buco nero - di michele marcon

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  • 7/28/2019 Buco nero - di Michele Marcon

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    ARCIPELAGO EDIZIONI

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    Perso in tempoANTOLOGIA DI RACCONTI

    a cura di

    MICHELE MARCON

    E GIULIO TELLARINI

    Introduzione di

    ANDREA G. PINKETTS

    Postfazione di

    PAOLO GIOVANNETTI

    Milano

    2008

    GIOVANI SCRITTORI IULM

  • 7/28/2019 Buco nero - di Michele Marcon

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    Per la presente edizione 2008 Arcipelago edizioni

    Via Carlo DAdda 2120143 Milano

    [email protected]

    Prima edizione dicembre 2008

    ISBN 978-88-7695-395-8

    Ristampe:7 6 5 4 3 2 1 02013 2012 2011 2010 2009 2008

    vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa lafotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

    Questo libro pubblicato con il contributo dell I.S.U. IULM

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    Perso in tempo

    Prefazione diANDREAG. PINKETTS . . . . . . . . . . 7

    MICHELE MARCON

    Buco nero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

    HULDAFEDERICAORR

    La chiave di vetro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29

    LINDAAVOLIO

    Noccioline per lanima . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47

    MASSIMOPIGNAT

    Atto vocalico vichingo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53

    LUDOVICAISIDORI

    Fango tonic . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67

    DANILO POTENZA

    A bocca aperta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81

    ANNACUOMO

    Girotondo in autoscontro . . . . . . . . . . . . . . . . . 103

    NICHOLAS DIVALERIO/SALINOCH

    Latte in polvere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123

    RACHELE CASATO

    Oggi sto bene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167

    RICCARDO FANTONI

    Perditempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175

    GLENDAMANZI

    Ora che ci penso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187

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    STEFANO PLEBANI

    isofromateM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197

    GIULIOTELLARINI

    Talidomide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217

    FRANCESCO DUVA

    Jigsaw . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243

    Postfazione di PAOLO GIOVANNETTI . . . . . . . . . . 251

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    Prefazione

    Il racconto ci che resta di un ban-

    chetto con la creativit. Il pranzo

    finito, andate in pace. Il commensale si

    alza. Lo scrittore si infila nel taschino

    la Montblanc che gli hanno regalato perla Prima Comunione o spegne il PC ricevu-

    to in dono per la Cresima. E si incammina

    verso il primo bar a tiro per fare un

    brindisi a se stesso e a quel senso di

    spossata liberazione da ci che andava

    scritto e stato scritto. Ci che resta

    lo aspetta a casa, fedele come un caneabbandonato al mondo.

    Se secondo Victor Hugo il gioco di

    parole lo sterco dello spirito che

    vola, il racconto sicuramente la spaz-

    zatura di anime sgravate. Ora Perso in

    tempo la raccolta differenziata di

    monnezze vitali e mortali.Gli inafferrabili scrittori dello IULM

    prima di rendersi nuovamente irreperibi-

    li ci hanno lasciato ancora una volta

    tracce del loro passaggio. Bucce di bana-

    na su cui scivolare, torsoli della mela

    trafitta da Guglielmo Tell, bottiglie

    vuote il cui contenuto stato scolatonel baccanale del processo creativo.

    Amo la spazzatura: la prova che un

    miracolo stato consumato.

    7

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    Gli autori si sono persi in tempo.

    Giusto in tempo per non cadere nella

    trappola della parola di troppo. Quellache avrebbe impedito la digestione. I

    racconti hanno tutti i tempi giusti. Sono

    spesso figli del tempo delle mele.

    Avvelenate.

    In ogni racconto che non aspiri maso-

    chisticamente allinutilit deve acca-

    dere qualcosa. Qui ne capitano di tutti icolori. Anche se il colore predominante

    il nero.

    Questa raccolta di racconti qui a

    ricordarci che ci che abbiamo immagina-

    to stato vivo e ora custodito nella

    pattumiera di Pandora.

    Andrea G. Pinketts, er monnezzaro.

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    Perso in tempo

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    Michele Marcon

    Buco nero

    Una bionda piccola, grazie.

    Una pinta di Guinness.

    Marco, corri al cinque: una porca e patatine!Sono sei mesi tondi che lavoro al Vizio. Questo il

    nome del pub dove lavoro da sei mesi. Da sei mesi fac-cio avanti e indietro tra i tavolini, spino birre e preparo

    bruschette. Faccio un po di tutto, a giro. Siamo io e Luca,il pub ha aperto da sei mesi e abbiamo un gran da fare. E

    pulisco pure i bagni, anche se a volte viene ad aiutarciRomina, una ragazza brasiliana. Luca seriamente inna-morato. Io ho qualche pregiudizio sulle ragazze brasi-liane. E Romina una ragazza strana. Va a periodi.Ultimamente si presenta con un taglio di capelli assurdo,la frangia segata di netto e ciocche di capelli rosso fiam-meggiante sulla zazzera incolta. Ha un nuovo piercingsul naso e si veste con abiti presi senza dubbio al merca-tino dellusato, canotte dagli abbinamenti di colore im-

    probabili e pantaloni larghi e rattoppati a vita bassissima,coi mutandoni della nonna bene in vista. Le manca soloun cane pulcioso che la accompagni ovunque.

