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“Un uomo rientra nella sua terra, Barracca Pitticca paese immaginario della Sardegna, dopo quarant'anni trascorsi da emigrato in Australia. il suo ritorno crea scompiglio tra i parenti: Giuseppe Laspissa nasconde un segreto.” 1

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Un uomo rientra nella sua terra, Barracca Pitticca paese immaginario della Sardegna, dopo quarant’anni trascorsi da emigrato in Australia. il suo ritorno crea scompiglio tra i parenti: Giuseppe Laspissa nasconde un segreto.

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Page 1: Buona fortuna

“Un uomo rientra nella sua terra, Barracca Pitticca paese immaginario della Sardegna, dopo quarant'anni trascorsi da emigrato in Australia. il suo ritorno crea scompiglio tra i parenti: Giuseppe Laspissa nasconde un segreto.”

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© 2011 -Roberto Alba, tutti i diritti sono riservati.Versione 4.0 – 04/11/2011E-mail: [email protected]: http://facebook.com/Roberto.Alba.64

eBook realizzato da:Isnetw snc – Via Sonnino 147, 09127 Cagliaritel. 070.651083 -E-mail [email protected]

Copia FREE inviata dall'autore su richiesta pervenuta all'indirizzo email [email protected] per controllo e valutazione editoriale. Vietata la vendita. È consentita la copia e la stampa per gli usi sopra citati.

L'immagine in copertina è un disegno realizzato dall'artista Agim Sulaj. Il titolo dell'opera è "Lo straniero" vincitrice nel 2006 del concorso Internazionale Cartoonist Tourcoing (Francia).http://www.agimsulaj.com

Si ringrazia l'artista Agim Sulaj per la gentile concessione.

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Roberto AlbaRacconto inedito

Buona fortuna

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Parte 1

Arrivò la prima neve in un bel dì di gennaio: venerdì tredici, per l’occorrenza.

Non che questo portò sfortuna a qualcuno, che io ricordi, ma gli abitanti di quel borgo evitarono di varcare la soglia di casa, di svegliarsi all’ora giusta e di compiere qualunque gesto che potesse risultare non confacente ai bisogni primari: cucinare, mangiare, andare al cesso, dormire e fare all’amore. Non si trattò di superstizione, ma il “non si sa mai” garantiva loro un’inconsapevole sicurezza.

Nel paese di Barracca, cento anime all’incirca, appeso a mo’ di quadro sbilenco lungo il costone del monte della Speranza, quel giorno, solo una persona girovagava per le vie strette e in salita. Terminò il suo pensoso andare qua e là davanti alla bottega di Antonio, il calzolaio. Si fermò e attese indeciso sul da farsi, quasi il coraggio si fosse dileguato in discesa.

Antonio, detto Antoneddu su ciabatteri attraverso la finestrella che abbicava una luce spenta di un sole pallido, di solito, osservava i passanti ma, visto il giorno, ci fece poco caso.

Erano le dieci del mattino.La porta si aprì all’improvviso. Trasalì, riconobbe la persona

e salutò. «Ciao.»Un silenzio glaciale penetrò attraverso la porta, che già di

freddo si moriva, e di quello spiffero Antonio poteva anche farne a meno; lui che era basso, mingherlino sottopeso e parecchio depresso. «Entra e chiudi» sussurrò.

«Tuo fratello come sta?» domandò Marco in tono severo. Questo era il suo nome, aveva trentacinque anni, pochi capelli

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sparsi e un viso paonazzo segno di una gran fatica per le salite e per i cento kili ben distribuiti che si trascinava con pazienza.

Antonio non si scompose, aveva ben altro a cui pensare. «Tu che ci fai qui?» domandò intento al suo lavoro.

«Volevo sapere di tuo… fratello» gli rispose in tono sarcastico.

Antonio riabbassò lo sguardo su una tomaia pronta da incollare. «È anche tuo fratello!» precisò alterandosi.

«Sarà anche mio fratello ma per quello che ha fatto… quasi ci moriva di crepacuore… la mamma!»

Antonio si alzò, afferrò un martello e agitandolo per aria sbottò: «Finiscila con questa storia. A te non fa a dirti niente. Levati dai piedi!».

