avviato al distretto 63 un audit clinico delle cure ... · a confrontare la pratica clinica da...
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NNEEWWSS Febbraio 2016
opo aver costituito ufficialmente il gruppo di progetto
attraverso un atto dispositivo del Direttore
Responsabile, il Distretto 63 Cava /Costa d’Amalfi ha
avviato un processo di Audit clinico-organizzativo del sistema
distrettuale di Cure Domiciliari erogate a favore degli anziani
ultrasessantacinquenni. Obiettivo dell’iniziativa è garantire il
miglioramento della qualità dell’assistenza. “Attraverso
l’Audit clinico, i professionisti sanitari effettueranno una
valutazione sulle cartelle cliniche degli pazienti in modo da
migliorare la qualità delle
cure erogate - evidenzia il
Dott. Pio Vecchione,
Direttore Responsabile DSB
63. A distanza di quasi
quattro anni dall'attivazione
del nuovo sistema delle
Cure Domiciliari e delle sue
rimodulazioni fino ad oggi
succedutesi – aggiunge il
Dott. Vecchione - il
Distretto 63 ritiene utile e
necessario, anche sotto il
profilo metodologico,
avviare un processo di
autovalutazione di quanto finora realizzato”.
Per attuare l’Audit clinico-organizzativo è stato
predisposto un piano di realizzazione, che individua attori e
tempi di implementazione. La metodologia dell'Audit
rappresenta un valido strumento per rilevare livelli di
adesione da parte del personale ai modelli organizzativi
clinico assistenziali adottati, rilevare livelli di integrazione
multi professionale ed interdisciplinare di fatto realizzati,
identificare punti di forza e di debolezza e definire azioni di
intervento/miglioramento da intraprendere sui diversi temi
organizzativi che i professionisti del Distretto 63 intendono
approfondire ai fini di migliorare le performance
dell'organizzazione.
Effettuando l’Audit clinico, il Distretto 63 intende:
- sostenere processi di autovalutazione atti a migliorare
gradualmente l’appropriatez-
za del comportamento dei
professionisti nella cura ed
assistenza dei pazienti,
attraverso il costante
autocontrollo e l’eventuale
modifica dei “modi di fare”
assistenziali;
- valutare l’adeguatezza e
l’efficacia della attività
clinico-assistenziale rispet-
to a linee guida, regole,
norme e comportamenti su
cui realizzare il consenso
dei cittadini,
dell’organizzazione e dei professionisti.
“Il Distretto 63 della ASL Salerno imbocca con
decisione una strada che porta verso un nuovo modo di
lavorare - sottolinea il Dott. Vecchione - in grado di produrre
contemporaneamente un innalzamento del livello di qualità
delle strutture sanitarie distrettuali e un aumento della
soddisfazione dei cittadini”.
D
AVVIATO AL DISTRETTO 63 UN AUDIT CLINICO DELLE CURE DOMICILIARI
Portare a casa di chi ha bisogno ciò che serve nei tempi e modi giusti, proteggendo la scelta della libertà e non solo la libertà di scelta
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La logica dell’Audit clinico-organizzativo
Il termine “medical Audit” ed il suo metodo vennero
introdotti dall’epidemiologo Paul Anthony Lembcke, il quale
nel 1956 pubblicò su JAMA l’articolo “Medical Auditing by
Scientific Methods” e di cui venne pubblicato postumo,
“Evolution of the Medical Audit”.
Lembcke definì l’Audit medico “una valutazione
retrospettiva delle cure mediche attraverso la revisione delle
cartelle cliniche”. Nel 1989, nel documento “Working for
patients” elaborato dall’NHS (National Health Service), il
medical Audit viene riconosciuto, per la prima volta, come
parte dell’attività professionale medica e citato ufficialmente
tra i principali strumenti strategici, finalizzati a sostenere la
riforma sanitaria prevista nel Regno Unito. In tale documento
il medical Audit viene definito: “analisi sistematica della
qualità delle cure mediche, incluso le procedure utilizzate per
la diagnosi e il trattamento, l’uso delle risorse e gli outcome
del processo e la qualità di vita del paziente”.
Nel 1991, il termine evolve nella dizione, attualmente
utilizzata, di clinical Audit, così definito dal Department of
Health: “analisi sistematica della qualità delle cure erogate,
incluso le procedure utilizzate per la diagnosi e il
trattamento, l’uso delle risorse e gli outcome del processo e
la qualità di vita del paziente”. L’Audit clinico, quindi, assume
carattere multidisciplinare e diventa uno strumento per la
valutazione e l’assicurazione di qualità di tutto il processo
sanitario. Nel 1996, nel documento “Clinical Audit in NHS.
