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LA MEDICINA DEL LAVORO: EVOLUZIONE STORICAPROF. ARMANDO MASUCCI

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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 LA MEDICINA DEL LAVORO.-------------------------------------------------------------------------------------------- 3

2 EVOLUZIONE STORICA DELLA MEDICINA DEL LAVORO --------------------------------------------------- 5

3 LA FORZA LAVORO ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 21

BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 24

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1 La Medicina del Lavoro.

La Medicina del Lavoro è la disciplina che tutela l’integrità psico-fisica del lavoratore,

insidiata dall’ambiente, dal materiale, dagli strumenti, dalla posizione di lavoro e dagli eccessi di

lavoro.

Ma, l’integrità psico-fisica è un’astrazione e come tale non ottenibile. Si devono quindi

riconoscere alla integrità psico-fisica degli attributi quantitativi, valutabili dalle capacità funzionali

di riserva di ciascun organo ed apparato. Secondo la definizione di Simpson, l’optimum della salute

è conservare il massimo delle capacità di riserva per ciascuna e qualsivoglia struttura e funzione

dell’organismo.

Gli agenti nocivi ai quali può essere esposto l’individuo, a causa del suo lavoro, possono

essere così raggruppati:

Agenti chimici

Agenti fisici

Agenti infettivi e parassitari

Posizione di lavoro

Eccesso di lavoro.

L'obiettivo della Medicina del Lavoro, secondo le indicazioni del comitato congiunto OIL-

OMS (1959), è quello di:

promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, mentale e

sociale del lavoratori in tutte le occupazioni;

adoperarsi per prevenire ogni danno causato alla salute da condizioni legate al

lavoro e proteggere i lavoratori contro i rischi derivanti dalla presenza di

agenti nocivi;

destinare e mantenere i lavoratori in occupazioni consone alle loro attitudini

fisiologiche e psicologiche;

in sostanza, adattare il lavoro all'uomo e collocare ogni persona al posto

giusto.

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La moderna Medicina del Lavoro, dovendo pertanto rispondere a quelli che sono gli

obiettivi sanciti dall'OIL-OMS, è divenuta una disciplina composita, dove la Clinica delle malattie

professionali, cioè la branca specializzata nel riconoscimento diagnostico, della terapia e della

riabilitazione della malattia causata dal lavoro, è una delle diverse componenti della Medicina del

Lavoro, assieme all'Igiene Industriale, alla Tossicologia Industriale, alla Fisiologia del Lavoro, alla

Ergonomia, alla Psicologia del Lavoro, alla Epidemiologia ed alla Medicina Preventiva dei

Lavoratori.

La Medicina del Lavoro pertanto, pur essendo una branca nata come uno dei tanti rami dal

tronco comune della clinica, è cresciuta assumendo nel tempo una connotazione sempre più propria

ed uno spazio sempre più diversificato rispetto alle origini.

Identificare pertanto la Medicina del Lavoro con la Clinica delle malattie professionali

vorrebbe dire sancire il fallimento della medicina del lavoro, intesa come disciplina che, secondo le

indicazioni OIL-OMS, si prefigge lo scopo di prevenire le malattie da lavoro e di promuovere il

benessere psicofisico del lavoratore.

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2 Evoluzione storica della Medicina del Lavoro

L’evoluzione storica della Medicina del Lavoro è strettamente collegata all'evoluzione della

tecnologia e alla patologia che ne consegue dal suo utilizzo.

Per tecnopatia o malattia professionale s’intende: un evento che determina danno alla

persona (morte o invalidità lavorativa permanente totale o parziale), che si verifica per ragioni di

lavoro nell’ambiente di lavoro determinato da una causa lesiva diluita nel tempo.

Nell’antichità il lavoro manuale era riservato agli schiavi in quanto esso veniva considerato

cosa indegna e degradante per l'uomo libero, Tito Lucrezio Caro nel "De rerum natura" descriveva

le drammatiche condizioni di lavoro degli schiavi e le malattie a cui andavano incontro.

Ippocrate, Galeno e Plinio, nei loro scritti, già argomentavano con dovizia di particolari le

lesioni patologiche che comparivano con particolare frequenza in determinate categorie di artigiani.

Nel secolo XV, Paracelso descrisse minuziosamente gli aspetti del lavoro nelle miniere di

metalli e le malattie che insorgevano tra i minatori e i fonditori, in alcuni casi suggerendo anche

possibili applicazioni preventive.

In seguito ai grandi sviluppi delle scienze naturali ed al progresso delle conoscenze

anatomiche del corpo umano, nel XVII secolo si avverte sempre più la necessità di trovare una

metodologia scientifica e razionale delle interpretazioni patologiche e la ricerca di nuovi sistemi

terapeutici, che rispondano alle nuove teorie fisiologiche. In tal senso, il recupero di Ippocrate

fornisce il corpus dottrinale di riferimento per rifondare un metodo scientifico che permetta di

interpretare i fenomeni patologici secondo le dottrine meccanicistiche dell’epoca, attraverso

l’individuazione di cause e principi comuni che spieghi le malattie in una dinamica di causa-effetto.

Ippocrate aveva distinto le malattie individuali, indotte da un regime sbagliato, da quelle a carattere

epidemico, che insorgono per una corruzione dell’aria, che produce miasmi morbiferi.

L’osservazione costante dei fenomeni, naturali e non, che possono in qualche modo influire sulla

composizione e natura dell’aria in relazione all’insorgenza e sviluppo di specifiche patologie,

diviene così la strada per una spiegazione meccanico-razionale delle malattie. L’ippocratismo di

fine ’600 si pone come strumento di validazione della medicina, attraverso una rilettura dei testi

degli autori antichi che validi l’osservazione empirica come metodologia di indagine per conoscere

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le cause e la natura delle malattie, e per stabilire un rapporto meccanico di causa-effetto tra

determinati fattori ambientali ed insorgenza di specifiche patologie.

Ma il vero fondatore della Medicina del Lavoro va considerato Bernardino Ramazzini da

Carpi, il quale per primo ha esposto con chiarezza che alcune malattie trovano la loro origine nel

lavoro dimostrando i rapporti esistenti tra alcune attività lavorative ed eventi morbosi e

introducendo l’anamnesi lavorativa nell'approccio col paziente.

Nel trattato "De morbis artificum diatriba" il Ramazzini, non solo descrive chiaramente la

malattia causata dallo svolgimento del mestiere ma suggerisce anche i rimedi utili a limitare o a

prevenire la malattia stessa.