Antoneddu, con quarantasette primavere trascorse per volontà di Dio, così diceva, vedovo da cinque anni, con due figli, un maschio di ventidue anni, Giuliano, arruolato in marina e una femmina, Annamaria, di venticinque anni sposata con uno sfaticato di Cagliari, aveva ben poco da chiedere alla vita; si chiudeva in quella cella dal profumo inteso di cuoio e colla, che se lo portava a letto la sera e la domenica a Messa, aspettava il domani: tanto di quello era sicuro e, nel caso non fosse arrivato, non se ne sarebbe accorto, così mi confessò. Vide il fratello voltargli le spalle, uscire e sbattere forte la porta.

«Affanculo!» disse, calciando una poderosa pedata alla gamba del tavolino. Tremò tutto. Cadde la colla e la tomaia.

Quasi dimenticavo di presentarmi, sono Ignazio Carretta, Don Egno per i miei intimi parrocchiani, di professione Pastore delle anime di Santa Immacolata di Barracca Pitticca, piccola, da non confondere con Barracca Manna, grande, che sta da tutt’altra parte della Sardegna. Curavo i fedeli da circa due anni quando avvenne il fatto. E di uno di loro che voglio

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raccontarvi, del fratello di Marco e Antonio: Giuseppe Laspissa. Ma, non perdiamoci in chiacchiere perché urge che io compia la promessa, e si sa, alle promesse non si può mancare. Chi promette, in debito si mette! Così dice il proverbio.

Dopo che Marco uscì, nella bottega di Antonio squillò il telefono. Dall’altra parte del cavo, dall’altra parte del mondo, dall’Australia, una voce: Giuseppe.

«Pronto, pronto…» Il perdurare di un fastidioso fruscio segnalava un forte disturbo al collegamento internazionale.

Antonio, ancora con i nervi tesi fece un respiro profondo, si portò la cornetta all’orecchio e trasformando la sua agitazione in una quiete irreale, tramutò lo spirito e il suo tono. «Giuseppe, fratello mio, allora quando arrivi?»

Dall’altro capo, udì: «Prestissimo non ti preoccupare, ok? A proposito hai aperto il conto in banca a mio nome?».

«Sì, Giuseppe, quasi fatto.»«Bravo Antonio, devo farmi un bonifico internazionale da

trecentomila dollari, ok? Qui vendo tutto e torno a casa, ok? Nostra madre come sta?»

«Insomma, si lamenta un po’, ma sta bene.»«L’hai detto a mamma che torno? Ok?»A questa domanda Antonio avrebbe preferito non

rispondere. «No, a lei non l’ho ancora detto, ma penso che…»Giuseppe lo interruppe. «Dillo a mamma, Ok? Vedrai che

non ci saranno problemi, ok?» E aggiunse: «E Marco, il piccolo Marco è contento che torna il suo fratellone?».

Anche a questa domanda avrebbe preferito tacere. «Felicissimo. È felicissimo lui… non sta nella pelle… non vede l’ora di conoscerti!»

«Ti lascio, ok? che questa telefonata costa un patrimonio e sto finendo gli spiccioli, ok? Ti volevo dire che io arrivo a Cagliari il 15 di questo mese alle sei di sera con il volo da

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Roma, ok? Ti saluto Antonio e ci vediamo in Aerop… tu, tu, tu, tu, tu.»

Marco non fece in tempo neanche a rispondergli, non sapeva come dirgli che avrebbe fatto bene a starsene in Australia, d’altra parte erano quasi quarant’anni che era partito, e l’unica volta che chiamò per dare sue notizie era il Natale del ‘66, il primo Natale che lui passò fuori, immigrato a cercar fortuna in una terra troppo lontana, poi più niente fino a pochi giorni prima.

***

Marco, come sempre, sotto il sole, pioggia o neve, montò il suo banco di frutta e verdura davanti al cimitero. Spesso spiegai a quell’omone che al più in quella posizione avrebbe fatto grandi affari vendendo fiori, non pomodori e melanzane, ma lui mi disse che i fiori non si mangiano, i morti non li vedono, e ancor di più non li comprano, e per le anime bastavano le preghiere. Per la pancia no, serviva ben altro.