Using Clinical Audit in the NHS: A position statement” viene
riportata la seguente definizione:“attività condotta da clinici
finalizzata a migliorare la qualità e gli outcome
dell’assistenza attraverso una revisione tra pari strutturata,
per mezzo della quale i clinici esaminano la propria attività e
i risultati rispetto a standard espliciti e, se necessario, la
modificano".
La definizione più attuale di Audit clinico è contenuta nel
documento “Principles for best practice in clinical audit”,
pubblicato nel 2002 dal National Institute for Clinical
Excellence (NICE): “l’Audit clinico è un processo finalizzato a
migliorare le cure offerte al paziente ed i risultati ottenuti,
attraverso il confronto sistematico delle prestazioni erogate
con criteri espliciti, l’implementazione di cambiamenti a
livello individuale e di team e il successivo monitoraggio dei
fattori correttivi introdotti”. Il Ministero della Salute, nel
2006, ha definito l’Audit clinico come: “Metodologia di analisi
strutturata e sistematica per migliorare la qualità dei servizi
sanitari, applicata dai professionisti attraverso il confronto
sistematico con criteri espliciti dell’assistenza prestata, per
identificare scostamenti rispetto a standard conosciuti o di
best practice, attuare le opportunità di cambiamento
individuato ed il monitoraggio dell’impatto delle misure
correttive introdotte”.
Da queste definizioni, è opportuno
sottolineare che l’Audit si differenzia dalla
semplice raccolta di dati, la quale si limita
a confrontare la pratica clinica da quella
definita dagli standard; ciò costituisce
solo una parte del processo di audit che
si focalizza solitamente su pochi dati, li
confronta, ad esempio, con le
raccomandazioni di una linea guida di
buona qualità, cerca di capire quanto e
perché la pratica clinica si discosti da quelle
raccomandazioni, e prova a mettere in atto azioni di
miglioramento che almeno riducano quello scostamento.
L'Audit è una metodologia, strumento di autovalutazione
che si focalizza su specifici problemi clinico/assistenziali o
su aspetti della pratica corrente che vengono valutati in
termini di struttura, processo o esito. Ciò che lo connota è la
competenza clinico-assistenziale dei partecipanti, la
confidenzialità dei risultati e l’esplicito interesse al
miglioramento della qualità delle cure. La sua principale
caratteristica è quella di fondarsi sul confronto e la
misurazione delle pratiche professionali con standard di
riferimento. Tale concetto è sempre più accolto nel mondo
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sanitario; gli operatori sanitari infatti, richiedono più
frequentemente riferimenti precisi per fornire cure
appropriate; i pazienti, più e meglio informati, richiedono una
qualità dell’assistenza sempre più adeguata alle conoscenze
scientifiche.
L’Audit clinico è applicabile ad aree dell’assistenza per le
quali sia ipotizzabile sviluppare interventi di miglioramento;
ciò significa che non è ragionevole impegnarsi in un processo
di Audit allorché il divario tra la prassi esistente e quella
ottimale sia minimo o quando, pur avendo livelli di assistenza
sub-ottimali, le possibilità di introdurre cambiamenti siano
limitate o quando non siano
conosciuti i livelli ottimali di
assistenza. In ogni caso, prima di
intraprendere un Audit è necessario
esaminare attentamente la
situazione e assicurarsi che l’Audit
sia il metodo più appropriato per
trovare le soluzioni al problema
individuato.
La metodologia dell’Audit clinico
Metodologicamente l’Audit
clinico consta di un ciclo schematica-
mente articolato in quattro fasi: I.
Preparazione, II. Attuazione, III. Azioni di miglioramento,
IV. Valutazione dei risultati (NICE, 2002). È
opportuno sottolineare, prima della loro illustrazione, che la
scomposizione in fasi ha uno scopo puramente didattico, in
quanto il processo nella realtà si svolge senza soluzioni di
continuo.
La fase I, corrispondente alla preparazione o
pianificazione dell’Audit, prevede tre momenti fondamentali:
la scelta del tema, la costituzione del gruppo di lavoro e la
definizione dei criteri di comunicazione. Per quanto riguarda
la scelta del tema, essa può essere organizzata in base ad
aspetti come la struttura, le risorse, i processi e gli esiti, ma
resta comunque vincolata alla presenza di standard di
riferimento, di dati affidabili e accessibili e alla possibilità di
sviluppare interventi di miglioramento. Nella costituzione
del gruppo devono essere evitate relazioni di tipo gerarchico;
all’interno di esso vanno annoverati professionisti con ruoli
diversi, che avranno specifiche mansioni all’interno del team.
