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STEFANO LUCARELLI
CORSO DI ETICA E POLITICA ECONOMICA
DUECI A.A. 2018-2019
APPUNTI DI POLITICA ECONOMICA
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PRIMA DI INIZIARE
Il brano qui riportato è tratto da Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, di Mark Haddon
(Einaudi 2005, p. 165). Sono pensieri di Christopher Boone, quindici anni affetto da sindrome di
Asperger, una forma di autismo. Christopher capisce tutto di matematica ma pochissimo dei
sentimenti umani.
…La barzelletta è la seguente. Ci sono tre uomini su un treno. Uno è un economista, il secondo è un logico e il terzo un matematico. Hanno appena oltrepassato il confine della Scozia (non so perché stanno andando in Scozia) quando dal finestrino del treno vedono una mucca marrone in un campo (la mucca è in posizione parallela rispetto al treno). L’economista dice: - Guarda, le mucche in Scozia sono marroni. Il logico dice: - No. In Scozia ci sono le mucche, e almeno una è marrone. Il matematico dice: - No. C’è almeno una mucca in Scozia, e uno dei due fianchi è visibilmente marrone. E questa barzelletta fa ridere perché gli economisti non sono dei veri scienziati, perché i logici hanno una visione più chiara delle cose, ma i matematici sono i migliori di tutti. Ora Christopher ha probabilmente ragione perché gli economisti non sono degli scienziati allo
stesso modo dei logici e dei matematici, sebbene cerchino disperatamente di scimmiottare le
scienze esatte. La scienza economica nasce come problema di storia delle idee, di idee rivali, circa
il funzionamento del sistema economico in cui viviamo. L’ammissione di un nucleo razionale per
questa disciplina è un sofisma: il corpo smisurato della dismal science (scienza triste) è infatti
formato piuttosto da interessi e scopi che di risultati e teoremi1. L’idea di uno sviluppo lineare e
progressivo della conoscenza scientifica nel campo dei problemi economici è una credenza
ingenua, poiché la novità di sintassi non garantisce la novità delle proposizioni. Tant’ è che in
economia – quindi anche in politica economica - è possibile (e doveroso) riprendere i punti di vista
antichi.
Stefano Lucarelli
1 Questo è un insegnamento che devo a un grande maestro dell’economia politica: Giorgio Lunghini. I capitoli sullo schema neoclassico, su J.M. Keynes e sul circuito monetario sono per lo più costruite a partire dagli appunti delle sue lezioni, da me redatti e circolanti in vari luoghi del web a partire dal nuovo millenio. Di Giorgio Lunghini consiglio soprattutto la lettura di Conflitto crisi incertezza, Bollati Boringhieri, 2012.
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LO SCHEMA NEOCLASSICO
La teoria economica neoclassica (la teoria egemone dopo il 1870), anziché analisi di un dato
modo di produzione, è tecnica di soluzione del problema economico che vi è assunto come generale ed
eterno: secondo quali rapporti gli individui dovrebbero redistribuirsi, mediante lo scambio (e come se
la produzione fosse produzione per l’uso), i beni e i servizi produttivi di cui dispongono inizialmente,
allo scopo di ottenere la situazione finale più vantaggiosa, secondo le loro preferenze.
In questo schema la struttura di classe diventa analiticamente irrilevante, e così il concetto di sovrappiù.
I parametri dello schema neoclassico sono allora i seguenti:
a) le dotazioni iniziali di risorse e una tecnologia efficiente, come determinanti dell’offerta;
b) i gusti o preferenze degli individui e la distribuzione fra questi della proprietà delle risorse, come
determinanti della domanda.
Sono invece variabili endogene:
a) le quantità di servizi produttivi destinate alla produzione di ciascun bene;
b) le quantità di ciascun bene o servizio destinate a ciascun consumatore;
c) i prezzi dei servizi produttivi (e dunque i redditi dei proprietari delle risorse);
d) i prezzi dei beni finali (e dunque i redditi degli addetti alla produzione).
Questi prezzi assicurano l’equilibrio del sistema, in quanto assicurano che per nessun bene o
servizio produttivo la domanda ecceda l’offerta, e in quanto tutti i redditi sono determinati
simultaneamente, poiché il caso e il mercato mediano e rimediano i privilegi e i rapporti di forza. Nel
sistema neoclassico la teoria e la pratica economica si risolvono tutte e interamente nella teoria e nella
pratica dei rapporti di scambio. Questo approccio riduce la teoria del valore a teoria dei prezzi di
mercato, sopprimendo i problemi lasciati irrisolti dai classici e resi espliciti dalla marxiana critica
dell’economia politica. Se nel sistema teorico classico la teoria dei prezzi è solo un termine medio
dell’analisi del valore, della distribuzione e dell’accumulazione, e i prezzi di equilibrio sono condizione
soltanto necessaria per la riproduzione del rapporto capitalistico, nel sistema teorico neoclassico i
prezzi di equilibrio sono condizione sufficiente per il mantenimento dello status quo ante, e ogni
problema viene ridotto a un problema di scelta.
Un semplice modello di equilibrio economico generale aggregato
La teoria neoclassica è una teoria dell’allocazione ottima di risorse date, in vista della massima
soddisfazione del consumatore. Questo problema, e conseguentemente quello distributivo, si pone e si
risolve nella sfera dello scambio piuttosto che della produzione. Infatti, se si assumono le risorse e la
tecnologia come parametri, le scelte individuali di consumo possono essere trattate come le
determinanti di tutte le variabili importanti: allocazioni dei fattori, prezzi, redditi e allocazioni delle
merci. La teoria della scelta è dunque il nucleo dell’economia neoclassica.
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Questo nucleo teorico, e le conseguenti scelte di politica economica che da esso derivano, possono essere
illustrate tramite un semplice modello di equilibrio economico generale aggregato in cui il prezzo dei
beni, dei servizi e dei fattori della produzione risulta determinato dalle leggi della domanda e
dell’offerta.
In un mondo neoclassico non esiste disoccupazione involontaria, la produzione viene massimizzata
sotto il vincolo delle tecnologie disponibili, i prezzi vengono minimizzati date le condizioni di
circolazione della moneta. Valgono la legge degli sbocchi di Say, e la teoria quantitativa della moneta.
Mercato del lavoro
Sul mercato del lavoro si individua un salario (reale) di equilibrio (w* = w*/p*) che - date le
tecniche che massimizzano la produzione e date le condizioni di circolazione della moneta che
minimizzano i prezzi - non dà luogo a disoccupazione involontaria. In tal senso, l’equilibrio descritto da
un modello di equilibrio economico generale, è un equilibrio di piena occupazione.
L’offerta di lavoro (NS) viene determinata a partire dall’utilità marginale dei singoli agenti; la
domanda di lavoro (ND) viene determinata a partire dalla produttività marginale delle singole imprese.
Le due curve sono ricavate dall’aggregazione delle singole offerte e delle singole domande. Si suppone
che il mercato del lavoro funzioni in condizioni di concorrenza perfetta e che i lavoratori siano
perfettamente mobili da un settore all’altro e da un territorio all’altro. Per ogni dato livello dello stock
di capitale, le imprese richiedono lavoro, in modo da massimizzare i profitti totali. Detto in termini
microeconomici, le imprese assumono lavoratori fino a che la produttività marginale del lavoro non sia
uguale al saggio di salario reale.
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Esisterebbe, in altre parole, un livello naturale del salario, in corrispondenza del quale si ha piena
occupazione della forza lavoro, piena utilizzazione della capacità produttiva, e - data la quantità di
moneta - il più basso livello dei prezzi. Ne segue un importante corollario: fra profitti e salari, dunque
fra capitale e lavoro, non vi sarebbe conflitto, poiché qualsiasi tentativo di spingere i salari al di sopra
del livello di equilibrio romperebbe una divina armonia.
Mercato dei beni
La teoria neoclassica accetta la legge di Say, dunque assume l’esistenza di meccanismi di mercato
capaci di assicurare che il reddito non consumato sia interamente speso in investimenti. Il livello del
prodotto dipende dalle quantità impiegate dei fattori capitale e lavoro. Ciò viene rappresentato da una
funzione di produzione del tipo, Y= f(K, N), f’N>0, f’K>0. Le funzioni prevalentemente assunte dalla teoria
neoclassica standard postulano:
a) rendimenti costanti di scala. f(aK, aN)=aY, a>0;
b) produttività marginale decrescente di ciascun fattore al crescere della sua quantità impiegata, ceteris
paribus, f’N>0, f’’N<0.
Una funzione che soddisfa questi requisiti è per esempio la cosiddetta funzione di produzione Cobb-
Douglas:
Y= AKαNβ, α+β = 1.
La funzione di produzione neoclassica rappresenta una sintesi del principio secondo cui quale
che sia la produzione, il valore della domanda non può essere inferiore al valore dei beni prodotti. Lo
stesso principio è espresso dalla legge di Say, secondo cui l’offerta crea sempre la propria domanda.
Dalla funzione di produzione può essere dedotta l’offerta aggregata di beni (YS), una volta noto lo stock
di capitale corrente K e la quantità di lavoro che le imprese desiderano occupare al salario reale di
equilibrio:
YS= f(ND, K) = f[f(w*), K]
La domanda di beni di consumo viene costruita partendo dall’ipotesi che le famiglie preferiscano
in generale consumare il proprio reddito disponibile nel presente piuttosto che in futuro. Ciò implica
che esse saranno disposte a rinunciare a una parte del loro consumo presente solo se questa rinuncia, o
risparmio, sarà remunerata da un interesse. La scelta dei consumatori si riduce quindi all’alternativa fra
l’acquisto di beni di consumo (C) o il risparmio (S, il quale coinciderà con l’investimento I). La domanda
aggregata di beni viene pertanto a dipendere dal livello del tasso di interesse reale (r) che premia i
parsimoniosi. Il tasso di interesse viene inteso come costo della capitalizzazione e non è considerato un
fenomeno monetario, ma un prezzo qualunque sul mercato delle merci.
D = D(r) = C(r) + I(r), D’(r)<0
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Nell’ambito della teoria neoclassica domanda e offerta sono le determinanti dell’equilibrio: la
legge della domanda e dell’offerta è la legge dell’equilibrio, su tutti i mercati e per il sistema nel
complesso. L’analisi dell’equilibrio diventa definitivamente analisi delle relazioni fra domanda e offerta,
come se si trattasse di forze indipendenti e simmetriche:
YS = D(r)
Siccome la domanda complessiva si compone di due parti fondamentali - i beni di consumo e gli
investimenti -, un altro modo di esprimere la condizione di equilibrio è postulare una relazione di
identità fra risparmio (S) e investimenti (I):
YS-C(r) = S(r) = I (r), S’(r)>0
Si tratta allora di vedere se esista un meccanismo in grado di garantire l’uguaglianza fra
risparmio e investimenti in corrispondenza di qualsiasi livello di risparmio. Secondo gli economisti
neoclassici tale meccanismo esiste ed è fornito dai movimenti del tasso di interesse (r). Al diminuire di
r diventa conveniente un maggior volume di investimenti: esiste sempre un livello di r in corrispondenza
del quale il volume degli investimenti è in grado di assorbire qualunque ammontare di risparmio. La
possibilità di suscitare un ammontare di investimenti di qualunque grandezza desiderata garantisce un
volume di domanda di pari ammontare, in conseguenza della quale qualsiasi reddito diviene un reddito
producibile sul mercato, anche il reddito di piena occupazione (Y*). La condizione di equilibrio sul
mercato dei beni implica in modo implicito l’equilibrio sul mercato dei titoli che premiano l’astinenza al
consumo.
Mercato della moneta
Nello schema neoclassico la moneta è un numèraire, pertanto la moneta non influisce sui livelli
di produzione, di occupazione, del salario reale e del tasso di interesse. Si assume che la moneta sia
unicamente desiderata al fine di effettuare scambi. Inoltre essa non rende alcun interesse e quindi non
può entrare in concorrenza con i titoli. Vale pertanto la teoria quantitativa della moneta: la quantità di
moneta in circolazione (M), moltiplicata per il numero medio di volte che circola nell’unità di tempo (v)
eguaglia il valore della produzione scambiata (pY):
Mv = pY
Una volta che la produzione di equilibrio, Y*, sia stata determinata sul mercato dei beni, e
assumendo che la velocità di circolazione della moneta (v) sia una costante istituzionale determinata
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dalle abitudini di pagamento della collettività, le variazioni dell’offerta di moneta (M) si riflettono
unicamente sul livello dei prezzi assoluti (p).
p = Mv/Y
Dunque la moneta è neutrale, non avendo influenza né sul salario reale, né sul tasso di interesse.
Una notevole implicazione di questo assunto è che le decisioni delle banche centrali sullo stock di
moneta non avrebbero alcuna influenza sui livelli di produzione e occupazione.
Il sistema dei prezzi
In questo contesto, il sistema dei prezzi assume per tutti i singoli agenti una funzione
parametrica: nel senso che ciascuno di essi deve assumerli come dati. Il ruolo dei prezzi nella
determinazione dell’equilibrio neoclassico può dunque essere descritto nel modo seguente.
Si supponga che in un certo momento si fissino a caso dei prezzi. Soggetti e imprese li assumono
come dati e vi conformano i propri comportamenti massimizzanti. In conseguenza di tali comportamenti
si formeranno sul mercato offerte e domande di beni e servizi produttivi da parte dei soggetti e delle
imprese; niente assicura, tuttavia, che l’offerta complessiva e la domanda complessiva siano uguali su
tutti i mercati. Lo sarebbero soltanto se i prezzi criés par hazard, per caso (ecco il “caso” neoclassico)
coincidessero con quelli di equilibrio. Se però i prezzi non sono quelli di equilibrio, su alcuni mercati vi
sarà un eccesso di offerta, su altri un eccesso di domanda: cosicché le posizioni di massimo individuali
non saranno compatibili fra loro. Si darà allora una nuova fissazione dei prezzi, tale che saranno minori,
rispetto a quella iniziale, i prezzi nei mercati sui quali vi è un eccesso di offerta, maggiori là dove vi è un
eccesso di domanda. Gli aggiustamenti proseguiranno fin quando offerta e domanda non saranno uguali
su tutti i mercati (tâtonnements). La stabilità è dunque presupposta, e la concorrenza costituisce il
meccanismo che assicura in maniera oggettiva e impersonale, il raggiungimento della configurazione di
equilibrio.
La soluzione teorica, mediante il calcolo matematico, e la soluzione pratica del problema della
determinazione dell’equilibrio, mediante i tâtonnements del mercato, cioè mediante il meccanismo della
concorrenza, vengono a coincidere. Nello schema neoclassico il mercato funziona come una macchina
perfetta, anzi come un calcolatore, direbbe Walras:
Anche praticamente, ci sono dei mercati in cui le vendite e gli acquisti si fanno à la criée per mezzo di agenti, quali agenti di cambio o agenti di commercio, e questi mercati sono proprio quelli meglio organizzati sotto il rapporto della concorrenza. Ma, da un punto di vista teorico, la presenza degli agenti è forse più necessaria di quella degli scambisti stessi? Niente affatto. Questi agenti sono gli esecutori puri e semplici di ordini scritti su dei carnets; se invece di “ gridare i prezzi”, essi dessero questi carnets a un calcolatore, il calcolatore determinerebbe il prezzo di equilibrio non certo altrettanto rapidamente, ma senz’altro più rigorosamente di quanto non avvenga mediante il meccanismo del rialzo e del ribasso. Noi siamo questo calcolatore: le nostre curve di domanda rappresentano gli ordini degli scambisti; ci si dia il tempo necessario e potremmo determinare
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matematicamente i nostri prezzi di equilibrio. [L.Walras, Oeuvres économiques complètes, vol VII, p.315, cit. in B. Ingrao, F. Ranchetti, Il mercato nel pensiero economico, p.279]
La teoria del valore dopo il trionfo dello scientismo
La scientificità o meno del ragionamento economico viene pertanto fatta dipendere dalla sua
formalizzazione matematica, e la teoria del valore viene conseguentemente ridotta a un mero problema
di calcolo: il campo d’indagine dell’economia viene a coincidere col problema della scelta individuale, e
questo viene concepito e formulato come il problema matematico della massimizzazione di una funzione
obiettivo il cui argomento è l’utilità. Ogni individuo è caratterizzato da una differente funzione di utilità,
e dalla soluzione del problema individuale di massimizzazione dell’utilità si ricavano le funzioni
individuali di domanda e offerta, ovvero le quantità di beni che, dati i propri gusti e la propria dotazione
iniziale, ogni soggetto desidera domandare o offrire sul mercato in corrispondenza di ogni possibile
livello dei prezzi dei beni stessi. In tal modo il pensiero economico abbandona l’impostazione classica,
che riconduce il valore delle merci al lavoro che direttamente o indirettamente è stato impiegato per
produrle, e fonda una nuova teoria economica sulla base di una nuova teoria del valore: la teoria del
valore utilità.