Egli tracciò per primo la metodologia della medicina del lavoro, infatti oltre a considerare e

descrivere il lavoratore ammalato, si recava personalmente nella bottega per rendersi conto

dell'ambiente di lavoro e per trarne opportuni suggerimenti ai fini preventivi.

Il Ramazzini scrive: “Poiché dunque non solo nel passato, ma anche ai nostri tempi, nelle

società ben regolate, sono state fissate delle leggi a vantaggio dei lavoratori, è altrettanto giusto

che anche la medicina apporti il proprio contributo in favore e a sollievo di coloro che lo Stato si

preoccupa di favorire e, con un impegno particolare che fino ad ora è stato assente, abbia cura

della loro salute in modo che per quanto è possibile, possano esercitare senza pericolo l’attività a

cui si sono dedicati. Io, da parte mia, ho fatto tutto quello che pensavo fosse giusto fare e non mi

sono sentito sminuito quando, per osservare tutte le caratteristiche del lavoro manuale, entravo

nelle botteghe artigiane più modeste; d’altra parte in questa nostra epoca anche la medicina

impiega osservazioni derivate dalla meccanica. Mi interessa fare notare, in particolare ai miei

colleghi medici, che in tutte le realtà è possibile ritrovare le lavorazioni che descrivo ed, inoltre,

che le stesse lavorazioni in alcune regioni possono essere eseguite in modo diverso. Questo

significa che volta per volta le malattie prodotte da quelle lavorazioni potranno essere diverse da

quelle che io descrivo.

Nelle botteghe artigiane, come è giusto, cioè direttamente sul campo ho cercato di

raccogliere tutte le osservazioni interessanti e formulare indicazioni, cosa questa più importante,

sia per la cura che per la prevenzione delle malattie che di solito incombono su quelli che

lavorano”.

Metodo epidemiologico, inteso come sistema razionale di identificazione delle cause di

malattia, e recupero della scienza medica come arte finalizzata alla cura degli uomini, rappresentano

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i due cardini su cui si fondano l’attività e la produzione letteraria di Bernardino Ramazzini, che

rifonda la supremazia della medicina clinica su quella teorica, nell’intento di riaccreditare

socialmente e culturalmente l’arte medica come scienza utile all’intera collettività. L’eredità del suo

pensiero risulta evidente negli studi medici della seconda metà del Settecento, incentrati sull’analisi

della morbilità indotta da specifiche sostanze organiche ed inorganiche, e dei rispettivi effetti

patologici, ma soprattutto nella letteratura degli di medicina preventiva e nella redazione di progetti

di salute pubblica che si svilupperanno nel corso del XVIII secolo. Nelle Constitutiones epidemicae,

redatte tra il 1691 ed il 1695, B. Ramazzini dimostra l’intima correlazione tra fenomeni climatico-

ambientali ed insorgenza di specifiche malattie epidemiche, evidenziando come la qualità di una

determinata costituzione atmosferica ed ambientale corrisponda a quella dei processi morbosi che vi

si sviluppano.

La climatologia, intesa come analisi delle modificazioni dell’aria in relazione ai fenomeni

meteorologici, diviene un metodo di ricerca scientifico per identificare i fattori primi che provocano

e caratterizzano le febbri epidemiche che insorgono nei vari periodi dell’anno. Ramazzini considera

infatti l’aria agente primario di patogenicità, perché composta da particelle eterogenee: la sabbia, la

polvere, le piogge, le esalazioni ed i vapori terrestri, o emanati da materia organica putrida, alterano

la massa atmosferica, che, divenuta inadeguata per le meccaniche della respirazione e della

traspirazione, altera la massa ed il moto del sangue e compromettendo le funzioni vitali. È su tali

presupposti che Ramazzini redige il De Morbis Artificum, con l’intento di stabilire il nesso tra

fattori di rischio propri di ogni professione ed insorgenza di specifiche patologie. Suddivide infatti il

trattato in relazione alle cause principali di sviluppo delle malattie dei lavoratori, ossia le sostanze

oggetto della loro arte ed i moti “non fisiologici” cui sono costretti, presentando le categorie

professionali con un ordine che sembra seguire una scala gerarchica di patogenicità, in base alla

natura, alla tossicità, ed ai tempi di esposizione per il primo gruppo, ed ai danni indotti dagli sforzi

eccessivi o da una forzata postura, per il secondo.

Le interpretazioni eziopatogeniche che fornisce riflettono le dottrine mediche dell’epoca,

che spiegano i processi patologici in chiave meccanico-corpuscolaristica: i lavori di fatica o

sedentari comportano infatti dinamiche di compressione e contrazione che determinano danni

meccanici dell’apparato locomotore e degli organi interni; la lavorazione di metalli, minerali e

sostanze organiche espone invece all’inalazione ed all’assorbimento, attraverso i pori cutanei, di

particelle tossiche o putride che alterano e corrompono la composizione dell’aria. Il tema

dell’inquinamento dell’aria è costantemente presente, sia per quei lavoratori che lavorano in luoghi

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chiusi, costretti a respirare aria pregna di esalazioni nocive, sia per quanti svolgono le loro mansioni

in ambienti patogeni di per se stessi, come i minatori, i macellai, i conciatori, i becchini o i pulitori

di fogne. Denuncia infatti la patogenicità dei vapori che si addensano nelle vie in cui sorgono le

botteghe di lavorazione di carni e pelli animali, e, trattando dei becchini e dei pulitori di fogne,

ribadisce che le esalazioni cadaveriche e delle discariche costituiscono la causa principale

d’insorgenza di malattie epidemiche. Alcuni dei temi trattati da Ramazzini divengono motivi

ricorrenti della letteratura medica settecentesca. Fourcroy, nella prefazione alla sua edizione

francese del De morbis artificum dichiara apertamente che tutti gli autori che hanno trattato le

malattie dei lavoratori hanno attinto al testo di Ramazzini, citando a tal proposito La Médecine, la

Chirurgie et la Pharmacie des Pauvres di P. Hecquet, del 1740, l’articolo sulle malattie dei

lavoratori nel Dictionnaire de Santé del 1760, e nel Dictionnaire de Médecine del 1772, la