    Da un po di tempo a questa parte vedo delle ombremuoversi intorno a me, quando sono a casa da solo. Nonavevo mai lavorato prima. una gran fatica, ma non pensoche le due cose siano correlate. Abito con Luca e Romina,

    per ora. Ma voglio trovare una casa per conto mio al pi

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    presto. Mi accontento di un cesso di monolocale in affitto,anche in culo al mondo. Anche se da queste parti ci tro-

    viamo gi attorno al buco del culo del mondo.Certo che un vero sbattimento. Non avete idea di chesbattimento sia cercare casa. O forse ce lavete. Comun-que per me uno sbattimento: tutto il giorno in giro a ve-dere posti e parlare con persone di cose, e cose poi lasera lavoro, torno a casa e fumo. E vedo le ombre. Manon penso che le visioni siano dovute alla quantit indu-

    striale di fumo che ci facciamo ogni sera. Romina a for-nire. Io non so dove la trovi la roba. Fuma come una turcaRomina, anche se brasiliana, ed costantemente fuori.Fumiamo nel cosiddetto angolo del fumo, due metri perdue addobbati come fossimo a Il Cairo, o chiss dove,con tappeti persiani polverosi ammassati a terra e grandicuscini della stessa fattura e dello stesso contenuto aca-roso. Nel mezzo, se si potesse trovare un centro in quel-langolo di stanza, un grande narghil comprato duranteun viaggio a Marrakesh. Residui di un altro periodo diRomina. E Luca asseconda ogni sua decisione. un ra-gazzo buono, Luca.

    Non so perch ho iniziato a vedere le ombre muoversiattorno a me. Mi schizzano ai lati degli occhi comespruzzi dacqua, ma svaniscono appena tento di focaliz-zare. Mi trovo bene al pub, da sei mesi a questa parte; misento attivo, impegnato, e non c niente che mi di-stragga. Non ricordo granch del mio passato, prima.Forse tutte queste canne avranno pure un qualche effetto.Ricordo che ho smesso di andare in chiesa dopo la cre-sima. Penso fosse colpa degli amori sbagliati.

    Fino a qualche tempo fa, prima di iniziare a lavorare,studiavo medicina alluniversit. Ne passata di acquasotto i ponti. Avevo una barchetta di carta ormeggiata,ma la corrente me lha portata via. stato un brutto pe-riodo. I minuti si confondevano gli uni con gli altri, e po-trebbe essere passato solo qualche mese, o degli anni.

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    PERSO IN TEMPO

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    Sinceramente non so. Ma non importa, ora sto bene, enon importa il prima. Studiavo a Ginevra, in Svizzera.

    Ma la facolt di medicina in Svizzera una vera porcata.Ti fanno preparare tutte le materie del semestre in unasola sessione, e poi devi sostenere un esamone che con-tiene lintero programma in ununica prova. Senza pos-sibilit derrore. Anzi, con una possibilit derrore.Perch in Svizzera sanno che errare umano. Ma perse-verare diabolico, perci se sbagli lesame anche al se-

    condo colpo sei fuori, out, per sempre, e non puoi pistudiare medicina in territorio elvetico. Sei marchiato avita come Quello-che-non-ha-passato-lesame-per-due-volte-e-che-non-potr-pi-diventare-medico. E ti spedi-scono via come un bel pacco regalo riciclato. Tantiauguri. E come se non bastasse sei avvolto in un clima diterrore che ti entra nelle ossa, perch il tuo risultato nondipende effettivamente dalle tue conoscenze, ma dipendedalla bont del risultato dei tuoi compagni. Fin dal-linizio sapevo che il mio vicino di banco poteva essereil mio boia. Li odiavo tutti. Ero angosciato e aggressivo.

    Non dormivo la notte. E se dormivo sognavo langosciastessa. Cos in territorio elvetico. Ma lontano ormai.

    Non ho passato lesame e non posso pi laurearmi. In ter-ritorio elvetico. Non ricordo perch ho deciso di studiarein Svizzera, ma a ragion veduta sembra proprio esserestata una decisione sbagliata. Forse volevo solo cambiarearia. E per giunta a Ginevra, lass, in culo ai lupi. Se-condo logica dovrebbe essere meglio, forse. Cos dicono.In ogni caso finita. Avrei dovuto cambiare universit,tornare in Italia, e ricominciare tutto da capo. Avevo pen-sato a Milano, o a Padova, mi hanno detto che c una

    buona facolt. Ma poi ho deciso di lavorare. Fanculo tuttoquanto. Avevo buttato due anni della mia vita sui libri. Citenevo. Veramente. Volevo diventare un medico. Lhosempre voluto. Volevo aiutare le persone. Non come quelcazzone di mio cugino che ha deciso di diventare medico

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    MICHELE MARCON BUCO NERO

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    guardandoBaywatch. Chiss poi perchBaywatch e nonE.R. o ilDottor House. E ironia della sorte sta andando

    avanti. Molto probabilmente diventer uno dei chirurghiplastici pi richiesti del nord Italia.Ma ora sono un barista. Il primo giorno, quando ho sa-

    puto i risultati, mi sentivo uno schifo. Ho provato a con-testare il voto, volevo perlomeno prendere visione del miocompito, vedere cosa avevo sbagliato, capire il perch.Perch avevo passato gli ultimi mesi della mia vita da re-

    cluso nel mio piccolo stanzino in un freddo collegio, astudiare. Mattina e sera. Studiavo come un disperato, atesta bassa, non cerano domeniche o festivit. Volevo ca-

    pire, ma mi hanno chiuso le porte in faccia. E il secondogiorno mi sono sentito proprio uno sfigato ascoltando lacantilena di cazzate rifilatami da tutte le segretarie in coro.Mi hanno sputato addosso. Come fossi lultimo dei pez-zenti. E il terzo giorno mi sentivo come se mi avessero li-cenziato, anche se non avevo mai lavorato in vita mia. Tisvegli la mattina presto e ti rendi conto che non hai nienteda fare tutto il giorno. Continui a svegliarti alle sette emezza del mattino, ma non hai un perch. Prendi in manoun libro, ma che senso ha? Tanto non serve a niente, e letue giornate sono sempre pi vuote e incolori, impregnatedal senso di nausea, color bile. Non mi ero mai sentitocos solo. Penso sia stato allora che ho cominciato a ve-dere le ombre. Forse per tenermi compagnia.

