterno ritorno non costituisce una novità nella storia della filosofia, basti ricordare che era professata dallo stoicismo. Ma essa nel pensiero di Nietzsche viene a configurarsi in maniera nuova congiungendosi con la teoria del superuomo. Il superuomo sa trasformare l'eterno ritorno da legge cosmica ineluttabile in prodotto della libera volontà, e quindi Io trasforma da fatto angosciante in scelta gioiosa.

«Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io -: tu non conosci il mio pensiero

abissale! Questo -tu non potresti sopportarlo!». Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle,

incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia. «Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui:

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nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della

porta e in avanti -è un'altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo". Ma, chi ne percorresse uno dei due -sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?». «Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo». «Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato -e sono io che ti ho portato in alto! «Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia al l'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un'eternità.

Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? Prima stesura dell'eterno ritorno

E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta car-raia -esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo at-timo trae dietro di se tutte le cose avvenire? Dunque --anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori -deve camminare ancora una volta!

E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti -non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? -e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via -non dobbiamo ritornare in eterno?». Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi [...] E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormi va, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e -lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava -invano! non riusciva a strappare il ser-pente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!», così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me -buono o cattivo -gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari inesplorati! Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini! Giacché era una visione e una previsione: -che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le più grevi e le più nere tra le cose strisceranno nelle fauci? -Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da se sputò la testa del serpente -: e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, -un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima

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al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, --e ora mi consuma una sete, un desiderio no-stalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! (Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, La visione e l'enigma)

Nietzsche - Morale dei Signori e Morale degli Schiavi Vagabondando tra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno dominato fino a oggi o dominano ancora sulla terra, ho rinvenuto certi tratti caratteristici, periodicamente ricorrenti e col-legati tra loro: cosicché mi si sono finalmente rivelati due tipi fondamentali e ne è balzata fuori una radicale differenza. Esiste una morale dei signori e una morale degli schiavi. [...] Le differenziazioni morali di valore sono sorte o in mezzo a una stirpe dominante, che con un senso di benessere acquistava coscienza della propria distinzione da quella dominata -oppure in mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado. Nel primo caso, quando sono i domi-natori a determinare la nozione di "buono", sono gli stati di elevazione e di fierezza dell'anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e qualificante della gerarchia. L’uomo nobile separa da se quegli individui nei quali si esprime il contrario di tali stati d'elevazione e di fierezza -egli li di-sprezza. Si noti subito che in questo primo tipo di morale il contrasto "buono" e "cattivo" ha lo stesso significato di "nobile" e "spregevole" -il contrasto di "buono" e "malvagio" ha un'altra origi-ne. È disprezzato il vile, il pauroso, il meschino, colui che pensa alla sua angusta utilità; similmen-te lo sfiduciato, col suo sguardo servile, colui che si rende abbietto, la specie canina di uomini che si lascia maltrattare, l'elemosinante adulatore e soprattutto il mentitore -è una convinzione basilare di tutti gli aristocratici che il popolino sia mendace. «Noi veritieri» -così i nobili chiamavano se stessi nell'antica Grecia. [...] L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori. Onorano tutto quanto sanno appartenere a se: una siffatta morale è autoglorificazione. [...] Nobili e prodi che pensano in questo modo sono quanto mai lontani da quella morale che vede precisamente nella pietà o nell'agire altruistico o nel desinteressement l'elemento proprio di ciò che è morale; la fede in se stessi, l'orgoglio di se, una radicale inimicizia e ironia verso il "disinteresse", sono compresi nella morale aristocratica, esattamente allo stesso modo con cui competono a essa un lieve disprezzo e un senso di riserbo di fronte ai sentimenti di simpatia e al "calore del cuore". [...] Ma soprattutto una morale dei dominatori è estranea al gusto dei contemporanei e per essi spia-cevole nel rigore del suo principio, che si hanno doveri unicamente verso i propri simili; che nei ri-guardi degli individui di rango inferiore e di tutti gli estranei sia lecito agire a proprio libito o "come vuole il cuore" e comunque "al di là del bene e del male" -: è sotto quest'ultimo aspetto che possono avere il loro posto la compassione o altre cose del genere. La capacità e l'obbligo di una lunga gratitudine e di una lunga vendetta -le due cose solo entro la sfera dei propri simili- la sottigliezza nella rappresaglia, l'affinamento dell'idea di amicizia, una certa necessità di avere dei nemici (come canale di deflusso, per così dire, per le passioni dell'invidia, della litigiosità, della tracotanza -in fondo per poter essere buoni amici): tutti questi sono caratteri tipici della morale aristocratica, la quale, come ho accennato, non è la morale delle "idee moderne", ed è per questo che oggi risulta difficile sentirla ancora come pure disseppellirla o discoprirla. -Diversamente stanno le cose per quanto riguarda il secondo tipo di morale, la morale degli schiavi. Posto che gli oppressi, i conculcati, i sofferenti, i non liberi, gli insicuri e stanchi di se stessi, facciano della morale, che cosa sarà l'elemento omogeneo nei loro apprezzamenti di valore? Probabilmente troverà espressione un pessimistico sospetto verso l'intera condizione umana, forse una condanna dell'uomo unitamente alla sua condizione. Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti: è scettico e diffidente, ha la raffinatezza della diffidenza per tutto quanto di "buono" venga tenuto in onore in mezzo a costoro -, vorrebbe persuadersi che tra quelli la stessa felicità non è genuina. All'opposto vengono messe in evidenza e inondate di luce le qualità che servono ad alleviare l'esistenza ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l'operosità, l'umiltà, la gentilezza a esser poste in onore -giacché sono queste, ora, le qualità più utili e quasi gli unici mezzi per sopportare il peso dell'esistenza. La

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morale degli schiavi è essenzialmente morale utilitaria. Al di là del bene e del male, Opere complete, vol. 6, tomo II, pp. 186 - 188)