Questo stato di cose è in così marcato contrasto con le controversie sulla teoria del valore le quali hanno caratterizzato l’economia politica del secolo scorso, che quasi si crederebbe che da quegli urti di pensiero sia finalmente sprizzata la scintilla di una verità definitiva. Gli scettici potrebbero forse pensare che l’accordo sia dovuto, più che alla convinzione di ciascuno, all’indifferenza che i più sentono oggi di fronte alla teoria del valore; indifferenza giustificata dal fatto che questa, più che ogni altra parte della teoria economica, ha perduto molta della sua importanza diretta per la politica pratica, e specialmente in rapporto a dottrine di cambiamenti sociali, che in altri tempi le era stata data da Ricardo, e poi da Marx, e contro di essi dagli economisti borghesi; essa si è trasformata sempre più in una ‘tecnica del pensiero’ che non fornisce alcun ‘risultato concreto immediatamente applicabile alla pratica’. [P. Sraffa, The Laws of Returns under Competitive
Conditions, in “Economic Journal”, dicembre 1926, trad. it. in P. Sraffa, Saggi, Bologna, 1986, cit. in G. Lunghini, Valori e prezzi, UTET, 1993, pp. 11-12]
Scienza economica e teoria critica
Una critica radicale della teoria economica ortodossa è l’obiettivo comune perseguito sia da
Sraffa che da Keynes, sebbene i due ricorrano a strategie diverse. Con la General Theory of Employment,
Interest and Money (1936) Keynes svela le determinanti effettive del livello di occupazione. Produzione
di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica (1960) di Piero Sraffa, nega
l’effettiva universalità della teoria marginalista del valore e della distribuzione. E’un peccato, ed
un’interessante problema per gli storici del pensiero economico, che queste critiche non abbiano
ottenuto lo stesso successo che sarebbe stato garantito in altre discipline da un simile potere teoretico.
Contro la tesi neoclassica che afferma l’armonia di interessi propria del capitalismo, Sraffa ci offre una
prova definitiva dell’esistenza di un conflitto interno fra salari e profitti. Keynes, d’altro canto, sostiene
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in modo convincente che in un’economia fondata sull’attività imprenditoriale la disoccupazione
rappresenta la normalità. La General Theory di Keynes e le Premesse a una critica della teoria economica
di Sraffa hanno quindi gettato le basi per un’analisi critica del capitalismo contemporaneo. Stando ai
fatti, la General Theory è stata seppellita dalla così detta “sintesi neoclassica” e Produzione di merci
solitamente non è nemmeno menzionata nei libri di testo.
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UNA NOTA SU ETICA E SCIENZA ECONOMICA
Nata come costola della filosofia morale nel vivo del Settecento, l’economia politica ha subito nel corso della storia diverse trasformazioni. Un sapere umano finalizzato innanzitutto a dettar consigli ai sovrani affinché governassero saggiamente e in vista della ricchezza delle nazioni è divenuto col tempo una scienza imperfetta dedita alla allocazione delle risorse scarse per fini alternativi (sintetizzabile nello schema neoclassico che abbiamo appena analizzato)
Una delle più importanti conseguenze di questo processo è lo slittamento della dimensione etica ad una posizione marginale nella riflessione economica.
Nella pratica si pensa alla dimensione etica dei fatti economici a cose fatte, dopo che le scelte politiche sono avvenute, come se si trattasse di una toppa da cucire sugli strappi apparsi dopo che si è cercato di indossare un indumento inappropriati per il proprio corpo.
Nel campo della teoria economica, l’etica – ridotta a teora delle scelte sociali - si studia all’interno della così detta economia del benessere.
Se si apre un testo dedicato alla politica economica o alla scienza delle finanze di questi tempi, ci si imbatterà inevitabilmente in quella branca della disciplina che assume il nome quasi esoterico di economia del benessere. Anche un libro chiaro e coerente come ad esempio il Corso di scienza delle finanze a cura di Paolo Bosi, dopo aver definito l’oggetto della scienza delle finanze “il finanziamento delle attività dello Stato nelle moderne economie di mercato”, dopo aver richiamato la tripartizione delle funzioni statali proposta da Richard Musgrave (allocazione, redistribuzione e stabilizzazione), si trova costretto a costruire un tortuoso passaggio teorico per giustificare la trattazione dell’economia del benessere. Scrive Bosi:
L’importanza della distinzione tra teoria positiva e normativa è così grande in economia che la teoria normativa è diventata una disciplina a sé stante e parallela rispetto alla teoria positiva e la si è chiamata Economia del benessere (Welfare Economics), che si è così affiancata alla teoria dell’Equilibrio economico generale, il paradigma scientifico dominante.
Bosi sostiene che l’economia del benessere presenta un punto di vista diverso rispetto alla teoria dell’equilibrio economico generale (teoria dell’allocazione ottima di risorse date). Esisterebbero delle differenze rilevanti, dal momento che l’economia del benessere si domanda quale sia la configurazione ottimale di un sistema economico con più individui con diversi sistemi di preferenze e diverse dotazioni iniziali di fattori produttivi e di beni, laddove l’equilibrio economico generale sarebbe dominato dall’individualismo metodologico. Eppure – proprio come l’impianto assunto dalla teoria dell’equilibrio economico generale – il centro teorico della moderna economia del benessere è costituito dal nesso che intercorre fra la configurazione posta in essere dalla concorrenza e l’ottimalità (Primo teorema dell’economia del benessere). Anche nello schema dell’equilibrio economico generale il mercato funziona come una macchina perfetta, come un calcolatore. La regola da preservare sarebbe quella del laissez-faire, che sorregge l’ideologia dello Stato minimo. E’ pur vero che l’ottimalità di cui si parla – quella paretiana – è ricondotta all’efficienza e si riconosce che il problema dell’equità (anzitutto distributiva) presuppone altri studi. E’ anche vero che la moderna economia del benessere si pone in antitesi rispetto ad una componente basilare del laissez-faire: l’utilitarismo di tipo benthamiano. Come scrive Federico Caffè nelle sue Lezioni di politica economica:
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Per “ottimo” paretiano si intende una situazione nella quale è impossibile, mediante una diversa
utilizzazione delle risorse produttive o dei beni prodotti, rendere “migliore” la posizione di componenti la collettività considerata, senza rendere nel contempo “peggiore” la posizione anche di un solo componente della collettività stessa. La caratteristica di questa definizione consiste nel rendere possibile l’individuazione di un massimo riferito a una collettività di soggetti, senza richiedere che le soddisfazioni individuali siano: 1) misurabili cardinalmente, 2) confrontabili tra individui diversi e quindi 3) sommabili; presupposti questi che, come si è detto, sono stati abbandonati dalla maggior parte degli economisti. […] In breve, Pareto ci fornisce una definizione precisa di ciò che possa intendersi per miglioramento per un gruppo di soggetti, senza che ciò comporti confronti di soddisfazioni tra i soggetti stessi; confronti che egli ritiene inammissibili.
E’ bene sottolineare (come Caffè non manca di fare nelle sue Lezioni) che l’esigenza che nessuno venga a trovarsi in una posizione peggiore non deriva da considerazioni umanitarie o sociali, ma da ragioni di coerenza logica, cioè dalla necessità di non dovere imbattersi in un confronto tra le utilità dei diversi individui. Sta qui il superamento dell’utilitarismo benthamiano (che Pigou invece accetterà), per abbracciare una logica cardinale – si ottiene così l’ordinamento delle preferenze invece che la misura rigorosa delle utilità, ma non si perviene certamente ad un mondo alternativo a quello proprio dell’equilibrio economico generale. Su questi impianto teorico si cerca di montare la struttura fastidiosa dei fallimenti di mercato, per giustificare in qualche modo l’intervento pubblico. I teoremi fondamentali dell’economia del benessere sembrano infatti assegnare allo Stato il solo compito di garante del mercato concorrenziale (Primo teorema dell’economia del benessere), concedendogli al più di introdurre imposte a somma fissa per spostarsi cautamente lungo la frontiera dei punti di efficienza paretiana (Secondo teorema dell’economia del benessere). Si giunge effettivamente ad un risultato che non può dirsi definitivo poiché, come rileva Napoleoni,
anche dell’equilibrio concorrenziale si deve dunque dire che esso è ottimo relativamente a una certa distribuzione delle risorse tra i soggetti delle risorse produttive; e il criterio paretiano non può assolutamente dire se una certa distribuzione delle risorse sia migliore di un’altra: una decisione a questo riguardo implicherebbe un giudizio non “economico”, alla stregua della definizione di Robbins.
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Riporto di seguito tre brani, che in tre modi diversi riflettono sul problema dei compiti dello Stato e sull’economia del benessere, intesa come quella branca della scienza economica che ha la pretesa di fondare in modo teoricamente ineccepibile le ragioni dell’intervento pubblico. Il primo brano è tratto dall’ Economia del benessere (1932, ma la prima edizione è del 1920) di Arthur Cecil Pigou. Nella Cambridge degli anni Trenta, Pigou, allievo prediletto di Alfred Marshall - uno dei padri della moderna scienza economica tutta intenta a ragionare di domande che incrociano offerte - aveva posto le basi dell’economia del benessere, indagando sui nessi fra benessere economico e benessere non economico.
A prima vista questo programma , sebbene un po’ ambizioso, appare, in ogni caso, legittimo. Eppure le riflessioni sinora svolte mostrano che la proposta di trattare in maniera isolata le cause che interessano soltanto una parte del benessere apre ad un’obiezione seria. Il nostro obiettivo finale è, chiaramente, guardare agli effetti che le diverse cause investigate possono avere sull’intero benessere. Ma non c’è alcuna garanzia che gli effetti prodotti sulla parte del benessere che può essere messa in relazione con l’unità di misura monetaria possano non essere cancellati dagli effetti di tipo contrario messi in relazione con altre parti, o altri aspetti, del benessere. La difficoltà, che deve essere attentamente vagliata, non consiste nel fatto che, dal momento che il
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benessere economico è solamente una parte dell’intero benessere, il benessere cambierà spesso mentre il benessere economico resta lo stesso, così che un dato cambiamento del benessere economico si sincronizzerà raramente con un analogo cambiamento dell’intero benessere. Tutto ciò significa che il benessere economico non costituirà un barometro o un indice del benessere totale. Ma questo, per il nostro scopo, non è importante. Ciò che vorremmo imparare è, non tanto quanto grande sia il benessere, o quanto grande esso è stato, ma quanto la sua grandezza sia influenzata dall’introduzione di cause introdotte solo dal potere degli uomini di Stato o dei privati. Il fallimento del benessere economico in quanto indice del benessere totale non dimostra che lo studio del benessere economico fallirà nel fornire quest’ultima informazione: infatti, dato che l’intero può consistere di molte parti diversificate, un cambiamento che interessa una sola parte non misura mai il cambiamento che interessa l’intero, sebbene il cambiamento che interessa una sola parte possa sempre influire sul cambiamento che interessa l’intero nella sua interezza. Se questa condizione è soddisfatta, l’importanza pratica dello studio economico è pienamente ristabilita. Eppure questo non ci dice quanto il benessere totale, dopo l’introduzione di una causa economica, sarà diverso da ciò che esso era prima; ma ci dirà quanto il benessere totale sarà diverso da quanto esso sarebbe stato se le cause non fossero state introdotte: e questa, e non l’altra, è l’informazione di cui siamo in cerca. L’obiezione reale allora è, non che il benessere economico è un cattivo indice del benessere totale, ma che una causa economica può influire sul benessere non economico così da cancellare l’effetto da essa provocata sul benessere economico. Questa obiezione richiede un’attenta considerazione.2
Il secondo brano è tratto da La fine del laissez faire (1926) di John Maynard Keynes, allievo indisciplinato di Marshall, il quale, sempre a Cambridge, sempre negli stessi anni, sottopone a critica i presupposti filosofici su cui lo stesso Pigou stava costruendo le sue riflessioni (almeno secondo il parere di Keynes).
Liberiamoci dai principi metafisici o generali sui quali, di tempo in tempo, si è basato il laissez faire. Non è vero che sia prescritta una “libertà naturale” per le attività economiche degli individui. Non esiste alcun patto o contratto che conferisca diritti perpetui a coloro che posseggono o a coloro che acquistano. Il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e sociali coincidano sempre; né è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non è una deduzione corretta dai principi di economia che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico; né è vero che l’interesse egoistico sia generalmente illuminato: più spesso gli individui che agiscono separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o troppo deboli anche per raggiungere questi fini. L’esperienza non mostra che gli individui, quando costituiscono un’unità sociale siano sempre di vista meno acuta di quando agiscono separatamente. […] Dobbiamo distinguere fra ciò che il Bentham nella sua dimenticata ma utile definizione, usava chiamare l’agenda e il non-agenda, e dobbiamo far questo senza il presupposto del Bentham che l’interferenza è, al tempo stesso, “generalmente inutile” e “generalmente dannosa”. Forse il compito principale degli economisti in quest’ora è di distinguere di nuovo l’agenda del governo dal non-agenda; ed il còmpito connesso della politica è di escogitare forme di governo, nei limiti della democrazia, che siano in grado di compiere l’agenda.3
Il terzo brano è invece tratto dall’ultimo scritto di Federico Caffè, Umanesimo del Welfare (1986). Federico Caffè amava tanto Pigou, quanto Keynes. Era molto prudente nell’indirizzare a Pigou le critiche sollevate da Keynes. Non amava invece il “processo di progressivo depauperamento del reale
2 A.C Pigou., The Economics of Welfare, Macmillan and Co. London, Fourth edition, 1932. First published: 1920, part 1, chapter 1, ∫ 6. La traduzione è mia su testo tratto da http://www.econlib.org/LIBRARY/NPDBooks/Pigou/pgEW.html (S.L.). 3 J.M. Keynes, The End of Laissez-faire, Hogart Press, London, 1926, ora in The Collected Writings, vol. 9, pp. 272-94, trad. it. di Alberto Campolongo in J.M. Keynes, La fine del laissez-faire e altri scritti
economico-politici, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp.21-44, pp. 37-38.
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e di predominanza (o prevaricazione) del formale” che caratterizza la moderna economia del benessere.
