arte e letteratura - tesi sul surrealismo
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Parte prima
L’equivoco surrealista
“In ogni istante il Caos continua ad agire nel nostro spirito: concetti, immagini, sentimenti vi vengono giustapposti fortuitamente, gettati alla rinfusa. In tal modo si creano accostamenti che
stupiscono lo spirito: esso si rammenta del simile, torna a sentire un sapore, trattiene ed elabora l’uno e l’altro secondo la sua abilità e capacità. Qui è l’ultimo piccolo frammento di mondo in cui si
combina qualcosa di nuovo, almeno per quanto arriva a vedere lo sguardo umano. E per finire, qui avremo ancora una volta una nuova combinazione chimica che, in effetti, non ha
ancora riscontro nel divenire del mondo.Friederich Nietzsche
I. Parigi città allo specchio
Nel passage non cresce l’erba. Sembra il giorno dopo la fine del mondo, anche se la gente si agita ancora. La vita organica è disseccata ed esposta in questo stato. Panottico di Kastan. Una domenica d’estate là, alle sei. Un organetto accompagna l’asportazione dei calcoli di Napoleone III. L’adulto
può scorgere l’ulcera venerea di un negro. Gli irrimediabilmente ultimi aztechi? Oleografie. Ragazzi di vita con le mani grosse. Fuori la vita è un cabaret di terz’ordine. L’organetto suona: Èmil, tu sei
una pianta. Qui il dio è fatto a macchina.Karl Kraus
In una novella cinese1 proveniente dalla città di Cantòn si racconta di una singolare
battaglia tra due regni che neppure lontanamente si potrebbero dire in conflitto, il
mondo degli specchi e quello degli uomini; il mito narra dell’invasione della terra da
parte del popolo degli specchi durante la dominazione leggendaria dell’imperatore
Giallo il quale “ricacciò gli invasori, li incarcerò negli specchi, e impose loro il
compito di ripetere, come in una specie di sogno, tutti gli atti degli uomini. Li privò
di forza e di figura propria, riducendoli a meri riflessi servili”2. La storia si conclude
infine con la promessa di una dissoluzione del letargo magico e la graduale ribellione
1 Raccolta da Hubert–A.Gilles dal racconto di P.Zallinger ora in J.L. Borges, Animali degli specchi in Id. Manuale di zoologia fantastica, Einaudi 1962;questa novella era conosciuta da Caillois che ne parla brevemente e con altre intenzioni, in R. Caillois, Cases d’un échiquier, Gallimard, 1970, pag. 402 Ibidem, pag 21
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del popolo degli specchi alle catene mimetiche: in una dimensione profetica l’inedita
alleanza di creature degli specchi e creature dell’acqua frantumerà le barriere di vetro
liberando la copia, il riflesso, dalla convenientia con l’originale, con l’umano,
aprendo così al dominio del simulacro.
La ripetizione degli atti umani nello specchio3, ci narra la novella, avviene in uno
stato di trance emotiva, come in sogno, quando alla consapevolezza di sognare si
aggiunge la credenza nell’illusione del sogno. Lo statuto del gesto ripetuto è quindi
diverso da quello originale, ne è una copia imperfetta, come la vita onirica lo è di
quella diurna; una differenza qualitativa si frammette tra la realtà e il suo speculare,
una lontananza nella contiguità che trova il suo spazio materiale nella lastra di vetro
riflettente. Un’imperfezione mimetica che non è mancanza, immagine ingannevole di
secondo grado come nel Sofista e nella Repubblica platonica4, ma sovrappiù di
significato, amplificazione di senso che da origine ad un’energia perturbante che
scuote lo spettatore, il quale, e qui risiede la complessità e il fascino immaginifico
della specularità, è anche oggetto della visione.
Turbamento che è generato da una parte, dall’illusiorietà dell’immagine riflessa e
dalla conseguente possibilità di deformazione e alterazione della realtà, dall’altra,
dall’eccesso di somiglianza con l’originale, rischio di duplicazione assoluta che si
manifesta alla coscienza collettiva nel mito di Narciso e nella figura del doppio. La
possibilità dell’assoluta somiglianza, dell’identità, si compone nell’ambiguo simbolo
dello specchio con la possibilità opposta della deformazione e della differenza.
“La pierre obsidienne est noire, transparente et mate. On en fait des miroirs. Ils
reflètent l’ombre plutôt que l’image des êtres et des choses5 ». Ma quale specchio è
in questione in questo frammento di Caillois ? Uno specchio che non ha a che fare
con la luce perché scuro, trasparente e opaco, che cosa potrà mai riflettere? Riflette le
tenebre, dice Caillois, quindi un’immagine perversa e non solamente duplicata
3 Per un’analisi del complesso simbolo dello specchio vedi J. Baltrusaitis, Lo specchio, Adelphi, Milano 1981 e Id, Anamorfosi, Adelphi 1990 (i capitoli 9-10); M. Milner, Effetti di specchio, in Id. Fantasmagoria, Il Mulino, Bologna 1989; 4 Su questo tema in Platone che si intreccia con quello, fondamentale, della mimesi, rimando ai prossimi capitoli. Platone, Repubblica, 596a; 602c-d; Id., Sofista, 266c. 5 R. Caillois, Pierres, Gallimard, Paris 1972, p.18 (trad. it. Pietre, Graphos, Genova 1998)
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inversamente: un’apertura su ciò che sta dall’altra parte dello specchio. Lo specchio
scuro allora, come per l’Orfeo di Cocteau, si fa soglia, tramite per un’esperienza
duplicante e dislocante del reale.
L’immagine riflessa è quindi dotata di una realtà ambigua, una copia che però è
rovesciata rispetto all’originale, un doppio che ripete minuziosamente tutti gli atti ma
ribaltandoli, una dislocazione figurale che può amplificarsi al variare della pendenza,
come nelle anamorfosi speculari, e della materia della superficie riflettente. La
doppia veste di autore della visione e di referente dell’immagine mimetica costringe
il soggetto ad una messa in discussione del suo essere nel mondo e ad una
riorganizzazione della relazione interno-esterno che mostra come “la funzione
dell’imago (immagine riflessa) sia quindi quella di stabilire una relazione
dell’organismo con la sua realtà, dell’Innenwelt con l’Umwelt”6
I gesti ripetuti come in un sogno dagli animali dello specchio, sono allora quelli del
soggetto che di fronte a se stesso in azione, perde il contatto con la dimensione
univoca dell’identità e assume la percezione eteroclita propria degli stati allucinati e
paranoici.
Con Lacan, la Gestalt che emerge dallo stadio riflessivo dello specchio simbolizza la
permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante
(nel costituirsi paradossale di Io alternativi, io-statua, io-fantasma, io-automa). La
cristallizzazione dell’identità in una sorta di granitica evidenza dell’Io s’intreccia con
la messa in discussione dell’unicità individuale:
“Il soggetto non perderà mai la propria natura incompleta di immediatezza mediata, di ingannevole
lastra di confine tra lo spazio reale e corporeo e quello immaginario e mimetico. La quasi-realtà
6 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Scritti, vol. 1, Einaudi, Torino 1995, pp.87-94. In diretta sintonia con le tesi di Lacan è il giovane Caillois quando si trova a definire i punti programmatici di una nuova teoria epistemologica: “Interprétation réciproque des phénomènes du monde intérieur et du monde extérieur de manieère à placer dans une nouvelle lumière le problème des rapports de la subjectivité et de l’objectivité en rendant manifeste l’homogéneité pofonde de l’Umwelt et de l’Innenwelt”. R. Caillois, Procés intellectuel de l’art, in Id Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 54
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dell’immagine speculare si riverbera sull’io, trasformandolo, a sua volta, in una quasi realtà che non è
in grado di soggettivarsi ne di oggettivarsi a pieno”.7
L’immagine speculare sembra essere allora la soglia del mondo visibile, sia
l’immagine del proprio corpo nell’allucinazione e nel sogno, sia l’apparizione del
doppio.
L’intrecciarsi di una dialettica esterna del riconoscimento e di una interna
dell’alienazione segna allo stesso modo la relazione tra immaginazione e materia, tra
immagine e oggetto.
La percezione dell’identità individuale e il suo consolidamento soggettivo avviene
infatti in una dimensione contigua a quello paranoico di una acquiescenza
all’ambiente, la separazione di una dimensione esterna e di una interna sfuma
nell’indistinzione della sfera immaginifica.
Non a caso Lacan situa lo stadio dello specchio ad un livello pre-simbolico,
nell’Immaginario: la rigida demarcazione viene meno in una generale e proliferante
attribuzione di significati e di immagini “perverse”, il reale assume una connotazione
“fantastica” in cui i codici usuali di interpretazione saltano in un frenetico
movimento di ridefinizione e annullamento.
La localizzazzione incerta dell’io generata dallo stadio dello specchio, che con la
Krauss potremmo chiamare “anamorfosi dello spettatore”8, diviene allora il
dispositivo retorico che per eccellenza sveglia il fantastico, rompendo i normali
parametri di lettura fondati sul principio d’identità: adottato frequentemente da
scrittori e artisti del “perturbante” come E.T.A. Hoffmann9, talvolta con accorgimenti
letterari giocati sul ribaltamento del proprium dello specchio come l’assenza di
specularità, o da Lewis Carroll, sfruttando l’ottica deformante del paradosso e
dell’ironia, per non parlare dell’uso che se ne fa nella pittura barocca come immagine
illusoria o rivelatrice della vanitas10.
7 R. Bodei, Il desiderio e la lotta, in A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi, Torino 1991, p.XVI8 R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Einaudi, Torino 1996, pag. 829 E.T.A. Hoffmann, La casa disabitata, in Id. Racconti notturni, Einaudi, Torino 1994
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Da un lato quindi inganno e illusione, dall’altro soglia del visibile e apertura sul
fantastico11. In questi caratteri si spiega la ragione per cui l’espediente della
riflessione e della rifrazione rovesciata abbia partecipato in tanta misura ai natali
della fotografia e delle prime sperimentazioni surrealiste.
Nel monumentale studio che Walter Benjamin dedica alla Parigi del XIX secolo
affiorano timidamente alcune osservazioni riguardanti l’uso ipertrofico che viene
fatto degli specchi e delle vetrine nei caffè e nei passages. Mettendo a confronto
alcune di queste, contenute nel Passagen Werk, con le poche pagine di un articolo
del 1929, Parigi, città allo specchio12 emerge evidente la duplicità che affligge tale
oggetto.
“Il modo in cui gli specchi, portano all’interno del caffè lo spazio aperto, la strada, anche questo fa
parte dell’incrocio degli spazi (…) L’arte dell’apparenza accecante qui è giunta a una grande
perfezione. L’osteria più ordinaria ha di mira l’illusione degli occhi.” 13
Qui viene sottolineata l’apparenza accecante che viene creata dall’accumularsi di
superfici riflettenti, lo spazio si raddoppia e la merce in vetrina acquista splendore e
potenzia l’effetto quantitativo, il flanêur si perde nella fantasmagoria delle merci
grazie alla magia degli specchi che qui tanto assomiglia al sonante incantamento
delle immagini stereoscopiche del Kaiserpanorama.
Gli specchi dei passages sono una scintillante soglia infinitamente sottile che crea
l’illusione di portare le rumorose strade della città nella trasparente atmosfera
sottomarina di un palazzo di cristallo. “Poiché le porte e le pareti sono fatte di
specchi, ci si confonde davanti al loro ambiguo chiarore14” e quello che si credeva
10 Celebre è la raffigurazione di una splendida donna colta di spalle mentre si guarda in uno specchio: questi restituisce l’immagine della morte e del decadimento della sua bellezza. Prossimo a queste suggestioni della vanitas barocca e dell’elemento profetico contenuto nell’illusione, è il racconto di Marcel Schwob, Le Milesiache, in Id. Il terrore e la pietà, Einaudi, Torino 11 Per una storia di questa ambivalenza dell’immagine-specchio vedi J.-J.Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999, pp. 227-23412 Contenuto in W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 199313W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, frammento R1,1, riportando un brano di Gutzkow.14 Ibidem, pag 601
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uno spazio delimitato si apre improvvisamente a scenario infinito di avvenimenti
meravigliosi e incantati. L’apparenza luminescente dei passages, che è di volta in
volta ambiente sommerso da verdi acque e costellato di rossi coralli o folgorante scia
di pianeti e satelliti accesi come lampioni, si svela, come risvegliandosi da un sogno,
nel suo essere un paesaggio d’inferno, un luogo nientificato dal suo essere pura
immagine speculare, uno spazio in cui la proliferazione infinita dei significati viene
ricondotta all’originaria ambiguità del fenomeno nella “direzione del suo esser
Qualcosa o del suo esser Niente.”15
Quindi “per quanto quest’universo speculare possa anche significare molte, anzi
infinite cose, esso resta tuttavia ambiguo. Esso ammicca: è sempre quest’uno e mai
nulla, da cui sbuca improvvisamente un altro. Lo spazio, che si trasforma, lo fa nel
grembo del nulla”16.
L’intérieur dei passages è allora come una maschera, sempre diversa e multiforme,
che si applica al vuoto paesaggio desertico di un non-luogo, di una inconclusività
infernale del passaggio, di una eterna sostituibilità e manipolabilità dei significati in
gioco. “Nell’intérieur lo spazio è apparenza”17, così nell’immagine speculare tutto è
solo somigliante al vero, lo sguardo nello specchio nasconde nelle sue profondità
magiche il mistero della mimesi.
Lo specchio è il dominio della necessità dell’apparenza, una duplicità di piani che
coinvolge anche il referente esterno dell’immagine nell’accusa di apparenza illusoria.
Gli oggetti e non solo gli uomini nella riflessione vengono trasposti su un altro piano
di realtà, così il fantastico viene risvegliato e l’incertitude qui vient des rêves si
impadronisce del reale.
Nel 1929 quando l’influenza dei surrealisti sul suo pensiero cominciava già a
mostrare alcune diffidenze, Benjamin scrive per la rivista Vogue un breve articolo in
cui scopre con leggerezza l’affinità di letteratura e spazio metropolitano nella
15 Fabrizio Desideri, Il vero non ha finestre…ottica e dialettica nel Passagen Werk, in Id. La porta della giustizia, Pendragon, Bologna 1995, rimando a questo articolo per l’analisi più accurata di questi temi. 16 W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 60517 T.W.Adorno, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Milano 1983
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molteplicità degli sguardi riflessi in uno specchio. “Parigi è la città dello specchio:
liscio come uno specchio è l’asfalto delle sue strade”18, le superfici riflettenti sono il
simbolo da cui scaturiscono come da sorgente le opere di Marivaux, l’opaco
naturalismo di Zola, sono il profondo abisso della memoria in cui Proust si è lasciato
andare all’inseguimento dell’infinito ricordo del ricordo:“gli specchi sono l’elemento
spirituale della città, il suo scudo araldico nel quale sempre si sono iscritti gli
emblemi di intere scuole letterarie”19. La città accoglie nell’immagine dello specchio
la sua realtà mitica, la sua contestualizzazione in un’universo affettivo in cui “interi
quartieri dischiudono il loro segreto nei nomi delle loro strade” e lo sperduto
straniero è come un viaggiatore incantato, che legge nelle piazze ombrose che si
aprono all’improvviso, nelle logge discrete dove pudica la città si cela agli sguardi
intrusi, la storia reale o mitica di un passato che diviene attualità carica di decisione.
Lo specchiarsi mostra il dinamismo equivoco della metropoli, radice di ogni forma
illusoria, di ogni identità costruita che si aggira nelle vie invase di gente.
“Parigi è la città dei contrari” dice un famoso fisionomista del XIX secolo, donna
vanitosa polimorfica fatta di specchi in cui si riflette, perpretando all’infinito le sue
figure, i suoi volti, le sue ambiguità. La Senna, il grande specchio sempre desto, è
l’opaco diffrangersi rovesciato delle immagini infrante, placido raccoglimento di una
città preda della febbre di rivolta.
Nella riflessione speculare niente è come prima, tutto è esposto ad una legge
sconosciuta, legge immateriale della luce, satanica per gli spiriti romantici, luciferina
per i moderni non conformisti e rivoluzionari.
Attraverso i vetri tutto sembra immerso in un’atmosfera bagnata, per un passante il
vetro mostra l’interno ma rispecchia contemporaneamente l’esterno: un regno
subacqueo bagnato dalla luce verdastra dell’utopia liquida dei surrealisti.
Nella dialettica del riconoscimento si cercano i simili e la moda impone nei lacci
troppo stretti di un corpetto, il congelamento luttuoso della vita.
18 W. Benjamin, Parigi, città allo specchio, in Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 249 19 Ibidem, pag 251
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“Una materia che l’immaginazione non può far vivere doppiamente, non può avere la funzione
psicologica di materia originaria. Una materia che non è occasione di un’ambivalenza psicologica non
può trovare il suo doppio poetico che consente infinite trasposizioni.”20
In questa frase tratta da un’opera sulla forza immaginifica dell’acqua e sul suo
rapporto con la dimensione del sogno, Bachelard espone quello che potrebbe essere
lo statuto dello specchio, una duplicità necessaria alla proliferazione mitica.
Le acque sono viste nella loro naturale fecondità, nell’umido impregnarsi della terra
che precede ogni nuova nascita: è femminile, amorosa, è il grembo nutriente della
madre che custodisce il segreto della genesi.
È Narciso, è il cigno che scherza seducendo Leda, sono gli spumeggianti flutti da cui
sorgono le Ninfe e le Naiadi, è principio vitale che si rovescia però in sprofondare
luttuoso nella figura di Ofelia e nel transito all’al di là del traghettatore Caronte.
È una morte immobile, in profondità, è il cadavere femminile, una chioma
accarezzata e fluttuante che rimane un attimo come sospeso prima di inabissarsi nel
denso liquido scuro, un’ immagine quest’ultima che rimanda alla tradizione
simbolista poi ripresa dal surrealismo.
Lo specchio ambiguo di un lago come quello che inghiotte il figlio di Carlotta nelle
Walverwandschaften di Goethe è l’aspetto che assume Parigi agli sguardi
infinitamente riflessi dei suoi abitanti. Una dialettica di assorbimento e riflessione,
riconoscimento e annullarsi dell’identità, contraddistingue la città che, nella fluida
metamorfosi dei significati simbolici, partecipa al formarsi dell’erotico connubio
della città-corpo, della città-donna, con il poeta surrealista.
A questo punto cio che viene detto di Ottilia e della natura “acquea” della bellezza si
può affermarlo a proposito della città:
“Come l’anima apparente vi si svela ambigua, seducendo con la sua chiarezza innocente e attirando
nel buio più profondo, così anche l’acqua partecipa di questa strana magia. Poiché da un lato essa è il
nero, l’oscuro e l’impenetrabile, ma da l’altro il chiaro, che riflette e chiarifica.”21
20 G. Bachelard, Psicanalisi delle acque, Edizioni Red, Como 198721 W. Benjamin, Le affinità elettive, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 223
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L’armonioso e caotico fluttuare da cui nasce Venere, la bellezza come forma
esteriore della donna, è effetto ottico, rifrazione ingannevole, così il bello trova il suo
momento aporetico nell’apparenza.
Lo srotolarsi di vie, vicoli e piazze, come zone erogene di un corpo amato, sono il
teatro delle avventure del flâneur. L’intera Parigi è sotto il segno di una rivelazione
erotica, dalle prostitute che scambiano sguardi invitanti ai clienti dei passages, alla
voluptueuse nonchalance con cui la Senna penetra attraverso i caseggiati e si insinua
sotto le arcate dei ponti :
“Il suo respiro impercettibile è tradito solo dai fruscii che a brevi intervalli fa passare sulla sua pelle.
Si accentua e quasi si elettrizza un po’ verso la carne più tenera del ventre, dove una delle cosce
descrive un arco più grande fino a ricoprire in parte l’altra e far si che le gambe confuse (…) si
affilino e ondeggino in forma di coda di sirena senza fine.”22
In preda ad un’ebbrezza, alla ricerca di una bellezza che “sarà convulsa o non sarà”,
nella liberazione delle energie dell’affettività, questo è il modo con cui la Parigi dei
surrealisti va loro incontro. Nella contiguità di specchio e acqua si apre una
possibilità di lettura dell’affermarsi surrealista di un’esperienza fluida e indefinita
della città. La metropoli diviene teatro e segreta ispiratrice del dramma che la vede
protagonista:
“lo scenario della città fa parte del mistero; si ricorda la lampada divina dal becco d’argento, dai
bagliori bianchi come la luce elettrica che, in Les Chants de Maldoror, discende lentamente la Senna
attraversando Parigi. Più tardi, all’altra estremità del ciclo, in Fantômas, la Senna conoscerà anche,
verso il Quay de Javel, inspiegabili bagliori erranti nelle sue profondità”.23
Come un’onda scura che placidamente penetra tra gli scogli senza frangersi ma
accarezzandone le superfici levigate, così esperire la nuova realtà della metropoli
significava aggirarsi come fantasmi nelle pieghe di quelle grandi carte topografiche,
22 A. Breton, Pont-Neuf, in La Clé des champs, J.-J. Pauvert, Paris 1967, pp.276-7723 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998
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lasciarsi influenzare dall’echeggiare meraviglioso dei toponimi, riconoscere il
quotidiano come impenetrabile e l’impenetrabile come quotidiano. Il fantastico si
impadronisce degli oggetti che vengono estrapolati dal loro abitudinario contesto
d’uso e assumono, come nel pezzo carico di affettività di una collezione, il valore di
un fulmineo ed emozionale scaturire di immagini inedite e rammemoranti.
Il pezzo da collezione è “sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel
rapporto più stretto possibile con oggetti a lui simili”, è inserito in una collezione, è
inscritto “in un cerchio magico in cui esso s’irrigidisce, nell’atto stesso in cui un
ultimo brivido lo attraversa”24. Il ricordo è lo schema della trasformazione della
merce in oggetto di collezione. La completezza è il paradigma che costruisce intorno
all’oggetto collezionato un mondo di oggetti connessi in temerarie analogie, in virtù
di un favoloso passato, alternativo a quello destinatogli in quanto strumento.
Il tema della memoria connesso a quello del passaggio, della trasgressione e
transitorietà dell’identità e delle categorie di spazio e tempo è centrale in quel testo
tra flanêrie e recherche che è la Guide du XV arrondissement à l’usage des
fantômes25di Roger Caillois.
Quest’opera che avrà anche una versione televisiva presentata dallo stesso Caillois, è
divisa in tre parti che costituiscono le due fasi dell’esistenza, infanzia e maturità, e la
dimensione ulteriore, sotterranea e immaginaria, del fantasma.
La lezione surrealista riaffiora in un’anamnesi fantastica del paesaggio cittadino, gli
oggetti del passato agiscono come illuminazioni, in una sorta di psicogeografia dove
l’autore e Parigi si confondono e percezione e rappresentazione vengono superate
nella creatività del ricordo.
Il motivo dello specchio si associa a quello della memoria come mezzo duplicante,
motore della dialettica paradossale del medesimo e dell’altro (da cui si sviluppa il
tema del doppio e dell’autoprodursi del soggetto).
La memoria unisce territori di diversa sovranità, elemento trasgressivo del tempo e
dello spazio che, al pari dei sogni, provoca incertezza, e si apre all’irruzione del 24 W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, (H 1a, 2)25 R. Caillois, Guide du quinzième arrondissement à l’usage des fantômes, pubblicato con il titolo di Apprentissages de Paris, Fata Morgana, Paris 1977
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fantastico come fenomeno che unisce cio che è con ciò che è stato, ciò che è con ciò
che non esiste più.
Nella memoria Parigi si duplica, genera fantasmi, assume tratti distorti e diffranti
come immersi per metà nell’acqua : si apre alla visione incerta una Parigi notturna,
come quella surrealista, in cui l’oscurità, il buio è indistinzione dei contorni,di
interno ed esterno, senso di spersonalizzazione26.
La vera Parigi è altrove e in nessun luogo, così infatti si presenta la spazialità
dell’immaginario: nello specchio frantumato migliaia di volti si riflettono
deformandosi, nel rifluire delle acque i contorni del reale si sfumano: urge a questo
punto non cadere in una vertigine vittima di un irrazionalismo mistico confuso e
ammaliante27, non fermarsi alla creazione di una nuova mitologia, ma sollecitare il
risveglio, produrre una nuova esperienza percettiva e quindi una poesia, una
letteratura, una critica innervata nel politico.
Viene denunciata l’inattualità di ogni romanticismo, di ogni metafora morale, di ogni
letteratura che non metta i panni della decisione. La città mostra allora nella rivolta il
suo volto surrealistico: “le strade deserte dove fischi e spari impongono la decisione”
accolgono i frastuoni dello scandalo, a cui rispondono gli schioppi delle baionette;
ogni palazzo è un fortino da assaltare e ogni oggetto si compone in una barricata:
tutto sembra pronto per una nuova rivoluzione e storicamente, solo la creazione del
Fronte popolare riuscirà ad evitare che la profezia di place de la Concorde28 si
materializzi in un’originale perchè trasversale, presa della Bastille.
26Illuminanti sono gli « instants de dépersonnalisation, d’oubli de moi et de communication avec les pradis révéles” frequenti nelle esperienze interiori di Baudelaire. W.Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, (J20,3)27 Sul pericolo di uno svanire solipsistico delle energie contenute nell’ebbrezza vedi F. Masini, Dialettica dell’ebbrezza, in Tempo, storia, Linguaggio, Editori Riuniti, Roma 198328 Ci si riferisce qui alla giornata del 6 giugno 1934 in cui tutte le forze radicali di destra e sinistra e i “giovani anticonformisti” legati a riviste e libelli contestatari come Ordre Nouveau o Esprit, scesero in strada assalendo il palazzo del Parlamento francese, costruendo barricate e ingaggiando un duro scontro con la polizia. Questa giornata segnerà fortemente le attività e le analisi politiche del futuro Collége de sociologie.
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II. Critica dell’immagine surrealista
Silenzio. Voglio passare dove nessuno è ancora passato, silenzio!
Dopo di lei, dilettissima lingua.Andrè Breton
“Miti nuovi nascono sotto ciascuno dei nostri passi”29, cosi Aragon cantore di
un’epica del meraviglioso, nell’entusiasmo di un abitante dei passages.
È impossibile pensare il surrealismo lontano da Parigi e dalla sua modernità kitsch
rappresentata da quei grandi bazar di vetro, “santuari d’un culto dell’effimero” e
“ricettacoli di parecchi miti moderni”, quali furono i passages. Ed è altrettanto
impossibile concepire il surrealismo se non come un necessario superamento
politico-epistemologico del vecchio Dada30. Il contesto metropolitano parigino
assume con Breton la dimensione di un universo di immagini instabili e automatiche
che vanno a comporsi in una topografia mitica in continuo divenire. Un paesaggio
metaforico dove tutto è soggetto ad un improvviso ribaltamento di senso, all’interno
di una strategia poetica che ha nell’ebbrezza del non-sense il suo limite estremo.
Tutto nel surrealismo si riduce all’immagine, l’immensa metaforizzazione del reale è
lo scopo dell’economia dell’immaginario surrealista. Né la forma assoluta né il
sensibile sono qui interessate, l’universo è immagine aintenzionale, è écriture
automatique in cui gramma e proposizioni non contano, il surrealista è uno scriba del
caos che attinge la bellezza delle immagini da una scrittura primordiale che è
assoluto desiderio, risorsa inconscia di un figurale in continuo e autonomo prodursi.
Per Dada il segno è lasciato a se stesso e nella sua autoreferenzialità rappresenta
l’intera catena significante. Non vi è un referente e nessun tentativo di trovarne uno
nuovo, un reale alternativo anche se irreale, e il significato è tanto volubile e
aleatorio da annullarsi nel gioco cauale delle associazioni libere. Tutto si risolve nel
29 L. Aragon, Il paesano di Parigi, Il saggiatore, Milano 199630 “Il padre del Surrealismo è stato Dada, sua madre un passage. Quando egli ne fece la conoscenza, Dada era già vecchio.” W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993
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calembour ludico dei segni e delle suggestioni sonore, e la sua sterilità politica gli
procura ben presto critiche e la necessità di un superamento.
Nell’immagine surrelista è invece in opera un continuo processo di
referenzializzazione che vede il segno soggetto a sostituzioni infinite di senso.
L’immagine surrealista è sempre in ricerca di un nuovo contesto di riferimento, la
dislocazione semantica è solo momentanea, un nuovo luogo è pronto ad accogliere la
richiesta di senso del segno.
La Krauss usa la nozione di indice, o meglio di sincategorema per la sua natura di
significante vuoto, “che al contrario degli altri tipi di segni, istituisce un rapporto tra
la traccia e il senso (o referente) lungo un asse che è al tempo stesso causale, fisico e
spaziale”31, per mostrare questa condizione sintomatica dell’immagine surrealista.
Non solo l’inconscio è allora matrice di significati ma la stessa città come sistema di
segni ha l’identica funzione profetica e di rammemorazione che collega la traccia con
il mistero sotteso al suo apparire. Una rivoluzione del quotidiano, dell’esistente è il
volto dell’immagine surrealista, “porta girevole” che come lo specchio confonde
interno ed esterno, che apre ad una “realtà sconvolta dallo statuto dell’indice, in un
processo continuo di referenzializzazione”32 .
“Immagine e linguaggio hanno la precedenza”33, ma il linguaggio nel surrealismo è
produzione di immagini, ogni logica simbolica e convenzionalismo grafico viene
abbandonata, “del surreale non si può parlare se non per immagini”.
L’identità di linguaggio e immagine si riassume nel concetto bretoniano di
“conscience poétique des objets” in cui si condensa la teoria surrealista dell’oggetto
nella sua riduzione a metafora.
Seguendo la distinzione aristotelica dei diversi tipi di metafora34 che, a seconda del
rapporto che connette i termini in gioco, rispettivamente danno origine alle forme
retoriche della metonimia e della sineddoche, si intende qui per metafora la sola
metafora analogica: un’analogia condensata è quindi alla base di ogni metafora.
31 R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Mondadori, Milano 1996, pag. 14432 Ibidem, pag.14633 W. Benjamin, Il Surrealismo, in Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 25534 Aristotele, Poetica, 1457b
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L’analogia, a differenza della sineddoche o della metonimia, che costituisono una
semplice figura retorica, afferma una similitudine tra rapporti, si rappresenta cioè
come una proporzione simmetrica composta da quattro termini35.
In una pagina del saggio sul surrealismo Benjamin accenna alla distinzione di
similitudine e immagine contenuta nel Trattato dello stile di Aragon, la loro
contraddittorietà in campo politico è intrinseca al loro statuto retorico. La metafora
morale della tradizione “socialdemocratica” rimanda al concetto di simbolo come
univoco rapporto senza residui della figura e del significato; la trasposizione di un
nome nell’area semantica di un altro, definizione classica della metafora, contenuta
nella Poetica di Aristotele36, costituisce la monolitica chiusura e finitezza di un
contenuto che si impone con la forza dogmatica di un assoluto fattuale. La
similitudine ha la funzione di paragonare due termini già prossimi nella loro
dimensione semantica e di creare un’immagine univoca che abbia una forza
persuasiva ad un movimento di aggregazione identitaria; il paragone non costituisce
niente di nuovo sul piano conoscitivo tuttalpiù esplicita un contenuto oscuro o
favorisce un prevedibile moto di adesione sentimentale. Al contrario l’immagine vive
della connessione di due contraddittori; fondamentale perché un’analogia sia tale è la
lontananza, l’eterogeneità dei termini in gioco, “il faut même qu’ils soient
hétérogènes pour que l’analogie ne se réduise pas à une simple proportion”37.
La metafora morale è portatrice di un unico significato politico e culturale, non è
disposta in quanto ideologica ad assorbire dialetticamente in sé un valore altro,
escludendo ogni riferimento alla energia immaginativa contenuta nel linguaggio.
Alla metafora sclerotizzata e immobile che è semplice similitudine, rapporto di
aderenza assoluta tra le due figure in gioco all’interno di una proporzione, si
contrappone in una dimensione energetica, dinamica, l’immagine surrealista:
35 Su questo vedi C. Perelman, Analogie et métaphore en science, poésie et philosophie, in Revue internationale de philosophie, n. 87, Parigi 1969, pag. 436 Aristotele, Poetica, 1457 b37R. Caillois, Obliques, Paris, Stock 1975
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“Il valore dell’immagine dipende dalla bellezza della scintilla ottenuta, essa è perciò funzionale della
differenza di potenziale tra i due conduttori. Quando questa differenza esiste appena, come nel
paragone, la scintilla non si produce”38
La bellezza scaturisce come fiamma viva dalla contraddizione, dal divenire
convulsivo delle forme in continua metamorfosi; nasce solo dalle alte escursioni
differenziali dove l’ambiguità di un accostamento scatena le forze contenute nella
casualità dell’incontro. Contrariamente alla similitudine essa si nutre del fortuito,
dell’imperscrutabile volere del caso: nessuna intenzionalità o volontà creatrice è alla
base di un’immagine surrealista, il cosmo intero è degno di essere rappresentato
perché magico-circostanziale39.
Questa fede metafisica del surrealismo nell’autonomia immaginale è
straordinariamente prossima ad un neoplatonismo che vede nello stabilizzarsi
fuggitivo di un’immagine la possibilità ultima di una salvazione dei fenomeni. La
surrealtà è allora un universo in cui, alla caduta del mito come grande narrazione
collettiva, risponde il risveglio della traccia mitica celata nelle “cose asservite e
asserventi” quando cominciano a passare di moda, delle forze rivoluzionarie
custodite nelle squallide esperienze quotidiane destinate all’oblio.
Il concetto di catacresi, così come utilizzato da Raymond a proposito della poetica
di Baudelaire40può essere illuminante anche a proposito dell’immagine surrealista:
una perdita di proporzionalità, distorsione del senso che disequilibria la relazione
significante lasciando allo scoperto l’inespresso, quel sovrappiù di senso non
traslabile in una proposizione costruita sulla distinzione classica senso proprio/senso
figurato, théme/phorè. William Rubin, nel tentativo di trovare una formula insieme
coincisa e sintetica che definisca lo stile surrelista, adottò il concetto di immagine
metaforica irrazionalmente intesa41.
38 A. Breton, Primo manifesto del surrealismo, in Id. Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino 198739 A. Breton, L’amor fou, Einaudi, Torino 1974; I tre gradi della bellezza teorizzati da Breton, bellezza convulsiva, erotico-velata e magico-circostanziale, costituiscono una critica radicale e una frantumazione dell’estetico come pratica creativa intenzionata e conscia distinta dall’esistenza.40 M. Raymond, Da Baudelaire al surrealismo, Einaudi, Torino 197241 Citato da R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Mondadori, Milano 1996, pag. 102
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La metafora surrealista è quindi immagine perversa, disequilibrio delirante del
significante che prevarica il significato, che toglie al nominato funzione e contesto
privando la parola di ogni referente reale stabile: “l’atto significante consiste nel
passare da uno spazio a un altro, si svolge senza referente fisso e stabile”. In questo
annullamento del problema della referenza univoca ma nel preservarsi di una
contiguità con il reale, sconvolto dalla ricerca di un’inedita referenzializzazione, sta
il segreto di ogni immagine surreale. “Il dinamismo interno alla figura” che così si
viene a creare “non è riconducibile ad un’ armonia rappresentativa”42, il discorso
metaforico si costruisce modellandosi sul modello onirico e sulla “tentazione”
psicotica.
Già evidente nel riferimento a due sfere, quella onirica e quella psicotica, è il valore
inconscio attribuito a tutto il procedimento creativo surrealista.
Le forze dinamiche del desiderio entrano nel processo immaginativo impadronendosi
di ogni tensione signicativa. Il linguaggio è nella sua essenza flusso sotterraneo
irriducibile all’istanza discorsiva, è proprio ciò che non trova esatta definizione
nell’ambito di una grammatica e il segno linguistico nasce da subito come cadavere
inerte, involucro residuale di una gloriosa vita passata:
“Non si è insistito abbastanza sul senso e la portata dell’operazione che tendeva a restituire il
linguaggio alla sua vera vita, ossia piuttosto che a risalire dalla cosa significata al segno che le
sopravvive, il che oltretutto si rivelerebbe impossibile, a riportarsi d’un balzo alla nascita del
significante.43”
La germinazione brulicante dell’immagine avviene come un “dispositivo di cattura
della energheia metamorfica, cioè della energia libidinale pura e semplice”44. Il senso
compiuto che si manifesta nella proposizione letteraria è bandita dalla scrittura
dell’inconscio, dall’écriture automatique che mostra nel suo formarsi, il meccanismo
di libera associazione che presiede ad ogni linguaggio.
42 L. Gabellone, L’oggetto surrealista, Einaudi, Torino 1977, pag 2743 A. Breton, Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino, 1987, pag. 44 L. Gabellone, L’oggetto surrealista, Einaudi, Torino 1977, pag 28
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Ma proprio nel suo elemento fondante, nella nozione di automatismo, la poetica di
Breton mostra delle contraddizioni insolubili.
Da tali contraddizioni muoveranno la loro riflessione “eretica” due ex-surrealisti,
Georges Bataille e Roger Caillois: il primo allontanato e tenuto sempre a distanza per
la sua inquietante personalità non solo filosofica45, l’altro, mai ripudiato da Breton
che lo elogerà, giungendo a definirlo bussola mentale del surrealismo.
Bataille mette a nudo l’anima cristallina e platonica del surrealismo; la bellezza
convulsiva di Breton è come un arrestarsi improvviso della dynamis immaginale
inconscia, un congelamento delle figure rimosse della libido. Bataille denuncia qui la
completa assenza nel discorso bretoniano di materiali strettamente legati al principio
di piacere, l’eterogeneità del contenuto inconscio sembra svanire sotto la censura di
un linguaggio puro e ancora troppo simbolista. Sembra quasi che Breton operi,
ossessionato dalla geometrica e immutabile bellezza dei cristalli, una ulteriore
rimozione delle energie che pretendeva di aver liberato nella scrittura automatica; il
rimosso che affiora invece negli articoli di Bataille o nei suoi primi romanzi, è il
residuo, il sempre escluso da ogni rappresentazione estetica, l’impuro,
sull’esclusione del quale, si fonda ogni ordine sociale. Per avere prova di questa
distanza è sufficiente accostare la batailliana Storia dell’occhio e i verbali delle
sedute surrealiste sulla sessualità, in cui il discorso erotico viene neutralizzato
attraverso l’uso di un codice sobriamente analitico e falso confidenziale.46
45 “Breton non poteva accettare l’immagine del vecchio libertino intento a sfogliare, nel manicomio di Charenton, i petali di una rosa per poi gettarli nella fetida poltiglia di uno scolo. Nella sua ottica sublimante soltanto la metafora poetica acquistava un senso: il valore simbolico del gesto doveva eliminare ogni bassa contaminazione. Per lui c’era qualcosa di ossessivo e malsano nella cupa rappresentazione batailleana che finiva per disgustarlo, obbligandolo a prendere le distanze. Bataille manifestava agli occhi di Breton sintomi inquietanti di devianza che potevano giustificare una netta discriminazione nella sfera della malattia mentale, attraverso una disgnosi precisa di stretta osservanza clinica: “Uno stato di deficit cosciente di tipo generalizzatore, direbbero i medici (…) Un segno classico di psicastenia”. Carlo Pasi, Georges Bataille. La ferita dell’eccesso, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pag. 83. Lo scambio reciproco di attacchi tra Breton e Bataille si può condensare nel secondo manifesto surrealista bretoniano e negli articoli che ne costituiscono la risposta bataelliana, Il valore d’uso di D. A. F. de Sade, e La vecchia talpa eil prefisso “su” nelle parole” superuomo” e “surrealista”, in G. Bataille, Critica dell’occhio, Guaraldi, Rimini 1974 46 Archivio del surrealismo, Ricerche sulla sessualità, SE, Milano 2002
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La nozione di bellezza di cui è impregnato Breton, nella sua accezione platonica,
ristabilisce nel discorso freudiano quell’aura spitituale di sacralità che l’oggettività
psicanalitica indifferente alla moralità e alla religione sembrava aver annullato. La
posizione di Bataille è allora estrema nel ribadire, nella sua personale eterologia, il
valore rivoluzionario della psicanalisi e l’assoluta forza rivoluzionaria dell’oggetto
impuro. Da un eterologia ad un’altra, la critica di Caillois, che condivideva con
Breton la fascinazione per il Bello matematico ed eterno delle forme geometrizzanti,
si radica in uno scetticismo radicale sulla possibilità della scrittura automatica di
rivelare il funzionamento reale del pensiero. Una grande comunità di interessi e la
stessa tendenza alla suggestione per la fredda natura dell’inorganico unisce i due
nella distanza delle soluzioni: basti mettere a confronto le splendide descrizioni
mineralogiche dell’ultimo Caillois47 con questo brano di Breton:
“Mi pare che non sia possibile ricevere una più alta lezione artistica da quella che ci è offerta dal
cristallo. L’opera d’arte, allo stesso modo del resto, che un qualsiasi frammento della vita umana
considerata nel suo significato più grave, mi sembra priva di valore se non presenta la durezza, la
rigidità, la regolarità, lo splendore del cristallo su tutte le facce esterne e interne”48
Sullo statuto dell’immagine surrealista e sul ruolo giocato dall’irrazionale e
dall’automatismo psichico nel processo conoscitivo si misura la distanza di Caillois
da Breton.
La famosa disputa sui fagioli saltanti che ogni volta viene tirata in ballo
aneddoticamente, viene analizzata a posteriori da Caillois in un articolo comparso sul
numero monografico dedicato a Breton della Nouvelle Revue Francais49; l’episodio
dall’alto valore simbolico è per Caillois une question méthodologique primordiale,
un momento essenziale del suo percorso che lo condurrà a prendere le distanze da
ogni posizione letteraria ed estetica.
47 L’attenzione di Caillois al mondo dell’inorganico e in particolare a quello delle pietre si concretizza in una tetralogia saggistica: Pierres, ; Pierres, suivi d’autres textes, Gallimard 1971; La scrittura delle pietre, Marietti; Pierres réfléchies, Paris, Y.Riviére 1975
48 A. Breton, L’amour fou, Einaudi, Torino 1974, pag. 1249 R. Caillois, Divergences et complicités, in Nouvelle Revue Française, n.172
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“Que m’importent en fin de compte des illuminations dispersées, instables, mal garanties, qui ne sont
rien sans un acte de foi préalable, qui ne sont même plaisantes que par le crédit qu’on y ajoute?
L’irrationnel : soit ; mais je veux d’abord la cohérence... »50
Le immagini surrealiste sono per Caillois prive di valore conoscitivo, sono instabili,
“nulle, infinie”, e hanno “comme caractère principal d’être in-imaginable”51.
La scrittura automatica abbiamo visto si presenta come una intuizione intellettuale di
immagini che si compongono superando le contraddizioni logiche, costituendo una
surrealtà nella fugacità di una connessione arbitraria con l’esistenza materiale della
rappresentazione.
La Krauss parla di percezione surrealista della realtà che si fa rappresentazione52 ma
sembra più appropriato dire che l’immagine surreale è al di là della percezione e
della rappresentazione le quali implicano sempre un referente esterno materiale. Non
si vuol dire che il momento rappresentativo non sia centrale nella scrittura
bretoniana, la rappresentazione c’è ma è assolutamente autoreferenziale, nel gioco
retorico dei significanti rappresenta se stessa. L’automatismo psichico infatti si serve
della scrittura per portare alla luce le immagini dell’inconscio e quindi è
costuitivamente rappresentazione: un secondo momento che rielabora una prima
libera e disinteressata produzione immaginale; l’inconscio non può mostrarsi se non
per immagini ma la scrittura è per Breton il veicolo principale; inoltre la presenza di
un secondo momento rielaboratore dello spontaneo proliferare d’immagini inconscie
getta delle ombre sulla reale possibilità di funzionamento del messaggio automatico.
Nei surrealisti la strategia poetica consta di due momenti, necessariamente irrelati ma
successivi casualmente e temporalmente, quello dell’ebbrezza delirante della gnosi
onirica e quello della retorica letteraria.
50 R. Caillois, Procès intellectuel de l’art, in Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974. La frase citata è contenuta in una lettera indirizzata da Caillois a Breton all’indomani dell’episodio dei fagioli e che costituisce la parte introduttiva di questa sua prima opera.51 R. Caillois, Approches de la poésie, Gallimard, Paris, 1978, pag. 1052 R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Mondadori, Milano 1996, pag. 104
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Da queste contraddizioni e fallimenti teorici dell’ écriture automatique scaturì la crisi
che colpì il movimento e che emerge chiara nel secondo manifesto del 1929. Una
rappresentazione a posteriori di un delirio primario è la vera dimensione
dell’automatismo psichico surrealista.
In Dada la relazione significante S/s, amputata del momento referenziale, annulla il
significato affidandosi all’aleatorio incontro di significanti; nel surrealismo la
referenza si modifica continuamente togliendo in questo modo qualità conoscitiva
all’immagine prodotta. Il dinamismo della metafora surrealista non permette una
cristallizzazione dei rapporti proporzionali che stanno alla base di una analogia,
nessuna metafora si sedimenta nella possibilità di comporre un nome che salvi,
nominandolo, il referente fenomenico.
Ben più profondamente Caillois sente l’imperativo epistemico contenuto nella
metafora e la necessità di un linguaggio rigoroso ed evidente ma costruito sulla libera
proliferazione delle immagini e delle associazioni analogiche. Il problema della
rappresentazione e quello della referenza segnano la dissidenza di Caillois nel gruppo
surrealista: l’elemento critico che mostra più contraddizioni e che apre al proprio
superamento è proprio l’écriture automatique. Allontandosi da Breton, Caillois
sostituisce a quest’ultima la nozione metodologica di pensée automatique; la
posizione bretoniana è allora insostenibile perché contiene implicitamente “une
application du vocabulaire du langage au fait de la pensée”53, un’intellettualistica
corrispondenza dei piani che segnala una concezione puramente verbale del pensiero
surrealista bretoniano.
“...la pensée automatique, en entendant par cette expression la suite des associations spontanées des
représentations ou idées évoquées en vertu du déterminisme lyrique des idéogrmmes et en dehors de
toute sollicitation extérieure venue soit des exigences théoriques de la pensée conceptuelle soit des
exigences utilitaires du comportement pratique, en dehors par conséquent de toute activité finale
consciente».54
53 R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 4754 Ibidem, pag. 48
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Nel numero 3-4 di Minotaure appare ad opera di Breton un’Enquête sur la
rencontre55 che sondava, attestandone l’importanza, la penetrazione di uno dei
concetti chiave della filosofia di Breton, quello di incontro fortuito.
Elemento chiave di sperimentazioni letterarie come Nadja o Amour fou, tale concetto
è alla base di tutta la riflessione surrealista sulla nozione di caso oggettivo e di
messaggio automatico; l’incontro fortuito è quello che il poeta-flanêur fa
deambulando per le strade della città e accogliendo le suggestioni che questa gli
offre, lasciandosi afferrare e dirigere dal fluire del desiderio che nei casi esterni trova
il suo sintomo, la sua affiorante rappresentazione. Come un incontro fortuito è da
pensare anche il gioco intellettuale di produzione di immagini inusitate e
assolutamente arbitrarie: il processo surrealista di metaforizzazione del reale avviene
come nello scontro di sguardi tra il poeta e una passante. Il vibrare di possibilità di un
incrocio urbano e la fulminea connessione di due significati eterogenei stanno
entrambi nella dimensione virtuale di un incontro fortuito.
Intervenendo a questa inchiesta proprio agli inizi della sua adesione al surrealismo,
Caillois nel 1933 pone già in nuce le ragioni che lo condurranno ad allontanarsi dal
movimento:
“Le concept de rencontre m’apparait dans l’ordre théorique comme bien peu élaboré, en tant du moins
qu’il suppose l’existencede déterminations extérieures pures, dont l’indépendance absolue assurerait
précisément à leur interférence les caractères d’une véritable rencontre, rencontre considérée come
fortuite ou nécessitée selon que les lois de la nature sont éprouvées contingentes ou nécessaires. Or on
cherche vainement quelles cloisons étanches permettraient un aussi parfait isolement. Il semble au
contraire que les séries causales soient non seulement déterminées, mais encore surdéterminées l’une
par rapport à l’autre, le nombre des surdéterminations, reconnues ou non, s’accroissant
continuellement. Les coïncidences, dont il est au fond puéril de s’etonner, sont ainsi des témoignages
extrêmement partiels, des révélations infinitèsimales de cette multiple et souterraine
interdépendance. »56
55 A. Breton, Cent-quarante réponses à l’enquête sur la rencontre, in Minotaure 3-4, dicembre 1933.56 Riportata in R. Caillois, Approches de l’imaginaire, Galliamrd. Paris 1974, pag.12
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La coincidenza è per Caillois una ragione troppo debole per assumere un ruolo
metodologico guida, troppo legata a istanze estetiche volte a stupire e a
suggestionare. In più d’una occasione Caillois rimprovera al surrealismo “de faire
partie de la littérature et, en même temps, de se présenter comme une mise en
question de cette même littérature57”, di indulgere in un tipo di rappresentazione che
non conduce a nessun incremento stabile di conoscenza.
L’errore del surrealismo è quello di rimanere imbrigliato nella falsa alternativa
razionalismo-irrazionalismo: “la faiblesse ou la banalité d’une image vient
communément qu’elle unit deux termes par eux-meme trop ressemblants, déjà
normalement perçus comme voisins.(…) Il convient que l’esprit éprouve une joie
spécifique à découvrir une relation inattendue, une connivence nouvelle dans le
réseau de l’inextricable univers”58. Quindi l’immagine surrealista per sfuggire alla
banalità della connessione logica dei significati, per forzare il linguaggio aprendolo
all’inesprimibile, sceglie la strada dell’assoluto irrazionale, del rifiuto dell’attuale in
funzione di un reale alternativo. L’universo deflagra sotto i colpi della virtualità
immaginale, non vi sono più confini alla libertà dello spirito, tutto infine diviene
lecito nel regno dell’assurdo. Caillois, pur affascinato dal mistero e dal fantastico,
percepisce come sterile la fuga surrealista nell’irrazionale e vede urgere la necessità
di elaborare un dispositivo rappresentativo che sfugga all’alternativa di un’immagine
banale perché priva di dialettica interna e di una sterile perché assolutamente
arbitraria e irrazionale. Per uscire dall’impasse occorreva uscire da una stasi critica
che è ben più profonda, sin nel cuore del linguaggio.
La metafora è stata vista sinora come il grimaldello retorico con cui forzare la
normale concezione funzionalistica del linguaggio; riprendendo la teoria di Cohen,
seguita in più punti da Caillois nelle sue analisi del processo metaforico, “la poésie
(ove per poesia si intenda la produzione metaforico-analogica) a une finalité avouée:
une mutation du langage qui permette un retour à la cohérence du syntagme et du
57 R. Caillois, Divergences et complicités, in Nouvelle Revue Française, n.172, pag. 69158 Ibidem, pag. 694
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paradigme”59, la metafora conduce a un déplacement verso un ordine linguistico
nuovo, uno spazio di risistemazione semantica in cui è avvenuta una dislocazione del
senso a partire dalla dimensione connototativa e affettiva di quest’ultimo.
La distinzione tra métaphores explicatives e métaphores affectives60 che sta alla base
di questa teoria è ben presente nella strategia poetica surrealista ma viene nettamente
rifiutata da Caillois, il quale vede nell’ “impossible coexistence du sens notionnel et
du sens émotionnel”61 la vera ragione del fallimento bretoniano e il ritorno della
disorientante opposizione di razionalità e irrazionalità, di prosa e poesia.
La metafora non è elemento dislocante del linguaggio funzionale, non un espediente
letterario per sbalzare la parola perfettamente denotante nell’inattingibilità
emozionale di un’immagine poetica; nell’inspiegabile surplus di senso che la
metafora si porta dietro c’è una soglia sull’essenza genetica del linguaggio.
La metafora è un “lieu d’incertitude et d’interrogation”62, è la “perception d’une
différence » che non è tra un termine proprio, il significante, ed uno improprio , il
significato, ma è la traccia sedimentata che segna il continuo lavoro di produzione
del linguaggio.
All’interno dell’algoritmo S/s, che presiede ad ogni teoria moderna della catena
significante, l’attenzione si concentra allora sulla barriera, sulla “liaison non-
nécessaire du signifiant et du signifié”63, che non è “soltanto la traccia di una
differenza, ma il gioco topologico delle commessure e delle articolazioni”64 che
presiedono al prodursi metaforico del linguaggio.
Genette sottolinea con ragione che l’azione sul significante si situa “à l’intérieur de la
langue naturelle et non à côté d’elle”65. Come per il motivo dello specchio, nel quale 59 J. Sojcher, La métaphore généralisée, in Revue internationale de philosophie, n. 87, Parigi 1969, pag. 6260 H. Adank, Essai sur les fondaments psychologiques et linguistiques de la métaphore affective , Genève, Union, 193961 J. Sojcher, La métaphore généralisée, in Revue internationale de philosophie, n. 87, Parigi 1969, pag. 6262 Ibidem pag. 5963 Ibidem pag. 6764 G. Agamben, Stanze, Einaudi, Torino 197765 Citato in J. Sojcher, La métaphore généralisée, in Revue internationale de philosophie, n. 87, Parigi 1969, pag. 67? R. Caillois, Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 16
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in un interpretazione dualista un oblio ha colpito la causa del prodigio della
rifrazione a favore dell’effetto, così la dualità significante-significato nasconde la
natura della connessione che apre all’inespresso, al fondo del linguaggio come
tessuto metaforico in continua evoluzione.
La distinzione tra linguaggio naturale e linguaggio razionale decade nella struttura
metaforica del linguaggio, nel suo prodursi analogico “déterminée à la fois, par
l’objet, c’est-à-dire par son potentiel de représentations ou d’excitations collectives,
par le sujet, c’est-à-dire par la systemation consciente et inconsciente de ses
souvenirs et tendances”66.
Il linguaggio è quindi esso stesso metaforico: allo stesso tempo, legato a luoghi
comuni associati 67 e alla materia stessa dell’oggetto che suscita sur-determinazioni.
Una determinazione sociale e una naturale presiedono contemporaneamente al
processo analogico che fonda il linguaggio, ritenere di sfuggire ad una
funzionalizzazione sociale del linguaggio attraverso una quête irrationnelle che
dimentica o confonde la materialità del referente, significa agli occhi di Caillois ”mal
mesurer ce qui est des mots et ce qui est des choses”68.
In questa accusa che Caillois indirizza non solo a Breton ma anche a Bataille si
insinua all’interno della problematica del referente una più complessa articolazione
del discorso sulla materialità della parola e sulla natura di simulacro dell’oggetto.
In una sorta di proporzionalità il rapporto tra linguaggio e oggetto si mistifica sulla
ideologica confusione di linguaggio e realtà naturale, di referenza e fenomeno.
“What we call ideology is precisely the confusion of linguistic with natural reality, of reference with
phenomenalism”69,
66 Ibidem, pag. 1667 M. Black, Modelli archetipi metafore, Pratiche editrice, Parma 1983, pag. 5768 R. Caillois, Divergences et complicités, in Nouvelle Revue Française, n.172, pag. 69169 P. De Man, The resistance to theory, University of Minnesota, 1986 ; citato in C. Hite, To be Apart/Tears Apart: Inhuman Mimetic Movement in De Man, Caillois, Benjamin, University of Southern California, articolo inedito apparso su internet.
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In una straordinaria vicinanza a Caillois, Paul De Man mette in guardia dal
confondere il piano della riflessione linguistica con quello della cosa. Se è pur vero
che Caillois mira ad un’esperienza al di là della tirannia del significante, in un
dimensione di corrispondenza di linguaggio e cosa, in lui è presente l’ossessione di
una sistemazione del reale che lo porta a temere più di ogni altra cosa il
fraintendimento dei piani.
Una rappresentazione confusa non equivale a rappresentare la confusione, così agli
occhi di Caillois l’errore dei surrealisti sarebbe quello di attribuire una falsa
materialità all’immagine, attribuendo a quest’ultima un’illusorio statuto di autonomia
ontologica; il risultato sarebbe una dimensione immaginale in cui linguaggio e realtà
si confondono sino alla radicale mutazione in simulacro, in immagine doppia del
reale. Allo stesso modo Benjamin parlerà per i surrealisti di fusione dell’orizzonte
corporeo con quello immaginativo, ma indicando proprio nella mistificazione e nella
fascinazione mitica, il distacco che lo separava dall’immagine surrealista70. In
Caillois dobbiamo quindi assolutamente parlare di fenomeno nel senso fisico del
termine. Caillois ha ambizioni teoriche che si conducono proprio da un radicale
empirismo (se si vuole ingenuo) e la sua preoccupazione sarà sempre quella di
preservare il vero enigma della realtà, dai falsi misteri prodotti dalla confusione tra
momento rappresentativo e momento epistemologico.
Concentrare, come nei surrealisti, l’attenzione sulla parola poetica in quanto infinita
possibilità di significazione e quindi di realtà, significa premettere una presunta
infinità del reale, un cosmo illimitato di fenomeni in continua trasformazione. Tale
premessa è sicuramente radicata nella grande influenza esercitata dalla psicanalisi sul
movimento surrealista: la collocazione infatti della produzione metaforica ( quindi
linguistica) nella sola dimensione inconscia è condizione di un aumento solipsistico
della realtà di nuovi elementi arbitrari, un abbandono della sensibilità, bollata per
sterile empiria, per un idealismo tutto interno all’io.
70 Sul rapporto di Benjamin con il movimento surrealista e su temi legati rimando al paragrafo seguente.
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Il merito dell’immagine poetica surrealista è quello della sua novità assoluta, del suo
valore di choc, del suo “ caractère inédit, déconcerant et in-imaginable du
rapprochement. C’est la pure contradiction. Il importe au contraire que l’image
demeure imaginable. »71 La natura inimmaginabile della poetica surrealista rende
possibile « décrire valablement un objet quelconque à partir de n’importe quel
autre »72, il referente diviene una componente interscambiabile e ininfluente, in tal
modo si invalida ogni tensione conoscitiva dell’immagine.
Sin dalle prime analisi etnologiche del mito, Caillois rimane nel solco di un
razionalismo del fantastico, sopprimendo ogni immediata fascinazione e teorizzando
una sintassi dei processi mitologici ricondotta a elementi finiti dell’immaginazione
umana e a funzioni esterne di influenza. “Un fait mythologique est au premier chef
un fait de langue”73, risuona la lezione di Benveniste nelle analisi di Caillois, e nella
concezione di linguaggio come produzione analogica, la dimensione storico-sociale e
quella naturale si compenetrano. Riprendendo la critica al concetto di incontro
fortuito Caillois sottolinea a più riprese come la produzione analogica che presiede
alla formazione del linguaggio non sia fortuita, casuale e arbitraria, bensì fortemente
determinata dalla coerenza dell’ universo:
« Il ne suffit pas qu’il y ait l’immagination, il faut en outre que la mise en images corresponde à un
système d’échos, de repères, dans les données du monde »74
Necessariamente un approccio che voglia salvaguardare i fenomeni e allo stesso
tempo cogliere il movimento che presiede alla loro formazione, deve guardare al
cosmo come una serie di elementi finiti che si ripetono, ha l’obbligo “d’ammettre
l’existence d’un monde fini et dénombrable, donc redondand (surdéterminé)”75. È
71 R. Caillois, Approches de la poésie, Gallimard, Paris, 1978, pag. 18572 Ibidem, pag 18673 E. Benveniste, Vrtra e Vrθragna, étude de mythologie indo-iranienne, Cahiers de la Société Asiatique, Paris 1936, citato in Carlo Ossola, Introduzione a R. Caillois, I demoni meridiani, Bollati Bringhieri, Torino 199974 Intervista pubblicata in Cahiers pour un temps, Editions Centre G. Pompidou, 198175 R. Caillois, Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 12
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questa finitezza surdeterminata che permette la “poesia come scienza delle
corrispondenze”:
« Je ne crois pas à l’infini, à l’indémontrable, et tout cela. Je crois à un univers fini » ove
« nécessariament le choses s’y répètent, s’y recoupent, s’y chevauchent. Et c’est cela qui permet la
poésie, qui est la sience des pléonasme de l’univers, la science des correspondances »
In Caillois vi è l’ossessione di un universo finito in cui possa esservi una coerenza
ultima composta da elementi primi indimostrabili. Come nella passione per le pietre
Caillois è ossessionato dalla “doctrine de l’unité essentielle et de la multiplicité
phénoménale”,76 dal trovare un immutabile ordine al cosmo senza cadere nella
giustificazione metafisica. La tentazione del sistema affiora nei momenti in cui
l’apologia della determinazione sembra violentare l’eterogeneità dell’essere, in cui il
fascino dell’inorganico sovrasta le ragioni imperfette dell’umano.
Caillois è uno scolastico senza più Dio, come un gesuita del ‘600 è affascinato dalle
meraviglie del mondo, dal barocco proteiforme dell’esistente che si riduce per lui ad
una enorme wunderkammer in cui è assente ogni presenza divina pronta a pacificare
la curiosità intellettuale del chercheur. Come lo ritrae Cioran mentre si volge “verso
quella fase in cui le pietre, dopo l’istante ardente della loro genesi stavano per
diventare algebra, vertigine, ordine”77, manifesta una vena profetica verso
l’incominciamento delle cose, un’ossessione delle origini, un ragionare per ere
dimenticando le epoche delle storia dell’uomo. Un gioco ambiguo è quello che
affascina, trovare un ordine primordiale al cosmo nella consapevolezza
dell’ineliminabilità e del fascino del caso e dell’entropia naturale: una personale
teodicea privata di Dio.
III. Allegoria e dialettica dell’ebbrezza
76 Ibidem, pag. 3977 E. M. Cioran, Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano 1988, pag. 148
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Come pensano che si configurerebbe una vita che in un momento decisivo si lasciasse determinare
proprio dall’ultima canzonetta in voga?Walter Benjamin
Nel marzo del 1926 Benjamin arriva a Parigi con l’intenzione di completare con
Hessel la traduzione del secondo volume della Recherce proustiana, vi resterà fino ad
agosto. Nella sua mente già si agitano i fantasmi di quella “impresa che mozza il
fiato” rappresentata dal Passagen werk, ma tutto resta ancora mascherato dal suo
interesse, già presente dal 1925, per Proust e per le nuove avanguardie francesi.
Come il brontolio di un temporale lontano si addensano nel suo orizzonte
problematico tematiche convulse e confuse che lo scoprono sensibile alle nuove
esigenze rivoluzionarie che provenivano dai movimenti delle avanguardie europee,
in particolare dal movimento surrealista francese. Come ci dice Scholem, in questi
momenti di attesa per la sua richiesta di abilitazione all’università di Frankfurt e
sfiancato dall’intenso lavoro al libro sul Trauerspiel, Benjamin “era coinvolto in un
intenso processo di lievitazione, nel corso del quale la sua ermetica visione del
mondo era esplosa e crollata (…), pur continuando ad agire in lui l’antico impulso
verso una concezione metafisica del mondo, era incorso in un processo di
disgregazione dialettica.”78
L’opera sul dramma barocco tedesco fu compiuta da Benjamin tra il marzo e l’aprile
del 1925, di un anno dopo è il saggio sul surrealismo, mentre il lavoro su Proust è del
1929, ma già nel 1926 da notizia a Hofmannsthal di voler raccogliere le sue
osservazioni alla traduzione della Recherce in un saggio intitolato En traduisant
Proust79. Un sottile filo rosso unisce le riflessioni che costituiscono il nucleo
profondo delle opere di questo periodo: un intreccio che si produce infittendosi e
78 Citato da F. Desideri nella cronologia della vita e delle opere di Benjamin, in W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 199579 Lettera del 23 febbraio 1926 a Hofmannsthal in W. Benjamin, Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino 1966, pag.142
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alimentandosi di elementi sempre nuovi e che sembra come destinato a deflagrare in
un’ambizione superiore di unità, in quel coacervo di intuizioni e citazioni
rappresentato dal suo enigmatico opus postumum, il Passagen Werk.
Questo preambolo cronologico per mostrare quanto il turbolento periodo che segue la
cacciata da Frankfurt sia essenziale per leggere il rapporto di fascinazione che lega
Benjamin alle poetiche surrealiste.
In un appunto contenuto nelle carte per il saggio sul surrealismo Benjamin indica una
tendenza assai notevole del movimento d’avanguardia al dictionnaire,
immediatamente dopo suppone una relazione con le poetiche del seicento80, tutto
sembra supporre che proprio all’impianto allegorico del Trauerspiel dobbiamo
inizialmente rivolgerci.
L’ideale dell’erudizione, dell’immagazzinamento del sapere è proprio dell’epoca
barocca proprio come l’arbitraria e infinita citabilità del reale nell’allegoria o la
trasformazione del mondo in scrittura. Il dictionnaire è però più che un semplice
deposito di significati linguistici, è infatti un luogo dove si gioca l’artificio della
catena significato-significante e dove le manipolazioni del senso hanno una loro
prima sedimentazione linguistica. La tendenza surrealistica al dictionnaire è allora
quella che in precedenza si è descritto come risulatato di una produzione metaforica.
Una analogia fra termini eterogenei che si è condensata in una metafora definisce,
attraverso la convenzione universalizzante di una socialità e la tensione referenziale,
quello che nel dictionnaire appare come linguaggio.
I passatempi magici con le parole che Benjamin scorge nelle sperimentazioni
surrealiste non sono altro che un’ossessiva e incessante ridefinizione del
dictionnaire, un rinnovare il gioco analogico che sta alla base del linguaggio
evitando che una fugace cristallizzazione della metafora possa iscriversi come
scrittura sociale definitiva e funzionale. La metafora surrealista è viva e per
dimostrarlo deve pernottare nell’effimero, nell’istante di una illuminante ebbrezza.
Si è visto come nel surrealismo l’accento si ponga sul momento della produzione
metaforica, e non sul prodotto: l’immagine è solo l’arresto momentaneo di un
80 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi Torino 1993, pag. 272
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divenire figurale infinito ed fugace nella sua arbitrarietà. Straordinaria è la vicinanza
di questa natura instabile della produzione surrealista con quanto Benjamin individua
nel termine di Riegl, Kunstwollen, a proposito della letteratura barocca81:
“Gli scrittori cercavano di impadronirsi in modo personale della forza più intima dell’immagine,
quella in cui prevale la precisa eppure delicata metaforicità del linguaggio.”82
Questa delicata metaforicità del linguaggio è terreno di stravolgimenti dialettici nelle
polarità di simbolo e allegoria.
Il simbolo perfettamente conchiuso in sé è in Benjamin il necessario concetto limite
irrappresentabile definito dal Nome, simbolo puro dell’idea, sottratto ad ogni
fenomenicità, non pensabile se non “attraverso la connessione degli elementi cosali
del concetto”83. L’allegoria è essenzialmente segno, è scrittura che non lascia
trasparire l’idea e mostra l’evidenza della convenzionalità linguistica che sta a
fondamento di ogni logica discorsiva. Ogni concetto di verità s’infrange contro la
fenomenicità, contro la contingenza della figura allegorica. Nello stesso modo la
realtà si fa per Breton testo segnico, regno dell’arbitrio cosale, formato da
« événements hantés, pétrifiantes interférences, correspondances, rapprochements
inopinés, attentes des événements qui semblent faire signe»84.
Ma se l’allegoria rappresenta la necessità della scrittura e l’essenziale natura segnica
di ogni discorso, allora il confronto con l’écriture automatique surrealista sembra
venir meno pena il fallimento della nozione di automatismo psichico. Abbiamo visto
come la crisi attraversata da Breton nel 1929 fosse in parte caratterizzata da questo
necessario impiego della forma segnica per la rappresentazione della figuralità
pulsionale e di come Caillois abbia su questo poggiato gli strali più forti della sua
critica. Ma nell’immagine surrealista Benjamin coglie un particolare che sfugge a
Caillois, ovvero la natura sonora del linguaggio:
81
82 W. Benjamin, Scritti 1923-1927, Einaudi, pag. 9583 M Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin, in F. Rella (a cura di), Critica e storia, Cluva editrice,Venezia 198084 Citato in W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 281
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“Il linguaggio pareva tale solo là dove il suono e l’immagine, l’immagine e il suono erano ingranati
l’uno nell’altra con tale automatica esattezza, con tale felicità che non restava più alcuna fessura dove
infilare il gettone senso” 85
Nel sottolineare la presenza del medio musicale nel dramma barocco Benjamin
mostrava una via d’uscita dall’aporia della scrittura.
“Nel contesto dell’allegoria l’immagine è soltanto segnatura, monogramma dell’essere, e non l’essere
stesso nel suo involucro. E tuttavia la scrittura non ha in sé nulla di ancillare, non cade durante la
lettura come una scoria. Essa penetra nella cosa letta come la sua figura” 86
Questo perché immagine e suono nell’allegoria si integrano: Benjamin continua
citando J.W. Ritter, “la loro simultaneità originaria, e assoluta, risiede nel fatto che lo
stesso organo del linguaggio scrive, per poter parlare”87, ed “è qui che si realizza, sul
piano della teoria del linguaggio, l’unità tra il Barocco linguistico e il Barocco
figurativo”88
Allora nella voce, nell’essere il linguaggio emissione sonora prima che significato,
risiede la possibilità di rovesciamento dialettico dell’automatismo psichico
bretoniano. A differenza di Caillois che trova nella pittura, nel metodo paranoico-
critico di Dalì, il modello di una rappresentazione che è simultaneamente fenomeno
psichico89, Benjamin, a partire dall’allegoria, vede nella musica, nell’originaria
simultaneità di suono e figura, una via di fuga materialistica alla gabbia della
scrittura come eidolon, simulacro doppio del pensiero. La voce, l’elemento musicale
del linguaggio, si fa pura espressione di una figura mentre quest’ultima è eco,
vibrazione sonora.