Figura fondamentale del gruppo è il team leader. Per ogni
progetto di Audit dovrà esserci un team leader che detterà i
cronoprogrammi e gli obiettivi da raggiungere. Nella
costituzione del gruppo dovrà essere presa in considerazione
la possibilità di coinvolgere pazienti o utenti dei servizi, in
quanto la loro esperienza è fondamentale per valutare la
qualità delle cure (accountability). La comunicazione è un
asse trasversale dell’Audit, necessaria in tutte le fasi; per
questo occorre stabilire modalità di comunicazione ad hoc
a seconda della fase e dei destinatari. È necessario quindi
che sia mantenuta sempre la stessa modalità di
comunicazione per tutta la durata dell’Audit.
La fase II prevede 7 differenti tempi: definizione degli
obiettivi, valutazione dell’esistente, la selezione dei
criteri, standard e indicatori, la raccolta dati, l’analisi e la
valutazione, la condivisione e la comunicazione dei risultati. Il
gruppo è chiamato a individuare degli obiettivi specifici in
base alle aree trattate. Utile allo scopo possono essere
forme verbali quali: Per migliorare? Per rafforzare?
Per cambiare? (NHS Excutive,1996). Una volta stabiliti gli
obiettivi, essi devono divenire il focus delle attività. La
valutazione dell’esistente è il momento basato sulla raccolta,
rispetto al tema scelto, delle prassi in uso, derivanti dalla
consuetudine organizzativa e da documentazione operativa
(protocolli, procedure, schede ecc.). Lo step corrispondente
alla selezione di criteri, standard e indicatori rappresenta il
fulcro del lavoro; infatti attraverso la loro selezione è
possibile misurare dove e come il processo di cura specifico
si discosta dalle pratiche in uso. Le fonti di riferimento dove
reperire criteri, standard e indicatori non hanno una vera e
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propria gerarchia, ma è opportuno estrapolarli seguendo
un approccio evidence-based. Generalmente si fa riferimento
a fonti normative (esempio: leggi, decreti, ordinanze,
ordinamenti ecc.), fonti professionali (esempio: linee guida,
raccomandazioni, consensus, studi specifici ecc.), fonti
metodologiche (esempio: documenti nazionali e internazionali
relativi ad Audit). La scelta dei criteri dovrebbe basarsi su
aspetti come la condivisione professionale, la pertinenza con
gli aspetti dell’assistenza studiati, la traducibilità degli stessi
in indicatori e la possibilità di essere misurati. Capitolo a
parte meriterebbero gli standard e gli indicatori. Uno
standard è “un livello di cura che deve essere raggiunto per
ogni criterio” e la scelta dovrebbe essere guidata da alcuni
principi quali: uno standard per ogni criterio, uno
standard realistico, uno standard condiviso.
Gli indicatori, rappresentando informazioni selezionate
che rendono misurabili i criteri, vengono utilizzati per
effettuare la sorveglianza e la valutazione,
consentendo quindi scelte e decisioni. Un buon indicatore
dovrebbe essere pertinente, rilevante, valido, riproducibile e
praticabile. Inoltre, un indicatore deve essere considerato
come un’informazione che consente una descrizione del
fenomeno e che permette una misurazione e
comparazione (esempio: in percentuale, tasso, media ecc.),
riconoscendo così il possibile divario tra prassi esistente e
best practice. La raccolta dati dovrebbe essere guidata da
alcuni principi fondamentali, come per esempio il rispetto
delle normative in materia di privacy. Bisogna scegliere per
prima cosa il campo di applicazione, definendo il numero di
servizi da coinvolgere (risultati specifici o trasversali), il tipo
di studio (sono possibili solo due tipi di studio nella prassi
dell’Audit clinico: quello prospettico che in media dura 6-8
settimane e quello retrospettivo che interessa 10-12
settimane), i criteri di inclusione e di esclusione,
delimitazione e dimensione del campione (essendo l’Audit
clinico una pratica con un tempo limitato, è fondamentale
creare un campione omogeneo), modalità di raccolta dati
(questionari, checklist, osservazione diretta ecc.). Dopo la
raccolta dati avviene l’analisi dei risultati, che di
norma dovrebbe essere eseguita nel minor tempo possibile,
per evitare che eventuali cambiamenti intercorsi
modifichino il contesto in cui ha avuto luogo l’Audit. L’analisi,
qualunque sia il metodo utilizzato, mira a stabilire in
percentuale se, per ciascun criterio stabilito, gli
standard sono rispettati (% di compliance). I dati devono
essere presentati in forma quantitativa, in modo da poter
operare l’identificazione e l’analisi dei punti di forza e di
debolezza. Nell’analisi dei punti di forza, il gruppo di lavoro