Quella mattina, verso mezzogiorno, mi dilungai a scambiare quattro chiacchiere con lui.

«Buon Marco, come va?» esordii.«Don Egno, lasciamo perdere, non tocchiamo argomenti che

non è giornata» rispose cupo in viso.Compresi subito che qualcosa lo tormentava.«Su, su! La vita è una cosa meravigliosa…»Non terminai la frase che si accostò e mi sussurrò: «Torna

mio fratello».«Chi? Antonio… perché era partito? Se l’ho visto ieri nella

sua bottega.»Mi si avvicinò ancora di più. «No, quell’altro» bisbigliò.«Quell’altro chi?»«Quello che era scappato!» urlò.

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E così venni a sapere che Marco e Antonio avevano un fratello maggiore, Giuseppe che nel millenovecentosessantacinque lasciò il piccolo paese di Barracca per tentare la fortuna in Australia. Quando partì aveva vent’anni, Marco non era ancora nato e Antonio aveva solo otto anni. Tre anni dopo la partenza di Giuseppe morì il loro papà, Vincenzo, un uomo tutto casa, chiesa, campagna e bottega, e anche lui faceva il calzolaio. Signora Pina, che allora aveva circa quarant’anni, si ritrovò sola. A volte le disgrazie vengono sempre in compagnia: da sole non sanno viaggiare, diceva.

Lo so, state facendo i calcoli e vi state chiedendo di chi è figlio Marco, ma non fate i pettegoli, in paese si mormorò abbastanza ai tempi che furono. Signora Pina, con due figli da tirare su e un figlio lontano, trovò la forza di guardare avanti, di prendere la vita in salita, che a quello era abituata viste le vie di Baracca.

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Parte 2

13 gennaio, ore 20:00

Signora Pina era una donna gagliarda, temprata da quella terra fatta senza discese, vestiva di nero perché da quelle parti il lutto dura una vita e se ne si ha più d’uno, come nel suo caso visto il figlio perduto, sarebbe stato eterno; era piccola di statura, con due occhi verdi, spenti dall’età, dalla fatica e dalle troppe lacrime.

Terminò di apparecchiare la tavola per la cena. Marco e Antonino vivevano con lei: Antoneddu da quando diventò vedovo, praticamente pochi anni dopo la nascita del secondogenito, Marco da sempre.

Alle otto e cinque erano tutti pronti sistemati a dovere davanti al loro piatto. La piccola cucina era calda, animata da un fuoco scoppiettante sistemato nel tradizionale caminetto all’angolo della parete.

«Oggi tortellini in brodo e per secondo carne lessa con cipolle e olive» disse Pina rimestando con un mestolo il brodo fumante nella pentola posta al centro del tavolo.

Servì prima Marco, poi Antoneddu e per ultimo lei.Giunsero le mani e pregarono: «Signore benedici questo cibo

che stiamo per prendere così a noi così a tutta la gente. Amen».Marco si portò il cucchiaio alla bocca. «Dillo a mamma»

sussurrò rivolto al fratello. Furono parole mischiate al soffio di frescura sul cucchiaio bollente.

Antonio non comprese, ma vista l’espressione che assunse poté solo immaginare. Mosse il capo cercando di farlo desistere dal suo atteggiamento.

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«Diglielo!» disse più forte.Signora Pina, con i suoi ottantaquattro anni, con troppi

acciacchi e una farmacia nella prima credenza in cucina, osservava la scena sollevando ogni tanto gli occhi pronti a cogliere ogni inusuale dettaglio.

«Cosa devi dire a mamma… Antonio?» chiese di botto.Antonio sputò il brodo e i tortellini. Tossì violentemente, si

pulì il muso con il tovagliolo. «Mamma, niente, non devo dire niente» precisò agitato.

Signora Pina si voltò allora verso Marco.«Cosa deve dirmi Antonio?»Marco provò il senso dell’imbarazzo tramutarsi in paralisi. Il

boccone bollente gli si strozzò in gola. Deglutì ed esclamò: «Antoneddu deve darti una notizia!».