Chi confronti la ricchezza propositiva della trattazione di Pigou con alcune delle indagini più recenti vi trova conferma della perdita di rilevanza che si accompagna, con notoria frequenza, all’accrescimento de rigore formale. Ma, mentre questo processo di progressivo depauperamento del reale e di predominanza (o prevaricazione) del formale avveniva all’interno degli stessi sviluppi dell’economia del benessere (nei suoi due indirizzi riconducibili, per comodità, a Pigou e a Pareto), una svolta del tutto deformante si verificava con il collegamento del benessere ai problemi della scelta pubblica e, in senso ancora più ampio, della democrazia politica. [… L]’analisi del potere nelle società complesse, con la prestigiosa suggestione semantica dell’«interazione sistemica» ha preso a tal punto il sopravvento sui criteri ispiratori iniziali dell’economia del benessere, da rendere necessaria un’opera di riappropriazione delle sue finalità originarie. Essa deve compiersi senza il timore di incorrere in possibili addebiti di economicismo: vi sono molti modi di analizzare la realtà sociale e concentrare l’attenzione su uno di essi non significa disconoscere l’interesse degli altri. Ma può significare avvalersi di un metodo, anziché di un coacervo di spezzoni di programmi di ricerca utilizzati anche brillantemente, senza tuttavia essere amalgamati. La consapevolezza «dei limiti delle nostre capacità a formare una rappresentazione coerente e unificata dell’intero mondo economico» costituisce un elemento di forza, non di debolezza, della indagine economica. E’ un atteggiamento che pone al riparo da fragili certezze (l’inefficienza dello Stato, la forza creativa del mercato, il parassitismo arrogante della burocrazia); ma non attenua l’impegno per un miglioramento sociale inteso non come strategica acquisizione del consenso, ma come sforzo di attenuazione delle molteplici forme di emarginazione degli esseri umani.4
Federico Caffè era convinto che il benessere sociale dovesse prima di tutto essere osservato – da cittadino prima che da economista - prestando attenzione ai singoli incontri che si fanno ogni giorno. Mercoledì 15 aprile 1987 Federico Caffè, professore di politica economica presso l’Università di Roma 1, maestro di tanti studiosi di economia pubblica e stimato (nonché scomodo) interlocutore delle principali istituzioni economiche e politiche italiane, uscì dalla sua casa nella notte e scomparve. Aveva 73 anni. Da allora ne sono passati altri 20. L’economia del benessere con sui si apre la maggior parte dei manuali di Scienza delle finanze e di Politica Economica appare sempre più distante dalle intenzioni Pigou, e disinteressata alle critiche di Keynes.
4 F. Caffè, Umanesimo del Welfare, in «MicroMega», n. 1 (1986), pp. 116-27, ora in F. Caffè, La solitudine
del riformista, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pp. 244-260, pp. 248-249.
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LE CONTRADDIZIONI DEI SISTEMI ELETTORALI5
Piergiorio Odifreddi (4.12.2013)
La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale basata sul premio di maggioranza e sulla mancanza di preferenze. D’altronde, i principi che animano la legge del 2005, denominata metaforicamente Porcellum, sono gli stessi che animavano quella del 1953, denominata realisticamente Legge Truffa. In entrambi i casi, infatti, si violava uno dei principi fondamentali della democrazia: il fatto, cioè, che la rappresentanza dovrebbe essere proporzionale ai voti ottenuti. E si assegnavano a uno o più partiti più seggi di quanto loro spettassero.
Nel passato il premio di maggioranza è stato presentato come un prezzo da pagare per la governabilità: cosa che, ovviamente, sarebbe molto più facilmente e definitivamente raggiungibile attraverso la dittatura. Ed è proprio la tensione fra proporzionalità e dittatura a pervadere gli svariati teoremi di limitatezza della democrazia.
Il primo, e più famoso, di questi teoremi è quello dimostrato da Kenneth Arrow nel 1951 in Scelte sociali e valori individuali, che lo portò al premio Nobel per l’economia nel 1972. Egli enunciò tre principi basilari, intuitivi e condivisi, della democrazia: la libertà di scelta (gli elettori possono classificare i candidati nell’ordine di preferenza che vogliono), la dipendenza dal voto (il risultato di una votazione dev’essere determinato soltanto dai voti espressi dai votanti), e l’unanimità (un candidato che prenda tutti i voti deve vincere).
Arrow si domandò poi se esistesse qualche sistema elettorale che fosse in grado di evitare il cosiddetto paradosso di Condorcet: cioè, il fatto che nei sistemi elettorali soliti si possono creare situazioni circolari in cui i vari candidati vincono uno sull’altro, a seconda dell’ordine in cui si effettuano le votazioni. Cosa ovviamente non accettabile, visto che in tal caso siamo in presenza di “leggi truffa”, in cui il vincitore delle elezioni viene determinato dal sistema elettorale, invece che dai soli voti degli elettori.
Purtroppo, la risposta alla domanda di Arrow è negativa: si può infatti dimostrare matematicamente che esiste un unico sistema che soddisfi i suoi tre requisiti, ed è la dittatura (nel senso che deve esistere qualcuno. il cui singolo voto determina il risultato di qualunque votazione). E’ poiché la dittatura non è ovviamente un sistema accettabile, questo significa che di sistemi democratici non ne esiste nessuno.
Il che spiega perché le discussioni sulle leggi elettorali siano così accademiche e bizantine. Si cerca (o si finge di cercare) l’Araba Fenice, cioè un inesistente sistema democratico, senza sapere (o fingendo di non sapere) che ci si deve invece accontentare di “porcate” o “truffe”, che sono due aspetti complementari (per chi le fa e chi le subisce) di una stessa medaglia.
5 http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2013/12/04/le-contraddizioni-dei-sistemi-elettorali/comment-page-2/
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ESTRATTO DA
SCELTE SOCIALI E VALORI INDIVIDUALI (1951)
di Kenneth J. Arrow
In una democrazia capitalista le scelte sociali sono fatte usando essenzialmente due metodi: la votazione, di solito usata nel caso di decisioni “politiche”, e il meccanismo di mercato, adottato nel caso di decisioni “economiche”. Nelle nuove democrazie con sistemi misti, Gran Bretagna, Francia e Scandinavia, si ritrovano gli stessi due metodi, ebbene il metodo della votazione e le decisioni basate direttamente o indirettamente su di esso siano più diffuse e il meccanismo di mercato sia invece meno esteso. In altre parti del mondo, come pure nelle piccole unità sociali all’interno delle democrazie, le decisioni sociali a volte vengono prese da singole persone o da piccoli gruppi, mentre altre volte (sempre più raramente nel mondo moderno) vengono prese sulla base di un ampio insieme di regole tradizionali che stabiliscono quali sono le scelte sociali da adottare in ogni situazione, ad esempio, un codice religioso. La struttura formale degli ultimi due tipi di scelta sociale, la dittatura e la convenzione, è caratterizzata da una certa determinatezza assente nella votazione e nel meccanismo di mercato. In una dittatura perfetta c’è una sola volontà che sceglie, in una società ideale retta da un sistema di convenzioni vi è solo una volontà divina o forse si assume che vi sia una volontà generale di tutti gli individui interessati alle decisioni sociali; in ambedue i casi, quindi, non possono sorgere conflitti tra volontà individuali. I metodi della votazione e del meccanismo di mercato, d’altro canto, servono ad amalgamare i gusti di molti individui, in modo da produrre una scelta sociale. I metodi della dittatura e della convenzione sono, o possono essere razionali, nel senso che ogni individuo può fare delle scelte razionali. E’ possibile che anche metodi collettivi di scelta, che tengono in considerazione le volontà di molti individui, possano essere ugualmente razionali? Nel presente studio ci occuperemo solo degli aspetti formali della risposta a questa domanda. Vale a dire ci domanderemo se è formalmente possibile costruire una procedura, che soddisfi certe condizioni naturali, per passare da un insieme di gusti individuali noti ad un modello di decisione sociale.
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LA CRITICA DI LORD KEYNES
Nella sua opera più famosa, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta,
apparsa nel 1936, Keynes esamina due punti cruciali della costruzione neoclassica: la determinazione
del livello dell’occupazione e la determinazione del tasso di interesse.
Per quanto riguarda il livello dell’occupazione, Keynes mostra come esso non sia determinato
nel mercato del lavoro dall’operare congiunto di due funzioni, una di domanda e una di offerta, così come
afferma la teoria neoclassica, bensì da altre forze che agiscono su altri mercati (mercati della moneta,
dei capitali, dei beni), dei quali si deve tener necessariamente conto (superando così il metodo
neoclassico del ceteris paribus). In particolare non vi sarebbe necessariamente una relazione inversa fra
il salario e l’occupazione: una diminuzione del salario potrebbe anche non condurre a un aumento
dell’occupazione. Per quanto riguarda il tasso di interesse, Keynes mostra come esso, a differenza di
quanto affermato dalla teoria neoclassica, non sia il prezzo che equilibra domanda e offerta di beni
capitali, cioè investimenti e risparmi in un dato mercato. Per spiegare la determinazione di questo
prezzo particolare si dovrebbe invece far riferimento a elementi diversi dal mero interagire delle forze
di domanda e offerta: in particolare, bisogna riferirsi alla preferenza per la liquidità dei soggetti che
operano in un mondo e in una storia caratterizzati dall’incertezza.
Il problema diventa allora quello di determinare che cosa determini gli imprenditori a fare quel
che fanno, posto che la Teoria generale si può ridurre a questa proposizione: l’occupazione è quella che
i capitalisti decidono di dare, secondo le loro aspettative. Secondo lo stesso Keynes, “la teoria si può
riassumere dicendo che, data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione
complessiva dipende dall’ammontare dell’investimento”.
La psicologia della gente
Al centro del ragionamento di Keynes sta l’idea che noi, nella realtà, abbiamo soltanto una
percezione molto vaga delle conseguenze non immediate dei nostri atti. La nostra conoscenza, in
generale e anche per quanto riguarda le decisioni economiche più importanti, è una ‘conoscenza incerta’.
Il significato in cui Keynes usa questo termine è quello per cui si può dire che sono incerti la prospettiva
di un’altra guerra in Europa, o il prezzo del rame e del tasso di interesse di qui a vent’anni, o
l’obsolescenza di una nuova invenzione, o la posizione dei proprietari di ricchezza privata nel sistema
sociale tra cinquant’anni: “Su queste cose non c’è alcuna base scientifica su cui fondare un qualsivoglia
calcolo probabilistico. Noi semplicemente non sappiamo”. Anche se in condizioni di conoscenza incerta,
tuttavia, dovremo prendere delle decisioni, e ciò faremo rimuovendo l’esperienza passata e dunque
sottovalutando la possibilità di mutamenti futuri; oppure fingendoci che lo stato attuale dell’economia
sia basato su una corretta ponderazione delle prospettive future (che è l’assunto epistemologicamente
ingenuo della moderna teoria delle “aspettative razionali”); oppure ammettendo che il nostro giudizio
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individuale non vale nulla, e che perciò ci converrà ricorrere al giudizio del resto del mondo, che forse
è meglio informato.
La psicologia di una società di individui, ciascuno dei quali cerca di copiare gli altri, conduce a
ciò che Keynes definisce un giudizio ‘convenzionale’. Una siffatta concezione del futuro, essendo basata
su fondamenta inconsistenti, “è soggetta a improvvisi e violenti mutamenti. La pratica della calma e della
immobilità, della certezza e della sicurezza, improvvisamente viene meno. Nuovi timori e speranze,
senza preavviso, vengono a influenzare il comportamento umano. Le forze della delusione potrebbero
improvvisamente imporre una nuova convenzione. Tutte queste piacevoli, elaborate tecniche fatte per
una sala delle riunioni lussuosamente arredata e per un mercato appropriatamente regolato possono
crollare da un momento all’altro. In ogni momento, vaghi timori panici e ugualmente vaghe e
ingiustificate speranze non sono del tutto acquietati e giacciono solo di poco sotto la superficie”. Il fatto
che la nostra conoscenza sia incerta ha dunque come conseguenza principale la fragilità, la precarietà
dell’equilibrio del sistema.
L’economia capitalistica come economia monetaria
Per Keynes l’analisi tradizionale dell’equilibrio capitalistico è difettosa in quanto non è riuscita
a isolare correttamente le variabili indipendenti del sistema: risparmio e investimenti non sono le
determinanti del sistema, bensì i risultati gemelli delle determinanti del sistema, che sono la
propensione al consumo, la scheda dell’efficienza marginale del capitale e il saggio di interesse. Queste
determinanti sono esse stesse complesse e ciascuna è suscettibile di essere influenzata da cambiamenti
prospettivi delle altre. Le variabili dipendenti sono il volume dell’occupazione e il reddito nazionale
(misurato in unità di salario).
Per Keynes l’equilibrio capitalistico non solo è possibile, ma è anche normale, nel senso che un
qualche equilibrio si dà sempre. Tuttavia normalmente esso è iniquo. E’ perfettamente possibile che la
domanda (effettiva) uguagli il reddito, ma normalmente l’uguaglianza fra domanda e offerta sul mercato
della moneta e sul mercato dei beni si accompagna all’esistenza di disoccupazione involontaria (il
marxiano esercito industriale di riserva). Un’eventuale diminuzione del salario, comunque ottenuta, non
è un rimedio alla disoccupazione, poiché non determina necessariamente una modifica delle aspettative
e perciò delle decisioni dei capitalisti, dalle quali dipende il volume dell’occupazione.
Nella determinazione dell’equilibrio capitalistico i prezzi sono del tutto secondari rispetto
all’investimento e alla moneta; mentre per la teoria ortodossa è vero il contrario. Per Keynes (come per
Marx) l’equilibrio classico (e per Keynes anche l’equilibrio neoclassico) - un equilibrio che esiste come
unico, stabile (e ottimo in un qualche senso) - non è affatto il caso naturale, necessario e generale. Tutta
l’opera di Lord Keynes intende dimostrare che i “postulati della teoria classica sono applicabili soltanto
a un caso speciale e non al caso generale, alla situazione che essa assume essere un punto limite delle
possibili soluzioni di equilibrio. Inoltre, le caratteristiche del caso speciale presupposto dalla teoria
classica risultano non essere quelle proprie alla società economica nella quale effettivamente viviamo,
26
con la conseguenza che il suo insegnamento è fuorviante e disastroso se si tenta di applicarlo ai fatti
dell’esperienza.”
In questo quadro assume un’importanza centrale la visione keynesiana dell’equilibrio
capitalistico come equilibrio monetario: “l’importanza della moneta scaturisce essenzialmente dal fatto
che essa costituisce un legame fra presente e futuro”. A causa di questa proprietà della moneta, gli effetti
di aspettative mutevoli circa il futuro delle attività correnti non possono essere discussi altro che in
termini monetari. Qui Keynes concede che a Marx si deve un’osservazione feconda: “ La natura della
produzione nel mondo reale non è, come gli economisti sembrano spesso supporre, un caso del tipo
Merce-Denaro-Merce, cioè inteso a scambiare una merce contro denaro al fine di ottenere un’altra
merce. Questo può infatti essere la prospettiva del singolo consumatore, ma certamente non è quella del
mondo degli affari: che dal denaro si separa in cambio di una merce soltanto al fine di ottenere più
denaro, secondo un processo del tipo Denaro-Merce-Denaro”, cioè un processo inteso a ottenere più
denaro per chi lo muove anziché al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. Keynes prende subito
le distanze da Marx, sostenendo che di tale osservazione Marx farà un uso altamente illogico. Il punto di
partenza, tuttavia è lo stesso: noi non viviamo in una real-exchange economy, bensì in una monetary
economy of production.
Moneta e saggio di interesse
La domanda totale di moneta (L) può essere considerata la somma di due componenti: la prima,
dovuta ai moventi delle transazioni e a quello precauzionale, dipende dal livello del reddito [L1(Y)]; la
seconda, dovuta al movente speculativo dipende dal livello del tasso di interesse [L2(i)].