    Al che ho iniziato a lavorare con il mio vecchio amicoLuca, che da tanto tempo voleva aprire un pub e volevachiamarlo Vizio, sperando di non dimenticare mai i beitempi andati, quando marinavamo la scuola per andaredietro alle ragazze al centro commerciale, e poi ci si ri-trovava ogni sera sempre allo stesso posto, dove tutti co-noscevano tutti, a bere e a far baldoria. Non ricordo gliavvenimenti particolari. Solo le lunghe abitudini. Matutto mi sembra cos confuso. Qualcosa di certo si in-crinato sul crinale del tempo.

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    PERSO IN TEMPO

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    Ormai erano sei mesi che lavoravo al Vizio, e gi nonne potevo pi di stare fermo a fare sempre le stesse cose.

    E le birre, e le bruschette, e i toast, e i rum e pera. E cor-rere su e gi per i tavoli fumosi, e prendere sempre lestesse ordinazioni, per la stessa gente, tutti con le solitefacce. Una volta mi sarebbe andato bene cos, ma ora non

    pi. Inoltre cerano sempre le solite ombre alle quali ora-mai non facevo pi caso. Le ombre non sono importanti.Sono solo sagome, segni.

    Luca non si era certo sforzato troppo per allestire ilsuo locale, e laveva agghindato come la stragrandemaggioranza dei pub che potete trovare da queste parti.Tavoli rettangolari di legno massiccio, qualche panca,qualche sedia, al banco degli sgabelli rotondi col cu-scino in velluto verde, e lampadari che emanavano unadebole luce giallognola tendente allarancione. Alle pa-reti le immancabili bandierine colorate e dei pietosi qua-dri che raffiguravano dei patetici scenari agresti. Il fioreallocchiello, e vero orgoglio di Luca, era la parete com-

    pletamente ricoperta da sottobicchieri di quasi tutte lebirre del mondo. Non era male. Anche se lui la tenevadocchio come se fosse ricoperta doro. Aveva attaccatoun cartello con scritto Vietato appoggiarsi, e se percaso o per sbaglio qualcuno la sfiorava solamente, lui siavvicinava allo sbadato di turno pregandolo gentilmentedi non ripetere lerrore e di prestare attenzione al car-tello. E gli davano ascolto. Luca la persona pi buonadel mondo, ma ad un energumeno di 120 chili che ti si faincontro e ti prega gentilmente di stare attento al suomuro del cazzo non ti viene mica da rispondergli Mache cazzo vuoi!. Insomma, un tipico pub inglese al-litaliana. Cerano tre televisori con lapay-tvper guar-dare le partite di calcio. Avevamo anche un piccolospazio allaperto da gestire durante la bella stagione.Tutto sommato era accogliente, quasi ammiccante, e die-

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    MICHELE MARCON BUCO NERO

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    tro il bancone mi sentivo come a casa, ma il pi dellevolte ci rimaneva il mio capo e io ero costretto a sfrec-

    ciare tra i tavoli facendomi largo tra folate di sudore evestiti appiccicosi e aliti pestilenziali.E il mio capo era Luca, questo da capire, anche se

    non era il capo assoluto, perch cera anche il Gran Capo.Lui era solo il gestore, mentre il proprietario del locale sisar fatto vedere in totale tre o quattro volte, durante qual-che sporadica serata uggiosa. Era un tipo alto e bruno,

    bruno nel senso di pesantemente lampadato, con il ven-tre gonfio ben in vista; di sicuro era un ottimo bevitore.Indossava quasi sempre una camicia scura. Pareva un tiposeriamente attaccato ai soldi e, pur lasciando a Luca pienalibert gestionale, ci teneva che il lavoro fosse fatto comeda contratto. Niente da dire, ma quelle poche volte che si

    presentava al Vizio mi guardava sempre strano. Questaera la mia impressione. Mi guardava bieco, e un paio divolte si perfino permesso di fare qualche commento sulmio operato. Parole: entrano da una parte ed escono dal-laltra. Se lavesse saputo, quel vecchio scimmione, nonavrebbe sprecato tanto fiato, e poi avrei proprio volutovederlo a lavorare in quel modo. Ma forse lavevano givisto in molti, e lui aveva lavorato, e Dio solo sa quanto,ma preferivo in tutta segretezza mantenere il mio distaccodalla situazione e la mia sovrastruttura sui fatti. Inoltrenon lavevo mai visto ridere, e questo acuiva la mia dif-fidenza nei suoi confronti. A meno che per ridere nonsintenda una smorfia di circostanza, una contrazionespasmodica dei muscoli facciali durante la quale gettavafuori con forza laria, emettendo una sorta di sibilo che glifischiava tra i denti. Fortunatamente il locale era nellemani capaci di Luca, che era s altrettanto diligente, maera molto pi indulgente nei miei confronti, ed era mioamico. E quando mi beccava a sorseggiare una birrettadietro il banco nellattesa di unordinazione si limitava amandarmi unocchiata mista di rimprovero e compren-

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    PERSO IN TEMPO

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    sione. Mi trattava con paternalismo. Non so se questa una bella cosa, ma al momento le cose mi filavano via

    lisce cos e a me andava pi che bene. Mi ero completa-mente abituato alle ombre. Anche se tornare a casa ognimattina alle quattro non era facile. Ma era pur sempre ilmio lavoro, in quel periodo.

    Tra laltro avevo cominciato a sentire un senso divuoto allo stomaco.