confronta i risultati ottenuti dalla valutazione con i
riferimenti, verificando se le pratiche che sono state oggetto
di Audit rispondono agli standard prefissati e agli
obiettivi stabiliti. Non è sempre possibile né è sempre
necessario ottenere un punteggio del 100%. L’analisi dei
punti di debolezza permette di chiedersi perché e come le
prassi in uso siano tanto lontane dagli standard e dagli
obiettivi prefissati. Questa fase permette di operare al
contempo anche l’analisi delle cause degli scostamenti, altro
aspetto importante dell’Audit clinico. Attraverso questa
analisi è possibile gerarchizzare le criticità emerse, in modo
da poter indirizzare gli sforzi e le raccomandazioni di
miglioramento nella direzione risultata più deficitaria
(priorità). La condivisione e la comunicazione dei risultati
sono tempi distinti in cui rispettivamente avviene la
trasmissione dei risultati a ogni servizio coinvolto, in
modo che i professionisti possano, dove serve, completare
l’analisi dei problemi. Solo dopo i risultati dell’Audit clinico
vengono trasmessi all’esterno dei servizi coinvolti. La forma
universalmente accettata è quella del rapporto scritto, in cui
dovrebbero essere evidenziati il metodo utilizzato, i risultati,
la griglia per la valutazione e il protocollo dell’Audit, le aree di
miglioramento e le raccomandazioni.
La fase III di valutazione conta due sotto
processi: definire il piano di azione e guidare e supportare il
cambiamento (Wienand, 2009). Gli ambiti di miglioramento e
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le raccomandazioni emerse dall’analisi devono essere
declinati in un piano di azione. Per la riuscita del piano è
necessario puntualizzare le strategie per la realizzazione del
programma di miglioramento. Per prima cosa bisogna
operare un’analisi del contesto in cui il piano deve essere
calato, poi è necessario definire gli obiettivi in termini di
miglioramento, individuare le azioni da attuare (persone,
responsabili, risorse, tempi ecc.) e infine individuare gli
strumenti necessari per attuare il piano d’azione. Potrebbe
essere di aiuto redigere un documento scritto nel quale
viene proposto il piano di implementazione in cui si dovrà
evidenziare schematicamente: cosa deve essere migliorato,
gli obiettivi di miglioramento, chi si
avvantaggerà delle azioni di miglioramento, chi
sono i responsabili delle implementazioni,
le modalità e i tempi di implementazione e
di monitoraggio. Nota a parte merita il discorso sul-
l’apertura al cambiamento. Un cambiamento
all’interno di un contesto professionale potrebbe
essere recepito come una minaccia, una critica
all’operato attuale, un aumento del carico di
lavoro. È fondamentale, per non inficiare
l’intero percorso di Audit, che il cambiamento
sia accettato da tutti i professionisti, secondo una
strategia multilivello. Coinvolgere tutti i
professionisti, avere un atteggiamento positivo,
stabilire i benefici individuali e collettivi, offrire supporto
tecnico per i servizi risultati carenti potrebbero essere
strategie per la guida al cambiamento.
La fase IV di valutazione dei risultati conta due passi: il
re-Audit e sostenere il cambiamento. Durante questa fase
occorre individuare il metodo più appropriato per la
valutazione, quale lo svolgimento di un secondo audit (re-
Audit), oppure la valutazione con l’utilizzo di indicatori. Inoltre
è necessario che il cambiamento si inserisca in un
processo di miglioramento continuo della qualità, e pertanto
esso va sostenuto e mantenuto nel tempo. Il re-Audit è
necessario se l’Audit ha evidenziato numerosi e
significativi scostamenti dagli standard. Esso permetterà di
valutare l’efficacia delle azioni intraprese, di mostrare le
differenze tra il primo e il secondo Audit e di valorizzare i
progressi realizzati. Oppure, quando l’Audit ha evidenziato
un divario significativo solo su alcuni criteri, il re-Audit si
dovrà focalizzare solo sui criteri risultati fortemente carenti,
e le azioni da intraprendere dovranno essere immediate,
laddove queste comportino un rischio reale per il paziente.
L’utilizzo di indicatori viene contemplato dal gruppo di lavoro,
qualora non sia necessario un re-Audit.
L’Audit clinico è universalmente riconosciuto come uno
strumento di Clinical Governance e il suo utilizzo dovrebbe
essere implementato in tutti gli ambienti sanitari, in quanto è
uno strumento utilizzato per valutare il grado di aderenza
della pratica clinica alle migliori evidenze scientifiche. Questo
sottolinea l’importanza dell’Audit clinico come strumento di
miglioramento della qualità dei servizi e delle cure offerte
(Scally e Donaldson, 1998).