85 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 25586 W.Benjamin, Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, pag. 24987 Ibidem, pag.24888 Ibidem, pag.24989 Qui affiorano i rapporti di Caillois e Dalì con Lacan e le sue analisi della simultaneità di delirio e interpretazione, che verranno analizzati nella terza parte del lavoro per la loro centralità nella teoria della percezione (estetica) del primo Caillois.
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Il suono scardina l’incorporeità del simbolo poiché è voce, come nella teoria del
linguaggio stoica, è sintesi dialettica di corporeità (referente) e spiritualità (il
significato, to lektón), immateriale e materiale allo stesso tempo il suono entra
direttamente in contraddizione con il muto simbolo.
Nell’immagine surrealista s’ingranano allora per Benjamin l’elemento immateriale e
quello fisico-corporeo, in uno spazio che come la voce, è spazio residuale originario,
Bildarum, spazio assolutamente immaginale.90
Nella prospettiva “indicale” dell’arte surrealista teorizzata dalla Krauss, si è vicini a
questa dimensione immaginale individuata da Benjamin: la fotografia è contatto,
quasi una pellicola che si adatta alla realtà materiale traendone una rappresentazione
immateriale, è costruzione di senso ma a-intenzionale. La fotografia viene
giustamente presa quindi dalla Krauss a paradigma dell’arte surrealista, ma questo
nuovo mezzo tecnico presentava per i surrealisti un pericolo teorico.
Nel fotomontaggio surrealista si ha l’impressione che vengano utilizzate le stesse
strategie comunicative in funzione nell’allegoria: l’accostamento di immagine e
parola o di più immagini contrastanti rende evidente il momento dell’artifico
costruzionista e invalida ogni pretesa di verità del tutto.
Il gioco di sostituzioni in cui un oggetto sta per qualcos’altro e può benissimo stare
per il suo contrario è facilmente confrontabile con la tecnica dell’emblematica.91
Nell’allegoria barocca si produce una specularità infinita dei suoi elementi
significanti, e il modus componendi dell’immagine è esplicitato, reso evidente nella
rappresentazione stessa: la tecnica del produrre emblematico è inscritta nel tessuto
stesso della figura. L’esibizione delle tecniche usate e “del linguaggio lavorato
90 Vedremo più avanti l’importanza del concetto di Bildraum per Benjamin e in relazione alla nozione di mito e di ideogramma lirico in Caillois. 91 L’emblematica è necessariamente ambigua in quanto rappresentazione « alla lettera » di una metafora: la trasposizione di una figura retorica letteraria in un’immagine è il procedimento che sta alla base di ogni intenzione emblematica. È quindi nello statuto ambiguo della retorica metaforica che vive l’enigmaticità e l’inquietudine che percorre l’allegoria barocca.“Un emblema è un enigma rappresentato. Questo appare dunque come l’enigma dell’enigmatico. L’arte dell’allegoria è abbastanza sottile da essere significante di se stessa. Il cerchio è chiuso.” R. Caillois, Nel cuore del fantastico, Feltrinelli, Milano 1984, p.51
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attraverso queste tecniche definisce la verità del Kunstwollen”92, ovvero definisce
l’essenza dell’uomo come volontà del poiein. Abbiamo visto come la tecnica del
montaggio surrealista sia vicina a questa evidenza del fare poetico, come ogni
immagine fornisca indicazioni sulla propria genesi e di come l’universo surrealista
sia centrato sulla volontà creativa dell’inconscio.
Come per l’allegoresi vi è infine un destino di rovesciamento dialettico, così proprio
in questa evidenza dell’artificio sta la strategia distruttiva e dialetticamente
rivoluzionaria del collage surrealista. L’uso del fotomontaggio è di vitale importanza
per i surrealisti, esso scongiura infatti il pericolo di un’arte come bella apparenza di
una realtà illusoriamente restituita in una mimesi assoluta: se lo scopo dell’arte
fotografica diviene quello di riflettere specularmente la realtà ogni suo uso poetico è
prcluso al surrrealismo. “Il mondo è bello: questo è il suo motto”93, dice Benjamin
della fotografia creativa, della fotografia che abdica alla moda e diviene feticcio, che
trasforma tutta le realtà in feticcio.
“Poiché il vero volto di questa creatività fotografica è la reclame o l’associazione, la legittima risposta
ad essa è lo smascheramento o la costruzione. Poiché la situazione dice Brecht, “si complica per il
fatto che meno che mai una semplice restituzione della realtà dice qualche cosa sopra la realtà.(…) La
realtà vera è scivolata in quella funzionale. (…) Si tratta dunque effettivamente di costruire qualche
cosa, qualcosa di artificiosa, di predisposto”. Il fatto di aver formato alcuni precursori di una simile
costruzione fotografica è merito dei surrealisti.”94
Il paradigma dell’artificio si presenta allora nel surrealismo come antidoto
all’autorappresentazione della realtà funzionale attraverso la fotografia. Il pericolo di
una giustificazione estetica del reale, di una conseguente apoteosi del fattuale,
92 W.Benjamin, Il dramma barocco tedesco, in Id. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, pag. 58. Cacciari mette in relazione l’elemento del Kunstwollen con la seguente riflessione di Benjamin sul rapporto tra tecnica e opera d’arte, rintracciando nel saggio del 1934 Der Autor als Produzent, il motivo conclusivo dell’ineliminabilità dell’universo delle tecniche e della necessaria compenetrazione di tecniche ed efficacia estetica.93 W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 7594 Ibidem, pag.75-76
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![Page 34: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/34.jpg)
esplicitata dal motto sopracitato, porta ad assumere la tendenza distruttiva
dell’allegoria e il rilievo del frammentario nell’opera d’arte.
“La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine
fotografica?”95 si chiede Benjamin guardando a Brecht e al suo teatro epico come
modello di un’arte straniata, fatta di spaziature96 che scardinano l’immedesimazione
e la mimesi perfetta97. Affiora in questo uso di strategie allegoriche il giudizio dato
da Baudelaire del mezzo fotografico e l’apparente contraddizione rilevata da
Benjamin come un nodo centrale della sua poesia, tra il momento dell’artificio e
quello della forza evocatrice delle correspondances naturali.
Nella fotografia risuona il credo di una società mercantile che nel reificarsi della
realtà e dei suoi rapporti rappresentativi fonda il dominio sull’immutabile apparenza
del fattuale:
“Credo nella natura e non credo che nella natura. Credo che l’arte sia e non possa essere se non la
riproduzione fedele della natura. (…) Perciò l’industria che desse un risultato identico alla natura
sarebbe l’arte assoluta.”98
Così Baudelaire descrive la fede fotografica nel dato reale visto come un Fatto, che
sotto le false vesti di un eterno stato di natura presenta un paesaggio pietrificato, un
processo di reificazione della natura e di naturalizzazione della storia condensato da
Benjamin e Adorno nel concetto di Naturgeschichte. Forzare le strette maglie di
questa fede nella condizione eterna e immutabile della dimensione naturale è allora
questione di pratiche derealizzanti, prima tra queste lo stato di grazia della rêverie, la
gioiosa “gloria di esprimere quello che si sognava”99. L’allegoria barocca si nutre di
sogni, di stati allucinati e di percezioni derealizzate irrigidite nell’inquietudine: il
mise en abyme che la Krauss individua nella fotografia surrealista di Brassäi è lo 95 Ibidem, pag 7796 Sulla nozione di “spaziatura”, mutuata da Derrida, vedi quanto dice R. Krauss, in Teoria e storia della fotografia, Mondadori 1996, pag. 11397 Contrariamente all’idea di una mimesi perfetta si può parlare, per Benjamin, di “mimesi perfettiva”. Su questo rimando ai capitoli successivi e al volume di F. Desideri, Il fantasma dell’opera, Il Melangolo 2002 98 C. Baudelaire, Opere, Mondadori, Milano 1996, pag.119499Ibidem, pag.1197
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stesso dispositivo dell’artificio alla base della concezione a scatole cinesi del cosmo
barocco, il teatro nel teatro e l’equivocità dei sosia nell’arte drammatica, la
commistione di finzione e realtà nel gioco dislocante degli specchi e dei tranelli
prospettici delle architetture.
Il momento dell’artificio è quindi la componente costruttivista che svela l’inganno
della totalità e della bella apparenza, il dispositivo dialettico che, nelle ragioni del
frammentario e di una scienza micrologica compone l’orizzonte della rivalutazione
benjamininana dell’allegoria.
Ma in tutto questo quale destino subisce il momento naturale?
La natura con l’eco sognante delle sue forme, le analogie più impreviste e le foreste
di simboli aprono a Baudelaire la dimensione di una vita anteriore dove “le rapports
intimes et secrets des choses” costituiscono la materia stessa del poetare. La natura si
presenta nelle corrispondenze come in una cosmologia antica, nelle vesti inebrianti di
un esperienza vertiginosa del cosmo. Come comporre allora il dissidio tra l’esigenza
di un artificio tecnico e della sua evidenza come momento distruttivo della falsa
totalità e la forza evocatrice di uno stadio anteriore naturalmente formato, che
continuamente richiama a straordinarie corrispondenze poetiche?
La soluzione sta proprio nel rapporto di esclusione-inclusione con cui in precedenza
Benjamin aveva definito il simbolo e l’allegoria100: l’allegoria non è semplice
frantumazione contraddittoria del simbolo classico, non mera antitesi negativa, bensì
l’artificio che reca con se il momento rammemorante e malinconico di un anteriorità
simbolica, che mostra il frammento rimuginandone la perduta unità.
Il simbolo è interno alla stessa allegoria in negativo, come un assenza presente nella
dimensione del malinconico ricordare.
Natura e artificio sono in Baudelaire le polarità di una moderna dialettica (in senso
benjaminiano) corrispondente a quella barocca di simbolo e allegoria: non si può
parlare di vie antérieure, di correspondances magiche se non attraverso il filtro di
una forza evocatrice, malinconico sentimento di un assenza.
100 Su questa necesseria compresenza di simbolo e allegoria vedi M Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin, in F. Rella (a cura di), Critica e storia, Cluva editrice,Venezia 1980
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In questa dialettica del malinconico vive la critica al mito di Baudelaire e la sua
distanza da ogni tentativo romantico di un mitico recupero di una primigenia età
dell’oro. Baudelaire non conosceva il sentimento della nostalgia bensì quello della
malinconia. Non il mito e il simbolo classico costituiscono la sua utopia ma la vie
antérieure è la sola utopia del malinconico.
L’allegoria, il divertissement malinconico per eccellenza ha salvato quindi
Baudelaire dal concepire miticamente la vie anterieure; la polarità che quest’ultima
compone con lo spleen, con la consapevolezza dell’artificio, riconduce la parnassiana
volontà simbolica all’alveo dell’allegoresi. La frammentazione e la caduta del senso
si rovesciano dialetticamente nell’impossibilità del mito:
« L’antitesi fra mito e allegoria va svilppata con chiarezza. Fu grazie al genio dell’allegoria che
Baudelaire non cadde vittima dell’abisso del mito che accompagno ad ogni passo il suo cammino”101.
“Ambiguità, molteplicità di significato è il tratto fondamentale dell’allegoria”102,
tutto può esser segno, sintomo di qualsiasi altro; se il rovesciamento dialettico
dell’allegoria si muove dalla impossibile attualità della nozione di simbolo e dalla
critica al mito e all’umanistica nozione di individuo, la fascinazione per l’immagine
surrealista risiede nella sua ribelle indocilità alle facili strumentalizzazioni del
linguaggio e nella critica distrutiva della metafora morale.
Le immagini étonnantes dei surrealisti nascono da una ricomposizione artificiale e
casuale di un cosmo frammentato dove l’oggetto, proprio come l’oggetto allegorico è
ormai “incapace di irradiare un significato, un senso; come significato gli compete
ciò che l’allegorico gli assegna.”103
La metafora surrealista è come dice Alquiè, esistenziale, riguarda cioè non la sola
sfera dell’invenzione poetica, ma l’intera gamma del vivere. Infatti ci dice Benjamin,
“la sfera della poesia è qui stata spezzata dall’interno, da un circolo di persone che
hanno spinto la vita poetica fino all’estremo limite del possibile”104.101 W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi,Torino 2000 (J22,5)102 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1971 pag. 182103 Ibidem, pag. 191104 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 254
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Non è la vita che si fa poesia come nel dandysmo, ma, come obbligata in un vestito
troppo stretto, l’esistenza forza le forme facendosi poesia nell’era della sua
dissoluzione. Dall’interno in una deflagrazione che investe con la frantumazione
dell’estetico tutto il reale. Nell’appunto di Rimbaud ai suoi versi «Sur la soie des
mers et des fleurs arctiques” risuona a margine il suo definitivo “Elles n’existent
pas”105, e di colpo “la vita pareva degna di essere vissuta solo quando la soglia che
c’è tra la veglia e il sonno era come cancellata, in ciascuno, dai passi di mille
immagini fluttuanti”106.
Un materiale liquido, come quello di cui sembrano fatti i frottages di Ernst, è la
sostanza dei sogni, un delicato e denso ammassarsi di immagini dallo statuto
ontologico ambiguo.
Non c’è alcuna intenzionalità nella rappresentazione allegorica, come non ve ne è in
quella surrealista; l’automatismo psichico di Breton non prevede alcuna realtà
noumenica o eidetica da scoprire, così come la “funzione dell’ideogramma barocco
non è quella di esplicitare le cose sensibili quanto quella di denudarle.
L’emblematico non propone l’essenza dietro il quadro”107. Allora il problema
filosofico non sarà la ricerca della verità ma la rappresentazione di quest’ultima.
Ma se nell’allegorico tutto può stare per qualsiasi altro, la sintomatologia legata alla
lettura delle cose è instabile e per questo sterile ad ogni possibilità di composizione.
Il cosmo si pone allora nella modalità dispendiosa dello spreco, del ridondante, del
vano: mentre la Natura è legata, metafisicamente e meccanicamente, alla legge
dell’economicità, la Storia, (e in traslato la modernità), protagonista nell’ordine della
caducità della visione allegorica, segue le leggi dell’ambiguità e dell’intercambialità
dei significati. Le cose si svalutano e perdono la loro usuale collocazione nel reale,
acquistano valore ogni volta diversamente dal contesto in cui vengono collocati, il
senso si inserisce solo in una momentanea disposizione emblematica degli oggetti,
l’ideogramma. Ogni fenomenologia intenzionale che cerchi di recuperare uno strato
originario, un’essenza implicita, è destinata al fallimento.105 Ibidem, pag 286106 Ibidem, pag.254107 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 19pag. 192
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Il discorso allora, proprio come in Caillois, si indirizza verso una caratterizzazione
mistificante dell’immagine surrealista e lo stesso Benjamin indica nella
mistificazione il vertice della poesia di Breton:108
“Quando fanno della mistificazione, il cui vertice Breton scorge nella poesia, il fondamento anche
dell’evoluzione scientifica e tecnica, allora si tocca qui il tallone d’Achille romantico di questo
movimento”109
.
La creatività, nell’accezione datagli dal passo sopracitato di Brecht, è il nemico
principale di una poetica politica e sotto questo termine è da ricondurre ogni accusa
di romanticismo mossa al movimento surrealista. Come per Caillois110 sarà sempre
un residuo romantico, in questo caso riguardante una “concezione troppo immediata
e affrettata, adialettica della natura dell’ebbrezza”, a muovere la critica benjaminina
contro ”l’estetica del pittore, del poeta en ètat de surprise, dell’arte come reazione
alla sorpresa, prigioniera di alcuni pregiudizi romantici quanto mai infausti”111.
“Al surrealismo noi dobbiamo queste importanti incursioni nei mondi
dell’ebbrezza”112, dice Benjamin, ma denunciandone l’esitazione nel dialettizzare la
stessa idea di ebbrezza.
Come illustrato da Masini113 la concezione adialettica dell’ebbrezza è quella che
rimane imbrigliata in una prospettiva individualista e anarchica dello stato percettivo
proprio di quest’ultima: il circolo magico che si stringe sull’individuo, occultando
sotto lo strato opaco di una falsa immediatezza, produce solo immagini
inimmaginabili ed esperienze che si esauriscono in se stesse.
Prossima è qui la posizione di Caillois dove nel Romanticismo, maschera critica
sotto la quale egli svela il volto del surrealismo, definisce la natura del visionario
108 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi 1993, pag. 277109 Ibidem, pag. 265110 R. Caillois, L’alternative, in Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 25111 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 289112 Ibidem pag.290113 F. Masini, Dialettica dell’ebbrezza, in L.Belloi e L.Lotti (a cura di), Walter Benjamin, Tempo storia e linguaggio, Editori riuniti, Roma 1993
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come nichilistico e sterile autoinganno.114 Una diversa finalità guida Benjamin e
Caillois ad avvicinarsi alle teorie dell’ebbrezza e della vertigine, ma entrambi
concordano nella necessità di un approccio sobrio e disvelante verso i fenomeni
allucinatori e spersonalizzanti. Per Caillois, il visionario sotto l’apparenza della
conoscenza cerca la jouissance della sensibilità, mentre il pensiero del sapiente
obbedisce a determinazioni impersonali e rigorosamente oggettive; allo stesso modo
per Benjamin, chi cade nel vortice del bannkreis rimane vittima, da una parte del
solipsismo mistico, dall’altra del pensiero mitico.
Perseverare in una nozione di poesia che vive solo nell’immagine imprevista e
nell’analogia arbitraria significa rimanere prigionieri della sterile antitesi di logica e
assenza di logica; proprio come per i romantici il pericolo, che anche Caillois
sottolinea, è quello di intendere il fantastico come l’assolutamente inintelligibile e
l’immagine poetica come la rappresentazione dell’irrappresentabile. La distinzione
portata da Caillois tra science e mysticité definisce bene ciò che anche per Benjamin
era l’abisso in cui rischiava di cadere il surrealismo:
“La mysticité veut atteindre par intuition l’inintelligible en soi (Unbegreifliches) et ne tente jamais de
le réduire à l’intelligible »115
Questo significava sceglire l’irrazionale assoluto senza comprendere la necessità di
una terza via o meglio di una nuova antitesi costituita da logica e dialettica116.
La vera alternativa risiede nell’antitesi di scienze positiviste, dedite al culto del dato
di fatto e della verità come evidenza matematica, e dialettica benjaminiana, che come
114 Non a caso proprio su questa questione nasceranno dissidi fra Caillois e Bataille, quando quest’ultimo in un una delle prime dichiarazioni al College de sociologie, “L’apprendita stregone”, definirà questa figura come lo scopo emozionale della sua ricerca, uno stregone che rimane incantato dalle proprie magie, un visionario che si autoconvince della realtà delle sue visioni. Ne viene di conseguenza anche una distanza dalle contemporanee teorie sartriane sulla’immaginazione per cui “la coscienza insieme ammaliata e ammaliatrice, vitima del suo stesso inganno”, è l’essenza stessa del emozione.G. Bataille, L’apprendista stregone, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 16115 R. Caillois, L’alternative, in Approches de l’imaginaire, Gallimard 1974, pag 29-30116 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 289
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l’imagination juste di Caillois, si muove in “quell’ottica che riconosce il quotidiano
come impenetrabile e l’impentrabile come quotidiano.”117
Il luogo del fantastico (in Caillois) e di ogni fenomeno fantasmagorico (in Benjamin)
è una zona di tensione di due termini antitetici in composizione, reale-irreale,
razionale-irrazionale, naturale-innaturale, nelle circostanze di una rottura e di un
ricomporsi continuo dell’equilibrio.
“Le fantastique est l’impossible survenant à l’improviste dans un monde d’où l’impossible est banni
par définition” 118
Si vede come entrambi si muovano in quel territorio oscuro da bonificare con l’ascia
della ragione, ma non con una progettualità rischiaratrice neo-illuminista, bensì nel
preservare la dialettica razionale-irrazionale come un immenso campo magnetico in
cui le energie intrappolate cercano un elemento liberatore, un risveglio.
Una danza dei coltelli è allora il gioco che Caillois e Benjamin fanno nei confronti
del surrealismo, un soggiacere alla vertigine del mistero e all’ebbrezza, e
dialetticamente superare tali esperienze in una dimensione filosofica ulteriore.
Così in Benjamin si parla di una dialettica dell’ebbrezza che si muta in una dialettica
del politico, un dissolversi della rigidità dell’io che si dissolve a sua volta, una
trasparenza profana, di contro all’opacità della vertigine mitica.
Allora uno sguardo politico tutto interno alla dynamis profana s’impone.
La questione è assolutamente politica, “conquistare le forze dell’ebbrezza per la
rivoluzione: intorno a questo motivo ruota il surrealismo in tutti i suoi libri e le sue
iniziative”119.
Il surrealismo gli si propone come il rovesciamento speculare rivoluzionario
dell’allegoria, il prendere consapevolezza dell’assenza di un punto di fuga
trascendente e di un divenire tutto interno al soggetto120. Liberare le energie 117 Ibidem, pag. 290118 R. Caillois, Obliques, Gallimard, p.5119 Ibidem, pag. 265120 L’immagine surrealista come la poesia di Baudelaire porta lo sguardo meduseo nell’interiorità: “L’allegoria barocca vede solo l’esterno del cadavere, Baudelaire lo rappresenta dall’interno”. W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (J56,2)
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contenute nelle cose asservite e asserventi, nell’esperienze vissute e riposte in un
angolo della memoria questo è il compito eminentemente politico della poetica
surrealista.
Il sognare novalisiano appartiene ad un’altra epoca, un’epoca di confusione che non
può più nascondere l’esigenza di un risveglio. Il sogno non è più fuga nel
meravigioso naturale ma si fa elemento rivoluzionario, “il sognare partecipa della
storia”; nessuna azzurra lontananza ma uno strato di grigia polvere si apre
all’immagine onirica, il ”lato che è consumato dall’abitudine ed è ornato da sentenze
a buon mercato”, il Kitsch è il lato che la cosa volge al sogno.
L’obsoleto, l’appena passato di moda, ciò che viene comunemente chiamato con il
termine ora in voga Kitsch, è cifra dell’anamnesi materialistica di Benjamin. Quelle
che erano le rovine della classicità per l’allegoria adesso sono per l’immagine
surrealista, le vecchie insegne al neon, i giochi arrugginiti in qualche scantinato, le
gioie di una nonna ormai da tempo assente.
“Il Kitsch è l’ultima maschera del banale, con la quale ci abbigliamo nel sogno e nel colloquio per
ricevere in noi la forza dello scomparso mondo delle cose.”121
Così l’esperienze d’ebbrezza più rivoluzionarie sono quelle di abbandono e di
privazione, il sottrarle all’oblio tramite il risveglio accende il potenziale in esse
contenuto.
La solitudine come assenza, mancanza di un completamento, frammento di vita, è la
droga più potente fra tutte proprio perché si ha quella vertigine dell’allentamento
dell’Io, il rimuginare che niente ha a che fare con quelle forme di ebbrezza da
hashisch o con l’estasi mistica di alcune religioni. La circolarità dell’estasi religiosa
che trova una via di fuga solo nell’apertura con il trascendente, è rifiutata per
accogliere una dimensione profana dell’illuminazione, lontana dall’immediatezza
teologica e prossima all’immediatezza materialistica e sensibile del ricordo.
121 W.Benjamin, Kitsch onirico, in Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, pag. 378
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L’esperienze vissute che si nascondono nelle pieghe della memoria non hanno la
natura di rivelazione, ma rimangono nascoste a colui che le esperisce e “divengono
rivelazione solo nello sguardo rivolto al passato.” 122
Il superamento della frantumazione allegorica barocca nell’era della caduta del
trascendente, avviene allora nelle vesti malinconiche del ricordo. L’allegoria si
compone a partire dallo sguardo del malinconico: tutto è prima che presente, ricordo.
“La figura chiave della vecchia allegoria è il cadavere. La figura chiave della nuova allegoria è il
ricordo. Il ricordo è lo schema della trasformazione della merce in oggetto da collezione. Le
correspondances sono, di fatto, le infinite risonanze di ogni ricordo con tutti gli altri.” 123
In questa prospettiva l’immagine surrealista si pone agli occhi di Benjamin come un
analogo nella modernità dell’allegoria barocca. Ma “l’allegoria ha sgombrato,
nell’Ottocento, il mondo esteriore, per stabilirsi in quello interno”124, quindi per
Benjamin, solo nel legare il mondo interno dell’individuo nello stato d’ebbrezza, le
pulsioni inconscie, le fascinazioni momentanee e i gesti inespressi ma sedimentati
nella memoria, con il collettivo, con il deposito onirico di una società volta al
risveglio, si evita di cadere nell’abisso mitico e irrazionale del presente; solo
nell’inedita alleanza della mémoire involontaire di Proust e delle correspondances
baudeleriane è possibile salvare il passato dalla reificazione e il futuro dalla fiumana
del progresso. Il surrealismo nel suo aspetto politico necessita un ulteriore
superamento filosofico: il sogno del paesano di Parigi urge un risveglio e le
immagini surrealiste, abbandonata ogni mistificazione poetica e ogni rigidità
cadeverica (“cristallina immobilità” direbbe Breton) devono mutarsi in dispositivi
dialettici, immagini dialettiche.
Altra prospettiva porta Caillois alla necessità dello stesso superamento del
surrealismo: abbandonata ogni velleità politica, soprattutto il secondo Caillois,
122 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 269123 W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 143124 Ibidem, pag.140
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![Page 43: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/43.jpg)
guarderà all’immagine surrealista come una matrice di un pensiero analogico,
diagonale ed eccentrico, ma rigorosamente scientifico.
Se quindi in Caillois non c’è via d’uscita per il surrealismo al solipsismo romantico,
se non con un abbandono dell’ebbrezza per una sobrietà scientifica ed un rigore
luciferino, questo è perché la poetica surrealista in quanto vita poetica riguarda una
dislocazione dell’intero rapporto percettivo ed epistemico con il reale; una
concezione di quest’ultimo che prescinda dalla nozione fenomenica di oggetto e lo
liberi dal determinismo delle leggi naturali per proiettarlo nella dimensione
dell’immaginario arbirario, è infatti incompatibile con una prospettiva scientifica
rigorosa e con i conseguenti sviluppi conoscitivi.
La scienza procede per assestamenti progressivi e i salti a cui l’ebbro arbitrio
surrealista la sottopone non permette il depositarsi di conoscenze e modelli ai quali
fanno riferimento le teorie di volta in volta elaborate. Una scienza analogica in
continuo sviluppo, ma legata ad un’esigenza di coerenza multipla degli elementi
dell’universo è l’ossessione di Caillois, una scienza capace di intuire e organizzare le
corrispondenze nascoste della natura preservandone il mistero.
Nonostante la distanza di metodi e scopi, Benjamin e Caillois cercheranno nella
stessa direzione un nuovo modello filosofico; in entrambi si presenta un mondo
stravolto nell’analogia, in cui si afferma il volto surrealistico dell’esistenza125, ed
entrambi cercheranno nella teoria delle correspondances di Baudelaire la soluzione
al problema della rappresentazione.
IV. Il volto analogico del mondo
Imaginez que la ressemblance est le langage intellectuel des différences, que les différences sont le langage sensible de la ressemblance. Sachez
que tout en ce monde n’est que signes, et signes de signes.
125 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 358
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![Page 44: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/44.jpg)
Marcel Schwob
La temporalità del moderno è quel tempo infernale dove lo choc del nuovo, la
sorpresa, ci impone di vivere il presente soltanto attraverso la sua riproduzione, e
dunque, fra noi e il futuro, si erge, come un margine inesorabile, il passato in cui
precipita il presente nel momento stesso in cui accade. Questo paradosso espresso da
Valery segna l’essenza stessa del discorso benjaminiano su Baudelaire. Se da una
parte il moderno è sempre attualità incompiuta, un presente senza fine, d’altra parte
l’esperienza sopravvive solo nella dimensione del ricordo, del malinconico non-più.
Si potrebbe dire con il Sartre della Nausea che non esistono più avventure
(esperienze) ma solo aneddoti, l’esistenza si riduce ad essere un oggetto-simulacro,
depositato nella memoria volontaria e di volta in volta riattualizzato con lo scopo di
un ludico intrattenimento. Lo spleen frappone dei secoli tra l’istante presente e quello
appena vissuto: una temporalità reificata che oltre a perdere il presente nel
matematico addizionarsi dei secondi, relega il futuro alla dimensione di un eterno
ritorno e irrigidisce il passato in un cadaverico e feticistico possesso di oggetti-
ricordo. Il passato, l’antico, è in Baudelaire ricordo e non storia, traccie e non mito.
Parafrasando Claudel con Benjamin, Baudelaire ha per oggetto l’unica esperienza
interiore che sia ancora concessa all’uomo del XIX secolo: il ricordo. In questo il
poeta francese funziona per Benjamin da immagine dialettica, nelle polarità di vie
antérieure e spleen egli rappresenta la tensione dialettica inscritta nel moderno tra
una temporalità reificata ed una memorabile126.
Di fronte alla dissoluzione di un esperienza auratica del cosmo, la tentazione bicefala
del moderno non riusciva a comporsi: stretta nell’alternativa tra filosofie della vita e
positivismo tecnicistico, nessuna riflessione, seppur poetica, si prendeva carico del
campo di forze scaturito dallo scontro ideologico. La poesia di Baudelaire si pone al 126 Sulla polarità dialettica di vie anterieure-spleen le analisi di Leon Daudet dell’opera di Baudelaire, quasi misconosciute dagli studiosi, sono per Benjamin assolutamente centrali: “ La vie intérieure…de Charles Baudelaire…semble s’être…passée dans des alternatives d’euphorie et d’aura. De là le double caractère de ses poèmes qui, les uns, représentent une béatitude lumineuse, et les autres, un état de…taedium vitae.” L. Daudet, Flambeaux, Paris 1929, citato in W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (J10,2)
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![Page 45: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/45.jpg)
centro del conflitto rifiutando l’ottimismo semplicistico del positivismo comtiano e
la regressione mitica e vitalisticamente irrazionale di Klages o Jung. Se da una parte
si sarebbe pervenuti alle teorie giustificazioniste delle odierne tecnocrazie
burocratiche, dall’altra si finiva di filato, come temuto da Benjamin, all’ideologia
fascista rosenberghiana.
Si nota sin da qui come per Benjamin fosse assolutamente politica la questione del
confronto con Baudelaire. Il modello che emerge dall’analisi della sua poesia è
quello di una nuova esperienza percettiva del moderno, una barbarie positiva
risuonante in risate stridule che “vers l’étrange et l’absurde invitent sa raison.”
Assumere su di sé la paradossale temporalità del moderno e l’impossibilità di uno
sguardo auratico e contemplativo nella lontananza, lascia Baudelaire in balia degli
chocs e di una mitica nostalgia, ma lo preserva dal cadere vittima di uno dei due
corni dell’alternativa. Se le correspondances costituiscono il momento naturale e
originario del suo poetare, lo spleen è il sentimento allegorico che rende illusoria
ogni concezione dell’arte come categoria della totalità dell’esistenza. Il problema di
conciliare natura e artificio è la riproposizione di questa polarità: se da una parte
Baudelaire si lascia andare all’ebbrezza cosmica nei fenomeni, dall’altra tutto sembra
ricondurlo ad un rifiuto dell’organico e alla fascinazione per l’artificiale.
Nelle correspondances si annida l’esperienza al riparo di ogni crisi: anch’essa, come
quella dei rintoccanti secondi dello spleen, è esperienza astorica; è composta solo da
frammenti memorabili, gesti citabili, chances perdute ma depositate sul doppio fondo
della storia, in attesa di essere rievocate.
In una lunga nota contenuta nel saggio su Baudelaire, Benjamin accosta il concetto di
correspondances a quello di bello:
“Il bello nel suo rapporto alla natura può essere definito come ciò che rimane essenzialmente identico
a se stesso solo sotto un involucro. Le correspondances ci dicono che cosa si debba intendere per
questo involucro. Si può considerare quest’ultimo (…) come l’elemento riproduttivo (imitativo)
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![Page 46: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/46.jpg)
nell’opera d’arte. Le correspondances rappresentano l’istanza davanti alla quale l’oggetto dell’arte
appare come fedelmente riproducibile, anche se, proprio perciò, completamente aporetico”.127
Le correspondances costituiscono quindi l’involucro del bello, ultimo custode di un
modello di esperienza uscita dal tradizionale e oramai dissolto, ambito cultuale.
Ma la rete di analogie fenomeniche che ricostruiscono il cosmo secondo linee e
tracce pure, sono considerate un elemento imitativo e non originale come in una
filosofia della storia o nelle utopie regressive contemporanee. Le correspondances
riproducono allora qualcosa che non può che essere presente in absentia, un
indefinibile a cui si piega servilmente l’universo delle analogie poetiche128.
La vie antérieure viene a definirsi allora come un momento che vive solo nel mai-
stato, non in una condizione transeunte e contingente, né in un ideale iperuranio, ma
nel tralucere poetico della correspondance. Se esotericamente il bello naturale è
“l’oggetto dell’esperienza nello stato della somiglianza,”129ciò significa che
l’esperienza si nasconde in una ragnatela di corrispondenze illuminanti e che il vero
si da solo nelle modalità di un involontario gesto anamnesico.
La mimesi dell’Ausdrucklos è il bello, e le correspondances ne sono la
rappresentazione. Il cosmo appare trasfigurato in un reticolo di lampeggianti analogie
come nelle visioni di un mistico, o nelle allucinazioni da hascisch; il motivo
dell’ebbrezza ritorna come temporalità nello stato della somiglianza.
La poetica baudeleriana è quindi immagine dialettica “dove ciò che è stato si
rispecchia nel nuovo” e una vie antérieure si compone con lo spleen presente nella
costellazione ambigua dell’eternità dell’ebbrezza. Tale eternità dell’ebbrezza sta
nella concentrazione fulminea di tutto il mondo, di un’intera vita umana, nell’istante
del ricordo involontario.
L’analogia si stende temporalmente a comporre una proporzione anamnesica in cui
i termini della condensazione metaforica appartengono ad epoche e mondi diversi. Il
congiungimento disvela una forma nuova e finora ignota di eternità: il rivivere 127 W. Benjamin Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 118128 Per un’interpretazione del passo sopracitato vedi F. Desideri, Il fantasma dell’opera, Il Melangolo 2002, pag. 146-150129W. Benjamin Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 118
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attraverso la memoria involontaria un tempo perduto con la nostalgia propria del
ricordo, apre all’ebbrezza di un “doloroso choc di ringiovanimento”, all’eternità di
un tempo vissuto fulmineamente nell’istante del ricordo. Abbiamo visto in
precedenza come l’ebbrezza profana sia uno stato di a-intenzionalità in cui ogni
volontarietà del momento conoscitivo e ogni soggettivismo epistemico è
abbandonato per una dialettica di fascinazione e responsabilità, e come, più di ogni
altro, le privazioni della solitudine generino gli arabeschi dell’immaginazione.
Così nell’ebbrezza di una stanza morbidamente ammobiliata e preclusa all’esterno,
“Proust non si stancava di afferrare il tranello, l’Io, per svuotarlo e ritrovare sempre
di nuovo quella terza cosa: l’immagine, che placava la sua curiosità, anzi la sua
nostalgia. Straziato dalla nostalgia egli giaceva sul letto. Nostalgia per il mondo
stravolto nell’analogia, in cui si afferma il volto surrealistico dell’esistenza.”130
Allentamento dell’Io e primarietà dell’immagine sul reale conducono ad un’inedita
alleanza. L’idolatria immaginale dei surrealisti si traduce nel mondo solitario della
memoria di Proust, nel tessere un cosmo come una ragnatela di analogie e
corrispondenze: se con l’allegoria il soggetto aveva perso la centralità nella sua
relazione con l’esterno, con le correspondances anche l’intérieur si disperde
nell’intreccio che lo compone.
Il mondo di Proust è l’universo dell’intreccio, un contrappunto di ricordo e
senescenza che solo rende possibile l’eternità del tempo reale, del tempo intrecciato
con lo spazio.
“È il mondo nello stato dell’analogia, e in esso dominano le corrispondenze, che colse per primo il
romanticismo e con la massima profondità Baudelaire, ma che Proust fu il solo a saper evidenziare
nella nostra vita vissuta”
Il discrimine che nega al romanticismo la paternità dell’elemento rivoluzionario
dell’analogia abbiamo visto essere il carattere di rivelazione che assume in
quest’ultimi l’esperienza dell’ebbrezza:
130 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 358
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“Le esperienze vissute rivelate non ci sopravvengono in quanto rivelazione, ma rimangono nascoste a
colui che le esperisce. Esse divengono rivelazione solo nello sguardo rivolto al passato; in quanto
molte divengono consapevoli della loro analogia”131
Nel ricordo si tracciano le connessure analogiche che legano in insospettabili
intrecci, diverse e sotterranee esperienze vissute.
Mentre in Caillois la tela viene tessuta diacronicamente e i dati mostrano una
coerenza ontologica, materiale, in Benjamin la memoria è il vero dispositivo
analogico. Da una parte è il fenomeno fisico che si connette in una rete di analogie e
si mostra nella surdeterminazione che provoca nell’immaginario umano, dall’altra
solo la percezione fenomenica attraverso il suo essere già passato, permette di
scoprire il mondo nel suo volto analogico.
L’ebbrezza ha perduto i tratti di una visionarietà inebriante e contagiosa assumendo
la sobrietà di un’illuminazione profana materialista; questa si caratterizza come una
“liberazione dell’energia traumatica presente nelle cose”132, da qui il necessario
reiterarsi delle esperienze nella dimensione del passato. L’esperienza contenuta nelle
correspondances è assolutamente materialistica, come accade al narratore della
Recherche l’ebbrezza del ricordo si libera solo con il contatto delle papille gustative
con l’aroma sepolto della madeleine. In un contesto tutto bergsoniano Proust vede in
un senso bistrattato dalla letteratura e dalla filosofia, l’eureka dell’illuminazione
profana. Forse, si potrebbe azzardare, la vista è il senso più legato alla coscienza, più
abituato a parare gli chocs dell’esterno e a mediare gli impulsi interiori. Se il senso
privilegiato della metafisica occidentale è allora la vista, Proust preferisce l’odorato
e, come in questo caso, il gusto. Ma come conciliare l’amore proustiano per
l’immagine con il primato dei sensi secondari? Benjamin si accorge di questa
possibile obiezione ma proprio questa apparente contraddizione rappresenta un passo
ulteriore, al di là dell’immagine surrealista e del ricordo involontario proustiano,
131 Ibidem, pag. 269132 Ibidem, pag.599
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nella direzione di un rinnovato materialismo133. Breton era infatti ancora troppo
idealista per concepire l’immagine come non visiva: la medesima radice etimologica
accompagna il verbo vedere e il sostantivo idea, e ogni rappresentazione, anche se
inconscia ed espressa sotto qualsiasi forma, trova ragione nella metafora della vista.
La nozione di materialismo in Benjamin è oscura, vicina al concetto di materialità
come energia affettiva e impulsiva contenuta nel corporeo. Il materialismo
antropologico di cui Benjamin parla nel saggio sul surrealismo viene perfezionandosi
nel confronto prima con Proust e poi con Baudelaire. Fare infatti riferimento al senso
dell’odorato come stimolo ad un’esperienza percettiva rivoluzionaria, porta la
questione su di un piano decisamente materialistico. L’immagine mantiene il suo
primato sul retorico ma si coniuga nel corporeo con le forze profonde degli impulsi
aintenzionali. Chiunque quotidianamente può provare l’esperienza sconvolgente, allo
stesso tempo corporea e intellettuale, del passaggio di un particolare profumo
femminile che fulmineamente ti proietta indietro, all’adolescenza, ad un primo bacio,
reale o forse solo immaginato. Queste energie apparentemente perdute nella
memoria, sono assolutamente corporee, materiali al di là di ogni teorizzazione, e ce
ne accorgiamo ben presto, quando d’improvviso lo stomaco si stringe e un’onda di
calore dilaga dal petto, fin su nella testa.
Con queste esperienze voleva confrontarsi Benjamin quando parlava un po’
esotericamente di spazio corporeo (Leibraum) e si augurava una liberazione delle
forze rivoluzionarie dello spazio immaginale (Bildraum):
“Solo se corpo e spazio immaginativo si compenetrano in essa (nell’illuminazione profana) così
profondamente che tutta la tensione rivoluzionaria diventa innervazione fisica del collettivo, e tutta
l’innervazione fisica del collettivo diventa scarica rivoluzionaria, solo allora la realtà ha superato se
stessa tanto quanto esige il manifesto comunista.”134
133 Benjamin è infatti consapevole che in Proust è assente l’elemento corporeo, tutto in lui si traduce in immagine: “Accanto a questa felice ebbrezza dell’indicare, accanto all’incantesimo delle immagini, non c’è posto in Proust per la felicità fisica, per l’ebbrezza puramente fisica.” W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 372
134 Ibidem, pag. 268
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La liberazione dell’energie inconscie passa necessariamente attraverso queste
esperienze: l’immagine surrealista tende a trasformare in feticci, in oggetti morti,
l’esperienze vitali dell’inconscio. La passione per il cristallo, che abbiamo visto
accomuna a Breton a Caillois, porta il primo a pietrificare il figurale, che come dice
Lyotard è “la figura-matrice, invisibile per principio, né figura rappresentata né
schema organizzatore.”135 Quindi Benjamin si spinge al di là dell’inconscio, in una
dimensione pulsionale e non passionale, dimensione in cui è abolita ogni volontarietà
e intenzionalità dell’atto significante.
Nell’esperienza delle correspondances e nei versi di Baudelaire,
Ô métamorphose mystique
De tous mes sens fondus en un
Son haleine fait la musique
Comme sa voix fait le parfume136
Benjamin scorge una fusione dei sensi nell’orizzonte del corporeo, un mondo
sconvolto da analogie che non riguardano più solo la sfera epistemica ma si allargano
tracciando, in una dimensione in cui sono abbattute le false antitesi di soggetto-
oggetto e razionale-irrazionale, una progettualità politico-utopica che investe la
totalità dei legami e delle connessioni dell’umano.
Nel saggio sul surrealismo Benjamin parla di una connessione oscura tra l’umano e
l’animale. All’interno di una più generale critica all’umanesimo la questione
dell’umano si pone centrale nel pensiero benjaminiano collocando quest’ultimo in
dialogo con le riflessioni più estreme del Collège de sociologie137. In questa frase di
Benjamin affiora allora l’evidente debito di Caillois verso il surrealismo:
135 L. Gabellone, L’oggetto surrealista, Einaudi, Torino 1977, pag 29136 C. Baudelaire Tout entière, in Id. Opere, Mondadori 1996137 La controteoria batalliana dell’informe o le osservazioni di Caillois sulla distinzione tra società animali e società umane, rielaborate da Bataille nella nozione di interrepulsione. D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991
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“In cosa consiste d’altronde la congiunzione fra la dimensione umana e quella animale?
Nell’attaccamento al mondo del sogno.”138
Le fluttuanti realtà del sogno mettono quindi in discussione la rigidità della nozione
umanistica di individuo e nello stesso modo le analisi di Caillois delle forme di
surdeterminazione mitica costruiscono un cosmo in cui regno animale e regno umano
si compongono senza soluzione di continuità. Vedremo più avanti come nella
nozione di paradigma creaturale e di mimetismo, Benjamin e Caillois siano affini
nella volontà di ridefinire la nozione di umano rispetto alla tradizionale differenza
fondativa di animale e uomo139; per ora ci limitiamo a notare la possibilità di una
comune derivazione della problematica dall’influenza surrealista.
La teoria baudeleriana delle corrispondances è quindi sottoposta in Benjamin ad una
curvatura temporale e materialistica, l’analogia si mostra nella connessione a-
intenzionale di fisiologico e immaginale nell’alveo malinconico del ricordo; un
ricordare che però assume, oltre che il valore di modello cognitivo, la valenza
ontologica di un sostare in un cosmo di somiglianze, di corrispondenze reciproche,
fino all’essenza propria di ogni esperire, nella mimesi del senza-espressione, del mai-
stato. Spazio immaginale e imagination juste, oltre che dal riferimento all’immagine
la vicinanza di questi due concetti sembra rimandare al concetto di immaginazione,
centrale in Baudelaire: L’immaginazione è infatti la facoltà che apre alla nuova
dimensione percettiva delle correspondances:
“L’imagination est la plus scientifique des facultés, parce que seule elle comprend l’analogie
universelle, ou ce qu’une religion mystique appelle la correspondance ».
La provenienza mistica delle correspondances è attestata anche da Benjamin che fa
risalire la loro conoscenza oltre che a Swedenborg, soprattutto all’opera di Fourier140.
138 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 271139 Vedi più avanti, secondo e terzo capitolo.140 W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (J12a,5) e Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 117. I rapporti tra Baudelaire e Fourier non sono stati ancora sufficientemente studiati, se da una parte sembra esserci una sintonia profonda, si riscontra in più momenti una tendenza da parte di Baudelaire a sminuire il lavoro di Fourier:« L’homme raisonnable n’a pas
51
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Il mondo che in Baudelaire abbiamo visto apparire sotto la forma di una
costellazione emblematica non si limita ad avere una veste puramente estetica, ma si
origina sotto lo sguardo “scientifico” dell’immaginazione. Compare qui un recupero
della facoltà immaginativa a fronte del discredito in cui l’aveva gettato il
razionalismo cartesiano: scientifico non è allora ciò che ha a che fare con la sola
regione dell’intelletto ma è proprio della facoltà immaginativa percepire, in
Baudelaire intuire, la coerenza analogica che presiede al fenomenico.
L’immaginazione non è fantasia, non è creativa nel senso ingenuo del termine, non
crea nulla di diverso da ciò che scopre nelle fenditure del cosmo:
”L’imagination n’est pas la fantasie…l’imagination est une faculté quasi divine qui perçoit…les
rapports intimes et secrets des choses, les correspondances et les analogies”141
In Benjamin la facoltà immaginativa subisce la curvatura temporal-corporea di cui
abbiamo parlato in precedenza, ponendo la facoltà al servizio di una tensione
anamnestica; Caillois nell’elaborazione di due concetti centrali per il suo pensiero,
quello di imagination juste e di fantastique, recupera le teorie baudeleriane
sull’imagination, spingendo, criticandone la forma ancora troppo misticheggiante e
romanticamente intuizionistica, nella direzione proprio di quella scientificità che
Baudelaire attribuisce all’immaginazione. Nel motivo della scoperta in opposizione a
quello della creazione, Caillois segna il passaggio da una poesia illusoria e sterile
perché autoreferenziale ad una poesia scientifica, un’imagination juste che è rigorosa
ma avventurosa tassonomia analogica del reale. Nella scienza dei saloni e dei
cenacoli romantici “l’imagination est le fondement suprême de la réalité”, la
metafora su cui si modella il cosmo romantico non è quella della macchina bensì
l’organismo naturale, il tessuto organico dell’Animal-Univers di Ritter, che da Fichte
prima e da Novalis dopo, viene associato al tessuto poetico di un poema.142Il
Romanticismo viene considerato da Caillois un movimento originale proprio per la
attendue que Fourier vint sur la terre pour comprendre que la nature est un verbe, une àllegorie, un moule, un repoussé... » Lettera di Baudelaire a Toussenel citata in W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi,Torino 2000 (J8)141 Baudelaire citato in W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (J31a,5)
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![Page 53: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/53.jpg)
centralità del poetico nella scoperta scientifica, per il ruolo giocato dalla fisica come
“source de la poésie et seul excitant des visions”143.
Il romanticismo ribalta il comune utilizzo della metafora, con Novalis è la poesia a
servirsi di immagini tratte dal vocabolario scientifico; Baudelaire stesso introduce nei
versi poetici termini e concetti della scienza:
…Je laisse à Gavarni poète des chloroses
...Serré, fourmillant comme un million d’helminthes.144
E allo stesso tempo afferma la prossimità di scienza e poesia:
« ...l’exercice bien conduit des facultés poétiques est parallèle à l’effort du génie scientifique. Il
apporte des ivresses et des illuminations de même sorte, quoique toujours liées à une expérience
personnelle et passagère »145
Ma l’immaginazione che guida il poetico romantico non è la stessa di Baudelaire,
questi oltre alla terminologia importa nella poesia la richiesta di legittimità
all’operare metaforico. La questione dei criteri con cui un metafora può essere
accettata dall’immaginazione e diventare, attraverso una sedimentazione storica,
linguaggio e modello, è centrale nella riflessione di Baudelaire, che al pari di Saint-
John Perse viene preso a modello da Caillois per la definzione di immaginazione
poetica o imagination juste. In questo contesto la teoria delle correspondances si
coniuga con il rigore scientifico e l’evidenza dimostrativa della tavola periodica di
Mendeleiev:
« L’ensemble apparait d’une stricte économie et manifeste un développement à la fois régulier et
inévitable. Le tableau traduisait une organisation précise d’anlogies essentielles dont il s’agissait de
respecter la trame à tout prix, car elle faisait l’intérêt de la disposition nouvelle. » 146
142 “...l’existence de l’univers est celle d’un poème, nullement celle d’une machine » Fichte citato da Caillois in R. Caillois, L’alternative, in Id., Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 26143 Ibidem, pag. 28144C. Baudelaire citato in R. Caillois, Cases d’un echiquier, Gallimard, Paris 1970, pag 247145R. Caillois, Cases d’un echiquier, Gallimard, Paris 1970 pag 249146Ibidem, pag.77
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All’indefinita e arbitraria libertà di spirito inneggiata dai romantici deve subentrare
allora una nécessité d’esprit come associazione di rappresentazioni di contenuti
sovradeterminati pre-esistente, che hanno quindi un ruolo ideogrammatico di
sistemazione.
Le correspondances baudeleriane si fanno carico di una produzione meataforica
rigorosa che condivide con la scienza la giustificabilità della connessione analogica.
« Le domaine de la poésie commence avec le sensible et sa nature lui interdit de le renier. Son
instrument est l’image, c’est-à-dire en premier lieu le pont jeté entre deux données que la science a
pour vocation d’étudier séparément et surtout pas dans leurs similitudes éventuelles, qu’elle ne saurait
considérer que comme apparences trompeuses. Baudelaire ressent le besoin de fonder en doctrine les
relations que la poésie est amenée à proposer, d’où sa théorie des correspondances, qui fait du monde
un système d’échos et de reflets. Il établit une sorte de quadrillage infini, d’abord à l’intérieur de
l’univers physique, puis entre celui-ci et le monde moral, puis avec celui de l’intelligence et meme
celui de l’imagination et des passions.(...) Baudelaire reprend à Paracelse l’ancien systeme de la
signature des choses, que Swedenborg et surtout le Poe de la Puissance de la parole et des colloques
métaphysiques lui ont donné l’occasion d’amplifier et de transposer au-delà du sensible. Il s’agit en
fait d’un mode universel, sans doute instinctif, de la pensée classificatoire, par conséquent de presque
toute pensée. »147
Costruire una rete di corrispondenze che ridefiniscono un sotterraneo mondo di
somiglianze diviene allora il compito della poesia:
« établir des relations inédites et justes, constituer des séries dédaignées, mais exactes, multiplier les
grilles d’analogies inaperçues, de facon à constituer un savoir second et vérifiable, où les donnés
immédiates de l’experience trouvent leur cohérence, comme les analyses et les constructions de la
science découvrent la leur dans le support intelligible et mathématique des phénomènes : voici les
tâches dont la poésie est de plus invitée à s’acquitter... »(...)« Mais le but ultime est mieux cerné, si
l’on sait qu’il se confond avec l’établissement de quelque immense table cyclique des donneés du
monde. Elle ne porterait pas, comme celle de Mendeleiev, sur le poids atomiques des corps simples,
mais à l’inverse et complémentairement sur le scintillement de la nature, là où les corps simples
147Ibidem, pag 247
54
![Page 55: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/55.jpg)
dilués, composés, éparpillés en sensations, émotions, sentiments, connaissance et plaisir de soi-même
et de l’univers, ne sont plus identifiables ni quantifiables »148
Justesse dell’immagine e legittimità della poesia costitiscono in Caillois il cuore di
una teoria della sistemazione scientifica dei dati.
Poesia e scienza sono sottoposte entrambe e nelle stesse modalità ad una produzione
di immagini, di metafore, di modelli, costruiti su connessioni analogiche.
Dalla rappresentazione del DNA come una struttura elicoidale o l’atomo come
riproduzione mimetica del macromodello delle orbiti del sistema solare, la scienza si
rifornisce di immagini sempre nuove, su cui gravano profondi interrogativi di
legittimità. Il passaggio da una metafora, da un modello ad un altro avviene
attraverso un’evoluzione, “una rottura parziale e non accidentale” come nel
movimento dissimetrico149. L’immaginazione poetica si pone dunque il problema del
criterio discriminante che inficia o accoglie una nuova analogia:
“Ce que l’imagination a proposé, l’imagination risque de l’accepter tôt ou tard sans d’ailleurs que
nous ayons des critères certains d’être assurés d’avance de ce qu’elle admettra ou récusera. Toute la
question réside peut-être dans la découverte et la détermination de tels critères.”(..)
« La portée des analogies établies n’est pas entièrement subjective, sans quoi elles ne seraient pas
homologables et la beauté d’aucune image ne serait transmissible. La poésie n’est pas possible que s’il
existe un fonds commun objectif de l’imagination »150
Ma Caillois va oltre le preoccupazioni di filosofia della scienza indicando nella
produzione metaforico-poetica non il solo problema della rappresentazione e
dell’organizzazione del mondo, ma più radicalmente e ad un livello ontologico, la
148 Ibidem, pag. 255149 Sarebbe interessante concepire tutta la fisica antica come una complessa tavola delle corrispondenze e illustrare il paradigma classificatorio delle scienze moderne in relazione alla percezione delle similarità nei popoli primitivi analizzando in questa prospettiva la teoria paradigmatica della scienza (il paradigma di Kuhn; il network model di Mary Hesse) come produzione metaforica attraverso la condensazione di una serie analogica. Per queste tematiche in una dimensione comparativa rimando a C. Fede, Il post-empirismo di Mary Hesse, Università degli studi di Firenze, tesi inedita.150R. Caillois, Cases d’un echiquier, Gallimard, Paris 1970 pag. 249
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struttura stessa della materia151. Così se « les arborescences minérales (cristaux
arborescent) et végétales se forment selon les memes lois”152 una medesima legge
presiede a fenomeni appartenenti a mondi naturali e non, fino a prima ritenuti
incompatibili. Le analogie si inscrivono nel tessuto stesso della materia. Le catene
analogiche costruite da Caillois sono rigorosamente scientifiche, sono già presenti
nella natura, sta solo all’immaginazione supportata dalla necessitè d’esprit cogliere le
connessioni nascoste e le ricorrenze avventurose di un’ultima coerenza interna della
natura. Una volta costituita, la catena associativa si presta ad essere analizzata e
vengono alla luce le condizioni determinate della sua possibilità e i meccanismi che
la necessitano. In Caillois si procede scientificamente ad una ricerca di coerenze
sotterranee che preesistono allo sforzo analogico dello scienziato e quindi
contemporanee alla loro rappresentazione. La creazione di una nuova connessione
analogica inaspettata è tutt’uno con l’elaborazione metaforica del modello scientifico
di organizzazione del dato. Ne proviene che la questione della legittimità
dell’associazione analogica è assolutamente ineliminabile nella costituzione di una
metodologia scientifica. È in opera allora un rigore scientifico che non è sterilmente
funzionale alla semplice organizzazione dei dati ma caratteristica fondamentale di un
procedimento, ogni volta rivedibile e fluido, di sistemazione delle molteplici
rappresentazioni, di coerenze multiple degli elementi dell’universo.
Ciò che viene chiamato il progresso dello spirito umano e, in ogni caso, il progresso
della conoscenza scientifica, non poteva consistere e non potrà mai consistere che nel
correggere frazionamenti, nel procedere a raggruppamenti, nel definire appartenenze
e nello scoprire risorse nuove in seno a una totalità chiusa e complementare a se
stessa. La simbolizzazione153 è il procedimento con cui le scienze catalogano il reale,
costruiscono classi e ordinano il fenomenico. Quale criterio tassonomico opera una
151 Come nella corrispondenza tra i principi della magia e quelli dell’associazione delle idee studiata dall’antropologia di Hubert e Mauss, “gli stessi principi governano qui l’associazione soggettiva delle idee e là l’associazione oggettiva dei fatti; qui i legami fortuiti o sedicenti tali delle idee e là i nessi causali o sedicenti tali dei fenomeni.” R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri 1998, pag. 59152 V. Fleury, Le demon de l’analogie, in Europe, novembre-décember 2000, n.859-860, pag.196-208 153 Sull’attitudine di Caillois alla tassonomia del cosmo: André Chastel, La loyauté de l’intelligence, in A.A.V.V, Roger Caillois, Centre Georges Pompidour, Cahiers pour un temps, Paris 1981.
56
![Page 57: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/57.jpg)
selezione pertinente? Quando una classificazione si può dire scientifica? In che
misura la catalogazione di Linneo è inferiore alla tassonomia che prende in esame
quali elementi selettivi l’allatamento o la temperatura corporea? Ad un livello più
profondo, ordinare il reale in classi, quali effetti ha sulla prassi scientifica? e quanto
di una tassonomia è un problema solo di natura rappresentativo-didattica?
“Pour une part, l’évolution de la science consiste dans le progrès de ses propres classifications, dans le
détermination de critères fondamentaux et réellement économiques qui sont peu à peu substitués aux
caractères superficiels... »154
Il procedimento della catalogazione è fondato su di un sistema selettivo delle
somiglianze attraverso fasi di distinzione e classificazione dettate entrambe da criteri
di tipo analogico: una logica dello scarto minimo in cui le vecchie acquisizioni sono
confrontate con nuove ipotesi non eccessivamente distanti. Caillois si interroga
proprio sugli scarti operati dal progresso scientifico: attraverso la nozione di scienza
diagonale, egli segue insolite analogie cercando coerenze in un percorso trasversale
rispetto alle divisioni disciplinari.
La nozione di scienze diagonali s’incrocia con in Caillois con quella di eterologia.
L’attenzione riservata alle inedite corrispondenze analogiche, produce una radicale
critica del concetto di progresso nell’attività scientifica:
“Les caractères résiduels légitimenent disqualifiés donnen sûrement lieu à des relations remarquables
qu’il y a sans aucun doute avantage à déceler et à établir. »155
Le scienze non procedono lungo un astratto divenire evolutivo in cui il tentativo
assume la forma dell’errore, ogni stazione del processo conoscitivo è passibile di
sviluppi sempre nuovi nella dimensione relazionale in cui si viene a inserire con altri
dati inaspettatamente prossimi. Come le correspondance baudeleriane
rappresentavano in Benjamin un dispositivo di recupero del passato sepolto, una
154 R. Caillois, Nouveau plaidoyer pour les sciences diagonales, in Id. Cases d’un echiquier, Gallimard, Paris 1970, pag.55155Ibidem, pag. 55
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possibiltà di salvazione del fenomeno escluso nell’integrazione nell’istante presente,
nello Jetzeit, allora in Caillois l’eterologia si viene a definire come “scienza di ciò
che eccede il sapere, la scienza dei residui epistemologici;”156 scienza che ha quindi il
proprio telos metodologico nel “combiner en un système ce que jusq’à présent une
raison incomplète èlimina avec système.” 157
Chiudendo un occhio sul riferimento al sistema, che peraltro in Caillois, forse per
volontà o per incapacità, non si verifica, quest’ultima frase segna la prossimità di
questi alla metodologia micrologica di Benjamin, alla sua fascinazione per gli spazi
bui del sapere, per l’attenzione al particolare oscurato dall’episteme (nel senso critico
foucaltiano del termine):
“Quelle che per glia ltri sono delle deviazioni sono per me i dati che definiscono la mia rotta. Io baso i
miei calcoli sui differenziali del tempo che per gli altri gli altri disturbano le grandi linee della
ricerca.” 158
E ancora, più avanti:
“Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò
nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ricca di spirito. Stracci e rifiuti, invece,
ma non per farne inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli.”159
L’idea di una temporalità virtuale ed eccentrica in Benjamin e quella di eterologia in
Caillois, attingono la loro ragion d’essere nello stesso tentativo di critica al concetto
di progresso e di unidimensionalità della conoscenza; salvare i fenomeni significa per
entrambi sottrarli al riduzionismo storico-scientifico, intendere la ricerca filosofica
come un sapere residuale, un antidoto all’ideologia del vincitore.
156D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. XXVI157 R. Caillois, Procès intellectuel de l’art, in Id. Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 36158 W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi Torino 2000, (N 1, 2)159 Ibidem (N1a,8)
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V. Il pazzo e il poeta
Allora qualcosa gli si strappava dentro, egli si fermava col respiro affannoso, il corpo proteso in avanti, bocca ed occhi spalancati, e credeva di dover
accogliere in sé la bufera, racchiudere tutto entro di sé, egli si estendeva e copriva tutta la terra e affondava entro l’universo,era una voluttà che gli faceva male;
oppure sostava tranquillo, poggiando il capo sul muschio e chiudendo gli occhi,e allora tutto si allontanava, la terra cedeva sotto di lui, diveniva minuscola
come una stella cadente e si immergeva in una fiumana mugghiante che trascinava i suoi chiari flutti al di sotto di lui.
Georg Büchner
Al rumore delle grandi acque in marcia sulla terra, tutto il sale della terra trasalisce nei sogni.
E repentine, hah! Repentine che cosa vogliono da noi queste voci!
Alzate un popolo di specchi sull’ossario dei fiumi, e interpongano appello nella successione dei secoli!
Saint-John Perse
Come in un anello ci si ricongiunge alla novella con cui si è iniziato: il momento in
cui gli animali dello specchio sono costretti a riflettere le azioni degli uomini è il
mondo nello stato della somiglianza, mondo che è come ripiegato, grinzoso e poroso,
la segnatura delle cose si sovrappone alla realtà stessa delle cose ed ermeneutica e
semiotica sono simultanee nella rappresentazione del mondo. Nella vita anteriore in
cui uomini e animali dello specchio sono in pace si ha un cosmo di somiglianze
immateriali: l’uomo interpreta il mondo producendo reti analogiche e connettendo,
nella simultaneità di cosa e parola e al di là dello spazio e del tempo, corrispondenze
nelle pieghe del cosmo. Qualcosa è cambiato rispetto all’irrapresentabile,”esiste in
questo spazio solcato in tutte le direzioni, un punto privilegiato: è saturo di analogie
(ciascuna può trovarvi uno dei suoi punti d’appoggio) e, passando attraverso di esso,
i rapporti s’invertono senza alterarsi. Questo punto è l’uomo; egli è in rapporto di
proporzione con il cielo come con gli animali e le piante, con la terra, i metalli, le
stalattiti o le tempeste. Eretto in mezzo ai vari lati del mondo, egli ha rapporto con il
firmamento (il suo volto sta al suo corpo come il volto del cielo sta all’etere; il polso
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batte nelle vene come gli astri circolano secondo i loro percorsi assegnati; le sette
aperture costituiscono nel suo volto gli analoghi dei sette pianeti del cielo); (…) Il
corpo dell’uombo è sempre la meta possibile d’un atlante universale.”160 L’uomo si
fa interprete del cosmo ma nella prossimità, egli è interprete e interpretazione allo
stesso tempo come nel fenomeno della specularità è soggetto e oggetto della
rappresentazione. Di questa nozione di corpo umano nello stato della somiglianza
intende allora parlare Benjamin facendo riferimento in Ovidio al passo in cui si dice
che il volto umano è fatto per riflettere la luce delle stelle.161 E allo stesso modo
Caillois si rivolge a Plotino162 per il quale se l’occhio umano non avesse la stessa
forma del sole, non potrebbe percepirlo: fisiologia umana e teoria della percezione si
coniugano in un riferimento analogico. Rivolgendosi alla vie antérieure baudeleriana
Benjamin non intende recuperare questo modus percipiendi al moderno:“Il mondo
percettivo dell’uomo moderno infatti non contiene più che scarsi relitti di quelle
corrispondenze e analogie magiche che erano familiari ai popoli antichi”. La facoltà
mimetica non è però decaduta ma solo trasformata, Benjamin vede allora nella lingua
la somiglianza immateriale di nome e cosa, “lo stadio supremo del comportamento
mimetico e il più perfetto archivio di somiglianze immateriali: un mezzo in cui
emigrarono senza residui le più antiche forze di produzione e ricezione mimetica,
fino a liquidare quelle della magia. ”163
In questo accenno alle forze della magia il primo momento di trasformazione della
facoltà mimetica: al cosmo nello stato della somiglianza subentra l’epoca della
dominazione dell’imperatore Giallo: come un monarca naturale, egli costringe in una
produzione ordinata di similituidini la facoltà mimetica, rappresenta il cosmo
dominandolo. Nella definizione di magia data da Caillois e mutuata all’insegnamento
di Marcel Mauss, è presente l’elemento della differenza, dell’embrionale ma già
determinante presenza del soggetto occidentale. I due principi magici di contiguità e
160 M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1999, pag. 96161 W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (J18a,8)162 R. Caillois, Obliques, pag. 43163 W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995 pag. 74
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similarità164 sono gli stessi che stanno alla base della costruzione analogica del
mondo ma già nell’ottica di un possesso delle cose, di un dominio segnico ed
economico della natura. La facoltà mimetica o dottrina della somiglianza è quindi il
punto di connessione di magia e scienza.
In questa fase intermedia che da una parte apre al dispiegamento della razionalità
organizzatrice, di quella che Benjamin, in contrapposizione alla Dialettica, chiama
Logica, e dall’altra permette il perpetuarsi di elementi analogici, si affacciano
secondo Foucault due esperienze, due personaggi, speculari e contigui talvolta sino
alla compenetrazione, che simboleggiano la reazione all’introduzione della
distinzione classica di segno e somiglianza: il pazzo e il poeta.
Il primo è “l’uomo delle somiglianze selvagge”, è colui che si è “alienato
nell’analogia”165 e vede tutto sotto le vesti del’Identico; nato nei romanzi e nel teatro
barocco questo modello arriva sino alla modernità, nel Lenz di Büchner o nelle
Memorie di un malato di nervi di Schreber, nel soggetto lacaniano o nella
nomadologia deleuziana. Il pazzo rappresenta l’esperienza del paranoico, del
soggetto che diviene campo di forze attraversato dalle somiglianze del cosmo, centro
eccentrico di un’esperienza equivoca all’insegna del Medesimo. Lo stesso Benjamin
sembra farci riferimento nelle carte per il saggio sul surrealismo indicando in
Buchner il modello del materialismo antropologico, e il primo Caillois, nei suoi
rapporti privilegiati con la teoria paranoico-critica daliniana e negli incontri in casa
Lacan, avverte la fascinazione di un’esperienza che dissolve nel regno delle
somiglianze il rigido dominio del segno166. La seconda figura è quella del poeta,
“colui che, al di sotto delle differenze nominate e quotidianamente previste, ritrova le
parentele sepolte delle cose, le loro similitudini disperse. Sotto i segni stabiliti, e
lotro malgrado, afferra un altro discorso, più profondo, che richiama il tempo in cui
le parole scintillavano nella somiglianza universale delle cose: la sovranità del
164 I due pincipi elaborati da Mauss e Hubert vengono così definiti: 1. Contiguità: “Le cose che sono state in contatto una volta rimangono unite per sempre”. 2. Similarità:: “Il simile produce il simile”165 M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1999, pag. 64166 Sotto questa fascinazione cadono in Caillois tutti quei fenomeni di psicastenia trattati nelle sue analisi del mimetismo animale.
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Medesimo, così difficile da enunciare, cancella nel linguaggio la distinzione dei
segni.”167 Entrambi i personaggi sorgono dal dominio della semiotica, del segno e
rappresentano due strategie diverse ma speculari per far fronte alla nuova esperienza
duale e ordinata del mondo. A riprova della loro prossimità reciproca, il pazzo e il
poeta sembrano rappresentare le tentazioni che si dividono tutto il lavoro di Caillois,
da una parte le ricerche sul mimetismo e sull’acedia che econtraddistinguono i suoi
primi lavori fino alla serie di saggi sul mondo inorganico delle pietre, dall’altra
l’ossessione per il rigore analitico, esigenza perentoria di giustificazione e legittimità
dei procedimenti scientifici:
“Il poeta fa venire la similitudine fino ai segni che la dicono, il pazzo carica tutti i segni d’una
somiglianza che finisce con il cancellarli”168
Abbiamo visto come in Caillois il poetico sia percepire e porre in scrittura
(rappresentare) il reticolo, la ragnatela delle coerenze multiple che costituiscono
l’universo. È un procedimento analogico di connessioni avventurose che sempre di
nuovo destabilizzano e riequilibrano la sistemazione coerente del tutto.
Abbiamo usato il termine percepire, ma sull’effettiva modalità del conoscere propria
dell’imagination juste Caillois non si dilunga troppo e lascia intravedere una
soluzione epistemologica intuizionista. Respinta ogni tentazione mistico-
intellettulistica, Caillois sembra pensare ad una nozione di intuizione determinata
dalle leggi della natura essendo questa finita e discontinua.
Come per gli elementi della tavola periodica che riassumono, dal versante chimico
degli specifici pesi atomici, l’intero mondo naturale, così l’immaginazione poetica
produce solo le analogie che possono entrare in una necessaria sistemazione dei dati:
167 M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1999, pag. 64168 Ibidem, pag.65
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« L’ensemble apparait d’une stricte économie et manifeste un développement à la fois régulier et
inévitable. Le tableau traduisait une organisation précise d’analogies essentielles dont il s’agissait de
respecter la trame à tout prix, car elle faisait l’intérêt de la disposition nouvelle. » 169
Ma come detto in precedenza è necessario allora concepire un universo finito e
discontinuo per giustificare la presenza di determinazioni necessitanti la percezione e
rappresentazione di corrispondenze:
« La table périodique se présente comme le manifeste de la discontinuité et de la finitude. Elle
proclame en meme temps l’existence d’un univers ordonné, dont les structures fondamentales sont
dénombrables. »170
In tale ottica si considererà quindi valida una rappresentazione o un’associazione
lirica a partire dalla forza, dalla stabilità e dalla generalità del suo utilizzo collettivo,
e in buona misura dalla più o meno grande necessità della sua integrazione nello
sviluppo affettivo personale.
