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29 29 Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno VI - N. 29 - Maggio-Giugno 2000 Per una geofilosofia delle Insorgenze padane Viva Maria! Le insorgenze liguri antigiacobine Le Pasque Veronesi Le insorgenze popolari controrivoluzionarie in Lombardia nel periodo napoleonico L’insorgenza in Emilia e Romagna

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2929Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana

Anno VI - N. 29 - Maggio-Giugno 2000

✓Per una geofilosofia delle Insorgenze padane

✓Viva Maria!Le insorgenze liguri antigiacobine

✓Le Pasque Veronesi

✓Le insorgenze popolari controrivoluzionarie in Lombardia nel periodo napoleonico

✓L’insorgenza in Emilia e Romagna

La Libera

Compagnia

Padana

I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Li-bera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributidi studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.

Questo numero dei Quaderni è stato curato da Andrea Rognoni

Per una geofilosofia delle Insorgenzepadane - Andrea Rognoni 1Atlante delle insorgenze padane 5Viva Maria! Le insorgenze liguri antigiacobine (1792-1814) - Flavio Grisolia 11La crisi dirigenziale della Repubblica di Genova alla fine del ’700 - Genialisti e giansenisti contro gli insorgenti - Raimondo Gatto 27Insorgenze piemontesi e partigiani “barbetti” dell’epoca napoleonica - Mariella Pintus 33Branda Lucioni, un eroe padano - Ottone Gerboli 38Le insorgenze popolari controrivoluzionarie in Lombardia nel periodo napoleonico - Oscar Sanguinetti 41Le insorgenze antigiacobine bergamasche (29-30 marzo 1797) - Fabio Bonaiti 48Le Pasque Veronesi - Maurizio G. Ruggiero 50La “Vandea estense” - Alina Mestriner Benassi 56L’insorgenza in Emilia e Romagna - Francesco Mario Agnoli 63Quegli autonomisti di duecento anni fa - Gilberto Oneto 81Repertorio di canti delle insorgenze piemontesi e trentino-tirolesi - Francesco Mario Agnoli 85Note sui simboli degli insorgenti 89

Periodico Bimestrale Anno VI - N. 29 - Maggio-Giugno 2000

Quaderni PadaniCasella Postale 55 - Largo Costituente,4 - 28100 NovaraDirettore Responsabile:Alberto E. CantùDirettore Editoriale:Gilberto OnetoRedazione:Alfredo CrociCorrado GalimbertiFlavio GrisoliaElena PercivaldiAndrea RognoniGianni SartoriCarlo StagnaroAlessandro StortiGrafica:Laura GuardinceriCollaboratoriFrancesco Mario Agnoli, Ettore A. Alberto-ni, Giuseppe Aloè, Camillo Arquati, Fabri-zio Bartaletti, Alina Benassi Mestriner,Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dioni-sio Diego Bertilorenzi, Vera Bertolino, Fio-rangela Bianchini Dossena, Diego Binelli,Roberto Biza, Giorgio Bogoni, Fabio Bo-naiti, Giovanni Bonometti, Romano Braca-lini, Nando Branca, Luca Busatti, Ugo Bus-so, Giulia Caminada Lattuada, Claudio Ca-roli, Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Ser-gio Cecotti, Massimo Centini, Enrico Cer-nuschi, Gualtiero Ciola, Carlo Corti, Mi-chele Corti, Mario Costa Cardol, GiulioCrespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’AmicoPanozzo, Roberto De Anna, Alexandre DelValle, Corrado Della Torre, AlessandroD’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco,Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini,Alberto Fossati, Eugenio Fracassetti, Ser-gio Franceschi, Carlo Frison, Giorgio Fu-magalli, Pascal Garnier, Mario Gatto, Otto-ne Gerboli, Michele Ghislieri, GiacomoGiovannini, Michela Grosso, Paolo Guli-sano, Joseph Henriet, Thierry Jigourel,Matteo Incerti, Eva Klotz, Alberto Lembo,Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri,Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo,Berardo Maggi, Andrea Mascetti, Pierleo-ne Massaioli, Ambrogio Meini, CristianMerlo, Ettore Micol, Alberto Mingardi,Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, MaurizioMontagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivel-li, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma, GiòBatta Perasso, Mariella Pintus, DanielaPiolini, Francesco Predieri, Ausilio Priuli,Leonardo Puelli, Laura Rangoni, Igino Re-beschini-Fikinnar, Giuliano Ros, MaurizioG. Ruggiero, Sergio Salvi, Oscar Sangui-netti, Lamberto Sarto, Gianluca Savoini,Massimo Scaglione, Laura Scotti, MarcoSignori, Silvano Straneo, Giacomo Stuc-chi, Candida Terracciano, Mauro Tosco,Claudio Tron, Nando Uggeri, Fredo Valla,Giorgio Veronesi, Antonio Verna, AlessioVezzani, Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili.Spedizione in abbonamento postale:Art. 2, comma 34, legge 549/95Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041Arona NORegistrazione: Tribunale di Verbania: n.277

Anno VI, N. 29 - Maggio-Giugno 2000 Quaderni Padani - 1

La Padania è stata al centro del fenomenodelle Insorgenze antigiacobine, tra il 1976 eil 1810, quando ha vissuto una serie di feno-

meni in gran parte afferibili alla spontaneità po-polare, sui quali è giusto indagare anche in ter-mini di distribuzione e consistenza “geopoliti-ca”.

Preliminarmente però vale la pena di ap-profondire il significato del termine “Insorgen-za”, a beneficio di una chiarificazione della filo-sofia che sta alla basedella fenomenologiastessa, in ordine a vi-sione del mondo, fi-nalità, funzione sto-rica, in modo da po-tere successivamenteriassumere i caratteridel rapporto con laterritorialità padanae italiana.

In lingua italianapochi lemmi sonocosì densi di comuni-cativa semantica co-me il verbo “Insorge-re”. Significa letteral-mente e indubitabil-mente “Ribellarsi,sollevarsi controqualcuno”, con sot-tintesa tutta quellarabbia che accompa-gna la manifestazio-ne. Nell’atto dell’in-sorgere non ci sono calcoli e premeditazioni,dubbi e tergiversazioni. Il linguaggio medico hascippato il termine alla storia e alla sociologia,parlando di insorgenza come di un primo mani-festarsi, spesso turbolento di una malattia. Volu-tamente neglette nella storiografia, le insorgen-ze son diventate così la principale occupazione

di medici pronti a intervenire con terapie d’urtoo a confortare il paziente attraverso diagnosinon troppo pessimistiche e promesse di rapideguarigioni. Forse tutto questo è un sintomo delprogressivo degenerare della mentalità italiana,specie dopo l’Unità e in seguito a quel processodi omogeneizzazione teso a smussare qualsiasiangolo della “civile convivenza tra popoli diver-si”: chi oggi se la sente soltanto di immaginarequalcuno in Italia dotato di un coraggio tale da

riuscire a insorgerecontro un certo tipodi potere? Ha finitoper prevalere il verbo“risorgere” (dopo unterremoto o una crisieconomica: da noi imiracoli son sempreben visti, specie senon ... rompono i co-siddetti) oppure, perle manifestazioni diprotesta, il verbo “re-criminare”, che sem-bra forgiato appostaper gente lamentosacome quella educatadal governo e dai sin-dacati tricolori.Le Insorgenze diduecento anni fa rap-presentano una dellepiù vistose manife-stazioni del compor-tamento umano che

passa sotto il predicato verbale “sollevarsi con-tro qualcuno”. Evidentemente quel qualcunogestiva un nuovo potere privo di consenso, intermini di sopruso e di distorsione ideologica ri-spetto ai valori e ai principi ritenuti validi dallecomunità invase e vessate. Le comunità in que-stione, prevalentemente abitanti nell’area pada-

Per una geofilosofia delle Insorgenze padane

di Andrea Rognoni

Schützen tirolesi. Incisione anonima

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na, si vedevano defraudate nell’intimo, spogliatecioè non solo di beni materiali ma soprattutto disacre credenze che avevano legittimamente pro-sperato per secoli. E si badi che la difesa di que-sti valori va al di là dello stesso rispetto della fe-de cristiana sui quali si fondano. Gli insorgenti,in Piemonte come a Verona o in Romagna, era-no esasperati dal fatto che i giacobini fossero ar-rivati in Padania a sradicare in tempi rapidissimiil senso stesso per il quale una comunità oun’etnia continua ad esistere. Sul piano dellapsicologia sociale, una sollevazione collettivapuò avvenire solo se il gruppo si vede minaccia-to nei suoi interessi strutturali, che vanno al dilà delle dinamiche puramente economico-am-ministrative, pronte in ogni caso a venire gestiteed edulcorate attraverso una politica di compro-messi interclassisti per la quale già allora gli an-tenati della sinistra attuale erano particolarmen-te versati (inutile allora che certe interpretazio-ni attuali di quegli “episodi” si rifacciano ancoraa presupposti materialistici: nel caso delle insor-genze l’economicismo come genesi della storia edei conflitti militari proprio non regge). In que-sto senso la fenomenologia insorgenziale rap-presenta la prima presa di coscienza del progres-sivo venir meno di antiche autonomie culturalie spirituali sotto i colpi di un processo che attra-verso il nazionalismo centralista e l’imperiali-smo socialista avrebbe portato al mondialismoattuale. I contadini padani reagiscono drastica-mente allo sradicamento dei loro valori comuni-tari perché è come se si sentissero privati del lo-ro stesso sangue, dalla fonte stessa della loro esi-stenza, in quel momento ancora simboleggiata egarantita dalla struttura ecclesiastica e dinasticapiù vicina alla gente e al territorio.

Non si tratta di una sollevazione contro la mo-dernità, come l’ermeneutica storica che pullulasui libri di testo vuol far credere (peraltro in ma-niera marginale, spesso con note a piè di pagina,quasi l’argomento delle insorgenze fosse imba-razzante), ma di uno spontaneo fremito di difesadi profonde e radicate idealità, le quali non vive-vano di passività e conservazione ma di attesa diquei principi del federalismo che rappresentanol’antitesi della omogeneizzazione giacobina estatalistica. Certo è anche l’offesa radicale che ilgiacobinismo comporta nei confronti della fedetradizionale a indignare gli insorgenti ma lo èsolo nella misura in cui quella fede da difendererappresenta una delle poche sostanziose garan-zie di un rispetto reale dell’identità dei popoli,quale successivamente solo la teoria federalisti-

ca, ispirata al liberalismo cristiano e comunita-rio, sarà in grado di proporre e programmare.L’abbattimento dell’albero della libertà nascedall’intuizione che quel simbolo rappresentava ilprototipo di un progetto che in nome della li-bertà sarebbe risultato semplicemente “libertici-da”. L’albero della libertà, così avverte il contadi-no di Lugo come il “brigante” delle Langhe,contiene in sé soltanto un miserabile feticcioispirato indirettamente, tra l’altro, ad un paga-nesimo idolatrico che aveva un senso e una di-gnità quando veniva portato a mo’ di vessilloidentitario dalle comunità precristiane ma si erapoi ridotto a strumento di potere “illuministico”(con il tipico procedimento del deismo che perproclamare Dio presente in ciascuno di noi sen-za l’intermediazione del rito religioso era statocostretto a eleggere a testimone sacrale la piantao la pietra) contro quella parte della macchinaecclesiastica che riusciva ancora a salvaguardarel’identità comunitaria in gran parte d’Europa.Qualsiasi libertà possibile, nel rispetto delle na-turali leggi di mercato, si esalta nella partecipa-zione spontanea alla vita della propria comunitàe ogni istanza individualistica, rosa dalla tenta-zione di vedere l’individuo avulso dal contestominimo come se fosse dotato di autosufficienzadi natura divina, finisce col fare il gioco di quel-lo statalismo contemporaneo che per salvare l’i-dentità egoica la mina alle radici cancellando ivalori della comunità di appartenenza, con stru-menti come la burocrazia il sindacalismo, la di-dattica nazionalpopolare, l’internazionalismoanglofilo, eccetera.

Ora, gli studi che presentiamo in questo nu-mero dei Quaderni, scritti dai più autorevoliesperti padani di Insorgenze, permettono dicomporre un quadro che, se correttamente rivi-sto in chiave sintetica, lascia indurre alcune ar-gomentazioni che riguardano appunto le moda-lità con le quali in Padania la filosofia insorgen-ziale che abbiamo appena illustrato si è manife-stata, in relazione soprattutto alla distribuzionegeografica e alle peculiarità espressive degli epi-fenomeni maggiori e più significativi. Penso al-lora che si possano sottolineare i seguenti duefondamentali risultati della ricerca:1) Le Insorgenze hanno rappresentato un feno-meno più rurale che urbano, più vincente neipiccoli che nei grandi centri della Padania, o co-munque più nelle zone a minore densità abitati-va. Tutto questo dipende solo in parte dal fattoche le guarnigioni francesi napoleoniche fosseropresenti più che altro nelle città, finendo con

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l’incutere paura ai cittadini. In alcuni borghiminori infatti, era proprio la presenza delletruppe di occupazione a scatenare maggiormen-te l’ira e il risentimento degli abitanti. In realtà iPadani urbanizzati sentivano già da allora menopressanti i valori tradizionali ed erano più dispo-sti a scendere a compromesso cogli invasori pro-prio per accrescere il loro potere economico epolitico nei confronti del contado. Cionondime-no gli abitanti dei centri storici finivano egual-mente per insorgere quando quelli della perife-ria della propria città sapevano riattivare nei lo-ro cuori i valori sopiti. Non si vuole intenderecon ciò che la vitadi città è fonte dicorruzione moralema semplicementeche una città senzascambio sociocul-turale continuo colterritorio circo-stante può diventa-re abulica e rinun-ciataria. Perdere divista i principi co-munitari grazie aiquali essa stessa ècresciuta e dovreb-be portare alla mas-sima maturità. Delresto la controrivo-luzione poteva na-scere laddove lospirito comunitarioera più forte, piùlimpida la configu-razione etnica e piùalta la convinzionedella funzioneidentitaria della fe-de cristiana. Manon dobbiamo pensare alle campagne isolate, al-le plaghe dove la vita era rimasta immobile dasecoli, quanto invece ai paesi dal ricco mercatoagricolo o alle comunità delle valli alpine e ap-penniniche che rappresentavano un rapportoleale fra borghesia emergente e la classe conta-dina. Sotto questo punto di vista il drammatico incen-dio di Binasco risulta davvero esemplare. Daparte dei giacobini viene tarpata la vita di unacomunità attiva della Bassa, in espansione socia-le e culturale. Ecco allora farsi più chiara l’im-magine di qualcuno che viene in Padania più

per conservare che per rivoluzionare. In primaistanza vuole conservare l’élite socioculturaledelle grandi città, le eredi insomma di quellecorti che in età rinascimentale avevano difeso lalingua italiana a danno dei popoli padani stessi enel settecento avevano inneggiato all’illumini-smo con grande piglio culturale e giuridico, di-menticando di continuare a valorizzare le realtàcomunitarie tradizionali, anche se, questo vadetto senza l’isteria dei voltairiani e di altre élitefrancesi. la conservazione della struttura mo-nourbana a base aristocratico-borghese era for-se, per l’universo dei “democratici” filonapoleo-

nici, l’unica manie-ra di impedire il na-scere e crescere diuna vera e proprialiberazione sociale,quella poi propostadai teorici padanidel federalismo.Gl’insorgenti di Ve-rona o delle collinepiemontesi sapeva-no quindi ricono-scere nell’alberodella libertà e neisuoi metaforici ra-mi costituiti daimiti edonistici deiparigini “postrivo-luzionari” un cuposimbolo di oppres-sione e restaurazio-ne. Lo stesso trico-lore (francese e ita-liano che fosse)rappresentava unanuova versione del-l’imperialismo ve-teroromano, sicu-

ramente non la voce del popolo padano in tuttele sue etnie.2) Le Insorgenze padane, sia nelle loro espres-sioni più rurali, che in quelle cittadine, avevanouna scarsa connotazione di tipo nazionalistica,nel senso di volontà di appartenenza a unaeventuale nazione italiana. Come scrive MarcoInvernizzi nella prefazione al libro di AgnoliGuida introduttiva alle insorgenze controrivo-luzionarie in Italia durante il dominio napoleo-nico, “non provavano grandi difficoltà a viverenell’Impero, laddove c’era l’impero come nelLombardo-veneto”. Non esisteva cioè, come

Giacobino. Incisione inglese, 1784

qualche storico ha paventato, una “precoscien-za” unitarista, anzi, come scrive lo stesso Inver-nizzi “rifiutavano la tesi ideologica dello Stato-nazione, quando quest’ultima si scontra con lastoria, la cultura e le tradizioni di popoli abitua-ti a vivere diversamente da come l’ideologia il-luministica e razionalistica aveva deciso che do-vessero vivere. Probabilmente avrebbero accet-tato una confederazione politica, magari sottola guida del Papa, come si pensò dopo l’elezionedi Pio IX e fino al 29 aprile 1848, che non co-stasse l’obbligo di rifiutare i valori nei quali era-no stati educati”. Quest’ultima affermazione è estremamente im-portante perché ipotizza un’opzione politica maiespressa o ufficializzata ma latente nell’orienta-mento evolutivo di cui il passaggio insorgenzia-le fa parte. È vero che, come scrissero Fiorini eLemmi in “Periodo napoleonico dal 1799 al1814” (AA.VV: Storia politica d’Italia scritta dauna società di professori, Milano), “nel manto-vano, nel cremonese, nel bresciano, nel berga-masco gli austro-russi trovarono nelle campa-gne molto seguito” ma la fedeltà all’Impero vavista non come un attaccamento al passatoquanto come un tentativo di impedire che lastoria prendesse una direzione diversa da quellaauspicata dai popoli padani. In certi casi poi l’av-versione nei confronti del Regno Italico

si dimostrò così forte da far pensare a una preci-sa volontà antiunitaria presente proprio nei rap-presentanti più umili: si veda ad esempio la vi-cenda umana descritta nel saggio di Agnoli pre-sente in questo numero dei Quaderni, relativa alBaschieri, contadino emiliano pronto a tuttopur di evitare la fine dello Stato pontificio, visto,pur con tutti i suoi limiti, come garanzia delmantenimento delle identità territoriali.Come sottolinea Massimo Viglione in Le Insor-genze (Milano, 1999), le insorgenze non presen-tano caratteristiche identiche in tutta Italia. Ingenere nel regno borbonico è più evidente l’ap-poggio della nobiltà, specie nelle grandi città, al-la causa giacobina. In Padania la nobiltà si divisemaggiormente, stette in parte con gli insorgenti(si pensi ai fratelli Manzoni di Lugo o a certi ari-stocatici veronesi). Questo fenomeno va lettocome un sintomo, seppur larvato, della più deci-sa spinta alla conservazione dello status quo inSuditalia che in Norditalia: “cambiare tutto pernon cambiare niente”, secondo lo spirito ausoni-co riportato argutamente ne Il gattopardo, nelsenso che il centralismo napoleonico avrebbeappunto ostacolato definitivamente un assettofederalistico dell’universo italiano, dando il là aquel processo di formazione di una falsa nazio-ne, l’Italia, destinata a garantire vecchi privilegiin nome della democrazia e della “fratellanza”.

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Anno VI, N. 29 - Maggio-Giugno 2000 Quaderni Padani - 5

Le aree interessate da insorgenze sono indica-te in grigio. Le aree interessate da fenomeniendemici di brigantaggio sono invece segnatecon retino. La delimitazione delle aree è ne-cessariamente approssimativa e indica le zoneche sono state interessate da insorgenze perperiodi più o meno lunghi.

1 Repubblica Francese1a Piemonte (Repubblica Francese)1b Toscana (Repubblica Francese)1c Impero Francese 2 Repubblica Helvetica 3 Sacro Romano Impero Germanico3a Ducati di Milano e di Mantova (Impero)3b Veneto (Impero)3c Impero d’Austria4 Regno di Baviera5 Regno di Sardegna5a Principato di Monaco6 Repubblica di Genova7 Ducato di Parma8 Ducato di Modena9 Repubblica di Venezia12 Stato della Chiesa10a Repubblica Romana12 Ducato di Massa12 Repubblica di Lucca12a Principato di Lucca

13 Granducato di Toscana13a Regno di Etruria14 Repubblica di San Marino15 Repubblica Cisalpina15a Repubblica Italiana15b Regno d’Italia

Atlante delle insorgenze padane

Barbetti della Contea di Nizza. Incisione di Ro-land Locauché

1792-1795

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1800

1801-1802

Anno VI, N. 29 - Maggio-Giugno 2000 Quaderni Padani - 9

1803-1808

1809

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I Milanesi assaltano Palazzo Reale nel 1814. Dipinto di G. Migliara

1813-1814

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PremessaIl percorso a ritroso nel tempo del periodo

che va dal 1792 al 1814, significa per ogni Ligu-re che abbia coscienza della propria identità estoria, un autentico calvario dello spirito: in po-co più di un ventennio tutto fu letteralmentestravolto per non tornar mai più come prima.Usi, costumi e istituzioni, antichi di secoli senon di millenni, saranno cancellati per sempre,lasciando al loro posto solo artificiose costru-zioni ideologiche, autentici deserti dell’anima,finalizzate unicamente a sostenere uno stato-mostro, completamente votato all’adorazionedel Vitello d’oro.

La perdita delle antiche libertà locali nel no-me di un’astratta liberté, priva di reali contenu-ti fu, insieme al progressivo snaturamento deiprincìpi religiosi, la causa fondamentale dellento ma inesorabile degrado morale, fisico edeconomico del Popolo Ligure, i risultati delquale sono sotto gli occhi di chiunque vogliaguardare. La storia di quest’infamia è stata pe-raltro il più possibile celata e solo oggi, a due-cento anni di distanza, essa va sempre più deli-neando i suoi orridi contorni, grazie soprattut-to al risvegliarsi delle antiche appartenenzeidentitarie, non certo basate come allora e atutt’oggi predicano i giacobini, sulla ragione e ilsolo consenso, bensì sugli insopprimibili legamidel sangue e del suolo, da cui deriva il concettotradizionale di patria, magistralmente espressoin una famosa frase del vandeano Charette, eroedella controrivoluzione francese. (1)

Il martirio di OnegliaLa dolorosa cronaca che in maniera obbliga-

toriamente sintetica e involontariamente in-completa, mi accingo a narrare, ha inizio nelsettembre del 1792, allorquando le truppe fran-cesi occupano la Contea di Nizza, dominio dei

Savoia. A quel tempo la sua popolazione mante-neva certamente caratteristiche liguri superiorialle attuali, soprattutto a livello linguistico: sipuò quindi tranquillamente affermare, che que-sto fu il primo brutale impatto del popolo conle forze rivoluzionarie.

Nizza fu selvaggiamente saccheggiata, al pun-to tale che il generale d’Anselme comandantedegli invasori, fu messo sotto processo dai suoistessi connazionali, salvo poi essere pacifica-mente assolto. La Contea non era però l’unicoterritorio ligure in mano al Re di Sardegna, poi-ché a lui apparteneva anche il piccolo Principa-to d’Oneglia, incuneato nella Repubblica di Ge-nova, che era strenuamente aggrappata a unaneutralità che non le avrebbe portato alcun be-neficio. Fu così che all’alba del 22 ottobre 1792una squadra navale francese guidata dall’ammi-raglio Truguet si presentò dinanzi al porto deldominio sabaudo, mossa indubbiamente da po-co pacifiche intenzioni: il suo scopo, infatti, eraquello di occupare il Principato e successiva-mente la città di Loano, pur’essa sottoposta aiSavoia, dopo che in passato l’avevano acquistatadai Doria. Ciò era motivato dai Francesi, in unresiduo impeto di garantismo, dalla necessità dievitare di far passare le truppe presenti nel Niz-zardo sui territori della Repubblica di Genova.

Il comandante di Oneglia, cavalier Ricca diCastelvecchio, forte di una guarnigione di ben30 veterani, avrebbe sicuramente preso in con-siderazione, dato lo stato delle forze in campo,l’ipotesi di una rapida resa, sennonché la popo-

Viva Maria!Le insorgenze liguri

antigiacobine (1792-1814)di Flavio Grisolia

(1) Diceva ai suoi Charette: “La Patria per noi sono i nostrivillaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostriPadri hanno amato prima di noi. La nostra Patria è la nostraFede, la nostra terra, il nostro re! Ma la loro patria che cos’èper loro? Voi lo capite? Loro l’hanno nel cervello, noi la sen-tiamo sotto i nostri piedi…”.

12 - Quaderni Padani Anno VI, N. 29 - Maggio-Giugno 2000

lazione preventivamente informata dai numero-si profughi nizzardi, da quali galantuomini fos-sero formate le truppe giacobine, decise di resi-stere a oltranza. Rinchiusisi nella città, corseroad armarsi e inviarono una richiesta d’aiuto aipesi limitrofi, ricevendo però l’appoggio solo diun centinaio di volontari, provenienti da Ponte-dassio. Ci fu in seguito un tentativo di trattati-va, tragicamente fallito forse per un malinteso,o più probabilmente per via dell’atteggiamentoprovocatorio dei Francesi, a causa del quale iLiguri reagirono con una nutrita scarica di fu-cilate, che provocò alcune vittime in campo av-verso. Fu allora chesu Oneglia si riversòun autentico diluviodi fuoco; per tre oree mezzo centinaia digrossi cannoni bom-bardarono la città,generando morte edistruzione: si cal-cola che i colpi spa-rati furono ben6.600.

Non contenti, igiacobini sbarcanol’indomani a PortoMaurizio, città ge-novese e chiedonoufficialmente aglionegliesi la testa deipresunti aggressori.Colpiti ma non do-mi, gli assediati ri-fiutano preparando-si a quello che san-no sarà un tragicoscontro finale a lorosfavore. Dalle navi francesi sbarcano quindi1.000 soldati che riescono a entrare in città il24 ottobre, mettendola a ferro e fuoco. Nume-rose le testimonianze sugli innumerevoli scem-pi perpetrati dalla canaglia giacobina, comel’uccisione di tutti coloro che non erano riuscitia fuggire e il particolare accanimento contro lechiese, che furono barbaramente profanate, nonrisparmiando neppure i sepolcri, che venneroscoperchiati alla ricerca di oggetti preziosi. Percinque giorni e cinque notti Oneglia subiràl’onta e il saccheggio, finché la squadra navalenon riprenderà il largo, lasciandosi alle spalle lacittà devastata e in fiamme.

Ad oggi nessuna voce si è levata, per inqua-

drare storicamente i tragici avvenimenti one-gliesi, nel novero delle insorgenze antigiacobi-ne, facendo così un grave torto allo spirito in-domito e profondamente controrivoluzionariodi questi nostri antenati.

Quello che avvenne in quel lembo del Ponen-te ligure, non fu lo scontro di due eserciti rego-lari, bensì la ferma volontà di una popolazionedi resistere e contrastare con ogni mezzo l’a-vanzata di un male per loro peggiore della pe-ste: la rivoluzione. Per questo motivo è giustoconsiderare quella di Oneglia, come la primavera insorgenza europea al di fuori della Fran-

cia, senza aspettare ulteriormente riconosci-menti da quelli stessi storici di regime, che finoa ieri volutamente ignoravano o nella miglioredelle ipotesi denigravano distorcendola, la piùtragica ma al tempo stesso gloriosa epopea dellenostre genti.

Per la povera Oneglia i guai non erano peròfiniti: protetta da navi inglesi, tra cui l’Agamen-non di lord Orazio Nelson e rinforzata da trup-pe provenienti dal Nizzardo, divenne nei mesiseguenti il principale punto d’approdo per tuttequelle navi corsare, le cosiddette tigri, che nelMar Ligure creavano gravi intralci ai riforni-menti francesi via mare. Tutto ciò la ponevaquale obiettivo primario per i rivoluzionari, so-

Le conseguenze dell’invasione francese. Incisione inglese

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prattutto dopo che l’insorta Tolone nel dicem-bre del 1792, ritornò in loro mano, grazie an-che all’abilità di un capitano d’artiglieria di no-me Napoleone Bonaparte.

L’arrivo nel porto di Oneglia di 3000 soldatisardi e di 300 profughi provenienti dalla cittàfrancese, fu la dimostrazione palese che gliOnegliesi erano più che mai in prima linea. Aquesto punto però il Governo sabaudo decise diabbandonare la città al suo destino e tolti dallechiese i pochi oggetti preziosi salvati ai France-si e le campane, quale materiale d’importanzabellica, la guarnigione si diresse a nord verso ilPiemonte. Dall’altra parte i Francesi intendeva-no occupare Oneglia e Loano, passando stavoltaattraverso il territorio della Repubblica di Ge-nova, di modo che fosse possibile per loro acce-dere al Piemonte attraverso valichi meno muni-ti di quello di Tenda. Per questo motivo nellanotte tra il 5 ed il 6 aprile 1794, 20.000 uominial comando del rinnegato nizzardo Massena,entrarono proditoriamente, senza alcun preav-viso in territorio genovese. Si trattava dellametà dell’Armata del Mezzogiorno (poi Armatad’Italia) guidata dal generale Dumberbion, checon il resto delle truppe era impegnato suimonti di Nizza. Nel frattempo Massena avevapredisposto di avanzare lungo due direttrici:una con 12.000 uomini al suo seguito verso imonti di Triora, nel tentativo di far cadere l’in-sormontabile baluardo costituito dalla fortezzadi Saorgio, l’altra comandata dal generale Mou-ret con le forze rimanenti, lungo la costa pun-tando su Oneglia e Loano. Occupata Ventimi-glia, che con una guarnigione di soli 160 uomi-ni non poté che arrendersi senza colpo ferire,gli invasori francesi giunsero a Porto Maurizio,dinanzi ad Oneglia.

Quando la mattina dell’otto venne intimata laresa alla città, solo pochi irriducibili controri-voluzionari combatterono, non riuscendo peròa sparare che poche fucilate, poiché ben prestole porte delle mura furono aperte e a fronteg-giare gli occupanti si presentò, armato solo deiparamenti sacri un povero sacerdote, che venneimmediatamente assassinato dalla soldatagliagiacobina.

Oneglia era una città spettrale con ancoraevidenti i segni del precedente saccheggio equasi completamente disabitata: Agostino Robe-spierre deputato in missione, scrivendo al fami-gerato fratello Massimiliano, dichiarava che dalPrincipato erano sfollate ben 40.000 persone,comprensive dei profughi nizzardi.

Gli Insorgenti della val Tanaro e “Le sei ore di morte di Balestrino”

Occupata Oneglia, il generale Mouret inviòun distaccamento della brigata Cervoni in dire-zione di Loano. I Francesi il 15 aprile 1794giunsero in vista della città, preceduti dalleschiere dei profughi in fuga da ponente e dall’i-narrestabile fuga della guarnigione sabauda,che come a Oneglia pensò bene di lasciare lapopolazione al suo destino. Si formò perciò ungoverno cittadino, sotto la guida di Felice Lan-teri, che dopo drammatiche discussioni, decisedi trattare la resa, consegnando così Loano aigiacobini senza combattere, il giorno dopo, 16aprile. I numerosi rifugiati liguri al di là dellelinee francesi però non si diedero per vinti e ar-matisi alla bell’e meglio, decisero di liberareLoano, marciando alla fine di maggio in 6.000sulla città. Risalita la valle del Tanaro hanno unprimo scontro coi rivoluzionari, che li costrin-ge a deviare su Pietra Ligure, nei cui pressigiungono a giugno. Che si tratti di insorgentiliguri e non di truppe regolari austro-piemonte-si, risulta evidente dai nominativi che sonogiunti sino a noi: innanzitutto il loro capo, ilcapitano Ardissone di Pontedassio, proseguendopoi con Pellegrino di Villatalla, Talone di VillaS.Pietro, Borelli di Carpasio, Berardi, Bocchi-glieri e Cerrone di Oneglia. Si tratta perciò del-la seconda importante insorgenza ligure, an-ch’essa non riconosciuta come tale sino a oggi eriportata solo da sporadiche storie locali, quasiche 6.000 volontari pronti a battersi a mortecontro i giacobini fossero un fatto secondario,senza tener conto che le popolazioni del Ponen-te ligure sottoposte ai Savoia, non erano costi-tuite che da poche decine di migliaia di perso-ne.

Giunti a Pietra Ligure gli insorgenti non de-mordono dai loro intenti e avanzano lungo lacosta in direzione Loano, nei cui pressi il 2 lu-glio entrano in contatto con le truppe francesi.Per due volte i valorosi liguri, nettamente infe-riori in numero e armamenti, tenteranno l’as-salto alla città e in entrambe verranno respinti,finché constatata l’impossibilità materiale diperseguire il loro scopo, si disperderanno suimonti, forse aggregandosi agli Austro-Piemon-tesi, forse organizzando una guerriglia in bandesecondo il costume dei loro antichi padri.

Le valli a ponente di Savona saranno per mol-to tempo ancora teatro dello scontro tra i con-trapposti eserciti, senza che la Repubblica diGenova non abbia mai il coraggio di levarsi

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contro chi, di fatto, aveva occupato i suoi terri-tori. Indubbiamente i floridi commerci che essae quindi buona parte della nobiltà che la gover-nava, intratteneva coi Francesi, nonostante ilblocco navale nel Mar Ligure e nell’Alto Tirre-no, erano un ottimo deterrente per tacitare l’or-goglio nazionale così palesemente ferito. Vitti-ma innocente era ancora una volta il popolo,che subirà senza alcun motivo continue violen-ze e ruberie da parte delle truppe rivoluziona-rie, spesso sfociate in uccisioni e saccheggi.Emblematico in questo senso è ciò che avvennea Balestrino, paesino dell’entroterra di Loano,feudo imperiale affidato a Giò Enrico IV delCarretto, nobile genovese e pertanto ufficial-mente neutrale. Questa non era però l’opinionedei Francesi e in particolare del Commissarionazionale per i territori occupati a levante delRoja, Filippo Buonarroti, un massone e giacobi-no pisano, messosi ai servigi dei rivoluzionari.Costui decise in maniera totalmente pretestuo-sa che i terreni e le altre proprietà del feudopassassero direttamente dalla gestione di delCarretto a quella del suo commissariato e si at-tivò in proposito. Questo avveniva con un pro-clama il 21 settembre 1794 e comportò losmembramento del feudo e la vendita di unaporzione dei beni, per pagare una parte degliapprovvigionamenti fatti per la truppa.

Non solo terre ed edifici, ma anche i mobili egli arredi del castello furono confiscati, magariin maniera un po’ sbrigativa, visto che si parladi libri e quadri direttamente buttati dalle fine-stre. In effetti, i Francesi avevano già fatto visitaal paese e ai suoi dintorni, esattamente il 21aprile e seguenti, quando però si erano limitatia svuotare le cantine, la segreteria e il guarda-roba del castello e a bruciarne parte delle sup-pellettili per riscaldarsi, oltre a imporre alla po-polazione forniture di ogni genere e a razziarele campagne e le case incustodite: bel compor-tamento non c’è che dire per coloro che voleva-no sostituirsi a “L’odiato tiranno Giò Enrico IVdel Carretto”. Ne risulta quindi che l’animo de-gli abitanti di Balestrino e frazioni, non fossecerto dei più propensi, nei confronti di coloroche più che liberatori sembravano essere in tut-to e per tutto, un’accozzaglia straniera di taglia-borse e tagliagole. In aggiunta a questo vi fu ilterribile flagello dell’epidemia di colera, che irivoluzionari si portavano appresso come unamaledizione e che inevitabilmente contagiò an-che il Feudo col corollario di decine di vittime.Va da sé che - come sembra - i Balestrinesi ac-

colsero con favore l’arrivo di 500 Ungheresi cheal comando del capitano Redewen, presero pos-sesso del castello nell’autunno del 1795.

Un tentativo francese fatto l’11 novembre diriprendersi il maniero fallì con gravi perdite,sennonché gli Ungheresi decisero autonoma-mente che la posizione non meritava di esseredifesa a oltranza, abbandonando così nella notteseguente l’avamposto.

Il ritorno dei giacobini coincise con una terri-bile rappresaglia nei confronti della popolazionecivile. L’evento, passato alla tradizione localecome “Le sei ore di morte”, vide l’uccisione daparte dei Francesi di quindici abitanti e l’incen-dio della frazione di Bergalla. Sempre secondotale tradizione, pare che gli abitanti del Feudofossero stati informati anzitempo delle inten-zioni dei rivoluzionari, da una donna di un’altrafrazione, Vercesio; ciò non spiega però il perchédi un così alto numero di vittime, né il fatto checostoro furono uccisi nelle loro case o neglistessi pressi.

Il territorio di Balestrino si prestava come og-gi, a innumerevoli nascondigli, senza tenerconto del fatto che si tratta di un insieme di di-versi agglomerati di case, ragion per cui anchechi era allo scuro di tutto, dopo i primi spariaveva sicuramente avuto il tempo di mettersi insalvo.

L’ipotesi più probabile, alla luce soprattuttodegli antefatti, non può che essere quella che iBalestrinesi, invece di fuggire attesero armati igiacobini, poiché questa era l’estrema possibi-lità di salvare i loro averi. Che motivano aveva-no infatti i Francesi di ucciderli, se non per illoro atteggiamento durante la permanenza nelcastello dei soldati ungheresi? Esecuzioni cosìsommarie, possono essere solo giustificate dauna resistenza armata, prima e/o dopo la dipar-tita delle truppe imperiali. Sembra più logicocomunque pensare, che la scelta da che partestare sia stata fatta dagli abitanti presenti gliUngheresi e che gli stessi avessero già preventi-vato la dura reazione francese, tentando perciòun’ultima disperata resistenza.

In seguito tutti avrebbero avuto la convenien-za a tacere: la popolazione onde evitare altrerappresaglie o il carcere, i rivoluzionari per nonfar emergere i loro misfatti e l’esistenza di unfocolaio controrivoluzionario, possibile elemen-to catalizzante di altre insorgenze. Si spieghe-rebbe così il silenzio calato sulle reali motiva-zioni di questa vicenda, su cui neanche gli sto-rici progressisti son stati capaci di imbastire

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ipotesi a loro favorevoli. Ci troveremmo perciòdinanzi alla terza insorgenza nel Ponente ligu-re, con sei mesi in anticipo rispetto a quella diComo, finora considerata la prima insorgenzaantigiacobina d’Italia.

La Valle Scrivia in fiammeA nord di Genova, formalmente facenti parte

del Sacro Romano Impero, ma di fatto legati al-la Repubblica, sia da un punto di vista economi-co che politico, vi erano i Feudi imperiali, unodei quali, quello d’Arquata, era affidato sin dal1312 alla nobile famiglia genovese degli Spino-la, che nel 1796 lo governava ancora tramite ildiscendente Agostino.

Posto su una via di comunicazione fonda-mentale per i rifornimenti dalla Francia alletruppe impegnate in Padania, il piccolo feudodovette subire oltre alla poco gradita presenza,anche l’immancabile contorno di ruberie e vio-lenze varie, che le truppe rivoluzionarie si por-tavano appresso. Ciò aveva quasi immediata-mente scatenato la reazione degli abitanti, chein bande armate avevano organizzato una con-sistente e pungente guerriglia. Gli insorgenti,che qui venivano chiamati Barbetti, discendeva-no dai monti per attaccare le colonne francesi,che prese nelle strette gole appenniniche, spes-so avevano la peggio. La loro azione fu partico-larmente intensa ed efficace tra il maggio e ilgiugno di quell’anno, con più di una colonnafrancese annientata. La situazione dovette im-mediatamente apparire assai grave al coman-dante dell’Armata d’Italia Napoleone, se fu co-stui a trasportare il suo quartier generale a Tor-tona, sede di un altro feudo imperiale: da quiinviò il generale Lannes con 12.000 soldati apunire gli insorti. La piccola Arquata fu sac-cheggiata e incendiata il 9 giugno 1796 e tutticoloro che vi furono trovati vennero immedia-tamente passati per le armi. Nessun edificiopubblico o religioso fu risparmiato e la Canoni-ca, il palazzo marchionale e l’ospedale, furonorasi al suolo.

L’orrore per gli scempi perpetrati dai giacobi-ni non riuscì a impedire però nuove insorgenze,anzi, già il 13 di quello stesso mese e proprio aTortona sede dello stato maggiore napoleonico,il popolo scese nelle strade e nelle piazze acombattere contro i macellai d’oltralpe. Ci vol-lero ben quattro giorni perché la potente arma-ta, potesse aver ragione dei Barbetti: una picco-la città seppe da sola tenere testa sino al 17 giu-gno, all’esercito più forte del mondo.

Certo tutta la storia delle insorgenze è costel-lata di incredibili episodi di eroismo collettivocome questo, ma chiediamoci allora quale deveessere il termine di paragone e la giusta collo-cazione d’importanza, con le tanto declamaterivolte liberali o, in tempi più recenti, con lesommosse antitedesche dell’ultima guerra, fattein contesti sicuramente meno eclatanti perquanto riguarda i valori in gioco, la partecipa-zione popolare e l’enorme disparità delle forzein campo.

L’insorgenza genovese del maggio 1797Mentre i Francesi da autentici invasori, scor-

razzavano sul suo territorio, aggrappata aun’ambigua neutralità la Repubblica di Genovalanguiva in una lenta agonia, governata daun’aristocrazia in cui gli aspetti mercantilisti-co-finanziari erano, di fatto, divenuti totalmen-te predominanti, tanto da costituire la vera mo-tivazione dell’esistenza stessa di uno stato indi-pendente. Covo di fuoriusciti giacobini, che incittà avevano fatto proseliti tra nobili e borghesie con un clero infiltrato dall’eresia giansenista,Genova, data soprattutto la presenza del mini-stro plenipotenziario francese Guglielmo Fai-poult de la Maisoncelle, attivissimo cospiratore,sembrava con ogni probabilità essere la novellavittima sull’altare sacrificale della rivoluzione.

Il Serenissimo Governo era perfettamente alcorrente delle trame sovversive dell’ambasciato-re e dei suoi prezzolati accoliti, ma si guardavabene dall’intervenire per paura di una ritorsio-ne francese. Anzi quando nell’aprile del 1797osò arrestare il noto agitatore, nonché fuoriu-scito napoletano al soldo di Faipoult, Andrea Vi-taliani, il diplomatico transalpino riuscì a farloliberare, dando così un ulteriore discredito alresiduo prestigio delle istituzioni genovesi e an-dando a ringalluzzire i giacobini locali. Tuttoera insomma pronto per quello che ormai nonsembrava altro, che un logico e conseguentepassaggio di consegne. Quando perciò all’albadel 22 maggio il drappello dei Cadetti che dove-va dare il cambio della guardia al varco di PonteReale, occupò la postazione nel nome della “Ri-voluzione” insieme a un gruppo di “patrioti”,probabilmente la nobiltà per prima non si stupìpiù di tanto.

Nella loggia della Borsa Merci di piazza Ban-chi, si installava frattanto il Quartier generaledella Rivoluzione, di cui facevano parte FeliceMorando, Filippo Doria, Andrea Vitaliani, Ales-sandro Ricolfi detto Bernardone, l’abate Cuneo

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e Valentino Lodi. Vale a dire un bel misto digrassi borghesi (in particolare farmacisti), nobi-li squattrinati e religiosi in odore di eresia. Uni-co assente di rilievo, per il cui bene però si pre-tendeva di operare: il popolo; e mentre il Gover-no e i suoi Magnifici pensavano già, rinchiusinel Palazzo Ducale, a come poter cedere alle ri-chieste dei giacobini, salvando quel po’ di facciache credevano ancora di avere, il popolo si pre-sentò...!

Dallo storico quartiere del Balilla, Portoria edai caruggi dell’angiporto, una folla formata dacarbunin e camalli, si dirige verso il Palazzo algrido di “Viva Maria”, “Viva il nostro principe!”.

Sfondate le porte dell’armeria del Ducale, no-nostante la presenza di guardie svizzere, si im-possessano di ben 14.000 armi da fuoco, forsenon tutte in buono stato, comunque indicativedel gran numero di insorgenti, valutabile sicu-ramente in diverse migliaia. Come un’inarresta-bile marea si riversano quindi per la città ripu-lendola da ogni presenza rivoluzionaria e fran-cese, facendo tra l’altro passare un brutto quar-to d’ora anche al ministro Faipoult, promotoree finanziatore, neanche troppo velato del tenta-tivo insurrezionale. Il mattino del successivo23, il Popolo Genovese regola definitivamente iconti con i giacobini superstiti asserragliati aPonte Reale.

Già prima di mezzogiorno l’ultimo caposaldorivoluzionario è caduto e Filippo Doria che locomanda è ucciso insieme a molti dei suoi; amonito esemplare contro i nemici della Tradi-zione, il suo corpo diviso in pezzi, verrà espostoper diverso tempo sulle piazze della città.

Purtroppo l’eroico intervento degli insorgentigenovesi verrà vanificato dalla debolezza moralee dai malcelati interessi economici dei suoi go-vernanti, che di lì a breve, messi dallo stessoNapoleone di fronte all’alternativa di far morirela Repubblica di Genova o di combattere per di-fenderla, sceglieranno ignominiosamente la pri-ma soluzione, abbassando così nella vergognauna bandiera di libertà che sventolava ormai daquasi un millennio.

Tutto questo verrà sancito nella Convenzionedi Mombello stesa da Bonaparte col concorsodel solito Faipoult, tra il 5 e il 6 giugno 1797 eaccettata, come si diceva, dai Serenissimi Colle-gi il 9 dello stesso mese.

La tragedia sfocerà poi definitivamente in far-sa allorché il 13, ovvero solo quattro giorni do-po, si insedierà il primo governo democraticodella neonata Repubblica Ligure, con presiden-

te Giacomo Brignole, l’ultimo doge della Re-pubblica di Genova.