    Linverno era arrivato ed era freddo. Io adoravo quel

    tempo perch potevo stare tranquillo che non avrei su-dato. Sudo tantissimo, ho una temperatura interna pi altadel normale, come una fornace, o un vulcano con la saccamagmatica in subbuglio. In medicina tutto ci ha unnome, ma ho dimenticato ogni cosa in fretta. Ogni tantoandavo in giro a maniche corte e la gente per strada miguardava strano. Ma oramai mi ci ero abituato: ho sem-

    pre avuto caldo e ho sempre sudato tantissimo. Dovevostare al fresco per non sentirmi a disagio. E mi ero abi-tuato anche alle ombre, le cose filavano lisce e non ceraormai pi niente che mi turbasse. Tranne quel buco allostomaco che si allargava pian piano. Mangiavo, sempre,come al solito, ma stranamente avevo iniziato a dimagriree non capivo il perch.

    E con linverno era arrivata anche lei. Il Vizio avevasfondato ed ogni sera era sempre pi affollato. Cera tal-mente tanta gente che parte degli avventori doveva rima-nere fuori ai bordi della strada a bere e a chiacchierare. Se

    per loro andava bene cos, nessun problema, ma io e Lucanon ce la facevamo a star dietro a tutta quella gente dasoli, e Romina non ci era di grande aiuto. Era sempre stra-fatta, tanto che alle volte non riusciva nemmeno a reg-gersi in piedi. Forse anche per via dei tacchi a spillovertiginosi con cui aveva iniziato a barcollare tra i tavoli.Era entrata nel periodo Sono-figa-solo-io; ascoltava solohouse e si tirava come un cavallo da corsa. Luca tacevae acconsentiva; tra laltro era veramente una gran figa ti-

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    MICHELE MARCON BUCO NERO

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    rata cos. Comunque lei si chiamava Chiara. Ed era unangelo. Forse il mio.

    Chiara veniva a darci una mano durante i week-end,quando lafflusso di clienti era superiore alle nostre pos-sibilit. Si muoveva tra i tavoli con uneleganza innata,una leggerezza di fata. E sorrideva sempre. Il suo sorrisomi faceva dimenticare di essere al mondo, e stavo bene.Dimenticavo ogni cosa, quando la guardavo, e con tuttoquello che avevo gi dimenticato la cosa migliore era che

    mi dimenticavo anche di me stesso. Ogni tanto ero tal-mente rapito che Luca veniva a risvegliarmi con unapacca sulla schiena, poi mi lanciava unocchiata che do-veva sembrare corrucciata, ma lo sapevo che in fondo micapiva.

    Ti piace, eh? Ma no dai, appena arrivata. E poi lo sai che in que-

    sto periodo non riesco a pensare alle donne. Con tuttoquello che succede

    Mi sa che non me la racconti giustaA volte credo di non raccontarla giusta nemmeno a me.Il grembiulino da lavoro verde le stava da Dio, si in-

    tonava perfettamente con i suoi grandi occhi smeraldo.Ogni sera prima di cominciare andava in bagno e si rac-coglieva i lunghi capelli neri. Erano gesti che compivacon estrema cura, quasi un rituale. Si toglieva gli occhialicon le stanghette rosse e li posava sul lavandino, poi, te-nendo il fermacapelli tra i denti, legava i capelli in unaspecie di chignon, lo bloccava con la mano sinistra e conla destra prendeva il fermacapelli dalle labbra, era moltosensuale, e lo agganciava con cura. Una farfalla colorata.Studiava medicina, e proprio a Ginevra, come me. Oraera laureanda, stava per finire, ma in attesa di iniziare ildottorato faceva questo lavoretto part-time per racimo-lare un po di soldi. Non si guadagnava molto, ma me-glio di niente. Non mi pareva di averla mai vista. Leiabitava a Lugano, ma non mi aveva detto perch scen-

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    PERSO IN TEMPO

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    deva fin qui per lavorare. Non mi aveva detto neppureperch da Lugano aveva deciso di andare a cacciarsi a

    Ginevra, ma probabilmente era per il mio stesso motivo.Non ci parlavamo moltissimo, eravamo entrambi indaf-farati, e io ero troppo timido. Forse ero innamorato. Diogni suo movimento, ogni espressione, ogni sguardo eogni smorfia. Specie quando alcuni clienti burberi edubriachi le vomitavano addosso commenti poco galanti:se i nostri sguardi si incrociavano arricciava il labbro su-

    periore soffice e carnoso, e alzava le sopracciglia, quasiper giustificarsi. Ma con me non avrebbe dovuto giusti-ficare proprio niente. Ogni volta che finiva il suo turno sene andava salutando tutti agitando allegramente la mano,come le bambine. Questa era la spensieratezza.

    Ma qualcosa mi preoccupava sempre pi. Quella sen-sazione di vuoto, la sentivo espandersi. Stavo dimagrendoa vista docchio. Anche Luca se nera accorto e mi avevachiesto se cera qualcosa che non andava. No, no, tutto

    bene. Mi aveva detto di tenerlo informato, che era pre-occupato, che non era possibile, e che avevo perso s eno dieci chili in una settimana. Grazie Luca. Io ero anche

    pi preoccupato di lui, ovvio, ma non avevo voluto pren-dere in mano la bilancia. Anche se dieci chili li avevo

    persi sicuramente. Forse anche qualcuno in pi. Stavoquasi scomparendo. Sembravo un deportato, o meglio,sembravo Christian Bale neLuomo senza sonno. Avevosmesso di vedere le ombre, e poi questo: non riuscivo acapire se le due cose erano correlate. Alle ombre nonavevo dato tata importanza, ma questo

    E un giorno, dopo lavoro, come al solito alle quattrodel mattino sono rientrato a casa e mi sono messo a fu-mare qualche spinello con Luca e Romina. Ma quella serami sentivo strano e particolarmente stanco. I due pic-cioncini avevano cominciato ad amoreggiare e vedere unomaccione grande e grosso strofinarsi contro una ragaz-zetta tutta culto e tette era uno spettacolo che mi volevo

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    MICHELE MARCON BUCO NERO

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    proprio risparmiare. Ne ho approfittato per congedarmisilenziosamente. Sono andato in bagno a lavarmi i denti.