Cure Domiciliari: le ragioni per averne cura
La decisione del Distretto 63 della ASL Salerno di
puntare il focus sul sistema delle Cure Domiciliari e di
implementare un percorso di Audit clinico-organizzativo
parte dalla convinzione che questo fondamentale aspetto
dell’assistenza rappresenta un elemento portante delle
organizzazioni sociosanitarie pubbliche (Costa, 2007). Infatti
essere curati a casa rappresenta un bisogno reale per
moltissime persone. In questa cornice, per essere erogati dal
servizio pubblico, gli interventi di cura devono essere
“appropriati”, in altre parole fondati sulla loro certa
necessità da parte degli utenti e operatori e sulla loro
provata efficacia.
Non vi è dubbio che sia elevata la rilevanza
epidemiologica delle Cure Domiciliari. È sufficiente riferirsi
all’esperienza comune per osservare che un grande numero
di persone trascorrere lunghi periodi della propria vita in
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condizioni di necessità terapeutico-assistenziali, di cure
anche di elevata intensità e complessità nell’ambito delle
cosiddette “malattie croniche”. I continui progressi delle
scienze mediche (includendovi la clinica, la chirurgia, le
tecnologie, il nursing e tutto quanto concorre al successo
nelle fasi di acuzie o di riacutizzazione delle malattie)
consentono infatti tassi di sopravvivenza sempre più elevati,
che spesso si accompagnano a sequele ed esiti che
impongono protratte fasi di assistenza/riabilitazione
estensiva o di lungo termine. Si può sintetizzare che la
dimensione quantitativa di questa fascia di utenti sia di
parecchi punti percentuali della popolazione generale, con
valori a due cifre (> 10%) per quella più anziana (Istat, 2010;
Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2011),
La “cronicità” costituisce campo di azione sempre più
problematico, vera sfida per i nostri sistemi di welfare ed è
dimostrato che il livello di assistenza ospedaliero non è
adeguato a intervenire in quest’ambito, chiamato ad agire,
all’opposto, in tempi brevi-brevissimi, sollecitato
continuamente ad essere misurato sul successo della
riduzione dei tempi di degenza, della riduzione dei ricoveri
impropri, dell’incremento del case mix, ad esprimere un tipo
di lavoro quindi radicalmente diverso. Non è più tempo per
l’ospedale di essere luogo ospitale per tutto e per tutti (Genet
et al., 2012). Se consideriamo modernamente l’evento
ricovero in ospedale non più come risposta definitiva “tutto-
o-niente” (presenza-assenza di guarigione) bensì come fase
intermedia di un concatenamento più lungo e complesso
(percorso) di cure e assistenza che necessariamente
coinvolge altri setting, professionalità multiple, investimenti
di risorse altre ed uso di altri strumenti non presenti e
pertinenti per “l’ospedale” (in questo ragionamento
nell’ospedale vanno incluse anche le prestazioni ambulatoriali
pre o post-degenza), riesce facile comprendere che le
risposte a livello territoriale, e domiciliare in primo luogo,
sono irrinunciabili, e devono essere date in modo
conseguente e coerente, anche per non disperdere quanto
effettuato durante la degenza. Il fine ultimo è di assicurare le
massime possibilità di mantenimento della salute (Bernabei
et al., 1998). La realizzazione delle cure a casa si pone quindi
come elemento certo di bisogno rispetto alla dimensione
dell’offerta.
Un secondo requisito oggi posto nell’organizzazione
sociosanitaria è quello dell’orientamento all’utente-paziente-
cittadino, le cui attese vanno sempre tenute in prima
considerazione, pur rendendole compatibili con
l’appropriatezza in generale. Nell’evoluzione dei sistemi di
attenzione e cura alle persone da tempo si è introdotto quindi
quale obiettivo da perseguire il rispetto della libertà di scelta,
della preferenza dell’assistito. Se è certamente importante il
valore del bisogno reale, ciò non può essere distante
dall’attenzione a questo vincolo: la preferenza delle modalità
di cura di un vasto gruppo di persone malate. Cresce
nell’opinione pubblica la percezione che affetti ed emozioni
sono fattori importanti per la ripresa, avvolgono la persona
in difficoltà e richiedono rispetto, sostegno e conforto
adeguato (Agenas, 2012).