L = L1(Y) + L2(i)
L’intera domanda di moneta risulta composta di una parte che è dunque insensibile rispetto alle
variazioni del tasso di interesse, e di una parte decrescente al crescere del tasso di interesse:
L’offerta di moneta può essere invece considerata rigida rispetto al tasso di interesse, in quanto
viene discrezionalmente decisa dalla Banca Centrale, in funzione di determinati obiettivi di politica
monetaria (graficamente essa sarà così rappresentata da una linea verticale).
27
Ora il tasso di interesse viene determinato a quel livello che rende eguale la domanda e l’offerta
di moneta (cioè assicura l’equilibrio di mercato). Se per esempio l’offerta è pari a M1, il tasso
corrispondente sarà i1 e la quantità di moneta richiesta a scopi speculativi sarà pari alla differenza M1-
L1. Se la Banca Centrale aumenta l’offerta fino al livello M2 vi sarà un ribasso del tasso fino a i2, ma questo
effetto non può essere ottenuto con qualsiasi incremento della liquidità. Infatti se il tasso di interesse si
trova già al livello i3, non sarà più possibile scendere al di sotto di esso a causa della “trappola della
liquidità”.
L’opinione di Keynes è che il tasso di interesse è determinato non da fenomeni reali (come la
domanda di investimenti o l’offerta di risparmio), bensì da grandezze puramente monetarie, cioè dalla
domanda e dall’offerta di moneta. Si tratta perciò di spiegare le circostanze che influenzano lo stato del
mercato monetario. La relazione tra domanda di moneta e tasso di interesse dipende dal fatto che esiste
un movente speculativo, cioè il desiderio di detenere risorse in forma liquida allo scopo di trarre
vantaggio dal mercato (in particolare dal mercato dei titoli, lucrando una differenza tra il prezzo
corrente ed il prezzo futuro). L’incertezza circa il corso futuro del saggio di interesse è, secondo Keynes,
“l’unica spiegazione intelligibile” della domanda speculativa, che dipende dal rapporto tra il saggio
corrente e le aspettative circa un saggio “normale” o “sicuro”. Se i è inferiore al normale, gli operatori,
attendendosi generalmente un suo aumento e una futura diminuzione delle quotazioni, preferiranno
detenere moneta anziché titoli, e la domanda speculativa sarà elevata. Infatti la domanda speculativa
varia inversamente rispetto al tasso di interesse. A tassi di interesse molto elevati essa si annulla, poiché
tutti gli operatori, attendendosi un ribasso verso un livello “normale” di i, temono che la perdita in conto
interessi sia così forte da non essere compensata dal guadagno in conto capitale dovuto all’aumento
della quotazione di mercato. Per contro vi sarà un livello molto basso di i in corrispondenza del quale
l’attesa del suo rialzo e di una diminuzione del valore di mercato dei titoli è talmente generale (se non
unanime) che tutti vogliono vendere i titoli stessi in cambio di moneta speculativa, anche se la loro
quotazione è elevata.
Il saggio di interesse, in questo contesto, non è una ricompensa per il risparmio o l’astinenza
come tali; infatti se un uomo tesaurizza i suoi risparmi in denaro, non percepisce alcun interesse benché
risparmi esattamente tanto quanto prima: il saggio di interesse è invece la ricompensa all’abbandono
della liquidità per un periodo determinato. Esso misura la riluttanza di coloro che possiedono la moneta
ad abbandonare il loro controllo liquido su di essa; esso non è il “prezzo” che porta all’equilibrio la
domanda di mezzi da investire con la disposizione a astenersi dal consumo presente; è il prezzo che
equilibra il desiderio di tenere ricchezza in forma di denaro con la quantità di denaro disponibile. Questa
preferenza per la liquidità richiede però una spiegazione: “perché mai vi dovrebbe essere qualcuno, al
di fuori delle mura di un manicomio, che desideri usare la moneta come riserva di ricchezza?” La
spiegazione keynesiana è che, per motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio di
tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre
capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo nostro atteggiamento verso la
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moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso opera, per così dire, a un livello più profondo delle
nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più superficiali, più instabili convenzoni si sono
indebolite: “il possesso della moneta culla la nostra inquietudine, e il premio che noi pretendiamo per
dividerci da essa è la misura della nostra inquietudine”.
Capitale, investimenti e animal spirits
Mentre la teoria neoclassica determina il valore dello stock di capitale sulla base del tasso di
interesse che risulta dal confronto tra domanda e offerta dei servizi dei beni capitali, per Keynes
l’efficienza marginale del capitale è il tasso di profitto atteso, ciò che l’imprenditore - mosso dai suoi
animal spirits e in condizioni di conoscenza incerta - si aspetta di ottenere, e non ciò che egli otterrà
davvero: l’efficienza marginale del capitale va definita in termini dell’aspettativa di reddito e del prezzo
corrente dell’offerta del capitale: “essa dipende dal saggio atteso di rendimento in termini di moneta, se
questa venisse investita in un dato capitale di nuova produzione; non dal risultato storico di ciò che un
investimento ha reso rispetto al suo costo originario se si guarda indietro a ciò che ha fruttato quando
la sua vita è giunta al termine”.
L’ammontare effettivo dell’investimento corrente dipenderà da un confronto tra l’efficienza
marginale del capitale e il saggio di interesse corrente, poiché si realizzeranno soltanto quei progetti di
investimento per i quali l’efficienza marginale è maggiore, o almeno uguale, al saggio di interesse
corrente. Da ciò deriva che l’incentivo a investire dipende in parte dall’efficienza marginale del capitale
(dalle aspettative degli imprenditori), e in parte dal saggio di interesse. Per Keynes il rendimento del
capitale dipende dal fatto che esso è (artificialmente) scarso. Ciò è sufficiente per consigliare di non dire
che il capitale è produttivo: è assai meglio dire che esso fornisce, nel corso della sua vita, un reddito
maggiore del suo costo originario. L’unica ragione per la quale un bene capitale offre una prospettiva di
rendere, durante la sua vita, servizi aventi un valore complessivo superiore al suo prezzo di offerta
iniziale è perché esso è scarso; e viene mantenuto scarso a causa della concorrenza del saggio di
interesse: se il capitale diviene meno scarso, il suo rendimento rispetto al costo diminuirà, senza che
diminuisca la sua produttività fisica.
Equilibrio capitalistico e disoccupazione
La teoria keynesiana, come si è detto, si può riassumere così: “data la psicologia della gente, il
livello della produzione e dell’occupazione complessive dipende dall’ammontare dell’investimento”. Più
esaurientemente, la produzione totale dipende dalla propensione al tesoreggiamento, da come la
politica monetaria influenza la quantità di moneta, dallo stato di fiducia relativamente al rendimento
futuro dei beni capitali, dalla propensione alla spesa, e dai fattori sociali che influenzano il livello del
salario monetario. Di questi diversi fattori sono però quelli che determinano il tasso dell’investimento,
quelli dei quali ci si può fidare di meno, perché sono quelli che sono influenzati dalle nostre previsioni
sul futuro del quale sappiamo così poco.
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Quando l’occupazione cresce, il reddito reale aggregato cresce. La psicologia della collettività è
tale che quando il reddito reale aggregato cresce, il consumo cresce, ma non quanto il reddito. Di
conseguenza i datori di lavoro avrebbero delle perdite se destinassero l’intero aumento di occupazione
alla soddisfazione dell’aumento nella domanda per il consumo immediato. Così, per giustificare ogni
dato ammontare di occupazione vi deve essere un ammontare di investimento corrente sufficiente ad
assorbire l’eccesso della produzione totale rispetto a quanto la collettività sceglie di consumare quando
l’occupazione è al livello dato. Se non vi fosse questo ammontare di investimento, i ricavi degli
imprenditori sarebbero minori di quanto occorre per indurli ad offrire quel dato ammontare di
occupazione. Ne segue perciò che, data quella che chiameremo la propensione al consumo della
collettività, il livello di equilibrio dell’occupazione, cioè il livello al quale non vi è alcun motivo perché i
datori di lavoro nel complesso espandano o contraggano l’occupazione, dipenderà dall’investimento
corrente.
L’ammontare di investimento corrente, a sua volta, dipenderà da quello che chiameremo lo
stimolo a investire; e lo stimolo a investire si vedrà che dipende dalla relazione fra la scheda di efficienza
marginale del capitale e il complesso dei tassi di interesse su prestiti di varie scadenza e rischi. Così, data
la propensione al consumo e il saggio di nuovo investimento, vi sarà un solo livello di occupazione
compatibile con l’equilibrio; poiché qualsiasi altro livello condurrebbe a una disuguaglianza fra il prezzo
di offerta aggregata della produzione nel complesso e il suo prezzo di domanda aggregata. Questo livello
non può essere maggiore della piena occupazione, cioè il salario reale non può essere minore della
disutilità marginale del lavoro. Tuttavia non vi è alcuna ragione in generale per aspettarsi che esso sia
uguale alla piena occupazione. La domanda effettiva associata alla piena occupazione è un caso speciale,
che si realizza soltanto quando la propensione al consumo e lo stimolo a investire stanno fra loro in una
relazione particolare. Questa relazione particolare, che corrisponde ai presupposti della teoria classica,
è in un certo senso una relazione di ottimo. Tuttavia può esistere soltanto quando, per caso o per disegno
deliberato, l’investimento corrente fornisce un ammontare di domanda giusto uguale all’eccesso del
prezzo di offerta aggregata della produzione corrispondente alla piena occupazione, rispetto a quanto
la collettività sceglierà di spendere in consumi quando è pienamente occupata.
Nella teoria classica (e neoclassica) si suppone invece che la domanda effettiva assuma sempre
un valore uguale al prezzo di offerta aggregato, per qualsiasi ammontare di occupazione. Ciò è come dire
che la domanda effettiva, anziché avere un unico valore di equilibrio, è un serie infinita di valori tutti
ugualmente ammissibili; cosicché il volume dell’occupazione è in un equilibrio neutrale per tutti i valori
dell’occupazione stessa, fuorché per il suo valore massimo: la concorrenza fra gli imprenditori spingerà
il volume dell’occupazione verso tale valore massimo, che è l’unico punto di equilibrio stabile. Per
Keynes, al contrario, in ogni situazione data vi è un unico livello di occupazione compatibile con
l’equilibrio, e tale equilibrio è stabile anche se l’occupazione non è piena. A ciò basta che la domanda
aggregata sia uguale all’offerta aggregata (e che in presenza di variazioni negli investimenti si abbia una
variazione nel reddito commisurata al moltiplicatore).
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Questa analisi ci fornisce, secondo Keynes, una spiegazione del paradosso della povertà nel bel
mezzo dell’abbondanza:
E’ caratteristica saliente del sistema economico in cui viviamo che, mentre è soggetto a fluttuazioni severe per quanto riguarda la produzione e l’occupazione, esso non è violentemente instabile. In effetti esso sembra capace di permanere in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso complesso [...]. Una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale.
Lo schema keynesiano
A differenza di un modello di equilibrio economico generale, il ragionamento di Keynes parte
dall’idea che i mercati non siano tra loro indipendenti.
Se analizziamo le condizioni di equilibrio
I(i) = S(Y)
M = L(i, Y)
vediamo che nessuna di esse è in grado di realizzarsi per le variazioni di una sola variabile. Il mercato
della moneta esercita un effetto sul mercato delle merci, attraverso l’influenza del tasso di interesse sugli
investimenti, ed il mercato delle merci, determinando il livello di Y, esercita un effetto sul mercato della
moneta, attraverso la domanda per transazioni.
L’ordine causale delle relazioni keynesiane si presenta allora nel modo seguente. Innanzitutto
occorre considerare i fattori che determinano il livello della domanda effettiva e degli investimenti: le
aspettative (E) che possiamo assumere come esogene, ed il livello del tasso di interesse (i) che dipende,
data la preferenza della liquidità, dall’offerta di moneta (M). La domanda effettiva determina il livello
del reddito (Y), e quindi quello del risparmio (S = Y-C) che serve a finanziare la domanda autonoma
costituita dagli investimenti (I). In un certo senso il mercato della moneta precede nell’ordine causale il
mercato delle merci.
Tale ordine può essere schematizzato come segue:
E
E I Y N
i
M
Il mercato della moneta dipende dallo stato delle aspettative (E), che influenza la forma e la
posizione della domanda di moneta L(i), nonché della moneta in circolazione (M). Questo insieme di
circostanze determina il livello del tasso di interesse (i):
E
i
M
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L’ammontare degli investimenti (I) che corrispondono a un certo tasso di interesse, secondo una
domanda di investimenti I(i), dipende a sua volta dalle aspettative:
E
I
i
Il volume degli investimenti insieme all’ammontare dei consumi, dipendenti dalla propensione
al consumo della collettività, determina il livello del reddito:
Y1 rappresenta il reddito di “equilibrio”, dato il livello degli investimenti. Ad esso corrisponde un
certo livello di occupazione.
Si noti che l’equilibrio sul mercato della moneta e sul mercato dei beni (anche se questo è in
equilibrio nel senso particolare di eguaglianza ex- post, ma non tra grandezze decise ex-ante), si realizza
senza che ciò implichi necessariamente equilibrio sul mercato del lavoro. Infatti nel grafico
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l’occupazione corrispondente al reddito di “equilibrio”Y1 è inferiore al livello di pieno impiego N*. Per
Keynes il mercato del lavoro non può essere descritto come mercato tendente all’equilibrio, in virtù di
una domanda e di un’offerta in funzione di una stessa variabile. L’unica condizione che Keynes introduce
è che i salari monetari non possono essere inferiore al livello corrente w0, cioè:
w ≥ w0
In ciò non è implicita alcuna idea di equilibrio inteso come eguaglianza fra domanda e offerta.
Ne consegue una differenza essenziale con il modello neoclassico: Keynes non ipotizza il pieno impiego
della capacità produttiva né che il livello di occupazione sia quello di pieno impiego.
Il modello di Hicks: IS-LM
Nel 1937, un anno dopo la Teoria generale, J. Hicks pubblica un articolo (Keynes e i classici:
suggerimento di una interpretazione) che ancora oggi, nei manuali, costituisce la vulgata lectio della
stessa Teoria generale. Di una teoria come quella keynesiana, in cui tanto peso hanno le ‘aspettattive’, si
può pensare quello che si vuole: anche autori non neoclassici manifestano un pregiudizio scientista nei
confronti del concetto keynesiano di ‘aspettative’. Ciò che importa qui è che il modello di Hicks non coglie
la gerarchia concettuale tra gli elementi costitutivi della Teoria generale. Hicks, nel suo feroce attacco a
Keynes, sembra seguire alla lettera un suggerimento di Edgeworth: “l’uso di equazioni simultanee o di
curve intersecantesi agevola la comprensione della marshalliana ‘simmetria fondamentale’ tra le forze
della domanda e dell’offerta; mentre i littérateurs si perdono in dispute verbose su quale dei due fattori
‘regoli’ o ‘determini’ il valore”. Keynes è un littérateur soltanto in quanto usa il linguaggio ordinario (ai
suoi fini più ricco della forma matematica), e però non si perde affatto in dispute verbose quando scrive
che “invece di essere l’efficienza marginale del capitale a determinare il tasso di interesse, è piuttosto
vero che è il tasso di interesse a determinare l’efficienza marginale del capitale”. Per arrivare a risultati
definiti, Hicks cancella le aspettative dallo schema analitico della Teoria generale, fingendo di potere
trattare in termini di equazioni simultanee il processo di cui si occupa Keynes, un processo in cui vi è un
prima e un dopo.