Domestic Medicine di W. Buchan, del 1769. Si tratta di opere di carattere divulgativo, che riportano

un sunto semplificato del trattato di Ramazzini, in cui gli autori tralasciano le varie interpretazioni

ezio-patogeniche, e si concentrano maggiormente nelle indicazioni di sistemi preventivi e

terapeutici. Frequenti i richiami ai sistemi di tutela dai rischi cui i lavoratori, sia contadini che

artigiani, sono esposti nello svolgimento delle loro attività. A tale filone letterario può inscriversi

anche una delle opere più diffuse nella seconda metà del XVIII secolo, l’Advis au Peauple sur sa

santé di A. Tissot, (Losanna, 1761). L’intenzione che tutti questi autori variamente esprimono è

quella di divulgare un sapere medico di base, perché i cittadini possano prender coscienza dei rischi

di malattia cui sono esposti, ed adottare così i dovuti accorgimenti di profilassi e prevenzione,

apprendere nozioni di terapeutica e di pronto intervento. L’attenzione che Ramazzini presta alle

fasce di popolazione più deboli della società, così come i suoi richiami all’importanza delle Arti

come fondamento del progresso sociale e del benessere dei cittadini trovano, naturalmente, un

riscontro fisiologico nella cultura illuminista. La medicina settecentesca approfondisce, infatti, gli

studi sulla nocività delle esalazioni indotte dalla putrefazione della materia organica, e sulla

tossicità dei vapori di specifiche sostanze, come dimostrano i rapporti di A. Portal sull’asfissia

provocata dai fumi del carbone, ed i dibattiti sulla patogenicità delle officine di lavorazione dei

metalli di fine ’700. Si diffonde, infatti, sempre più l’idea dei rischi patogeni indotti dai metalli.

Riportando le malattie derivate dall’uso dei metalli, Fourcroy avverte costantemente dei

rischi di intossicazione che ne derivano. Ribadisce, per esempio, i rischi di avvelenamento prodotti

dai condotti idrici in piombo, dal vasellame da cucina ed utensili di uso quotidiano in rame, piombo

o stagno. Anche A. Tissot, nell’Advis au peuple, avverte della tossicità del verderame, e della

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pericolosità delle suppellettili da cucina in rame o in piombo. Metalli largamente diffusi per la

composizione di farmaci antiputrefattivi, caustici ad uso topico e prodotti cosmetici ancora nel

XVIII secolo, il piombo, sotto forma di litargirio, il mercurio, come argento vivo, lo stagno, come

calce bianca, ed il rame, vengono ora analizzati nei loro effetti tossici e patologici. Fourcroy

denuncia gli effetti patogeni del sublimato corrosivo, largamente utilizzato nella cura della sifilide,

così come ricorda che lo stagno produce esalazioni arsenicali velenose e mortali, e che il suo uso

terapeutico è nocivo. Il rischio da avvelenamento da farmaci a base minerale viene denunciato

anche da A. Portal, che, nel suo Rapporto all’Accademia Medica di Parigi, indica gli accorgimenti

terapeutici da seguire in caso di avvelenamento da farmaci a base di mercurio, piombo o arsenico.

Tale argomento viene trattato anche da G. B. Morgagni, cui Fourcroy fa volutamente riferimento,

per ampliare e confermare le teorie di Ramazzini. Riporta così alcuni esiti degli esami autoptici

descritti nel De sedibus et causis Morborum, a proposito delle lesioni interne provocate dall’uso

terapeutico dello zolfo, delle infiammazioni polmonari riscontrate sui cadaveri di cardatori di lino e

lana, e degli effetti tossici della cardatura dei metalli. I rischi di intossicazione derivati da farmaci

minerali sono esposti da Morgagni anche in alcune perizie medico-legali, che svolge in qualità di

membro del Collegio medico peritale di Padova, come quella del 1736, in cui esamina i rischi di un

uso eccessivo dell’argento vivo nella terapia antisifilitica, ed in una perizia del 1757, in cui si

denuncia la letalità delle terapie con tartaro solubile non adeguatamente calibrate. In altre perizie,

tratta il tema della contaminazione dell’aria indotta da materia organica putrefatta, come in quella

del 1731, in cui espone i rischi e le cautele da assumere per la sepoltura delle salme nell’antico

Sepolcro d’Este, la perizia effettuata per valutare la nocività della lavorazione del lino, o

l’accertamento sulla morbilità gli odori prodotti dalle concerie, nel 1753.

Anche Fourcroy sottolinea la morbilità delle esalazioni prodotte dalla materia organica, che

considera esser l’origine della maggior parte delle patologie epidemiche, riprendendo quanto

enunciato da Ramazzini sulla corruzione dell’aria indotta dai vapori mefitici che scaturiscono dalle

botteghe di lavorazione di carni e pelli di animali, e dai cimiteri urbani. Dalla lettura di tutti questi

testi emerge chiaramente come la maggiore eredità di Ramazzini risieda nell’idea della prevenzione

come strumento ed interesse primario della medicina, espressione dell’universalità dell’operato del

medico, che si compie attraverso le indicazioni di profilassi e di tutela dalle cause delle malattie.

L’insegnamento di Ramazzini si riflette così nei progetti di salute pubblica che i medici di fine

Settecento redigono in collaborazione con le autorità istituzionali, come si evidenzia nella

Médecine civile di A. Tissot, che propone un piano di politica sanitaria a partire da un progetto di

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regolamentazione urbana, che prevede lo spostamento dei cimiteri, delle macellerie, delle pescherie,

dei magazzini di piante tessili, e delle officine di produzione di oggetti in leghe metalliche tossiche

in luoghi non abitati, e ben areati, perché le esalazioni che ne derivano non contaminino i centri

urbani, e possano esser facilmente disperse. Si afferma così la necessità di politiche sanitarie in cui

centrale lo sviluppo della prevenzione.

Nella seconda metà del diciottesimo secolo, si assiste all’inizio della rivoluzione industriale

e con essa alla prevalente trasformazione del lavoro da artigianale ad industriale con tutti i problemi

inerenti ai carichi di lavoro, all'orario di lavoro ed all'impiego indiscriminato di mano d'opera

femminile e minorile. Nel 1830 nel Regno Unito viene applicata per la prima volta la prima

legislazione protettiva soprattutto nei confronti del lavoro delle donne e dei bambini.

Un momento storico importante in cui si mette a fuoco il problema del lavoro femminile, è

rappresentato dalle convenzioni internazionali stipulate a Berna nel 1906 dove viene adottata

all’unanimità il divieto del lavoro notturno per le donne, e sette Stati accettarono il divieto per i

“lavoratori” di utilizzare il fosforo bianco nella fabbricazione dei fiammiferi. Poiché in questo

settore lavorativo la quasi totalità del personale era femminile, le legge era in effetti diretta a

proteggere le lavoratrici.