    E con sommo orrore ho scoperto che un piccolo bu-chetto nero aveva preso il posto del mio ombelico. Stavoper impazzire dallo spavento, e mi sono dovuto mordereuna mano per non urlare. Mi mancava il respiro e nonriuscivo nemmeno a piangere. Ma non potevo farmi sen-tire da Luca. Non era possibile. Anche se probabilmentenon mi avrebbe sentito, perch stava in camera a drogarsi

    e a limonare con Romina. Ma non importa. Non era pos-sibile, in ogni caso. Cosera? questa la sensazione divuoto? Cristo santo! Davanti allo specchio mi guatavoincredulo. Un buco nero nel centro del mio stomaco. Col

    polpastrello ho sfiorato la pelle, partendo dallalto, dalcollo, e poi gi, per provare a toccare lorlo di quel bucocon il dito, ma subito ho ritratto inorridito la mano.Quella cosa si muoveva. Il buco si muoveva impercetti-

    bilmente. Si stava allargando sempre pi. Mi stava man-giando. Non sapevo che fare. Ero paralizzato. Non potevoandare n da un dottore n da nessunaltro. Li conosco imedici io; mi avrebbero trattato come una cavia, o chissche cosa. Il vuoto si espandeva, ma non potevo dirlo anessuno. Non potevo fare niente. Ho messo il pigiama.

    Nessuno lavrebbe dovuto vedere. E forse non era niente.Quella sera mi sentivo strano e poteva essere solamenteleffetto del fumo, che mi aveva preso male. Sono andatoa dormire, aspettando con ansia il risveglio, ma cercandodi non pensarci.

    Il mattino seguente il buco nero era ancora l, e si eraallargato di qualche centimetro. Non cera niente che po-tessi fare. Avevo uno strano presagio. Sentivo qualcosache si allontanava lentamente e qualcosa che mi stavacorrendo addosso. Non mi restava che fare finta di niente,continuare come al solito. E poi stasera c lei, come ognivenerd sera. Oggi il giorno di Chiara, e la possibilit divederla mi toglie dalla testa ogni pensiero nefasto e que-

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    PERSO IN TEMPO

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    sta sensazione mortifera. La giornata trascorsa in fretta,con i minuti che si accavallavano gli uni agli altri. Verso

    le cinque del pomeriggio ho avuto un mancamento e misono dovuto appoggiare ad un tavolo perch non riuscivoa reggermi in piedi. Luca accorso immediatamente adassicurarsi delle mie condizioni e mi ha detto che se vo-levo potevo tornare a casa, che stasera se la sarebbe ca-vata da solo. Ma non potevo tornare a casa perch dovevovedere Chiara. Gli ho detto che non cerano problemi,

    solo un calo di pressione.Ok, mi ha detto, ma resta in cucina, che pitranquillo. Ok. Questo molto pi facile. Dovevo soloaffettare il prosciutto, la porchetta, la mortadella,tagliare il pane, sbucciare le patate da friggere, fare a

    pezzi pomodori, mozzarelle, formaggi vari, perpreparare bruschette, piadine, panini. Mi sono messoimmediatamente allopera, ma non ero ancora ab-

    bastanza lucido. Luca, che mi stava osservando ap-poggiato allo stipite della porta, se nera accorto, e mi habloccato la mano prima che mi tagliassi un dito.

    Sicuro che va tutto bene? S, s.Mi sono fatto portare una pinta di birra per tirarmi su.

    Ma dove lavrei messa? Sentivo il buco nero allargarsisempre pi. Sono andato in bagno per controllare la si-tuazione. Ho chiuso la porta a chiave e ho alzato la ma-glietta davanti allo specchio. Ci avrei potuto infilaredentro una mano adesso. Mi sono rivestito in fretta e misono lavato il viso con lacqua gelida. Appoggiato ai

    bordi del lavandino mi guardavo dritto negli occhi, allospecchio, il volto trasfigurato, con lacqua che mi goc-ciolava dal mento. Il buco si espandeva a vista docchio.Sentivo che sarei venuto meno. Che fossi destinato aquella fine ignobile e anonima? Scomparire. Annullarmi.Diventare unombra. Ombre di merda. Segni del cazzo.Che cosa avrebbe potuto ricompormi? Forse Chiara? Lei,

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    un angelo, forse il mio. Forse il suo amore avrebbe potutosanare la mia ferita diabolica. Forse lo stesso destino

    aveva messo sul mio cammino la possibilit di sal-varmi sono sempre stato dannatamente melodramma-tico, ma ora questa situazione mi stava facendo diventare

    pi rabbioso che mai. Avevo paura, e con la paura cre-sceva in me la rabbia. Dovevo assolutamente trovare laforza di espormi. Sono uscito e mi sono rimesso al la-voro, pi deciso che mai a parlarle.

    Lei arrivata al Vizio alle sette. Era sempre bellissimain tenuta da lavoro; un paio di jeans, una t-shirt nera e ilgrembiulino verde. Tutte le mie coordinate venivanosconvolte dalla sua presenza.

    Pass in cucina per appendere il suo cappotto allat-taccapanni. Appena entr la salutai con un gesto dellamano che stringeva ancora il coltello e lei si limit ad uncenno del capo in risposta, mentre si toglieva il cappotto.Pian piano cominci ad arrivare un sacco di gente, e nellocale affollato le mie possibilit di parlarle si riducevanoa meno di zero. Io stavo chiuso in cucina e lei era sempredi l, tra i tavoli. Allora scattai verso il banco e presi su-

    bito lordinazione ad un tavolo in cui si erano appena se-duti un ragazzo e una ragazza. Luca mi vide e mi sbraitcontro Ma che cazzo stai facendo!