Pieve, un paese controrivoluzionarioUn episodio apparentemente minore, eppure

significativo di quale aria tirasse in quel maggio1797, ci viene dal Ponente ligure ed esattamen-te dall’alta valle Arroscia, alle spalle di Albenga.La vicenda è emblematica per tre motivi fonda-mentali, che verranno spiegati nell’esporre gliavvenimenti. Il primo è riferito al luogo comu-ne che il clero in combutta con la nobiltà, siastato tra i sobillatori delle insorgenze, cosa chein sé ha indubbiamente una sua logica: in realtàcome si è già detto (e come lo svolgersi delle va-rie insorgenze sta a dimostrare e lo farà semprepiù chiaramente col delinearsi degli eventi) laMassoneria, grande maestra occulta della rivo-luzione, era riuscita già da tempo, a far penetra-re profondamente le idee giacobine tra i ceti di-rigenti e religiosi. E furono per l’appunto trepreti, di cui uno Giuseppe Sibilla provenientedirettamente da Milano, dove frequentava gliambienti filofrancesi, tenendosi al contempo incontatto con quelli di Genova, che tentarono diprovocare una rivolta nel paesino di Pornassioil 21 maggio 1797. Già la data, perfettamenteconcomitante coi primi disordini nella Capitalenon può essere casuale; a conferma di ciò esistela lettera di autodenuncia di un rivoltoso “pen-tito” scritta il 23 maggio, che delinea chiara-mente le trame di un complotto. In essa lo scri-vente conferma in maniera che non può pre-starsi a dubbi, l’azione sobillatrice in particola-re del Sibilla, che incitò la popolazione di Por-nassio alla rivolta, dichiarando che Genova ave-va ceduto il paese e i territori circostanti al Redi Sardegna. Così la lettera prosegue: “L’odiocontro questa nazione e l’attaccamento al nomeGenovese ha operato con tutta forza sopra lospirito delli semplici miei paesani. Quasi tuttiirritati o sedotti da questo annunzio hanno tu-multuariamente dichiarato di voler essere piut-tosto liberi e indipendenti che piemontesi.” Pas-so questo da cui si trae la seconda conclusione:anche in un paese di confine come quello, di-stante alcuni giorni di camino dalla Superba,era forte e radicato il concetto di nazione; vale adire un sentimento di appartenenza etnica alpopolo ligure, rappresentato nella sua interezzadalla Repubblica di Genova, in alternativa alquale non poteva esservi che la piena indipen-denza locale, non certo l’annessione a uno statostraniero e per secoli nemico come quello di

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Sardegna, che pure a differenza di Genova, nondistava che poche miglia.

Incitati quindi dai tre preti, i Pornassini mar-ciarono prima su Acquetico, dove non incontra-rono alcuna resistenza, poi su Pieve, dove peròtrovarono le porte sbarrate e gli insulti della po-polazione. Con la coda tra le gambe dovetteroperciò riprendere la strada di casa. Purtroppoperò la storia non era ancora finita, poiché mer-coledì 24 maggio, giungeva da Genova la noti-zia (falsa) della caduta del Governo a opera deigiacobini. Tutto ciò servì naturalmente da pre-testo agli agitatori per rinfocolare gli animi,tanto che vi fu chi dai paesi circostanti andò aunirsi ai Pornassini e il capitano genovese fu ar-restato. Un albero della libertà fu innalzato allaPieve, ma su esso i lealisti ottennero che sven-tolasse il vessillo di S.Giorgio, in segno di fe-deltà alla Repubblica.

Fortunatamente il 27 giunse un messaggiodel Governo che invitava alla calma e alla ricon-ciliazione e decretava la sospensione della tassasul macinato, chiesta dai dimostranti. Tuttosembrava perciò volgere al meglio, quando do-menica 28 veniva annunciato l’arrivo a Pornas-sio di un reparto francese diretto a Oneglia.

Ancora una volta il perfido Sibilla cercò di ap-profittare della situazione e pretese dai Pievesinove ostaggi scelti tra le persone più influenti,al fine di imporre loro la costituzione di un go-verno provvisorio della municipalità, di ispira-zione giacobina. A tali richieste gli abitanti diPieve ritennero che la misura era colma e senzaaspettare la decisione dei Consoli, reggitori del-la cosa pubblica, insorsero armati contro i rivo-luzionari giacobini. Tutto ciò fu comunicato alcomandante del reparto francese, un certo Hi-ber, il 29. Di fronte a tanta fermezza i giacobinie il reparto francese, marciarono verso Pieve,fermandosi prudentemente però a circa un mi-glio, da dove si limitarono a minacciare di at-taccare, senza però mai farlo e a sparare qual-che fucilata, immediatamente ricambiata, senzache - vista la distanza - fosse arrecato alcundanno da entrambe le parti.

Col giungere della sera gli alfieri della rivolu-zione pensarono fosse più prudente ritirarsi sulmonte Colletto, dove passarono la notte. Giàl’indomani però i Francesi vennero a trattative,chiedendo di poter transitare pacificamente ver-so Oneglia e affermando di essere stati inganna-ti (possiamo immaginarci da chi...) sulle moti-vazioni che li avevano indotti a partecipare allarivolta. La loro richiesta fu accettata, ma im-

plicò la consegna di tutte le armi ai Pievesi, chele avrebbero poi fatte recapitare il giorno se-guente ad Oneglia. Il reparto francese si videperciò costretto a sfilare disarmato in segno diresa palese, per le vie del borgo, dove senza piùalbero della libertà, garriva solitaria la bandieradella Repubblica di Genova.

A mettere definitivamente le cose a posto cipenseranno poi gli abitanti delle Castellanie diCosio e Mendatica, che entreranno in Pornassioarmati, senza peraltro incontrare alcuna resi-stenza e ristabilendo quindi lo stato legittimo.Ai rivoltosi non resterà che pagare la somma didodicimila lire, quale rimborso per le spese so-stenute dalle due Castellanie, alle quali tra l’al-tro sarà concesso un doveroso rinfresco. Questacronaca si conclude con la terza e ultima consi-derazione sui fatti della val Arroscia in parte giàanticipata: le coincidenze temporali tra la rivol-ta di Pornassio e quella di Genova, le notizie fal-se e tendenziose che da questa si diceva giun-gessero e soprattutto i collegamenti che il preteSibilla intratteneva a Milano e nella capitale li-gure, con giacobini e Francesi, non possonocertamente essere stati casuali. Anzi Genova ela Vallata ponentina, appaiono evidentementeunite dalle trame di un unico complotto, nono-stante la partecipazione diretta dei Francesi,poco frequentato dai locali, comunque sicura-mente mirante all’abbattimento della Serenissi-ma Repubblica.

La Grande Insorgenza (29 agosto-21settembre 1797)

Il nuovo governo della Repubblica Ligurecomprendeva inizialmente 22 persone (23 in se-guito), designate personalmente da Napoleone,col probabile contributo dell’immancabile Fai-poult, ed era un misto di nobili e borghesi. Nonè, in effetti, che all’epoca la differenza fosse poicosì sostanziale, in quanto a Genova ormai datempo un uomo era essenzialmente misuratoper la consistenza del suo patrimonio, più cheper le sue qualità morali. Ma il popolo, che an-cora conservava in buona parte, lo spirito incor-rotto della Tradizione, non sembrava essereconvinto del cambiamento e le voci di una nuo-va insorgenza dopo la pubblicazione della Con-venzione di Mombello, erano tornate a farsi mi-nacciose. A timore di ciò, poco prima di diveni-re presidente, il Doge Giacomo Brignole avevaemesso un proclama in cui si assicuravano gliabitanti della Repubblica, che la Religione Cat-tolica, l’indipendenza, la libertà dei commerci e

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del portofranco, la stabilità del Banco di S.Gior-gio, con ogni garanzia per i suoi depositi, sareb-bero stati preservati. Anche l’Arcivescovo Cardi-nal Lercari aveva ritenuto suo dovere interveni-re, dichiarando pubblicamente che la religionenon correva alcun pericolo. Ad avvalorare la suatesi, non pochi furono i preti e i frati che il 14giugno 1797, primo giorno della repubblica de-mocratica, si prodigarono nelle piazze e sui sa-grati delle chiese in improvvisati sermoni, fina-lizzati a esaltare i pregi della liberté e dell’ega-lité.

Il nuovo governo aveva quale compito priori-tario la formulazione di una Costituzione giaco-bina e a tal fine fu nominata il 20 giugno, unaCommissione legislativa incaricata di preparareil documento da sottoporre a plebiscito popola-re. All’interno della Commissione erano presen-ti anche due religiosi giansenisti, come il vesco-vo di Noli frà Benedetto Solari e l’abate NicolòMangini, oltre a noti giacobini come CotardoSolari (che ne era il presidente) e SebastianoBiagini. Fu proprio il connubio di queste due fi-liazioni massoniche, che impostò su rigidi sche-mi antitradizionali tutto il lavoro svolto; al pun-to tale che quando il Governo temendo che l’ac-cendersi di polemiche sulla spinosa questionedell’inquadramento istituzionale della ReligioneCattolica fosse motivo di disordini, li sollecitò aconcludere al più presto, costoro non trovaronodi meglio che scopiazzare in maniera pedisse-qua la Costituzione francese del 1795. Nellabozza così partorita, il Cattolicesimo era equi-parato a un qualsiasi altro culto, lo stato diveni-va proprietario di tutti i beni ecclesiastici, com-presi i paramenti e i calici per celebrare, si po-neva inoltre la Chiesa Ligure sotto il direttocontrollo governativo, negando al Papa, ognipossibilità di intervento su di essa: in sostanzauna chiesa scismatica ed eretica, da usarsi stru-mentalmente contro la Tradizione di Fede delpopolo ligure.

L’idea che lo stato potesse decidere della reli-gione del popolo a lui affidato, ignorando, mo-dificando o addirittura abolendo istituzioni ecomportamenti sociali ultrasecolari, con pesan-ti ripercussioni morali e non solo, era ed anco-ra dovrebbe esserlo, un atteggiamento delittuo-so inaccettabile, nei confronti dell’unicità dell’i-dentità religiosa delle nostre genti. Conscio eperciò ancor più colpevole del guaio che si ap-prestava fare, il Governo provvisorio pensò benesu proposta di Gian Carlo Serra, di indire il 4luglio le “Missioni patriottiche”, che consisteva-

no nell’inviare un certo numero di religiosiprogressisti su tutto il territorio a convincere lapopolazione ad abiurare l’antica Fede dei Padriper l’ideologia giacobina (naturalmente semprenel nome di Cristo), oltre che a pagare nuovetasse e ad accettare di porsi ai diretti servigidello stato, tramite la leva obbligatoria. Per i Li-guri, soprattutto nelle Riviere, questa non erache la tragica conferma delle cupe voci che dagiorni circolavano. Ironia della sorte tutto que-sto po’ po’ di propaganda massonica, era diret-tamente finanziato da Sua Eminenza l’Arcive-scovo Giovanni Lercari.

La Commissione Legislativa concludeva i suoi

lavori il 1° agosto e già l’indomani il progetto diCostituzione era presentato al Governo provvi-sorio. Si provvide quindi a dar corso alla stampae immediatamente 400 copie furono distribuitenei quartieri della città, mentre un numero im-precisato ma consistente, fu inviato nell’Entro-terra e sulle Riviere.

Onde accelerare ancor più i tempi fu decreta-to il 23 agosto, che giovedì 14 settembre sareb-be avvenuta la consultazione popolare, per l’ap-provazione definitiva dell’atto costituzionale.Nel documento erano inoltre stabiliti il regola-mento per la presentazione al popolo ligure del-la proposta di costituzione e le modalità per lavotazione. Testualmente vi si diceva: “Il mododi votare sarà il seguente: tutti i cittadini si riu-niranno alla dritta (destra) del Commissario;quelli che non approveranno la Costituzione

Siglillo della loggia “Real Gioseffina” di Mila-no, 1805

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passeranno tranquillamente alla parte sinistra.I segretari noveranno (conteranno) i rimasti al-la destra e i passati alla sinistra…”. La prospet-tiva certa con un tale regolamento, di un plebi-scito farsa e la diffusione tra il popolo dei conte-nuti del progetto costituzionale, contribuirononotevolmente a scaldare gli animi e a decretareil totale fallimento delle “Missioni patriottiche”.Il che indusse in alternativa il governo a inviaresul territorio dei commissari, ufficialmente in-caricati di preparare la popolazione al voto, nel-la realtà con specifici compiti di polizia politica,al pari dei loro colleghi francesi e quali antesi-gnani dei futuri “Commissari del popolo” di si-nistra e sovietica memoria. La scelta natural-mente cadde sugli elementi più ideologicamen-te fanatici, come Marco Federici, nativo di Arco-la, nello Spezzino. Per tale motivo gli verrà affi-dato il Levante, dove inizierà il 29 agosto a ope-rare, dopo essere giunto nella città di La Spezia.L’arrivo di costui, darà il via all’insorgenza deiViva Maria, tanto che il 31 dovrà intervenire aSarzana per togliere dall’assedio della popola-zione la fortezza di Sarzanello, ormai in procin-to di capitolare dopo che in precedenza la cittàil 29, era stata liberata da ogni presenza giaco-bina.

La notizia dell’Insorgenza di Sarzana stavanel frattempo percorrendo tutto il Levante,mentre l’approssimarsi della data del consultopopolare, rendeva gli spiriti sempre più eccitatie convinti della necessità di agire. Senza tenerconto di questi due fondamentali fattori, non sipuò, infatti, comprendere appieno la meccanicadella Grande Insorgenza Ligure del settembre1797, che proprio come un incendio sospintodal vento di levante, arrivò a tappe ravvicinate,ma sempre in cronologia progressiva, a interes-sare anche l’area savonese. Furono soprattuttoalcuni parroci di campagna ad alimentare que-sta sorta di tamtam che nel giro di pochi giornigiunse alle porte di Genova. Domenica 3 set-tembre con il popolo radunato alla S. Messa fe-stiva, si presentava indubbiamente come il mo-mento culminante per dar fuoco alle polveri;nonostante questa prospettiva favorevole, fu so-lo grazie all’intervento deciso di due umili sa-cerdoti, se l’insorgenza ebbe luogo.

Non furono certamente gli unici che dal pul-pito presero decisamente posizione contro ilprogetto di costituzione, furono però i più effi-caci e in ogni caso la documentazione sui pretiincriminati in seguito dai rivoluzionari, ce limostra in ridottissimo numero: un piccolissimo

manipolo di sacerdoti, assolutamente spropor-zionato rispetto alle centinaia di celebranti inquella prima domenica di settembre. È perciòassolutamente ridicolo parlare di complotto cle-ricale, secondo una terminologia tanto cara amassoni e giacobini e a tutti i loro amici e di-scendenti; al massimo si può serenamente affer-mare che i pastori spirituali delle antiche Co-munità liguri, in funzione di una simbiosi dalleradici antichissimi, restavano fedeli alla Tradi-zione dei Padri, in misura assai maggiore diquanto non avvenisse nelle alte gerarchie eccle-siastiche o tra le stesse mura cittadine. I dueumili sacerdoti di cui si è fatto cenno erano ilparroco di S. Ruffino di Leivi, G.B. Lagorio epadre Angelo Pezzolo parroco di S.Francescod’Albaro. Del primo si tratterà in seguito, sof-fermandoci ora sul secondo e sull’insorgenzache proprio dalla sua parrocchia dilagherà intutto il genovesato.

Il coraggioso francescano, in quella storicamattina, crocifisso alla mano parlò in manierachiarissima ai suoi fedeli: “La Religione dei no-stri Padri è in pericolo, il Governo provvisorioguidato in tutto dal Direttorio di Francia, del-la quale ha copiato la Costituzione, annienteràla Religione come ha già fatto nel vicino Cri-stianissimo Regno di Francia”. Non ancora pa-go, finita la funzione, si prodigò nelle parroc-chie confinanti di S.Martino, Bocadasse, S.Fruttuoso, eccetera, esortando il Popolo all’a-zione: “Meglio la morte che farsi complici dellatirannia e dell’eresia”. Nel nobilissimo e cristal-lino significato di queste frasi, i cattedratici diregime, nella loro cecità ideologica, non hannomai voluto cogliere le due uniche e sole motiva-zioni che spinsero decine di migliaia di Liguri,a combattere e a morire, nel più grande motoche la storia del mio Popolo ricordi: la difesadella Tradizione e dell’indipendenza. Intenden-do entrambe nelle loro accezione più alta, vale adire di tradizione spirituale e quindi religiosa eperciò di valori, e significando l’indipendenzacome espressione di libera gestione comunita-ria del territorio, con lo Stato rappresentato daGenova, quale immagine materiale dell’unitàdell’intero popolo ligure. Compresero invecetutto alla perfezione gli abitanti della val Bisa-gno (nell’immediato levante genovese) la seradel 4 settembre 1797 al suono delle campane amartello, a migliaia armati con fucili da caccia eforconi e roncole, si raccolsero sulla collinad’Albaro, decisi a marciare sulla città per libe-rarla. Guidati pare da qualche ex ufficiale leali-

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sta e da un giovane, Marcantonio da Sori, gli in-sorgenti hanno il primo scontro coi gendarmigovernativi, sulla creusa che da porta Pila salivaalla chiesa di S.Francesco, riuscendo in breve asgominarli e aprendosi così la strada per Geno-va. Di fronte all’incombente minaccia, i “Prov-visori”, pensarono bene di emanare un decretoin cui rinviavano il plebiscito, mettendosi poinelle mani del generale Duphot, ufficialmentepresente in città con le sue truppe per “organiz-zare le forze armate liguri”, in realtà inviato daNapoleone ad occupare militarmente la città.Costui capì che non c’era tempo da perdere epassò immediatamente al contrattacco, nellanotte tra il 4 e il 5.

I giacobini riuscirono ad avere la meglio soloquando all’alba, le grosse artiglierie delle muradi Carignano entrarono in azione, colpendo daposizione favorevolissima le postazioni dei VivaMaria. Entrati in Albaro, i Francesi si scatena-rono in terribili saccheggi e violenze, incen-diando case e palazzi, tra cui quello del nobileFornari. Nel frattempo però, all’estremo oppo-sto della città anche le popolazioni della val Pol-cevera insorgono, occupando i forti Sperone eTenaglia e le mura sino alle fortificazioni diS.Benigno, ultimo ostacolo per l’entrata in Ge-nova.

Il fatto che ci troviamo di fronte a due insor-genze temporalmente separate, è la chiara con-ferma che non vi fu alcun complotto e che tuttoavvenne in maniera spontaneamente conse-quenziale, irradiandosi come un nascente soledi libertà da Levante a Ponente .

Un’altra considerazione non certo fatta daipennivendoli nostrani, è quella che il Popolo diGenova non insorge a differenza di pochi mesiprima e questo non è logicamente frutto di ca-sualità. Neanche il più accanito progressistapuò, infatti, pensare che in città fossero diven-tati tutti giacobini o controrivoluzionari “penti-ti”. I tragici eventi della val Polcevera confer-meranno che a fermare i Genovesi non sarà so-lo la minaccia armata dei Francesi in casa, maanche e soprattutto l’azione fuorviante dellamassima autorità religiosa sul territorio, l’Arci-vescovo Lercari. Già distintosi per le menzognepubblicate in una sua precedente pastorale, co-stui accetterà senza fiatare l’invito del governoa incontrare direttamente sulle mura gli insor-genti, davanti ai quali si presenterà nel pome-riggio ricoperto dei paramenti sacri, quale ele-mento aggiunto di pressione sui devoti valligia-ni. A migliaia lo ascolteranno, non immaginan-

do nemmeno il tradimento e la vigliaccata checostui sta attuando nei loro confronti e che permolti avrà l’effetto di una condanna a morte.Alle cinque e trenta, il Cardinale rientra nellasua residenza: grazie al suo intervento il gene-rale Duphot, ha avuto tutto il tempo per sposta-re truppe e cannoni dalla val Bisagno alle forti-ficazioni di ponente. Non convinti dalle paroledell’Arcivescovo, gli insorgenti sferrano un pri-mo attacco intorno alle otto serali, probabil-mente occupando il baluardo di S.Benigno oavendolo già occupato in precedenza, cercandodi penetrare in città (le fonti in merito non so-no chiare). Resta il fatto che col tempismo giàdimostrato il giorno precedente, Duphot ordinail contrattacco e a questo punto i volenterosi ecoraggiosi Polceveraschi, mostrano tutta la loroimperizia militare, non essendo capaci di utiliz-zare contro i Francesi due grossi cannoni porta-ti da forte Tenaglia. L’episodio risulta determi-nante poiché passati in mano nemica, le duepotenti artiglierie permetteranno ai giacobini lariconquista di S.Benigno.

Alla mezzanotte, favoriti dalle tenebre, 6.000soldati perlopiù francesi, attaccano forte Tena-glia che viene anch’esso ripreso. Sono le due dimattina del 6 settembre 1797 quando Duphot ei suoi partono alla conquista dello Sperone, do-ve gli ultimi insorgenti hanno deciso di resiste-re a oltranza, rifiutando le proposte di resa fatteloro dai giacobini. Dopo averlo investito da duelati con un violentissimo fuoco d’artiglieria, irivoluzionari riescono a penetrarvi scontrando-si all’arma bianca coi Polceveraschi superstiti.Molti di costoro saranno gettati vivi dagli altibastioni del forte, trasformando lo scontro inuna strage, tanto che del migliaio di insorgentiancora presenti circa la metà perderà la vita, se-condo stime difficilmente verificabili, ma sicu-ramente attendibili.

Tra gli episodi riportati dagli stessi giacobini,merita di essere menzionato quello di un prete,un certo Frateschi, combattente allo Speronecoi Francesi, che dopo aver partecipato al mas-sacro, si premuniva di dare “Sacramental asso-luzione” alle povere vittime.

L’insorgenza però non è ancora finita e tuttol’Oltregiogo è in rivolta: dalla val d’Aveto a le-vante, sino in valle Stura a ponente, passandoattraverso i Feudi imperiali, è un continuo rie-cheggiare di campane a martello. Né diversa èla situazione sul resto dei territori in un raggiodi diverse decine di chilometri da Genova,ovunque da Sestri Levante a Varazze, il Popolo

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in armi si leva contro Francesi e giacobini,mentre l’estremo Levante da Ortonovo a Levan-to, è dalla fine di agosto in continuo sommovi-mento.

Solo negli ultimi giorni di settembre le acqueper i rivoluzionari sembreranno un po’ più cal-me, ma come vedremo non sarà che un’appa-rente pausa nella tempesta. Sono almeno50.000, calcolando per difetto, i Liguri insorti,in maggioranza contadini, comunque umili po-polani: totalmente assente la nobiltà, il clerorappresentato da pochi parroci di campagna.

Tra le numerose insorgenze dell’entroterra(di quella grandiosa e mai doma della Fontana-buona si parla più avanti) vala la pena di ricor-dare, con un resoconto scarno per la pochezzadelle fonti, quella dell’Alpicella, paesino a norddi Varazze, quale estrema fiammata dei VivaMaria a ponente, nonché ultima a spegnersi,stando almeno alle attuali conoscenze. Per laverità a questo si aggiunge un personale inte-resse di chi scrive, poiché almeno due suoi an-tenati: Ratto Pietro, nato esattamente duecentoanni prima di lui e suo figlio Giovanni, vi parte-ciparono direttamente. Varazze, Celle e le Albi-sole, facevano parte nella Serenissima Repub-blica, di un’unica podesteria, che naturalmentedecadde con l’avvento della Repubblica Ligure.Viene quindi nominata un’amministrazionecentrale, formata dalle rappresentanze dellesingole comunità, con la presenza degli imman-cabili preti giansenisti, vale a dire Andrea Picco-ne per Albisola Marina e Antonio Fazio per ilBorgo di Varazze. Li contrastava il parroco diS.Ambrogio in Varazze, don Giuseppe Toso, chea proposito dell’eretico Andrea Piccone, dellesue prediche “democratiche” e dell’accoglienzache gli tributò la popolazione, ebbe a scrivere:“Questo gran coglione frequente nella piazzasaliva in bigoncia, parlava da Bruto di dettoprogetto (la Costituzione); lo sentivano per cu-riosità, ma poi dicevano che inganna”

Quando il “missionario nazionale” così bendescritto da don Toso, giunse all’Alpicella, gliabitanti si sollevarono e alla notizia dell’insor-genza della val Polcevera il 5 settembre, mar-ciarono su Varazze e le altre frazioni, guidatidal preposto don Iacopo Damele. Inevitabile fula strage di “alberi della libertà” e la caccia algiacobino, che si risolse però solo con feriti,mentre furono invece incendiate e distrutte at-trezzature navali, cantieri e case. I giacobini ri-sposero reclutando tutte le persone possibili,giungendo a cercar rinforzi sino a Toirano, a

decine di miglia di distanza. I combattimentidurarono dal 6 al 21 settembre e cessarono soloper l’impossibilità materiale da parte degli Alpi-cellesi di continuare la lotta; mai comunque igiacobini riuscirono a mettere piede nella fra-zione varazzina, che giustamente si guadagnòl’appellativo di “piccola Vandea”.

La repressioneImmancabile, dopo che i Francesi ebbero ri-

preso almeno a Genova, il controllo della situa-zione, scattò nei confronti della popolazioneuna durissima repressione. Il 14 settembregiungeva in città il generale Lannes, il boia diArquata, con la ventesima brigata leggera e cen-to cavalleggeri. Chiarissimo era lo spirito concui si presentava, visto che in una lettera a Na-poleone, si definisce lui stesso “maître deGenês”, Già al momento del suo arrivo le pri-gioni erano colme di quattro-cinquecento in-sorgenti, a cui molti altri si aggiungeranno,grazie ai continui rastrellamenti, “giacobina-mente “ poi giudicati dai numerosi tribunalispeciali sparsi sul territorio, anch’essi invenzio-ne della Rivoluzione e antenati diretti di quellitristemente famosi del xx° secolo.

Ben prima dell’arrivo del Lannes erano inizia-te le fucilazioni: nel pomeriggio del 6 alla batte-ria della Cava, presso la foce del Bisagno, duepatrioti erano stati giustiziati solo perché porta-vano una coccarda col Grifone, simbolo genove-se e controrivoluzionario. Cinque giorni dopotoccherà a due sacerdoti e a un contadino dellaval Polcevera e il 20 ad Antonio Celle e Giusep-pe Nicora, capi dell’Insorgenza d’Albaro. Un al-tro protagonista dei moti della val Bisagno,Marcantonio da Sori, cadrà anch’egli in queigiorni sotto il piombo giacobino. In totale vi fu-rono 26 condanne a morte, 9 delle quali esegui-te. Con questi presupposti la Repubblica Ligureavrà perciò la sua Costituzione, basata però suuna nuova bozza redatta tra l’altro su indicazio-ni dello stesso Napoleone.

Il plebiscito farsa, attuato secondo le modalitàgià descritte, avverrà il 2 dicembre 1797, con lascontata benedizione dell’Arcivescovo Lercari.Su di lui e su gli altri traditori del popolo ligu-re, pesano il sangue dei Martiri e il nostroprofondissimo disprezzo.

L’insorgenza della Val FontanabuonaLa val Fontanabuona, valle parallela alla costa

ligure, posta all’incirca nell’entroterra tra Sorie Chiavari, fu da sempre terra di libertà, spesso

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conquistate con le armi in pugno. A motivo diciò, la fine della Repubblica di Genova e l’arrivoin Liguria delle truppe francesi nel 1797, nontrovò molto d’accordo i Fontanini, che vedeva-no nelle idee giacobine un nemico mortale perla loro identità e per le loro libertà.

La bozza della nuova Costituzione, che nellasostanza distruggeva di fatto tradizioni antichedi millenni, fu la scintilla che diede fuoco allepolveri. Il 3 settembre di quell’anno, in occasio-ne della festività di N.S. della Cintura a Campo-sasco, don G.B. Lagorio, parroco di S.Ruffino diLeivi, invitò al grido di Viva Maria! la popolazio-ne a difendere la S. Fede minacciata. L’indoma-ni il suono delle campane a martello chiamavaa raccolta con gli enormi crocefissi processio-nali in testa, l’intera vallata: circa 18.000 perso-ne che marciarono su Chiavari. Da qui prose-guirono in direzione di Genova, liberando insuccessione, Rapallo, Recco e Nervi, localitànella quale fecero sosta il 5, fermandosi poi aQuinto il 6 e rientrando quindi in Valle, allaprobabile notizia della dura repressione attuatadai Francesi, nei confronti degli insorgenti del-la val Bisagno.

Non fu però come si potrebbe pensare, un ge-sto generato dal timore: la realtà era che i Fon-tanini, preferivano affrontare il nemico a casaloro, là dove avrebbero potuto tentare una mi-glior difesa, pur male armati com’erano, ancheda quello che allora era il più moderno e ag-guerrito esercito del mondo. Ancor prima checiò avvenisse però, la dura repressione giacobi-na versò il sangue dei primi martiri.

Un sacerdote che, armato con un fucile dacaccia si era fatto incontro ai Francesi, fu im-mediatamente passato per le armi. Cadde fucila-to alla Cava a Genova, insieme ad altri patriotiliguri e a don Pietro Raggio parroco di Soglio,Paolo Bacigalupo il capo degli insorgenti fonta-ninini.

Agli arresti e alle fucilazioni, si accompagna-rono anche numerose violenze e saccheggi, chela soldataglia compiva senza alcuna motivazio-ne, arrivando a esplodere colpi di fucile, quasifosse attaccata, al solo fine di giustificare l’in-gresso nelle abitazioni.

Purtroppo però le disgrazie per i Fontaninierano solo agli inizi: nell’aprile del 1798, il go-verno giacobino varò la famigerata “Legge di re-quisizione”, che autorizzava l’esproprio dei pre-ziosi delle chiese, per finanziare l’esercito napo-leonico.

A Cicagna, nel centro della Valle, il Santuario

di N.S. dei Miracoli, custodiva gli ex-voto di ge-nerazioni di abitanti che, oltre al gesto di rin-graziamento, stavano a significare un pegno eun ricordo, posto insieme agli affetti più cari,sotto la protezione della Madonna. Ciò li spinseancora una volta a marciare uniti, questa voltasu Rapallo, capoluogo della giurisdizione, inuna dimostrazione dai toni tanto aspri, da spin-gere alcune famiglie filo-giacobine a lasciare lacittà. Nonostante ciò il 29 maggio, seppur conla morte nel cuore, dovettero consegnare agliincaricati governativi tutti i preziosi del San-tuario.

All’incirca un anno dopo, l’armata francese,priva di Napoleone impegnato in Egitto, subìsul fiume Trebbia, nella battaglia combattutatra il 17 e il 19 giugno 1799, una pesante scon-fitta ad opera degli Austro-Russi, che penetraro-no nell’Appennino ligure in direzione della Ri-viera di Levante, così che la Fontanabuona ven-ne praticamente a trovarsi in prima linea nellaguerra in atto. Ciò permise ai Fontanini di scac-ciare le truppe della Repubblica ligure, liberan-do quindi l’intera vallata.

Fu l’inizio di un periodo di duri combatti-menti, che ebbero il loro culmine il 25 agosto,allorquando un corpo della divisione franceseVatrin, scese dai monti del genovesato, riuscen-do a penetrare in Fontanabuona e a sorprendereun gruppo di Imperiali, che dopo un nutritoscambio di fucileria, dovettero ritirarsi. Alla vi-sta di ciò, gli abitanti di Cicagna, Certenoli eSerra, non esitarono a mobilitarsi e suonate lecampane a martello, si lanciarono nella mi-schia, venendo però sopraffatti a causa della lo-ro inferiorità numerica. Fu questo il pretestoper un terribile saccheggio, che non risparmiònulla e nessuno, in tutta la Fontanabuona. Latestimonianza, sotto forma di memorie, dell’al-lora arciprete di Cicagna, Girolamo Ferretto, cipermette di comprendere appieno la ferocia chei Francesi scatenarono su uomini e cose. Pur-troppo però, la tragedia avrebbe avuto un pro-sieguo, poiché nei mesi successivi, tutto questoscempio si ripeté più volte, come lo stesso sa-cerdote ci ricorda.

Nonostante tutto questo, i Fontanini non sidettero per vinti e intensificarono, organizzan-dola a dovere, una pungente guerriglia, che nonlasciava un attimo di respiro ai Francesi e ai lo-ro alleati giacobini. All’esplodere di cinque fuci-late, quale segnale convenuto, subito iniziavanoa suonare le campane a martello e gli insorgen-ti, in squadre di dieci o dodici, iniziavano im-

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mediatamente le ostilità, che consistevano nel-l’attaccare il nemico e subito dopo, ripiegarenella macchia, alternandosi in ciò in manierache i Francesi non potessero mai localizzare oneppure ipotizzare, la provenienza e la consi-stenza della minaccia che incombeva su di loro.

Il tentativo del 1° febbraio 1800 di penetrarenella Valle, da parte di una colonna di granatie-ri, si risolve per i Francesi in una prima bru-ciante sconfitta: al suono delle campane a mar-tello, gli abitanti di Tribogna, Serra, Cicagna,Soglio, Canevale, Dezerega, Coreglia e Pian deiPreti, insorgono con inaudita furia, annientan-do totalmente i nemici.

Capi riconosciuti degli insorgenti vincitorierano Cabano d’Albaro, per quanto concernel’alta Fontanabuona (che aveva base in Pian deiPreti e come luogotenenti Benedetto di Levà diCanepa e Giuseppe Olcese detto il Rocco) edEmanuele Leverone di Cicagna, che guidava iFontanini della Valle bassa.

Il 4 febbraio 1800, alle truppe impegnate inFontanabuona, si aggiungevano altre 400 unità,portando così il totale dei militari francesi im-pegnati nella Valle a ben 4.000. Ciò però nonserviva altro che a rinforzare lo spirito di resi-stenza e la voglia di combattere degli insorgen-ti, le cui file si andavano sempre più ingrossan-do. Dalla semplice difesa passano quindi all’at-tacco e il 12 febbraio, dopo aver sconfitto iFrancesi a Montallegro, liberano Rapallo, men-tre i giacobini devono ripiegare, costantementebraccati dalle popolazioni e accompagnati dalsuono, ormai per loro funesto delle solite cam-pane a martello.

Il generale Massena comandante in capo delletruppe francesi e in pratica dell’intera Repubbli-ca Ligure, vista la situazione e i continui attac-chi che gli insorgenti portavano in direzione diRecco e delle alture in prossimità di Genova,tentò il 5 marzo 1800 una soluzione di forza,mobilitando tutte le truppe disponibili, in unamanovra a tenaglia, che prevedeva l’avanzata,partendo a monte da Torriglia, di 2.500 soldatiche in tre colonne avrebbero dovuto entrare inValle, mentre un altro contingente, contrattac-cando da Ruta, doveva proseguire lungo il lito-rale, per congiungersi con l’altra unità a SestriLevante.

Seppur a fatica, i Francesi riuscirono a sfon-dare la linea a mare, mentre gli insorgenti pre-ferivano ritirarsi poco più a monte, impegnandoi nemici in duri combattimenti nella piana diRapallo, a Montallegro e a Leivi, così che fu

possibile per i Giacobini, secondo la GazzettaNazionale di Genova, giungere a Sestri Levante.Più probabilmente però non andarono oltreChiavari, dove son segnalati il 6 marzo e dovesperavano di riunire i due corpi di spedizione.Speranza vana però, perché in Fontanabuona iFrancesi non arrivarono che a metà Valle, re-stando costantemente sotto il fuoco dei Fonta-nini, che inflissero loro gravissime perdite. Fuquindi per loro necessario ritirarsi, quale unicasoluzione per salvare la pelle, non prima però diaver vigliaccamente incendiato l’intero abitatodi Pianezza, e tutte le abitazioni che incontra-rono durante la loro fuga, insieme alla fucila-zione di coloro che avevano la disgrazia di in-crociarli. L’altra colonna frattanto, visto il man-cato appuntamento e terrorizzata dal propagar-si tra i comuni della costa, del suono delle cam-pane a martello, pensò bene di ripiegare an-ch’essa, rientrando nelle più sicure postazionidi Ruta.

Non ci è dato di sapere esattamente il numerodei caduti francesi, è certo però che furono as-sai più numerosi di quelli già cospicui della pre-cedente spedizione; una tradizione ancora vivanella Valle, narra di innumerevoli morti da par-te dei Transalpini, che pare in quell’occasioneconiassero il motto: “ Altro che Fontanabuo-na!...Fontana del diavolo! Ogni albero fa fuo-co!...”

Non paghi della vittoria i Fontanini passaronoal contrattacco e per tutto il mese di marzo enell’aprile seguente, tentarono tenacemente disfondare le linee francesi in Ruta, a Recco e inCornia, nell’entroterra tra Recco e Genova, fin-ché il 12 aprile una colonna di oltre 6.000 Au-striaci, sconfisse i Francesi sul monte Fasce,aprendosi così la strada verso Genova.

L’assedio di Genova che dal 21 aprile si pro-trarrà sino al 4 giugno, vedrà impegnati neicombattimenti circa 20.000 insorgenti, in mag-gioranza Fontanini, il cui contributo al rag-giungimento della vittoria e alla liberazione diGenova, sarà pubblicamente riconosciuto dallostesso generale Melas, comandante in capo de-gli Imperiali, che a testimonianza di ciò conce-derà ai Cicagnini di entrare per primi da trion-fatori in città.

Questa gloriosa pagina di storia è stata volu-tamente oscurata e denigrata per quasi due se-coli. Ancora oggi c’è chi afferma strumental-mente o per semplice ignoranza, che “Italiani”e Francesi lottarono insieme contro l’austriacoinvasore.

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La liberazione del Levante LigureLa precipitosa ritirata delle truppe del genera-

le Macdonald da Napoli, nel tentativo di ricon-giungersi alle truppe del generale Moreau nellapianura padana nel 1799, poneva la Liguria dilevante in posizione assolutamente strategicaper i Francesi e gli Imperiali loro nemici. Ledifficoltà sul campo delle forze rivoluzionarie ela conseguente avanzata degli Austriaci, sino al-le porte della Liguria, avevano spinto gli insor-genti levantini in armi da quasi due anni, a farsisempre più audaci e determinati divenendo unelemento decisivo nella liberazione del territo-rio. Se ne accorse a sue spese il generale Dom-browski, allorché vide le sue truppe decimatedai valligiani della zona di Zeri, nel tentativo diraggiungere Pontremoli da Varese Ligure. Tuttala val di Vara, la val di Magra e la Lunigiana era-no comunque in armi, ovunque i rivoluzionarierano accompagnati dal suono ossessivo dellecampane a martello. E questo nonostante la fe-roce repressione dei Francesi, che non esitava-no a incendiare e saccheggiare i paesi e a fucila-re chiunque fosse stato sorpreso armato o sem-plicemente con una coccarda non giacobina in-dosso. Albiano in val di Magra, verrà messa aferro e fuoco dalle truppe del capitano Grazianycon tale ferocia, che persino il comandante de-gli avamposti austriaci si sentirà in dovere diinviargli una lettera di protesta, a cui l’ufficialefrancese risponderà in tono sprezzante.

Capo degli insorgenti locali era un certo Co-mandante Andrea Doria, più facilmente cono-sciuto come Rodomon-te; sarà lui a guidarecirca 2.000 insorgentiil primo agosto 1799alla liberazione di Sar-zana, occupando anchel’importante roccafortedi Sarzanello. Fivizza-no, Arcola, Follo, Ba-stremoli, oltre natural-mente ad Albiano, Sar-zana e La Spezia, i no-mi delle località che idocumenti dell’epoca,tralasciandone sicura-mente molte altre, ciindicano come origina-rie dei controrivoluzio-nari, le cui coraggiosegesta sono quasi certa-mente del tutto oscure

alla stragrande maggioranza dei loro attualiconterranei.

Gli insorgenti liberano OnegliaSe il Levante era letteralmente in fiamme,

non è che il Ponente dormisse: gli abitanti dellevalli intorno a Oneglia non avevano certamenteabbassato il capo dinanzi all’invasore francese.Organizzati in bande tra loro collegate, nonaspettavano che il momento propizio per calaresulla città e liberarla. Così quando nel maggiodel 1799, alcuni contadini di Maro nell’alta valledell’Impero, catturarono un pedone postale,con missive che denunciavano la precarietà del-la situazione militare francese in val Padana,non esitarono un istante a insorgere. A migliaiamarciarono su Oneglia, dove messa in fuga laguarnigione francese, fu stabilita una giuntareggente affidata al conte Giugliotti, mentre ilcomando militare fu assunto dal conte AgostinoCalsamiglia.

La reazione francese non si fece attendere eall’alba del 13 maggio il comandante Chambautattaccò gli insorgenti sul monte Bardellino, riu-scendo a conquistarlo e aprendosi così la stradaper Oneglia che fu rioccupata. Credendo di averormai la situazione in pugno, l’ufficiale francesevolle spingere la sua azione nelle valli circostan-ti, commettendo un errore gravissimo. Abba-gliato dal successo, sottovalutò, infatti, la fortereazione della popolazione, che lottando congrande accanimento lo sconfisse duramente,procurandogli pesanti perdite e ribaltando total-

La fucilazione di Andreas Hofer a Mantova. Dipinto di Leopold Puellacher

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mente la situazione, tanto che non solo Onegliafu nuovamente liberata, ma anche Porto Mauri-zio fu conquistata dagli insorgenti, dopo che iFrancesi vi si erano asserragliati braccati dal fu-rore popolare. Nonostante l’ottimo risultato ot-tenuto, gli insorgenti vollero continuare nellaloro opera liberatrice, spingendosi a levante.Taggia, Triora e Pornassio, Cosio e Mendatica invalle Arroscia, furono tolte ai giacobini, mentrePieve (oggi di Teco), fu posta sotto assedio. Fa-cendo così, gli insorgenti ripeterono però infondo, lo stesso errore del comandante Cham-baut, poiché come lui lasciarono Oneglia sguar-nita. Contro di loro era in marcia da Nizza il ge-nerale Pouget, che divise le sue truppe in duecolonne: con una puntò su Oneglia, mentre l’al-tra agli ordini del maggiore Roquet, andò direttamente in val Arroscia, sorprendendo alle spallegli assedianti. Costoro tentarono di aprirsi lastrada verso Oneglia, ma dopo uno scontro nellaconca di Borgomaro, furono costretti a disper-dersi sui monti. Gli Onegliesi, praticamente in-difesi e coi Francesi alle porte, dopo un infrut-tuoso tentativo di trattativa, preferirono abban-donare la città, che il 28 maggio vide nuova-mente l’ingresso dei rivoluzionari e fu da essisaccheggiata per tre giorni e per la terza volta.

Tutto ciò non basterà però a piegare la volontàdi lotta del Ponente ligure: ancora nell’agostodel 1804, alla vigilia dell’annessione alla Fran-cia, il Popolo tornerà a insorgere. Sarà questavolta Porto Maurizio a dare inizio ai moti, cheavranno nella continua generazione di nuovibalzelli, tipica degli stati centralisti giacobini, laloro motivazione materiale. Una nuova realtà,fatta di tasse e imposizioni burocratiche, met-terà a grave rischio l’economia locale e in gene-rale di tutta la Liguria. Anche questa volta però,lo strapotere militare dell’esercito francese,porrà fine ai sogni di libertà degli eroici insor-genti, che in cuor loro e forse anche in manieramanifesta, continueranno però ad alimentare lafiamma di una profondissima avversione alleidee rivoluzionarie e ai loro rappresentanti.

L’ultima insorgenza e la libertà traditaDopo il ritorno a Genova dei Francesi il 24

giugno 1800, venti soli giorni dopo la loro ritira-ta, rientro dovuto esclusivamente alla fortunosavittoria di Napoleone a Marengo, il popolo liguretornò nuovamente “democraticamente” schiavo.Da qui sino al 1814: abbiamo per il momento,abbiamo notizia di una sola insorgenza signifi-cativa, quella di Porto Maurizio e dell’estremo

Ponente nel 1804. Bande armate continuaronosicuramente a operare su tutto il territorio dellaRepubblica Ligure (dal 1805 parte integrantedella Francia), questo è almeno quanto trasparedal tenore di certi documenti governativi. L’im-portazione dell’uso della ghigliottina, che a par-tire dal 1806 entrerà in funzione nella zona delmolo vecchio, è significativa di una situazione diun ordine pubblico gravemente compromesso.Non a caso le teste più numerose a cadere, sa-ranno quelle di popolani, spesso contadini, ac-cusati di un brigantaggio con cui i giacobinierano soliti nascondere l’atto di insorgere, pro-venienti dalle aree calde delle passate insorgen-ze; come quel G. B. Garbarino, fontanino di Tri-bogna, che per primo salirà sul nuovo patibolo.Altro segnale di una situazione di sotterraneama costante resistenza ai princìpi rivoluzionari,fu senz’altro l’arresto alla fine del 1810 di alcuniparroci “refrattari”, che vennero rinchiusi nelcarcere di Alessandria e costantemente control-lati a vista, nel tentativo di distruggerli moral-mente e mentalmente, ancor prima che fisica-mente. Essi erano: don Ferretto di Cicagna, donMasnata di S. Siro Genova, don Coda di N. S.delle Vigne Genova, don Traverso di S. Sisto Ge-nova, don Crocco di N. S. del Rimedio Genova,don Casanova di Staglieno e don Marchese diCamogli. Ai loro colleghi “democratici” invece,il Prefetto (ma allora è una vecchia storia!...) M.A. Bourdon regalerà tutti i beni delle Casasse, lestoriche Confraternite liguri, strutturate secon-do forme di autogoverno popolare, direttamentemediate da una visione comunitaria ricollegabi-le agli antichi Liguri preromani. Questo provve-dimento emanato il 9 febbraio 1811, di fattosancirà la soppressione dell’istituzione in asso-luto più importante per il popolo ligure. A ulte-riore conferma di ciò e dell’intrinseca debolezzadella presenza francese, si aggiungeranno i di-vieti di fare assembramenti, feste da ballo pub-bliche, processioni e “Casacce”, vale a dire ap-punto, riunioni di appartenenti a Confraternite.Così, proprio mentre Napoleone e il suo imperoerano al culmine della loro potenza, in Liguriatra questi e la popolazione, il solco sin dall’inizioesistente, si approfondiva sempre più, divenendodefinitivamente incolmabile.