Tre anni dopo, nel 1909, i Congressi di medicina del lavoro iniziarono a parlare del lavoro

femminile e nel II Congresso che si tenne a Firenze, vi fu la relazione del professore Bossi sulla

“Patologia dell’apparato genitale femminile in rapporto al lavoro”. Dopo un breve cenno sulle

malattie utero-ovariche, l’oratore ampliò il tema e fece emergere numerose altre problematiche,

quali l’insufficienza dei salari, le condizioni poco igieniche dell’ambiente e la non adeguata

nutrizione delle donne in rapporto al consumo energetico. Nella relazione si fa riferimento ad un

importante obiettivo che era stato proposto al Congresso Internazionale della patologia da lavoro

tenutosi a Milano ove venne votato un ordine del giorno con il quale i convenuti invitavano i

governi a legiferare in difesa della madre lavoratrice con l’Istituzione di una Cassa di Maternità. Il

prof. Bossi, e tutti i partecipanti alla discussione, denunciarono i limiti di un progetto di

regolamento, uscito in quell’anno, che avrebbe dovuto integrare la succitata legge sull’istituzione

della Cassa di Maternità e che invece non teneva conto: dell’ultimo mese di gravidanza; non

distingueva il sussidio rilasciato dopo un parto o dopo un aborto (essendo la ripresa del post-partum

e dell’allattamento ben più lunga); ma soprattutto era di scarsissimo aiuto economico. “... una legge

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tanto e da tanto tempo strombazzata che si risolve in un sussidio totale alle operaie dopo il parto

di 30 lire, che per metà sono costituite da ritenute fatte sui salari delle operaie stesse senza alcun

sacrificio dello Stato appare per sé così misero provvedimento a noi clinici che quotidianamente

constatiamo a quali tristi condizioni e a quali impellenti necessità sono esposte il più delle volte le

lavoratrici nel’ultimo mese della gestazione, nel parto e nel puerperio, soprattutto quando

allattano, da farci arrossire di essere Italiani. ...Il richiamare l’attenzione del legislatore

costituisce una delle più efficaci opere per la tutela fisica delle lavoratrici di tutte le classi, dalle

maestre alle operaie, alle domestiche alle contadine...”.

Nel 1910 Luigi Devoto fonda in Milano la Clinica del Lavoro, fornendo una base scientifica

alla medicina del lavoro e soprattutto proclamando il concetto della prevenzione delle malattie da

lavoro. Devoto pone le basi della moderna Medicina del Lavoro.

A partire da questi anni si assiste sempre più a un cambiamento della patologia professionale

in quanto strettamente correlata ai mutamenti della storia sociale, politica ed economica, alle

innovazioni tecnologiche e scientifiche e alle trasformazioni organizzative realizzate

progressivamente nell’industria e nell’agricoltura.

La costituzione della Società Italiana di Medicina del Lavoro venne deliberata il 12 ottobre

1929, in occasione dell’ottavo congresso di Medicina del Lavoro a Napoli, ed ebbe a suo primo

presidente appunto Luigi Devoto. Potrebbe apparire una costituzione tardiva, anche in confronto al

panorama internazionale. In realtà la costituzione formale della Società ufficializzava e forniva una

cornice formale più appropriata ad un’attività scientifica e una rete organizzativa che preesistevano

da almeno due decenni. La serie dei congressi di Medicina del Lavoro aveva avuto inizio infatti nel

1907, e mantenne la numerazione progressiva dopo il 1929, senza nessuna soluzione di continuità.

Si ebbe inoltre una continuità diretta ed evidente fra la dirigenza della SIML (Società Italiana di

Medicina del Lavoro) del 1929 e la struttura organizzativa che aveva iniziato e portato avanti la

serie dei precedenti congressi di Medicina del Lavoro, a partire dal Primo congresso nazionale di

Medicina del Lavoro, tenutosi a Palermo nel 1907, il quale a sua volta aveva avuto un precedente

importante l’anno prima a Milano. A Milano infatti, nei giorni fra il 9 e il 14 giugno 1906, si era

tenuto il Primo Congresso Internazionale per le malattie del lavoro. In quella occasione si era

costituito il primo nucleo di quella che sarebbe diventata l’ICOH. Vi erano rappresentati dieci Stati

europei, ma il Presidente e il Bureau esecutivo erano italiani, e tale restarono, con sede in Italia,

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presso la Clinica del Lavoro di Milano, per tutta la prima metà del secolo.

Il Bureau Internazionale fu quindi in realtà il primo nucleo organizzato di una

rappresentanza di categoria della Medicina del Lavoro in Italia.

Come si spiega questa preminenza italiana, in un contesto europeo in cui il nostro paese

segnava forti ritardi?

Nel momento del “decollo industriale” italiano, la medicina del lavoro vantava in Italia

alcuni nuclei importanti e avanzati, che si richiamavano alla tradizione di Ramazzini, e finì per

esercitare un’attività importante in funzione di supplenza rispetto alle carenze legislative e

organizzative nel campo della salute sul lavoro.

L’iniziativa dei medici del lavoro italiani si affermò con successo e costanza sul piano

internazionale; ma con ancora maggiore continuità e regolarità sul piano nazionale. Il Bureau

organizzò oltre ai congressi internazionali triennali, anche una serie di congressi nazionali biennali,

il primo dei quali a Palermo nel 1907, i successivi a Firenze, Torino e Roma; inoltre, svolse

un’opera continuativa di informazione e di promozione di premi, pubblicazioni, e altre iniziative

scientifiche, su scala nazionale.

In quella fase, la dimensione nazionale e internazionale si intrecciavano e si rafforzavano l’una

con l’altra, e quindi poteva apparire superfluo, se non inopportuno, costituire un punto di riferimento

organizzativo e scientifico nazionale diverso da quello che era assicurato, a livello molto

prestigioso, da questa composizione italiana del Bureau. Perché quindi nel 1929 si giunse alla

costituzione di una Società Italiana, con un forte impianto “nazionale”, mentre continuava

praticamente invariato il ruolo della componente italiana a livello internazionale nel Bureau,

anch’esso presieduto da Luigi Devoto?

La nascita “istituzionale” della Società nel 1929 si può spiegare come una reazione a un

mutato contesto politico sociale-culturale che ridefiniva anche i confini fra nazionale e

internazionale in campo scientifico. A partire dal 1925 il governo fascista stava cambiando

radicalmente le proprie politiche economiche e sociali. In particolare con la Carta del Lavoro,

promulgata il 21 aprile 1927, il regime segnò una “svolta” rispetto alla precedente fase liberista, e

fornì una piattaforma “politica” molto forte a livello teorico per guidare e coordinare le politiche

sociali sulla base del principio corporativo, il quale prevedeva un ruolo molto forte di regolazione

affidato a organismi tecnici, incaricati di stabilire parametri oggettivi e “scientifici”. In questo

quadro la medicina del lavoro si proponeva come uno strumento tecnico per tutelare e migliorare le

condizioni di lavoro, indipendente dalle parti, quindi da valorizzare al massimo. Da qui gli espliciti,

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ricorrenti e forti riferimenti nel primo statuto della SIML, sia alla Carta del Lavoro, sia

all’ordinamento corporativo, che non vanno letti perciò come semplice piaggeria d’occasione o

adesione “politica” al fascismo in maniera generica o indifferenziata; ma significano che quella

“svolta” nelle politiche economico-sociali del regime era vista come un’occasione importante per

valorizzare il ruolo della Medicina del Lavoro a livello nazionale.