Riducendo il complesso e ben ordinato ragionamento keynesiano alle tre equazioni che
definiscono la condizione di equilibrio sul mercato della moneta, la domanda per investimenti, e la
condizione di equilibrio tra investimenti e risparmio, Hicks può scrivere che
Il reddito e il tasso di interesse sono ora determinati insieme nel punto di intersezione tra le curve LL e IS. Essi sono determinati simultaneamente, proprio come prezzo e prodotto sono determinati simultaneamente nella moderna teoria della domanda e dell’offerta. In effetti, l’innovazione keynesiana è strettamente parallela, a questo riguardo, all’innovazione dei marginalisti. La teoria quantitativa tenta di determinare il reddito senza l’interesse, proprio come la teoria del valore lavoro tentava di determinare il prezzo senza il prodotto. Entrambe devono far posto a una teoria che riconosca un maggior grado di interdipendenza.
L’introduzione di questo “maggior grado di interdipendenza” consente a Hicks di sostenere che
l’unica vera innovazione keynesiana, per quanto riguarda le caratteristiche dell’equilibrio del sistema
economico, si ha quando l’intersezione tra le due curve si dà in corrispondenza di quella zona di bonaccia
che usualmente viene definita ‘trappola della liquidità’. Dunque la Teoria generale non sarebbe affatto
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generale: essa sarebbe invece una teoria speciale, sarebbe “l’economica della depressione”. Secondo
Hicks, tuttavia, la Teoria generale può essere generalizzata introducendo, “per ragioni di eleganza
matematica”, reddito e tasso di interesse come argomento di tutte le equazioni, compresa quella della
domanda per investimenti (e ciò “anche se si deve confessare che l’effetto del reddito sull’efficienza
marginale del capitale sia capriccioso o irregolare”). Quando la si generalizzi in questo modo, secondo
Hicks, “la teoria di Keynes comincia ad assomigliare parecchio a quella di Wicksell, e ciò non sorprende”.
La Teoria generale è invece la teoria generale di una particolare configurazione del sistema
capitalistico. Proprio per questo lo schema logico keynesiano è caratterizzato da un ordine causale
preciso e da un’interazione continua fra parte monetaria e parte reale che il modello IS-LM riconduce
forzatamente alla statica comparata. Se si volesse rendere il modello di Hicks almeno un po’ più
rappresentativo dell’idea centrale di Keynes, occorrerebbe introdurre le aspettative (e non per ragioni
di eleganza matematica) come argomento della funzione di domanda per investimenti e della funzione
di domanda di moneta per il motivo speculativo. Quando si introduca una nuova variabile, la ragione
matematica vorrebbe che si aggiungesse un’altra equazione. Tuttavia nessuno riuscirà mai a catturare
in una equazione gli animal spirits. Ma anche se ciò fosse possibile, allora le due funzioni non sarebbero
indipendenti e le consuete operazioni di statica comparata sarebbero destituite di fondamento. Nella
sua risposta a Hicks, Keynes fu prudente; mezzo secolo dopo Hicks prese le distanze dal proprio articolo
del 1937. Però i giochi erano fatti: ciò che i manuali raccontano della Teoria generale, è soltanto quanto
ne tradisce la forma ridotta in cui consiste il modello di Hicks.
Attualità di Keynes
L’opinione comune circa le cosiddette ‘politiche keynesiane’ è che esse consistano in qualche
generica forma di spesa pubblica, intesa a innalzare la domanda effettiva a un livello più alto di quello
che altrimenti si avrebbe con i soli consumi e investimenti privati, a un livello possibilmente pari a quello
che comporta la piena occupazione. A questa interpretazione spuria della lezione keynesiana hanno
contribuito il keynesismo bastardo (nel senso di Joan Robinson, di riduzione della Teoria generale a caso
particolare della teoria neoclassica dell’equilibrio economico generale), che riduce la ricetta keynesiana
a un rilancio della domanda effettiva accompagnato da un taglio dei salari; e il keynesismo criminale
(secondo la definizione di Marcello De Cecco), di cui il nostro paese ha avuto lunga e rovinosa esperienza.
In Italia John Maynard Keynes ha spesso suscitato forti antipatie, a destra come a sinistra. A sinistra,
quasi sempre per ignoranza. A destra per ragioni più serie. Keynes, probabilmente, non se ne sarebbe
meravigliato: “Queste franche conclusioni di un economista possono essere interpretate in un senso sia
conservatore che rivoluzionario. [...] Così credo proprio di essere stato capace, una volta tanto, di
accontentare tutti”.
Il pensiero di Keynes è realmente pericoloso, poiché comporta una riflessione e una scommessa
sui fini, anziché sui mezzi, che la politica può e deve darsi in questo mondo. Questo mondo, “il
capitalismo decadente, internazionale ma individualistico”, a Keynes non piace: “Non è intelligente, né
bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo
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cominciando a detestarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa mettere al suo posto, siamo
estremamente perplessi”. Per quanto perplesso, anzi proprio per questo, Keynes non è un conservatore.
Infatti esclude che i difetti di questo mondo possano essere emendati applicando la dottrina del laissez
faire, di cui confuta i princìpi metafisici e denuncia le conseguenze: “Se lo scopo della vita è di cogliere
le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è
di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. I difetti
più evidenti della società economica nella quale viviamo sono, per Keynes, l'incapacità a provvedere una
occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito. Keynes nega, con
eccellenti argomentazioni teoriche, che possa essere “lui - il grande capitano di industria, il maestro
individualista - che ci condurrà per mano in Paradiso”. Dunque dovrà intervenire il governo. Questo non
significa che il governo debba sostituirsi all'impresa privata:
Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L’azione più importante dello stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto. [...] Il nostro problema è di elaborare un’organizzazione sociale che sia la più efficiente possibile, senza offendere le nostre nozioni di un soddisfacente sistema di vita.
E’ impressionante che i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo siano
oggi gli stessi che Lord Keynes denunciava nel 1936: “l'incapacità a provvedere una occupazione piena
e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito”. Questa persistenza patologica non
trova spiegazioni convincenti nell’antropologia e nell’analisi economica reazionarie; mentre la possono
spiegare la Teoria generale di Keynes e la miopia dei conservatori: “La difficoltà sta nel fatto che i leaders
capitalisti nella City e in parlamento non sono capaci di distinguere i nuovi strumenti e le misure per
salvare il capitalismo da quello che loro chiamano bolscevismo”. Per lunghi periodi il ‘keynesismo’ può
anche essere sembrato dominante, in forme più o meno oneste di spesa pubblica. Keynes ha certamente
autorizzato un intervento, diretto o indiretto, a sostegno della domanda effettiva e dunque (“dunque” ai
suoi tempi) dell’occupazione. L’idea era che soltanto per caso la domanda effettiva, per consumi e per
investimenti, avrebbe coinciso con la produzione corrispondente al pieno impiego, e che perciò un
intervento attivo del governo normalmente sarebbe stato necessario. Anche questo tipo di intervento
oggi potrebbe essere utile. Anziché il Keynes del breve periodo, tuttavia, è il Keynes radicale cui si
dovrebbe pensare, anche perché ce ne sono le condizioni (non anche la volontà politica). Questo Keynes,
il Keynes del capitolo 24 della Teoria generale, sulla filosofia sociale verso la quale la teoria generale
potrebbe condurre, in verità non ha mai dominato, in nessun governo e in nessuna università. Eppure ci
si trovano analisi e disegni di estremo interesse.
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Che cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che la
disoccupazione e l’ineguaglianza sono dei mali da guarire? Secondo questo Keynes si dovrebbero fare
tre cose:
1 Nelle condizioni contemporanee l’aumento della ricchezza, lungi dal dipendere dall’astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, è probabilmente ostacolato da questa. Viene quindi a cadere una delle principali giustificazioni sociali della grande disuguaglianza delle ricchezze. [...] Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche per rilevanti disuguaglianze dei redditi e delle ricchezze, ma non per disparità tanto grandi quanto quelle oggi esistenti. Vi sono pregevoli attività umane che richiedono il movente del guadagno e l’ambiente del possesso privato della ricchezza affinché possano esplicarsi completamente. Inoltre, l’esistenza di possibilità di guadagni monetari e di ricchezza privata può istradare entro canali relativamente innocui pericolose tendenze umane, le quali, se non potessero venir soddisfatte in tal modo, cercherebbero uno sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell’autorità personale e in altre forme di autopotenziamento. E’ meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini. [...] Ma per stimolare queste attività e per soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso. Poste assai inferiori serviranno ugualmente bene, non appena i giocatori vi si saranno abituati. Però non deve confondersi il compito di tramutare la natura umana col compito di trattare la natura umana medesima. Sebbene nella repubblica ideale sarebbe insegnato, ispirato o consigliato agli uomini di non interessarsi affatto alle poste del gioco, può essere pur tuttavia saggia e prudente condotta di governo consentire che la partita si giochi, sia pure sottoponendola a norme e limitazioni, fino a quando la media degli uomini, o anche soltanto una sezione rilevante della collettività, sia di fatto dedita tenacemente alla passione del guadagno monetario.
2 Ora, sebbene questo stato di cose sarebbe affatto compatibile con un certo grado di individualismo, esso significherebbe tuttavia l'eutanasia del rentier e di conseguenza l'eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. Oggi l’interesse non rappresenta il compenso di alcun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra. [...] Potremmo dunque mirare in pratica (non essendovi nulla di tutto ciò che sia irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non fosse più scarso, cosicché l’investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito: e a un progetto di imposizione diretta tale da permettere che l’intelligenza e la determinazione e l’abilità del finanziere, dell’imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con una ricompensa a condizioni ragionevoli.
3 Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l'influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa. [...] Non è la proprietà degli strumenti di produzione che è importante che lo Stato si assuma. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo dei mezzi dedicati ad aumentare gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che li possiedono esso avrà compiuto tutto quanto è necessario. Inoltre la necessarie misure di socializzazione possono essere introdotte gradualmente e senza apportare una soluzione di continuità nelle tradizioni generali della società.
Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier,
e una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento) come strumenti per combattere la
disoccupazione e l'ineguaglianza può sembrare una predica. Esse si reggono invece su analisi difficili da
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liquidare, tanto che il problema viene spesso rimosso definendo la disoccupazione e l’ineguaglianza
come fenomeni “naturali”. Citando Paul Valery, Keynes ricorda che i conflitti politici distorcono e
disturbano nella gente il senso di distinzione tra questioni di importanza e questioni di urgenza e che
dunque il cambiamento economico di una società è cosa da realizzare lentamente. E’ vero che il
cambiamento economico di una società è un processo lento, poiché richiede consenso politico circa un
diverso modello di società, diverso circa la strada da prendere anziché restare in un centro inesistente.
Eppure Keynes è sicuro che “il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la
progressiva estensione delle idee. Non però immediatamente, [...] giacché nel campo della filosofia
economica e politica non vi sono molti sui quali le nuove teorie fanno presa prima che abbiano
venticinque o trent’anni di età, cosicché le idee che funzionari di Stato e uomini politici e perfino gli
agitatori applicano agli avvenimenti correnti non è probabile che siano le più recenti. Ma presto o tardi
sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”.
NOTA BIBLIOGRAFICA Questi appunti sono stati tratti dalle lezioni tenute da Giorgio Lunghini presso l’Università L. Bocconi sullo schema teorico neoclassico e sulle critiche mosse contro di esso da J.M. Keynes. Ho avuto l’onore di collaborare con il prof. Lunghini nel periodo che va dall’a.a. 2003-2004 all’a.a. 2010-2011. G. Lunghini, Equilibrio, in G. Lunghini (a cura di e con la collaborazione di M. D’Antonio) Dizionario di
economia politica, Bollati Boringhieri, Torino 1988.
G. Lunghini Capitale, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della enciclopedia italiana, Roma 1991.
G. Lunghini Valore, teorie del (con F. Ranchetti), in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della enciclopedia italiana, Roma 1998.
G. Lunghini Introduzione a M. Dobb, Storia del pensiero economico, Editori Riuniti, 1999 B. Ingrao e F. Ranchetti, Il mercato nel pensiero economico. Storia e analisi di un’idea dall’Illuminismo alla
teoria dei giochi, Hoepli, Milano 1996. C. Napoleoni, Dalla scienza all’utopia, saggi scelti 1961-1988, a cura di Gian Luigi Vaccarino, Bollati Boringhieri, Torino 1992. L. Rampa, L’economia keynesiana, ISEDI Milano 1977, Mondadori Editore, Milano 1980.
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IL CIRCUITO MONETARIO
Come abbiamo visto, il postulato di base di tutta la teoria monetaria neoclassica, come di gran parte
della teoria monetaria prekyensiana, è che la moneta sia soltanto un mezzo di scambio, anzi, più
correttamente, solamente un mezzo di pagamento, e che essa funga da numerario per gli scambi. Come
già Ricardo, i neoclassici giungono ad affermare, seppure in un contesto analitico diverso, la pressoché
totale irrilevanza della moneta nel sistema economico.
L’equilibrio di lungo periodo del sistema è determinato unicamente dalle forze reali e su di esso la
moneta non può influire; variazioni monetarie possono al più creare solo alterazioni momentanee
dall’equilibrio. La teoria monetaria è allora concepita come teoria delle fluttuazioni attorno alla
posizione di lungo periodo; si tratta di una teoria dei cicli piuttosto che delle crisi, come per John Stuart
Mill. Rispetto al ruolo della moneta nel sistema, Mill ribadisce la validità della legge di Say: soltanto le
merci costituiscono il mezzo che permette di acquistare le altre merci, la moneta è solo un velo. Le crisi
trovano sì la loro manifestazione più evidente in una tendenza generale a tenere denaro tesoreggiato,
ma non si tratta di fenomeni permanenti o ricollegabili in maniera essenziale alla moneta. Le crisi sono
concepite come fenomeni transitori dovuti alla speculazione sui prezzi delle merci: una corsa agli
acquisti, generata da una situazione in cui le aspettative di profitto sono favorevoli, che provoca una
diminuzione delle scorte dei mercanti e un aumento eccessivo dei prezzi. Questa situazione è destinata
a durare però solo fino al momento in cui, in seguito all’inevitabile caduta dei prezzi, viene ristabilito
l’incentivo a riprendere la produzione e viene ripristinata la fiducia negli affari. Nulla a che vedere con
il sottoconsumo teorizzato da Robert Malthus che – insieme ad altri eretici come Silvio Gesell e il
Maggiore Douglas - ispirerà J.M. Keynes.
La teoria neoclassica descrive con precisione i meccanismi di adeguamento che garantiscono i risultati
di Mill, a partire da un’identità: la moneta che circola deve essere congruente con la merce prodotta.
Questa identità (detta di Fisher) non implica un rapporto di interdipendenza:
Mv ≡ pY
A partire dall’identità di Fisher - sostituendo alla relazione di identità quella di uguaglianza – si ricava
il seguente teorema:
Mv = pY
Si tratta del teorema degli scambi la cui espressione è identica a quella che designa l’identità degli
scambi. Siamo però di fronte ad un teorema, perché affermiamo che una variazione in una qualsiasi delle
variabili, provocherà variazioni in una o più delle altre variabili, tale da ristabilire l’uguaglianza. Il
teorema degli scambi sta alla base di qualsiasi teoria della moneta. Si formula una teoria della moneta,
quando non ci limitiamo a constatare ciò che il teorema afferma, ma esprimiamo una spiegazione degli
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effetti che cambiamenti di una qualsiasi delle quattro variabili generano su tutte le altre, affinché si
ristabilisca l’uguaglianza. Si possono ricavare due distinte impostazioni teoriche:
1) la prima impostazione legge l’equazione di Fisher da sinistra verso destra, ovvero, supponendo
costante la velocità di circolazione della moneta “v”, si ipotizza: M = f(pY): teoria endogena della
moneta. In questo contesto, la quantità di monetà è endogenamente determinata dal livello di
attività del sistema.