Di lì a tre anni la situazione si sarebbe com-pletamente ribaltata, a conferma di quanto effi-mera sia la gloria degli uomini: le truppe dellacoalizione antifrancese occupavano Parigi il 31marzo 1814 e i Francesi presenti a Genova e nel-la Riviera di levante, venivano a trovarsi nell’i-

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dentica situazione di quattordici anni prima,con gli Austriaci che avanzavano via terra e gliInglesi che incombevano dal mare. Dalla Fonta-nabuona, dalla val Graveglia, su fino ai monti diBorzonasca, il popolo insorse unendosi agli Im-periali. Questa volta però anche Genova fece lasua parte, sollevandosi tutta e chiudendo ognipossibilità alle truppe francesi di asserragliarsiin città. Quando poi gli Inglesi sbarcheranno aQuinto la situazione per loro si farà veramentedisperata; stretti tra il Bisagno e il monte Fasce,cadranno numerosi nella lunga battaglia che neseguirà, cospargendo di cadaveri quella collinad’Albaro, che diciassette anni prima era stata ba-gnata a causa loro, dal sangue di tanti martiri li-guri. Il 19 aprile le ostilità cessano e il giornodopo viene firmata la resa che pone definitiva-mente fine a ventidue anni di presenza francesein Liguria.

L’ingresso degli Alleati insieme agli insorgentiin città, fu salutato da “concerti di campane” edal tripudio dell’intera popolazione. Lord Ben-tinck proconsole inglese e capo delle forze coa-lizzate, pochi giorni dopo, il 26 aprile, procla-mava ufficialmente ristabilita la Repubblica diGenova, affidandone la guida a un Governoprovvisorio formato da dodici membri, presiedu-ti dal marchese Girolamo Serra, abile diplomati-co e uomo politico, che aveva saputo districarsicon dignità nelle torbide e tormentate vicendedell’aristocrazia genovese, durante il periodo na-poleonico. Purtroppo però non era che un illu-sione e proprio il Serra esattamente otto mesidopo il 26 dicembre 1814, sarà costretto a emet-tere l’ultimo proclama della Serenissima Repub-blica di Genova, consegnata per la debolezza el’infingardaggine di buona parte della sua aristo-crazia e per favorire gli interessi inglesi nel Me-diterraneo, ai Savoia da secoli suoi mortali ne-mici.

ConclusioniQuanto finora scritto non può che essere un

parziale riassunto, di ciò che realmente avvennein quel triste ma al contempo eroico periododella nostra storia. Resta sicuramente il granderammarico che il sacrificio dei molti sia stato inbuona parte vanificato dalla vigliaccheria, dal-l’egoismo, o peggio ancora dal palese tradimen-to dei pochi.

Una cosa appare nitida e incontestabile: lastragrande maggioranza del Popolo restò fede-le alla sua Tradizione e alle legittime istituzio-ni. Certo se Genova nel settembre del 1797 fos-

se anch’essa insorta come già aveva fatto pochimesi prima, per i Francesi non vi sarebbe statoscampo, anche se bisogna dire che la Serenissi-ma Repubblica sarebbe in quel frangente prati-camente rimasta sola a fronteggiare le armatenapoleoniche, già vittoriose sul Regno di Sarde-gna e sugli Austriaci.

La storia come sappiamo non si fa con i se e anoi non resta che chiederci come un popolocompatto e generoso come quello ligure, possamai aver avuto una nobiltà e un clero in cui erain buona parte impossibile rispecchiarsi. Indub-biamente si era venuto a creare tra i ceti diri-genti e la popolazione una qualche frattura diordine morale, che aveva nell’eresia giansenistae nel deismo le principali cause. La mancanzapoi di un qualche organismo a base popolare,anche solo consultivo ai vertici dello Stato, nonaveva fatto altro che favorire ulteriormente loscollamento in atto.

Un corpo sano con una testa malata, questaera la Repubblica di Genova alla fine del ‘700.Oggi dopo duecento anni di contaminazioneideologica, si può dire che non v’è membra so-ciale risparmiata e da essa profondamente se-gnata.

Il risorgere quasi miracoloso, delle anticheidentità prerivoluzionarie in Europa, è però unsegnale che ci fa ben sperare per il futuro. Lostesso fatto di essere qui a scrivere di cose, soloun decennio fa quasi completamente ignorate,dà un’ulteriore spinta ad approfondire questeconoscenze e a divulgarle, affinché ci si rendafinalmente conto dell’esistenza di una verità ta-ciuta e calpestata dalle innumerevoli menzo-gne, che a tutt’oggi il regime ci propina. Per luie per i suoi lacchè è iniziata irreversibile la chi-na della disfatta: a costoro non resta che l’ango-sciosa attesa della prossima fine, incessante-mente scandita del riecheggiare di un mare dicampane a martello. Viva Maria!

Bibliografia❐ Assereto Giovanni, I “Viva Maria” nella Re-pubblica ligure, Carocci: Roma 1999❐ Delfino Benedetto Tin, Quaderni di storia diVarazze, Centro studi “Jacopo da Varagine”: Va-razze, 1993❐ Lamponi Maurizio, Genova nell’Impero fran-cese, Mondani: Genova, 1986❐ Leveroni Romeo, Cicagna-Appunti di storiareligiosa e civile, Artigianelli: Chiavari, 1912❐ Ronco Antonino, Gli anni della rivoluzione,De Ferrari: Genova, 1990

Nel secolo XVII, per influsso della Riforma,molte menti avevano varcato la zona inde-cisa che separava il personale criterio in-

terpretativo dal libero pensiero: chi lancia un’i-dea non può illudersi di restarne padrone. Segli intenti di Lutero erano protesi forse a affran-care la Chiesa da secolari “sovrastrutture” cheavrebbero offuscato il primitivo elemento spiri-tuale, il “Dio che parla al cuore” spezzò l’unitàreligiosa e civile dell’Europa, causando una len-ta ma inevitabile laicizzazione della società.L’applicazione del libero esame indusse anche apensare che il Cristianesimo fosse stato un mil-lenario inganno, utilizzando allo scopo para-metri razionalisti o pseudo storici; questa ful’interpretazione che prevalse all’inizio delXVIII secolo nei circoli dei sedicenti dotti. InOlanda tali opinioni erano molto diffuse; le ti-pografie di Amsterdam stamparono miglia divolumi che invasero l’Europa spianando la viaal “secolo dei lumi”. Il passaggio dalla religioneall’ateismo fu graduale, soprattutto in Franciadove la speculazione filosofica era in auge.

Nel 1600 dopo le guerre di religione che in-fluenza aveva ancora la Fede sulla conduzionepolitica? È necessario partire dal cardinale Ri-chelieu (1), creatore del nazionalismo francese eartefice dell’ affermazione protestante in Euro-pa. Egli, in odio agli Asburgo vittoriosi allaMontagna Bianca di Praga (1620), finanziò l’in-vasione di Gustavo Adolfo di Svezia, provocandola sconfitta degli Imperiali nella battaglia diBreitenfeld (1631), prologo della pace di Vestfa-lia (1648).

Lo sfacciato macchiavellismo del Cardinale(“la Francia prima di tutto”) mirava a un nuovoimpero che soppiantasse quello asburgico, unprogetto da conseguire senza remore religiose e

morali; Richelieu, infatti, era un “tollerante” inmateria religiosa, che considerò la distruzionedella fortezza ugonotta de La Rochelle un fattopolitico senza pregiudizio alla libertà dei calvi-nisti francesi. Al nazionalismo di Richelieu, se-guì l’assolutismo monarchico di Luigi XIV, con-sacrato negli articoli gallicani, dove il poteredel Papa era drasticamente limitato (1682); laChiesa subì il gallicanesimo illudendosi che leChiese Nazionali fossero il male minore controla nascente indifferenza religiosa.

Va ricordato che il “Re Sole”, anche se osten-tava grandi devozioni, colpì alle spalle l’Impe-ro, invadendo il Lussemburgo durante l’assediodi Vienna; cercò di rifarsi una verginità cattoli-ca espellendo qualche migliaio di Ugonotti conla revoca dell’Editto di Nantes (2). Ma nelle li-bertà gallicane trovò spaziò una corrente fonda-mentale della rivoluzione; il giansenismo.

Il GiansenismoEsso nacque nei Paesi Bassi dal vescovo di

Ypres, Cornelius Jansen, che in uno studio det-to l’ Augustinus ripropose le tesi luterane sugrazia e peccato. Il giansenismo si propagò gra-zie ai discepoli di Jansen, Arnauld e Quesnel,ma sarebbe rimasto una circoscritta opinioneteologica se non fosse sceso in campo a soste-nerlo il genio di Blaise Pascal.

Nelle Provinciali, Pascal accreditava l’accusadei giansenisti ai gesuiti; quella di indurre i fe-deli al lassismo, utilizzando un sistema moraledetto probabilismo. Le critiche di Pascal, (ripre-se nel secolo XIX dal santone del risorgimento

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La crisi dirigenziale della Repubblica di Genova

alla fine del ‘700Genialisti e giansenisti contro gli Insorgenti

di Raimondo Gatto

(1) Hilaire Belloc, Richelieu, Corbaccio: Milano, 1938 (2) Elisabeth Labrousse, La révocation de l’édit de Nantes,Payot: Parigi, 1985

Gioberti) erano frutto in molti casi di arbitrarieestrapolazioni, e appagavano uno spirito pole-mico a scapito di imparziali analisi dottrinali.La corte di Francia si comportò con i gianseni-sti in modo ambiguo; Luigi XIV comprendevache i loro postulati, permeati di democratismo,erano pericolosi ma, in virtù delle prerogativegallicane, questa tendenza venne contrastata otollerata secondo le opportunità politiche; an-che i papi esitarono nel pronunciarsi per nonurtare la gelosia della Sorbona. Sul finire delsuo regno, Luigi XIV, preoccupato per le rissenel clero, consentì alla promulgazione dellabolla Unigenitus (1713) che confermava la nonortodossia di tale dottrina(3).

Nel 1732 accaderro gli episodi di isterismocollettivo in un cimitero parigino, noti come leconvulsioni di S. Medardo, ispirate dai gianse-nisti; Luigi XV intervenne con la forza ma sitrattò di un episodioisolato: i giansenistierano difesi dalle cortidi giustizia (parlamen-ti)(4). L’influenza deiparlamenti venne con-fermata dalla soppres-sione della Compagniadi Gesù in Francia(1764), e dal suo scio-glimento da parte dipapa Clemente XIV(5).I giansenisti non furo-no popolari come glieretici mediovali e co-me Lutero: essi divul-gavano una religioneelitaria, approdata inFrancia grazie a lobbieecclesiastiche che imi-tavano i salotti delle società di pensiero; si di-stinguevano per un’ostentata austerità di vita,diversamente da certo clero cortigiano e gau-dente. La vita temperata non è sempre sinoni-mo di ipocrisia; il dominio dei sensi, la mortifi-cazione, sebbene costituiscano un importantecomplemento della Fede, per sé non costitui-scono la Religione, che è altra cosa. Piegare gliistinti alla volontà è una pratica antica quantol’uomo ed è comune a molte religioni e filoso-fie; è un esercizio che favorisce l’autocontrollo,affina le facoltà intellettive ed è utile soprattut-to per chi riveste funzioni di comando. Ma l’au-sterità senza semplicità causa incovenienti diordine morale, primo fra tutti l’orgoglio, paren-

te prossimo della superbia, una sorta di “razzi-smo spirituale” che genera nel “perfetto” il di-sprezzo del peccatore e gli fa credere di aver ac-quisito autorità sugli altri.

I giansenisti predicavano contro il culto del“Sacro Cuore” (che fu il cuore della Vandea),ormai radicato nel popolo (6), e proponevano inmodo subdolo una contro-chiesa: così il loro“ascetismo” finì tra le braccia delle “virtù re-pubblicane” esaltate dai giacobini. Mentre ilgiansenismo si propogava in Francia, tra gli ec-clesiastici tedeschi del ‘700 prendeva corpo ilfebronianesimo, edizione peggiorativa del galli-canesimo. “Febronius” era lo pseudonimo di uncanonico della cattedrale di Treviri (Nicola VonHontein), che propugnava la totale emancipa-zione dei vescovi dal papa, in ciò spalleggiatodai sovrani illuminati. Il matrimonio tra gianse-nismo e rivoluzione, era nell’aria prima del

1789 essendo entrambi già uniti da una visionedistorta della natura umana. Nella penisola ita-liana esso si radicò grazie ai sovrani di Napoli, eFirenze; in misura minore si diffuse a Genova,in Piemonte e Lombardia. È fondamentale, per

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Il patriottismo in viaggio per la casa del diavolo. Incisione anonima, 1799

(3) Carlo Bentivoglio, Istoria della Costituzione Unigenitus,Editoriale Universitaria: Bari, 1968(4) Pierre Gaxotte, Le siécle de Louis XV, Fayard: Parigi, 1933(5) Ludovico barone Von Pastor, Storia dei Papi dalla finedel Medio Evo - Clemente XIV, Desclée: Roma, 1954, Vol.XVI parte II (6) Sac. Arturo Colletti, Il Giansenismo e la devozione al Sa-cro Cuore, Tip. Immac. Conc: Modena, 1938 - sullo stessoargomento: P.L. Agostini, Il Cuore di Gesù, Studentato Mis-sioni: Bologna, 1950, pagg. 50-51

comprendere il fenomeno delle Insorgenze,considerare lo stato confusionale di una partedel clero pre-rivoluzionario: tale disordine la-sciava intravedere un mutamento della religio-ne tradizionale.

L’inizio della reazione popolare alle “novità”di Francia avvenne tre anni prima della rivolu-zione, a Prato nel 1786, contro i giansenisti.L’insorgenza di Prato sarà il preludio di quelleantigiacobine degli anni successivi (7). LeopoldoI di Toscana (8), fratello dell’Imperatore Giusep-pe II, sovrano “illuminato” aveva concesso am-pia autorità agli ecclesiastici giansenisti; uno diquesti, Scipione de’ Ricci creato vescovo di Pi-stoia e Prato, convocò in Pistoia un sinodo diparroci, che si autoproclamò “concilio”. Nell’as-semblea si deliberò la soppressione del culto delSacro Cuore, la distruzione delle reliquie, lamessa in volgare, l’abrogazione della bolla Uni-genitus, la fondazione di una chiesa nazionaletoscana Il popolo storceva il naso alle novità,ma perdette la pazienza quando i giansenisticercarono di attuare i deliberati del “concialo-bolo”. Alcuni di loro, penetrati nella Cattedraledi Prato, tentarono di asportare la reliquia della“Santa Cintura”, ovvero una cintola che la tra-dizione attribuiva alla Madonna.

Sparsasi la voce della novità, popolani di Pra-to armati di randelli assalirono i nuovi icono-clasti che dovettero fuggire; il palazzo vescovilefu saccheggiato e bruciati i libri dei novatori.De’ Ricci trovò scampo a Firenze mentre la suadiocesi era in rivolta (9). Calati i francesi nellapenisola il clero giansenista sarà il tirapiedi del-la rivoluzione. Se alla fine del ’700 questa era lacondizione della Chiesa, anche peggiore si pre-sentava quella della società civile.

Libertinismo e società di pensieroLe idee illuministe si sparsero in Europa gra-

zie alle società di pensiero, meglio note come“massoneria”. La tesi di una genesi “complot-tarda” della rivoluzione è talvolta aggravata dachi vede nella massoneria un genio malefico oc-cultamente pilotato che tutto distrugge paraliz-zando ogni capacità di reazione. Questa letturadella rivoluzione appare in alcuni casi riduttiva,perché esaspera l’elemento intellettuale, quasi adelineare un determinismo diabolico che nontiene conto dell’umana volontà, e dei capriccidella politica. Ciò che si impose alla mentalitàdell’epoca fu un modo di vita che voleva banditoogni richiamo al soprannaturale; per affermaresul piano legislativo queste tendenze si utiliz-

zarono le filosofie in voga. Furono le inclinazio-ni libertine del Settecento a decretare il succes-so dei “lumi” e non viceversa. Le corti infattiche erano di esempio al popolo, subivano l’in-flusso di personaggi inquietanti come Caglio-stro e Casanova, si mitizzava la figura della pro-stituta e si tessevano le lodi dell’infedeltà. IlMarchese De Sade, benchè detenuto a Vincen-nes, trovava il modo di publicizzare la sua rino-mata “opera letteraria”. Il libertinismo designala posizione di quei liberi pensatori che profes-savano idee spregiudicate in contrasto con levarie versioni della Dottrina cristiana e condu-cevano una vita non conforme alla morale; essierano aristocratici e membri della borghesiapiù colta e più ricca. Il libertinismo non avevaun corpo dottrinale organico, ma si esprimevanei singoli con il rifiuto del Cristianesimo, dellalibertà umana, dell’immortalità dell’anima:questa corrente è il sotteraneo anello di con-giunzione tra il rinascemento e l’illuminismo.Tuttavia per quanto si voglia limitare il ruolodella massoneria, è indubbio che le classi diri-genti erano impregnate di opinioni elaboratenei salotti; che l’influenza dei circoli si fossepropagata a macchia d’olio è ammesso daglistessi rivoluzionari; rimane forse il dubbio suivari collegamenti e se ci fu una o più regìe. Aspiegare mirabilmente il meccanismo che portòi salotti a governare la Francia è Augustin Co-chin, il quale partendo da uno spaccato dellaFrancia (la Borgogna) analizzò la campagnaelettorale del Terzo Stato per gli Stati generali(10). La responsabilità di una parte rilevante del-l’aristocrazia nella vittoria rivoluzionaria è in-contenstabile; il ripudio degli ideali fu l’inizio diuna eclisse e fu essenzialmente un tradimentodegli scopi per cui la nobiltà era stata istituita,“l’eccellenza nel bene”, dovendo essere il nobilemodello di virtù per il popolo, solo titolo che gliconfermava privilegi e comando.

La Repubblica di Genova tra giansenisti,massoni e insorgenti

Le vicende che portarono alla caduta dell’an-tica Repubblica offrono una dimostrazione di

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(7) E.A. Brigidi, Il Viva Maria in Toscana, Forni Editore: Bo-logna, 1965(8) Francesco Scaduto, Stato e Chiesa sotto Leopoldo IGranduca di Toscana, Bastogi: Livorno 1885(9) Mons. Ugo Mioni, Pio VI-Il Concialobolo di Pistoia, So-cietà San Paolo: Roma,1933 Cap. V(10) Augustin Cochin, Lo spirito del giacobinismo, Bompia-ni: Milano, 1981

come le cattive idee e i costumi importati dallaFrancia abbiano influito sugli eventi; va dettoche l’imitazione della Francia nel bene e nelmale era la moda (nella lingua, nell’abbiglia-mento,nell’architettura e altro) e che tale in-flusso è perdurato fino al secondo conflittomondiale.

Al tempo, la Repubblica di Genova non sfug-giva al plagio d’oltralpe e, se è vero ciò che af-ferma il Gaxotte per la Francia: “La miseria ècausa di rivolte, non di rivoluzioni”(11), possia-mo confermare che non fu la situazione econo-mica a portarvi la rivoluzione.

I Genovesi dipinti da sempre come taccagni,con la loro generosità avevano invece creato perl’assistenza sociale un sistema di prim’ordine:come il gigantesco ospedale di Pammatone(fondato da Bartolomeo Bosco) che contava al-l’epoca oltre 1800 posti letto, e l’ospedale deicronici, e il lazzaretto della Foce creato da Etto-re Vernazza. L’ “Albergo dei poveri” (inauguratonel 1720) poteva ospitare 1000 indigenti e altredecine di istituzioni provvedevano ai bisognosi.Genova non era il paese della cuccagna ma ilpopolo viveva, se non agiatamente, in condizio-ni dignitose.

Alcuni editti sempre in vigore, proibivano gliabiti sfarzosi, sia per gli uomini che per le don-ne; l’esibizione sarebbe stata un pericoloso sti-molo all’invidia dei poveri, perciò si prescrivevaai notabili un abito nero; la sontuosità era riser-vata alle cerimonie pubbliche per testimoniarela grandezza della Rebubblica. Si accusavano igenovesi di essere gretti e spregiare la cultura,preferendo l’amore del danaro a quello delle ar-ti e delle lettere. È vero che Genova non riuscìa eguagliare nelle arti Firenze, Roma, e Parigi,come è vero che la vita gravitasse principalmen-te sugli affari, ma vanno ricordati i lunghi sog-giorni genovesi dei più rinomati pittori seicen-teschi (soprattutto Rubens e Van Dyck); essisotto la Lanterna trovarono un vasto campo diattività le cui tracce sono ben evidenti nellechiese e nei palazzi.

Esistevano in città tre grandi biblioteche pub-bliche, di cui una, la Franzoniana, aperta dal-l’alba a mezzanotte e molte scuole per appren-dere attività legate alla navigazione, al commer-cio e alla finanza. Ogni popolo nel corso dellastoria scopre caratteri e peculiarità; così fu peri genovesi che non furono mai pittori e lettera-ti, ma lasciarono diligentemente fare a ciascunoil suo; va rammentato che certi monarchi e papitroppo amanti delle arti indebitarono i loro re-

gni, consegnadosi agli ebrei o ad altri stranieri,e a Genova questo non accadde. Nei “carrugi”stretti, ma protetti dal vento in inverno e fre-schi l’estate, non regnava la chiassosa e fastidio-sa allegria di Napoli, nè l’atmosfera fredda deiporti atlantici; i vicoli ospitavano un popolo incui la giovialità era unita alla riservatezza.Un’unione che era un insieme di caratteri, tra-dizione e interessi legava il popolo all’aristocra-zia. La conferma di ciò si ebbe con l’insurrezio-ne del Balilla (1746), avvenuta in nome della li-bertà di Genova, l’esatto contrario di una mani-festazione paleorisorgimentale, come è statofatto credere; moltissimi studi convalidano que-sta solidarietà seppur aducendo altre motivazio-ni.

La Serenissima non aveva preso parte allacaccia al gesuita delle corti borboniche; allapromulgazione del breve Dominus ac Redemp-tor (1773), i padri, per disposizione del governoentrarono nel corpo docente dell’università, no-nostante l’opposizione dei giansenisti già moltoattivi. Come si propagarono a Genova i “lumi”parigini? Si racconta che i testi dei philosophes,siano occultamente sbarcati tra casse e balle dipaglia. È una ipotesi romanzesca: i libri giunge-vano liberamente, e siccome non erano censu-rati in Francia dal “Cristianissmo Re” perchèmai i “Supremi Sindicatori” di una repubbli-chetta illetterata avrebbero dovuto sequestrarli?L’inquisitore ecclesiastico ebbe qualche sospet-to, ma certamente l’inquisizione più che sospet-ti non poteva lanciare. Nel 1766 l’astronomo DeLalande, noto libertino, riferì che nella prigionedell’inquisizione (S. Domenico) era stato trova-to un solo detenuto, un frate accusato di “solle-citazione turpe”(12). L’ultimo rogo voluto dalDoge, era stato nel 1755; si era bruciato un li-bro che lo accusava di aver consegnato agli au-striaci le chiavi della città nel 1746.

Che a Genova si costituissero logge a imita-zione di quelle inglesi e francesi era cosa nota:la prima pare sia stata fondata nel 1777 da taleAndrea Repetto medico, dopo aver incontrato ilciarlatano Giuseppe Balsamo (Conte di Caglio-stro), spedito nella citta ligure per introdurvi il“rito egizio”.

L’inquisizione attiva era quella dello stato, ma- considerato che le logge erano frequentate dairampolli della nobiltà - essa chiuse un occhio se

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(11) Pierre Gaxotte, La Rivoluzione Francese, BUR, Cap. I(12) Carlo Brizzolari, L’Inquisizione a Genova, ERGA: Geno-va, 1974, pag. 43

non tutti e due. A Genova soggiornò il noto av-venturiero Giacomo Casanova, e si ha notiziadell’ospitalità concessa al marchese De Sade,che viaggiava col falso nome di Conte di Mazan;il Marchese era evaso dalla fortezza sabuda diMiolans (1773)(13) dove era detenuto per i suoi“trattenimenti amorosi” esplicitati a suon difrusta e bastone.

Frequenti erano i viaggi in Francia dei figlidell’aristocrazia; gravido di conseguenze fu ilsoggiorno parigino di Giovanni e Gian CarloSerra e Gaspare Sauli che parteciparono aglieventi del 1789. In città oltre i fratelli Serra siagitava il giovine Filippo Doria, più volte arre-stato e rilasciato perchè sorpreso a declamare inpiazza contro la Repubblica, assieme agli eredidei Sauli e dei Di Negro.

Un’altra loggia era stata fondata da elementiborghesi, farmacisti, speziali, notai e avvocati, ilcui capo riconosciuto era Felice Morando e sedela sua farmacia di via Luccoli. Altre due farmacieerano in fama di logge; la “Bardinelli” in SanLorenzo e l’“Odero” alla darsena. Più che segui-re i rituale del “Grande Cofto” Cagliostro, pareche i massoni genovesi fossero affiliati allo sot-to-setta dei genialisti. La creazione della “So-cietà di Storia patria delle arti e delle lettere”(1786) fu l’esordio ufficiale della massoneria; lapomposa accademia altro non era che una casada gioco aperta ai borghesi e alle signore, doveal riparo dai “Supremi Sindicatori”, tra una let-tura di Voltaire, un mazzo di carte e languidi so-spiri si congiurava contro la Patria (14).

A partire dal 1789 le visite degli illuminatid’oltre alpe si infittirono, come quella del citta-dino Bouillod, detenuto un mese per truffa, chedivulgò a Parigi le sue tristi vicende in un libel-lo contro “le gouvernement oligarchique de Ge-nes”(15). La Francia non godeva al tempo buonareputazione, aveva infatti costretto la Repubbli-ca a cederle la Corsica con un accordo truffaldi-no (1766), perciò l’attività dei novatori non fumai popolare tra la nobiltà, e meno che mai trail popolo.

La situazione del clero subiva l’influsso delgiansenismo toscano, e dell’attivismo di un pre-lato genovese, “mente eccelsa” del giansenismoitaliano; Eustachio Degola. Degola completatigli studi a Pistoia venne ordinato prete da Sci-pione de’ Ricci e diventò il capo riconosciutodella setta in Liguria; la sua azione fu agevolatadal bando dei gesuiti, essendo subentrati nei lo-ro istituti i Padri delle Scuole Pie (scolopi) dovea comandare era il padre Giambattista Molinel-

li, anch’egli giansenista. Molta rilevanza ebbe ilvescovo di Noli Gian Luca Solari, seguace delRicci, entrambi collegati con il Gregoire, capodella chiesa costituzionale di Francia; il Solaririfiutò di accettare la bolla Auctorem Fidei diPio VI che condannava il “sinodo” pistoiese, esolo dopo molte pressioni l’affisse in sacrestia(1794).

Alcuni parroci professavano idee gianseniste,ma uno di questi il prevosto di Torriglia, rischiòdi esser preso a fucilate dai fedeli, come il cura-to di Borzoli; il popolo “ignorante” non com-prendeva i sofismi, ma intuiva che si cercava dicambiargli religione senza interpellarlo (16). Gliamici di Degola erano pochi ma influenti e sie-devano nel Minor Consiglio (Consiglietto) mas-simo organo deliberante, tra questi Michelange-lo Cambiaso, ex doge (1791-93), noto gianseni-sta che tentò di ospitare in Genova il fuggiascoDe Ricci; il Cambiaso (uno dei tre firmatari diMonbello) fu il più spietato nel reprimere le In-sorgenze, e con lui i senatori Gerolamo Duraz-zo e Alessandro Lupi (17).

Tra il 1789 e il 1797, mentre l’Europa erasconvolta dalle guerre napoleoniche, la Repub-blica fu sottoposta a pressioni, colpi di stato, ag-gressioni militari, propaganda sovversiva, disor-dini, prepotenze e tradimenti. Furono i “pensa-tori” i e giansensisti a proporsi come sostituti alvecchio regime, quando i Francesi erano alleporte della città nel maggio del 1797. Il patri-ziato era come paralizzato dal virus libertino enon trovò energie morali per reagire; in Ligurianon ci saranno nobili alla testa degli insorgenti,(se si esclude il Marchese Spinola che combattèin Piemonte), ma semplici popolani e parroci dicampagna.

Gian Carlo Serra e Gaspare Sauli aveva tenta-to un colpo di mano nel 1794 cercando di forza-re il “Consiglietto” a cedere i poteri; avevano di-stribuito palline bianche per la votazione da ag-giungere alle altre, ma il Doge scoprì l’imbro-

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(13) Gori-Martini, La Liguria e la sua anima, Sabatelli: Ge-nova, pag.405(14) Carlo Bitossi, “La Repubblica è vecchia”- patriziato egoverno a Genova nel secondo settecento, Istituto StoricoItaliano: Roma, 1995, Cap. IV(15) Bouillod, Persecution d’un francais plaidant sous legouvernement oligarchique de Genes en 1793, ImprimerieBoullid: Nice, 1793(16) Vito Vitale, Breviario della storia di Genova, SLSP: Ge-nova, 1955, pag.446(17) Sac. Arturo Colletti, La Chiesa durante la RepubblicaLigure, AGIS: Genova, 1956, Cap. II

glio chiedendo la votazione a mano aperta. Ser-ra e compari riuscirono a fuggire ma i senatorinon ebbero il coraggio di andare fino in fondoalla congiura, così i mestatori erano di nuovo alloro posto nel 1797.

Il farmacista Morando - sempre più potente -si trasformò in agente francese, e la legazionedi Francia diventò la base di tutte le macchina-zioni. Il clero giansenista divenne più arditoperchè nessuno trovò il coraggio di fare chia-rezza creandogli il vuoto intorno: questa debo-lezza fu amaramente pagata. Genova sfuggìuna seconda volta al complotto grazie all’insor-genza popolare del maggio 1797, ma la Repub-blica venne abbattuta; da quel momento le ten-denze malamente dissimulate non ebbero piùostacoli e presero corpo nella “Repubblica De-mocratica Ligure” (14-VI-1797).

I giansenisti vi recitarono il ruolo più infamefin dall’inizio; loro era la commissione che do-veva prepare la nuova Costituzione, con i decre-ti che stabilivano la spoliazione del clero e chescatenò l’insurrezzione di settembre. Gianseni-sti erano i preti che piantarono l’albero della li-bertà nel cortile del seminario cacciando il ret-tore, così i “missionari nazionali” inviati nelleparrocchie dal nuovo governo per indurre i fe-deli ad accettare la Costituzione; alla setta ade-riva il clero che istigò i Francesi a massacrare icontadini insorti; ecco cosa scrisse lo scolopioFelice Massucco sul Giornale degli Amici delPopolo “I ribelli sono stati uccisi, dispersi, fu-gati dagli intrepidi repubblicani. I morti saran-no i più fortunati. Ai fuggitivi si darà la cacciaa guisa di fiere. Si prepara agli arrestati un de-gno castigo” (18).

Degola e compagni andarono oltre facendoprocessare sacerdoti che erano scesi in campocon gli insorti, come il canonico Felice Levreri,e riuscirono a occupare la curia genovese, fa-cendo eleggere Vicario Generale GiambattistaMoscino, devoto ai giansenisti. Molto ambiguofu il comportamento dell’Arcivescovo GiovanniLercari, che era al corrente delle manovre perdistruggere la Chiesa a Genova; le sue esitazionipermisero di credere che la Chiesa fosse al disopra delle parti, mentre veniva perseguitata;ciò causò divisioni tra i fedeli, e fu una mannaper i giacobini che trovarono buoni argomentiper accreditare la rivoluzione. Un uomo solotrovò il coraggio di opporsi, il prevosto delle Vi-gne, Giambattista Lambruschini, arrestato edesiliato. Chi non si lasciò ingannare fu il popoloe va ribadito che la stragrande maggioranza dei

Liguri era profondamente attaccata al governolegittimo e alla Fede dei padri. L’insurrezione dimaggio nella città di Genova fu fatta al grido di“Viva Maria, Viva il nostro Doge, Viva la Repub-blica”! Era un commovente atto di fedeltà neiconfronti degli immeritevoli governanti prontia cambiar casacca. Riferisce Gerolamo Serrache mentre il Doge impaurito dalla sollevazionedi Filippo Doria si era rinchiuso coi senatori inPalazzo Ducale: “Entra non chiamato un mes-so, “traglietta” noi lo chiamaimo, e dice: “Sere-nissimi Signori, il popolo vuol difendere il suoPrincipe; e proprio con questa intenzione è ve-nuto a Palazzo, e si affolla di là e si arrovellache la porta dell’armeria sia chiusa”(19). L’ar-meria fu invasa e Filippo Doria ucciso. L’insor-genza di settembre fu fatta in difesa della reli-gioni dei padri stravolta dai giansenisti: “...i Vi-va Maria difendevano il loro mondo contro co-loro che di quel mondo li volevano privare. Innome di un paradiso in terra intravisto in qual-che elucubrazione filosofica che aveva per i fi-losofi stessi che lo avevano immaginato l’unicopregio d’essere diametralmente opposto ed in-conciliabile con il mondo reale” (20).

L’ideologia rivoluzionaria e il giansenismo so-pravvisero a Napoleone e si ripresentarono conqualche ritocco di facciata qualche anno dopo. Ilcosidetto “Risorgimento” annovera tra i “padri”,Mazzini, Cavour e Manzoni e non è certo un ca-so che le loro madri siano state discepole dell’a-bate Degola, morto nel 1826 (21). Michele Nova-ro poetò sulla musica del saltarello nazionaleitaliano (l’inno di Mameli): “...dell’elmo di Sci-pio s’è cinta la testa”. Ma è davvero il guerrescocopricapo di Scipione l’Africano che ha calcatola testa dell’ Italia, o non piuttosto lo zucchettoviola del vescovo Scipione De Ricci? È davveroda riscrivere l’origine del movimento unitariogenerato dal giacobinismo e da spretati, ma nondobbiamo scoraggiarci, se la rivoluzione non èmorta con Napoleone, non è neppure morto lospirito di chi ebbe il coraggio di insorgere e mo-rire, perchè esso è inscritto nell’anima del popo-lo e presto o tardi si desterà dal torpore e faràpiazza pulita di coloro che lo hanno ingannato.

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(18) Giornale degli Amici del popolo, Genova, 6 settembre1797, pag. 178(19) Antonino Ronco, Storia della Repubblica Ligure 1797-1799, SAGEP: Genova, 1986, pag. 71(20) Alessandro Massobrio, Storia della Chiesa a Genova, DeFerrari: 1999, pag 14(21) Maria Drago-Mazzini, Adele de Sellon-Cavour, Enrichet-ta Luigia Blondel seconda moglie di Pietro Manzoni.

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“Ai valorosi popoli della Provincia di Mon-dovì: le vostre ardite imprese, la barba-rie, le sevizie de’ vostri nemici sono

giunte sino a Noi: Noi ammiriamo l’intrepidavostra condotta, e detestiamo le crudeltà de’vantati difensori dell’umanità. Ecco qual realtàavevano le magnifiche promesse de’ vostri pre-tesi liberatori. Rapine, oppressioni, saccheggi,devastazioni, crudeltà furono i primi atti, daiquali si fecero conoscere a voi. Essi, che metto-no la volontà del Popolo al di sopra di tutto: es-si, che facevano l’insurrezione il primo dei do-veri, alla volontà vostra si manifesta, alla vo-stra insurrezione hanno opposto l’inganno ed isaccheggi. Troppo ci affligge la vostra sorte; mapiù ci preme di sollevarla. A tal effetto, o fedeliSudditi del migliore de’ Re, mandiamo alla vo-stra volta, numerose schiere, di quell’armatavittoriosa, che con sì rapido volo ha sconfitte,e scacciate quelle armate dette invincibili. Uni-tevi ad esse per terminare la loro distruzione, esiate pur certi, che lungi dall’abbandonarvi,sarà lo cura di procurarvi a spese de’ Comuninemici la più ampia indennizzazione de’ soffer-ti danni: e ricordatevi finalmente, che li brigan-ti della Francia hanno combattuto per distrug-gere la vostra santa Religione, e per assassinar-vi, e voi con Noi combattete per ristabilirla, eper salvare con la vita le vostre proprietà. DalQuartiere Generale di Torino il primo giugno1799.” Queste sono le parole dell’Editto con ilquale il Barone De Melas - Commendatore del-l’Ordine di Maria Teresa, Generale di Cavalleria,Proprietario di un Reggimento di Corazzieri,Comandante Generale dell’Armata ImperialeRegia-Apostolica in Italia, incita i contadinimonregalesi perché insorgano contro i France-si. Prima di commentare questo proclama, è op-portuno ricordare quali fossero le condizioni divita delle classi contadine, a partire dagli anni

che vanno dal 1750 ai primi anni del 1800. Mol-ti territori, in Piemonte, sono in preda a unapovertà totale: il cibo è scarso e di nessun ap-porto energetico; ci si nutre per lo più di fagiolie di ceci e nelle zone più povere dell’Astigianosi giunge persino a mangiare una sorta di pa-nettone, confezionato con le ghiande. Importa-to dai Sardi, esso è utile per attutire almeno imorsi della fame; le poverissime abitazioni, inparticolare quelle langarole e monferrine, han-no muri spessi ma finestre piccolissime dallequali penetra pochissima luce; l’umidità è fortee l’aria malsana. I paesi di montagna, sepoltidalla neve e isolati per molti mesi all’anno,stanno ancora peggio: i campi da coltivare ven-gono strappati con fatica, ai fianchi della mon-tagna; la loro vita è poverissima e ancora versola fine del secolo, in Val Pellice, nelle Valli delCuneese e del Biellese, il pane fatto con il granoè totalmente sconosciuto, così come l’uso dellapatata. La gente della montagna si accontentadelle fave, di orzo e segale e soprattutto dellecastagne considerate il pane dei poveri. Le con-dizioni di vita di contadini e valligiani subiscesorti alterne, alternando qualche progresso ainumerosi regressi, sino a giungere agli annidell’occupazione francese.

Nel corso del secolo avviene anche una im-portante trasformazione nei rapporti tra la ple-be e la nobiltà feudale che abbandona la campa-gna per inurbarsi col consenso della monarchiache in questo modo può controllarla meglio;scompare in questo modo la figura del nobilecampagnolo legato alla terra e che condivide inqualche misura la sorte dei suoi contadini; su-bentrano a detta figura, fittavoli e imprenditoridella borghesia cittadina che speculano e sfrut-tano i lavoratori della terra, facendo rimpiange-re sovente gli antichi proprietari. Lo Stato purrendendosi conto tramite i suoi funzionari, del-

Insorgenze piemontesi e partigiani “barbetti”dell’epoca napoleonica

di Mariella Pintus

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le condizioni delle campagne, interviene soltan-to nel 1797, durante i moti contadini provocatidalla miseria e dalla fame mentre i Francesi re-pubblicani erano ormai alle porte. Malgradotutto, braccianti e giornalieri mantengono sen-timenti conservatori: sono ligi alla monarchia ealla religione, diffidano di qualunque nuovaidea specie se proveniente d’Oltralpe; i loro in-teressi sono limitati alla sopravvivenza messa ingioco dagli umori del tempo, del mercato e deipadroni; la propaganda giacobina ha un effettolimitato su di loro, anzi la profonda diffidenza sitrasforma in odio verso le armate repubblicaneche invadono il Piemonte nel 1796. Rabbia e di-sperazione danno origine a tumulti improvvisie violenti subito stroncati perché non sono sup-portati da una intesa comune e da capi in gradodi organizzare una vera e propria ribellione.

Nonostante tutto, nessuna colpa viene impu-tata al Re perché nella campagne si crede cheegli sia all’oscuro delle reali condizioni di vitadei miseri: contadini o montanari che fossero;purtroppo la situazione si aggrava con le spesedi guerra, la sconfitta militare e infine l’occupa-zione straniera; appena caduta Mondovì, la sol-dataglia francese mette a ferro e fuoco tutto ilMonregalese, rubando di tutto: denari, vestiti ebiancheria, viveri e bestiame; sono saccheggiateanche le chiese, le donne violentate e molticontadini uccisi; per l’esercito francese, il sac-cheggio è una pratica normale: la comunità diBosco Marengo invia questa relazione al gover-

no di Torino: “I prati furono tutti calpestati,sfracellate e atterrate le piante e le viti, sac-cheggiati indistintamente tutti i cascinali, i fie-nili sforacchiati, i pollai vuotati, i vitelli rubati,le biancherie e gli abiti rubati, i poveri abitantiinsultati e maltrattati: Alcune donne e figlioleviolentate, la maggior parte a fuggire per sot-trarsi alle violenze”. Le stesse cose accadano inmolti altri luoghi: Bra, Cherasco, Narzole, Astie nella Valle Belbo; i Francesi si comportano dapadroni, ovunque giungano svuotano le cassepubbliche rubando non solo per se stessi maanche per gli amici e la situazione per lo Statopeggiora ulteriormente: il raccolto di frumentoè pessimo e i prezzi delle merci aumentano digiorno in giorno.

Nel luglio del 1976 i contadini insorgono echiedono provvedimenti per la loro difficilecondizione, ma raramente mettono in discus-sione l’autorità del Re, anche se in qualche casoesigono l’abbattimento degli ultimi privilegifeudali. Il tentativo di indirizzare il malconten-to in senso repubblicano fallisce poiché quandoqualche giacobino tenta di convincere i rivolto-si, viene immediatamente abbandonato.

A Fossano dove si è ottenuto il ribasso deiprezzi, il moto insurrezionale degenera in anar-chia, favorendo la reazione dei moderati; quat-tro cittadini ricevono l’ordine di arrestare gia-cobini e filofrancesi e dopo essersi impadronitidei cannoni di Porta Romanisio, caduti in manoagli insorti, raggiungono “ L’Osteria della Trut-

Abbattimento dell’albero della libertà in piazza Castello a Torino, nel pomeriggio del 26 maggio1799. Incisione di Giuseppe Verani

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ta” dove si sono radunati i giacobini; essi sonosorpresi mentre insultano i sovrani; minacciatidi morte, abbandonano la città ma vengono in-seguiti e arrestati; tradotti alle carceri vengonoliberati , in seguito per intervento del Vescovo.In tutto il Piemonte si suonano le campane amartello ma fondamentalmente le persone ri-mangono realiste come nel caso della città diAsti, il più clamoroso fallimento giacobino; tut-tavia nella Valle Po e nella stessa Saluzzo sonoevidenti i segni di una possibile e seria solleva-zione: infierisce la carestia e di conseguenza i

prezzi sono altissi-mi; giunge notiziadella presenza dimolti militari e diarruolamenti a Pae-sana, Sanfront enella stessa Revello;i ribelli sono chia-mati “vittoni”: ter-mine che ancora og-gi ritroviamo nei co-gnomi biellesi e ca-navesani, “vittone”significa montanaroe deriva da vitton oviton. Il 27 luglio scoppiala ribellione di Re-vello e dei paesi vici-ni, guidata dal Ge-nerale Gallo chepresenta un memo-riale con le richiestedegli insorti. Insie-me agli attestati difedeltà al Re, si chie-de l’abolizione degliultimi diritti feudalisui forni, sui mulini,sulla caccia e sullapesca e soprattuttosi invocano provve-dimenti immediatiper dare sollievo alleristrettezze che at-tanagliano la popo-lazione. Il 29 lugliocominciano a giun-gere le prime con-cessioni ma anche leminacce di graviprovvedimenti per

coloro che non rientrino immediatamente nellaregolarità. Il conte Papa e il parroco di Revellosi recano a Torino per ottenere la promessa diusare clemenza nei confronti dei “vittoni”; lebande depongono le armi e si sciolgono; nelfrattempo le sollevazioni raggiungono i dintor-ni di Torino: “Una squadra di malandrini, scesaieri sera alle cinque dalla montagna tentò dimettere a soqquadro tutto questo borgo. Dessigià avevano atterrato le porte di varie e dato ilsacco a qualche casa, ma corsi i giavenesi allearmi, in un momento sbaragliarono e ricon-

L’esercito francese passa il Gran San Bernardo il 20 maggio 1800. Dipin-to francese

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dussero la tranquillità”. Cosìmercoledì 9 agosto 1797, unasettimana dopo questi avveni-menti, la Gazzetta Piemontesedà notizia della breve sollevazio-ne. Notizie di sollevazioni giun-gono però da tutto il Piemontema non si parla né di repubblicané di sovvertimento del potere,infatti i giacobini vengono isola-ti dalla popolazione e frustratinei loro tentativi politici ancheperché molti rivoltosi sono inbuona fede e sono soltanto di-sperati per la carestia alla qualenon sono in grado di far fronte;non trovano altro modo per far-si sentire che sollevarsi controle amministrazioni locali, aglisfruttatori, ai nobili e all’altoclero che speculano crudelmen-te sui disagi della popolazione.In questo contesto si inserisco-no figure particolari come bri-gands e barbetti; per quanto ri-guarda gli ultimi, essi sono unvero e grave problema per iFrancesi, poiché col loro corag-gio riescono spesso a interrom-pere i contatti tra le montagne ela pianura…dice la lettera di unsoldato: “(…) barbetti ci aspet-tano dietro una rupe o un ce-spuglio e ci mandano fucilateche noi non sappiamo da dovevengano. Codesti maledettimontanari fanno più danno dei soldati di linea:conoscendo il paese, fuggono da un dirupo al-l’altro, facendo continuamente fuoco e non la-sciandosi mai avvicinare”. Una reazione duraalle offese che i repubblicani portano, con le lo-ro leggi giacobine, alla religione e ai beni e allastessa vita degli abitanti della montagna chegiurano di sterminare tutti gli invasori; le ban-de sono guidate da capi che diventano ben pre-sto famosi ma che sono uniti da una fine imma-tura e sempre violenta: Contin che agisce sulcolle di Tenda e nella valle del Roja, Comtès chealla Posta Vecchia di Rivoli, in aperta campagnama oggi in città, assalta un convoglio giacobi-no…il governo del re viene accusato dalla Fran-cia di reclutare brigands mentre soldati regivanno ad appoggiare i rivoltosi; è pur vero cheViolino, uno degli ultimi capi barbetti, è anche

ufficiale dei Cacciatori Buoni Cacciatori, uncorpo composto da militari delle terre invase;numerosi incidenti rispondono a un piano bendeterminato per rendere più debole il Piemonteche nei disegni di Napoleone deve diventare re-pubblicano; i transalpini che occupano la citta-della di Torino, si fanno immediatamente odiareper il loro comportamento violento e oltraggio-so specialmente nei confronti delle donne.