Il periodo successivo di attività della SIML, fino alla caduta del fascismo, è pienamente

conseguente a queste premesse. Come risulta dalla documentazione conservata presso l’Archivio

Centrale dello Stato, le linee d’azione tracciate dal gruppo dirigente della SIML in quegli anni,

prima con Luigi Devoto e poi con Luigi Ferrannini e Nicolò Castellino, puntavano soprattutto sul

nodo del riconoscimento della disciplina all’interno del sistema dell’insegnamento universitario,

visto come “far de lance” per scardinare le resistenze al pieno riconoscimento scientifico della

disciplina, nonché sull’integrazione della medicina del lavoro all’interno del meccanismo

corporativo e di assicurazioni sociali. I risultati ottenuti dalla SIML in questa funzione di pressione

e di rappresentanza, pur se non inconsistenti, furono relativamente scarsi rispetto alle prospettive

che parevano aprirsi nel 1929, anche perché lo stesso fascismo, al di là delle forti affermazioni

propagandistiche, procedette con molta cautela sulla via del corporativismo, date le resistenze della

componente imprenditoriale; mentre puntò molto sul settore delle assicurazioni sociali, terreno

quest’ultimo su cui si registrarono ricadute di segno positivo anche per la SIML. Nel dopoguerra,

dopo un breve periodo di commissariamento, la SIML riprese la sua attività normale sotto la

presidenza di Vigliani, che fu il primo presidente eletto del dopoguerra. Enrico Carlo Vigliani, dal

1943 direttore della Clinica del Lavoro fondata da Luigi Devoto, fu una personalità molto influente

nella medicina del lavoro italiana, e con la sua autorevolezza contribuì a ristabilire la continuità fra

il periodo prebellico e quello postbellico. La sua figura dette alla SIML una caratterizzazione legata

ai problemi del forte processo di sviluppo industriale del Nord Italia in quegli anni. Successore di

Carozzi nella segreteria dell’ICOH, dal 1957 al 1975, quando assunse la carica di Presidente

dell’ICOH, garantì una continuità di presenza italiana ai livelli di vertice del massimo organismo

internazionale del settore, ma svolse anche un’attività molto intensa in Italia, sia in ambito

universitario, sia per quanto riguardava i rapporti con le industrie e con gli enti pubblici operanti nel

settore, in primo luogo Enpi e Inail. L’Inail in particolare collaborò attivamente con la SIML,

attraverso il finanziamento dei congressi, come era già avvenuto negli anni ’20 e ’30, e divenne un

importante committente per gli istituti universitari di medicina del lavoro.

La SIML si trovava ad operare in un contesto molto diverso da quello dell’anteguerra; si era

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trasformato radicalmente il clima delle relazioni industriali, così come si stava profondamente

trasformando la realtà tecnica e produttiva dell’apparato industriale italiano, quindi con nuovi rischi

per la salute dei lavoratori.

Il nuovo stato repubblicano, caratterizzato agli inizi da un forte orientamento liberista in

economia, lasciava largo spazio all’azione dei soggetti sociali, e l’attività normativa di conseguenza

fu molto limitata. Vi furono alcune misure significative settoriali; ma non vi furono disposizioni

complessive e di quadro, tant’è vero che i dirigenti della SIML si dovevano richiamare o

direttamente alla carta costituzionale (in particolare gli artt. 32 e 35), oppure alle raccomandazioni

di organi internazionali, come l’OILBIT o la stessa CEE.

Quest’ultima nel 1962 emanò una importante Raccomandazione in cui si sollecitavano “i sei

paesi membri a dare una disciplina giuridica alla medicina del lavoro nelle imprese” individuando le

linee di fondo di una politica comune “sulla sicurezza e l’igiene del lavoro”.

L’attività della SIML in questi anni si svolse effettivamente attorno alle questioni del ruolo

dei medici sui luoghi di lavoro, e sul riconoscimento tabellare delle nuove tecnopatie.

Non è facile ricostruire il ruolo della SIML come tale, perché di fronte ad una situazione in

rapida evoluzione, i vertici della Società, i Presidenti e i membri del Consiglio Direttivo,

intervenivano e agivano oltre che come tali, anche sotto varie vesti, da universitari, da gestori di

strutture specializzate (come la Clinica del Lavoro) o come incaricati di funzioni importanti in corpi

consultivi dello Stato.

Tuttavia alcuni tratti specifici sono riconoscibili. In primo luogo, la vita sociale si articolò e

arricchì. Fra gli anni ’50 e gli anni ’60 nacquero e si svilupparono diverse sezioni regionali della

Società, che svolsero un’attività, secondo quanto affermava Vigliani, “molto rigogliosa”. Un altro

segno dell’attività della SIML come tale fu la pubblicazione, dal 1965, di un “Bollettino”, curato

dal prof. Tommaso Sessa.

Tuttavia, lo strumento assolutamente preminente per l’azione pubblica della Società,

continuarono ad essere i congressi.

Sono i congressi che qualificano la SIML some società scientifica, registrano gli

orientamenti e i risultati della ricerca nel settore; ma nello stesso tempo stabiliscono un tramite con

il tessuto sociale, registrano le novità e le tendenze in atto, e costituiscono un luogo di

interlocuzione pubblica con altri soggetti istituzionali che operano nel settore.

Una storia della SIML dovrà quindi tenere conto in primo luogo dei congressi, sui quali

esistono fra l’altro alcuni repertori e studi importanti. I congressi SIML cominciarono a interessarsi

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in questi anni degli aspetti organizzativi e legislativi della medicina del lavoro, nonché alla

definizione della figura sociale e professionale del medico del lavoro in relazione ai nuovi contesti

produttivi e ai temi della prevenzione e dell’igiene industriale.

In negativo, un segnale di questo nuovo inevitabile nesso con i problemi più generali

derivanti dal cambiamento sociale, si ebbe nel 1968, quando il congresso della SIML venne fatto

oggetto di un’aperta contestazione da parte del movimento studentesco, e dovette trasferirsi da

Bologna alla sede più decentrata e meno esposta di Brisighella.