Signora Pina serrò gli occhi per un istante, si strinse lo scialle sulle spalle e si alzò.

In quella stanzetta il tempo perse la ragione dello scorrere, come sei i minuti si allungassero nel tiro di un elastico. I vetri della finestra che dava sul cortiletto si appannarono. L’unico rumore che si poté percepire era quello dei cucchiai che battevano sui bordi dei piatti mentre si colmavano di brodo, e il messo scoppiettio della legna fresca.

«Non ho più fame» disse la vecchia voltando loro le spalle, mentre con passo lento s’indirizzava verso l’uscita della stanza.

I due fratelli si guardarono non comprendendo quel gesto.«Credo che mamma abbia capito» concluse Antonio poco

dopo, ormai soli.«No, non ha capito, mamma non ha capito!» ribatté Marco.Signora Pina si mise a letto, come tutte le notti degli ultimi

quarant’anni, con una vecchia camicia da notte in panno color crema, con il rosario tra le mani e le foto dei suoi ricordi sul comodino: due foto in bianco e nero delle sue gioie e dei suoi dolori, del marito Vincenzo e di quel figlio perduto.

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Parte 3

14 gennaio, ore 8:30

La mattina del giorno dopo, il sole era sempre pallido, come malato da una nebbiosa tristezza, mentre un vento frizzante, che scendeva furtivo dalla cima della Speranza, tagliava le guance e i pensieri, anche quelli di Antonio che dalle otto era in fila davanti all’ingresso della banca in attesa dell’apertura. Come aprì era il primo della lista, si avvicinò allo sportello e si rivolse al cassiere.

«Buongiorno, sono passato ieri per l’apertura del conto di mio fratello, vorrei sapere se è confermato.»

Il cassiere prese una cartella dal ripiano, l’aprì, e sorrise.«Ci dispiace signor Antonio, non ci è possibile aprire il

conto a suo fratello in quanto dovrebbe essere lui personalmente a fare l’operazione. Se vuole gli dia il suo numero di conto per fare il bonifico, poi quando sarà qui potrà trasferire i soldi dal suo conto al nuovo che lui aprirà. Sempre se si fida di lei» disse e sghignazzò.

Antonio guardò il cassiere, si mise le mani in tasca e salutò con un cenno del capo. Non commentò, pensò non fosse il caso di dar fuoco alla banca.

Guardò l’ora e con passo spedito si diresse verso la bottega, sempre in salita perché le discese erano per gente che non aveva niente da fare, ogni passo che faceva era un pensiero pesante come una pietra. Questo fratello che torna dopo quarant’anni, così in fretta, parla un minuto al telefono poi chiude, vuole che gli si apra un conto in banca, ma non gli

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chiede gli estremi per il versamento, pensò, e ogni passo il suo pensare si trasformava in pietre ancor più pesanti: macigni.

Quando arrivò sull’uscio della porta della bottega sentì il telefono squillare, cercò in tutti i modi di arrivare per tempo alla cornetta, ma quando vi giunse poté udire solo un lieve «tu, tu, tu, tu…»

Forse voleva il numero del conto? rifletté. Le pietre non erano più macigni, ormai si erano trasformate in montagne che si sgretolavano sotto i dubbi dei suoi ragionamenti.

Si mise a lavoro, per la mattina aveva cinque consegne arretrate, e non aveva tempo da perdere.

Alle dieci in punto, come sempre in quell’ultima settimana Marco aprì la porta.

«Noi due dobbiamo parlare!» sentenziò.Antonio fermò il battere del martelletto su alcune scarpe

nero lucido da signora. Sollevò lo sguardo e rispose: «Hai detto bene: dobbiamo parlare, ma stavolta parliamo seriamente».

Marco chiuse la porta, prese uno sgabello e si sedette di fronte al fratello.