Il discorso di Caillois, in contrasto con la rappresentazione moderna del mondo come
infinito e continuo, e in sintonia con il Benjamin della Vorrede, è vicino alla
concezione finita e discontinua del mondo delle idee platoniche.
Se Benjamin parla delle idee come la “configurazione del nesso che l’unico e
l’estremo ha con ciò che gli è simile” e ci dice che sono qualcosa di discontinuo e di
finito, allora Caillois è assolutamente vicino quando afferma che “l’unité de l’univers
ne souffre pas d’exception et raisonnai dès lors comme si tout ce qui, meme trés
lointainement, était issu de structures primaires discontinues, devait rester, par l’effet
de ce péché originel, en quelque maniére et à quelque niveau, dénombrable. »171
Quello che interessa a Caillois è l’invarianza in un mondo di fluttuazioni, la raccoltà
dei fenomeni in una coerenza di elementi ultimi. Ma non una coerenza sistematica e
stabile, bensì fluida e continuamente rivedibile.
169 R. Caillois, Cases d’un echiquier, Gallimard, Paris 1970, pag 77170 Ibidem, pag. 79171 Ibidem, pag. 80
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Così il conoscere in Caillois, si pone come un ri-conoscere, un recuperare la
coerenza degli elementi ultimi al di sotto delle superficiali associazioni e
sistemazioni scientifiche.
Se per Benjamin il problema della rappresentazione delle idee andava di pari passo
con quello della salvazione dei fenomeni, questo determinava la posizione
intermediaria del filosofo tra la figura dell’artista e quella dello scienziato. Si può
dire che in tutto il suo lavoro Caillois abbia inseguito questa medietà, collocandosi
sempre tra il lavoro di raccolta nella somiglianza dei fenomeni più estremi e unici, e
la volontà ossessiva di rappresentare l’invarianza del mondo.
Immaginazione poetica (juste) e psicastenia leggendaria, tassonomia e mimetismo,
sono gli elementi speculari che nel pensiero di Caillois si fronteggiano nello spazio
d’un sapere modeno, un sapere specialistico e scisso che niente ha più a che fare con
le somiglianze, ma solo con identità e differenze.
La conclusione della novella cinese con la vittoria degli animali dello specchio, non
conduce circolarmente alla natura originaria di convivenza tra i due popoli, quindi al
volto analogico del mondo in cui la simpatia suscita il movimento delle cose nel
mondo e provoca l’avvicinamento delle più distanti. La prima e originaria condizione
naturale della mimesi si è dissolta e ha lasciato spazio a quello che viene definito il
simulacro, l’effige immateriale di un mondo sepolto. I segni fanno le veci delle cose
e il piano ermeneutico e quello ontologico si riassumono nel dominio del semiotico.
Lo squilibrio era già contenuto nella classe dei rapporti magici tra uomo e cosmo,
una seconda natura viene infine a configurarsi nelle modalità della tecnica. Una
simulazione intenzionale è il grado di realtà del quotidiano e l’inattingibile
somiglianza delle cose si perde nel totale dissoluzione dello statuto di realtà del reale.
Questa conclusione è quella a cui ci abituato un certo post-modernismo che si
abbandona alla facile diagnosi dei mali del moderno: dire che tutta la realtà si sia
trasformata in vuoto simulacro non ci aiuta a capire l’effettivo peso che la tecnica
ricopre nella definizione dell’umano. Allora si tratta di ricondursi all’originaria
condizione mimetica del rapporto uomo-natura, di riappropriarsi di tale relazione,
senza cadere vittima della fascinazione da un lato, del nichilistico e catastrofico
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![Page 65: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/65.jpg)
sentimento di una fine della storia come nullificazione dell’umano, dall’altro
dell’ottimistica convinzione che l’occidente tecnologizzato costituisca invece l’apice
dell’evoluzione umana, il medesimo compimento, ma glorioso, della storia.
Vedremo più avanti come in Benjamin e Caillois, il problema della tecnica venga
ricondotto nella sua essenza di “formazione naturale” o di “imperfezione
dell’artificio rispetto al naturale”: una prospettiva che nell’attività mimetica trova
una nuova anche se originaria definizione dell’umano.
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Parte seconda
Ambiguità del politico
Questa ambiguità non è un’imperfezione della coscienza o dell’esistenza, ne è la definizione.
M. Merleau-Ponty
I. Benjamin stratega dialettico
È la stessa notte della storia quella al cui calarela civetta di Minerva inizia il suo volo e l’Eros
resta, spenta la fiaccola, dinanzi al giacigliovuoto, a ripensar agli abbracci che furono.
Walter Benjamin
Il confronto continuo di Benjamin con figure e tematiche che apparentemente
sfuggono alla sua congeniale appartenenza ideologica, in questo caso la filosofia
dissidente e non conformista degli appartenenti al Collegio di sociologia e in
particolare il suo giovane fondatore Roger Caillois, non è solo spiegabile come
progetto di una critica salvifica, una “rettende Kritik”172 volta a redimere in una sorta
di apocatastasi storica “l’indistruttibilità della vita più elevata in ogni cosa”; ben più
azzardata del compito è la strategia, con cui il filosofo berlinese porta avanti
l’impresa: il suo filosofare germina sempre in terra nemica, sceglie l’avversario e lo
debilita dall’interno, sottraendogli, giocando allo stesso gioco, la possibilità di
giocare.
Virus che si riproduce all’interno dell’organismo fondendosi con l’ospite e quindi
evolvendosi solo nella relazione simbiotica, la critica benjaminiana si impadronisce
del corpo estraneo, utilizzandone le categorie nel tentativo di rovesciarle e di
ricondurle al positivo mostrando però il fianco a fraintendimenti e interpretazioni
riduzionistiche e tendenziose.
172 J. Habermas, Attualità di W. Benjamin, in “Comunità”, n.171, gennaio 1974, pp. 211-45
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![Page 67: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/67.jpg)
In questo senso, non esiste un filosofare benjaminiano autonomo, ovvero un sistema
di concetti stabili e definiti nella loro significazione173, la critica si muove solo
“nell’istante di un pericolo”, in uno sfrenato abbandono all’oggetto, e il movimento
dialettico non è produzione interpretativa rigida bensì capovolgersi continuo e fluido
degli opposti lasciando a nudo il nucleo di verità nel dissolversi della struttura. Con
una metafora corrosiva quindi “la vera critica non procede contro il suo oggetto: è
come una sostanza chimica che ne attacca un’altra solo nel senso che dissolvendola
scopre la sua natura più interna, non la distrugge” 174.
“Il critico è stratega nella battaglia letteraria”175 dice Benjamin aprendo la sezione di
Einbahnstrasse dedicata alla “Tecnica del critico in tredici tesi”, ma una battaglia
giocata fuori dai consueti schemi che vedono contrapposti due schieramenti nemici,
una contesa che non reca distruzione e che si tiene nel corpo stesso dell’avversario,
una disputa che svelando l’autentico “nei fenomeni più singolari e intricati, nelle
prove più incerte e ingenue come nelle forme più mature di una civiltà al
tramonto”176, mette in opera una redenzione del fenomeno.
Una strategia eccentrica, al limite, spesso guardata con sospetto da colleghi e amici
(celebri gli appunti mossigli da Adorno sul Passagen Werk e da Scholem sul
presunto influsso nefasto di Brecht), che trae forza dalla disinvoltura con cui si serve
di materiali ritrosi all’analisi perché confusi, equivoci, spesso minacciosi
all’orizzonte storico; l’abile doppiogioco speculativo ed eminentemente politico, che
ha portato Benjamin a intrecciare relazioni pericolose e ad occuparsi, con ansia di
salvazione, del recupero dialettico di momenti storico-culturali fino ad allora ritenuti
di decadenza177, si radica nella convinzione epistemologica di un concetto di verità
fluido e aintenzionale, ove sono venuti meno tutti gli steccati che delimitano i campi
173 Sul rapporto di filosofia e critica in Benjamin vedi il saggio di F. Desideri, Apocalissi profana, in Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995 174 W. Benjamin, Lettere (1913-1940), Einaudi, Torino 1978, p.26175 W.Benjamin, Strada a senso unico, in Id. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001176 Ibidem, pag. 177 “Non ci sono epoche di decadenza“ W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p.511
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![Page 68: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/68.jpg)
dell’esperire e si attesta, come per Kafka, ”la natura incerta, fluttuante
dell’esperienze: ognuna cede, ognuna si mescola con l’esperienza opposta…”178
“Il rebus diviene il modello della sua filosofia” annota puntualmente Adorno, e il
rebus non è altro che un linguaggio che “significa” accostando “cifre” diverse,
talvolta contraddittorie, una proposizione allegorica in cui il mistero criptico del suo
significato offre momenti ludici al moderno annoiato. Il suo filosofare allora nasce
dall’impossibilità del contesto classico del simbolico, l’unione di oggetto sensibile e
sovrasensibile, di significato e significante è lacerata e il tentativo intenzionale di
costituirla come verità dà luogo a quegli esperimenti filosofici sterili che non fanno
altro che ri-produrre l’oggetto che intendono conoscere, e di cui la fenomenologia
husserliana, che violenta il nucleo di verità dell’oggetto nella persuasione di poterlo
possedere, ne è un esempio. Tutt’altro è l’atteggiamento di Benjamin, un
comportamento speculativo che mima quello dell’amante verso l’oggetto del suo
desiderio: vi si accosta timoroso, “fuori di sé nella contemplazione dell’amata”, con
tocchi fugaci “come le dita d’un barbiere” che vanno a frugare nelle “grinze
ombrose, nei gesti sgraziati e nelle piccole pecche del corpo amato”; in un’estasi che,
a differenza di quella del mistico, non coglie l’oggetto in maniera assoluta, bensì lo
adula rimanendogli dappresso, in un completo abbandono al particolare che
infiamma il desiderio.
Ed è nella forma del desiderio che l’abbandonarsi all’oggetto di Benjamin assume i
tratti di una rinnovata qûete, di una fantasmatica esperienza della verità che si sottrae
alla sua morte annunciata nella conoscenza e si mantiene viva fiamma dolente nel
desiderio dell’amante-filosofo.
Il desiderio quindi non è, in questa ricerca trobadorico-stilnovistica della donna-
verità179, in conflittualità romantica con ciò a cui mira, bensì si può dire che,
“formando di desio nova persona”, il desiderio ama un altro desiderio. In questa
dialettica il desiderio non assume i tratti tipici di un soggetto amoroso, disperato e
insoddisfacibile Werter ripudiato dall’Altro Lotte, “l’amore non è opposizione di un
178 Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995 179 Su questi temi rimando al volume di G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 1978
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![Page 69: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/69.jpg)
soggetto desiderante e di un oggetto del desiderio”, ma tutto si compenetra
nell’ebbrezza, nell’estasi fulminante di un connubio erotico.
La figura hegeliana del Desiderio, primo momento dell’Autocoscienza, non è qui
organo fagocitatore dell’opposto dialettico che ribadisce se stesso con l’annullarsi
dell’altro180, che violenta la verità assoggettandola alla mediazione, rinnovando così
la scissione soggetto-oggetto e l’infinità del tendere desiderante.
Del resto, dice Benjamin in sintonia con un’esperienza pre-scientifica e pre-
soggettivistica della verità, “ basta prendere sul serio l’amore per riconoscere anche
in esso una illuminazione profana”, un rapimento casto ed estatico nel grembo
dell’oggetto.181
Come sempre in Benjamin, ogni concetto è accompagnato però da quella
ombreggiatura saturnina che svela le facili e falsi illusioni che si possono creare nella
semplicità dei discorsi. Nessuna possibilità di fraintendimenti è qui concessa, non
sono possibili relazioni gnostiche con la verità, nè intenzionali: la verità non entra in
relazioni se non nel suo fugace imprimatur prima della sua dissoluzione. Fallita è
allora la qûete simbolica del cavalier cortese, e da questo fallimento parte la nuova
ricerca, stavolta in un mondo di rovine, in cui la natura, come in una stampa di
Piranesi, si reimpossessa degli spazi sottrattogli dalla Kultur classicista; il mondo
dell’infranto, ove all’epico nostos o alla cavalleresca qûete si è sostituito il nomadare
rammingo di un Don Quijote, impotente illuminato a cui è negato incontrare l’amata
Dulcinea se non nelle necessarie apparenze del mondano.
Nella similitudine di intelletto e amante, come nell’interpretazione del rapporto tra
verità e bellezza in Platone, nello sbilanciamento verso un oggettivismo radicale,
viene quindi spezzato il rigido nesso tra conoscenza e produzione, sia pure
trascendentale, dell’oggetto, in virtù di una teoria della rappresentazione. Una
180 Con il mediarsi del Servo, come messo in luce da A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi, Torino 1991181 “Quale altro significato ha l’amore cortese se non quello che la castità è anche estasi, rapimento? W. Benjamin, Il surrealismo, in W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, pag.14
69
![Page 70: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/70.jpg)
rappresentazione (delle idee, della verità) che non è perfetto disvelamento ma un
mantenersi del vero nell’ombra del mistero e dell’irrivelabile che gli è propria.
Il filosofo si pone allora all’intersecarsi delle figure del ricercatore e dell’artista: un
arte della rappresentazione che non ha però la facoltà di cogliere l’idea nel sua
conchiusa perfezione simbolica, in questo il tentativo rappresentativo del filosofo fa
naufragio e l’allegoria, figlia della caducità e dell’effimero, è divenuto il terreno
dove si realizza dialetticamente il σόζειν τά φαινόμενα della rappresentazione:
“…l’apoteosi barocca è dialettica. Essa si compie nel ribaltarsi di estremi contrari. In questo
movimento eccentrico e dialettico, l’interiorità priva di contrari propria del classicismo non ha parte
alcuna…”.182
Una filosofia quindi che prende atto dell’impossibilità dell’assoluta perfezione del
“cerchio del simbolico” e che si muove, secondo una ritmica intermittente, proprio
dalla considerazione del vuoto, del nullificarsi della cogitatio cartesiana e di ogni
epistemologia che pretenda più di un semplice e malinconico accostarsi alla verità
secondo le modalita erotiche e della rammemorazione.
L’allegoria benjaminiana è il terreno della malinconica distruzione del senso, non
l’allegoresi cristiana come inizio del dispiegarsi del Verbo, del suo incarnarsi in
“ciascuna delle parole messe in scrittura”; le recalcitranti energie della
contraddizione, la molteplicità degli aspetti (Vielseitgkeit), delle figure, dei tipi,
rendono di volta in volta difficile la scrittura, la quale in balia di prospettive
anamorfiche e indecifrabili si presenta come l’informe massa in continua
metamorfosi su cui si staglia il simbolo e la forza unificante del Logos.
Dal fondo forze di “incomprensibile ambiguità” si sprigionano in una proliferazione
caotica e frammentaria dei significati, una polisemia impazzita fa deflagrare
dall’interno la monolitica certezza della Kultur, ove la storia diviene nell’apparenza
“naturale”, e tutto sembra tributare onori all’Unum Verbum del Logos, al simbolo
classico che media le contraddizione nella conciliazione finale; ma proprio qui, come
182 Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971, pag. 163
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dimostrato dalla conclusione delle Walverwandschaften di Goethe, irrompe “la selva
delle allusioni, degli echi, dei rimandi: un’infinità senza patria di allegorie” che
attesta la Notwendigkeit della caduta dell’illusorio simbolo della Kultur. La
significazione è allora questione di un attimo, fugace pietrificazione di un tessuto
vivo che muore non appena salito alla rappresentabilità: il conflitto simmeliano tra
Forme e Vita si risolve in ultimo nel balenare raggellante di un’”illuminazione
profana”, un condensarsi ambiguo di opposti che salta fuori dall’informe per poi
farvi subito ritorno.
Abbiamo visto allora come l’emblematica, arte della rappresentazione allegorica,
espressione dell’antinomicità, che ricompone senza mediare mantenendo la
lacerazione in primo piano, e la prassi surrealistica del montaggio, che nella
frantumazione dell’estetico e del linguaggio apre le porte al mistero senza violarne la
segretezza, costituiscano i modelli che, in momenti diversi, si sono imposti
all’attenzione di Benjamin come chiavi metodologiche nel corteggiamento della
verità.
La compresenza non contraddittoria di due termini in uno183, forma linguistica affine
al paradosso che dissolve il principio d’identità così come la nozione di verità su di
esso costruita, si mostra quindi chiaramente nella parola tedesca Zweideutigkeit,
mostro distruttore bicefalo (Zwei) con un corpo, ansioso di unità ma costretto ad un
destino di lacerazione e ricomposizione continua, costituito dalla radice deut- che
presiede ad ogni significazione tedesca dell’interpretare, dello spiegare; la possibilità
stessa di un pensiero forte184, di un pensiero senza tempo, è quindi negata dalla stessa
parola con cui Benjamin indica la legge che presiede al movimento-arresto
183 “Eppure, oltre al concetto della sintesi, acquisterà un’importanza sistemaica estrema anche quello di una certa non-sintesi di due concetti in un altro, poiché oltre alla sintesi è ancora possibile un’altra relazione fra la tesi e l’antitesi”. W. Benjamin, Sul programma della filosofia futura, in Id. Metafisica della gioventù, Einaudi, Torino 1982, pag. 222184 Con questa definizione si vuole intendere la speculazione sistematica fondata su un concetto di verità univoco, atemporale e intenzionale. Un “illuminismo” che non lascia trasparire il suo lato oscuro includendo metafisicamente il “reale” in una logica ordinatrice e strumentale. Un filosofare quindi che, con la presunzione di tenere in gabbia la verità, annulla la contraddizione e spegne il fuoco vivo del fenomeno nei ghiacci di un’empiria matematizzata e dedita al culto del fatto, o nell’idealismo teleologico della metafisica degli assoluti.
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![Page 72: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/72.jpg)
dialettico:“Zweideutigkeit ist die bildliche Erscheinung der Dialektik, das Gesetz im
Stillstand. Dieser Stillstand ist Utopie und das dialektische Bild also Traumbild“185.
Dispositivo ermeneutico vivo che organicamente si adatta al testo da interpretare, la
dialettica sarà quindi in Benjamin precipuamente allegorica: con un’immagin presa
dalla fisica, un differenziale di potenziale, un accumularsi di tensione che nasce
dall’avvicinare due poli opposti sviluppando in questo modo le energie contenute
nella contraddizione.
Un’esperienza del pensiero scevra da ogni dimensione evolutiva di progresso
intellettuale, e proprio per questo libera e multiversa, è quella che si mostra in
Benjamin quando rompe, fuori quindi dalla querelle tutta tedesca tra Natur- e
Geistwissenschaft186, sia con la storicismo di derivazione hegeliana, sia con il
rampante positivismo delle scienze naturali che immolava la conoscenza al
“fattuale”:
“ Al pensiero appartiene tanto il movimento quanto l’arresto dei pensieri. Là dove il pensiero si arresta
in una costellazione satura di tensioni, appare l’immagine dialettica. Essa è la cesura nel movimento
del pensiero. (…) essa va cercata là dove la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo” 187
Non si tratta quindi di prendere una delle due parti in contrapposizione all’altra,
bensì di individuare il luogo di soglia, l’immagine dialettica (Dialektisches Bild) ove
i due termini si chiariscono vicendevolmente permanendo nell’ambiguità viva.
Attraverso l’accostamento di elementi, relegati dalla frammmentazione delle
discipline in posticci contesti classificatori apparentemente autonomi o sclerotizzati
dal senso comune in illusori modus vivendi, si scopre quindi il ”veramente nuovo”
185 “L’ambiguità è l’immagine visibile della dialettica, la legge della dialettica nel suo stato d’arresto. Questa immobilità è utopica, e l’immagine dialettica, di conseguenza, è un’immagine onirica”, Walter Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000186E’ curioso che Benjamin rintracci la via di fuga all’alternativa proprio in quello che sembra rappresentare il culmine dell’atteggiamento positivista: “…la tecnica non è, evidentemente, uno stato di fatto puramente scientifico. Essa è anche uno stato di fatto storico. Essa impone di verificare la separazione positivistica, non-dialettica, che si era cercato di stabilire tra le scienze della natura e quelle dello spirito.” W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico,in Id, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pag. 88 187 Walter Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p.534.
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che apre all’autentico progresso scientifico in quanto continuo sviluppo
metodologico, relazionato ad una trasformazione dei contenuti in gioco:
“…ogni tappa nel processo della dialettica per quanto possa essere condizionata dalla precedente, fa
valere una svolta fondamentalmente nuova, che richiede uno svolgimento fondamentalmente nuovo. Il
metodo dialettico si distingue per il fatto che, conducendo a nuovi oggetti, sviluppa nuovi metodi.
Proprio come la forma si distingue nell’arte perché, conducendo a nuovi contenuti, sviluppa nuove
forme. Soltanto dall’esterno un’opera d’arte ha solo un’unica forma, e una trattazione dialettica solo
un unico metodo” 188
Il motore di tale dispositivo differenziale è il “duplice sguardo” teologico, volto in
unità allo stigma originario della creatura e alla non compiutezza del suo futuro, che
inaugura la temporalità dell’Erlosung: temporalità discontinua che fa deflagrare la
gabbia metafisica di ogni prospettiva filosofica che, come lo storicismo, pone
l’oggetto in una continuità evolutiva determinata all’origine, ove il nuovo non è che
il riproporsi dell’arcaico sotto forme alla moda.
È quindi il concetto di dialettica che, profondamente lontano da quello hegeliano
(più complesso il riferimento alla dialettica marxista in quanto giocato all’interno
188 Walter Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, p.533. Straordinaria è la vicinanza di questo frammento del Passagen Werk con l’analisi kuhniana della struttura paradigmatica delle teorie scientifiche:” Guidati da un nuovo paradigma, gli scienziati adottano nuovi strumenti e guardano in nuove direzioni. Ma il fatto ancora più importante è che, durante le rivoluzioni, gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche quando guardano con gli strumenti tradizionali nelle direzioni in cui avevano già guardato prima. … dopo un mutamento di paradigma , gli scienziati non possono non vedere in maniera diversa il mondo in cui sono impegnate le loro ricerche.” Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969, p.139.Analizzando lo stesso concetto di “rivoluzione epistemologica”, Caillois pone invece l’accento sul momento di continuità delle scoperte scientifiche che, in un’ottica che è solo apparentemente vicina all’Aufhebung hegeliana, sottolinea la necessità, in un contesto dinamico e surrationaliste, di una sistemazione razionale e coerente dei dati, insomma per Caillois natura non facit saltus:“Ce procédè de la généralisation par lequel la gèométrie de Riemann a résorbé celle d’Euclide et la physique relativiste celle de Newton en les admettant comme cas particuliers d’une synthèse plus compréhensive…” R. Caillois, Pour une orthodoxie militante, in H. Béhar (a cura di), Inquisitions, CNRS, Paris 1990, pag. 10; in nota al concetto di généralisation, Caillois cita l’opera Le nouvel Esprit Scientifique (1934) di Bachelard, il quale, nell’articolo che precedeva quello di Caillois, scrive:”Toute découverte réele détermine une méthode nouvelle, elle doit ruiner une méthode préalable”.G. Bachelard, Le surrationalisme, in Ibidem, pag. 5. Solo in apparenza contraddittorie, le due affermazioni di Caillois e Bachelard si confermano a vicenda nell’elaborazione di una nozione di scoperta scientifica che, in diretta antitesi con l’ideologia positivista del progresso, sembra avvicinarsi alla visione benjaminiana del procedimento dialettico.
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dell’ampio e ambiguo, nel senso sopra descritto, rapporto tra materialismo storico e
teologia) e nascostamente vicino al fondo mistico-esoterico, offre la possibilità più
vera d’intendere il pensare benjaminiano.
Nell’intento illuminante di questo nascosto doppiofondo critico, i concetti di
Tradition e di Kreatur si contrappongono polemicamente a quelli di Storia e Uomo,
dietro ai quali, all’interno di una metafisica dell’assoluto, si nascondono quelli di
Progresso e di Individuo.
Nella dialettica hegeliana, “la tradizione non è una statua immobile, ma vive e
rampolla come un fiume impetuoso (…) Il contenuto di essa è costituito da ciò che il
mondo spirituale ha prodotto, e lo spirito universale non riposa mai”:189 la nozione
continuistica della tradizione si pone quindi in Hegel come componente giustificante
il movimento inarrestabile in avanti, senza sosta né interruzione dello spirito
oggettivo.
Presente in più luoghi della sua opera e in particolar modo nel saggio su Kafka, il
problema del comunicarsi e del perpetuarsi della tradizione all’interno di una logica
del discontinuum è essenziale a Benjamin per risolvere le aporie della classica
concezione storica fondata sul tempo vuoto e omogeneo delle scienze naturali. La
tradizione è in Benjamin il volto della storia ogni volta citabile in ognuno dei suoi
momenti carichi di adesso, “temporalità contratta che “riassume in un’immane
abbreviazione la storia dell’intera umanità”: ciò che è definitivamente perso e che
solo nel gesto della rammemorazione malinconica assume i connotati del vero
oggetto storico vivificato dall’attualità. In un materiale preparatorio alle Thesen il
problema della tradizione viene messo direttamente in rapporto con la nozione di
dialettica in posizione di arresto e cosa ancor più esplicita viene descritta l’aporia
fondamentale di Storia e Tradizione:
“Aporia fondamentale: “La tradizione come il discontinuum del passato in opposizione alla storia
come continuum degli eventi”
189G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, La nuova Italia, Firenze 1967, vol.1, pp.10-12
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E più in basso nello stesso frammento:
“Mentre l’idea di un continuum livella al suolo ogni cosa, l’idea del discontinuum è il fondamento
della vera tradizione”190
Ad una dialettica del continuum, retta di progressiva estensione, Benjamin oppone
quindi quella ambigua, eccentrica, del discontinuum assolutamente citabile nei suoi
elementi.
Assunzione del contraddittorio e intermittenza del procedimento dialettico in cui si
vengono a privilegiare i momenti di arresto, d’immobilità, rispetto al movimento (o
meglio, si potrebbe dire che il movimento si sposta all’interno dell’immobilità stessa,
nel rovesciarsi continuo degli opposti) sono quindi le caratteristiche del discorso
benjaminiano che marcano la condizione ambigua del suo pensiero.
Altro è quindi lo sguardo dialettico benjaminiano e solo apparentemente statico,
rispetto a quello, solo apparentemente dinamico, di Hegel: “la costruzione
benjaminiana ha lacerato dentro di sé ogni volontà di Aufhebung che non mantenga
la differenza nella compresenza dei suoi elementi mediatizzandone il carattere
antitetico e tendenzialmente conflittuale...la sua teologica differenza da ogni pretesa
alla totalità consiste proprio nel carattere aperto della contraddizione su cui lavora,
nell’interminabilità delle sue possibili trasformazioni.”191
La filosofia, dice Benjamin nel Trauerspiel, “attribuisce il totale all’idea, la cui
struttura quale è plasmata dalla totalità in contrasto con il suo inalienabile
isolamento, è monadologica. L’idea è monade.”192
Nella definizione monadologica l’antica teoria platonica delle idee subisce una
curvatura storica, si potrebbe dire una secolarizzazione, e l’indice temporale si 190 W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, Ms 469, pp.82-83191 F. Desideri, Del teologico nelle Tesi sul concetto di storia, in Id. La porta della giustizia, Ed. Pendragon, Bologna 1995, p.148 In un frammento del Passagen Werk lo stesso Benjamin prende chiaramente distanza dal movimento progressivo della dialettica hegeliana in cui la dimensione temporale si risolve completamente nel concetto: “Già in Hegel il tempo si trova nella dialettica. Tuttavia questa dialettica hegeliana conosce il tempo solo come tempo del pensiero propriamente storico, se non psicologico. Il differenziale temporale, in cui è vera soltanto la forma dialettica, a Hegel è ancora sconosciuto”. Walter Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 951192 W.Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971, pag.26
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iscrive immediatamente nell’oggetto non come storicistico relativizzarsi ma come un
cogliere simultaneamente la preistoria e la storia successiva, un concentrare
nell’”adesso della conoscibilità” rammemorazione e profezia.
Il vero oggetto storico si dischiude allora solo ad una “duplice visione”, ambigua e
temporalmente bicefala, e la storia filosofica dell’origine, quella che ci ricorda ciò
che nell’esperienza storica ci concerne originariamente, è quindi “la forma che, dagli
estremi più remoti, dagli apparenti eccessi dello sviluppo, fa emergere la
configurazione di una totalità contrassegnata da una sensata contiguità di opposti”193.
II. Die Kreatur. Per un’ analisi del paradigma creaturale
193 Ibidem, pag. 25
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![Page 77: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/77.jpg)
Tutto quel che muore ha avuto una volta una specie di meta, di attività, e in conseguenza di ciò si è logorato;
ma non è questo il caso di OdradekFranz Kafka
La polvere ha una volontà, ecco il mio pensiero più sublime verso il Creatore,e l’impulso onnipotente alla libertà mi appare anche nel contorcersi di una mosca.
Fritz Strich
Il protagonista della filosofia di Benjamin è la creatura, il substrato dell’umano,
quanto di più vicino all’animale, con il quale condivide lo stesso statuto ontologico,
il non-ancora-umano.
Questo non-ancora è lo stigma che contraddistingue le creature: l’incompiutezza, la
non perfetta totalità conchiusa del loro carattere, le condanna ad una vita ramminga,
senza telos nè origine, nella vanità dell’assoluta immanenza. Nell’assenza di un
ordine, marchiate con il fuoco gelido della vergogna, rappresentano, nel “mondo
palustre” kafkiano dal quale ci parla Benjamin, il fallimento della tradizione, la
consapevolezza di una sacra scrittura che non ci è dato di saper leggere; questi
“pensieri nichilistici, pensieri di suicidio, che affiorano nella mente di Dio” sono gli
“aiutanti” quelli per cui “è data una speranza infinita”, una speranza “piccola e
assurda” nel cuore del nulla della rivelazione. Al pari di questi, gli animali, con cui
hanno in comune la follia: “la follia è l’essenza delle creature predilette da Kafka: da
Don Chisciotte agli assistenti e fino agli animali (probabilmente essere animale
significava solo aver rinunciato alla figura e alla saggezza umane, per una sorta di
pudore, di vergogna)”194; allora l’aiutare è possibile solo se proviene da chi ha perso
il contatto con l’esperienza della tradizione e non cerca la sua artificiosa
ricomposizione, e il ”cuore di tutti i cuori”, che per Kraus è il vero specchio di virtù
della creazione, è quello di cane, pura, irriflessa e dispendiosa fedeltà.
Nonostante la prossimità all’animale, la creatura però vi si differenzia proprio in
quanto stadio di parziale formazione, un non-ancora che comunque è un qualcosa:
194 Lettera di Benjamin a Scholem del 12 giugno 1938 in W. Benjamin e G. Scholem, Teologia e Utopia, Carteggio 1933-1934, Einaudi, Torino 1987, pag. 256
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![Page 78: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/78.jpg)
rispondendo ad un appunto fattogli da Scholem195, Benjamin sottrae le creature al
mondo eterico, stadio preanimistico sconvolto dall’informe compenetrarsi di labili
identità, nella “lussuria sfrenata” di un amplesso orgiastico, facendo dell’abbandono,
della dimensione del mondano come nullificazione dell’esistente e assenza di Dio, la
loro dimora.
La follia della creatura è quella, drammaticamente ironica, inscritta nella stessa
parola ebraica Qabbalah:
“Il cabbalista ritiene che la verità possa essere tramandata. Affermazione ironica, poiché la verità di
cui si parla qui è tutt’altro che tramandabile. (…) La tradizione autentica resta celata: solo decadendo
la tradizione scade a oggetto, solo nella rovina essa appare in tutta la sua grandezza”196.
Allora è proprio nell’esperienza dell’impossibilità della trasmissibilità della verità
che si condensa il significato della follia della creatura, come quanto si oppone alla
perduta saggezza, lato epico della verità.
Della “malattia della tradizione” sono malate le creature: fallire in ciò a cui sembrano
destinati è la forma del loro limitato agire, sono aiutanti incapaci nell’aiutare,
studenti che non sanno leggere e scrivere, hanno membrane tra le dita e “non sono gli
animali e neppure quegli incroci o esseri immaginari come l’agnello-gattino o
Odradeck”, bensì uomini incompiuti, dimentichi di ciò che li differenzia dalle bestie,
nelle quali talvolta si trasformano.
Se quindi si è consumato nel mondo della creatura il definitivo esilio dal teologico,
essa si trova confitta nella dura necessità del Politico: qui, nel panorama pietrificato
del creaturale, la Qabbalà dell’esilio di Yitzchàq Luria si incrocia con l’analisi
benjaminiane del Trauerspiel.
Il creaturale è ciò che è esiliato dalla sua dimora, che fa esperienza del vuoto “spazio
primordiale” che Dio, al momento del “restringersi da sé in se stesso” nel primo atto
della creazione, produce nel fondo dell’”Essere divino stesso”. Lo Tzimtzun, “il
195 Lettera di Benjamin a Scholem del 11 agosto 1934, Ibidem, pag. 156196 G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 1998, pag.93
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![Page 79: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/79.jpg)
ritirarsi di Dio fuori da ogni luogo”197 è alla radice di ogni idea di limite della potenza
di Dio, di un abbandono della sfera mondana all’arbitrio del Politico sino
all’avvento messianico che ricompone l’unità.
Il destino della creatura è quindi teologicamente segnato dalla Vergänglichkeit
(parola che echeggia il passato e il problema tutto benjaminino della sua salvazione),
la caducità del vivente, che nell’ononimo saggio freudiano198 viene associata al
meccanismo di mancata sostituzione dell’oggetto della libido e conseguente
formazione del lutto: Trauerspiel, dramma luttuoso, sarà allora la dimora della
creatura.
“Il piano dello stato creaturale” è “il terreno su cui si sviluppa il dramma barocco”, la
creatura è il mondano, il substrato dell’umano, quanto di più vicino all’animale, è il
caduco senza speranza. È consapevolezza della lacerazione del simbolo classico e del
simbolo barocco che subisce il politico, come impotente e sanguinaria volontà di
potenza.
“Il Trauerspiel dovrà assumere a propria sostanza quell’informe dal quale emergeva
vittoriosamente il simbolo barocco”199: questo informe è il creaturale e si sviluppa
sotto il segno dell’allegoria nel volto pietrificato della storia.
Informe sta a significare quello stadio di indeterminatezza mobile in cui si instaura la
dialettica tipicamente barocca Mensch –Tier, un confine in continuo e ambiguo
divenire, che dal cuore stesso dell’umano fa fallire ogni sua definizione. Il creaturale
è l’antitesi barocca a quel dispositivo di produzione dell’umano che è la macchina
antropologica umanistica: di fronte alla divisione rinascimentale del “continente
uomo” da quello animale, di un ribrezzo ontologico della bestia200, di un connotarsi
negativo della naturalità delle passioni (che avrà la sua più ordita e universale
raffigurazione nella distinzione tra esperienza e conoscenza, tra la sfera del pàthei
197 G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993198 S. Freud, Caducità, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol.1, Einaudi, Torino 1969199 M. Cacciari, Intransitabili utopie, in H. von Hofmannsthal, La torre, Adelphi, Milano 1993200 “Nel ribrezzo ispirato dagli animali la sensazione dominante è la paura d’esserne riconosciuti al tatto. (…) Egli (l’uomo) non deve rinnegare la parentela bestiale con la creatura, al cui richiamo reagisce il suo ribrezzo: deve diventarne padrone.” W, Benjamin, Strada a senso unico, in Id., Scritti 1923-27, Einaudi, Torino 2001, pag.414
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![Page 80: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/80.jpg)
màthos, l’impare attraverso un patire e quella dell’esperimento scientifico), l’informe
creaturale si pone come concetto critico destinato a far deflagare l’opposizione
bipolare uomo-animale, a scovare il ghigno della bestia sulle smorfie di piacere e di
dolore dell’uomo, riorganizzando l’orientamento della struttura umana in un informe
senza soluzione di continuità. Così Bataille nello stesso periodo definiva il termine
informe attaverso una radicale torsione del concetto di “definizione” stesso:
“Così informe non è soltanto un aggettivo con tale senso ma un termine che serve a declassare,
esigendo in generale che ogni cosa abbia la sua forma “201
L’ansia di definizioni che assale a più riprese la filosofia conduce quest’ultima a
confondere il problema della rappresentazione, dallo stesso Benjamin indicato nella
Vorrede come il problema principe della speculazione filosofica, con la sistemazione
e la configurazione del fenomenico in forme di facile lettura. A scardinare questa
falsa presentazione del problema serve la nozione di informe elaborata da Bataille, a
spogliare “cio che è”, dalla stretta “rendigote matematica” che le ha cucito addosso
la filosofia accademica. Nello stesso Dizionario critico Bataille si cimenta in questo
strano gioco di un definire informale, tentativo paradossale di creare un dizionario
che comincia non dal senso ma dai compiti delle parole; nel paragrafo dedicato al
termine Bocca202, uomo e animale, nell’ebbrezza di uno sconvolgimento passionale,
vengono a sovrapporsi nell’allinearsi degli orifizi secondo la linea vertebrale, proprio
come nella struttura orizzontale dell’animale.
Se spesso nei drammi barocchi compare la similitudine dell’uomo con l’animale,
questa è insufficiente a definire il paradigma del creaturale: quest’ultimo si colloca
infatti nella dimensione intermedia in cui entrambi i poli della similitudine saltano, in
cui finalmente si manifesta la fragile physis dell’uomo. Con la messa in discussione
del paradigma dell’umano di origine umanistica ci si avvia ad un ripansamento
integrale della definizione classica di ciò che è uomo e di ciò che da sempre lo
201 G. Bataille, L’Informe, in Id., Documents, Dedalo 1974, pag.165202 G. Bataille, Bocca, in Id., Documents, Dedalo 1974, pag 159
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![Page 81: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/81.jpg)
caratterizza in maniera apparetemente necessaria. Se quindi il linguaggio e il politico
sono sempre stati il discrimine di appartenenza all’umanità, proprio su questi due
versanti agirà, come una chimica dissolvente, il creaturale; il quale, da vera categoria
teologica del pensiero benjaminiano, eroderà il guscio ideologico che copre l’idea di
individuo e di società della tradizione metafisica e la relativa concezione
strumentale-comunicativa del linguaggio.
In un passo Benjamin avvicina la lingua della creatura a quella dei bambini, dei
visionari, dei folli, in un altro, nella recensione a Die Turm di Hofmannsthal, afferma
che “il lamento è il suono originario della creatura”203: indizi sufficienti a collocare il
problema del linguaggio nella dimensione dell’infanzia, nel senso che ha dato a
questa parola Agamben: nell’originarietà della parola.
La creatura si colloca all’inizio del divenire-uomo che è la parola: creaturale è allora
quello stadio in cui l’uomo nell’atto di nominare le cose entra in comunità con la
natura. La natura non è assenza di linguaggio, il fatto che non proferisca il flatus voci
tipico del linguaggio umano non significa che al mutismo delle cose corrrisponda un
impossibilità comunicativa; “ogni comunicazione di contenuti spirituali è
linguaggio”, quindi il frusciare delle foglie trasportate dal sibilare del vento e lo
scrosciare impetuoso di una cascata hanno un “essenza linguistica” comunicata e
comunicabile che è la loro lingua. Gli animali non parlano una lingua ma vivono essi
stessi nella lingua, ciò che differenzia questo linguaggio da quello umano è la
capacità di storicizzare le essenze linguistiche, costruire una Kultur, con la
terminologia linguistica, comporre un Discorso.
Poiché ogni cosa è nella sua comunicazione spirituale immediatamente lingua, “la
comunità dell’uomo con la parola creatrice di Dio” non è altro che la capacità della
creatura di ascoltare la lingua muta delle cose. Un ascolto, una ricezione che è rivolta
alla lingua delle cose stesse in un magico e originario dialogo che, da una parte,
produce linguisticamente in una relazione mimetica (”ogni parola, e tutta la lingua è
onomatopeica”) il mondo muto delle cose, dall’altro, in una Menschwerdung
originaria, l’uomo come comun-icazione, essere-in-comune, dialogo necessario con
203 W. Benjamin, La Torre, in Id.Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag.57
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l’Altro. Allora la creatura si mantiene in questo rapporto creativo con il linguaggio,
da una parte nella sintonia magica che il nominare mette in moto, dall’altra nella
sensazione dell’impotenza del linguaggio ad esprimere questo rapporto cosmico.
La creatura è originariamente nel Klagelied204 in quanto coglie l’impossibilità del
permanere nella sfera del perfetto nominare divino: “il peccato originale è l’atto di
nascita della parola umana”205 e il lamento della creatura sancisce la frattura del
simbolo, la caduta nella significazione, nel semiotico, la nascita della storia.
Infanzia dell’umano è quindi la creatura che come il bambino ha un rapporto magico
con il linguaggio, un creativo prodursi sotto la pelle delle cose di “somiglianze
immateriali”, un balbettare mimetico che è uscita dall’animalità ma anche un
lamentarsi, un ammutolire triste che mostra il dolore dell’impossibilità di attingere
alla Rivelazione, di esprimere l’inesprimibile. Con la nascita dell’individuo della
tradizione umanistica, dell’uomo assolutamente immanente a se stesso, il contatto di
ascolto e produzione mimetica con la natura, che sta alla base del nominare, si
interrompe e il necessario contrasto tra inespresso ed espresso, interno ad ogni
creazione linguistica come necessaria finitezza del linguaggio umano, deflagra
nell’iperdenominazione a cui il linguaggio come instrumentum, come illusorio
medium perfetto della conoscenza (“il rapporto assoluto del nome alla conoscenza
sussiste solo in Dio”, dice Benjamin), si presta.
Allora, non il dominio della natura attraverso l’iperdenominazione strumentale, ma
un appropriarsi magico del rapporto comunicativo tra natura e linguaggio, apre alla
Menschwerdung, alla vera uscita dall’animalità.
L’ambiguità di questa relazione dell’umano con questa animalità fondamentale è
quindi il nucleo della nozione di creatura come confine mobile e sottile tra natura e
storia. Ogni riflessione sull’uomo che voglia evitare di cadere nell’antropocentrismo
deve partire proprio da questa zona indefinita del creaturale in cui si ha più
dell’animale ma il non-ancora dell’uomo. Questa zona dell’inclassificabile si è
204 Über das Klagelied doveva intitolarsi il contributo di Scholem al primo quaderno di Angelus Novus, la rivista pensata da Benjamin agli inizi degli anni ‘20.205 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995
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tradizionalmente venuta definendo in negativo, attraverso meccanismi di esclusione e
inclusione, “escludendo da sé come non ancora umano un già umano, cioè
animalizzando l’umano, isolando il non-umano nell’uomo”206, ma il mistero di cosa
veramente caratterizzi la creatura e che cosa, di conseguenza, fondi l’umano, tutto
questo resta da scoprire. Inanzitutto è da sgombrare il campo da tutti quei tentativi di
definire l’umano a partire dall’uomo, ovvero da tutte quelle categorie tradizionali che
si fondano sull’erronea sostanzializzazione del concetto logico di Individuum.
III. Critica dell’uomo astuccio
“Il XIX secolo: singolare fusione di tendenze individualistiche e collettivistiche, che ha più di ogni epoca precedente, la tendenza a bollare ogni azione con l’etichetta dell’individualità (Io, Nazione, Arte) ma deve poi, sotterraneamente, creare negli ambiti più reconditi del quotidiano, come in un
delirio, gli elementi per una struttura collettiva…è questa la materia prima con cui dobbiamo fare i conti: edifici grigi, mercati coperti, grandi magazzini, esposizioni”.
Sigfried Giedion
“È una stanza oblunga, lunga circa dieci metri e larga otto: una forma che di solito offre le possibilità migliori per la disposizione dei mobili. Le pareti sono tappezzate di una carta lucida a
206 Questo è il funzionamento della macchina antropologica dei moderni così come lo descrive G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pag.42
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fondo grigio argento, chiazzata da piccoli arabeschi in una tonalità più pallida del rosso vivo dominante. Parecchi quadri interrompono la distesa dei parati. Sono soprattutto paesaggi di tipo
fantastico…Ogni quadro ha tonalità calde ma scure. È assente qualsiasi effetto brillante. Parla da tutti il Riposo. Si vede soltanto uno specchio, e non molto grande. Ha forma pressoché circolare, ed è appeso in modo tale che nessuno dei sedili che offre la stanza si riesce a ottenere l’immagine riflessa di una persona. (…) Leggeri e aggraziati scaffali sospesi, dai profili d’oro e dai cordoni di seta rosso
vivo con nappe d’oro, sorreggono due o trecento volumi splendidamente rilegati.(…) Oltre a questi mobili non c’è altro, a eccezione di una lampada Argand, con un paralume color rosso vivo di
semplice vetro smerigliato, che scende dall’altissimo soffitto a volta su un’unica catenella d’oro, e diffonde su ogni cosa un quieto ma magico fulgore.”
Edgar Allan Poe
Sarebbe un’impresa ardua e complessa ricostruire qui l’origine dell’attuale uso del
concetto di Individuo, riconducibile al cogito cartesiano, alla nozione logica di
individuum e a quella cristiana di anima e persona207, oppure, in una prospettiva
politica moderna, alla dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, sorta di
razionalizzazione dell’ideale umanistico; in questo senso il riferimento all’analisi
benjaminiana della formazione dell’individualismo borghese, come quella di
Caillois, sembra suggerirci una via, interna alla modernità, originatasi nel primo
Romanticismo. Quello che emerge infatti dal confronto con la seconda metà
dell’Ottocento è un essere che si potrebbe chiamare, con le parole di Benjamin,
l’”uomo ammobiliato.”208
È il borghese che erge tra sé e l’esterno una fortificazione inespugnabile fatta di
morbide luci smerigliate e pieghe di denso broccato, una barricata che, a differenza
di quelle innalzate da lui stesso sul finire del XVIII secolo, non difende nelle strade
la rivolta cittadina dalla reazione aristocratica, bensì la conservazione di un potere
salottiero, dalle prepotenze di un esterno rumoroso e rivendicativo.
L’uomo borghese si fa privato, le sfere del lavoro e dell’abitare si scindono lasciando
il primo alla mercé di funzionalizzazioni tecniche e specialistiche e l’altro irrigidito
nelle maglie di un intérieur che stigmatizza i comportamenti dell’inquilino secondo
le accoglienti forme sinuose di un sofà o la grave rettitudine di dorati tendaggi.
207 Su questo vedi M.Mauss, Una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella di «io», in Id. Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965208 W. Benjamin, Kitsch onirico, in Scritti II 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, pag. 380
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Tutto agli occhi del cittadino privato appare nelle vesti di un ornamento del proprio
domicilio; la natura si dissolve nell’assoluto artificio, le foreste divengono parchi e i
giardini salotti, tutto è preso a pretesto per opacizzare il rivoluzionario luccicare della
trasparenza.
“La Filosofia del mobilio come i suoi racconti polizieschi fanno di Poe il primo
fisionomista dell’intérieur”209, così Benjamin mettendo in relazione arredamento e
delitto210: un salotto è il luogo migliore per commettere un omicidio, nelle intime
atmosfere, sovraffollate di oggetti ornamentali, tutto può trasformarsi in un’arma
letale, ma allo stesso tempo ogni particolare reca impressa su di sé la traccia
dell’assassino. La semplice eventualità dello smarrimento di un oggetto in un salotto
borghese fa di chiunque si metta alla ricerca, un potenziale Dupin, e dello smemorato
responsabile, un efferato Moriarty.
Scopo di Benjamin, e di Poe prima di lui, è allora quello di “rendere l’immagine di
quei saloni dove l’occhio si perdeva fra tendaggi ampi e cuscini gonfi, dove
specchiere e causeuses schiudevano, davanti agli sguardi degli ospiti, portali di
chiesa e gondole su cui, simile alla luna, si posava la luce a gas emanata da una sfera
di cristallo”211. L’intérieur si definisce come una fantasmagoria dello spazio ove
l’oggetto da una parte si scioglie dal suo valore d’uso per entrare nella dimensione
della completezza, del valore di attribuzione del collezionista, dall’altra si traveste
degli stati d’animo dell’abitante, del borghese che nega l’accadere del mondo in
un’atmosfera sospesa e irreale.
Il feticismo che si riassume in questa pretesa di possesso dell’oggetto reificato
mostra al borghese il panorama del reale come una foresta pietrificata del superfluo,
del non funzionale: solo ciò che può divenire proprietà privata può accedere al
tempio che il borghese ha innalzato al possesso. L’intérieur è allora sede di un
paradosso della cultura borghese: se il potere in una società mercantile è
209 W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 154210 Complicità fatale agli occhi del Loos di Ornamento e delitto; al pari di Klee e Scheerbart, Loos viene infatti citato da Benjamin tra i grandi costruttori-distruttori: la trasparenza del vetro e il rigore dell’acciaio faranno piazza pulita della morbidezza e opacità decadente dell’intérieur borghese. 211 W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (I 1,7)
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conseguenza di un atteggiamento pragmaticamente funzionalista e utilitarista, e
l’oggetto si presenta solo nel suo valore di merce, la separazione della sfera privata
porta al formarsi di una dimensione intima del borghese che rifiuta ogni
asservimento dell’oggetto a qualsiasi funzione e utilità.212
In questa dimensione l’oggetto si riscatta dalla sua condizione di merce, ma
Benjamin si guarda bene dall’attribuire ingenuamente al collezionista amatore una
distanza eccessiva dalle dinamiche economiche legate alla collezione.
Il modello del collezionista è il cugino Pons dell’omonima opera di Balzac, e il
motore che lo muove a ricercare i pezzi rari della sua collezione non è il
romanticismo del cacciatore di reperti, ma la passione dell’orgoglioso borghese che,
come ogni buon personaggio balzachiano non disdegna affatto, unito ad un
narcisitico amor proprio, il guadagno213.
Così se l’oggetto da collezione ha perso completamente ogni riferimento al suo
valore d’uso non è così per il valore di scambio: come l’oggetto alla moda, la novità,
è puro oggetto monetarizzato, così l’oggetto da collezione è il prezzo che si applica
alla passione e all’orgoglio, al di là del denaro, nella purezza del possesso.
In questa purezza il regno dell’apparenza: lo spazio dell’intérieur è apparenza sub
specie aeternitate: “Oggetti che hanno una loro parvenza storica vi vengono arredati
come apparenza della natura immutabile”214. La morte, sigillo di una finitudine, non
può penetrare nell’intérieur e la sicurezza dell’eterno è conquistata dal borghese al
prezzo di orrendi sogni:
“La miseria non poteva trovare accoglienza in stanze in cui non ne otteneva nemmeno la morte. In
esse non c’era posto per morire; così i loro inquilini morivano nei sanatori, mentre i mobili già alla
212 “La vera, misconosciutissima passione del collezionista è sempre anarchica, distruttiva. La sua dialettica è infatti combinare alla fedeltà all’oggetto, a ciò che è singolo, a ciò che in esso è salvo, la protesta caparbia e sovversiva contro ciò che è tipico, classificabile. Il rapporto con un oggetto al fine di possederlo assume connotazioni totalmente irrazionali. Per il collezionista, in ciascuno dei suoi oggetti è presente il mondo stesso”. W. Benjamin, Elogio della bambola, in Id. Scritti IV 1930-1931, Einaudi, Torino 2002, pag. 10213W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico,in Id, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 103214 T.W.Adorno, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Milano 1983, pag. 117-119; citato in W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (I 3a)
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![Page 87: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/87.jpg)
prima successione ereditaria finivano in un negozio. La morte in essi non era prevista. Per questo di
giorno apparivano così confortevoli e di notte diventavano lo scenario di sogni paurosi. (…) Siffatti
sogni furono il prezzo con cui mi guadagnai la sicurezza”215
Gli individui stessi fanno parte dell’intérieur come i monili, i quadri o gli ornamenti
floreali, a loro è negata ogni possibilità di morire, sono individui e quindi esclusi dala
comunità dell’umano, la non-appartenenza all’orizzonte della morte li priva
dell’umanità. Le cose sono manichini, nella completa alienazione di cosa e valore
d’uso, un tempo infernale, una cattiva infinità segna la relazione del borghese con la
storia. Nel suo salotto egli raccoglie il lontano e il passato, come sulle scene di un
teatro universale, esso diviene il campo di battaglia ove Napoleone contende agli
inglesi lo scettro dell’Europa, l’harem dove il sultano Maometto II gozzoviglia
all’indomani della presa di Costantinopoli; e di tutto questo la stanza del villino
borghese reca traccia nelle lame delle baionette incrociate sul caminetto, negli spessi
tappeti imporporati, nella calda luce artificiale che filtra dal vetro smerigliato della
lampada.
L’immagine eterna del passato postulata dallo storicismo è la stessa del borghese che
si immedesima nell’evento indossandone la maschera; immedesimazione e
reificazione del processo storico sono elementi complementari nell’ideologia
dell’intérieur. Una pigrizia del cuore è secondo Benjamin la causa dello spirito
storicista, un “acedia che dispera di impadronirsi dell’immagine storica autentica,
balenante per un attimo.”216
Pigrizia è il volto con cui le cose si presentano nell’intérieur; sprofondati nel sofà,
nel chiaroscuro di un ambiente reso impermeabile dall’esterno, indolenza e noia
costituiscono il pendant necessario di sicurezza e stabilità. La comodità
dell’ambiente richiede il sacrificio di ogni educazione sentimentale, la parola
comfort217 è il solo imperativo che riecheggia nei saloni felpati.215 W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino 2001, pag. 44216 W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997 (tesi 7)217 “Etimologia della parola comfort. Il signifiait autrefois, en anglais, consolation (Comforter est l’épithète de L’Esprit-Saint, Consolateur); puis le sens devint plutôt bien-être; aujourd’hui, dans totutes les langues du monde, le mot ne désigne que la commodité rationnelle.» Wladimir Weidlé, Les abeilles d’Aristée, Paris 1936, pag. 175, citato in W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino
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![Page 88: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/88.jpg)
L’intérieur non è solo l’universo ma anche la custodia dell’uomo privato; lo stile
liberty con cui la dimora assume il definitivo ruolo di custodia, di guscio dove
l’abitante lascia le sue impronte si propone come il modello dell’abitare nel XIX
secolo. Questo stile appare come il compimento dell’intérieur, ”l’apoteosi dell’anima
solitaria appare come la sua meta, l’individualismo è la sua teoria.”
“Esso (il liberty) è l’ultimo tentativo di sortita dell’arte assediata dalla tecnica nella sua torre d’avorio:
un tentativo che mobilita tutte le riserve dell’interiorità. Esa trova la sua espressione nel linguaggio
lineare medianico, nel fiore come simbolo della natura nuda e vegetativa, che si oppone all’ambiente
tecnicamente armato. I nuovi elementi della costruzione in ferro, piloni e forme di sostegno,
impregnano lo stile liberty. Nell’ornamento esso si sforza di riconquistare queste forme all’arte.”218
Con l’art nouveau gli specchi tanto esecrati da Poe nell’arredamento americano,
fanno il loro travolgente ingresso nella villetta unifamiliare Jugendstil; specchi
concavi e specchi convessi preannunciano il dispiegamento del materiale
rivoluzionario per eccellenza, il vetro. L’art nouveau è agli occhi di Benjamin
un’immagine dialettica, essa compone, nell’ornamento divenuto struttura posta a
difesa dell’interno, le ultime resistenze dell’arte allo strapotere inarrestabile della
tecnica. L’intreccio del motivo floreale cresce sui cancelli e sulle porte, sposandosi
con il freddo rigore del ferro; la pudicizia e l’ipocrisia dell’interno non è ancora
dissolta e il vetro si mantiene nell’opacità frammentandosi in un caleidoscopico
mosaico di colori. Le travi di ferro si insinuano nell’architettura come edera
rampicante, appoggiandosi con grazia ai mattoni, quasi senza farsi notare: presenti,
ma ancora lontane, sono le imponenti manifestazioni di forza che questo materiale ha
dato di sé nell’esposizioni universali sul finire del XIX secolo.
L’arte e la bella apparenza sembrano reagire alla funzionalità e nascondere, forse per
l’ultima volta, l’uomo alla sguardo del collettivo. La tappezzeria, i tessuti si
oppongono all’arrivo dei nuovi materiali, del ferro, dell’acciaio, del vetro: lo stile
2000 (I 6a,2) La comodità razionale a cui si riferisce Weidlé può indicare il razionalismo positivista con cui si escludono, includendoli in un sistema omogeneo, gli elementi speculativi scomodi che mettono in discussione l’equilibrio ideologico della visione borghese dell’esistenza. 218 W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 153-4
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![Page 89: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/89.jpg)
liberty cerca nell’ornamento una ultima ed estrema alleanza del principio formale dei
primi, con la materialità dei secondi.
Ma al di là delle stilizzazioni liberty, un’altra, ben più profonda presenza del modello
floreale segna la modernità; il vetro e il ferro compaiono prematuramente agli inizi
del XIX secolo e contro di essi si esercita la diffidenza degli architetti e degli
arredatori che non da subito comprendono la loro forza materiale e onirica. Vengono
allora utilizzati per la costruzione di case né per i vivi, né per la divinità, né
tantomeno per il focolare o per gli oggetti ormai senza vita: ferro e vetro abilmente
intrecciati edificano una casa per le piante, la serra, modello dei futuri passages e
delle utopiche Glasarchitektur di Taut e Scheerbart.
I passages figurano come la forma prematura e malriuscita dell’ “utopia ventilata” di
Scheerbart: l’insufficienza nelle conoscenze della progettazione in vetro è all’origine
della luce opaca e densa, causa dell’atmosfera livida, sottomarina, delle gallerie.
I surrealisti hanno avuto i natali in un passage e di quest’ultimo mantengono le
caratteristiche di prematura condizione rivoluzionaria. Ma per i surrealisti non è
ancora il momento219, come per i passages è ancora necessario un’ulteriore
superamento.
La fantasmagoria illusoria dell’intèrieur è l’arabesco, corona del nichilismo
individualista che, vittima dell’apparenza dei simulacri che adornano il suo interno
quotidiano, va incontro ad uno stato d’animo prossimo all’ebbrezza da hascisch.
“Lo spazio si traveste, indossa, come un essere tentatore, i costumi degli stati d’animo. Il piccolo
borghese soddisfatto vuole avere la sensazione che nella stanza accanto avrebbe potuto aver luogo sia
l’incoronazione di Carlo Magno che l’assassinio di Enrico IV, la firma del trattato di Verdun o le
nozze di Ottone e Teofano. In fondo le cose sono solo manichini, e perfino i grandi momenti della
storia sono solo costumi sotto i quali essi scambiano intese con il nulla, col meschino e il banale. Tale
nichilismo è il nucleo profondo dell’intimità borghese; uno stato d’animo che, nell’ebbrezza
dell’hascisch si condensa nella soddisfazione satanica, nel sapere satanico, nella quiete satanica,
rivelando come l’intérieur di quest’epoca sia anch’esso un eccitante dell’ebbrezza e del sogno. Inoltre,
219 W.Benjamin, Carte per il surrealismo, in Id. Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag .275
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questo stato d’animo comprende anche un’avversione per lo spazio aereo libero, per così dire
uranico220, che getta una nuova luce sugli eccessi della tappezzeria negli interni di allora. Vivere in
essi significava restare intessuti ed ermeticamente inviluppati in una tel di ragno, intorno alla quale
l’accadere del mondo sta sospeso come corpi d’insetti cui è stata succhiata la linfa. Da questa caverna
non ci si vuole staccare.”221
Uno stato d’animo ebbro che si niente ha a che vedere con l’ebbrezza che Benjamin
pone alla base dell’illuminazione profana. Una condizione satanica assolutamente
individuale e di rivolta si oppone qui, con le parole di Caillois, ad uno spirito
propriamente luciferino.
Sembra che nella contrapposizione tra rivolta e rivoluzione, elaborata da Naville ma
presente in Benjamin nel saggio sul surrealismo, e quella di Caillois, frequente nei
primi articoli pubblicati alla fine degli anni trenta222, tra Satana e Lucifero, si possa
rintracciare la stessa tensione ad una rigorosa evoluzione del senso di rivolta in una
dimensione di un rinnovamento dell’idea di collettivo. Così, parlando del concetto di
libertà in Breton, Benjamin si chiede se la jouissance senza restrinzioni né
considerazioni pragmatiche possa conciliarsi con il momento costruttivo e collettivo
della libertà:
“Ma gli riesce di saldare questa esperienza della libertà insieme con l’altra esperienza rivoluzionaria
che tutti dobbiamo riconoscere perché l’abbiamo avuta: con l’elemento costruttivo, dittatoriale della
rivoluzione? In breve, gli riesce di congiungere la rivolta alla rivoluzione?
Abbiamo visto la miseria dell’intérieur, le cose asservite e che ci asservono,
capovolgersi nel nichilismo radicale rivoluzionario surrealista, ma a condizione di
220 Vedremo più avanti l’importanza di questo paradigma uranico nella critica comunitaria all’individualismo borghese del Collegio di sociologia: importanza sottolineata dal progetto, espresso in una lettera di Bataille a Caillois, di intitolare una rivista proprio Ouranos, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 460 221W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (I 2,6)222 R. Caillois, Naissance de Lucifer, apparso in Verve n.1, dicembre 1937 (trad. it. R. Caillois, La nascita di Lucifero, Medusa, Milano 2002); Id. Le vent d’hiver, in Nouvelle Revue Française, luglio 1938 (trad. it. R. Caillois, Il vento invernale, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991); Id. Le Mythe et l’homme, Gallimard 1938 (trad. it. R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998)
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![Page 91: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/91.jpg)
una rinuncia a quei pregiudizi romantici, che mantenevano sul piano estetico, e
quindi individuale, di una poetica en état de surprise, la necessità di un agire politico
collettivo rivoluzionario.
Lo stesso elemento dittatoriale rappresentato dall’angelo caduto, Lucifero, è quello
che presuppone “una certa educazione del senso di rivolta, di modo che dallo spirito
di sommossa si passi ad un atteggiamento largamente imperialista”223
Il nichilismo deve passare quindi dalla reazionaria nullificazione del politico ad
un’organizzazione del pessimismo.
L’intelligenza luciferina detesta l’ottimismo socialdemocratico che abbina prassi
politica e morale idealistica; Lucifero accetta la sfida e sceglie “pessimismo su tutta
la linea. Pessimismo assoluto.” Come Satana, egli “è senza dubbio incline
naturalmente al pessimismo e come lui nutrito di nostalgie e di indignazioni, tanto
poco pericolose dal momento che costituiscono già una sorta di soddisfazione, ma sa
con Guglielmo il Taciturno, che non è necessario sperare per intraprendere, né
riuscire per perseverare.”224
Il corrispondente poetico dell’interieùr borghese è quindi da una parte l’intellettuale
che distoglie lo sguardo dall’esistenza sociale, che matura contemporaneamente
l’inquietudine e l’indipendenza, il tormento e l’orgoglio di essere un isolato,
riducendo la sua attività ad una condizione di satanica contemplazione del corpo
sociale; dall’altra il produttore di glorificanti similitudini del progresso umano,
l’intellettuale non espulso dalla società poiché cantore di un illusorio e ottimistico
“come se“. Nell’analisi di Caillois dell’individualismo romantico è centrale la
dissoluzione della sfera sacrale nelle attuali democrazie burocariche. Con la caduta
del sacro si ha una valorizzazione del privato e un’individualizzazione stirneriana dei
valori. La formazione dell’individuo padrone di sé e del proprio lavoro, fondata sui
valori dell’utile e del possesso personale, coincide in Caillois con la dissoluzione dei
vincoli sacrali e la conseguente separazione di quest’ultimi dal mito, che entra al
servizio, come fantasmagoria della merce, degli interessi produttivi individuali. 223 R. Caillois, Il vento invernale, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 46224R. Caillois, La nascita di Lucifero, Medusa, Milano 2002, pag.34
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L’espansione della sfera dell’arricchimento personale configura un’accellerazione
nel processo di atomizzazione della società e di emancipazione dell’economia dalla
politica e dalla sfera religiosa, e prospetta una nozione utilitaristica di libertà come
facoltà di ammassare e gestire personalmente, ricchezze sempre in maggior quantità
(fino al superfluo, nel quale, come vedremo in Bataille, è contenuto nella dimensione
dispendiosa del dono, il ribaltamento dialettico della “passione acquisitiva” in un
etica affettivo-comuniale).225
L’individualista è l’aspetto della borghesia liberale iconoclasta e disperata esaltatrice
del profano come razionalizzazione nichilista del reale: la “profanazione, distuzione
accanita del sacro, unica attività in grado di dare all’anarchico il senso di una libertà
effettiva.”226 Quello che si presenta come un nemico del progresso individuale, la
forza coesiva di sursocialisation del sacro, è propriamente ciò che rende
indissolubile una comunità. L’iconoclastia di Satana è vittima allora dell’Aufklarung,
di una progettualità che rifiuta ogni rappresentazione spuria dell’umano,
sostanzializzando l’idea di Individuum, e producendo, con la sanzione del diritto e
del contrattualismo politico, l’idea di società.
La rivolta individualista si traduce dapprima nella esaltazione del romanticismo, poi
nell’esclusività creatrice borghese che contamina anche l’intellettuale di sinistra
socialdemocratico, e infine, nell’attualità nella mercificazione del messaggio da parte
dell’industria dello spettacolo.
Benjamin nota che il satanismo appartiene agli elementi fondamentali dell’esperienza
surrealistica e cita a questo proposito Rimabaud, “Haine, c’est à vous que mon trésor
a été confié”; Caillois con lo stesso intento sottolinea l’eroicizzazione individualista
contenuta nel satanismo poetico del “forçat intraitable sur qui se referme toujours le
bagne”.227
225 Per una trattazione dell’evoluzione del concetto di individuo all’interno di una teoria delle passioni vedi il lavoro di E. Pulcini, L’individuo senza passioni, Bollati Boringhieri, Torino 2001 226 R. Caillois, Il vento invernale, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 46227 Rimbaud, Una stagione all’inferno, in Id. Opere, Einaudi, Torino 1990, pag. 378; citato da R. Caillois, Le vent d’hiver, in Nouvelle Revue Française, luglio 1938 e in Id. Le Mythe et l’homme, Gallimard 1938
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“L’individuo preso come referenza assoluta e istanza suprema, è questo il punto di partenza e la molla
motrice del satanismo.”228
Se Benjamin sembra trovare nel satanismo delle macchine infernali di Lautréamont,
Rimbaud e Dostoevskij quel culto del male come “prassi (ancorchè romantica) per
disinfettare e isolare la politica da ogni forma di dilettantismo morale”229, che
preannuncia il surrealismo, è però sempre all’interno di un involucro romantico che
la rivolta satanica trova respiro. Non trova infatti adempimento il compito
eminentemente rivoluzionario dell’incontro con le masse proletarie: la soluzione
avanguardistica della forma contemplativa dell’artista borghese nell’ipocrita formula
di “maestro dell’arte proletaria” è di tutt’altra marca dalla rivoluzionaria collocazione
dell’intellettuale “in punti importanti dello immaginativo, sia pure a prezzo della sua
attività artistica.”230
Il problema del ruolo dell’artista nelle trasformazioni della società è investito qui
della gravità più generale del quesito posto da P. Naville:231 “Dove sono i
presupposti della rivoluzione? Nel cambiamento del modo di pensare, o in quello dei
rapporti esterni?”232
Si delinea allora, nella direzione di una risposta materialistica, una prospettiva
dialettica del rapporto tra momento spirituale e momento materiale in un contesto
rivoluzionario. Lo spirituale si necessita solo in relazione ad una consapevolezza del
ruolo dell’autore nella produzione dell’opera d’arte come bene materiale:
“Brecht ha coniato il concetto di cambiamento di funzione. Egli è stato il primo ad affermare, per
l’intellettuale, questa importante esigenza: egli non deve rifornire l’apparato di produzione senza nello
stesso tempo trasformarlo, nella misura del possibile, nel senso del socialismo.” 233
228 R. Caillois, La nascita di Lucifero, Medusa, Milano 2002, pag.34229 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 263230 Ibidem, pag. 267231 P. Naville, La revolution et les intellectuelles, Paris 1929232 Ibidem, pag. 266233 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag.207
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La distinzione brechtiana tra rifornimento e trasformazione implica una dissoluzione
del carattere individuale di Erlebnis dell’opera d’arte.
La tendenza artistica, unita alla consapevolezza di una questione tecnica, corrisponde
alla posizione dell’autore nel processo produttivo ed è la progettualità rivoluzionaria
della produzione estetica. Rifornire la produzione senza trasformarla permette infatti
la possibilità per l’apparato borghese (che oggi definiamo con termini in voga, “la
globalizzazione neocapitalistica”) di assimilare temi rivoluzionari, di omologare le
spinte eterogenee della società, senza mettere in questione la propria esistenza e
l’esistenza del gruppo sociale che la possiede.
Spirito idealistico e morale borghese gravano sulla posizione sociale dello scrittore
francese. L’idea di creatività è la prima delle sette teste dell’idra dell’estetica
scolastica: “cratività, empatia, emancipazione dal tempo, ricreazione, partecipazione
all’esperienza interiore altrui (Einfuhlung), illusione e godimento estetico”234.