Considerato che curare una persona a casa è un diritto
soggettivo della persona e dei suoi familiari (tutelato dalla
Costituzione), spetta alle Istituzioni pubbliche compiere gli
atti dovuti per consentire la costruzione e il buon
funzionamento in ogni territorio di un circuito di Cure
Domiciliari. Collegato a quest’assunto di principio, la
rappresentanza pubblica degli interessi dei cittadini deve
curare l’aspetto dell’equità di accesso, oggi considerato
prima potenziale causa di disuguaglianza di salute (IRCCS-
INRCA, 2013). Ed è proprio a questo livello che si creano le
maggiori disparità e che il Distretto ha tra i primi suoi
mandati di legge (DL 229/99) proprio quello di assicurare
pari opportunità di accedere e fruire dei servizi a tutti i
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cittadini, soprattutto se soggetti deboli, molto facilmente
presenti tra gli assistiti a domicilio. Infatti il Distretto è
l’Istituzione che meglio corrisponde all’esigenza di conoscere
la domanda, organizzare l’offerta e curare che questa sia alla
portata realmente di tutti, dando addirittura uno sguardo più
attento a chi rischia di “rimanere nascosto nelle ultime file”
(Da Col, 2014).
Requisito essenziale per realizzare e governare un
avanzato sistema di Cure Domiciliari di elevata qualità e
sicurezza (quindi sempre complesso) è che esista
un’organizzazione cui sia affidata la responsabilità
organizzativa, produttiva, e che di ciò risponda. Nessuno
oserebbe pensare che possano essere sparse qua e là
funzioni diverse, prestazioni multiple (mediche, chirurgiche,
riabilitative, ambulatoriali, assistenziali ecc.) al di fuori di un
insieme governato. Le Cure Domiciliari sono efficaci ed
efficienti quando sono costituite da un insieme complesso di
prestazioni multi professionali e multi disciplinari collocate in
un percorso-programma coerente, con forte livello di
integrazione tra i vari attori, in vera continuità e contiguità;
quando il percorso di cura è tracciato con specifiche
valutazioni effettuate pre - durante - post la loro erogazione
(Pesaresi, 2009). Non è pensabile quindi che queste possano
esistere isolate, svincolate da un contesto più ampio
“territoriale”, che va ad incidere non solamente sul paziente-
assistito ma sulla famiglia, sulla rete relazionale, talora sulla
comunità intera. Questo elemento di governo e
coordinamento è il Distretto, prima e principale
organizzazione di riferimento per il governo della salute nel
territorio e primo soggetto deputato a creare/rafforzare le
reti di cure primarie.
Il ruolo del Distretto si rivela nel porre in connessione
tra loro i singoli elementi dei diversi interventi a casa, di porli
in continuità con quanto può avvenire prima o dopo/durante
la fase di cura domiciliare (ad es. ricovero in ospedale, in
residenza, ecc.), quindi in una logica/visione unitaria e
coordinata, sempre a vantaggio della reale presa in carico
globale e continuativa. Il lavoro distrettuale per progetti
personalizzati è l’unico a consentire la congiunzione
dell’intero patrimonio di risorse disponibili per il soggetto,
che vanno ben al di là di quelle messe a disposizioni dal livello
istituzionale. Né va sottovalutato che al Distretto è deputato il
governo della medicina di famiglia, ed i medici convenzionati
che vi fanno riferimento (di medicina generale ma anche i
pediatri, i medici della continuità) rappresentano nodi
essenziali della rete, risorse sempre disponibili, pur che si
sappia coinvolgerle e farle aderire nel giusto modo, con il
preciso scopo di far giungere a casa “le persone con le
giuste competenze, nei tempi e modi giusti” (Corona e
D’Adamo, 2012). Questo rende l’intervento appropriato e –
lungi dall’essere monodimensionale-monotematico – si
prende carico della complessità della situazione, mai la
semplifica, sempre la sostiene e la affronta nel suo insieme
in modo unitario globale e coerente. In questo consiste il
lavoro di un “buon Distretto”.
Oggi solo il vincolo delle disponibilità monetarie sembra
costituire acceleratore e freno possibile per lo sviluppo. Ma
questo punto di vista fa perdere di vista che nel settore della
cura alla persona, a fronte di capitali economici sempre
meno consistenti, le Cure Domiciliari certamente sono quelle
che attualmente richiedono meno. Se si assumesse la
decisione di raddoppiarne le consistenze, si è stimato che
questo comporterebbe per le aziende sanitarie il passaggio
dall’uno al due per cento dei propri budget di spesa corrente
annuale (Lipszyc et al., 2012).
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Inoltre va considerato che la presenza in una comunità
di un circuito di attenzioni alle cure a casa genera
arricchimento della comunità, sia in termini economici, sia di
sviluppo umano, ma soprattutto comporta la crescita del
capitale delle relazioni. Non è possibile approfondire in
questa sede il tema del capitale sociale, ma numerose
esperienze testimoniano che, ove questo sia elevato, la
domanda di prestazioni è inferiori e migliori gli indicatori di
salute e benessere (Minelli, 2007).