La vicenda del 1968 era solo un episodio contingente di un fenomeno più generale di

contestazione del sistema politico sociale che investiva molte altre realtà istituzionali e culturali in

quel momento storico; ma era anche un segno di un nuovo atteggiamento che si andava diffondendo

a livello politico e conseguentemente anche nel campo delle relazioni industriali.

La visibilità sociale della fabbrica e del lavoro operaio aumentò fortemente in quegli anni,

divenne oggetto di discussioni, di studi, di rappresentazioni popolari (anche attraverso il cinema e

altri mezzi di comunicazione di massa) e conseguentemente anche la sensibilità per le condizioni di

lavoro, per la salute dei lavoratori, divenne più estesa nell’opinione pubblica e negli stessi soggetti

sociali interessati. La Medicina del Lavoro venne investita da critiche che ne contestavano non tanto

l’attività o gli organismi di rappresentanza nel merito, ma mettevano in discussione il suo impianto

su un piano politico più generale. La reazione della SIML fu improntata da un lato a un rifiuto netto

dell’episodio e del tipo di contestazione, ma nel contempo, negli anni successivi, tenne conto in

ampia misura della nuova situazione e anche delle questioni che erano state poste sul tappeto.

La SIML poté gestire questo passaggio all’insegna di una continuità sostanziale, dato che

non erano mancati nei congressi degli anni precedenti interventi rivolti ad affrontare i temi della

prevenzione e del ruolo del medico d’azienda, anzi nella carenza di iniziativa legislativa la Società

aveva rappresentato uno dei pochi luoghi pubblici di dibattito specializzato sulla materia. Negli anni

’70, caratterizzati dal fatto che la spinta innovativa e contestativa di quello che è stato definito come

il “secondo biennio rosso” del ’900 venne in parte recepita e regolarizzata a diversi livelli, lungo

tappe che vanno dallo Statuto dei Lavoratori alla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, i con-

gressi mantennero saldamente l’asse sulla presentazione dei risultati scientifici degli studi in corso,

ma intervennero più apertamente anche su questioni che riguardavano il dibattito sulla riforma e

quindi sul ruolo complessivo della medicina del lavoro nel nuovo assetto normativo previsto.

In particolare i congressi di Pisa (1972) e di Pugnochiuso (1973) segnarono un deciso

interessamento della SIML alle prospettive della riforma, ma già in precedenza, dal 1969, la Società

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aveva promosso la costituzione al suo interno di due commissioni che dovevano dare continuità allo

studio su due problemi fondamentali: la definizione della figura del medico di fabbrica e la tabella

delle malattie professionali. Negli anni ’70 venne dunque a maturazione un processo per cui la

SIML decise di cambiare il proprio nome, nel 1976, in Società Italiana di Medicina del Lavoro e di

Igiene Industriale (SIMLII). La fase della vita della SIML di cui abbiamo appena parlato, quella che

va dalla seconda guerra mondiale agli anni ’70 è la più difficile da ricostruire, poiché la dispersione

dell’archivio e la perdita della memoria dei protagonisti lasciano notevoli lacune nella

documentazione.

La fase successiva, quella che va dagli anni ’70 ai giorni nostri è più facilmente ricostruibile,

perché sono disponibili nuovamente alcuni materiali d’archivio per gli ultimi anni ed è stato

possibile ricostruire le vicende sociali anche attraverso le testimonianze dirette dei Presidenti della

Società in questi ultimi decenni, raccolte in interviste che sono in corso di trascrizione e revisione.

Emergono alcuni nodi interessanti. In primo luogo, la SIMLII interviene attivamente nel processo di

definizione legislativa che porta ai principali provvedimenti legislativi approvati negli ultimi due

decenni, con un’attività diretta di pressione e controllo sugli apparati dello Stato e di contatto con

gli organi legislativi a livello centrale e regionale; si registrano diversi significativi successi tra cui

il riconoscimento della disciplina come obbligatoria nell’ordinamento dell’insegnamento

universitario. In secondo luogo la SIMLII si trova a dover far fronte ad una crescita rilevante della

base sociale, il numero degli iscritti e dei partecipanti ai congressi passando dall’ordine delle centi-

naia a quello delle migliaia; oltre all’aumento quantitativo vi è un ampliamento sensibile delle

competenze e anche la introduzione di figure professionali nuove. Buona parte dei medici del

lavoro attivi in Italia nelle varie strutture pubbliche e private tendono a riconoscersi professional-

mente e scientificamente nella SIMLII, per cui la Società, pur restando una società scientifica con

una forte connotazione universitaria, come dimostra la provenienza di tutti i Presidenti, vede mutare

gli equilibri fra le componenti interne e registra l’emergere di nuove esigenze. In particolare, di

fronte al cambiamento sempre più rapido sia dell’evoluzione dei rischi, delle patologie, ma anche

della sensibilità sociale, e quindi della normativa, italiana ed europea, la SIMLII appare sempre più

interessata da una serie di azioni rivolte alla emanazione di linee guida, di strumenti di

aggiornamento e di formazione continua nei confronti dei propri soci. La Società cura anche la

comunicazione, con un proprio sito internet; il suo nuovo logo, adottato nel 2003, con l’emblema di

Esculapio (simbolo della medicina) al centro e la doppia ruota dentata che rappresenta il lavoro mo-

derno nella sua continua evoluzione tecnologica, esprime in sintesi grafica il compito specifico della

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medicina rispetto al mondo del lavoro, fra tradizione e innovazione; mettendo in rilievo l’anno di

fondazione, il 1929, che ne fa la Società più antica d’Italia nel settore.

In questo senso, particolarmente interessante è il momento di passaggio dal XIX al XX

secolo passaggio segnato essenzialmente dall’enorme sviluppo dell’industria, dei trasporti e del

commercio, dallo spostamento gradualmente crescente di manodopera dall’agricoltura, all’industria

e dalla sostituzione progressiva dei piccoli laboratori artigiani con i grandi complessi industriali.

Nella vita e nel lavoro dell’uomo si attua in altri termini una trasformazione rivoluzionaria

ed inevitabilmente si impone sempre più all’attenzione generale il problema della salute dei

lavoratori, inteso come problema medico, sociale e politico al tempo stesso.

Nel 1906, in occasione della inaugurazione del traforo del Sempione, si tiene a Milano il

Primo Congresso Internazionale di Medicina del Lavoro, dal quale emerge in maniera ufficiale la

patologia da lavoro di più frequente riscontro all’epoca. Dai volumi degli Atti di tale congresso si

desume che all’inizio del secolo i problemi di salute dei lavoratori erano principalmente

riconducibili:

alle malattie infettive e parassitarie come la tubercolosi, il carbonchio,

il tetano,

l’anchilostomiasi;

alle patologie dell’udito;

alle intossicazioni da piombo, zolfo, cemento.