L’esempio di Valery è preso da Benjamin come momento di severa riflessione
inquisitoria dell’artista su se stesso e sull’esigenza di rompere, attraverso una presa di
consapevolezza della tecnica dello scrivere, l’ideologia cultuale della creatività
geniale: “L’opera d’arte non è una creazione; è una costruzione in cui l’analisi, il
calcolo, la pianificazione svolgono il ruolo principale”235
Monsieur Teste è allora il primo anello di una catena che porta al superamento
dell’individuo, egli rappresenta il produttore che assume su di sè lo sforzo immane
del metodo, l’ossessivo specializzarsi nella tecnica dello scrivere che dissolve
l’armonica autosufficienza dell’artista geniale. Valery è quindi un produttore e non
un creatore, egli serve la causa della comprensione dei procedimenti poetici e non
relega il momento produttivo nell’inspiegabile; ma l’idea della pianificazione poetica
rimane nel letterato francese prigioniera di una sfera intima e privata; Teste è
ipertrofico nel sottomettere l’intelletto ad un esame che non riesce a trasferire nella
dimensione collettiva della comunità umana: “l’intelligenza resta un’intelligenza
234 W. Benjamin, Storia e scienza della letteratura, in Id. Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, pag. 137235 W. Benjamin, La posizione sociale dello scrittore francese, in Id. Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, pag. 64
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privata, ed è questo il malinconico segreto del signor Teste”236. La necessità di una
complementarietà di tecnica e tendenza non è allora pienamente compresa dal grande
rimuginatore francese, che rimane aggrappato all’identità poetico-intellettuale della
tradizione dell’anarchismo umanistico.
Dal canto suo Caillois, che vede in Valery un maestro dell’ideale poetico
dell’immagination juste, coglierà questa tensione al momento costruttivo dell’opera
d’arte, integrandolo nella sua polemica contro l’illusoria naturalezza della poesia
d’inspiration:
“Souvent j’ai travaillé la nuit entiére sans qu’à l’aube il me resté un seul mot. D’autre fois, en temps
de loisir, de paresse et de distraction, mes plus beaux vers sont nés sans mon aveu. Pourtant, je n’ai
pas maudit le travail et la peine. Je me suis souvenu qu’ilétait pour l’eau, entre la pluie et la source, un
pénible et douteux cheminement. Je ne me suis présenté comme la source, produisant par miracle une
eau pure, mais comme terre et l’argile. Je filtrais comme l’une, je rassemblais come l’autre. Le vers
jaillissaient à la fin. » 237
La riuscita poetica, quella che Benjamin chiama la qualità di un’opera d’arte, è in
Caillois riservata ad un sottile equilibrio di metodo e intuizione; come visto nel
primo capitolo a proposito dello statuto teorico dell’immagination juste, il poetico è
incatenato al determinismo delle leggi naturali che presiedono alla materia, la quale a
sua volta suscita liberamente, attraverso un intuizione disciplinata dal metodo, le
immagini che costituiscono la scoperta estetica.
L’ispirazione individuale è una vana speranza che ha più a che fare con la
divinazione oracolare che con la poesia; la libertà di spirito dell’anarchismo poetico è
vincolata all’unità primordiale del cosmo e alla finitezza dell’elemento fenomenale:
ciò che sta alla base della produzione estetica è la traduzione in immagini della
relazione tra il contenuto attuale o virtuale della coscienza e la rete di connessioni
materiali dell’esistenza, per cui “certains réactions et constellations affectives
primordiales qu’on retrouve quelquefois chez l’homme qu’à l’état de virtualités,
236 Ibidem, pag.64237 R. Caillois, Art poétique, in Id. Approches de la poésie, Gallimard, Paris 1978, pag. 137
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correspondent à des faits explicitement et courament observables dans le reste de la
nature”238.
Il passo oltre è quello di comprendere il momento produttivo, artificiale, e quindi
tecnico dell’opera d’arte:
“En art comme en morale, l’essentiel est de fuir la nature et de substituer à ses lois des principes
empreints d’un rigueur différente. La nature est également l’ennemie de la justice et du style.»239
La critica all’apparente carattere di naturalità con cui si presenta il momento creativo
è alla base della posizione benjaminiana quanto di quella di Caillois: l’opera d’arte,
come il mito, deve essere esposta alla sua segnatura storica e collocata nelle vive
connessioni sociali. L’attore collettivo è il destinatario del discorso di Benjamin
quanto di quello di Caillois: nello stesso momento storico da entrambi viene sentita
l’urgenza di una socializzazione della produzione spirituale; ciò non significa,
soprattutto per la presunta ambiguità di Caillois, schierarsi con la rivoluzione del
pensiero predicata dal fascismo letterario che, ingenuamente per le cause e
pericolosamente per le conseguenze, colloca la tecnica in una dimensione energetica
di spontaneismo naturale240, senza sottoporla ad una riflessione, direbbe Caillois, sur-
socialisant. Proprio in questo concetto che rimanda alla volontà sacralizzante della
poesia, si addensano però tutte le ambiguità fascisteggianti del primo Caillois.
238 R. Caillois, Procés intellectuel de l’art, in Id Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 46-47239 R. Caillois, Les impostures de la poésie, in Id. Approches de la poésie, Gallimard, Paris 1978, pag. 39. Il riferimento all’ambito della morale nel passo di Caillois, sembra rimandare alla critica benjaminiana della concezione giusnaturalistica della giustizia e al suo presupposto biologico, della giustificabilità naturale del diritto (e quindi della violenza che fonda quest’ultimo).“La filosofia popolare darwinistica ha mostrato spesso come sia facile passare da questo dogma della storia naturale al dogma ancora più grossolano della filosofia del diritto per cui quella violenza che è quasi esclusivamente adeguata a fini naturali, sarebbe per ciò stesso anche giuridamente legittima.” W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi, pag. 6240 “Fiat ars – pereat mundus, dice il fascismo, e come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. (…) vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue.” W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag.48
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![Page 97: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/97.jpg)
Abbiamo visto come nei lavori successivi alla seconda guerra mondiale, Caillois
sembra accantonare la prospettiva del sacro come dilagante contagio delle forze
oscure e sinistre dell’uomo, per accogliere riflessioni sulla continuità di
rappresentazione e natura.
Il passaggio da un primo Caillois, fascinato dal lato impuro e sinistro del sacro e
dalla forza contagiosa e coercitiva della narrazione mitica, ad un secondo Caillois
che trasmette nell’interesse per la mitologia, una sobrietà analitica e impolitica, è una
distinzione ingenua ma utile per comprendere la parabola di un pensiero votato ad
uno sguardo integrale e non viziato antropomorficamente, sulla relazione dell’umano
con il reale.
La riflessione sul mito di Caillois subisce una evoluzione che sembra quasi
improntata ad un’ansia redentiva dei saggi giovanili, scritti sotto la suggestione di
una fascinazione delle forze ambigue del sacro.
L’unione di mito e sacro presiede all’esigenza politica di socializzazione delle
violenze affettive: nell’unione delle due sfere la virulenza delle forze sacre si
combina con la narrazione comunitaria in una dilagante epidemia che pianta le radici
nello psicologico a partire dalle energie della collettività.
Si può dire che le analisi sociologiche di Mauss subiscano in Caillois una torsione
politica quando la tensione analitica che le percorre rimane travolta dalla
fascinazione verso il proprio oggetto di ricerca.
Il livello di affabulazione del mito possiede la forza dissimetrica del sacro sinistro, in
quanto “immaginazione aggressiva” rende “à la raison humanine sa fonction de
turbulence et d’agréssivité.” 241
Così Caillois non smette mai di avere a che fare con il mito anche se la decisione
politica viene sostituita da un’ansia conoscitiva che si esplicita nel rigore della
ricerca scientifica. Il mito perde la sua necessaria complementarietà con il sacro che
diviene un’istanza incontrollabile del pensiero umano se considerata nel suo lato
sinistro e impuro. Una presa d’atto dell’irrecuperabilità del sacro nella modernità
sulla quale calerà negli ultimi lavori, soprattutto le ricerche di mineralogia, una aura
241 G. Bachelard, Lautréamont, Paris, Corti 1939, pp. 144-148
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di personale misticismo, in cui ogni volontà di potenza viene abbandonata per un
delirio d’immobilità, abbandono estasiato alla perfezione formale ed eterna delle
pietrificate architetture dell’universo.
La co-originarietà di mito e physis si sostituisce alla volontà sacralizzante del tessuto
sociale, in una teopatia negativa, un manismo poetico da sempre presente nel suo
pensiero in opposizione al momento dell’aggressività sciamanica, teurgica.
La stessa spontaneità e non artificiosità del mito fonda la distinzione tra mitologia e
letteratura con cui Caillois, nel 1938, apre il saggio Paris, mythe moderne,
affermando che “è proprio quando il mito perde la sua forza di morale impositiva che
diventa letteratura e oggetto di godimento estetico”. Ogni approccio costruttivista al
mito, razionalista o irrazionalista che sia, reca con se un’impostura242, la stessa in cui
cade, secondo Kojève243, l’apprendista stregone di Bataille: la non comprensione che
tra fede e sapere, tertium non datur.
Il problema del mito si sposta allora sull’impossibilità, se non nell’ambito di una
letteratura borghese d’intrattenimento, di una sua resurrezione volontaria; il mito del
mito o il mito della scienza del mito è quello che affligge certo pseudo-esoterismo
scientifico oltrereno, e illusoriamente certa borghesia intellettuale francese.
Il mito moderno, in cui Caillois indugia nei suoi primi lavori è allora ciò che deve
necessariamente urgere al risveglio; non un sonno della ragione, che come sappiamo
genera mostri, ma un meraviglioso quotidiano che non teme la conoscenza.
La comprensione del momento inconscio è troppo costitutiva del nostro essere
moderni per poter continuare ad ingannarsi con illusioni artificiose. Lo scopo stesso
della sociologia sacra del Collège è per Caillois proprio quello di preservare da ogni
242 Vicino a Caillois sono le opinioni di due osservatori esterni del collegio di sociologia “Il mito è un’impostura quando è costruito, sia dalla ragione, sia dall’antiragione. (…) Si ha la presunzione d’inventare miti ma i miti non si inventano.” R. Queneau, Le mythe et l’imposture, in Volontés febbraio 1939; “Quello che rimprovero ai miti moderni non è tanto il fatto di essere dei miti, quanto quello di essere dei miti fabbricati e inautentici, i prodotti di un mitologismo pragmatista cinicamente cosciente, che fa uso di un meccanismo impersonale di propaganda (…) il mito cambia radicalmente di carattere appena si sa che è un mito.” Landsberg, Introduction à une critique du mythe, in Esprit gennaio 1938; entrambi i passi citati in D. Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991243 R. Caillois, Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, p.58
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![Page 99: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/99.jpg)
volontà falsamente illuministica e a prescindere da ogni fascinazione ingenua gli
strati profondi della vita collettiva moderna che sfuggono all’intelligenza.
L’oblio che le scienze umane positiviste hanno fatto calare sul sogno, sull’inconscio
e su tutte le forme del meraviglioso e dell’eccesso, è per Caillois il vero responsabile
di “questa situazione che non ha soltanto l’effetto di rimandare l’uomo ai vani poteri
dei suoi sogni, ma anche di alterare la comprensione dell’intero complesso dei
fenomeni sociali e di viziare all’origine le regole d’azione che trovano in essa
riferimento e garanzia”.244
L’inganno mitologico della mentalità primitiva deve necessariamente passare al
vaglio della volontà di coscienza della razionalità secolarizzata; la notte mitica
originaria è stata rischiarata dall’Aufklärug, e dal progressismo di tante ottimistiche
filosofie della storia245. L’umanità non può continuare a sognare senza urgere al
risveglio, ma allo stesso tempo non può destarsi con l’improvviso bagliore di un sole
accecante: gli oscuri incubi che hanno agitato il suo sonno, come le fantasmagorie
oniriche che lo hanno esaltato, permangono con l’arrivo della luce nascosti nelle
pieghe della memoria e nella sensualità di un contatto, modificando la natura del
ambiente, creando un mondo risvegliato che contiene in sé elementi di quello
sognato. Una Dialectik der Aufklärug non necessariamente catastrofica come quella
adorniana è quella che accomuna Benjamin e Caillois nella ricerca di un illuminismo
che si fa carico del suo lato oscuro.246
Il risveglio va quindi in una direzione di una teoria della conoscenza che non violenta
i sogni collettivi, funzionalizzando anche gli impulsi del profondo o cancellandoli
nella luccicante apparenza, ma, come per la distinzione benjaminiana di verità e
244D. Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 14245 Ernst Jünger, che lavorava in prossimità alle tensioni speculative del Collége e a certe suggestioni, come quella entomologica, di Caillois, e che sul tema della guerra fornirà a Benjamin un impulso riflessivo attraverso una recensione dei suoi scritti, è consapevole di questa inappropriabilità della notte sotto l’occhio di luce della coscienza: “Che le potenze mitiche oggi non possano tornare a dominare, ad agire in modo coinvincente sul piano personale e materiale, ciò dipende da una condizione della luce. Dopo l’alba sorta con Erodoto, non esiste più una notte nel senso antico. Alla luce della coscienza storica le antiche immagini divengono più timide, più sensibili. Esse possono affacciarsi nella sola misura in cui la coscienza s’inebolisce, come nel sogno, nel sonno e nella estasi creatrice, ovvero presso a sconvolgimenti.” E. Jünger, Al muro del tempo, Roma 1965, pag. 49246 F. Jesi, Il mito, ISEDI, Milano 1973
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![Page 100: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/100.jpg)
conoscenza, sul modello della seduzione amorosa, verso un approssimarsi
aintenzionale all’oggetto.
L’auspicata trasformazione della letteratura in mito è quindi distante anni luce dalla,
solo apparentemente prossima, apologia del mito della cultura fascista.
Parlare di mito invece che di letteratura è per il primo Caillois, un motivo dettato
dall’urgenza della decisione sulla categoria borghese del godimento estetico, e dal
carattere collettivo e comunitario del mito (nel senso di una forza unificante
dell’esperienza della narrazione). La forza decisionale della narrazione epica è per
Caillois il necessario passo oltre l’individualizzazione dei rapporti sociali.
Se è vero che in lui è pressochè assente la preoccupazione marxista di definire la
funzione dell’opera d’arte all’interno dei rapporti letterari di produzione di un’epoca,
è nella reciprocità di sociale e mentale (individuale), nella corrispondenza diagonale
nei contesti mitici, di inconscio individuale, fisiologia e rappresentazioni
dell’inconscio collettivo, che emerge, al pari del discorso benjaminiano, una tensione
al superamento della sfera individuale, sin dall’essenziali condizioni sociali
dell’esistenza.
Il momento tecnico non subisce quindi in Caillois una semplice esaltazione, ma la
sua comprensione, anche se a margine del discorso e non nominata direttamente, si
mostra funzionale al progetto epidemico di socializzazione dell’esperienza
letteraria247,”concepire cioè la possibilità di piegare l’estetica verso la drammaturgia,
verso l’azione sull’uomo mediante rappresentazioni suscitate dalla morfologia stessa
della società in cui vive e inerenti alla sua evoluzione e alle sue difficoltà
particolari.”248
247 In questa attenzione alla tiratura di un’opera letteraria, e di conseguenza alla letteratura popolare sul capolavoro estetico, si mostra l’urgenza di una proliferazione collettiva della forza della scrittura: “…invece dei più rari successi della produzione, se ne può prendere in considerazione il complesso senza badare allo stile, alla forza o alla bellezza, assegnando per esempio alla sola tiratura un valore sintomatico eminente. Ciò significa sicuramente dare deliberatamente la precedenza alla quantità e privilegiare in modo schiacciante la letteratura popolare a scapito di quella dei letterati. (…) infine la questione è così riproposta a scala del collettivo e senza che si possa ancora, a rigore, pensare al mito, anche la letteratura diventa una forza, paragonabile alla stampa…” R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 90248 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998 pag. 101
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![Page 101: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/101.jpg)
Il medesimo riferimento alla dissoluzione del mito della soggettività nella
socializzazione delle “violenze affettive fondamentali”, è presente negli appunti
benjaminiani al surrealismo, in cui viene attribuita all’ebbrezza, il compito
eminentemente dialettico del superamento dell’individuo razionale nell’azione
collettiva:
“Superamento dell’individuo razionale nell’ebbrezza, ma anche dell’individuo motorio e affettivo
nell’azione collettiva: ecco cosa contraddistingue l’intera situazione”249
I surrealisti pongono per primi l’esigenza rivoluzionaria di un superamento del
privato nell’azione collettiva, che come il vetro, metta a nudo l’intimità dell’abitante.
L’interiorità dell’individuo, unico scenario dell’intellettuale borghese, e l’intimità
della sua esistenza, si stringono tanto aderenti all’uomo da costituirne una seconda
pelle che lo incatena all’identità, alla singolarità senza l’Altro, all’immanenza a se
stesso250. “L’interiorità è la prigione storica della creatura umana protostorica”251,
dice Benjamin, citando in un appunto Adorno; spogliare l’individuo è il compito, in
architettura, del vetro, e nell’arte dell’indistinzione tra autore e pubblico.
La creatura è l’uomo messo a nudo, il mostrare nel non-ancora dell’umano,
l’ideologia umanistica. Il vetro, nemico del segreto e del possesso, dispositivo
disvelante l’ideologia dell’intérieur, cancella le tracce che l’abitante lascia e che
costituiscono il concetto di Kultur.
Scheerbat con il suo vetro e il Bauhaus con il suo acciaio hanno costruito degli spazi
in cui è difficile lasciare tracce e “rifuggono dall’immagine umana tradizionale,
solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, per rivolgersi al
nudo uomo del nostro tempo.”252
La nuova barbarie positiva è quella dei caratteri distruttivi che, di fronte alla Kultur e
all’uomo sazi e stanchi di esperienze, devono fare piazza pulita per riedificare
249 W.Benjamin, Carte per il surrealismo, in Id. Ombre corte, pag.270250 Sull’immanenza del soggetto assoluto vedi J.L.Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, 1995251 W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (I 3,6); citazione da T. W. Adorno, Kierkegaard, Milano 1983, pag. 159252 W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Id. Il carattere distruttivo, Mimesis, Milano 1995 pag. 19
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![Page 102: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/102.jpg)
secondo nuove leggi. Il romanzo-asteroide Lesabéndio è per Benjamin il riferimento
chiave che mette in moto una riflessione generale sulla categoria del Politico a partire
da una nuova ridefinizione della relazione di tecnica e natura.
Scheerbart non parla di uomini, ma crea nuove creature che non assomigliano
all’uomo, “poiché la somiglianza con l’uomo, questo principio fondamentale
dell’umanesimo, essa la rifiuta.”253
La creatura di Scheerbart è il modello di una tecnica non improntata al dominio della
natura ma alla simultaneità e alla collaborazione; la creatura è tecnica stessa,
possiede qualità che la rendono strumento, si allunga e si accorcia come un mantice,
possiede occhi estensibili come la lente focale di un microscopio. Parlano una lingua
completamente nuova in cui l’arbitrario elemento costruttivo si contrappone
all’organico, e, in opposizione ai neologismi specialistici delle odierne scienze, non
compie “nessun rinnovamento tecnico del linguaggio, ma la sua mobilitazione al
servizio della lotta o del lavoro; in ogni caso al servizio della trasformazione della
realtà, non della sua descrizione.”254 L’artificio è costitutivo dell’essere creaturale,
l’elemento tecnico non è esaltato come una novità della modernità, un surplus di
strumenti che arricchiscono l’umanità, bensì come poiéin, nell’originarietà del
linguaggio, nucleo della relazione uomo-natura.
Contro ogni semplicistica teoria comunicativa (in prossimità alla teoria dell’equivoco
dialogico surrealista: “Il carattere distruttivo si lascia fraintendere così non
incoraggia il pettegolezzo”255), il linguaggio si riappropria del suo statuto teologico di
nominazione, facendosi così di nuovo veicolo di trasformazioni del reale.
Nominando il mondo, la creatura non lo fa apparire, non lo crea, ma ne segue il
ritmo, non lo domina, ma in una dialettica di definizione reciproca, viene a
modificarlo.
Lo stesso Scheerbart, poeta del creaturale, è l’architetto della Glasarchitekthur,
l’esaltazione del vetro a elemento utopico che dissolve la frattura di interno-esterno,
riportando la continuità di mentale e sociale, di individuale e collettivo. 253 Ibidem, pag. 18254 Ibidem, pag 18255W.Benjamin, Il carattere distruttivo, Mimesis, Milano 1995, pag. 11
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![Page 103: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/103.jpg)
Il vetro è allora un elemento dell’ebbrezza che porta al superamento della sfera
individuale, nella “congiunzione con la dimensione fisiologico-animale dell’umano
da un lato e quella col politico dall’altro.”256
Come nella definizione di fatto sociale totale257 di Marcel Mauss, maestro di Caillois
a Parigi nei primi anni trenta, la relazione tra fisiologico, mentale (individuale) e
sociale è di necessaria complementarietà.
“In sociologia, corpo, anima, società, tutto insomma si mescola. (…) Si tratta di ciò che io propongo
di chiamare fenomeni di totalità, ai quali partecipa non solo il gruppo, ma attraverso il gruppo, tutte le
personalità, tutti gli individui nella loro integrità morale, sociale, mentale e, soprattutto corporale e
materiale.”258
In questo, la critica di Caillois alla non incidenza di fatti sociali e fatti individuali
mostra analogie rispetto a quella benjaminiana della separazione di interno ed
esterno259.
Vedremo come nella nozione benjaminiana di Bildraum si possa trovare una
prossimità d’analisi se non d’intenti con la definizione di una continuità di biologico
e immaginativo in Caillois.
Se il politico si innerva direttamente nel fisiologico, nelle passioni o meglio negli
impulsi, della creatura, utilizzare per la rivoluzione le forze nascoste del dispendio
quotidiano significa allora cogliere quegli sbalzi emotivi collettivi contenuti negli
256W.Benjamin, Carte per il surrealismo, in Id., Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 271257 “I fatti da noi studiati sono tutti, ci sia consentita l’espressione, fatti sociali totali; essi cioè mettono in moto, in certi casi la totalità della società e delle sue istituzioni (potlàc, clan che si affrontano, tribù che si scambiano visite) e in altri casi, solo un grandissimo numero di istituzioni…(…) Tutti i fenomeni accennati sono, a un tempo, giuridici, economici, religiosi e anche estetici, morfologici ecc.” Marcel Mauss, Saggio sul dono, in Id, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pag. 286 258 Marcel Mauss, Rapporti tra la psicologia e la sociologia, in Id, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pag. 317-18259 “Il momento privato e quello pubblico non sono adiacenti tra loro come la camera da letto e l’ambulatorio nell’appartamento di un medico, ma sono intessuti l’uno nell’altro. Dove il fatto più privato ha luogo pubblicamente, anche le cose pubbliche sono decise privatamente, e comportano una responsabilità fisica, politica che è qualcosa di completamente diverso da quella metaforica e morale. (…) Ogni costruzione adialettica dell’individualità (e quella borghese è tale) deve cadere. W. Benjamin, Lenin, Lettere a Maksim Gor’kij, in Id. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, pag. 486
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eventi come la moda, o, seguendo in questo Caillois, nelle surdeterminations mitiche
del tessuto della metropoli:
“La socializzazione delle reazioni individuali immediate appare come la prima fase dello sviluppo di
un’esistenza sociale in seno ad un’altra. Guardare a queste forze individuali ed effimere, rappresentate
dalla società come menzognere, come l’espressione di una realtà fondamentale, dona all’individuo una
coscienza di gruppo estremamente forte. Si tratta di recuperare alla socializzazione gli impulsi, le
virtualità istintive contenute nei miti: presentare le violenze affettive fondamentali presenti nei miti e
riprenderne possesso.”260
Oltre ogni mitologismo fascisteggiante come nostalgico ritorno dell’arcaico, Caillois
si auspica attraverso la trasformazione dell’estetica in mitologia, la socializzazione
delle forze affettive, degli impulsi che, nella condizione di società in quanto somma
di individui singoli, e non comunitaria, si risolvono nell’egoismo e nella nozione
soggettivistica e conflittuale di identità.
Allo stesso modo Benjamin parla di “portare all’esplosione le forze violente dello
stato d’animo” e si domanda, parlando di Rimbaud: Che cosa risulta
dall’intensificazione più radicale possibile di ciò che si chiama stato d’animo?
A questo punto il discorso si ricollega all’organizzazione del pessimismo che è la
chiave di volta del passaggio dal satanismo della rivolta del poeta-creatore al
luciferino agente collettivo rivoluzionario:
“Organizzare il pessimismo non siginifica altro che allontanare dalla politica la metafora morale, e
scoprire nello spazio dell’azione politica lo spazio radicalmente, assolutamente immaginativo. Ma
questo spazio non può più essere misurato contemplativamente”261
Aprire questo spazio significa innervare la prassi politica nel collettivo, coniugare la
strato affettivo e corporeo con l’azione rivoluzionaria. Oltrepassare l’individuo
significa comporre in un’unica totalità collettiva le energie disperse nelle azioni
quotidiane, costituire l’individuale a partire dal collettivo e non viceversa.
260 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998 pag. 19-20261 W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 267
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Nelle rappresentazioeni collettive a carattere mitico si ha così una manifestazione
privilegiata della vita immaginativa, poichè “è proprio nel mito che si coglie meglio,
dal vivo, la collusione dei postulati più segreti, più virulenti dello psichismo
individuale con le pressioni più imperative e più perturbanti dell’esistenza sociale”262
Così Baudelaire si pone a modello di una nuova concezione del bello come
“traduzione leggendaria della vita esteriore”, l’estetica si rovescia in etica, la
contemplazione in decisione. La sfera contemplativa è oramai insufficiente e tradisce
una volontà di autoinganno nell’oblio del carattere necessariamente apparente della
bellezza; urge agli albori della modernità “une beauté particulière, inhérente à des
passions nouvelles”263, una bellezza che come il manto misterioso della notte,
avvolge la città nel meraviglioso quotidiano, che diviene un serbatoio di soggetti
poetici:
L’élection de la vie urbaine à la qualité de mythe signifie innédiatament pour le plus lucides un parti-
pris aigu de modernité. On sait quelle place tient chez Baudelaire ce dernier concept...Il s’agit là, pour
lui, dit-il, de la question « principale et essentielle », celle de savoir si son temps possède une « beauté
particulière, inhérente à des passions nouvelles ». On connait sa réponse : c’est la conclusion meme de
son écrit théorique le plus cosidérable, au moins par son étendue: « Le merveilleux nous enveloppe et
nous abreuve comme l’atmosphère: mais nous ne le voyons pas... Car les héros de l’Iliade ne vont
qu’à notre cheville, o Vautrin, o Rastignac, o Birotteau (...) et vous , o Honoré de Balzac, vous le plus
héroique, le plus singulier, le plus romantique et le plus poétique parmi tous ls personnages que vous
avez tirés de votre sein » 264
Muovere ad una nuova e virulenta decisione è lo scopo di questo eroismo dell’uomo
moderno, una bellezza passionale, convulsa come quella che serpeggia inaspettata
nelle strade visitate dallo spirito bretoniano di Nadja, fantasma capace di riscattare il
tempo infernale della modernità. È evidente allora come nel primo Caillois l’unica
modalità d’esistenza di una comunità che voglia sfuggire alla definzione
funzionalista di società come somma di individui, è allora la presenza del sacro,
262 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 7263 C. Baudelaire, L’eroismo della vita moderna, in Id, Opere, Mondadori 1996, pag. 1098264 R. Caillois, Paris, mythe moderne, in N.R.F. XXV, 284, 1937, pag. 690-91; citato in W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (S 7,1)
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condizione pre-sociale della relazione con l’Altro, in cui le identità in gioco si
formano, come nello stadio dello specchio lacaniano, nel riconoscimento del simile.
Presenza che mostra tutte le ambiguità di un pensiero analitico che oscilla tra la
fascinazione per il proprio oggetto e il rigore dell’analisi razionale; ambiguità del
sacro che è anche ambiguità del politico e che per questo richiede un necessario
chiarimento di fronte alle contingenze storiche che l’accompagnano.
Se la sfera del sacro è infatti irrimediabilmente perduta per una prassi politica del
moderno, condurre il discorso nella dimensione affettiva dell’impolitico significa
allora farsi carico di un pensiero pericolosamente prossimo all’immediatezza della
violenza mitica, immagine arcaica nascosta nelle pieghe del sogno.
Il motto nicciano “sognare sapendo di sognare” sarà allorà la strategia con cui
avvicinare il tema impolitico della comunità, con l’intenzione di dare una nuova
chance a questa categoria in cui “solo una contemplazione che venga da lontano, e
che sappia sottrarsi in un primo tempo alla vista della totalità, solo una disciplina in
un certo senso ascetica dello spirito può raggiungere quella fortezza che gli
permetterà di contemplare tale panorama restando padrone di sé.”265
IV. L’orizzonte insuperabile della comunità
265 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, in Id. Scritti II 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, pag. 96
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Sono un bene le saghe, giacché esse sonomemorie dell’Eccelso, sacre, ma di uno
vi è bisogno, che le interpretiFriedrich Hölderlin
Dissolta la nozione categoriale di individuo va da sé che la stessa struttura sociale,
che in una prospettiva contrattualistica si forma come somma degli elementi che la
compongono, si dissolva nell’idea di comunità. Abbandonando la famosa distinzione
sociologica elaborata da Tönnies tra comunità e società, la questione dell’esistenza
comuniale si dispiega nelle sedute del Collège, su due piani di analisi, quello
ontologico e quello politico, che nella loro reciprocità mostrano quanto le intenzioni
e i termini speculativi della sociologia sacra fossero distanti dalle elaborazioni della
sociologia classica descrittiva. L’urgenza del contingente da una parte, e il carattere
esperienziale della metodologia dall’altra, sono le cause che hanno inficiato agli
occhi dell’oggettivismo delle scienze sociali, le analisi emerse dal Collège negli anni
subito precedenti la seconda guerra mondiale.
La possibilità di pensare la comunità al di là della metafisica del soggetto costituisce
oggi invece il compito principale che parte della filosofia politica contemporanea ha
intrapreso proprio a partire dalle speculazioni di Bataille compiute in seno al
Collegio. A partire dal saggio di J.L.Nancy, La communauté désouvrée266 del 1983, a
cui ha prontamente fornito una risposta un vecchio amico di Bataille, Maurice
Blanchot con La communauté inavouable267, fino ai lavori di Esposito sulla polarità
speculare di Communitas e Immunitas268 apparsi negli ultimi anni, il pensiero sulla
comunità si è ritagliato una fetta importante del dibattito filosofico politico
contemporaneo.
Tutto sembra aver origine dalle riflessioni “non conformiste” che negli anni trenta
gravitavano attorno alla necessità di “un luogo comune per tutti coloro che si
allontanavano da ogni comunità”269. Questo apparente paradosso è soltanto apparente
se si guarda alla infinita costellazione di gruppi, agglutinazioni direbbe Klossowki,
266 J.L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995267 M. Blanchot, La comunità incoffessabile, Se, Milano 2002268 R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 1998; Id. Immunitas, Einaudi, Torino 2002269 M. La comunità incoffessabile, Se, Milano 2002, pag. 10
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che nel periodo tra le due guerre movimentò la vita culturale parigina, con l’unico
scopo di mostrarsi dissidenti e autonomi verso ogni forma di associazione
istituzionale o partito politico270. L’esempio dei dissidi interni al movimento
surrealista sorti all’indomani della decisione di Breton di posizionarsi decisamente
nell’area del partito comunista francese, e l’indefessa volontà fondatrice di Bataille,
quasi ossessiva, che nell’arco di dieci anni dette vita a quattro riviste e ad altrettanti
movimenti più o meno occulti, indica quanto fosse viva nell’aria l’urgenza di
alternative comunitarie alla contingenza del dualismo conflittuale di comunismo e
parlamentarismo democratico (ma vedremo che gli avvenimenti storici francesi, con
la formazione del Front populaire in particolare, smentiranno ben presto questa
precoce e apparente conflittualità).
Al pari di Esposito mi pare utile collocare questa esigenza comuniale in opposizione
alla nozione di comunità che dal razionalismo weberiano fino all’etiche
comunicative contemporanee sembra porre l’accento sul termine di “proprietà” e
“appropriazione”.
Appropriazione di una qualità che compete indistintamente a tutti gli individui è il
significato di comunità per coloro che intendono definirla mantenendosi in una
specularità essenziale al principio di individuazione. L’individuo si pone allora come
forma prima con cui comporre la comunità secondo i diritti universali dell’uomo, o
molto più classicamente, secondo le appropriazioni territoriali o le proprietà razziali
e linguistiche. Se la comunità si definisce a partire dall’individuo allora mostra il
fianco a pericolose attribuzioni di senso a posteriori ma ideologicamente prime.
Sangue, razza, territorio, tante false origini fondanti che nascono proprio come
risposta reazionaria a quelle contingenze storiche in cui la sfera dell’individuo
privato sembra subire una deligittimazione dal paradigma comuniale.
La comunità negativa, l’inoperosa, l’incoffessabile, ha il suo peggior nemico nella
positività delle contingenti ideologie comunitarie.
270 Per un’analisi storica di alcuni di questi movimenti e relative riviste come Ordre Nouveau, su cui scrisse anche Caillois, Esprit, Combat, vedi J.-L. Loubet de Bayle, I non conformisti degli anni trenta, Roma 1972
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Abbiamo visto come Nancy parli per l’esperienza batagliana della comunità, di un
paradossale allontanamento da ogni comunità. Si può dire che nel rifuggere dalla
pericolosa e sostanzialmente sovrapponibile dicotomia origine/télos, Bataille abbia
pensato alla comunità come ad uno sfondo impolitico, privandola così di ogni
valenza di progettualità.
Uno sfondo che è anche proscenio nel momento in cui l’attore, che si è sempre
pensato protagonista, si dissolve mimeticamente nel sovrapporsi della scenografia.
Ciò di cui parliamo è ovviamente quello che Nancy definisce la dissoluzione della
“logica del soggetto-assoluto della metafisica”271, la caduta di quell’umanesimo
fondato sull’assoluta immanenza dell’uomo a se stesso, sull’uomo come progetto e
opera dell’umanità: un umanesimo272 che permane nelle ideologie illuministiche dei
diritti universali dell’uomo e nel comunismo di Lenin e Trockij.
Una posizione che quasi in negativo si definisce tanto come allontanamento
dall’uguaglianza comunista, quanto dagli ideali liberali della democrazia.
Lontano dall’individuo come dalla società, nella prossimità all’Altro.
Tutte le esperienze comunitarie che Bataille fonderà avranno questa proprietà
autoriflettente e autodissolvente: la comunità è l’inappropriabile, l’impensabile a cui
tutto l’essere di Bataille tende con ansia spasmodica.
Esposito situa l’inappropriabilità del legame comunitario nella sua natura di necessità
inesplicabile, facendo risalire il termine alla parola latina munus che “significa si
dono, ma un dono particolare, distinto dal suo carattere obbligatorio, implicito nella
radice *mei- che denota scambio.”273
271J.L.Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio 1992, p.25272
Il presupposto sia di Hegel, sia di Marx, è l’assoluta immanentizzazione dell’uomo e l’assoluta umanizzazione della storia: proprio contro a queste speculari definizioni di compimento della storia Bataille elabora la famosa nozione di “negatività senza impiego”.La lettura batagliana del comunismo si inserisce nella sua critica del “soggetto operante”, ovvero nell’identificazone marxiana di filosofia e politica come opera della filosofia e filosofia dell’opera. Comunismo è essenzialmente produzione, esito dell’opera servile che trasforma il mondo. Il fine del marxismo non è la produzione ma l’uomo, la dimensione dell’uomo compiuto in quanto depurata da tutto ciò che non lo è, in questo l’umanesimo marxista è la completa realizzazione della tecnica.L’esaltazione dell’inoperosità di Bataille vede così nel principio dell’efficacia produttiva del sistema marxiano la caduta della sovranità: “la funzione è necessariamente degradante” poiché il suo risultato è l’equivalenza di uomo e attrezzo. Vedi G. Bataille, La sovranità, il Mulino, Bologna 1990273 R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 1998, pag. XIII
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Questo elemento, che è invece in ombra nell’analisi di Nancy, sembra essere centrale
per comprendere sino in fondo l’esigenza stessa che muove il Collegio di sociologia.
La distinzione tra dono indicante spontaneità e affettività libera e la sfera del dovere
dispiegata nel munus, è tutta contenuta nell’Essai sur le don di Marcel Mauss274, che
si può dire fondante della nozione di comunità in Bataille come di comunità elettiva
in Caillois. Quello che contraddistingue il lavoro di Mauss è infatti l’accento posto
sull’obbligatorietà del dare quanto quella del ricevere, e in un certo modo sulla
superiorità del donatore sul donatario, motivo scatenante la condizione di debito,
vero motore dialettico dell’economia comuniale.
Il potlàc, modello della prestazione totale, prevede infatti una sacralità fondante della
dialettica del munus: ogni vacatio dagli obblighi è considerata un atto contro la
comunità stessa, comunità degli uomini quanto delle cose e degli spiriti che, sotto il
termine maori Hau, le abitano.
“Nei sistemi economici e giuridici che hanno preceduto i nostri, non si constatano mai, per così dire,
semplici scambi di beni, di ricchezze e di prodotti nel corso di un affare concluso da individui.
Inanzitutto non si tratta di individui ma di collettività che si obbligano reciprocamente, effettuano
scambi e contrattano; (…) Inoltre, ciò che essi si scambiano non consiste esclusivamente in beni e
ricchezze, in mobili e in immobili, in cose utili economicamente. Si tratta prima di tutto, di cortesie, di
banchetti, di riti, di prestazioni militari, di donne, di bambini, di danze, di feste, di fiere, di cui la
contrattazione è solo un momentoe in cui la circolazione delle ricchezze è solo uno dei termini di un
contratto molto più generale e molto più durevole.”275
Abbiamo visto in precedenza come nell’analisi del fatto sociale totale, il discorso
sull’economia sia inscindibile da quello religioso e giuridico. Mauss rifiuta la
definizione dell’economico, arbitraria nella sua pretesa di universalità, come sfera
del contrattualismo moderno fondato sull’idea di mercato e di scambio razionale
monetarizzato.
274 Marcel Mauss, Saggio sul dono, in Id, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965275 Ibidem, pp. 160-161
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Il contratto è, nella dimensione opposizionale di moderno e primitivo, subentrato in
un secondo momento, nella burocratizzazione dei rapporti economici trasposti dalla
sfera collettiva ad una relazione tra individui; in una prospettiva filosofica, il
contrattualismo appare invece come l’introduzione del paradigma immunitario, che
preserva cioè dall’obbligo del dono, e quindi dall’esposizione all’altro, dalla
condizione incompiuta del debito.
In questa prospettiva l’Hau è proprio quel principio animistico, prossimo alla
nozione di mana, che fa si che “tutto, cibo,donne, bambini, beni, talismani, terreno,
lavoro, servizi, uffici sacerdotali, e ranghi, sia materia di trasmissione e di
restituzione. Tutto va e viene, come se ci fosse scambio costante di una sostanza
spirituale comprendente cose e uomini.”276
La forza delle cose nel potlàc produce inoltre un effetto sulla stessa natura:
l’economia del potlàc si fonda sulla credenza che lo scambio di doni produca
abbondanza di ricchezze. La natura subisce un’allineamento animistico alla sfera
umana (o viceversa l’uomo all’originaria dimensione teurgica), entra nella relazione
contrattuale, venendone beneficiata e sua volta, beneficiando la collettività umana277
Il regime del dono fonda quindi una comunità nel senso elettivo del termine, una
comunità basata su una condizione di mancanza e di inappropriabilità reciproca,
composizione di debito e onore che solo in un secondo momento si surdetermina in
un sistema simbolico e in una narrazione mitica.
“Nel dono la vita materiale e morale, lo scambio, vi operano sotto una forma disinteressata e
obbligatoria nello stesso tempo. L’obbligazione, di cui si tratta, si esprime, inoltre, in modo mitico,
immaginario o, se si vuole, simbolico e collettivo: essa assume l’aspetto dell’interesse, legato alle cose
276Ibidem, pag. 175; “La terra e il cibo, tutto ciò che viene donato sono, d’altra parte, personificati, sono esseri viventi con cui si dialoga e che prendono parte al contatto. Essi vogliono essere donati. Ibidem, pag. 256 277 “Si tratta, in fondo, proprio di mescolanze. Le anime si confondono con le cose; le cose si confondono con le anime. Le vite si mescolano tra di loro ed ecco come le persone e le cose, confuse insieme, escono ciascuna dalla propria sfera e si confondono: il che non è altro che il contratto e lo scambio.” Ibidem, pag. 184
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oggetto di scambio. Le quali non sono mai completamente svincolate dagli individui che le
scambiano; la comunione e la colleganza che esse stabiliscono sono relativamente indissolubili.”278
Dono, potlàc, fatto sociale totale sono categorie appartenenti alla medesima area
semantica, di derivazione maussiana, centrali per l’esperienza collegiale della
comunità. La forma di quest’ultima è la rappresentazione in re del principio
metodologico della sociologia francese. Il paradigma della complessità che impone la
critica della specialità, nell’impossibilità della segmentazione del corpo sociale, è
trasposto nell’esigenza di un’istituzione (un “Collegio”) che sul fatto totale innesti un
ambizione “totalitaria”279
Ambizione che ha che fare con la totalità dell’essere, con l’essenza non mediata che
si materializza in quell’eccesso che è il potlàc. Il dono viene allora a costituirsi in
un’economia “allargata” in quella parte che sfugge all’utilità, che è sacrificabile
nell’agone della vita comuniale, ciò che, con altri termini e intenzioni, Marx
chiamava surplus produttivo280.
278 Ibidem, pag.206279 Koyré, in un articolo apparso nel 1936 nella Zeitschrift für Sozialforschung (Id.La sociologie française contemporaine), mette in guardia dal pericolo di un’applicazione politicamente totalitaristica della sociologia del fatto totale di origine durkheimiana. Tale osservazione sembra trovare corrispondenza nella forza politica di fascinazione che il collegio di sociologia attribuisce al sacro come fenomeno totale ed è certo che in più occasioni Bataille porge la guancia a tale critica. Ribadire l’esigenza di una sacralizzazione del sociale è andare al di là dell’analisi di una comunità come corpo sociale composto secondo logiche dispendiose e non utilitaristiche; la nozione di “anima collettiva”, propria delle ideologie totalitariste nazionalsocialiste, mal si adatta però alla sociologia sacra del Collegio, se, come dice De Rougemont, per questa si intende “l’assenza di anima personale negli individui trasportati dai movimenti meccanici di una folla”(Denis de Rougemont, Journal d’Allemagne, citato in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 203) Vedremo come il ritorno al primitivo, ad un arcaico originario in chiave nostalgica, non sia al centro delle riflessioni della sociologia francese, bensì è proprio l’analisi della persistenza del sistema primitivo delle prestazioni totali nelle società contemporanee, che conduce Mauss a dirigere la progettualità politica verso queste forme di comunità. La constatazione della permanenza di economie dispendiose prossime al potlàc nei gesti quotidiani porta Mauss, all’interno di una critica alla società capitalistica, a sperare in una canalizzazione di queste energie nei valori pratici della cooperazione solidale e del disinteresse economico. Vedi Marcel Mauss, Saggio sul dono, in Id, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965 pag. 274280 Sarebbe qui interessante stabilire quale relazione sussiste tra la teoria marxiana del plusvalore, quella del dono in Mauss e quella batagliana della dépense: la professione di adesione al comunismo dei due, pur affermandosi in vari momenti, sembra essere sempre sostenuta da un profondo dialogo con i testi di Marx, spesso sotto il segno di una critica.
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![Page 113: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/113.jpg)
Il sovrappiù produttivo è ciò che lega indissolubilmente il suddito e il sovrano, e nel
quale emergono gli atteggiamenti che definiscono la struttura originaria del potere.
Le forme di sovranità tradizionale, le forme politiche che instaurano, con la caduta
dei vincoli sacrali, le relazioni gerarchiche di potere si affermano vistosamente
attraverso la presenza sola e unica del soggetto sovrano in una realtà di subordinati.
In una sovranità moderna e diffusa il sovrano è l’uomo qualunque che si oppone in
generale alle cose, ma in un contesto in cui la massa degli uomini qualunque lavora,
si subordina all’azione operosa e produttiva, e vede nel sovrano, che consuma gran
parte dei prodotti del lavoro, il soggetto di cui essere l’oggetto:
“La parte di questo prodotto che non è necessaria alla sussistenza del soggetto che è,
provvisoriamente, l’uomo che produce, spetta al soggetto che è il sovrano. Il sovrano restituisce al
primato del tempo presente la parte eccedente della produzione, acquisita in quanto altri uomini si
sono piegati al primato del tempo futuro.”281
La distinzione delineata da Caillois tra consumatori e produttori282sovrapposta a
quella hegeliana di signoria e servitù, si inserisce in quest’economia del dono
inaugurata da Mauss. Come l’uomo sovrano batagliano, i consumatori sono coloro a
cui “appartengono tutti i piaceri, quelli della carne come quelli dello spirito, ad
eccezione delle aride gioie dell’indipendenza e del potere, che essi stessi si rendono
estranee e come inconcepibili proprio a causa di quel benessere che li soddisfa ed
esaurisce in loro perfino la fonte stessa delle altre brame.”283
I produttori sono identificati con il proprio bisogno di produzione: funzionali e
operosi sono “privi di quel senso dell’ironia sovrana che permette di guardarsi
vivere nel momento della tragedia;”284essi divengono oggetti per l’uomo sovrano che
sosta all’altezza della morte, ridendo della loro angoscia. L’inoperosità del sovrano è
la commutazione della morte in stimolante, in eccitante, forma di entropia inversa. 281
G. Bataille, La sovranità, Il Mulino, Bologna 1990, p.83282 R. Caillois, Il vento invernale, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 46283 R. Caillois, La gerarchia degli esseri, in Id. La nascita di Lucifero, Medusa, Milano 2002284 R. Caillois, R. Caillois, Il vento invernale, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 51
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![Page 114: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/114.jpg)
Così la critica di ogni funzionalizzazione economica e di ogni razionalizzazione
tecnico-burocratica passa per la nozione di potlàc come economia fondata su una
perdita suntuaria, su una dépense sanguinosa ed illimitata.
Il surplus produttivo è qui condotto nella dimensione dell’onore e dell’agonismo,
sottraendolo alla sfera dell’utilità mercantile.
Abbiamo visto allora come il sistema delle prestazioni totali sia la formulazione
originaria e modellare del programma collegiale di sacralizzazione del corpo sociale.
Al pari del potlàc, un tipo particolare di dono, il regalo amoroso, si pone a
fondamento del “vero mondo degli amanti”, modello di comunità inverata, che agli
occhi di Bataille “costituisce una delle rare possibilità dell’esistenza attuale e il suo
concretarsi appare, più dell’arte, della politica o della scienza, vicino alla totalità
dell’esistenza.”
“Il regalo amoroso viene cercato, scelto e comperato in uno stato di grande eccitazione; un’eccitazione
tale che essa sembra appartenere alla sfera del godimento. Io valuto attivamente se quell’oggetto sarà
ben accolto, se non deluderà, o se, al contrario sembrando troppo impegnativo, metterà in risalto il
delirio, l’illusione, di cui sono preda. Il regalo d’amore è solenne, trascinato dall’insaziabile
metonimia che disciplina la vita immaginaria, io mi traspongo tutto intero in esso. Attraverso
quest’oggetto, io ti do il mio Tutto (…) Il regalo è contatto, sensualità; tu stai per toccare ciò che io ho
toccato: una terza pelle ci unisce.”285
Nel regalo amoroso l’oggetto donato è abitato animisticamente dal donatario, esso
coagula la tensione affettiva e l’impulso dell’interattrazione sessuale che assieme al
riso (e alle lacrime) è la forma specifica dell’interattrazione umana.
La comunità degli amanti, che abbiamo visto essere un sistema di prestazioni totali
fondato su un’economia del dono e del potlàc, risolve nel silenzio della notte fatale
dove i due amanti si uniscono, la creazione di un mondo in cui gli esseri si ritrovano.
285 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2001 pag. 65
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L’amplesso dei corpi nell’appagamento sessuale286 non è, in una sorta di mistica
fusionale, la dissoluzione dell’individualità nel momento comuniale superiore; la
comunità degli amanti non si distingue per la perdita della singolarità
nell’indistinzione di una comunità superiore, al contrario essa nasce proprio
dall’esposizione della finitezza di ciascuno rispetto all’altro: per questo il suicidio
degli amanti è proiettato in una dimensione, letteraria e romantica, che abolisce il
limite e il contatto. La morte dell’altro è vissuta nel cerchio silenzioso della
solitudine come fondante la comunità: da quel dialogo muto che sancisce una
separazione esco fuori di me, all’Aperto della comunità. Se è nel bacio e
nell’orgasmo che gli amanti si compongono nella coppia in opposizione alla società,
è solo con la coscienza della necessità dell’allontanamento che si espongono alla
comunità.
286 “L’appagamento sessuale sgrava l’uomo del suo mistero, che non sta nella sessualità ma che nell’appagamento di questa, e forse soltanto in esso, non viene sciolto, ma reciso. È paragonabile al vincolo che unisce l’uomo alla vita. La donna lo recide, all’uomo si libera la via della morte perché la sua vita ha perduto il mistero. Con ciò egli perviene alla rinascita, e come l’amata lo affranca dall’incantesimo della madre, così, più letteralmente, la donna lo stacca dalla madre terra, è la levatrice cui tocca recidere quel cordone ombelicale che il mistero della natura ha intrecciato”. W. Benjamin, Strada a senso unico, in Id. Scritti 1923-27, Einaudi, Torino 2002, pag. 457 Passo commentato nell’ottica batagliana dell’inoperosità comuniale da Agamben: “Nell’appagamento, gli amanti, che hanno perduto il loro mistero, contemplano una natura umana resa perfettamente inoperosa – l’inoperosità e il desoeuvrement dell’umano e dell’animale come figura suprema e insalvabile della vita”. G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2002
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Bataille è spesso tentato di riferirsi agli amanti come alla Comunità, rischiando così
di cadere nel romanticismo letterario, ma il carattere inappropriabile della comunità
lo riporta sempre a quel limite, al dialogo muto sull’amante morente, che mostra
nell’impossibilità dell’essere-in-comune in una comunicazione discosiva, la necessità
di una regione di silenzio tra uomo e donna, esposizione liminare della singolarità. Il
muto dialogo, carico di orrore tragico, umanizza la relazione mediandola, soffocando
nel vuoto di parole quel pesante termine medio che partecipa della natura della
morte287. Tale silenzio non è che il nucleo sacro sinistro che presiede ad ogni
comunità umana: una realtà repulsiva e ripugnante dotata di un’incomparabile forza
ossessiva che, come i tabù o oggetti impuri, incatena gli uomini rovesciandosi
nell’elemento coagulante ed attrattivo del divieto.
Recuperando la lezione del Freud di Totem e tabù, Bataille fonda l’organizzazione
sociale nella “memoranda azione criminosa”, nel massimo dispendio di energia che è
rappresentato dalla morte.288Il silenzio tragico, rimozione esercitata sull’origine
criminale dell’insieme sociale, costituisce quindi “il nucleo centrale di un
agglomerato, il luogo in cui il sacro sinistro è trasformato in sacro destro, l’oggetto di
repulsione in oggetto di attrazione, e la depressione in eccitazione”.289 Di fronte
all’inesprimibilità del nucleo comuniale, la paradossalità del discorso batagliano si
riafferma e si necessita; nella torsione operata da Bataille sul termine
“comunicazione”290 l’essere in comune si definisce come l’essere isolato, come ciò
che, al di là dell‘essere-rappresentante, è inanzitutto essere-fuori-di-sé. Con le parole
di Bataille, “la comunicazione è qualcosa che non viene affatto ad aggiungersi alla
287“ Pare che la vita non sia profondamente umana se non in quanto su di essa grava un silenzio carico di un qualche orrore tragico”. G. Bataille, Attrazione e repulsione I, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 138288 “La massima perdita di energia è la morte, che costituisce a un tempo il termine ultimo del dispendio possibile e un freno al dispendio sociale nel suo insieme. Ma, senza libera perdita, senza dispendio di energia non vi è esistenza collettiva. Non vi è neanche esistenza individuale possibile. Di conseguenza l’uomo non può vivere senza infrangere le barriere da lui stesso elevate contro il suo bisogno di dispendio, barriere che non hanno un aspetto meno spaventoso della morte.” Ibidem, pag. 152289 Ibidem, pag. 150290 “Una sorta di comunicazione strana, intensa, sembra stabilirsi fra gli uomini ogniqualvolta la violenza della morte li approssima.”G. Bataille, La gioia dinanzia alla morte, in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 420
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realtà umana, bensì la costituisce”,291e avviene proprio a partire dal quel principio
d’insufficienza, creaturale, attribuito all’uomo sovrano in opposizione all’uomo
assolutamente immanente. “Alla base d’ogni essere, esiste un principio
d’insufficienza” che, lontano dall’essere riconducibile ad una metafisica del bisogno,
è ciò che rende la coscienza di sé esposta alla propria finitezza, alla morte.
La morte è l’aspetto che il dato naturale assume nella sua totalità, in quanto non
assimilabile.
“Se vede il suo simile morire, un vivente non può più sussistere che fuori di sé. (…) Ciascuno di noi è
allora scacciato dall’angustia della sua persona e si perde quanto può nella comunità dei suoi simili. È
per questo che la vita comune deve tenersi all’altezza della morte.”292
La pretesa totalitaria della sociologia sacra trova allora nella considerazione della
morte come orizzonte inappropriabile dell’essere in comune la propria misura
ontologica, e nell’esperienza della lacerazione, del distacco, della singolarità293, la
metodologia dissolvente le categorie di soggetto e oggetto così ambigue per il
discorso delle scienze umane.
L’impasse che Caillois avverte nello studio dell’oggetto sociale che, sull’esempio di
certe indeterminazioni della microfisica, vede l’osservatore essere un “fattore del
gioco complesso di cui tenta di ipotizzare le regole”294, è assunta qui da Bataille
come metodo di ricerca e modello della sua “esperienza interiore”.
L’essere singolare, il “Se stesso non è il soggetto che si isola dal mondo, ma un
luogo di comunicazione, di fusione del soggetto e dell’oggetto”295: l’esperienza
interiore non è presupposta da alcun ripiegamento intimistico, è sospensione del
291 G. Bataille, L’esperienza interiore, Bari, Dedalo 1978, pag. 21292 G. Bataille, VII, 245-246. Citato in J.L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995, pag. 44293 “L’essere singolare, che non è l’individuo, è l’essere finito.”J.L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995, pag. 64294 R. Caillois, Istinti e società, Guanda, Milano 1983, pag. 8295 G. Bataille, L’esperienza interiore, Bari, Dedalo 1978, pag. 37
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momento conoscitivo classico nell’estasi296, che proprio nel necessario fallimento
pratico della comunità, nella sua assenza, trova la sua essenza.
L’esperienza interiore è quindi le pas au delà batagliano, oltre l’antitesi
soggettivismo-oggettivismo, nella precisazione del comuniale;
“La soggettività non è mai oggetto della conoscenza discorsiva, ma si comunica da soggetto a
soggetto grazie al contatto sensibile dell’emozione: comunica quindi nel riso, nelle lacrime, nel
tumulto della festa…”297
La soggettività (l’uomo sovrano) è intesa allora come ciò che si espone
oggettivamente in manifestazioni esteriori riconoscibili (talvolta grossolane e
grottesche) ma che fonda il suo essere nella comunicazione tra soggetti, nell’essere in
comune dell’emotività soggettiva degli uomini, che riconoscono il soggetto come
sovrano e divengono così per lui, oggetti.
Il sovrano è colui che vive all’altezza della morte, che sconfigge l’angoscia della
finitezza nella “pratica della gioia davanti alla morte”. Egli è esposto alla propria
finitezza, come l’eteroclito Odradeck kafkiano al di là dell’utilità si mostra
nell’incompiutezza.
L’incompiuto o l’incompimento è una figura obliqua della sovranità.
Non a caso, sottolineando in questo la prossimità alla teologia negativa con cui
Benjamin si avvicina a Kafka, proprio allo scrittore praghese sono destinate le ultime
parole del testo batagliano dedicato alla sovranità:
“L’uomo dell’arte sovrana è all’altezza della catastrofe smisurata in cui la minaccia incombe sulla
nostra vita. Il fatto è che vive sempre un po’ come se fosse l’ultimo uomo.(…) Finora ho parlato di
Nietzsche, parlerò ora di Kafka. Non intendo perdere di vista l’essenziale. L’essenziale è sempre lo
stesso: la sovranità non è niente.” 298
296 “L’estasi è essa stessa comunicazione, negazione dell’essere isolato”. M. Blanchot, La comunità incoffessabile, Se, Milano 2002 , pag.52297 G. Bataille, La sovranità, il Mulino, Bologna 1990, pag. 84298 Ibidem, pag. 267
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Le creature di Kafka si mostrano nuovamente come paradigma dell’incompiutezza
inoperosa, e come l’inumano krausiano, ribaltano la loro inadeguatezza funzionale in
negativo, nel definire la sovranità come “potenza passiva”, assenza d’opera
(désoeuvrée): al di là di ogni progettualità politica che si ricompone sempre nelle
vesti del potere nella depurazione dal sacro, non più decapitazione dell’altro ma
acefalità, esecuzione capitale di se stessa299.
Si riafferma in Bataille che è proprio la rottura dell’identità soggettiva la condizione
della comunità. In questa prospettiva ogni possibilità di esperire la comunità in senso
compiutamente politico è negata, poiché “la comunità non toglie la finitezza che
espone. Essa stessa, insomma, non è che questa esposizione.”300
Nel sottrarsi del soggetto sovrano alla sottomissione all’evidenza del senso301, alla
sublimazione dell’angoscia di morte nella progettualità futura, nel lavoro produttivo,
si apre all’estasi, alla comunicazione non strumentale ma immediata dello
scatenamento delle passioni.
Il limite dell’umano e del soggettivo rispetto al negativo da mediare, è spostato
all’interno di ciò che veniva definito soggetto, rendendo la comunità l’imprendibile
orizzonte che oscilla nella dialettica interno-esterno, dissolvendola.
Nell’esclusione di qualsiasi paradigma intersoggettivo questa interiorizzazione
dell’alterità, della differenza, riconduce la comunità ad un’esperienza interiore.
Estasi, contagio, scatenamento delle passioni, comunicazione, tutti termini con cui
Bataille ha chiamato, cercando di esprimere l’inesprimibile, il fenomeno del sacro,
chiave d’accesso alla nozione di Comunità302.
299 “La privazione della testa non escludeva dunque soltanto il primato di ciò che la testa simbolizzava, il capo, la ragione raziocinante, il calcolo, la misura e il potere, ivi compreso il potere del simbolico, ma l’esclusione stessa intesa come un atto deliberato e sovrano, che avrebbe restaurato il primato sotto la forma del suo decadimento.” M. Blanchot, La comunità incoffessabile, Se, Milano 2002, pag. 48300 J.L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995, pag. 63301 Sul concetto di “negatività astratta”, con cui Hegel concilia ammortizzando, nel movimento dell’Aufhebung, la soglia negativa del dispendio e della sacrificio del senso, nel quale Bataille vede al contrario il fondo ineliminabile dell’esperienza interiore, vedi J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale, in Id, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2002, pag. 325 302
Comunità e sacro sono indissolubilemte legati: nonostante le differenze che li separano, Bataille e Caillois vedranno nella comunità l’unica possibile forma di riattivazione del sacro nell’epoca della sua tendenziale scomparsa
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Al di là di ogni volontà definiendi, il sacro sarà allora l’impossible che però è, il non-
funzionale, l’inoperoso incoffessabile. Bataille, lasciando da parte ogni intento
descrittivo-antropologico, si muove ad una caratterizzazione esistenziale del sacro:
sacro è ciò che che mette in gioco l’esistenza iscrivendola dentro la necessità di una
morte in comune303.
Questa definizione batagliana del sacro è la spia di un dissidio con gli altri fondatori
del Collège, in particolare con Caillois; se in precedenza abbiamo detto che la
comunità corrispondeva per entrambi all’unica forma possibile di riattualizzazione
del sacro nelle società moderne, su quest’affermazione pesano profondi distinguo,
tanto radicali da aver contribuito al fallimento dell’esperienza del Collège de
sociologie. Inoltre Bataille ricorda in più punti quanto tutta la sua opera fosse in
debito verso la definizione di Caillois della dialettica sacro di rispetto-sacro di
trasgressione delineata in L’homme et le sacrè, ma sembra modificarne ben presto la
portata, sulla scorta di una nuova consapevolezza acquisita, dall’Experience intérieur
in poi, dell’impossibilità di appropriarsi discorsivamente del luogo del sacro.
Nell’ottica politica fin qui condotta sarà la nozione di potere, nella discussa
congiunzione con la categoria del sacro, a mettere il risalto le distanze critiche che
opponevano Bataille agli altri collegiali (tra cui Caillois) e che condurranno ben
presto alla conclusione dell’esperienza del Collège.
Le occasionali, ma significativamente frequenti, circostanze in cui Caillois ha preso
parola in contumacia, costringendo Bataille ad un funambolico esercizio di
ventriloquia, rendono problematica l’operazione di scindere l’integralità dei due
pensieri all’interno di questa particolare “osmosi intellettuale”.
Nel caso della conferenza del 19 febbraio 1938, incentrata sull’analisi della categoria
di potere, si gioca un nodo concettuale fondamentale delle attività del collegio: la
definizione di potere delinea infatti il margine che separa l’esperienza batagliana di
comunità da quella di Caillois.
303Cfr. G.Bataille, Le sacré,in Cahiers d’art, n1-4, 1939,pag. 46-50
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Nell’impossibilità della tragedia come dissoluzione di ogni relazione di dominio e
coercizione, per Bataille il potere è non-coscienza-di-sé, non-interiorizzazione della
morte, che viene quindi a costituirsi come una “alterazione e una alienazione della
libera attività sacra”304; ad un altro livello di consapevolezza politica (insufficiente
nell’assenza di ogni conatus verso una politica al di là del potere) in Caillois il potere
è un nudo fatto, “sorta di dato immediato della coscienza, riguardo al quale l’essere
reagisce in modo elementare, per attrazione o repulsione.”305
“L’analisi dei fenomeni sociali dimostra che il potere appartiene necessariamente al dominio del
sacro. Attingendo la sua autorità all’essenza stessa del fatto sociale, e manifestando il suo aspetto
imperativo senza intermediari o perdita di energia, il potere dell’uno sugli altri istituisce tra gli esseri
umani una relazione irriducibile alle pure forme del contratto. Così il potere si dimostra impreganato
di sacro, dimostra di essere esso stesso la fonte del sacro…il mondo del potere è il mondo stesso della
tragedia.”306
Il potere, qui identificato con la tragedia, appare allora come la realizzazione di una
volontà imperativa fondata sull’obbedienza all’onnipotenza della parola carica di
autorità magica (il mana delle società primitive). Nel suo ordine ponteficale il potere
come fatto sacro, fonda la legalità e impone il diritto.
All’interno della dialettica del sacrificio, il sovrano di Caillois, identificato con la
figura del carnefice, esercita il potere consapevole che il “non abusarne quando è il
caso equivale quasi a distruggerlo”; la tragedia non è quindi quella della creatura ma
è quella del re che non può regnare senza colpa, l’uso implacabile che del potere ne
fece Saint-Just rappresenta il momento tragico in cui la legge si rivela caduca di
fronte alla coazione da cui nasce l’ordine.
Lo stato di eccezione è allora il grave fardello che il potere è condannato a portare, la
colpa tragica della violenza che fonda il diritto.
304 D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 166305 R. Caillois, L’uomo e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pag.80306 Polemica di Caillois contro Léon Blum, Nouvelle Revue Française, ottobre 1937 citato in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 155
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L’imposizione del diritto è la colpa, ma una colpa necessaria perché un ordine venga
fondato; i rapporti di potere sono inscritti nelle differenze tra gli individui, in ciò che
li distingue uno dall’altro.307 Il potere, e la violenza con cui questo si afferma, è
principio stesso della differenza specifica degli esseri.
È qui in gioco una nozione di potere che si esalta in positivo, ponendosi come l’unica
possibilità di ordine politico.
La critica alla democrazia parlamentare e al diritto si svolge nella dimensione
orizzontale di uno scontro tra forme diverse di fondazionalismo politico.
Se la comunità elettiva di Caillois ha come riferimento teorico diretto il sindacalismo
rivoluzionario di Sorel, è in virtù di una prossimità alla nozione di mito politico e di
sublime sociologico. Il rovesciamento dell’estetica in etica, intento che abbiamo
visto accomunarlo a Benjamin e al modello poetico di Baudelaire, significa però per
Caillois coagulare attorno alla nozione forte di comunità, le violenze affettive
fondamentali degli individui e “fare considerare la concezione del mondo che esse
esprimono non più come un caos disordinato di rivendicazioni discordanti, ma come
la sola capace di fondare un ordine che tenga conto dei postulati irriducibili
dell’essere umano.”308
La riattivazione del sublime sociologico, teorizzata da Sorel con il mito politico dello
sciopero generale309, si configura come un ortodossia militante della prassi politica:
307 Riecheggia nei discorsi di Caillois quasi un biologismo politico in cui la distinzione in produttori e
consumatori è sanzione di una regola naturale: il politico si definisce allora a partire dalla necessarietà del potere e non viceversa.308R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 108309 Il mito è per Sorel un potenziale energetico contenuto in una rappresentazione concreta del mondo che non si dispone però nell’ottica di un’utopia, di una dislocazione infinita del luogo politico, ma nell’attingere forza coercitiva all’azione dalla spontanea produzione di immagini immediatamente attivanti una richiesta sociale e un movimento rivoluzionario: “I miti rivoluzionari attuali sono quasi puri; essi permettono di comprendere l’attività, i sentimenti e le idee delle masse popolari che si preparano a entrare in una lotta decisiva; non sono descrizioni di cose ma espressioni di volontà (…) Un mito non può essere confutato perché in fondo è identico alle convinzioni di un gruppo, è l’espressione di queste convinzioni in linguaggio di movimento e inoltre non si può decomporre in parti che possano essere applicate sul piano delle descrizioni storiche.” G. Sorel, Riflessioni sulla violenza, Rizzoli, Milano 1997, pag. 61Lo sciopero generale è per Sorel il modello stesso di mito politico: “il mito nel quale è racchiuso l’intero socialismo, cioè un’organizzazione di immagini in grado di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra che il socialismo combatte contro la società moderna.” Ibidem, pag. 159
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![Page 123: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/123.jpg)
nel momento della decisione la conoscenza assume un valore coercitivo, coinvolge
l’affettività collettiva e la conduce all’azione politica; la politicizzazione dell’analisi
corrisponde allo “stile di inquisizione” del sublime soreliano, che consiste nel
valutare e apprezzare ogni teoria scientifica sulla natura della società, come ogni
movimento politico-religioso, per la quantità di sublime che è capace di introdurre
nella storia. Ma quello che di Sorel sfugge a Caillois è proprio ciò su cui al contrario
Benjamin costruisce la sua critica al parlamentarismo democratico, e in generale alla
nozione di diritto: l’inoperosità della violenza politica, rispetto alla progettualità
fondativa di ogni forma di potere.
Con l’intenzione di risolvere l’ambiguità di significato che nella tradizione filosofica
coinvolge i termini di violenza e forza, Sorel cerca di mettere ordine nella
terminologia attribuendo alla nozione di forza il significato di fondazione e
conservazione di potere, e alla nozione di violenza il senso libertario di un atto di
rivolta:
“Diremo quindi che la forza ha lo scopo di imporre l’organizzazione di un certo ordine sociale nel
quale governa una minoranza, mentre la violenza tende a distruggere tale ordine”310
La rivalutazione della violenza come soppressione dello stato e di ogni forma di
potere avviene rispetto alla categoria di forza.
Sorel parla allora di forza borghese e di violenza proletaria e, ricorrendo ad un
frammento di Pascal in cui si denuncia la scadimento della giustizia a diritto, critica
l’ideologica sovrapposizione di giustizia e forza nel diritto naturale.
In questa “violenza che nega la forza organizzata e pretende di sopprimere lo stato
che ne forma il nucleo centrale”311, si avverte forse l’origine dell’oscura nozione di
göttliche Gewalt, opposta a quella di mythische Gewalt, con cui Benjamin chiude il
saggio del 1921, Zur Kritik der Gewalt.312
310 Ibidem, pag. 213311 Ibidem, pag. 49312 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995
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![Page 124: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/124.jpg)
“Ma riprovevole è ogni violenza mitica, che pone il diritto, e che si può chiamare dominante.
Riprovevole è pure la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrata, che la serve. La
violenza divina (göttliche Gewalt), che è insegna e sigillo, mai strumento di sacra esecuzione, è la
violenza che governa.”313
Nell’ottica in cui ogni “creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di
immediata manifestazione di violenza”314, la legge positiva non può condurre ad una
vera uguaglianza ma, nella migliore delle ipotesi, a poteri eualmente grandi.
A fronte di una violenza rivoluzionaria che fonda il diritto ve ne è una conservatrice
che si oppone ad una dissoluzione dello status quo di potere; il circolo magico delle
forme mitiche del diritto che viene a crearsi, è quello di una prassi politica che, come
la cospirazione elettiva di Caillois, permane nella nuda compagine del potere,
nell’ordine mitico della colpa.
Sulla consapevole iterabilità delle forme di violenza si fonda l’antiparlamentarismo
di Benjamin, il quale vede nell’ideologia e nella prassi democratica, il pericolo più
grande, l’oblio della violenza originaria ad ogni diritto315. (citare la Pulcini)
La violenza divina è allora ciò che rompe il circolo vizioso del diritto, la freccia in
direzione dell’intensità messianica.