2) La seconda impostazione legge l’equazione di Fisher da destra verso sinistra, ovvero, supponendo
costante la velocità di circolazione della moneta “v”, si ipotizza: pY = f(M): teoria esogena della
moneta. In questo contesto, si suppone data la quantità di moneta e il livello di attività del sistema
diventa la variabile dipendente. Condizione per accettare tale impostazione è la perfetta
controllabilità della quantità di moneta da parte delle autorità monetarie.
Il dibattito teorico seguente al contributo di Fisher si svolge in ambito neoclassico e presuppone la
neutralità della moneta rispetto al libero scambio. La quantità di moneta M è supposta istituzionalmente
controllata dalle autorità monetarie e quindi vale la teoria esogena della moneta. La discussione teorica
a livello macroeconomico (keynesiani, monetaristi e aspettative razionali) parte da questo presupposto.
Solo recentemente, sulla base di alcuni contributi postkeynesiani e della teoria del circuito monetaria -
rileggendo l’asse Marx-Schumpeter-Keynes (del Treatise on Money) - si è sviluppata anche una
modellistica teorica relativa alla teoria endogena della moneta.
Considerando, per il momento, la teoria esogena della moneta, si possono individuare due principali
interpretazioni:
2a) la prima è la teoria quantitativa della moneta che stabilisce che la quantità di moneta M è funzione
del livello di produzione Y e dell’indice generale dei prezzi p; la velocità di circolazione della moneta
v è semplicemente un parametro. Se Y è considerato al suo livello ottimale – se si crede cioè alla legge
di Say -la relazione può essere espressa come segue:
p = f (M)
2b) la seconda (all’interno della quale si è sviluppato l’approccio del circuito monetario) stabilisce che il
reddito Y dipende dalla moneta M e dalle sue funzioni sociali. La storia conta: l’evolversi delle
strutture sociale modifica la forma della moneta (debito/credito, titoli obbligazionari, azioni, carta di
credito…) e ogni innovazione finanziaria nelle modalità di pagamento modifica la velocità di
circolazione v (che non è più costante).
Il circuito monetario trova le sue radici nella visione classica del processo economico: quali sono le
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condizioni di riproduzione di un sistema dato? Se questa è la domanda principale alla quale rispondere,
non è allora necessario definire funzioni che sintetizzino il comportamento degli agenti.
Gli schemi del circuito monetario consistono in un'analisi macroeconomica basata non più sul
comportamento individuale ma sulla struttura sociale. Come avviene nelle indagini dei classici, il
comportamento tipico di ogni gruppo sociale non è definito da libere scelte individuali ma dalla specifica
collocazione sociale che si traduce quindi in una distinzione funzionale degli agenti economici che a
seconda della classe di appartenenza hanno un ruolo ben specifico nel processo economico. Seguendo
le indicazioni di Keynes (ma anche di Schumpeter e di Wicksell), i gruppi sociali tipici da prendere in
considerazione sono le banche, le imprese, i salariati, e sono le condizioni di funzionamento dell'intero
sistema a determinare l'agire del singolo.
Nell'analisi individualistica tradizionale (neoclassica), il processo economico appare come un
grande insieme di scambi simultanei e multilaterali che coinvolgono tutti gli operatori su un piano di
sostanziale parità: la moneta e il credito non hanno alcuna funzione, oltre a quella di consentire agli
agenti di effettuare i propri scambi. Gli scambi, che avvengono in un ipotetico mercato di concorrenza
perfetta, conducono ad un insieme di prezzi che realizza al tempo stesso l'equilibrio soggettivo di ogni
scambista (e cioè la massimizzazione dell'utilità o del profitto individuale) e l'equilibrio oggettivo del
mercato (e cioè l'eguaglianza fra domanda e offerta). La presenza della moneta, mentre rende più agevoli
gli scambi ed evita gli inconvenienti del baratto, non modifica l'equilibrio di fondo, e cioè le quantità
prodotte o i prezzi relativi. Se la circolazione monetaria altera l'equilibrio del mercato, ciò significa che
nella gestione delle autorità monetarie vi è qualcosa di scorretto. L'insieme dei prezzi relativi può quindi
essere analizzato anche supponendo che l'economia funzioni senza moneta, mentre alla quantità di
moneta esistente spetta soltanto la determinazione dei prezzi monetari.
Il circuito monetario in quanto analisi macroeconomica sociale parte invece dalla constatazione
che l'economia moderna è un'economia monetaria di produzione e che ciò comporta un meccanismo del
tutto diverso da quello di un'economia di baratto. Economia monetaria significa che tutti gli scambi
vengono regolati in moneta; il che pone immediatamente il problema del come la moneta venga creata
e introdotta nel sistema. Nelle economie moderne la moneta viene creata dall’interazione tra il settore
delle banche e quello delle imprese e messa a disposizione di quest’ultime attraverso la concessione di
crediti. Poiché soltanto chi dispone di moneta può accedere al mercato, le decisioni con cui le banche
concedono credito ad alcuni soggetti e non ad altri e la misura in cui il credito viene erogato diventano
elementi decisivi per la determinazione dell'equilibrio finale del sistema. La creazione di moneta
contribuisce quindi a determinare le quantità prodotte come la distribuzione del reddito nazionale; il
risultato è che la moneta non è mai neutrale.
Il campo di indagine non è più il mondo del consumatore sovrano, ma quello degli investitori
volubili, degli speculatori di rapina, dei redditieri parassiti.
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Come sottolinea Riccardo Realfonzo6, uno degli studiosi italiani cresciuti nella scuola di Augusto
Graziani:
Il più semplice modello di circuito monetario, con economia chiusa e senza settore pubblico, può essere descritto come segue. Si considerino tre macrooperatori: le banche, le imprese, i lavoratori. Le banche svolgono la funzione di finanziare la produzione, attraverso la creazione di moneta, e selezionano i progetti imprenditoriali; le imprese, attraverso l’accesso al credito, acquistano i fattori produttivi e prendono le decisioni circa la composizione quali-quantitativa della produzione; i lavoratori offrono i servizi lavorativi. Il funzionamento del sistema economico è descritto come un processo sequenziale, caratterizzato da fasi successive, il cui concatenarsi descrive un circuito della moneta. […]
Le fasi sono le seguenti: 1) le banche offrono alle imprese (in tutto o in parte) il finanziamento da queste richiesto,
attraverso la creazione di moneta (apertura del circuito); 2) ottenuto il finanziamento richiesto (finanza iniziale), le imprese acquistano fattori produttivi.
Considerando le imprese nel loro complesso, la sola spesa che esse effettuano è l’erogazione del monte salari. A questo punto, la moneta passa dalle imprese ai lavoratori;
3) acquistati i fattori produttivi, le imprese avviano la produzione. Nel caso più semplice, le imprese producono beni omogenei;
4) al termine del processo produttivo, le imprese pongono in vendita i beni prodotti. Si può assumere che le imprese fissino i prezzi sulla base del principio del mark-up (aggiungendo, cioè, un margine di profitto al costo medio di produzione). Se la propensione al consumo dei lavoratori è pari all’unità, le imprese sono in grado di recuperare l’intero monte salari e restare proprietarie di una quota di beni prodotti (corrispondente al mark-up). Se la propensione al consumo è inferiore all’unità, una volta acquistati i beni di consumo i lavoratori fronteggiano l’ulteriore scelta di come allocare il risparmio, fra tesoreggiamento (incremento delle riserve liquide) e investimento (acquisto di titoli nel mercato finanziario). Nell’ipotesi che tutti i risparmi siano spesi nel mercato finanziario, le imprese riescono a recuperare – vendendo merci e titoli – l’intero monte salari (finanza finale);
5) le imprese restituiscono alle banche il finanziamento ricevuto (chiusura del circuito).
Il sistema capitalistico è un’economia monetaria di produzione che è caratterizzata da una
creazione di denaro che fondamentalmente presuppone una creazione dal nulla di quel denaro. I
capitalisti necessitano prima di avviare la propria produzione del quantitativo necessario per
approvvigionarsi del capitale necessario, questo è il compito che hanno i banchieri: le banche quindi
daranno alle imprese una quantità di denaro che è necessaria ad acquistare in particolar modo il capitale
necessario per avviare la produzione. Attenzione! Se riduciamo tutto ai minimi termini, l’unico capitale
che a livello aggregato viene prestato è il monte salari. Ipotizziamo che la forza lavoro sia acquistata
dalle imprese al suo valore di riproduzione. Il valore di riproduzione della forza-lavoro sia pari a 100, le
imprese avranno bisogno esattamente di un quantitativo pari a 100 preso in prestito dalle banche; le
banche non presteranno questo quantitativo pari a 100 senza ottenere nulla in cambio, infatti
chiederanno in cambio un tasso di interesse calcolato su questo quantitativo (i% 100). Se la forza lavoro
una volta che sono stati prodotti i beni, acquista i prodotti delle imprese li pagherà al più 100, le imprese
così potranno restituire alle banche esattamente 100; manca all’appello il tasso d’interesse, cioè la quota
6 Cfr. Riccardo Realfonzo, La teoria monetaria della produzione, https://www.inventati.org/zoninoz/html/upload/files/Circuito.pdf
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percentuale che spetta alle banche. Se le cose vanno male e i lavoratori risparmiano, quella che sarà la
cifra restituita alle banche non sarà neanche 100 ma sarà, per esempio, 70 e quindi le banche riavranno
indietro solo 70. In tal caso le imprese emetteranno dei titoli (azioni od obbligazioni) per intercettare i
risparmi dei lavoratori. In tal modo la liquidità che può essere restituita alle banche al termine del
periodo sarà in parte derivante dai consumi (70), in parte derivante dai risparmi (30). Tuttavia manca
ancora una parte del debito da onorare: la quota percentuale che rappresenta gli interessi sul debito
ottenuto (gli oneri finanziari delle imprese).
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Come si fa a chiudere lo schema a questo punto? Abbiamo ragionato come se le imprese fossero un
tutt'uno, ma tra le imprese ci sarà chi ha successo e chi non ne avrà. Quando l'impresa ha successo, paga
tutto, quando l'impresa fallisce la banca si rivale sui beni proprietari degli imprenditori. Ma c'è un'altra
soluzione che può essere più conveniente, che è questa: c'è un altro soggetto, lo Stato, che
fondamentalmente monetizza il debito pubblico e inserisce nel sistema delle risorse con una scadenza
diversa rispetto a quella che caratterizza il pagamento del prestito che le imprese devono ottenere dalla
banche e che rimane in debito. Il debito pubblico dello Stato in questo schema è una garanzia affinché
gli altri agenti non incorrano in debito privato. Se guardate le statistiche precedenti al 2007-2008
riguardanti i Paesi europei noterete qualcosa di interessante: i Paesi che hanno un più alto rapporto
debito pubblico/PIL, cioè i Paesi mediterranei, sono quelli che hanno un rapporto debito privato/PIL
molto molto basso. I Paesi come la Germania, la stessa Inghilterra, l'Olanda, che hanno un rapporto
debito pubblico/PIL basso sono caratterizzati da un alto rapporto debito privato/PIL. Ancora una volta
ribadiamo che la sostenibilità del debito pubblico dipende sempre dalla relazione che intercorre tra il
tasso di crescita dell'economia e il tasso d'interesse. Per cui se il tasso di crescita dell'economia è più
alto del tasso d'interesse, anche se c'è un debito pubblico pregresso, quella situazione è sostenibile. Vi
faccio notare come un ragionamento corretto presupporrebbe di considerare le conseguenze di una
riduzione del debito pubblico in termini di incremento del debito privato, con tutto ciò che ne comporta
per quanto riguarda la gestione politica di un Paese caratterizzato da un alto indebitamento privato.
L’emissione di debito pubblico è quindi è una possibile soluzione: attraverso la monetizzazione del
debito pubblico lo Stato può chiedere delle risorse per finanziare ulteriori lavori pubblici che risolvano
il problema della disoccupazione che magari si è creata a seguito della sofferenza creditizia, e questa
soluzione ci ricorda tanto delle cose che abbiamo detto nel seminario con il prof. Mazzetti, che poi ha
stimolato una riflessione sulla possibilità di sostenere una spesa pubblica laddove i bisogni che lo Stato
si propone di risolvere diventano sempre più difficili da definire sul piano politico.
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Questo tipo di soluzione oggi soprattutto in Europa viene osteggiata. Dato questo particolare assetto
istituzionale volto a disincentivare il deficit spending, resta solo una soluzione: perseguire politiche
neomercantiliste (chi è più bravo è quello che riesce ad esportare di più di quanto importa). Ma questo
può condurre ad un mondo in cui i vari sistemi economici competono tra di loro riducendo i costi di
produzione e soprattutto i salari. Le spinte deflative potrebbero ridurre la domanda interna creando un
processo di crescita instabile perché troppo dipendente dalla domanda estera. Ma poiché il mondo è un
sistema chiuso, una politica di beggar my neighbour (come la chiamava Keynes), il nostro rubamazzetto,
non può continuare all’infinito. Può condurre invece ad aspre tensioni geopolitiche, alla luce del fatto
che non si può costringere in perpetuo un Paese alla deflazione e al contenimento della domanda
interna.
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LA LEVA FINANZIARIA E I SUOI EFFETTI DESTABILIZZANTI: UN ESEMPIO DAL PASSATO
Se noi consideriamo il 1300, studiando i dati che gli storici ci mettono a disposizione7 vediamo che la
popolazione italiana in quell’epoca ha dei numeri molto elevati: per esempio Roma 30.000 abitanti,
Parma 25.000, Padova 40.000, Napoli 33.000, Firenze 112.000, Genova 70.000. Nel 1400, un secolo
dopo, Firenze 37.000, Genova 50.000 mentre Milano 100.000. Se noi confrontiamo i numeri che
caratterizzano la popolazione delle città italiane nel 1300, con la popolazione delle città europee,
notiamo che le città italiane sono le più popolate, in particolar modo i valori di Amburgo sono di 7.000
abitanti e in questo periodo la città più popolosa è in Francia a Parigi dove nel 1300 ci sono 100.000
abitanti (nel 1600 poi crescerà e arriverà a 160.000 abitanti), meno di Firenze e di Milano; Ginevra fa
5.000 abitanti. Londra solo nel 1400 avrà numeri più alti. La produttività è una variabile importante per
leggere il livello di crescita economica, essa è il rapporto tra il valore monetario del prodotto (output) e
il numero delle ore impiegate per realizzare questo prodotto o, in mancanza del numero delle ore, il
numero di lavoratori impiegati. La popolazione ci dà un’idea se fotografata in un dato momento, del
bacino della forza lavoro, una città più popolata ci fa pensare che in quella città si concentri
maggiormente l’attività produttiva. Se vediamo la popolazione nella sua crescita nel tempo, essa ci dice
se ci troviamo davanti ad un sentiero di crescita che si traduce, come di solito nel tempo antico avveniva,
in un primo indice di ricchezza; infatti, se la popolazione si riproduce allora ci deve essere una crescita
economica. In un contesto che precede la Rivoluzione Industriale, in cui la forza lavoro impiegata
nell’attività manifatturiera non industrializzata rappresenta insieme all’attività agricola l’attività
economica base, il tasso di crescita della popolazione è un indice fortemente correlato alla produttività
dell’epoca. La popolazione in Italia e in Europa nell’anno 1300 ha la seguente proporzione: l’Italia ha 11
milioni di abitanti, l’intera Europa ne fa 73 milioni, quindi la popolazione europea è distribuita in modo
disomogeneo, e se prendete in considerazione la vastità dell’area, è rilevante il fatto che una regione
come l’Italia (che vi ricordo è circa un terzo della regione che occupa la Francia) abbia una popolazione
che pesa quasi per un settimo di tutta quanta la popolazione concentrata in Europa. Se guardiamo i dati
dopo un evento catastrofico come la peste che colpisce prima della metà del 1300 l’Europa, in Italia la
popolazione è 9,5 milioni, in Europa 51 milioni; 50 anni dopo questo rapporto continua ad essere
rilevante. Questo rapporto risulta essere superiore se si guardano i dati del 1500, 10 milioni di abitanti
in Italia, 69 milioni in tutta Europa. In questo contesto Firenze rappresenta l’origine non solo della
finanza, ma dell’organizzazione manifatturiera e commerciale che sarà un modello per tutta l’Europa.