Ad una visione superficiale, la buona sanità sembra
richiedere immancabilmente l’allocazione di ingenti risorse
finanziarie, in difetto delle quali tutto sembra spegnersi e
venir meno. Ma, quantomeno nel campo dell’assistenza a
lungo termine, per colmare il gap tra bisogni crescenti e
offerta diminuente, è necessario ricorrere sì ad aumenti dei
capitali economico-finanziari ma ancora più, per mantenere
sostenibilità, equità ed economicità, incrementi del capitale
sociale.
In questo quadro, il Distretto rappresenta, se
adeguatamente indirizzato, formato e dotato, il luogo
istituzionale in cui si producono le iniziative a questo
indirizzate. In uno scenario che va sempre più assumendo
come proprio feticcio il prodotto, la produttività, l’efficienza,
bisogna riposizionare il valore delle prescrizioni rispetto al
ruolo giocato dalle relazioni. La crescita dei legami sociali, le
relazioni costruite con/nel territorio rappresentano fattori
ancor più rilevanti. Entra così in gioco la comunità,
espressione non solo delle somme dei singoli, ma di identità
collettive che andrebbero poste in campo quali fattori di
crescita e leve del cambiamento positivo (Apicella et al.,
2013).
Oggi salute e benessere sono, per molti versi, diventati
prodotti da vendere ed acquistare sul mercato, beni quindi
acquisibili con il denaro. Su questo tema è diffuso il dissenso
che il regime di mercato rappresenti il migliore regolatore
dell’offerta e della qualità dei prodotti, nella certezza che il
consumatore sappia sempre compiere la migliore scelta per
lui e per altri, adeguando bisogni, qualità della risposta e
capacità di spesa, quindi ottimizzando il massimo del
beneficio e la minima spesa. È stato documentato che ciò non
corrisponde al vero; molti fatti sotto gli occhi smentiscono
questa visione (Cotichelli, 2013).
La libertà di scelta, propria dei meccanismi di mercato,
per chi sta male e soffre appartiene (forse) solo ai ceti
sociali più fortunati. Se si vuole salvare la salute anche quale
bene pubblico, bisogna porsi il problema dell’equità, che è
prerogativa e requisito indissolubilmente legato a quello della
libertà non solo del singolo individuo ma di tutti. Portare
quindi nella casa di chi ha bisogno ciò che serve nei tempi e
modi giusti, conservare gradi di libertà di vita e di
espressione delle proprie preferenze di tempi ritmi ed
organizzazione di vita eleva la coesione sociale, mantiene più
uguaglianza sociale. Per questo le Cure Domiciliari si
collocano come contributo all’esercizio della tutela dei diritti,
costituiscono quindi vera scelta e pratica di democrazia,
percepita e vissuta non solamente da chi è purtroppo
costretto a servirsene ma diviene davvero per tutti
occasione di progresso e benessere (CARD, 2011).
Numeri e dati per orientarsi
A sostegno delle argomentazioni appena articolate, si
riportano di seguito alcuni dati sintetici in grado di dare
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un’idea della cifra delle questioni in campo. Nonostante la
sintesi, paiono chiari i problemi più rilevanti e lo scarto tra
questi e le misure ad oggi pensate per fronteggiarli.
L’andamento demografico in Italia non consente dubbi:
gli ultra65enni al censimento 2001 rappresentavano il
18,7% della popolazione totale (età media della
popolazione totale 41,4; indice di vecchiaia 131,4); nel
2021 saliranno al 23,9% (45,7 età media, indice di
invecchiamento 188,9). In pratica a breve un cittadino
su quattro richiederà i servizi propri di quell’età; si
sottolinea che la metà di questi anziani avrà varcato la
soglia dei 75 anni, collocandosi quindi in fasce di
bisogno e dipendenza molto elevate (Federsanità ANCI
et al., 2009).
La larga maggioranza degli italiani abita in case di
proprietà; infatti solamente il 13% della popolazione
paga un canone; tuttavia, il 10% non ha un
riscaldamento adeguato e nel 19% delle abitazioni si
riscontra importante umidità. Resta il fatto che questo
patrimonio abitativo, con i limiti correggibili, dovrebbe
incoraggiare la diffusione delle cure a casa e
scoraggiare il proliferare di residenze.