Piccoli disordini e risse vere e proprie sonosegnalate all’osteria dei Tre Canarini, a quelladella Luna d’Argento, al Leon d’Oro e al castellodi Rivoli. Nel frattempo, sulle montagne conti-nua la guerriglia: il 21 aprile 1800, un paese apoca distanza da Drap, viene occupato dai bar-betti che uccidono tre soldati; a giugno altribarbetti sorprendono un distaccamento che sisposta da Tenda a Sospel e ne uccidono tutti i

Un frate e un Brigante. Incisione ottocentesca

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componenti. Sul versante piemontese ritrovia-mo Violino, di Fontanelle di Boves che agiscenella stessa Cuneo, nelle Langhe e nel Monre-galese, perfettamente in linea con l’appello delbarone De Melas, di cui si era detto all’inizio.Violino conduce una guerra che ritiene regola-re, infatti non ruba anzi, spesso risarcisce i con-tadini ai quali i soldati bruciano i fienili, svuo-tano le case e le cantine con la scusa di snidarei partigiani barbetti; egli invece non ruba mapaga coloro che lo riforniscono di armi e viveri.Suscita simpatia questa persona che combatteper un Re che ha scelto l’esilio: per i contadinidel Cuneese da sempre oppressi da una vitastentata e da quella guerra non voluta, Violinoimpersona la figura del brigante sociale cosic-chè è difficile distinguere tra leggenda e realtà;finirà ucciso come tutti gli altri briganti più omeno buoni: da Mayno della Spinetta, a Cadre-ghino, ai fratelli di Narzole, tutti armati di“spaciafoss”.

Giovanni Scarsello è il capo riconosciuto del-la banda e, come Mayno, è una persona simpati-ca di buone maniere; egli rispetta i suoi com-paesani e gli abitanti dei paesi vicini, in questomodo i contadini lo proteggono e anche le au-torità del luogo lo lasciano in pace. I Narzolesisi spingono per le loro incursioni nei dintornidi Cuneo, Mondovì, Saluzzo, Racconigi; verso il1803, entrano in contatto con gli Inglesi cheavevano promesso una ingente somma di dena-ro per sollevare la popolazione nei dipartimentisubalpini.. Purtroppo con l’andare del tempovengono meno la protezione e l’omertà che licoprivano: gli Scarsello, i Vivalda, i Perno e ilGancia vengono catturati da più di seicento ar-mati e avviati al processo; il 2 novembre com-paiono al banco degli imputati 73 persone, di-ciotto sono briganti confessi; i capi d’accusa so-no ventisette e vanno dal furto alla resistenzaarmata, all’omicidio.

Il processo-farsa avviene il 4 novembre e ilgiorno dopo vengono eseguite le sentenze dimorte per i capi della banda, disperati e idealistiallo stesso tempo. Più fortunato è il maggioreViora Branda de Lucioni, uno strano personag-gio, partigiano della causa monarchica; compa-re nel Novarese e nel Vercellese intorno al 1799,quando risulta essere un ufficiale a riposo del-l’armata austriaca. Attorno a Branda si raccol-gono immediatamente le prime bande di conta-dini, fanatici e avventurieri. Indirizzato dal cle-ro, il maggiore guida i paesani a cui ha dato ilnome di Massa Cristiana, alla liberazione del

Canavese; afferma di avere delle visioni misti-che durante le quali lo stesso Gesù Cristo gliordina di liberare anche la Francia dal tiranno egli ingenui contadini gli credono. Molti si ar-ruolano tra i Branda: briganti comuni, alcunipreti e i soliti balordi che si aggirano nelle cam-pagne; aiutato dai Russi, Branda entra in Ivrea,accolto dal vescovo Pochettini mentre Ciriè,San Maurizio, Caselle e Leinì non ne riconosco-no l’autorità; a quel punto il maggiore minacciadi bruciare i paesi che non si arrendono subito.È la volta di Torino che viene bloccata per duesettimane, con scorrerie fin sotto le mura citta-dine e a Borgo Dora mentre viene interrotta lanavigazione sul Po. In quei giorni giungono incittà notizie allarmanti: Ceva e Mondovì sono inpiena rivolta, Narzole e Cherasco sono in manoagli insorti realisti, Alba e circondario in manoai contadini, bande di paesani percorrono e sac-cheggiano il Monferrato.

A Torino si vive nella paura, il 25 maggio gliAustro-russi entrano in città e nella mattinatadello stesso giorno, i Branda si scontrano conuna pattuglia di Francesi al Regio Parco; le bot-teghe chiudono immediatamente i battenti, sot-to il fuoco dei cannoneggiamenti. Caduta portaPo, bande di armati si aggirano per le vie, assa-lendo e minacciando…la capitale cade, la citta-della in mano ai Francesi si arrende il 22 giu-gno e nello stesso giorno viene officiato un “TeDeum” di ringraziamento; i Branda, diventatiscomodi, sono allontanati da Torino e si sposta-no nelle Langhe, continuando la loro lotta con-tro i giacobini ma sono le ultime imprese: labanda viene sciolta poco dopo e il maggiore sirifugia in Appennino dopo essere stato respintoanche da chi si era servito di lui per rientrare inpossesso di un regno dai piedi di argilla, in ma-no a sovrani non sempre all’altezza del lorocompito.

A Torino i rivoluzionari hanno distrutto tutto:richieste continue di denaro, spoliazione delleopere d’arte e delle biblioteche, vandalismi nel-le chiese hanno ridotto in ginocchio la città,non solo, i Torinesi vedono in azione anche laghigliottina che opera 423 sentenze sui 54.000abitanti dell’epoca. In buona sostanza, l’opera disnaturamento e smembramento del Piemonte èla molla che fa reagire le popolazioni e nono-stante le condizioni di vita più o meno dure chefossero, l’animo conservatore della maggiorparte degli abitanti rifiuta la propaganda giaco-bina, come abbiamo visto, rimanendo fedele aipropri ideali di libertà.

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La storia ci ha tramandato le vicende incredi-bili di alcuni eroici cavalieri confederati chesi erano spinti all’interno delle linee unioni-

ste. Qualcuno di loro è ancora oggi ricordatocon entusiasmo: uomini come John Mosby,Harry Gilmor, John D. Imboden, John Morgan,sono diventati eroi popolari celebrati da fumet-ti, libri e da pellicole cinematografiche.

C’è una storia simile, anche più grandiosa,perché non costituita da rapide puntate in terri-torio nemico ma da una guerra di liberazioneportata da un personaggio coraggioso e un po’guascone, il maggiore Branda de’ Lucioni, cuinessuno ha mai dedi-cato descrizioni av-venturose perché sta-va dalla parte sbaglia-ta rispetto al political-ly correct (si fa per di-re) della retorica tri-colore.

Eppure la vicenda èparticolarmente si-gnificativa perché èuna sorta di paradig-ma delle aspirazionialle libertà delle co-munità che compon-gono la Padania. Il ri-ferimento è innanzi-tutto geografico: l’av-ventura militare delLucioni tocca tutta laPadania, dal Venetoalla Liguria. C’è an-che un risvolto geo-politico: si è trattatodi un eroe che si èmosso in un contestoculturale e militaremolto decisamentemitteleuropeo. Digrande significanza èanche il riferimentoideologico: combatte-va contro i Giacobini

e a capo di contadini-soldati che difendevano ipropri paesi, le proprie terre e le loro antiche li-bertà. Infine perché si trattava di un eroe pada-namente spaccone, spavaldo e rissoso che facevadi testa sua, al di fuori degli schemi più stantii,spinto dalla voglia di liberare la sua terra.

Oggi quasi nessuno ricorda Branda, non c’èuna via dedicata a lui, non se ne ricordanoneanche i suoi concittadini, il suo nome è notosolo agli studiosi più attenti di quel periodo sto-rico. Come tanti altri eroi padani, anche lui èrimasto vittima di una ben orchestrata congiu-ra del silenzio, di una “damnatio memoriae”

ordita dalla peggioreretorica patriottardaitaliona.Come nome di batte-simo aveva uno stra-no Branda, di cogno-me faceva Lucioni edera nato nel 1740 aVimperk nella Boemiameridionale, dove ilpadre Giuseppe (ori-ginario di AbbiateGuazzone, una frazio-ne di Tradate) era te-nente nella localeguarnigione. Militareimperiale come il pa-dre, Branda sposa aGallarate una MariaTeresa di Trezzo d’Ad-da, si sposta in varieguarnigioni col reggi-mento Wurmster,sempre distinguendo-si per il suo carattererissoso e spavaldo.Nel 1799 la Padania èoccupata dai Francesima l’annuncio dellaripresa delle ostilitàda parte degli Impe-riali scatena ovunquel’insorgenza popolare.

Branda Lucioni, un eroe padanodi Ottone Gerboli

Proclama della Municipalità di Torino contro la“malizia del sedicente Comandante la MassaCristiana Branda de’ Lucioni”. 16 maggio 1799

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Il reggimento Wurmstercombatte a Legnago e aMagnano (il 5 aprile),partecipa alla liberazionedi Mantova e poi, quandoil grosso dell’Armata au-stro-russa si avvia versoMilano, viene spedito aModena, poi verso la Li-guria, dove assedia Ge-nova; in seguito pren-derà parte alla sfortunatabattaglia di Marengo.

Il cinquantanovenneMaggiore Lucioni si stac-ca a metà aprile dal suoreparto, passando da Par-ma e da Cremona si pre-senta al comando alleatoattestato sull’Adda: gli èstato affidato un drappel-lo di cavalieri col compi-to di precedere l’esercito,incalzare i Francesi e organizzare i rivoltosi. Lasua avventura vera inizia con un raid la mattinadel 28 aprile 1799. Parte da Novegro e con unpaio di drappelli si spinge in Milano, ancora fran-cese, si fa vedere spavaldo al caffè “detto del Maz-za” in Piazza Duomo, si fa ricevere dall’arcive-scovo, si autoinvita a pranzo dalla Municipalità,abbatte l’albero della libertà e l’immancabile sta-tua di Bruto eretta in Piazza Mercanti. La suaspavalderia disorienta i Francesi e rianima i Mi-lanesi che insorgono e accolgono il giorno dopogli austro-russi che entrano nella città liberata. Ilgrosso dell’armata, composto dalle divisioni Otte Vukassovich era partito da Verona la fine dimarzo e aveva sconfitto gli invasori sull’Oglio (il24 aprile) e a Cassano il 28 aprile.

È solo l’inizio di una incredibile avventura.Branda raccoglie i suoi cavalieri e, assieme a unnumero crescente di volontari padani (che as-sumeranno il nome di Massa Cristiana), si diri-ge su Cuggiono e Boffalora. Il 29 aprile passa ilTicino e solleva i contadini. In pochi giorni libe-ra Novara, Vercelli e Santhia. Qui la massa si di-vide in più colonne. Una si dirige su Biella e poisu Ivrea e Aosta, che viene liberata nella nottefra il 6 e 7 maggio 1799 dall’assalto congiuntodella Massa e del locale “Regiment des soques”,formatosi a Champorcher. Un’altra va verso Tri-no e Chivasso e punta su Torino. Un’altra anco-ra prende Cigliano-Sciàn, Settimo-Sétu, Rivoli,Pianezza e Grugliasco-Gruyàsk. Il 5 maggio

Branda installa il suo quartiere generale a Chi-vasso-Civàs. Il 14 occupa tutte le località attor-no a Torino che di fatto assedia bloccandovi glioccupanti e preparando la loro sconfitta. Gli al-leati arrivano in città il 24 e vi entrano il 25. LaMassa procede allora verso sud e la Liguria. Li-bera numerose città (Carmagnola, Alba, Carrù,Magliano-Mayàn, Murazzano, Dogliani-Duyàn,Ceva-Sèva, Murazzano, Roccavignale, Roccaci-glié, Murialdo in Liguria) e apre la strada all’e-sercito regolare. Si scioglie ufficialmente il 5giugno a Pecetto Torinese-Apsè. La guerra sem-bra vinta e tutti, tranne qualche gruppo checontinua a operare autonomamente sull’Appen-nino ligure, rientrano alle loro case. AncheBranda se ne torna - non senza qualche ama-rezza - nell’ombra, si pensiona a Vicenza dovemorirà il 22 agosto del 1803.

L’epopea segnerà i suoi nemici che erano ter-rorizzati al punto da trasformare il nome pro-prio di Branda in una denominazione di generecon cui indicare tutti gli insorgenti. “Brandeg-giare” diventa addirittura sinonimo di compieregesti spavaldi, di “guasconare”. Nel dizionariopubblicato nel 1830 da Casimiro Zalli si trovascritto: “Branda, o Brandalucion, ovvero Bran-dalucionista, nome originato dal Maggior giu-bilato Branda de’ Lucioni, il quale l’anno 1799fece il precursore delle Armate Austro-Russe,quando s’avanzavano verso il Piemonte. Questi,avendo fatto masse di villani, ed altri realisti o

La guardia nazionale di Torino apre la Porta di Po e assale le truppefrancesi. Acquerello di Giuseppe Verani

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nemici dei Francesi, furono quindi dall’anno1800 per disprezzo chiamati Branda, brandoni,brandalucionisti, tutti li amici della Casa di Sa-voja, e tutti quelli, che volevansi calunniar orender sospetti” e più avanti “Brandé, verbogiusta il predetto significato, contare, o spargernovelle, o far progetti sfavorevoli al governofrancese, “faire le royaliste””.

Al di là della vicenda delle Insorgenze, dellaloro importanza e delle azioni militari, e dellastravagante e forte personalità dell’autore, l’av-ventura del Branda è per noi importante ancheper i suoi risvolti simbolici. Era un lombardofedele servitore dell’Impero; nato in Boemia evissuto sempre fra Padania e Austria, un perfet-to prodotto della cultura della Mitteleuropa;con le sue gesta aveva dimostrato un grande at-taccamento alla Lombardia, intesa nel significa-to antico di Padania. La sua guerra aveva tocca-to l’intera grande Heimat: partito dal Veneto,aveva percorso i Ducati emiliani e poi la Lom-

bardia interna, il Piemonte, la Valle d’Aosta e laLiguria. Il percorso della sua avventura è unasorta di filo che lega, anche attraverso la gloriadelle Insorgenze, le varie parti del solido pat-chwork padano.

La rapida e splendida cavalcata di Branda de’Lucioni è stata sottratta al criminale silenziodella storiografia tricolore e di tutti i suoi stori-ci faziosi da una serie di annotazioni apparse direcente su alcune opere dedicate alle insorgen-ze antifrancesi. Ma è soprattutto un documen-tatissimo libro di Marco Albera e di Oscar San-guinetti che oggi ce la descrive in dettaglio. Illibro (Il maggiore Branda de’ Lucioni e la Mas-sa cristiana, Libreria Piemontese Editrice,1999, 143 pagine) è bello, ben costruito e docu-mentato. Il solo neo è costituito da un accennodel tutto fuori luogo a una inesistente identitàitaliana, a un sentimento che non esiste, chenon ci tocca e che era sicuramente sconosciutoal Branda, lombardo, mitteleuropeo e padano.

Carta degli spostamenti di Branda de’ Lucioni e della sua Massa CristianaIn nero sono indicati i movimenti della Massa Cristiana, a tratteggio quelli del Regiment des Soques, in bian-co quelli delle armate austro-russe (con l’indicazione delle Divisioni impiegate).

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L’esistenza stessa di una resistenza popolarecontro la rivoluzione, introdotta in terra diLombardia dalla dominazione francese re-

pubblicana nel 1796, è ben lungi dall’essere undato acquisito. Di norma i libri di storia dipin-gono o lasciano intravedere un quadro, in cui,al sopraggiungere, lungamente e impaziente-mente atteso, delle armate repubblicane guida-te da Napoleone Bonaparte (1769-1821), la no-stra regione (allora divisa fra ex Ducato di Mila-no, acquisito alla corona imperiale asburgica,Repubblica di Venezia e, per quanto riguarda laValtellina, Leghe Grigie elvetiche), come l’inte-ra Italia, s’infiamma delle idee dell’Ottantanovee il popolo (in coerenza con la sua proverbialelaboriosità) apre immediatamente ed entusiasti-camente una sorta di enorme cantiere dove tro-vano corpo le più diverse e più “moderne” espe-rienze politiche e sociali innovatrici e liberato-rie. Cantiere che conosce una breve sospensio-ne dei lavori con la malaugurata reazione «deitredici mesi» del 1799-1800, ma che riprendecon rinnovato fervore le sue attività, in vista dinuove e più alte mete, dopo la battaglia di Ma-rengo del giugno 1800, per culminare in ulte-riori e definitive conquiste nei lunghi anni del-l’Impero. Solo la sconfitta militare del despotailluminato a Waterloo fa sì che l’erezione delnuovo edificio sociale venga interrotta, ma, no-nostante la reazione del 1815, esso non verràabbattuto del tutto e su di esso verrà ad appog-giarsi la ricostruzione, ripresa nel 1848 e final-mente ultimata, dopo qualche ulteriore interru-zione, nel 1859.

La realtà è però ben diversa e il processo checondusse alla formazione di una “Lombardiademocratica nel seno di uno stato italiano uni-tario” non è stato né lineare né coralmente en-tusiastico, ma ha conosciuto rapide avanzatecome pure dense vischiosità, ha avuto i suoi

momenti di consenso popolare e i suoi momen-ti — che sembrano più duraturi e profondi —di rigetto; se ha preso un’allure trionfale fra leclassi dirigenti, ha avuto invece una ben diversaaccoglienza nei ceti popolari. Quello che è certoè che al momento del primo confronto deiLombardi con le idee e con i modelli politicidella rivoluzione proveniente da Oltralpe — ov-vero nei circa venti anni della dominazione “na-poleonica” (1) — questa opposizione si manife-sta particolarmente intensa e generalizzata, eassume non sporadicamente connotati di resi-stenza armata e di guerriglia.

1. PremessePrima di tentare di tracciarne un quadro, è

necessario fare alcune premesse. La prima è chel’Insorgenza va vista come il classico iceberg,nel senso che della sua storia — a essere ottimi-sti e con situazioni disomogenee a seconda deiluoghi —, non è finora emerso più di un quin-to. La ricerca sulla resistenza contro-rivoluzio-naria si muove ancora in un ambito, in cui i da-ti di partenza sono esigui e le elaborazioni dicui avvalersi scarse, sì che le conclusioni si ri-velano più facili sotto il profilo ideologico e ri-vendicativo, ma assai meno agevoli sotto quelloscientifico. In particolare per quanto concernela Lombardia, non mi sembra eccessivo affer-mare che la ricerca muove oggi i primi passi,

Le insorgenze popolari contro-rivoluzionarie in Lombardia

nel periodo napoleonicodi Oscar Sanguinetti

(1) Gli anni dal 1796 al 1814 costituiscono per la Lombardiaun periodo di incessanti cambiamenti politici e di regime,espressione della politica dello Stato francese nei confrontidi questa parte della Penisola: la scena, a parte il 1799 quan-do si trova in Egitto, è comunque di fatto costantemente do-minata dalla figura di Napoleone Bonaparte, sia che costui sipresenti come semplice generale, come Primo Console, co-me presidente della Repubblica Italiana, come Imperatore.Non sembra quindi improprio parlare di anni o di ventennio“napoleonici’.

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mentre assai tenui ri-sultano i segnali d’in-teresse da parte degli«addetti ai lavori»,ovvero delle istituzio-ni (2), degli ambientiaccademici, delle so-cietà di storia patria elocale, delle riviste edelle altre sedi di ela-borazione e di divul-gazione storiografica(3). Comunque, il se-condo centenario del-l’Insorgenza del1796-1799 e la relati-va fioritura di inizia-tive — di maggiore ominore levatura —che vi è stata è servi-to, se non per ricon-durlo al centro del-l’attenzione, quanto-meno per propiziarequalche riflessione —più o meno disinte-ressata — sul tema.Questo genere di stu-di incontra comun-que diffidenze e resi-stenze soprattuttoperché tocca un pun-to nevralgico dellastoria italiana, quello della edificazione delloStato unitario, e su questo punto non sono an-cora sopite le passioni ideologiche, mentre esi-ste il timore che venga messo in discussionequello che può essere definito il «mito fondati-vo» dello Stato italiano, tanto della monarchiaunitaria, quanto — con l’aggiunta del «secondoRisorgimento», ovvero di una Resistenza popo-lare contro lo straniero invasore, totalitario edevastatore — della Repubblica del secondo do-poguerra. Il ruolo della storiografia che intenderivedere le interpretazioni più convenzionali elogore su questa materia è pertanto difficile, inquanto la cultura egemone può, quando è a cor-

to di argomenti, sem-pre avvalersi dell’ar-gumentum auctori-tatis politico e agitarenei confronti di essaminacce di «attenta-to» ai princìpi fonda-mentali della convi-venza civile e accuse,tanto potentementeevocative quantoideologicamente fal-se, di «revisionismo».Queste pregiudizialicontrarie della cultu-ra dominante hannocreato un ritardo nel-la ricerca, che dipen-de però anche — purse in misura minore— dal fatto che l’In-sorgenza è un feno-meno che rispecchiafedelmente la fram-mentazione e il parti-colarismo della so-cietà della fine delSettecento, ed è quin-di fatto di decine, senon di centinaia, diepisodi e di figuremaggiori e minori,che toccano tanto la

grande città quanto il villaggio di poche decinedi anime. Di essi è rimasta una memoria — pe-raltro sempre più tenue — per lo più solo a li-vello locale, sì che ricostruirne la mappa com-pleta, anche solo in una regione, è un lavoroestremamente oneroso.

2. I fattiLa resistenza popolare contro la Rivoluzione

dell’Ottantanove sul suolo lombardo si può divi-dere in quattro periodi, in ciascuno dei quali levarie rivolte presentano tratti morfologici simi-li, ma anche differenze, sia sotto il profilo ezio-logico (che indaga le cause della malattia. ndr),

L’insorgenza pavese del 1796. Incisione di C. Vernet

(2) Mi sono note le lodevoli e autorevoli eccezioni dell’Asses-sore alla Trasparenza e Cultura della Regione Lombardia,avv. Marzio Tremaglia, da sempre fattivamente interessatoalle attività in questo settore storiografico, e dell’Assessoreall’Istruzione della Provincia di Milano, prof. Angelo Ruggie-ro, grande appassionato di questo periodo storico, del tema

dell’Insorgenza in particolare ed egli stesso storico. (3) Spicca per renitenza a esprimere il minimo cenno d’inte-resse alle nuove acquisizioni storiografiche in tema d’Insor-genza, nonostante la reiterata opera d’informazione operatanei suoi confronti, la dirigenza delle Raccolte Storiche delComune e del Museo del Risorgimento di Milano.

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sia per quantoconcerne le moda-lità operative.

Dopo una lungaguerra — che èstata chiamata laGuerra delle Alpi(4) —, la resisten-za del Piemontesabaudo, che avevasbarrato per cin-que anni la portadella Padania allaFrancia repubbli-cana, viene piega-ta. Il regno subal-pino è costretto al-la umiliante pacedi Parigi — che faseguito al più cele-bre armistizio diCherasco (Cuneo)dell’aprile 1796 —, con cui perdevatutti i suoi territo-ri transalpini, laSavoia, la Moriana, la Tarantasia, il Vaudese,che avevano costituito la culla della dinastia,nonché la contea di Nizza, e doveva accettarefortissime contribuzioni e riparazioni di guerra.

La vittoriosa battaglia «del Ponte di Lodi»sull’Adda del 10 maggio 1796 mette non solo laLombardia asburgica, ma tutta la pianura delPo alla mercé delle armate francesi. Davanti allatravolgente avanzata di Bonaparte — che espu-gna la roccaforte asburgica di Mantova in pochimesi —, le armate imperiali devono retrocede-re, subendo sempre nuove sconfitte, fino a po-che decine di chilometri da Vienna. La primacampagna d’Italia di Bonaparte si conclude nel-l’autunno del 1797 con il Trattato di Campofor-mio, che inizia a mutare una geografia della pe-nisola immobile da non pochi decenni. Ma l’in-vasione della Francia repubblicana non rappre-senta solo un cambiamento di sovrano — cui iPadani e i Lombardi in particolare, da sempre alcentro delle linee su cui si sviluppavano le ope-razioni bellico-politiche francesi e imperiali —erano avvezzi da tempo immemorabile, macomporta uno sconvolgimento, una “rivoluzio-ne”, radicale del regime politico della regione.Le innovazioni introdotte manu militari daiFrancesi, nel loro duplice aspetto di smantella-mento della struttura per ceti e privilegi del-

l’antico regime e di proclamazione di nuove di-chiarazioni di principio, di elaborazione di unnuovo diritto pubblico e di creazione di nuoveforme politiche, non solo generano apprensionee sconcerto nei più, ma riattivano anche, fun-gendo da catalizzatore, conflitti politici, sociali,territoriali, che caratterizzavano tradizional-mente la società civile lombarda (5).

a) Il primo impatto del 1796: l’area della “bas-sa” padana (Pavia e Casalmaggiore)

Una prima, forse emotiva, risposta dei ceti po-polari allo stato di grave disagio economico chesi viene a creare fin da subito, al timore diffusodi una spoliazione e alla «psicosi» di una scri-stianizzazione di massa — che, almeno nei pri-mi due elementi, ha avuto un precedente in

(4) Su questa importante pagina della storia sabauda e italia-na, soprattutto sui suoi aspetti militari, cfr. il dettagliatissi-mo studio di Virgilio Ilàri, Piero Crociani e Ciro Paoletti, Laguerra delle Alpi (1792-96), dattiloscritto inedito presso gliAutori.(5) Sul tema, relativamente a Bergamo e a Brescia, ma convalore generale, cfr. Paolo Martinucci, Premesse storiche eculturali dell’Insorgenza nel Bergamasco e nel Bresciano, inIstituto per la Storia delle Insorgenze, Nota Informativa, an-no II, n. 6, maggio-agosto 1997, pagg. 5 ÷ 12; e anno II, n. 7,settembre-dicembre 1997, pagg. 7 ÷ 18.

Ingresso a Milano del generale Pino. Disegno di J.B. Bosio

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quanto accaduto allo sventurato Regno sabaudo— è costituita dal moto che esplode, breve mafuribonda, a Milano, a Pavia, a Como, a Varese, aLodi (6) a una sola settimana dall’entrata di Bo-naparte in Milano. L’epicentro sono le campagnepavesi, dove si sollevano i contadini delle grandiproprietà della pianura irrigua, che assalgonoPavia e Lodi, riuscendo a occupare la prima e atenerla per tre giorni, dopo avere catturato laguarnigione francese di circa 400 uomini. Aigiacobini locali, nonostante il profondo odio chesi erano attirati, non viene torto neppure un ca-pello. Tornato sui suoi passi — era già nei pressidi Mantova, di cui iniziava l’assedio — Bonapar-te manda prima l’arcivescovo di Milano, monsi-gnor Filippo Visconti (1721-1801), a tentare dipacificare gl’insorgenti; poi, fallito il tentativo,

invia il colonnello JeanLannes (1769-1809) asottomettere Pavia. Que-sti, a Binasco, sulla viache da Milano conduce aPavia, incontra un velodi resistenza degl’insor-ti, che stronca con la ca-valleria, cui fa seguirecome monito l’incendiodel piccolo borgo, cau-sando circa cento vitti-me. L’immagine dell’in-cendio di Binasco farà ilgiro d’Europa e saràusata più volte da Bona-parte come deterrentenei confronti delle cittàribelli: se ne ricorderàancora a Sant’Elena, co-me riferiscono le suememorie. L’assalto allemura di Pavia è per i

soldati repubblicani cosa facile: alle prime can-nonate i circa cinquemila contadini in armi sisbandano e cercano la fuga. I granatieri e i ca-valleggeri francesi attaccano e, abbattute le por-te, irrompono in città facendo strage e liberandoi commilitoni e i giacobini. Napoleone concedealle truppe un diritto di saccheggio di ventiquat-tr’ore, che poi abbrevia alquanto su pressanteistanza dei municipalisti pavesi, i quali riescono— altro che complotto nobiliare! — a dimostra-re la non responsabilità dei cittadini nell’acca-duto. Nel saccheggio trovano la morte, fra gli al-tri, il grande erudito pavese fra Siro SeverinoCapsoni (1735-1796) e l’arciprete del Duomo diMilano, monsignor Giuseppe Ordogno de Rosa-les (1744-1796), che aveva accompagnato a Pa-via monsignor Visconti. Bilancio degli scontri e

Il corteo funebre della Repubblica Cisalpina. Incisione anonima

(6) Su questa fase dell’Insorgenza lombarda, cfr., fra l’altro,Gianfranco Emilio De Paoli, Pavia cisalpina e napoleonica.1796-1814, 2 voll., Viscontea: Pavia 1974, vol. II, pp. 23-31;Félix Bouvier, La révolte de Pavie (23-26 mai 1796), in Re-vue Historique de la Révolution Française et de l’Empire,anno II, tomo XII, 1911, n. 4-8, pagg. 519 ÷ 539; anno III,tomo XIII, 1912, n. 9, pagg. 72 ÷ 89, 257 ÷ 275 e 424 ÷ 446;Gianfranco Emilio De Paoli, Pavia tra Rivoluzione e Contro-rivoluzione nel maggio 1796, in Annali di Storia Pavese, n.21, 1992, pp. 89-95; Gianfranco Emilio De Paoli, Una nuovaanalisi della rivolta contadina a Pavia in Il Triennio cisalpinoa Pavia e i fermenti risorgimentali dell’età napoleonica(Aspetti inediti). Atti del Convegno Regionale del 15 giugnoe 14 settembre 1996, Cardano: Pavia 1996, pagg. 19 ÷ 41; Si-lio Manfredi, L’insurrezione e il sacco di Pavia nel maggio

1796, rist. anast. con una introduzione storico-critica,un’appendice di diari coevi, una cronologia e un aggiorna-mento bibliografico, a cura di Gianfranco Emilio De Paoli,EMI, Pavia 1989; Oscar Sanguinetti, Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della domina-zione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tan-gheroni, Cristianità, Piacenza 1996; Sergio Stocchi, Binascoin fiamme, in Etnìe. Scienza politica e cultura dei popoliminoritari, anno IX, n. 14, 1988, pagg. 54 ÷ 55; e Xenio To-scani, Tra antico e moderno: la rivolta di Pavia del maggio1796, in Ca’ de Sass, n. 103, settembre 1988, pagg. 2 ÷ 9. In generale, sulla resistenza popolare contro la Rivoluzionein Lombardia, cfr. la Guida bibliografica dell’Insorgenza inLombardia (1796-1814), Istituto per la Storia delle Insor-genze: Milano, 1999.

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del saccheggio: circa 73 morti. Seguiranno cin-que fucilazioni e la deportazione in Francia peralcuni mesi di una rappresentanza dei decurionimilanesi e pavesi. Un breve moto si sviluppa an-che a Milano, ma i popolani vengono dispersisenza troppi problemi. Risultato, comunque,due fucilazioni.

Una rivolta non trascurabile scoppia alla finedi luglio nell’estremo lembo lombardo dellaBassa. A Casalmaggiore (7), nel Cremonese, la“gente del fiume” — così efficacemente descrit-ta da Riccardo Bacchelli (1891-1985) ne Il muli-no del Po — approfitta di una temporanea scon-fitta e ritirata dei Francesi per attaccarli al mo-mento del transito del Po e ucciderne alcuni. Larepressione francese si abbatte violenta sul bor-go e sulle località vicine, che vengono canno-neggiate. La rappresaglia francese si limita peròa poche condanne.

Dopo queste reazioni della primavera-estate1796 — che amo paragonare a reazioni “anafi-lattiche” — la Lombardia si acquieta.

b) Il 1797-1798: la collina e la montagna (Ber-gamo, Brescia, il lago di Garda, la Valtellina)

Ma la rivolta riesplode nella primavera succes-siva nelle terre ancora venete, in un ciclo di mo-ti che inizia nelle valli di Bergamo e di Brescia eculmina nella grande insurrezione delle PasqueVeronesi (8). In conseguenza dell’occupazione di

parte del territorio occidentale della Repubblicaveneta da parte dei Francesi in guerra con l’Im-pero, i nuclei rivoluzionari di Bergamo e, pocodopo, quelli di Brescia si sollevano contro il do-minio veneto e proclamano due repubbliche di-stinte, che assoggettano completamente il terri-torio, ovvero le “terre” autonome delle valli edella riviera gardesana, che da secoli facevanocapo direttamente alla Dominante.

Le leggi repubblicane, civili e religiose, impo-ste dopo simulacri di plebisciti nelle città, crea-no già i primi strappi nel tessuto della società diantico regime delle valli e delle campagne. Il du-ro regime militare francese contribuisce adacuire le tensioni. In breve, montanari e conta-dini decidono, nelle loro assemblee di comunità,di opporre resistenza e nella primavera si solle-vano in armi le valli bergamasche Seriana,Brembana e Cavallina, e le tre valli brescianeCamonica, Trompia e Sabbia, liberando il terri-torio e marciando sui capoluoghi per abbattere iregimi giacobini. La repressione delle truppefrancesi è dura: le colonne di soldati, rafforzateda nuclei di giacobini provenienti da altre cittàlombarde “democratizzate”, come Pavia, risalgo-no le valli ed effettuano sanguinose rappresagliesui poveri villaggi insorti, saccheggiando e in-cendiando. Poco dopo cade definitivamente ilpotere della Dominante, sia sulla terraferma cheoltremare. Propaggini del moto del 1797 nelle

(7) Su Casalmaggiore, cfr. Félix Bouvier, La révolte de Casal-maggiore. Août 1796, Protat Frères: Macon (Francia) 1906;Silvio Pellini La sommossa di Casalmaggiore nel 1796, inStudi Storici, vol. XVII, fasc. I, 1908, pagg. 3 ÷ 33; e donGiovanni Romani, Cronaca dei tumulti popolari che fune-starono Casalmaggiore all’epoca dell’assedio di Mantovanell’anno 1796, a cura di Giovanni RomaniRomani, Giovan-ni (pronipote omonimo) e Silvio Pellini, Bertoni: Casalmag-giore (Cremona) 1899.(8) Per la zona di Bergamo e di Brescia in generale, cfr. LucaDe Pero Bergamo, Brescia e le valli della Lombardia veneta,in Le insorgenze antifrancesi in Italia nel triennio giacobino(1796-1799), APES: Roma 1992, pagg. 69 ÷ 79; Luciano Fa-verzani, Le “insorgenze” controrivoluzionarie, in NapoleoneBonaparte. Brescia e la Repubblica Cisalpina. 1797-1799, acura di Ida Gianfranceschi (2° vol.), Elena Lucchesi Ragni eCarlo Zani (2° vol.), 2 voll., Skira: Ginevra-Milano 1997-1998,pagg. 47 ÷ 52; Paolo Martinucci, op. cit.; e Paolo Preto, Levalli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivoltaantigiacobina, in Folle controrivoluzionarie. Le insorgenzepopolari nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di AnnaMaria Rao, Carocci: Roma 1999, pagg. 71 ÷ 88. Per Bergamoin particolare, cfr. Carlo De Martino, La calata dei valligianibergamaschi sulla città nella contro-rivoluzione del 1797, inAtti del secondo Congresso Storico Lombardo (Bergamo, 18,19 e 20-5-1937), Tipografia Cordani: Milano, 1938. Per le val-li bresciane e la zona gardesana, invece, cfr. Al tocco di cam-

pana generale. 1797-1997 Bicentenario della caduta del Go-verno Veneto e insorgenze nelle valli Sabbia e Trompia. Attidel convegno. Nozza di Vestone [Brescia], 10 maggio 1997, acura di Alberto Rizzi, Annali della Fondazione Civiltà Bre-sciana, n. 11, 1997; Fabrizio Galvagni, Col fuoco e col sac-cheggio sottomessa. 1797: fatti e testimonianze dell’insor-genza della Vallesabbia e della riviera del Garda, I quadernidella Compagnia delle Pive, n. 3, 1997; Luciano Faverzani,Le Controrivoluzioni delle Valli Sabbia e Trompia e della Ri-viera di Salò, in Al tocco di campana generale […], op cit.,pagg. 169 ÷ 199; Franco Nardini, 1797: la Valsabbia insorgecontro i giacobini bresciani e francesi, in Atlante Valsabbino.Uomini, vicende e paesi, a cura di Giuseppe Biati, Grafo edi-zioni: Brescia 1980, pagg. 80 ÷ 89; e Paolo Preto, L’insorgen-za delle Valli Sabbia e Trompia ed il “giacobino” GiuseppeFantuzzi, in Al tocco di campana generale […], op. cit.,pagg. 153 ÷ 155. Per Lonato cfr. Luciano Faverzani, La Rivo-luzione e la Controrivoluzione di Lonato, in 1796-1815. Con-tributi della Fondazione Ugo da Como alla conoscenza di unperiodo storico, a cura di Luciano Faverzani, Tipografia Fran-ceschini: Lonato (Brescia) 1997, pagg. 143 ÷ 149; e Lino Luc-chini e Giuliano Robazzi, Rivoluzione e Controrivoluzionedel 1797 a Lonato, La Rosa: Brescia 1997. Sulle Pasque Vero-nesi, cfr. Enrico Bevilacqua, Le pasque veronesi, Cabianca:Verona 1897, e Francesco Mario Àgnoli, Le Pasque veronesi.Quando Verona insorse contro Napoleone, il Cerchio Inizia-tive editoriali: Rimini 1998.

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valli ex venete, attraverso l’area camuna, arriva-no fino alla Valtellina (9) — acquisita alla Cisalpi-na a danno del Cantone elvetico dei Grigioni —dove scoppiano tumulti e disordini a Teglio e aGrosio. A Cepina i valligiani insorti arrestano efucilano Galeano Lechi (1739-1797), nobile bre-sciano di sentimenti giacobini e signorotto loca-le, padre fra l’altro di tre futuri generali della Ci-salpina e dell’Impero, da tempo particolarmenteinviso alla popolazione. L’anno seguente si solle-va la bassa Valle e ancora Teglio; a Delebio vienefucilato dagl’insorti l’arciprete filo-giacobino diBerbenno don Andrea Parravicini. L’autunno del1797 segna, almeno per la pianura, l’inizio diuna tregua del conflitto. Mentre si afferma e siconsolida la prima Repubblica Cisalpina, l’Impe-ro assorbe il Veneto, fra il sollievo delle popola-zioni che, pur demoralizzate per la fine della

propria secolare libertà, si vedono sottratte al ri-gido laicismo e al duro regime fiscale dell’areafranco-cisalpina. La temporanea liberazione dellaLombardia dai Francesi nella primavera-estatedel 1799 è preceduta — soprattutto sul confineveneto —, accompagnata e seguita da numerosimoti popolari. È noto il caso dei montanari dellevalli bresciane che si mobilitano e guidati da unloro leader del 1797, don Andrea Filippi, scendo-no in campo a fianco delle truppe del generaleconte Paul Kray von KrayowKray von Krayow(1735-1804) e marciano con loro sul capoluogo.Una estesa insorgenza scoppia nel Canton Ticino,proprio nei giorni della battaglia di Lecco (10).Un lombardo, il varesino maggiore Branda de’Lucioni (1740-1803), ufficiale di carriera negliussari imperiali, precederà le truppe del generaleconte Alexandr Vasil’eviè SuvorovSuvorov di

La fanteria del Regno italico. Incisione di Adam

(9) Sulle insorgenze in Valtellina, cfr., fra l’altro, BeatriceBesta, Le vicende bormiesi del conte Galliano Lechi nellememorie di un contemporaneo: dalla farsa alla tragedia, inAddua. Studi in onore di Renzo Sertoli Salis, Società Stori-ca Valtellinese, Mitta: Sondrio 1981, pagg. 41 ÷ 64; Gugliel-mo Felice Damiani, Un episodio della Rivoluzione Francesein Valtellina, in Periodico della Società Storica Comense,vol. X, anno 1895, pagg. 293 ÷ 298; L’eccidio di Cepina del23 luglio 1797 nelle memorie dei registri parrocchiali diCepina e di Bormio, in Bollettino della Società Storica Val-tellinese, vol. 16, 1962; Sandro Massera e p. Ireneo Simo-netti, Beth., La fine del dominio grigione a Bormio e l’ecci-

dio di Cepina del 23 luglio 1797, Bettini: Sondrio 1974;Giulio Spini, La rivolta contadina nel Distretto di Morbegnodel luglio 1798 in alcune lettere d’archivio, in Bollettinodella Società Storica Valtellinese, n. 24, anno 1971, pagg.70 ÷ 81; e Tullio Urangia Tazzoli, I primi moti rivoluzionariin Valtellina e il conte Galeano Lechi nel Bormiese (1797),in La Contea di Bormio, Bolis: Bergamo 1934, pagg. 185 ÷213.(10) Sul tema, cfr., in particolare, il bel lavoro di Sandro Guz-zi, Logiche della rivolta rurale. Insurrezioni contro la Re-pubblica Elvetica nel Ticino Meridionale (1798-1803), Cisal-pino: Bologna 1994.

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Rimninsky (1729-1800) e, dopo un’ardita incur-sione nella Milano ancora pullulante di francesiin ritirata, passerà il Ticino e prenderà la guidadelle masse contadine piemontesi, organizzando-le in un esercito semi-regolare, la Massa Cristia-na, insegnando loro la guerriglia e conducendolealla sollevazione generale e all’assedio di Torino(11). Nonostante la relativa durezza del nuovo re-gime di occupazione militare, il popolo lombar-do non reagirà — il che prova che in ultima ana-lisi la reazione contro i Francesi non può esserespiegata solo con cause materiali —, ma, anzi,almeno per alcuni mesi, sembrerà respirare. Aldi là dei Te Deum e delle altre cerimonie di rin-graziamento, si tratterà comunque di una re-staurazione parziale: per esempio, i beni eccle-siastici espropriati dai cisalpini non tornerannonelle mani dei loro legittimi proprietari.

c) 1803-1814: il terzo ciclo (Valtellina e Bassapadana)

Ma il Triennio Giacobino non esaurisce l’Insor-genza. Il vento della rivolta torna a soffiare impe-tuoso negli anni del Regno Italico, quando il“nuovo” regime si consolida e accentua il suo pe-so sulla vita delle masse. Moti sporadici contro la

coscrizione obbligatoria — che avranno invecegrande vigore nelle valli dell’Appennino piacenti-no, parmense e reggiano nel 1805 (12) — e som-mosse contro il peso fiscale si verificano in diver-se località lombarde negli anni che vanno dal1803 al 1809. Nel 1809 la Lombardia viene sololambita dalla grande ondata di moti (13) che ha ilsuo epicentro in Tirolo — dove giganteggia perdoti morali e abilità tattica la figura dell’oste diSan Leonardo in Val Passiria (Bolzano) AndreasHofer (1767-1810) (14) — e che si estende a tuttoil Veneto e alla Bassa padana. In quest’occasionetornano a insorgere le zone più immediatamentea ridosso delle terre imperiali, come la Valtellina— dove opera l’agente e ufficiale imperiale, ilvaltellinese di Teglio Corrado Juvalta — e la Val-camonica.

La Bassa padana lombarda risente anch’essadelle rivolte che imperversano nel Veneto e nellavalle del Po, particolarmente verso il Delta, aFerrara e a Rovigo. In questo frangente, quasiovunque i contadini per protesta contro il regi-me fiscale e agrario attaccano i municipi e incen-diano gli archivi di stato civile e i catasti. I tribu-nali speciali napoleonici emetteranno centinaiadi sentenze contro gl’insorgenti italiani (15).

(11) Sul maggiore Lucioni, cfr. Marco Albera e O. Sanguinet-ti, Il maggiore Branda de’ Lucioni e la Massa Cristiana.Aspetti e figure dell’insorgenza anti-giacobina e della libe-razione del Piemonte nel 1799, con una prefazione di MauroRonco, Libreria Torinese Editrice: Torino 1999.(12) Su questo argomento, cfr., fra l’altro, Vincenzo Paltrinieri,I moti contro Napoleone negli Stati di Parma e Piacenza(1805-1806) con altri studi storici, Nicola Zanichelli,: Bologna1927; Carlo Emanuele Manfredi, Un episodio di contro-rivolu-zione nel ducato di Piacenza (1805-1806), in Cristianità, annoII, n. 7, settembre-ottobre 1974, pagg. 5-6, e n. 8, novembre-dicembre 1974, pagg. 7 ÷ 9; e, con estensione fino al 1809,anche Gustavo Buratti, Una Resistenza da rivendicare: i mon-tanari emiliani contro Napoleone, in Etnìe. Scienza politica ecultura dei popoli minoritari, anno X, n. 15, 1989, pagg. 16 ÷20; e n. speciale, anno X, n. 16, 1989, pagg. 56 ÷ 60. (13) Sul coinvolgimento di terre lombarde in questa fase del-l’Insorgenza, cfr. Gellio Cassi, L’Alta Lombardia durante l’in-surrezione tirolese del 1809, in Rassegna Storica del Risor-gimento, anno XVIII, fasc. II-III, aprile-settembre 1931,pagg. 289 ÷ 328; Leopoldo Mazzoldi, Un rapporto inedito suifatti di Valcamonica del 1809, in Commentari dell’Ateneo diBrescia vol. CLXXVI, 1977, pagg. 123 ÷ 155; e Rinaldo Ra-pella, La piccola controrivoluzione valtellinese del 1809, inLe vie del Bene, anno XXXII, n. 10, ottobre 1968, pagg. 2 ÷6. Cfr. anche Gustavo Buratti Zanchi, I Camuni con AndreasHofer (1809), in Quaderni Camuni, n. 36, dicembre 1986.Sull’insorgenza del 1809 in Veneto, cfr. Cesare Bullo, Deimovimenti insurrezionali del Veneto sotto il dominio napo-leonico e specialmente del brigantaggio politico del 1809, inNuovo Archivio Veneto, anno VIII, vol. XV, n. 30, parte II,

1898, pagg. 353 ÷ 369; anno VIII, vol. XVI, n. 31, parte I,1898, pagg. 81 ÷ 88; anno IX, vol. XVII, n. 33, parte I, 1899,pagg. 66 ÷ 101 e 283 ÷ 347. (14) Sulla figura e sull’epopea di Andreas Hofer la bibliografia,soprattutto in lingua tedesca, è sterminata. Fra gli altri, cfr.F. M. Àgnoli, Andreas Hofer eroe cristiano, con una prefazio-ne di M. Tangheroni, RES editrice: Milano 1979; Andreas Ho-fer eroe della fede, Atti del convegno «Andreas Hofer eroedella fede. Un popolo in movimento» (Castel Mareccio, Bol-zano, 8-3-1997), con una prefazione di Franco Cardini, ilCerchio Iniziative editoriali, Rimini 1998; e Roberto Sarzi,Andreas Hofer a Mantova in catene…. La simpatia popolareper la vittima del dispotismo napoleonico. Il processo e lacondanna dell’eroe del Tirolo, Sometti, Mantova 1999.(15) Cfr. Alexander Grab, State Power, Brigandage and RuralResistance in Napoleonic Italy (1802-1814), in European Hi-story Quarterly, anno XXV, gennaio 1995, n. 1 (Londra),pagg. 39 ÷ 70. Alexander Grab, Associated Professor of Hi-story all’Università del Maine di Augusta (Stati Uniti d’Ame-rica) ha studiato gli atti del tribunale speciale — la CorteSpeciale pei delitti dello stato — di Bologna e ne ha trattouna rappresentazione e un’analisi tutt’altro che banali delfenomeno del brigantaggio e dell’insorgenza del 1809 in Ita-lia settentrionale. Il saggio contiene pure elementi narrativinon secondari e menziona pure alcuni episodi — sempretratti dagli atti dei processi — relativi a paesi dei diparti-menti lombardi del Serio — Valcamonica, Val Calepio e Val-seriana — e dell’Adda — Valtellina —, nominando anche al-cuni briganti lombardi, fra i quali Vincenzo Pacchiana, detto“Pacì Paciana”, Fabiano Calvinelli, Bonomo Felappi e Bona-ventura Zanardini (cfr. ibidem

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PremessaI fermenti definiti “controrivoluzionari”, a ca-

rattere popolare e di chiara matrice cattolica,interessarono i territori di Bergamo nel marzodel 1797.