Già nel corso del ‘200 le grandi famiglie dell’oligarchia fiorentina, sono in grado di arrivare al di fuori dei
confini italiani seguendo, in particolar modo, le rotte dei pellegrini che portano fino alla Città Santa,
Gerusalemme. Dal punto di vista organizzativo, i fiorentini costruiscono delle sedi delle loro attività
7 Carlo Maria Cipolla, Storia Economica dell’Europa Preindustriale, il Mulino, 1974.
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economiche lungo queste rotte e collocano in queste sedi persone di fiducia, inizialmente legate alle
famiglie dei mercanti, ma poi anche individuate in persone del posto che rappresentano delle figure di
fiducia. Non solo ci troviamo di fronte alla necessità di stabilire una scienza che prevede la registrazione
di quelle che sono le entrate e le uscite dal punto di vista merceologico e dal punto di vista finanziario.
Questo significa prendere delle decisioni su criteri contabili che siano analoghi lungo tutto il territorio
del commercio fiorentino, questo significa prendere delle decisioni su quelle che possono essere
considerate le legittime scadenze per onorare i debiti, decisioni sulla legittimità della scrittura contabile,
sulle regole di scrittura contabile e sulle regole di registrazione contabile. Tutto questo avviene grazie
alla cultura che, nel corso del ‘200 e poi per tutto il 300, viene a svilupparsi nelle città italiane, che sono
poi le sedi delle prime università, dove i dottori della Scolastica, figure legate alla Chiesa, impartiscono
delle lezioni innanzitutto di diritto. Ma parlare di diritto in quest’epoca significa parlare dell’insieme
delle regole necessarie al vivere civile, all’ordine sociale ed economico. I fiorentini diventano un viatico
di pratiche e di conoscenze che si sedimentano. Un elemento importante della dimensione politica e
della politica economica è che le grandi famiglie dell’oligarchia commerciale e finanziaria fiorentina,
costruiscono le grandi compagnie, filiali commerciali volte a sorreggere uno specifico ciclo economico,
una serie di scambi di beni che ha una sua azienda di riferimento che spesso è collocata a Firenze, ciò
significa anche che la quantità maggiore di risorse monetarie si concentra a Firenze nonostante ci siano
vari punti di intermediazione commerciale. Ma tutto questo porta a relazioni tra mercanti ed autorità
politiche. Le autorità di politica economica nel 1300 fanno capo alla città, le compagnie sono fatte di
famiglie che finanziano anche le imprese del comune. Le imprese del comune sono essenzialmente di
due tipi: costruzioni di infrastrutture cittadine e guerre. Dove sono collocate le potenze che possono
competere con la città di Firenze? Sempre in Italia, tant’è che le guerre che si combattono sono guerre
con gli altri comuni toscani, Lucca, Siena, di solito invece si stringono alleanze con altri centri collocati
esternamente. Ci troviamo in una situazione in cui vi è una concentrazione di ricchezza nella città, in
mani di grandi famiglie che riciclano questa ricchezza, quindi riattivano prospettive imprenditoriali
nella loro attività innanzitutto e in quella del comune. Questo significa che abbiamo individuato un
primo elemento significativo della crescita economica ed è il fatto di impiegare ricchezza astratta per
realizzare investimenti concreti o nell’ampliamento delle rotte commerciali o nella costruzione di
infrastrutture comunali. Questo tipo di meccanismo ha bisogno di una programmazione che viene data
dalle autorità comunali, dall’autorità cittadine, dai priori della città che di solito hanno una loro sede, il
palazzo dei priori che di norma nelle città medioevali si trova al centro della città. La città ha una pianta
a stella, ai vertici della stella ci sono le porte della città che sono collegate da mura, uno dei grandi
investimenti delle città medioevali, dove si concentrano le ricchezze dei mercanti, è la ricostruzione
delle mura cittadine o, l’ampliamento delle cinte murarie. Se si arriva al centro della città però non si
vede solo il palazzo delle autorità che prendono decisioni sulla programmazione della vita cittadina, ma
c’è anche qualcos’altro che fronteggia questo potere cittadino: la Chiesa, la cattedrale. Il cuore
urbanistico delle città medioevali è fatto anche dalla chiesa (qui intesa come edificio). La Chiesa (qui
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intesa come istituzione) e i notabili si fronteggiano hanno bisogno di una mediazione, tant’è che spesso
per stabilire proprio l’impiego delle risorse monetarie accumulate dai mercanti, la Chiesa dà delle
indicazioni. Queste risorse talora servono a finanziare delle attività non solo gestite dalla Chiesa, per
esempio la ricostruzione di luoghi di culto, ma che spesso riguardano la costruzione anche di particolari
luoghi come gli ospedali o le opere di carità. Quindi già nella città medioevale grazie all’influenza
esercitata da un particolare centro d’interessi molto attento ad una particolare declinazione dell’ordine
sociale, emerge un aspetto della politica economica, intesa come gestione delle risorse monetarie che
vengono a crescere all’interno di un determinato luogo di convivenza politica e civile, assistiamo anche
alla nascita di quelle che oggi chiamiamo politiche di guerra. La costruzione di un lazzaretto, dove andare
per motivi igienici, esternamente alla città, a concentrare gli ammalati di lebbra o di peste, ma anche
dove andare a fare carità per le compagnie di misericordia che piano piano cresceranno nel corso dei
secoli proprio nelle città italiane, è un’operazione che viene fatta chiaramente su donazioni volontarie,
ma vengono fatte attraverso una forma di regolazione che è governata dalle istituzioni ecclesiastiche, le
quali producono i dottori, cioè le figure di riferimento, rispetto a quelli che sono i canoni legislativi cui
la città deve attenersi. Prima dell’alta finanza, all’origine della possibilità di costruire un’alta finanza a
Firenze, c’è una modalità di gestione delle ricchezze che sono state accumulate attraverso i successi delle
compagnie fiorentine per tutto il ‘200 e c’è una fase di crescita della città a seguito di una particolare
modalità d’impiego delle risorse monetarie accumulate per opere di carattere infrastrutturale o per
opere volte a realizzare le condizioni morali o normative che la dottrina cristiana, dominata da dottori
della Scolastica definisce nel corso dell’Alto Medioevo. Nella discussione dei dottori della Scolastica
esiste una particolare paura dal punto di vista del comportamento del ricco, ed è quella del prestito ad
usura. Esso viene a caratterizzare la produzione di gran parte delle riflessioni dei dottori della Scolastica
del 1300, in particolar modo esiste una parte rilevante di una delle opere principali di un grandissimo
dottore della Scolastica, San Tommaso D’Aquino, la Summa Teologica, che è dedicata a definire che cosa
è l’usura. Ma perché ci sia usura è necessario che ci sia la pratica del prestito ad interesse. Il prestito ad
interesse come attività capace di definire un nuovo settore economico, nasce quando nascono i banchi,
cioè dei veri e propri tavoli che vengono posti fuori dalle abitazioni per poter fornire denaro a chi lo
chiede. E a prestare denaro sono gli stessi mercanti, quando la logica dell’investimento ha esaurito la
sua spinta propulsiva, se le infrastrutture sono state costruite, se la città è stata definita, se gli
investimenti lungo le rotte commerciali esistenti sono stati già fatti, c’è un problema d’impiego delle
risorse monetarie. Perché in un modo senza banche queste risorse monetarie possono solamente non
essere impiegate, non esiste ancora nessuna struttura istituzionale che premia qualcuno per il semplice
fatto di depositare della ricchezza. Il banco è il luogo in cui il ricco mercante inizia a fare un’operazione
di prestito dei propri denari, prima lo fa ad altri mercanti, poi lo fa a soggetti che sono in situazione di
sciagura e che hanno bisogno anche per la loro attività quotidiana, come piccoli agricoltori che hanno
subito una carestia o qualche danno, e non lo fanno gratuitamente, lo fanno chiedendo che oltre al
capitale iniziale prestato, sia restituito un certo compenso, un interesse contro cui per tutto il ‘300 i
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dottori della Scolastica si scagliano, perché questo guadagno non è frutto di un lavoro, ma è frutto di uno
sfruttamento, è un uso improprio del denaro. Non si tratta solo di una regola morale che viene
giustificata da una particolare interpretazione della parola di Dio, ma di qualcosa di più, si tratta forse
della consapevolezza che il ruolo del credito può destabilizzare l’economia.
Il 23 Settembre del 1340 l’Inghilterra pone fine, insieme alla Francia, ad una delle fasi più dure della
guerra dei 100 anni, con l’armistizio di Esplechin, dove Edoardo III, re inglese, stabilisce la fine del
conflitto e dichiara che i debiti che egli ha contratto per finanziare la guerra, nei confronti di chi gli ha
fatto credito, non possono essere ripagati (chi gli aveva fatto credito erano i banchieri fiorentini). Questo
è il punto centrale della nostra storia. Per capire la gravità delle conseguenze che quest’atto comporta,
bisogna mostrare un altro dato, che è connesso con l’esposizione creditizia dei banchieri fiorentini.
Questo dato non riguarda una voce contabile che ha immediatamente a che fare con la contabilità dei
banchieri, ma ha a che fare con il comune di Firenze. Il comune per funzionare ha bisogno di un bilancio,
nella patria della contabilità il bilancio viene redatto in modo tale che sia anche possibile chiedere dei
prestiti ai cittadini per sostenere le spese del comune. Questi prestiti vengono richiesti nell’interesse dei
cittadini e vengono a costituire, nel momento in cui sono accumulati questi impegni che nel tempo
devono essere onorati, il debito pubblico dei comuni. Se si guarda al debito pubblico di Firenze nel 1300
è di 500 mila fiorini. Se si guarda al debito pubblico di Firenze tra il 1330 e il 1338, periodo in cui è in
guerra con Verona, esso è 450 mila fiorini. Nel 1343, Firenze era in guerra con Lucca, e il debito cresce
a 600 mila fiorini. L’incremento del debito pubblico è correlato, con il credito concesso dai banchieri
fiorentini non solo al comune di Firenze. Nelle fasi di crescita dell’economia, quando si accumulano
grandi ricchezze, colui che fa credito, ha delle aspettative sul futuro positive, visto che l’economia sta
crescendo; io posso prestare i soldi che ho a disposizione, perché mi aspetto che di questa crescita
economica beneficeranno gli agenti economici, per cui la probabilità che il mio credito venga onorato (
che il credito che ho concesso sia ripagato anche con un tasso d’interesse) è alta, man mano che la
crescita aumenta, aumentano le ricchezze che hanno a disposizione i banchieri, aumentano le
aspettative di crescita dell’economia, aumenta la propensione a concedere crediti. Sicuramente ci sono
forme di garanzia, per esempio si fa firmare un contratto in cui si stabilisce che se non si onora quel
credito la casa di quella persona viene a cambiare di proprietà. Questo comporta però anche che vi sia
la tendenza a finanziare attività sempre più diversificate, anche perché una delle regole della tecnica
bancaria sin dall’origine, è l’idea che la differenziazione del rischio, cioè la differenziazione
dell’investimento, riduca il rischio. Quindi diventa più probabile finanziare le attività del comune legate
alle spese militari e diventa anche più frequente finanziare altri comuni, altri stati, fino al re d’Inghilterra
Edoardo III. Nell’attesa che vi sia un rientro del capitale proprio con degli interessi se anche quel rientro
non avvenisse, avendo a disposizione un’altra attività con una minore probabilità di default, non dovrei
mai incorrere in una crisi di liquidità. Il principio della tecnica bancaria, presuppone che la
differenziazione degli investimenti minimizzi il rischio. La differenziazione dell’investimento da parte
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di una struttura bancaria minimizza il rischio se i soggetti a cui si prestano i soldi sono riconducibili a
eventi poco correlati, eventi con un certo livello di indipendenza. Se vi è una correlazione tra queste
attività economiche si può creare una struttura epidemica, di trasmissione dell’impossibilità a far fronte
al debito contratto, che danneggia l’intero sistema economico. La cosa interessante è che il
finanziamento del debito pubblico di Firenze e il finanziamento dell’attività militari del re d’Inghilterra
non sono propriamente non correlate e la storia terminerà con il fallimento dei grandi banchieri
fiorentini. Dopo l’armistizio, a fronte di un grande debito pubblico raccolto dal comune di Firenze
succede che, a causa delle difficoltà finanziarie che sono successive al mancato pagamento del debito da
parte del re d’Inghilterra, si profila la possibilità che Firenze cambi alleanze dal punto di vista politico.
Nel 1300 a fronte dei due grandi riferimenti, la Chiesa e il potere dei notabili, vi sono anche due grandi
partiti politici nella città di Firenze: il guelfi e i ghibellini. Firenze oltre ad una crisi finanziaria vive anche
una crisi politico-istituzionale, e si palesa la possibilità che l’alleanza guelfa ceda il passo a un’alleanza
ghibellina, per cui Firenze cerca l’alleanza dell’imperatore Ludovico il Bavaro, manda i suoi diplomatici
e ciò si traduce in un campanello d’allarme per il re di Napoli, Roberto, e per la sua corte. Questa cosa è
importante perché Roberto di Napoli e la sua corte sono i principali depositari di ricchezze presso le
banche fiorentine. Cosa accade quando un cliente di una banca inizia a perdere fiducia nei confronti di
quella banca? Ritira i soldi. Quindi il segnale che viene dato dai diplomatici fiorentini che iniziano a
viaggiare per essere ricevuti dall’imperatore e la trasmissione dell’informazioni relative al cambio della
gestione politica del comune di Firenze, viene letta nel regno di Napoli come un pericolo e i risparmiatori
napoletani ritirano i depositi presso le banche fiorentine, quindi abbiamo un debito che non viene
ripagato, un debito pubblico molto grande del comune di Firenze e i depositi che vengono ritirati. Le
banche fiorentine rappresentano attività economiche di specifiche famiglie che hanno anche legami di
sangue con i notabili che gestiscono il comune di Firenze (stiamo sempre parlando di una città di circa
120 mila abitanti). Il banco dei Bardi e quello dei Peruzzi rappresentano i due principali banchi, solo
quello dei Bardi era esposto con la sola Inghilterra di 900 mila fiorini d’oro di prestito, il banco dei
Peruzzi di 600 mila. Nel 1343 falliscono i Peruzzi e tre anni dopo anche i Bardi. Firenze è una città in cui
falliscono le banche, le attività commerciali ad esse collegate e le famiglie che governavano la città si
trovano in una situazione di delegittimazione della fiducia del popolo. Il 20 Novembre 1342 il signore di
Firenze Gualtieri di Brenne interrompe i pagamenti dei crediti pubblici e questi debiti pubblici da che
cosa erano sostenuti? Dalle entrate fiscali, dalle gabelle, quindi in questa situazione non è possibile
aumentare le tasse (gabelle) che si pagano su diverse attività economiche senza creare una vera e
propria rivoluzione, quindi quello che si preferisce fare è sospendere i pagamenti. Il 22 Febbraio 1345
accadono due cose: Gualtieri di Brenne viene cacciato dalla città, di fronte al fatto che la crisi bancaria
diviene crisi del debito pubblico, diviene crisi reale e diviene crisi istituzionale. Gualtieri viene cacciato
e si stabilisce la seguente regola: “non è al momento possibile restituire ai precedenti creditori ciò che
devono ricevere”. Viene però riconosciuto un interesse annuo del 5% sul capitale ricevuto.