Le famiglie, incluse le assistenti familiari, continuano a
sopportare il carico prevalente di cura di persone
anziane non autosufficienti (Ministero del lavoro e delle
politiche sociali, 2011) con una copertura formale dei
bisogni prevalenti minima, nel range del 5-10%,
considerando singolarmente voci quali l’aiuto
domestico, l’organizzazione dell’assistenza, il sostegno
psicologico, l’assistenza sanitaria, la mobilità ed i
trasporti, l’assistenza personale, il sostegno
finanziario.
La stima dei potenziali caregiver (popolazione 50-79
anni su > 80enni non autosufficienti) mostra un trend
drammaticamente decrescente: anno 2005=21,88;
2015=17,35; 2035= 12,02). Un cittadino ultra65enne su
sei – dieci al nord – dispone oggi di una “badante” (7%
in media in tutto il Paese), valore che sale al 48% delle
persone non autosufficienti; in media queste assistenti
lavorano in casa per 5 hr/die. La spesa privata per
questo “esercito” di assistenti familiari (stima:
774.000 “badanti” attive, 700.000 straniere) ammonta
a circa 10 miliardi di €/anno. Un contratto di 54
ore/settimana vale circa 25.000 €/anno (Pasquinelli e
Rumini, 2008). Questa ingente spesa privata equivale
al 10% della spesa sanitaria pubblica ed è all’incirca
equivalente a quanto stanziato dallo Stato per le
indennità di accompagnamento. Va notato che la
crescita del fenomeno è stata imponente: nel 1991 le
“badanti” erano 180.000, nel 2009 760.000. Si
osserva quindi una vera risposta di “mercato”
certamente non proporzionale a quelle delle istituzioni.
La diffusione dei servizi domiciliari in Italia è ridotta
rispetto all’Europa settentrionale (4,9% vs 13%), che
impegnano un quarto delle risorse dell’assistenza a
lungo termine, l’1,08% della spesa sanitaria.
Mediamente, questi servizi raggiungono il 5% della
popolazione anziana (vs 9,5% in Germania, 7,9% in
Francia, 7,1% in Regno Unito).
La limitata forza delle Cure Domiciliari è ubiquitaria.
Anche in Regioni “ricche” (es. Lombardia), l’assistenza
domiciliare sanitaria (ADI delle ASL) copre appena il
4,7% del totale degli ultra65enni, salendo al 30% degli
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anziani non-autosufficienti; l’assistenza domiciliare di
parte sociale (SAD) non supera il 2% (1,7%) negli
anziani in generale e l’11,1% dei non-autosufficienti
(IRCCS-INRCA per Network nazionale per
l’invecchiamento, 2013).
Negli ultimi 15 anni si sono verificati fenomeni
allarmanti:
1. l’utenza anziana in ADI è salita da 1,9% (2001) a
4,1% (2013), ma in media sono calate le ore totali
/anno di assistenza pro capite: da 26 (2002) a
20 (2014), con disuguaglianze clamorose tra le
regioni (range 4-75 ore). Appare clamorosa
questa associazione inversa tra ampiezza della
copertura e intensità dei servizi e permane
apparentemente inconsistente il tempo di cura
istituzionale.
2. l’utenza in SAD è rimasta stabile: intorno a 1.6-
1.8%, con una spesa media nel 2013 di 1.860 euro
per utente, pur con ampio divario regionale (937
€/p.c. in Molise; 4.393 in Valle d’Aosta).
3. la reale assistenza domiciliare integrata riguarda
solamente 1,4 per cento anziani.
La percentuale di Pil nel nostro Paese dedicato ai
servizi domiciliari è pari allo 0,29; all’assistenza
continuativa (servizi domiciliari, residenziali e
indennità di accompagnamento) all’ 1,28; al welfare è
destinato il 26%. La percentuale di spesa sanitaria
destinata all’ADI è pari all’ 1,08, con range 0,3-3% nelle
diverse regioni.
Nell’assistenza a lungo termine da sempre in Italia
erroneamente si privilegiano i trasferimenti monetari
(42%) anziché i servizi, a differenza di quanto avviene
in Paesi come la Germania (24%) o la Norvegia (14%).
Nel 2010 le indennità di accompagnamento (utenza da
5,5% della popolazione anziana del 2001 a 9,5% del
2008) hanno raggiunto una spesa superiore a 12,5
miliardi di euro (7,5 nel 2002), di cui 11 miliardi per
anziani non autosufficienti. La percentuale di
ultra65enni percettori dell’indennità oscilla dal 2,1%
tra 65 e 69 anni a 23,8% oltre 80 anni. Da una parte, è
lecito chiedersi se, quanto e come sia possibile
riconvertire queste risorse verso servizi istituzionali,
dall’altra pare indiscutibile l’urgenza di potenziare le
Cure Domiciliari e ancor più dirimere le profonde
disuguaglianze territoriali.
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