Non poche furono inoltre le ricerche condotte su particolari categorie di lavoratori come

donne e bambini, ad evidenziare se non la sensibilità, almeno l’interesse per soggetti

costituzionalmente più vulnerabili, impiegati comunque in attività lavorative assolutamente non

consone.

Altra piaga frequente negli ambienti lavorativi di inizio secolo è l’anchilostomiasi,

famigerata per la severa anemia, diffusa tra minatori, fornaciai, solfatari ed agricoltori.

L’importanza dell’anchilostomiasi è decisamente evidente se si considerano alcuni dati di allora: nel

1882, in seguito ai lavori di costruzione della galleria del San Gottardo, i lavoratori malati di

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anchilostomiasi furono oltre 10.000, e 20 anni dopo, grazie a semplici interventi igienici di

svuotamento e pulizia quotidiana delle latrine, l’incidenza di tale malattia tra i lavoratori del traforo

del Sempione, pur sempre rimanendo elevata, veniva notevolmente abbattuta.

Nonostante gli sforzi messi in atto, l’anchilostomiasi restava quindi ancora una patologia

diffusa, ma ciò che importa è che si comincia ad intravedere la iniziale maturazione di una

coscienza sanitaria che assieme alle progressive trasformazioni politiche di sanità pubblica

apriranno la strada alla prevenzione ambientale che è parte integrante della Medicina del Lavoro ed

elemento indispensabile nell’abbattimento di una qualunque patologia lavorativa.

Il segno tangibile dell’efficacia di tale prevenzione si apprezza col tempo: i dati statistici

riferiscono infatti l’incidenza di tale malattia professionale progressivamente ridotta negli anni e via

via sempre minore al punto che, secondo i dati più recenti disponibili, nel 1996 nell’industria e

nell’agricoltura si contano rispettivamente nessuno e due casi denunciati di anchilostomiasi.

Una malattia da lavoro di cui molto si parla agli inizi del secolo è il fosforismo, dovuto

all’impiego di fosforo bianco nell’industria dei fiammiferi.

Questa industria, agli inizi del secolo, era estremamente fiorente e redditizia e ciò spiega

l’estrema resistenza, soprattutto da parte degli imprenditori evidentemente, all’abolizione dell’uso

del fosforo bianco che, se da un lato generava un’attività industriale necessaria, estremamente

fiorente e con un tornaconto economico rapido ed abbondante, dall’altro procurava una malattia

tanto deturpante ed avvilente da essere soprannominata volgarmente “lebbra delle fiammiferaie”.

Inoltre, in tali fabbriche, numerose in Italia un po’ ovunque e particolarmente concentrate in

Piemonte, in Lombardia e in Toscana nella zona di Empoli soprattutto, veniva impiegata di norma

manodopera a basso costo, donne e bambini principalmente, o si ricorreva addirittura a detenuti o

mendicanti o a coloro costretti al lavoro in fabbrica per estinguere i debiti di gioco.

Altro quadro clinico oramai appartenente alla storia delle malattie da lavoro è il saturnismo.

L’intossicazione da piombo nei primi decenni del secolo riguardava prevalentemente i

lavoratori addetti alla metallurgia del Pb, i tipografi o gli esposti a pigmenti piombiferi quali

ceramisti e verniciatori, con riferimento in questo ultimo caso all’uso della biacca o di altri colori

piombiferi quali il minio.

Successivamente, il saturnismo propriamente detto riguardava i tipografi impiegati nella

tecnica del linotype, fino praticamente a scomparire in questo settore lavorativo, mentre intanto il

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rischio da piombo negli altri ambienti di lavoro diminuiva progressivamente, fino ad essere

definitivamente controllato con l’applicazione del D.Lgs 277/1991.

Da dati pubblicati dall’INAIL appare bene evidente la progressiva riduzione dei casi di

patologie da piombo indennizzati dall’Istituto ( da 2.134 nel 1976, a 220 nel 1984 e a 34 nel1996).

Da rilevare poi come i casi indennizzati si riferiscano, nella quasi totalità, a forme disintossicazione

lieve e reversibile.

Alla storia appartiene anche l’idrargirismo, cioè l’intossicazione da mercurio che fino agli

anni Cinquanta era ancora concretamente possibile nelle industrie in cui venivano adoperate

amalgame per l’estrazione di metalli preziosi o nei cappellifici, dove il mercurio veniva impiegato

nelle cosiddette operazioni di secretaggio, nella produzione di feltri per i cappelli allora tanto in

voga.

Il mutamento dei cicli tecnologici, ancora una volta il miglioramento dell’igiene degli

ambienti di lavoro e non di minore importanza le mutate richieste del mercato portano alla

scomparsa di questa grave malattia professionale.

Anche il solfocarbonismo ha rappresentato una gravissima intossicazione professionale.

Per quanto riguarda la patologia da rumore, questa inizia ad imporsi con il progredire della

meccanizzazione dell’industria moderna.

In Italia la patologia da rumore ha un trend particolarmente interessante, poiché nel corso del

secolo si osserva un progressivo aumento di incidenza, tanto che nel 1989 rappresenta ancora in

assoluto la più frequente patologia professionale, seguita a distanza dalle broncopneumopatie

pneumoconiogene e subito dopo dalle dermatosi.

Da sottolineare tuttavia che tale andamento è anche condizionato dal fatto che negli anni ’80

il danno indennizzabile da ipoacusia professionale fu abbassato all’11% (rispetto a tutte le altre

patologie professionali che venivano indennizzate soltanto se il danno raggiungeva il 21%), con le

ovvie conseguenze di un enorme incremento dei casi indennizzati, venendosi in tal modo a creare

una discrepanza nei confronti delle altre malattie professionali.

Nel periodo successivo all’ultima guerra mondiale col verificarsi di un notevole incremento

della emigrazione verso i bacini minerari del nord (Francia, Germania e Belgio), con lo svilupparsi

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nel nostro paese di una vasta rete autostradale e con l’incremento della industria metallurgica si

profila un nuovo panorama della patologia da lavoro.

Vengono pertanto alla ribalta sempre più copiosi i casi di pneumoconiosi che per molto

tempo rimarranno frequentissime malattie indennizzate dall’INAIL.

Nel periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e quella dei Settanta è da menzionare

l’elevato riscontro di polineuropatie nel comparto calzaturiero, causate dapprima dai cresilfosfati ed

in seguito dal N-esano.