    Sto bene, sto bene, voglio stare in mezzo alla genteper tirarmi un po su, puoi andare un attimo tu in cucina?Grazie.

    Ma ero bianco come un cencio. Cercai Chiara con gliocchi, ma lei non mi guardava. Ci incrociammo un paiodi volte tra i tavoli, e provai a sfiorarla per attirare la suaattenzione, ma lei continuava indaffarata il suo percorso,come se non si fosse accorta di nulla. Verso le dieci oerano le undici? fui colto da un altro mancamento. Af-fondai il passo nel vuoto e vacillando rovesciai a terra ilvassoio con le ordinazioni; una bionda piccola, una pintadi Guinnes e una bruschetta. Chiara si precipit a pulire.

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    Per la prima volta avevamo loccasione di stare fermi ecos vicini luno allaltra. Le nostre teste si sfioravano,

    chinati a raccogliere i cocci dei bicchieri e ad asciugareil pavimento. Le dissi che volevo parlarle, che era moltoimportante. Lei, continuando a passare lo straccio a terra,mi rispose che non cera tempo, che quella sera cera unsacco di lavoro. Non mi guardava negli occhi. Le dissiche stavo molto male e che avevo bisogno di lei. Che eroinnamorato. Per la prima volta alz lo sguardo sul mio. I

    suoi occhi smeraldo brillavano di una luce terribile. Sem-brava impaurita; il mio volto era cos deturpato dalla sof-ferenza da provocarle quella reazione? Indietreggi edisse qualcosa che non compresi appieno, forse Mispiace, o qualcosa del genere, ma non ricordo bene.La presi per il braccio, forse strinsi con eccessiva forza

    perch fece una smorfia di dolore. Ma non era mia in-tenzione. Ero sconvolto da tutto quello che non capivo:dallamore, dalla rabbia, dal dolore, da quella sensazionedi vuoto crescente, e presagi, e ricordi, e lombra su dime, e la tremenda paura di svanire nel nulla. Sentivo un

    peso opprimente sopra la testa. Le dissi di seguirmi inbagno. Stai tranquilla, le dissi voglio solo farti ve-dere una cosa. Finimmo di pulire il danno. Lei mi seguin bagno, ma continuavo a tenerla stretta per il braccio.Chiusi la porta a chiave. Lei sembrava terrorizzata. Ledissi di stare tranquilla. Le dissi tutto quello che avevo

    pensato poco prima; che ero innamorato di lei, che nonpotevo vivere senza, che stavo male, stavo per morire,ma ero sicuro che lei fosse la mia salvezza, che il suoamore mi avrebbe mondato. Le dissi del buco nero che siespandeva. Lei aveva gli occhi orlati di lacrime, e io feci

    per tirare su la maglietta, ma lei mi blocc le mani. No,no, disse che stai facendo? Lascia stare che ti fac-cio vedere, le risposi guarda, guarda cosa mi sta suc-cedendo!

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    E non ricordo se stavo urlando o meno, forse ero unpo concitato, perch lei si rannicchi stretta nellangolo.

    Alzai la maglietta e il buco nero si era allargato ancor dipi, e ora mi aveva mangiato anche parte del torace. Lovedi? Lo vedi! Vedi che sto per morire, ti prego e lei,

    piangendo, mi disse che ero pazzo, che dovevo lasciarlaandare, che non ce la faceva pi, e con un movimento

    brusco liber la mano che ancora le stringevo forte, aprla porta e usc dal bagno.

    Mi sistemai e corsi fuori per prenderla, ma davanti agliocchi mi si par una scena che mi paralizz. Dalla portadingresso era appena entrato il Grande Capo, il proprie-tario del locale, col ventre gonfio e la solita camicia scura.Chiara gli corse incontro e gli si gett al collo piangendo.Lui la abbracci come un padre, accarezzandole i bei ca-

    pelli neri e sussurrandole qualcosa allorecchio. Lei sicalm un pochino. Quindi lui le asciug le lacrime con ungesto affettato della mano. E si baciarono. Sentii un tonfonel petto. Il buco nero doveva aver raggiunto il cuore.Respiravo a fatica e mi girava la testa. Non riuscivo pia reggermi in piedi. Andai verso il bancone, tutto sudatoe accaldato, quattro metri sembravano la traversata deldeserto. Arrivai trafelato e mi appoggiai con i gomiti persostenermi. Dissi a Luca che stavo male e gli chiesi seera ancora valida la possibilit di tornare a casa a ripo-sare.

    Ma che cazzo stai combinando stasera? Sto male Luca! Porco dio fammi andare a casa,

    cazzo!Mi guard dallalto, mentre asciugava un bicchiere, e

    vedendomi in quello stato pietoso mi rispose che s, po-tevo tornare a casa, e mi chiese anche se avevo bisognodi una mano. No, grazie Luca. Ciao.

    Tornai in cucina dove avevo lasciato il giubbotto.Cera Romina nel nuovo periodo afro-funkcon una cannain mano, la salutai, ma non si accorse di niente. Lo infi-

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    lai con la fatica con cui i matti infilano le camicie diforza. Era pesante. Uscendo incrociai lo sguardo del

    Grande Capo. Chiara era tornata a servire tra i tavoli. Eragi finito tutto? Comera possibile che stesse con unuomo del genere? Mi guard storto, come al solito.