La stabilità sociale, religiosa e politica – notacome pax veneta – venne compromessa definiti-vamente, ancorché già minata in precedenzadal diffondersi delle idee illuministiche. Tradi-zioni e consuetudini molto antiche, da secoli ri-spettate, furono sovvertite: l’abolizione della vi-cinìa (sistema di democrazia diretta), il divietodi compiere cerimonie religiose in pubblico(compresi i funerali), l’imposizione della levaobbligatoria colpirono duramente il modus vi-vendi costituito fra le genti bergamasche. In unsimile stato di cose, una reazione era quindiprevedibile, una reazione di gente umile, spessopovera, ma pronta a morire per difendere quellasocietà a misura d’uomo così osteggiata dall’i-deologia giacobina.

I fattiLa cosiddetta “Rivoluzione” di Bergamo av-

venne in realtà in modo tragico. Benché le ideegiacobine avessero fatto presa su alcuni espo-nenti della nobiltà, si trattò comunque di unavera e propria occupazione militare da parte deiFrancesi. Il 12 marzo 1797 la città fu sistemati-camente assediata dalle truppe transalpine (chepuntarono i cannoni sui punti nevralgici qualila rocca, la piazza, il municipio, porta Sant’A-lessandro), vennero allontanati gli amministra-tori veneziani e, sempre sotto la minaccia dellearmi, la popolazione fu costretta a sottoscrivereun documento in favore della fine della “tiran-nia” veneta. Il glorioso stendardo di San Marcoveniva calato dopo 371 anni lasciando il postoalla costituenda “Repubblica Bergamasca”. E iltutto, sotto l’occhio remissivo del podestà e la

posizione di sostanziale appoggio da parte delVescovo Dolfin e del clero cittadino bergamascoche predicava l’adesione alla municipalità gia-cobina. Ma, d’altra parte, non di un moto popo-lare spontaneo si trattò quanto, più semplice-mente, di una congiura ordita da nobili filofran-cesi ai danni del debole governo veneto. In buo-na sostanza, questo evento significò la fine delluminoso e secolare dominio serenissimo sullabergamasca.

Se in città, intimorita, la popolazione non eb-be il coraggio di reagire, non così avvenne pergli abitanti della Valle San Martino, Valle Ima-gna, Valle Brembana, Valle Seriana, Val Gandinoe Val Cavallina, i quali, rifiutando le innovazionigiacobine, riconfermarono fedeltà assoluta allaRepubblica di San Marco, gettando le basi dellacosiddetta “Controrivoluzione” bergamasca: alsuono delle campane, si organizzò spontanea-mente un vero e proprio esercito popolare chemarciò sin sotto le mura della città di Bergamoal grido di «Viva San Marco, viva la Religione,abbasso il governo bergamasco!». La fedeltàdelle popolazioni valligiane a Venezia ben siriassume in questa missiva indirizzata al Doge eal Senato Veneto un anno prima (7 luglio1796): «La gratitudine verso gli innumerevolibenefizi versati sopra di noi dalla SerenissimaRepubblica, che per tanti secoli fra noi mante-nendo la giustizia, la sicurezza e la felicità col-le sue leggi clementi, ne dona il dolce diritto dichiamarci più figli ancora che sudditi del suopaterno imperio […] per questi oggetti sentitiprofondamente dagli abitatori delle infrascrittevalli, e dai corpi infrascritti del piano e contanta rapidità ed ardore abbracciati dai rispet-tivi consigli, essi hanno colle unite parti spie-gato il vivo desiderio di spendere il sangue e lavita in difesa del Serenissimo Principe con unosforzo degno di noi e di quella devozione perve-

Le insorgenze antigiacobinebergamasche

(29-30 marzo 1797)di Fabio Bonaiti

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nutaci in retaggio dai nostri maggiori e ponia-mo ai piedi del trono del Serenissimo Principel’offerta del numero di diecimila uomini de’ no-stri abitanti atti alle armi».

I Valdimagnini si unirono, come consuetudi-ne già dal Medioevo, ai rivoltosi della Valle sanMartino e, riuniti tutti a Caprino (località capomandamento), nominarono quale capo un certoMoscheni il quale ordinò subito di inalberareun grande stendardo veneziano. Il movimentoraggiunse poi, al suono di tamburi e di inni aSan Marco, Ponte San Pietro e quindi Bergamo.Un errore di valutazione da parte degli insorti,non ben informati sulla reale consistenza delleforze francesi e giacobine, e la fulminea rispostadi queste ultime a colpi di artiglieria, trasfor-marono l’insurrezione in una carneficina. Mi-gliaia di controrivoluzionari caddero sul campoe molti vennero inseguiti nelle valli, catturati egiustiziati. Era il 30 marzo 1797.

Si concludeva in modo tragico l’unico grandetentativo di insorgenza antigiacobina nel berga-masco, iniziativa di valorosi montanari ribella-tosi per difendere la loro famiglia, la legittimaproprietà e la loro stessa fede. Alcuni sopravvis-suti, però, si unirono ai Bresciani - solo pochigiorni dopo anche Brescia insorgeva e alcuni fo-colai scoppiavano a Lonato e in altri centri val-livi - e altri ancora raggiunsero il Tirolo percontinuare a combattere per la libertà.

Bibliografia❐ Luca De Pero, Bergamo, “Brescia e le vallidella Lombardia Veneta” (estratto da AA.VV., Leinsorgenze antigiacobine in Italia, 1996);❐ Riccardo Giulio Bevilacqua, “Rivoluzione econtrorivoluzione a Bergamo e nel suo territo-rio”, in Controrivoluzione n. 12-13/1991;❐ Massimo Viglione, Le rivolte dimenticate,Roma, Editrice Città Nuova.

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Col nome di Pasque Veronesi fu chiamata l’in-surrezione generale della città di Verona edel suo contado, scoppiata il 17 aprile 1797,

lunedì dell’Angelo. Tra le innumerevoli insorgen-ze che dal 1796 al 1814 costellarono l’Italia el’Europa occupate da Bonaparte e che esprime-vano il rigetto da parte delle popolazioni dei falsiprincìpi della Rivoluzione francese, imposti conle baionette, la sollevazione di Verona è certa-mente una delle più importanti della penisola.

1 - Verona e la Serenissima prima della Rivoluzione

Dopo aver ucciso il proprio legittimo Sovrano,Luigi XVI, sterminata la sua famiglia e fatto peri-re nel carcere della Torre del Tempio il Delfinoall’età di dieci anni, abbattuta la monarchia, per-seguitati il culto e la religione cattolica, la Fran-cia rivoluzionaria, già ubriaca dei massacri delTerrore, si avventura in una serie di guerre conle altre potenze europee. Le orde rivoluzionarie,guidate dalle sette anticlericali più tenebrose,prima fra tutte dalla massoneria, sono ansiose diesportare in tutto il mondo l’odio contro la Chie-sa e di rovesciare le tradizionali istituzioni sacra-li, sia civili che religiose, alle quali i popoli eranoattaccatissimi.

Gli stati italiani e la repubblica aristocratica diVenezia conoscevano purtroppo allora una tristedecadenza morale: gran parte del patriziato, om-bra di quello che aveva affrontato e vinto tantevolte il Turco, era infiltrato dai principi libertarie libertini della Rivoluzione francese; era indiffe-rente alla religione, imborghesito, disinteressatodel bene pubblico, spessissimo affiliato a loggemassoniche, nelle quali si contavano moltissimiprofessionisti e anche sacerdoti e vescovi. Solo ilpopolo e buona parte del clero (specie basso) era-no rimasti refrattari alle idee illuministe e seco-larizzanti che provenivano d’Oltralpe: la lorocommovente fedeltà all’ordine tradizionale, civi-le e religioso, ricevuto quale preziosa eredità daipropri padri e da essi difeso anche a costo dellavita (si contano a centinaia di migliaia gl’insor-genti caduti durante la parabola napoleonica dal1796 al 1814) rifulge nelle sollevazioni controri-

voluzionarie che costellarono da un capo all’altrola penisola e delle quali i manuali scolastici distoria non fanno parola. Nel sostanziale tradi-mento del proprio glorioso passato da parte delleclassi dirigenti di allora sta la spiegazione delladissoluzione della millenaria, gloriosa Repubbli-ca di Venezia.

Verona, tuttavia, si discosta alquanto da questoquadro poco confortante. La città, sul finire delsecolo XVIII, conta all’incirca 50.000 anime, cheraggiungono le 230.000 comprendendovi anchela provincia. Un moderato benessere economicoè diffuso anche nelle classi sociali meno abbienti,favorito da quasi cinquant’anni ininterrotti di pa-ce. Il patriziato veronese, proprietario di cospicui

Le Pasque Veronesidi Maurizio G. Ruggiero

Scontri in via Mazzanti, a Verona. Disegno diLudovico Pogliaghi, 1913

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fondi nel contado, migliora le condizioni di vitadelle campagne, mentre in città l’antica e celebreindustria della seta è ricercata e produce soprat-tutto per l’estero. L’amplissima autonomia am-ministrativa e giurisdizionale di cui gode Veronae la irrisoria pressione fiscale non fanno che ac-crescere il filiale affetto delle popolazioni verso laSerenissima. la concordia tra le varie classi so-ciali e lo spirito religioso, straordinariamente ra-dicato in tutti i ceti, completano il quadro di unasocietà ordinata e pacifica, naturalmente ostilealle inaudite idee che dalla Francia giacobinastanno contagiando anche la Padania. Anche aVerona, infatti, la massoneria - principale istiga-trice della sovversione - cerca aderenti, ma gli af-filiati sono pochi e presto l’attenta e discreta vi-gilanza degli Inquisitori di Stato - forse l’unicamagistratura veneziana ancora efficiente e all’al-tezza del suo glorioso passato - ne scopre le tra-me tenebrose, smantellando le logge e disper-dendone i membri. La pressoché assoluta parte-cipazione popolare alle pratiche cattoliche, unclero ancora immune dall’infezione rivoluziona-ria, la presenza di numerosissime confraternitelaiche in tutto il territorio impediscono l’affer-marsi dell’eresia giansenista, i progressisti di al-lora, fautrice delle idee sovversive di Francia.

Proprio pochi anni prima delle Pasque Verone-si ricevono la loro formazione religiosa gigantidella fede cattolica quali San Gaspare Bertoni,futuro fondatore degli Stimmatini, il Servo diDio Don Pietro Leonardi, il Beato Carlo Steeb ela marchesa Santa Maddalena di Canossa, appar-tenente a una delle più antiche e aristocratichefamiglie cittadine, che fonderà nel secolo a veni-re l’ordine delle Figlie della Carità, mentre a reg-gere la Cattedra di san Zeno si trova già dal 1790il patrizio veneziano ex-gesuita Gianandrea Avo-gadro, profondamente anti-giansenista e vivaceoppositore della dissolutrice filosofia sociale illu-minista. Insomma, come riferiva alla Dominanteil 25 gennaio 1795 il marchese Francesco Agdol-lo, un agente segreto inviato a Verona per con-trollare e relazionare sulla presenza tra le murascaligere del Conte di Lilla, futuro Luigi XVIII Redi Francia: “Nessuna notizia da questa città, ilbuon ordine, una senza simile popolazione faapparire essere questa la sede della tranquillità”.

2 - L’invasione napoleonicaNel marzo del 1796, Napoleone Buonaparte,

un oscuro ufficiale còrso (favorito dell’amante diBarras, allora capo del Direttorio francese) giàdistintosi qualche mese prima nel cannoneggia-

mento della folla parigina, giunge al comandodell’armata d’Italia, incaricato di aprire un frontesecondario, rispetto a quello del Reno, control’Austria Imperiale.

Le insospettate doti del Bonaparte, la sua spre-giudicata condotta militare (disprezzo della paro-la data e delle regole cavalleresche che fino ad al-lora disciplinavano la guerra, ricorso all’oro purdi corrompere i generali avversari, saccheggio si-stematico dei territori occupati anche se neutrali,mantenimento e alloggiamento delle truppe aspese delle popolazioni civili trattate come nemi-che, oppressione dei vinti) un servizio di spionag-gio assai più efficiente e remunerato di quellodell’avversario, l’aiuto potente della massoneria edelle altre sette segrete, il ricorso agli stupefacen-ti (la famosa cantaride) per galvanizzare i soldatidi leva, quando il fanatismo dei commissari rivo-luzionari incaricati di sorvegliarli da solo non ba-stava e tanta fortuna, spiegano i successi mietutidall’armata fra il 1796 ed il 1797.

Occupati il Piemonte e la Lombardia austriaca,col pretesto d’inseguire gl’imperiali in fuga, Bo-naparte invade anche i territori neutrali della Se-renissima Repubblica di Venezia, che aveva rifiu-tato le ripetute offerte di alleanza militare sia del-l’uno che dell’altro belligerante. Il 1° giugno1796 Napoleone entra in Verona con le micce ac-cese ai cannoni, nell’ostilità generale. Subito isuoi si distinguono in ruberie ed empietà, infi-schiandosene della neutralità veneta ed imposses-sandosi delle fortezze e del relativo armamento.

Vinti gl’imperiali a Rivoli, nel marzo 1797 ilpiano di sovvertimento della Serenissima si rea-lizza: Bonaparte spinge un pugno di cospiratoribergamaschi e bresciani ad un colpo di Stato, perstaccare Bergamo e Brescia dalla Serenissima, lequali si proclamano repubbliche indipendenti,mentre sono in realtà soltanto dei fantocci pro-tetti dalle baionette d’Oltralpe. Crema è rivoluzio-nata a tradimento dagli stessi francesi. Tutta laLombardia veneta è in fiamme. Salò è contesa dagiacobini e abitanti delle vallate, incondizionata-mente fedeli al leone di San Marco, i quali, guida-ti da un eroico sacerdote, Don Andrea Filippi,hanno alla fine la meglio e chiedono soccorso aiveronesi. I giacobini sono però decisi non solo ariprendere Salò, ma anche a marciare su Verona.

Per non essere a sua volta rivoluzionata con laviolenza o col tradimento, Verona fidelis dà subi-to prova della sua lealtà al legittimo governo,chiedendo al Senato Veneto di potersi armare edifendere dai giacobini bergamaschi e bresciani.Quarantamila veronesi in armi, fra cui numerosi

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sono i contadini delle cernide,guidati dal giovane generaleAntonio Maffei, si schierano apresidiare il confine col bre-sciano, liberano diversi abitatie giungono addirittura ad as-sediare Brescia; la coccardagiallo-azzurra coi colori citta-dini è il loro emblema. Il ve-scovo di Verona, monsignorGianandrea Avogadro, model-lo di carità per tutti i combat-tenti controrivoluzionari, dàordine di fondere le argente-rie delle chiese per la salvezzadella patria. In città, tra l’im-barazzo e l’apprensione deifrancesi barricati nei castelli,è tutto un pulire spade e luci-dare moschetti, mentre com-paiono a ogni angolo di strada cartelli e scritte diViva San Marco! Tutte le porte sono sorvegliate avista dalla Guardia Nobile, una milizia volontariaappositamente costituita dalle autorità veronesi,a testimonianza di una sfiducia ormai diffusaverso le forze armate nazionali, vincolate dal Se-nato al rispetto della scellerata politica di neutra-lità disarmata. Così, pur di tenere fede a tale poli-tica, la Repubblica, fedele alla propria neutralità,proibisce però ai veronesi qualsiasi atto di ostilitàcontro i francesi, i quali, da Milano, da Mantova eda Ferrara-Padova si mettono intanto in marciacontro l’esercito veneto-scaligero del Maffei econtro la città.

3 - Le Pasque VeronesiIl 17 aprile 1797, lunedì dopo Pasqua, le conti-

nue provocazioni francesi fanno sorgere i primiincidenti. Quando, alle 17, durante i vespri, lebatterie dei castelli sovrastanti la città e che sonoin mano nemica, iniziano a cannoneggiarla, i ve-ronesi esasperati insorgono come un sol uomo algrido di Viva San Marco!, mentre le campane amartello avvisano anche il contado che la solle-vazione generale è iniziata.

Per nove giorni si combatte casa per casa; tuttele porte sono liberate; assaltate le piazzeforti; in-viate richieste d’aiuto a Venezia, nel cui nome enel cui interesse si battaglia e si muore e all’Im-pero, che però proprio in quei giorni aveva siglatocon Bonaparte i preliminari di pace a Leoben. Ilpopolo, inesperto nel maneggio dei cannoni, èsoccorso da sei artiglieri imperiali, liberati dallaprigionia di guerra. Si assedia Castelvecchio. Tra-

sportati i pezzi da fuoco sui colli di San Mattia edi San Leonardo, il popolo cannoneggia dall’alto irivoluzionari francesi asserragliati dentro CastelSan Pietro e Castel San Felice: altri duecento sol-dati imperiali combattono confusi nella mischia.

A capitanare i veronesi sono il Conte France-sco degli Emilei e il Conte Augusto Verità. A mi-gliaia i contadini si precipitano a soccorrere Ve-rona. Giungono per primi gli abitanti della Val-policella, che si offre di condurre tutti i suoi uo-mini; scendono i montanari dalla Lessinia; altrecolonne di volontari in armi arrivano dalla bassae dall’est veronese.

Il popolo avanza palmo a palmo verso i forti,respinge ogni tentativo di sortita da parte del ne-mico e tratta da traditore chiunque voglia pat-teggiare con lui.

L’infido generale Beaupoil, che dai castelli so-pra la città, la batteva con le artiglierie, disceso aparlamentare, ben presto perde tutta la sua tra-cotanza, piagnucola e si vede salvata la vita dalMarchese Giona, che lo sottrae al linciaggio dellafolla esasperata. Gli ebrei del ghetto parteggianosenza esitazione per i nemici, offrendo loro ricet-to e armi. Dalla perquisizione del ghetto saltanofuori in effetti tre casse di esplosivo e altro mate-riale bellico, da essi occultato, per metterlo a di-sposizione dei rivoluzionari francesi.

Castelvecchio alza bandiera bianca: viene ordi-nato il cessate il fuoco, ma i rivoluzionari france-si, scorgendo che gli assedianti, imprudentemen-te, si erano troppo avvicinati al castello, ne ap-profittano per scaricare a tradimento contro diloro un cannone a mitraglia, facendone strage.

Repressione del tumulto polpolare di Venezia in difesa della Re-pubblica, il 12 maggio del 1797. Disegno di Giuseppe Gatteri, 1854

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Una pattuglia imperiale, che reca purtroppo lanotizia dei preliminari di pace, è accolta in deli-rio dalla popolazione che la crede invece un’a-vanguardia degl’Imperiali, prossimi a liberare lacittà dagli odiati giacobini. A Pescantina l’eroicaresistenza degli abitanti blocca l’avanzata di unacolonna francese, impedendole di traghettare l’A-dige, eroismo che diciannove pescantinesi, fracui donne e bambini, pagano con la vita, mo-schettati o arsi vivi nelle loro case.

A Venezia, intanto, Emilei non ottiene gli aiutisperati e deve rientrare a mani vuote. Sul lago ilgenerale Maffei, attaccato dagli eserciti francesiprovenienti da Milano, deve arretrare, fedele allaconsegna del Senato di non scontrarsi con essi,ma a San Massimo e a Santa Lucia il 20 apriles’ingaggia battaglia aperta; lo scontro volge in unprimo tempo a vantaggio dei soldati veneti ed èquella l’ultima volta che la vittoria arride a SanMarco, ma poi, sopraffatti dal numero, essi sonocostretti a ritirarsi tra le mura.

Alla fine di nove giorni di combattimenti ifrancesi contano a centinaia le vittime lasciatesul campo in quella che è diventata, per l’eserci-to più potente d’Europa, una cocente sconfittamilitare. Poco più di un centinaio sono i cadutiveronesi. Circa 2.400 sono i prigionieri francesicatturati, dei quali 500 sono militari, altri 900appartengono al personale civile dell’esercito na-poleonico assieme ai loro familiari: tutti eranostati condotti in Piazza dei Signori, presso il pa-lazzo dei rappresentanti veneti a Verona. Altri1.000, infine, degenti negli ospedali cittadini, so-no ivi piantonati dagli stessi veronesi per preser-varli da ogni vendetta.

La sorte della città, privata di ogni soccorsoesterno, è tuttavia segnata; ma il popolo nonvuole ancora arrendersi. In provincia si susse-guono le esecuzioni sommarie: in località Ca’ deiCapri, presso San Massimo, cade fucilato sotto ilpiombo francese un giovanissimo sacerdote, DonGiuseppe Malenza, che guidava un gruppo d’in-sorgenti. Dalle alture i giacobini veronesi, tradi-tori della loro patria, suonano fanfare militariper l’imminente crollo dell’aborrita Verona. Infi-ne, assediata da cinque eserciti, bombardatagiorno e notte, tradita dai Provveditori Venetiche l’abbandonano per ben due volte pur di nonviolare la chimerica neutralità, Verona capitola il25 aprile 1797, giorno di San Marco, dichiarandoal tempo stesso, con un gesto simbolico che sot-tolinea il disprezzo per l’ignavia e il tradimentodei veneziani e che la eleva a rango di capitale,cessato il dominio veneto su di essa.

4 - La vendetta rivoluzionaria e la fine della Serenissima

Disarmato il popolo, resi inservibili i cannoni,presi in ostaggio i sedici più eminenti concittadi-ni (fra cui il vescovo, l’Emilei, Verità e tutte lepiù alte cariche) il 27 aprile i francesi rientranoin Verona. Per prima cosa saccheggiano il Montedi Pietà, la banca dei poveri. Vengono impostecontribuzioni enormi, depredate le opere d’arte,mentre una commissione militare è incaricata difar deportare alla Guyana i cinquanta colpevoliprincipali dell’insurrezione. I traditori veronesi,peggiori dei loro padroni, vorrebbero mutare no-me a Verona (ribattezzandola Città dell’Egua-glianza) essendosi macchiata dell’onta di essersiribellata a cotanti liberatori e vorrebbero punirecon una pubblica decapitazione sul corso, tutti icapi famiglia protagonisti della gloriosa difesadella propria città e del proprio legittimo edamato governo. Sono gli stessi francesi, per nonaggravare la tensione, a impedire la consumazio-ne del massacro.

Ma la vendetta non si fa attendere: il 6 maggio1797 sono arrestati nella notte e mandati a mori-re tra il 16 maggio, l’8 e il 18 giugno, dopo unprocesso politico farsa tenutosi a Palazzo RidolfiDa Lisca, attuale sede del Liceo Scientifico Mes-sedaglia, Giovanni Battista Malenza (fratello diGiuseppe) del controspionaggio veneto, al quale igiacobini l’avevano da tempo giurata e che erastato uno dei capi dell’insurrezione cittadina, iConti Emilei e Verità le cui case sono abbando-nate al saccheggio ed il vecchio frate cappuccinoLuigi Maria da Verona (al secolo Domenico Fran-gini) morto in concetto di santità. Disgustatodall’empietà dei sanculotti, in una lettera ad unsuo confratello, intercettata, li aveva definiti peg-giori dei cannibali, perché questi ultimi avevanolevate le mani solo contro gli uomini, mentre irepubblicani francesi le avevano levate controDio. Rifiutatosi di disconoscere la paternità dellalettera o di farsi passare per pazzo o per ubriaco,Padre Frangini affronta il martirio, raggiante, alsuono dei tamburi. Anche i popolani Pietro Sau-ro, Andrea Pomari, Stefano Lanzetta e AgostinoBianchi subiscono analoga sorte: fucilati tutti adestra di Porta Nuova, guardandola dall’esterno.

Non appena rioccupata la città, i rivoluzionarifrancesi decidono l’immediata deportazione inmassa in Francia, via Cisalpina e quindi via Mila-no, dei 2.500 uomini della guarnigione venetache aveva difeso la città ed in particolare del Reg-gimento di Fanteria Treviso. Per accoglierli, lapatria dei liberatori dell’umanità istituisce il

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primo universo concentrazionario moderno. Da quei campi di prigionia e di sterminio, tor-

narono meno della metà, dopo la pace di Cam-poformio, rimpatriati, sul finire di quel terribile1797 e nei mesi successivi, attraverso la frontieradel Reno, passando per i territori amici dell’Impe-ro. La maggior parte di quei militi, colpevoli sol-tanto di aver fatto il proprio dovere, morì di fameo di stenti in Francia; altri ancora sulle strade delBrennero o del Tarvisio, sulla via di casa.

Nei mesi successivi giacobini veronesi e rivo-luzionari transalpini si sfogano ad elevare alberidella libertà e piramidi, a scoronare e depredarein Cattedrale la venerata immagine della Ma-donna del Popolo (alla quale viene negato il tito-lo troppo aristocratico di Regina, declassandolaa cittadina Madonna) e ad altri sacrilegi, a lan-ciare spropositi dalla sala di pubblica istruzione,proponendo ad esempio di bruciare tutti i con-fessionali, di far mitragliare in Stradone SanFermo gli ecclesiastici o di distruggere le ArcheScaligere, perché innalzate sotto un regime an-ti-democratico. I leoni di San Marco vengonoabbattuti, gli stemmi nobiliari e i rispettivi titoliproibiti, sotto pena di pesanti multe per chi sol-tanto osi pronunciarli. Addirittura, per giustifi-carsi di aver aggredito una città ed una Repub-blica neutrale ed in pace con loro, rivoluzionaritransalpini e giacobini veronesi rovesciano le lo-ro responsabilità sulle vittime, inventando la fa-vola del massacro di Verona e facendo passarel’insurrezione di una città stanca della tiranniadei suoi pretesi liberatori, come un eccidio dimassa, programmato efreddamente realizzato, disoldati francesi malati o fe-riti. A questa menzogna so-no ispirate quasi tutte lestampe dell’epoca relativealla sollevazione di Verona.

Proclamate le elezioni, igiacobini, giunti al poteresolo grazie alla forza france-se d’occupazione, speravanodi vedere legittimata la lorousurpazione. Quale delusio-ne, quale rabbiosa reazionequando si vedono sconfittiin quasi tutti i collegi dagliappartenenti all’antica clas-se nobiliare! Naturalmente,il verdetto popolare non vie-ne rispettato dai democra-tizzatori; il generale france-

se, al quale spetta l’ultima parola, estromette aforza gran parte degli eletti, giudicati troppo le-gati all’antico regime e ripesca i perdenti. Il ve-scovo viene infine di nuovo arrestato: la primavolta, non avendo voluto benedire l’albero dellalibertà, aveva scampato per un solo voto il ploto-ne di esecuzione; adesso, pochi giorni prima chei rivoluzionari d’Oltralpe evacuino definitiva-mente la città, questi lo vogliono costringere conla prigione a concedere il divorzio a un ufficialefrancese.

Mentre Verona geme sotto l’arrogante sferzadella Rivoluzione, le autorità veneziane consu-mano l’ultimo tradimento della Repubblica, ri-nunziando a difendersi, pur non avendo Bona-parte alcun naviglio per conquistare Venezia, allaquale aveva frattanto dichiarato guerra. Il 12maggio 1797 lo stesso Doge Ludovico Maninpropone al Maggior Consiglio, per le cui delibe-razioni mancava quel giorno oltre tutto il nume-ro legale, la devoluzione del potere al popolo e lademocratizzazione rivoluzionaria. Le uniche au-torità che si erano condotte con onore, gl’Inqui-sitori di Stato e l’eroico capitano Domenico Piz-zamano, il quale, obbedendo agli ordini, avevabombardato e costretto alla resa un vascello ne-mico insinuatosi in laguna, sono tratti in arre-sto, come chiesto da Bonaparte e dai suoi. Perironia della sorte, quella nave francese si chiama-va Il liberatore d’Italia. Non soltanto, ma un tu-multo popolare antifrancese e in difesa della Se-renissima che scoppia a Rialto, è soffocato nelsangue dalle stesse autorità venete.

Il massacro dei feriti francesi a Verona. Incisione di Martinet e Reville,1835

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Dopo mille anni di splendore e d’incontrastatodominio del leone alato di San Marco, durante iquali il glorioso gonfalone della Serenissima erasventolato su tutti i mari, temuto e rispettatoperfino dal Turco, l’antica città dei Dogi è conse-gnata ad un nugolo di municipalisti intriganti eparolai, che piantano l’albero della libertà in SanMarco e che usurperanno il potere fino all’in-gresso, trionfale, degl’imperiali in città, nel gen-naio 1798.

5 - La RestaurazioneDopo diciotto mesi d’incessanti preghiere e di

candele accese giorno e notte innanzi all’altaredella Madonna del Popolo, i veronesi sono esau-diti e ottengono la grazia di essere liberati dallabarbarie rivoluzionaria. Il 21 gennaio 1798, esat-tamente nel quinto anniversario del martirio diLuigi XVI, Re Cristianissimo di Francia, le divi-sioni imperiali comandate dal Barone Wilhelmvon Kerpen, da Porta Nuova entrano in forma-zione di parata in città, accolte da una popolazio-ne in delirio. Nel Te Deum in Cattedrale il vesco-vo invita magnanimamente a evitare le vendette,mentre il teatro resta aperto e tutta la città è pa-vesata a festa e illuminata in segno di giubilo perquella notte memorabile.

Verona non dimentica i suoi eroi. I corpi senzavita dei tre sfortunati difensori della città (Emi-lei, Verità e Malenza) come degli altri suppliziati,che erano stati sepolti frettolosamente in unafossa comune nel camposanto della Santissima

Trinità, il 6 febbraio 1798 sono dissotterrati edinumati nelle rispettive tombe di famiglia. E, perdecreto del Consiglio Nobiliare cittadino, nellachiesa di San Sebastiano, di giuspatronato dellacittà, il 23 settembre 1799 si tiene una solennis-sima cerimonia, a cui partecipano tutte le auto-rità cittadine, vestite a lutto. Per l’occasione vie-ne eretta un’imponente macchina funebre, fre-giata di numerose ed eleganti incisioni che ricor-dano le principali gesta di quei martiri.

Con l’arrivo delle truppe imperiali, anche l’im-pavido cappuccino Padre Luigi Maria da Verona,riceve degna sepoltura. Il suo corpo viene estrat-to incorrotto (se si eccettua la testa, dove era sta-to offeso dai colpi mortali) con grande sorpresadi tutti, dalla nuda terra nella quale giaceva giàda sette mesi. È tumulato nella chiesa dei cap-puccini, la quale per ordine di Bonaparte vienein seguito soppressa, abbandonata dai religiosi etrasformata in caserma. Di padre Luigi Marianessuno si ricorderà più, fino al 29 marzo 1897,quando, in occasione del primo centenario dellePasque Veronesi il dotto sacerdote Antonio Pighine recupera i resti mortali, che, accompagnati daun numeroso corteo, sono deposti nel Cimiteromonumentale, nell’edicola dei Cappuccini. Eral’8 giugno 1897 e quel giorno correvano centoanni esatti dal suo supplizio.

Bibliografia❐ Francesco Mario Agnoli, Le Pasque Veronesi,Il Cerchio Iniziative Editoriali: Rimini, 1998

Assalto del popolo veronese alla piazzaforte di Castelvecchio. Stampa francese

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Gli anni che precedettero, a Modena, il trienniogiacobino (1796 - 1799)

I Modenesi percepirono i primi effetti della Ri-voluzione francese durante il regno di Ercole IIId’Este. Questi era subentrato a Francesco III conil preciso intento di risanare le finanze del Duca-to, in rosso, a causa dei grandi lavori di bonifica,fatti eseguire dal padre per rendere più comoda esalubre la vita dei suoi sudditi, ma, soprattutto,per le folli spese della Duchessa, la frivola Carlot-ta Aglae d’Orléans, sempre impegnata a organiz-zare costosi ricevimenti e cerimonie(1). Agevola-rono il sovrano, nell’arduo compito di rimetteretutto in sesto, senza dover ricorrere a nuove im-poste e gabelle, i leali e volonterosi GherardoRangone, ministro degli Affari interni e Giam-battista Munarini, ministro delle Finanze.

Il buon governo di Ercole III d’EsteIn primo luogo, fu decisamente ridimensiona-

ta la vita di corte, con la soppressione di feste ecerimonie dispendiose e di tutte le uscite ritenu-te inutili: “a s’in pôl fèr a meno”, se ne può fare ameno, ripeteva sovente, ai cortigiani impazienti,il mite Duca, che, dal canto suo, preferiva lacompagnia del suo popolo, con cui parlare inmodenese, per le vie della città. Furono poismantellate le difese dei bastioni e della Cittadel-la(2) e sostituite con un vasto parco e nove vialiper le passeggiate dei Modenesi; fu tolta di mez-zo anche la maggior parte dei corpi militari, so-stenendo il Duca che la storia passata di Modenaaveva dimostrato la perfetta inutilità delle difese,incisive soltanto per le spese di mantenimento.

Ercole III, inoltre, dopo aver sensibilizzato ivescovi alla causa della parsimonia, li mobilitòper ottenere dal Pontefice, cosa che puntualmen-te avvenne, la riduzione delle festività. Egli pen-sava a una maggiore produttività e a un minoreconsumismo: il buon sovrano non intendeva, in-fatti, intordellire i Modenesi rendendoli anchepiù poveri, come pare sia costume degli attualiamministratori mutiniensi.

Fatto sta che, dopo appena sei anni di regimedi risparmio, l’erario era in condizione di dimi-

nuire le imposte di almeno un terzo. Tanto be-nessere e stabilità economica non tardarono a farlievitare il numero della popolazione urbana, inmodo quasi allarmante, cosicché il Duca, percensire gli abitanti e appurare i loro effettivimezzi di sostentamento, ordinò la numerazionedi tutte le case della città(3), non tollerando che aModena si potesse vivere se non con un minimodi dignità. Durante la sua gestione, Ercole or-dinò persino che si completasse la facciata delPalazzo Ducale, l’attuale Accademia Militare, fa-cendola adornare, nella parte sinistra, con copie,semplicemente dipinte, delle sculture a sbalzodella parte destra: il risparmio fu enorme e nes-suno ci fece caso.

Fu in questo regime “sicuramente reazionario”che il Duca fu preso da un amore plebeo: quelloper la cantatrice Chiara Marini, che portò alla de-finitiva separazione dalla sua Duchessa(4). Rima-sto vedovo, nel 1790, sposò morganaticamente ladonna da cui aveva avuto anche un figlio.

Arriva a Modena l’Arciduca d’AustriaL’Este non amava interessarsi di politica e di

guerre, anzi guardava a loro con innegabile tre-pidazione, ritenendole foriere di disordine, di-

La ”Vandea estense”di Alina Mestriner Benassi

(1) Giuseppe Panini, La Famiglia Estense da Ferrara a Mo-dena, Edizioni ARMO: Modena, 1996Silvio Campani, Compendio della Storia di Modena, Soliani:Modena, 1875Luigi Amorth, Modena Capitale, Aldo Martello Editore: Mi-lano, 1967(2) La Cittadella, fatta costruire da Francesco I nel 1635, aforma di pentagono, con i suoi cinque baluardi detti del Car-dinale, del Principe Nicolò, del Principe Cesare, della Brecciae del Duca, per ricordare la valorosa difesa contro gli Austro-Sardi, che avevano occupato Modena, allora alleata dellaSpagna.(3) Le formelle, murate sulla facciata delle case, furono1872,mentre gli indigenti, censiti dalla diocesi, risultarono essere6337, tra questuanti e quelli che vivevano una dignitosa po-vertà. (4) Ercole aveva sposato, a soli 14 anni, nel 1741, la quindi-cenne principessa Maria Teresa Cybo Malaspina, figlia unicadel Duca di Massa: il matrimonio, voluto da Francesco IIIper espandere i Domini estensi, anche se non fu sterile, ri-mase sempre un rapporto formale.

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struzione e sprechi; identica, imbarazzata soffe-renza gli provocavano tutte le notizie, prove-nienti dalla Francia, agitata dalla rivoluzione.Così, quando, nel maggio del 1790(5), l’ArciducaFerdinando d’Austria e la moglie arrivarono aModena, furono accolti dal Duca nel suo Palazzo,e, in seguito, da lui accompagnati alla residenzadi Sassuolo, per una breve villeggiatura, prima diproseguire il loro viaggio per Milano. I timori delDuca lo avvicinarono ancora di più, se è possibi-le, all’Imperatore, al quale donò, nel 1793, quan-do era già in guerra contro la repubblica france-se, dodici cannoni e duemila palle. L’anno se-guente, inviò allo stesso, senza tenere conto delcontingente per la tassa di guerra come feudata-rio, sotto forma di prestito, la bella sommetta di750.000 zecchini, fruttiferi al 4% e restituibili, arate, entro l’anno 1808.

Ercole III tra Austria e FranciaLa incondizionata disponibilità dell’Este, nei

confronti dell’Austria, si manifestò anche nelconsentire che alcune centinaia di reclute delproprio esercito s’incorporassero nei reggimentiimperiali e che truppe, nemiche della Francia,potessero liberamente transitare nei suoi stati.Nello stesso tempo, Ercole III fece il possibileper soffocare ogni moto filo-francese, all’internodel Ducato, facendo anche arrestare alcuni suoisudditi, sospettati di attività rivoluzionarie. Co-sì, quando Napoleone giunse a Milano(6), Il Du-ca, che aveva, fino a quel punto, fatto di tuttoper alienarsi le simpatie dei Francesi, non potéfare altro che lasciare frettolosamente Modenaper Venezia, il 7 maggio 1796, accompagnatodall’amata Chiara Marini, ora Marchesa di Scan-diano. Lo seguivano i più fedeli fra i suoi, men-tre dal Naviglio partivano alcuni barconi, stipatidei beni personali di Ercole, che lasciò nelle cas-se dello Stato nove milioni di Lire modonesi.

Il Consiglio di Governo e l’armistizioLa Reggenza, chiamata Consiglio di Governo,

con cui il Duca avrebbe corrisposto da Venezia, siinsediò in città e, come prima misura per tutela-re la sovranità estense, inviò al quartiere genera-le francese, come plenipotenziario, il principeFederico Benedetto d’Este, conte di S. Romano,fratello naturale(7) del sovrano, con l’ingratocompito di impetrare una tregua dal Bonaparte.Il Ducato fu considerato, così, neutrale, ma a unprezzo intollerabile.

Ercole contraeva l’obbligo di versare ai Fran-cesi la somma di sette milioni e cinquecento mi-

la lire tornesi (di Francia), di cui tre immediata-mente, due da lì a quindici giorni, il resto dopoun mese. Avrebbe inoltre dovuto sborsare duemilioni e mezzo di lire in derrate, in polvere dasparo e in altre munizioni da guerra. Napoleone,come ciliegina sulla torta, pretese anche venti frai migliori quadri della Galleria, a scelta di unacommissione francese. In cambio di tutto ciò,l’esercito della Repubblica, nell’attraversare ilDucato Estense, si sarebbe astenuto dalle requi-sizioni e avrebbe pagato i viveri occorrenti a ungiusto prezzo.

Tuttavia, la parsimonia del Duca Ercole, dauna parte, dall’altra la sacrosanta riluttanza deiModenesi a somministrare denaro a soldati stra-nieri, resero quasi impossibile corrispondere al-l’impegno concordato. Si dovette ricorrere aquelle misure eccezionali che il sovrano avevasempre cercato di evitare: furono imposti contri-buti e prestiti forzosi agli ordini morali, si spo-gliarono chiese e monasteri di tutto l’oro e l’ar-gento che si poteva racimolare, ma inutilmente.L’unico risultato, forse quello veramente perse-guito dal Bonaparte, fu di rendere inviso un go-verno, che imponeva oneri così gravosi.

La rivoluzione in città Proclami sovversivi cominciarono a circolare

in città, non risparmiando neppure la Cameradei Conservatori: il mite Ercole divenne un vile,un esoso, un tiranno agli occhi dei modenesi dimemoria corta. La Reggenza stessa, nel tentati-vo di evitare sommosse, stigmatizzò il comporta-mento del Duca, che, ormai esangui le casse del-lo Stato, non aveva alcuna intenzione di forag-giare i francesi con il suo. Intanto i dipinti piùpreziosi, custoditi in città, avevano, via Milano,preso il volo per la Francia e la Reggenza, peronorare “l’armistizio”, aveva contratto un debitodi dieci milioni abbondanti di lire modonesi.

Sul finire di Agosto, un tumulto eccitato con-

(5) Silvio Campani, op. cit..(6) Il 9 aprile 1796, Napoleone Bonaparte, generale in capodell’armata francese, discesa nei nostri territori, pubblicavaun proclama per le sue truppe, in cui tra le altre cose diceva:“Fratelli d’armi, è ormai tempo che da una guerra difensiva passiate a una guerra di invasione e di conquista. Voi sietesenza equipaggi, senza magazzini, senza artiglieria, senzaabiti, senza scarpe, senza soldo, ma siete ricchi di coraggio. -Ecco nelle pianure fertili del Piemonte e della Lombardia ivostri magazzeni, i vostri cannoni. Marciamo, e fra poco sa-ranno in vostro potere.”(7) Era, insieme a Francesco Maria, figlio “tesdè” di France-sco III, nati dopo la separazione del Duca da Carlotta Aglaedi Orléans, avvenuta prima che questi succedesse al padre.

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tro l’esercito estense e gli esecutori di giu-stizia, insieme al tentativo di innalzarel’albero repubblicano in Piazza Grande,provocò una sanguinosa repressione(8). IlConsiglio di Governo fu costretto a spedi-re, di continuo, corrieri a Venezia con no-tizie non belle, denunciando il rischio im-minente di una rivoluzione.

Il Duca si rese finalmente conto dellagravità della situazione, ma troppo tardi,perché il Bonaparte, dal suo quartiere diMilano, il 13 vendemmiaio del quinto an-no della Repubblica (4 ottobre 1796),ruppe gli indugi denunciando l’armisti-zio(9).

I francesi proclamano la repubblica.Il 6 ottobre, che doveva essere l’ultimo

giorno di governo del vecchio ramoEstense, vide l’arrivo, a Modena, del gene-rale Sandos con le truppe francesi. In pri-mo luogo, costui intimò alla Reggenza disciogliersi, proclamando il governo re-pubblicano, poi, il giorno seguente, lesseai Conservatori e fece affiggere per la cittàil proclama con cui Napoleone dichiaravainfranto l’armistizio.

Con incredibile, ma tipica(10) rapiditàdi adattamento, i Priori e i Conservatoridi Modena si precipitarono a complimen-tarsi con il generale Sandos e il generaleGarrau, entrambi commissari del Diret-torio, che si erano insediati a Palazzo Rangoni,ottenendo in cambio di conservare la propria ca-rica. I Priori, inoltre, con incredibile solerzia, anome di alcuni cittadini, presentarono istanzaper innalzare “l’albero della libertà”: la decisionefu rimessa al Consiglio dei Conservatori, che nontardarono a dire di sì. Da principio, i cittadininon fecero mostra di un eccessivo entusiasmo,ma poi, visto che è molto più semplice e menorischioso accomodarsi con i vincitori, diedero lastura agli evviva e, dopo poche ore, in PiazzaGrande, intorno la cavalleria francese a far qua-drato, fu eretto un pioppo, coronato da un rossoberretto frigio e cinto da due bandiere francesiincrociate. Durante tutta la notte si accesero fuo-chi, si danzò attorno a quell’albero cantando laMarsigliese e, alla fine, si bruciarono le insegnedelle aquile estensi, urlando a squarciagola:eguaglianza e libertà(11). Intanto, con una grida,veniva additato quale nemico pubblico e qualecittadino poco riconoscente, chiunque non in-dossasse la coccarda francese.

Morte del generale Beaupuy. Dipinto di Alexandre Bloch

(8) Fu necessario l’intervento di duecento guardie per sedarela rivolta.(9) “Libertà Eguaglianza. Bonaparte Generale in capo del-l’Armata d’Italia. Le condizioni dell’armistizio conchiuso colDuca di Modena non sono state adempite. La contribuzione,che doveva essere interamente pagata per ultimo termine al4 mietitore, non è anche saldata. - Il Duca di Modena, lungedal rientrare ne’ suoi Stati ne rimane sempre assente, ed in-vece di pagare col suo erario la maggior parte della contri-buzione, come si era convenuto, ne fa portare il peso ai po-poli di Modena e di Reggio, nel tempo stesso che impiega ilsuo denaro in pro dei nemici della republica. Non vi ha mez-zi della Reggenza intentati per rendere i Francesi odiati da’suoi popoli. Essa ha favoriti gli approvisionamenti di Manto-va e le operazioni dei nemici della Francia. In conseguenza ilgenerale in capo dichiara l’armistizio conchiuso con Modenainfranto. - Egli prende sotto la protezione dell’armata fran-cese i popoli di Modena e di Reggio. - Dichiara nemico dellaFrancia qualsivoglia attentasse alle proprietà e ai diritti diquesti popoli.” S. Campani, op.cit. pag.: 238-239. (10) Nel corso della storia, questa città ha visto tanti padronie, rincresce dirlo, si è sempre gioiosamente adattata a tutti,almeno per un po’.(11) Una scritta recitava: “Tremate o perfidi, tremate o tiran-ni e guardate l’immagine della libertà.”