«Sì, sì, parliamo seriamente… perché torna?»«Non ho capito perché torna, ma so che arriva domani e

dobbiamo andare a prenderlo all’aeroporto.»Marco si alzo in piedi.«Dobbiamo andare?»Antonio diede un colpo di martello sul tavolo.«Siediti! Sì, dobbiamo andare. Tu, io e… dobbiamo portare

anche la mamma.»Marco incominciò a farfugliare. «Anche lei? Ma non è

possibile, le verrebbe un infarto.»«La mamma è forte» gli rispose Antonio. «Più forte di noi.»

***

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Saranno state le undici e mezzo, io ero in canonica che sistemavo il registro dei battesimi, e a cosa servisse in quel paese… quando mi si presentò una signora anziana.

«Posso disturbarla?» mi chiese. Sì, era lei, la signora Pina.Aveva una borsetta marrone, un foulard nero che le copriva

il capo chiuso sotto il mento, mi guardò, tentennò, poi decisa mi disse: «Don Egno, le devo parlare. Meglio se potesse confessarmi!».

Risposi che non era il caso, che alla sua età non credevo potesse aver commesso dei peccati che urgevano una confessione immediata, ma lei rispose: «Non ho peccato ora, ma quarant’anni fa, e sono un po’ in ritardo».

Non posso svelarvi il contenuto di quell’incontro, ben sapete il motivo data la mia tunica, ma se avete pensato che riguardasse la nascita di Marco, non siete sulla buona strada.

Signora Pina andò via dopo circa un’ora, mi rimisi a sistemare il registro dei “mai nati”, che da dieci anni nessuno mai vi scrisse qualcosa, in compenso quello dei morti ne segnava cinque all’anno, quando mi si presentarono davanti Marco e Antoneddu.

Marco, serio come non lo vidi mai, ancora con il vestito da lavoro, tutta blu e stivaloni, Antonio con il grembiule e il martello che gli spuntava dal tascone laterale, tutt’e due mi guardarono ed esclamarono quasi all’unisono: «Don Egno… abbiamo un problema!».

Feci un cenno e si accomodarono. «Sentiamo un po’ questo grave problema che vi affligge!» dissi.

Antonio prese la parola.«So che Marco l’ha messo al corrente del fatto che arriva

mio fratello.»«Sì, lo so.»«Ma sa che arriva domani?»

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Rimasi zitto, folgorato, pensai che alla signora Pina nostro Signore le fece una Grazia rapida. Antonio continuò: «Arriva domani con l’aereo delle diciotto a Cagliari, solo che io non ho la macchina, mio fratello Marco ha la moto Ape per il trasporto frutta, e non ci sembra il caso… e lei?».

«Io cosa?» risposi.E Marco, serio: «Lei, don Egno, quale macchina ha?».Più cercavo di capire e meno riuscivo ad arrivare al fine del

loro immaginare. «Io ho una Panda, la mia Panda» dissi.Marco mi guardò con un ghigno semi serio: «Certo, la

Panda. Adesso andiamo a prendere mio fratello con la Panda! Non ci stiamo: siamo io, Antonio, lei, mia madre… e nostro fratello Giuseppe dove lo mettiamo?».

«Basta!» esclamai. «Adesso ho capito. Vi devo accompagnare all’aeroporto.»

Tutti e due mi guardarono soddisfatti.«La soluzione sarebbe il pulmino del convento, lì potremmo

starci tutti, e poi, se volete potrete portare vostra madre, ma sarà il caso che avverta Suor Teresa di venire con noi… sapete, nel caso accusasse un malore.»

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Parte 4

14 gennaio ore 20:00

Qualcuno si sarebbe aspettato la tavola apparecchiata in casa di signora Pina, come al solito per quell’ora, ma le cose andarono diversamente.

Il fuoco nel camino era quasi spento, solo alcuni tizzoni erano accesi. Marco, seduto su uno scannetto davanti al cammino, cercava di riaccendere, con un bastone di legno, una speranza tra le braci, come cercò di fare con i suoi pensieri.

Antonio stava seduto dall’altra parte della stanza. Un bicchiere di vino gli faceva compagnia dalle sei del pomeriggio.

Regnava un silenzio muto, che sono quei silenzi ricchi di pensieri, ma che non si rompono perché sono sempre troppi. Fino a quando: «Dov’è mamma?» chiese Marco.