Intorno alla fine degli anni Sessanta i rischi lavorativi sono ormai profondamente mutati

rispetto al passato e ciò è ormai ben evidente e tangibile.

Con gli anni ’70, in seguito allo sviluppo di nuovi paesi esportatori di prodotti industriali a

basso costo e grazie alle nuove tecnologie microelettroniche , avveniva una radicale modificazione

nei rapporti forza lavoro nel senso che, contrariamene a quanto accadeva nel passato, nei paesi

maggiormente evoluti con maggior benessere, si verificava una netta riduzione del numero dei

lavoratori addetti sia all’agricoltura che all’industria ed il terziario veniva a rappresentare il settore

lavorativo più sviluppato, col conseguente prevalere dei nuovi rischi e delle nuove patologie propri

di tale settore.

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3 La forza lavoro

La composizione della forza lavoro è distinta in tre settori:

SETTORE PRIMARIO comprendente l’agricoltura e l’attività mineraria che

producono beni materiali non riproducibili(terra);

SETTORE SECONDARIO: comprende l’industria che produce beni materiali

riproducibili (macchine);

SETTORE TERZIARIO comprende quelle attività che non producono beni

ma Servizi, attraverso l’impiego del lavoro (sanità, trasporti, credito,

assicurazioni,comunicazioni, commercio, catene di distribuzione, pubblicità,

informatica,pubblica amministrazione, scuola, giustizia, polizia, vigili del

fuoco ecc.).

I rischi lavorativi si sono completamente trasformati: nuovi criteri tecnologici e preventivi

hanno condotto a riduzioni più o meno sostanziali e talvolta alla eliminazione completa di cause di

rischio professionale tradizionale.

L’evoluzione delle tecnologie ha inoltre portato ad un aumento numerico dei rischi, anche

se a potenziale aggressivo singolarmente ridotto; ciò soprattutto nei confronti del rischio chimico si

consideri il ritmo con cui è stato sintetizzato e successivamente immesso nei cicli produttivi un

numero enorme di nuovi composti chimici.

Da rilevare anche il notevole incremento del carico psichico sia lavorativo che psicosociale.

Inoltre, rispetto ai primi decenni del secolo, già intorno agli anni Sessanta ed ancor più attualmente,

si avverte il progressivo aumento del rischio ambientale extralavorativo che si aggiunge al rischio

lavorativo, intensificandolo, potenziandone gli effetti e conferendogli connotati ancora più

complessi.

In seguito la situazione è nettamente migliorata soprattutto grazie all’attività dei Servizi di

Igiene Pubblica istituiti dalla legge 833 del 1978 e da ultimo con la applicazione del Dlgs.277/91.

Oltre al progressivo prevalere del settore terziario, alla evoluzione delle tecnologie dobbiamo

considerare anche un terzo motivo, quale causa della trasformazione che si è verificata nel profilo

della patologia da lavoro nell’ultimo trentennio, cioè quello di una più attenta e specifica

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prevenzione nei luoghi di lavoro. A questo proposito han rivestito un ruolo assi importante la

istituzione e lo sviluppo dei servizi territoriali di medicina del lavoro dapprima come iniziativa

degli enti locali (anni ’70) ed in seguito come applicazione della legge 833/78.

La patologia da lavoro nell’ultimo quarto dello scorso secolo è più che altro caratterizzata

dalla notevole diminuzione di forme acute, dalla presenza di frequenti manifestazioni croniche, e

dalla frequente comparsa lesioni aspecifiche di tipo usurante, a cui si aggiungono gli effetti

parafisiologici dell’invecchiamento, che fungono così da fattori di confondimento, con conseguente

immancabile difficoltà nella formulazione della diagnosi corretta di malattia da lavoro.

I quadri di patologia professionale attualmente emergenti sono riferiti principalmente a:

1. patologia d’organo tossico–degenerativa associata a bassi livelli di

esposizione;

2. sindromi allergiche respiratorie e cutanee;

3. danni da rumore e da altri agenti fisici (campi magnetici, radiazioni non

ionizzanti, vibrazioni, scuotimenti)

4. rischio infettivo professionale

5. sick building syndrome

6. patologia da VDT

7. patologia da postura, da movimenti ripetitivi ed in generale da fattori

biomeccanici

8. patologia da fattori relazionali

9. Patologia neoplastica

Circa quest’ultimo aspetto si rammenta, ad esempio, il notevole incremento dei mesoteliomi

attribuibili all’amianto, anche nelle basse esposizioni.

Soprattutto dagli anni Settanta la sick building syndrome, la patologia da VDT e da fattori

relazionali e la patologia da postura incongrua e da movimenti ripetitivi si impongono all’attenzione

della Medicina del Lavoro nei lavoratori del settore terziario, il cui incremento numerico determina

evidentemente una ulteriore modificazione dei rischi e quindi la comparsa di nuove malattie da

lavoro.

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Di grande rilevanza, in quanto senz’altro destinate a divenire la patologia da lavoro

prevalente in futuro, sono a tutt’oggi la patologia da fattori relazionali e la patologia da fattori

biomeccanici.

Per quanto riguarda la patologia da fattori relazionali, l’incremento del carico psicologico,

sia al lavoro che al di fuori, è sempre più evidente oramai in tutte le categorie lavorative.

Lo stress, il burn out, il mobbing sono condizioni che sempre più di frequente e sempre più

in maniera specifica sono correlati a orari, turni, carichi lavorativi, ai rapporti interpersonali con

colleghi e superiori, alle aspettative, alle ambizioni e all’esistenza o meno di possibilità di carriera.

Oggi lo scenario delle malattie da lavoro è decisamente, velocemente e radicalmente

cambiato rispetto non solo agli inizi del XX secolo, ma anche rispetto al panorama degli anni

sessanta, con mutamenti che hanno reso “insignificanti”, patologie da lavoro un tempo temibili,

come il saturnismo, il benzolismo, il solfocarbonismo e le stesse pneumoconiosi, cambiamenti che

però allo stesso tempo hanno dato vita a nuovi fattori di rischio, come quelli biomeccanici e

relazionali, e quindi a nuove malattie che richiedono appunto un giusto ed opportuno

inquadramento sotto il profilo diagnostico, preventivo ed assicurativo.

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Università Telematica Pegaso La medicina del lavoro: evoluzione storica

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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Bibliografia

G. Graziani, “Lezioni di Medicina del Lavoro” . Informedic – 1983

D. Casula , “Medicina del lavoro”. Monduzzi - 2003

V. Foà, L. Ambrosi, “Medicina del lavoro”. Utet - 2005