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L’esposizione creditizia in un dato momento è superiore al valore reale della produzione di una merce
molto pregiata dell’economia fiorentina (i tessuti). Quindi l’esposizione creditizia di 1milione 365 mila
fiorini d’oro è superiore al valore complessivo della produzione di tessuti fiorentini. Questo ci dice che
a seguito di una crescita economica, che si sostanzia nel valore del Prodotto Interno Lordo, inteso come
valore delle merci innanzitutto, la tendenza a prestare denaro e a creare liquidità, crediti che hanno un
loro valore, presuppone che il credito che viene creato cresca in modo più che proporzionale della
ricchezza reale che è registrabile. Questo dal punto di vista matematico si può esprimere scrivendo che
il rapporto fra credito e capitale proprio è maggiore di 1; tanto più cresce questo valore quanto è
maggiore la così detta leva finanziaria. Nella fase di prosperità la leva finanziaria cresce, la società cioè
si indebita di più rispetto a quella che è la ricchezza reale disponibile in quel momento.
Abbiamo visto che le operazioni di carattere finanziario si reggono su una formula di prestito a interesse
che è criticata dalla Chiesa, in particolare dai dottori della Scolastica; essi considerano il prestito a
interesse un uso improprio del denaro. Tuttavia queste non sembrerebbero essere solo considerazioni
di carattere morale, ma considerazioni basate su una precisa valutazione di politica economica: infatti
esistono delle possibilità di crisi, che la tecnica bancaria fondata sulla differenziazione degli investimenti
per minimizzare il rischio non riesce ad evitare. Le crisi sistemiche assumono la seguente forma:
nascono come crisi bancarie, diventano crisi della finanza pubblica, diventano crisi reali.
Un grande storico italiano, Carlo Maria Cipolla, nel libro “Il fiorino e il quattrino” parla di due paradigmi
ricavabili dall’esperienza di Firenze, che mettono in luce due cause della crisi che conducono entrambe
ad una situazione di fragilità finanziaria. Il primo paradigma si fonda sullo schema seguente:
esiste un Paese ad economia dominante ed esiste un Paese sottosviluppato, nel nostro caso il Paese ad
economia dominante è Firenze, quello sottosviluppato l’Inghilterra. Il Paese ad economia dominante
concede crediti al Paese sottosviluppato e lo fa con lo scopo di avere a basso costo le materie prime, in
questo caso la lana. Il debitore però utilizza il credito per finanziare una guerra che non va a buon fine e
questo fa sì che il credito non venga restituito, che il concorrente fiammingo non venga intaccato, e che
abbia inizio una crisi finanziaria nel Paese creditore.
Vi è poi un secondo paradigma: coloro che rappresentano i clienti delle nostre banche, coloro che hanno
aperto dei depositi, si rivolgono alle banche fiorentine poiché vogliono far fruttare i propri risparmi.
Infatti non esistono nei Paesi sottosviluppati delle occasioni di investimento adeguate, sebbene questi
sistemi economici siano caratterizzati da una concentrazione di ingenti ricchezze nella classe agiata. Il
Regno di Napoli infatti non ha una struttura manifatturiera specializzata come quella che caratterizza le
compagnie fiorentine. Il Regno di Napoli è caratterizzato però da un surplus della bilancia commerciale
(esporta più di quanto importa). Il Regno di Napoli ha un surplus perché esporta grano, lana e cotone, e
riesce ad avere delle entrate che non sa investire però in attività commerciali e di trasformazione delle
materie prime, o nella produzione di beni di lusso, come invece sanno fare i fiorentini. Il surplus che
viene prestato ai fiorentini, viene depositato presso le banche fiorentine, viene impiegato in operazioni
che si rivelano ad alto rischio, cioè questa situazione qui genera una percezione di non credibilità dei
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banchieri fiorentini, con la corsa agli sportelli per il ritiro dei soldi, quindi la fragilità finanziaria dipende
in parte dal comportamento di chi ha avuto un credito nei confronti del Paese sviluppato e non è stato
in grado di programmare una forma d’investimento adeguato, ma dipende anche dal fatto che lo stesso
creditore non ha selezionato il debitore in modo appropriato, non ha raccolto una garanzia rispetto
all’uso del denaro che ha messo a disposizione. Lo ha fatto perché si è fidato, e si è fidato perché le
aspettative di crescita dell’economia precedenti, erano state caratterizzate da situazioni di successo.
Quindi a questo punto possiamo imparare che: l’instabilità finanziaria è un risultato della crescita
economica, un sistema robusto può trasformarsi in un sistema fragile perché la stabilità e
destabilizzante, nei periodi di crescita vengono poste le premesse per la crisi finanziaria. La finanza
coperta è una situazione in cui il rapporto tra capitale proprio e debito è equilibrato, per cui si ha una
situazione in cui il capitale proprio supera o e uguale al debito, alla parte delle risorse che sono state
concesse da terzi, per cui esistono sempre delle risorse proprie con cui io posso pagare in qualsiasi
momento il debito. Se le unità fossero tutte caratterizzate da finanza coperta i margini di sicurezza sui
flussi di cassa sarebbero robusti, le aspettative di garanzia del rapporto tra debitore e creditore
sarebbero robuste, le crisi finanziarie potrebbero derivare solamente da improvvisi shock esterni. Se un
sistema finanziario è però composto da unità speculative, cioè da situazioni in cui il creditore si espone
troppo nei confronti del debitore e il debitore è caratterizzato da un debito nei confronti di terzi che
supera sempre più il capitale proprio, il sistema è esposto a rischio di crisi dato che piccole variazioni
del rapporto tra debito e credito possono ripercuotersi violentemente sull’intero sistema. Per esempio
se aumentano i tassi d’interesse sulla restituzione del credito questo genera l’impossibilità di
rifinanziamento per le unità speculative che devono vendere anche la parte legata alle proprie attività,
al capitale proprio, ma questo genera anche il fatto che nel momento in cui io non riesco più a ripagare
il mio debito, anzi il mio debito diventa crescente, i tassi d’interesse sul credito che qualcuno mi potrebbe
concedere per mantenere in vita il tutto e pagare le quote di interesse sul debito concesso
precedentemente, diventano crescenti, il capitale che io devo mettere in vendita, le mie attività che
rappresentano l’unica cosa che ho insieme al debito nei confronti di terzi, saranno caratterizzate da un
acquisto a prezzi non buoni, i prezzi delle mie attività, quello che era il mio capitale proprio che ho messo
a garanzia per avere il debito, tenderanno ad essere decrescenti. Se questa situazione è generalizzata i
prezzi dei beni tenderanno a calare, ma questo significa anche che non ci sono compratori disponibili ad
acquistarli, questo contesto è caratterizzato dalla deflazione. Essa è molto pericolosa, perché in una
situazione di deflazione si crea una situazione d’impoverimento generale, i prezzi dei beni si abbassano
e molte attività economiche registrano delle perdite in conto capitale e per riuscire a recuperare queste
perdite abbassano i loro livelli di produzione, licenziano e, questo genera un circolo vizioso. Quindi
l’instabilità finanziaria spesso provoca dopo l’esplosione della crisi, una dinamica deflattiva. È successo
anche nel 2007/2008. Nel prendere le varie decisioni gli agenti economici formano le proprie
aspettative considerando quello che accade nel passato recente (sono aspettative backward looking).
Quando però questa convenzione su cui le decisioni sono prese è superata, questa cosa non avviene in
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modo graduale, ma all’improvviso: si passa direttamente dall’euforia al panico, e il panico è una
situazione in cui tutte le unità finanziarie presenti nel sistema possono fallire - a meno che non vi siano
autorità di politica economica che intervengano a bloccare le spinte deflattive acquistando ciò che viene
rapidamente venduto per raccogliere liquidità. Esiste sempre un certo livello di correlazione nel tessuto
economico, per costruzione. Quando le cose iniziano ad andare male in un settore è molto probabile che
altri settori siano colpiti dallo stesso stato di crisi, quindi la tecnica bancaria di considerare la
differenziazione degli investimenti come un modo per minimizzare i rischi è vera fin tanto che ci si trova
in una situazione di crescita stabile. In una situazione di crisi la esposizione su più livelli significa far
fronte a perdite via via crescenti. Perché l’atteggiamento della Chiesa non può essere relegata solo ad un
piano morale? Perché la Chiesa attraverso la Scolastica sta dando un segnale rispetto ai rischi collegati
all’esposizione creditizia eccessiva, la regola che la Scolastica cerca di dare è : gli investimenti vanno fatti
in beni reali immediatamente visibili e tangibili rispetto ai confini della città, il prestito a interesse è un
prestito che può condurre a situazioni di ricchezza non reale. È questa la ragione della nascita di
un’istituzione che politicamente si assume il compito di regolare gli equilibri finanziari, la Banca
Centrale. Nel libro La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta pubblicato nel 1936,
Keynes, il più grande economista del ventesimo secolo, colui che dinanzi alla crisi degli anni ‘30,
scoppiata nel 1929 sulla borsa di New York e poi importata in Europa e in Inghilterra, riscopre il ruolo
dell’intervento pubblico, e apre una nuova era che durerà per molto tempo, in cui l’idea che l’economia
possa essere regolata solamente dalle decisioni indipendenti che emergono sui mercati, viene
considerata erronea e viene riscoperto il ruolo dello Stato come agente economico. In questo libro, al
capitolo 23, c’è un paragrafo importante in qui si legge che:
Proviamo a proporre una nostra traduzione (in corsivo trovate i miei commenti):
«gli interventi contro l’usura sono interventi di politica economica che conosciamo da tanto tempo, la distruzione dell’incentivo a investire a causa di un’eccesiva preferenza per la liquidità - dove qui per liquidità s’intende la ricchezza astratta - era il male maggiore, il primo
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impedimento alla crescita della ricchezza nel mondo antico e medioevale, dal momento che alcuni dei rischi e degli azzardi della vita economica diminuiscono l’efficienza marginale del capitale mentre altri servono ad incrementare la preferenza per la liquidità - per efficienza
marginale del capitale possiamo intendere le aspettative di profitto legate agli investimenti
reale - . In un mondo in cui allora nessuno si sente sicuro è inevitabile che il tasso d’interesse [...] dovrebbe crescere troppo in alto per permettere un adeguato incentivo ad investire. Questo approccio era tipico della Chiesa medioevale ed io sono stato abituato a considerare queste idee come un’insieme di follie. – Keynes si riferisce all’idea di tenere a freno il tasso
d’interesse perché l’incremento del tasso d’interesse indurrebbe una riduzione degli
investimenti reali - Tuttavia sto guardando questa teoria come il punto chiave da considerare per comprendere le crisi.»
Questo punto chiave è il seguente: l’alto tasso d’interesse implica anche un incremento dei
guadagni finanziari attesi senza fare investimenti nell’economia reale. In realtà con il linguaggio
di Keynes c’è un conflitto nelle scelte che l’imprenditore deve fare tra guadagno che si può fare
prestando denaro e attendendosi un tasso d’interesse sul prestito concesso, e guadagno che si può
fare facendo un investimento reale attendendosi quindi un profitto atteso. Le leggi contro l’usura
servono a spingere in basso il tasso d’interesse e a creare un’adeguata motivazione per fare
investimenti reali anche attraverso la vendita delle indulgenze. L’imprenditore deciderà di fare
investimenti reali, invece che specializzarsi nel prestito a terzi, quando il profitto atteso sarà
maggiore del tasso d’interesse. La vendita dell’indulgenze è un modo per fare ritornare attivo nel
circuito economico dei beni reali, le ricchezze accumulate dagli usurai. Le grandi opere finanziate
negli interessi della Chiesa, servono non solo a preservarsi il posto in paradiso, o meglio nel
purgatorio, ovvero l’invenzione del purgatorio serve proprio a costruire una cultura della
possibilità d’espiare i propri peccati e chiedere messe a suffragio per le anime del purgatorio, ma
dal punto di vista della politica economica,di avere un impiego delle risorse lontano
dall’accumulazione volta a fare prestiti a interesse per evitare che si ripetano situazioni di crisi
dettate da fragilità finanziaria costruita su un prestito sempre via via crescente. Questo problema
è il primo problema di politica economica che abbiamo incontrato: la necessità di costruire delle
norme volte a indirizzare le risorse nell’economia reale per evitare un eccessivo ricorso al credito
che genera le condizioni della fragilità finanziaria e della crisi economica che può divenire anche
crisi istituzionale. Dinanzi alla soluzione debole prospettata dalla Scolastica medioevale
avvengono, nel corso del tempo, dell’evoluzioni istituzionali in seno alla riflessione normativa che
è appannaggio dei religiosi. Avviene un’evoluzione della visione normativa della Chiesa con il
tempo, lungo tutto il 1400, e avviene attraverso un cambiamento radicale d’impostazione nei
confronti del prestito a tassi d’interesse dove prevale il punto di vista del volontarismo
francescano contro la tradizionale denuncia della Scolastica. Il volontarismo francescano, cioè
quell’approccio che vede nell’uomo una figura che dal punto di vista teologico, può aspirare a
compiere attività anche d’investimento e che può chiedere un tasso d’interesse legittimo per
finanziare attività d’investimento che rendono gli equilibri cittadini diversi rispetto a quelli
tradizionali, è un punto di vista che si afferma lungo il tempo, insieme alle prediche per costruire
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all’interno delle città una nuova istituzione che assume il nome di Monte di Pietà. Esso è una vera
e propria banca che si pone come obiettivo il prestito di piccole cifre di denaro a seguito di un
deposito di beni e servizi come pegno, e che prevede una restituzione che all’inizio è priva di un
tasso d’interesse e che in seguito calcola il tasso d’interesse considerando i costi
d’amministrazione dello stesso Monte di Pietà. I monti di pietà vengono istituiti a seguito di una
predica in città contro l’usura, da parte dei francescani, nelle varie città del centro Italia tra 1405
e il 1444 predica il frate francescano Fra Bernardino da Siena e il primo Monte di Pietà nasce a
Perugia nel 1462 e il suo statuto verrà poi replicato di città in città. Siamo in un periodo in cui è
ancora fresca la memoria della crisi finanziaria fiorentina e in cui le banche costruite dai mercanti
sono tenute a freno nel loro esercizio del prestito nei confronti dei bisognosi e il Monte di Pietà
occupa questo settore di mercato ma fissa un tasso d’interesse e quel tasso d’interesse diventa il
tasso di interesse legittimo. Se c’è un tasso d’interesse legittimo, di riferimento, è come se gli altri
tassi d’interesse che possono essere fissati anche in accordi privati, devono considerare quello
come il loro riferimento. Quindi nasce un’istituzione che fissa dal punto di vista normativo un
riferimento rispetto alla regolazione dei rapporti fra debito e credito, fissare un interesse di
riferimento nei rapporti tra debiti e crediti che risponda a determinate logiche, fa sì che si
istituisca una sorta di Banca Centrale. Questa prima grande esperienza nata in seno all’evoluzione
della riflessione giuridica costruita dalla Chiesa, rappresenta , la prima soluzione di politica
economica alla necessità di tenere a freno la leva finanziaria. La logica che conduce alla nascita
della Banca Centrale è quella di fissare un tasso d’interesse di riferimento volto ad evitare una
situazione di fragilità finanziaria.
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SONO SICURO CHE IL POTERE DEGLI INTERESSI
COSTITUITI È ASSAI ESAGERATO SE LO SI CONFRONTA CON LA PROGRESSIVA ESTENSIONE DELLE IDEE
… PRESTO O TARDI SONO LE IDEE, NON GLI INTERESSI
COSTITUITI, CHE SONO PERICOLOSE NEL BENE COME NEL MALE.