    Niente di pi. Non potevo sopportare quellindifferenza.Arrivai con fatica alla macchina e mi lasciai cadere a

    peso morto sul sedile. Boccheggiavo. Aspettavo. Avreiaspettato che Chiara finisse il suo turno. Dovevo par-

    larle. Non poteva finire cos. Non avevo neppure avutoil tempo di farmi ascoltare. Non mi aveva lasciato iltempo di spiegare, di farmi capire. Speravo di farcela.Ormai non cera molto pi tempo. Sentivo che il vuotomi lambiva la gola. Il buco nero mi stava inghiottendo.Faticavo a respirare. Non so dire con precisione quantotempo pass. Forse mi assopii. Ma dun tratto qualcosami svegli. Vidi la luna piena che brillava in cielo. Poi lamia attenzione fu attirata da unesile figura scura che at-traversava guardinga la strada. Era lei. La luce della lunale illumin il volto stranamente segnato dalla paura e dal

    pianto. Giunse alla sua auto e apr la portiera guardan-dosi intorno. Il Grande Capo doveva gi essere andatovia. Che cazzo le aveva combinato? Laveva rimprove-rata? Laveva fatta stare male? Laveva picchiata forse?Dovevo sistemare la faccenda, finire di spiegarle tutto etranquillizzarla. Mise in moto la macchina e part. Eranotte inoltrata. La luna piena era enorme. Non lavevomai sentita cos vicina. La luce opalescente proiettavasul mondo ombre strane. Ma ero abituato, non so daquanto tempo, ma mi ci ero abituato. Decisi di seguirla.

    Alla prima sosta ci saremmo fermati a parlare. Ma erostremato. La vista mi si annebbiava. Mi sentivo svenire.Dovevo resistere. Non ce la facevo. Mi accasciai sul vo-lante e ricordo solo il bagliore intermittente dei lampioni,il suono del clacson, poi un botto. Ero finito contro la suaauto ed eravamo usciti di strada. Stordito e in preda a una

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    forte confusione uscii dalla macchina, prossimo al deli-quio. Ficcai le mani ben dentro le tasche del giubbotto

    per proteggermi dal freddo. E questo? Barcollavo. Lei eraancora nellabitacolo, al bordo della strada. Mi avvicinaie aprii lo sportello. Lei grid e si port le mani sul visocontratto da unespressione spasmodica e agghiacciante.Perch fai cos Chiara? Non capisci che voglio solo chemi ascolti? E mi inginocchiai ai suoi piedi, pregando chemi stesse vicino, che avevo bisogno di lei. Mi alzai per

    abbracciarla, e le dissi qualcosa allorecchio, non ricordobene. La abbracciai stretta a me per farle sentire tuttolamore che. Non ricordo. Lei giaceva esangue, senzavita, nella sua auto. E io ero imbrattato di sangue e te-nevo stretto il coltello in pugno. Cos successo? Coserasuccesso? Cosa succede?

    Corsi via, in delirio, non capendo pi niente di tuttoci che avevo attorno. Solo sensazioni che si affastella-vano velocemente, e non so quanto tempo passato equanta strada ho percorso barcollando disperato nel buioopalescente della notte. Mi accorsi di stringere ancora ilcoltello in pugno e lo scagliai a terra con violenza, e co-minciai a piangere. Piansi senza sosta fino a che non crol-lai a terra, stremato. Mi sentivo come avvolto dallombrae non riuscivo pi a vedere la luna. Alzai la maglietta pervedere che il buco nero aveva ormai raggiunto la quasi in-terezza del mio corpo. la fine. I miei lamenti si inter-ruppero quando il vuoto mi avvinse e io svanii nel buiodella notte, come unombra, sotto il pallido riflettore dellaluna, inghiottito dal buco nero, e con me il mondo intero.

    Carla Rusconi, 26 anni, laureanda in medicina pressoluniversit degli studi di Ginevra, per guadagnare qual-cosa lavorava in un pub, il Vizio. Qualche giorno fa,terminato il turno di sera, prese la macchina per tornarea casa. A bordo di unaltra auto la segu un suo ex ra-

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    gazzo, Marco Martinelli, 27 anni, con precedenti penali.Percorsa poca strada la tampon, poi la speron co-

    stringendola a fermarsi. Lui scese dalla macchina, leand vicino, apr lo sportello e la colp con un coltello alcollo, al viso, al torace e infine le recise laorta: in tuttoil corpo le lasci 15 tagli. Gettata larma per strada, il

    Martinelli vag a piedi per qualche chilometro. I due ra-gazzi si erano fidanzati durante il liceo, pur frequentandodue scuole differenti. Poi si iscrissero entrambi alla fa-

    colt di medicina a Ginevra, seguendo le esigenze per-sonali di Carla. Ma lui non riusc a proseguire e fucostretto a tornare in Italia dove, per un paio danni si

    guadagn da vivere con lavori saltuari, furtarelli di pococonto e spaccio di stupefacenti, per il quale fu arrestatoun paio di volte e presto rilasciato. Lei continu la car-riera universitaria e pose fine al loro rapporto, tentandodi eliminare i contatti col Martinelli. La relazione tra idue sempre stata difficile e contrastata. Raccontaunamica di lei: Lui la voleva tutta per s, e lei lo se-

    guiva per tenerlo buono, ma non ci riusciva. Litigavanoper nulla, lui alzava le mani. Lo sapevano anche i geni-tori. Il comportamento del Martinelli si fece sempre pidisturbato: una volta, cercando la fidanzata, butt gi la

    porta di casa e picchi il marito della sorella, unaltravolta imbratt il muro del condominio dei Rusconi. Finoa quando con un pugno mand in ospedale Carla, che

    firm una querela presto ritirata. Da tempo non stavanoinsieme, ma lui continuava assiduamente a molestarla: laaspettava fuori dai locali per insultarla, di notte si ap-

    postava sotto la sua finestra e fischiettava, tanto per farlesapere che cera. Ad un certo punto lei fece perdere lesue tracce e lui non si fece pi vivo. Erano passati pi didue anni dallultima volta che si erano visti. Nel frat-tempo lei aveva iniziato una nuova relazione con Gia-como Frascati, proprietario di una serie di locali notturnie birrerie, per il quale aveva, secondo la ricostruzione

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    dei genitori, tralasciato gli studi proprio sul pi bello.Questa situazione favor lincontro con il Martinelli, che

    per fatalit da sei mesi lavorava proprio in uno dei localidi propriet del Frascati. Il cadavere della ragazza stato trovato in una stradina di campagna, nei pressi di . A pochi chilometri dal luogo del delitto sono stati ri-trovati larma, un coltello da cucina, e i vestiti sporchidi sangue dellassassino, di cui per si sono perse mi-

    steriosamente le tracce. Proseguono le ricerche.