Se la “Giustizia è il principio di ogni finalità divina, il potere è il principio di ogni
diritto mitico,”316 la categoria metaetica di Giustizia è allora la cifra impolitica che
approssima la storia al compimento messianico.317
Il tacere dell’eroe tragico condotto a morte è l’immagine con cui si rappresenta in
maniera più pura la frantumazione del vincolo mitico della colpa.
313 Ibidem, pag. 30314 Ibidem, pag. 24315 “«Se vien meno la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade». Il primo esempio scelto è quello dei parlamenti di allora. Se offrono uno spettacolo deplorevole è perché quelle istituzioni rappresentative dimenticano la violenza rivoluzionaria da cui sono nate. Hanno smarrito il senso della violenza fondatrice del diritto che è rappresentata in esse. I parlamenti vivono nell’oblio della violenza dalla quale sono nati”. J. Derrida, Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pag. 119-120316W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 24317 Sulla Giustizia come “Bene esente da possesso in permanente tensione critica con lo stato del mondo”e come “adempimento per la natura schematica del diritto”, vedi F. Desideri, Il messia di Benjamin, inedito
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![Page 125: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/125.jpg)
Con il sacrificio dell’eroe, nella regione di silenzio che è propria del tragico, si
rovescia l’antico diritto degli dèi olimpi e si aprono i nuovi contenuti della vita del
popolo318:
“La profonda tensione eschilea verso la giustizia anima la profezia antiolimpica di tutta la poesia
tragica. «Non è con il diritto, ma nella tragedia, che il capo del genio si è sollevato per la prima volta
dalla nebbia della colpa, poiché nella tragedia il destino demonico è infranto.»”.319
Nel tacere dell’eroe tragico risuona il rimuginare incapace di decisione del sovrano
del dramma barocco. Nel silenzio del sacrificio della tragedia risuona il lamento
umiliato della vittima della dignità gerarchica illimitata: il riscatto nella morte
accomuna la vittima sacrificale e l’ebbrezza bestiale del sovrano, nella miseria della
sua originaria condizione umana.
Barocco, più che tragico, sembra essere in Bataille, il sovrano martire incarnato nella
vittima del sacrificio, nel destino di decapitazione del boia stesso.
L’essenza bifronte del tiranno-martire barocco dialoga qui con il delitto che precipita
il sovrano nella miserabile condizione acefala di un non-ancora-umano.
L’incapacità, l’inappropriatezza decisionale, fa del sovrano la scintilla scaturiente il
movimento d’insieme della comunità.
A differenza di Caillois, non è l’ordine che interessa a Bataille, non la stabilità data
dall’assunzione dell’eterogeneo, ma il sacro di trasgressione, vero nucleo
dell’alterazione nel crimine fondatore320; il potere è la forza desacralizzante, delirio 318 “L’eroe tragico possiede solo un linguaggio che gli si addice completamente: appunto il tacere. Così è fin dall’inizio. Il tragico ha elaborato la forma artistica del dramma proprio per poter rappresentare il silenzio”W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, in Id, Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2002, pag. 147 Qui Benjamin, citando il Rosenzweig di Der Stern der Erlösung, sembra essere prossimo al silenzio tragico della comunità di Bataille; il riferimento che poco prima Benjamin aveva fatto alla morte che “diventa la salvezza: la morte come crisi” nel sacrificio dell’eroe tragico, convince maggiormente sulla possibilità di una vicinanza su questi temi. 319 Ibidem, pag. 149320 Così Bataille descrive la centralità fondante del crimine: “Al centro dell’agitazione umana c’è il crimine, che genera il sacro sinistro e intoccabile; questo sacro impuro genera a sua volta una terribile forza, parimenti sacra. Ma destra e gloriosa: tuttavia questa forza personalizzata è ancora sottomessa alla minaccia del crimine. Infatti il rinnovamento del crimine è necessario all’intenso movimento che si produce in seno agli insiemi umani. È il crimine che costituisce essenzialmente l’atto tragico, e va da sé che esso è in grado di trascinare, prima o poi, il criminale stesso, il violento alla morte.” D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 167
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d’immobilità che ciecamente cerca di eliminare il crimine dalla terra, ciò che lavora
ad una sua alienazione in virtù dell’autorità conservatrice dell’alterazione originaria.
Il potere è quindi una formazione esterna che si aggiunge estranea al nucleo di
attrazione e repulsione che costituisce l’animazione sociale:
“Tale formazione è capace di deviare ogni energia, ogni dinamismo interno a proprio vantaggio ed è
condannata a dedicarsi all’esterno a tutte quelle operazioni poliziesche, amministrative, normative che
ne possano assicurare la stabilità: a non potersi sviluppare, o addirittura a non poter vivere, in effetti,
che a condizione di esercitare un dominio materiale sull’insieme.”321
Il carattere repressivo sta nella natura stessa della formazione del potere, la quale si è
sempre prodotta a detrimento del movimento d’insieme che animava la comunità.
Se quindi in Caillois il potere è incarnato dal movimento che fonda il diritto322 e dalla
volontà di dominio che mantiene intatto l’ordine così creatosi, in Bataille il
riferimento all’atto tragico del crimine sembra proporre la dissoluzione di ogni
nozione di potere e quindi di ogni cristallizzazione della dialettica del sacro.
Tutto si mantiene nella comunità all’altezza della morte e il suo destino è inscritto
nella memoria del crimine fondante.
Si può proporre allora una distinzione tra comunità tragiche passive, nel senso di una
condizione inappropriabile e sostanzialmente impolitica dell’essere-in-comune, e le
comunità elettive, virulente e inverate, sul modello della Compagnia di Gesù o della
setta degli assassini.
Da una parte Bataille per cui non si tratta di pensare la comunità come un mezzo per
ottenere un qualsiasi risultato esterno bensì come l’esperienza impossibile di una
esposizione della singolarità all’Altro, di “una sorta di messianismo che nulla
annuncia se non la propria autonomia e la propria inoperosità.”323Dall’altra il
Vecchio della Montagna, il cospiratore Caillois, che nel contagio del “sacro attivo,
321 Ibidem, pag. 163322 “è chiaro che per Blum è la legalità che fonda il potere. Bisogna temere fortemente che, al contrario, sia il potere che fonda la legalità” R. Caillois, La nascita di Lucifero, Medusa, Milano 2002, pag. 95323 M. Blanchot, La comunità incoffessabile, SE, Milano 2002, pag. 70
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indiscusso, imperioso e divorante”324, identifica una volontà di potenza, l’epidemia
agglutinante della decisione.
La concezione della comunità elitaria e organicistica di Caillois spinge la questione
comuniale verso una prammatica rivoluzionaria, chiusa in una fascinazione letteraria
e romantica ancora molto pronunciata, tanto da identificare nel partito comunista
francese, l’attuazione del modello cospirativo delle sette segrete.
In questa identificazione parrebbe di rintracciare in Caillois un’infantile e pericolosa
incapacità di gestire politicamente la propria infatuazione per il segreto e il
cospirativo; ma per capire meglio in qual modo il partito comunista potesse essere
proiettato da Caillois in questa dimensione pertubante del politico, occorre far
riferimento alla famosa lettera di Mauss ad Halévy, (citata dallo stesso Caillois in
una nota sulle società segrete scritta per il Collége ma letta da Bataille nella seduta
del 19 marzo 1938)325 dove a fianco della nozione soreliana di “minoranze operanti”,
Mauss insiste sul fatto fondamentale del segreto e del complotto per la formazione
del partito comunista: “La minoranza operante era una realtà laggiù (in Russia); era
un complotto perpetuo (…) Ma la formazione del partito comunista è ancora sempre
quella di una setta segreta, e il suo organismo essenziale, la GPU, l’organismo di una
organizzazione segreta”.326 Come ci ricorda più avanti Hollier in una nota, “lo stesso
partito comunista francese qualificava settario il suo statuto, e così pure la sua
politica nei primi anni trenta. I suoi effettivi erano ancora molto esigui, la sua tattica
portata verso il complotto, e la sua immagine pubblica tributaria del romanticismo
della cospirazione”.327
All’inizio degli anni trenta, il partito comunista, sottoposto alla strategia politica
della III internazionale del congresso di Mosca del 1928, perseguiva infatti una
politica settaria fondata sulle parole d’ordine di “classe contro classe” e “difesa della
patria socialista”, che alienarono il partito dall’arco parlamentare del regime
repubblicano. La teoria di un complotto permanente proclamato contro la sicurezza
324 R. Caillois, L’uomo e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pag. 5325 D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 188326 Ibidem,pag.452327 Ibidem, pag. 453
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dello stato rimase la linea generale del partito, sino all’ingresso, nel 1934, nel Front
populaire. Indipendente dall’impostazione del Komintern, vi era poi l’ultra-sinistra,
composta oltre che dai trozkisti, ininfluenti perlopiù al di fuori di Parigi, dagli
anarchici e dal gruppo surrealista (esclusi ovviamente i “traditori” entrati nelle file
del partito comunista, come Aragon, Naville ed Eluard).
Considerate le condizioni si mostra quindi del tutto plausibile l’appello al PFC che
Caillois appone a conclusione dell’articolo La hiérarchie des êtres:
“Si può benissimo concedere al comunismo di essere questa forza dell’avvenire. Esso porta in sé
speranze sufficienti per rivendicare anche la nozione di ordine. Basterebbe che all’interno delle sue
forze una minoranza decisa ne adottasse e ne sostenesse l’ideale. Non ci sarebbe bisogno di
pubblicità: c’è tra il segreto e la nozione di ordine una singolare e naturale connessione.”328.
La comunità elettiva nasce quindi in opposizione alla società, dapprima dinamica poi
con una formazione stabile e stabilizzante, nello scopo di rovesciarla o di vivere
sotterraneamente in una dimensione ombra e guidarla.
La società segreta esiste infatti solo in funzione del controllo e dell’amministrazione
e la sua morale rifiuta ogni funzione e interesse personale:
“Facendo appello alla vocazione degli individui, incoraggiandone le più nobili ambizioni, spingendoli
ad un dispendio estremo e rovinoso delle loro energie, si vuole che questa alleanza associ operai
impazienti in un’impresa patetica che richieda loro uno sforzo totale.”329
L’ossessione della congiura, del complotto sembra invadere in questi anni il pensiero
politico del giovane Caillois forse con la stessa intensità con cui congiuntamente
Bataille manifesta i primi segni di quello pseudo-misticismo criticato sulle pagine di
Temps modernes da un polemico Sartre. Per entrambi è comunque chiaro come la
disciplina sociologica avesse perso la mera intenzionalità scientifica per prendere la
china della fondazione di un nuovo (dis)ordine sociale.
328 R. Caillois, La gerarchia degli esseri, in Id. La nascita di Lucifero, Medusa, Milano 2002, pag.74329 R. Caillois, Istinti e società, Guanda, Milano 1983, pag. 58
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Se l’ambizione totalitaria della sociologia sacra di Bataille trovava ragione e
dinamismo contemporaneamente sul piano misterico della setta di Acéphale e su
quello speculativo del Collége330, Caillois ambiva a condensare nelle tensioni di
quest’ultimo, tanto l’analisi dei fenomeni sacri nelle società moderne, con la relativa
affermazione della necessarietà di un potere spirituale, quanto la costituzione di un
“Ordre sociologique” dal quale far scaturire la congiura, la cospirazione inverante
tale necessità.
Si può dire che Caillois si tenesse più a distanza di Bataille da quei pericolosi germi
di romanticismo ancora presenti nel progetto della sociologia sacra, (ed è forse a
questa maggiore consapevolezza che si deve il suo rifiuto dell’illusione
misticheggiante dell’apprendista stregone), ma a differenza di Bataille, il quale
politicamente professava una’ambiguità più rigorosa e metodologicamente riflessa,
Caillois aveva questa indomabile e pericolosa fascinazione verso gli elementi di
cospirazione e di segretezza delle comunità elettive, di cui contemporaneamente si
facevano testimoni in Germania le formazioni paramilitari naziste.
Ad avvalorare la tesi che l’attenzione a questi modelli fosse più che una semplice
fascinazione momentanea c’è la testimonianza indelebile del vocabolario
fasciticamente ideologizzato331, usato da Caillois nelle primavere hitleriane; non
mancano riferimenti diretti allo spirito delle sette segrete nazionalsocialiste332, dai
quali traspare un certo sognante trasporto emotivo. Ma detto questo, la posizione di
Caillois è riassumibile in quell’ambiguità involontaria e quindi certamente
pericolosa, che riflette l’impasse di un pensiero moderno (nel senso antropologico
dell’opposizione alla mentalità primitiva) che voglia pensare in positivo la comunità.
In alcuni momenti Caillois, lasciandosi andare al lato saturnino del suo pensiero,
sembra capire le ragioni dell’inoperosità della comunità batagliana e tenta, seguendo
Hollier, una definizione per ipertelia dell’Ordine comuniale, il quale “è al di sopra di
qualsiasi fine specifico, non serve assolutamente a niente, non si lascia utilizzare e
330 Brevi cenni storici sulla vita della setta di Acéphale e del Collegio331 Per una critica che pone l’accento sulle responsabilità politiche della teoria del mito del Collége vedi C. Ginzburg, Miti, Emblemi, Spie, Einaudi 1986 332 R. Caillois, Lo spirito delle sette, in Id. Istinti e società, Guanda, Milano 1983
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imperversa per se stesso. È fine dei fini e regna, più che per elezione, tradizione o
rivoluzione, per definizione. Il suo regno non costituisce un fine esterno, ma la sua
essenza, il suo attributo essenziale.”333
Questa “feroce religione di se stessi” non sembra però cogliere la profondità della
riflessione batagliana e si stempera ben presto nella definizione di un ordine
gerarchico degli esseri, rigorosamente regolato da un’incomprensibile legge
dell’interesse naturale (se non destinale) dell’individuo:
“L’individuo sembra determinato dal suo stesso essere a obbedire o comandare, non in virtù di una
libera scelata della sua volontà, ma dalla conseguenza di quella necessità che orienta ciascuno, senza
che ne sia cosciente, verso l’oggetto dei suoi gusti essenziali (…) Ciascuno persegue il piacere che gli
conviene: l’uno cerca di soddisfare i sensi, l’altro il gusto della dominazione. È arbitrario porre questo
al di sopra di quello: si lasci a ognuno la sua parte. (…) Tale è il fondamento unico della nozione di
ordine: il principio della differenza specifica degli esseri e, pertanto, della loro gerarchia.”334
L’opinione secondo la quale la necessarietà del potere e di chi lo esercita si inscriva
direttamente negli uomini e in particolare nella natura destinale di alcuni, è spia del
pericoloso oblio dell’originaria sovranità del singolo in seno alla comunità, e della
prospettiva salvifica che, proprio nella dissoluzione di questa ideologica spontaneità
della coercizione, incoffessabilmente risiede.
V. Vous travaillez pour le fascisme
Torniamo all’infanzia, torniamo al profondo dei nostri desideri più segreti, sogni e storie…ognuno reciti se stesso, davanti a tutti il proprio Hitler. Nessun uomo è stato così amato e così odiato.
333 D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag.180334 Nascita, pp. 70-72
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Mai tante persone si sono immedesimate in lui, siamo in gioco tutti, ne va della nostra felicità promessa. È l’Hitler che è in noi, nel nostro immaginario, un prodotto della fantasia che possiamo
evocare. Il mondo come parco dei divertimenti…Concediamo a lui e a noi una chance.Hans Jürgen Syberberg
Walter Benjamin arriva a Parigi all’inizio del 1935, eccettuati alcuni brevi periodi in
cui farà visita alla ex moglie nel suo albergo a San Remo e a Brecht nel suo rifugio
danese, vi rimarrà fino alla presa nazista di Parigi nel giugno del 1940, momento da
cui prenderà inizio il suo doloroso peregrinare sino al tragico viaggio verso la
frontiera spagnola. In quest’ultimo e lungo soggiorno scrive entrambe le versioni del
saggio sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la prima
pubblicata nel 1936 e tradotta in francese con l’ausilio di Pierre Klossowski, l’altra,
risalente al 1939 e rimasta inedita per cinquant’anni.
L’incontro con Klossowski, come da lui ricordato in una pagina speciale di Le
Monde consacrata a Benjamin, avviene nel 1935 durante una delle riunioni di
Contre-Attaque, “l’effimera fusione del gruppo di André Breton con quello di
Georges Bataille.”335
Sempre Klossowski ci informa dell’assidua partecipazione di Benjamin alle sedute
del Collège, fino al probabile inserimento nel calendario delle conferenze di una sua
relazione su Baudelaire e Parigi, materiali di riflessione che affluivano dal fiume in
piena del Passagen-Werk.
Come testimoniato da Hans Mayer, questa relazione non fu mai tenuta da Benjamin
perché spostata dall’aprile del ’39 all’autunno seguente: data troppo lontana per poter
prevedere l’improvviso stravolgersi degli eventi storici.
Se la Nota sulla fondazione di un Collegio viene redatta, presumibilmente dal solo
Caillois, nel luglio del 1937 e le sedute nel retrobottega della Galeries du Livre in
rue Gay-Lussac sono iniziate nell’ottobre dello stesso anno, si può concludere che
queste frequentazioni collegiali non furono per Benjamin un mero caso, o un
momentaneo divertissement filosofico, bensì un interesse continuativo nel tempo e
compenetrato in profondità con i suoi contemporanei progetti lavorativi.
335 Pierre Klossowski, Entre Marx e Fourier, in Le Monde, 31 maggio 1969, supplemento al n. 5782; cit. in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag.503
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Inoltre l’amicizia e la fiducia che Benjamin riponeva in Bataille è testimoniata dal
lascito dell’intera mole di appunti del Passagen Werk alla Bibliotéque Nationale, con
l’intenzione, sfruttando l’aiuto di questi, di salvarli dal saccheggio nazista.
Nelle lettere del periodo non affiorano comunque se non labili e nascosti riferimenti
alle attività del Collège, una difesa di Caillois contro le accuse rivoltegli da Adorno
in merito alla continuità di biologico e immaginativo teorizzata nel saggio sulla
mantide religiosa336, una dimostrazione di interesse per la teoria della festa contenuta
in L’homme et le sacré337, una recensione, tutt’altro che positiva, allo scritto di
Caillois, L’ariditè, apparsa, sotto lo pseudonimo di J.E. Mabinn, nella Zeitschrift fur
Sozialforschuung nel 1938.338
Klossowski, testimonianza diretta dei rapporti che storicamente hanno legato
Benjamin a Caillois e al gruppo del Collège, lascia intendere che nessuna intesa si
era prospettata all’orizzonte tra due dimensioni così divese di pensiero. L’accento
cade spesso sulla frase di accusa che Benjamin si sarebbe lasciato scappare a
proposito della deriva che il Collège dimostrava di voler prendere indugiando, nel
“crescendo metafisico e politico dell’incomunicabile”, in un “puro e semplice
estetismo prefascisteggiante.”339
“Vous travaillez pour le fascisme”, avrebbe detto Benjamin, rifiutando i fumi
irrazionalistici che si levavano dall’olocausto batagliano e il gelido vento del rigore e
dell’ordine che soffiava dal mito cospirativo delle sette segrete di Caillois.
336 “Come Teddie ha capito, concordo con la sua critica a Caillois, soprattutto per quanto riguarda la limitatezza della funzione politica del suo lavoro. Quel che ancora non so decidere è se davvero esso possa essere caratterizzato come “materialismo volgare”. Quali che possano essere i costi diplomatici di un colloquio “inter pares con lui, propongo comunque di non accantonare il progetto.” (lettera di Benjamin a Theodor e Gretel Adorno del 2 ottobre 1937, citata in F. Desideri, Teologia dell’inferno. W. Benjamin e il feticismo moderno, in S. Mistura (a cura di), Figure del feticismo, Einaudi, Torino 2001, pag. 188337 Lettera del 17 gennaio 1940 a Gretel Adorno338 Zeitschrift fur Sozialforschuung n.3, 1938. Trad. it. in W. Benjamin, Critiche e recensioni, Einaudi Torino, 19 ; Mentre (almeno per quanto concerne la mia conoscenza dell’epistolario dei due filosofi) non ci sono pervenute lettere in cui direttamente Benjamin e Caillois dialogassero, altre occasioni in cui, per penna di Benjamin o di un suo interlocutore, affiori il nome di Caillois sono contenute nell’ultimo volume dell’edizione completa dell’epistolario di Benjamin. W. Benjamin, Briefe, 339D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 504
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Al di là di questo giudizio che si può dire affrettato, l’interesse con cui Benjamin
seguiva i passi di Caillois o la fiducia che sembrava riporre in Bataille, e la
collaborazione in traduzione con Klossowski, conduce a riproporre il problema di
un’affinità e di una concordanza di temi che solo a prima vista sembra impossibile.
La questione politica pone subito i primi problemi di analisi nella responsabilità di un
fraintendimento essenziale.
Parlare di Benjamin come di un comunista, anche se non ortodosso, che inorridisce
di fronte alle pericolose tentazioni fasciste di un gruppo radicale francese, significa
porre la questione all’interno di una semplificazione troppo abituale nelle analisi
odierne, che vede l’azione e la riflessione politica agitarsi stretta in un’alternativa
contingente ma necessaria: tra una sinistra tradizionale, che neppure ai tempi in cui la
dicotonomia topica fu inaugurata esisteva, e una ambigua destra oscillante tra una
reazionaria difesa dello status quo e una aggressiva e violenta militarizzazione della
politica.
L’errore non è solo di natura analitica ma essenzialmente politico: quella che era
un’organizzazione dell’arco parlamentare assolutamente contingente si è trasformata
nell’unica veste bipolare di cui si può coprire la democrazia parlamentare.
Ciò a cui assistiamo oggi in Italia con la proposizione di un sistema elettorale
maggioritario, e nelle democrazie occidentali con il consolidamento di una
sistemazione bipolare del consenso, è la riproposizione di quella semplificazione che,
originatasi all’alba dell’istituzione democratica, si è radicalizzata nel corso della
guerra fredda e si consuma oggi, con la caduta di uno dei poli, nell’identità dei
contrari delle attuali elezioni politiche.
Se la storia è spesso ricondotta a questo schema duale di destra e sinistra, l’errore si
fa ancor più evidente quando anche il pensiero non conformista emerso nella Parigi
degli anni ’30 vuole essere sottoposto a tale semplicistica e falsante opposizione.
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Occore a questo punto delineare la contingente situazione storica in cui l’opposizione
destra-sinistra si mostra nella sua evidente ambiguità, nei caotici anni che
preannunciavano in Francia la disfatta militare e la caduta della terza Repubblica.340
La scena francese aveva vissuto negli anni successivi all’affare Dreyfuss, accettuato
il conflitto sociale fatto esplodere dagli scioperi della Cgt (Conféderation générale
du Travail) avvenuti tra il 1906 e il 1910, un periodo di relativa unità politica
soprattutto dovuta alla necessità di fronteggiare, in un primo momento, la carneficina
della Grande guerra e successivamente gli scompensi sociali ed economici da questa
causati. Il sentimento nazionale e la volontà di ricostruzione della patria francese
aveva resuscitato i fantasmi della pace bianca dell’Union sacrée, una coalizione dove
trovavano posto le conciliate forze parlamentari nel periodo precedente il conflitto.
La crisi finanziaria che dal 1929 aveva condotto gli Stati uniti d’America e le
potenze europee di fronte al baratro della recessione, si abbatte sulla società francese
provocando per prima cosa la frantumazione del progetto del governo di unità
nazionale promosso dai cattolici ma, ancor più gravemente, mostrando le carenze
endemiche di un regime e l’ingovernabilità sociale del paese.
In dodici mesi, tra il 1932 e il 1933, cadono quattro ministeri, tutti su questioni
finanziarie. Una serie di scandali finanziari, iniziata nel 1933 con l’affaire Stavisky,
getta discredito sull’affettiva possibilità per il parlamento di gestire la crisi.
La fronda antiparlamentare trova così nel caos politico energie e motivi per rimettere
sotto accusa le inefficienze del sistema repubblicano.
I conflitti ideologici che dividevano il parlamento sembrano in questo momento della
storia francese abbandonati per una prospettiva politica in cui la linea di separazione
tra destra e sinistra si sposta continuamente, lasciando l’elettorato nell’assenza dei
consueti steccati ideologici che delimitavano la sua scelta di voto. L’intera famiglia
dei fondatori della repubblica, tra cui le figure rappresentative di Raymond Poincaré,
340 Per quanto segue vedi M. Winock, La febbre francese, Laterza, Bari 1998, pp.151-188; J.-L. Loubet de Bayle, I non conformisti degli anni trenta, Roma 1972; H. Dubief, La crise des années 30, Seuil, Paris 1976; Z. Sternhell, Né destra né sinistra, Napoli 1984
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Louis Barthou e Aristide Briand, gli opportunisti e i moderati, vanno ad offrire alla
destra la loro legitimità repubblicana; l’alternanza politica, componente centrale di
un regime repubblicano, viene meno nella costruzione di un blocco cattolico di
centro-destra, che ha come scopi, la risoluzione della crisi economica, l’esclusione
dal governo del partito socialista e la soppressione del pericolo rappresentato dai
comunisti. La sinistra, vera protagonista della politica francese degli anni precedenti
il secondo conflitto mondiale, dalla fondazione nel 1920 del partito comunista
francese (PCF) si era trovata ad essere composta da tre anime: il partito radicale, il
partito socialista e appunto il PCF.
Dal 1924 al 1934 quest’ultimo, rivoluzionario e legato alla strategia mondiale del
Komintern, interrompe qualsiasi rapporto con il resto della sinistra francese, e agisce
sempre da una posizione esterna alla disciplina repubblicana. Il conflitto aperto dal
PCF contro la politica repressiva della socialdemocrazia (con ovvio riferimento alla
PSD tedesca che, nelle giornate berlinesi del gennaio 1919, aveva soffocato nel
sangue le istanze comuniste rivoluzionarie della Spartakusbund) rende necessaria la
creazione di un cartello radical-socialista, vincente alle elezioni del 1932, dove però
collettivisti e difensori della piccola proprietà si trovano ad affrontare una difficile
convivenza ideologica.
La repubblica radicale si trova quindi stretta tra l’opposizione politica della destra e
le richieste, pressanti e contraddicenti il suo programma politico, dei socialisti.
In queste condizioni diversi governi si susseguono nella loro desolante natura di
sterili tentativi destinati al naufragio politico. La contraddizione centrale della terza
repubblica sta tutta a sinistra, tra una maggioranza ideologica di sinistra, la cui
efficacia elettorale continua a smentirsi, e l’impossibilità degli eletti radicali e
socialisti a governare insieme: in questo modo la sinistra diviene la prima
responsabile politica dell’antiparlamentarismo che condurrà ai drammatici fatti di
Place de la Concorde del 6 febbraio 1934.
Lo scandalo del truffatore Stavisky e dell’arresto del deputato radicale Garat per
furto e truffa, radicalizza la situazione politica facendo piovere sulla disastrata
autorità del parlamento le accuse di corruzione; a questo si aggiunge il caso del
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prefetto di polizia Jean Chiappe, preso di mira dalla sinistra per le sue segrete
collusioni con l’Action francaise, che diverrà il simbolo della lotta politica della
destra nazionalista, nel momento in cui il governo radicale di Daladier, il 3 febbraio
1934, lo destituirà dal suo incarico.
Gruppi estremisti come le Croix de Feu di Francois La Roque, l’Action francaise e la
Jeunesse patriotes a destra, e l’Arac, l’associazione degli ex combattenti di fede
comunista, premono adesso, per diverse ragioni ma accomunate
dall’antiparlamentarismo, violentemente alle porte della Camera dei deputati.
Il 1934 inizia con una serie di assalti al palazzo Bourbon e numerosi tumulti di
piazza. Le autorità municipali appoggiano i manifestanti che aumentano di giorno in
giorno: comunisti e destra estremista si danno appuntamento in piazza il 6 febbraio
1934, giorno dell’insediamento del governo del cartello radical-socialista di Daladier,
divisi ideologicamente ma sotto gli stessi slogan.
La giornata del 6 febbraio si annunciava perlomeno confusa.
Il governo radical-socialista che andava ad insediarsi in quel giorno al palazzo di
place de la Concorde fu bersagliato all’interno dalle ingiurie dei deputati nazionalisti
e comunisti, all’esterno le prime barricate si alzano nelle strade e cominciano a
divampare alcuni incendi.
Léon Blum, rappresentante socialista, nel suo discorso si dichiara difensore del
regime schierandosi, com’era naturale, contro il nazionalismo di destra ma anche in
forte contrasto con l’estremismo rivoluzionario della sinistra comunista.
La giornata si fa di ora in ora sempre più drammatica, la Camera dei deputati viene
assediata e gli scontri tra i manifestanti e le forze di polizia si inasprisce tanto da
trasformarsi in un conflitto a fuoco. Colonne ordinate della Solidarité francaise,
dell’Action francaise e della Jeunesse francaise, per un totale di più di 4 mila
uomini, ingaggiano ripetuti scontri e tengono occupati i poliziotti che sono costretti
in più d’una occasione a cedere terreno ai manifestanti; per i militanti della Croix de
feu, la guerriglia urbana presso la Camera rimane invece nei limiti della legalità sino
all’opportuno comando di “ritirata” del maresciallo La Roque.
136
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La giornata si concluderà con un bilancio molto pesante, 1435 feriti e 15 morti;
nonostante tutto nel palazzo si è votato e il governo Daladier ha ricevuto la fiducia:
per il momento la sommossa non aveva dunque raggiunto il suo scopo.
Alcuni anni dopo, nel 1938, Bataille, in un articolo apparso su Mesures intitolato
L’obelisque, rimanderà proprio al simbolo architettonico dell’obelisco di place de la
Concorde, per richiamare la necessità di affermare di nuovo la morte di Dio, la
perdita di un centro, di un capo:
“Clausewitz scrive nel suo trattato Della guerra: «Come quegli obelischi che si elevano nei crocevia
da cui si dipartono le strade principali di una contrada, l’energica volontà del capo costituisce il centro
da dove tutto s’irradia nell’arte militare». La Place de la Concorde è il luogo dove la morte di Dio
deve essere annunciata e gridata precisamente perchè l’obelisco ne è la negazione più calma. (…)
L’obelisco è senza dubbio l’immagine più pura del capo e del cielo.”341
All’indomani dell’attacco all’obelisco, Daladier, sentendosi abbandonato dagli alleati
e colpito da ogni parte, annuncia le proprie dimissioni.
Dopo una pausa, costituita dal ministero di unità nazionale presieduto da Gaston
Doumergue, e conclusosi con le dimissioni dei deputati radicali, si va alle urne nelle
lezioni legislative dell’aprile-maggio 1936: per la prima volta la sinistra si presenta
compatta nel nuovo soggetto politico del Front populaire, compresa la
partecipazione in forze del partito comunista.
L’interesse agglutinante della sinistra era ora rappresentato da un astratto e retorico
antifascismo che sarebbe durato solo due anni e avrebbe aperto all’ingovernabilità
del paese sino alla caduta militare e all’insediamento il 10 luglio 1940, a Vichy del
maresciallo Pétain.
Dopo le giornate del febbraio 1934 la politica francese era giunta ad un grado di
radicalizzazione dei conflitti sociali insostenibile per il regime repubblicano: i gruppi
di destra lanciavo preoccupanti segni di “impregnazione fascista” e la debolezza del
parlamento faceva auspicare a molti la possibilità di un cambiamento in direzione di
341 G. Bataille, L’obelisco, in Id. Critica dell’occhio, Guaraldi Editore, Rimini 1974, pag. 263
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un regime autoritario; a sinistra inizia la campagna del “pericolo fascista” e gli
antagonismi politici divengono veri e propri combattimenti tra nemici in guerra.
La drammatizzazione della politica assume tratti sempre più preoccupanti con il
susseguirsi degli avvenimenti: la guerra d’Etiopia, le iniziative hitleriane in
Germania, i grandi scioperi del giugno 1936, la guerra civile spagnola, i disastrosi e
ciechi accordi di Monaco del 1938, sino all’umiliante disfatta militare.
In questo contesto politico e sociale si forma allora una fitta rete di gruppi
rivoluzionari, riviste, movimenti pseudo o dichiaratamente fascisti: tutta una serie di
dissensi che è impossibile ricondurre ad uno o all’altro schieramento parlamentare,
come l’Ordre nouveau, rivista pubblicata a partire dal 1933 da un gruppo diretto da
Robert Aron, che rigettava ugualmente il capitalismo e il parlamentarismo, o Esprit
(1932) che sotto la direzione di Emmanuel Mounier superava all’origine la
opposizione storica tra la destra e la sinistra. In uno spirito di fedeltà al cattolicesimo,
la rivista testimoniava uno di quegli sforzi frequenti per combinare le chiese cristiane
e la classe operaia. La politica personalista rigettava in ugual misura il materialismo
individualista o collettivista e la falsa soluzione fascista.
Il comunista Boris Souvarine aveva raccolto attorno a lui un gruppo di discussione,
le Cercle communiste démocratique e fondato una rivista La Critique sociale, che
costituì un rimarcabile strumento di riflessione marxista di orientamento trotskista,
sul neonato fascismo e sull’oramai evidente fallimento della rivoluzione. Gérard
Walter, Georges Bataille, Raymond Queneau, Jean Bernier e i più giovani come
Pierre Kaan, Simone Weil e Jean Dautry, furono i principali partecipanti del gruppo
di Souverine.
L’ambiguità politica e il ricorso alla strategia dell’equivoco come forma contestataria
e di lotta contraddistingue, al pari del carattere distruttivo benjaminiano, tutti questi
movimenti; in precedenza già il surrealismo aveva sottolineato la forza rivoluzionaria
del fraintedimento, dell’equivoco linguistico: l’improvvisa perversione del senso
della comunicazione discorsiva apriva squarci sul flusso incontrollato della vita
inconscia; l’ambiguità diveniva così l’elemento dislocante del senso, la sfuggente
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ragione in rivolta che non si lascia ingabbiare dalla discorsività, e dalla
comunicazione del fatto.
Abbiamo visto come in Breton questa strategia abbia fallito, cadendo nella tentazione
del riproporre specularmente l’inconscio al discorso logico della verità.
Ambiguità ed equivoco, lungi dall’essere assenza di posizione definita in
un’alternativa, è rifiuto dell’alternativa stessa. La sinistra che diviene sinistra solo a
partire dal sentimento dell’antifascismo, una coagulazione di sentimenti che vive
solo nell’opposizione al proprio contrario è progettualità politica che nasce e cresce
in cattività.
Se la breve vita del Front populaire è destinata sin dall’inizio dall’assenza di forza
politica in una fusione coatta e negativa di orizzonti, il carattere effimero dei piccoli
gruppi rivoluzionari è dato dal rifiuto assoluto della politica parlamentare.
Quando il surrealismo, con Aragon ed Eluard si pone al servizio della rivoluzione nel
senso pragmatico di una subordinazione del surreale al burocratico, della rivolta al
potere, le energie distruttrici si dissolvono nel programma del Komintern e
l’eterogeneità della parola e dell’immagine surrealista è inchiodata ad un dizionario
poetico-politico rigido e depurato.
Essere ambigui significa per prima cosa essere distruttivi verso ogni opposizione
sterile che possa controllare il dissenso; per questo l’operazione di Bataille non è
antifascista bensì surfascista, e la sua posizione politica ugualmente definita
comunista e affascinata dalla simbologia fascista.
L’introduzione di D. Hollier all’edizione italiana del volume sul Collegio di
sociologia è in questo illuminante:
“L’equivoco è lo strumento essenziale di questa strategia. Come mostra Sternhell, nei non conformisti
francesi l’opposizione al fascismo non è mai frontale, non assume mai la forma di uno scontro, ma
piuttosto quella di una sovversione mimetica che si appropria delle parole d’ordine del nemico
stravolgendone il senso, che pretende di precedere il nemico sul suo stesso terreno, di attaccarlo con le
sue stesse armi. Questa resistenza che contrattacca identificandosi con l’aggressore è una resistenza
letteralmente equivoca, una resistenza attraverso l’equivoco, in cui le parole perdono il loro senso: una
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resistenza che confonde le carte, impedendo di distinguere l’aggressore potenziale dalla sua
vittima.”342
Sostare nella contraddizione, cercarla nella consapevolezza che solo la simultanea
condizione di assenza di mediazione e di contrapposizione fluida possa essere il
luogo della politica. Condizione necessaria dell’esistenza e sostanza stessa della
storia, l’equivoco si mostra nelle strategie collegiali come uno strumento di
complicità con l’attualità, un tentativo rischioso (e da qui l’allarmismo di Benjamin)
di “sondare il fondo utopico del proprio tempo, quello dal quale il proprio tempo
proviene, e di farlo agire inattualmente contro il proprio tempo”343
Contrariamente alla tradizione romantica, il proposito del Collège non è di
contrapporsi al nemico, sia questo la democrazia o il neonato fascismo.
Il conflitto tra l’individuo e la società cede il terreno a delle strategie più insinuanti,
dove la società, assorbita nelle dispute con il suo doppio, si rovescia contro se stessa.
Lo scontro prende la forma di un sovvertimento nella dimensione del simulacro.
Il monito di Benjamin « Vous travaillez pour le fascisme » non può essere allora
accolto se non in questa dimensione ambigua di critica alla democrazia parlamentare,
né a destra né a sinistra, in cui l’antifascismo di Caillois, e soprattutto di Bataille,
trova la sua strategia politica.
La nozione di antiparlamentarismo contraddistingue qui due atteggiamenti diversi:
l’ostilità di principio a ogni regime parlamentare e la critica particolare a un regime
parlamentare che non funziona: tutta l’importanza della giornata del 6 febbraio nasce
proprio dall’incontro tra i due antiparlamentarismi, con il primo che riesce a sfruttare
il secondo per mettere in difficoltà il regime.
Il confronto intrapreso dal Collège con il fascismo sembra proprio nascere da una
critica radicale della democrazia parlamentare e dalle aporie che la propongono in
diretta connessione con questo. Se i gruppi fascisti infoltivano le proprie file era
342D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. XIII343 G. Moretti e R. Ronchi, L’ermeneutica del mito negli anni trenta. Un dialogo, in Nuovi argomenti, n.21, gennaio-marzo 1987, pag. 106
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proprio perché il sistema democratico non si presentava come il contradditorio del
fascismo ma una condizione della sua possibilità di affermazione.
Una dialettica democrazia-fascismo è costante nelle analisi collegiali del periodo e la
questione se in Europa fosse in atto una crisi delle democazie attuali o una crisi della
democrazia formale era all’ordine del giorno. Il fatto che il fascismo non costituisse
una deviazione dal cammino della democrazia ma quasi una sua variante patologica
contenuta nella struttura stessa, costituisce l’antifascismo antidemocratico che forma
la posizione del non conformismo francese.
Nel saggio di Bataille La struttura psicologica del fascismo apparso in La critique
sociale nel novembre 1933, il movimento nazionalsocialista tedesco e quello fascista
italiano, appaiono caratterizzati da una condensazione del potere e, al contrario del
socialismo, dalla riunione delle classi; riunione che non avviene nella direzione di
una conciliazione e suturazione delle differenze sociali, bensì nella militarizzazzione
del corpo sociale e nello schema di formazione del capo.
Nella stretta relazione di rappresentazione del potere e omogeneizzazione del corpo
sociale, nella sbandierata possibilità di innalzare la condizione sociale miserabile nel
suo contrario, sta la portata smisurata che dà al capo e all’insieme della formazione
militare l’accento della violenza essenziale ad ogni fascismo. L’illusione di una
eguaglianza data dalla cancellazione di ogni conflitto sociale e il formarsi di una
gerarchia di potere diffusa che rappresenta l’ascesa sociale nei quadri del potere
omogeneo come l’unica possibilità di riscatto da una condizione immonda, definisce
l’ideologia totalitaria in cui il potere si pone come unico modello di una fantomatica
evoluzione sociale. Esaltando la uniforme possibilità di riscatto nella formazione del
capo, la sovranità politica fascista si pone di fronte all’esistenza miserabile degli
oppressi come attività sadica dove l’atto crudele si esercita nell’esclusione delle
forme immonde, per trovare una connessione con la forma omogenea e stabile del
corpo sociale344. L’originaria azione eterogenea fascista appartiene al complesso delle
344L’emozione rivoluzionaria di massa si coniuga sempre nell’ideologia nazista con concetti reazionari: “L’unione di concetti reazionari e di emozioni rivoluzionarie ha per risultato la forma mentis fascista” W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, citato in P. Lacoue-Labarthe; J.L. Nancy, Il mito nazi, Il Melangolo 1992, pag. 31
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forme superiori e si afferma nell’esclusione (svalutante) delle forme immonde: in
questo tende ad una connessione con la forma conservatrice e pura del potere.
Il sadismo fascista è assoluto, di una purezza sfolgorante, non contaminato da
elementi bassi o da alcuna controtendenza masochista.
Le classi sfruttate vengono così comprese nel processo affettivo del fascismo
negandone la natura loro propria come nelle condizioni dell’affettività militare.
Le democrazie che rappresentano la propria forza nella possibilità di uno
spostamento di un uomo dalla condizione miserabile di proletario a quella superiore
di capo, e che vedono annullati i conflitti sociali solo in base ad una
burocratizzazione della differenza, nell’ambito di una classe solo apparentemente
media e mediatrice, condividono così con il fascismo questa tensione interna alla
condensazione del potere e all’omologazione del corpo sociale.
Bataille individua nell’importanza attribuita da Mussolini allo Stato e alla
personalizzazione fascista del duce (mentre l’idea mistica della razza si impose sin
da subito come compito della nuova società nazista), la differenza tra fascismo
italiano e nazionalsocialismo tedesco La confusione posta da Mussolini tra lo stato e
la forma sovrana (che è di ordine religioso) non è però necessaria allo stato fascista:
Mussolini ha infatti adattato le forze eterogenee radicali, di cui è portatore come capo
del partito fascista, ad un regime di produzione omogeneo, e così nella figura del
Duce appare la supremazia incondizionata della forma eterogenea di sovranità,
rispetto a quella solo formale, di presidente del consiglio italiano.
Nello stesso contesto democratico viene posta la questione del dualismo di sovranità
istituzionale e sovranità individualizzata e religiosa. I meccanismi di fascinazione del
leader di partito sono incredibilmente più forti di quelli interni all’autorità
istituzionale: se è con i poteri concessi dalle elezioni che si governa un paese, è però
con la proposta della personalità impolitica che si concretizza il formalismo
legislativo. Il rapporto fideistico che lega un candidato al proprio elettorato è
decisamente più profondo e affettivo della timorosa riverenza dimostrata al ruolo
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formale dell’autorità statale; ciò comporta la fascistizzazione di alcune contingenze
democratiche o addirittura la messa in crisi dello stesso modello democratico
formale.
Al di là dell’osservazione storica evidente sulla nascita del fascismo in un contesto di
legalità elettorale, Caillois vede nell’impossiblità della democrazia di difendersi dal
fascismo, se non con le armi del nemico, se non mutandosi nella forma stessa di
quest’ultimo, il vincolo stretto tra le due forme di governo. L’uguaglianza dei diritti
dei cittadini, posta a fondamento dell’istituzione democratica non è negata dal
fascismo (come nel caso dell’aristocrazia), ma è mantenuta subordinandola
esplicitamente a quella, già implicita nel discorso democratico, dei doveri; allora si fa
strada la convinzione che tale passaggio storico-politico sia all’insegna della
continuità, in quella che può essere definita una variazione patologica della
democrazia, che segnala “come si possa concepire un’ostilità alla democrazia che si
accompagni a un eguale avversione nei confronti dei fascismi”.345
A questi due sistemi politici Caillois contrappone allora un ordinamento fondato
essenzialmente sul principio della diseguaglianza e votato a un assetto gerarchico: “è
proprio questo principio dell’egualianza dei diritti, generalizzato come lo vuole la
democrazia e ristretto come lo esige il fascismo, a essere definitivamente rifiutato
dalla nozione di ordine o di comunità elettiva”346
Ciò che più preme a Caillois, il rispetto della diversità sociale, viene annullata dal
fascismo esaltando la superiorità biologica di un gruppo su un altro, la razza eletta e
la comunità nazionale devono tendere a sovrapporsi, a coincidere:
“In un certo senso sembra possibile definire il fascismo come un tentativo di legare queste superiorità
a dati biologici o pretesi tali, che al tempo stesso le ponano fuori discussione e consentano di
attribuirle globalmente a tutti i membri della comunità nazionale.”347
345 R. Caillois, La gerarchia degli esseri, in Id. Nascita di Lucifero, Medusa, Milano 2002, pag. 63346 Ibidem, pag. 69 347 Ibidem, pag. 65
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Caillois nella sua opposizione alla comunità di fatto348 rifiuta assolutamente ogni
riferimento a dottrine costruite su un determinismo biologico e territoriale, ideologie
che implicano così un asservimento al passato esaltandone l’eredità:
“Nulla di esteriore può spingere l’individuo sulla via che dovrà prendere: la razza non lo aiuta, né la
sua patria, né la sua condizione, neppure la fortuna o il rango dei suoi padri, che solo gli facilita,ed è
senza dubbio ancora troppo,l’accesso alla servitù e alla tirannia.Non deve che al suo essere profondo
di preferire la golosità dei sensi o il gusto della dominazione. Il carattere, che non dipende da nulla,
tutto decide. (…) Tale è il fondamento unico della nozione di ordine: il principio della differenza
specifica degli esseri e, pertanto, della loro gerarchia. Il resto è totale usurpazione.”349
La nozione di ordine su cui si fondano le comunità elettive, pur mostrando
fascinazioni di origine letteraria e romantica, è allora lontana dalle teorizzazioni
nazionalsocialiste infatti, se il pericolo di lavorare per il fascismo esiste, ben più
profondamente esso risiede nell’ambiguità connaturata al fatto che il Collège
simpatizza profondamente con la domanda implicita nella risposta errata del
fascismo.
L’etica gerarchica di Caillois si fonda sul riconoscimento del simile, una linea di
demarcazione della comunità si viene a comporre a partire da una somiglianza dei
comportamenti e delle volontà in gioco al di là di un patrimonio genetico in comune
o di un qualsiasi diritto di nascita. Tale nozione di somiglianza non si rappresenta
348 La distinzione tra comunità di fatto (clan, fratria, tribù, nazione, civiltà, umanità) e comunità elettive “che sono il risultato di una scelta operata dagli elementi che le compongono” (società segrete, ordini religiosi, esercito, organizzazioni semplici, amministrazioni, gruppi di produzione), viene spesso tirata in ballo nelle sedute del college e a più riprese svolta sia da Caillois che da Bataille. D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 101 e nota 15 pag. 528349 R. Caillois, La gerarchia degli esseri, in Id. Nascita di Lucifero, Medusa, Milano 2002, pag. 71 “il fatto è che il razzismo non lascia la possibilità di essere con lui. L’hitlerismo è un ideale che non permette di aderirvi. Occorre la grazia, e questa non è la ricompensa della virtù, ma un dono della nascita. Lì è il solo artito preso del mio testo: la scelta contro il dato di fatto, l’affinità elettiva contro la pressione, il merito contro l’irrimediabile. È il punto di vista del Collége, quello di Bataille e il mio”. Roger Caillois, lettera a Jean Paulhan dell’11 novembre 1939, in Correspondance Caillois-Paulhan (in corso di stampa) anticipata da J. P. Bouler in G. Bataille, Lettres à Roger Caillois, 4 Aout 1935- 4 Février 1959, a cura di J. Bouler, Editions Folte Avoine, Romillé- Paris 1987 e citata in Carlo Ossola, Introduzione a R. Caillois, I demoni meridiani, Bollati Bringhieri, Torino 1999, pag. XX
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quindi a partire da giustificazioni naturali aprioristiche al fatto sociale, bensì assolve,
in campo politico, al compito al quale, in biologia, fa riferimento la nozione di
psicastenia del saggio sul mimetismo del 1935350.
Ricavando dai lavori di Pierre Janet351, presidente della Société de psychologie
collective a cui apparteneva anche Bataille, la definizione di psicastenia come
“spersonalizzazione mediante assimilazione allo spazio”352, sensibilità e fascinazione
dell’individuo all’istinto di abbandono, Caillois definisce la ricerca del simile come
un mezzo, se non come un’intermediario: il fine sembra essere in ultima istanza
l’assimilazione all’ambiente. L’individuo soggetto allora non si distingue facilmente
dal simile con il quale è in rapporto, dal socius, e diviene elemento di quel
movimento comuniale superiore che era al centro delle analisi della sociologia sacra.
Il mimetismo politico delle comunità elettive implica l’abbandono del soggetto, la
caduta della “grossolana credenza” dell’indivisibilità della coscienza individuale353.
La somiglianza è qui la categoria del pensiero magico dove l’assenza nell’azione
mimetica, di ogni volontà appropriativa di un modello, e il carattere di potenzialità
del soggetto imitante, rende vana ogni distinzione gerarchica interna alla comunità.
Se nel saggio sul mimetismo animale Caillois si muove ancora in una dimensione
teopatica, di passiva acquiescenza, nell’esaminare la formazione delle comunità
elettive, egli fa riferimento ad un azione aggressiva, teurgica del movimento
agglutinante del mimetismo. La volontà imperativa del mito, forza contagiosa che
investe la sensibilità e riesce a socializzare le violenze affettive fondamentali
350 R. Caillois, Mimetismo e psicastenia leggendaria, in Id, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 48351 P. Janet, Les troubles de la personnalité sociale, in Annales médico-psychologiques, XC, 1937, pp.421-468352 R. Caillois, R. Caillois, Mimetismo e psicastenia leggendaria, in Id, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 62353 “E questo testardo attaccamento alla corporeità unica e immutabile emerge proprio nel momento in cui filantropi, allievi di Proust e psicoanalisti ci assicurano che in ciascuno di noi giacciono infinite possibilità latenti, e che per giunta non c’è nulla di più invecchiato e piccolo borghese della fede nell’identità personale”. W. Benjamin, Teorici del milieu, in Id. Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 613 (Si nota a margine che milieu è la traduzione francese del termine Umwelt, usato da Lacan in relazione dialettica con il suo termine speculare Innenwelt, per definire il processo di frammentazione e ricomposizione del’io.)
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![Page 146: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/146.jpg)
dell’uomo, rappresenta in Caillois la prima fase dello sviluppo della comunità
elettiva.354
Ma il mimetismo, inserito nella costellazione politica del mito, sembra riproporre di
nuovo, da un’altra angolazione, il problema della prossimità del discorso comuniale
all’ideologia fascista.
“Il mito è una finzione, in senso forte, nel significato attivo di plasmare, di costruire fittizie realtà
archetipiche, il cui ruolo consiste nel proporre, se non nell’imporre, modelli e tipi, nella cui imitazione
un individuo, una città, un popolo, può cogliere se stesso e identificarsi. (…) In altri termini la
questione che pone il mito, è quella del mimetismo, in quanto solo il mimetismo è in condizione di
assicurare una identità.”355
Consapevoli della sterilità dell’interrogarsi sull’ambiguità politica delle analisi
collegiali, sembra allora più interessante affrontare il confronto con il fascismo
seguendo due tracce legate alla problematica della comunità: il rapporto tra razza e
corporeità come riferimento primo del discorso politico (condizione fattizia della
comunità) e l’affettività come luogo della comunità (problema del mito e del
mimetismo politico).
Se la comunità è davvero, come dice Sartre, un’orizzonte insuperabile, come sottrarla
alle perversoni ideologiche a cui è stata sottoposta la sua attuazione? Come pensare
la comunità come luogo politico per eccellenza, senza cadere nelle false
ipostatizzazioni a cui da sempre si cerca di ricondurre l’approccio non
contrattualistico all’analisi sociale?
354 In una dimensione mimetica tra il gioco e la spersonalizzazione, un’esempio di comunità elettiva è quella che si forma nell’essere-in-comune di un’orizzonte figurale come quello della comunità letteraria di Blanchot o quello del contagio miticovdi Caillois: “Perché l’opera di un Balzac, al contrario, appaia autenticamente mitica, basterà ricordare che, mentre l’autore era ancora in vita, si erano costituiti a Venezia e in Russia circoli di uomini e di donne che si distribuivano i ruoli della Comédie humaine e si sforzavano di vivere a loro somiglianza. L’infantilismo di simili manifestazioni è fuori discussione. Tuttavia bisogna fare attenzione a ignorare troppo la natura dei bisogni mal definiti che esse presuppongono e che evidentemente speculari su di essi è un mezzo sicuro per agire sull’uomo”. R. Caillois, L’uomo e il mito, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 100; Passo citato anche da Benjamin in I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000355 P. Lacoue-Labarthe; J.L. Nancy, Il mito nazi, Il Melangolo, Genova 1992, pag. 35
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Illusioni nostalgiche o profetiche da sempre hanno accompagnato tale concetto, che
ancora oggi non è riuscito a maturare una prassi politica inverante ed ha collezionato,
come abbiamo visto con i tentativi batagliani, più fallimenti (anche solo filosofici),
che passi in avanti. Se per comunità si intende questo essere-in-comune, l’essere
esposto all’altro all’altezza della morte, “il comunicare col cosmo nelle forme
dell’ebbrezza”356, allora ogni riferimento alla comunità come Volksgemeinschaft è un
fraintendimento o una torsione ideologica compiuta violentemente da ambizioni
totalitarie assolutamente estranee.
Il tentativo compiuto da Bataille negli anni trenta era proprio quello di affrontare il
fascismo sul terreno della comunità per strappare il paradigma comuniale alle
violente strumentalizzazioni razziali del nazionalsocialismo e difendere così le
ragioni dell’impolitico come luogo della politica.
Come dunque costruire una politica a partire dall’immediata presenza del corpo a se
stesso, al di là di ogni idealismo e di ogni progettualità esterna, senza lavorare per il
fascismo? Come ovviare al materialismo idealista in cui la materia è intrisa di
ragione senza cadere nell’irrazionalismo del sangue? Come dissolvere
l’individualismo e lo specialismo funzionalista nell’essere-in-comune della
reciprocità, senza intendere quest’ultimo come un sacrificio della differenza?
Il problema sarà allora rifiutare la tentazione fascista contenuta nel materialismo e in
ogni discorso sul corpo e sull’affettività come luoghi politici della modernità.357
Se Bataille elabora la nozione di basso materialismo proprio in contrasto con la
nozione classica di sostanza, la materia astratta e idealistica della tradizione
metafisica358, ed elabora la nozione di sovranità, al di là dell’acephalité nella
communauté désoeuvrée, sfuggendo in negativo all’elaborazione di una dialettica del
potere, Benjamin rintraccia il luogo della politica in quell’assenza di ogni fine
politico sensato, nell’uscita dal circolo solipsistico dell’ebbrezza romantica con
356 W. Benjamin, Strada a senso unico, in Id. Scritti 1923-27, Einaudi, Torino 2002, pag. 462357 “Ma se non vogliamo che altre voci facciano sentire i loro accenti stucchevoli e sinistri, dovremmo riprendere in un senso tutto nuovo la questione dell’essere-in-comune come affetto, o forse la questione dell’affetto come luogo dell’in-comune”. J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995, pag. 11358 G. Bataille, Il basso materialismo e la gnosi, in Documents, Dedalo libri, Bari 1974, pag. 93
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l’adozione del paradigma dell’inoperosità e incompiutezza creaturale e con la
fusione, nella nozione di Bildraum, della sfera dell’immaginario con quella del
collettivo corporeo. Interne a questa tensione all’impolitico sembrano essere, con le
debite precauzioni e forse più per disinteresse ad una vera e propria riflessione
politica che per affinità, le fascinazioni cospirative e le analisi di Caillois sulla
continuità di piano mitico (immaginario) e biologico.
Materia e immaginazione sono quindi interni ad un progetto fenomenologico che,
specularmente critico all’heideggeriana analitica del Dasein, sembra approdare ad un
pensare concreto, a partire cioè dagli stati affettivi prossimi ad un’estasi profana
come l’angoscia (Levinas), la nausea (Sartre), l’erotismo (Bataille), la guerra e il
gioco (Caillois), la solitudine, l'hascisch, il rimuginare melanconico (Benjamin),
dalle condizioni marginali dell’esistenza come i bisogni corporei e gli impulsi
fisiologici profondi.
In un breve testo Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, apparso nel 1934
sulla rivista Esprit, Emmanuel Levinas ci indica la strada con cui necessariamente la
fenomenologia heideggeriana, nella sovrapposizione di situazione fattizia e compito,
è approdata al nazismo, e il tentativo di correggerne l’ineliminabile e oscuro destino.
Questo testo, particolare sin dal titolo, dove all’hitlerismo viene attribuita persino una
filosofia, sembra percorso da un sottile malessere che si insinua tra le righe, là dove
Levinas riconosce i suoi enormi debiti all’ontologia heideggeriana e allo stesso
tempo scova in essa i caratteri, che in una conseguenzialità ferrea condurranno
Heidegger al Discorso di Rettorato del 1933359. Sembra quasi che Levinas senta il
peso della colpa di non aver compreso subito dove l’ermeneutica del Dasein e la
ricerca di un’ontologia fondamentale conducesse, o di averlo capito ma di non poter
rifiutare su questo campo un confronto con il vecchio maestro.
Levinas fa delle esperienze direttamente marginali come il bisogno corporeo, la
nausea, la vergogna, il luogo privilegiato dell’”esperienza dell’essere allo stato
359 Per un’analisi del Discorso di Rettorato e un’efficace difesa della filosofia heideggeriana dall’accusa di collusione con il regime nazista, vedi Philippe Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, Il melangolo, Genova 1991. A questo testo rimando in generale per la complessa, e qui appena accennata, vexata quaestio della relazione tra Heidegger e il nazismo.
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puro”, dell’essere nel suo aspetto “desertico, ossessivo e orrendo”: il semplice fatto
che qualcosa esista senza scampo, irreparabilmente.
Il filosofare concreto dell’ermeneutica dell’effettività comporta, nell’analitica della
geworfenheit heideggeriana, il ruolo dell’affettività primaria e del corpo come
l’aderenza imprescindibile dell’uomo a se stesso.
In questo, secondo Levinas, Heidegger ha lavorato per preparare l’ideologia del
nuovo ideale dell’uomo germanico.
Come una novità si afferma così il rapporto dell’uomo nazista con la corporeità: il
corpo non è per il nazionalsocialismo soltanto l’eterno straniero della tradizione
cristiana e liberale:
“(il corpo) non ci è solamente più vicino o più familiare del resto del mondo. Non determina soltanto
la nostra vita patologica, il nostro umore e la nostra attività. Al di là di queste banali constatazioni, c’è
il sentimento d’identità.(…) il corpo non è soltanto un accidente felice o infelice che ci mette in
rapporto con il mondo implacabile della materia, la sua aderenza all’Io vale di per se stessa (…)
L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere veramente se
stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’Io. Ma
al contrario prendere coscienza dell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo;
significa soprattutto accettare questo incatenamento. (…)la verità, per lui, non è più la contemplazione
di uno spettacolo estraneo, essa consiste in un dramma di cui l’uomo stesso è l’attore.”360
Contro il carattere neutrale della nozione cristiana di “anima” o di quella liberale di
“individuo”, l’uomo che è corpo prima di essere un’essere razionale, che è incatenato
a dei bisogni corporali senza poter liberamente e con una scelta razionale, accedere
alla nudità dei primi giorni della creazione, l’uomo che è inchiodato alla propria
materialità trova proprio nel dolore, nella solitudine, la libertà del prigioniero.
Levinas cerca nell’esperienza del fatto bruto e senza scampo dell’esistenza qualcosa
come una via di fuga, e non gli sfugge che la fenomenologia heideggeriana prende
risolutamente radice nella situazione fattizia.
360 E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, pp.30-34
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“L’ontologia heideggeriana è cioè risolutamente manierista e non essenzialista; l’Esserci non ha una
natura propria e una vocazione precostituita, ma è un’essere assolutamente inessenziale, la cui
essenza, essendo gettata, giace (liegt) ora integralmente nell’esistenza, nelle sue molteplici maniere
(Weisen) di essere.”361
Il problema del rapporto tra situazione fattizia e compito storico si mostra centrale
per lo spazio politico della modernità. Se nella tradizione politica dell’occidente la
distinzione tra l’essenza e l’esistenza poneva il compito come un qualcosa di esterno
alla situazione fattizia, costringendo quest’ultima ad un movimento messianico verso
il compimento, verso un fine politico ideale; la modernità introduce una novità: la
consapevolezza heideggeriana della Geworfenheit, dell’esser-gettato dell’Esserci,
l’esperienza di un essere senza essenza che ha da essere soltanto i suoi modi di
essere. Il nazismo porta all’espressione la volontà che trasforma le stesse condizioni
fattizie in un compito storico: folle tentativo di fare, attraverso una mobilitazione
totale, della stessa eredità genetica naturale la missione storica del popolo tedesco.
“Le libertà politiche non esauriscono il contenuto dello spirito di libertà che, per la civiltà europea,
significa una concezione del destino umano. (…) Dietro alla malinconia per l’eterno fluire delle cose,
per l’illusorio presente di Eraclito, c’è la tragedia dell’inamovibilità d’un passato incancellabile che
condanna l’iniziativa a non essere che una continuazione. La vera libertà, il vero inizio, esigerebbero
un vero presente che, sempre al culmine d’un destino, lo ricominciassero eternamente.”362
La libertà è qui definita da Levinas come l’assenza di storia, la dissoluzione della
condizione di irreparabilità del tempo. La reversibilità di quest’ultimo e l’abbandono
della storia per la Tradizione è il messagio redentivo, condensato nel
rimorso,”espressione dolorosa dell’impotenza radicale di riparare l’irreparabile”,
della teologia ebraica. L’origine non è la meta nel senso temporale del tempo, non vi
è alcuna età dell’oro da recuperare là dove ogni secondo è la piccola porta attraverso
la quale può entrar il messia. Scrivere la storia in concetti immediatamente teologici
361 G. Agamben, Introduzione a E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, pag. 12362Ibidem, pag. 24
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significa paradossalmente presentare la storia come l’ambito profano dell’agire
umano; là dove l’ordine profano e il messianico si muovono in direzioni opposte363, e
“nel segno dell’incompiutezza il frammento storico è commisurato all’idea della sua
integrità e dunque al compito della sua redenzione”364
L’adesso nella sua fatticità reclama compimento, la catastrofe sotto la veste della
quale si palesa il presente esige per se di essere redenta.
Tutt’altra condizione è quella della storicità heideggeriana, autentica temporalità del
Dasein dove la situazione fattizia dell’esser-gettato è proiettata come ciò che è dato-
in-compito, come direzione da prendere storicamente:
“La vocazione storica è sempre quella di trasformare il già dato, il nazionale, in un dato-in-compito.
(…) Dobbiamo prendere in custodia il già dato solo per cogliere e afferrare il dato-in-compito, cioè
per interrogarci verso di questo e in direzione di questo”365
La storia è allora il farsi carico del carattere destinale dell’origine, pericoloso
fatalismo allorchè, tradotto nel biologismo dell’ideologia nazionalsocialista, la storia
diviene natura e la razza il fine ultimo dell’identità della civiltà germanica.
Così la effettività del Dasein: Heidegger propone una nuova concezione di uomo
dove la situazione in cui è inchiodato non si aggiunge a lui, ma costituisce il
fondamento del suo stesso essere, il nazionalsocialismo trova nella razza il compito
storico della rinascita germanica.
L’ideologica ontologizzazione del passato nella categoria metafisica di “origine” e la
connotazione di quest’ultima nella coesione inscindibile di eredità naturale ed eredità
culturale giungono ad evidenza nella narrazione mitica che impone all’originario il
ruolo di compito storico.
363 “Il profano non è dunque una categoria del regno. Ma una categoria - e certamente una delle più pertinenti - del suo facile approssimarsi” W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Einaudi, Torino 1982, pag. 171364 F. Desideri, Il messia di Benjamin, Inedito365 M. Heidegger, Holderlins Hymnen “Germanien“ und “das Rhein“, GA, B.29, Frankfurt 1980, pp. 292-94 citato da G. Agamben, nell’introduzione a Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, pag. 17
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“«Poiché sono nato tedesco, devo morire» – il trauma della nascita contiene già lo
chock mortale. È questa coincidenza che definisce il destino”366. Nel contesto mitico
infatti la nuda vita è la legge stessa del destino (la razza del mito nazionalsocialista),
la costituzione naturale del vivente partecipa originariamente del suo compito storico
e solo in questo l’individuo viene giudicato: nell’adempimento del proprio destino
inscritto nella propria origine naturale.
Nel nazismo il problema del mito subisce quindi un’elevazione alla seconda potenza,
il mito assume una propria mitologia nella composizione di un vero e proprio mito
del mito. La grande narrazione fondatrice che costruisce un paradigma identitario
forte si alimenta della propria fascinazione e si propaga in virtù della pretesa
totalitaria di ogni identità politica e sociale.
L’emergere del nazionalismo tedesco è spiegabile allora come un lungo processo
storico di appropriazione dei mezzi di identificazione, la creazione di un soggetto
mitico da imitare.
Immanenza di origine e compito storico, produzione mi(me)tica di identità: la logica
mitica costitutiva dell’ideologia nazista si mostra duplice nella volontà mimetica di
identificazione e nella tensione autorealizzativa della forma
L’immanenza e l’autonomia di imitante e oggetto imitato è assoluta nella mimesi
politica dei meccanismi ideologici totalitaristici. Allo stesso modo sembra infatti
comportarsi il totalitarismo “morbido” dell’attuale società dello spettacolo, la mimesi
qui si avvolge su se stessa riproducendosi nell’illusione di una libertà soggettiva dei
comportamenti mimetici.367
La mimesi autopoietica è il processo di tautegoricità del mito: esso non dice che se
stesso, comunica un mondo fondandolo immediatamente attraverso la finzione.
366 W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (m 1a,5)367 “Non si può opporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. Nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riproduce in se stessa l’ordine spettacolare portandogli un’adesione positiva. La realtà oggettiva è presente da entrambi i lati. Ogni nozione così fissata non ha per fondo che il suo passaggio nell’opposto: la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l’essenza e il sosegno della società esistente.” G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 1997, pag. 55
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La produzione nazista del politico come opera d’arte va quindi al di là della
distinzione benjamininana tra “estetizzazione della politica” e “politicizzazione
dell’arte”: il mito nazi è la costruzione del popolo tedesco nell’opera d’arte, mediante
l’opera d’arte, come un’opera d’arte.
“La mitologia è dunque una figurazione propria” che nasce nello stupore, nella
fascinazione naturale che precede ogni rappresentazione:
“Il mito è insomma l’autofigurazione trascendentale della natura e dell’umanità, o più esattamente
l’autofigurazione – o l’autoimmaginazione- della natura come umanità e dell’umanità come natura. La
parola mitica è dunque il performativo dell’umanizzazione della natura (e/o della sua divinazione) e
della naturalizzazione dell’uomo (e/o della sua divinazione).”368
La mimesi mitica è il configurarsi della storia nell’alveo della natura, la forma
arcaica di una storia naturale, “che rende l’apparenza nella storia tanto più
splendente, quanto più le assegna la natura come patria.”369
Le catene mimetiche del mito imprigionano originariamente l’essere allo stato della
finzione, inchiodato alla necessità dell’apparenza.
Sembra quindi necessario svincolare la mimesi dalla sua accezione platonica di
finzione (e in questo modo ripensare la nozione di apparenza) e ridare al soggetto
dell’imitazione (l’imitante) un ruolo attivo nella formazione del politico, slegato
dalla servitù psicologica nei confronti dell’imitato370.
Seguendo le analisi di Lacoue-Labarthe si perviene ad un disinnescamento di tale
dispositivo mimetico secondo due direttive che abbiamo già trovato intersecantesi
nelle speculazioni benjaminane e del Collège e che lui riassume nelle categorie di
improprio e inoperosità. La precedente elaborazione del paradigma creaturale e
dell’inoperosità comuniale intervengono qui a definire una prassi politico-mimetica,
in un’ottica prossima al senso di una teologia negativa.
368 J.L.Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995, pag. 117369 W. Benjamin, W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 pag. 534 (N 11,1)370 “In realtà occorre strappare il mimetismo al pensiero classico dell’imitatio e ripensarlo alla luce di una mimetologia rigorosa” P. Lacoue-Labarthe, Finzione del politico, pag. 108
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“Occorre che il soggetto dell’imitazione non sia niente per se stesso (…). Occorre dunque che non sia
già soggetto. Ciò suppone un’improprietà nativa, un attitudine a tutti i ruoli. (…) Il soggetto
dell’imitazione è un’essere originariamente aperto a, o originariamente fuori di sé, e-statico. (…) Il
soggetto è originariamente l’infermità del soggetto, e questa infermità è la sua stessa intimità, in
deiscenza. O per dirlo altrimenti: la différance è originaria al soggetto, impedendogli per sempre di
essere soggetto e determinandolo essenzialmente come mortale.”371
Nella prospettiva in negativo sin qui delineata, l’originaria finitudine e
incompiutezza del soggetto nullifica ogni progettualità politica in cui la tecnica, o
mimesi, viene interpretata come semplice adeguamento, copia di, produzione di
modelli sociali e di identità fittizie. La mimesi (techne), nella sua co-originarietà con
la natura, è eminentemente politica nel senso in cui la techne è pensata come il
compimento e la rivelazione della physis stessa.372
La “tecnica regia” platonica, la politica, è all’insegna quindi di una cooperazione-
partizione giocosa con la natura in cui il poìein umano non si esercità nella volontà
appropriativa e di dominio, né verso la natura, né nei confronti degli altri uomini.
Nell’interruzione del mito non ha luogo alcuna dialettica di appropriazione, né nel
senso di un dogmatico antropomorfismo, né nel senso di una naturalizzazione della
storia.