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“Libertà”Il generale Garrau nominò, senza indugio, i

nuovi membri del Governo, che si costituironoin Comitato e i nuovi membri del Comune, cheavrebbe poi dovuto chiamarsi Municipalità. IlComitato di Governo s’insediò in un apparta-mento del Palazzo Ducale, detto ora Nazionale.Fu istituita una Guardia civica e aboliti i feudi,considerati ormai un “disonore per l’umanità”:per decreto, il bene pubblico fu, da quel momen-to, in contraddizione con quello dei feudatari.

Il 14 ottobre, da Reggio, arrivò a Modena Na-poleone, accolto calorosamente da una moltitu-dine di patrioti, e fu in quella circostanza che unfanatico, tale Giovanni Battista Fornieri, mutilò,a martellate, il monumento equestre di France-sco III, che sorgeva in Piazza S. Agostino.

Il 16, 17 e 18 Ottobre, a Palazzo Rangoni, futenuto il Congresso Cispadano, cui presero partei plenipotenziari di Bologna, Reggio e Ferrara,che, con Modena, formarono la cosiddetta Re-pubblica Cispadana. Vennero celebrate feste incittà e, dopo un “patriottico pranzo”, si tenne ungran ballo nel cortile del Palazzo Nazionale. IFrancesi “liberatori”, intanto, colsero l’occasioneper alleggerire le casse dello Stato(12).

Il giorno seguente un manifesto, pubblicatodal Comitato di Governo, recitava: “Pensate chese sarebbe ingiusto redarguirvi dei vizi e dellescelleratezze de’vostri avi, è ingiusto del pari ilpremiarvi della loro gloria, dei loro meriti, cuinon avete parte alcuna…La nobiltà resta persempre abolita in questi Stati. - Niuno potrà por-tare alcun titolo di nobiltà, e sarà puramentechiamato con quello di cittadino o con quellodella sua professione o della sua carica. Tutte learmi gentilizie, tutte le livree, tutte le insegne diblasone, tutti gli altri distintivi estrinseci di no-biltà dovranno levarsi nel termine di giorni ot-to…Chiunque contravverrà al presente proclamasarà considerato come nemico della costituzionee della patria e come tale severamentepunito”(13).

Ma i domini dell’Este non erano tutti qui e, al-trove, gli eventi presero, a suo tempo, tuttaun’altra piega.

La Garfagnana operosa e ricca Provincia estense Divisa in quattro “vicarie”, formatesi dopo che,

nel secolo XVI, i suoi comuni avevano fatto attodi sudditanza verso gli Estensi, la Garfagnanaaveva una propria individualità storica e territo-riale, all’interno del Ducato, legata, soprattutto,alle caratteristiche fisiche, che la differenziavano

dal resto dello Stato. I sovrani estensi tennerosempre in grandissima considerazione questoterritorio, atipico, per quell’epoca, in cui si pote-vano riscontrare una totale assenza di gravi pro-blemi economici e una mancanza assoluta di cri-si a sfondo sociale(14). Concedendo ampia libertàall’amministrazione locale e non gravando trop-po con le imposte quei sudditi che, ormai da in-numerevoli anni, avevano visto scomparire unafeudalità, peraltro piuttosto mite, gli Este seppe-ro conquistare la simpatia e il rispetto dei garfa-gnini. Testimonia quanto rilevato, la fedeltà di-mostrata da queste popolazioni al proprio gover-no, nell’osteggiare i Francesi, già in occasionedella guerra di successione spagnola.

Circolano vociQuando, all’inizio del 1796, la situazione poli-

tica del Ducato cominciò a precipitare, prean-nunciandosi sempre più critica, poiché correvavoce di una probabile invasione giacobina, il mi-nistro Munarini prese, prontamente, le misuredel caso. Si armarono le milizie forensi a difesadei confini e si autorizzò il governatore ad agirenel modo più conveniente, anche per quantoconcerneva la spesa. I Francesi non vennero, ma,in ogni caso, tutto quello che era stato fatto si di-mostrò, in seguito, tutt’altro che superfluo.

Una “nobile” borghesiaIntanto la popolazione, non oppressa da feuda-

tari o da manomorta ecclesiastica, non risentivadi alcun malcontento e la borghesia stessa, ri-compensata per la sua industriosità con titoli no-biliari, governando, di fatto, la Provincia, nonprestava orecchio ai sentimenti rivoluzionari incircolazione, avendo ben chiaro che le si sareb-bero ritorti contro. Questa ricca borghesia garfa-gnina aveva poi la peculiarità di essere molto col-ta e, a parte qualche doverosa richiesta di ridu-zione di tasse, di concessioni o privilegi, aspira-va, sopra ogni cosa, a fondare, a proprie spese,una scuola di filosofia, allora proibita da una leg-ge protezionistica dell’Università di Modena.

(12) Antonio Rovatti, Modena napoleonica nella Cronaca diAntonio Rovatti. L’albero della libertà 1796-1797. Fondazio-ne della Cassa di Risparmio, Modena, 1995.(13) Silvio Campani, op. cit.(14) La folta vegetazione spontanea costituiva materia primainesauribile per l’artigianato locale, così come l’agricoltura el’industria, anche se di modesto sviluppo, contribuivano lar-gamente al benessere delle comunità montane. Cfr.: C. Ron-caglia, Statistica generale degli Stati Estensi, Modena, 1849-1850.

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La costosa neutralitàDopo che, allarmato per il susseguirsi delle vit-

torie napoleoniche, il Duca era riparato a Venezia,la Reggenza, ottenuta la tregua d’armi, si pre-murò di mandare il conto anche in Garfagnana

Alla richiesta di fornire l’occorrente alle truppefrancesi in transito, trattandole amichevolmente,la “vicaria” di Castelnuovo, riunitasi d’urgenza, il26 di giugno, rispose di non essere in grado dioffrire a un migliaio di uomini mantenimento ealloggio, neppure per un solo giorno. Chiesebensì al Consiglio di Governo di provvedere con-venientemente alle necessità della città, almenoper la farina, onde evitare intralci, che avrebberoprovocato sicuramente gravi disordini(15).

In seguito anche la Garfagnana dovette assog-gettarsi al prestito forzoso imposto dal governo:il 24 maggio, il Consiglio ordinò ai governatoridi convocare i possidenti della provincia e di ob-bligarli a esibire le ricevute di quei prestiti, untempo, volontari. Se costoro non avessero corri-sposto in ragione della propria disponibilità eco-nomica, sarebbero stati loro imposti versamentipiù congrui. Si fece altresì obbligo agli ecclesia-stici, che avevano evidentemente deluso le aspet-tative degli esattori, di consegnare tutti gli og-getti preziosi, non strettamente necessari alle ce-lebrazioni liturgiche.

I Garfagnini furono costretti a versare com-plessivamente all’incirca 1365 lire modonesi inoro, 75.000 in argento e 97.000 in cartamoneta,ma, mentre la vicaria di Castelnuovo aveva fattoil sacrificio maggiore, Camporeggiano e le variechiese si defilarono da quest’ultimo salasso, ad-ducendo scuse tra le più fantasiose. Il preziosocarico non fece nemmeno in tempo a raggiunge-re la capitale estense(16), che già il 10 giugno so-praggiunse una notifica con cui si requisivano icavalli, per sottoporli alla scelta dei deputatifrancesi, e si proibiva l’esportazione delle carnibovine e delle carni salate, per lasciarle a disposi-zione dell’esercito bonapartista, che, nel frattem-po, aveva circondato la Garfagnana, dopo l’occu-pazione di Massa e di Livorno(17).

Fedeltà e lealtà della nazione garfagninaNon ostante tutto, resistendo anche ai molte-

plici tentativi dei Reggiani, che cercavano datempo di introdurre il giacobinismo tra la suapopolazione, questa provincia non venne maimeno all’obbedienza e alla devozione nei con-fronti del Sovrano, a un punto tale che, a Mode-na, si pensò persino di importare un buon nume-ro di soldati da quelle contrade così refrattarie ai

principi della rivoluzione(18). E un contingentedi 100 fanti con due ufficiali, il massimo perchési era in tempo di vendemmia, era pronto a rag-giungere la pianura, quando fu fermato dalla no-tizia che Napoleone aveva dichiarato decaduto ilDuca Ercole.

Il 6 ottobre, da Reggio, il commissario franceseGiuseppe Ricciardi non si fece scrupolo di mi-nacciare dure sanzioni economiche e una rap-presaglia militare, qualora la “Municipalità” sifosse astenuta dall’innalzare l’albero della, si faper dire, libertà.

La “generosità” della RepubblicaI Garfagnini, spaventati, abbozzarono e la capi-

tolazione fu comunicata ufficialmente al gover-natore il 18 vendemmiaio (9 ottobre). Il Comita-to di Governo ordinò altresì di convocare il Par-lamento provinciale, affinché, da subito “Gustas-se quali fossero i grandi, generosi e benefici sen-timenti della Repubblica verso gli Stati di Mode-na”. Così, i primi ordini dettati dalla pianura tol-sero ogni dubbio, anche a quei pochi, che pensa-vano di non dovere rimpiangere l’antico Stato. Equando a Castelnuovo fu affisso un proclama, incui si incitavano i Garfagnini a prendere volonta-riamente le armi in favore della Repubblica, ri-chiamandosi ai più puri ideali giacobini, nessunosi fece avanti. Stesso successo ottenne la richie-sta di una ingente somma di denaro e di “doni”in oro e argento, rivolta alla Municipalità e ai cit-tadini più facoltosi. Incolpando poi lo scarso rac-colto di castagne, “pane dei poveri” a quel tempo,i Garfagnini chiesero, di rimando, la stessa sov-venzione di grano per il popolo, che il Duca nonaveva mai fatto mancare.

I Francesi, ovviamente, ignorarono le richieste

(15) Antonio Marazzo, in Le insorgenze antifrancesi in Italianel triennio giacobino (1796-1799), Editrice Apes: Roma,1992.(16) Il riscatto arrivò a Modena poco prima del 15 di giugno.(17) Alla fine di giugno, Napoleone, adducendo pretesti, or-dinò l’occupazione di Livorno, mentre il Lannes, ai primi diluglio, invadeva Massa Carrara. I conseguenti disordini furo-no repressi con la forza, mentre a Livorno i francesi non siperitarono di confiscare tutti i beni dei cittadini inglesi, rus-si e austriaci; in più pretesero anche cinque milioni di fran-chi dai commercianti. A Massa, i feudatari imperiali furonocostretti a sborsare un bel gruzzolo, come contributo peruna guerra che non avevano voluto né dichiarato. MassimoViglione, La “Vandea Italiana” Le insorgenze controrivolu-zionarie dalle origini al 1814, FdF: 1995(18) Il ministro Munarini inoltrò richiesta al colonnello Carliper una compagnia di 150 fanti, con capitano, un tenente eun sottotenente. A. Marazzo, op. cit.

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della popolazione e scoppiò il malcontento. LaProvincia cadde nell’anarchia e, ben presto, inuovi padroni si trovarono costretti a ricorrerealle antiche ordinanze ducali: queste imponeva-no la chiusura delle botteghe, “al suono dell’oradi notte” e proibivano “ai terrieri di trattenervisiper bere e giuocare, o per ozio”.(19) Tutti eranoobbligati a portare con sé un lume, se uscivanola sera. Fu armata una guardia, per esigenze diordine pubblico, e l’albero della libertà fu sposta-to vicino alla rocca, poiché mancavano soldatiche lo proteggessero dagli insulti. Mascalzonidella peggiore risma, ogni giorno di più, concontinui soprusi e minacce nei confronti deiGarfagnini, intimamente ancora legati al sovranodi un tempo, si facevano schermo della rivoluzio-ne per esigere balzelli gravosi e un sempre mag-gior numero di uomini validi, per accrescere le

milizie francesi. Gli oppressori non si facevanonemmeno scrupolo di penetrare nelle case, perspogliarle di arredi e ricchezze, mentre le strade,di notte, risuonavano di “indecenti e minacciosischiamazzi”.

Il risveglio di ModenaIntanto il 25 novembre, la città era finalmente

insorta: era, anch’essa, esasperata dai continuilatrocini camuffati da contributi militari, ma so-prattutto dalla curiosa assenza di quella “libertà”tanto esibita, a parole, dai francesi. Si sapeva che

già in Lombardia, Liguria e Romagna eranoscoppiati tumulti, non appena Napoleone avevalasciato Milano nelle mani del Despinoy, per in-seguire gli Austriaci.

La misura è colmaLa popolazione della Garfagnana si ribellò in

quello stesso giorno. Causa occasionale, la noti-zia, arrivata per posta al reggiano Franceschetti,di una grandissima vittoria dei Francesi, mentreda Modena giungevano soltanto voci disconfitte(20). Si venne anche a sapere che la capi-tale, invece di inviare grano, si apprestava a ordi-nare nuove e più gravose imposizioni. Così, l’i-nopportuno tentativo di propaganda del reggianoscatenò la tensione a un livello tale da costrin-gerlo a fuggire, per sottrarsi allo scomodo ruolodi capro espiatorio, mentre ogni contrada risuo-

nava di acclamazio-ni al Duca. Presto la rocca ven-ne presa, distruttol’albero della libertà,innalzata l’aquilaestense. La notte in-cipiente recò un si-mulacro di calma,ma, all’alba, la follaincarognita si diedea fracassare le “tavo-lette” delle ordinan-ze repubblicane.Passò poi a prende-re la fortezza diMontalfonso, dovesi armò con degliarchibugi e, a forzadi braccia, trascinòin città quattro can-noni a miccia acce-sa. Un nuovo eserci-to fu messo insieme

dalla popolazione, che s’incaricò anche dellascelta degli ufficiali. A fatica, gli animi più sereniottennero di procrastinare al 29 la convocazionedel Parlamento provinciale. A questo punto, l’a-quila ducale sostituì le coccarde giacobine, sulpetto dei Garfagnini e, quando i filofrancesi ten-tarono di raccogliere le truppe della vicaria di

Spettacolo pirotecnico per il compleanno di Napoleone nel 1807 a Milano.Incisione di A. Barioli

(19) A. Marazzo, op. cit.(20) Già in estate si era sparsa la voce che il MarescialloWurmser si apprestava a discendere dal Tirolo con un eserci-to grandissimo. M. Vigliano, op. cit.

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Camporeggiano, per soffocare l’insorgenza di Ca-stelnuovo, queste, a stento messe insieme, si mi-sero a gridare: “Viva S.A.R. Ercole Duca di Mode-na”. La sollevazione era capitanata dal confessorestesso del Duca, Pier Paolo Maggesi.

Il 2 dicembre si riunì il nuovo parlamento,mentre i cannoni, pronti a far fuoco, e la gentearmata guardavano la rocca e le porte della città;arrivarono, a dar man forte agli insorti, centinaiadi montanari e non solo garfagnini. Nel giro dipochi giorni, si ribellò anche la Lunigiana.

La repressioneIl 14 frimaio (4 dicembre) Bonaparte fu avver-

tito, a Milano, della insorgenza estense. Senzaindugio, rendendosi conto del gravissimo perico-lo, il Corso scrisse subito al generale Rusca, invi-tandolo a esercitare un’attenta sorveglianza, a te-nerlo informato su tutto e a spargere la voce cheavrebbe inviato al più presto seimila uomini aModena. Il Rusca avrebbe dovuto inoltre nomi-nare, sul campo, due deputati garfagnini al con-gresso della capitale. Dopo un paio di giorni, inogni modo, Napoleone si fece vivo di nuovo,presso il Rusca, con le necessarie istruzioni“pour òter une bonne fois le goùt à ces monta-gnards de s’insurger”(21), non tralasciando di for-nirgli anche le armi e i soldati, per una repres-sione più energica.

Il Bonaparte ordinò al generale di raggiungerela Garfagnana con una colonna, di fucilare i capidella rivolta, di inviargli venti ostaggi, di brucia-re la casa di don Maggesi e porre poi, sulle cene-ri, la seguente scritta: “Per giusta pena di un pre-te furibondo che, abusando del sacro suo mini-stero, ha predicato la rivolta e l’assassinio”. Ma,mentre il Rusca, con un proclama, cercava di ri-stabilire l’ordine, a Castelnuovo gli insorti rispo-sero appendendo a un palo i pochi pavidi dispostia capitolare. Il generale decise allora di ricorrerealla spedizione militare.

Il 18 mattina, un esercito di quattromila uomi-ni puntò su Lucca, con l’intenzione di raggiun-gere Carrara in rivolta, attraverso la Garfagnana,poiché tutte le strade di montagna erano con-trollate dai ribelli.

La notizia dell’avvicinarsi delle truppe francesiseminò sconforto e rabbia tra gli insorgenti che,dopo le prime defezioni, ben remunerate dal Ru-sca, cercarono di lasciare Castelnuovo.

Alcuni, tra cui don Maggesi e i suoi fratelli, fu-rono condannati a morte in contumacia, altri,cinque persone in tutto, fucilati, tre di questi sol-tanto diciottenni. Dieci, tra laici ed ecclesiastici,

furono deportati a Milano. La casa dei Maggesi fu“saccheggiata e distrutta sino a’fondamenti”(22).

ConclusioneIn tutto l’ex Ducato Estense, ma principalmen-

te nella lealista Garfagnana, che si era eroica-mente opposta ai giacobini, di casa e d’oltralpe, ilsangue sparso portò soltanto odio, destinato anon esaurirsi facilmente, nei confronti del nuovoregime. Durante tutto il periodo della Repubbli-ca cisalpina, un intero popolo, intimorito da re-pressioni e vessato da tasse, senza contare le ra-pine delle truppe di passaggio, era tenuto, inqualche modo, a freno dal clero che temeva ildanno di eventuali, incontrollate turbolenze. In-vano, perché il 27 pratile (15 giugno) del 1798,nonostante la collaborazione prestata al governo,le corporazioni religiose furono soppresse e iconventi chiusi. Intanto, presso l’amministrazio-ne centrale dipartimentale, si accumulavano la-mentele e ricorsi da parte delle municipalità,stufe del nuovo governo, ormai privo di qualsiasicredibilità.

Il 1799 segnò la fine della repubblica filofran-cese: in maggio e in giugno la Garfagnana fu tea-tro di aspri combattimenti tra tedeschi e francesie i suoi villaggi continuamente occupati e sac-cheggiati dalle truppe del Macdonald, che aveva,nelle Alpi Apuane, i suoi contatti con la divisioneDombrowsky. Le popolazioni dell’ex Ducato nonpotevano più continuare a subire minacce, dopoi saccheggi, le inverosimili tassazioni e la conti-nua privazione della libertà: la dice lunga il fattoche Modena, da maggio a settembre, cambiassegoverno ben quattro volte, alternandosi gli Au-striaci ai Francesi.

Ovunque la Repubblica Cisalpina, sotto il di-retto governo della Francia, era sottoposta, ognidue o tre mesi, a modifiche territoriali o di costi-tuzione e alla popolazione era passato definitiva-mente il gusto, se mai l’aveva provato veramen-te, di danzare intorno agli alberi della libertà. Nelgennaio di quell’anno cruciale, solo tre Stati po-tevano ancora chiamarsi indipendenti: Parma,Toscana e S. Marino; ma quando, in marzo, an-che il Granduca fu costretto a lasciare Firenze,questo evento segnò, fatalmente, la fine delle for-tune francesi.

Il comandante supremo dell’esercito austro-russo, Generale Subarow si occupò dei dettagli.

(21) Napoleone I, Correspondance. Paris 1859. (22) Antonio Rovatti, op. cit.

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Nel tracciare un quadro generale e, quindi, ne-cessariamente sommario, pur se limitato al-l’Emilia-Romagna, dell’Insorgenza, la spon-

tanea resistenza armata delle popolazioni control’invasione delle idee rivoluzionarie e delle armifrancesi alla fine del secolo XVIII e agli inizi delXIX, occorre tenere presenti distinzioni tempora-li e territoriali anche nell’ambito di una sola re-gione e limitatamente, pur se con qualche punta-ta al periodo successivo, al cosiddetto “trienniogiacobino” (1796 1799), che rappresenta il primoe più violento impatto fra la società organica, ilmondo dell’ancien régime, e quella rivoluziona-ria, attraversata ancora dalle convulsioni del par-to, fondata sull’incontro fra le speculazioni deiLumi e la filosofia di Jean Jacques Rousseau, ilvirtuoso, ma lagrimoso filosofo di Ginevra, riela-borate e fuse, nonostante l’apparente inconcilia-bilità, nelle officine delle logge massoniche.

Per quanto riguarda i territori che oggi com-pongono l’Emilia-Romagna, divisi allora fra i du-cati di Parma, Piacenza e Guastalla, Modena eReggio e le province più settentrionali dello Sta-to della Chiesa (le legazioni di Bologna, Ferrara eRavenna), la data iniziale del triennio giacobinoè il 7 maggio 1796, quando l’Armée d’Italie, gui-data dal giovane generale Napoleone Bonaparte,sconfitti i piemontesi del generale MichelangeloColli a Mondovì (21 aprile 1796) e costretto il redi Sardegna, Vittorio Amedeo III, a firmare, ilsuccessivo 27 aprile, l’armistizio di Cherasco,varca il Po sopra Piacenza.

Primo obiettivo è battere l’armata austriaca delgenerale Johann-Peter di Beaulieu e prendereMilano (15 maggio), ma già il 18 giugno i Fran-cesi sono a Bologna, il 23 a Ferrara e a Lugo, il26 a Ravenna, quando già, il 23, è stato sotto-scritto a Bologna un armistizio, che lascia allaFrancia le legazioni di Bologna e Ferrara, mentretorna al Pontefice quella di Ravenna (a eccezionedi Castelbolognese), che tuttavia le truppe fran-cesi finiranno di sgombrare solo nel mese di ot-tobre. Resta ai margini, appena sfiorata dall’inva-sione, nella parte meridionale della regione, Ri-mini, mentre in quella nord-occidentale il Duca-

to di Parma e Piacenza, pur soggetto a una sortadi vessatorio protettorato di fatto, viene per ilmomento lasciato al duca Ferdinando di Borbo-ne, dietro pagamento di una pesantissima tagliain denaro, derrate e opere d’arte.

Nonostante i discorsi e gli evviva delle sparuteminoranze giacobine, che invano si adoperanoper persuadere i concittadini a rallegrarsi dell’ar-rivo della libertà, già lungo il cammino di avvici-namento a Bologna, dove l’accoglienza è sul pri-mo momento migliore che altrove, perché il Bo-naparte ha saputo ingraziarsi il Senato, lascian-dogli sperare prossima la realizzazione del suoantico sogno di indipendenza, i francesi hannoimmediata conferma che i sentimenti delle popo-lazioni emiliane e romagnole nei loro confrontinon sono più favorevoli di quelli trovati in Lom-bardia. Forse è anche per questo che sulle primeil Bonaparte sembra propendere per lasciare, co-sì come ha fatto a Parma e Piacenza, il Ducato diModena e Reggio al suo Sovrano, il duca Ercoled’Este, col quale anzi sottoscrive un armistizio,che prevede tuttavia, esattamente come a Parma,il pagamento di un “riscatto”, pari in questo casoa ventiquattro milioni di lire modenesi.

Ben presto però, a causa delle mene dei giaco-bini, che soprattutto a Reggio, pur restando unaridottissima minoranza, hanno più seguaci chein altre parti del Ducato estense, la situazioneprecipita e il 26 agosto viene proclamata la Re-pubblica Reggiana e impiantato nella principalepiazza cittadina l’albero della libertà.

Gli avvenimenti di Reggio segnano la sorte del-l’intero Ducato, anche se la definitiva rotturadell’armistizio con l’inglobamento ufficiale delterritorio modenese nel sistema di potere rivolu-zionario che si viene costruendo si ha solo all’i-nizio del successivo mese di ottobre (Modenaviene occupata il giorno 4).

Tanto nell’intervallo fra l’arrivo delle truppefrancesi e gli avvenimenti di Reggio quanto dopola proclamazione della Repubblica Reggiana e ladefinitiva occupazione di Modena è vivissima laresistenza alla “democratizzazione” da parte del-le popolazioni, assai più determinate del loro Du-

L’insorgenza in Emilia e Romagnadi Francesco Mario Agnoli

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ca, che già in maggio si è rifugiato a Venezia, af-fidando il governo a un Consiglio di Reggenza ela conduzione delle trattative al suo fratellastro,il conte di San Romano.

Inevitabilmente le manifestazioni, che tuttaviacoinvolgono anche le due maggiori città (Mode-na conosce un tentativo di Insorgenza il 25 no-vembre in contemporanea con quella, ben piùminacciosa, perché favorita dall’aspra natura deiluoghi, della Garfagnana), sono più forti e coro-nate, almeno sul primo momento, da maggiorsuccesso nelle campagne e nei grossi borghi delcontado, dove la neonata Repubblica può contaresolo sulle milizie giacobine non appoggiate daforti contingenti francesi, anche se nemmenoquesti si sottraggono all’ostilità degli abitanti,come accade a Sant’Ilario, dove ai primi di ago-sto vengono bastonati dai contadini sedici soldatifrancesi riunitisi a cena in un’osteria.

In realtà l’intero Ducato è in subbuglio. Rubie-ra, Gualtieri e Mirandola si dichiarano per il Du-ca. A Concordia e a San Possidonio si danno allefiamme le bandiere della Rivoluzione. Novellararifiuta di riconoscere il regime repubblicano. ABagnolo e a Scandiano vengono abbattuti gli al-

beri della libertà. A Camposanto, a Concordia e aCorreggio i giacobini giunti da Modena e da Reg-gio o, a seconda del momento, per predicarvi ilverbo rivoluzionario o per installarvi una rappre-sentanza del nuovo potere repubblicano, vengo-no allontanati a forza dal paese. Comunque icentri dove l’Insorgenza tenta di tenere testa an-che all’arrivo delle truppe sono in particolare Ca-stelnuovo nei Monti e Montealfonso. Qui gli in-sorti sono guidati dal confessore del Duca, fra’Pier Paolo Maggesi, poi condannato a morte incontumacia assieme ai suoi fratelli Giuseppe eSaverio (intanto, in attesa di rintracciarli, si ordi-na che la loro casa sia “saccheggiata e distruttasino a’ fondamenti”). Meno fortunati, non pochialtri insorgenti, caduti nelle mani dei francesicomandati dal generale Rusca, fra i quali due ra-gazzi appena diciottenni, Angelo Masotti e Gio-vanni Andrea Raggi, vengono fucilati (1).

La “democratizzazione” del Ducato modenesepone fine anche alla breve illusione indipenden-tista della Repubblica Bolognese e del suo aristo-cratico Senato. A dispetto della sua opposizioneil 16 ottobre 1796 i rappresentanti di Bologna,Ferrara, Modena e Reggio danno vita, “per la co-mune sicurezza a difesa della libertà”, alla Confe-derazione Cispadana, che si affretta a rivolgerealla Romagna, nonostante che il Bonaparte l’ab-bia lasciata con l’armistizio di Bologna allo Statodella Chiesa, un pubblico invito all’unione. Èpronta la replica dei “Popoli di Romagna ai Popo-li del Bolognese e del Ferrarese oppressi dall’au-tonoma Confederazione Cispadana”, con la riaf-fermazione della propria fedeltà al governo pon-tificio “il più soave, il più tranquillo, il più felicedi tutti i governi d’Europa” (2).

L’unione alla neonata repubblica liberamenterespinta è però ben presto imposta con la forza.La conquista dell’Emilia Romagna viene, difatti,completata (sempre con l’eccezione, nei limitiindicati, del Ducato di Parma e Piacenza) il 2 feb-braio 1797, quando le truppe pontificie, affianca-

Frontespizio della “Veridica relazione dell’in-surrezione riminese”, 40 maggio 1799.

(1) Cfr. Luca Tadolini, Contro il tricolore, All’insegna del Vel-tro: Parma, 1994. Interessante la mappa dei centri dell’In-sorgenza pubblicata a pag. 38, che evidenzia come l’opposi-zione alla Rivoluzione interessi l’intero territorio del Duca-to. Per più ampie informazioni possono essere utilmenteconsultati Massimo Viglione, La Vandea italiana, Effedieffe:Milano, 1995) e, con particolare abbondanza di notizie sulmoto di maggior rilievo, Antonio Marrazzo, “Una Vandeaestense: la Garfagnana”, in Le Insorgenze antifrancesi in Ita-lia nel triennio giacobino, Apes: Roma, 1992, pag. 103 ss.(2) Cfr. Atlante per il dipartimento del Rubicone, numeromonografico di Romagna arte e storia, 1982, pag. 36.

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te dai volontari dell’Insorgenza, sono sconfittesul fiume Senio nei pressi di Castel Bolognese inuno scontro assai più combattuto, nonostantel’assenza del comandante in capo dei pontifici,generale Colli, giunto, forse volutamente, in ri-tardo, il cattivo impiego, per inesperienza, del-l’artiglieria e il tradimento di alcuni comandantifautori delle nuove idee (in particolare il conteFrancesco Biancoli), di quanto sostenuto, consprezzante ironia, dalla pubblicistica e dalla sto-riografia giacobina, ripresa in seguito da quellarisorgimentalista, come dimostrano le rilevantiperdite patite dai francesi e, soprattutto, dalla Le-gione lombarda del generale Giuseppe Lahoz,ancora giacobino, rimasto egli stesso ferito men-tre guida i suoi all’assalto di un ponte tenace-mente difeso dai pontifici.

Anche se resiste ancora la munitissima fortez-za di San Leo (cadrà solo il 1° dicembre 1797) lavittoria francese non lascia altra scelta che la fir-ma, il successivo 19 febbraio, del Trattato di To-lentino, col quale il Papa rinuncia, oltre che allelegazioni di Bologna e Ferrara, già di fatto per-dute, a quella di Ravenna, che, unita in maggioalla Cispadana, ne segue le sorti, confluendo il 29giugno 1797 nella Cisalpina.

Sul piano territoriale un certo rilievo (anche senon così determinante come si è voluto da alcunisostenere) va riconosciuto alla distinzione fracampagna e città, non perché le classi popolariurbane siano meno avverse delle rurali agli inva-sori, ovunque invisi al popolo (ma in compensocorteggiati e adulati da non piccola parte dell’ari-stocrazia e della borghesia benestante) per l’o-stentata irreligione, i saccheggi, le depredazioni,le imposizioni fiscali e la leva militare, ma per-ché nelle città la forte presenza di truppe france-si e cisalpine riesce, se non a bloccare le manife-stazioni di questa profonda ostilità, quanto menoa contenerle, anche se tutti, e primi fra tutti inuovi amministratori delle locali municipalitàgiacobine, ne avvertono la minacciosa presenza,segnalata in particolare dagli attentati agli odia-tissimi alberi della libertà, simbolo del nuovo re-gime e del processo di scristianizzazione da que-sto messo in atto, e da gli atti ostili, non di radoviolenti, contro gli esponenti più in vista del gia-cobinismo indigeno, come l’8 dicembre 1797 ac-cade a Bologna a Giuseppe Gioannetti, nipotedell’arcivescovo Andrea Gioannetti, preso di mirada una fitta sassaiola mentre, ritto accanto al ce-lebre albero, predica il nuovo verbo democratico(lo stesso Gioannetti il 31 giugno 1798, per avereproclamato al Circolo costituzionale di Rimini

che “tutti i papi sono stati tanti Anticristi”, vienesalvato a stento dall’ira dei presenti e costretto afare ammenda con la pubblica dichiarazione diavere inteso riferirsi solo ai papi, non meglio de-terminati, che non erano stati veraci imitatoridella “pura dottrina di Cristo”).

Del resto non appena si allenta la presenza mi-litare, anche nelle città capoluogo si intensifica-no i tentativi di ristabilire il vecchio governo (ilfenomeno si accentua, come si vedrà, nel 1799).Così accade a Ravenna il 12 luglio 1796, quandoalla partenza dei Francesi, richiamati a nord dal-le esigenze della guerra con l’Austria, fanno se-guito il ritorno del cardinal legato Dugnani, ac-colto trionfalmente dalla popolazione festante,che stacca dalla carrozza i cavalli per trascinarlaa braccia fino alla residenza del legato, e il disar-mo a opera della folla della Guardia civica. Neglistessi giorni a Ferrara i componenti della muni-cipalità giacobina, consapevoli di non potersi at-tendere nulla di buono dai loro amministrati, ab-bandonano precipitosamente la città, nella quale,sollecitato dallo stesso Pio VI, rientra il vice-lega-to monsignor La Greca, ma il suo soggiorno èbrevissimo, perché ben presto giunge la notiziadelle vittorie del Bonaparte.

Con grande frequenza la protesta, quando nonpuò esprimersi con le armi, si concretizza nelletradizionali manifestazioni religiose, spesso vie-tate, sempre osteggiate da Francesi e giacobini,come la proibitissima processione del CorpusDomini, che, in attesa di sopprimerla, si vorreb-be tenere rinchiusa all’interno delle chiese, comedispongono appositi decreti, e che invece in mol-te località il popolo dei fedeli continua a portare,spesso contro la volontà di parroci spaventati epreti tremebondi, sui percorsi consueti, come,per restare al contado bolognese, avviene, tantonel ‘97 quanto nel ‘98, a Minerbio, Stiola, Porret-ta, Tolé, Casaglia e altri luoghi.

Anche a Rimini l’occasione per un tumulto,questa volta accuratamente preparato, che non sitrasforma in qualcosa di peggio solo per la pru-dente retromarcia delle autorità giacobine, è of-ferta, il 7 aprile 1799, dalla processione cittadinadella Madonna dell’Acqua, voluta dal popolo fuo-ri dell’abituale ricorrenza agostana per impetrarela fine di insistenti piogge rovinose per la campa-gna. La processione, esattamente come era acca-duto l’anno prima, viene autorizzata alla tassati-va condizione di rimanere all’interno della chiesae dell’annesso chiostro, ma quando, giunto al li-mite fissato, il parroco, che non per nulla ha pri-ma dell’inizio ricordato l’obbligo di obbedienza

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alle prescrizioni delle autorità, sempre costituiteda Dio, sicché chi le offende si ribella alla religio-ne, vorrebbe rientrare, dalla folla dei fedeli si levaun grido unanime: “Fuori la processione! VivaMaria!”, al quale seguono spinte e strattoni perquei sacerdoti che non vogliono ottemperare allavolontà popolare. La Guardia Nazionale, coman-data di vigilanza sulla piazza, si fa avanti perbloccare il corteo e l’ufficiale che la guida puntauna pistola coi cani alzati al petto del chierico,che, davanti a tutti, regge la croce, ma i contadi-ni che seguono la sacra immagine traggono dasotto i mantelli mannaie, coltelli, roncole e ba-stoni e si precipitano, gridando e tempestando,sui militi, che, terrorizzati dal numero e dalla fu-ria che li investe, si volgono a precipitosa fuga,quasi subito seguiti dallo sbalordito ufficiale, chenon ha tardato a rendersi conto dell’inutilità del-l’arma che impugna.

Altre volte (lo si è già visto per il Ducato mode-nese) l’occasione è data dall’impianto dell’alberodella libertà. A Forlì il 28 febbraio 1797, riferisceil filofrancese cronista Pellegrino Baccarini, “ca-dendo l’ultimo giorno di carnevale si vide pocheore prima dell’avemaria della sera piantato ed al-zato il tanto odiato, il tanto temuto e il tanto de-siderato albero della Libertà ... Il basso popolo siera in parte portato agli angoli della piazza e par-te radunato a complotti non solo sulla medesi-ma, ma benanche disseminato sui diversi puntidelle strade principali cominciò con urli e sarca-smi a inveire contro il nuov’ordine che si istitui-va, lo che se non produsse tragedia fu causa peraltro di uno spavento non per anche conosciuto,atteso che la cavalleria benché in poco numerourtò, calpestò e percosse di piatto i tumultuosi. Ilcapo di questi fu certo Lorenzo Bofondi, il qualeurlando e gridando come un ossesso s’inginoc-chiò co’ suoi compagni avanti la colonna situatain mezzo di questa piazza maggiore, sormontatada una statua rappresentante la Beata Verginedel Fuoco, intuonando subito le litanie. Dall’urtodella truppa a cavallo, che si era unita a quellad’infanteria, non rimasero ilesi se non per quelliche ebbero campo di rifugiarsi in qualche casa, obottega. Tutti gli altri ricevettero contusioni epercosse” (3).

Questo primo episodio, scelto fra mille altri,può apparire abbastanza modesto, ma, oltre ariuscire significativo di come il popolo avverta ilcontrasto del simbolo arboreo con la fede cristia-na, è esemplare di una infinita serie di gesti di di-sprezzo e di ogni genere di attentati contro glialberi della libertà, divenuti in ogni sommossa

uno dei primi obiettivi degli insorti, che a volte liatterrano, a volte, e a quanto sembra con mag-gior gusto, li immerdano o vi appiccano il fuoco.

Fra Rivoluzione e Controrivoluzione la guerraè, difatti, anche di simboli, considerati da en-trambe le parti carichi di significati e suggestio-ni. Se le popolazioni ce l’hanno con gli “alberi”,non per nulla letteralmente grondanti di insegnemassoniche, al punto che pressoché dappertutto,in particolare nelle ore notturne, debbono esseresorvegliati da militi armati, le amministrazionirivoluzionarie e, dove queste non hanno il corag-gio di ordinarne la rimozione, i partitanti giaco-bini prendono di mira le immagini sacre, in par-ticolare quelle dedicate alla Madonna oggetto diparticolare odio, all’epoca numerosissime nellestrade di città e di campagna. Tuttavia, mentregli insorti debbono agire di nascosto e a propriorischio e pericolo, i giacobini sanno di avere co-munque alle spalle la garanzia della forza e dellaprepotenza del potere.

Di conseguenza, se la tumultuosa indignazionedegli abitanti costringe, non appena scoperto ilmisfatto, la municipalità ravennate, timorosa chele truppe a sua disposizione non bastino a proteg-gerla dalla violenta esplosione della collera popo-lare, a ordinare l’arresto dei caporioni della squa-draccia che nella notte di lunedì 9 aprile 1798 at-terra e distrugge immagini sacre e croci marmo-ree da sempre presenti nelle vie e nelle piazzettedi Ravenna, decorso appena qualche giorno e ar-rivati in città i richiesti rinforzi, gli arrestati ven-gono prontamente liberati. Al contrario le puni-zioni per gli oltraggi agli alberi sono sempre diesemplare severità e in crescendo col passare deltempo, senza escludere la pena capitale, che il 28luglio di quello stesso anno viene, difatti, inflittaa don Pietro Maria Zanarini, parroco di S. Mariadi Varignana, località della Bassa bolognese, col-pevole di avere atterrato due alberi della libertà(secondo altri, prima due poi un terzo), impianta-ti, in evidente segno di sfida, proprio sul sagrato

(3) Pellegrino Baccarini, Storia di Forlì dal 1745 al 1850,mns. Biblioteca comunale di Forlì.Questo Lorenzo Bofondi è certamente l’operaio, la cui puni-zione viene descritta dal cronista Cortini sotto la data del 10marzo: “Questa mattina alle ore 17 hanno dato la brusca adun operaio per aver cantato le litanie in tempo che si dovevadal popolo far eviva all’Albero della libertà, che questo fatto-si, e scoperto capo di questo disprezzo fu carcerato, e questamattina con un cartello al collo sopra cui v’erano scrittequeste parole: “Per solevatore e ribelle”, sopra ad un asinocondotto ne’ quattro borghi con uno dietro vestito d’Arlec-chino con una frusta in mano”.

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della sua chiesa. Nulla di strano se si considerache il ricorso al terrore e la distruzione dell’av-versario sono caratteristiche essenziali dell’ideo-logia rivoluzionaria e che fin dal primo momen-to dell’invasione la religione rappresenta il puntodi maggior frizione, il casus belli, fra occupanti egiacobini da una parte e le popolazioni dall’altra.I primi, anche se non lo confessano apertamenteed anzi protestano, ma le parole sono continua-mente e vistosamente contraddette dai fatti, ilmassimo rispetto per la religione cattolica e nonsolo chiedono, ma esigono, punendo severamen-te i sacerdoti che si rifiutano, la celebrazione delTe Deum per solennizzare le loro vittorie con laparvenza di un consenso popolare, perseguonoun piano di radicale scristianizzazione, del restoda tempo obiettivo principale delle logge; le se-conde ne sono perfettamente consapevoli e rea-giscono con ogni mezzo, anche quando i loro pa-stori, e in particolare quelli di grado più elevato,o per preoccupazioni personali e timidezza di ca-rattere o per il timore di ritorsioni sull’interopaese, invitano alla calma e alla prudenza.

È quanto accade, quasi in contemporanea conl’occupazione, a Lugo, il più importante centrodella Bassa Romagna (all’epoca inclusa nella le-gazione ferrarese), non appena, il 30 giugno1796, vi giungono da Ferrara (occupata da unmigliaio di soldati francesi il precedente 23) duecommissari della nuova municipalità giacobina,il conte Giovanni Cremona e il dottor AntonioScutellari, incaricati di prelevare ori e argenti,pubblici e privati, per fare fronte all’enorme con-tributo di guerra di quattro milioni di lire impo-sto dai Francesi come corrispettivo del non ri-chiesto dono della libertà.

Le imposizioni fiscali, comunque denominate emotivate, non riescono quasi mai gradite alle po-polazioni anche se decise dal governo di casa, madivengono insopportabili quando vi si aggiungel’offesa a ciò che la gente ha di più sacro. A Lugofra gli altri oggetti sacri viene confiscato e avviatoalla fusione il busto argenteo di Sant’Ilaro (piùesattamente Ellero), patrono della città. I Lughe-si, profondamente offesi nei loro sentimenti reli-giosi e patriottici (sotto l’ancien régime i dueconcetti in larga parte coincidono), guidati dalfabbro Francesco Mongardini, detto il Fabbrone oil Morone, che, avendo servito nell’esercito ponti-ficio, si assume il ruolo di capo militare, dall’agri-coltore Giambattista Sassi, dai conti Matteo Man-zoni e Luigi Samaritani, dal notaio Antonio MariaRandi, recuperano la statua, subito solennementericollocata nella chiesa dei padri carmelitani, si

impadroniscono di un buon numero di fucili e,decisi a tirare dritto, pongono il loro quartieregenerale nel collegio Trisi. Intanto, approfittandodella confusione e con l’aiuto di qualche animabuona, i terrorizzati commissari ferraresi abban-donano nascostamente la città.

Nonostante le esortazioni alla calma dellagrande maggioranza del clero locale, sostenutodall’intervento del vescovo di Imola (la cui dioce-si include, oggi come allora, il territorio lughe-se), Barnaba Chiaramonti (il futuro Pio VII), che,convinto dell’inevitabile sconfitta dell’Insorgenzae della conseguente necessità di evitare una fero-ce rappresaglia, si adopera per la pacificazione sudue fronti ugualmente difficili: con gli insortiper indurli a deporre le armi, e con i Francesi,perché concedano favorevoli condizioni di resa, èintenzione degli insorgenti di non appagarsi del-la facile vittoria (per il momento non vi sonoFrancesi a Lugo), ma di cogliere l’occasione perpromuovere una generale insurrezione. Vengo-no, quindi, inviati messi nei paesi vicini per invi-tarli a prendere le armi e, anche se non tutti ade-riscono, l’incendio si estende ad Argenta, Bagna-ra, Solarolo, Cottignola, Massalombarda, Sant’A-gata, Mordano. Resta in bilico la posizione di Ca-stelbolognese, che ancora non ha digerito il pas-saggio, disposto due anni prima (1794), dalla le-gazione di Bologna a quella di Ravenna, mentresi mostra ostile Bagnacavallo, contrapposto a Lu-go da una secolare rivalità e dominato da un cetoaristocratico largamente influenzato dalle ideedei philosophes (tuttavia di lì a poco anche Ba-gnacavallo farà conoscenza dell’Insorgenza gra-zie agli abitanti del suo contado, che il 17 otto-bre entrano in città per abbattervi le insegne re-pubblicane e sostituirvi quelle pontificie).

La presenza fra gli insorgenti in posizione dicomando di rappresentanti dell’aristocrazia edella borghesia locale consente di allargare gliorizzonti, facendo comprendere che nemmenocon questi aiuti si può sperare in un successonon precario se non si coinvolge nello scontroarmato ormai inevitabile l’intero Stato pontificioe a questo scopo il 1° luglio viene inviato a Romail conte Matteo Manzoni, uno dei capi più accesie determinati dell’insurrezione.

I Francesi, che sulle prime hanno probabil-mente sottovalutato l’importanza del moto e ladeterminazione dei Lughesi, soltanto il 5 luglioinviano da Faenza un piccolo corpo di truppa, fa-cilmente vittima di un’imboscata predisposta dalMongardini, che intanto, forse per fare il verso alBonaparte, ma certamente per indicare come gli

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insorgenti aspirino solo a vivere in pace, ha as-sunto il nome di generale Buonapace.

Caduti alcuni dragoni e gli ufficiali che li co-mandano, i Francesi ripiegano su Faenza, ma in-tanto si è mossa da Argenta, proveniente da Fer-rara, una grossa colonna al comando del colon-nello Pourailly. Francesco Mongardini riesce abloccare il nemico nella zona paludosa che siestende ininterrotta a nord-est del paese e dopodue giorni di aspri combattimenti costringe ilcomandante francese, rimasto ferito, a battere inritirata, lasciando sul terreno circa duecentomorti e i carriaggi (4), mentre i Lughesi, apposta-ti dietro un alto argine, che il nemico non è riu-scito a conquistare nonostante i ripetuti assalti,ognuno dei quali è costato molti morti e moltiferiti, hanno avuto solo pochi caduti.