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    Postfazione

    di Paolo Giovannetti

    Capita di sbagliare. Quando, esattamente un anno, favide la luce la prima antologia di giovani scrittori Iulm,il sottoscritto diagnostic una sindrome tecnicistica daeccesso di competenze settoriali (sceneggiature, lavori

    per la televisione, esercitazioni daula ecc.). In effetti, lacapacit di manipolare alcuni archetipi narrativi e, so-

    prattutto, alcune procedure in senso lato combinatorie era

    ci che maggiormente stupiva in positivo, allora. Oggiinvece, giunti alla seconda puntata della leva iulmina,qualche novit deve essere registrata, e qualche analisirivista.

    Un giornalista la metterebbe in questo modo: menoletteratura, pi vita vissuta; meno artifici e pi sponta-neit; meno riflessione e pi scrittura selvaggia. Grosso

    modo, le cose stanno cos, e infatti di giovanilismi quasida manuale se ne riconosceranno molti: pagine di espe-rienza immediata, il viaggio, lo sballo, gli amori, lattra-versamento notturno della citt (Milano), in genere ildisporsi lineare non gerarchizzato del tempo, las-senza di discontinuit entro un processo di appropria-zione del mondo. Vero che questa specie di grado zero

    dellattivit letteraria, questa sorta di fisiologizzazionedella scrittura, ha alle spalle modelli consolidati, in qual-che modo autorevoli. Dalla beat generation, dico, al-lamatissimo Tondelli, scritture e letture giovanili, letturee scritture spesso dettegenerazionali (con un termine su

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    cui ci sarebbe molto da dire: per non qui), hanno messoin dominante la trascrizione dei soprassalti interiori ed

    esterni quotidiani, le estasi e le frustrazioni nate dal-labbandono irriflesso alla vita. Donde uno stile prevedi-bilmente paratattico, fluido, poco selettivo, in cui ilsoggetto dellenunciazione, il narratore, si rappresenta

    perfettamente coinvolto nei fatti raccontati, incapace digerarchizzarli e anzi deliziato dal loro godibile, e goduto,affastellarsi.

    Appunto: anche ci che si vuole meno formalizzato(non dico informe) in realt ha una sua tradizione, si in-serisce in una continuit. Lo spontaneismo, com noto,segue regole ferree. Il punto semmai la consapevolezzadelle nostre origini, la coscienza del materiale che si starimettendo in circolo (lepocale, necessario trash di cui

    parla Pinketts nella sua prefazione). Tanto pi quando siopera, come qui si scelto di fare, con un paradosso ri-cercato, con un concetto o agudeza davvero barocchi.Come si pu perdere in tempo? O anche: come si puperdersi in tempo? E possibile modulare lo scacco finoa trasformarlo in vittoria? Ancora: la sconfitta dellen-tropia qualcosa di programmabile, oppure si presentacome una razionalizzazione a posteriori? E cos via. Ledomande possono moltiplicarsi intorno a unidea di re-versibilit, di discontinuit degli esiti rispetto alle pre-messe, di asimmetria dei comportamenti, di impossibilesintonia delle azioni rispetto ai loro effetti.

    In fondo, il tema a cui ci siamo vincolati questanno,con la sua natura ancipite, incoraggiava una duplice seriedi esiti. In primo luogo (come ho gi detto), labbandonooblioso al divenire che poi, miracolosamente, ci risarcir.Ma, anche, dalla parte diametralmente opposta: la ferocee ineluttabile macchina di eventi che non potr non con-durci l, nel luogo in cui lossimoro che la vita si mani-festa in tutta la sua spietatezza. Su questo secondo fronte,in effetti, la cupaggine di racconti calibrati e crudeli (con

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    PERSO IN TEMPO

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    ambientazioni esotiche, tra Germania e Stati uniti, eaddirittura con unpastiche kafkiano) sembra volerci ri-

    cordare che ogni gioco con il tempo significa innanzitutto laccettazione di una prigione, di una natura antina-turale entro cui un solo esito pensabile. In questo senso,le virt strutturali di certi racconti latamente cinemato-grafici (si vedano in particolare i contributi dei due cura-tori) rispondono a unesigenza di precisione quasiallegorica: lammirazione davanti a meccanismi tanto

    ben oliati deve insomma preludere interrogativi di altra(esistenziale?) specie.Insomma, come il lettore avr modo di constatare, i

    giovani scrittori Iulm non offrono al ricercatore dianeddoti sociologici troppi appigli per una vera, pratica-

    bile sintesi. E per fortuna, direi. Gli opposti si affrontano,convivono con alti e bassi discretamente avventurosi,quasi sempre per remunerativi. Acquisti e perdite si di-vidono la scena, e possono anche ribaltarsi.

    Lo sa bene il co-selezionatore che qui si firma e checon gli amici studenti Michele Marcon e Giulio Tellarinisi divertito a coordinare la scelta di opere e la realizza-zione pratica del progetto. Nel colloquio con laltrui

    punto di vista, il valore estetico ereditato, lorecchio e ilfiuto professionali entravano, sono entrati in crisi. E la

    priori ne usciva modificato. Appena in tempo manco adirlo.

    PAOLO GIOVANNETTI POSTFAZIONE