La creazione dell’identità sociale avviene nella dimensione di una mimesi priva del
soggetto immanente (individuum) e dei modelli stabili di riferimento; mimesi che è
esposizione all’Altro, incompiutezza e apertura all’altezza della morte, culmine
esistenziale che dialettizza natura e cultura in un continuum sempre in via di
definizione.
371 Ibidem, pag. 106-107372 Su questa prospettiva sulla tecnica come “mimesi perfettiva” della natura, vedi F. Desideri, Il fantasma dell’opera, Il melangolo, Genova 2002, pg. 143 Sul carattere tecnico della politica e sulla co-originarietà di tecnica (mimesi) e natura vedi inoltre: “La città è definita, nella celebre apertura della Politica di Aristotele, “di natura”(I, 2, 1252b 30); se si tiene conto del fato che questa naturalità della città permette di definire l’uomo come zoon politikòn e che l’uomo non è tale che zoon logon echòn (1253a), c’è solo un breve passo da fare in direzione della Poetica, là dove l’uomo si definisce come lo zoon mimetikotaton.” Labarthe, Finzione del politico, Il melangolo, Genova 1991, pag. 89
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Nell’analisi del mimetismo animale Caillois critica la teoria volgare di un mimetismo
volto semplicemente alla somiglianza all’ambiente a scopo di difesa; è ovvio che la
somiglianza sta nell’occhio di chi la percepisce e quindi si cadrebbe
nell’antropomorfismo se volessimo spiegare che la farfalla Caligo imiti con le sue ali
la testa di una civetta per ottenere la reazione che ottiene abitualmente
nell’osservatore uomo.
Mentre solo l’uomo percepisce la somiglianza con la civetta, “il fatto oggettivo è la
fascinazione”373, l’effetto straniante che l’immagine della metamorfosi dell’animale
provoca sull’occhio, che in tutto il regno animale è il veicolo della fascinazione.
“Il sentimento della personalità, in quanto sentimento della distinzione dell’organismo nell’ambiente,
del legame della coscienza e di un punto particolare dello spazio non tarda in queste condizioni a
essere gravemente compromesso, si entra allora nella psicologia della psicastenia e più precisamente
nella psicastenia leggendaria”374
L’apparenza, nucleo di una teoria statica, e in extremis psicastenica del processo
mimetico, è qui ricondotta da Caillois alla sua condizione di fascinazione estetica
(nel senso dell’aìstesis). Lo sprofondare del soggetto nell’ambiente dipende dalla
visione, dalla tentazione dello spazio esercitata sull’occhio.375
In quella che sembra una polemica a distanza sull’organo sensoriale che presiede
all’attivià mimetica, Adorno attribuisce all’odore, come percezione e come percepito,
la perdità di sé nella tentazione dello spazio:
“Nelle ambigue tendenze dell’olfatto sopravvive l’antica nostalgia del basso, dell’unione immediata
con la natura circostante, con la terra e il fango. Fra tutti i sensi l’odorato, che è attirato senza
oggettivare, testimonia con la massima evidenza dall’impulso a perdersi in altro e ad adeguarvisi. (…)
Nel vedere si resta chi si è, nell’odorare ci si perde.”376
373 R. Caillois, Mimetismo e psicastenia leggendaria, in Id. Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 52374 Ibidem, pag. 61375 “…in tutto il regno animale, l’occhio è il veicolo della fascinazione.”R. Caillois, Mimetismo e psicastenia leggendaria, in Id. Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 53376 T.W.Adorno; M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, pag. 198.
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![Page 156: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/156.jpg)
Caillois rimane qui prigioniero dell’apparenza: la tentazione dello spazio è un
miraggio, un inganno che imprigiona l’esperienza desoggettivante in una tendenza
uniformante e conciliatrice.
L’assimilazione mimetica dell’animato all’inanimato, prossima all’impulso di morte
freudiano, è per Caillois momento istintuale di conciliazione con l’altro:
“Il mimetismo come il risultato di una sorta d’istinto, intendendo con ciò, con Klages, un movimento
che unisce il bisogno fisiologico, agente come forza efficiente, all’immagine che ne promette
l’appagamento, agente come foprza finale. Dunque i fenomeni mimetici sono prodotti da un simile
movimento e costituiscono nello stesso tempo l’immagine pacificatrice del bisogno che lo
determina.”377
Un misticismo idealistico, un’irresistibile sex-appeal dell’inorganico, si insinua
nell’analisi di questa tentazione mimetica che sembra affascinare Caillois quanto il
Sant’Antonio di Flaubert.
Il giovane francese, colto da acedia, non coglie il momento ambiguo e lacerante
dello spossessamento di sé; la tentazione è quella di risolvere il problema
dell’individuazione nell’indistinzione, nella soppressione di tutte le distinzioni,
nell’immagine tranquillizzante della rappresentazione scientifica del mondo.
Adorno, critico dell’apparenza e della fantasmagoria feticistica, diffida dell’informe
idealistico della psicastenia leggendaria, collocando la possibilità di un
rovesciamento dialettico della mimesi ad un livello profondo e lacerato del soggetto:
“Nelle reazioni di fuga, caotiche e regolari insieme, degli animali inferiori, nelle figure del brulichio,
nei gesti convulsi dei torturati, appare ciò che nella nuda vita nonostante tutto non si può controllare:
l’impulso mimetico. Nell’agonia della creatura, all’estremo opposto della libertà, la libertà affiora
irresistibilmente come vocazione contrariata della materia.”378
377 R. Caillois, Mimetismo e psicastenia leggendaria, in Id. Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 65378 T.W.Adorno; M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, pag. 198
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![Page 157: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/157.jpg)
Al contrario l’individuo psicastenico (agli occhi Benjamin e Adorno, l’uomo
moderno, schiavo delle voluttà di madama Moda) non distingue la propria
percezione dell’esterno da se stesso, egli è immagine apparente di se stesso allo
stesso modo dell’ambiente che lo circonda; in questo modo salta il confine sottile tra
l’apparenza percepita e la rappresentazione:
“è con lo spazio rappresentato che il dramma si precisa, poiché l’essere vivente, l’organismo, non è
più l’origine delle coordinate, ma un punto tra altri; è privato del suo privilegio e, nel senso forte
dell’espressione, non sa più dove mettersi.”379
La capacità autorappresentativa della società produttrice di merci, la società
neocapitalistica di Debord dove “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un
rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”380, si è rappresentata nel mito
di se stessa, nell’oblio della propria feticizzazione.381
L’autorappresentatività del Moderno nel feticismo della merce produce la violenza
mitica che, come il mito nazionalsocialista, si autogiustifica con la carica di
fascinazione esercitata sulle masse.382
L’iconoclastia benjaminiana383 si esercita proprio sul concetto di immagine mitica
come estetizzazione della politica e della prassi: l’automonia dell’apparenza
feticistica è lo sprofondare della coscienza nell’oblio della differenza.
379 Ibidem, pag. 61380 G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 1997, pag. 54381 “La proprietà che compete alla merce in quanto suo carattere di feticcio è inerente alla stessa società produttrice di merci, non come essa è in sé, bensì come sempre si rappresenta e crede di comprendersi allorché essa fa astrazione del fatto precisamente di produrre merci.” K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1975. Citato in F. Desideri, Teologia dell’inferno. W. Benjamin e il feticismo moderno, in S. Mistura (a cura di), Figure del feticismo, Einaudi, Torino 2001, pag. 191382 “Ciò che provo adesso si deve chiamare l’orrore sacro. Pensavo di trovarmi a un meeting di massa, a qualche manifestazione politica. Ma è il loro culto che essi celebrano!” L’antusiasta commento di Denid de Rougemont su un comizio di Hitler a Frankfurt rende l’idea della forza fascinatrice della ritualità sacrale autorappresentativa del mito nazionalsocialista. D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 201383 “Ci sono sempre stati dei movimenti, in passato prevalentemente religiosi, che, come Marx, si prefiggevano la distruzione radicale del mondo delle immagini / 2 metodi di ricerca: I. teologia 2. dialettica materialistica. Inedito pubblicato per la prima volta in W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, pag. 311-312
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“Fiat ars – pereat mundus, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il
soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo
evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli
dei dell’Olimpo, ora lo è diventato per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le
permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Questo è il
senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la
politicizzazione dell’arte.”384
In una logica di immanenza assoluta il modello politico del nazionalsocialismo è il
Gesamtkunstwerk, e il Festspiel di Bayreuth, tempio della musica di Wagner, è “il
luogo dove un popolo, raccolto nel suo stato, dà a se stesso la rappesentazione di ciò
che è, e di ciò che lo fonda in quanto tale.”385
Se Görres affermava che “il popolo è la natura al livello della storia”386, per il mito
nazi era gioco facile condurre la sua battaglia per un fittizio diritto del popolo
tedesco alla propria autorappresentazione mitica.
Il determinismo biologistico con cui Rosenberg e gli altri ideologi nazisti si
impadroniscono di questa affermazione è centrale per comprendere la manipolazione
compiuta sulla tradizione tedesca, con l’obbiettivo di fare di questa un’opera d’arte
totale. Da Görres e poi da Bachofen, dai Grimm e dai romantici in genere, il popolo è
al contrario pensato dialetticamente come “una creatura che può vivere solo finchè la
natura la nutre e la trattiene, con legame invisibile e misterioso, anche nell’avventura
storica.”387
384 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag.48385 P. Lacoue-Labarthe, Finzione del politico, pag. 84. Più avanti cita un passo del film di Syberberg, Hitler, un film dalla Germania, che è esemplare nella logica immanente, al di là del confine che separa apparenza e rappresentazione, in cui il nazionalsocialismo ha costruito i suoi miti: “Lo confesso, ho fatto un sogno, l’opera d’arte dello stato, della politica e del popolo. A ciascuno la propria parte, ciascuno al proprio posto. (…) la Germania come opera d’arte totale e come modello. Annuncio la morte della luce, la morte di tutta la vita e la morte della natura, la fine.” H. J. Syberberg, Hitler, un film dalla germania, Quodlibet, Macerata 19
386 cit. in G. Moretti (a cura di), Dal simbolo al mito, Spirali edizioni, Milano 1983, pag. 35387G. Moretti (a cura di), Dal simbolo al mito, Spirali edizioni, Milano 1983, pag. 35
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La sensibilità della tradizione tedesca verso la cultura greca porterà gli ideologi del
nazismo a saccheggiare, strumentalizzare gli studi storici e filologici di autori come
Nietzsche e Bachofen scovando l’identità mitica del popolo tedesco nell’ambiguità
ellenica di un Giano bifronte: da una parte “una Grecia della misura e della
chiarezza, della teoria e dell’arte, della bella forma, del rigore virile e eroico, della
legge, della città e della luce” che si esaurisce nella burocratizzazione sterilizzata del
potere e nelle dottrine eugenetiche di purificazione, dall’altra “una Grecia
sotterranea, notturna e oscura, vale a dire la Grecia arcaica e selvaggia dei rituali
unanimistici, dei sacrifici cruenti e delle ebbrezze collettive, del culto dei morti e
della madre-terra”388, che trova spazio nelle adunate di massa e nella produzione
fascinatrice di simboli arcaici.
Il mimetismo mitico nazionalsocialista si mosse infatti come un “organismo
saprofago che cercò di recuperare tutto ciò che tra l’ottocento e il novecento aveva
affascinato la gente: romanticismo, liberalismo e socialismo, come pure darvinismo e
tecnologia moderna.”389Allo stesso modo nella creazione di un mito dell’origine il
nazismo attinse a tutte le possibili ipotesi genealogiche creando un modello eclettico
e duttile di ideologia politica. L’attenzione all’Oriente e alle radici misteriose della
cultura occidentale catalizza lo sforzo di fondazione mitica: l’apologia di un’età
dell’oro pre-ellenica e orientale, si avvicenda ad una netta pregiudiziale
evoluzionistica per la quale l’occidente rappresenta l’ascesa dell’umanità sullo stadio
eterico originario, alternandosi uno sguardo sul passato nell’attesa di un suo risorgere
(Klages) ed uno sguardo sul passato per sancire la legittimità di un futuro da
preparare pedagogicamente (Baeumler).
Una importante battaglia contro il nazionalsocialismo si combatte allora sul terreno
di una sottrazione della tradizione, e in particolare della mitologia, alla pericolosa
388 P. Lacoue-Labarthe; J.L. Nancy, Il mito nazi, Il Melangolo 1992, pag. 40 Distante da questa posizione sembra essere Bataille che vede nella “ostilità del fascismo alle divinità ctonie, agli dei della terra, ciò che meglio lo situa nel mondo psicologico o mitologico”. G. Bataille, La congiura sacra, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 22 nota 18; Nello stesso testo Bataille evidenzia il carattere igienico e pedagogico della religione nazionalistica, invalidando così la vulgata di un nazionalsocialismo dal fondo estatico sprofondato nel ctonio, nel culto della Madre studiato da Bachofen.389 G.L.Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Bari 1995,pag.172
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manipolazione ideologica dell’ossessione mitico-identitaria della germania
hitleriana; in quest’intenzione vanno letti gli sforzi di denazificazione di Nietzsche da
parte di Bataille e la salvazione di Bachofen da parte di Benjamin390.
Con l’eredità della tradizione ottocentesca tedesca è qui in gioco la possibilità ultima
di una difesa della comunità della scrittura: preservare il pensiero significa tenere
lontano dalla filosofia, dalla produzione libera di concetti, l’ombra oscura della
manipolazione ideologica.
Nell’appropriazione nazionalsocialista dell’intera tradizione tedesca si scopre il
pericolo di una radicale politicizzazione dell’esistenza, non nel senso augurato da
Benjamin, bensì nella prospettiva catastrofica di una biopolitica foucaltiana, di uno
sprofondare della vita (zoé) nella violenza dei rapporti di potere.
Nel 1935 in piena Bachofen-Renaissance baeumlerian, Benjamin scrive allora per la
N.R.F. un saggio sul filologo svizzero, (poi rifiutato e pubblicato postumo solo nel
1954). L’intento polemico si sviluppa dalla volontà di sottrarre all’ideologia nazista
l’autenticità di un pensiero e allo stesso tempo utilizzare strategicamente
quest’ultimo nella direzione di un suo positivo superamento dialettico.
“Punto capitale e fondamento della profezia di Bachofen è per Benjamin, l’esperienza del mito e del
simbolo quali componenti essenziali del linguaggio umano che, se recuperate, se colte nella loro
vitalità e nella loro dinamica, consentono una spettrografia non tanto del passato, quanto del presente.
Componendo una morfologia della storia primordiale in cui entrano in crisi l’istituto della famiglia e
quello della proprietà così come erano presenti nella sua società borghese, Bachofen avrebbe letto con
pessimismo profetico lo spettro di quella sua stessa società.”391
390 Per quanto riguarda la Riparazione a Nietzsche vedi G. Bataille, Nietzsche et les fascistes, in Acéphale, n. 2, 21 gennaio 1937 e W. Benjamin, Nietzsche und das Archiv seiner Schwester, in Die literarische Welt, n.18, marzo 1932 (GS III, p.323-26)391 F. Jesi, Introduzione a J.J. Bachofen, Il Matriarcato, Einaudio, Torino 19??, pag. XXII. Più avanti nell’introduzione Jesi, pur ribadendo che “il saggio di Benjamin su Bachofen è probabilmente il contributo più intelligente della bibliografia bachofeniana in assoluto”, critica Benjamin per aver voluto, con uno stravolgimento in senso profetico e progressista del borghese Bachofen, salvarlo da se stesso.
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Come Bataille nell’ottica surfascista combatte il fascismo all’interno della filosofia
di Nietzsche392, utilizzando quest’ultima per scardinare le sicurezze illusorie
dell’ideologia democratico capitalistica, così Benjamin sottrae all’influenza nefasta
di Baeumler il Mutterrecht bachofeniano opponendolo alla contingenza delle attuali
borghesie europee.
Muovendosi stretto nelle maglie di uno scontro ideologico, Benjamin vede in
Bachofen un maestro di metodo nell’analisi del simbolo e del mito, nel dialettizzare
cioè il rapporto tra natura e cultura (storia), al di là di ogni ipostatizzazione
archetipica della prima e di ogni apologia del progresso storico come dominio
realizzato dell’uomo sulla natura.
Una dialettica volta a sopprimere la sterile antitesi in cui rimane impigliato il
pensiero occidentale metafisico tra mito e Logos, natura e cultura, sarà quindi volta a
pensare i poli della contraddizione in simultanea presenza nella temporalità storica in
cui siamo inseriti.
La distinzione tra mito e storia, tra un tempo mitico e un tempo storico, teorizzata da
Baeumler sulla scorta dell’opera di Bachofen, è il nemico nascosto tra le righe del
saggio benjaminiano. La separazione baeumleriana storia-mito, che annulla qualsiasi
capacità mitica dell’umanità in tempo storico, rappresenta un’estremizzazione del
principio evoluzionistico contenuto nella filosofia della storia idealistica; Baeumler
sancisce così definitivamente l’unididirezionalità di una filosofia della storia che
imprigiona la dialettica natura-cultura tra la possibilità di un ritorno nostalgico verso
l’originario e la fiumana inarrestabile delle magnifiche sorti progressive.
Irrazionalismo e recupero del mito sono invece in Benjamin le immagini dialettiche
in cui rintracciare le tracce di Urgeschichte, poiché “nel sogno in virtù del quale ogni 392 Nietzsche è nelle riflessioni quasi fideistiche di Bataille, il pensatore senza patria della lacerazione, del tragico dionisiaco, della sovranità acefale e inoperosa, al contrario del teorico antiborghese della volontà di dominio e della razza che compare negli scritti di Baeumler e Rosenberg. L’incapacità di farsi utilizzare da qualsivoglia ideologia, l’impossibilità stessa di essere adattato ad una volontà politica di asservimento è, agli occhi di Bataille, l’eroica qualità negatrice di Nietzsche: “L’insegnamento di Nietzsche elabora la fede della setta o dell’ordine la cui volontà dominatrice farà libero il destino umano, strappandolo tanto dall’asservimento razionale alla produzione quanto dall’asservimento irrazionale al passato” G. Bataille, La congiura sacra, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 29
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epoca si raffigura in immagini l’epoca successiva, quest’ultima appare fatta anche di
elementi costitutivi della storia primordiale (Urgeschichte)”.393
La irratio da dialettizzare e decifrare, risiede nel carattere arcaico, mitologico, nella
qualità di sepolto che eccede la misura, di un passato che non è ancora passato. Da
qui il compito eminentemente politico del recupero dell’arcaico nelle rovine del
moderno.
Non solo la storia non si è mai staccata, per Bachofen, dalla dimensione simbolico-
mitica che l’ha generata, ma anzi questa ne ha già per così dire improntato destino e
percorso. Tale dialettica si compie nella morte, come puro silenzio della natura priva
di un incontro con il linguaggio umano o come momento dissolutivo della cultura, in
cui le rovine per i romantici si abbandonavano al muto paesaggio della natura:
“Si può dire che la morte è stata per lui (per Bachofen) la chiave di ogni conoscenza, conciliando i
principi opposti nel movimento dialettico. Così egli diventa il mediatore prudente tra storia e natura:
ciò che è stato storico con la morte ricade finalmente nel dominio della natura, ciò che è stato naturale
con la morte ricade nel dominio della storia”.394
Il simbolo riposante in se stesso si polarizza nella narrazione mitica, nella specifica
lettura che lo attualizza in una detrminata cultura storica. In questa condizione della
mitologia come impossibilità di una sopravvivenza del simbolico nel moderno
risiede forse l’insegnamento di metodo che Bachofen lascia a Benjamin.
A questo punto si può parlare di una fenomenologia del mito in Benjamin tanto
quanto in Caillois, per cui all’inappropriabilità storica di un fondo simbolico della
cultura, si sostituisce lo sforzo analitico di rendere dinamico l’ambito mitologico,
condurlo in una dimensione materialistica non archetipica. Se in questa tensione
speculativa Caillois vede però la possibilità tutta positiva (come espresso in
precedenza, con le debite precauzioni) di un ricomparire di forze energetiche assopite
nell’impersonalità radicale dell’esperienza moderna, Benjamin avverte in questo
393 W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi,Torino 2000394 W. Benjamin, Il viaggiatore solitario e il flâneur, Il melangolo, Genova 1998, pag. 43
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progetto il pericolo insito nel mito stesso, nella ripresentabilità nell’attuale, dei
mitologemi più arcaici, eterici.
Se infatti da una parte lo stadio del matriarcato rappresenta per Benjamin il “legame
ancora intatto fra natura, uomo e cosmo, il rispetto delle leggi primarie della vita, un
equilibrio perfetto fra l’anelito al soprannaturale, espresso e custodito nei Misteri
agrari, e l’eguaglianza degli uomini sulla terra, tutti ricompresi sotto l’unica legge
della nascita e discendenza per madre,”395esso contiene ancora in se gli elementi della
violenza originaria dello stadio eterico che continueranno ad affermarsi con
l’avvento del dominio patriarcale (il capitale) e della tecnica capitalistica. Le
antinomie della società capitalista industriale e “il crescendo metafisico e politico
dell’incomunicabile” sono concludendo in funzione uno dell’altra e preparano così il
terreno psichico favorevole al formarsi di pericolose e degenerate forme di potere.
Il cammino indicatoci è allora quello più compromettente: permanere in bilico,
lontani da ogni ipostatizzazione ideologica e da ogni apologia di valori positivi, nel
sottile equilibrio di una strategia ambigua, esposta all’altro, dove i tanti risvegli,
piccoli e minuti frammenti di comprensione, si compiono nello spazio del nemico,
nell’oscurità del sonno della ragione.
Si tratta quindi di non fare del mito una caduta dalla condizione umana di razionalità
assoluta, un semplice elemento perturbante da occultare come un’indomabile “forza
che investe la sensibilità”396, bensì “bonificare i territori su cui finora è cresciuta solo
la follia. Penetrarvi con l’ascia affilata della ragione, senza guardare né a destra né a
sinistra, per non cadere preda dell’orrore che adesca dal fondo della foresta. Ogni
terreno ha dovuto, una volta, essere dissodato dalla ragione, ripulito dalla sterpaglia
della follia e del mito.”397
395 G. Moretti (a cura di), Dal simbolo al mito, Spirali edizioni, Milano 1983, pag. 50396 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 18397W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi,Torino 2000, pag. 510 (N 1,4)
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Parte terza
L’utopia immaginale
I. Prolegomeni ad una tradizione del Bidraum
Il fantasma è propriamente que che appare tra la veglia e il sogno profondo, come si suol dire tra le prime nebbie del sogno, ove colui che comincia ad addormentarsi crede ancora di essere sveglio e
percepisce allora forme anormali per grandezza o aspetto e vortici di oggetti diversi sia piacevoli che gradevoli che gli si scagliano contro di lui o vengono qua e là.
Macrobio
Ogni pensiero va insieme a fantasmi, a meno che non sia esso stesso una concatenazione di fantasmi.
Aristotele
Se nella definizione sulla natura del sogno398, il termine continuità può essere riferito
sia alla dimostrazione cartesiana di una memoria del vissuto rispetto ad un oblio del
sognato, sia, al contrario, all’indiscernibilità del confine tra vita onirica e veglia, in
entrambi i casi viene espressa l’erronea convizione di un possibilità di sviluppo
lineare tra i due livelli di esistenza. Da una parte si esclude che proprio nella 398 R. Caillois, L’incertezza dei sogni, Feltrinelli, Milano 1983, pag. 73
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continuità della coscienza il sogno possa entrare a far parte dei condizionamenti del
diurno, dall’altra l’abbandonarsi indiscriminatamente alla logica del sogno conduce,
quando non a generare mostri, ad avviluppare la riflessione all’infinito su se stessa.
Accanto al rifiuto del sogno e di ogni ebbrezza a questo collegata in campo
scientifico, la volontaria confusione tra il piano della veglia e quello del sogno si è
diffusa nelle arti come topos poetico della postmodernità (proprio in questo la nostra
riflessione estetica sullo statuto ontologico del reale sembra risentire oggi della
nozione surrealistica di immagine). La moltiplicazione di piani indifferenti uno
all’altro nella loro pretesa di assoluta verità segna la fine di ogni riflessione sulle
caratteristiche di produzione immaginaria della nostra epoca. La definizione di uno
stato di cose virtuale se non continuamente ricondotto al carattere del suo essere
oggetto tecnico, e quindi non autonomo, apre ad una doppia reazione collettiva.
In un mondo dell’assoluto nichilismo completamente derealizzato, il rapporto con la
realtà si risolve in un gioco prospettico dei piani e la mente, nella consapevolezza
dell’artificio e nella ludica dissoluzione infinita di un soggetto sempre più legato alla
propria identità, gode del piacere concessogli dalla sterile ricerca di un piano di realtà
“vera”. In parallelo nella produzione di realtà si introducono meccanismi fideistici e
di costruzione collettiva dell’opinione, in cui è sempre più difficile distinguere il
virtuale dal reale anche nelle quotidiane prese di posizione rispetto agli avvenimenti
che politicamente ci determinano. Da una parte la vertiginosa e nichilistica
produzione di piani diversi di realtà si compone in una logica ludica in cui è solo il
piacere estetico a comandare il gioco e ogni compromissione dell’identità del
soggetto è negata, dall’altra la capacità decisionale dello stesso soggetto è catturata in
una spirale di oggettivismo assoluto in cui tutto si compone, le domande e le risposte,
l’opinione e la sua possibilità di verificazione, l’immagine del mondo e le modalità
politiche con cui agire in esso. Se è l’influenza della produzione surrealistica a
segnare in maggior misura il nostro rapporto con il virtuale e l’onirico, si può dire
con Caillois399 che nei processi immaginari collettivi la tradizione del surrealismo si è
sedimentata solo nei suoi momenti arbitrari e creativamente estetici. Il sogno
399 R. Caillois, Images, Images…, José Corti, Paris 1966, pp.61-125
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![Page 166: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/166.jpg)
surrealista come istanza derealizzante e porta sul meraviglioso400 annulla ogni
possibilità politica della vita onirica e rimane imprigionato nel circolo mitico in cui si
perdono le ragioni storiche e collettive del sognare.
Allora è proprio la continuità, tanto nell’accezione di passaggio tra sogno e veglia
quanto giustificazione interna alla veglia stessa, che si deve risolvere nel movimento
discontinuo di un risveglio, costellazione che non rinuncia alla dialettica tra i due
momenti componendosi sempre in nuove immagini, immagini oniriche interpretate
non nella loro nudità fascinantrice e coercitiva ma nella dimensione della produzione
storica. Se Benjamin corregge Aragon e i surrealisti, prigionieri del labirinto onirico,
con Proust, il risveglio diviene la svolta copernicana che permette di collegare
l’elemento sociale all’elemento individuale, le ragioni storiche della produzione di
merci alle ragioni personali dell’esperienza-infanzia. Il movimento discontinuo della
dialettica della reminiscenza sogno-risveglio, spezza il rigido confine tra vita diurna
e vita onirica, tra complessi simbolici e produzione materiale, nella direzione di una
soglia epistemologica che non confonda i piani risolvendo così tutto in una
dimensione mitologica, ma nel preservare la forma dell’arcaico universo simbolico
nell’espressione dell’adesso della conoscibilità.
La vera e propria giravolta dialettica della coscienza del condannato a morte che si
vede decapitato, allo stesso modo del sognante che si vede sognato401, composta nel
dipinto e nella relativa didascalia del Pensées et visions d’une tete coupée di
Wiertz402, è lo stesso movimento compiuto dallo storico materialista nel risveglio dai
400 “Ecco perché sbagliavano quegli scrittori che, entusiasti del sogno proprio a causa del suo aspetto fantastico e incoerente, si erano messi a raccontare i loro sogni in una rubrica speciale della Révolution surréaliste. Essi, di proposito, mettevano l’accento sul alto meraviglioso, seguendo i precetti di una dottrina ch imponeva loro da una parte di andare alla ricerca del sogno e della fantasia più stravaganti, dall’altra di contrapporre il più possibile il sogno alla logica e alla realtà”. R. Caillois, L’incertezza dei sogni, Feltrinelli, Milano 1983, pag. 102401 Sul problema labirintico dello sdoppiamento dell’io sognante e dell’io sognato vedi R. Caillois, L’incertezza dei sogni, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 88-98 402 “Sul dipinto di Wiertz Pensées et visions d’une tete coupée e sulla sua spiegazione. Ciò che inanzitutto colpisce in questa experience magnetopatica è la grandiosa giravolta che la coscienza esegue nella morte. «Chose singuliére! La tête est ici, sous l’échafaud, et elle croit se trouver encore au-dessus, faisant partie du corps et attendant toujours le coup qui doit la séparer du tronc». C’è in Wiertz la stessa ispirazione che dettò a Bierce lo straordinario racconto dell’impiccagione del ribelle. Questo ribelle vive, nell’attimo della morte, la fuga che lo salva dai suoi carnefici.” W. Benjamin, I passages di Parigi, pag. 438 (K 2a,2) Il brano di Wiertz è citato da Benjamin per esteso in Id., Ombre
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![Page 167: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/167.jpg)
sogni dell’inconscio collettivo. Si può osservare il medesimo funambolismo della
coscienza compiuto da Bataille nella concezione di comunità come vita vissuta
all’altezza della morte o in Bachofen, nella conciliazione dialettica nella morte di
natura e storia.
Condurre la rigida istanza identitaria del soggetto nella dimensione della sua
dissoluzione, sogno o morte, ebbrezza o percezione paranoica403, è il tratto comune di
un pensiero che rivolta se stesso, di una speculazione che rifiuta la sovranità di un
cogito ordinatore del cosmo, esaltando la sensazionale scoperta, come nel rovesciarsi
del calzino benjaminiano, che forma e contenuto, soggetto e realtà sono infine la
stessa cosa.
Se la curvatura anamestetica del pensiero benjaminiano è assente in Caillois, per
entrambi appare comunque necessario coniugare dialetticamante, nell’alveo di una
riformata dimensione naturale, il momento simbolico con quello politico
L’impossibilità in cui si dibatte il filosofo cinese Tchouang-tseu, nel momento della
decisione se essere un filosofo che ha sognato di essere una farfalla, o una farfalla
che sta sognando di essere un filosofo404, disegna metaforicamente in Caillois la
reciproca integrazione di natura e tecnica all’interno dell’universo simbolico del
sogno; allora assumendo il giudizio di Adorno, “Caillois non risolve i miti
nell’immanenza coscienziale, non li appiattisce con la simbologia, ma mira alla loro
realtà”405, alla loro diretta relazione dialettica con la sfera naturale e sociale.
Allora forse risiede qui l’immensa portata rivoluzionaria della dialettica
benjaminiana del risveglio,
corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 306403 “La morte non deve mai essere intesa come l’evento reale d’un soggetto o d’un corpo, ma come una forma – eventualmente quella di una rapporto sociale – in cui si perde la determinazione del soggetto e del valore. È l’obbligo di reversibilità che mette fine nello stesso tempo alla determinazione e all’indeterminazione. Esso mette fine alle energie legate nelle opposizioni regolate, e assomiglia in questo alle teorie dei flussi e delle intensità, libidiche o schizofreniche. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002, pag. 15, nota 2404 Apologo cinese riportato da R. Caillois, Images, Images…, José Corti, Paris 1966, pag. 119405Lettera di Adorno a Benjamin del 22 settembre 1937 a proposito del saggio sulla mantide religiosa di Caillois, citata in F. Desideri, L’enigma della cosa e il feticismo dell’apparenza, in Id. Il fantasma dell’opera, Il melangolo, Genova 2002, pg. 121 e più avanti citata nella sua quasi completezza.
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![Page 168: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/168.jpg)
“ la frantumazione dell’estetico, la congiunzione con la dimensione fisiologico-animale dell’umano da
un lato e quella del politico dall’altro. In che cosa consiste d’altronde la congiunzione fra la
dimensione umana e quella animale? Nell’attaccamento al mondo del sogno”406.
Uscire dalla sterile antitesi di logica e assenza di logica, razionalismo e
irrazionalismo significa cogliere l’urgenza del risveglio conducendo, come
nell’incipit della Recherce proustiana, nella veglia gli elementi perturbanti del sogno,
portare alla superfice un sapere non-ancora-cosciente preservandolo da ogni
intenzione ermeneutica rozzamente illuministica.
La costruzione di una geografia impolitica della zona ambigua della soglia,
prospettiva inversa del confine che non è separazione ma simultaneità, compresenza
di elementi discontinui, percorre questo luogo in cui faticosamente si insegue il
fantasma comunitario della diversità nell’identico; luogo dove l’immagine è
incorporata nell’azione e ogni intenzionalità bandita, e “in cui il materialismo
politico e la creatura fisica si dividono tra loro l’uomo interiore, la psiche, l’individuo
(o che altro vogliamo rimproverare loro) secondo giustizia dialettica, in modo che
neanche un membro rimane intero”407.
Definire però questo luogo come utopico significa ideologizzarne la portata
rivoluzionaria, relegare nell’impossibilità la virtualità di un’utopia quotidianamente
inverantesi nei gesti di una comunicazione (nel senso batagliano del termine), forse
più vicina alla definizione foucaltiana di eterotopia che alle meravigliose città del
sole derealizzate e derealizzanti, custodite nelle metafore morali del potere.
Nelle loro lontananze che li fanno prossimi, il Bildraum benjaminiano, il mundus
imaginalis di Corbin, l’ochema di Giamblico e Sinesio, il currus subtilis in Ficino e
lo spiritus phantasticus in Bruno, la Schechina, ultima delle dieci Sephiroth della
cabala ebraica, sono le stazioni di un pensiero esoterico che, nascosto nelle pieghe
della filosofia monumentale, possono far luce sulle misteriose parole benjaminiane
del saggio sul surrealismo, e della loro inspiegabile prossimità all’opera di Roger
Caillois. Il tentativo di esplicitare la genealogia della nozione di Bildraum significa
406W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 271407 W. Benjamin, Il surrealismo, in Id. Avanguardia e Rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, pag. 25
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allora costruire la base per una definizione essoterica del materialismo antropologico
benjaminiano.
Non vi è forma senza materia, questo è l’assioma che deriva dalla tradizione
dell’immaginale; in questo è implicita una materia assoluta dotata di estensione ma
non legata alla realtà fisica concreta. Una sostanza definita in potenza, ma solo come
virtualità d’azione contenuta nella concretezza della contingenza materiale, è il luogo
utopico in questione, meta del “viaggiatore straniero denominato Spirito”.408
Concepire una zona intermedia tra la res extensa e la res cogitans cartesiane è infatti
l’obbiettivo di una lunga tradizione che dalle forme primitive di animismo, si
perpetua nella nozione stoica di voce, nell’interpretazione mistico-esoterica della
filosofia aristotelica di Al-Farabi e Avicenna, in un certo neoplatonismo tardo
rinascimentale (Bruno), sino alla mistica di Swedenborg, la durée bergsoniana e gli
studi lacaniani sulla paranoia409.
Il riferimento all’affettività, alla sfera a-intenzionale della memoria, del sogno e del
gioco, è ciò che distingue la posizione di Benjamin e che lo mette in relazione con
Caillois, nella dimensione di continuità di biologico, sociale e mentale. Abbiamo
visto come il luogo privilegiato dell’ambiguità dell’impolitico sia quello
dell’affettività degli impulsi, dell’operare in comune nella reciprocità della propria
finitudine: in questo la teoria benjaminiana del gioco e quella della festa di Caillois
segnano la necessaria continuità tra il corporeo, l’animal-craturale, e l’inconscio
collettivo.
Con le parole di Deleuze potremmo definire la zona del Bildraum il divenire-animale
della produzione archetipica collettiva:
408 Sul tema metaforico del viaggio alla terra di Hurqalya, il mundus imaginalis, vedi H. Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano 1986, pag. 162409 Nella prima meta del XX secolo molti sono gli esempi poetico-estetici del paradigma immaginale: accanto alla memoire involontaire proustiana in letteratura, nelle arti figurative si hanno il metodo paranoico-critico di Dalì, l’anatomia dell’immagine nelle dissezioni delle bambole di Hans Bellmer e la produzione figurale in Francis Bacon. Per una breve bibliografia vedi S. Dalì, Il mito tragico dell’Angelus di Millet, Abscondita 2000; H. Bellmer, Anatomia dell’immagine, Adelphi 2001; G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet 1997
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“Non si tratta di un adattamento dell’uomo alla bestia, né una zona d’indiscernibilità più profonda di
qualsiasi identificazione sentimentale: l’uomo che soffre è bestia, la bestia che soffre è uomo. È questa
la realtà del divenire. Quale uomo, rivoluzionario in arte, in politica, in religione o in qualsiasi altro
campo, non è arrivato al punto estremo di sentirsi null’altro che una bestia, divenendo così
responsabile, non dei vitelli che muoiono, ma davanti ai vitelli che muoiono?”410
Sentire il dramma delle creature come di ogni cosa inanimata, la lotta contro il
veleno del popolo dei ratti nelle cantine di Lord Chayndos o il gridare lacerante e
disperato del porco sgozzato e appeso dal padre di Sigismund411, è lo stigma della
responsabilità di chi ha esperienza della naturalità indistinta e informe del proprio
essere creatura.
Non è qui in discussione la somiglianza dell’uomo con l’animale, astratta percezione
dell’originarietà del vincolo, bensì una condizione concreta di simpatia, di
comunicazione, al di là di ogni teoria idealistica del linguaggio e del fatto di
coscienza. Nel segno di una negatività, di un difetto, si realizza il dialogo tra l’uomo
e l’animale, con l’allentamento dell’io nello spazio aperto della sofferenza in
comune, dall’irrappresentabile comunità del dolore.
Il nome come essenza ideale propria del solo animale razionale reca con sé la frattura
irreparabile in seno alla natura, l’instaurarsi di una dialettica di dominio: il vero
peccato originale che fonda la società umana come esercizio del potere è il pensare
l’assenza del nome o della parola come privazione, grado inferiore d’essere.
La stessa sentenza che la razionalità diurna decreta nei confronti della vita onirica,
relegata dall’assenza del giudizio come discorso significante, nel non sense di
un’esperienza derealizzata.
Ma tale assenza è vera solo nell’astrazione di una lingua non più originale, il nome
non può assentarsi dalla cosa cui appartiene e viceversa.
410 G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet 1997, pag. 58411 “Ti ricordi ancora il maiale che il padre ha ammazzato, gridava così forte e io gridavo con lui.(…) Era quell’anima, quella che è fuggita da lui con quel grido così orrendo? E in compenso la mia anima è entrata nella bestia morta? H. von Hoffmannsthal, La torre, Adelphi, Milano 1993
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“L’origine dell’astrazione come facoltà dello spirito linguistico va cercata nel peccato originale (…)
Questa immediatezza nella comunicazione dell’astrazione ha preso la forma del giudizio, quando
l’uomo abbandonò, nella caduta l’immediatezza nella comunicazione del concreto, il nome, e cadde
nell’abisso della mediatezza di ogni comunicazione, della parola come mezzo, della parola vana,
nell’abisso della ciarla.”412
Il giudizio è ciò che appartiene all’uomo e solo a lui; la composizione del giudizio
secondo una gerarchia interna volta a coordinarne le parti è necessaria mediatezza
dell’ordine del significante e oblio della materialità immediata del nome.
All’asservimento del nome nel giudizio è speculare l’asservimento del corpo
all’intelletto, della natura all’uomo413.
L’animale come ente privo di parola è definito metafisicamente pura corporeità e
istintualità; così nella tradizione cartesiana dell’animale-macchina e nella pratica
moderna umanistica, insieme alla parola gli animali (necessario il plurale, come ci
ricorda Derrida) vengono privati della possibilità di risposta414; viceversa la
dimensione umana si intellettualizza connotandosi come essere razionale dotato di
linguaggio, coscienza, e quindi anima.
Sulla scorta delle analisi linguistiche di Benveniste, allievo di Meillet alle cui lezioni
assistette anche Caillois, che conciliano in una dimensione comparativa mito e
linguaggio, e sulla teorizzazione di un valore cognitivo intermedio
dell’immaginazione, Caillois penserà come un’unità indiscernibile il linguaggio e la
materia, l’azione della e sulla realtà esterna e le funzioni affabulatorie dell’uomo415.
412 W. Benjamin, Sulla lingua degli uomini e in generale, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag. 67413 “L’universalità delle idee, sviluppata dalla logica discorsiva, il dominio nella sfera del concetto, si eleva sulla base del dominio reale”. T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, pag. 23414A questo proposito Derrida cerca di decostruire, in dialogo con i testi di Lacan, la classica distinzione di origine cartesiana tra reazione e risposta e quindi tra animale e uomo, spostando il luogo di conflitto all’interno dell’umanità stessa. Nelle analisi dei fenomeni di automatismo psichico condotti da Janet, in piena sintonia con i surrealisti, e proseguiti con altri risultati da Caillois, si preannuncia la dimensione di continuità tra psicologia animale e psicologia umana su cui Derrida incentra la sua riflessione. J.Derrida, E se l’animale rispondesse, in Aut Aut, 310-311, luglio-ottobre 2002, pp.4-26415Famosa la perentoria affermazione con cui Caillois recupera, radicalizzandone il materialismo implicito, la distinzione bergsoniana tra istinto reale (animale) e istinto virtuale (affabulazione dell’uomo): “Qui un comportamento, là una mitologia”.R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati
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Contro ogni possibilità di innatismo linguistico, l’azione della corporeità percipiente
è determinata, spesso per fascinazione emozionale, dalla materialità dei refenti
esterni, per cui, come nell’ammutolire della natura, “contrariamente a quanto
affermato da un’antica tradizione, l’uomo non è, da questo punto di vista, l’animale
che ha il linguaggio, ma piuttosto, l’animale che ne è privo e deve perciò, riceverlo
da fuori”416.
L’immaterialità della parola e la condizione trascendente della coscienza, al pari di
un biologismo linguistico e delle teorie forti delle neuroscienze, perdono di vista la
continuità tra biologico e linguistico, il fatto fondamentale che “il linguaggio non è
immateriale, è corpo sottile, ma è corpo”417.
Il linguaggio è corpo, è voce, caro spiritualis fatto di flatus e vibrazioni, ma allo
stesso tempo immagine e contenuto mentale
La “doppia connessione con l’elemento animal-creaurale e con quello politico-
materialistico”418 si realizza nello spazio assolutamente immaginale della materialità
del linguaggio, come luogo antropologico che apre alla temporalità involontaria del
ricordo e degli impulsi affettivi. Il tentativo di legare l’inconscio collettivo alla
dimensione fisiologica419 e corporea sottraendolo alla mistificazione idealistica in cui
lo stesso Breton cade, accomuna Benjamin e Caillois (e in maniera più radicale
Boringhieri, Torino 1998, pag.39416 G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 2001, pag. 60417 J.Lacan, Scritti I, Einaudi,Torino 1974, pag. 294; citato in J.Derrida, E se l’animale rispondesse, in Aut Aut, 310-311, luglio-ottobre 2002, pag. 12 418W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 292 419 “Rimane un residuo. Anche il collettivo ha un corpo. Il collettivo corporeo, non la materia astratta o il cosmo, va posto alla base del materialismo”. Ibidem, pag. 293
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l’eterologia batagliana) e si colloca nel solco di una tradizione che abbiamo chiamato
sulla scorta di Henri Corbin420, immaginale421.
Se il Bildraum è un luogo, esso avrà anche una sua topografia e sarà possibile
tracciarne una mappa in cui far affiorare le differenze che segnano le
rappresentazioni storicamente determinate di quella che Corbin definisce una
topografia delle esperienze visionarie (ove per visionario si intende con lo stesso
Corbin, lo stato intermedio tra la veglia e il sogno).
Tale luogo è definito dal misticismo platonico persiano in diversi modi, ottavo clima,
Malakût o mondo soprasensibile delle anime, terra di Hurqalya, nomi che vengono
tradotti e riassunti nel neologismo latino di mundus imaginalis.
Ciò che contraddistingue questa dimensione è la posizione intermedia tra il mondo
sensibile dei fenomeni e quello delle pure Intelligenze arcangeliche:
“Quanto alla funzione del mundus imaginalis e delle forme immaginali, essa è definita dalla loro
posizione mediana e mediatrice tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile. Per un verso
dematerializza le Forme sensibili, per l’altro immaginalizza le Forme intelligibili a cui dà figura e
dimensione. Il mondo immaginale per un verso simboleggia con le Forme sensibili, per l’altro con le
Forme intelligibili. È tale posizione mediana che subito impone alla potenza immaginativa una
disciplina impensabile là dove essa è degradata a fantasia, che emette soltanto dell’immaginario,
dell’irreale, ed è capace di ogni intemperanza.”422
420 Filosofo e studioso islamista, primo traduttore francese dell’opera di Heidegger, del quale fece conoscere alla filosofia francese i primi risultati fenomenologici (a quanto pare sembra che nel 1929 Corbin propose a Jean Paulhan, a nome di Bataille, una traduzione di Was ist Metaphysik? in un primo tempo rifiutata e successivamente pubblicata sulla rivista Bifur nel n. 8 del giugno 1931, dove plausibilmente fu letta da un giovanissimo Caillois). Da alcune lettere appare certo che nel 1952 Caillois conoscesse già Corbin con il quale intrattiene rapporti amichevoli sicuramente fino al 1967, anno in cui da una loro collaborazione (a cui partecipò anche Mircea Eliade) nasce uno studio sul sogno. L’opera principale con cui Corbin delinea il concetto di mundus imaginalis nel platonismo persiano del XII secolo, è Corpo spirituale e terra celeste che risale nella sua prima edizione, apparsa con un altro titolo, al 1960: è supponibile che vi sia stata allora una reciproca influenza su queste tematiche tra l’islamista e Caillois.421 Centrale a proposito della traduzione del Bildraum benjaminiano con il termine immaginale, è il saggio di F. Masini, Dialettica dell’ebbrezza, in Tempo, storia, Linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 17-33422 H. Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano 1986, pag. 16
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Lasciando a ulteriori sviluppi la conclusione del frammento dove compare in nuce la
distinzione di Caillois tra fantastico e meraviglioso423 e che costituisce il fondamento
per un discorso sul carattere estetico e finzionale della relazione uomo-immagine
nella società del feticismo spettacolare, la collocazione mediana delle forme
immaginali fornisce le coordinate per definire il mundus imaginalis come
spazialmente ubiquo e temporalmente multiverso.
Come nelle condizioni della durée bergsoniana in cui l’eterogeneità pura di “una
successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, si penetrano, senza contorni
precisi, senza alcuna tendenza ad esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri424, è
commisurata alla progressione simultanea di stati emotivi interni, così “tutte le
progressioni nel mondo spirituale (mundus imaginalis) vengono effettuate grazie a
cambiamenti degli stati interiori”425.
Lo spazio si articola secondo la forza del desiderio e il tempo omogeneo deflagra
nella simultaneità multiversa in cui la dimensione del passato è eternamente
incompiuta e aperta a nuovi cominciamenti:
“tutti i nostri atti di comprendere sono altrettanti ricominciamenti, iterazioni di accadimenti sempre
incompiuti. (…) Crediamo di contemplare qualcosa di passato e di immutabile, mentre consumiamo il
nostro proprio futuro. (…) la sottostante metafisica è quella di un incessante ricorso della Creazione
(tajaddod); non è una metafisica né dell’ens né dell’esse, ma dell’Esto, dell’essere all’imperativo”426.
L’ingresso nelle stanze del passato è incessantemente legato allo Jetzeit, alla
consapevolezza della “debole forza messianica” che è concessa al nostro presente e a
cui il passato ha diritto. L’incessante ricorso alla creazione è la situazione di
423 Il luogo del fantastico è in Caillois una zona di tensione di due termini antitetici, reale-irreale, razionale-irrazionale, naturale-innaturale, nelle circostanze di una rottura dell’equilibrio. Quindi in decisa opposizione alla separazione cartesiana di fantasia ed esperienza che volge il fantastico nell’irrealtà del meraviglioso e l’immaginazione sul modello derealizzante della fantasia. R. Caillois, Nel cuore del fantastico, Feltrinelli 1984
424 H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Cortina editore, Milano 2002425 H. Corbin, Mundus imaginalis o l’immaginario e l’immaginale, in Aut Aut 258, 1993, pag. 124. Si riporta un frammento di Swedenborg, messo in relazione con le visioni di Sohrawardi, mistico platonico persiano del XII secolo.426 H. Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano 1986, pag. 31
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un’umanità redenta dove “il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi
momenti” e la metafisica immaginale dell’Esto è la chance rivoluzionaria contenuta
in una temporalità, che nella rammemorazione diviene azione, imperativo politico.
Se nella teosofia persiana del XII secolo la città di Hurqalya, luogo mistico sede
della gerarchia angelica intermedia degli Angeli caelestes, rappresenta il passato
come incessante ricorso alla creazione, come necessità redentiva di trovare un
compimento ad atti incompiuti, siamo allora prossimi all’angelologia di quella
leggenda talmudica più volte riferita da Benjamin dove gli angeli, “nuovi ogni attimo
in schiere innumerevoli, vengono creati per cessare di esistere e dissolversi nel nulla,
non appena abbiano cantato il loro inno a Dio”427
La storia immaginale porta le tracce di un’eterna attualità, al di là dei falsi
dualismi428, materia-spirito, intelletto-corpo, mito-storia:
“il mondo di Hurqalya non è il luogo della storia né del mito nel significato corrente di queste parole.
(…) Il mundus imaginalis è il luogo della sua propria storia immaginale (né mito né allegoria), che ha
per scena la sua geografia e la sua topografia immaginale.”429
La città di Hurqalya è la terra delle visioni, il mondo in cui hanno luogo gli
accadimenti spirituali reali, ma reali di una realtà che non è quella del mondo fisico,
né quella che registra la cronaca e con cui si fa storia, poiché qui l’accadimento
trascende ogni materializzazione storica.
Il luogo dove spirito e corpo sono una cosa sola, il luogo dove lo spirito prende corpo
coma caro spiritualis, corporeità spirituale, non è percepibile con gli occhi di carne
del corpo perituro, ma con i sensi del corpo spirituale o corpo sottile.
L’ottavo clima è il mondo dell’indistinzione tra significato e significante, in cui il
corporeo si innerva immediatamente nello spazio immaginativo e l’impulso
427 W. Benjamin, GS vol. II, pag. 279, citato in G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1978428 “esiste in questa Terra di Vera Realtà, in primo luogo la coincidenza della Figura e l’infigurabile, del significante e del significato, dell’essoterico e dell’esoterico, insomma tutto ciò che fa di questa Terra di Verità un’affermazione assoluta, sciolta cioè da tutte le costrinzioni dell’impossibile” H. Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano 1986, pag. 287, nota 36429 Ibidem, pag. 98
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fisiologico si surdetermina nella produzione di “mitologia allo stato nascente, prima
che le determinazioni sociali ne abbiano consolidato la struttura”430.
Questo mondo richiede una sua propria facoltà percettiva, cioè la potenza
immaginativa, una facoltà dotata di una funzione cognitiva, di un valore noetico che
è tanto reale quanto quello della percezione sensibile e dell’intuizione intellettuale.
L’immaginazione si colloca allora, secondo la tradizione che fa capo al De anima di
Aristotele, nella zona intermedia tra intelletto e la sensibilità, nello spazio dei sensi
interni431, serie di funzioni che comincia con il senso comune per finire nella
memoria. In questa posizione intermedia tra i sensi e l’intelletto, l’immaginazione, la
cui funzione mediatrice evidenzia l’antica omologia fra fantasia e esperienza, è
l’unione di tutte le altre facoltà dell’uomo432, e consiste nella capacità di produrre
immagini, figure che non sono né mitiche né storiche433, “corpi sottili” dotati di
un’autonoma materialità. Poiché tale capacità è influenzata dalle attività organiche
che hanno luogo nel corpo fisico si ottiene qui il legame tra il puro spirito e il corpo
materiale. Sia sotto la forma di uno “pneuma” di origine stoica (e in questo da
avvicinare alla nozione di voce) sia come currus, veicolo dell’anima che mette in
430 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 24431 Come segnala Robert Klein, i sensi interni sono stati ricavati dall’esegesi di Avicenna delle diverse funzioni della phantasia aristotelica: sensus - phantasia (che comprende anche il sensus communis)- imaginatio - vis imaginativa (il giudizio) - vis aestimativa (giudizio accompagnato da reazione spontanea) - memoria; lo stesso Al-Farabi, tradizionale narratore dei mistici viaggi nelle terre di Hurqalya citato in più parti dell’opera di Corbin, sembra essere in questo un suo precursore. R. Klein, L’immaginazione come veste dell’anima in Marsilio Ficino e Giordano Bruno, in Id. La forma e l’intelligibile, Einaudi, Torino 1975, pag. 46 Non è da escludere che vi fossero relazioni tra Roger Caillois e lo studioso di origini ungheresi trasferitosi in Francia; entrambi negli stessi anni erano buoni amici e collaboravano assiduamente con lo storico dell’arte André Chastel, con cui Caillois era in contatto sin dalla giovinezza, quando vi furono tra loro profondi e testimoniati scambi di idee a proposito del demone meridiano e del fenomeno dell’acedia. Sui rapporti di Caillois con Chastel vedi André Chastel, La loyauté de l’intelligence, in A.A.V.V, Roger Caillois, Centre Georges Pompidour, Cahiers pour un temps, Paris 1981432 “Mentre nel mondo esterno vi sono cinque facoltà sensoriali, ciascuna con il suo specifico organo nel corpo, nel mondo interno esse sono sintetizzate in un’unica facoltà” Sadrâ Shîrâzî citato in H. Corbin, Mundus imaginalis o l’immaginario e l’immaginale, in Aut Aut 258, 1993, pag. 126. A proposito della forza onnicomprensiva della nozione di immaginazione, Caillois descrive così la facoltà immaginativa: “La faculté unique de vision s’exerçant, sous différentes modalités, de la perception au rêve, en passant par la représentation et l’hallucination; cadre a priori de la sensibilité; capacité de mise en images, c’est-à-dire d’aperception spatiale”. R. Caillois, Procés intellectuel de l’art, in Id Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 47, nota 2433 Prenendo naturalmente come significato di mito, la narrazione fondatrice di un passato archetipico, e di storia, la produzione spaziale di un continuum temporale di eventi in cui ascrivere il passato.
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![Page 177: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/177.jpg)
relazione il concetto con l’oggetto (Ficino), sia come sostrato e materia di cui sono
fatti i sogni (Sinesio), “l’immaginazione è una similitudine del senso, che al grado
più alto dello spirito corporeo e a quello più basso dello spirito razionale informa di
sé lo spirito corporeo e tocca quello razionale”434. La dialettica tra il corporeo e
l’immaginazione è indicativa del luogo comune rinascimentale per cui “ogni artista
dipinge se stesso”: ma se in quest’ottica raccolta da Ficino e fatta propria
dall’estetica neoplatonica di Leonardo e Vasari, l’immaginazione, “al modo di virtù
vivificante, forma da sé il proprio corpo”435, è con Bruno che si giunge a radicalizzare
la compenetrazione tra corpo e immaginazione:
“l’azione delle immagini sensibili sull’immaginazione non è paragonabile al contatto di due superfici,
in quanto lo spirito afferra le cose in un punto solo come l’occhio, ed è della natura della luce, ma una
luce che sarebbe nello stesso tempo l’oggetto che essa illumina, l’occhio che lo vede e l’attualità della
visione.”436
Mentre in Ficino l’immaginazione è attività intenzionata semplicemente riproduttiva,
e si limita a trasporre simbolicamente, come se il concetto fosse un disegno mentale
dell’oggetto, in Bruno lo spiritus phantasticus è definito in potenza, nella continuità
di percezione e rappresentazione, luce e occhio allo stesso tempo. Nella sua
concezione empirica il necessario legame con i dati sensibili inchioda
l’immaginazione all’affettività, all’intensità dell’impressione ed efficacia delle
emozioni suscitate. Come la madre per il feto, l’immaginazione è principio di
metamorfosi del corporeo e attraverso l’affettività diviene la pelle dell’anima.
La posizione di Ficino stretta nell’idea classica di rappresentazione, si oppone al
soggettivismo vitalistico di Bruno che apre alla magia e all’allegorismo tardo
434 Ugo di San Vittore citato in R. Klein, L’immaginazione come veste dell’anima in Marsilio Ficino e Giordano Bruno, in Id. La forma e l’intelligibile, Einaudi, Torino 1975, pag. 52, nota 3435 Marsilio Ficino, Theologia platonica, XIII, 4, citato in R. Klein, L’immaginazione come veste dell’anima in Marsilio Ficino e Giordano Bruno, in Id. La forma e l’intelligibile, Einaudi, Torino 1975, pag. 55, nota 1436 Ibidem, pag. 65
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![Page 178: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/178.jpg)
rinascimentale, dove per magia s’intende “il linguaggio degli affetti che si esprimono
o prendono corpo mediante l’immaginazione”437.
Le riflessioni di Ficino e Bruno ripropongono la dialettica tra immaginazione
riproduttiva e immaginazione creatrice che si ripropone nell’estetica di Caillois come
dialettica conciliatrice di elemento puro dell’arte, l’obbiettività, l’expression
mathématique de l’harmonie, ed elemento impuro, poetico-immaginativo, “ce qui
recoit de l’imagination affective une certaine capacité sponanée d’expansion, de
prolifération et d’annexion tendancieuses”438
Se da una parte Caillois ribadisce la doctrine de l’unité essentielle et de la multiciplté
phénoménale, implicita nell’ordinato cosmo di corrispondenze analogiche del
neoplatonismo di Ficino e Pico della Mirandola439, dall’altra, il progetto di prediligire
le differenze dalle identità illusorie apre la via a una teoria dell’analogia che non si
fonda più su relazioni visibili, come nel caso del Rinascimento, ma su ricorrenze
sotterranee colte nell’evidenza intuitiva della comprensione440.
L’elemento di fascinazione che presiede all’azione immaginativa in Bruno, sembra
essere lo stesso a cui sembra riferirsi Caillois quando parla di immaginazione
luciferina, che Bachelard, nel suo studio su Lautréamont, chiama con termini
elogiativi, immaginazione aggressiva.
Come in Bruno, in cui è l’ingegno, la forza della fecondità naturale a donare un senso
alle produzioni immaginative, così in Caillois le traiettorie formali
dell’immaginazione attraversano tutti i campi della natura alimentate da un principio
437 R. Klein La forma e l’intelligibile, in Id. La forma e l’intelligibile, Einaudi, Torino 1975, pag. 162438 R. Caillois, Procés intellectuel de l’art, in Id Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 44439 « Da questo principio è discesa la disciplina di tutto quanto il senso allegorico. Né hanno potuto gli antichi padri convenevolmente rappresentare certe cose con altre figure se non…conoscendo le amistà e le affinità dell’intera natura. Altrimenti non ci sarebbe alcune ragione per cui abbiamo preferito rappresentare una cosa con questa immagine, un’altra con un’altra immagine anziché il contrario. Invece tutto conoscendo e spinti dallo spirito…raffiguravamo benissimo le nature di un mondo con quelle cose che sapevano negli altri mondi corrispondere ad esse”. Pico della Mirandola, Opera, 2 voll., Basilea 1572-1573, vol. II, pag. 7; cit. in R. Klein, L’immaginazione come veste dell’anima in Marsilio Ficino e Giordano Bruno, in Id. La forma e l’intelligibile, Einaudi, Torino 1975, pag440 Su questo concetto di evidenza intuitiva che, al contrario dell’intuizione intellettuale romantica, ha in Caillois un carattere oggettivo, rimando alla prima parte del lavoro, cap. IV, pp.45-59 Per il suo momento affettivo la “comprensione” si oppone alla ”interpretazione” in quanto tendenza scientifica unitaria di sistematizzazione teorica.
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![Page 179: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/179.jpg)
dinamico contagioso, un “appétit de formes aussi grand qu’un appétit de matière”441.
La dissoluzione della purezza combinatoria del momento simbolico442 agisce in
Caillois, risolvendo il problema della significazione e della creazione di concetti, nel
dinamismo aggressivo dell’immaginazione dove “toutes les fonctions peuvent créer
des symboles, toutes les hérésies biologiques peuvent donner des fantasmes”443.
Un istante di aggressione ducassiana che coinvolge istinto e intelletto, aggressore ed
aggredito, nell’atto puro della volontà di forma, di una coerenza conquistata al di là
delle distinzioni, nella soglia epistemologica.
Lo spiritus phantasticus di Bruno (diretta filiazione dello spirito animale dalle
antiche scuole mediche) agisce secondo un dinamismo formale riflettente, la
metamorfosi del soggetto avviene in quanto oggetto della propria immaginazione.
Al contrario dell’ermeneutica di stampo psicologico che struttura sull’interpretazione
del simbolo l’analitica della capacità immaginativa, in Caillois “l’imagination serait
moins la faculté de former des images, que cette possibilité vive et agissante
déformer les données de la perception en agissant sur le temps et l’instantanéité des
liaisons déformantes”444.
Questo modello di immaginazione, nato dal confronto con i lavori contemporanei
dell’amico Bachelard445 sulla nozione di surrationalisme, oscillante tra la ricerca di 441 G. Bachelard, Lautréamont, José Corti, Paris 1986, pag. 144442 “Tutto infine forma tutto ed è da tutto formato, e poiché tutto è formato e prende figura da tutto,noi possiamo essere portati a trovare, indagare, giudicare, argomentare e ricordarci di tutto attraeverso il tutto” Bruno, Opera latina, II, 2; citato in R. Klein, L’immaginazione come veste dell’anima in Marsilio Ficino e Giordano Bruno, in Id. La forma e l’intelligibile, Einaudi, Torino 1975, pag. 72, nota 2443 G. Bachelard, Lautréamont, José Corti, Paris 1986, pag. 147444 S. Massonet, Les labyrinthes de l’imaginaire dans l’oeuvre de Roger Caillois, L’Harmattan, Paris 1998, pag. 30445Caillois conosce Bachelard nel 1934 a Praga in occasione dell’ottavo Congresso Internazionale di Filosofia. Nello stesso periodo compie un viaggio in Slovacchia e nella Russia subcarpazica in compagnia di M. Bogatyrev, etnologo del circolo linguistico di Praga e uomo vicino alle teorie linguistiche di R. Jacobson. Tornato a Parigi Caillois si metterà più volte in comunicazione con Bachelard soprattutto per l’interesse dimostrato da quest’ultimo per le teorie innovative del giovane filosofo antropologo sui processi di surdeterminazione mitica. La frequentazione e lo scambio di lettere porterà alla fondazione di un groupe d’etudes pour la phenomenologie humaine con Aragon, Monnerot e Tzara e alla rivista Inquisitions, uscita in un solo numero nel giugno del 1936. Alle sedute partecipano oltre ai fondatori, André Chastel (citato poco sopra firmerà un articolo sulla rivista del gruppo), lo studioso di Rimbaud, Ètiemble, il surrealista Georges Sadoul, Raymond Charmet.I termini elogiativi con cui Bachelard parla a Caillois sembrano indicare oltre una reciproca stima, una profonda affinità di intendimenti: “j’attends avec une réelle impatience votre livre sul La nécessitè de
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![Page 180: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/180.jpg)
una logica e una coerenza interna specifica, e il necessario scacco epistemologico
dato dall’incessante mutare dell’organizzazione dei dati, segna il progetto di Caillois
di costruire una rete fluida di immagini in cui lo stesso osservatore obbiettivo è
assorbito.La ricerca di un ordine oggettivo ed eterno come la struttura dei minerali, in
assenza di ogni punto prospettico privilegiato.
La stessa affettività dell’osservatore è in gioco, l’immaginazione aggressiva, le
surrationalisme è un’impresa totale dell’essere: “je fais une experience de physique
pour changer mon esprit”446, dice Bachelard in un evidente dialogo con Caillois, il
quale di risposta traccia le linee guida di una nuova “ortodossia”della conoscenza:
« l’édification lente et sûre d’une doctrine dont l’exactitude se situe aussi bien sur le plan de la vérité
philosophique que sur celui des satisfactions affectives et qui, en même temps qu’elle donne à chacun
la certitude de son destin, lui soit concurremment un impératif moral pour tous les conflits et la
solution technique de toutes les difficultés » .447
Ortodossia che allora si presenta come un’etica della conoscenza dal doppio e
indissolubile carattere rappresentativo ed emozionale, attività poetica (nel senso di un
poiein che è intellettuale e materiale) che è “attività” totale dello spirito (dove
paradossalmente per attività si intende, al contrario dell’osservazione oggettiva, la
contemplazione dell’accidioso, esperienza psicastenica determinata simultaneamente
dalla storia personale del soggetto, dalle rappresentazioni collettive in cui esso è
immerso, e dalle componenti inconscie, sociali e individuali).
Un’etica che, in diretta contrapposizione con la liberté d’esprit del manifesto
bretoniano, è nécessité d’esprit448, disciplina ascetica dello spirito capace di
l’Esprit. Cette nécessité est au fond de toutes mes méditations. Vous l’avez reconnu à quelques lueurs dispersées dans mes livres et vous l’exprimez dans une dédicace qui me va au coeur. Au seuil de votre belle carrière laissez-moi donc vous dire mon affectueuse sympathie et la joie que j’éprouve à trouver dans vos pages totut ci que j’aime dans la vie intellectuelle ». Lettera di Bachelard a Caillois datata Dijon, 2 novembre 1935, in H. Béhar (a cura di), Inquisitions, CNRS, Paris 1990, pag. 153446 “Si l’experience réussit, je sais qu’elle changera de fond en comble mon esprit .” G. Bachelard, Le surrationalisme, in H. Béhar (a cura di), Inquisitions, CNRS, Paris 1990, pag. 5447 R. Caillois, Pour une orthodoxie militante, in H. Béhar (a cura di), Inquisitions, CNRS, Paris 1990, pag. 14448Nell’immagine surrealista « la présence d’esprit ailleurs si utile fait place à une mystérieuse absence d’esprit, et la prétendue et illusorie liberté d’esprit ailleurs si brillante à la nécessité d’esprit
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![Page 181: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/181.jpg)
contemplare la fascinazione in volto restando padrone di sé, che sola può esplorare
“nell’uomo tutta una zona d’ombra che estende il suo impero notturno sulla maggior
parte delle reazioni della sua affettività nonchè dei procedimenti della sua
immaginazione”449.
La natura etica della conoscenza sposta la riflessione sul piano pratico annullando la
necessità di una mediazione teorica alla prassi. Se nel Bildraum la prassi non subisce
il filtro dell’artificio della produzione metaforico-ideologica,ed è immediatamente
teoria, come il gesto epico-didascalico del teatro brechtiano o il gesto animale dei
racconti di Kafka, allora l’analisi fenomenologica dell’immaginazione di Caillois,
impresa unitaria ideale, si muove nello spazio imprudente450 del paradigma
immaginale, dove la figura, al di là dell’artificiosità di una metafora morale o di una
formula poetico-retorica, è legame immediato del sociale con il substrato affettivo
dell’uomo e della natura, innervazione diretta del politico nel creaturale:
“Il carattere collettivo dell’immaginazione mitica garantisce abbastanza che essa sia di sostanza
sociale, esistendo grazie alla società e in suo favore. Certo, è questo il suo essere proprio, questa la sua
funzione specifica. Ma la sua innervazione, per così dire, è di essenza affettiva e rinvia ai conflitti
primordiali suscitati qua e là dalle leggi della vita elementare. Il mito rappresenta alla coscienza
l’immagine di un comportamento di cui essa avverte la sollecitazione”451.
Condizionamenti biologici, formazioni religiose, e strutture economiche sono
inscritte direttamente nell’uomo, così come la produzione immaginativa non ne è la
semplice rappresentazione contingente ma, nel vocabolario benjaminiano,
l’espressione, e in quello di Caillois, la surdeterminazione.
qui pardonne moins et qui connaît mieux. La pensée lyrique n’a pas droit a l’autonomie. » R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 28. Quest’opera del 1939, come Le Procès intellectuel de l’art, fu scritta da Caillois in polemica con il surrealismo e pur ricevedo una critica assai benevola da Bachelard non fu mai data alle stampe. 449 R. Caillois, Per un’attività unitaria dello spirito, in Id. Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 104450 « Dans le règne de la pensée, l’imprudence est une méthode ». G. Bachelard, Le surrationalisme, in H. Béhar (a cura di), Inquisitions, CNRS, Paris 1990, pag. 5451 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 47
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Rifiutando nella teoria marxiana della sovrastruttura ideologica il rapporto causale
tra struttura e sovrastruttura, Benjamin afferma infatti il carattere di espressione
della sovrastruttura:
“La sovrastruttura è l’espressione della struttura, Le condizioni economiche che determinano
l’esistenza della società giungono a espressione nella sovrastruttura; proprio come, nel caso del
dormiente, uno stomaco troppo pieno trova nel contenuto del sogno – benchè possa determinarlo in
senso causale- non il suo rispecchiamento ma la sua espressione. La collettività esprime inanzitutto le
proprie condizioni di vita, che trovano nel sogno la loro espressione e nel risveglio la loro
interpretazione”.452
Incubi e non sogni si addensano nella testa dell’ingordo dormiente, ma tra lo stomaco
pieno di cibo e la travagliata vita onirica non si instaura una relazione causale; un
materialismo che fosse sottoposto al principio di causalità rimarrebbe imbrigliato
nella categoria metafisica della creazione.
La sovrastruttura retroagisce sulla struttura, proprio come la rappresentazione mitica
del tabù dell’incesto, prodotta dal condizionamento biologico del pericolo di un
deterioramento della catena genetica, si ripercuote secondo dialettiche di interferenza
e di proliferazione sul tessuto sociale.