«Nella sua stanza» gli rispose Antonio.«Che fa?»«Piange. Lei piange.»Stettero alcuni minuti in silenzio, poi Marco sussurrò:

«Dobbiamo dirglielo. Antonio, dobbiamo dirglielo».

Entrarono nella stanza. La luce era accesa. Signora Pina era lì, sdraiata sul letto, con la solita vestaglia color crema e gli occhi lucidi. Osservò i suoi figlioli che si avvicinavano, uno si sedette alla sua sinistra sul bordo del letto, mentre Marco gli si accostò dalla parte opposta.

«Che c’è?» chiese.

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Antonio prese coraggio. «Mamma, ti dobbiamo parlare di Giuseppe.»

Signora Pina chiuse gli occhi e due lacrime iniziarono a scorrerle lungo le guance dure e provate dalla vita. Tirò su di naso, diede un colpo di tosse e con voce fievole domandò: «Giuseppe è morto?».

«No mamma, Giuseppe è vivo e sta bene» le rispose Antonio. «Domani sarà un giorno importante, adesso stai calma e rilassati.» Fece una breve pausa, tiro un respiro profondo e iniziò: «Allora, punto uno…».

Marco, visto il fratello così deciso, aggiunse: «Sì mamma, punto uno».

Antonio si voltò verso il fratello: «Parlo io». Con voce decisa affermò: «Domani… arriva… Giuseppe!».

Signora Pina strinse forte la mano che Antonio le teneva.

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Parte 5

15 gennaio 2004

Il pulmino era un vecchio 850, color giallo pastello. Chiesi la cortesia a suor Teresa di prestarmelo, e non mi poté negare un simile favore.

Alle sedici in punto ero di fronte alla casa dei Laspissa, in via dei Mestieri, praticamente di fianco alla bottega di Antoneddu. Nevicava come non mai. Non feci in tempo a scendere e a suonare il campanello che si aprì la porta di quella vecchia casa. In prima posizione vidi signora Pina avvolta in un vestito color rosso amaranto, scarpe nere, con un prezioso scialle ricamato color melanzana; in seconda posizione Antonio, immerso in un impeccabile abito da gran festa; per ultimo, dal passo impacciato, Marco. Dubitai nel riconoscerlo: sbarbato, capelli tirati all’indietro (quei pochi che aveva), scarpe nere, pantalone, grigio scuro, giacca abbottonata a forza e cravatta blu.

Salirono sul pulmino: di fianco a me prese posto Antonio, subito dietro Signora Pina con accanto suor Teresa, che aveva fatto la cortesia di accompagnarmi, e ancora più dietro Marco.

Accesi il motore, innestai la prima e partii.

Non feci mai un viaggio così denso di silenzio. La spazzola del tergicristallo ringhiava sul vetro. A volte dicevo: «Oggi è una splendida giornata! Signora Pina, mi dica la verità, non vede l’ora?».

Niente da fare. Tutti muti, persi nell’ansia dei loro pensieri. Ogni tanto un sospiro…

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Arrivammo all’aeroporto.La neve divenne acqua che scendeva a goccioloni e la

signora parlò.«Don Egno…» disse con un tono sottile.«Mi dica» risposi.Lei aprì la borsetta che teneva tra le gambe, fece scivolare

fuori una vecchia foto di Giuseppe ventenne e me la diede.«Questo è mio figlio!» Sorrise. «Vi servirà per

riconoscerlo… lo spero.»

Aeroporto di Elmas, io, Marco e Antonio raggiungemmo facilmente il settore degli arrivi nazionali. In tutta sincerità iniziai a provare anch’io una certa emozione, ma non quanta quella di Marco e Antonio che continuavano ad andare su e giù senza darsi un minimo di contegno: discutevano animatamente. Li osservavo e ascoltavo quello che si dicevano.

«Ma va! Vedrai, lui torna. Poi tra una o due settimane va via.»

«Marco, tu non hai capito, Giuseppe torna per restare. L’Australia non è più la sua terra. Lui torna a casa per restarci.»

«Sì ma per restare dove, viene a vivere con noi, con la mamma?»