Tuttavia il giorno del momentaneo trionfo èanche quello della sconfitta. Lo stesso 7 luglio,terminato appena lo scontro con la colonna Pou-railly, il rimbombo del cannone annuncia la finedell’insorgenza lughese. Un forte corpo di trup-pa, proveniente da Imola al comando del genera-le Augereau in persona, ha superato la resistenzadegli abitanti di Villa San Martino, che, appostatinei fossi per ripetere la manovra riuscita qualchegiorno prima, spinti dall’impazienza hanno com-messo l’errore di aprire il fuoco sui dragoni del-l’avanguardia, così perdendo il vantaggio dellasorpresa. I cannoni fanno il resto e la città (all’e-poca le sue dimensioni sono all’incirca equiva-lenti a quelle di Ravenna e il comprensorio agri-colo che le gravita intorno è particolarmente flo-rido, sicché Lugo è sede di un celebre mercatoannuale) viene sottoposta ad uno spietato sac-cheggio, nel corso del quale vengono uccisi nonpochi abitanti, non bastando a salvarli le suppli-che e gli interventi diplomatici del vescovo diImola, che arriva a mettere di mezzo l’incaricatodi affari del governo spagnolo.

Si è indugiato sull’insorgenza lughese per lesue particolari caratteristiche di rivolta urbana,che vede riunite contro l’invasione giacobina tut-te le componenti della società locale, caratteristi-che accentuate dal tentativo, non presente in al-tri episodi connotati da un maggiore localismo,di coinvolgere nello scontro l’intero Stato ponti-ficio, sicché non del tutto a torto, anche se conqualche esagerazione, il generale Augereau, oltreche parlare di “Vandea d’Italia” (in questo perio-do agli occupanti accade spesso di dovere rievo-care in Italia la guerra vandeana), può, nel suorapporto al Direttorio parigino, definire la massadegli insorti, armati sì di schioppi e carabine da

caccia, ma anche di falci e forconi, “Armata Apo-stolica” (5).

Tuttavia, pur se in certo senso esemplare dellacompattezza di una comunità urbana ancora for-temente permeata di spiriti cristiani, questa In-sorgenza (che presenta - non è fuori luogo sotto-linearlo - pur nelle sue più ridotte dimensioninotevoli punti di contatto con quella veronesedel 1797 - le famose “Pasque” -, anche per il con-sapevole tentativo di trasformare una insurrezio-ne locale in una guerra antifrancese di tutto loStato) non è un episodio isolato e troverà nume-rosi imitatori (pressoché contemporanei i motidi Argenta, Cento e Pieve di Cento, paesi partico-larmente irrequieti, come si vedrà anche nell’In-sorgenza, questa volta pressoché generale, del1799) dopo essere stata, a sua volta, preannun-ciata e in certo qual modo preparata (in questi

Indigestione dei commissari francesi. Incisioneanonima, 1799

(4) V. Fiorini, Catalogo illustrativo dei libri, documenti edoggetti esposti dalle provincie dell’Emilia e delle Romagnenel Tempio del Risorgimento italiano, Bologna, 1897.(5) Sulle vicende dell’insorgenza lughese, di particolare inte-resse Alfonso Lazzari, La sommossa e il sacco di Lugo nel1796, ripubblicato a cura della Cassa di Risparmio e dellaBanca del Monte di Lugo, Faenza, 1996.

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anni tumultuosi le notizie si diffondono con lastessa rapidità delle fiamme sospinte da fortiventi nei periodi di siccità) da quanto accadutoqualche giorno prima a Ravenna, Cesena e Forlì.

Nonostante l’editto di Pio VI (del resto pubbli-cato in ritardo), che prescrive di non opporre re-sistenza alle truppe francesi e ordina “ad ognibuon cattolico e suddito ... di non eccitare il po-polo a rumore”, a Forlì il 24 giugno 1796 (siamo,quindi, al momento iniziale dell’invasione, ottomesi prima dell’impianto dell’albero della libertàe delle litanie riparatrici guidate dall’operaio Lo-renzo Bofondi) “moltissimi operai stavansi inpiazza (essendo giorno festivo). Parte amareggia-ti per aver visto a giungere dai Francesi, del cuiprocedere avevano inteso mille cose in contrario,e parte pentiti di aver depositato le armi, comin-ciarono a borbottare tra di loro e dire: quale viltàabbiamo commesso noi mai? Ripariamoci. An-diamo a riprendere le nostre armi, che più tar-diamo, andiamo, andiamo!”, finché, decisi a ria-verle, corsero al palazzo pubblico, dove eranostate depositate, “atterrarono le porte, entrarononella grande stanza e fra gli urli, le bestemmie ele grida ne presero quante ne vollero”. Tuttavia,essendo intanto partito l’Augereau alla volta diFaenza, il clero e l’aristocrazia cittadina ebberomodo di calmare i bollenti spiriti e di evitare loscontro armato, per timore del quale, “vedutasidagli abitanti di Forlì la partenza del generalefrancese, osservata la città tutta via in preda allaribellione, nel timore che in tal frangente arri-vassero truppe (quali, se mai fossero giunte, sisarebbero attaccate coi rivoltosi, e ne sarebbe na-to crudele massacro) abbandonarono quasi tuttile proprie abitazioni, e tanto nobili che cittadinisi ritirarono ai loro casini di campagna” (si trattaevidentemente di ricchi e benestanti, assai piùpreoccupati delle turbolenze popolari che del-l’occupazione francese).

L’iniziativa pacificatrice viene presa da uno deipiù ragguardevoli e benvoluti personaggi cittadi-ni, il marchese Fabrizio Paulucci, che, accordato-si col vescovo, l’anziano e tremebondo monsi-gnor Mercuriale Prati (di lì a poco sarà pratica-mente esautorato da una Giunta ecclesiasticacomposta di sacerdoti contagiati dall’eresia gian-senista e, quindi, favorevoli alle idee nuove, comeil canonico Albicini e don Gelpi (6), “mandò achiamare tutti i Parrochi della città e gli incom-benzò a portarsi dai sollevati all’oggetto di esor-tarli al buon ordine e nel tempo stesso a dirgliche si recassero da lui che voleva parlargli ... Fi-nalmente dopo un’ora e mezza di preghiere, tre

dei più facinorosi, carichi già d’armi da capo apiedi, rivolsero i passi verso la chiesa di S. Mercu-riale ed entrarono nel palazzo Paulucci” (7), dovecon buone parole ed elargizione di denaro si la-sciano per il momento persuadere a deporre learmi.

Altrettanto avviene a Ravenna, dove l’aristocra-zia e i cittadini abbienti hanno consumato tuttoil loro coraggio quando, il 26 giugno, le autoritàcittadine, i Savi, rispondono, suscitandone le ire,al generale Augereau, che gli annuncia solenne-mente di essere venuto a portare la libertà e gliingiunge di dichiarare se preferiscono essere li-beri o soggetti al Papa, di non avere di che doler-si del suo buon governo e di essere, quindi, in-tenzionati “di allontanarsi dall’obbedienza del le-gittimo Sovrano sol quando dalla forza vi fosseroastretti”.

Anche qui i ceti popolari urbani e gli abitantidel contado sono meno disposti dei maggiorenti,laici ed ecclesiastici, ad accontentarsi delle paro-le. Il 28 giugno ai borghigiani di porta Adriana,già in subbuglio per la rimozione delle insegnepontificie, si uniscono i terrazzani di Alfonsine,Santerno, Glorie, Mezzano, Piangipane, conve-nuti a Ravenna a seguito dell’ordine di consegnadelle armi da fuoco, e tutti insieme, avendo ap-preso che dopo la partenza dell’Augereau sonorimasti in città appena trenta dragoni agli ordinidel commissario di guerra Franceso Deschamps,decidono di sbarazzarsene nel più violento e defi-nitivo dei modi. A dissuaderli, quando già stannomarciando verso il centro urbano, intervengonoil marchese Camillo Spreti, nelle grazie popolariper le sue idee legittimiste e filo-imperiali (nel1799, dopo la liberazione di Ravenna a seguitodelle vittorie austro-russe, sarà posto a capo dellaReggenza Provvisoria) e l’arcivescovo AntonioCodronchi, accompagnato in solenne corteo datutti i canonici del duomo. Lo scopo è raggiunto,ma non manca “chi ebbe l’ardire di spianare loschioppo contro l’arcivescovo e contro i canoniciche li stavano di fianco”(8).

Si tratta di scontri e contrasti che non vanno

(6) Cfr. La “scheda” del curatore D. Mengozzi al diario delcronista don Francesco Cortini, nel già citato L’Ottantanovein Romagna, pag.107. (7) Giuseppe Calletti, Storia della città di Forlì, mns. Biblio-teca comunale di Forlì, riportato in Atlante per il diparti-mento del rubicone, numero monografico di Romagna artee storia, 1982, pagg. 15 s.(8) A. Corlari - P. Rasi, Giornale ravennate, mns. Bibliotecaclassense, Ravenna.

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sottovalutati, dal momento che rappresentanocon ogni probabilità la prima occasione di queldistacco fra la popolazione e la gerarchia eccle-siastica, che, abilmente sfruttato dalla propagan-da rivoluzionaria svolta in particolare dalle loggemassoniche, che proprio in questi anni si inse-diano in Romagna, si approfondirà e ingigantiràa dismisura nel secolo successivo fino ad appro-dare al deserto spirituale della scristianizzazione.

In seguito (ma già lo si è visto con l’episodioriminese, che tuttavia si colloca oltre due annipiù tardi, in un momento poco favorevole alle ar-mi francesi e, quindi, più propizio) nemmeno lasconfitta del Senio e l’armistizio di Tolentino val-gono a riportare la calma, perché, come non ci sistanca di sottolineare, essendo questa l’indispen-sabile chiave di lettura dell’Insorgenza (9), le po-polazioni hanno intuito (ovviamente a vari livellidi consapevolezza) la natura essenzialmente an-ticristiana e, con particolare virulenza, anticatto-lica, della Rivoluzione, per cui sono consapevoliche questa volta non si tratta soltanto di sostitui-re un sovrano a un altro in un immutato quadrodi sostanziale “legittimità” (10), ma che è in giocola propria fede religiosa, il che all’epoca significail proprio modello di vita, il proprio mondo, ilproprio modo di essere uomini.

Per questo non solo le sconfitte e le rappresa-glie non spezzano lo spirito di resistenza, ma ca-dono nel vuoto le esortazioni alla pace, alla tran-quillità, all’obbedienza pressantemente rivolte aifedeli dai vescovi, che impongono ai parroci di ri-peterle durante la Messa, affinché, come scrivenel marzo ’97, in occasione dell’Insorgenza di Ta-voleto, il vescovo di Cesena, cardinal Bellisomi,“gli ignoranti non pensino di rendere onore a Dionel disprezzare gli ordini di quelli ai quali Eglistesso ha voluto sottoporli”. Non migliori risulta-ti ottiene il vescovo di Sarsina, monsignor NicolaCasali, a quanto si deduce da una lettera da lui di-retta alle autorità giacobine per scusarsi di nonessere riuscito ad impedire il proibitissimo suonodelle campane, nonostante la buona volontà e lacollaborazione dei parroci, per il vero tutt’altroche garantita, versosimilmente perché il bassoclero si sente più vicino ai sentimenti popolari, agiudicare da quanto scrive proprio a monsignorCasali Don Domenico Minotti, arciprete di Ran-chio: “Posso assicurarLa che in questi Popoli seb-ben rozzi, ignoranti e miserabili sta ben radicatala vera Fede, e in essa si protestano morir volen-tieri e di questo mi consolo e mi glorio”.

Il trattato di Tolentino è stato appena firmatoed ecco che agli inizi del mese di marzo esplode

l’intera zona appenninica e pedemontana dal ce-senate al riminese, e oltre, dal momento che ècontemporaneamente in armi tutta la parte set-tentrionale della regione marchigiana, dove sitrova, a poche centinaia di metri dal confineemiliano-romagnolo (ed in realtà alla Romagnaaccomunato dalla lingua e dai costumi), il paeseche passerà alla storia come il principale centrodell’Insorgenza (alla quale dà il nome), la piccolacomunità montana di Tavoleto, al cui parroco,don Luigi Galluzzi, i francesi attribuiscono, pro-babilmente almeno in parte a torto, il ruolo dipromotore di una delle più violente e determina-te Insorgenze del periodo, che coinvolge Sarsina,Mercato Saraceno, Montecastello, Ciola, San Ro-

(9) Significativamente del tutto opposta l’interpretazionedella storiografia marxista, che, caduto il muro del silenzioche aveva condannato il grande fenomeno popolare dell’Isor-genza alla damnatio memoriae, da ultimo, pur non conte-standone più la realtà (perfino questa era stata sostanzila-mente negata) e l’importanza, cerca di frammentarlo in epi-sodi alimentati da cause e motovazioni diverse e, soprattut-to, di escludere quella religiosa. esemplari di questa tenden-za i saggi apparsi, prima di essere raccolti con qualche va-riante in un volume “da libreria”, nel quaderno di aprile-giu-gno 1998 di Studi storici, la rivista trimestrale dell’IstitutoGramsci, sotto il titolo Le insorgenze popolari nell’Italia ri-voluzionaria e napoleonica. Così, nel saggio introduttivoAnna Maria Rao sostiene che “le insorgenze nell’Italia rivo-luzionaria e napoleonica presentano comunque come trattogenerale una episodicità e una mancanza di unitarietà” (pag.343), mentre Gian Paolo Romagnani, dopo avere (bontà sua)attribuito all’insorgenza vandeana motivazioni anche reli-giose, afferma del tutto apoditticamente: “ma se la compo-nente ideologica (e religiosa) è piuttosto forte nel caso dellaVandea e delle altre rivolte controrivoluzionarie francesi, inItalia prevalgono gli aspetti materiali ed economici” (pag.396).(10) Occorre tenere presente che i termini di “legittimità” e“legittimismo” vanno riferiti non tanto al legittimismo dina-stico, alla fedeltà al Sovrano, pur se anche questo sentimen-to è all’epoca presente e importante, ma soprattutto, al rap-porto (e alla volontà di mantenerlo come presupposto neces-sario e irrinunciabile di un giusto governo) che deve inter-correre fra religione e potere politico, che viene da Dio e, diconseguenza, non ha natura assoluta, ma deve mantenersi,sia nel suo concreto esercizio, sia, e soprattutto, nei suoipresupposti teorici, nel quadro di leggi superiori, che nonpossono essere modificate né dall’assoluto regio né dal votodemocratico della maggioranza.L’imperdonabile colpa della Rivoluzione consiste, appunto,nell’avere negato, prima ancora nelle affermazione di princi-pio che nei fatti, l’esistenza di questo intangibile quadro dileggi superiori, che, difatti, una malintesa democrazia fa di-pendere anch’esse dai voleri della maggioranza. È significa-tivo che Madame de Stael, né legittimista né devota figliadella Chiesa, abbia individuato la vera mostruosità del poteredi Napoleone proprio nel fatto che con lui, per la prima vol-ta, un governante si è sentito sciolto da qualunque vincolosuperiore.

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mano, Bertinoro e molti altri paesi della Roma-gna e della zona di confine fra questa e il Monte-feltro, fra i quali Sogliano, che dà all’Insorgenzaben 500 uomini guidati da Gioacchino Tornari,un paesano noto in tutta la zona per la sua forzae il suo coraggio.

Il moto, che si estende fino al mare, coinvol-gendo Gatteo, Cesenatico e Cattolica, è tanto im-portante che il 26 marzo i giacobini di Cesena,temendo un assalto alla città e per nulla sicuridelle convinzioni democratiche dei loro concitta-dini, non per nulla accorsi l’anno precedente adappoggiare l’Insorgenza forlivese, poi bloccatasul nascere dall’intervento del marchese Pauluc-ci, scrivono alla Giunta di Difesa Generale di Bo-logna che “la Vandea della Francia sembra rina-scere sulle nostre vicine montagne”, i cui abitan-ti si mostrano animati da un odio “in singolarmodo rivolto contro i francesi”, sicché le rapinedi cui si rendono responsabili hanno per oggettosoprattutto “gli effetti che appartengono alla Re-pubblica”.

Puntuale anche il riconoscimento delle moti-vazioni religiose di questa Insorgenza. Difatti igiacobini, pur sostenendo la tesi (probabilmenteimmaginaria, dal momento che non se ne trovaconferma in altre fonti) della presenza di duecorrenti politiche (ovviamente i giacobini, per iquali si tratta di briganti, parlano di “due ban-de”), una delle quali favorevole al ritorno del Pa-pa, l’altra contraria tanto alla Repubblica quantoal Papa e mirante ad “erigersi in sovranità indi-pendente”, aggiungono: “Tutti però gli individuidelle due bande professano la più alta divozionealla Beata Vergine”, specificando poi che si trattadi fanciulli, giovani e vecchi, “coraggiosi fino allatemerità”.

Dopo le ripetute sconfitte delle truppe civichemesse in piedi dalle municipalità giacobine (intutti questi scontri quasi mai i Civici, le Guardienazionali e i Cisalpini quando non sono affianca-ti dai Francesi riescono a contrastare valida-mente gli insorti, probabilmente perché nonconvinti a sufficienza della bontà della causa chedovrebbero difendere), alla fine di marzo i gene-rali Sahuguet e Chambarlach muovono da Cese-na al comando di una colonna composta di al-meno un migliaio di uomini fra francesi, cispa-dani e sbirri (sulle cifre esistono contraddizionianche non piccole fra le fonti) e il 31 marzosconfiggono a Sant’Arcangelo e a Morciano ipaesani, che dopo una breve resistenza preferi-scono, di fronte alla disparità delle forze, ritirar-si nei boschi.

Risalendo la valle, i francesi prendono Tavole-to, dato alle fiamme dopo essere stato sottopo-sto, come di prammatica, al saccheggio, nel cor-so del quale non mancano, accanto alle rapine ealle uccisioni, gli atti sacrileghi (le sacre parti-cole sono disperse per le strade e una collocata,in segno di dileggio, fra le labbra di un chiericoucciso).

L’episodio bellico è modesto, perché anche aTavoleto gli insorti preferiscono ripararsi nei bo-schi, ma il Sahuguet, gradasso e vanitoso comela maggior parte dei comandanti repubblicani,non rinuncia a ingrandire la propria vittoria ecosì scrive il 1° aprile al vescovo di Urbino, colquale si trova, pare, in buoni rapporti: “Sono sta-to obbligato di far marciare delle truppe sopraTavoleto per sterminare gli abitanti, e bruciare ilvillaggio. Codesti miserabili, ingannati dal lorocurato, erano discesi nel piano e si erano stabilitialla Cattolica per assassinare e svaligiare tutti iviaggiatori. Li ho fatti inseguire, molti ne sonostati uccisi a Morciano e fortunatamente ho tro-vato gli altri al Tavoleto, dove si erano trinceratie fortificati; si sono difesi per un momento, maben presto gli assassini e le loro tane sono statiridotti in cenere. Suppongo che il curato Galluz-zi sia stato bruciato con gli altri nel villaggio.Cotesto scellerato aveva fatto traviare tutta la suaparrocchia predicando al popolo l’omicidio e ilsaccheggio. Aveva affisso sulla porta della chiesaun manifesto incendiario”.

In realtà il parroco è riuscito a scamparla e ilsacerdote perito fra le fiamme è un vecchio pre-te semicieco, cui le infermità hanno impedito lafuga.

Per effetto della pace europea seguita al tratta-to di Campoformio, nel triennio giacobino il1798, contrassegnato dalla proclamazione, il 15febbraio, della Repubblica romana e dall’esilio(20 febbraio) di Pio VI, è, nell’Italia settentriona-le (Roma e le regioni centrali dello Stato dellaChiesa sono invece sconvolte dalle Insorgenze,che accompagnano, da febbraio ad agosto, laproclamzione della Repubblica romana, anchequi tanto violente che un generale francese, ilThiéboult, scrive al Direttorio c’est absolumentla Vendée), un anno di relativa tranquillità. Tut-tavia, se sono modesti gli episodi di veri e propriscontri armati soprattutto nelle città, dove“l’imponente presenza di truppe francesi costi-tuì sempre un insuperabile impedimento allosviluppo di risposte violente da parte della popo-lazione”, come scrive per Ferrara Valentino Saninel suo saggio pubblicato nel già citato fascicolo

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dell’insospettabile rivista dell’IstitutoGramsci (11), prosegue dovunqueuna sorda opposizione, alimentatanel corso di tutto il 1798 anche dalrifiuto di molti funzionari pubblici diprestare il giuramento imposto dauna legge approvata il 16 dicembre1797 dal Corpo legislativo della Cisal-pina secondo la seguente formula:“Io giuro inviolabilmente osservanzadella Costituzione, odio eterno al go-verno dei re, degli aristocratici e delleoligarchie, e prometto di non soppor-tare mai nessun giogo straniero e dicontribuire con tutte le mie forze alsostegno della libertà e della egua-glianza, e al la conservazione e pro-sperità della Repubblica”.

Formula contraddittoria politica-mente, perché coloro stessi che la im-ponevano non solo sopportavano, mafavorivano la subordinazione della Ci-salpina agli occupanti francesi, e av-versata soprattutto per motivi religio-si, dal momento che, come insegna-vano molti vescovi anche non ostilialle nuove idee e predicavano i parro-ci dal pulpito, “l’odio eterno” versochiunque è in radicale contrasto conla religione dell’amore predicata da Cristo.

Se questa permanente avversione si esprimenel corso del 1798 soprattutto attraverso la man-cata collaborazione con le autorità giacobine (12),non mancano comunque gli attentati agli alberidella libertà e alle altre insegne del potere repub-blicano, seguiti da condanne alla pena capitale,che, se da un lato intimoriscono, dall’altro esa-cerbano gli animi, o, per i fatti più lievi (eviden-temente non rientrano fra questi ultimi gli at-tentati agli alberi, se viene promessa una tagliadi lire 1000 milanesi solo per ottenere informa-zioni “sul delinquente”, che a Bologna ha “tenta-to di mettere fuoco all’albero della libertà”) a pe-ne detentive come i cinque anni di carcere inflit-ti all’orefice bolognese Zambonini, accusato diavere criticato la Repubblica (va peggio - ma sia-mo già nel ‘99, non per nulla definito “l’anno ter-ribile” - al suo concittadino Luigi Cocchi, fucila-to perché porta sul petto la coccarda imperiale).

È appunto il 1799 a segnare l’esplosione di unaserie infinita di moti d’insorgenza, la cui con-temporaneità rende arduo, anche per gli storicipiù ostinati, il compito di negarne l’unitarietàideologica e motivazionale.

Nonostante che si apra con l’invasione delGranducato di Toscana e la costituzione della Re-pubblica napoletana, che completano la conqui-sta rivoluzionaria dell’intera penisola, è questol’anno della sconfitta francese e della fuga deiquisling giacobini, sul momento sperate e credu-te definitive dalle popolazioni liberate e, perquanto riguarda l’Emilia-Romagna (e la Lombar-dia), della caduta della Cisalpina, dovuta soprat-tutto alle vittorie degli austro-russi guidati dalgenerale Aleksandr Vasil’evic Suvorov, ma favori-ta dalle insurrezioni popolari, che, come avvienenell’intero periodo dell’occupazione francese,riesplodono irrefrenabili a ogni sia pur momen-taneo allentarsi della morsa o al giungere di no-tizie che fanno rifiorire la speranza.

Nella primavera di questa fine di secolo non viè in pratica città, paese e borgata che non vantialmeno un episodio di Insorgenza (dappertutto

Il democratico stordito e disperato. Incisione anonima , 1799

(11) pag. 479.(12) Lo stesso Sani parla, sempre con riferimento a Ferrara,ma la considerazione è estensibile agli altri capoluoghi dellaregione, di “caratteristica combinazione fra resistenza passi-va e apatica dissidenza” (pag. 481).

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uno dei primi bersagli continua ad essere, comeè accaduto fin dal principio, l’odiatissimo alberodella libertà, contraltare della croce di Cristo),ma spesso più di uno, perché la marcia degli Im-periali procede lentamente e a macchia di leo-pardo, sicché i Francesi, non ancora rassegnati,hanno tempo e spazio per ritorni offensivi, checostano alle popolazioni processi sommari, mortie saccheggi.

Fra la fine di marzo e i primi d’aprile la notiziache gli Austriaci sono sull’Adige infiamma, algrido di “Viva Francesco II”, il Polesine, l’altoFerrarese e tutta la zona sulle due rive del Po,sicché ben presto la stessa città di Ferrara si tro-va isolata da Bologna e con tutte le vie di comu-nicazione tagliate dagli insorti, che controllanola vasta distesa circostante di pianeggiante cam-pagna e di valli paludose e tuttavia non in grado,per la mancanza di artiglieria, di assaltarne lemura, entro le quali si è rinchiusa fin dal 30marzo.

Se il capoluogo risulta per il momento im-prendibile e occorre attendere fino al 23 maggiol’arrivo degli imperiali, diversa è la situazionedei paesi e dei grossi borghi che punteggiano lapianura e la costa in direzione di Bologna e diRavenna.

A Cologna il commerciante Valeriano Chieratisi mette a capo di una schiera di volontari e,ovunque trionfalmente accolto, marcia su Cop-paro, Villanova, Sabbioncello, Migliarino, Ostel-lato, Portomaggiore fino a giungere, il 13 aprile,ad Argenta, dove però tre giorni dopo viene sor-preso dall’inatteso ritorno in forze dei giacobinie imprigionato con molti suoi compagni fino alsuccessivo 22, quando tutti vengono rimessi inlibertà dagli insorti, che, impadronitisi nel frat-tempo dell’importante località rivierasca di Pon-telagoscuro, costringono i repubblicani a lasciaredefinitivamente il paese.

Cento, liberata il 17 aprile, viene ripresa il 19da un migliaio di “nazionali” al comando del co-lonnello Trippault dopo un furioso combatti-mento, al quale prende parte, fra le fila repubbli-cane, il poeta Ugo Foscolo (sulla strada del ritor-no i nazionali bolognesi sconfiggono anche gliinsorgenti di Finale e fucilano sul posto il lorocomandante, Costanzo Vandalini). Questa vitto-ria serve ad alleggerire per il momento la pres-sione su Bologna, seconda città, dopo Milano,della Cisalpina, e principale punto di raccoltadelle truppe francesi in Emilia-Romagna, ma in-tanto la controrivoluzione si è estesa dal Ferrare-se a tutto il Ducato estense, dove le colonne dei

comandanti francesi Puthod e Lieboult vengonobattute dai sollevati a Camposanto e a San Feli-ce. Il 3 maggio gli imperiali del barone Wessele-ney entrano a Reggio e il 4 quelli del barone Bu-day a Modena.

Nonostante questi avvenimenti, che estendonoai dipartimenti cisalpini a sud del Po quanto giàavvenuto a quelli della sponda settentrionale(Milano cade il 28 aprile), il generale Montri-chard, comandante il fianco destro dell’Arméed’Italie, non dispera di riuscire ancora a guada-gnare la partita grazie al rinforzo delle truppeguidate dal generale Macdonald, che, in ritiratada Napoli, dove hanno abbandonato al loro desti-no la Repubblica Partenopea, stanno rapidamen-te risalendo su due direttrici, una tirrenica e unaadriatica, la penisola. Di conseguenza, pur te-nendosi aperte delle vie di ritirata tanto in dire-zione del Piemonte, ancora in mano francese,quanto della Romagna e delle Marche, dove con-ta di riunirsi alle colonne in ritirata dalla Pugliae dagli Abruzzi se queste non arriveranno intempo a soccorrerlo, concentra le sue forze in-torno a Bologna, sicché gli insorgenti, dopoaverne raggiunto i sobborghi con la conquista diLavino, avvenuta il 22 maggio, debbono, una vol-ta di più a causa della cronica mancanza di arti-glieria, attendere per entrarvi il 30 giugno, quan-do la città capitola nella mani degli Austriaci.

I principali protagonisti di questa convulsa fa-se della presenza francese in Emilia-Romagnasono sugli opposti fronti, oltre naturalmente alSuvorov e al Montrichard, il generale GiuseppeLahoz (13) e l’Aiutante generale Pierre AugustinHulin.

Il primo, milanese di lontane origini spagnole,già ufficiale austriaco di guarnigione a Milano,passato poi alla Cisalpina e distintosi, al coman-do della Legione lombarda, nella battaglia del Se-nio del 2 febbraio 1797 e successivamente nellarepressione dell’Insorgenza veronese, approfittadell’incarico di riorganizzare l’esercito cisalpinoormai a corto di combattività ricevuto dal Mon-trichard per mettere in piedi, fra la fine di aprilee i primi giorni di maggio, un tentativo di rivoltaantifrancese nei dipartimenti già cispadani (inparticolare, ormai perdute Reggio e Modena, delReno e del Rubicone) con la collaborazione di al-cuni colleghi indicati poi dalla storiografia comeappartenenti alla società dei Raggi tanto segretada fare ancora oggi dubitare della sua effettiva

(13) Si trova spesso anche la forma La Hoz ovvero de La Hoz.

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esistenza (14) (fra questi il general Domenico Pi-no, comandante delle truppe cisalpine nei dipar-timenti del Crostolo e del Panaro, che però, co-me altri supposti appartenenti ai Raggi, rientreràben presto nei ranghi, raggiungendo nelle Mar-che il Montrichard, che vi si è nel frattempo riti-rato, e convincendolo di essere stato sorpresonella propria buona fede).

Sulle prime i congiurati tentano di utilizzarela loro qualità di comandanti cisalpini, che gliconsente di disporre di uomini e armi e di pre-sentarsi come i più autentici e puri fra i repub-blicani, ai cui ideali si appellano, impiegandoneil linguaggio rivoluzionario nei proclami al po-polo diffusi in particolare a Bologna e nelle cittàdella Romagna. Così il Lahoz, lasciata il 3 mag-gio Bologna a causa dell’avvicinarsi degli Au-striaci, coi quali ha probabilmente preso accordiche non possono essere svelati pena il fallimentodel piano (15), è sempre in nome di questi idealiche da Forlì dichiara il dipartimento del Rubico-ne in stato d’assedio e conseguentemente esauto-ra la Centra le giacobina, i cui poteri vengonotrasferiti al generale Pino.

Un’operazione troppo arrischiata, che inso-spettisce il Montrichard, il quale, mangiata la fo-glia, dichiara decaduti dal comando tanto ilLahoz quanto il Pino, sostituendoli col generaleHulin. Abbandonato anche dal Pino, ributtatosi,come si è detto, fra le braccia dei Francesi proba-bilmente per il timore ispirato gli dall’imminen-te arrivo dell’armata del Mac Donald, il Lahozdeve ripiegare su Rimini e dichiararsi aperta-mente per l’Insorgenza per passare poi nelleMarche, dove, a Montegallo, con la benedizionedel cappuccino Donato De’Donatis, più noto co-me generale dei Colli, si unisce agli insorgentidel capo-massa Giuseppe Cellini, uscendo cosìdall’ambito territoriale dell’Emilia-Romagna, manon dalle vicende dell’Insorgenza, nella quale as-sume anzi un ruolo di primo attore, divenendo-ne il principale capo militare nell’Italia centralee infliggendo in questa veste ripetute sconfitte aiFrancesi, costretti a rinchiudersi nelle mura diAncona, sottoposta a un sempre più stretto asse-dio nonostante le difficoltà conseguenti allamancanza di un adeguato parco di artiglieria,che sarà fornito dagli Austriaci del generaleFroelich soltanto il 2 ottobre, pochi giorni primadella morte del Lahoz (mortalmente ferito sulcampo di battaglia il 10 ottobre).

A sua volta l’Aiutante generale Hulin, assuntoil ruolo di sostituto e antagonista del Lahoz e dipromotore della repressione dei moti popolari, si

distingue immediatamente per determinazionee ferocia (16). Se fallisce, e si morde le mani, nelcompito di arrestare il suo predecessore, rioccu-pa San Giovanni in Persiceto, dove alla uccisio-ne del capo degli insorti, il sessantottenne mar-chese Luigi Davia (un filo-francese seguace dellenuove idee pentito), portatogli dinnanzi già gra-vemente ferito in combattimento, fa seguire ilsaccheggio e un vero e proprio bagno di sangue.Il 18 maggio si precipita a Lugo. Qui il conteMatteo Manzoni, uno dei principali capi dell’In-sorgenza del ‘96, ha abbattuto i simboli repub-blicani e alzato lo stendardo imperiale, per effet-tuarvi una effimera riconquista, che nonostanteil rapido susseguirsi degli avvenimenti gli lasciail tempo di fucilare 16 presunti insorgenti (sitratta in realtà dei primi disgraziati capitati sot-tomano ai soldati), mentre altri cinquanta, sem-pre contadini raccolti a casaccio e rinchiusi inattesa di analogo destino, vengono salvati all’ul-timo momento dall’intervento del vescovo diImola, il cardinale Chiaramonti e, forse soprat-tutto, dalla necessità di accorrere in tutta fretta,appunto, a Imola, dove, il giorno 20, il presidio

(14) Tutte o quasi le notizie, assai vaghe, che se ne hannosembrano risalire direttamente o indirettamente a CarloBotta.(15) È opportuno chiarire che non esistono o comunque nonsono stati rinvenuti documenti comprovanti tali accordi. Sitratta, quindi, solo di una ragionevole supposizione, fondatasui successivi avvenimenti, che vedono il Lahox non solocollaboratore con gli insorgenti marchigiani, presso i qualisi è rifugiato, ma assumerne il comando non solo di fatto,ma, per così dire, ufficialmente, a seguito dell’investitura delgenerale Suvorov, che lo nomina comandante in capo del-l’insorgenza italiana. Tuttavia non è nemmeno esatto quantoaffermato, in un momento storico di rivalutazione dell’In-sorgenza in chiave nazionalista, nel suo Il generale La Hoz eil suo tentativo indipendentista (Macerata: 1933 pag. 7 s.),da Domenico Spadoni, che sulla base delle pur frammentarie(come da lui definite) informazioni ottenute dall’Osterrei-chisches Kriegearchiv, esclude per il pronunciamento nelRubicone “il supposto fatto da qualche storico, fra cui l’egre-gio amico prof. Soriga, che l’infelice suo tentativo indipen-dentista fosse ordito d’intesa con la Corte di Vienna”, una in-tesa che, se esistente, macchierebbe, secondo il nazionalistaSpadoni, “la memoria del generale La Hoz di un’ombra sini-stra”. È, difatti, certo che, quanto meno da un certo momen-to in poi la Corte di Vienna prese in serio esame la possibi-lità, poi non realizzata per la morte dell’interessato, di rein-tegrare il La Hoz nel proprio esercito, come risulta anche daun’informativa del maggiore generale Skal al Consiglio diGuerra in Vienna, riportata dallo stesso Spadoni (op. cit.,pag. 87, nota 1).(16) Anche in futuro darà prova di queste caratteristiche, cheindurranno il Bonaparte a servirsene per le sue operazioni“sporche”, facendogli presiedere il “tribunale” incaricato dicondannare a morte il duca d’Enghien.

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repubblicano è stato sconfitto dai montanari diFontanelice, Castel Del Rio, Casola Valsenio eBrisighella guidati da Antonio Lombardi di Tos-signano, ribattezzato col nome di guerra di ge-nerale della Croce.

Questa volta la ferocia di Hulin, che pone agliarresti il comandante francese della piazza, gene-rale Dubois, e vorrebbe fare altrettanto col capodella Chiesa imolese, lo mette in urto con la stes-sa Municipalità giacobina, che, fin troppo consa-pevole della precarietà di questi successi e ansio-sa di farsi perdonare dal prossimo vincitore i tra-scorsi repubblicani (e in effetti al momento buo-no il Chiaramonti interverrà a favore dei suoicomponenti), si rifiuta di procedere all’arresto esi offre di mettere in salvo, facendolo accompa-gnare per la via dei monti in Toscana, il cardina-le, che tuttavia rifiuta, riuscendo comunque a di-scolparsi dall’accusa di intese con il generale del-la Croce.

Se perdona a un vescovo per di più in fama digiacobino dopo la famosa omelia “democratica”pronunciata la notte di Natale del 1797 (17), Hu-lin non intende risparmiare né chi ha preso learmi né le popolazioni che gli assicurano il so-stegno senza il quale ogni ribellione sarebbe im-possibile, e il 24 maggio, alla testa di una colon-na forte di 1.200 soldati e quattro cannoni, mettea ferro e fuoco il piccolo comune di Tossignano,patria di Antonio Lombardi e principale centrodegli insorgenti, che, “trovandosi ad armi impari(praticamente fucili da caccia contro carabine ecannoni) abbandonano il campo, dileguandosifra i monti”, mentre restano nella polvere i cada-veri di trentasei civili, le case sono abbruciate el’arciprete Camerucci e alcuni maggiorenti ven-gono condotti in catene ad Imola (18).

La notizia che gli Imperiali hanno preso Ferra-ra e marciano su Lugo già ripresa dai “volontariimperiali”, come adesso si definiscono gli insor-genti lughesi, dopo la partenza dell’Hulin, che halasciato nella fortezza una guarnigione di ottantapiemontesi (il 29 maggio anche questi cedono learmi), costringe però i Francesi a ripiegare suBologna, provocando l’immediata insurrezionedegli Imolesi, che, rassicurati dall’arrivo di 17dragoni austriaci, depongono la Municipalità gia-cobina (per la salvezza dei suoi componenti dallerappresaglie riesce determinante, come si è giàaccennato, l’intervento del vescovo) e danno allefiamme i due alberi della libertà innalzati incittà. Le campane di tutte le chiese suonano a fe-sta, ma, contrariamente a tutte le aspettative,non è ancora finita. Il 1° giugno i dragoni si riti-

rano verso Lugo e ricompaiono, provenienti daBologna, i Francesi di Hulin, che il giorno se-guente rioccupano anche Faenza, dove i popola-ni del borgo Durbecco, fanaticamente avversi aFrancesi e giacobini, hanno appena abbattutol’albero e costretto a cercare riparo a Bologna iconti Laderchi e Raffi e gli altri capi della giaco-bineria locale.

Sono però gli ultimi, disperati sussulti.L’ingresso in Ravenna, avvenuto il 27 maggio

attraverso Porta Alberoni, sfondata a cannonate,di millecinquecento austriaci, provenienti daFerrara agli ordini del tenente colonnello DeGrill, segna il crollo delle amministrazioni cisal-pine in tutto il Rubicone. Il giorno seguente il“Direttorio segreto della Felice Insorgenza” pro-clama a Forlì l’insurrezione generale, già riacce-sa da tempo in tutta la montagna e in particolarea Ciola, Tenello, Polenta e Teodorano. In città siarrestano i repubblicani, condotti in carcere frale grida, i lazzi e le ingiurie di una folla minac-ciosa, e si appicca il fuoco all’albero della libertàcon concorso di un immenso numero di perso-ne, come scrive un cronista giacobino, che ag-giunge quasi suo malgrado: “riboccanti di alle-grezza si abbracciavano, cantavano, urlavano.Non fu mai visto il popolo forlivese tanto riscal-dato, né tanto furibondo” (19).

A Cesena, il primo giugno, narra il cronista Fi-lippini, “di prima mattina per allegrezza e rin-graziamento della grazia per essere fuggiti li ne-mici della Religione e de’ Cristiani si sono suona-te tutte le campane della città” e molti popolani,recatisi sulla piazza principale, dove l’albero del-la Libertà era stato innalzato fin dal 2 maggio1797, “cominciarono ad atterrarlo, e a ridurre inpezzi con manaje anche tutti li suoi amblemmied ornamenti repubblicani, ed i tre busti poi ri-

(17) In questa omelia, poi pubblicata e diffusa a cura della“Stamperia della Nazione”, Barnaba Chiaramonti, dopo ave-re esortato all’ordine e all’obbedienza alle autorità costituite,“comandata dalla nostra Religione Cattolica”, sostiene che“la forma di Governo Democratico adottata fra di Noi ... nonripugna al Vangelo; esige anzi tutte quelle sublimi virtù, chenon s’imparano che alla scuola di Gesù Cristo, e le quali, sesaranno da voi religiosamente praticate, formeranno la vo-stra felicità, la gloria e lo splendore della nostra Repubblica”.(18) Ilo Spada, La rivoluzione francese e il Papa: Bologna,1990, pag. 324. Il libro può essere utilmente consultato perquanto riguarda sia, più particolareggiamente, le impreserepressive dell’Hulin nel Bolognese e in Romagna, sia, e so-prattutto, per l’opera del futuro Pio VII.(19) Giuseppe Calletti, Storia della città di Forlì, mns. Biblio-teca comunale di Forlì, riportato in Atlante per il Diparti-mento del Rubicone, cit. pè. 172.

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dotti in pezzi, ed acceso il fuoco il tutto si ridus-se in cenere” (20).

Più movimentata, il 30 maggio, l’insurrezionea Rimini, più immediatamentre minacciata dalletruppe francesi, che occupano ancora gran partedelle Marche, e che ha appena subito le alterne eturbinose vicende conseguenti al mutamento dicampo di Giuseppe La Hoz. Questi, prima di pro-seguire alla volta di Pesaro, vi ha lasciato unapiccola guarnigione al comando del piemonteseGouget, supposto membro dei segretissimi “Rag-gi”, ma il 13 vi è rientrato, senza incontrare op-posizione dal momento che il Gouget imita il Pi-no e protesta di essere stato ingannato, il capita-no Fabert, comandante francese della Piazza.

Adesso l’iniziativa è presa direttamente dal po-polo dei pescatori, che, approfittando delle loroquotidiane uscite in mare per la pesca, hannostretto accordi col comandante di un piccolo bri-gantino austriaco, il tenente Carlo Martiniz. Co-stui, entrato a vele spiegate in porto, vi fa sbarca-re una ventina di marinai in assetto di combatti-mento per unirli ai pescatori, che intanto, orga-nizzati da un anziano “parone” di barca, GiuseppeFederici, detto “Glorioso”, hanno superato dislancio la trincea fatta scavare dal Fabert e voltoin fuga i franco-cisalpini. La ritirata è tanto preci-pitosa da non lasciare il tempo di chiudere le por-

te delle mura cittadine, attraverso le quali pesca-tori e marinai austriaci si precipitano per le stra-de, invitando all’insurrezione generale con gridadi “Morte alla Repubblica! Morte ai giacobini! Vi-va il Papa! Viva l’Imperatore! Viva la Religione!”.

L’insurrezione dilaga e al Fabert non resta cheritirarsi in tutta fretta, apparentemente in dire-zione di Bologna. Tuttavia il pomeriggio del gior-no seguente, quando già si trovano in città gli in-sorti del contado, ansiosi di partecipare alla festaed anche al saccheggio delle case dei giacobinipiù compromessi, si diffonde la voce che il Fa-bert, riorganizzate le proprie forze, sta marcian-do sulla città e si trova ad appena un miglio daBorgo San Giuliano. Segue un attimo di scora-mento, ma il Glorioso rincuora i suoi, fa suonarele campane a martello, e, validamente fiancheg-giato dal Martiniz e dalla sua esperienza di pro-fessionista della guerra, consegue in un rapidoscontro una nuova vittoria, tuttavia non definiti-va, perché il Fabert, anch’egli buon soldato, rie-sce a sganciarsi con la maggior parte dei suoi e aripiegare in buon ordine sul vicino villaggio diSanta Giustina, dove si accampa per la notte. Po-

Battaglia del ponte di Lodi. Dipinto anonimo

(20) Mauro Guidi, Il Giornale, mns. Biblioteca comunale diCesena, ivi, pag. 174.

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co meno ostinato dell’Hulin, è sua intenzione ri-tentare l’impresa il giorno seguente, ma vieneanticipato dal Martiniz, che, invece di cedere aldesiderio dei Riminesi di festeggiare una vittoriaritenuta non del tutto a ragione e comunque conuna buona dose di imprudenza decisiva, organiz-za in tutta fretta un corpo volontario di cavalleg-geri, coi quali, alle due di notte, piomba suiFrancesi e, nonostante la sommarietà dell’orga-nizzazione della sua truppa e la varietà delle ca-valcature, col favore della sorpresa li costringe auna fuga questa volta disordinata e definitiva.

Fra i fuggiaschi vi è anche il Fabert, che, ac-compagnato da un giacobino riminese, sopran-nominato “Gironda”, riesce a raggiungere SanLeo, dove verrà però catturato, il 12 luglio, allacaduta di questa fortezza dopo 44 giorni di asse-dio da parte degli insorgenti del Montefeltro.

I Francesi lasciano Imola il 10 giugno, seguitiil 19 dai cisalpini, che cedono il posto ai primidragoni imperiali, seguiti qualche giorno dopoda un reggimento di fanteria. Bologna, ormai to-talmente circondata dagli insorti, cade il 30 giu-gno. A Rimini gli imperiali arrivano soltanto il 3luglio, ma a quel momento le sorti dei Francesi,che tuttavia tengono ancora alcune località delleMarche e, soprattutto, Ancona, dove si è rinchiu-so il generale Monnier, sono state segnate dallasconfitta patita sulla Trebbia dal tanto atteso etemuto, a seconda dei punti di vista, Mac Donalda opera del Suvorov dopo tre giorni di sanguino-so combattimento (17-20 giugno 1799).

Pur se il periodo culminante dell’Insorgenza sicolloca temporalmente negli anni 1796-1799,passati alla storia come “triennio giacobino”, alquale soprattutto è dedicato il presente scritto, lanarrazione della resistenza antirivoluzionaria(includendo nel termine sia quella antigiacobinasia quella antinapoleonica) in Emilia-Romagnanon sarebbe completa senza qualche pur rapidoaccenno agli avvenimenti relativi al periodo cheva dal ritorno dei Francesi (non più giacobini,ma napoleonici a seguito del colpo di stato del 19brumaio, che ha sostituito al Direttorio il Conso-lato) dopo la vittoria di Marengo (14 giugno1800) alla caduta del Regno d’Italia (20 aprile1814). Accenni tanto più necessari in quantoconsentono di completare il quadro territorialedella regione con gli avvenimenti del Ducato diParma e Piacenza, che, mantenuta almeno for-malmente dagli occupanti la sovranità del ducaFerdinando e rispettato nella sostanza l’armisti-zio anche per l’atteggiamento qui stranamentemoderato delle truppe francesi, si mantiene du-

rante il triennio giacobino estraneo ai moti anti-rivoluzionari, pur se nell’aprile del 1799 il pas-saggio nel territorio del Ducato e la sosta a Par-ma di Pio VI, condotto prigioniero a Valenza (vimorirà il successivo 29 agosto), danno luogo agrandi manifestazioni di fervore religioso e di af-fetto per il Papa, che assumono necessariamentecarattere antifrancese, tanto più che vi si accom-pagnano, se non veri e propri tentativi, propositidi impedire la prosecuzione del forzato viaggio.