La scomposizione ontologica tra causa ed effetto cede il passo, in un autentico
materialismo, ad una prospettiva “magica”: i principi di associazione delle idee e dei
fatti agiscono secondo la legge dell’immediatezza mimetica: “il simile produce il
simile”. Il principio di contiguità e di somiglianza (simpatia mimetica) stabilisce la
relazione di identità tra gli elementi dlla struttura e quelli della sovrastruttura;
l’immagine, il mito, la teoria, non sopravviene a posteriori come un effetto del
momento strutturale, bensì ne è espressione simpatetica, rappresentazione immediata
dell’universo totale cui appartiene.453
452W. Benjamin,I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 438 (K 2,5)453 Così Mauss definisce i principi magici di contiguità e somiglianza per cui, attraverso fenomeni di astrazione e assimilazione, l’immagine rappresentativa si lega indissolubilmente al fenomeno biologico o sociale: “L’idea della continuità magica, sia che essa venga realizzata attraverso una relazione precedente tra il tutto e la parte, sia che venga realizzata per contatto accidentale, implica l’idea di contagio.” Più avanti Mauss afferma in specifico la continuità di fenomeno e immagine
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La produzione immaginativa si inscrive direttamente nel corporeo, il sogno è lo
pneuma immaginativo di Sinesio454, soglia di corporeo e incorporeo; determinazioni
biologiche, sociali, psicologiche, agiscono nell’identità immediata di natura e cultura,
dove “certaines réaction et constellation affectives primordiales qu’on ne retrouve
quelquefois chez l’homme qu’à l’état de virtualités correspondent à des faits
explicitement et couramment observables dans le reste de la nature”455.
In Caillois la favola umana è dunque già scritta nella materia.
La surdeterminazione del dato fenomenico è all’incrocio tra “un nodo di processi
psicologici la cui coincidenza non potrebbe essere né fortuita, né episodica o
personale, né artificiale”, e la forza fascinatrice della materia che si esercita
sull’uomo: sorgente nascosta da cui scaturisce la continuità di natura e cultura a
livello percettivo e rappresentativo.
L’immaginazione è allora si creatrice, ma nella libertà necessitata del cosmo magico
della somiglianza. Il suo prodotto, l’ideogramma lirico o immaginativo (che più
avanti definiremo anche come Figura), è “la naturale verifica delle virtualità
passionali e liriche della coscienza”: un focolaio rappresentativo, o rappresentazione
mentale, con grande capacità di espansione ed enorme potenziale emotivo di
affettività umane, legate alla percezione dell’elemento formale e materiale del
fenomeno naturale.
Corpo spirituale e materia immaginale, l’ideogramma funziona come una cerniera tra
la realtà oggettiva, la presenza dell’oggetto in sé (matematicamente, fisicamente,
geometricamente misurabile: il puro) e la fruizione emozionale, mitica (l’impuro).
rappresentativa: “la somiglianza equivale alla contiguità, l’immagine sta alla cosa come la parte al tutto. In altre parole, una semplice figura è, a parte ogni contatto e ogni comunicazione diretta, integralmente rappresentativa.” M. Mauss, Saggio di una teoria generale della magia, in Id. Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pag. 64-67Nella citazione compare l’idea di contagio frequente in Caillois: tra discipline e campi d’analisi nella riforma epistemologica surrazionalista e tra incoscio collettivo e processo di proliferazione mitica nelle analisi sulla funzione sociale del mito.454 Synesius, Sui sogni, in Id. Opere, Utet, Torino 1989455 R. Caillois, Procés intellectuel de l’art, in Id Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 46-47
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![Page 184: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/184.jpg)
L’identità immediata tra l’elemento corporeo (lo stomaco pieno) e quello intellettuale
(i sogni) non lascia spazio ad alcuna mediazione nel processo globale456 o a categorie
universali interpretative.457 Sogni, ingordigia, proprietà della materia ingerita,
reazioni chimiche in atto nella digestione, aspettative individuali e condanne
collettive del peccato di gola: nella simultaneità di atto, percezione e
rappresentazione, tutto entra nello spazio dello sguardo materialistico sull’uomo.
In una lettera inviata da Adorno a Benjamin e datata 10 novembre 1938, l’amico già
esule a New Yorck, avanza delle perplessità sull’assenza di ortodossia marxista
nell’opera sui passages parigini. In particolare si sofferma sul materialismo di fondo
del suo lavoro che sembra, a suo dire, essere pervaso da un romanticismo
ingenuamente magico che indulge in una fede, quasi mistica, nel muto dialogare
delle cose:
“In questa specie di immediato e vorrei quasi dire antropologico materialismo si nasconde un
elemento profondamente romantico (…). La mediazione di cui sento la mancanza e che trovo nascosta
da evocazioni magiche materialistico-storiografiche, non è altro che la teoria, che il suo lavoro lascia
da parte. L’omissione della teoria influisce sull’empiria (…). Il tema teologico del chiamare le cose
per nome si rovescia tendenzialmente in una rappresentazione allibita della pura fatticità. Volendo
esprimere ciò in modo ancora più drastico, si potrebbe dire che il suo lavoro si è insediato all’incrocio
di magia e positivismo…all’enumerazione materiale viene attribuito in modo quasi superstizioso un
potere di illuminazione, che non spetta mai all’indicazione pragmatica, ma solo alla costruzione
teoretica.“458
456 Si ponga la distinzione tra il processo globale del discorso adorniano e dell’ortodossia marxista e il fatto totale della sociologia di Mauss, che ha lasciato profonde influenze nell’approccio analitico di Caillois. Da una parte un sistema dialettico di mediazione tra elementi strutturalmente diversi della realtà umana, dall’altra un sistema dinamico che si adatta in una sorta di mimetismo teorico alla totalità dell’uomo.457 “Tentativo di andare oltre la tesi di Giedion. Egli dice:«La costruzione ha nel XIX secolo il ruolo del subconscio ». Non sarebbe meglio dire: «il ruolo del processo corporeo», intorno al quale le architetture «artistiche» si posano come sogni intorno alla struttura del processo fisiologico?” W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 436, (K 1a,7)458 Lettera di Adorno a Benjamin del 10 novembre 1938, in W. Benjamin, Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino 1978, pag. 361
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![Page 185: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/185.jpg)
Nell’accusa di materialismo antropologico contenuta in questa lettera riecheggia
lontana la stessa accusa di “materialismo volgare” pronunciata da Adorno nei
confronti di Caillois, in una lettera di un anno prima:
“Nel frattempo abbiamo ambedue letto con grande attenziona la Mante di Caillois. Sono stato
positivamente colpito (…) dal fatto che Caillois non risolve i miti nell’immanenza coscienziale, non li
appiattisce con la simbologia, ma mira alla loro realtà. Certo si tratta di un materialismo che egli
condivide con Jung, sicuramente anche con Klages. E purtroppo più di questo. Penso alla fede
antistorica, nemica dell’analisi sociale, e invero criptofascista nella natura, che alla fine porta ad una
specie di comunità nazionale di biologia e immaginazione. Senza dubbio spezzare la reificazione di
sfere quali qui quella biologica, là quella storico-sociale, corrisponderebbe anche alle nostre
intenzioni. Ma temo che proprio in Caillois questa reificazione resti inosservatamente intatta in una
certa ingenuità; egli introduce infatti la dinamica storica nella biologia ma non quest’ultima nella
dinamica storica. E voglio addirittura spingermi fino a domandare se, in un mondo in cui l’uomo
come zoon politikon in realtà è estraniato alla dimensione biologica, la divisione degli ambiti non
abbia anch’essa il suo senso dialettico buono o se la liquidazione precoce della stessa non abbia
piuttosto significato armonicistico. In una parola, la cosa per me è troppo cosmica, e se davvero tra la
mantide che divora teste e l’uomo non dovesse esserci che una differenza minima, mentre
l’immaginazione in tutta la sua profondità cade nel cosmo, allora, con un francese senza dubbio più
illuminato a Caillois non vorrei opporre altro che il vecchio vive la petite différence. La parte
apparentemente più originale della concezione però, proprio la determinazione della relazione tra
immaginazione umana e prassi zoologica, ad uno sguardo più attento si rivela quale riedizione in
acconciatura elegante di una delle più semplici teorie di Freud, quella della sublimazione (…). Se
dovessi polemizzare con lui sulla politica non gli rimprovererei, come potrebbe fargli comodo una
metafisica della natura ma il più desueto dei materialismi volgari, mascherato dall’erudizione. Come
vede devo rafforzare con la rudezza che mi è propria il suo giudizio misurato che quest’uomo fa parte
degli avversari”459.
Naturalmente ben altri erano i rapporti, anche filosofici, tra Adorno e Benjamin, ma
si può cogliere, nella stessa difesa dell’ortodossia marxista contro ogni materialismo
eretico o contagiato da forme di pensiero e tradizioni diverse, una chiusura a
quell’atteggiamento genuinamente filosofico che viene definito sempre da Adorno
459 Citata in F. Desideri, Teologia dell’inferno. W. Benjamin e il feticismo moderno, in Id. Il fantasma dell’opera, Il melangolo, Genova 2002, pg. 121
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![Page 186: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/186.jpg)
“rappresentazione allibita della fatticità”. Il rischio implicito nel dare parola ai
fenomeni nel chiaroscuro della loro semplice presenza, o ad una casistica biologico-
antropologica, è quello di cadere in una positivistica ipostatizzazione del dato, o in
un romantico intuizionismo intellettuale di matrice mistico-religiosa.
L’immagination juste in Caillois e l’illuminazione profana benjaminiana si
definiscono proprio a partire da una critica del positivismo e dell’elemento magico
del concetto di intuizione e di esperienza. Il nodo di magia e positivismo in cui
sembra essersi perso Benjamin si scioglie nell’elaborazione di una costruzione
storica del dato, che si mostra nell’identità immediata di struttura e sovrastruttura,
prassi e teoria.
Lontani dalla potenza intuitiva dell’immaginazione romantica, l’enumerazione
materiale è l’attitudine filologica di Benjamin a far parlare l’oggetto della sua ricerca,
a far emergere la totalità del contesto dai mille strati di significato del frammento;
allo stesso modo il progetto tassonomico460 dell’antropologo Caillois dona la parola
alle ricorrenze nascoste del cosmo, nella dimensione etica di una volontà di
conoscenza surrazionalista e surempirista dove “la sensibilité et la raison seront
rendues, l’une et l’autre, ensemble, à leur fluidité”461. Ne emerge un materialismo
antropologico in cui la produzione mitica (o rappresentazione sociale), e le
sollecitazioni affettive materiali si innervano una nell’altra e tra natura e cultura non
si inserisce alcuna mediazione bensì una dinamica identità creatrice. Come ci ricorda
Agamben a proposito del marxismo benjaminiano:
“Marx abolisce la distinzione metafisica tra animal e ratio, di natura e cultura, di amteria e forma per
affermare che, nella prassi, l’animalità è l’umanità, la natura è la cultura, la materia è la forma. Se
questo è vero, il rapporto fra struttura e sovrastruttura non può essere né di determinazione causale né
di mediazione dialettica, ma di identità immediata”.462
460 Sulla nozione di tassonomia in Caillois cfr. Parte prima, pag. 58461 G. Bachelard, Le surrationalisme, in H. Béhar (a cura di), Inquisitions, CNRS, Paris 1990, pag. 5462 G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 2001, pag. 127
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![Page 187: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/187.jpg)
Per sfuggire alle accuse di Adorno e difendere l’idea teologica del proprio
materialismo, Benjamin insiste sul momento della costruzione dell’oggetto storico
come monade, come compresenza dialettica di pre- e post-storia.
La novità del materialismo benjaminiano sta proprio in questo adattamento alla
dimensione del Bildraum del momento storico: la storia non si annulla come nella
durée bergsoniana in cui ogni idea di morte viene soppressa nel cattivo infinito
dell’intérieur, e neppure si allinea nel continuum storicistico in cui la morte è un
semplice evento tra altri eventi, ma come in Bachofen, trae proprio dalla morte, dal
malinconico contrappunto di spleen e vie antérieure, attualità e preistoria, l’impulso
a dialettizzare natura e politica.
Lo spirito genuino dell’allibità fatticità risponde all’accusa di romanticismo e prende
vita, nel suo costituirsi storicamente con l’attualità, in una “costellazione satura di
tensioni”:
“Intendo dire che la speculazione può spiccare il suo spericolato e necessario volo con qualche
prospettiva di successo, solo se, invece di indossare le ali di cera dell’esoterico, cerca la sua sorgente
di forza soltanto nella costruzione. (…) L’apparenza della chiusa fatticità, che aderisce alla ricerca
filologica e getta il ricercatore nell’incanto, svanisce nel punto in cui l’oggetto viene costruito nella
prospettiva storica. Le linee di fuga di questa costruzione convergono nella nostra esperienza storica.
Con ciò l’oggetto si costruisce come monade. Nella monade diventa vivo ciò che, come reperto
testuale, giaceva in mitica rigidità.”463
Nell’essere esposto della prassi alla rivoluzione copernicana della rammemorazione,
il fatto antropologico sfugge a quella rigidità cadaverica in cui sembra arrestarsi il
dinamismo aggressivo dell’ideogramma lirico di Caillois.
La monade è dialettica perché si mostra aperta al suo indice temporale che la
rimanda sempre alla soglia tra l’originario e lo storicamente nuovo.
463 Lettera di risposta di Benjamin alla missiva di Adorno del 10 novembre, in W. Benjamin, Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino 1978, pag. 371-372
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![Page 188: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/188.jpg)
Denunciata l’irresponsabilità politica del concetto metafisico di origine e la falsa
immediatezza di un momento “primo”, la reificazione della fatticità viene esclusa dal
continuo riferirsi dell’idea al fenomeno, dell’originario all’adesso (Jetzeit).
Nella struttura monadologica le virtualità inconscie, in azione nella produzione
dell’espressione sovrastrutturale come nella surdeterminazione mitica, si
compongono aintenzionalmente con la fantasmagoria della rappresentazione
sociale.464
La dialettica è allora innervazione immediata della prassi nella teoria: nella monade
si ha la forza dirompente di una rappresentazione che è simultaneamente storica e in
continuità dialettica con l’origine.
Nonostante il problema storico non compaia mai nelle analisi di Caillois, è la stessa
produzione mitica che assimila internamente la storia individuale e collettiva in
stretta connessione con le determinazioni naturali:
“ce qui ne doit pas surpendre, puisque l’homme appartient à la nature, de sorte que ses créations
propres peuvent etre tenues pour un prolongement des démarches de celle-ci, prolongement sans
doute trés particulier, mais soumnis à la meme syntaxe, meme si en fin de parcours un élément
nouveau y est introduit »
A proposito di questa affermazione di continuità biologico-antropologica,
Meschonnic ribadisce quanto in Caillois, nel congiungimento di linguaggio e storia,
tutto si muova nel dinamico relazionarsi di pre-storia e storia:
“L’élément nouveau est le langage et l’histoire – qui ne sont pas une création humaine, mais sa
définition. Le mouvement constant de Caillois est de rapporter la société historique à une a-historie,
par l’unité homme-nature. «La société ne se comporte pas encore trés différentement de la nature,
avec laquelle elle est d’ailleurs intriquée, comme le montreau au moins les insectes sociaux »”465
464 Per il confronto su questi temi nel carteggio tra Benjamin e Adorno rimando a F. Desideri, Sulla soglia dei Passages.Teologia dell’estetica e liquidzione dell’arte nel carteggio tra Benjamin e Adorno, in Id. Il fantasma dell’opera, Il melangolo, Genova 2002, pg. 75465H. Meschonnic, Le coeur des pierres, Nouvelle Revue Française , n.320, pag.159 (il brano citato è da R. Caillois, La dyssimétrie, in Id. Cohérences aventureuses, Gallimard, Paris 1973, pag. 85) Da notare le analogie con cui Meschonnic a proposito di Caillois, e Agamben per Benjamin, trattano nelle loro conclusioni, la relazione materialistica tra natura, storia e linguaggio.
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![Page 189: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/189.jpg)
Nella relazione con le teorie dell’immaginazione materiale di Bachelard, e
nell’opposizione netta alla teoria dell’archetipo collettivo junghiano, emerge in
maniera evidente, nella sospensione temporale del fenomeno surdeterminato, la
distanza dalla fissità reificata della Naturgeschichte: il paesaggio pietrificato della
storia, riflesso nello specchio immobile della natura, è infatti il mondo dell’uomo
moderno nel senso junghiano dell’essere afflitto dal peccato dell’astoricità466.
L’eterna immutabilità naturale immobilizza nella sua fissità raggelante il divenire
multiverso della storia, inchiodato (Levinas direbbe rivé) all’origine o incanalato
nella nozione di progresso.
La psicologia di Jung, “vera e propria opera demoniaca, da affrontare con gli
strumenti della magia bianca”467, costruisce nell’insondabile centro della terra una
città originaria, un mundus imaginalis archetipico468 a cui mirare nell’ottica di un
riuscito ritorno alle origini
“In Jung l’inconscio non è più individuale, non è dunque affatto uno stato acquisito proprio del
singolo uomo, ma tesoro della protoumanità che si rende attuale; non è quindi nemmeno il frutto di
una rimozione, ma un riuscito ritorno alle origini”.469
L’interno si espande, come l’intérieur borghese si appropria della strada, e contagia
nel suo oscuro legame con l’indicibile, gli strati superficiali della vita conscia.
466 “Jung chiama la coscienza “la nostra conquista prometeica” e in un altro contesto: «è il nostro peccato prometeico, quello di essere astorici. L’uomo moderno è in questo senso affetto dal peccato».” Jung citato in W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (K6,2) 467W. Benjamin, Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino 1966, pag. 330468 Anche il mondo di Hurqalya dei platonici persiani, diviso tra la città di Jabalqa, terra degli archetipi platonici di luce, e la città di Jabarsa, vero e proprio mundus imaginalis, sembra segnato da quest’ambiguità. In alcuni punti, proprio in virtù di un’ambiguità lessicale per cui Alam-al-mital, il mondo sovrasensibile, è il termine con cui in arabo viene reso anche il concetto delle idee platoniche, le Forme immaginali vengono intese allora come Immagini-archetipi a priori. Lo stesso Corbin oscilla tra una sostanzializzazione idealistica dell’immaginale e una difesa del carattere intermedio e autonomo del mundus.469 E. Bloch, Erbschaft dieser Zeit, Zurich 1935, citato in W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (K2a,5)
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Originarietà del corpo e delle sue funzioni organiche e imperitura durezza della
materia, simbolizzano le catene dell’eterno ritorno del feticismo storicistico.
Le profondità della terra o i cavernosi abissi dell’apparato digestivo si mostrano
solidali in una rappresentazione dello psichismo che privilegia le parti oscure,
viscerali della coscienza collettiva.
Una fascinazione dell’anatomia patologica scuote la cultura europea degli inizi del
secolo, Benn, Doblin, Céline470, il movimento espressionista tedesco, l’attenzione
dell’arte e della letteratura si indirizza sui meandri dell’organismo umano, proprio
mentre la neonata psicanalisi sonda le parti ultime dei processi consci.
Dopo la prima guerra mondiale nascono in Germania i partiti di massa e con loro
salgono alla ribalta i demagoghi che studiano le pulsioni dell’individuo più
controllabili e ideologizzabili; tutto ciò che nell’ottocento aveva avuto la forma di
una ricerca sull’individuo si sposta adesso sulle energie profonde dei movimenti di
massa, sulle dinamiche sotterranee scatenanti le affettività dell’azione collettiva.
"Confronto tra incoscient viscéral e incoscient de l’oubli, il primo prevalentemente individuale, il
secondo prevalentemente collettivo: «L’autre part de l’incoscient est faite de la masse des choses
apprises au courant des âges ou au courant de la vie, qui furent conscientes et qui par diffusion sont
entrées dans l’oubli...Vaste fond sous marin où toutes les cultures, toutes les études, toutes les
démarches des esprits et des volontés, toutes les révoltes sociales, toutes les luttes entreprises se
trouvent réunies dans une vase informe...Les éléments passionnels des individus se sont retirés,
éteints. Ne susbsistent que le données tirées du monde extérieur plus ou moinstransformées et
digérées. C’est de monde extérieur qu’est fait cet inconscient...Nè de la vie sociale, cet humus
appartient aux sociétés. L’espéce et l’individu comptent peu, les races et le temps ne sont seuls
repéres. Cet énorme travail confectionné dans l’ombre reparaît dans les rêves, les pensées, les
décision, sourtout au moment des périodes importantes et des bouleversements sociaux, il est le grand
fond commun, réserve de peuples et des individus. La revolution, la guerre, comme le fièvre le
470 “Nella produzione di Jung perviene a un effetto tardivo e particolarmente energico uno degli elementi che, com’è oggi evidente, sono stati esplosivamente tratti alla luce per la prima volta dall’espressionismo. Si tratta di un nichilismo che appartiene in modo specifico ai medici, come quello che si incontra nelle opere di Benn e che ha avuto un tardivo esponente in Céline. Questo nichilismo è provocato dallo shock che l’interno del corpo ha trasmesso a coloro che hanno a che fare con esso. Jung stesso riconduce all’espressionismo l’acresciuto interesse per il fenomeno psichico”. W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (N 8a, 1), pag. 529
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mettent mieux en mouvement...La psychologie individuelle étant dépassée, faison appel à une sorte
d’histoire naturelle des rythmes volcaniques et des cours d’eau souterrains. Rien à la surface du globe
qui n’ait été souterrain (eau, terre, feu). Rien dans l’intelligence qui n’ait eu a faire digestion et circuit
dans les profondeurs. » Doctor Pierre Mabille, Préface à l’eloge des préjugés populaires, in
Minotaure (II), 6, Hiver 1935"471.
La psicologia individuale è superata e le dicipline scientifiche arrancano nel definire
il fatto psichico. Pervade la sensazione che l’interpretazione della struttura inconscia
di una collettività sia il campo di battaglia tra un illuminismo neopositivista, che
elimina il problema interpretandolo come inesistente dal punto di vista scientifico, un
illuminismo di matrice marxista, che pur mostrandosi aperto all’esigenza di uno
studio totale degli psichismi collettivi relega quest’ultimo a semplice effetto della
causa efficiente economica, e un irrazionalismo delle origini che subisce, come in
Jung, la fascinazione della propria funzione di Caronte, traghettatore negli inferi
dello spirito umano.
Una guida infernale che è quindi anche creatore dell’inferno collettivo da cui
emergono, nel corso della storia, le figure dell’immaginazione quali elementi eterni
del sempre uguale. Archetipi, figure dell’arcaico che si mostrano nell’apparenza
fantasmatica del nuovo, riproponendo sub specie aeternitatis le catene dell’origine
all’immaginazione creatrice, e imponendo all’uomo e alle masse, privati della
decisione e di ogni azione politica, il loro destino.
L’arcaicità degli archetipi junghiani è il volto meduseo del mito, presentazione delle
leggi storiche nell’alveo di una natura pietrificata.
Nelle parole di Benjamin, con la teoria delle immagini arcaiche e dell’inconscio
collettivo, “Jung è corso in aiuto dell’anima ariana con una terapia esclusivamente
riservata ad essa”; ha creato le basi per una grammatica mitologica eternamente
inscritta nella stessa esistenza storica e biologica dell’umanità
471 Comparso in Minotaure e citato in W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 pag. 443 (K 4,2): a riprova della comunità di orizzonti tra il Collége e Benjamin.
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“Di per se stesso l’incosciente collettivo non esiste neppure, in quanto esso non è altro che una
possibilità, quella possibilità appunto che noi ereditiamo da epoche remote in forme determinate di
immagini mnemoniche, o, per parlare dal punto di vista anatomico, quella possibilità che ci è
trasmessa nella struttura del nostro cervello. Non esistono rappresentazioni innate, ma possibilità
innate di rappesentazioni, che pongono limiti definiti anche alla fantasia più audace, cioè esistono
categorie dell’attività della fantasia, in certo qual modo idee a priori di cui l’esistenza non è
dimostrabile senza l’esperienza. Esse appaiono solamente nella materia formata, quali principi
regolatori della sua formazione”472.
La figura mitologica è immagine onirica da cui è impossibile risvegliarsi, a cui siamo
incatenati nella nostra produzione dell’immaginario collettivo.
Allonanandosi dal giudizio di Adorno, la distinzione che Jung pone tra la coscienza
storica e immagine simbolica archetipica è rifiutata tanto da Benjamin quanto da
Caillois473. Solo dall’intersezione di natura e cultura si crea il fondo comune
dell’immaginario e la costruzione storica è il filtro attraverso il quale ogni immagine
arcaica passa, sia nella prospettiva fenomenologica di Caillois, sia in quella
materialistico-dialettica di Benjamin. Mentre in Jung “l’inconscio collettivo, essendo
un deposito storico che si esprime nella struttura del cervello e del simpatico, ha il
significato di una specie di immagine del mondo senza tempo, eterna, in certo qual
modo contrapposta alla momentanea immagine del mondo della nostra coscienza”474,
472 C. G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1971, pag. 48473 Per capire la distanza tra l’inconscio collettivo in Jung e la categoria di ideogramma lirico in Caillois è forse utile rifarsi a quanto dice Lévi-Strauss sull’analogo concetto in Marcel Mauss, maestro di Caillois: “Il problema etnologico è dunque in ultima analisi, un problrma di comunicazione; e questa constatazione deve bastare per separare radicalmente la via seguita da Mauss, identificando incoscio e collettivo, da quella di Jung, che si potrebbe essere tentati di definire in modo simile. Non è, infatti, la stessa cosa definirel’inconscio come una categoria del pensiero collettivo o distinguerlo in settori secondo il carattere individuale o collettivo del contenuto che gli si attribuisce. In entrambi i casi si concepisce l’inconscio come un sistema simbolico; ma per jung l’inconscio non si riduce al sistema: è tutto pieno di simboli nonché di cose simbolizzate che formano una specie di substrato. O questo substrato è innato, ma senza l’ipotesi teologica è inconcepibile che il contenuto della esperienza preceda l’esperienza stessa; o è acquisito, nel qual caso il problema dell’eredità di un incoscio acquisito non sarebbe meno temibile di qello dei caratteri biologici acquisiti. In realtà non si tratta di tradurre in simboli un dato estrinseco, ma di ridurre alla loro natura di sistema simbolico cose che sfuggono ad esso solo per diventare incomuncabili. Al pari del linguaggio, il fattore sociale è una realtà autonoma (la stessa, del resto); i simboli sono più reali delle cose che rappresentano, il significante precede e determina il significato.” C. Lévi-Strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pag. XXXVI
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in Benjamin è proprio l’adesso, il momento del risveglio su quanto di arcaico si
compone nell’attuale, che costituisce il nuovo metodo dialettico della scienza storica.
La categoria di origine viene detronizzata e risucchiata nel divenire della storia allo
stesso modo con cui l’idea di natura è sempre socialmente e simbolicamente
compenetrata.
La costituzione di un a priori coscienziale che determina la produzione
dell’immaginario contraddistingue, anche se in misura minore, la posizione di
Bachelard che identifica le radici dell’immaginazione con le matrici inconsce, gli
archetipi. Collocate in una dimensione attiva del livello di coscienza, esse non
subiscono il processo freudiano di rimozione (come dice Bloch a proposito di Jung)
ma in una dialettica continua di rinnovamento a contatto gli elementi materiali
esterni, danno luogo a una pluralizzazione infinita di figure e immagini.
Nelle prossimità di una teoria alchimistica della rêverie, Bachelard espone le legge
della produzione immaginativa:
“Esiste una legge delle quattro immaginazioni materiali, legge che attribuisce necessariamente a
un’immaginazione creatrice ciascuno dei quattro elementi: fuoco, terra, aria e acqua. Ed è questa la
legge che fonda il nostro Essere.” 475
La produzione immaginativa avviene in una dialettica interno-esterno risucchiata nel
tempo immobile della rêverie, con al centro le matrici figurali archetipiche attorno
alle quali si agglutinano i complessi rappresentativi dell’esperienza.
Ciò che quindi è caratterizzato come attività inconscia, è produzione di variazioni
storicamente determinate di un modello archetipico-materiale della pre-storia.
Al pari di Caillois vi è nella relazione con il cosmo la presenza di materiali di forte
valenza onirica che catalizzano l’attività dell’immaginazione creatrice ma in
474 C.G. Jung, Seelenprobleme der Gegenwart, Zurich 1932; trad.it Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Torino 1959 citato in W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, (K6,1)475 “Noi ci sentiamo trascinati nella ricerca immaginaria dagli elementi primari. Materiali dell’immaginario che hanno leggi idealistiche tanto certe quanto le leggi sperimentali”. G. Bachelard, L’air et les songes, Corti, Paris 1943; citato in J.-J.Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999, pag. 96
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Bachelard questi fanno appunto da moltiplicatori dell’effervescenza di immagini
interne a priori. Le leggi figurative con cui le immagini prodotte si dispongono
attorno a questi elementi materiali precostituiti, dispongono un cosmo ordinato
razionalmente ma eterodiretto. Al contrario in Caillois i processi inconsci, interni alla
surdeterminazione mitica, sussistono nella loro autonomia immaginale in un ordine
che è dato solo dalla finitezza analogico-tassonomica del cosmo. L’immaginazione è
in Caillois prolungamento della materia, e in essa è iscritta ogni sua potenzialità;
niente è a priori e tutto è già inscritto proprio nella materia di cui l’uomo è
emergenza.
Proprio la soluzione archetipica al problema dell’inconscio collettivo segna la
distanza tra Caillois e l’amico Bachelard e la possibilità di dialogo inter pares che
Benjamin voleva tentare di preservare dalla critica di Adorno.
Dell’opportunità di tale dialogo ne è un esempio il saggio sul mito di Parigi a cui
Caillois si dedica negli stessi anni in cui Benjamin lavorava al suo Passagen Werk:
“Ci si trova di fronte a una poetizzazione della civiltà urbana, a un’adesione realmente profonda della
sensibilità della città moderna, che nasce d’altronde contemporaneamente al suo aspetto attuale.
Bisogna ora cercare se questo fenomeno non sia significativo di una rivoluzione mentale a carattere
più generale. Infatti, se questa trasfigurazione della città è davvero un mito, essa dev’essere, come i
miti, suscettibile d’interpretazione e rivelatrice di destini.
Si conosce già il sostrato sociale e demografico: aumento notevole della concentrazione industriale,
dell’esodo rurale, della sovrappopoloazione urbana, nascita dai grandi magazzini, dell’alta finanza,
della società per azioni. Nel 1816 alla Borsa, sono quotati 7 valori; nel 1847 oltre 200. La costruzione
delle ferrovie è spinta attivamente. La proletarizzazione produce i suoi primi danni e pullulano le
socieà politiche segrete. Si capisce che un cambiamento così radicale abbia provocato qualche
ebbrezza nelle coscienze già turbate dal Romanticismo.
Ma stavolta lo shock andava nel senso inverso: è un appello imperioso, ma non meno lirico, della
realtà e dell’attualità. Di fatto, l’elevazione della vita urbana alla qualità del mito significa
immediatamente per i più lucidi un netto partito preso di modernità”.476
476 R. Caillois, Parigi, mito moderno, in Id. Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 95
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La diretta relazione della struttura economica con la produzione mitica, la dialettica
tra le trasformazioni sociali e la nascita di nuove figure mitiche sul suolo parigino,
mostra quanto in Caillois la frantumazione dell’estetico conduca su binari
materialistici la critica del mito e quanto l’analisi delle trasformazioni del secolo XIX
sia fondamentale per il formarsi di un’immaginario che impone nell’adesso la
decisione politica477. In una nota apposta al saggio Caillois traccia una serie di
indicazioni per procedere ad una storia materialistica del mito di Parigi, accorgimenti
e prospetti di lavoro presenti negli stessi materiali preparatori al Passagen Werk,
come le descrizioni parigine di Hugo e Maxime du Camp, il riferimento alla polizia
segreta e alle giornate rivoluzionarie, l’attenzione riservata alle sette politiche e alla
nascita di grandi infrastrutture legate alla sovrappopolazione urbana e allo sviluppo
dei consumi:
“Questo lavoro vuole essere solo una sorta di prova attraverso l’esempio che ci sono vantaggi
sostanziali nello studiare la letteratura indipendentemente da qualsiasi punto di vista estetico e nel
considerare piuttosto il suo ruolo di influenza, il suo condizionamento sociale, la sua funzione di mito
in rapporto con nuove fasi della storia delle idee e della evoluzione dell’ambiente. La documentazione
di questo studio è frammentaria, l’analisi incompleta, le conclusioni forse soggette a revisione. (…)
Sarebbe stato molto importante essere bene informato sui seguenti punti: 1) descrizione di Parigi
prima del secolo XIX, soprattuto presso Marivaux e Restif de la Bretonne; 2) Ruolo di Parigi durante
la Rivoluzione, polemiche tra girondini e montagnardi tendenti a opporre la capitale alla provincia,
ripercussioni negli animi delle grandi giornate rivoluzionarie parigine; 3) sviluppo della polizia
segreta sotto l’impero e la Restaurazione: quel che l’atmosfera urbana vi guadagna di mistero nelle
immaginazioni; 4) ritratto morale di Parigi presso i prncipali scrittori dell’epoca e sua evoluzione:
Hugo, Balzac, Baudelaire; studio delle descrizioni oggettive di Parigi: Dulaure, Maxime du Camp; 6)
visione poetica di Parigi: Vigny, Hugo, Rimbaud. Soltanto una volta terminata questa inchiesta la
questione potrà essere trattata come merita. Ma senza dubbio non era prematuro tracciare lo schema di
ricerca e sottoliearne la portata”.478
477 Sulla natura di tale decisione politica in Caillois, assai lontana da quella benjamiana, rimando al paragrafo IV della seconda parte del lavoro. 478 R. Caillois, Parigi, mito moderno, in Id. Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 126. nota 33. Riportata anche in W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (N 7,1)
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![Page 196: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/196.jpg)
La dialettica sociale, storicizzandone le determinazioni e liberando in tal modo
l’immagine mitica dall’eterne forze destinali della natura, rende la conoscenza umana
più autonoma di quella dell’animale dal campo di forza del desiderio.
All’incrocio tra biologia e storia risiede allora la capacità surdeterminatrice del corpo
sociale e le rappresentazioni collettive a carattere mitico, nelle loro determinazioni
dalle leggi elementari della biologia a quelle più complesse che reggono i fenomeni
sociali, sono il luogo privilegiato dove “si coglie meglio, dal vivo, la collusione dei
postulati più segreti, più virulenti dello psichismo individuale con le pressioni più
imperative e più perturbanti dell’esistenza sociale”.479
479 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 7
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II. L’infanzia di una seconda natura
L’enfant voit tout en nouveauté; il est toujour ivre…Charles Baudelaire
La sfera del fantasma come condizione allucinatoria tra sogno e veglia inghiotte ogni
considerazione sulla libertà dell’azione umana e sulle determinazioni più coercitive e
virulente dell’animo. Oltre alla logica corrispondenza di concetto e nome480, la
definizione dei processi mentali si compone, in una prospettiva radicalmente sur-
empirica, in una rete di percezioni in cui “il n’y a que des différences de degré et
non de nature entre ce que l’on s’entend vaguement à nommer matiére et esprit,
objectivité et subjectivité (un dualisme irréductible n’étant guére concevable)”481.
Tale rete, araignée dice Caillois, è composta da nodi percettivi di tipo
ideogrammatico che legandosi nella tensione reciproca compongono una relazione
dinamica tra la sfera mentale-affettiva e quella materiale:
“ Au terme de cette analyse apparaissent deux résultats égalment importants: d’abord, une révision de
l’opposition abstrait-concret qui permet d’assimiler dans le cas de l’empirique pur la compréhension
d’un mot à celle d’un concept, et celle d’un concept à celle d’un objet, de sorte que toute aperception
de la conscience peut être désignée par un terme commun, celui d’idèogramme définie par les
dictionnaires comme désignant «les signes présentant des images d’idées ou de choses» paraissant
parfaitement convenir à cette usage, surtout si l’on prend soin de le spécifier par un qualificatif tel que
mental ou emotif afin que l’on ne pense pas sans contrepartie à l’écriture hiéroglyphique de l’Egypte
480 “Il est clair que l’indépendance affective du concept vis-a-vis du mot qui le supporte est détérminée à la fois – par l’objet, c’est-à-dire par son potentiel de représentations ou d’excitations collectives – par le sujet, c’est-à-dire par la systemation consciente et inconsciente de ses souvenirs et tendances, d’un mot, par sa vie – et infine par leurs précédents rapports, c’est-à-dire par le décor des occasions où il se sont déjà trouvés en présence." R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 26481 R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 31
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![Page 198: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/198.jpg)
antique. En second lieu, l’analyse précédent a mis en lumiére une appréciable solidarité d’origine
empirique entre le perceptions qui viennent d’être appelées idéogrammes, de sorte qu’un ou plusieurs
systèmes latents d’associations réalisent à partir de chacune d’elles des séries de représentation
intellectuelles, affectives ou motrices, qui en principe s’enchaînements indéfiniment et aboutissent à
toutes les autres sans exception."482
Con la nozione di Ideogramma lirico si ricompone quindi in Caillois la scissione tra
pensiero lirico e sogno, tra sintesi diurna e sintesi notturna della coscienza. Entrambi
sono rappresentazioni di contenuti sovradeterminati che penetrano il soggetto con la
forza di una percezione reale.
L’ideogramma lirico può divenire infatti all’interno dei processi mentali tanto
imperativo quanto può esserlo l’allucinazione dell’ebbrezza da hascisch, o la
tirannica imposizione della vita onirica sugli stati di coscienza.
Nelle condizioni in cui i fantasmi si aggirano nel benjaminiano hundertprotzentigen
Bildraum, “si avverte come sia particolarmente difficile distinguere tra sogno,
allucinazione e realtà, perché la rappresentazione onirica presentandosi agli occhi di
un uomo sveglio o che si crede tale ha tutte le caratteristiche della percezione,
almeno per il momento.”483
Il sogno è imperioso e implacabile, per nascere ha bisogno dell’abdicazione della
coscienza, di liberarsi dalle maglie troppo strette dell’immaginazione riproduttrice
che disegna i mondi meravigliosi dell’irrealtà nella consapevolezza dell’illusione
artificiale, in una libertà creatrice puramente estetica, relegata come sullo schermo
bianco di un cinema, al compito di mera rappresentazione.
La scrittura media nella rappesentazione la produzione ideogrammatica perché il
linguaggio comunicativo convenzionale è insufficiente, traccia una griglia semantica
troppo ristretta per cogliere le sfumature affettive, e “ne représente dans ces
conditions que l’idéal et abstrait dénominateur commun d’une multiplicité croissante
482 R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 28483 R. Caillois, I demoni meridiani, Bollati Bringhieri, Torino 1999, pag. 46
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![Page 199: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/199.jpg)
de perceptions et de sensations souvent bien peu différenciées, mais toujours
infinement éloignées de l’identité absolue »484.
Il linguaggio poetico, l’immagination juste, attinge invece dalla catena associativa
degli ideogrammi lirici la propria necessità analogica.
La sola immaginazione affettiva, che abbiamo visto presiedere ai processi di
annessione e proliferazione immaginale, possiede un potere di sintesi: Caillois
respinge tanto le sintesi empiriche, che riducono nell’analisi un insieme
indifferenziato di sensazioni a poche qualità misurabili e prevedibili, tanto i giudizi
sintetici a priori kantiani che “sont à proprement parler, des analyses de l’esprit
opérant sur l’unité de son intuition pure et en extrayant certaines indissolubilités
transcendentales, dont les termes sont distingués aprés coup”485. Le immagini
analogiche raccolgono nella sintesi lirica immaginativa i temi affettivi individuali e
collettivi, costituendone l’espressione, sfondo ermeneutico di ogni rappresentazione
estetica secondaria.
Nella continuità di soggetto e oggetto, percezione e immaginazione si scambiano lo
statuto ontologico di realtà e virtualità, come nel caso in cui l’immaginazione
oppone alla virtualità di una percezione avvitata su se stessa nel mise en abyme dello
specchio, un contenuto reale, completandone o addirittura contraddicendone lo
statuto di realtà.
Quindi se con Bergson, di cui Caillois era attento lettore, “per immagine intendiamo
una determinata esistenza che si trova a metà strada tra la cosa e la
rappresentazione,”486 e chiamiamo “materia l’insieme delle immagini, e percezione
della materia queste stesse immagini riferite all’azione possibile di una certa
immagine determinata, il mio corpo”487, allora, restando evidentemente all’interno
dello spazio immaginale, “de la perception au rêve en passant par la représentation et
484 R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 22485 Ibidem, pag. 72486
H. Bergson, Materia e memoria, in Id. Opere 1889-1896, Mondadori, Milano 1986, Pag. 143487 Ibidem, pag. 154
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![Page 200: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/200.jpg)
l’hallucination, c’est une unique faculté d’imagination qui s’exerce diffèrenciée
seulement par le diverses conditions qui tour à tour spécifient son mode d’action”488.
Mentre si sogna il sogno è la realtà assoluta e solo nel risveglio si guarda alle
immagini oniriche a cui poco prima davamo l’assenso percettivo come a delle
semplice rappresentazioni allucinatorie momentanee. Nei deliri allucinatori come
nella vita onirica, le immagini si presentano con la forza della percezione e al
contrario di quanto sostenuto da Sartre, non è il carattere percettivo che distingue la
veglia dalla dimensione rappresentativa del sogno.489
“Dans ce conditions, il n’est pas étonnant qu’il ne reste pas une simple et obéissant représentation
psychique puisqu’en intervenant dans le reve il s’est déjà imposé d’une maniére hallucinatorie, c’est-
à-dire en tant que perception et non plus en tant que raprésentation. Il est vrai qu’au réveil cette
perception sans objet st redevenue une répresentation, mais c’est le cas de tout souvenir de perception.
L’important est ce que l’idéogramme ait pendant un certain temps et dans une des modalités
principales de la vie psychique, le sommeil, été perçu »490
Solo al mattino, nei fumosi attimi del risveglio sentiamo l’urgere della necessità
razionale del diurno nelle percezioni primarie dei sensi e releghiamo nella memoria a
momenti rappresentativi illusori, l’esperienze oniriche. Ma talvolta la forza percettiva
del sogno è tanta da riverberarsi sulla veglia valicando così i confini della memoria
conscia. In questi momenti le nostre esperienze vissute si arricchiscono di eventi
appartenenti alla sfera onirica ed entrano a far parte della nostra memoria come un
qualsiasi altro momento del nostro passato conscio. Questa dialettica tutta interna al
soggetto, che recupera il valore conoscitivo attribuito da Aristotele alla serie dei sensi
interni, dal senso comune alla memoria, è assolutamente involontaria e aintenzionale
come è speculare e simultanea al meccanismo di protezione da chock esterni, che
Benjamin pone all’origine della coscienza.
La coscienza che secondo Freud funziona da protezione contro gli stimoli, sorge al
posto dell’impronta mnemonica come un livellatore degli sbalzi energetici dati dalle
488 R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 152489 J.-P. Sartre, Immagine e coscienza, Einaudi, Torino 1970, pp. 248 sgg.490 R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 29
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impressioni esterne, “sarebbe quindi contrassegnata dal fatto che il processo della
stimolazione non lascia in essa, come in tutti gli altri sistemi psichici, una
modificazione dei suoi elementi, ma sbollisce, per così dire, nel fenomeno della presa
di coscienza”.491 La memoria è il fattore coagulante ed equilibrante della personalità
oggettiva alla base degli stati di coscienza, ovvero stabilizza le percezioni in
rappresentazioni funzionali ed oggettive. Ma ciò che accade per l’esterno avviene in
maggior misura con gli stati emotivi interni: se “residui mnemonici si presentano
spesso con la massima forza e tenacia quando il processo che li ha lasciati non è
pervenuto alla coscienza”492, alla stessa maniera la percezione ideogrammatica del
sogno o dell’ebbrezza continua una vita sotterranea e aintenzionale, come appunto la
mémoire involontaire proustiana, sotto la pelle delle rappresentazioni diurne.
“Le monde mental et prétendument intérieur de la représentation serait confondu objectivament avec
le monde physique et prétendument extérieur de la perception – au moins sur le point particulier de
l’idéogramme envisagé -, à la faveur d’un processus de véritable matérialisation lyrique.493
Processo di materializzazione lirica che sfugge, da una parte alla sterilizzazione
dell’esperienza poetica nel carattere di Erlebnis a cui viene ridotta dall’azione
rappresentativa della memoria conscia, dall’altra alla libertà di spirito arbitraria e
pericolosamente autonoma dei surrealisti, che la pone nel mondo del meraviglioso,
vittima della sterile antitesi di sogno e veglia.
Il frequente riferimento al soggetto paranoico nelle prime opere di Caillois, come
modello di una simultaneità di percezione e rappresentazione, è il segnale
dell’intensa collaborazione e scambio intellettuale che si era venuta a creare tra il
giovane studioso francese, il pittore Dalì494 e lo scienziato Lacan. Una congrega di
491 T. Reik, Der überraschte Psychologe, Leiden 1935, citato da Benjamin in Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995 , pag. 94492 Ibidem, pag. 94493 R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 32494 “De plus, c’est sur ces entrefaites que j’eus connaissance, au moins pour une notable partie, de l’etude paranoïaque-critique de L’Angélus de Millet que Salvador Dalì était en train de terminer. Certes il s’agissait là d’interprétations essentiellement délirantes assez éloignées d’offrir la rigueur méticuleuse de détermination automatique que je ne me proposais de déceler sous l’arbitraire apparent de l’antique associations d’idées. Cependant malgré le grand défaut de nécessité et la non moins
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cervelli assai particolare che si era allontanata dalle prime infatuazioni surrealiste e
che, pur riconoscendo l’immenso valore di rottura del movimento di Breton, puntava
al superamento delle sue aporie, soprattutto quelle derivanti dalla écriture
automatique, nella natura immaginale, pulsionale della rappresentazione.
Il metodo paranoico-critico di Dalì in cui vi è contemporaneità di produzione
delirante e sistemazione del materiale mentale si sviluppa parallelamente ai Primi
scritti sulla paranoia di Lacan495 del 1936, dove è espressa chiaramente la
sincronicità di delirio e interpretazione negli stati paranoico-schizofrenici: allo stesso
modo nella nozione di ideogramma lirico, Caillois sottolinea la simultaneità di istinto
e coscienza, ebbrezza e conoscenza.
Le immagini paranoiche che Dalì utilizza in un abbandono psicastenico alla loro
forza impositiva di evidenza estetica, debbono inanzitutto la loro natura al fatto
sorprendente che sono immagini assolutamente sconosciute, si definiscono cioè a
partire da un differenziale energetico che sorge dal “contrasto tra l’immagine
delirante e l’aspetto immutabile dell’immagine conosciuta; quest’ultima contiene allo
grande insuffisance quantitative de facteurs surdéterminants dans l’enchaînement des éléments (...) ce travail présentait dans l’ensemble une telle somme d’intérferences et de recoupements qu’il me parut presque aussitôt pouvoir passer pour une précieuse illustration des mes conceptions qu’à tout le moins il contribue certainement à renforcer. R. Caillois, La nécessité d’esprit, Gallimard, Paris 1981, pag. 37Caillois ha lavorato alla traduzione francese del saggio di Salvador Dalì, Le Mythe tragique de l’Angélus de Millet, su diretta richiesta di Gala, la compagna del pittore spagnolo, che Caillois aveva conosciuto anni prima, quando quest’ultima aveva una relazione sentimentale con il poeta surrealista Paul Eluard. Durante la traduzione furono molti gli incontri tra Dalì e Caillois e le reciproche influenze tra il pensiero paranoico-critico e la nozione di psicastenia leggendaria sono indiscernibili, a partire dalla figura della Mantide religiosa come ideogramma lirico che, oltre a Dalì e Caillois, affascinava lo stesso Eluard e Breton, i quali collezionavano degli esemplari dell’insetto perturbante (sulla figura della mantide nell’arte surrealista vedi W. Pressly, The prayng mantis in Surrealist Art, in Art Bulletin, LV, dicembre 1973, pp. 600-615). Nello stesso periodo, all’incirca nel febbraio del 1936, Caillois conosce Georges Bataille a casa Lacan, il quale da lì a poco, nel luglio 1936 al congresso di Marienbad, esporrà la celebre teoria dello stadio dello specchio, in cui farà cenno all’importanza della nozione di mimetismo di Caillois (R. Caillois, Mimetismo e psicastenia leggendaria, apparso in Minotaure, n. 7, giugno 1935): “Ricordiamo soltanto gli sprazzi proiettativi del pensiero di un Roger Caillois quando, con il termine di psicastenia leggendaria, sussumeva il mimetismo morfologico in un’ossessione dello spazio nel suo effetto derealizzante”. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Id. Scritti, vol.I, Einaudi, Torino 1995, pag.90495 La pecezione paranoica del mondo che è in Lacan lo stato psichico intermedio tra il sogno e lo stato di veglia, presenta infatti meccanismi fisiologici simili a quelli del sogno come la simbolizzazione degli stati schizofrenici
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stato latente alcune associazioni che permettono e giustificano l’improvvisa irruzione
della prima”.496
Lo pseudo-intuizionismo di Dalì, che riecheggia forse un confuso misticismo della
creazione geniale, è corretto dall’evidente resa sistematica del contenuto delirante di
tali immagini. In queste infatti “sarebbe presente una resa sistematica in senso
evolutivo, che consisterebbe con il nucleo stesso delle idee deliranti e ne sarebbe
parte consustanziale. L’idea delirante apparirebbe come portatrice essa stessa del
germe e della struttura della resa sistematica: donde il valore produttivo di questa
forma di attività mentale che si troverebbe non solo alla base stessa del fenomeno
della personalità, ma che costituirebbe inoltre la sua forma più evoluta di sviluppo
dialettico. L’apparizione dell’immagine dell’Angelus di Millet si presenta dunque
come un’immagine paranoica, ossia dotata di un sistema associativo che
coesisterebbe con le idee deliranti stesse: in conseguenza dello shock, della reazione
causata dall’immagine, l’oggetto si sarebbe caricato di un contenuto delirante”497.
Se per delirio non si pensa al quel “turgore dell’io (…) opacità dell’essere in sé e per
sé concluso nella circolarità di uno stato estatico-allucinatorio, bensì ad una
condizione di “Lockerung, allentamento, slentarsi delle giunture razionali”498, si può
vedere nell’immediatezza originaria di processi immaginativi affettivi e
rappresentazione, (resa sistematica dice Dalì), l’innervazione benjaminina del corpo
nello spazio immaginale e il superamento delle aporie estetiche dell’écriture
automatique surrealista.
“La produttività delirante non è di ordine visivo ma più semplicemente psichico. Non è l’immagine
che cambia dal punto di vista morfologico, ma è da quello del soggetto, da quello del dramma, che è
possibile oggettivare e rendere comunicabile una trasformazione completa”.499
496 S. Dalì, Il mito tragico dell’Angelus di Millet, Abscondita 2000, p.34497 Ibidem, pag. 34498 F. Masini, Dialettica dell’ebbrezza, in L.Belloi e L.Lotti (a cura di), Walter Benjamin, Tempo storia e linguaggio, Editori riuniti, Roma 1993, pag. 21499 S. Dalì, Il mito tragico dell’Angelus di Millet, Abscondita 2000, p.35
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Ma come in Caillois, il discorso daliniano si estende dal campo della riflessione
estetica, ai meccanismi dell’intera conoscenza umana, e nella stessa direzione in cui
il giovane francese indica l’immaginazione affettiva essere la responsabile di ogni
ordine tassonomico del cosmo e quindi dello sviluppo di ogni disciplina scientifica500,
Dalì si domanda: come è dunque possibile rifiutarsi di considerare scienze quali la
psicanalisi come deliri genialmente sistematizzati? Come non discernere la presenza
del meccanismo paranoico nel fenomeno straordinariamente determinativo della
scelta sperimentale che prelude alle indagini delle scienze naturali?
“Lo studio delle particolarità deliranti paranoiche ci fa assistere a un mutamento essenziale del mondo
oggettivo, mutamento che si presenta subitaneo e che assorbe, per il suo potere associativo istantaneo,
tutta la nostra attenzione e la nostra affettività, le quali restano irresistibilmente fissate a un certo
numero di fatti e oggetti, a detrimento ed esclusione di tutto il resto”.501
Quello che si pone al centro del discorso non è più il soggetto ma la sua eccentrica
frammentarietà invasa, attraversata dallo spazio (Umwelt) che la contiene:
condizione allentata del soggetto che, all’interno della sua analisi del processo di
creazione dell’identità personale, Lacan chiama corpo-in-frammenti.
“Questo corpo-in-frammenti si mostra nei sogni quando la mozione dell’analisi arriva ad un certo
livello di disintegrazione aggressiva dell’individuo. Allora esso appare nella forma di membra
disgiunte e degli organi raffigurati in esoscopia, che metton ali e s’armano per le persecuzioni
intestine, fissati per sempre con la pittura del visionario Hironymus Bosch nella loro ascesa nel secolo
XV allo zenit dell’immaginario moderno. Ma una forma che si rivela tangibile anche sul piano
organico, nelle linee di fragilizzazione che definiscono l’anatomia fantasmatica nei sintomi di schizo o
di spasmo, dell’isteria”.502
500 Cfr. Parte prima, par. IV.501 S. Dalì, Il mito tragico dell’Angelus di Millet, Abscondita 2000, p. 128502 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Scritti, vol. 1, Einaudi, Torino 1995, pag. 91
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Un’eccentricità schizofrenica che diviene tentazione irresistibile dell’ambiente sulla
coscienza, come nel fenomeno del mimetismo morfologico studiato da Caillois in cui
avviene una vera e propria spersonalizzazione mediante assimilazione allo spazio.
Con il termine psicastenia503 si vuole descrivere proprio questa assimilazione allo
spazio e la conseguente diminuzione del senso della personalità e della vita.
La coscienza della separazione dall’Umwelt, la rottura della continuità con l’esterno,
con l’Altro, attraverso la quale l’Io assume l’identità alienante che segnerà, con la
sua rigida struttura, tutto lo sviluppo mentale, viene sospesa in una condizione
convulsiva in cui lo spazio perseguita il soggetto, lo circonda, divorandolo in una
fagocitosi gigantesca. In questo sta la dimensione dispendiosa sino al sacrificio del
mimetismo; ma l’aspetto più interessante di questa condizione di “detumescenza
soggettiva” è il riferimento al suo momento produttivo in una zona di confine, una
soglia in cui l’individuo cerca di vedersi da un punto qualsiasi dello spazio, “supera
la frontiera della sua pelle e vive dall’altra parte dei suoi sensi. Egli stesso si sente
diventare spazio, è simile, non simile a qualcosa, ma semplicemente simile”504.
La condizione psicastenica disegna un luogo in cui l’uomo espropriato
dell’esperienza ricostruisce nel luogo comune dell’inesperibile; in quegli stati
crepuscolari di ebbrezza come il dormiveglia o la perdita di coscienza, il soggetto
detronizzato della sua centralità nel cosmo ostenta il suo rifiuto e la sua negazione
dell’esperienza, come Proust per cui non vi è più propriamente alcun soggetto, ma
solo, con singolare materialismo, un infinito derivare e un casuale scontrarsi di
oggetti e di sensazioni.
La nuova barbarie, moderna condizione nella povertà d’esperienza a cui la tecnica
come produzione di simulacri, ha sottoposto l’umanità, si rovescia nel concetto
503 L’interesse di Caillois per le forme di psicastenia indotta e di mimetismo, soprattutto nelle implicite determinazioni sociali del biologico, sono forse da rintracciarsi nelle analisi di Mauss di quella particolare rappresentazione dell’impulso di morte chiamata tanatomania, ovvero la negazione violenta dell’istinto vitale da parte dell’istinto sociale. In questa condizione l’individuo che muore crede di trovarsi in uno stato prossimo alla morte per cause precise di natura collettiva: “La coscienza è allora interamente invasa da idee e sentimenti che sono interamente di origine collettiva e che non tradiscono alcun disturbo fisico.” M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pp. 312-316504 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 61
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![Page 206: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/206.jpg)
benjaminiano di barbarie positiva505. Il “nudo uomo del nostro tempo, che strillando
come un neonato, se ne giace nelle sudicie fasce di quest’epoca”506, rifiuta i principi
fondamentali dell’umanesimo e riparte da capo, dall’esperienza dell’infanzia in cui
l’apparato produttivo tecnologico, che lui stesso ha creato, lo ha rigettato.
Riparte cioè da quella peculiare povertà di esperienza propria dell’infante che
dipende percettivamente dal mondo esterno, e dal quale non si sente ancora separato
come corpo e mente soggettiva.
Una critica della teoria della percezione e del fatto di coscienza che si origina dalla
costruzione di uno spazio percepito oggettivamente come assoluta esteriorità507, e il
rovesciamento dialettico della categoria di rappresentazione in momento immaginale
di indistinzione di natura e individuo, è in Caillois il vero nucleo di un’analisi che in
più punti sembra cedere alla fascinazione di una teopatia sacralizzata.
“…la percezione dello spazio è senza alcun dubbio un fenomeno complesso: lo spazio è
indissolubilmente percepito e rappresentato. Da questo punto di vista, è un doppio diedro che muta ad
ogni momento di grandezza e di posizione: diedro dell’azione il cui piano orizzontale è formato dal
suolo e il piano verticale dell’uomo stesso che marcia e che, per questo, si porta dietro il diedro;
diedro della rappresentazione determinato dallo stesso piano orizzontale del precedente (ma
rappresentato e non percepito) tagliato verticalmente alla distanza in cui l’oggetto appare. È con lo
spazio rappresentato che il dramma si precisa, poiché l’essere vivente, l’organismo, non è più l’origine
delle coordiante, ma un punto tra altri; è privato del suo privilegio e nel senso forte dell’espressione,
non sa più dove mettersi. Si è già riconosciuto il carattere proprio dell’atteggiamento scientifico e, di
fatto, è notevole che la scienza contemporanea moltiplichi per l’appunto gli spazi rappresentati: spazi
di Finsler, di Fermat, iperspazio di Riemann-Christoffer, spazi astratti, generalizzati, aperti, chiusi,
505 “Barbarie? Proprio così. Diciamo questo per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie. A cosa è mai indotto il barbaro dalla povertà d’esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal Nuovo; a farcela con il Poco; a costruire dal poco e inoltre non guardare né a destra né a sinistra. W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Id. Il carattere distruttivo, Mimesis, Milano 1995, pag.18506 Ibidem, pag. 19507“Nessun concetto di un mondo esterno si lascia delimitare nettamente rispetto al concetto dell’uomo agente. Fra l’uomo che agisce e il mondo esterno tutto è, piuttosto, l’interazione reciproca, i loro cerchi d’azione sfumano l’uno nell’altro; per quanto le rappresentazioni possano essere diverse, i loro concetti non sono separabili. (...) l’esterno, che l’uomo agente trova come dato, può essere ricondotto, in linea di massima, in tutta la misura che si vuole, al suo interno, e il suo interno, in tutta la misura che si vuole, al suo esterno, anzi l’uno considerato in linea di principio come l’altro”. W. Benjamin, Destino e carattere, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pp. 32-33
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densi, rarefatti ecc. Il sentimento della personalità, in quanto sentimento della distinzione
dell’organismo nell’ambiente, del legame di coscienza e di un punto particolare dello spazio non tarda
in queste condizioni a essere gravemente compromesso, si entra allora nella psicologia della
psicastenia e più precisamente della psicastenia leggendaria”508.
Nel fenomeno psicastenico il soggetto si percepisce e si rappresenta diffuso nello
spazio come se quest’ultimo fosse inscritto sul proprio corpo. Come nell’immagine
paranoica, la dimensione mimetica disegna uno scenario di assoluta continuità tra la
natura e l’inconscio individuale e collettivo; spingendosi più avanti si può dire che
non esiste alcun inconscio personale ma solo quella della natura, più precisamente
quello della realtà asoolutamente compenetrata con l’apparato tecnico e prodotta
quindi come “seconda natura”: dimensione distruttiva dell’inumano krausiano che
con un sol grido (lamento, accusa o jouissance?) lacera gli “idoli dell’uomo allo stato
di natura idealistico e del cittadino-modello devoto allo stato”509, e
contemporaneamente si annuncia come messaggero di un più reale umanesimo.
Nella differenza di teatro e cinema, due forme di rappresentazione che mostravano
analogie soprattutto agli inizi del novecento, quando ancora le potenzialità del nuovo
mezzo cinematografico si limitavano ad una messa in scena di tipo teatrale (il
cosidetto teatro filmato), si misura la metamorfosi percettiva del moderno e la forza
del paradigma mimetico nella trasformazione dei modelli spaziali.
Il teatro, almeno quello classico, prevede inanzitutto una distanza tra lo spettatore e
la scena che non è facilmente colmabile dall’illusione poiché se “il teatro conosce un
punto dal quale ciò che avviene in scena può non essere visto come senz’altro
illusorio”510, l’artificio spettacolare è ben chiaro ed evidente nelle scenografie, nei
costumi e nella stessa recitazione. Inoltre è necessaria un’attenzione della coscienza
508 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 61. In un seminario pubblicato nel 1964 e risalente a quegli anni, Lacan farà riferimento a questa teorizzazione del rapporto percezione-rappresentazione di Caillois, sostituendo alla figura del diedro quella di un doppio triangolo. J. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, Il Seminario, Libro XI, Einaudi, Torino 1979, pag. 93. Vedi anche R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Einaudi, Torino 1996, pag. 186509 W. Benjamin, Karl Kraus, in Id. Avanguradia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, pag. 130510 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 37
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![Page 208: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/208.jpg)
che è sola di fronte allo svolgersi dell’azione scenica, come se stesse contemplando
un quadro che abbia subito un’improvvisa drammatizzazione delle sue figure. La
percezione non subisce alcuna modificazione poiché lo spazio in cui gli attori si
muovono è lo stesso in cui ogni giorno lo spettatore si trova a muoversi: le stesse
leggi fisiche, le stesse proporzioni e dimensioni degli oggetti, la stessa velocità nel
movimento dei gesti, tutto si compone in un artificio consapevole che in niente
provoca uno chok percettivo a colui che esternamente assiste alla rappresentazione.
Nel cinema la rappresentazione esce invece dalla cornice e inghiotte il luogo
privilegiato dello spettatore. Con Deleuze l’immagine cinematografica non è
un’immagine immobile successivamente animata, né poses eternelles (come le forme
del mondo classico) né coupes immobiles a cui è dato il movimento, ma nasce
immediatamente come immagine-movimento e immagine-tempo.
“Il cinema procede con fotogrammi, cioè con sezioni immobili, 24 immagini/secondo (o 18 all’inizio).
Ma quanto ci mostra, lo si è spesso notato, non è il fotogramma, bensì un’immagine media alla quale
il movimento non si aggiunge, non si addiziona: il movimento appartiene invece all’immagine media
come dato immediato. Si dirà che lo stesso accade per la percezione naturale. Ma in questo caso,
l’illusione è corretta a monte della percezione, tramite le condizioni che rendono la percezione
possibile nel soggetto. Mentre al cinema essa è corretta contemporaneamente all’apparire
dell’immagine, per lo spettatore aldifuori di queste condizioni (a tale proposito la fenomenologia ha
ragione di supporre una differenza di natura tra la percezione naturale e la percezione cineatografica).
Insomma, il cinema non ci dà un’immagine alla quale aggiungerebbe movimento, ci dà
immediatamente un’immagine-movimento”.511
La cinepresa si muove nello spazio rappresentato sostituendosi all’occhio dello
spettatore e va ad ingrandire, rimpicciolire, velocizzare o rallentare la normale realtà
percepita dai sensi. Zone sconosciute si rendono adesso disponibili ad essere
percepite nel momento stesso in cui avviene la loro rappresentazione estetica; il
fattore di novità, di ignoto nell’immagine cinematografica, è lo specchio tecnico di
quello che Dalì diceva della latenza perturbante dell’immagine paranoica (non a caso
511 G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, pag.14-15
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Dalì è il surrealista che maggiormente ha puntato sul mezzo cinematografico, oltre a
suoi progetti mai completati, nella collaborazione con Buňuel alla sceneggiatura di
Un chien andalou nel 1929 e di L’age d’or nel 193).
“Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. E come
l’ingrandimento non costituisce semplicemente chiarificazione di ciò che si vede comunque, benchè
indistintamente, poiché esso porta alla luce formazioni strutturali della materia completamente nuove,
così il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne
scopre di completamente ignoti (…) Si capisce così come a natura che parla alla cinepresa sia diversa
da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato
della coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente.(…) Dell’inconscio ottico
sappiamo qualche cosa soltanto grazie ad essa (la cinepresa), come dell’inconscio istintivo grazie alla
psicanalisi”.512
La natura illusionistica del cinema è una natura di secondo grado, risultato del
montaggio, ma lungi dall’essere una semplice forma di rappresentazione estetica, è il
segno di una percezione in cui l’inconscio individuale deflagra sotto i colpi di una
realtà spaziale invasiva, della quale l’individuo ne percepisce il carattere
distrattamente, aitenzionalmente, nella sola diponibilità ad esserne afferrato e
attraversato. Ciò che Benjamin chiama inconscio ottico non è quel fondo oscuro del
soggetto borghese a cui si riferiva l’analisi freudiana, bensì è l’inconscio della natura
stessa. L’inconscio istintivo della psicanalisi, fondato sui meccanismi di rimozione e
sublimazione, trova nella teoria dell’ideogramma lirico di Caillois il suo superamento
proprio come la nozione di inconscio collettivo, perdendo il suo implicito residuo
antropocentrico, si configura come inconscio ottico.
L’uomo non è più colui che interviene consciamente sullo spazio ma viceversa
l’ambiente, la sfera materiale della sua esistenza, lo determina in una dialettica
costante con le pulsioni affettive individuali e collettive.512 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 41-42; “La fotografia dischiude gli aspetti fisiognomici di mondi di immagini che abitano il microscopio, avvertibili ma dissimulati abbastanza per trovare un nascondiglio nei sogni ad occhi aperti e ora, diventati grandi e formulabili come sono, capaci di rivelare come la differenza tra tecnica e magia sia una variabile storica”. W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 63
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Lo spostamento da una centralità della dimensione visiva a quella di un’esperienza
tattica dell’ambiente, indica la strada con cui l’arte, con il Dadaismo, il Surrealismo e
il film, e da sempre, per il costante bisogno di dimora dell’uomo, l’architettura513, ha
abbandonato la direzione di un’intenzionale e soggettivo rapporto con l’esteriorità,
per definirsi come un’esperienza ricettiva, dissolta nella quotidiana e distratta
dimensione collettiva.
“Poiché i compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano, non
possono essere assolti per vie meramente ottiche, cioè contemplative. Se ne viene a capo a poco a
poco grazie all’intervento della ricezione tattica, all’abitudine”514.
Il lento sedimentarsi delle tendenze psichiche collettive nell’alveo di sempre
rinnovate condizioni materiali, compongono lo scenario in cui la percezione si
modifica e il nuovo, dai prodotti della tecnica alle visioni dell’immaginario
collettivo, entra nel discontinuo movimento dialettico con l’arcaico, con l’universo
simbolico della tradizione.
Si delinea qui il momento aurorale dell’infanzia, dove il bambino compie “una serie
di gesti in cui egli mette alla prova ludicamente la relazione fra i movimenti tratti
dall’immagine e l’ambiente riflesso, e fra questo complesso virtuale e la realtà che
raddoppia, cioè il proprio corpo e le persone, o gli oggetti che gli stanno a lato”.515
Nel 1926 Piaget descrive così il processo continuo di evoluzione del rapporto
pensiero soggettivo-mondo nel fanciullo:
“Per il fanciullo, i pensieri, le immagini, le parole sono bensì distinte dalle cose, ma situate in esse.
Presentando il processo in fasi successive si ottengono quattro fasi: 1) una fase di realismo assoluto,
513 “La massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’arte. Ciò avviene nel modo più evidente per gli edifici. L’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte in cui la ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività”. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 45514 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 47515 J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Id. Scritti, vol..I Einaudi, Torino 1995, pp.87
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in cui gli strumenti del pensiero non sono affatto distinti, e sembra che non esistano che cose; 2) una
fase di realismo immediato, in cui gli strumenti del pensiero sono distinti dalle cose, ma situati in esse;
3) una fase di realismo mediato, in cui gli strumenti del pensiero sono ancora concepiti come delle
specie di cose, e vengono a un tempo situati nel corpo e nell’ambiente esterno; 4) una fase di
soggettivismo o relativismo, in cui gli strumenti del pensiero sono situati in noi. Insomma il fanciullo
comincia confondendo il suo io o il suo pensiero col mondo, e finisce col distinguere i due termini.”516
Soltanto accennato è in questo schema ciò che in Lacan è invece il motore
dell’analisi, ovvero il momento riflettente in cui, oltre al pensiero, il bambino
percepisce il proprio corpo in frammenti esteriorizzati, i propri organi come cose tra
le altre cose. Sulla scorta delle analisi freudiane del narcisismo, Piaget riconduce
l’indistinzione di io e mondo esterno nella percezione infantile, all’egocentrismo
logico e ontologico del soggetto nei suoi primari stadi di formazione. A differenza di
Lacan concepisce quindi l’io come entità già preformata capace di porre con forza la
propria identità nella sovrapposizione del suo pensiero alla realtà; la svolta
psicanalitica lacaniana, parallela alle riflessioni sul mimetismo di Caillois, sarà
quella di concepire uno stadio anteriore e distinto dall’io (Je), il moi517: una non-
persona, un non-soggetto situato prima della determinazione sociale, che, in una
linea di finzione, ha senso solo nella sua opposizione alla persona e per il quale non
non si può parlare di confusione narcisistica con il cosmo ma di vera e propria
aggressività dello spazio nel formarsi della personalità.