Continuavano a parlare e io ad ascoltare.All’improvviso la porta automatica degli arrivi nazionali si

aprì e iniziarono a uscire i passeggeri del volo Roma-Cagliari. Era una fila interminabile. Antonio e Marco osservavano con perizia scientifica ogni volto che oltrepassava quell’uscita, ma niente da fare, di Giuseppe neanche l’ombra. Gli ultimi passeggeri erano una coppia di giovani sposini: lei abbronzatissima, lui un po’ meno, ma felici, abbracciati con quel sorriso di chi ha la vita in mano e si sente padrone del mondo.

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La porta si chiuse.«Ha perso l’aereo!» esclamò Antonio.«Non l’ha proprio preso» precisò Marco.E io, intuendo il fato, suggerii: «Ci è passato davanti e non

l’abbiamo riconosciuto!».Fu un attimo, iniziammo a correre verso l’uscita. In breve

tempo scomparvero dalla mia vista. Faticosamente arrivai al piazzale del parcheggio sotto un diluvio che ci regalava il buon Dio. Il pulmino era a circa cinquanta metri, mi incamminai cercando di riprendere fiato.

Fu allora che li vidi: signora Pina abbracciava il figlio Giuseppe, lo accarezzava, lo guardava, e ancora lo stringeva e lo baciava, tra lacrime e singhiozzi. Antonio era presente, con una mano sulla spalla del fratello, attendendo il suo turno per non disturbare la gioia della madre. Marco, invece, stava un po’ in disparte, con gli occhi gonfi e rossi, con un pianto felice chiuso in gola. Poi Giuseppe fece un cenno col capo.

Si avvicinarono e si strinsero… tutti e quattro si strinsero in un mare di lacrime, di belle lacrime. Di quelle che fanno piacere da vedere e da asciugare. E il giorno pioveva. Quanto pioveva!

***

A Baracca Pitticca passai gli anni più intensi della mia vita. Quella gente possedeva il segreto di prendere la vita da dietro, non per essere volgari, ma come dicevano loro perché almeno ti spinge e vai avanti, mentre, se la prendi di fronte, di petto, può trasformarsi in un muro dove si fermano i sogni, e allora son sempre dolori.

Penso spesso a questa famiglia ritrovata e, senza voler far predica, che non è il caso, credo che una delle gioie più grandi che possa avere un uomo sia quella di poter riabbracciare una

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persona amata e che si pensa di aver perso. La fortuna di signora Pina, in una lunga vita di sofferenze, fu quella di aver assaporato in un attimo un’immensa felicità. A volte, quando è diluita in mille giorni non si riesce a goderne appieno… mah, mistero di Dio. Preghiamo!

Quasi dimenticavo, devo leggervi la lettera che mi scrisse signora Pina, e che trovai infilata nella cassetta delle offerte in sacrestia alcuni giorni dopo, anche perché rischierei di non mantenere la promessa.

Caro Don Egno,la voglio ringraziare per tutto quello che ha fatto per me e

per i miei figli.Le scrivo perché ho un debito con lei. Si ricorderà di quella

mattina che mi sono confessata, gli ho parlato di Giuseppe che in quel posto lontano era stato arrestato perché in una rissa aveva ucciso un ragazzo e che io, saputo questo dal Consolato, non ho più voluto saperne di lui mandandogli a dire che per me era come morto? Nascondendo questo segreto anche ai miei figli? Io voglio dirle che sono troppo felice e che sono state le sue preghiere che l’hanno fatto tornare da me.

A Giuseppe l’hanno scarcerato un mese fa, ha lavorato in cucina come cuoco nella prigione di SIDNI (spero si scriva così).

Don Egno, a mio figlio, quando ha preso il treno per partire gli ho augurato “buona fortuna” e gli è successo quel che è successo, a lei, le auguro “tutto il bene del mondo”, non si sa mai.

Una sua fedele amica.

Giuseppina Scorrano vedova Laspissa

P.S.

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Domani è invitato a pranzo. E della nostra felicità non tenga il segreto, prometta (Giuseppe è un cuoco eccezionale anche se cucina piatti strani. Si prepari.)

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