La situazione cambia dopo il 1802, quando, aseguito della morte del duca, il Ducato vieneunito alla Francia (tuttavia l’annessione definiti-va all’impero francese avverrà solo nel 1808). Èin questo momento che si creano i presuppostianche ideologici per una serie di moti, che han-no il loro culmine tra il dicembre del 1805 e ilgennaio 1806, dilagando per tutto l’Appenninosotto la guida di capi come Agostino De Torri,detto “Foppiano”, figlioccio della duchessa MariaAmalia, e Giuseppe Bussandri, ribattezzato “Ge-nerale Mozzetta”.

La rivolta, che trae occasione dall’arruolamen-to forzoso di ben seimila uomini per fronteggiarelo sbarco degli austro-russi a Napoli, ma la cuiragione profonda va cercata, come scrive Corra-do Camizzi, nell’empietà e nel disprezzo deglioccupanti per le tradizioni dei ceti contadini epopolari urbani (21), ha inzio il 6 dicembre 1805a Castel San Giovanni, nei pressi di Piacenza, do-ve è concentrato il maggior numero di coscritti,e si estende ben presto nelle valli piacentine diTrebbia, Tidone, Nure e Arda, in quelle parmensidel Ceno, del Taro, del Tolle, dello Stirone, al ter-ritorio di Salsomaggiore e dei circostanti Castel-li. Insorgono o vengono occupati Carpaneto,Montecchio, Carpenedolo, Bobbio (qui i sollevatientrano il 3 gennaio, gridando Viva l’Imperatoretedesco evidentemente per distinguerlo da Napo-leone, imperatore francese), Castell’Arquato, do-ve il 15 gennaio 1806 ha luogo un violento scon-tro, concluso con la sconfitta degli insorgenti,Borgotaro, Bardi, Pellegrino e molti al tri paesi.

La repressione viene affidata da Napoleone, ti-moroso che quanto avviene a Parma possa inne-scare quella rivolta generale, la cui mancanza èalla base dei successi francesi in Italia sia duran-te il periodo repubblicano sia in quello del poterenapoleonico e che assicura invece alla Spagna la

(21) Corrado Camizzi, “Il Ducato di Parma e Piacenza”, in Leinsorgenze antifrancesi in Italia nel triennio giacobino, cit.,pag. 97

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riconquista della libertà, al generale Junot, ilquale, pur personalmente propenso a non ecce-dere, non può sottrarsi alle precise direttivedell’“imperatore francese”, che desidera unaesemplare punizione, scrivendogli: “non è condelle frasi che si mantiene la tranquillità in Ita-lia. Fate come ho fatto a Binasco; che un grandevillaggio sia bruciato; fate fucilare una dozzina diinsorti ... al fine di dare un esempio” (22).

Per l’incendio Junot, che dal canto suo preferi-sce presenziare alle feste offertegli dal belmondoparmense e corteggiare le dame della nobiltà,sceglie il villaggio di Mezzano. Alle fucilazioniprovvede, facendo processare 88 insorgenti, deiquali 19, inclusi due sacerdoti, condannati amorte (altri quattro arrestati muoiono in carce-re, gli altri se la cavano con lunghe pene detenti-ve).

Il 19 febbraio 1806 viene fucilato Agostino DeTorri. Il 2 maggio la stessa sorte tocca a Giusep-pe Bussandri. Nello stesso periodo, sia per conta-gio degli avvenimenti parmensi e piacentini, siaper una minore presenza di truppe francesi, im-pegnate dapprima in Austria e in Germania con-tro le Potenze della terza coalizione (23), poi nel-la conquista del Regno di Napoli e nella successi-va repressione del cosiddetto “brigantaggio”, siregistrano tentativi, in realtà modesti e pronta-menti repressi, nella zona tra Castellano e Sas-suolo e nella stessa Bologna.

Di assai maggior rilievo i moti esplosi nel 1809in concomitanza e per effetto della “quinta coali-zione antinapoleonica”, così intensi e diffusi daessere definiti da qualche storico “la Controrivo-luzione generale del Regno d’Italia” (24).

Gli episodi di maggiore rilievo sono indubbia-mente quelli che riguardano il Tirolo, tanto al diqua quanto al di là delle Alpi, dove risplende dipurissima luce l’eroica figura di Andreas Hofer,ma che coinvolge moltissime località di quelleche sono ormai le province emiliane del Regno eche costituiscono ulteriore prova, caso mai ve nefosse ancora bisogno, di come quella che si è de-finita “sorda opposizione” e “resistenza passiva”,proprio perchè le sue radici sono molto profon-de, coinvolgendo la difesa della propria fede (25)e, quindi, del proprio modo di vivere e della pro-pria identità comunitaria, aspetti solo un’occa-sione favorevole o addirittura una semplice spe-ranza di successo per esplodere in aperta e arma-ta ribellione.

Le Insorgenze coinvolgono Bondeno, Comac-chio, Copparo, Portomaggiore, Argenta, Cento,Minerbio, Budrio, Galliera, Molinella, Castel San

Pietro, Imola, Bazzano, Loiano, Pianoro, Verga-to, Castiglione dei Pepoli, Porretta, Anzola, Vi-gnola, Sassuolo, Maranello, Castelfranco, Castel-vetro, Pavullo ecc., e bussano violentemente alleporte delle città più grandi, come, in particolare,Bologna e Ferrara, la cui popolazione è tenuta afreno da una residua, ma non indifferente pre-senza di truppe e anche dall’essere venuta menol’unità interna, residuo fino a pochi anni primadell’antica, comune fede cristiana, unità intacca-ta poi nei ceti dominanti dalla diffusione delleidee illuministe, perché in questi anni gran partedell’aristocrazia e della borghesia, convintesi del-la irreversibilità della nuova situazione politica,hanno trovato un vantaggioso modus vivendicon il Regno e l’Impero, sono attaccate ai privile-gi di rango e di censo acquisiti e temono più diogni altra cosa il turbamento dell’ordine, senti-mento questo in realtà già largamente presentenel triennio giacobino, quando però riuscivaspesso difficile distinguere i fautori dell’ordine(comunque già allora individuati dai più pruden-ti nei francesi) dai suoi perturbatori.

Per la sua durata e per l’importanza della zonanella quale si svolge, la ricca pianura estesa fraBologna e Ferrara, può, a titolo di esempio, ri-portarsi qualche avvenimento di questa Insor-genza nel territorio incluso fra i Dipartimenti delReno e del Basso Po, che comprende un gran nu-mero di centri, paesi e borghi, fra i quali si di-stinguono per popolazione ed importanza econo-mica Altedo, Baricella, Malalbergo e Minerbio (ilCantone - sottoripartizione del Dipartimento se-condo l’organizzazione del Regno d’Italia - di cuiMinerbio è capoluogo, comprende inoltre i co-muni di Ca’ de’ Fabbri, Capo Fiume, S. Marino,S. Martino in Soverzano, S. Giovanni in Triario e

(22) F. Lemmi, L’età napoleonica, in Storia politica d’Italia,diretta da A. Solmi, Milano, 1938, vol. X, pag. 236(23) Alle vittorie francesi di Ulm e Austerlitz, fa riscontroquella inglese nella battaglia navale di Trafalgar, ma la guer-ra si conclude negativamente per i coalizzati ed in particola-re per l’Austria, che col trattato, firmato a Presburgo il 26dicembre 1805, cede alla Francia le antiche province venete,che Napoleo ne unisce al Regno d’Italia, sottraendogli incambio Guastalla, una delle tre principali città del Ducato diParma, trasformata in Ducato per la sorella, Maria PaolinaBorghese, che ambisce ad un trono, sia pure modesto.(24) Cfr. M. Viglione, La Vandea d’italia, op. cit. pag. 263 ss.(25) Non si dimentichi che il 17 maggio 1809 ciò che restadello Stato della Chiesa viene incorporato nell’Impero napo-leonico e che il successivo 10 giugno Pio VII, in attesa di es-sere, come il suo predecessore, arrestato e tradotto in Fran-cia, il che avviene il successivo 6 luglio, scomunica Napoleo-ne con la bolla Ad perpetuam rei memoriam.

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molte altre minori frazioni e località).L’Insorgenza, facilitata dal gran numero di re-

nitenti alla leva e di disertori dall’esercito, che siaggirano per le campagne, e dalla diffusa ostilitàpopolare alla tassa sul macinato, ha inizio il 2 lu-glio 1809, con l’occupazione per un’intera gior-nata del paese di Budrio da parte di gruppo capi-tanato dal ventottenne Prospero Baschieri, ungigantesco (quasi due metri di altezza e taglia eforza in proporzione) contadino di Cadriano (eranato però a Maddalena di Cazzano), che, chiama-to alle armi nel 1803, aveva disertato, rifiutando-si di combattere per l’odiato Napoleone.

Il 5 luglio è la volta di Minerbio, dove il Ba-schieri, dopo avere disarmato i tremebondi militidella Guardia Nazionale, sequestrati nella casamunicipale e dati alle fiamme le liste dei coscrittie l’apparecchio destinato a misurarne l’altezza,enuncia il programma politico degli insorti, che“non vogliono più né Coscrizione, né Tassa vo-lendo piantare un nuovo Governo”. Un program-ma confermato durante la prima occupazione diBaricella (come per tutti i paesi della zona ne se-guiranno molte altre), dove la prima cura del Ba-schieri è di abbattere l’insegna del Regno italicoappesa alla porta del municipio e, come scrive ilsindaco Giovanni Ferretti al prefetto del Diparti-mento del Reno, Mosca, di mettere i suoi “lungola strada in traccia de’ Giacobini, che a loro sen-so sono quelli che spiegano apertamente senti-menti di leale sudditanza al suo legittimo Sovra-no, ed aborrono l’Insorgenza”.

Venerdì 7 luglio gli insorgenti, dopo aver fattosuonare le campane a martello in tutti i paesi delDipartimento per accrescere il proprio numero,tentano la grande impresa della conquista di Bo-logna, che attaccano da porta Galliera, rendendo-si tuttavia ben presto conto della inadeguatezzadelle carabine e fucili da caccia di cui dispongo-no a fronteggiare l’armamento, in particolare icannoni, della Guardia Nazionale bolognese e deisoldati francesi del generale polacco GiuseppeGrabinski, che nei giorni seguenti, incoraggiatidalla facile vittoria (di fronte alla propria manife-sta inferiorità i sollevati si sono ritirati dopo laprima scaramuccia), cominceranno, a loro volta,a battere la campagna alla ricerca dei “disertori”,come li definiscono, senza tuttavia riuscire a tro-varli, forse per non troppa voglia, dal momentoche preferiscono impadronirsi, a spese di conta-dini e bottegai, di vino, pane e formaggio e di fie-no per i cavalli (26).

Altri gruppi di insorgenti, in parte, pare, pro-venienti dal Veneto, di consistenza numerica no-

tevolmente maggiore di quello guidato dal Ba-schieri (le fonti ufficiali parlano di sei settemilauomini), circondano l’altro grosso centro dellazona, Ferrara, ma ancora una volta il successo èimpedito dall’insufficienza delle armi a disposi-zione, sicché, dopo un breve tentativo di resi-stenza (decisivo come sempre l’impiego da partefrancese dell’artiglieria), non resta agli assediantiche disperdersi per la campagna, esattamente co-me a Bologna, all’arrivo, il 16 luglio, dei rinforzicondotti dal solito Grabinski.

Non è questa la sede per descrivere tutti gliepisodi di un’Insorgenza, che, dopo il fallimentodegli assalti a Bologna e a Ferrara, si sminuzzain una continua serie di ripetute, ma brevi occu-pazioni dei paesi della zona (incluso l’importantecentro di San Giovanni in Persiceto, invaso dalBaschieri il 1° luglio), che, proseguondo per tut-to il 1809 e fino alla primavera del 1810, offronol’occasione per distruggere i registri, gli archivi ei documenti delle case comunali (non vengonoinvece toccati - ed è significativo - quelli delle ca-noniche e delle chiese) e per esigere contribuzio-ni in denaro e in generi alimentari dai sindaci(molti di questi, così come alcuni comandanti lo-cali della Guardia Nazionale, finiscono, di fronteallo stillicidio delle occupazioni e requisizioni,col dimettersi e col lasciare il paese) e dagli altri“giacobini”.

Il governo reagisce istituendo a Bologna già il20 luglio una Commissione militare, incaricatadi punire con la pena di morte “ogni Cospirazio-ne o Complotto tendente a turbare la Repubbli-ca colla Guerra Civile armando i Cittadini, gliuno contro gli altri o contro l’esercizio dell’Au-torità legittima”. I primi condannati (le senten-ze vengono eseguite, mediante fucilazione, en-tro le ventiquattro ore) sono i braccianti Giusep-pe Pancaldi, detto “Coppetto”, di Corticella, ePietro Falzoni, detto “Falfarello”, di Castenaso,ma la Commissione si occupa anche di chi, pursenza impugnare le armi, diffonde voci tese ascreditare i francesi e a favorire gli austriaci. Ap-punto sotto l’accusa di diffusione di “voci allar-manti e incitamento alla rivolta” viene arrestato

(26) Giuseppe Pavani nel suo Il brigantaggio del 1809-10 neipaesi di Altedo-Baricella-Malalbergo-Minerbio, (Altedo,1995), che sposa totalmente e in maniera acritica la versioneufficiale dei fatti, parla pudicamente di “rifornimenti” per letruppe, anche se poi dà atto delle proteste dei “bottegari”,non pagati né dai soldati, né dal Comune, privo di fondi. Co-munque la lettura critica del libretto può riuscire utile per imolti particolari contenuti.

e processato il 9 agosto il medico di Altedo, Lui-gi Saltari, che, girando di casa in casa nella cam-pagna fra Altedo e Minerbio, dove risiede, colpretesto dell’esercizio della sua professione svol-ge propaganda antifrancese (l’esito del processonon è noto, ma, considerato il tipo di giustiziaproprio delle Commissioni Militari, è più facilepensare ad una condanna che ad una assoluzio-ne).

Nel dicembre 1809, la fine della guerra control’Austria e la successiva sconfitta dell’Insorgenzatirolese (Andrea Hofer viene catturato per tradi-mento il 27 gennaio 1810 nel suo rifugio in ValPassiria) consente ai Francesi di intensificare lapresenza militare in tutti i territori interessatidalla rivolta, come preannunciato da un manife-sto fatto affiggere il 31 dicembre in tutto il Di-partimento del Reno dal generale di divisioneBonfanti, il quale, evidentemente persuaso chegli insorti godano di complicità e simpatie assaimaggiori di quelle emergenti dalle relazioni uffi-ciali, invita non solo la popolazione, ma gli stessisindaci e le guardie nazionali a intensificare lalotta agli insorgenti sotto la minaccia che, inmancanza, “mali sommi potrebbero desolare ilvostro Paese, e vi sovrastano i castighi e l’indi-gnazione di Napoleone”.

Nonostante gli ultimi disperati tentativi di re-sistenza, che inducono i sindaci più timorosi, co-me quello di Baricella, il già noto e particolar-mente tremebondo Giovanni Ferretti, ad abban-donare per la più sicura Bologna il paese cuihanno fatto ritorno dopo la notizia della fine del-la guerra con l’Austria e l’arrivo di nuove truppe,non vi sono più speranze di successo per l’Insor-genza del Reno.

La fine per il Baschieri e i suoi superstiti se-guaci arriva il 13 marzo, quando il capitanoHenry Lambert, avendo saputo per l’imprudenzadi una donna, recatasi a Budrio per l’acquisto diviveri, che gli insorti si sono ricoverati da alcunigiorni nella casa di Giuseppe Rubbini a Malcam-po di Budrio, riunisce per l’attacco decisivo ipropri uomini e quelli del capitano Dalla Nocedella locale Guardia Nazionale.

Nonostante la disparità di forze lo scontro èviolentissimo e vi rimane ferito al volto lo stessoLambert, che ripiega con molti dei suoi su Bu-drio per radunarvi rinforzi, perché i “disertori”,pur costretti ad uscire allo scoperto dall’incendiodel fienile addossato al loro rifugio e lasciandosul terreno due morti, riescono a rompere l’ac-cerchiamento e a disperdersi per la campagna.Fra i fuggitivi Prospero Baschieri, che tuttavia,

gravemente ferito, deve ripararsi morente in unfosso, dove viene poco dopo rinvenuto cadavereda alcuni soldati francesi, giunti dai paesi vicini,che provvedono a mozzargli il capo e a caricarneil corpo, assieme a quello degli altri due caduti,sopra un carro per condurlo, “con gran pompa”(come recita una cantata di ispirazione “napoleo-nica” di quei giorni) a Budrio.

Il giorno seguente “di buon mattino il corpo diBaschieri fu legato in piedi alla sponda di un car-ro, la testa mozzata infilata su di un lungo palo,e con ai suoi lati gli altri due briganti. Precedutoe seguito dalle guardie nazionali di Budrio e daisoldati francesi che avevano partecipato alloscontro, il carro lentamente giunse nella piazzadi Bologna dove venivano eseguite le sentenze ele tre teste dei briganti furono esposte sul palcodavanti al numeroso popolo accorso” (27).

Non per questo vengono meno i sentimentiche hanno animato l’Insorgenza e che dannoluogo alle corali dimostrazioni di esultanza se-guite in tutti i dipartimenti dell’Emilia-Romagnadapprima alla notizia delle sconfitte napoleoni-che poi al ritorno degli Austriaci, considerati an-cora dalle popolazioni gli “imperiali” e, quindi,non del tutto soldati stranieri.

Non sembri fuor di luogo rammentare, quasi achiusura e suggello, con l’aiuto dell’arte, gemel-la della musa della Storia, di quanto si è fin quidetto, come l’eco delle Insorgenze in Emilia-Ro-magna, con particolare riferimento alle vicendebolognesi e, soprattutto, ferraresi, percorra e vi-vifichi i primi capitoli del Mulino del Po del bo-lognese Riccardo Bacchelli, che vi narra, fra lealtre cose (inclusi il giudizio popolare sull’impe-ratore francese, “Napoleone è un birbante e unatrista pelle”, “il ricordo delle angherie e delleviolenze” e il perdurare del “vecchio rancoredella religione offesa, benché d’“alberi” dal 1803non si parlasse più, e sponsali e battesimi si ce-lebrassero daccapo in chiesa, da cristiani e nonda bestie”), la condanna e la morte per fucilazio-ne del parroco don Pietro Maria Zanarini, che“una folla costernata, che lo ebbe per martire esanto, vide passare a testa alta e col crocifisso frale mani che non tremavano, in mezzo ai militidella civica, che parevan loro condannati; lo videinginocchiarsi a far le sue preghiere davanti allaMadonna dei Condannati o del Conforto, sottoPorta di San Paolo; lo vide mettersi davanti aifucili, da cristiano animoso”.

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(27) Giuseppe Pavani, op. cit., pag. 91.

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Come tutti i regimi illiberali costruiti su ag-gregazioni artificiali e forzate, anche quelloitaliano si è riscritto la storia a suo autole-

gittimante uso e consumo, e ne ha divulgata einsegnata nelle scuole la versione tricolore, fattadi invenzioni e di silenzi. Una delle omissionipiù grosse e colpevoli riguarda le Insorgenze sucui ha messo una pesante e imbarazzata coltredi silenzio per tutta una serie di comprensibilimotivi, i più importanti dei quali sono di origineideologica e patriottica. Gli insorgenti erano deicontrorivoluzionari e lottavano contro tutte leschifezze della Rivo-luzione francese chesono sempre statecontrabbandate dalprogressismo comequanto di meglio infatto di libertà e didemocrazia abbiaprodotto il mondo. Equesto basta per met-tere gli insorgenti frai “cattivi” per la cul-tura di sinistra dichiara filiazione gia-cobina. Per quella didestra, che non hamai nascosto la suaammirazione per ilcesarismo bonaparti-sta e per tutti i suoiorpelli imperiali ro-mani, essi sono unasorta di “partigiani”ante litteram che nonerano stati in grado dicogliere l’alto signifi-cato patriottico dellevarie repubbliche epoi del cosiddetto Re-gno d’Italia con la cuicreazione Napoleonesi era di fatto elevato

ad antesignano dell’unità italiana, a padre diogni futura aspirazione unificazionista e dellostesso Risorgimento

Tutti assieme (destri e sinistri) tacciono per-ché hanno sempre descritto la Rivoluzione fran-cese e le sue propaggini italiane come i veri pro-dromi del successivo processo di unificazione inun confuso tripudio di sanculotti e camicie ros-se, Napoleoni primi e terzi, tricolori messi perdritto o per traverso. Si tratta di un atteggia-mento che si basa su comunanze forti e oggetti-ve: le imprese di giacobini e di patrioti risorgi-

mentali sono stretta-mente cucite fra diloro dagli stessi filimassonici, anticleri-cali e nazionalisti.Così degli insorgentinon si deve parlare senon come di unamassa di retrogradi,bigotti, e intronatidifensori dell’AncientRegime, incapaci dicogliere la luce deitempi nuovi e – so-prattutto – dell’ine-luttabile destino uni-tario di una “espres-sione geografica”chiamata Italia. Gliinsorgenti sono – perla storiografia ufficia-le – i nemici della li-bertà dei loro compa-trioti e, quando vabene, contadini emontanari intordelli-ti dalla pellagra, damedievali legami coni loro “padroni” edalle chiacchiere deipreti. In questa otti-ca, non possono che

Quegli autonomisti di duecento anni fa

di Gilberto Oneto

Ritratto di F.A. Charette de la Contrie. Dipinto diPaulin Guérin

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passare per volgari briganti di strada o per irri-ducibili reazionari clericali tutti quelli che si so-no opposti in armi alle radiose conquiste pro-gressiste rappresentate da una Repubblica italia-na e poi da un Regno d’Italia che portavano mol-to significativamente nel nome (riesumato doposecoli di meritato oblio) la memoria di anticheoppressioni.

A condannare le Insorgenze negli sgabuzzinidella grande storia hanno paradossalmente con-tribuito anche taluni laudatori che ne hanno da-to interpretazioni settarie o imprigionate daprevenzioni ideologiche. Gli errori più ricorren-ti riguardano la pretesa di assegnare alle Insor-genze la funzione di segnale di una inconsisten-te identità nazionale italiana, e l’interpretazionein chiave di quasi esclusiva manifestazione cleri-cale e reazionaria, sia pur nei significati miglioridei due termini. La causa di queste interpreta-zioni va principalmente ricercata nella forma-zione culturale cattolica tradizionalista di quasitutti quelli che negli anni più recenti si sono oc-cupati di Insorgenze.

Nel primo caso si tratta del risultato di unastrana involuzione ideologica (con inquietantirisvolti psicanalitici) che ha portato tante perso-ne oneste e intelligenti, cresciute alla scuola delmiglior antirisorgimentalismo cattolico, a tro-varsi intruppate nel più trucido patriottismo tri-colore. Si tratta di “evoluzioni” del tutto incom-prensibili che gli interessati giustificano quasisempre come accettazione di ineluttabilità stori-che o in nome di una identità millenaria e diaspirazioni unitarie espresse in un processo dicui il Risorgimento sarebbe stato l’ineleganteconclusione. Si tratta di acrobatismi tratti da unfin troppo disinvolto Kama-Sutra delle interpre-tazioni storiche condizionato da preoccupazionipolitiche (se non addirittura elettorali) contin-genti e dalla pericolosa contiguità con strutturepartitiche che in un contenitore tricolore ci infi-lano di tutto: cattolicesimo e secolarismo, pa-triottismo e mondialismo, risorgimento e anti-risorgimento, Vandea e Napoleone. Molto signi-ficativa in questo senso è l’introduzione di Mar-co Invernizzi alla pur molto equilibrata Guidaintroduttiva alle Insorgenze Contro-Ri-voluzionarie in Italia di Francesco Mario Agnoli.Vi si trovano funambolismi come: “Bisogneràanche evitare di compiere l’errore di mettere indiscussione oggi l’unità nazionale compiendol’operazione inversa a quella di allora: infatticome fu razionalistico e assurdo spazzare viacentinaia di anni di storia e di tradizioni locali

servendosi del mito dell’unità d’Italia, altrettan-to illuministico sarebbe oggi prescindere daglioltre cento anni di storia unitaria, utilizzandopolemicamente i pur grandi ed evidenti falli-menti di questo periodo. Si tratta invece di cer-care di affermare la verità sulla storia della no-stra nazione, perché soltanto con la consapevo-lezza della verità sarà possibile ricostruire l’i-dentità culturale del popolo italiano”.

Sulla stessa linea rischiano di porsi ancheMarco Albera e Oscar Sanguinetti, nel loro otti-mo Il maggiore Branda de’ Lucioni e la MassaCristiana, quando si contorcono preoccupatiche si possa “cadere nella trappola di costruzio-ni di “patrie” posticce – siano esse di matriceunitaristica o localistica – e sostanzialmentecoerenti con il progetto rivoluzionario che hasepolto o sfigurato la vera identità degli italianida decenni, se non da secoli”.

Si tratta di faticose distorsioni partigiane chein qualche modo tradiscono ogni rispetto per lestesse Insorgenze, in lotta contro i “patrioti”,contro i portatori del progetto (quello sì rivolu-zionario) di “nazione”, contro quel tricolore chesventolava davanti alle squadre di sgherri e diassassini che massacravano gli insorgenti e lenostre genti. Il tricolore giacobino e massonicosi è forse purificato in strane e successive opera-zioni di alchimia ideologica? Sono bastate cin-que sole giornate milanesi di libertà per trasfor-marlo in qualcosa di diverso dal segno di deva-stazione rivoluzionaria degli anni precedenti odal simbolo di oppressione e corruzione di quellisuccessivi? Non sembra avere perso col temponessuna delle sue trucide connotazioni, anzi: ilsangue di milioni di morti ammazzati per “nobi-li cause patriottiche” nel Mezzogiorno, in Africa,sul Carso o altrove ne ha fatto ancora di più unsimbolo di oppressione e di dolore.

Il tentativo di italianizzare quel periodo vieneridicolizzato dal fatto che neppure i sostenitoridella “nazione” avevano in mente una idea diItalia come ci è poi stata imposta: la Repubblicaitaliana e il Regno d’Italia di Napoleone interes-savano le porzioni di territorio che “allora” - co-me ha ben dimostrato Sergio Salvi - erano chia-mate Italia ma che coincidevano col termine an-tico di Lombardia e con quello moderno di Pa-dania. È veramente stravagante volere fare ac-cettare oggi e sulla base di quelle vicende unaidea di nazione che gli insorgenti rifiutavanocon decisione ma che neppure i più nazionalistifra i giacobini si erano mai sognati di imporrenella sua attuale connotazione geografica.

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Un altro grande malin-teso consiste nella de-scrizione delle Insorgen-ze come movimenti sortiper esclusiva difesa delledinastie monarchiche edecclesiastiche e cioè – difatto – come jacqueriesbigotte, codine e prezzo-late: che è proprio comei giacobini hanno sem-pre cercato di bollarledenigrandole. Purtroppoanche parte della cultura“alternativa” ha infatti inqualche modo sposatoquesta versione, facendodiventare gli insorgenti ipaladini “del Trono edell’Altare”: soprattuttodell’Altare perché troninon tricoloruti conti-nuano a portare imba-razzo in certe buone famiglie italiane. Invece (vadetto per rispetto della verità) le Insorgenze so-no state di più e di meglio. In alcune paginemolto belle, Francisco Elìas de Tejada descrive i“sacri imperativi” per cui lottavano i Carlisti diNavarra: “Dios, Patria, Fueros y Rey”. Dove, ac-canto a “Dios” (“l’Altare”) e a “Rey” (“il Trono”)compaiono l’interesse per la “Patria” (intesa or-ganicamente come “il luogo dove si vive” e nonancora come il ricettacolo statolatrico di ognimoralità, invenzione dei nazionalismi ottocente-schi) e per i “Fueros”, termine traducibile in“antichi diritti”, in franchigie o – più moderna-mente – in autonomie.

Con tutta certezza possiamo dire che questefossero le motivazioni dietro le quali si sono svi-luppati tutti i movimenti di resistenza antigiaco-bina e antinapoleonica d’Europa. Ogni momento,paese o circostanza hanno miscelato gli stessi in-gredienti con diversi dosaggi: talora era prevalen-te la motivazione religiosa e la difesa della tradi-zione cattolica, altre volte era il sentimento diamore per la propria terra e la sua cultura a pren-dere il sopravvento, spesso era la determinata di-fesa degli antichi diritti (i “Fueros” baschi), dellefranchigie e delle autonomie che avevano regola-to la vita e le libertà delle comunità locali per se-coli. Altre volte ancora era, infine, il desiderio diconfermare le autorità statuali legittime. In cia-scuna delle Insorgenze troviamo mescolate inmaniera spesso inestricabile queste quattro pul-

sioni ideali ma ciascuna le ha coniugate in formapropria e originale. È innegabile che nelle Insor-genze padane fosse prevalente l’esigenza della de-terminata difesa delle antiche libertà locali sanci-te da Statuti, da franchigie e da diritti spesso con-quistati con lotte lunghe e sanguinose. In qual-che modo anche la tradizione religiosa e l’attac-camento alla patria erano (e sono) interpretaticome parti organiche del diritto naturale all’auto-nomia. È anche in coerenza con questo senti-mento che, purtroppo, i movimenti insorgentinon sono mai riusciti a trovare uno stabile coor-dinamento riproponendo una propensione per ilparticolarismo che è da sempre la forza ma anchela debolezza della vicenda padana.

Le Insorgenze non sono state una manifesta-zione di italianità in nessun senso; esse hannosemmai sottolineato ancora una volta le grandidifferenze fra i popoli che vivono vicini nellastessa “espressione geografica”: in comune fra icombattenti tirolesi, i barbet e gli insurzent pa-dani e l’Armata della Santa Fede del cardinaleRuffo c’erano solo lo stesso nemico e l’attacca-mento alla medesima religione (proprio comeper vandeani, spagnoli e per tutti gli altri), maper tutto il resto erano diversissimi fra di loro(come tutti gli altri insorgenti d’Europa). In Ti-rolo prevaleva una idea molto precisa e consoli-data di Heimat, anche più forte della fedeltà(mal riposta) nell’Imperatore; nell’Italia propria-mente detta c’era il forte senso dell’autorità cen-

Battaglia del Bergisel. Incisione austriaca

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trale non solo simbolicamente rappresentata dalRuffo; il Padania e in Toscana dominava ancheallora il senso della “Piccola patria”, delle libertàmunicipali, della difesa dei diritti individuali ecomunitari, delle antiche libertà.

Non commetteremo l’errore di cercare di vede-re nelle nostre Insorgenze un segno di padanità,una manifestazione di identità consapevole manon possiamo non constatare che il caratteredelle nostre insorgenze è comune e che anche leInsorgenze non fanno che rafforzare il paradossodi una Padania unita dalla propria disunità, dallesue cento differenze. Da sempre la nostra gentecombatte per queste sue differenze e libertà: c’èun lungo, robusto filo rosso (di sangue, di pas-sione, come la Croce di San Giorgio) che connet-te le antiche tribù celtiche alle Fare longobarde,i Comuni medievali agli Insorgenti, le antichestatualità preunitarie a tutti quelli che oggicombattono per le libertà delle comunità padane.

Fra gli ideali che muovevano le nostre gentidue secoli fa sono infatti proprio principalmentel’attenzione per la “Patria” e per i “Fueros” checi interessano e che ci piacciono di più perchésomigliano ai nostri di oggi (e perché danno piùfastidio ai nostri nemici). Ci sentiamo molto vi-cini a quei barbetti che imbracciavano il fucile

per difendere (anche e soprattutto) le proprie li-bertà locali, le proprie antiche autonomie, la ge-stione delle proprie risorse, del lavoro e dellaterra con cui ribadivano la forza di un legameantico come il mondo. Anche noi oggi vogliamoun mondo fatto di tante Heimat costruite su ri-conosciute identità profonde, anche noi oggi vo-gliamo tornare a esercitare il diritto naturale diessere padroni a casa nostra, di disporre intera-mente dei frutti del nostro lavoro, di difendere ilsacrosanto diritto alla proprietà che significa –prima di ogni altra cosa – il controllo della terradei nostri padri e madri e delle nostre gloriosebandiere. I nemici sono gli stessi, gli stessi na-zionalisti (di una nazione che non esiste se nonnella loro testa, come spiegava Charrette), glistessi giacobini, gli stessi progressisti, gli stessiipocriti patrioti, gli stessi collettivisti che – nonè un caso – sventolano lo stesso tricolore di log-gia e di caserma. Anche noi, come loro e due-cento anni dopo, vogliamo la stessa comunità dicomunità libere, autonome, senza burocrati,questurini, prefetti. Senza foresti che ci coman-dano a casa nostra, che ci derubano delle nostrericchezze e della nostra cultura. Il nemico eraallora rappresentato dalle statue di Bruto, oggida quelle di Garibaldi.

La fucilazione del 3 maggio 1808. Dipinto di Francisco Goya, 1814

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Piemonte

Steme alegr, o piemunteis

Stème alegr, o Piemunteis,pijumma a rutta custi Franzeis,ho ma dij pira custi tusunde la partija chi men-nho le gambe,l’Imperatur u i ha comandàch’i meritreivo d’eise capun.

A Bunapart ist unurnun li vurrumma nent dée,i humma custrett a ciamée li butti,e Bunapart u i ha ben dicc:“Anduma a fèa rutta an sra tera d’ Negit”.

Birbant Franzeis, jei mal pensàdi piantée l’erbu dra libertà:pijèe cull bonett e caghé drentche ra mùneida mi’n ra serch nent, pije cull bunett dra libertàl’è l’urinare di disbancà.

Ant la geisa di S. Crussun-nha in’agunia:“Chi l’è ch’ l’è mort?” In disperà. “L’è l’urdinanza dra libertà”.

Canzone cantata nelle campagne monferrinenel 1799, subito dopo la partenza del Bonapartealla volta dell’Egitto. “Tusun” sono i giacobini,che avevano tagliato il tradizionale codino e por-tavano i capelli alla Bruto. “Bonnet” è il berrettofrigio. L’ Imperatore è, ovviamente, Francesco II,imperatore d’ Austria. Comunque la difficoltà dellinguaggio dialettale suggerisce di fornire la tra-duzione del canto:

Statemi allegri, o Piemontesi, \sconfiggiamoquesti Francesi, \dite pure a questi tosoni \dellapartita di quelli che menano le gambe, \l’Impera-

tore ha comandato \che meriterebbero d’esserecastrati. \A Buonaparte quest’onore \non glielovogliamo dare, \li abbiamo costretti ad arrender-si, \e Buonaparte ha ben detto: \”Andiamo a farrotta verso la terra d’ Egitto”. \ Birbanti Francesi,avete pensato male \di piantare l’ albero della li-bertà: \prendete quel berretto e cagateci dentro\ché la moneta io non la cerco per niente, \pren-dete quel berretto della libertà \che è l’orinale deifalliti. \Nella chiesa di Santa Croce \suo nanoun’agonia: \”Chi è che è morto?” Son disperati.\”È l’ordinanza della libertà”.

Sti giacobin s’fazio razun

Sti giacobin s’fazio razunvuréivo lvé la religiun.Lur i fazio na gran festa,a préive e frà cupé-i la testa.La libertà l’è andà a la fina confuziun dei giacobin.

‘L general russ a l’è rivà,sut a Turin a s’j’è fermà.A s’j’è fermà una gran bateria,bumb e granate e artijeria,a n’ un batia a bala fuà,la sitadela è stata pià.

I sun sti sgnuri giacobini vureioi esse padrun d’Turin.O giacobin, l’éi vu na ruta,e l’éi pia-ve na bela bota,e giacobin e patriote vi butruma tuti al crot.

Cantata nelle campagne di Alba nel 1799.Il generale russo è Aleksandr Suvorov, che,

avendo colpito l’immaginazione popolare tantocon le sue vittorie quanto con le manifestazionidi una fervente fede religiosa, compare spesso

Repertorio di canti delle insorgenze piemontesi

e trentino-tirolesidi Francesco Mario Agnoli

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nelle canzoni del ‘99. Anche in questo caso sifornisce la traduzione:

“Questi giacobini si facevano ragione, \voleva-no levar la Religione. \Facevano una gran festa,\ai preti e ai frati tagliar la testa. \La libertà è an-data alla fine \a confusione dei giacobini. \Il ge-nerale russo è arrivato, \sotto Torino si è ferma-to, \si è fermata una gran batteria, \bombe, gra-nate e artiglieria, \batteva con palle infuocate \ela cittadella è stata presa. \E son questi signorigiacobini \che volevano essere i padroni di Tori-no. \O giacobini, siete stati sconfitti, e vi sietepresi una bella botta, \e giacobini e patriotti \vibutteremo tutti in prigione”.

Trentino

Canzonetta nuova dei bersaglieri l’anno 1796

Avanti, avanti, o Galli,o bugher di Francesi,che i fidi Tirolesi

stan pronti a guerreggiar,dell’empietade, o mostri,l’ Italia è già ripiena, ma cambiasi or la scenafra monti del Tirol.

O stuol di Galli canigrida il Tirol, l’Imperoferma quel passo altero, che trapassò il confin.Fra queste valli avraidegli avi tuoi la sorte,qui gli recise mortesta qui ‘l sepolcro ancor.

Vostre minacce, o sgherri,inviti son per noi.Nulla temiam di voi.Siam fidi bersaglier.Siamo Fiemmazzi forti,son l’armi nostre buone,venite alla tenzone,

Battaglia di Sterzing. Dipinto di Karl von Mayrhauser

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che incontro ci facciam.

Serviam’ al patrio lidoal nostro Imperatore,fede, costanza, amore,amor, costanza e fé.Vostra empietà ci spingea sostener da eroila religion, che a noifitta ci sta nel sen.

Mahoni e gl’Ungaresison forti e son guerrieri,coi nostri bersaglierihan fatto stretta union.Già la provaste voise fida fu davverose fu quel fuoco fieroche molti ne colpì.

Ne replicate sfidea nostri bersaglieripiegaste sì i cimierie ne fuggiste ancor.Fatal ne fu per voila valle di Brusaccoove in qualunque attaccone contò estinti ‘l suol.

Fin che piume avetegite alla patria o Galli,per voi non son ‘ste vallifide e costanti al re.Se baldanzosi ancorasarete e così alteri,ci troverete fieriintrepidi leon.

Avanti, o masnadieri,dunque s’ avete cuore,ma il gal già canta l’ oredi vostra destruzion.La religion, la patria viva et per sempre il regge,viva qui la proteggeWukassovic ancor.

Canzone della valle di Fiemme risalente, se-condo l’ indicazione del titolo (nel testo origina-le è indicato addirittura il giorno, se non dellacomposizione, della stampa: 10 novembre), allaprima invasione francese del Tirolo (agosto1796). Le parole del testo sono perfettamentecomprensibili, dovendosi solo precisare che “bu-

gher” deriva dal francese “bougre” e significa“furfante”, e che “Mahoni”, più esattamenteMahoni Jager, indica un corpo alpino dell’arma-ta del generale Josef Philipp Vukassovich, deno-minati, come spesso usava nell’ esercito cesareo,Mahoni dal nome del loro comandante (appuntoil maggiore Wilhelm Mahoni).

La sorte che attende gli invasori (“degli avituoi la sorte”) è quella toccata nel 1703 ai fran-cesi, che, durante la guerra di successione spa-gnola, avevano invaso il Trentino. Nella valle diBrusacco, cioè, più esattamente, a Brusago, iFrancesi patirono, dopo un combattimento pro-trattosi per dieci ore, una dura sconfitta.

Tirolo

Canzonetta ai bravi e fedeli tirolesi

Tirolesi, Tirolesi presto all’armi: ecco i Francesi; deh lasciate i patrii muri,e al rimbombo dei tamburisu correte a trionfar.

Chi vi chiama, chi vi guidaè del ciel la scorta fida,è la patria ed il Re nostro,armin questi il braccio vostro e vi sian di sprone al pié.

Quando in campo scenderete,ricordatevi che sieteTirolesi ed Italianie menate ben le manisenza un’ombra di timor.

Rinnovate nel paeseun bel vespro tirolesecome un dì cantato l’hannoi nostri Avi fin dall’annoMille e settecento tré.

Che si avanzi in questa parteil gradasso Buonaparte,né Madame, né Prelati,né Signori degradatiA incontrarlo egli vedrà.

Gli daranno il benvenutocon un triplice salutofulminanti cannonate,strepitanti archibugiate senza un colpo mai fallar.

Fino i colli, fin le rupidegli altissimi dirupicon di sassi ampia tempestagli preparano una festafatta appunto per saltar.

E in tal festa di sassate,e di palle ben calcaterovesciati, pesti e rotti ballerannoi Sanculotti controdanze e minué.Viva allor Cesare vivasuoni pur l’ eco giuliva,e la fede vendicatae la Patria liberatatra i suoi figli esulterà.

Tirolesi valorosiagl’inviti bellicosicontro i Galli fuori fuori;quante creste a tre colorinoi vedremo in aria andar.

Anche questa canzone si riferisce all’ invasionedel 1796. Si noti come i volontari trentini trovinodel tutto naturale definirsi al tempo stesso Italia-ni e Tirolesi e come da entrambe queste qualitàtraggano motivo di vanto e di incitamento ademulare sul campo di battaglia le imprese com-piute dai loro antenati nel 1703, quando, in occa-sione della guerra di successione spagnola, iFrancesi del maresciallo Luigi Giuseppe di Ven-dome, anche allora alleati dei Bavaresi, penetran-do attraverso le Giudicarie, la Val di Ledro e la Val

Lagarina, tentarono di prendere Trento, venendo-ne impediti dai continui attacchi dei bersaglieritrentini, mentre gli schutzen delle Valli Pusteriae Venosta e della Bassa Atesina ricacciavano oltreBrennero i Bavaresi.

I Trentini si battono, oltre che per la Fede e l’Imperatore, per la libertà della Patria, concettodel resto per loro inscindibile da quello della reli-gione e della fedeltà al sovrano legittimo. Non è,quindi, la patria-nazione, tutta intellettuale e ditesta, dei cosiddetti “patriotti” giacobini, ma laPatria così ben definita nella famosa domanda-af-fermazione del generale vandeano Monsieur deCharette: “La nostra Patria per noi sono i nostrivillaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciòche i nostri padri hanno amato prima di noi. Lanostra Patria è la nostra fede, la nostra terra, ilnostro re. Ma la loro Patria cos’ è per loro? Voi locapite? Loro l’hanno nel cervello, noi la sentiamosotto i nostri piedi”.

Del resto i volontari sono profondamente or-gogliosi del loro paese, ed hanno la certezza chequi, a differenza di quanto è troppo spesso acca-duto altrove, in Italia e in Europa, Bonapartenon troverà ad accoglierlo, ossequiosi e pronti amettersi al servizio del vincitore e delle idee ri-voluzionarie, “né Madame, né Prelati, né Signoridegradati”. Probabilmente vi è anche, in questacanzone popolare, un po’ dell’orgoglio dei con-tadini, della gente semplice della montagna, chesprezzantemente attribuisce ai sanculotti balli e,quindi, costumi aristocratici: contro danze e mi-nuetti.

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Anno VI, N. 29 - Maggio-Giugno 2000 Quaderni Padani - 89

Non esistenella vicen-da delle In-

sorgenze padanenessun segnocomune di iden-tificazione, nes-sun simbolo“forte” della lot-ta antigiacobinache possa costi-tuire un corri-spettivo del cuo-re crociato diVandea.

Non si hannoche frammenta-rie notizie sul ti-po di contrasse-gni che impiega-vano gli insor-genti padani, suquali segni di ri-conoscimentoavessero adotta-to, su quali ves-silli o insegneinalberassero.

Gli speciali ca-ratteri localisticidel movimentofanno presup-porre che cia-scheduno impie-gasse propri se-gni di identifica-zione tratti dalrepertorio aral-dico locale, mu-nicipale, statualeo religioso-devo-zionale. Sappia-mo dell’uso dicroci e di sten-dardi processio-nali, e dell’im-piego di coccar-de a imitazione e

Note sui simboli degli insorgenti

Sacro cuore di Vandea conser-vato negli Archives départe-mentales di Vannes

Ritorno in patria dei vincitori. Dipinto di Franz von Defregger, 1876

Bandiera degli insorgenti della val Fontana-buona

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contrapposizione di quelle rivoluzionarie: questeerano quasi sempre composte con i colori muni-cipali o imperiali. Conosciamo con certezza chea Verona venivano - ad esempio - usate coccardeazzurre e oro.

Si suppone inoltre che ciascheduno impiegas-se anche le bandiera del proprio stato: di sicuroin episodi di insorgenza sono stati impiegatiDrapò piemontesi, aquile tirolesi, stendardi diSan Giorgio, gonfaloni veneziani con il leone diSan Marco e forse anche antichi stendardi delDucato di Milano. Sicuramente veniva con unacerta ricorrenza impiegata la bandiera imperiale.

L’unico caso conosciuto di elaborazione effet-tuata specificatamente in occasione del movi-mento insorgente è costituito dall’impiego docu-mentato della Croce di San Giorgio caricata nelprimo quarto con una immagine della Vergine,sicuramente impiegata dagli insorgenti liguridella Val Fontanabuona. Per certo invece si sache i nemici degli insorgenti utilizzassero tuttoun parafernale iconografico rivoluzionario di cuici è giunta fin troppo dettagliata documentazio-ne. Il segno più ricorrente fra i giacobini padaniera costituito dal tricolore.

Bandiera del II Reggimento Usseri della re-pubblica Cisalpina

La Guardia Veneta di Verona

Allegoria del Repubblicano fanatico. Stampaanonima

Anno VI, N. 29 - Maggio-Giugno 2000 Quaderni Padani - 91

Bibliografia sulle Insorgenze

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