Nella rappresentazione infantile del mondo il bambino tende ad attribuire coscienza
alle cose che l’adulto comunemente giudica inanimate; essa avviene secondo due
momenti l’animismo e l’artificialismo, in cui l’indistinzione tra l’io e l’altro porta il
bambino ad attribuire all’oggetto inanimato un intenzione e una volontà proprie solo
degli enti dotati di coscienza.516 J. Piaget, La rappresentazione del mondo del fanciullo, Bollati Boringhieri, Torino 1973, pag.130. Tale rappresentazione è immediatamente critica della nozione di creatività quanto di quella speculare di soggettività: “Il bambino non si esprime attraverso le cose, ma esprime le cose attraverso sé. Creazione e soggettività non hanno ancora festeggiato nel bambino il loro incontro temerario”. W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 571517 Ed è principalmente a questa dimensione originariamente linguistica del moi che ci riferiamo quando prendiamo in esame la categoria benjaminiana dell’infanzia. Su questo e sul rapporto di linguaggio e infanzia vedi G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 2001, pp.41-55
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Nel realismo percettivo dell’infanzia agiscono due confusioni solidali tra loro che
caratterizzano i primi due stadi della formazione della nozione di pensiero nel
bambino: “da un lato, la confusione tra pensiero e corpo: il pensiero, per il fanciullo è
un’attività dell’organismo - la voce - ed è dunque cosa fra le cose e consiste
essenzialmente nell’agire materialmente sugli oggetti o sulle persone per cui abbia
interesse. Dall’altro lato, la confusione tra significante e significato, cioè tra il
pensiero e la cosa a cui si pensa”.518
Questa condizione animistica pre-individuale, strettamente legata alla sfera affettivo-
pulsionale come gli stati di paura o di rimorso, al desiderio, e al sentimento
dell’ordine regnante nella natura, viene chiamata da Piaget partecipazione e irrelata
direttamente con la rappresentazione magica del cosmo.
“Chiameremo partecipazione, conformemente alla definizione data da Lévy-Bruhl, il rapporto che il
pensiero primitivo crede di percepire fra due esseri o due fenomeni considerati sia come parzialmente
identici, sia come aventi una diretta influenza uno sull’altro, pur non esistendo fra loro né contatto
spaziale né legame causale intelligibile. (…) Chiamiamo magia l’uso che l’individuo crede di poter
fare dei rapporti di partecipazione in vista di modificare la realtà.”519
La partecipazione è legata alla materialità del pensiero e l’idea che il pensiero affondi
direttamente nel reale e influisca su ciò che accade, procede, nella relazione magica
con il cosmo, parallellamente all’aderenza del segno e della realtà, aderenza che si
manifesta nella magia per gesto. Gesti creaturali come quelli dei personaggi di
Kafka, che sono troppo forti per il loro ambiente e irrompono in uno spazio più
vasto, in una dimensione in cui non sono segni codificati nella rappresentazione, ma
eventi, drammi a sé, simboli alla stessa stregua delle parole, dei nomi e delle
immagini; e poiché per il fanciullo ogni segno partecipa del significato e ogni
simbolo aderisce alle cose, questi gesti sono concepiti come efficaci al modo stesso
delle parole o dei nomi.
518 J. Piaget, La rappresentazione del mondo del fanciullo, Bollati Boringhieri, Torino 1973, pag. 61519 Ibidem, pag. 136
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Gestualità e linguaggio appartengono entrambi al mondo della somiglianza e della
contiguità magica: il pensiero è corporeo come la voce520 e fa parte della materia
stessa di cui è fatto il cosmo; allo stesso modo il linguaggio non è la trascrizione
fonetica di figure psichiche a priori ma si origina in questa dimensione di
indifferenza creatrice dove “agli occhi del fanciullo ogni oggetto sembra possedere
un nome primordiale e assoluto, facente parte cioè della natura stessa di
quest’oggetto”521.
Se, a detta di Mauss, nella magia come nella religione e nella linguistica, sono le idee
inconscienti che agiscono, sembra allora proponibile un confronto tra la
rappresentazione infantile del mondo e la categoria magica del mana, appartenente al
pensiero primitivo, e indicante una quarta dimensione dello spirito, un piano su cui si
confondono le nozioni di categoria inconsciente e quelle di pensiero collettivo.
La nozione di mana, che è di volta in volta e insieme, qualità, sostanza e attività, non
appartiene all’ordine del reale, ma a quello del pensiero, che, anche quando pensa se
stesso, non pensa se non un oggetto.
Mauss descrive il mana come la categoria centrale nella rappresentazione
dell’universo magico, allo stesso titolo con cui quella di Hau lo è nel contesto
dell’economia del dono522; entrambe le nozioni appartengono ad una dimensione
relazionale del pensiero simbolico in cui la comunicazione avviene tra le cose e gli
uomini senza che fra le due vi sia alcuna soluzione di continuità. Ciò che
comunemente viene riconosciuta propria solo degli uomini, l’intenzionalità, è
attribuita qui anche agli oggetti che entrano nella relazione magica. Ma se allora
l’animismo si definisce come l’attribuzione a tutti i corpi, organici e inorganici, di
forze interne e di appetiti, analoghi a quelli degli esseri viventi, l’artificialismo si
pone come come la tendenza a legare ad ogni azione dei corpi esterni (la luna, il sole,
520 “Essendo identico alla voce il pensiero è spesso considerato come aria, aria contemporaneamente esterna ed interna. Di qui la credenza che il vento e il fumo vengano in noi e partecipino del nostro alito e del nostro pensiero. Convinzioni analoghe sussistono a proposito del sogno. Come abbiamo visto, tutte queste credenze sono dovute a un realismo relativamente semplice, che risulta solo all’indifferenziazione del pensiero e delle cose.” Ibidem, p.149521 Ibidem, pag. 62522 Cfr. Parte prima, par. IV.
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il vento, ecc.) una precausalità per cui essi agiscono mossi dall’intenzione originaria
di un costruttivismo antropocentrico.
“La precausalità suppone infatti una indifferenziazione tra fisico e psichico, per cui la vera causa di un
fenomeno non è mai da ricercarsi nel «come» della sua realizazione fisica, ma nell’intenzione che sta
alla sua base”.523
La luna e il sole esistono così per scaldare l’uomo e la montagna perché possa
nascondere il sole morente al tramonto. Mentre l’animismo disegna una relazione
comunicativa con il cosmo, l’artificialismo apre alla magia e alla volontà di dominio
della natura da parte dell’uomo.
“La sistematizzazione e le inchieste etnografiche portano a opporre come rappresentativi di due
atteggiamenti fondamentali lo sciamanismo, che manifesta la forza dell’individuo in lotta contro
l’ordine naturale della realtà, e il manismo, che segna la ricerca, attraverso l’abbandono di se stesso,
dell’identificazione dell’io e del non-io, della coscienza e del mondo esterno: « è dunque
perfettamente comprensibile che nelle creazioni spirituali degli uomini e nei loro poemi il
meraviglioso compaia come fenomeno della mistica nata dall’abbandono; l’incantesimo invece nasce
dalla primitiva esigenza dell’Io di affrancarsi dal mistero della realtà e acquistare dalla magia i mezzi
della potenza». A sua volta, questa dicotomia s’inserisce in una ricca prospettiva che mette in luce una
duplice base nei procedimenti della mente: si classificherà, con la magia, ogni atteggiamento di
conquista; con la mistica, ogni tentativo di effusione. In quest’ultima predomina la sensibilità. Una
certa passività la caratterizza: al limite, la si dirà di essenza teopatica. Al contrario la magia è legata
all’intelligenza alla volontà di potenza. È un tentativo di estensione del campo di coscienza per
integrarvi il mondo soprasensibile. Questo aspetto al tempo stesso aggressivo e scientifico la fa
qualificare come teurgica”.524
Se nell’artificialismo, prima dimostrazione della volontà di potenza dell’uomo,
l’indistinzione dell’idea della legge fisica con l’idea della legge morale conduce alla
produzione di rapporti di potere, non solo nella società degli uomini525, ma 523 J. Piaget, La rappresentazione del mondo del fanciullo, Bollati Boringhieri, Torino 1973, pag. 364524 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 6; la citazione di Caillois è da L. Frobenius, Historie de la civisation africaine, Paris 1936, p.211525 A proposito del mito e del carattere epico della vita moderna, Caillois: “Le caratteristiche del pensiero infantile, in primo luogo l’artificialismo, reggono questo universo stranamente presente;
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soprattutto tra l’uomo costruttore e la natura costruita e quindi dominata,
nell’animismo la stessa indistinzione crea la comunità con la natura in una
dimensione analoga a quella che sorge nell’economia del dono.
Artificialismo e animismo, magia e misticismo, la posizione di Caillois oscilla di
nuovo tra la tendenza ad un’abbandono teopatico all’inorganico, trovandovi forse un
ritorno del sacro nelle vesti del mistico abbandono invocato dal Sant’Antonio
flaubertiano526, e la volontà di conoscenza e di sistemazione del cosmo; estremi di un
pensiero che in un’incessante dialettica si sovrappongono dando vita, ad una
paradossale teoria della conoscenza dove l’aintenzionalità dell’abbandono all’oggetto
si sposa con la rigorosa volontà di dominio degli elementi finiti del cosmo.527
All’altezza della comunità animistica del cosmo, le leggi magiche della simpatia
mimetica, contiguità e somiglianza sono catturate in un’ebbrezza, in una vertigine
nella quale non è possibile funzionalizzare in direzione di un dominio la distanza tra
l’uomo e le cose. Nell’animismo, in cui è dialetticamente presente la traccia magica,
tale distanza è solo apparentemente cancellata nell’indistinto, bensì è controllata,
disciplinata come lo è nell’esperienza auratica del bello naturale. Gli oggetti naturali
vengono definiti da Benjamin “apparizioni uniche di una lontananza, per quanto
possa essere vicina”, elementi di quella vie antérieure che permane in latenza nella
memoria involontaria, nell’affettività delle immagini dell’inconscio collettivo.
niente vi accade che non sia premeditato da tempo, niente vi corrisponde alle apparenze, tutto vi è preparato per essere utilizzato al momento opportuno dall’eroe onnipotente che ne è il signore”. R. Caillois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pag. 93526 “Oh gioia! Oh, fortuna! Ho visto nascere la vita, ho visto il moto avviarsi. Il sangue mi batte tanto nelle vene da farle scoppiare. Ho voglia di volare, di nuotare, d’abbaiare, di muggire, di urlare. Vorrei avere le ali, una corazza, una scorza; vorrei emettere fumo, avere una prooscide, contorcermi, dividermi in ogni luogo, essere in ogni cosa, dissolvermi negli odori, svilupparmi come le piante, scorrere come l’acqua, vibrare come il suono, brillare come la luce, adattarmi ad ogni forma, penetrare ogni atomo, discendere fino in fonso alla materia – essere materia!” G. Flaubert, La tentazione di Sant’Antonio, Einaudi, Torino 1990, pag.182 527 “Acedia e vent d’hiver, nomade e viaggiatore nel vento, passività e violenza – pari all’intumescence e détumescence del Nirvana -, insomma «il desiderio basilare di raggiungere una modalità di esistenza che sia al contempo parossismo e abbandono».” Carlo Ossola, Introduzione a R. Caillois, I demoni meridiani, Bollati Bringhieri, Torino 1999, pag. XXIII Su questo e in relazione ad alcuni aspetti del pensiero di Benjamin, riflette il saggio di Fabrizio Desideri, L’enigma della cosa e il feticismo dell’apparenza, in Id. Il fantasma dell’opera, Il melangolo, Genova 2002, pp.105-133
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“L’apparizione irripetibile di una lontananza” è la percettibilità auratica del cosmo
nella quale la distanza tra l’uomo e il mondo è dialogo, comunicazione come essere-
in-comune.
“La percettibilità – afferma Novalis – è un’attenzione. L’esperienza dell’aura riposa quindi sul
trasferimento di una forma di di reazione normale nella società umana al rapporto dell’inanimato o
della natura con l’uomo. Chi è guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l’aura di una cosa
significa dotarla della capacità di guardare. Ciò è confermato dai reperti della mémoire
involontaire”.528
Nella sua dimensione cultuale l’aura è un’esperienza tanto prossima all’animismo
primitivo quanto all’esperienza infantile del mondo.
La capacità dell’oggetto di ricambiare lo sguardo è emblema enigmatico della
dialettica con cui dalla materia si originano le immagini ideogrammatiche o si
avvertono le “rappresentazioni radicate nella mémoire involontaire che tendono a
raccogliersi attorno ad un oggetto sensibile”529, come l’aura dell’oggetto stesso.
Se Caillois sembra riproporre, nell’esperienza dissolvente della vertigine e nella
condizione mimetico-psicastenica, le caratteristiche animistiche (come l’originario
misticismo delle correspondances) della nozione di aura, allo stesso tempo sembra
condividere con Benjamin il valore auratico della percezione infantile e del gioco530.
Se “l’aura attorno ad un oggetto sensibile corrisponde esattamente all’esperienza che
si deposita come esercizio in un oggetto d’uso”531, essa è allora il risultato di tutte
528 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag 124 Più avanti Benjamin cita le illuminanti parole di Valéry che ci riportano al modello immaginale della percezione onirica: “Quando dico: vedo questa cosa, non pongo un’equazione fra me stesso e la cosa. Nel sogno invece, sussiste un’equazione. Le cose mi vedono come io le vedo.” Ibidem, pag. 125529 Ibidem, pag. 122530 Le osservazioni di Caillois della forza illuminante dello sguardo infantile e ludico sul mondo, sembrano essere in dialogo con le benjaminiane illuminazioni profane di spazi e oggetti quotidiani in Infanzia berlinese intorno al millenovecento:”Così il bambino conserva la carta stagnola che avvolge le tavolette di cioccolato. Preferisce le biglie d’acciaio a tutte le altre. Nessuna sostanza lo affascina come il mercurio. Tutti questi oggetti possiedono uno splendore che accresce il carattere un po’ misterioso della loro natura…quali proprietà non ci dovremmo aspettare da materiali che producono simili sorprese? (…) In questo universo, il più insignificante tagliacarte passa per un pugnale. Una bottiglia contenente un’innocua pozione diventa una fiala piena del più fulminante veleno”. R. Caillois, Tesori segreti, in Id. Istinti e società, Guanda, Milano 1983 pag. 30531 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag 122
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quelle azioni quotidiane che senza più farci caso necessitano di quell’oggetto per
essere poste a compimento. L’abitudinaria ritualità con cui queste azioni vengono
compiute, la continua ripetizione privata dall’influenza della coscienza oramai
rattrappita e addormentata, si sedimenta nella percezione distratta dell’oggetto: la
stessa distrazione che è alla base dei meccanismi percettivi, nell’unificazione di
ottico e tattico della visione, del cinema e dell’architettura532.
Le pulsioni profonde dell’individuo sposano le sotterranee immagini dell’inconscio
collettivo al livello della placida apparenza quotidiana. Qui trova un senso più
profondo la forza rivoluzionaria dell’ottica dialettica surrealista, che riconosce il
quotidiano come impenetrabile e l’impenetrabile come quotidiano, o la nozione di
fantastico di Caillois in quanto categoria del vivere quotidiano, dell’imprevisto
comprensibile che nasce nell’ordine stesso delle cose, opposta al meraviglioso,
dimensione dell’inesplicabile in cui negazione delle leggi naturali, magia e
sovrannaturale sono la norma.533
Ed è proprio nel gioco che il bambino ha un’esperienza fantastica del quotidiano,
improntata alla ripetizione distratta di gesti, i quali vivono solo nella
rappresentazione della relazione che lega l’infante con il mondo.
“…la grande legge che regola l’intero mondo dei giochi, al di sopra di tutte le singole regole e ritmi: la
legge della ripetizione. Sappiamo che essa costiutisce l’anima del gioco infantile; che nulla rende più
felice il bambino dell’«ancora una volta». Qui nel gioco, l’oscuro impulso alla ripetizione agisce con
una violenza che è appena minore di quella con cui opera l’istinto sessuale nell’amore. E non per nulla
Freud ha creduto di scoprirvi un Al di là del principio di piacere. In effetti: ogni esperienza più
profonda vuole insaziabilmente, fino alla fine di tutte le cose la ripetizione e il ritorno, il ripristino di
una situazione originaria da cui ha preso le mosse. (…) Questa è forse la radice più profonda del
doppio significato del tedesco Spielen534: la rietizione delle stessa cosaè forse l’elemento comune ai
due sensi della parola. Non è già un «fare come se», ma un «fare sempre di nuovo», la
532 “La ricezione nella distrazione, che si fa sentire in modo sempre più insistente in tutti i settori ell’arte e che costituisce il sintomo di profonde modificazioni dell’appercezione, trova nel cinema lo strumento più autentico su cui esercitarsi”. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 46533 “Le fantastique est l’impossible survenant à l’improviste dans un monde d’où l’impossible est banni par définition” R. Caillois, Obliques, Paris, Stock 1975, pag.5534 Il termine significa sia “giocare” che “recitare”.
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![Page 218: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/218.jpg)
trasformazionedell’esperienza più sconvolgente in un’abitudine, ciò che costituisce l’essenza del
gioco. Poiché il gioco, e null’altro, è la levatrice di ogni abitudine. Mangiare, dormire, vestire, lavare,
sono abitudini che devono essere iniettate nel piccolo corpo guizzante in forma ludica, secondo il
ritmo di brevi versi. L’abitudine nasce come gioco, e in essa, anche nelle sue forme più rigide,
sopravvive fino alla fine un piccolo residuo di gioco. Forme pietrificate e ormai irriconoscibili della
nostra prima felicità, del nostro primo orrore – queste sono le abitudini”.535
Nelle abitudini, sorta di deposito attivo della memoria involontaria, permane il gesto
inaugurale dell’infanzia che si compie nel gioco. Non la vista, organo dell’oggettività
scientifica, è quindi all’origine della nostra comprensione e sistemazione del mondo,
ma un semplice gesto536, con cui comunichiamo per la prima volta con l’altro da noi,
e stemperiamo lo stupore, la paura, la forza perturbante del nuovo, nella ripetizione
dello stesso gesto, infinite volte come per comporlo con gli altri infiniti gesti che
prima di lui, hanno definito inconsciamente il nostro rapporto con il mondo.
L’imperativo con il quale nel gesto il cosmo si impone sull’infante, riecheggia nella
fascinazione che la materia, l’oggetto sensibile, esercita sull’immaginazione affettiva
dell’adulto nella surdeterminazione ideogrammatica.
“In generale è questo punto di vista estremamente esterno – la questione della tecnica e dei materiali –
quello che fa penetrare più profondamente l’osservatore nel mondo del gioco”. 537
535 W. Benjamin, Giocattolo e gioco, in Id. Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pp. 90-91536 Noi sappiamo – per parlare solamente della pittura – che anche in questa forma infantile di attività l’essenziale è il gesto. (…) È piuttosto un uomo che osserva più da vicino con la mano là dove l’occhio si ferma, che traduce l’innervazione recettiva dei muscoli visivi nell’innervazione creativa della mano. Innervazione creativa in esatta connessione con quella recettiva è ogni gesto infantile”. (…) Qualunque prestazione infantile è rivolta però, non all’eternità dei prodotti, bensì all’attimo del gesto. In quanto arte caduca, il teatro è l’arte dell’infanzia. W. Benjamin, Programma di un teatro proletario di bambini, in Id. Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 234537“Non c’è niente che il bambino faccia più volentieri che unire fraternamente, nelle sue costruzioni, le materie più eterogenee – pietre, plastilina, legno, carta. Dall’altro lato nessuno è più pudico del bambino, nei confronti delle materie: un semplice pezzetto di legno, una pigna, un sassolino, nella purezza, nell’univocità della sua materia, possono rappresentare nondimeno tutta una varietà di figure diversissime tra loro”. W. Benjamin, Storia culturale del giocattolo, in Id. Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 83
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![Page 219: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/219.jpg)
Il compito dell’infanzia, momento eminentemente dialettico in cui l’immaginazione
riacquista l’antica funzione conoscitrice, sarà allora quello di coniugare
nell’abitudine, i nuovi materiali e le tecniche innovative, “inserire il nuovo mondo
nello spazio simbolico”.
“Solo l’osservatore superficiale può negare che tra il mondo della tecnica e l’arcaico universo
simbolico della mitologia giochino delle corrispondenze. Certo il nuovo generato dalla tecnica appare
da principio solo come tale. Ma già nel primo ricordo infantile muta i suoi tratti. Ogni infanzia compie
qualcosa di grande, di indiscutibile per l’umanità. Ogni infanzia, nel suo interesse per i fenomeni
tecnici, nella sua curiosità per ogni sorta di invenzioni e macchinari, lega le conquiste della tecnica
agli antichi universi simbolici. Non c’è niente nel campo della natura che per definizione si sottragga a
questo genere di legame. Solo che esso non si forma nell’aura della novità, ma in quella
dell’abitudine. Nel ricordo, nell’infanzia e nel sogno”538.
Le nuove forme, tecniche o naturali, mostrano il loro carattere di novità assoluta solo
all’adulto che le percepisce sempre nell’ambito ristretto della rottura con la
tradizione, con il proprio passato. La separazione di tecnica e spazio simbolico della
natura vale solo per chi vede il nuovo sotto le forme progressive di un’evoluzione
indefinita come quella tecnologica; nell’adulto è assente infatti il momento
interpretativo del sogno della tecnica, l’attimo supremo del risveglio del collettivo
dormiente, momento in cui la storia originaria, la società senza classi, si sposa con le
forze più attuali e imperative della società, in quell’esperienza radicale della
comunità contenuta nei mondi complementari delle utopie immaginali del XIX
secolo.539
538 W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, (N 2a,1) 539 “Come la tecnica mostra la natura ogni volta in una prospettiva nuova, così, accostandosi all’uomo, essa ne modifica anche le emozioni, le angosce e i desideri più ancestrali. In questo lavoro vorrei consegnare alla storia originaria un pezzo del XIX secolo. Negli inizi della tecnica, nell’arredamento del XIX secolo, si rende manifesto il volto seducente e minaccioso della storia originaria che, in ciò che ci è temporalmente più vicino, retava per noi ancora velato. Nella tecnica però data la sua causa naturale, esso è presente in modo anche più intenso che in altri settori. W. Benjamin,I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 438 (K 2a, 1)
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![Page 220: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/220.jpg)
“Compito dell’infanzia: inserire il nuovo mondo nello spazio simbolico. Al bambino è infatti
possibile qualcosa di cui l’adulto è del tutto incapace: riconoscere il nuovo. Per noi le locomotive
possiedono già un carattere simbolico, poiché appartennero alla nostra infanzia. La stessa cosa accade
ai nostri bambini con le automobili, di cui noi stessi non cogliamo invece che l’aspetto nuovo,
elegante, moderno e sfrontato. Non c’è antitesi più scialba e ottusa di quella che pensatori reazionari
come Klages si sforzano di istituire tra lo spazio simbolico della natura e la tecnica. A ogni
formazione naturale veramente nuova, e tale è in fondo anche la tecnica, corrispondono nuove
immagini. Ogni infanzia scopre queste nuove immagini, per incorporarle nel patrimonio immaginario
dell’umanità.”540
Nel sogno, come nell’infanzia, si compie il primo momento della dialettica della
tecnica: il ritorno nell’alveo della natura di tutte quelle forme che si sono sviluppate
indipendentemente dall’uomo.
L’ambiguità dialettica della tecnica è tutta contenuta nella follia di Grandville.
Nell’artificialismo delle sue tavole una donna-cometa dal lungo strascico, sorretto da
tanti piccoli esserini dal volto di stella, se ne va passeggiando, sospesa nel cosmo
stellato come in un boulevard illuminato da luccicanti lampioni, o leggera nell’aere,
come in una danza illuminata dai pianeti serrati a comporre suntuosi lampadari; o
ancora accade che l’assonnata aurora metta i guanti per sollevare la spessa tenda
notturna e il mattino, suo fedele aiutante, accende il sole con uno stoppino infuocato,
come fosse un vecchio lampione a gas.541
Grandville è il simbolo della rischiosa dialettica dei processi tecnici542: da un lato
infatti l’abile caricaturista disegna come un “astrologe sincérament tourmentés par la
faune, la flore et l’humanitè des songes” le plastiche figure naturali con cui l’uomo
540Ibidem, pag. 435 (K1a,3)541Promenade d’une comète p.1228; L’aurore mettait des gants roses pour soulever le rideau de la nuite, p. 1230, Grandville, Das Gesamte Werk, 2 vol., Buchclub ex libris Zürich 542 “Si può enunciare il problema formale dell’arte moderna in questo modo: quando e come accadrà che quegli universi di forme, che nella meccanica, nel cinema, nella tecnologia, nella nuova fisica, ecc. si sono sviluppati indipendentemente da noi fino a sopraffarci, ci mostreranno ciò che in essi appartiene alla natura? Quando sarà raggiunto quello stadio della società in cui queste forme o quelle nate da esse si presenteranno a noi come forme naturali? Certo, ciò non mette il luce che un momento dell’essenza dialettica della tecnica (quale, è difficile a dirsi: l’antitesi, se non la sintesi). In ogni modo nella tecnica vive ance il momento opposto: il raggiungimento di scopi estranei alla natura con mezzi a loro volta estranei e ostili ad essa, che si emancipano dalla natura per asservirla”. W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000 (N 3a,2)
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gioca nella solidarietà con la tecnica, dall’altro “sous cette apparence pondérée
apparait le flebile nescio quid qui déconcerte e provoque une inquiétude, parfois
assez gênante.”543
L’inquitudine che emerge dai disegni di Grandville è la stessa che percorre nervosa
lo sguardo dell’uomo contemporaneo, fiducioso e stimolato dallo sviluppo tecnico, di
fronte alle distruzioni causate da bombe sempre più “intelligenti” e sistemi di attacco
sempre più indipendenti dal politico; penosa preoccupazione di fronte all’autonomia
evolutiva dei processi tecnici, in cui “l’enorme discrepanza tra i giganteschi mezzi
della tecnica e il loro irrisorio rischiaramento morale”544, porta alla guerra
imperialistica, utilizzazione innaturale della sfrenata espansione dei mezzi tecnici
stessi.
“L’intronizzazione della merce e l’aureola di distrazione che la circonda è il tema segreto dell’arte di
Grandville. A ciò corrisponde il dissidio fra l’elemento utopistico e l’elemento cinico di essa. (…)
sotto la matita di Grandville la natura intera si trasfora in specialités. Egli la presenta nello stesso
spirito in cui la réclame comincia a presentare i suoi articoli. Finisce pazzo”.
Fu proprio la contraddizione che portava in se che lo condusse alla follia: il cantore
del dominio della moda sul cosmo intero, del feticismo che fa valere sul vivente i
diritti dell’inorganico, è infatti lo stesso uomo che, infatuatosi delle fantasmagorie
fourieriste, ha portato ad espressione, prima ancora dei surrealisti, i meravigliosi
mondi onirici della collettività redenta, dove la fusione tra organico e inorganico, tra
uomo e animale, è modellata, nella dimensione impolitica della comunità, sulla
rappresentazione infantile del mondo, a partire proprio dal eroe-tipo della fantasia
ludica contemporanea, Mickey Mouse:
“Alla stanchezza segue il sonno e allora non è per niente strano che il sogno ricompensi per la
tristezza e lo scoraggiamento del giorno e mostri realizzata quella esistenza del tutto semplice ma
grandiosa, per la quale nello stato di veglia manca la forza. L’esistenza di Mickey Mouse per l’uomo
543 W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 443 (K 4, 1) 544 W. Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in Id. Il carattere distruttivo, Mimesis, Milano 1995, pag. 25
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di oggi è un sogno di questo genere. Questa esistenza è piena di meraviglie, che non solo superano
quelle della tecnica, ma si prendono gioco di esse. Perché ciò che in genere è più notevole, è certo il
fatto che tutte quante senza machinerie, improvvisate, saltano fuori dal corpo di Mickey Mouse, dei
suoi partigiani e dei suoi persecutori. Dai più comuni mobili, così come da un albero, dalle nubi o da
un lago. Natura e tecnica, primitività e confort qui sono diventati perfettamente una cosa sola”.545
Il gioco è allora il paradigma della “seconda tecnica”, di quella tecnica cioè che
agisce in collaborazione con la natura, non liberandosi in un’autonomia immaginaria
composta dai soli simulacri del reale, ma che mantenendosi legata alla natura in virtù
del suo originario legame mimetico546.
Benjamin pone quindi la famosa distinzione tra prima e seconda tecnica, tra il
significato magico-rituale della tecnica che ha nel sacrificio e nel dominio della
natura una volta per tutte (Ein für allemal) la sua finalità, e il significato tecnico-
ludico, dove l’uomo con astuzia prende distanza dalla natura pur nella prossimità ad
essa nella coazione a ripetere del gioco, dello Zusammenspiel in cui, come anche
nell’esperimento scientifico moderno, Einmal ist keinmal.
L’opera d’arte si trova così al centro di una dialettica tra volontà di dominio, di
rappresentazione della natura e solidarietà, comunità crearice di natura e tecnica,
nella duplicità di apparenza e gioco. Risuona la riflessione di Holderlin contenuta
nelle Anmerkungen zum Odipus547, che pone come necessario nell’arte, accanto
all'elemento vitale, il principio regolativo della mechané antica. Sarà infatti, proprio
la necessità di questa relazione a determinare, erodendo progressivamente e
risolvendo in procedimento calcolabile-insegnabile anche il senso vitale della poesia,
la trasformazione del principio tecnico come imitativo-riproduttivo dell'opera d'arte,
in principio della sua riproducibilita' tecnica; a consolidare cioè il rapporto,
545 W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Id. Il carattere distruttivo, Mimesis, Milano 1995, pag. 20La figura di Mickey Mouse torna significativamente quando Benjamin parla degli uomini con la coda di Fourier: “Per spiegare le stravaganze fourieriste, si può fare riferimento a Mickey Mouse dove si è compiuta, proprio nel senso delle sue idee, la mobilitazione morale della natura”. W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 705 (W8a, 5)546 Sulla nozione di seconda tecnica rimando alla Zweite Fassung del saggio benjaminiano sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (in GS, vol. VII, 1, pp. 350-384) e alla sua lettura fatta da Fabrizio Desideri, L’opera d’arte nell’epoca della tecnica. Un confronto tra Benjamin e Heidegger, in Id. La porta della giustizia, Pendragon, Bologna 1995, pp.111-117547 F. Holderlin, Sul Tragico, Feltrinelli, Milano pag. 94
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necessario fino a fondersi in un unico processo, tra produzione e riproduzione
estetica.548
L’automatismo della tecnica che si rende indipendente sino a collocarsi nell’ottica di
una necessità naturale, determina però la dialettica moderna tra la tecnische
Apparatur che ha compenetrato radicalmente la realtà e l’autonomia dell’immagine
nell’epoca del simulacro.549 Ma dove nel simulacro si prende atto della mitologia
involontaria di cui noi tutti facciamo parte? Dove affiora nell’autonomia della tecnica
il vincolo corporeo primario in cui la tecnica, che ha nella mimesi il suo fenomeno
originario, si pone come produzione di somiglianze?
All’incrocio tra inconscio ottico collettivo e mimesi corporea individuale, sta la
dimensione ludica della seconda tecnica che compie nell’adeguare l’arcaico alle
accellerazioni temporali del nuovo, l’eminente compito rivoluzionario dell’infanzia:
“Er ist das Ziel der Revolutionen, diese Anpassung zu beschleunigen. Revolutionen sind
Innervationen des Kollektiv: genauer Innervationversuche des neuen, geschichtlich erstmailigen
Kollektivs, das in der zweiten Technik seine Organe hat. Diese zweite Technik ist ein System, in
welchem die Bewältigung der gesellschaftlichen Elementarkräfte die Voraussetzung fur das Spiel mit
den naturlichen darstellt. Wie nun ein Kind, wenn es greifen lernt, die Hand so gut nach dem Mond
ausstreckt wie nach einem Ball, so fasst die Menschheit in ihren Innervationversuchen neben den
greifbaren solche Ziele in Auge, welche vorerst utopisch sind“.550
Con il gesto mimetico il bambino fa di se stesso, del proprio corpo, il gioco con cui
intrattiene scopre e media, apparato tecnico e natura. “Il gioco infantile è tutto
pervaso da condotte mimetiche, e il loro campo non è affatto limitato a ciò che un
uomo imita dall’altro,”551 se infatti il bambino vuole trainare qualcosa diventa
548 Sulla continuità della riflessione sulla tecnica di Benjamin, da Holderlin, attraverso Schlegel, Riegl, fino al saggio sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, vedi F. Desideri, Il tempo e le forme, Editori Riuniti, Roma 1980, p.154.549 Vedi lettera di Adorno a Benjamin del 18 marzo 1936 [in GS, I, 3, p. 1000-1006] dove si annota il formarsi di questa dialettica tra l'apparato tecnico che ha compenetrato radicalmente la realta' e l'autonomia dell'immagine550W. Benjamin, GS, vol. VII, 1, pag. 360, nota 4551W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in A.N. pag.71
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cavallo, vuole giocare con la sabbia diventa fornaio, vuole nascondersi diventa ladro
o gendarme.
Il mimetismo ludico infantile è il muto dialogo con cui nell’abitudinarietà di certi
atti quotidiani e nella percezione distratta di immagini e segni collettivi, il corpo
comunica con i cambiamenti della struttura sociale, innervando direttamente nella
prassi le arcaiche richieste di felicità e giustizia.
“Colui che imita, fa quel che fa solo apparentemente. E cioè il più antico imitare conosce una sola
materia in cui dà la forma: questo è il corpo dell’imitante stesso. Danza e linguaggio, gesto del crpo e
delle labbra sono la prima manifestazione della mimesis”.552
Nel ricondurre il discorso mimetico alla materialità del corpo ritorniamo alla sintesi
di creaturale e politico teorizzata nel saggio sul surrealismo.
« Le chant apporte la voix humaine et la danse le corps humain, lequel ne joue pas seulement un rôle
abstrait (morphologie esthétique du corps exprimée par une progression géométrique et additive à la
fois, de raison égale à la section dorée exprimant elle-même une relation entre deux grandeurs telle
que la plus grande soit à la plus petite comme la somme des deux à la plus grande), mais aussi un role
émotionnel et mythique de grande qualité en tant que substrat de la sexualité et étalon de
l’anthropomorphisme »553.
552W. Benjamin, GS, vol. VII, 1, pag. 368; Uso qui la traduzione italiana da Fabrizio Desideri, L’opera d’arte nell’epoca della tecnica. Un confronto tra Benjamin e Heidegger, in Id. La porta della giustizia, Pendragon, Bologna 1995, pag. 110553 R. Caillois, Procés intellectuel de l’art, in Id Approches de l’imaginaire, Gallimard 1974, pag. 44 Sin nella tradizione rinascimentale era riconosciuto al canto l’intervento di quel fattore semispirituale, semicorporeo che è l’immaginazione:”Il canto è più efficace del suono prodotto dagli strumenti, in quanto attraverso l’armonico concerto, partendo dal concetto della mente e dalla veemente passione della fantasia e del cuore, e col suo moto facilmene penetrando, insieme con l’aria insinuante e dolce, nello spirito aereo di chi ascolta, spirito è il legame tra l’anima e il corpo, trascina con sé la passione e l’animo di chi canta, e con la passione eccita la passione di chi ascolta, con la fanasia la fantasia, con l’animo l’animo, e fa battere il cuore, e penetra fino nel segreto della mente, e e insensibilmente perme di sé anche anche i costumi; fa muovere,inoltre le membra, o leimmobilizza, e così fa con gli umori del corpo”. H.C.Agrippa citato in R. Klein, La forma e l’intelligibile, in Id. La forma e l’intelligibile, Einaudi, Torino 1975, pag. 164, nota 1; Simbolicamente, come Caillois anche Mauss riconosce alla danza quella funzione impura di materialismo dinamico che mette in comunicazione corpo individuale, corpo collettivo e produzione immaginale: “La danza corrisponde per un verso a movimenti respiratori, cardiaci e muscolari, identici in tutti gli individui e ai quali partecipano spesso anche gli astanti, e che, nello stesso tempo, essa presuppone e segue una successione di immagini, questa serie essendo essa stessa quella che il simbolo della danza evoca, a un tempo, presso gli uni e presso gli altri” M. Mauss, Rapporti tra la psicologia e la sociologia, in Id. Teoria generale della
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In questo contesto la posizione originariamente rivoluzionaria del gesto mimetico-
immaginale della danza, (come il canto modello di un’arte mimetica che compone
direttamente nel corpo umano il dissidio tra natura e cultura) nella quale l’elemento
impuro, “procédé de matéralisation de désirs”, catalizzatore rappresentativo del
contenuto attuale o virtuale della coscienza (ricordi, pulsioni inconscie, ecc…),
coabita con l’elemento puro e armonico. Mentre quest’ultimo si limita alla semplice
cofigurazione di rassomiglianze superficiali facilmente riconducibili a elementi
combinatori semplici, quali il ritmo al numero, le forme alle strutture geometriche,
abbiamo visto come l’elemento impuro obbedisca al principio dissimetrico del
dispendio economico e come sia incline a lasciarsi prendere ad un livello profondo
da quell’obsessions de ressemblance che è funzione fondamentale del pensiero
immaginativo554. Il canto, con l’elemento vocale, e la danza con quello corporeo,
segnano la ricerca di un’arte mimetica che si trova ad essere messa in gioco dal
confronto con un’estetica naturale generalizzata, al di là della fissità del riferimento
figurativo, nella dimensione figurale in cui l’arte si apre ad una dimensione di
aintenzionalità nell’indefinibilità dei confini tra prodotto e produttore (ne è
un’esempio le performances inaugurate dalle avangurdie degli anni ‘70) come quelli
tra coscienza e oggetto.555
magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pag. 315Lo stesso Fourier teorico delle virtù pedagogiche e passionali del gioco, nonché compagno di viaggio di Grandville, il quale ne ha illustrato meravigliosamente il sistema cosmologico, afferma esplicitamente l’importanza del canto, della danza per l’organizzazione dei suoi falansteri: “I fanciulli diventeranno grandi artisti del canto. Secondo quanto afferma Fourier, ogni falange avrà 7-8000 attori, musicisti e danzatrici.(…) Perché si produca questo sentimento generale dell’armonia, Fourier vuole che i bambini cantino duetti e terzetti, già nella sala delle balie”. Sigmund Engländer, Geschichte der französische Arbeiter-Associationen, Hamburg 1864, citato in W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 692 (W 2,1)554 “Il n’est aucun processus intellectuel ou affectif qui ne soit fondé sur le phénomène de ressemblance…” R. Caillois, Procés intellectuel de l’art, in Id Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974, pag. 45555 Per una genealogia del mimetico caratterizzata da una progressiva atrofia sino all’età moderna, e la relazione che intrattiene con la benjaminiana Theorie der Sprachmagie: “ Se nel comportamento mimetico il soggetto corrisponde all’oggetto, e gli si adegua con la produzione di somiglianze, ciò avviene perché qualcosa dell’oggetto gli si rivolgeva: letteralmente gli corrispondeva. L’uno è eco dell’altro. La mimesi parimenti è imitazione cosale del soggetto ed imitazione soggettiva della cosa in una figura stilizzata avulsa da entrambi. Lo attestano, in senso pratico gli atteggiamenti magici, mitologico- mantici, astrologici, grafici e logico-tecnici, e, in senso teorico, gli analoghi caratteri
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![Page 226: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/226.jpg)
L’arte non ha né modelli da rappresentare, né storie da raccontare, e mentre la
mimesi appartiene all’ordine del figurale, l’imitazione realistica, è narrazione,
esposizione distaccata, figurativa.
Pur distinguendo le due strade percorse dalla sperimentazione artistica come art de
représentation o de figuration, la quale “reproduit les donnés de la nature sans
d’ailleurs chercher uniquement la ressemblance”556 nell’ordine ottico della
percezione, e art géometrique, che, più prossima alla musica che al discorso ricalca
le esperienze costruttiviste di Mondrian o di Kandinski, è “réduit à la seule symétrie
linéaire ou rayonné, à la répétition d’élements analogues, à leur distribution
centrifuge”557, Caillois sembra vede per entrambe un analogo destino.
Se da una parte la rappresentazione si emancipa sempre di più dai dati visivi e si
rivolge sempre di più agli altri sensi, e infine alla moltiplicità creativa dei sensi
interni, dall’altra il rigore e l’astrazione subiscono un duro colpo con l’intervento
delle contingenze del reale, nuovi materiali ma anche rivoluzioni scientifiche e
spaesamenti percettivi nei nuovi mezzi tecnici.
Alla fine per entrambe le forme di rappresentazione lo scarto è così largo che “pour
le profane tout se passe comme si rien d’intelligible n’etait exprimé par les mots,
comme si rien d’identifiable n’etait représenté sul la toile par les couleurs et par les
figurali: il canone dei gesti di evocazione, dei segni mantici, dei geroglifici mitici, degli oroscopi, e la scrittura in lettere, numeri, rune e formule. Gli atteggiamenti e le figure, la prassi e la teoria si fondano a vicenda, e lo schema di base della fondazione è la lingua, la lingua in quanto espressione e scrittura. (…) Lo schema diacronicamente modificato della lingua che agisce in questo processo è il passaggio da una corrispondenza sensibile ed immediata di soggetto e oggetto (mantico-occulta), attraverso una corrispondenza immediata semisensibile (geroglifica e sacrale), per giungere a quella non sensibile e mediata (profano-semiotica). Questo schema le collega tutte con dati di similarità, ma in modo ugualment decrescente. Pertanto, in una scala tipologica riti mimetici quali la danza costituiscono l’archivio linguistico delle similarità sensibili, configurazioni astrologiche e geroglifici quello delle similarità semisensibili-ideografiche, e le lingue storiche l’ “archivio delle similarità non sensibili”. (…) la muta lingua nella natura, ove le cose comunicano in una magia materiale, e con esse l’uomo preistorico; la lingua dei nomi nell’uomo adamitico-extrastorico e al lingua dei concetti nell’uomo storico, il primo dei qualicomunica in una magia spirituale, e l’altro in una magia sempre più priva di spirito.” H. Schweppenhauser, Nome / Logos / Espressione. Elementi della teoria benjaminiana della lingua, in Belloi-Lotti (a cura di), Tempo storia linguaggio, Editori Riuniti, pp. 63-64556 R. Caillois, Esthétique généralisée, in Id. Cohérence aventureuses, Gallimard, Paris 1976, pag. 53557Ibidem, pag. 57
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![Page 227: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/227.jpg)
lignes”.558 In opposizione all’arte figurativa e a quella geometrica Caillois chiama art
muette, l’arte che si obbliga a non rappresentare niente di identificabile.
“De la meme facôn, on parle de langage muet, non parce qu’il n’exprime rien, mais parce que qu’il se
passe des mots pour exprimer. Ainsi de la peinture qui renonce de prime abord à l’image, au signe
constitué, à toute forme déchiffrable. Il n’est pas facile d’éviter image et signe et forme
reconnaissable. Il faut revenir à l’accident et à la trace ». 559
Allora la figuralità sarà quella di cogliere mimeticamente l’irrappresentabile, di
dipingere, scolpire, filmare ciò che da sempre ci caratterizza ma che da sempre ci
sfugge. Se lo spazio figurale dell’arte si apre necessariamente all’interno della natura,
non è possibile allora una differenziazione dal tessuto naturale e quest’ultimo si fa
protagonista dell’arte, figura che rappresenta e percepisce se stessa.
L’arte muta sarà quella del gesto, della traccia che espone la nuda rappresentazione,
la pura volontà di essere-in-comune, simultaneamente materia, sensazione,
riflessione. Arte muta, figurale o immaginale, tutti termini per definire il tentativo di
rappresentare l’in-comune: le forze e le energie che attraversano l’uomo e lo
scompongono in frammenti sparsi, immagini della memoria, affettività, leggi fisiche
del movimento, elementi anatomico-fisiologici necessità sociali, desiderio,
produzioni collettive.
La materialità della sensazione è il medium in cui la rappresentazione ha luogo, la
sfacciata presenza del sentire si sostituisce all’organizzazione della narrazione
figurativa. Con Deleuze a proposito della pittura di Bacon, ma lo stesso si potrebbe
dire del canto, della danza o del il cinema, l’arte come forma sensibile riferita alla
sensazione agisce direttamente sul sistema nervoso che è fatto di carne, è
innervazione del corpo nello spazio immaginativo:
“La sensazione ha una faccia rivolta verso il soggetto (il sistema nervoso, il movimento vitale,
l’istinto, il temperamento) e una faccia rivolta verso l’oggetto (il fatto, il luogo, l’evento) O forse non
558 Ibidem, pag. 60559 Ibidem, pag.63
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![Page 228: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/228.jpg)
ha alcuna faccia, perché è le due cose indissolubilmente, è, come dicono i fenomenologi, l’essere nel
mondo: io divengo nella sensazione e al tempo stesso, qualcosa accade attraverso la sensazione, l’uno
per l’altro, l’uno nell’altro. E, al limite, è il corpo stesso a dare e a ricevere la sensazione, a essere
insieme oggetto e soggetto. Io, spettatore, non provo la sensazione se non entrando nel quadro,
accedendo all’unità del senziente e del sentito.”560
A passo di danza, arte e tecnica si inscrivono sulla pelle, nella carne e nei sogni della
collettività, come “una proposta di miglioramento della natura, un imitare
(Nachmachen) il cui più nascosto intimo è un far vedere come si fa (Vormachen)”.561
Il mimetismo è dunque l’istanza della produzione naturale dei segni: l’oggetto
naturale si piega alla rappresentazione di un altro, e nell’uomo, identità metamorfica
di poetante e poetato, il poeta è attore che imita il poetato ed è esso stesso strumento
del poetare. Le farfalle che recano sulle proprie ali i disegni meravigliosi attendono
solo la scelta dell’uomo che le isoli dal contesto naturale e le ponga come oggetto
estetico, degno di una contemplazione del bello. In questi insetti la natura si fa arte,
la sua produzione è a-intenzionale e il prodotto è parte, organo dell’artista produttore
stesso.562 Nella dialettica di natura e arte, l’agire mimetico non è semplice copia
dell’oggetto imitato ma un’analogia produttiva dell’azione generatrice di physis
560 G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet 1997, pag. 85. Il modo di lavorare di Francis Bacon, all’incrocio di memoria, istinto, tecnica e riflessione, è esemplare per definire il significato di arte immaginale o figurale: la riproducibilità tecnica, la fotografia, non solo qui non esaurisce la produzione pittorica, ma la esalta in una straordinaria conversione da copia ad originale: David Sylvester - Dunque il mio sospetto era ingiusto. Avevo pensato che tu preferissi le fotografie all’originale perché sono meno esplicite, più allusive.Francis Bacon – Le foto che uso sono tutte rovinate, la gente ci cammina sopra. Sono sgualcite, spiegazzate e questo aggiunge a un’immagine, poniamo di Rembrandt, delle implicazioni che nell’originale non ci sono.DS – Finora abbiamo parlato di come tu lavori a partire dalle foto. Tra queste ci sono anche delle vecchie istantanee che hai adoperato per fare il ritratto di qualcuno che già conoscevi. Negli ultimi anni, s eti venive in mente di fare il ritratto di qualcuno, gli chiedevi di farsi delle foto apposta.FB – Si, l’ho chiesto anche ad amici che sapevo sarebbero venuti a posare. Preferisco lavorare così…DS – Preferisci essere solo?FB –Completamente. Solo con i miei ricordi.DS- Perché i ricordi sono più interesanti, o perché la presenza di qualcuno ti disturba?FB –Io voglio deformare la cosa al di là dell’apparenza, ma allo stesso tempo voglio che la deformazione registri l’apparenza. Francis Bacon, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester , Quaderni Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1991, pp.34-35561 W.Benjamin, GS, I, 3, pag. 1050; citato in Fabrizio Desideri, Il vincolo mimetico, in Id. Il fantasma dell’opera, Il melangolo, Genova 2002, pag. 143562 R. Caillois, Disegni o intenzioni, in Id. L’occhio di medusa, Torino 1998
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![Page 229: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/229.jpg)
secondo medesimi mezzi e fini, che non produce l’illusione della vita, una sua
rappresentazione feticistica, ma una traduzione del bios nel corpo dell’immagine.563
Gli imperscrutabili eventi geologici che danno origine ai cristalli e alle sottili
venature del marmo, o l’equilibrio biologico che disegna la fine struttura dei
legamenti e delle membrane, sembrano prefigurare i tentativi dell’arte
contemporanea di rappresentare al di là dell’imitazione oggettiva del cosmo.
« Les structures naturelles constituent le départ et la référence ultime de toute beauté imaginable.
Encore que la beauté soit appréciation humaine. Mais come l’homme appartient lui-meme à la nature,
le cercle se referme aisément et le sentiment que l’homme éprouve de la beauté ne fait que réflechir sa
condition d’etre vivant et de partie intégrante de l’univers. Il ne suit pas que la nature soit le modèle de
l’art, mais plutot que l’art constitue un cas particulier de la nature, celui qui advient quand la
démarche esthétique passe per l’istence supplémentaire du dessein et de l’exécution ».564
« Il bello non è un’invenzione, ma una lenta scoperta», dice Caillois, un continuo
movimento mimetico-conoscitivo che non crea niente, non intenziona alcun
materiale, ma si lascia afferrare dallo stupore e sprofonda nelle apparenze in cui si
mostra l’elemento che sotto le cangianti forme dell’arte viene riprodotto, nell’arte
come originarietà della riproducibilità tecnica
“Il bello nel suo rapporto alla natura può essere definito come ciò che « rimane essenzialmente
identico a se stesso solo sotto un involucro ». Le correspondances ci dicono che cosa si debba
intendere per questo involucro. Si può considerare quest’ultimo, con un’abbreviazione certamente
ardita, come l’elemento riproduttivo (imitativo) nell’opera d’arte. (…) Valery: « Il bello esige forse
l’imitazione servile di ciò che è indefinibile nelle cose»”565.
Questo fondo ermetico del bello, nucleo indefinibile della natura essenzialmente
identico a se stesso, di cui l’arte si incarica di imitarne servilmente la forma, non può
563 Sull’analogia di mimémata (creature di mimesis) e Zòa (creature di physis): “Mimesi è metamorfosi, in ciò che mima, nel modo in cui mima e nel risultato del suo mimare” N. Salomon, La zattera di mimesis, Marsilio,Venezia 2001, pag..79 564 R. Caillois, Esthétique généralisée, in Id. Cohérence aventureuses, Gallimard, Paris 1976565 W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag.119
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che essere la natura stessa, le leggi invisibili che presiedono al suo sviluppo, le
forme originarie della natura “che non furono mai un puro modello per l’arte, ma
sono state fin dall’inizio all’opera come forme originarie di tutto il creato.(…) Ciò è
in rapporto con una delle forme più profonde e imperscrutabili del creare, la
variazione, che è sempre stata la prima tra le forme del genio, dei collettivi creativi e
della natura. Essa è l’antitesi feconda, l’antitesi dialettica dell’invenzione: è il
principio per ci natura non facit saltus, come affermarono gli antichi”.566
Se quindi l’apparenza costituisce il momento necessario perché rappresentativo del
bello, essa è originariamente legata al vincolo mimetico con le forme naturali, con
quel supporto comune a tutte le forme di apparenza, quale ne sia l’origine, con il
quale Caillois spiega le ragioni dell’universalità del bello.
“Ce support commun, assez vivace et puissant pour demeurer encore déchifrable sous les dépôts
contrastés de chaque tradition, ne peut etre que la nature elle-meme. (...) Les apparences naturelles
constituent la seule origine concevable de la beauté.(...) L’impression de beauté ne saurait avoir
d’autre sourve. En effet, l’homme ne s’oppose pas à la nature, il est lui-meme nature : matiére et vie
soumises aux lois physique et biologiques qui gouvernent l’univers. Elles le pénetrent, le traversent,
l’organisent. Il coincide avec elles – ou, du moins, n’en pas séparable. Or, ces lois sont génératrice de
la beauté. C’est peu dire. Elles sécrétent la beauté, qui n’est rien d’autre que leur apparence
visible. »567
Il mutismo del segno o il silenzio che si sprigiona dal gesto dell’attore, è la
rappresentazione allibita dell’Ausdrucklos, il senza espressione da cui l’arte attinge,
non nei mondi meravigliosi e virtuali della creatività reificata del genio, né nel
soggettivismo di un esperienza vissuta, ma nella necessaria compenetrazione di
materia e pensiero, uomo e natura.
Ne è uno straordinario esempio nell’opera di Klee, la sintesi grafica delle freccie
gialle, rosse, puntate in alto, in basso, verticali o oblique che, come sotto l’ottica di
un fantastico microscopio, si palesano a rappresentare le invisibili forze che agiscono
566 W. Benjamin, Novità sui fiori, in Id. W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi, Torino 1993, pag. 224567 R. Caillois, Esthétique généralisée, in Id. Cohérence aventureuses, Gallimard, Paris 1976, pag. 41
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sotto lo strato della realtà sensibile, in un mondo complementare ma altrettanto
naturale. L’arte entra in competizione con la natura o meglio si dispone a “faire
mieux, ne pas imiter ou reproduire, mais aller à l’essentiel et retrouver sous la
gangue les accords élémentaires et fondamentaux.”568
Una mimesi perfettiva quindi, una Vollende mimesis, che tenta di migliorare, di
perfezionare la natura nel giocoso contrappunto di tecniche e natura, così come in
Benjamin dove il bello è “l’oggetto dell’esperienza nello stato della somiglianza”,
mimesi originaria del irrappresentabile e sua vollende Mimesis, e l’opera d’arte non è
che una nuova formazione della seconda natura, natura tecnicizzata e al secondo
grado.
La distinzione tra “mimesis eikastiké” e “mimesis phantastiké”569, parallela a quella
platonica tra artista-pittore, come colui che “imita-produce i fantasmi, illudendosi e
illudendo che siano l’epifania del vero”, e l’artista-filosofo, il quale “nel suo fare
lascia intuire la differenza tra lo specchio della mente e il carattere riflessivamente
speculare delle immagini-fantasmi in cui consistono le sue opere”570, apre allora alla
distinzione tra simulacro e figura, tra il rischio che l’arte, “la parola – cioè l’illatenza
e la rivelazione di qualcosa – si separi da ciò che rivela e acquisti una consistenza
autonoma”571, e la possibilità del riappropriarsi della materialità stessa del linguaggio
(artistico e non solo). La mimesis phantastikés, all’origine del simulacro, definisce
infatti la pretesa dell’immagine di avere lo stesso statuto ontologico dell’essere,
abbandono della consapevolezza dell’illusione, mentre si definisce “eikastiké ogni
mimesis che funga, con le proprie creature, da medium: il nome, la scrittura, il logos
filosofico sono intermediari tra essere ed epistéme, il volto riflesso è medium tra sé e
conoscenza di sé, la maschera mortuaria tra morto e vivo…”572
568 Ibidem, pag. 43569 N. Salomon, La zattera di mimesis, Marsilio,Venezia 2001, pag. 68570 F. Desideri, La tensione essenziale dell’opera d’arte contemporanea, in Id. Il fantasma dell’opera, Il melangolo, Genova 2002, pag. 50571 G.Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pag.68572 N. Salomon, La zattera di mimesis, Marsilio,Venezia 2001, pag. 68
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In questa posizione di medietà si ha la saldatura tra il Bildraum e il discorso della
mimesi e nel prodotto di quest’ultima, la figura, la via di fuga dalle fantasmagorie
derealizzanti della tecnica e dai pericoli politici insiti nella sua autonomia.
Nello spazio dell’affettività la mimesi mostra il profilo cangiante e impermanente di
emozioni, ricordi e vissuti onirici. Porta di passaggio da invisibile e invisibile,
l’éidolon non è né immagine, né metamorfosi né copia, solo nel contatto dato dalla
pistis emotivo-affettiva si ha il messaggio perturbante che crea discontinuità nelle
comuni regole del mondo visibile.
Se il mondo della seconda natura, “prodotta dal compenetrarsi di apparato tecnico e
realtà nell’opera d’arte filmica, è appunto pensabile come un mondo democriteo di
simulacra, di imagines, di effigies che come pellicole (membranae) si staccano dalle
cose e vagano nell’aria”573, allora la verità, l’ordine finito del cosmo, si mostra in
Benjamin solo in negativo, aitenzionalmente nelle sue figure storiche, mentre in
Caillois nel fondo collettivo dell’ideogramma lirico. La Figura quasi un analogo
simbolico del Nome nell'epoca della Tecnica, significa la possibilita' di intendere
come uno schema liberamente simbolico della verità, lo stesso carattere figurale della
"Seconda Natura" prodotta dall'arte nell'epoca della tecnica
“Figura, che ha lo stesso tema di fingere, figulus, fictor ed effigies, significa all’origine, formazione
plastica (…), in ogni caso, questa particolare formazione dà alla parola qualche cosa di vivace e di
mosso, di incompiuto e di giocoso…”574
Gli autori latini presi in esame nello studio di Auerbach sulla Figura, alternano
tranquillamente figura e forma prese in senso generale, dove propriamente il termine
forma indica la moule, lo stampo che sta alla figura come la forma cava sta al rilievo
plastico che ne esce.575 Ma il nuovo e peculiare significato che la parola acquista nel
573 F. Desideri, L’opera d’arte nell’epoca della tecnica. Un confronto tra Benjamin e Heidegger, in Id. La porta della giustizia, Pendragon, Bologna 1995, pag. 115574Ibidem, pag. 174575 E. Auerbach, Saggi su Dante, Feltrinelli 1984, pag. 175. Come il calzino benjaminano, il termine Figura contiene in una dialettica interna, quasi una coincidentia oppositorum, il gioco fra copia (moule) e originale. Riassume quindi il significato stesso della dimensione della seconda natura, inaugurata dal montaggio filmico, e il ricondurre alle apparenze naturali e alle forme originarie della
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mondo cristiano si trova per la prima volta in Tertulliano, dove la figura viene
rappresentata linguisticamente nella formula retorica della similitudine, il servo di
Dio come l’agnello o lo stagno di Bethesda e il battesimo, “ma l’uno e l’altro sono un
oggetto o un processo concreto e reale: spirituale è soltanto l’interpretazione o
l’effetto; giacchè anche il battesimo è un’azione carnale”.576
“La figura è qualche cosa di reale, di storico, che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa
reale e storica. Il rapporto reciproco dei due fatti è reso riconoscibile attraverso una conoscenza o
somiglianza.(…) La figura profetica è un fatto storico concreto ed è adempiuta da fatti storici
concreti.” 577
La profezia si compie nella stessa figura poiché la temporalità messianica è tutta già
contenuta nell’adesso della conoscibilità della figura stessa, così come
l’interpretazione figurale dei padri della chiesa “stabilisce fra due fatti o persone un
nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l‘altro,
mentre l’altro comprende o adempie il primo.”578
Le figure sono quindi profondamente calate nella realtà storica, addirittura figura e
historia stanno in Gregorio Magno l’una per l’altra, e per questo si pongono in
contrasto con il contenuto di verità del simbolo; non donano la rivelazione divina del
vero (qui il motivo della stesso tema di fingere) ma si mostrano disponibili
all’interpretazione, ad essere accostate nel loro carattere di umbra del reale.
La dimensione redentiva dell’adempimento è contenuta nella figura ad un livello
radicalmente materiale, contenuto analogicamente e in maniera diretta nel corpo
della sostanza, come a significarne l’inscindibile cooriginarietà di profezia e
adempimento, immagine e materia, storia e redenzione del nuovo.
natura, la solidarietà di arte e tecnica.576 “così l’unzione scorre nella realtà della nostra carne, ma crea vantaggi spirituali; carnale è l’atto dello stesso battesimo, poiché siamo immersi nell’acqua, spirituale è l’effetto, poiché veniamo liberati dalle colpe”. Citato in E. Auerbach, Saggi su Dante, Feltrinelli, Milano 1984, pag. 189577Non c’è critica più chiara alle varie apologie del virtuale postmoderno di quella espressa qui da Tertulliano “Né ci sarebbe stata una figura se non ci fosse stato un vero corpo: una cosa vuota, un fantasma, non avrebbe potuto concretarsi in figura.” Citato in E. Auerbach, Saggi su Dante, Feltrinelli, Milano 1984, pag. 188578 Ibidem, pag. 186
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L’arte figurale si fa quindi arte profetica e politica quando interrompe la catena del
pensiero mitico inaugurando l’incoffessabilità del legame comuniale, esponendo le
singolarità, umane, animali, cosali, al proprio limite, alla loro costitutiva reciprocità.
Comunità che non avviene all’altezza di un’azione, di una volontà di potenza ma al
contrario come condivisione dell’orizzonte del patire, sopportare i gesti nell’ebbrezza
della partition579 con il cosmo.
““Il contatto con il mondo classico si compiva altrimenti: nell’ebbrezza. E infatti è ebbrezza
l’esperienza che sola ci assicura dell’infinitamente vicino e dell’infinitamente lontano, e mai dell’uno
senza l’altro. Ciò però vuol dire che comunicare col cosmo nelle forme del’ebbrezza all’uomo è
possibile solo all’interno della comunità.”580
Proprio attorno al nodo della comunità e dell’ebbrezza ruota il rapporto che il collége
intrattenne con Benjamin e proprio sulla paura che tale esperienza sfuggisse al
controllo dei suoi interlocutori poggiava la sua reticienza ai progetti di Bataille e
Caillois. Il “grande corteggiamento del cosmo” a cui anche Caillois partecipava
fedelmente si era già attuato con la prima guerra mondiale, nello spirito della tecnica;
i tempi in cui si trovarono a vivere entrambi, prospettavano la ripetizione della
tragedia ma purtroppo non come una farsa, e Benjamin, pur affascinato dalla
singolarità di un pensiero come quello di Caillois, mostrò freddezza alle pericolose
incursioni del giovane francese nei territori dell’ebbrezza.
Ma come ci testimonia Klossowski in una breve nota, nel legame di natura, ebbrezza
e prassi politica, continua a misursi l’interesse dei congiurati del Collége de
sociologie, per la figura silenziosa, diffidente e appartata di Benjamin:
“Lo interrogavamo sempre più insistentemente su quello che intuivamo essere il suo fondo più
autentico, cioè la sua versione personale di un rinnovato falansterio. A volte ce ne parlava come di un
esoterismo contemporaneamente erotico e artigianale, soggiacente alle sue concezioni marxiste
579 Nel senso precisato da Nancy come esposizione alla comunità, “presentazione del distacco (o della separazione), della distinzione che non è l’individuazione, ma la finitezza che compare” J.L.Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1995, pag. 68 580 W. Benjamin, Strada a senso unico, in Id. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, pag.462
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![Page 235: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/235.jpg)
esplicite. La collettivizzazione dei mezzi di produzione avrebbe permesso di sostituire alle classi
sociali abolite una ridistribuzione della società in classi affettive. Una produzione industriale
affrancata, invece di asservire l’affettività, ne avrebbe sviluppato le forme e organizzato glia scambi,
nel senso che il lavoro sarebbe divenuto il complice, e non più la compensazione punitiva degli
appetiti”.581
Charles Fourier, già osannato dai surrealisti come loro precursore, e la sua teoria
delle passioni, dove “l’attrazione passionale è l’impulso dato dalla natura,
anteriormente alla riflessione, e persistente nonostante l’opposizione della ragione,
del dovere, del pregiudizio”582, costituisce per Benjamin il correttivo eretico del
marxismo ortodosso, l’introduzione di elementi affettivi nel sistema rigorosamente
economico della lotta di classe. Un meccanismo di rovesciamento dialettico della
rappresentazione razionalista dell’affettività contraddistingue la sistemazione
fourierista delle passioni. In virtù di un meccanismo interno, si realizza nell’uomo un
equilibrio tale che la soddisfazione di ciscuna passione favorisce quella di tutte le
altre: insomma abbandonandosi alle passioni, gli harmoniens si muovono sicuri nelle
vie della fortuna e della salute.
Nell’architettazione del falansterio come comunità erotico-artigianale, ad una società
divisa in classi sociali, succede una unitaria e armonica fondata sulla
compenetrazione di inclinazioni individuali e modificazioni tecniche della natura,
inedita fusione utopica di natura, desiderio e industria.
Al rovesciarsi del vizio in virtù passionale, dell’ebbrezza solipsitica in armonia con il
cosmo, corrisponde il dispositivo dialettico che attua la connessione tra costituzione
sociale della tecnica e rapporto uomo-natura, ovvero le due idee fondamentali della
politica benjaminiana: “l’idea della rivoluzione come innervazione degli organi
tecnici della collettività (confronto con il bambino che impara ad afferrare tentando
di acchiappare la luna) e l’idea di “scassinare la teleologia naturale”583
581 P. Klossowski, Entre Marx et Fourier, in Le Monde, 31 maggio 1969, supplemento al n. 5782; citato in D.Hollier, Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pag. 502582 Charles Fourier, Théorie de l’Unité Universelle, citato in Id. Contro la civiltà, Guaraldi editore, Bologna 1971583W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 701 (W7,4)
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![Page 236: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/236.jpg)
Questo dispositivo dialettico è ben evidente nell’utopia pedagogica fourierista delle
petites hordes, i cui appartenenti “sono bizzosi, ribelli, sudici, adottano un tono aspro
e modi di esprimersi volgari; amano il chiasso e sfidano i pericoli e le intemperie per
il piacere di commettere qualche danno”.584 Queste corporazioni di bambini, in cui
“Fourier vede operare quattro grandi passioni: l’orgoglio, la spudoratezza,
l’insubordinazione e la più importante di tutte le goût de la saleté, la passione della
sporcizia”585, sono “il focolare di tutte le virtù civiche”, esercitano l’alta protezione
del regno animale e sono la viva dimostrazione, a cui ogni autorità, perfino i
monarchi, deve il primo saluto, che “l’appagamento di tutti i desideri che la Morale
proibisce, è la molla che realizzerà tutte le chimere di cui si nutrono i moralisti”.586
I bambini e la dimensione percettiva dell’infanzia sono i protagonisti
dell’emancipazione umana dallo sfruttamento del lavoro nel ribaltamento dell’utopia
tecnologica: “non dominio della natura ma dominio del rapporto tra natura e
umanità”587; una crociata di bambini che impugnano nella lotta la sola forza
rivoluzionaria del gioco:
“La caratterizzazione del processo lavorativo in base al suo rapporto con la natura è determinato dalla
sua costituzione sociale. Se infatti non fosse propriamente l’uomo ad essere sfruttato, ci si potrebbe
risparmiare il discorso improprio sullo sfruttamento della natura. Quest’ultimo rafforza l’apparenza
del valore che le materie prime ottengono solo mediante un sistema di produzione che si basa sullo
sfruttamento del lavoro umano. Se questo dovesse finire, il lavoro perderebbe a sua volta il carattere
di sfruttamento della natura da parte dell’uomo e si effettuerebbe secondo il modello del gioco
infantile che in Fourier è alla base del travail passionné des harmonies. Avere posto il gioco come
canone del lavoro non più sfruttato, è uno dei grandi meriti di Fourier. Un tale tipo di lavoro animato
dal gioco non è diretto alla produzione di valori, ma al miglioramento della natura. Anche per una tale
natura l’utopia fourierista pone un modello, che vediamo effettivamente realizzato nei giochi infantili.
584 Charles Fourier, Le Nouveau monde industriel et sociétaire, citato in Id. Contro la civiltà, Guaraldi editore, Bologna 1971, pag. 201585 W. Benjamin, Commenti ad alcune liriche di Brecht, in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pag. 158586Charles Fourier, Le Nouveau monde industriel et sociétaire, citato in Id. Contro la civiltà, Guaraldi editore, Bologna 1971, pag. 203587 W. Benjamin, Strada a senso unico, in Id. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, pag.462 Nell’esporre questo, che potrebbe essere un perfetto slogan di un gruppo ecologista, Benjamin ricorre significativamente ad un esempio “pedagogico”.
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![Page 237: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/237.jpg)
È l’immagine di una terra su cui non c’è luogo che non sia divenuto una specie di fattoria, nel doppio
senso che tutti i luoghi sono come rifatti dal lavoro umano, che li rende utili e belli, ma restano nello
stesso tempo, come una Wirtschaft (locanda) lungo una strada di campagna, ei luoghi di ristoro aperti
a tutti. Una terra ordinata secondo quest’immagine cesserebbe di essere parte «d’un monde où l’action
n’est pas la soeur du rêve». L’azione e il sogno vi diventerebbero fratelli”.588
Indice
Premessa…………………………………..………..pag. 1
Parte prima L’equivoco surrealista
I. Parigi, città allo specchio……………………………………..pag. 2
II. Critica dell’immagine surrealista…………………………….pag. 12
III. Allegoria e dialettica dell’ebbrezza…………………………..pag. 27
IV. Il volto analogico del mondo…………………………………pag. 43
588 W. Benjamin, I passages di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pag. 398 (J 75,2)
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![Page 238: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/238.jpg)
V. Il pazzo e il poeta.…………………………………………… pag. 58
Parte seconda Ambiguità del politico
I. Benjamin stratega dialettico……………………………….. pag. 64
II. Die Kreatur. Per un’analisi del paradigma creaturale………pag. 77
III. Critica dell’uomo-astuccio………………………………….pag. 84
IV. L’orizzonte insuperabile della comunità……………….…...pag. 107
V. Vous travaillez pour le fascisme…………………………....pag. 132
Parte terza L’utopia immaginale
I. Prolegomeni per una tradizione del Bildraum ……………pag. 164
II. L’infanzia di una seconda natura …………………………pag. 197
Bibliografia generale………………………………pag. 244
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![Page 239: Arte e Letteratura - Tesi Sul Surrealismo](https://reader031.vdocuments.net/reader031/viewer/2022022402/55cf9c78550346d033a9f311/html5/thumbnails/239.jpg)
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